Il meccanismo indifferente. La concezione della storia nel cinema di Stanley Kubrick 8854809896, 9788854809895

Pochi registi hanno saputo, come Stanley Kubrick, affrontare con la loro opera epoche e questioni storiche così lontane

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Il meccanismo indifferente. La concezione della storia nel cinema di Stanley Kubrick
 8854809896, 9788854809895

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Introduzione

Quel che resta, infine

La filmografia di Stanley Kubrick è una filmografìa chiusa. Un si­ stema di testi autoreferenziale che si è sviluppato sopra se stesso, sulla base di alcuni temi fondanti e nella capacità straordinaria, nella mae­ stria anzi, di costruire il film, di dargli corpo matericamente attraverso il dominio e la continua sfida della tecnologia cinematografica. La struttura stessa della filmografia kubrickiana ha senza dubbio favorito l’aura mitica che ha avvolto il regista soprattutto negli ultimi anni del­ la sua vita: l’eremita nel suo maniero inglese, attorniato da un univer­ so tecnologico che gli metteva il mondo a portata di mano, figura ai limiti del divino, capace di ricreare il Vietnam fuori Londra o New York in studio. Un uomo che percorre una strada artistica e personale che lo rinchiude sempre più dentro se stesso, autore di un cinema cri­ stallino che pare impossibile scalfire, perfetto. E questa perfezione isola paradossalmente Kubrick: difficile coinvolgerlo in discorsi di massima, mettere la sua opera a confronto con quella di altri, con una cultura perfino, lui esule americano e falso europeo. Di contro non cessano di fiorire le monografie, che appunto possono con-centrarsi su quell’unico lungo corpus che può leggersi in tutti i sensi, in ordine cronologico, oppure a partire da Eyes Wide Shut (id., 1999) a ritroso fino a Fear and Desire (id., 1953), oppure ponendo come perno del sistema quel 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odissey, 1968) che contiene senz’altro (e soprattutto per quanto concerne que­ sta ricerca) VUrtext kubrickiano, e cioè le 101 inquadrature de L’alba dell’uomo. Kubrick eccede di continuo, e sempre più via via che i suoi film invecchiano, le sue stesse opere, ed esse arrivano a porglisi di fronte in maniera non contraddittoria, ma dialettica nel suo senso primo. E così se non c’è apertura in orizzontale, ve n’è invece in ver­ ticale, in una profondità e in una uniformità di pensiero che è di pochi “cineautori”, un’apertura che pare non esaurire mai le informazioni e che si offre, ripetutamente, all’interpretazione.

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Introduzione

Nel suo saggio su 2001: Odissea nello spazio, Michel Chion torna­ va a ribadire la sua idea riguardo l’urgente necessità di rinnovare la “politica degli autori”. Quest’ultima gli appare tutta volta a rintraccia­ re gli apporti individuali che un artista rivela nella sua opera, garanzia di interesse (stilistico e/o tematico) quasi a prescindere. Sarebbe forse preferibile «un approccio dialettico alla politica dell’autore per mezzo di una politica dell’opera. In altre parole, l’opera deve essere conside­ rata in un rapporto contraddittorio con l’autore e con la sua volontà, della quale non è certamente un riflesso obbediente.»1 Quello che Chion reclama è sostanzialmente uno spazio della critica che superi il rapporto tra l’artefice e l’opera portandosi al livello di un dibattito cul­ turale più ampio (trattasi certamente di un passaggio delicato nella convivenza di critico e artista), ma considerando il fatto che lo studio­ so francese si sta apprestando ad analizzare uno dei testi fondamentali della filmografìa di un regista che ha fatto del controllo sulle sue opere l’elemento fondante del suo cinema, ci si sente spiazzati: il grande creatore dei film a orologeria accerchiato dalle sue stesse macchine, chiuso in un labirinto che gli si stringe intorno, in trappola; ipotesi, se non autoriale, di grande fascino. Eppure, nemmeno questa bella e completa monografia pare veramente in grado di liberarsi della forza centripeta della filmografia kubrickiana, che si conferma estremamen­ te malleabile, ma mai oltrepassabile. D’altra parte, la letteratura sempre crescente negli anni e vincolata a modelli esegetici forti e differenti come quello europeo e quello americano, la straordinaria esposizione organizzata dal Deutsches Fil­ mmuseum e dal Deutsches Architektur Museum di Francoforte, in stretta collaborazione con lo Stanley Kubrick Estate, nel 2004, non so­ no altro che un prolungamento in progress e un approfondimento “proibito” del lavoro kubrickiano, l’apertura costante dell’interpretazione critica, della sconfinatezza teorica e dell’esattezza documentaria. Kubrick accerchiato, si diceva. Il cerchio è sempre stato del resto la figura chiave della scrittura e delle trame kubrickiane: il senso del ritorno, ma anche il girare in cer­ chio, che è un ritrovarsi sempre nello stesso punto e la messa in crisi1 1 M. CHION, Un’Odissea nel cinema. Il 2001 di Kubrick, traduzione di A. Grechi, Lindau, Torino 2000, p. 21.

Quel che resta, infine

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di una struttura, quel «finir sans finir, refuser le point final d’une sim­ ple suite chronologique - tirer! Mais plus loin que dans un seul mo­ ment du temps humain, voilà ce qui peut satisfaire 1’ambition d’un Stanley Kubrick.»2 Kubrick potrebbe al massimo essere accerchiato dai suoi film considerandoli come il luogo del controllo, della certezza tecnica portata all’estremo, per osservarne, nel significato, la vacuità e la sconfitta: Kubrick e il suo doppio, l’uomo e il regista. Alla fine (o all’inizio?) vi è un gesto violento, la distruzione di un ordine e l’impossibilità di un progresso, nel senso di avanzamento, che si doveva rintracciare, inesistente, su un piano etico prima che tecnico. C’è un meccanismo, fuori del tempo umano, che vanifica ogni altro meccanismo costruito da mano d’uomo, che procede su una strada che l’uomo, lo vedremo, non riesce a percorrere, pur cammi­ nandovi. Sta qui la concezione storica del regista, di quella Storia che Gian Piero Brunetta definiva «babele di voci [che] preme su di noi in maniera ostile»3, la Storia che appare e scompare, si offre e si nega in 2001, la Storia usurata e isterica delle guerre, quella perfetta e austera, sfacciata di Barry Lyndon (id., 1975), quella fantasmatica che possie­ de Jack Torrance, ma anche quella morente e dimenticata che vivono gli Harford. E che Kubrick sia un regista di film “storici” è tanto innegabile quanto riduttivo. La grande coerenza di pensiero che caratterizza il suo cinema si mette volontariamente e costantemente alla prova attraver­ sando universi storici tra loro lontani e apparentemente non apparentabili e, per altri versi, universi cinematografici già semiotizzati. Ecco che allora la sfida kubrickiana ci si presenta subito duplice: da una parte si tratterà di saggiare la validità di una “filosofia” di fronte al re­ cupero meticoloso di determinati contesti storico-culturali, dall’altra di indagare sul campo le possibilità euristiche insite nel mezzo cinema di fronte alla messa in gioco/questione di un sedicente linguaggio cine­ matografico. Del resto la varietà del cinema kubrickiano è quanto di più eccezionale ci sia: capace di confrontarsi con uguale efficacia con passato, presente e futuro, Kubrick è riuscito nell’intento di mantenere 2 C. Auduraud, L’arme et la cible. Reflexions sur les fins des films de Stanley Kubrick, in «Positif», n. 464, oct. 1999. 3 G. P. Brunetta, Stanley Kubrick: Odissea nel cinema, in G. P. Brunetta (a cura di), Stanley Kubrick. Tempo, spazio, storia e mondi possibili, Pratiche, Parma 1985, p. 18.

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Introduzione

viva una riflessione sull’uomo e sul suo essere-nella-Storia, ma anche, e più sorprendentemente, sul suo essere-nel-cinema e la chiave di let­ tura che permette di accedere al suo pensiero su entrambe le condizio­ ni è offerta tra le pieghe di un lavoro lungamente sedimentato, che continua ad offrirsi all’interpretazione nel suo senso più esteso. Quando Jean Baudrillard, in un saggio di una trentina d’anni fa4, osservando il rivivere della Storia sul grande schermo, la definiva un «referente perduto» e per ciò stesso un mito (che, appunto, rivive), senza volerlo non andava di molto lontano dal profondo sentimento storico kubrickiano. Nel suo saggio Kubrick trovava spazio con Barry Lyndon, l’ultimo film al momento della stesura, esempio sommo di quell’«iperrassomiglianza» che giunge, per equazione meccanica, alla simulazione", ma Baudrillard non rifletteva (né poteva farlo, non era un saggio monografico) sul fatto che proprio la consapevolezza della perdita e lo spostamento mitico che ne deriva erano alla base della concezione storica del regista. L’uomo di Kubrick ripete il rito di un mito la cui origine, nella sua completezza, gli sfugge, e si rinnova sempre uguale a se stesso e sempre nella stessa posizione, rispetto ad un Tempo e ad uno Spazio che scorrono del tutto fuori da lui. Un mo­ vimento che, com’è stato notato proprio a partire ancora da Baudril­ lard, Kubrick raddoppia nell’azione eternante e riproduttiva della macchina da presa5, ritenzione decisiva che coincide con la tecnica. Dunque questo individuo, sia esso una scimmia, un astronauta, Napo­ leone o un nostro contemporaneo, ha una caratteristica comune: è sempre uguale. Questa uguaglianza è ciò che gli nega la via al pro­ gresso, V avanzamento, e lo rimanda di continuo a sé, bloccato in un processo storico a lui incomprensibile; e questa uguaglianza non è nient’altro che la sua stessa natura, travestita di culture, orientata da un senso storico artificioso, ma sempre pulsante e viva. L’uomo ku­ brickiano non ne ha memoria, l’ha persa improvvisamente nel lancio di un osso e nella instaurazione di un nuovo ordine, di una nuova Sto­ ria; è un uomo incapace di ricostruire il suo passato, un uomo dalla 4 J. Baudrillard, L’Histoire, un scénario rétro, in «£a Cinéma», n. 12-13. 1977; tr. it. La storia: uno scenario rétro, traduzione di P. Lalli, in G. Miro Gori (a cura di), La storia nel cinema, Bulzoni, Roma 1994, pp. 223-227. 5 Si veda V. ZAGARRIO, Per Kubrick. Storia, romanzo, sguardo, in Id. (a cura di), Overlo­ oking Kubrick, Dino Audino Editore, Roma 2006, p. 10.

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memoria distorta, vittima di una storia che gli è stata insegnata, che ha appreso e che continua a celebrare. Kubrick fa dell’oblio un tema de­ cisivo del suo cinema, un oblio profondo, che Paul Ricoeur direbbe oblio dell’immemorabile: «è l’oblio dei fondamenti - del loro darsi originario - che non sono mai stati “avvenimenti” di cui sia possibile il ricordo; ciò che non abbiamo mai veramente appreso e che tuttavia ci fa essere ciò che siamo: forze di vita, forze creatrici di storia, “origi­ ne”, Ursprung.»^ Kubrick, gestendo queste idee attraverso la lente freudiana a lui cara (e facendolo molto liberamente, lasciando sorgere senza dubbi anche alcune aporie) avverte fortemente un tale senso dell’origine, per cui «la Creazione non cessa di essere dietro di noi, giacché il cominciamento non è un inizio oltrepassato, ma un cominciamento incessantemente continuato»678, e infrange così ogni linearità, ogni cronologia. La Storia dunque è come il flusso che impregna tutti i capolavori kubrickiani e di cui l’uomo è il residuo ineliminabile, anzi rinascente, riaffermante se stesso a dispetto di tutto e tutti: è il feto di 2001, gli occhi di Alex che aprono e chiudono Arancia meccanica (A Clo­ ckwork Orange, 1971), sono, ancora, i marines regrediti che cantano il Club di Topolino nel finale di Full Metal Jacket (id., 1987) o il freddo monosillabo di Alice Harford che pone fine, di colpo, con taglio secco di montaggio, all’incredibile avventura che è Eyes Wide Shut: «Fuck», non resta altro ed è comunque un implicito ripartire, un nuovo feto. Così ha ragione Chion, nel suo ultimo studio kubrickiano, a dire che in g fondo Stanley Kubrick è Fhumain, ni plus ni moins. Una Storia mitica, allora, depositata nel fondo della coscienza co­ me lo è un mito ed ecco che ci si para dinanzi la passione kubrickiana per i miti (di cui testimonia la ricca collezione di libri di Mithology nella sua biblioteca), per l’etnologia e quanto ad essa è connesso (di cui parlerà la moglie Christiane Harlan), passione da cui non potremo più prescindere nel tentativo di capire da dove muove e dove va l’uomo kubrickiano perso nella Storia. Questo “essere depositata” della Storia, e non elaborata, è esattamente la condizione di cui parla 6 P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, traduzione di N. Salomon, Il Mulino, Bologna 2004, pp. 100-101. 7 Ivi, p. 101. 8 M. Chion, Stanley Kubrick l’humain, ni plus ni moins, Cahiers du Cinéma, Paris 2005.

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Introduzione

Jameson nel suo saggio Storicismo in Shining, aprendo improvvisa­ mente una nuova prospettiva, dando ragione di una realtà profonda sedimentata in una fotografia; e allora ecco che davvero Shining (The Shining, 1980) diviene la meditazione di Kubrick sui grandi temi dei suoi film precedenti e sulla impossibilità di una rappresentazione sto­ rica quale era stata perseguita «in modo così sensazionale e paradossa­ le» con Barry Lyndon.9 La dominazione silenziosa di questo referente perduto, che per una serie di giochi e (false) conquiste non raggiunge lo stato cosciente, fa sì che la memoria dell’uomo si dia come prodotto sociale più che sto­ rico (cioè all’interno di quelli che Maurice Halbwachs chiamerebbe cadres sociaux), di una socialità avvertita selvaggiamente e violente­ mente e che Kubrick mette di continuo in mostra, come verificheremo sulla scorta delle teorie sul mimetismo e sul meccanismo vittimario di René Girard: una socialità (e una civiltà) frutto di quella tendenza all’imitazione connaturata nell’essere umano, che riposa sulla violenza di un atto fondatore che si ripete, nella sua esattezza, drammaticamen­ te, rappresentando l’illusorio potenziale di intervento umano sulla re­ altà, in grado di assicurare la perpetuazione, ma al contempo di osta­ colare una reale evoluzione. In Kubrick non c’è avanzamento: il car­ rello, lo zoom o la steadicam sono i prodotti di una estetica inganne­ vole, la scrittura del regista è una scrittura bustrofedica o un sistema di assi cartesiani dalle combinazioni nitide che d’improvviso possono es­ sere turbate da un’irruzione inaspettata che è come una sbavatura d’inchiostro perturbante: come l’istinto che si offre al controllo, gli si sottrae e in un certo senso ne è il fondamento. In questo riflettere la Storia, in questo rifarsi ad essa e nel cercare il punto di contatto tra essa e l’essere umano, Kubrick rivela la sua natu­ ra di pensatore, rivela il presupposto filosofico del suo cinema. È pro­ babile che ciò che manca nella sterminata bibliografia sul regista sia proprio uno studio delle correnti di pensiero (delle fonti) che il Ku­ brick “filosofo” ha coinvolto nei suoi film, creando quel sistema auto­ referenziale di cui si diceva. C’è del vero in quella paura del “Domine non sum dignus” che, stando a Brunetta, affligge i critici kubrickiani: 9 F. JAMESON, Storicismo in Shining, traduzione di D. Turco, in Id., Firme del visibile. Hi­ tchcock, Kubrick, Antonioni, Donzelli Editore, Roma 2003, p. 80.

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quando, nel 1999, si trovò a reintrodurre una seconda edizione della monografia collettanea sul regista da lui curata nel 1985, considerando le nuove pubblicazioni che in quel quindicennio circa erano apparse, notò (con le dovute eccezioni) la mancanza di opere in grado di forni­ re «in una mappa la coesione e recursività e le dinamiche di temi e procedimenti stilistici»10, e non poteva certo immaginare che negli an­ ni a seguire il trend si sarebbe mantenuto costante, pur conservandosi, in certi casi, la titubanza che portava a limitarsi a qualche trovata nuo­ va all’interno di un’esegesi ormai codificata e solida quanto la struttu­ ra monistica della filmografia kubrickiana nella storia del cinema. Tornando alla questione del Kubrick “intellettuale” ci si imbatte nella sua condizione di autodidatta che, lungi dall’esser cosa trascura­ bile, risulta nodo essenziale per un approfondimento delle sue fonti. Perché è vero che la cultura costruita sulla passione e sull’individualità del fervore intellettuale supera in larghezza quella più legnosa e schematica appresa sui banchi, ma è altresì vero che spesso l’autodidatta pecca di asistematicità e, pur cogliendo nel pro­ fondo il dato che cerca, fatica a ricostruirgli intorno il circolo culturale che lo ha partorito e che gli è figlio. Non è evidentemente il caso di Kubrick che se doveva fare un film su Napoleone leggeva più di due­ cento libri sul tema o, altrove, chiedeva alle sue attrici, per amor del vero, di indossare le impalcature settecentesche sotto la gonna per in­ dovinare la giusta andatura; ma per il discorso che vogliamo fare, di­ scorso che vedrà il pensiero kubrickiano muoversi tra sfumature di concetto diverse, sarà importante tenere a mente che le letture del re­ gista, nello scontro con il rigore della sua persona, lo avvicinano e lo allontanano nel giro di un breve spazio dai pensatori di cui parleremo. Non sembri allora che Kubrick sia un bricoleur di teorie, né che gli si voglia ad ogni costo riconoscere un’esagerata statura filosofica, ma si tenga sempre a mente che il suo pensiero è uno e personale e che in­ contra in piena libertà, per motivi chiari di formazione, quelle conce­ zioni della Storia dell’uomo che più gli sono congeniali. Si ribadirà l’importanza che lo strutturalismo di marca lévistraussiana ha avuto nella costruzione del mito di 2001, ma si dovrà 10 G.P. BRUNETTA, En attendant Kubrick, in Id. (a cura di), Stanley Kubrick, Marsilio, Ve­ nezia 1999, p. 7.

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Introduzione

aver bene in mente che l’identità di talune posizioni non impedisce al regista di sfuggire, ad esempio, alle pretese ontologiche che costitui­ ranno il punto più debole di una metodologia che si rivelava filosofia. Così se ogni messaggio, nell’ottica di Lévi-Strauss, è interpretabile sulla base di un codice, trasformabile in un altro in virtù del comune riferimento a un Ur-codice, sarà interessante cogliere come Kubrick, pur avvezzo alle commutazioni, segua la pista di un Meccanismo so­ vrumano, ma ne rimandi all’infinito l’identificazione, ne contesti l’assimilabilità ai fondamenti di una logica universale, ne contempli, in definitiva, l’assenza. L’uomo kubrickiano, lo vedremo a più ripre­ se, è agito, ma il presupposto del regista resta storico e non linguistico (per quanto i temi della parola e della scrittura, oltre quelli della lan­ gue cinematografica, gli siano tutt’altro che estranei). La via che lo allontana dagli esiti di Lévi-Strauss, sarà anche quella che, in un breve spazio, lo avvicina a René Girard, legato com’è al sentimento di vio­ lenza che sta dentro l’uomo stesso e ne accompagna le tappe di una falsa evoluzione, per cui la storia dell’uomo, che non è la Storia, si fonda sulla violenza e da essa è perpetuata; e il rapporto tra il regista e l’antropologo, se difficilmente, anche per questioni cronologiche (il centro della riflessione kubrickiana anticipa di poco la più importante opera girardiana), potrà essere verificato dalla parte del primo, trova invece sorprendentemente conforto nelle parole del secondo, che ri­ chiama, a supporto delle sue teorizzazioni, l’incipit di 2001 (e, ulte­ riormente, si dovrà tener conto che le letture, le fonti, sono le stesse per entrambi). Kubrick etnologo, entomologo come altri lo hanno definito. L’etnologo, del resto, pur essendo umano, deve cercarsi un luogo ele­ vato e tranquillo che lo tenga distante dalle contingenze della società e della sua stessa civiltà; in un certo qual modo, sarà a casa sua ovunque e in nessun posto.11 Si avverte la freddezza dell’occhio di Kubrick e lo si vede, nel verde sprofondato e solitario della villa fuori Londra, casa e mondo a un tempo. Ma l’uomo kubrickiano non si dissolve, come vorrebbe il pensiero lévi-straussiano, resiste e si riproduce. Ku­ brick è l’etnologo di una società scrivente e tecnologizzata, cui tutta-11 11 È quanto sostiene C. Lévi-Strauss, Tristi Tropici, traduzione di B. Garufi, Il Saggiato­ re, Milano 2004, p. 53.

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via basta togliere l’esteriorità arbitraria della convenzione per ridurla al primo istinto, ricacciarla nuda (si pensi a Eyes Wide Shut) verso un inizio indefinito che è subito durante e fine. Il gioco spazio-temporale, su cui tanta critica si è spesa, trova ragione in questa pretesa: LéviStrauss spiegava come il suo studio si rivolgesse all’osservazione di popoli tra loro molto lontani nello spazio e nel tempo e tuttavia come fondamentale fosse la ricerca di «un certo numero di proposizioni che sia applicabile in forma generale e a un livello propriamente filosofico all’interpretazione del fenomeno umano in quanto tale.»12 Kubrick lavora pazientemente all’intersezione di una serie di ele­ menti fondanti il suo cinema: l’evento particolare, ricostruito con fe­ deltà maniacale; il flusso continuo di cui quell’evento è parte; l’animo di chi vive Vhic et nane dell’evento e non l’infinità del flusso; il tutto immesso in un diverso flusso che è quello cinematografico, dove Ku­ brick si dimostra precocemente fine studioso di quella nuova negozia­ zione di miti e riti che il cinema è a sua volta, e su altro eppure affine terreno, capace di operare (il controllo della pellicola fino in sala, le leggende sulla severità con cui si accertava delle condizioni di proie­ zione e quelle, confermate, sul controllo degli effetti del doppiaggio: confronto, dall’inizio alla fine dei lavori, con le esigenze di una situa­ ted vision, che avrebbe reso quanto mai interessante assistere al com­ portamento del regista nei confronti dei nuovi supporti e regimi di vi­ sione). Un gioco appassionato, un movimento che passa con disinvol­ tura dallo straniamento al coinvolgimento. I suoi film sono il prodotto di queste spinte diverse e il suo segreto è la stratificazione di un lavoro lungo e instancabile che ricerca un punto di equilibrio perfetto nella vastità dei riferimenti, il punto che chiuderà il film finito nella continuità di un discorso; quella parte che potremmo definire “in ellissi” del racconto-Stanley Kubrick, e cioè i duri anni che precedono l’uscita dei suoi pochi film, è il vero motivo per il quale, al di là di temi e stili, è molto più che una semplice bou­ 12 P. Caruso (a cura di), Conversazioni con Lévi-Strauss Foucault Lacan, Mursia, Milano 1969, p. 28.

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Introduzione

tade quella di Marcello Walter Bruno: «non esistono film alla Ku­ brick».13

13 M. W. Bruno, Tutti i film di Stanley Kubrick, Gremese, Roma 1999, p. 108.

Duemila e uno: per (ri)cominciare.

1. Il mito Nel 1970, a due anni dall’uscita di 2001, Jean-Paul Dumont e Jean Monod si proposero di studiare quel testo cinematografico secondo gli schemi che Lévi-Strauss aveva proposto per il mito.1 Il film di Ku­ brick appariva loro non solo degno di essere analizzato in quanto mo­ derno mito d’origine, ma in quanto metariflessione sul linguaggio ci­ nematografico che, in questo caso, era il linguaggio stesso del mito. Il libro che ne venne reca in sé, oggi, tutti i limiti di un’analisi strutturale ortodossa, per di più orientata da un’applicazione più etnologica che cinematografica. Tuttavia, rinunciando a rinserrare il testo entro la gabbia di una struttura ad esso soggiacente, rimangono valide da un lato l’intuizione metalinguistica, e dall’altro alcune aperture interpre­ tative che si sottraggono alla smania positivista e danno respiro al te­ sto medesimo. Non ultimo, una lettura mitica di 2001 che vada al di là della semplice messa in scena della storia di un’origine, trovò in questo saggio un modello. Gli elementi che permettono, anche a chi analista non è, di capire da subito che Kubrick sceglie di mettere in scena un mito, al di qua dunque di un racconto (2001 «modello di tutte le storie», «racconto dei racconti», come ha scritto Sandro Bernardi1 2), sono molteplici. Anzitutto l’assenza della Storia: 2001 si apre in una pre-Storia appun­ to mitica, inconoscibile, selvaggia e asociale e prosegue in una postStoria immaginaria. La Storia, la nostra vita sociale, è tutta racchiusa nella famosa ellissi dell’osso lanciato in aria che diventa, ricadendo, 1 J.P. Dumont, J. Monod, Le foetus astrai, Christian Bourgois Editeur, Paris 1970. 2 S. BERNARDI, Struttura tematica e struttura stilistica in «2001: Odissea nello spazio», in P.BERTETTO (a cura di), L’interpretazione dei film, Marsilio, Venezia 2003, p. 237.

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Capitolo I

astronave. Il passaggio segnala con grande evidenza la volontà di non avere tangenze con la Storia, coerentemente con quanto esige il rac­ conto mitico, che presuppone l’abolizione del tempo, della durata e della storia3. La manipolazione del Tempo, inscritta in un procedimen­ to cinematografico che salda da subito significante e significato, corre parallela all’annullamento dello Spazio, tra la retroproiezione della terra desertica e l’infinità nera. È curioso eppure del tutto naturale che l’unico film di Kubrick che non affronta un periodo storico preci­ so si erga a giudice di tutti gli altri e, in un certo qual modo, li conten­ ga: 2001 vuole avere la struttura e le forme del mito, che fonda una Storia senza per questo averne l’aspetto. Non si dovrà poi dimenticare che Kubrick, durante la lavorazione, sottrasse gradualmente e con grande felicità, elementi che avrebbero avuto una forte presa sulla re­ altà storica contemporanea, ma che avrebbero finito per appesantire un film in tutti i sensi privo di forza di gravità e per mettere a rischio la stilizzazione mitica. In una prima fase di sceneggiatura, infatti, dove­ va essere molto più accentuata la rivalità tra americani e sovietici, nell’ottica di una guerra fredda che avrebbe raddoppiato, fin troppo grossolanamente, quella più elementare e sanguigna delle scimmie at­ torno allo stagno. E lo stesso copione originale prevedeva che il feto che chiude il film (lo «Star Child») facesse esplodere nello spazio le armi nucleari, annullando pacificamente, ma fuori dal tempo, il nero sarcasmo del finale di Stranamore, opera con cui 2001 si sarebbe tro­ vata, se tali tagli non fossero stati effettuati, strettamente imparentata, anzi ne sarebbe quasi divenuto un seguito teorico, rinunciando a pro­ porsi come il metatesto, o meglio l’Ur-testo, della filmografìa kubrickiana. Jerome Agel, nel cui studio sul making of dell’ottavo lungometraggio di Kubrick sono riportati tutti i ripensamenti del regista4, dà notizia anche di una voce off che avrebbe dovuto accompagnare l’attuale prologo (cioè L’alba dell’uomo), attuale perché si rischiò an­ che di assistere ad un incipit diverso, girato in bianco e nero e con chiara intenzione documentaristica, formato da una serie di interviste a

3 Si veda al riguardo M. ELIADE, Il mito dell’eterno ritorno, traduzione di G. Cantoni, Boria, Torino 1968, p.58. 4 J. Agel (ed.), The making of Kubrick’s 2001, New York, 1970.

Duemila e uno: per (ri)cominciare

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specialisti di vari settori5: questo prologo, di una decina di minuti, venne effettivamente girato e proposto in proiezione provvisoria ai di­ rigenti della mgm, e solo in seguito tagliato. Un lavoro costante di sot­ trazione, un affrancamento dal dato storico o dal riferimento alla realtà che andavano verso l’esigenza di quel 2001 inconoscibile, non il “no­ stro” 2001, vissuto e passato senza astronavi (ma non da Kubrick per un gioco troppo sottile del destino), ma un duemila + uno che giusta­ mente Bernardi ha accostato al numero mitico delle Mille e una notte (e si sa quanto Kubrick amasse la fiaba), cioè a una «concezione cicli­ ca del tempo, al millenarismo e ai suoi miti di rigenerazione, all’eterno ritorno in cui la storia non è che ripetizione variata di un evento primigenio inenarrabile.»6 Accanto al rifiuto della Storia corrono le scelte di regia: al di là di ciò che più strettamente inerisce il funzionamento del racconto mitico, Kubrick organizza un congegno percettivo che spiazza lo spettatore, tanto più quello che si aspetta un film di fantascienza con retrogusto socio-politico (come tanti ce n’erano stati negli Stati Uniti nel decen­ nio precedente). La mancanza della parola e la preminenza di stimoli musicali così diversi (non è Lévi-Strauss che insiste sulla vicinanza linguistica di mito e partitura musicale?7 e non è 2001 il più avanguardistico dei prodotti audiovisivi?) conducono verso un tipo di cono­ scenza sintetica, che ravviva l’opposizione mythosllogos; logos signi­ fica pensiero, ma anche parola e allora basterebbe già il fatto che 2001 rinuncia alla parola come mezzo di comunicazione e fa del suo mes­ 5 Anthony Frewin, assistente di Kubrick tra il 1965 e il 1969 e tra il ’79 e il ’99. ha for­ nito un preciso resoconto di questo prologo: 2001: the Prologue that nearly was, in Aa.Vv., Stanley Kubrick, Deutsches Filmmuseum Frankfurt am Main, Frankfurt am Main 2004, pp. 129-135. 6 S. Bernardi, Struttura tematica e struttura stilistica, cit., p. 234. 7 Cfr. C. Lévi-Strauss, // pensiero selvaggio, traduzione di P. Caruso, Il Saggiatore, Mi­ lano 1964, ma anche Id., Mito e significato, introduzione di C. Segre, Net, Milano 2002 pp. 57-58: «Ecco perché dovremmo renderci conto che se cerchiamo di leggere un mito come un romanzo o un articolo di giornale, cioè riga per riga, leggendo da sinistra a destra, non lo comprendiamo, poiché dovremmo invece coglierlo come una totalità e scoprire che il suo si­ gnificato fondamentale non è trasmesso dalla sequenza degli eventi ma, per così dire, da fasci di eventi, anche se questi eventi appaiono in momenti diversi della storia. Perciò dobbiamo leggere il mito più o meno come leggeremmo una partitura orchestrale, non una strofa dopo l’altra, ma sapendo che è necessario cogliere il senso dell’intera pagina e che le parole della prima strofa all’inizio della pagina acquistano significato solo se vengono considerate parte e porzione di ciò che è scritto più avanti nella seconda strofa, nella terza e così via.»

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saggio il medium stesso8 per comprendere la scelta di un racconto mi­ tico. A più riprese lo stesso Kubrick ha definito il suo film una “espe­ rienza non-verbale”, una pellicola che aveva lo scopo primario di par­ lare al subconscio dello spettatore.9 Proprio questa volontà di parlare al subconscio del suo spettatore mette Kubrick in condizione di lavorare all’incrocio tra il mito in quanto racconto primigenio e il cinema in quanto linguaggio mitico, seguendo un principio di azzeramento parallelo che finisce col riguar­ dare la storia e il codice con cui è narrata. Il mito ha sempre a che ve­ dere con una fondazione, con un inizio, per cui il suo studio conduce verso l’origine dell’umanità, verso una presenza religiosa di difficile interpretazione, che avvia un processo di identificazione duraturo e capace di rinnovarsi attraverso riti che ripetono meccanicamente il momento fondativo, che stabiliscono ordine e coesistenza pacifica, che rinforzano un sentimento di unanimità. Il mito, nell’ottica lévistraussiana, vive «simultaneamente nel linguaggio e al di là del lin­ guaggio», ma soprattutto ha una struttura permanente che fa riferi­ mento, al contempo, al passato, al presente e al futuro.10 L’interpretazione che Kubrick offre attraverso lo stile di 2001 denota una conoscenza di tali concetti, denota la consapevolezza che per l’uomo del 1968 (che ha conosciuto da poco le seconde avanguardie cinematografiche) una siffatta struttura linguistico-sociale può rinve­ nirsi nel cinema, attraverso una meccanica della visione e della perce­ zione ben nota a Kubrick, che ha sempre inteso il film non idealisti­ camente come il parto di una mente creatrice, ma come la combina­ zione di diversi fattori tecnici e di diverse intelligenze convogliate verso un’unica mente organizzatrice (la sua). Su questa strada, Du-

8 Nella lunga intervista rilasciata a Eric Norden per «Playboy» nel settembre 1968. ora tradotta in italiano in M. ClMENT (a cura di), Stanley Kubrick, La Biennale di Venezia 1997, p. 58, Kubrick disse: «Rovesciando la frase di McLuhan, in 2001 è il messaggio ad essere il me­ dium». 9 Su verbale e non verbale in 2001 si veda M. CHION, Un'Odissea nel cinema. Il 2001 di Kubrick, traduzione di A. Grechi, Lindau, Torino 2000, pp. 133-135. Ghezzi parla di «cinema solo cinema» e di «regia assoluta», in E. Ghezzi, Stanley Kubrick, Il Castoro, Milano 1999, p. 20. 10 C. Lévi-Strauss, La struttura dei miti (1955), traduzione di P. Caruso, in Antropologia strutturale, Net, Milano 2002, p. 234.

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mont e Monod osservavano che i miti raccontano tutti la stessa cosa, e cioè «l’histoire des avatars de cette énergie qui les engendre».11 Da una parte dunque abbiamo un sistema narrativo che sta prima, dentro e oltre il linguaggio, dall’altra il medesimo sistema che si fonda sulle trasformazioni che la sua stessa energia promana. Che 2001 sia un film di trasformazioni, di «commutazioni» per dirla con Chion, mi pare fuori di dubbio. Il gioco di simmetrie si avvia a partire dalla pie­ tra di paragone che è fissata nell’alba dell’uomo, ed è condensato, nel suo intento, nella trasformazione più esplicita che è il mutamento dell’osso in nave spaziale. In quel passaggio sta la giustificazione di una lettura strutturale del film, sempre a partire dall’origine mitica, dall’ominizzazione che costituisce il primo segmento di 2001. Nell’ellissi più famosa risiede l’idea misteriosa che nutre tutta l’opera, quella logica del tempo, criticabile in sede filosofica, inaggirabile di fronte alla struttura narrativa, che Barthes identificava nel Destino e che procedeva dal proverbio latino: post hoc, ergo propter hoc. «Non esiste secondo me - diceva Barthes - nessuna narrazione che sfugga all’idea del destino (o all’idea del senso storico) perché non c’è alcuna narrazione che possa separare l’idea di una successione cronologica dall’idea di una conseguenza logica.»11 12 In fondo, nemmeno Kubrick, pur criticando fortemente l’idea di un senso storico linearmente inteso e pur sconvolgendo ogni cronologia nell’annullamento stesso del Tempo, è estraneo a questa consequenzialità che, non avvertita o addi­ rittura respinta nel pensiero, si riaffaccia nelle esigenze narrative. Oltre le simmetrie più evidenti, le rime palesi e quelle più sottili, sulle quali ci si potrebbe fermare a lungo, ma aggiungendo poco o nul­ la a quanto è già stato portato alla luce in quasi quarant’anni di esegesi costante, si dovranno sottolineare quelle trasformazioni ancora più so­ stanziali e sotterranee che mettono il film direttamente in contatto col suo stesso linguaggio e che danno risposta alle richieste lévistraussiane e prolungano, su base cinematografica, alcune delle intui­ zioni di Dumont e Monod. Lo spazio e il tempo sono le prime cate­ gorie che il film pone in crisi e sono le due categorie su cui si esercita 11 J.-P. Dumont, J. Monod, op. cit., p. 285. 12 L’intervento di BARTHES, col titolo di Principi e scopi dell’analisi strutturale, è ora in Aa.Vv., Per una nuova critica. I convegni pesaresi 1965-1967, Marsilio, Venezia 1989, pp. 245-255 (la citazione è a p. 248).

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maggiormente la pressione del cinema in quanto nuovo mezzo di co­ municazione: d’altra parte Edgar Morin parlava di due «metamorfosi» fondamentali che Yuomo immaginario doveva accettare ed imparare davanti ad un film e riguardavano l’una il tempo e l’altra lo spazio.13 Nella nuova dimensione che da qui procedeva, nella sua fluidità, l’uomo si ritrovava diverso, ma diversi si ritrovavano soprattutto gli oggetti, capaci di dialogare pariteticamente con l’uomo, animati da una vita misteriosa (ai limiti dell’animismo). E questa trasformazione degli oggetti è assolutamente centrale in 2001\ dal monolito all’osso, da Hai al Discovery in tutte le sue parti, fino 3l\V oggettualità degli asettici astronauti o degli scienziati ibernati, tutta una serie di chiare contaminazioni ha fatto sì che il film potesse essere letto come una contrapposizione insistita tra l’animato e l’inanimato. In 2001 gli spazi fondamentali sono cinque: il primo è la terra de­ sertica abitata dalle scimmie, una terra fuori del tempo, anzi prima del tempo, una terra che riflette ad un secondo livello la manipolazione tecnologica nel suo essere retroproiettata (le riprese erano state effet­ tuata da un’altra troupe in Africa), nel suo essere quindi reimpiegata in quanto registrazione cinematografica. Il secondo è lo spazio infinito, che è la sottrazione di uno spazio in quanto luogo relazionale e identitario: è un non-luogo cinematografico, il buio della sala trasferito sullo schermo. Il terzo è rappresentato dalla stazione spaziale e dalle astro­ navi, set futuristici che paiono veri ingranaggi tecnologici alla mercè delle acrobazie della macchina da presa (effetto quanto mai manifesto se capita di vedere le numerose, e ormai di facile accesso, foto di sce­ na, dove Kubrick è ritratto come l’unico dio al centro di un sistema di modellini che simulano una realtà immaginata). Il quarto spazio è quello del trip psichedelico, che è da una parte l’esplosione del cinema nelle sue premesse ontologiche (e rimanda alla mente le ricerche otti­ che, non solo cinematografiche, delle avanguardie degli anni Sessan­ ta14) e dall’altra la scomposizione del film. È come se tutti gli stimoli percettivi seminati nei riflessi, nei colori, nelle luci venissero fusi e 1

Si veda E. MORIN, // cinema o l’uomo immaginario (1956), traduzione di G. Esposito, Feltrinelli, Milano 1982. 14 Va detto che Kubrick ebbe parole tutt’altro che lusinghiere per l’avanguardia cinemato­ grafica in special modo newyorkese, in un’intervista rilasciata a «E1 Pais-Artes» il 20 dicem­ bre 1980 e riportata ora in M. ClMENT (a cura di), op. cit., p. 3.

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scagliati a velocità incontrollata in faccia allo spettatore, che in questo caso è Dave Bowman, l’uomo il cui casco spaziale non è mai libero dal riverbero dei mille riflessi che l’immensa macchina in cui vive gli spara addosso. Proprio il suo viaggio nel corridoio dell’infinito (e da qui in poi il corridoio diverrà una delle figure chiave dello stile e delle scenografie kubrickiane) è la summa del suggerito gioco di scambi tra il messaggio del film e il suo codice. Il dettaglio dell’occhio di Bo­ wman, di colore di volta in volta differente, rimanda alle serigrafie di Andy Warhol e sembra ammonire lo spettatore abituato e sottomesso ad una visione seriale e piatta, cui 2001 si oppone bruscamente. Il quinto spazio è la stanza dove il film si chiude, che, come ha be­ ne notato Annette Michelson è l’idea di una Stanza, anzi «la nozione di Idea come Abitazione», ultima tappa nel viaggio verso l’incorporeità, ma ancor più, in una contraddizione solo apparente e invece molto feconda, «l’improvvisa contrazione spaziale [che] ci por­ ta dal polimorfismo delle galassie ad un’estrema formalità, in una sce­ nografia allusiva che insinua, nell’Assenza del Tempo, l’idea della Storia.»15 L’idea della Storia, cioè di una cronologia, irrompe dunque im­ provvisa nell’assenza del Tempo (kronos), nel momento stesso in cui lo Spazio si organizza, seppur astrattamente, come materia nel nulla infinito. Le due metamorfosi fondamentali che il cinema compie e di cui diceva Morin, realizzano la congiuntura mitica del linguaggio e del suo oltre: più che di oltreuomo, potremo parlare di oltrecinema. Il gioco delle trasformazioni è sì funzionale alla trama, è ciò che la strut­ tura, ma è altresì fondamentale per illustrare i mutamenti che il film in quanto tale comporta. 2001, per seguire ancora Michelson, attua la funzione di una Struttura Primaria, costringendo lo spettatore, in modo riflessivo, ad un riesame analitico della propria esperienza, e creando nel contempo la convinzione di essere di fronte a un film come tutti gli altri, solo lievemente “più film” degli altri [...] Il margine di “differenza nell’uguaglianza” che racchiude o delimita il suo vantaggio sugli altri film è il locus della sua poesia.16 15 A. Michelson, Corpi nello spazio: il cinema come «conoscenza carnale», in G.P. BRUNETTA (a cura di), Stanley Kubrick. Tempo, spazio, storia e mondi possibili. Pratiche, Parma 1985, p. 148. 16 Ivi, p. 137.

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Un’altra strada che Kubrick batte nel processo di affrancamento da ogni legame contingente tematico e stilistico, riguarda il rapporto col genere, terreno di ricerca privilegiato nella quasi totalità dei suoi film. L’astoricità cui lo studio dei generi scelse di rivolgersi negli anni in cui Kubrick lavorava a 2001, seguendo una direzione indicata proprio dall’antropologia lévi-straussiana, creava, escludendo fattori fonda­ mentali quali quelli legati alla ricezione, categorie di pensiero univer­ salmente valide per ogni uomo e depositate in un inconscio che il film era in grado di andare a toccare. Così ogni film aveva una trama che, strizzata, avrebbe restituito un archetipo culturale (fosse quello celato nel western, nel musical, nella screwball comedy o nella fantascienza) essenziale, luogo di intersezione tra il dato antropologico e quello ci­ nematografico. Ebbene, Kubrick lavora a un'epurazione del genere fantascientifico che mira a fare di 2001 un prototipo anche al confron­ to con il modello narrativo cui chiaramente si riferisce.17 Nel 1965, tre anni prima che il film uscisse, Clarke ebbe a dire: «Science-fiction films have always meant monsters and sex, so we have tried to find another term for our film».18 Niente frasi altisonanti e incomprensibili riguardo motori, avarie o missioni e soprattutto niente extraterrestri. Un procedimento analogo a quello che, dodici anni dopo, si sarebbe operato sul “film dell’orrore” Shining. La vicinanza all’antropologia ci permette di capire meglio il viag­ gio che in questo mito d’origine si compie da e verso l’inizio della Storia: l’attenzione al subconscio che Kubrick dimostra e nell’architettura percettiva del suo film e nella posizione dialettica che assume nei confronti del genere, denuncia una ricerca che parte da una concezione etnologica, che organizza i propri dati sulla base delle espressioni inconsce, per raggiungere una concezione storica che li or­ ganizza sulla base delle espressioni coscienti, ma che resta impensabi­ le se non colta alle sue sorgenti. Il tutto deve restare avvolto nel mi­ 17 Sul rapporto tra generi e mito rimando a R. ALTMAN, Film/Genere (1999). Vita e Pen­ siero, Milano 2004, mentre per quel che riguarda il trattamento dei generi da parte di Kubrick, si potrà vedere R. Campari, Kubrick e il sistema dei generi, in G.P. Brunetta, Stanley Ku­ brick, cit., pp. 47-53. 18 L’intervista, rilasciata a J. BERNSTEIN per il «New Yorker», è contenuta in J. AGEL, op. cit., pp. 24-sgg.

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stero, cioè in ciò che la scienza (vero centro di 2001} non può spiegar­ si. Kubrick non fa un film enigmatico, ma misterioso, giacché «non c’è enigma, per quanto complesso, che alla fine non venga risolto.»19 Da qui è facile svelare l’imprecisione di una definizione scientista del regista, convinto com’è che sia impossibile colmare lo scarto che resi­ ste nell’inseguimento forsennato che il progresso scientifico ingaggia nei confronti della domanda filosofico-religiosa. Se è vero che gli uomini mitizzano quei campi che la conoscenza scientifica non ha an­ cora raggiunto e risolto, Kubrick, nel suo mito sull’origine dell’uomo, sembra essere di nuovo in pieno accordo con la definizione che LéviStrauss dava della Storia: «impermeabile alla scienza». E se Kubrick non cede mai all’enigma e il suo resta mistero, ciò avviene in virtù del forte senso religioso del regista, dove religioso non significa aderenza a un dogma o fede in una rivelazione, ma consapevolezza che esiste qualcosa, forse nello spazio o nelle lande deserte preistoriche, che non sarà e non deve essere spiegato, che non dovrà cadere sotto lo spirito razionalizzante dell’uomo, che non si sottometterà alla sua infallibile capacità di errare, ma che regolerà comunque in un certo modo le sue azioni e la sua vita. In altri termini Kubrick non aggira il religioso, elemento ancora oggi tabù per la scienza20, ma lo affronta di petto, anzi ne fa il punto in comune che lega tutte le parti di 2001, che crea e fa quadrare il cerchio, quella figura di cui già si diceva e che regola il suo cinema e la sua concezione della storia. Nella già citata intervista a Playboy, Kubrick sottolinea che «al cuore di 2001 sta il concetto di Dio, ma non un’immagine tradiziona­ le, antropomorfica di Dio. Non credo in nessuna delle religioni mono­ teistiche di questa terra, ma credo invece che si possa costruire un’interessante e affascinante definizione scientifica di Dio, se si ac­ cetta il fatto che vi sono approssimativamente cento miliardi di stelle nella sola nostra galassia, che ogni stella è un sole che produce vita e che ci sono approssimativamente cento miliardi di galassie nel solo universo visibile.» 19 R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo (1978), traduzione di R. Damiani, Adelphi, Milano 2001, p. 17. 20 Cfr. ivi, p. 18 : «In questa esclusione [del religioso dal mondo moderno] deve essere in gioco qualcosa di molto importante, a giudicare dalla passione che ci mettono taluni per ren­ derla definitiva».

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D’altra parte il gusto per la ripetizione, che si sviluppa su più livel­ li, sottende il mistero di un motore che non diremo immobile, ma per lo meno misterioso, un motore che impone una continuità che è coa­ zione e sulla quale dovremo tornare. 2001 si apre con una nascita e finisce su una rinascita: facile a questo punto arguire che tra l’una e l’altra vi sia stata una morte, una fine, la cancellazione di un mondo. Michel Ciment pone proprio l’accento sul fatto che «il mondo di 2001 è pronto a morire, è maturo per la distruzione» e nota come la musica malinconica di Khacaturjan (Gayaneli) che accompagna la vita mono­ tona all’interno del Discovery, intensifichi tale sensazione.21 Tra i due allineamenti astrologici dell’inizio e della fine, abbiamo assistito infat­ ti alla conquista della intelligenza da parte di un gruppo di scimmie che l’ha immediatamente usata per fini violenti dettati dalla brama di potere: hanno scoperto l’arma e la morte violenta, hanno imparato ad aver paura, ora, anche dei propri simili. Quindi con quel balzo di cui si è detto, decisivo per la costruzione del mito, abbiamo spiato la vita fu­ tura di un mondo potente e colonizzatore, assetato come le scimmie, ma non più proiettato su uno stagno, ma nell’universo. Nelle loro fredde stanze la spontanea rabbia degli ominidi che dovevano lottare contro un mondo ostile e sconosciuto, si raggela nell’arroganza traco­ tante (hybris) di chi crede di possedere tutto ciò che lo circonda; della civiltà scientifica insomma, quella che risolve gli enigmi e non con­ templa il religioso. A ben guardare però l’ostilità resta sempre, nasco­ sta dietro i modi gentili dell’incontro tra lo scienziato americano e i russi o nelle piatte conversazioni tra gli astronauti della missione e il computer Hai 9000. A bordo del Discovery si raggiungerà il punto di non ritorno profetizzato dalle parole di Ciment, toccato a causa dell’errore di un elaboratore che, tutti potevano giurarlo, non era capa­ ce di sbagliare. Ma Hai non sbaglia per una disfunzione, sbaglia per­ ché nella sua completezza e perfezione ha addirittura dei sentimenti. Hai in poche parole comincia a comportarsi da essere umano, sente di avere in pugno una missione e delle persone; vuole il potere, vuole vi­ vere per comandare e nessuno deve provare a privarlo di una egemo­ nia quasi conquistata. I desideri che il computer si trova ad esprimere sono gli stessi che covava in cuor suo la scimmia che aveva scoperto 21 M. Ciment, Kubrick, traduzione di L. Codelli, Rizzoli, Milano 2002, p. 127.

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la clava; Hai è un uomo, che è come dire imperfetto. Bowman (che la critica ha inteso da subito come nome parlante: l’uomo-arco22) che di sentimenti pare averne meno di Hai nella sua fredda compostezza, lo ucciderà nella più coinvolgente sequenza del film, lo ucciderà come si fa con una persona umana che, in punto di morte, per la paura, toma quasi bambino.23 E, rimasto solo nell’universo, quest’uomo sarà con­ dannato a vedere, a vedere l’infinità che gli si squaderna dinanzi in tutta la sua potenza, fuori del tempo umano, in una dimensione in cui ci si vede vivere e morire, in cui l’occhio umano, abituato a dominare, è il tramite per la sottomissione. Ha ragione Bernardi nel dire che Bowman sarà trascinato verso il futuro dal suo stesso sguardo. [...] La mdp infatti si trasferisce ogni volta dal Bowman vedente al Bowman visto, inaugurando di lì un nuovo percorso in soggettiva. Il soggetto si modifica per opera del suo stesso sguardo. Il vedere è illustrato come un movimento biunivoco e reversivo che trasforma il soggetto nell’oggetto.24

È un raddoppiamento dell’impalcatura visiva del film: non a caso il trailer originale, tutto costruito sullo Zarathustra di Strauss e privo di parole, terminava con una scritta, in campo blu a fianco di un primo piano di Bowman, che riportava il giudizio del “Time Magazine”: «The most dazzling visual happenings in the history of the motion pic­ ture!» E 1’oggetto finale, controcampo di un altro potere visivo, quello del monolito, sarà il feto, che guarda noi, ci interroga e soprattutto instau­ ra una reciprocità che ce lo fa sentire prossimo, che ce lo avvicina: se continuasse a librarsi nello spazio, se restasse chiuso nella dimensione

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Non posso impedirmi di richiamare l’attenzione su una poetica frase di C. LÉVI-STRAUSS: «Come l’individuo non è solo nel gruppo e ogni società non è sola fra le altre, così l’uomo non è solo nell’universo. Quando l’arcobaleno delle culture umane si sarà inabissato nel vuoto scavato dal nostro furore; finché noi ci saremo ed esisterà un mondo - questo tenue arco che ci lega all’inaccessibile resisterà.» In Tristi Tropici (1955), traduzione di B. Garufi, Il Saggia­ tore, Milano 2004, p. 404. Nella versione italiana la regressione di Hai è sottolineata dal motivo del “Giro giroton­ do”, mentre in quella originale la canzoncina “Daisy” è un infantile motivetto amoroso. 24 S. Bernardi, Kubrick e il cinema come arte del visibile, Il Castoro, Milano 2000, pp. 171-172.

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del mito, potremmo anche pensare ad un finale ottimistico25, con grande cautela potremmo recuperare il fanciullo nietzscheano, ma il sospetto è che lo Star Child finirà per incarnarsi nella Storia, sarà (let­ teralmente) Alex De Large, e poi Redmond Barry, Jack Torrance in una vecchia fotografia, il soldato Joker, Bill Harford e poi ancora feto nelle stelle; riaprirà un ciclo, cosmogonia, morte e rinascita. È il cer­ chio e la Storia di Kubrick, è già un nuovo discorso. Una volta data ragione della scelta mitica di Kubrick, dovremo ca­ pire dove si cela l’agente di Storia che è figura dello scorrere del tem­ po e poi indagare in cosa viene fissata l’origine della Storia dell’uomo, che è in fondo l’origine della poetica stessa del regista.

2. «A GIFT FROM THE STARS»

2001 si presta a diverse possibilità di suddivisione, tutte ugualmen­ te valide e ponderate. Lo si può pensare diviso in due parti dall’intervallo (intermission) posto subito dopo che Hai ha letto il la­ biale di Bowman e Poole; in tre parti seguendo le didascalie (L’alba dell’uomo, Missione Giove, Giove e oltre l’infinito), riunendo così le scimmie e il viaggio del dottor Floyd sulla scorta delle simmetrie con cui Kubrick lega i due momenti (opzione sposata da Bernardi nel suo saggio più recente). Ancora lo si può dividere in quattro parti, isolan­ do, rispetto alle scansioni didascaliche, l’episodio del volo verso la stazione spaziale e il conseguente incontro col monolito (è questa la scelta che, per motivi strutturali, operano Dumont e Monod); o in cin­ que addirittura, se alle quattro sopra indicate si volesse aggiungere l’intervallo che mantiene una sua importante autonomia.

25 Arthur C. Clarke, l’autore de La sentinella, il breve racconto del 1948 a cui Kubrick si ispirò parzialmente, e co-sceneggiatore del film, raccontò che l’idea di far regredire Bowman all’infanzia (per quanto l’idea di regressione dello scrittore sia inesatta rispetto a quella, più sfumata e complessa, resa nel film) venne da lui comunicata a Kubrick per telefono nell’ottobre del 1965 e il regista ne fu entusiasta. Tuttavia Clarke, confortando la nostra posi­ zione, annotò di seguito: «Hope this isn’t a false optimism: I feel cautiously encouraged myself.» Cfr. A.C. CLARKE, Lost worlds of2001, New American Library, New York 1972.

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La divisione in due parti appare quella meno produttiva sul piano analitico, utile solo al proiezionista. Quella in tre segmenti è giustifi­ cata dall’osservanza di una struttura narrativa ritornante in ognuno, che riguarda, tra chiare simmetrie di collegamento, la rielaborazione essenziale del tema del viaggio. La divisione in quattro segmenti tiene conto di un chiasmo per cui i segmenti I e IV (L’alba dell’uomo e Giove e oltre rinfittito) si richiamano nella purezza, nell’assenza del parlato e nella rarefazione dell’azione, mentre II e III (il viaggio di Floyd e Missione Giove) rappresentano i segmenti narrativamente più sviluppati, conseguenza e premessa di I e IV. Mentre la suddivisione in tre segmenti persegue una linea narrativa che, come vedremo, mo­ strerà la sua efficacia al cospetto delle teorie girardiane, quella in quat­ tro resta molto fedele ad una lezione, per così dire, metrica. La divisione in cinque segmenti, che attribuisce autonomia all’intervallo e che qui seguiremo, si fonda sulla presenza del monoli­ to, vero motore della narrazione, legato non solo alle origini, ma agli “avanzamenti” che di volta in volta Kubrick farebbe compiere alla Storia e che per Ciment sarebbero strettamente connessi alla soddisfa­ zione degli istinti, mentre per Walker rappresenterebbero veri balzi in avanti (leap forward) nella vita degli esseri viventi.26 Il monolito ap­ pare per la prima volta nella terra desolata delle scimmie, una mattina all’improvviso. Appare nella sua grandezza intaccabile, ripreso dal basso, accompagnato dal Requiem di Ligeti27, e le scimmie gli si avvi­ cinano guardinghe, girandogli attorno e studiandolo, come si fa con una scultura minimalista, che va posseduta da ogni angolo. La seconda 26 Cfr. M. Ciment, op. cit., p. 128 e A. Walker, Stanley Kubrick Director. A visual analysis, WW. Norton & Company, New York 2000, p. 185. 27 In un suo intervento sulle scelte musicali di Kubrick, Ermanno Comuzio ha sottolinea­ to, a proposito del Requiem (1965) di Ligeti, che si trattava di «una composizione [...] in cui Ligeti voleva esprimere le emozioni suscitate dalle immagini pittoriche del Giudizio Univer­ sale. Si noti che lo stesso compositore iscrisse sulla parte finale del Requiem questa frase si­ gnificativa: La musica sembra venire dall’infinito e nell’infinito perdersi non essendo che un momento audibile della musica delle sfere che resta immutabile ed eterna.» E poco oltre ag­ giunge: «Non a caso è stato detto che quella di Ligeti è una musica del dopo (del deserto luna­ re, del Nulla) ma allo stesso tempo anche dell’Ur, dell’origine, il bang da cui è stato originato il mondo e che si ripete nel ciclico ritorno del tempo.» [Si noti che Ligeti venne in seguito utilizzato anche per Shining e Eyes Wide Shut, i figli più diretti di 2001} Cfr. E. COMUZIO, La musica è già stata scritta. Purché sia Kubrick a sceglierla, in P. GIROLDINI (a cura di), A pro­ posito di Stanley, Effetto Notte Media, Parma 1998, pp. 24, 25.

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volta lo troviamo nove inquadrature dopo: mentre la scimmia batte di­ strattamente un osso sopra altri, il monolito irrompe nel montaggio, ancora ripreso dal basso, secondo un procedimento emozionale caro al primo Ejzenstejn28, e sottolinea la memoria che di esso ha la scimmia e il gesto che sta per compiere dettato dalla sua muta presenza. Questa volta la musica è lo Zarathustra di Richard Strauss. La terza volta lo troviamo nel cratere lunare, ripreso però dall’alto (come se le scim­ mie del futuro potessero dominarlo) e circondato da luci tipo luna park. Si ribellerà assordando gli astronauti con un sibilo che si acca­ valla ai suoni dodecafonici di Ligeti. La quarta ce lo mostra per la prima volta in orizzontale, mentre fluttua nello spazio allineandosi a Giove e ai suoi satelliti. La musica è ancora di Ligeti. Di questa quarta apparizione è da notare che, nonostante la chiara riconoscibilità, non sarebbe possibile rendere conto delle misure del monolito, dal mo­ mento che si relaziona allo spazio infinito e non più a elementi terreni o umani: Precisione” dell’elaboratore ha del resto lasciato Dave in balìa dell’ignoto, del non calcolabile. In ultimo ritroviamo la pietra nera nella sua perfezione al capezzale di Bowman, alla fine (o all’inizio?) del suo viaggio. È ripreso frontal­ mente in campo medio in tutta la sua interezza, poi di lato e poi di nuovo frontalmente. In controcampo vediamo che nel letto, al posto di Dave, è comparso un feto trasparente, quindi, con un lento carrello ot­ tico in avanti, la macchina si perde o si identifica col monolito. Nero prima della rinascita; tuona Zarathustra. Ci è possibile ora notare che per tre volte è Ligeti ad accompagnare il monolito, mentre nelle altre due si sente lo Zarathustra di Strauss: la presenza di quella che resta la musica con cui il film si identificherà, si realizza in momenti di “conquista”, per la scimmia e, più ambiguamente, per Bowman (e al solito sarà una falsa conquista), sono due momenti di “forzatura”, espressi nella tripla ascendenza, in cui si avverte l’inesplorato. Ligeti rimane invece l’impossibile traduzione del caos, dell’indecisione. 28 Alludo naturalmente al saggio del 1924 II montaggio delle attrazioni cinematografiche, ora in S.M. EJZENSTEJN, Il montaggio, a cura di P. Montani, Marsilio, Venezia 1986, pp. 227250. Sulla citazione letterale di procedimenti cinematografici propri del maestro sovietico (notevole, considerando la generale autoreferenzialità kubrickiana) in 2001, rimando alle pun­ tuali osservazioni di Sandro Bernardi nel suo saggio più recente dedicato al film (pp. 240242).

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Quel che è certo, come si vede, è che il monolito è l’anello molti­ plicato che forma la catena che tiene unito il film e che garantisce una corrispondenza tra i vari segmenti, quanti essi siano; 2001, in poche parole, è interamente suggestionato dal monolito. Questo suo tagliare il film è ciò che ha portato Dumont e Monod a negargli la responsabi­ lità degli sviluppi che caratterizzano l’andamento dell’opera e a ve­ dervi nient’altro che «le signe d’une structure sous-jacente dont la fonction est de faire ressortir la permanence en chacune des articula­ tions essentielles du récit.»29 Da parte nostra, il monolito è visto come la struttura permanente di lévi-straussiana memoria che lega passato-presente-futuro, non tanto l’agente di storia, quanto addirittura la Storia nella sua immutabilità, reificata nella paradigmaticità del mito, del tutto irriconoscibile eppure sempre presente: la condanna dell’uomo a ritornare sempre sui suoi passi è implicita nella presenza indifferente del parallelepipedo nero. Del resto è curioso notare che il cerchio, che in 2001 è elemento ri­ cercato di continuo (dai pianeti alle astronavi, dall’occhio di Hai alle capsule, dal feto fino alla musica circolare per eccellenza che è il val­ zer di Johann Strauss), sia confermato a un livello più alto dall’unico elemento che contraddice in pieno quella forma (e che è per di più ac­ compagnato o dagli impazziti suoni dodecafonici di Ligeti, o dal ritmo ternario e ascendente dello Zarathustra). Nel breve racconto di Clar­ ke da cui il film ha tratto ispirazione, l’oggetto misterioso, la sentinel­ la posta silenziosa a guardia dello spazio, aveva «una struttura scintil­ lante, di forma quasi piramidale alta il doppio di un uomo, incastonata nella roccia come una gigantesca gemma dalle mille sfaccettature». Kubrick fu in un primo momento tentato di mantenere la forma pira­ midale, ma poi pensò che le implicazioni simboliche si sarebbero rive­ late eccessive e così finì con l’optare per un parallelepipedo alto e sot­ tile, perfettamente levigato, che fosse tutto e niente, che non permet­ tesse, come forse la piramide avrebbe fatto, di fare del mistero un enigma30. «Svuotato di senso, diventa immagine della pura possibilità, 29 J.-P. Dumont, J. Monod, op. cit., p. 203. 30 Racconta Alexander Walker che «In one early script for 2001: A space Odissey the “burglar alarm” found on the moon was envisaged as a tetrahedron, its base and three sides forming an equilateral triangle about fifteen feet high, because it had more surface area per volume than any other design and was thus the optimum one for a sun-powered device. It did

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detf apertura illimitata del senso». Kubrick sceglie coscientemente un esempio di arte minimale, una riduzione della scultura che riporta verso le strutture primarie (il regista stesso parla per il monolito di «una specie di archetipo junghiano e anche un esempio carino di “arte minimale”»31 32) e, inserita in uno spazio reale, lo qualifica. Fu lo stesso regista a riconoscere di aver guardato alla minimal art e in particolare all’esperienza di Bob Morris, le cui sculture, parallelepipedi, cilindri o forme spezzate, volevano rimandare ad una semplicità ancestrale, do­ ve ogni apprendimento o memoria siano inscindibili dalla percezione visiva. Non per nulla De Bernardinis richiama la grande mostra che si tenne a New York nel 1966 col titolo di Primary Structures.33 Il monolito, sintesi di luce-spazio-materia, può dunque apparire fa­ cilmente come la divinità che avvia il processo di intelligenza che scatta nella scimmia, che richiama al mistero gli avanzati scienziati del 2001, che ne testimonia la sconfitta e la rinascita. E a proposito di di­ vinità: nel suo diario di lavorazione, Arthur C. Clarke annotava, in da­ ta 2 ottobre 1964, che la lettura del testo di Robert Audrey «African Genesis», che si interrogava sull’uomo primitivo e l’estinzione, offri­ va uno spunto per un eventuale titolo. Audrey diceva che per strane collisioni di raggi o per un dono delle stelle, l’intelligenza non era pe­ rita; è chiaro che a quella fase del progetto il discorso sulla nascita dell’intelligenza e sul misterioso garante della sua perpetuazione era preponderante, perciò lo sceneggiatore scrisse: «True, Audrey is tal­ king about cosmic-ray mutations, but the phrase a gift from the stars is strikingly applicable to our present plot line.»34 Il monolito rappresenta quindi un problema dal punto di vista del significato: simbolo di “avanzamento” della storia, segno di una strut­ tura soggiacente, Storia in quanto tale. Ma rappresenta anche un pro­ not survive into the finished film, the mythical property of the monolith being preferred to the logical ones of the tetrahedron, but this shows how scrupulously Kubrick takes every aspect of his work.» Cfr. A. Walker, op. cit., p. 129. 31 S. Bernardi, Kubrick e it cinema come arte del visibile, cit., p. 129. 32 Si veda l’intervista rilasciata a JOSEPH GELMIS in The Film Director as Superstar, Dou­ bleday, New York 1970, pp. 293-316, e ora tradotta in italiano in M. CIMENT (a cura di), op. cit., pp. 90-107. 33 Cfr. 2001: Odissea nello spazio. 30 voci oltre l’infinito, in «Segnocinema», n. 107, gennaio-febbraio 2001. 34 Cfr. A.C. Clarke, Lost worlds of2001, cit

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blema dal punto di vista del significante: Dumont e Monod, tra i pri­ mi, vi videro la metafora dello specchio, che restituisce allo spettatore la stessa ossessione ideal-simbolista che lo attanaglia di fronte a que­ sto oggetto misterioso. Metafora che, si sa, la psicoanalisi ha interpre­ tato in relazione alla crescita e alla maturazione dell’essere umano; ed è ben noto quanto il cinema restituisca questa metafora dello specchio alla perfezione, secondo un procedimento che, dopo le pagine illumi­ nanti del Metz di Cinema e psicanalisi, pare superfluo ripercorrere.35 Il monolito è uno schermo cinematografico al negativo, nero, su cui nulla si può proiettare, o su cui sono proiettati i segreti profondi dell’uomo e della sua esistenza36, visibili per un attimo solo a Bo­ wman morente, quando alza il dito verso il parallelepipedo come se vi avesse scorto qualcosa di familiare (heimlich)’, invisibili, anzi odiosi per gli uomini sulla Luna, assordati da un sibilo orripilante; inconce­ pibili per le scimmie che ne traggono solo la rude violenza che vi sta compressa. Ma se torniamo alla suddivisione in cinque parti del film, potremo arrivare a intendere un’ulteriore interpretazione del monolito che, ir­ robustendo ancora la struttura mitica del film, ci confermerà della va­ lenza storica della misteriosa pietra, anzi di “portale” della Storia e manterrà vivo il rapporto fondamentale tra significato e significante. Nel segmento Missione Giove il monolito effettivamente non appare ed esso resterebbe l’unico segmento privo di questa presenza. A tale mancanza si è cercato di ovviare seguendo una pista interpretativa che vedeva in Hai un doppio del monolito, o una «controrima» secondo Chion. Tuttavia è scorretto istituire un’ identità, una simmetria o an­ che un’opposizione, tra Hai e la misteriosa pietra nera: anzitutto per­ ché Hai ha poco di misterioso, la sua presenza è giustificata dai tra­ guardi raggiunti dalla conoscenza umana e dall’evoluzione della civil­ tà, addirittura di elaboratori di quel tipo se ne possono fabbricare di­ versi e infatti Hai ha un gemello (che sarà quello che svelerà il suo fa­ tale errore). Hai è costruito perché possa riprodurre (to reproduce), o 35 Si veda CH. METZ, Cinema e psicanalisi (1977), traduzione di D. Orati, Marsilio, Vene­ zia 2002, pp. 53-70. 36 Si consideri che inizialmente Kubrick pensò di sovraimprimere sull'immagine del mo­ nolito inquadrature di suggestione ipnotica, con le scimmie carnivore che ammaestravano le scimmie-uomo. Cfr. M. CHION, Un’Odissea del cinema, cit, p. 130.

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meglio imitare (to mimic) le funzioni del cervello umano, mentre il monolito è esattamente ciò che sfugge a quelle funzioni. Potrà esser vero, al massimo, che Hai è in qualche modo una risposta parziale laddove il monolito è una domanda incommensurabile, ma non si po­ trà piegare la struttura del film, per farla quadrare, sostenendo che nel segmento Missione su Giove il monolito sia sostituito dall’elaboratore. L’Intervallo, a questo punto, viene ad assumere un ruolo tutt’altro che accessorio. Questa pausa nera viene a interrompere il momento di spannung del film, quando Hai legge sulle labbra di Dave e Frank l’intenzione di scollegarlo nel caso si riveli infondata la sua previsione di avaria. La tensione all’interno del Discovery va in direzione di una nuova lotta, tra l’uomo e la macchina; l’interruzione lascia il pubblico interdetto, secondo un procedimento classico da romanzo a puntate o da serie televisiva. Tuttavia se questo intermission avesse solo fun­ zione divisoria tra un primo e un secondo tempo, non avrebbe senso lasciare lo schermo nero e soprattutto inserire nel commento musicale Atmosphères di Ligeti, autore abbandonato col Requiem sulla Luna e sostituito, in una parte di film dove invero le musiche sono meno pre­ ponderanti, da Khacatuijan. La visione dell’intervallo permetterà di fare luce anche sulla strana premessa che anticipa addirittura i titoli di testa: un lungo momento di nero (2'50") commentato da Atmosphères, musica che in 2001 ricomparirà soltanto durante l’intervallo e il famo­ so trip. Questa insistenza sul nero non può, a nostro avviso, essere dissociata dal nero per eccellenza del film che è il monolito. Il mono­ lito dunque pre-esiste al film (anticipa i titoli di testa; Atmosphères precede Zarathustra) e viene con forza richiamato nel pieno dell’azione, nel momento in cui lo spettatore potrebbe aver perso con­ tatto con il mistero, tutto intento a chiedersi come faranno Dave a Frank a sfuggire al ciclopico Hai (che non si può accecare e che non ha pecore). Il rimando tra i due neri, garantito dalle musiche che prendono parte al sistema di rime ideato da Kubrick, si collega a sua volta col trip che è, come abbiamo detto, l’esplosione degli elementi del film ed è la strada indicata dal monolito fluttuante nello spazio. La ricerca del nero come figura del monolito è confermata da una lettura di Ferrini suggestiva e pertinente nella speculazione sul linguaggio condotta da Kubrick, per la quale il monolito sarebbe un puro effetto di scrittura fìlmica e precisamente la dissolvenza sul nero: questa in­

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terpretazione poggia sul carrello ottico che nel finale si avvicina al monolito fino a perdervisi, lasciando nero lo schermo prima che, nell’inquadratura successiva, appaia il feto.37 Consideriamo il fatto che Kubrick confessò a Ciment di non amare particolarmente le dis­ solvenze e osserviamone l’uso in 2001 e avremo rafforzato la tesi di Ferrini38: nel film infatti la dissolvenza sul nero compare cinque volte e privo del significato sintattico che generalmente ricopre. La dissol­ venza sul nero vuole segnalare uno stacco netto che denota un passag­ gio di tempo di una certa entità neH’economia narrativa del racconto. In 2001 la troviamo utilizzata per ben due volte ne L’alba dell’uomo, a chiudere le inquadrature 39 e 51. Nel primo caso segue l’attacco del ghepardo a una scimmia, nel secondo un totale di paesaggio al tra­ monto. Nell’atemporalità esibita della preistoria kubrickiana, sottoli­ neata dal ripetersi di piani vuoti, lo scorrere del tempo che la dissol­ venza vorrebbe sottolineare perde di senso. Sembra quasi che Ku­ brick voglia preannunciare qualcosa, qualcosa di difficile da compren­ dere, ma che romperà l’atemporalità in cui vivono gli animali: all’inquadratura 53, poco dopo la seconda dissolvenza, fa la sua appa­ rizione il monolito e da qui in poi, in questo segmento, di dissolvenze sul nero non ne vedremo più, e ne riscontreremo l’uso ancora una vol­ ta sulla base spaziale dopo rincontro di Floyd coi russi, dopo che Bo­ wman ha scollegato Hai e ascoltato il messaggio preregistrato e infine al momento dell’ultima apparizione quando lo schermo si fa nero per­ ché la macchina da presa, il film, o Bowman, viene ingoiato letteral­ mente dal monolito. Il monolito è quindi un gorgo in cui sia la Storia che il film vengo­ no attirati ed è il bang, nero che precede l’origine della vita e del ci­ 37 F. FERRINI, I generi classici del cinema americano, in «Bianco & Nero», n. 3-4, marzoaprile 1974, pp. 97-98. Questa interpretazione che fa del monolito un effetto di scrittura fil­ mica, richiama all’universalità del linguaggio cinematografico di cui il monolito sarebbe figu­ ra e su questa strada potremmo incontrarci con la lettura che, in un saggio che si propone di avviare uno studio sui rapporti tra il cinema e il barocco, offre Giaime Alonge: il parallelepi­ pedo nero è nuli’altro che l’Universelle Sprache, la lingua edenica, visiva, diretta e, aggiun­ giamo, sintetico-mitica. Si veda G. ALONGE, Il monolito e il geroglifico. Ipotesi per uno stu­ dio delle interrelazioni tra cinema e barocco a partire da 2001: Odissea nello spazio, in G. Carluccio e F. VILLA (a cura di), Il corpo del film. Scritture, contesti, stile, emozioni, Caroc­ ci, Roma 2006, p. 76. 38 Si veda M. ClMENT, op. cit., p. 197.

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nema e della cui presenza Kubrick cosparge 2001 di indizi. Bisogna fare attenzione a distinguere questa che è l’Alfa e l’Omega (è il regista stesso che non teme di nominare Dio), da ciò che è solo suo prodotto (come Hai), da ciò che è conseguenza di un libero arbitrio cui Kubrick non nega valore, ma che resta incanalato nel circolo di un unico sen­ tiero lungo il quale è misteriosamente eterodiretto39; bisogna fare at­ tenzione a non smarrire il monolito nella sua stessa forza metonimica. Il mistero soprassiede l’inizio e avvia un processo di civiltà che l’uomo scorderà nella sua originalità, rimuoverà e per questo, come vuole la coazione a ripetere freudiana (e Freud era una delle letture più profonde e dichiarate di Kubrick), ripeterà all’infinito, sotto l’influsso di quell’inizio mitico che ritroverà a tratti sulla sua strada e alla fine, quando la lastra levigata verrà a coincidere con un’idea di Storia come insieme di avvenimenti pensati e ricordati40: portatrice di pensiero in un passato mitico, specchio, infine, di una memoria archetipica spa­ ventosa che balena tra gli ultimi sospiri della coscienza di Bowman. Per queste ragioni il monolito è la Storia, anzi è la Porta per la quale la Storia dell’uomo passa per riuscirne sempre uguale, come uguale è l’uomo che la vive: esce da lì, certe situazioni la obbligano a riattra­ versarla, fino al momento in cui deve rientrarci per poi uscire di nuo­ vo.41 C’è un passo di Nietzsche che ritengo di rilevante interesse in que­ sto senso e che riporto di seguito: ...il nano mi saltò giù dalla spalla, il curioso! E si accoccolò su una pietra davanti a me. Ma là dove ci eravamo fermati era giusto una porta maestra. Guarda questa porta nano! - continuai io - Ha due facce. È il punto di con­ vergenza di due strade: nessuno le percorse mai fino in fondo. Questa lunga via fino alla porta dura un’eternità. E quella lunga via al di là della porta è un’altra eternità. Si contraddicono questi due cammini; cozzano con la testa uno contro l’altro: e qui, a questa porta maestra, è il punto dove convergono. 39 Al riguardo si veda R. Eugeni, Invito al cinema di Kubrick, Mursia, Milano 1999, p. 75. 40 Devo questa definizione a Roberto Campari. 41 Flavio De Bernardinis (in L’immagine secondo Kubrick, Lindau, Torino 2003, pp. 47-sgg.) ha inteso il monolito come Porta (figura cardinale dell’iconografia kubrickiana che lo studioso affronta in relazione ad ogni film del regista), ma come Porta della Legge, riferendo­ si alla famosa metafora de II processo di Franz Kafka, altro autore prediletto da Kubrick. Tut­ tavia la Legge, pur nella sua metafisicità, è uno statuto umano che riduce la grande apertura di senso del monolito e che non dà ragione delle “premonizioni” su cui ci siamo soffermati.

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Il nome della porta maestra è scritto lassù in alto: Attimo. Ma chi ne percor­ resse uno dei due sempre avanti, sempre più lontano, credi, nano, che questi cammini si contraddicono in eterno? - Tutto quel che è rettilineo mente - mormorò con disprezzo il nano. Tutte le verità sono ricurve, il tempo stesso è un circolo - ,42

Nietzsche era, notoriamente e nel caso di 2001 in particolare, una delle letture più frequentate da Kubrick, eppure una delle più “tradite”: seguito letteralmente nella potenza immaginifica delle sue parole, spesso la base delle sue teorie non si incontrava con il pensiero del re­ gista ed era questo un atto di libertà e autonomia anche rispetto ai mo­ delli più alti. Ma è una questione che dovremo riprendere oltre.

3. L’atto fondatore (s)velato C’è una famosa formula che Cicerone scrive nel suo trattato volto alla formazione del perfetto oratore, che ha avuto una fortuna spropo­ sitata e che ancora oggi, seppur con maggiori cautele, ci si trova spes­ so ad ascoltare e magari a ripetere: Historia magìstra vitae. Da qui è partita nella civiltà occidentale l’attribuzione di un valore educativo alla Storia. Una Storia, dunque, che veniva a prendere il posto della mitologia per adempiere la sua stessa funzione: del resto nelle società prive di scrittura e di archivi la mitologia ha la funzione di assicurare che il futuro rimarrà fedele al presente e al passato43. Una somma di exempla come ammonimenti, che procede dalla presupposta immuta­ bilità dell’uomo e del cosmo. E Kubrick avrebbe di che essere d’accordo, il meccanismo parrebbe a prova d’errore: l’uomo è sempre uguale, in un cosmo sempre uguale e quindi può trarre vantaggio dalla ripetizione necessaria di determinati eventi. Ma il problema è un al­ tro: questa visione pretende che l’uomo non solo domini dall’alto il suo passato, ne sia come estraneo, esterno, non ne sia imbevuto, ma soprattutto che l’uomo cambi il corso degli eventi sulla base degli in­ 42 F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, traduzione di A.M. Carpi, Newton Compton, Roma 1980, p. 123. 43 C. Lévi-Strauss, Mito e significato, cit, p. 55.

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segnamenti di questa sedicente magìstra, impresa quanto mai ardua se è vero che l’uomo è, appunto, identico. L’uomo kubrickiano è vittima di un misconoscimento, di uno slit­ tamento che lo porta a ripetere una Storia di cui non può in alcun mo­ do essere padrone perché vincolato a questa rimozione primordiale, che non consente di giungere alle ragioni reali dell’atto fondatore. Già da questa definizione risulta chiaro il debito che Kubrick ha nei con­ fronti del concetto freudiano di coazione a ripetere: «l’analizzato non ricorda assolutamente nulla degli elementi che ha dimenticato e ri­ mosso, [...] egli piuttosto li mette in atto. Egli riproduce quegli ele­ menti non sotto forma di ricordi, ma sotto forma di azioni; li ripete, ovviamente senza rendersene conto.»44 È assai probabile che tale concetto giunga a Kubrick da uno dei saggi freudiani da lui più amati e cioè quello sul Perturbante (1919), dove Freud toma sulla coazione a ripetere vincolandola più esplicitamente ai primordi della storia in­ dividuale, ma anche collettiva, in una dimensione meno clinica e più antropologica.45 In un certo qual modo Kubrick piega la teoria freu­ diana all’esigenza di un grande rito che racconta film per film, rito che ingessa la Storia senza potervi realmente incidere e che maschera e dissimula il vero rimosso del mito. 2001, il mito, racconta nelle prime 101 inquadrature questo rimosso, fìssa l’inizio della Storia in un as­ sassinio, in un atto di violenza che origina ogni pratica rituale e ogni significato mitico (come affermava altrove Freud, in Totem e tabù). Ed è in questo sentimento di crisi che reclama una vittima che Ku­ brick, spogliandosi di ogni preoccupazione di ortodossia psicoanalitica o di logica strutturalista, incontra, ma soprattutto si offre al pensiero di René Girard. In La violenza e il sacro Girard sistematizza compiutamente le co­ ordinate della sua teoria, alla ricerca della fondazione mitica della so­ cialità umana. Secondo l’antropologo francese l’evento che è da in­ tendere quale fondatore di un ordine culturale è l’uccisione di una cre44 S. FREUD, Ricordare, ripetere e rielaborare, traduzione di C.L. Musatti, in Opere 19121914, Boringhieri, Torino 1985, voi. VII, p. 356. 45 Freud perfezionerà ulteriormente la sua teoria in Al di là del principio di piacere. Il rapporto tra questa parte del pensiero dello psicanalista e il cinema kubrickiano in senso este­ so è stato studiato per primo da Sandro BERNARDI, Kubrick, Freud e la coazione a ripetere, in «Bianco & Nero», n. 5, settembre-ottobre 1999.

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atura mitica da parte di altre creature mitiche (lo stesso Freud in Totem e tabù fissava l’origine di ogni significato mitico in un’uccisione rea­ le, ma non faceva di questa uccisione il nucleo di partenza del suo pensiero, come invece intende fare Girard). Su questo atto di violenza primordiale riposa tutto e cresce una ritualità che, per spostamento, continua a ripetere il meccanismo fondatore, ma sostituendo al paros­ sismo della violenza reciproca un altro circolo vizioso, quello di una violenza rituale, creatrice e protettrice. Anthony Storr, in un libro pubblicato a Londra nel 1968 e intitolato Human Aggression, aveva studiato i meccanismi fisiologici della vio­ lenza, osservando come essi mutino ben poco non solo da un indivi­ duo ad un altro o da una cultura ad un’altra, ma addirittura da una spe­ cie ad un’altra.46 Convinzione, questa, che rileviamo in tutto il cine­ ma di Kubrick e, letteralmente teorizzata, in Arancia meccanica che si lega a 2001 fin dalla prima inquadratura (dagli occhi del feto all’occhio di Alex) e prosegue nel ralenti sulla figura di Alex, defor­ mato dal grandangolo, che mentre picchia i suoi drughi si muove esat­ tamente come la scimmia dell’alba dell’uomo. Alex rappresenta esplicitamente «l’inconscio, l’uomo allo stato naturale. Con la cura Ludovico è stato civilizzato, e la malattia che ne segue può esser vista come la nevrosi imposta dalla società.»47 Questa violenza primigenia e ineliminabile è ciò da cui una comu­ nità che si dà una forma sociale cerca di proteggersi, evitando che essa si riversi al suo interno finendo per colpire i membri stessi. Il sacrifi­ cio diventa il risultato di un’unanimità che sfoga la violenza su una vittima “sacrificabile”: esterna alla società, incapace di suscitare ven­ detta, ma che mantenga «una somiglianza, la più incisiva possibile, con le categorie (umane) non sacrificabili, senza che però la distinzio­ ne perda di chiarezza, senza che sia mai possibile confusione di sor­ ta.»48 È da questa sostituzione sacrificale che procede il misconosci­ mento e che fa sì che Girard non esiti a definire “falso” il sacrificio: l’utilità di questo transfert collettivo sta nel fatto che esso priva gli uomini di un sapere, quello della loro violenza, col quale risulta im­ 46 Citato in R. GIRARD, La violenza e il sacro (1972), traduzione di O. Fatica e E. Czerkl, Adelphi, Milano 2003, p. 14. 47 Intervista a Ciment, in M. CIMENT, op. cit., p. 149. 48 R. Girard, La violenza e il sacro, cit, p. 27.

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possibile coesistere. Ecco che, come accennavamo nell’introduzione, la memoria dell’uomo si rivela un prodotto sociale, che sorge da ur­ genti esigenze sociali, più che storico e pone già in un primo scacco la condizione umana di fronte alla conoscenza della sua Storia. Quella sacrificale è dunque una vera e propria catarsi volta ad im­ pedire la propagazione disordinata della violenza, volta ad impedire il contagio che deriva dagli incredibili effetti mimetici che la violenza reca in sé. L’origine del mito si situa nell’arresto del contagio, della violenza reciproca (cioè non incanalata, non regolata) e proprio il con­ tagio e la violenza reciproca divengono il grande rimosso del mito, sempre taciuto e ripetuto: d’altra parte, a ben analizzare i miti d’origine, non sarà difficile scoprire che in essi convivono paritetica­ mente, e anzi indissolubilmente, l’elemento religioso e quello violen­ to. Come si vede avremmo già un po’ di materiale che ci potrebbe aiutare a capire meglio il mito di fondazione kubrickiano e ancor più la ritualità cieca che ne consegue nei film successivi, ma per andare a fondo della ricerca e della rielaborazione di questo rimosso mitico, occorre spendere qualche parola sul concetto di crisi sacrificale. La crisi sacrificale è la perdita del sacrificio, la perdita di differenza tra violenza impura e violenza purificatrice: in un certo senso è la premessa cruenta al sentimento del sacrificio come garanzia di coesi­ stenza pacifica. La crisi è avviata da una rivalità prolungata tra due soggetti, rivalità che inasprisce sempre più il potenziale mimetico del­ la violenza e che accresce la specularità tra gli avversari. Per questa ragione la crisi sacrificale è anche detta da Girard crisi delle differen­ ze, in cui i contendenti si ritrovano uguali, doppi, accesi da un furore che va presto al di là dell’oggetto del contendere e si incentra sul loro essere simmetrici. È da questa situazione che trae origine la paura primitiva nei confronti dei gemelli, o il mito biblico e poi psicoanaliti­ co dei fratelli nemici. Questa situazione di violenza indifferenziata e reciproca trascina l’intera comunità nel terrore e nel pericolo del con­ tagio e pertanto è necessario che il furore si orienti su una vittima espiatoria che, diversamente dalla vittima sacrificale o rituale, è interna alla comunità. Sull’eliminazione di questa vittima (capro) espiatoria si fonderà non soltanto il ritorno all’ordine e alla pace, ma il rito che mira a perpetuare questo ritorno e che fa della vittima il centro del mi­ sconoscimento, il mistero mai chiarito. I due rivali diventano l’uno

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modello dell’altro, sul piano del comportamento, ma soprattutto sul piano del desiderio e il desiderio ha una natura essenzialmente mime­ tica di cui ora ci appaiono i rischi. Dice Girard: «Lo stesso, il simile, nei rapporti umani, evoca un’idea di armonia: abbiamo gli stessi gusti, amiamo le stesse cose, siamo fatti per intenderci. Che accadrà se avremo davvero gli stessi desideri1?»49 La fine delle differenze dà luo­ go alla nascita dei doppi, in cui le differenze non sono abolite, ma confuse, mischiate, la cui intercambiabilità è per lo meno inquietante: «i doppi sono sempre mostruosi; i mostri sono sempre sdoppiati.»50 Verrà alla mente, del tutto pertinentemente vista la conoscenza pro­ fonda di Freud che è in Girard, il paragrafo secondo del saggio sul Perturbante, dove lo psicoanalista si sofferma sul carattere perturban­ te del sosia (che è una possibile variante del concetto di doppio) ed è inutile ribadire che questo saggio era una delle letture dichiarate che più affascinavano Kubrick. Ma veniamo al film. L’alba dell’uomo ci mostra una terra desertica sulla quale vivono alcune specie animali. L’attenzione è rivolta so­ prattutto a un branco di scimmie, la cui esistenza pare di coesistenza pacifica nei confronti di alcuni tapiri e minacciata, invece, dalla pre­ senza di predatori carnivori (il ghepardo). Da subito si avverte la pre­ senza di una violenza impura che tiene le scimmie nel terrore, nella paura di una propagazione improvvisa in seno alla comunità: del resto è necessario che qualcosa accada per potersi organizzare come comu­ nità. Le inqq. 24-39 di questo primo segmento, pongono il problema: alcune scimmie si trovano nei pressi di un piccolo stagno che sembra rappresentare l’unica risorsa idrica di quella landa desolata; un altro gruppo, di tre scimmie, sta scalando una piccola collinetta di roccia come per spiare ciò che avviene attorno allo stagno; d’un tratto le scimmie che si trovano vicino all’acqua si accorgono di essere osser­ vate e cominciano ad urlare; i due gruppi ora si fronteggiano con versi acuti e minacciosi: la rivalità è aperta, lo stagno diventa l’oggetto di una rivalità mimetica. Kubrick rende questa rivalità molto bene con­ trapponendo i due gruppi in maniera molto netta, mostrandone la simmetria e soprattutto la completa assenza di differenze: le scimmie 49 Ivi, p. 205. 50 Ivi, p. 226.

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sono tutte uguali, nessuna è in grado di spiccare sull’altra (nel film non si cerca affatto di staccare dalle altre un possibile protagonista, come invece farà Clarke nel romanzo che trarrà dal film, indicando in Moon watcher la scimmia che perverrà all’intelligenza e diverrà capo per le altre; erroneamente questo nome, che in italiano diventa Guarda-la-luna, viene talvolta impiegato anche nell’analisi del film). Questo primo scontro tra i due gruppi si è fondato semplicemente sulla minacciosità degli sguardi e dei versi; in questo caso l’atto del vedere è ciò che anzitutto instaura la rivalità fondata sul desiderio mimetico (fa sorgere un atteggiamento etimologicamente invidioso51). Le inqq. 40-51 mostrano la vita delle scimmie dopo che la minaccia si è dichiarata: è notte e un ristretto numero di ominidi sta in una caver­ na, stanno stretti, spaventati, mentre fuori campo si odono strani versi; uno di loro tiene tra le braccia un cucciolo; per la prima volta Kubrick ci offre il primo piano ansioso di una scimmia (inq. 50). Poco dopo farà la sua apparizione il monolito (inq. 53), le scimmie sembreranno come riunite dalla sua presenza, ma le inqq. 60-78 mostreranno invece che una di loro ha imparato ad usare un osso che giaceva abbandonato al suolo come arma e con violenza inaudita (terribile il primo piano dell’inq. 65) comincia a rompere le altre ossa, mentre nel montaggio irrompono scene di morte. L’inq. 79 vede entrare in campo una scimmia con Fosso-arma in una mano e della carne nell’altra: tutte le scimmie ora mangiano car­ ne, non sono più loro il cibo alla mercè dei predatori; alcuni cuccioli giocano con delle ossa, che ormai hanno perso del tutto la loro inoffensività. La violenza reciproca, e il contagio che ne consegue, cresce sempre più e lo stagno ormai non è altro che l’oggetto lontano di una rivalità fondata ora sull’assenza di differenza, sulla disperata specularità dei due gruppi: nelle inqq. 87-sgg. la crisi tocca l’apice e si risolve. Uno dei rivali attacca un altro con l’osso, lo colpisce violentemente e lo stende a terra, quindi si accanisce fino ad ucciderlo, mentre gli altri battono in ritirata. La vittima espiatoria, caricata dell’intera responsa­ bilità della crisi, rinsalda l’unità del gruppo, arresta il contagio: «gli 51 Sulla pericolosità mimetica della reciprocità visiva si veda quanto scrive ROBERTO Escobar, richiamando Girard, in La libertà negli occhi, Il Mulino, Bologna 2006, p. 54.

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uomini - osserva Girard - devono alla vittima espiatoria ancor più di quanto non avessimo sinora supposto; le devono sia l’impulso che li trascina alla conquista del reale sia lo strumento di tutte le loro vittorie intellettuali, dopo aver fornito la protezione indispensabile sul piano della violenza.»52 Ora l’arma può anche essere gettata via, come fa la scimmia, perché la violenza è stata regolata, procederà nel rito, sarà purificatrice e non più impura, ora una differenza, finanche gerarchica, c’è. Il monolito, che torna alla mente della scimmia mentre l’osso di­ venta nelle sue mani arma d’offesa, è ciò che, come la vittima espiato­ ria, sarà misconosciuto: prodotto di intelligenza aliena, si penserà, e non oggettivazione del processo storico che soprassiede e livella ogni conquista dell’uomo e che gli appartiene in profondità, ma così in pro­ fondità da non poter riaffiorare: la consapevolezza dell’esistenza di una vittima espiatoria costituirebbe la possibilità di fissare un inizio, ma ci ricaccerebbe nel più pericoloso dei circoli viziosi. Parlando di 2001, Girard notava questa contraddizione apparente: «anche se il meccanismo [che causa e risolve la crisi] è del tutto endogeno, viene percepito come esterno (ecco perché Kubrick e Clarke lo rappresenta­ no come un monolito venuto da chissà dove). [...] Questo dono di una pace ritrovata e il legame istintivo percepito dal gruppo inducono poi la mente primitiva a ripetere mimeticamente quell’evento, sentito co­ me il modo più efficace di ottenere pace e solidarietà all’interno del gruppo in momenti di crisi.»53 La scelta di Kubrick per le scimmie antropoidi, poi, non risponde ad un semplice adeguamento alla teoria darwinista, come in troppi hanno creduto (e alcuni scritto), teoria della quale il regista è un acce­ so contestatore. La strada che Kubrick sceglie di percorrere procede direttamente da un organo che è divenuto figura chiave del suo cine­ ma: il cervello.54 Ciò che particolarmente interessa a Kubrick del cer­ 57

R. Girard, La violenza e il sacro, cit, p. 325. 53 R. Girard, Origine della cultura e fine della storia, traduzione di E. Crestani, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003, pp. 76-77. Il primo accostamento tra il pensiero girardiano e 2001: Odissea nello spazio, si trova in un lavoro di uno dei maggiori esegeti dell’antropologo francese: G. Fornari, Fra Dioniso e Cristo. La sapienza sacrificale greca e la civiltà occi­ dentale, Pitagora, Bologna 2001, pp. 17-18. 54 Si dovrà naturalmente vedere ciò che ha scritto al riguardo GILLES DELEUZE, L’immagine-tempo (1985), traduzione di L. Rampello, Ubulibri, Milano 2001, pp. 227-228.

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vello sono le sue possibilità riproduttive e imitative: non è per nulla un caso che il presentatore della trasmissione della BBC che illustra la missione del Discovery faccia notare, come dicevamo, che l’eccezionaiità di Hai sta nella capacità di riprodurre (to reproduce), anzi di imitare (to mimic) le funzioni del cervello umano. Girard, a sua volta, insiste sul fatto che non vi sia nulla o quasi, nei comporta­ menti dell’uomo, che non venga appreso per imitazione, coerentemen­ te con quella «enorme macchina per imitare» che è il cervello; e come esempio adduceva il comportamento, tra i mammiferi superiori, delle scimmie. È evidente che Girard sta tentando di dimostrare che il pro­ cesso stesso di ominizzazione va considerato a partire dalla mimesi di appropriazione e dai conflitti ad essa connessa e che la rottura tra l’animalità e l’umanità sarà la rottura dell’assassinio collettivo; mentre Kubrick cerca, come ha ben visto Deleuze, di raddoppiare la forma e le funzioni del cervello umano nel mondo, mettendo le possibilità ri­ produttive e imitative del cervello dell’uomo di fronte all’irrazionalità del mondo che abita e all’imperfezione delle sue creazioni. Nei film di Kubrick non si riesce a giungere ad una sintesi di questo confronto, si arriva ad un irrigidimento, ad una rottura: «Il dentro [cioè l’inconscio] è la psicologia, il passato, l’involuzione, tutta una psico­ logia del profondo che mina il cervello. Il fuori [cioè il mondo che si vorrebbe cervello] è la cosmologia delle galassie, il futuro, l’evoluzione, tutto un sovrannaturale che fa esplodere il mondo.»55 Nell’ottica deleuziana l’uomo (il dentro) ha coordinate spazio­ temporali irrecuperabili e dunque inutilizzabili, il mondo (il fuori) gliene offre di imprendibili: quel che ne deriva è il cortocircuito di un Icaro che non demorde e cerca di allineare, di fondere, il dentro e il fuori. Il punto di incontro sta nella volontà di smascherare il desiderio che sta alla base del gesto mimetico (che in Kubrick si ribadisce nell’uguaglianza dei suoi personaggi, nell’insistenza sui doppi, nella circolarità ossessiva e rituale del suo stile), gesto che è responsabile dell’educazione e della Storia umana: la psicoanalisi ha dimostrato che la repressione del desiderio è il fenomeno umano per eccellenza e ciò viene a nascondere la tensione al mimetismo. 55 Ivi, p. 228.

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Dall’analisi del primo segmento del film alla luce della crisi sacri­ ficale e delle teorie mimetiche, è emerso quello che è il pensiero fon­ damentale di Kubrick sull’uomo e sulla sua esistenza: mosso da una violenza che gli è connaturata e alla quale non può sfuggire, l’essere umano vive in virtù di un misconoscimento che ha rimosso il vero mo­ tore della sua storia civile e sociale e da questo circolo che lui stesso ha creato non riesce ad uscire. Il lancio dell’osso si presta così ad un’interpretazione che lo intenda come la rinuncia alla lotta, l’emendazione dalla violenza reciproca verso una violenza purificatri­ ce fondata sul sacrifìcio. Il valzer delle astronavi che altro non è che la trasformazione dell’osso, ci svela un mondo meccanico dove tutto pare creato e sottoposto ad una mente razionale ed evoluta; alcune astronavi richiamano i predatori preistorici, gli occhi luminosi del ghe­ pardo dell’inq. 42 tornano come schermi nelle postazioni di comando delle navi spaziali. Sul bel Danubio blu rimanda a feste eleganti, a fi­ gure precise di danza e la festa altro non è che la degenerazione, al li­ vello del significato, della ritualità primitiva. Comunque sia, ora il co­ smo è non solo conquistato, ma addirittura regolato; e l’essere umano? Il dottor Floyd, insigne scienziato, è chiamato d’urgenza sulla base spaziale di Clavius per essere messo a conoscenza di un terribile se­ greto. Clavius rimanda già all’osso usato appunto come clava, così come le stanze della base, bianche e vuote, rimandano al deserto e se­ die e tavolini futuristici alle rocce. Fin qui siamo al gioco scoperto delle simmetrie letterali, inaugurate del resto già sull’astronave che conduceva Floyd, dove, oltre alla penna fluttuante che richiamava Fosso-navicella, lo scienziato dormiva su un sedile incassato rispetto al livello del pavimento, in maniera che il suo braccio abbandonato a terra paresse quello di uno scimmione. Nell’enorme base spaziale, at­ torno a un tavolo, c’è un gruppo di scienziati russi. Floyd, di passag­ gio, si ferma con loro. I rapporti sono improntati alla più esibita cor­ tesia, l’americano e una collega russa vantano un’amicizia che coin­ volge le rispettive famiglie, ma ben presto, nella piatta conversazione, si insinua il germe della rivalità, presente nelle parole del russo Smyslov che chiede a Floyd notizie su un’epidemia di origine ignota scoppiata a Clavius per cui la base sarebbe inagibile e per cui si sareb­ be negato aiuto ad un’astronave sovietica. Il semplice discorrere di russi e americani conduceva subito alla politica dei blocchi (anche in

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un lontano 2001), cioè ad un caso eccezionale e spaventoso di violen­ za reciproca, su cui Kubrick si era già brillantemente speso nel prece­ dente film. Esiste ancora, dunque, nel mondo degli ingranaggi perfet­ ti, il sentimento di rivalità, la tensione mimetica, prerogativa del cer­ vello dell’uomo quanto la sua proiezione sul “fuori” deleuziano. Smyslov, che evidentemente non crede affatto all’epidemia, cerca di estorcere a Floyd la verità paventando il rischio che tale epidemia pos­ sa raggiungere anche le basi sovietiche: lo spazio è insomma un enorme stagno attorniato da clan organizzati in basi. Il contagio è in effetti un’invenzione, messa in piedi dagli america­ ni per proteggere l’umanità da quello che potrebbe suscitare, stando alle loro parole, un terribile choc culturale e un disorientamento so­ ciale. La paura, oltre che giustificata, rimanda esattamente alle pre­ messe mitiche dell’alba dell’uomo: la cultura e la socialità costruite sul capro espiatorio sono d’un tratto in pericolo. Il mondo costruito sul pensiero simbolico, cioè sulla traslazione di un evento reale (con relativa nevrosi), vede vacillare la logica su cui è costruito. Il conta­ gio stesso è inoltre l’equivalente della violenza reciproca, per cui si teme che possa in qualche modo ripresentarsi una crisi sacrificale di proporzioni esorbitanti, ma di natura identica a quella che aveva colpi­ to le scimmie del prologo. Del tutto naturale, dunque, che la causa di questa segretezza sia il ripresentarsi del monolito, immediatamente in­ teso dagli scienziati come qualcosa di esterno, la possibile prova dell’esistenza di un’intelligenza aliena, e non come la reificazione del segreto primordiale della storia dell’uomo. Che si tratti del monolito, in verità, Kubrick ci aveva sottilmente avvisato con il consueto proce­ dimento di scrittura, la dissolvenza sul nero: al termine della discus­ sione tra Floyd e i sovietici, al limite della crisi, Kubrick pone la terza dissolvenza di chiusura del film. La segretezza severissima attorno alla scoperta, come dicevamo sopra, vuole evitare un possibile choc culturale56 e un disorientamento sociale, oltre che, seguendo la trama con l’occhio di uno spettatore 56 Nella lunga intervista rilasciata a Eric Norden, lo stesso Kubrick ricorre a questo termi­ ne, che caratterizzerebbe, secondo gli antropologi, le società che si trovano di fronte alla sco­ perta dell’esistenza di altre società a loro ignote: ciò comporta uno sconvolgimento storico, che rivoluziona la concezione storica che una società si è nei secoli costruita. Si veda M. Ciment (a cura di), op. cit., p. 61.

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tradizionale, escludere una delle due fazioni (i sovietici) dalla gara spaziale. Ma se mettiamo in relazione questa seconda apparizione del monolito con la prima e quanto ne era conseguito, la necessità della segretezza si ammanta di un altro significato ancora. Il monolito si era presentato legato ad un atto di violenza fondatore, redento da una vittima espiatoria; l’efficacia del meccanismo deH’unanimità che si era instaurato riposa sulla segretezza, sul fatto che nessuno riesca a ri­ salirvi. Ora, col monolito, riaffiora quel rimosso, che è l’occasione di riappropriarsi della verità originaria, di scoprire su cosa poggia la so­ cietà umana, da cosa è partita la storia dell’uomo. Dice infatti Girard che a voler dissipare l’ignoranza degli uomini, si rischia di esporli a un peri­ colo maggiore, li si priva di una protezione che è una cosa sola con il misco­ noscimento [...] Infatti la crisi sacrificale è tutt’uno con un sapere che cresce man mano che si esaspera la violenza reciproca ma non sfocia mai nella completa verità; ed è proprio questa verità della violenza che, assieme alla violenza stessa, si finisce sempre per respingere nell’“aldilà”.57

Il segreto attorno all’apparizione misteriosa è dettato quindi dalla paura dell’ignoto e dalla consapevolezza che questo ignoto potrebbe portare con sé significati terribili con gravi conseguenze. Chi sembra comprendere pienamente le implicazioni legate al mo­ nolito è l’elaboratore Hai 9000. Dopo questa seconda epifania si pas­ sa al segmento Missione Giove, il più complesso e avvincente sul pia­ no della narrazione. Il centro del segmento è Hai, il personaggio più strutturato del film, più umano e piacevole dei due astronauti “gemel­ li” Frank Poole e David Bowman. Hai è stato programmato come un cervello meccanico, incapace di fallire perché non umano, non sogget­ to al sostrato di uguaglianza animale che giace nel profondo di ogni individuo. Ma Hai, oltre a riprodurre le funzioni del cervello umano, ha una straordinaria capacità imitativa, cioè mimetica, che i suoi pro­ grammatori sembrano aver tenuto poco in conto. Hai, poi, vede tutto e abbiamo già notato quanto sia centrale la potenzialità dello sguardo nel processo mimetico: l’elaboratore è vittima di una serie infinita di

57 R. Girard, La violenza e il sacro, cit, p. 192.

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sollecitazioni visive che si rifrangono in quella macchina per rn imitare che è il cervello umano e di cui esso rappresenta un doppio. Ciò che conduce Hai all’ossessione, alla tensione mimetica e alla follia è la conoscenza: Hai non è protetto dal misconoscimento che grava sugli esseri umani. Infatti, come apprendiamo dal messaggio videoregistrato di Floyd che Dave ascolta dopo aver scollegato l’elaboratore, Hai era il solo a sapere il motivo della missione, cioè a sapere del rinvenimento del monolito e di quanto potesse celarsi dietro questa scoperta. Hai sa quello che Smyslov disperatamente cercava di estorcere a Floyd e che, se l’avesse saputo, avrebbe finito con lo sca­ tenare una rivalità infinita tra sovietici e americani (cosa a cui Kubrick allude volentieri proprio per mantenere vivo, sull’onda di un mimeti­ smo violento, il rapporto tra gli ominidi del passato e gli scienziati del futuro). Hai, la macchina pensante e razionale per eccellenza, è scos­ so dal dubbio nero del monolito. Nella figura del computer tornano a toccarsi le due dimensioni dell’alba dell’uomo e del viaggio verso la Luna: messo al corrente dell’esistenza del monolito, Hai sprofonda verso una violenza impura che gli deriva dal perturbamento58 59 che que­ sta presenza comporta nei confronti della sua razionalità; da qui pro­ cede il progetto di eliminazione dei potenziali rivali. Il viaggio di Bowman oltre l’infinito reca in sé la promessa della scoperta di una forma nuova di vita intelligente (almeno è quel che pensano Floyd e colleghi), ma l’astronauta non troverà altro che se stesso, sottovuoto in una stanza che rimanda al secolo della liberazio­ 58 Reimpiegando quanto scritto da Paolo Bertetto a proposito dello “sguardo” del ritratto di Orgon in Tartufo (Tartujf, 1925) di Mumau, quello di Hai è uno sguardo sì onnisciente ma che viene «dal fittizio, dal non umano, dal non vivente, che tuttavia sembra quasi vivente: è lo sguardo di un automa.» Un tale sguardo è segno dell’artificialità deH’immagine filmica e del­ la sua capacità di creazione dell’irreale: lo sguardo dell’automa è il cinema stesso. Si veda P. BERTETTO, Il riflesso, la lacrima, il nero, in G. Carluccio, F. Villa (a cura di), La postanalisi, Kaplan, Torino 2005, p. 67. 59 II monolito è perturbante, stando a Freud, in quanto costituisce «quella sorta di spaven­ toso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare.» Cfr. S. FREUD, Il perturbante (1919), traduzione di S. Daniele, in Opere 1917-1923, Boringhieri, Torino 1986, vol. IX, p. 82. Ma lo è anche relativamente alle interpretazioni di Jentsch, citate e criticate da Freud, secondo le quali il perturbante è conseguenza del destarsi di un’incertezza intellettuale, oppure del dubbio che un oggetto privo di vita sia invece animato (e viceversa); la contrappo­ sizione animato/inanimato è stata del resto una delle chiavi di lettura proposta da Dumont e Monod.

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ne dalle credenze primitive, e pure a quel concetto che Francesco Cat­ taneo definiva di post-Storia, momento di svuotamento dell’uomo, di indifferenza e di giro a vuoto del meccanismo60; fino al ritorno del monolito che è la concentrazione e l’origine rimossa di quelle creden­ ze, oltre alla manifestazione che c’è qualcosa dentro e al contempo fuori di noi che ci costringe ad una ripetizione involontaria, «insi­ nuandoci l’idea della fatalità e dell’ineluttabilità laddove normalmente avremmo parlato soltanto di “caso”.»61

Il rapporto uomo-macchina che si profila in 2001 era particolar­ mente sentito da Kubrick che, pur non essendo certo contrario agli svi­ luppi estremi della tecnologia, si chiedeva come avrebbero convissuto in un futuro gli esseri umani e le macchine intelligenti di loro creazio­ ne, magari capaci di esistere indipendentemente e autonomamente ri­ spetto ai loro programmatori. Nella mente di Kubrick questo futuro avrebbe dovuto avere una rappresentazione cinematografica, alla qua­ le il regista attese con la consueta cura e attenzione, ma che finì per restare uno dei grandi progetti abortiti. Sto parlando naturalmente di A.I. - Artificial Intelligence, progetto che fu preso in mano da Steven Spielberg62 e realizzato nel 2001 (che coincidenza!) con una prima parte più “kubrickiana” e una seconda più confusionaria e cinemato­ graficamente “onnivora”. Se qui decidiamo di spendere qualche paro­ 60 Si veda F. CATTANEO, Il Settecento di Barry Lyndon e di 2001.Odissea nello spazio. Avvisaglie della fine impossibile, in «Cinefonim», n. 9, novembre 1999. La stanza di 2001 è stata da sempre al centro, nella sua enigmaticità, dell’interesse critico, guidato soprattutto dal fatto che anche in un film così atemporale Kubrick scegliesse di fare entrare il suo secolo e cioè il Settecento. Ogni critico ha proposto con coscienza, attraverso lo studio degli arredi, l’aderenza della camera ad uno stile. Per M. CIMENT, op. cit., p. 130, la stanza si rifa al tempo di Luigi XVI e d’accordo con lui sono E. GHEZZI, op. cit., p. 17, A. WALKER (al quale la ca­ mera riporta alla mente certe reminiscenze magrittiane), op. cit., p. 190, A. MICHELSON, op. cit., p. 148; M. CHION, Un’Odissea del cinema, cit, p. 82, allarga leggermente parlando di stile reggenza e guardando piuttosto alle raffinatezze rococò di Luigi XV; S. BERNARDI in Struttura tematica e stlistica, cit, p. 232, parla di stile Luigi Filippo, portandosi quindi dentro il XIX secolo. 61 S. Freud, Il perturbante, cit, p. 98. 62 C’è chi sostiene che Kubrick stesso pensasse a Spielberg (da lui sempre apprezzato), ma alcune dichiarazioni dell’entourage kubrickiano sembrerebbero contraddire questa idea suggestiva. Si veda per esempio la testimonianza di Philip Hobbs, marito di Katharina Ku­ brick e co-produttore di Full Metal Jacket in M. Di FlaVIANO, F. GRECO, S. Landini, Stanley and us, Lindau, Torino 2001, p. 169.

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la per questo progetto restato, pur dettagliatamente, sulla carta, è per la vicinanza sostanziale che, nelle sue linee profonde, avrebbe dovuto in­ trattenere con il segmento Missione Giove, divenendo quasi la conti­ nuazione di un’ipotetica evoluzione degli elaboratori. Kubrick aveva d’altra parte conosciuto lo scrittore inglese Brian Aldiss agli inizi degli anni Settanta, poco dopo 2001, e si era fatto mandare da lui una serie di racconti da cui sperava di trarre qualcosa. La raccolta che lo scrittore inviò al regista ne conteneva uno scritto nel 1969 e intitolato Super Toys last all summer long (I supergiocattoli durano tutta l’estate). Era la storia di un futuro in cui le nascite vengo­ no severamente controllate e, in attesa di un figlio vero, un dirigente di una società che costruisce androidi se ne porta uno a casa, David. Questa macchina è stata programmata per amare e teme di non essere corrisposto dalla sua mamma63. Al lettore, diversamente che allo spet­ tatore, è tenuta segreta fino alla fine la vera natura di David. Quando arriverà il figlio vero David sarà scaricato, ignorando la sua capacità di provare sentimenti. Kubrick era ossessionato dagli effetti speciali e rimandava conti­ nuamente il progetto per paura che non esistesse una tecnologia all’altezza delle ambizioni del suo film.64 Nel 1990 richiamò Aldiss e gli chiese di lavorare alla sceneggiatura, anche se lo scrittore era titu­ bante: anzitutto perché al regista era piaciuto molto E.T. L’ExtraTerrestre (E.T. The Extra-Terrestrial, 1982) di Spielberg mentre a lui molto poco e temeva che Kubrick gli chiedesse qualcosa di simile, poi 63 Mario Sesti, in un breve intervento, ha analizzato il rapporto morboso tra l’uomo e la macchina alla luce dei numerosi film sui robot in cantiere, al tempo, a Hollywood. Sesti sotto­ linea la volontà dell’uomo di creare macchine sempre più uguali a lui nell’aspetto e l’ambizione a fare del proprio corpo una macchina efficiente. A proposito di A.I. insinua la domanda pericolosa di un mondo governato da macchine capaci di provare le stesse emozioni degli uomini, giudicando come derivante da questa idea lo scarso successo del film: «meglio dipingere i robot come minacciosi e malefici Terminator che accettarne la competizione sul piano della civiltà». Cfr. M. SESTI, L’invasione dei robot, in «La Repubblica», 17 luglio 2004. 64 Di eccezionale interesse sia pensando al progetto kubrickiano, sia avendo visto il film di Spielberg, sono gli schizzi (più di mille) di personaggi e scenografie che, a partire dal 1993, approntò Chris Baker. Esposti in parte a Francoforte, quelli di maggior interesse sono ripro­ dotti anche nel catalogo della mostra (tra gli altri se ne nota uno in cui, esplicitamente, sullo scrittoio di David compare un piccolo Pinocchio). Cfr. C. Baker, Visual Storytelling. Drafts for A.I., in Aa.Vv., Stanley Kubrick, Deutsches Filmmuseum Frankfurt am Main, Frankfurt am Main 2004, pp. 250-253.

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perché non sopportava le chiare corrispondenze che, nell’idea del re­ gista, la storia avrebbe avuto con Pinocchio.65 Temi importanti come la macchina pensante e la suggestione della fiaba dovevano comunque essere alla base del film.66 David è un re­ plicante (da non confondere però con quelli di Ridley Scott) cui è sta­ to insegnato ad imitare (to mimic) ad essere uguale: operazioni, si è visto, tipiche del cervello umano. In più questo androide ha la capacità di provare sentimenti che è insieme il massimo della precisione e del pericolo: Hai stesso finiva in avaria devastato da un sentimento. Nel momento in cui la famiglia che ospita David e che lui ama riesce ad avere il proprio figlio, all’interno di questa seppur piccola comunità si ha un momento di tensione, di crisi delle differenze-, siamo di fronte al caso pericoloso dei gemelli o dei fratelli nemici: tra i due non c’è dif­ ferenza, perché David è identico all’uomo nell’aspetto e nel compor­ tamento. Il figlio naturale entra in competizione col robot, trovandosi nello stesso intorno e contendendosi gli stessi oggetti, e i genitori sof­ frono e avvertono il pericolo di una lacerazione. Per uscirne, per ritro­ vare l’armonia, è necessario trovare un capro espiatorio, una vittima che, come già osservava Girard, non sia in grado di difendersi, né di suscitare una vendetta; David ha in sé tali caratteristiche. Lo choc so­ cio-culturale che questa promiscuità, questa presenza di diverse intel­ ligenze che svincolano l’uomo dal suo essere solo, è dovuto al fatto che l’equilibrio rituale che era stato raggiunto viene d’improvviso messo a repentaglio e la famiglia protagonista del film si trova nel pieno di una crisi sacrificale che rischia di espandersi come un’epidemia. Tuttavia i divieti che l’uomo si è posto salvano il robot dall’eliminazione e la madre si limita ad allontanarlo dalla comunità. Ritrovatosi solo David ha un obiettivo: diventare un umano, un bam­ bino vero, come Pinocchio. Il viaggio di David è la ricerca di un avan­ zamento, la volontà di un oltrepassamento, quello insomma che ai 65 Kubrick mandò degli appunti anche ad Arthur C. Clarke, per avere una sua opinione e per vedere se fosse possibile coinvolgerlo nel film. 66 A proposito di 2001, e a dimostrazione della continuità che ci sarebbe stata con A.I., Kubrick aveva detto a J. GELMIS (op. cit., pp. 100-101): «Una delle cose che volevamo comu­ nicare [...] è la realtà di un mondo popolato, come lo sarà il nostro, da entità meccaniche do­ tate di un’intelligenza pari o addirittura superiore a quella dell’uomo e che possiedono una personalità con le stesse potenzialità emotive degli esseri umani. Volevamo che la gente pen­ sasse a che cosa può voler dire condividere il mondo con creature del genere.»

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personaggi kubrickiani non riesce mai. L’idea di Kubrick era quella che racconta la co-sceneggiatrice Sarah Maitland: Penso che il tema del film riguardasse molto la forza del cambiamento: le circostanze più strane avrebbero portato i robot e gli umanoidi provvisti di in­ telligenza artificiale a divenire gli eredi dell’evoluzione. Riguardava più il flusso emotivo, immaginato come la vita che emerge dall’acqua. Un po’ co­ me la teoria evolutiva che considera la vita nascere dagli oceani: questa nuo­ va... razza, stava emergendo dall’acqua, dagli oceani.

Idee che, piuttosto riconoscibili, si incanalano nel solco d’autore tracciato da Kubrick: l’uomo e la sua creazione tecnologica, il frutto mendace di una evoluzione traditrice, il sentimento di un nuovo inizio. Un inizio che, di nuovo, è caratterizzato da un allontanamento, da un’esclusione che è figura dell’uccisione: il doppio, Hai come David (il replicante, appunto), è sempre mostruoso.

4. Il lungo viaggio di ritorno Il titolo del paragrafo è lo stesso del film di John Ford del 1941, The long voyage home, distribuito in Italia anche con un altro titolo, Viaggio senza fine, che forse per il nostro discorso potrebbe funziona­ re ugualmente, ma non così perfettamente come l’altro o l’originale. Nella gran parte dei film di Kubrick, e in special modo in quelli che seguono 2001, l’organizzazione della trama è fatta in modo che vi sia­ no tre stadi ben riconoscibili. Abbiamo una situazione di partenza che reca già in sé i motivi per i quali dovrà essere cambiata; quindi si av­ via un processo che assume spesso la dimensione del viaggio (come si è detto Kubrick è molto legato a topoi da fiaba e nella fiaba il viaggio si identifica con l’idea del cambiamento, della trasformazione) cui spetta il compito di risolvere le premesse del primo stadio. Infine il terzo ed ultimo stadio svela che il viaggio intrapreso era solo illusioni­ sticamente posto sul piano della linearità, che la sua ambizione di es­ sere agente di avanzamento si svilisce nell’essere piuttosto un ritorno* 67 Cfr. M. Di Flaviano, F. Greco, S. Landini, op. cit., p. 167.

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verso la situazione iniziale, magari anche recuperandola ad un livello ancora più basso (all’opposto del lieto fine delle favole). Ecco allora che i personaggi kubrickiani, senza accorgersene, par­ tono per un lungo viaggio di ritorno. Questa idea si compie attraverso le traiettorie circolari che Kubrick sceglie di tracciare, per le quali l’avanti e Va ritroso sono una cosa sola. Qui si chiarisce, con la sua percezione temporale, l’idea storica. L’antica concezione ciclica, per la quale la Storia doveva ripetersi, è messa in crisi dalla linearità che si imprime vigorosamente al senti­ mento del Tempo a partire dall’affermazione del Cristianesimo: per il credente vi è una meta da raggiungere e il tempo e la storia si lineariz­ zano al cospetto di quello scopo che segnerà, raggiunto, la fine della storia e del tempo. Tuttavia, questa percezione lineare non cancella una ciclicità che è connaturata nell’uomo e che se non riguarda più la Storia, riguarda la specie, la natura e la misurazione stessa del tempo, che si rincorre sul quadrante dell’orologio. Kubrick lavora pazientemente all’intersezione di queste due dimensioni temporali, l’una vis­ suta, per così dire, come attiva, l’altra come passiva. Nei suoi film fino a 2001 l’idea del cerchio nella sua soffocante e centripeta ossessività, non emerge ancora nella sua teorizzazione per­ fetta. In Fear and Desire è abbozzata l’idea del doppio legata alla ri­ petizione, ma è qualcosa che resta per ora tutto interno alla psiche dei soldati (Ghezzi, in tempi ancor lontani da Eyes Wide Shut, paragonava questo piccolo film rifiutato all’onirismo di uno dei romanzi che Ku_ /CO brick più amava: la Traumnovelle di Schnitzler ). La circolarità de II bacio dell’assassino (Killer’s Kiss, 1955) è tutta interna alla scelta di raccontare il film in flashback attraverso i ricordi del protagonista e anche qui prevale un’indagine sulle funzioni e le valenze del doppio e della simmetria, come ha mostrato convincentemente Antonio Costa.68 69 In Rapina a mano armata (The Killing, 1956) la struttura avvolgente fatta di anticipazioni e ritorni (peraltro già presente a uno stadio lette­ rario nel romanzo Clean Break di Lionel White, da cui il film è tratto) sottende soprattutto l’ambizione dell’uomo di controllare e dominare 68 Cfr. E. Ghezzi, op. cit., p. 29. 69 Si veda A. COSTA, Kubrick o della geminazione, in G.P. BRUNETTA (a cura di), Stanley Kubrick, cit., pp. 106-108.

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il tempo col calcolo. Tuttavia entrambi questi film sono ascrivibili al genere noir e, come ha detto Franco La Polla, «non esiste noir, classi­ co o no, che non sia anche un discorso sul Tempo e sulla Storia»; gli eroi del noir vivono il tempo passivamente e anche quando pensano di controllarlo (come Johnny Clay) se ne ritrovano inseguiti.70 Orizzonti di gloria (Paths of Glory, 1957) e Spartacus (id., 1960) restano estra­ nei a questo tipo di costruzioni, e lo sarebbe anche II dottor Stranamore (Dr. Strangelove or: How I learned to Stop Worrying and Love the Bomb, 1963), pure infarcito di rime, simmetrie e geminazioni, non fosse per le strampalate idee di Stranamore circa la conservazione del­ la specie e il We 'll meet again che Vera Lynn canta sui funghi delle esplosioni atomiche, prefigurazione comica del discorso mitico di 2001. Prima di Stranamore, Lolita (id., 1962) era stato il film più compiutamente “ripetitivo” di Kubrick.71 L’Odissea nello spazio costituisce il modello cui rifarsi in seguito, cui fare capo per quel che riguarda la filosofia della storia di Kubrick, cui guardare per capire anche la connessione che ivi si realizza tra la classicità e la sua fine, tra i generi e il loro smembramento, tra un si­ gnificato nella tradizione, quello che più facilmente avvicina il grande pubblico a Kubrick, e un significante posto fuori, nelle domande che investono il cinema, la realtà che gli pre-esiste, le potenzialità d’ampiezza visibile. Il lungo viaggio di ritorno è portato alla sua rarefatta compiutezza in 2001, che richiama sin dal titolo il concetto di nostos e che pure sembra talvolta una violazione (un nefas) che implicherà presto o tardi un castigo superiore. Un modello, questo, che si protrae poi nei film che seguono, forse non con tale precisione circolare, ma comunque con spietata geometria. In Arancia meccanica, Alex intraprende il viaggio che dovrebbe redimerlo, non per sua volontà tuttavia, e quan­ do sembra che il percorso si sia compiuto, troppo lineare e piatto per 70 Rimando a F. La Polla, Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood, Il Casto­ ro, Milano 2004, p. 210. 71 Al riguardo si dovrà vedere quanto scritto da Bernardi che istituisce un parallelo tra questo film e la coazione a ripetere come viene intesa nel Perturbante. Cfr. S. BERNARDI, Ku­ brick, Freud e la coazione a ripetere, cit., poi ripreso e ampliato (limitatamente a Lolita) in S. BERNARDI, Kubrick e Lolita "per sempre ”, in V. ZAGARRIO, Overlooking Kubrick, Dino Audino, Roma 2006, pp. 61-72.

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uno come Kubrick, la macchina da presa torna a stringere sul suo vol­ to, dal quale, con un lento zoom, si era allontanata in apertura; ed ec­ coli ancora, quegli occhi, pazzi, perversi, e che pure ci trasmettono un quanto mai inquietante senso di liberazione. L’ambizione del controllo (la stessa che si pretendeva su Hai) fallisce ancora e Alex riprende, per ora in sogno, il suo dolce su e giù fra schiere plaudenti di borghesi, che forse sono pre-lyndoniani o forse siamo noi spettatori: la libera­ zione provocatoria della violenza è qualcosa che ci lascia sgomenti, qualcosa a cui ci sottraiamo faticosamente e che ci rispedisce alla rab­ bia brada delle scimmie; nell’ultima sequenza del film vengono intro­ dotti nella stanza d’ospedale di Alex due enormi amplificatori, due pa­ rallelepipedi verticali ai piedi di un letto... Redmond Barry intraprende anche lui un viaggio non del tutto spontaneo, ma con ambizioni già più precise di quelle di Alex. Va nel mondo, conosce diverse figure di aitanti positive e negative, crede che il suo sia un viaggio verso la conquista del titolo nobiliare, una strada non battuta, certo, ma dritta. E invece si rivelerà così curva da farlo ri­ tornare sui propri passi con una gamba sola e con la madre, verso l’umile casa che aveva sperato di non rivedere, di lasciare a uno dei due capi del suo tragitto, senza sapere che gli estremi si sarebbero toc­ cati. Il narratore era stato chiaro: «Barry faceva parte di coloro che sono nati abbastanza intelligenti per guadagnarsi una posizione, ma che sono incapaci di conservarla. Perché le qualità e l’energia che in­ ducono un uomo a riuscire nel primo di questi compiti sono spesso le stesse che in seguito causano la sua rovina.» (Massima presente anche nel romanzo di Thackeray, che a sua volta la traeva dal Jonathan Wild di Fielding: Kubrick la impiegherà, prima di Barry Lyndon, a proposi­ to di Napoleone, come vedremo meglio nel prossimo capitolo.) In Shining c’è un concetto di eternità che si fa subito inquietante e che ci fa capire che dall’Overlook e dalle sue spirali si uscirà con dif­ ficoltà. Nel mondo di Shining il tempo cede alla circolarità. Durante il colloquio che Jack Torrance ha col direttore dell’hotel per essere as­ sunto, viene messo al corrente di ciò che 1’Overlook ha dovuto vedere in tempi passati e cioè dei delitti e delle pazzie che hanno sconvolto un albergo che Nicholson, con un filo di falsità, aveva definito very homey (molto accogliente). Nonostante tutto, Jack dice che desidere­ rebbe restarci per sempre. Il termine, usato qui per la prima volta, tor-

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nerà negli incontri tra il piccolo Danny e le bambine morte, che lo in­ vitano a giocare con loro per sempre (forever... and ever... and ever). Poco oltre Jack, ormai pazzo, insisterà nel dire a Danny che gli vorrà bene per sempre (ancora forever... and ever... and ever) e, infine, nei bagni, il cameriere Grady cercherà di convincere Torrance del fatto che è lui, da sempre, il custode dell’albergo. Evidentemente c’è una certa impossibilità a comprendere o credere queste situazioni che con­ tengono il sempre, ed è l’impossibilità di far rientrare nella nostra lo­ gica l’azzeramento del tempo e della storia a vantaggio dell’eternità e della ripetizione. D’altra parte anche nel finale di Eyes Wide Shut Ali­ ce rifiuterà il per sempre offertole dal marito, senza con questo salvar­ si, né sfuggire all’ingranaggio72. Nel labirinto fatto di corridoi e pareti che si rincorrono uguali, invece, Danny si salverà con lo sforzo so­ vrumano di ricalcare a ritroso i propri passi nel tentativo di liberarsi di una temporalità che gioca a favore del padre. Poi la macchina stringe misteriosa sulla famosa fotografia e c’è Torrance, giovane, uomo di società. È il passato che ha ossessionato Jack, che gli è pesato perché l’ha avvertito, che l’ha trascinato dentro un vortice senza fine che esi­ geva da lui un sacrifìcio; che l’ha castigato quando non gliel’ha potuto offrire. Un domani, in un altro giro, forse lui stesso o un altro per lui potrebbe ritrovarsi uomo di mondo. Lo stesso viaggio agli inferi di Full Metal Jacket (id., 1987) coinci­ de con una brutale regressione dell’uomo, che perde ogni prerogativa di umanità, ritrovandosi ad uno stadio se possibile ancora più animale­ sco di quello delle scimmie di 2001 (la regressione è sottolineata da un canto infantile, quello del Club di Topolino, accostabile certo alla de­ cadenza ante mortem di Hal: i marines, d’altronde, sono macchine programmate). Siamo di fronte a un ritorno ancora più radicale, ad una circolarità ancora più profonda e irreversibile, che si dà come conse­ guenza del raggiungimento di un punto troppo basso (This is the end,

72 Si noterà che nella novella il per sempre era evitato dal repentino gesto della moglie che zittiva il marito, mentre nel film Bill lo pronuncia e viene rimproverato. Cfr. A. SCHNITZLER, Doppio sogno, a cura di G. Farese, Adelphi, Milano 1999, p. 114. C’è come un forte sentimen­ to dell’ora opposto al sempre, che affascina Kubrick. Viene alla mente l’angelo interpretato da Bruno Ganz ne II cielo sopra Berlino di Wenders (Der Himmel uber Berlin, 1987): «vorrei poter dire ora, ora e ora e non più da sempre, in eterno.»

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cantava Jim Morrison all’inizio di Apocalypse Now, ma Kubrick non contempla il concetto dì fine). In ultimo, il lungo e labirintico viaggio che in Eyes Wide Shut si di­ pana lungo i più pericolosi percorsi della psiche, irto di pericoli che nascono dalla mente stessa che ha inconsciamente lastricato le vie del tragitto, si conclude tra le luci chiare di un grande magazzino in tempi di feste e sputa fuori un monosillabo all’apparenza cinico e volgare, ma che tradisce ancora una volta, l’ultima, l’incapacità di uscire da un selciato segnato; tanto vale allora prendere coscienza della danza fero­ ce che lega passato, presente e futuro, viverla e darle continuità. Alla fine di questa rapida ricognizione emerge dunque che con 2001 e la sua struttura si avvia un movimento consapevole che coin­ volgerà anche i film a seguire. E sulla base di quanto detto non è diffi­ cile andare a ritrovare nello spazio, o nelle terre desertiche, o forse an­ che nel corridoio magico delle luci o nella stanza settecentesca, un in­ dizio, un gesto che rechi già in sé la potenza dirompente dei soggetti che seguiranno. È noto, e già si è detto, che nella scena in cui Alex picchia i drughi, Kubrick lo avvicina, col grandangolo e il ralenti, alla scimmia violenta che ha scoperto l’arma. In Barry Lyndon l’uso insi­ stente dello zoom contribuisce molte volte a sperdere Barry proprio come Poole nello spazio. Inoltre Walker nota somiglianze tra la scena dell’incontro di Barry col Chevalier de Balibari e il momento in cui Bowman scorge se stesso mangiare, e anche, nella costruzione vertica­ le, tra la morte del piccolo Bryan e il minaccioso atteggiamento della 7 scimmia violenta nell’alba dell’uomo. In Shining non si può non notare la parentela tra la pazzia di Jack che germoglia in un ambiente chiuso e isolato dal mondo e quella di Hai sul Discovery73 74, o ancora, in uno dei lessemi più classici del ci­ nema di Kubrick, tra i corridoi dell’hotel e il trip di 2001, entrambi come viatici ad altre dimensioni. 73 Cfr. A. Walker, op. cit., pp. 246e 256. 74 Kubrick era affascinato dalle reazioni che potevano svilupparsi nell’uomo posto in con­ dizione di isolamento; LoBrutto racconta che durante la lavorazione di 2001 lesse numerosi libri che raccontavano di uomini privati di ogni contatto col loro ambiente naturale e tra i più significativi ve n’era uno sulla spedizione all’Artico di Ernest Shackleton. Cfr. V. LoBrutto, Stanley Kubrick. L’uomo dietro la leggenda, traduzione di M. Bizzarri e A. Farina, Il Castoro, Milano 1999, p. 289.

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In Full Metal Jacket la programmazione di un uomo, il soldato Pal­ la di Lardo, fallisce come quella su Hai e porta alla pazzia e alla ribel­ lione contro i programmatori (gli scienziati e il sergente Hartman). Per quel che riguarda altre analogie strutturali che vanno ad interessare più specificatamente il testo, si può notare la posizione dei marines nelle loro brande che richiama quella degli scienziati ibernati sul Discovery e l’insistenza sull’architettura di un edificio vietnamita che contiene forme circolari simili alle capsule del futuro. Eyes Wide Shut è forse la trasposizione nella realtà più vicina all’astrattezza di 2001: l’impossibilità di Bill e Alice di arrivare alla sorgente della loro nevrosi, lo sfuggire della realtà più concreta e identificabile, costringono l’uomo occidentale della fine del XX secolo (giusto prima del 2001) ad aggrapparsi disperatamente aH’immanenza più certa e verificabile («Fuck!»), a rinunciare a scoprire cosa si na­ sconde sotto la patina moderna e funzionante della metropoli (la villacastello di Somerton). Anche il mondo di Eyes Wide Shut, ricordando quel che sosteneva Ciment riguardo a 2001, è un mondo «pronto per la fine» e, naturalmente, per un nuovo inizio, in una ciclicità tempora­ le non palingenetica quanto piuttosto oscuramente ripetitiva. Se precedentemente abbiamo parlato di 2001 come metatesto, ora si delinea anche come macrotesto, che contiene elementi magari an­ cora solo abbozzati, come le voci verbali in un paradigma. 2001 esprime completamente la concezione ritornante di Kubrick, strettamente connessa al circolo mimetico della violenza reciproca che è alla base del pensiero del regista sul rapporto essere umano-cosmo. Nel film le categorie prendono il posto degli avvenimenti e gli archetipi quello dei personaggi storici. Tuttavia, per concludere questo discorso, è importante sottolineare che l’eterno ritorno kubrickiano di cui si è discusso e che riappare sot­ to una luce sostanzialmente diversa, non è tanto legato alle teorizza­ zioni nietzscheane, quanto all’ani storicità delle civiltà tradizionali, che trovavano così la maniera di proteggersi dalla Storia mentre in realtà ne parlavano e la vivevano.75 L’eterno ritorno, nell’ottica nietzscheana, è conquista necessaria per liberarsi da un passato come immutabile, un passato che rischie­ 75 Si veda M. Eliade, op. cit., p. 180.

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rebbe di vincolare e ossessionare l’oltreuomo e le sue volontà di do­ minio. In Kubrick, invece, l’impianto circolare è lo scacco per l’uomo, la condanna della sua condizione; non c’è possibilità di travalicare questa necessità, non c’è oltreuomo, perché il cerchio si chiude non per essere dominato, ma per dominare. La rigenerazione finale, allora, non è la presa di possesso del tempo e la liberazione dal passato, è un nuovo inizio, sì, ma che non può essere letto fuori dalle invariabili del suo autore: è un lungo viaggio di ritorno. Il fatto che lungamente si sia inteso 2001 come un film fortemente influenzato non tanto dalla filosofia di Nietzsche, quanto essenzialmente dal solo Così parlò Za­ rathustra, è il risultato di una serie di cedimenti alla tentazione di per­ correre la strada della citazione letterale. Anzitutto VAlso sprach Za­ rathustra di Richard Strauss come leit-motiv ha indotto in inganno, dal momento che quel poema sinfonico non è una trasposizione della vi­ sione nietzscheana, ma «ne prolunga l’eco» come ha detto bene Ciment76, esattamente come 2001, tanto più che si sa come Kubrick ten­ desse a spogliare le musiche delle loro prerogative culturali per fame sonorità perfettamente legate alle immagini7778 , lavorando a quello che 79 Sergio Miceli definirebbe il livello esterno critico. Nessuno vuol negare che Nietzsche fosse una delle letture di Ku­ brick, ma ugualmente non bisogna dimenticare come questo cineasta non si facesse scrupolo di lasciar cadere i suoi autori lungo il clinamen del suo personale pensiero. Così, la suggestione pare innegabile e fomentata da alcuni passi ben riconoscibili limitatamente a Così parlò Zarathustra9 e lo stesso Kubrick, con una leggerezza che in fondo 76 M. ClMENT, op. cit., p. 128. 77 Sul vasto discorso circa il rapporto tra Kubrick e la musica si rimanda ai saggi di P. M. De Santi, R. Pugliese e P. Cherchi Usai in G.P. Brunetta (a cura di), Stanley Kubrick, cit, pp. 221-246; al già citato saggio di E. COMUZIO; a S. BASSETTI, La musica secondo Kubrick, Lindau, Torino 2002; a M. SlNEUX, Maestro, musique!, in «Positif», n. 186, oct 1976; infine a S. MICELI, Musica e cinema nella cultura del Novecento, Sansoni, Milano 2000, pp. 354-sgg. 78 C’è da essere d’accordo con GEORG SESSLEN e FERNAND JUNG, autori di Stanley Ku­ brick und seine Filme (Schiiren, 1999), che sostengono che in extremis, nel finale dei suoi film, Kubrick si rivolti contro Nietzsche (citati in M. CHION, Stanley Kubrick l’humain, ni plus ni moins, cit, p. 364). 79 Mi riferisco a passi notissimi di Così parlò Zarathustra che il film, a ben guardare, cita criticamente, quali il parallelo tra l’uomo e la scimmia («Che cos’è la scimmia per l’uomo? Oggetto di riso o dolorosa vergogna. E proprio questo deve essere l’uomo per il superuomo [...] Un tempo eravate scimmie, ma ancor oggi l’uomo è più scimmia di qualsiasi scimmia.»

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denota la sua libertà, ha parlato a Joseph Gelmis di superuomo («un bambino astrale, un angelo, un superuomo, se vogliamo»), ma sottoli­ neando il suo riferirsi soltanto «al livello più basso, cioè al livello di una esposizione semplice e lineare della trama», priva cioè delle infi­ nite implicazioni e contraddizioni che la nudità della trama appiatti­ sce.80 Su questa strada, Andrea Sani scorgeva una letteralità tra Ku­ brick e Nietzsche, tra 2001 e Così parlò Zarathustra, per cui il feto sa­ rebbe l’oltreuomo cui «è associata la rinascita, la mancanza di un pas­ sato, l’oblio».81 L’idea di rinascita è evidente, ma la mancanza del passato e l’oblio sono negati dalla presenza stessa del monolito dal cui controcampo nasce il feto; monolito che sembra ritrascinarlo in un cammino che lui stesso ha avviato. D’altronde Kubrick ha un’idea di Storia che non gli permetterebbe così facilmente di sbarazzarsi del passato e di lasciare liberi i suoi per­ sonaggi; anzi esso urge e spinge dentro di loro. La Storia è un organi­ smo vivente ben lungi dal poter essere governato; ciò che si può fare, ciò che Kubrick cerca di fare, è «unificare i segni [corsivo mio] della storia passata, presente e futura»82: è, di nuovo, la «struttura perma­ nente» di Lévi-Strauss.

[p. 31 dell’edizione citata]), o la terza metamorfosi in fanciullo («Innocenza è il fanciullo e dimenticanza, un ricominciare, un gioco, una ruota che gira su se stessa, un primo moto, un santo dire di sì.» [p. 41]). Del resto Kubrick sembra più interessato a chiedersi che fine farà l’uomo piuttosto che come sarà il superuomo, lontano in questo da Zarathustra: «I più preoc­ cupati oggi domandano: “Come soprawiverà Tuomo?” Ma Zarathustra è il primo e l’unico a chiedere: “Come sarà l’uomo superato?"» (p. 208). 80 Si tratta dell’intervista rilasciata a J. GELMIS in The Film Director as Superstar, op. cit. 81 A. Sani, Il cinema tra storia e filosofìa, Le Lettere, Firenze 2002, p. 157. 82 G. P. Brunetta, Stanley Kubrick: Odissea nel cinema, in Id. (a cura di), Stanley Ku­ brick, cit., p. 19.

II Da Napoleone a Alex De Large

Napoleone fu il più ambizioso dei progetti di Stanley Kubrick. La recente esposizione di Francoforte, allestita dal Deutsche Filmmuseum in collaborazione con Christiane e Jan Harlan1, ha definitivamente permesso di venire in contatto col materiale che il regista aveva negli anni preparato in vista di quello che lui stesso definiva, nel privato di un foglio battuto a macchina e datato “Oct 20 1971”, «the best movie ever made». Se scegliamo di trattare immediatamente dopo un film complesso come 2001 uno dei film non fatti di Kubrick, è, stavolta, per ricostrui­ re un ordine cronologico che risulta importante nella prospettiva di un disegno kubrickiano che non fu. In altri termini: Kubrick voleva gira­ re Napoleon più di ogni altra cosa, ci pensava già ossessivamente du­ rante la lavorazione di 2001, e questo Napoleon doveva essere il pro­ lungamento dialettico di 2001, secondo un procedimento, per così di­ re, di liaison, che avrebbe dovuto, da qui in avanti, unificare tutte le sue opere in un unico macrotesto cinematografico. Così non è stato, ma Kubrick non ha rinunciato al suo progetto. Allo Star Child non è seguito Napoleone, ma Alex De Large e l’utopia smaniosa del film storico si è riversata, seppur con delle differenze sostanziali e senz’altro volute, nella perfezione di Barry Lyndon. Napoleone, in­ somma, è stato smembrato e dalla sua uccisione sono nati due gemelli (ovviamente!): un film teorico sulla violenza e un film teorico sulla Storia. Per quanto Napoleon oggi non sia altro che un insieme ab­ norme di dati, costituisce un’architettura di pensiero così profondo che non solo è un momento inaggirabile nella carriera kubrickiana, ma è1 1 Si avrà modo di citare più volte nel corso del capitolo materiali resi visibili da questa esposizione. La mancanza di note a riguardo si risolve qui, dicendo una volta per tutte che, do­ ve non compaia diversa indicazione, si fa riferimento a ciò che la mostra ha permesso di co­ noscere.

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un vero e proprio turning point che lascia intendere dove andava a proseguire 2001 ed è la matrice di un discorso d’autore che sarebbe durato ancora un trentennio e cinque film. L’intervista che Kubrick rilasciò nel 1970 a Joseph Gelmis è oggi il testo fondamentale per capire le intenzioni del regista al momento del­ la preparazione di quello che doveva essere il suo colossale capolavo­ ro. Ciò che potrebbe sorprendere è la foga con cui Kubrick si tuffa nella Storia “più storia” possibile, cioè all’inseguimento di una corri­ spondenza perfetta della rappresentazione, in un’indigestione di dati e date che è agli antipodi dell’atemporalità infinita di 2001 e sembra una reazione, un disintossicarsi da quella esperienza estrema. Oppure è la nuova sfida a cui sottoporre il mezzo, dal massimo dell’astrattezza e della stilizzazione, al massimo della concretezza e della referenzialità, dall’aldilà all’aldiqua del rapporto dell’uomo col mondo. Kubrick è molto chiaro: stavolta non si chiuderà in uno studio, ma girerà in esterni; i campi di battaglia napoleonici rimasti intatti quasi non ci sono, ma si potrà rimediare (Jugoslavia, Romania e Ungheria sono i paesi con cui i contatti sono già stati avviati al 1969). L’importante è simulare il meno possibile, cioè ricreare la realtà per lo meno nella sua fisicità: «Intendiamo usare un massimo di quarantami­ la soldati di fanteria e diecimila soldati di cavalleria per le grandi bat­ taglie, il che significa che dobbiamo trovare una nazione disposta a noleggiarci le sue forze armate.» Kubrick non vuole girare con un numero minore di soldati dissimulato dalle riprese, «perché le batta­ glie di Napoleone si svolgevano in campo aperto, un ampio tableau in cui gli schieramenti si muovevano in modo quasi coreografico. Questo aspetto io lo voglio catturare nel film e per farlo è necessario ricreare tutti i particolari delle battaglie con precisione millimetrica.» Ecco che si rivela anche un’intenzione formalista, di lettura simbolica della guerra in quanto forma, «perché esse [le battaglie napoleoniche] pos­ siedono un tale splendore estetico che non occorre una mente militare per apprezzarle. [...] sono quasi come un bellissimo pezzo musicale, o hanno la purezza di una formula matematica.»2

2 Queste dichiarazioni fanno parte dell’intervista rilasciata a JOSEPH GELMIS in The Film Director as Superstar, Doubleday, New York 1970, pp. 293-316, e ora tradotta in italiano in M. ClMENT (a cura di), Stanley Kubrick, La Biennale di Venezia 1997, pp. 90-107.

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Napoleon vuole diventare l’estremizzazione dell’impressione di re­ altà, con la stessa cura con cui 2001 era parso un documentario sul fu­ turo. Quella che Kubrick vuole restituire non è soltanto la vita al tem­ po di Napoleone, ma l’esteriorizzazione precisa della vita di Napoleo­ ne. Sarebbe stato l’incontro con il primo vero personaggio storico (fatta eccezione per lo Spartaco sfuggito al controllo) e con un altro genere da seguire e scandalizzare, il film storico-biografico («Innanzi­ tutto parto dalla premessa che finora non c’è mai stato un grande film storico»3). Nella figura dell’imperatore si profilava la saldatura tra la Storia in quanto flusso e l’essere umano in quanto residuo vanamente resistente, ma nel caso di Napoleone vi era da raccontare dell’uomo che ha cercato di dominare la Storia, di scandirla, di imporle un nuovo tempo, un uomo che ha provato ad andare oltre l’uomo, come si evin­ ceva dalle sue stesse parole: «per iscrivere la storia bisogna essere più che uomo, perché colui che tiene in mano lo scalpello di questa grande dispensatrice di giustizia deve essere sciolto d’ogni passione odiosa, d’ogni preoccupazione d’interesse, o di vanità.»4 E in quel 1969, Bo­ naparte era il personaggio ideale per dare continuità allo Star Child, per dare spago alle implicazioni superomistiche per poi giocare, coe­ rentemente, a minarle dall’interno. Per capire ancor meglio, e in una prospettiva di più ampio respiro, da dove venisse a Kubrick tutto l’interesse per Napoleone, avremmo potuto porre questa indagine “sulle spalle” di Barry Lyndon. Il film del 1975 deve molto, a un livello di materiali, al progetto Napoleon: ne eredita ovviamente rimpianto storico, talune scelte scenografiche (Ken Adam, scenografo di Barry Lyndon, doveva lavorare al Napole­ on) ed altre registiche. Oltre alla presenza di un narratore onnisciente, su Barry Lyndon viene convogliata l’idea pionieristica di illuminare alcune scene con la sola luce delle candele: in una serie di appunti da­ tati al novembre 1968, Kubrick scrive: We have found an F.95 50 mm lens, made by the Perkin Elmer Co. who specialize in making lenses for the Aero Space Industry. This lens is two full stops faster than the fastest lens presently available for 65 mm cameras and 3 Si veda l’intervista di Philip Strick e Penelope Houston in «Sight and Sound» nella primavera del 1972, ora tradotta in italiano in M. ClMENT (a cura di), op. cit., pp. 118-128. 4 N. Bonaparte, Pensieri morali, Newton & Compton, Roma 2002, p. 54.

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should even allow interiors to be shot by candlelight. Despite the extremely high speed of this lens, the resolution is very good.

Vi sono poi alcune citazioni letterali che dalla sceneggiatura ab­ bozzata per Napoleon passano alla realizzazione di Barry Lyndotv. in primo luogo la scena del corteggiamento di Napoleone a Giuseppina, che avviene attorno a un tavolo da gioco esattamente come quella no­ tissima tra Barry e Lady Lyndon, e poi la festa organizzata per il figlio di Bonaparte, il re di Roma, che è portato in trionfo «in a magnificiently decorated cart, pulled by two lambs, supervised by Napoleon, Marie-Louise, Duroc and Murat», che ricorda in tutto e per tutto i fe­ steggiamenti per il piccolo Bryan (dove a tirare il carro sono però due pecore). Ma far seguire Napoleone a Barry Lyndon, avrebbe permesso di creare artificiosamente una di quelle liaisons care a Kubrick. Come tutti notano, l’assegno che Lady Lyndon firma gelidamente alla fine del film, reca come data quel 1789 che, paradossalmente, avrebbe av­ viato il processo storico in grado di aprire il varco per Bonaparte. La Rivoluzione si offriva a Kubrick come momento di ri-fondazione, di nuovo inizio, di nuovo Tempo, ma anche come una rivolta democrati­ ca, concepita dall’illuminismo, che avrebbe partorito un feroce dittato­ re. Il problema riguardava una delicata combinazione di piani tempo­ rali che non coincisero nell’edificazione della struttura rivoluzionaria. Così capace e decisa nella fase eversiva del processo che avrebbe do­ vuto stabilire un nuovo ordine in Francia e poi in Europa, la Rivolu­ zione non fu abile nel governarsi, non riuscì a adeguarsi al nuovo tempo da lei stessa creato, non trovò la sincronia che si dà nella con­ temporaneità tra la distruzione di un ritmo antico e la costituzione di un passo nuovo. Napoleone ebbe la forza e la fretta (che in quel caso serviva) per unire i due tempi, per stringere e riannodare i due capi della fune storica di trasformazione e stabilità. Si trattava di creare una omogeneità di tempi, da estendere quanto prima a quei sistemi che gli erano, sotto questo aspetto, ostili. Il tempo era la conquista più impor­ tante e difficile, lo stesso Napoleone sosteneva che «la strategie est la science de l’emploi du temps et d’espace. Je suis, pour mon compte, moins avare de l’espace que du temps. Pour l’espace, nous pouvons

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toujour le regagner. Le temps perdu, jamais.»5 Andava così a collocar­ si, da protagonista, in uno di quei momenti di cesura prediletti da Ku­ brick, in cui basta un nulla per sprofondare come per diventare impe­ ratori, il tutto in un giro ristrettissimo di anni, in incredibile accelera­ zione storica. Un’accelerazione, poi, che era ulteriormente congeniale a Kubrick perché fondata sul successo militare, sul tempo della guer­ ra, durante il quale tutto vive e si compie ad un ritmo infinitamente superiore alla norma, dagli eventi politici alle relazioni umane (per cui amore e odio, amicizia e inimicizia si scoprono molto più velocemente e si realizzano molto più violentemente). Il percorso ora pare più delineato: il Kubrick affascinato dalle con­ traddizioni del XVIII secolo, condensa il suo discorso sull’uomo smarrito nell’indifferenza della Storia, nella figura, per lui tremenda­ mente affascinante, di chi col calcolo ha cercato di ordinare la Storia: Napoleone è a suo modo un fondatore («il nostro mondo è stato pro­ dotto da Napoleone nello stesso modo in cui la mappa politica e geo­ grafica dell’Europa è il risultato della Seconda guerra mondiale») e riassume in sé una serie di aspetti umani contraddittori che restano va­ lidi universalmente («le responsabilità e gli abusi del potere, le dina­ miche della rivoluzione sociale, il rapporto dell’individuo con lo stato, la guerra, il militarismo, e così via. Insomma non sarebbe solo una polverosa mascherata storica, ma un film sui problemi essenziali del nostro tempo, oltre che di quello in cui visse Napoleone»6). Che Bonaparte sia quindi un comodo modello per raccontare il di­ spregio della Storia nei confronti dell’essere umano pare chiaro, ma lo è ancor più se pensiamo a ciò che Kubrick stesso, con la voce di Na­ poleone, ebbe a dire in un manoscritto privo di data e probabilmente stilato dopo che il progetto era stato cancellato: «I was the greatest mi­ litary mind of the age, and only the future will say whether of any age. [...] I would guess that the quality of personality that brought me to the top, was also the one that brought me to the ruin. [...] I am a gam-

5 Citato in G. PAPAGNO, Un modello per la storia, Diabasis, Reggio Emilia 2000, p. 110; a questo studio (al capitolo dedicato alla figura di Bonaparte, pp. 107-151) rimando per un approfondimento del rapporto temporale che lega Napoleone alla Rivoluzione. 6 Le due dichiarazioni si ritrovano in J. GELMIS, op. cit.

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bler.»7 Non è difficile ricordare che questo stesso concetto, con parole di poco differenti, lo esprimerà il narratore di Barry Lyndon riguardo al protagonista, e quanto al gambler, cioè il giocatore d’azzardo, oltre al nuovo contatto che si creerà con Redmond Barry, si manifesta la condanna a rilanciare in continuazione, a dispetto della buona o cattiva sorte, in una ripetizione che impedisce di fermarsi: anche Barry, muti­ lato e solo, riprenderà a giocare. Questa circolarità che caratterizza la vita di un uomo qualunque che diventa imperatore, tratta al pari coi grandi sovrani europei e poi toma normale (con la madre, unica con­ solatrice: ancora un contatto con Redmond Barry), era stata suggerita anche nella seconda sequenza del Napoleon di Abel Gance, prendendo a pretesto una lezione di geografia, per osservare che Bonaparte parte da un’isola per raggiungere e conquistare Parigi, per poi finire a un li­ vello più basso su un’altra isola, più sperduta e meno salubre.8 Salta agli occhi come Napoleone fosse di per sé un concentrato dei temi cari al regista, della loro esistenza e del loro dissolvimento; Ku­ brick stesso, in quei fitti rapporti scritti a mano ora riaffiorati dal pro­ fondo delle sue stanze, si convinceva annotando: «It has everything a good story should have. A towering hero. Powerful enemies. Armed combat. A tragical love story. Loyal and treacherous friends. And plenty of bravery, cruelty and sex.»9 Il materiale c’era, ma cinematograficamente la sfida pareva troppo ardita, soprattutto dopo il 1970, quando, stando alla dichiarazione di Jan Harlan10, l’insuccesso di Waterloo di Sergej Bondarcuk indusse prima la United Artists e poi la mgm a rinunciare al progetto: denaro, mezzi, documentazione, il confronto col tempo del racconto erano gli ostacoli, in quest’ordine, più difficili da superare. Abel Gance, che aveva cercato di unire, nell’originario progetto, la completezza della vi­ ta ai limiti della tecnica, si era dovuto fermare alla campagna d’Italia. In un «Napoleon notebook» del 1967, la prima ampia testimonianza 7 Riportato in E.M. Magel, The best movie (n)ever made, in Aa.Vv. Stanley Kubrick, Deutsches Filmmuseum Frankfurt am Main, Frankfurt am Main 2004, p. 162. 8 Anche Sacha Guitry, che interpreta Talleyrand nel suo Napoléon (1954), sfrutta in aper­ tura la coincidenza delle isole nella vita di Bonaparte, inserendovi anche FInghilterra, eterna rivale. 9 Cfr. E.M. Magel, op. cit., p. 167. 10 In M. Di Flaviano, F. Greco, S. Landini, Stanley and us, Lindau, Torino 2001, p. 157.

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manoscritta di Kubrick, si legge: «Two part film - each 3 hours - a real parlay». A fianco, dubbioso e tentatore, appare «3 part???», ma sotto: «Both play together. Two admissions. Second film would gross as much as 1st, if 1st were a hit.» Negli appunti del 22 novembre 1968, che prevedevano l’inizio delle riprese per il luglio del ’69, si parla di un unico film di 180 minuti, che, a seguire Magel, aumenterebbero sensibilmente il 28 agosto del 1969: il running time unico è da consi­ derarsi a un minimo di «199:40 minutes».11 Non è molto proficuo giocare sui minuti del progetto naufragato, ma è interessante capire le difficoltà di Kubrick di fronte all’ingente materiale: la differenza tra un film di tre ore e tre film di tre ore non è trascurabile, ma forse la paura che la prima parte rischiasse di restare l’unica spinse il regista a pensarne una complessiva. Le riduzioni seguivano i problemi legati ai finanziamenti che apparvero da subito insormontabili: già il 19 no­ vembre del 1968 Kubrick compilava un foglio di appunti nel quale cerca di limitare per quanto possibile il budget. Limitazioni che, dispe­ ratamente, si tenteranno anche il 20 ottobre del 1971: Kubrick annun­ cia che scriverà una nuova sceneggiatura, fìssa il budget sui quattro milioni di dollari, promette di risparmiare utilizzando il più possibile la luce naturale e rinuncia a grandi nomi (fa quello di Patrick Magee, che aveva appena interpretato lo scrittore Alexander in Arancia mec­ canica e avrebbe interpretato lo Chevalier de Balibari in Barry Lyndon), ma ormai il tempo di Napoleone è definitivamente passato.11 12 Abbandoniamo per un attimo i particolari che ci torneranno utili più oltre e accontentiamoci di intravvedere nelle preoccupazioni di Kubrick, le ansie del condottiero. A più riprese si è voluto infatti fare di Napoleone un alter ego del regista e lo stesso Kubrick aveva ali­ mentato questa interpretazione dicendo a Ciment: «se Napoleone rite­ neva necessario sobbarcarsi tutte quelle preoccupazioni, allora un im­ pegno analogo nel lato logistico del cinema dovrebbe essere una re­ sponsabilità normale da parte di un regista che voglia assicurarsi di ot­ tenere proprio quello che vuole e quando lo vuole.»13 Il fascino, infi­ ne: perché Napoleone sarebbe diventato uno di quei personaggi di 11 Cfr. E.M. Magel, op. cit., p. 164. 12 Parte di questi punti è riportata, come illustrazione, nel citato catalogo di Francoforte; cfr. p. 157. 3 In M. CIMENT, Kubrick, traduzione di L. Codelli, Rizzoli, Milano 2002, p. 203.

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Kubrick che certo non potremmo definire eroi, ma che restano vere e proprie icone, veri archetipi: parlo principalmente di Stranamore, di Alex De Large e di Jack Torrance. Nessuno si sognerebbe mai di dirne bene, eppure nessuno si sognerebbe mai di staccar loro gli occhi di dosso: c’è un senso di divieto e di distanza, di paura esorcizzata, da ricercare nel comportamento dello spettatore, col quale il regista dia­ loga sempre. Quella fascinazione che una parte di noi subisce di fronte a uomini di tal fatta, ancor più se esistiti, ed un’altra fermamente re­ spinge, prese anche Kubrick: il freddo approccio intellettuale ai mate­ riali dei suoi film non si ritrova nella calorosa preoccupazione con la quale il regista scrive note su note mentre prende forma in lui la figu­ ra dell’imperatore con le sue contraddizioni. Per quanto Kubrick respingesse Tolstoj, non considerando di nes­ sun interesse storico la sua rappresentazione dell’imperatore, viene al­ la mente Andrea Bolkonski, che voleva vedere Napoleone (come noi) e quando lo vide non potè fare a meno di notarne la piccolezza e do­ vette pensare «alla vanità della grandezza, alla vanità della vita, di cui nessuno poteva intendere il significato, e alla vanità ancora maggiore della morte, di cui nessuno dei viventi poteva né comprendere né spiegare il senso.»14

1. Fonti e struttura Il Napoleon di Kubrick non è suscettibile di interpretazione, nel senso che non esiste in quanto oggetto cinematografico: lo si può stu­ diare solo su un piano, per così dire, del significato, quello di una sce­ neggiatura embrionale, costruita ancora essenzialmente sui dati e che sarebbe senza dubbio stata sottoposta a uno sceneggiatore professioni­ sta (forse Anthony Burgess che, nel gioco di legami e rimandi, sareb­ be stato il punto di partenza per Arancia meccanica). Tuttavia sia la gran quantità del materiale raccolto, sia alcuni passi della sceneggiatu­ ra, per quanto spuri e non inseriti nella complessità del sistema narra­ 14 L. TOLSTOJ, Guerra e pace, traduzione di E. Cadei, Mondadori, Milano 1968, vol. I, p. 402.

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tivo del cinema kubrickiano, bastano a capire, senza forzare, l’al di qua del film, e il lavoro, in genere segreto e spazzato via dal risultato, del suo autore. Avendo tardivo accesso all’ingente materiale sul Napo­ leon, la critica altro non può fare che travolgere il fascinoso progetto con quanto l’intera opera di Kubrick ha lasciato, rischiando di accaval­ lare periodi storici, tempi di riprese, formarsi di idee. Eppure, se man­ tenuta entro i limiti di una precisa e coerente rivisitazione del corpus, tale promiscuità può sortire l’effetto desiderato che è infine quello di comprendere il posto che alla figura dell’imperatore sarebbe spettato, un posto circoscritto assolutamente al dopo-2001, nonostante il regista non abbia mai smesso, negli anni, di sperare. La documentazione riguardo la figura dell’imperatore era stermi­ nata: nelle note di produzione Kubrick scrive: «a library of approxi­ mately 500 Napoleonic books has been set up, catalogued and indexed and is available for my own use and anyone else on the production. These books contain the key memoirs and the principal biographies available in English.» Entrando nella sala che la già più volte men­ zionata esposizione aveva dedicato al Napoleon, si resta esterrefatti di fronte ad una elegante vetrina in legno nella quale si offrono alla vista duecentosettantadue volumi recanti ognuno il nome di Bonaparte nel titolo. Boris Mollo dell’ “Historical & Military Advisory Service for Films Television and Theatre”, in una lettera inviata a Kubrick il 27 luglio 1968, si augurava, salutando il regista, di poter vedere un giorno di persona la sua biblioteca. Oltre questa sterminata bibliografìa, Kubrick, sempre nelle note di cui sopra, parla anche di «a picture file of approximately 15000 Napo­ leonic subjects», in linea con la smania filologica che animerà la pre­ parazione e le riprese di Barry Lyndon. Come consulente il regista aveva scelto l’oxfordiano Felix Mar­ kham, uno dei massimi esperti in lingua anglosassone sull’argomento. Il Napoleon del professore inglese, di cui Kubrick possedeva la terza edizione del 1966, è una biografia di piacevole lettura, asciutta e pre­ cisa, che usufruiva, al tempo, della recente scoperta delle lettere di Maria Luigia e dei diari del Generale Bertrand, che aveva seguito Bo­ naparte a Sant’Elena. Kubrick seguì alla lettera le indicazioni di Mar­ kham, tanto che sono diversi, vedremo, i passi in cui la sceneggiatura abbozzata usa le stesse parole del docente, quasi si trattasse della tra­

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sposizione da un romanzo. Tra gli oggetti emersi dagli archivi kubrickiani spicca un taccuino di «Note per Markham»; il regista appare in­ teressato soprattutto agli aspetti psicologici della vita di Napoleone e alla «routine of daily life», oltre che alla precisa descrizione delle per­ sone che gli gravitavano intorno. Per soddisfare Kubrick (e su sua ri­ chiesta naturalmente), Markham incaricò trenta suoi fidati allievi di preparare un profilo esauriente dei cinquanta maggiori personaggi nel­ la storia di Napoleone; questo archivio è accuratamente conservato in tanti cassettini posti, nell’allestimento museale, poco lontani dalla ve­ trina coi libri. La perfezione dei piani di lavoro di Kubrick trova un’ulteriore con­ ferma in un enorme foglio programmatico scritto a mano, coi momenti salienti della vita di Bonaparte: oltre alle grandi battaglie, si va dal «Professional training and innocence» alla parola «Mother» che chiu­ de tutto, passando per «Toulon first Break», «Meets Josephine» e poi «Army on march» e «Love letters», o ancora «Happy times» e «Di­ vorce». Cerchiate in arancione sono abbozzate quelle che potrebbero essere le macrosequenze del film, ridotte poi in sceneggiatura a dieci titoli: «1789 - Revolution», «The first italian campaign», «Egypt», «Coup d’Etat», «Empire», «The fall», «Defeat», «Invasion of Fran­ ce», «Elba», «St. Helena». Come si nota, una prima struttura è già elaborata ed è caratterizzata da una circolarità immediatamente avverti­ bile se non altro in quella parola «Mother» che dovrebbe chiudere il film e che suggerisce l’idea del ritorno, regressione da una parte, rige­ nerazione dall’altra. La prima scena vedeva un Napoleone di quattro anni, con un orsac­ chiotto tra le braccia, mentre si succhia il pollice e ascolta la giovane madre che gli racconta una favola. È notte e accanto a lui dorme il fra­ tello maggiore, Giuseppe, «narrator: Napoleon was bom at Ajaccio in Corsica on August 15th, 1769. He had not been a healthy baby and his mother, Letizia, lavished him with care and devotion. In middle age, he would write about her from St. Helena.» Il film si apre dun­ que sotto il nume tutelare di una donna, la donna per Napoleone, quel­ la che non lo abbandonerà mai e soprattutto mai lo tradirà. Letizia riapparirà più volte, non presenziando, come avvenne, solo al matri­ monio con Giuseppina, personaggio che peraltro nello script kubri­ ckiano ha valenze del tutto negative. Sarà lei a confortare il figlio

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all’Elba e sarà ancora lei, sola, nel finale, a chiudere richiamando F incipit: INT. LETIZIA’S BEDROOM - DAY: His mother, dressed in black, sits alone, a study of gloom and lament. The shutters are closed and the semi-darkness of the room is broken by bright slivers of sunlight. The camera moves slowly away from Letizia, to an open portmanteau. It is filled with very old chil­ dren’s things -faded toys, torn picture books, wooden soldiers and the Teddy bear Napoleon slept with as a child. FADE OUT. THE END.

L’interesse di Kubrick per le donne di Napoleone è confortato dal suo testo di riferimento: Markham si sofferma sui rapporti tra Napole­ one e le sue donne e sottolinea, a proposito di Letizia, la fermezza e la schiettezza con la quale la madre tenne sempre testa al figlio, arrivan­ do più volte a discutere alla pari15, mentre Kubrick scivola sulla sua persona ritagliandole la parte della madre fedele, il punto di riferimen­ to, sempre pronta a ricevere il figlio, compagna di grandezza e di sventura; c’è indubbiamente qualcosa della madre di Barry. Il rapporto con le donne, le altre donne, cioè le femmine, in un’accezione chiave nella quale Kubrick avrebbe lasciato scivolare il germe della perdita del controllo, era il controcanto oscuro alla limpi­ dezza delle vittorie militari, era l’altra metà dell’imperatore, più timo­ rosa, gelosa, isterica, femminea, da reprimere in un tiranno; V anima junghiana, cioè la componente psicologica femminile dell’uomo, di fronte all’improvvisa comparsa deirammws, l’elemento psicologico maschile della donna.16

2.

IL «DENTRO» E IL «FUORI» DI BONAPARTE

Manteniamo viva la distinzione deleuziana tra un dentro e un fuori intesi come dimensioni contrapposte di due sistemi “cerebrali”, e cioè l’uomo col groviglio di sentimenti e passioni che lo agitano 15 Cfr. F. Markham, Napoleon (1966), Penguin, New York 2004, p. 145. 16 Del resto la figura di Napoleone è apparsa per due volte sullo schermo al traino di sue amanti: è il caso di Maria Walewska (Clarence Brown, 1937) e di Desirée (Henry Koster, 1955), due personaggi peraltro assenti nella prima e unica fase del progetto kubrickiano.

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dall’interno e il mondo come infinità insondabile. L’uomo cerca, già lo si è visto, di ignorare il suo “dentro” nel tentativo di sottomettere a una legge razionale il “fuori”, concependolo alla stessa stregua del suo cervello. L’errore sta proprio nel concepire come razionale il cervello umano, nel non sapere che nelle sue caratteristiche sta quello scacco mimetico che Kubrick illustra alla perfezione. Per questi motivi, le figurazioni del cervello che Deleuze individuava erano tutte luoghi di scandalo della ragione: dalla tavola circolare nella War Room di Stranamore, ad Hai 9000 e, più avanti, 1’Overlook Hotel o, oltrepassando la pubblicazione de L’immagine-tempo, il centro d’addestramento di Parris Island.17 Il titolo originale di Arancia meccanica esprime anch’esso l’idea di una sottomissione ad un calcolo. Napoleon altro non doveva raccontare che la storia di un uomo che voleva sottoporre il fuori alla ingannevole razionalità del dentro, senza considerare che proprio nel dentro, che pure è nostro, ci appartiene (è l’ambiguità teW heimlich, su cui Kubrick tornerà più compiutamente), era già presente la causa della rovina totale di un siffatto progetto. Napoleone è il cervello, in tutta la sua complessità. Il controllo ricer­ cato dall’imperatore, doveva essere figura del controllo ricercato da Kubrick nel preparare e nel realizzare il film storico, in un caso e nell’altro il controllo sulla ri-creazione di un tempo. Questione che Enrico Ghezzi aveva posto immediatamente in luce, intitolando uno dei paragrafi della sua monografìa «Il controllo (Napoleone)», e ac­ cennando appena, di seguito, al film non fatto, ma lasciandolo come concretizzazione di un’ossessione che è in fondo un esorcismo: «l’ossessione del controllo (il controllo dell’ossessione non si dà) è terrore della morte, della perdita totale di controllo.»18 Così la perdita del controllo sul progetto da parte di Kubrick, acco­ stata al reiterato gusto a veder frustrato nei suoi film ogni tentativo di dominio, si colora di una sottile ironia che comunica direttamente con quella che, di lontano, avrebbe osservato l’agitarsi vano di Bonaparte. Per un attimo Kubrick è uno dei suoi eroi, uno di quelli che, come ha spiegato Gianni Rondolino, 17 Si veda G. DELEUZE, L’immagine-tempo (1985), traduzione di L. Rampello, Ubulibri, Milano 2001, p. 228. 18 E. Ghezzi, Stanley Kubrick, Il Castoro, Milano 1999, p. 94.

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paiono continuamente e contemporaneamente esposti ai colpi del destino e ai conflitti sociali, all’affermazione di una propria individualità e allo scac­ co esistenziale: come frammenti o brandelli di un’umanità sofferente che a poco a poco [...] si rende conto del proprio fallimento, o meglio si dimostra vittima, spesso incosciente ma anche spesso predestinata, della storia, intesa come dimensione onnicomprensiva dell’esistenza umana, confine estremo, insuperabile e coercitivo, di un’esperienza di vita, di cui il singolo non pare più di tanto consapevole e responsabile.19

Se Bowman era arrivato alle sorgenti della Storia, Napoleone avrebbe provato a farsi egli stesso nuova fonte, fallendo e aprendo a Redmond Barry, l’ingannato dalla Storia, o a Jack Torrance, il posse­ duto dalla Storia. Il nuovo tempo che Bonaparte avrebbe voluto fon­ dare sarebbe stato punto di partenza per tutti quelli che l’avessero se­ guito e imitato, sarebbe stato per i futuri governanti molto più di quel­ lo che Alessandro o Cesare erano stati per lui. Credeva, ancora, nella fondazione di una Historia magistra vitae a partire da lui, come esem­ pio completo delle virtù umane, ma la Storia non gli aveva insegnato tutto. Lo scacco doveva compiersi all’intersezione, di impossibile solu­ zione, tra il dentro e il fuori, laddove si sarebbe dimostrato che «il cervello non è un sistema ragionevole più di quanto il mondo non sia un sistema razionale.»20 Le due tesi sarebbero state da una parte l’assoluta abilità di stratega, dall’altra le ansie e le nevrosi dell’uomo, come il non essere di estrazione nobile, il pessimismo sulla condizione umana e soprattutto il problematico rapporto con le donne, a proposito del quale Kubrick disse a Gelmis che era cosa degna di un Arthur Schnitzler! Questa seconda dimensione, la meno nota e la decisiva, della per­ sonalità di Bonaparte, emergeva subito nel progetto kubrickiano, fin dal tempo giovanile dell’addestramento a Brienne21, dove Napoleone è iscritto alla prestigiosa accademia militare, frequentata dai figli dei 19 G. Rondolino, Qualche idea sull’opera di Kubrick, in Aa.Vv., Stanley Kubrick, «Ga­ rage», Paravia, Torino 1998, p. 150. 20 G. Deleuze, op. cit., p. 228. 21 Brienne rappresenta il punto d’inizio anche per Gance (notevole) e per Guitry (trascu­ rabile).

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nobili più in vista di tutta la Francia. Kubrick ha così modo di eviden­ ziare subito uno dei crucci maggiori del suo personaggio: l’estrazione borghese. Napoleone è un provinciale e la mancanza di titolo e denaro resteranno a lungo un fatto di cui vergognarsi: «These was harsh and cheerless years for the lonely, impoverished provincial, among af­ fluent French noblemen’s sons.» Una volta adulto, invitato a casa di Barras dove si gioca a carte e dove a un tavolo potrà per la prima volta scambiarsi una occhiata con Giuseppina (nella succitata sequenza pas­ sata quasi uguale in Barry Lyndon) «Napoleon is one of the few guests not playing cards; he has no money.» Prima dell’esilio all’Elba, il nar­ ratore interverrà dicendo che i sovrani d'Europa si sarebbero compor­ tati con Napoleone in maniera del tutto diversa da come si sarebbero comportati se il condannato fosse stato uno di loro. Il complesso è lo stesso di Redmond Barry e la comunità è ugualmente chiusa. Napo­ leone è ben consapevole di ciò; incontrando Metternich a Dresda osservò: «Your Sovereigns bom on the throne can let themselves be beaten twenty times and return to their capitals. I cannot do this be­ cause I am an upstart soldier. My domination will not survive the day when I cease to be strong and therefore feared.»22 Su questa differenza sottile e sostanziale si gioca tutta la vita militare e politica di Bonapar­ te e si manifesta la violenza quale mezzo di fondazione e mantenimen­ to di un potere e di un ordine sociale. Il riscatto arriva, come in parte anche a Barry, dalla destrezza con cui il còrso maneggia le armi e, ancor di più, dalla incredibile capacità di lettura e organizzazione che dimostra davanti alle mappe. Quella delle mappe sarà una costante dello script; di fronte ad esse il futuro imperatore stupirà tutti, superiori compresi e i suoi tavoli (sempre più grandi man mano che le decisioni assumono un peso continentale; non si può non sorridere pensando a II dottor Stranamore) ne saranno immancabilmente coperti. Per dare un’idea ulteriore della precisione dei calcoli di Napoleone, Kubrick aveva anche pensato di ricorrere all’uso di «animated maps», che facilitassero, durante le campagne, la comprensione piena dei progetti di guerra: nella sceneggiatura la loro 22 Cfr. F. Markham, op. cit., p. 202. Kubrick limita la cosa ad un dialogo con Talleyrand in cui Bonaparte ammette che «the only treaties you have been able to negotiate are the ones I have won on the battlefield.»

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presenza è annotata in sette occasioni.23 La mappa è il simbolo della velleità del dominio, è il mondo in scala a portata di mano, su cui fare e disfare a proprio piacere. È il momento dell’illusione di essere quel meccanismo indifferente che governa l’incedere delle umane cose: la vicinanza con 2001 avrebbe favorito lo spettatore più attento. E que­ sta illusione sarà in fondo la stessa di Jack Torrance, quando, allucina­ to dalle forze inconsce e sovrannaturali dell’Overlook, dominando dall’alto il modellino del labirinto posto nel giardino dell’hotel, scor­ gerà Wendy e Danny, sui quali per la prima volta avverte di avere po­ tere di vita o di morte. Tornando a Brienne, è durante questo soggiorno che la voce off dei protagonista lancia il primo segnale di cinismo kubrickiannapoleonico: «Life is a burden for me. Nothing gives me any pleas­ ures; I find only sadness in everything around me. It is very difficult, because the ways of those with whom I live, and probably always shall live, are as different from mine as moonlight is from sunlight.» La prima donna di Napoleone diciassettenne è Caroline Columbier, con lei passeggia nei boschi in una scena «of pre-Raphaelite innocen­ ce and beauty», per quanto, Kubrick lo fa dire a Bonaparte stesso, «our whole business consisted in eating cherries together».24 Ma è a Lione, poco dopo, che Napoleone incontrerà Lisette, tenera ragazza di strada che scioglie le sue maniere impacciate di cadetto. Dalla sempli­ cità di questo primo incontro, dovuta forse al lignaggio della ragazza come sembra suggerire anche il Kubrick di Barry Lyndon o l’ultimo di Eyes Wide Shut, comincia il difficoltoso e controverso rapporto di Napoleone con le donne, che vengono a rappresentare una forza primi­ tiva, sconosciuta, irrazionale, di una violenza affatto diversa da quella che Bonaparte è solito impiegare per i suoi fini, una violenza che esula dal calcolo e dal pensiero e che non è in grado né di fondare, né di reggere alcunché, ma è semmai capace di scardinare tutto ciò che in­ contra sulla sua strada, è la sconfitta della certezza e della razionalità. Napoleon (dopo Lolita) sarebbe stato il banco di prova di Kubrick per 23

Da notare che tale soluzione era presente anche nel primo film di Gance, durante l’assedio di Tolone: gli inserti delle mappe erano arricchiti da contributi grafici che mettevano in evidenza le manovre della battaglia. 24 Kubrick segue alla lettera, parola per parola, il testo di Markham. Cfr. F. MARKHAM, op. cit., p. 20.

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la rappresentazione del femminile, intrisa ancora di un certo maschili­ smo e non ancora complessa come sarà per l’Alice Harford di Nicole Kidman: Giuseppina è ritratta come un’ipocrita e piagnucolosa approfittatrice, Maria Luigia, viziata e sprovveduta, riderà sempre come una stupida (il verbo che Kubrick usa in sceneggiatura è «to giggle»). Di Giuseppina Napoleone si innamora, mentre la donna, più anzia­ na, lo asseconda per convenienza. La loro notte d’amore, che sarebbe stata la prima vera scena di sesso in un film del regista, tradisce già il gioco di specchi in cui l’imperatore stava cadendo: «int. Josephine’s bedroom - night: The candlelit, oval bedroom is completely encir­ cled with floor-to-ceiling mirrored panels, which multiply the erotic images of Napoleon and Josephine, making love.» La descrizione è molto dettagliata, kubrickiana nel richiamo alla forma del cerchio, adatta all’idea del gorgo in cui Bonaparte è preso e figura di una circo­ larità più ampia in cui dovrà ricadere. Le lettere che si scrivono i due sono emblematiche; Kubrick aveva in mente di farle leggere mentre sullo schermo scorrevano le immagini di Napoleone in marcia coi suoi soldati e quelle di Giuseppina a casa con l’amante. Bonaparte scrive che non riesce a vivere lontano dall’amata, Giuseppina scrive ad un’amica che il sentimento che prova è «a state of indifference». Napoleone, dal canto suo e coerentemente con il cinismo e il vitalismo particolare del regista, non chiede tanto: «I ask of you neither eternal love nor fidelity, but only truth, utter ho­ nesty.» A differenza di tanti personaggi kubrickiani, l’imperatore ap­ pare come un uomo dell’ora e non del sempre. Il loro rapporto prende sempre più toni da tragedia: il senso di pec­ cato che Kubrick infonde nella nota che segue rincontro tra Giuseppi­ na e il capitano Charles, ha cupi toni di decadente carnalità: «She slowly turns, looks into his eyes and kisses him, long and languo­ rously.» I due amanti consumeranno la loro passione sotto gli stessi specchi che avevano visto le gesta dell’imperatore. Il tono da tragedia persiste, insinuando il pericolo di una violenza compressa e connotan­ do Napoleone come eroe tragico, e si sposta, seppur non del tutto coe­ rentemente visto che Giuseppina non è Desdemona, verso l’Otello shakespeariano. Una lettera anonima infonde nell’animo di Bonaparte il sospetto, la paura di esser stato tradito, lo fa cadere vittima di una irrazionalità che travolge la sua freddezza. La differenza rispetto ad

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Otello è che i sospetti di Napoleone sono fondati, ma, prima di agire razionalmente come gli si addice, Kubrick gli mette in bocca un «I might be tempted to strangle her.» Davanti alla moglie piangente, pe­ rò, si dimostrerà debole e le prometterà di non lasciarla. Le sconfìtte sentimentali, le indecisioni coniugali, stridono di fronte alla perfezione delle strategie militari, alle vittorie esaltanti, alla durezza con cui am­ ministra il potere e alla sicurezza di sé. Kubrick apre uno spazio nel quale infondere, sotto metafora, la frustrazione del controllo, un luogo dal quale rendere a Bonaparte le sue reali dimensioni, ricreando le proporzioni che la Storia reclama. L’imperatore kubrickiano si sdop­ pia e, nella sua grande solitudine, il doppio lo trova in se stesso. La vita militare è dunque la pienezza che nasconde le impotenze di quella privata. Giuseppina dovrà in seguito concedergli il divorzio perché impossibilitata a dargli un figlio, che Napoleone insegue con la stessa ambizione e per fini non diversi da quelli che lo muovono in battaglia: l’amore per il figlio che vuole si lega indissolubilmente alla volontà di eternare il suo potere. Da un lato quindi Kubrick continua a scrivere scene per un Napo­ leone cinico e vincente, dall’altro tratteggia un uomo insicuro che non sa disegnare mappe utili alla conquista delle sue donne e che vede rea­ lizzarsi entro le mura domestiche una probabilità lontana di trovare ostacoli inaspettati lungo il suo cammino. Una sera durante una cena di festeggiamento per l’incoronazione, Kubrick parla per bocca di Napoleone25 del perché del fallimento della

Rivoluzione e della natura dell’uomo: NAPOLEON: The revolution failed because the foundation of its political philosophy was in error. Its central dogma was the transference of original sin from man to society. It had the rosy vision that by nature man is good, and that he is only corrupted by an incorrectly organized society. [...] Society is corrupt because man is corrupt - because he is weak, selfish, hypocritical and greedy. And he is not made this way by society, he is born this way you can see it even in the youngest children. [...] MONSIEUR TRILLAUD26:

25 Markham nota, in certe considerazioni di Bonaparte, talune inclinazioni hobbesiane, fi­ losofo notoriamente accostato anche a Kubrick. Cfr. F. MARKHAM, op. cit., p. 137. Va notato che l’intervento ingenuo, almeno per Kubrick, messo in bocca a questo per­ sonaggio avrebbe avuto un significato amplificato; l’unica amante che, nella sceneggiatura,

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Your Majesty, you certainly have a very pessimistic view of human nature. NAPOLEON: My dear Monsieur Trillaud, I am not paid for finding it better.

Questo sentimento era in parte già presente in 2001, tant’è che Dumont e Monod scrivevano nel loro studio sul film: L’histoire est enfermée dans les limites de l’espèce; les groups humains s’affrontent pour se détruire ou se dominer. Cette logique du conflit ne condamne-t-elle pas toute révolution à n’étre qu’un renversement de domina­ tion, et le tort de révolutionnaires ne serait-il pas qu’ils pensent un changement de régime politico-social dans les termes qui seraient valables seulment pour désigner un changement d’espèce ?27

Nel 1972, intervistato da Ciment dopo Arancia meccanica, Kubrick diceva: Penso che Rousseau, trasferendo il concetto di peccato originale dall’uomo alla società, si sia reso responsabile di un sacco di analisi sociali fuorviami che poi seguirono. Non credo che l’uomo sia quello che è a causa di una società strutturata imperfettamente, ma piuttosto che la società sia strutturata imperfettamente a causa della natura dell’uomo.28

La sceneggiatura del Napoleon è di tre anni prima: quanto c’è di Stanley Kubrick in Napoleone Bonaparte? L’altro Napoleone, quello familiare e meno kubrickiano stando a quanto dice Aragno che definisce la famiglia del regista il suo più grande capolavoro29, intanto sposa Maria Luigia d’Austria cercando in un colpo solo di ottenere da lei un figlio e un riconoscimento presso i sovrani europei (i passi che poi muoverà Redmond Barry nel castello dei Lyndon). La nuova compagna sa poco della vita coniugale («My papa has never allowed me even to have a pet of the male gender», di­ ce al marito) e si dice soddisfatta delle prestazioni di Napoleone. Dall’austriaca avrà il figlio che voleva, ma durante l’esilio all’Elba gli

Napoleone trascina in camera con scarsa accortezza facendosi notare da una disperata Giu­ seppina, è Madame Trillaud. 27 J.-P. Dumont, J. Monod, Le foetus astrai, Christian Bourgois, Paris 1970, p. 135. 28 Cfr. M. Ciment, op. cit., p. 167. 29 Cfr. R. Aragno, Kubrick. Storia di un’amicizia, Schena, Fasano (BR) 1999, p. 112.

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sfuggirà anche lei, che avrà, prima della morte di Bonaparte, due figli dal generale Neipperg. Dell’equivocità del tema femminile, Kubrick aveva cosparso la sceneggiatura, basti pensare che Napoleone, dopo aver incontrato lo zar Alessandro, dice che se fosse una donna se ne innamorerebbe.30 E il generale Kutuzov, preparando la strategia per la vittoria sui francesi, fa affidamento sul fatto che l’imperatore non possa stare più di tanto lontano da Parigi se vuole mantenere il suo potere: «GENERAL KUTUZOV: [...] The French are like women. You cannot stay away from them for too long.» Prima della morte a Napoleone apparirà in sogno la defunta Giu­ seppina, a illuderlo e sfuggirgli per l’ultima volta: «napoleon: I have just had the most vivid ... dream... about Josephine. [...] She hadn’t changed - she was still the same - still completely devoted to me... [...]! wanted to kiss her, but she didn’t want to kiss me... She slipped away, the moment I wanted to take her in my arms.» Questa insistenza vuole ribadire un’altra e più sostanziale questione, che forse rode an­ che di più l’animo stanco di Bonaparte: come Giuseppina, quella Sto­ ria che egli voleva prendere tra le braccia, gli volge sdegnosa le spalle.

3. Ri-fondazione e scacco

Napoleone dunque, come dicevamo, si trova a dover governare una di quelle cesure della storia umana in cui davvero si manifesta l’opportunità di un cambiamento, di una ri-fondazione: molto giusto porlo, in tutta la sua materialità, dopo la fondazione. Napoleone era colui che si era ritrovato coinvolto, prima da vincitore e poi da sconfit­ to, nel succedersi di quelle crisi sacrificali che abbiamo scoperto carat­ terizzare l’andamento di diversi film di Kubrick: progressioni illusorie rinchiuse nel rito e condannate alla ripetizione. 30 La “confessione” sarebbe avvenuta tramite la voce off dell’imperatore: «NAPOLEON (V.O.): If Alexander were a woman, I think I should fall passionately in love with him.» Tra gli atri passi ambigui vi è senz’altro, molto prima, la presentazione di Barras: «Barras is a vi­ rile, handsome, bisexual man with elegant manners of the Ancien Regime.»

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La Rivoluzione francese (l’inizio di Napoleon e il finale di Barry Lyndon} rappresentò di per sé una crisi di entità colossali, capace di mettere a repentaglio l’equilibrio dell’Europa intera. Da una mimesi d’appropriazione (che «divide facendo convergere due o più individui su un solo e identico oggetto di cui tutti vogliono appropriarsi») si passava sempre più ciecamente ad una mimesi dell’antagonismo (che «riunisce facendo convergere due o più individui su un identico avver­ sario che vogliono tutti abbattere»)31. La riappacificazione deve pas­ sare per una vittima espiatoria che, nella frenesia della violenza collet­ tiva, sia considerata unica causa del disordine che ha condotto la co­ munità sull’orlo della distruzione. La comunità stessa deve muovere solidale contro la vittima scelta, dev’esser chiaro a tutti che essa è col­ pevole, un solo istante di incertezza riguardo questo punto può voler dire il fallimento della risoluzione. In questo caso specifico, il capro espiatorio, quello la cui morte dovrebbe restituire equilibrio e serenità, è il re di Francia. I rivoluzionari, tuttavia, si trovarono spiazzati: sacri­ ficata la vittima, la comunità non rimaneva solidale, l’equilibrio non si instaurava, la nuova fondazione non decollava; forse c’era qualcuno che, nel profondo, non credeva alla colpevolezza del capro, sospettan­ do dell’impossibilità di un avanzamento, sospettando che qualcun al­ tro avrebbe dovuto ricoprire il violento esercizio del potere, magari lui stesso. Lo sfilacciarsi delle motivazioni che li avevano uniti nella cac­ cia ai tiranni, disperdeva le cellule della comunità rivoluzionaria. L’incapacità di governare i ritmi della Rivoluzione, di avviare una contemporaneità di azione, misero in serio pericolo gli equilibri: la possibilità di innescare un processo di violenze, vittime e vendette senza fine, era spaventosa, anche perché, in questo caso, la vittima scelta era in grado di suscitare ritorsioni. Napoleone cavalcò questo momento di incertezza, di ignoranza, come spesso è, delle significazioni del gesto, di confusione tra signifi­ cante (che è la vittima) e significato (che è il senso attuale e potenziale attribuito dalla comunità a questa vittima e, da essa, a ogni cosa). Lo iato che viene a crearsi incrina la corrispondenza e il consenso sociale su cui poggia l’arbitrarietà stessa del gesto. Per questo motivo Bona31 Cfr. R. GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo (1978), traduzione di R. Damiani, Adelphi, Milano 2001, p. 44.

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parte cercava di fondare una temporalità nuova che uniformasse l’Europa e per questo cercava, Kubrick vi insiste con un filo di auto­ biografismo, una solitudine politica che gli permettesse un confronto serrato con le sue capacità e lo ponesse in una posizione isolata e su­ periore, tanto da staccarlo da tutti, tanto da essere individuato come il solo portatore di un nuovo ordine. Kubrick tratteggia un imperatore che sovrasta le mappe, che inter­ viene con riga e compasso sulle vite degli uomini, che sogna un tempo che marci come le sue colonne. Si pone, come il regista stesso aveva osservato, al livello della Storia senza capire lo scacco che lentamente sta subendo, non potendo avvertire le spie di una impotenza di fondo che Kubrick avrebbe servito allo spettatore (e serve invece ad un ipo­ tetico filologo) alternando alle certezze del capo i tremori dell’uomo, che alla fine, per natura, è ciò che tenacemente resiste e vince. Diceva Napoleone: «Sangue chiama sangue. È una reazione natura­ le, inevitabile, infallibile. Guai a chi la provoca! Se ci si ostina a pro­ vocare disordini civili e sovvertimenti politici, ci si espone a cadérne vittima.»32 Pare aver ben chiara la situazione che lo ha portato al pote­ re, ma paradossalmente resterà impigliato nello stesso circolo vizioso, è il meccanismo di cui anche lui sarà vittima: un mimetismo di anta­ gonismo spinge i sovrani d’Europa a farne il loro capro e la Storia, impietosa, per un caso che sfugge al calcolo (come un barboncino in un aeroporto...) lo consegna. Napoleone era diventato contagioso, era un esempio pericoloso, nel senso che qualcuno avrebbe potuto imitar­ lo, era quello che Freud avrebbe detto trasgressore di un tabù e che, in quanto tale, diviene tabù anch’esso; Napoleone è di volta in volta la soluzione e la rovina, secondo un percorso contraddittorio che Ku­ brick aveva in mente a partire dalla Rivoluzione. Gli equilibri restaurati, non quelli viennesi, sono i moti kubrickiani di andate (slanci) e ritorni (cadute). Di nuovo la mancata comprensio­ ne del gesto non permetterà a un nuovo sistema di affermarsi: Kubrick ci lascia a guardare, a capire, anche dopo Sant’Elena, il falso inse­ gnamento della Storia e la disperata uguaglianza dell’uomo con se stesso.

32 N. Bonaparte, op. cit., p. 118.

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Lo studio dell’uomo Napoleone, come aveva detto Jan Harlan, serviva a Kubrick per dare una idea dell’ambiguità della coscienza umana, capace da sola di smarrirsi in un turbine di passioni che con­ trastano la ragione. Tutti i suoi personaggi vengono messi a un tratto di fronte alla potenza burrascosa del loro subconscio, quasi schernito da Torrance nel dialogo col direttore dell’hotel, cancellato apparente­ mente in Joker ai tempi di Parris Island, dimenticato dagli Harford tra i marmi sicuri del loro appartamento. Quello di Napoleone, denso di presagi, compariva nelle stanze private, vuote di carte e di compassi.

4. Oltre la violenza di Arancia meccanica Arancia meccanica è un film strano, poco kubrickiano nella genesi. Segue di tre anni 2001, è girato quindi abbastanza agilmente conside­ rando Kubrick, ma soprattutto si accavalla ad un progetto maestoso e fagocitante come il Napoleon, al quale Kubrick pensava ancora inten­ samente nel 1971 e a cui si era dedicato febbrilmente nel biennio ’69’70. Quand’è insomma che Kubrick lavora ad Arancia meccanica? E questo film è da considerarsi dunque meno curato, meno seguito degli altri? Non direi, anzi Arancia meccanica era il film da fare proprio per uscire dall’impasse che il fallimento di Napoleon poteva creare. Era stato Terry Southern, co-sceneggiatore di Stranamore, a portare al regista il libro di Burgess (del 1962) durante una visita sul set di 2001. Kubrick lo aveva letto e ne era rimasto folgorato per lo stile e per la pregnanza del protagonista, Alex (che il regista accostò subito al Riccardo III shakespeariano, creando invero qualche equivoco), in grado di conquistare, nonostante la sua brutalità, per acutezza e soprat­ tutto per un fondo di onestà vitalistica. Per la prima volta da solo (in realtà lo era stato anche nell’embrionale script di Napoleon), Kubrick si accinse a lavorare alla sceneggiatura, la cui prima stesura reca la da­ ta del 15 maggio 1970.33 Il film sarebbe stato girato, in ambienti rea­ li, nelfinvemo 1970-1971, con un budget di due milioni di dollari. 33 Si veda V. LoBrutto, Stanley Kubrick. L’uomo dietro la leggenda, traduzione di M. Bizzarri e A. Farina, Il Castoro, Milano 1999, p. 362.

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Kubrick si allontanava del tutto da Napoleone, non girava Barry Lyndon perché ancora credeva nel film sull’imperatore, e si gettava anima e corpo in un’opera che sentiva come quanto di più personale potesse realizzare, tanto da insistere per avere il nome sopra il titolo ed estromettere del tutto l’ombra di Burgess da un risultato che era so­ lo suo: Stanley Kubrick's A Clockwork Orange.34 Il suo nuovo film sarebbe stato ancora una volta fuori dal tempo, l’esigenza storica che lo consumava veniva sopita, l’esigenza nuova era di tipo teorico e do­ veva realizzarsi fuori da tutto, in quello che Jacques Lourcelles, recen­ sendo il film alla sua uscita, definì «mondo “secondo”».35 Quindi an­ cora il rifiuto di una referenzialità storica, per tracciare la più astratta parabola sulla violenza, anzi sui? ultraviolenza, che è un aldilà della violenza stessa. L’incarnazione storica della violenza, che doveva comparire nella figura di Bonaparte, si disincarnava nella figura fantasmatica di Alex, si librava libera, tra sconvolgimenti sensoriali conti­ nui (il ralenti, l’accelerato, lo zoom, il grandangolo) del tutto priva di motivo, fosse esso di conquista o di mantenimento, pura e terribile. Sembra quasi che Arancia meccanica sia una valvola di sfogo, dalla quale far fuoriuscire la violenza compressa e repressa di Napoleon e della sua sempre più ardua riuscita, e con la quale ritornare alle origi­ ni, al feto o alla scimmia; è la prima inquadratura: l’occhio, il design futurista che in un colpo rimanda alla stazione spaziale e alle rocce de­ sertiche. Molto giustamente, in un recente intervento, Paolo Bertetto ha os­ servato come il mondo di Arancia meccanica respinga ogni elemento di naturalità in virtù di una ri scrittura del visibile che passa per un universo di modelli artistici già semiotizzato: «In A Clockwork Orange nulla appare come natura e tutto è invece iper-semiotizzazione, citazionismo sistematico, artefatto che evoca altri artefatti, segno di se­ gno, immagine dell’immagine.»36 Alex vive in un mondo duplicato e con la sua carica animalesca gioca a distruggere le “convenienze se­ miotiche” cui siamo abituati, oppure le rovescia a suo piacere. Ciò 34 Ivi, p. 377. 35 La recensione, apparsa in «Fiction», n. 226, oct 1972, è ora tradotta in italiano in M. ClMENT (a cura di), op. cit., pp. 256-260. 36 P. Bertetto, A Clockwork Orange - Le forme della messa in scena, in V. Zagarrio (a cura di), Overlooking Kubrick, Dino Andino Editore, Roma 2006, p. 75.

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che lo rende terribile è questo essere oltre tutto, la sua violenza è oltre la reciprocità, oltre la purificazione, è dentro di lui e non chiede altro che di essere espressa, in libertà: Alex, il personaggio più vitale di tut­ to il cinema kubrickiano, è votato alla distruzione e all’autodistruzione, ma è anche l’unico che alla fine rinasce davvero, non è sottomesso. «Alex può essere considerato una creatura deU’id. Egli - diceva Kubrick - è in tutti noi.» L’id, per gli anglosassoni, è l’equivalente del più noto Es, cioè del polo pulsionale della personali­ tà umana, luogo dell’origine delle altre due istanze psichiche, VIo e il Super-Io. Alex incarna l’Es nella sua impersonalità di pronome neu­ tro, Alex vive senza remore questa impersonalità, per questo è da una parte fuori dalla Storia (in un mondo secondo, appunto), ma dall’altra la imbeve ed emerge, grazie allo zoom, come il luogo del rimosso, come l’immutabilità di quella Storia da cui Kubrick lo esclude e a cui l’autorità giudiziaria lo nasconde trasformandolo in un’arancia a oro­ logeria: di nuovo animato/inanimato, di nuovo dentro/fuori. Alex, dunque, viene dopo 2001, ma per il filtro di Napoleone37 38: dell’imperatore conserva la violenza, non nella sua formula matemati­ ca, ma nel suo gusto estetico: le nefandezze di Alex sono balletti ar­ moniosi che confermano quanto già avvenuto in 2001, decontestualiz­ zano le musiche e le piegano ad una nuova esigenza, in una moltipli­ cazione del segno e del significato sconvolgente. Alex massacra la banda di Billyboy in un teatro in disuso e la sequenza si apre su un elegante affresco per allargarsi, con lo zoom, a tutto il boccascena; vio­ lenta la moglie dello scrittore Alexander tra l’arredamento futurista del suo appartamento, cantando Singin ’in the rain, che è il massimo punto della traslazione semantica di un motivo popolare che allude al sogno 37 Si veda l’intervista rilasciata a PH. STRICK e P. HOUSTON, op. cit., p. 121. 38 Le citazioni a 2001 sono moltissime: oltre alla prima inquadratura, si noterà la presenza del disco con la colonna sonora del film nel negozio di musica in cui entra Alex; il vino versa­ to su un astronave e che fluttua per l’assenza di gravità richiamato da Alex mentre ascolta Be­ ethoven; la moglie di Alexander che esce da una sorta di capsula divenuta oggetto d’arredamento, in un mondo che, come osserva il barbone, non è più affidabile da quando l’uomo è stato sulla Luna e gira in orbita intorno alla Terra. Non ultimo si noterà che Alex risvegliatosi dal coma, parlerà della sua esperienza come di «un lungo, nero intervallo, pres­ sappoco un milione di anni». Per quel che riguarda Napoleone, è da notare, nei filmati violen­ ti che Alex deve vedere durante il suo trattamento, che uno degli individui che massacrano un uomo (peraltro vestiti di bianco come i drughi) indossa la classica feluca napoleonica.

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d’amore del musical; uccide la signora dei gatti in una danza tribale che rimanda ad antichi riti panici di fecondità. Ma questa violenza che è pura scelta, pura arbitrarietà, si perde nella seconda parte del film, dove la violenza diventa necessità o peggio ancora vendetta, non più istinto, ma pensiero. La cura Ludovico e poi soprattutto la dimostra­ zione (di nuovo teatrale, ma di un vero teatro della crudeltà), della sua riuscita, la violenza scomposta dei barboni esasperata nel montaggio rapido dei loro primi piani famelici, quella brutale e vile degli exdrughi ora, molto coerentemente in verità, poliziotti e quella sadica di Alexander, sono scene del tutto oscure e funebri, come ha osservato Ruggero Eugeni39, del tutto private di quel vitalismo che riesploderà nell’ultima inquadratura onirica del film. Ciò che ora è controllato è l’essere pulsionale di Alex, il suo Es vivo è annullato da un Super-Io che si fonda su una violenza incanalata, ma non diversa, nella sostan­ za, da quella pulsionale del drugo. Quando Alex viene arrestato e pe­ stato nei locali della polizia, uno degli ispettori osserva che «Violence makes violence», che fa eco al «sangue chiama sangue» napoleonico e che resta però un modo di dire sciocco e vuoto e non una riflessione sul reale cortocircuito che proprio la violenza avvia; è un linguaggio piatto e superficiale, anch’esso incanalato, anch’esso “ludovicizzato”, e il linguaggio è il primo elemento, non a caso, ad essere violentato nello slang di Alex e nel turpiloquio esilarante, infantile e surrealista, dell’incontro finale con la psichiatra. Alex vive in una società che è fondata sulla violenza, il che è tutto diverso dal dire una società violenta. Una società che però non sa di essere fondata sulla violenza e respinge Alex in quanto portatore dell’istanza basilare della loro civiltà e della loro storia: il drugo in­ frange tutti i divieti, che altro non sono che violenza pietrificata e quindi la fa come rivivere. Alex, per la sua società, è il pharmakos, nel duplice significato che tale termine assume nel greco classico, e cioè veleno ma anche antidoto, male e rimedio, secondo uno di quegli slittamenti altamente produttivi e favoriti di Kubrick: egli è infatti la vittima da uccidere (è quello che vorrebbe la polizia) e al contempo da tenere come sacra (è quello che vuole il ministro), perché è su di essa che si instaura, che si fonda un nuovo ordine. Questo è quanto si a­ 39 Si veda R. Eugeni, Invito al cinema di Stanley Kubrick, Mursia, Milano 1999, p. 89.

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spetta da lui il governo, cioè la più alta rappresentazione dell’arresto della violenza, mentre lo scrittore sovversivo Alexander se ne vuole servire in senso opposto, nel tentativo di svelare il meccanismo (ma anche il suo scopo è da attuarsi violentemente). È Mr. Alexander che compiange Alex come «a victim of the modern age», esattamente co­ me la sua povera moglie: ma la moglie è vittima della follia, della ri­ bellione di una scheggia impazzita che non appartiene alla modernità, ma piuttosto alla postmodernità, mentre Alex è realmente vittima di una pretesa modernità. D’altra parte il film, a partire dal suo corpo centrale, cioè dal perio­ do di detenzione di Alex, comincia a sottolineare una serie di slitta­ menti che rappresentano altrettante falsità volte a indurre in inganno i soggetti con cui si entra in contatto, mentre nella prima parte, che può definirsi dell'ultraviolenza, si riscontra quell’onestà di cui parlava Kubrick nelle interviste (Lourcelles divide il film in due parti che inti­ tola rispettivamente Alex in libertà e Alex in schiavitù e tale schiavitù altro non è che un inganno operato ai danni dell’Es, cioè di Alex); po­ tremmo dire che Arancia meccanica si propone di riprendere quello che Foucault definirebbe il tema della genealogia della morale. In primo luogo Alex non vuole sottoporsi alla cura Ludovico per diventa­ re buono, per redimersi, ma per tornare in libertà: durante la detenzio­ ne Alex non dà mai segno di ravvedimento, continua a fantasticare su di sé vedendosi ora centurione rabbioso che frusta Cristo traendone piacere (sequenza che rimanda alle blasfeme statue di Cristo presenti nella camera del protagonista, che Kubrick anima, con procedimento ejzenstejniano, focalizzando l’attenzione su sangue e chiodi), ora con­ dottiero in riposo circondato da tre donne a seni scoperti. Il primo equivoco sta dunque nel pensare che Alex creda nella cura. In secondo luogo, si scopre ben presto che la cura medesima non si prefigge di redimere i criminali, ma di trasformarli in automi, di renderli fisica­ mente impotenti, ignorando gli effetti terribili che una tale soluzione può portare su una mente rimasta identica. Perché Alex non dimentica mai nemmeno per un momento chi è stato e cosa vorrebbe fare appena uscito, e se non si eccita davanti all’ultra violenza o al dolce su e giù {in and out nell’originale), è solo per i conati di vomito che sono in­ dotti farmacologicamente. Distrutto, Alex urlerà che ha capito, la vio­ lenza è male, la violenza è antisociale: come si vede, non ha capito

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niente. Qui Arancia meccanica anticipa Full Metal Jacket, la mente di Alex sfugge ad ogni controllo e ciò è chiaro anche ai medici, ma il corpo può da solo imbrigliare la mente, incatenarla a sé e alle sue rea­ zioni. Questo confronto di corpi è suggerito ripetutamente nel corso del film, in un alternarsi serrato di vitalità, costrizione, atrofizzazione; Alex è l’unico personaggio che attraversa tutte le condizioni: libero e vivo nella veste bianca del drago, costretto in giacca e cravatta quando è condotto in prigione e quando è riammesso alla vita, bloccato infine, con gli arti ingessati. La mente di Alex, ciò che lo distingue dai suoi compagni, resta vi­ va. Per questa ragione non si può concordare con Pierre Giuliani quando dice che Arancia meccanica esprime chiaramente il meccani­ smo della coazione a ripetere40, perché Alex ha piena coscienza del suo passato e non ha rimosso nulla, prova ne sono gli incontri col bar­ bone e con Alexander, prova ne è anche il pugno che vorrebbe scaglia­ re contro l’odiosissimo Joe, il violento perbenista che ha affittato la sua camera. Il metodo pavloviano è un inganno del corpo, ma non della psiche: quello che si cerca è una reazione, non un convincimen­ to. Il ministro, senza accorgersene, illustra alla perfezione la scellera­ tezza della cura: «il nostro soggetto paradossalmente viene spinto ver­ so il bene dalla spinta del male». Il circolo è quanto mai kubrickiano e lascia intendere che la spinta, l’unica, è quella al male. Il buon sa­ cerdote, portavoce del regista, osserva che l’insincerità degli atti umi­ lianti compiuti da Alex (amplificati dai disgustosi versi che li accom­ pagnano e che ribadiscono la fisicità essenziale della reazione) è evi­ dente e che per tale motivo non può ritenersi redento un tale soggetto; ma in un mondo che fonda il suo esistere sociale e il suo essere storico sul misconoscimento non può importare molto che un risultato sia raggiunto sinceramente o meno. Il tentato suicidio di Alex è un residuo di violenza, che paradossal­ mente ormai significa un residuo di vita, intesa come libertà. La sua morte apparente («un lungo, nero intervallo, pressappoco un milione di anni») prelude a una rinascita, per ora fantasticata: il suo dolce su e

40 P. Giuliani, Stanley Kubrick (1990), traduzione di C.A. Bonadies, Le Mani, Recco (GE) 1996, p. 60.

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giù tra schiere plaudenti di uomini in costumi storici. Perpetuazione dell’istinto e immutabile contaminazione storica.

Ill Settecento: il sogno inghiottito

1. Il secolo xviii, infine

Una delle caratteristiche più marcate del cinema di Kubrick, direi quasi una tensione perversa e irrinunciabile, è la contraddizione. La sua poetica, anche se sarebbe forse più coerente parlare di logica, è fatta di antitesi che bloccano le tesi senza superarle, è fatta di elementi opposti che creano uno spazio nel quale insinuare la pretesa perfezio­ ne dello spirito critico. Questa contraddizione si esprime di preferen­ za all’interno di una supposta identità, in uno stato apparente di ugua­ glianza, sia essa suggerita dalla trama, o costruita stilisticamente attra­ verso il ricorso alla simmetria e alla ripetizione. Nei film di Kubrick non ci sono mai il bene e il male come categorie, ma c’è una precisa necessità (uno scambio di battute, uno sguardo, ma anche un carrello o uno zoom) che li mescola al punto tale in cui non si riconosce più do­ ve sia l’uno e dove l’altro. Da qui ne deriva l’innumerevole serie di dicotomie su cui la critica si esercita da sempre: animato/inanimato, libertà/ordine, uomo/macchina, dentro/fuori, occhio/cervello, amore/morte, coinvolgimento/straniamento, ragione/sentimento, sacro/tecnologico e ancora si potrebbe continuare. Kubrick respinge ogni certezza che non sia l’innegabilità di un grande flusso spazio­ temporale nel quale l’uomo è suo malgrado immerso e che cerca di controllare con la misurazione e il calcolo, al quale cerca di imprimere un’identità che finisce col coincidere con la sua storia, secondo un or­ dine cronologico e lineare che il regista scardina. Il cinema, in quan­ to grande flusso spazio-temporale, coincide, tecnicamente, con questo sentimento, ne è anzi l’esteriorizzazione e un’ideale concretizzazione.1 1 Si potrà vedere a riguardo la suggestiva interpretazione di BERNARD STIEGLER sulla coincidenza del film con lo scorrere della coscienza, raccolta (in quanto testo del Festival del-

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La modernità dell’atteggiamento kubrickiano non poteva non con­ frontarsi, o per lo meno non interrogare, il pensiero moderno al suo sorgere, per ritrovarvi la gran parte delle contraddizioni di cui diceva­ mo. Kubrick non è affatto un nostalgico illuminista, ai pensatori del XVIII secolo lo lega proprio ciò che, preso nel suo contrario, nel suo contraddittorio, lo allontana. L’illuminismo kubrickiano (così detto per intendersi) sarà nello spirito critico che interroga il meccanismo, che lo vorrebbe perfetto, ma che con paziente sadismo ne fa affiorare le falle. Come Kant, in cui tale coscienza fu risvegliata da Hume* 2, così Kubrick sa che una ragione che non accetta il rischio di sbagliare è quella che si conforma a determinate verità-schiavitù. D’altra parte lo stesso intento primariamente pedagogico del progetto illuminista non poteva attecchire su chi ricerca appassionatamente le resistenze ad ogni tipo di educazione. Kubrick dunque è affascinato dalla ragione dell’uomo e certo trova nel Settecento i primi impulsi per un coerente tentativo di dominio del mondo in una prospettiva scientifica e positivista cui lui stesso non poteva dirsi insensibile; ma tuttavia l’idea di una ragione autosuffi­ ciente ed eterna è messa in discussione ferocemente in ognuna delle sue pellicole. Quindi se il dilemma voltairiano tra la ricerca di una evoluzione progressiva e la convinzione che l’umanità rimanga sempre la stessa è prossimo al pensiero kubrickiano, l’eternità della raison che gli è sottesa non può trovare ascolto presso il cineasta, che cerca piut­ tosto nell’irrazionalismo dell’archetipo l’invariante che lega l’uomo nel tempo. In altre parole il limite interno di antistoricità che reca in sé certo pensiero illuminista3, è scongiurato in Kubrick da un pessimismo che gli deriva dalla consapevolezza di un’uguaglianza che riguarda, come la filosofia dedicato al tema della «Instabilità» e svoltosi a Roma dall’11 al 14 maggio 2006) in «MicroMega», n. 7, settembre 2006, pp. 103-110. 2 Deleuze notava come in Hume «la teoria diventa enquiry [...] Kant se ne ricorderà, pur trasformandola e razionalizzandola, quando concepirà la teoria come tribunale.» G. Deleuze, Hume, in F. CHATELET (a cura di), La filosofìa dell’Hluminismo, traduzione di L. Sosio, BUR, Milano 1976, p. 42. 3 Cesare Luporini parlava per l’illuminismo di «incomprensione, irriverenza e mancanza di pietas storica verso il passato», elementi del tutto non rinvenibili in Kubrick: si veda C. Luporini, Voltaire e le “Lettres Philosophiques". Il concetto della storia e l’illuminismo, Sansoni, Firenze 1955, pp. 216-sgg.

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dimostrato, l’uomo fin dalle sue origini e che nessuna ragione può ri­ solvere. Le traiettorie kubrickiane non contemplano vie di fuga, tanto meno interne all’uomo. Se l’illuminismo ha quindi un’influenza sicura nel suo cinema, essa è legata saldamente alla sua stessa critica, l’illuminismo diventa «angoscia mitica radicalizzata», per usare le pa­ role di Horkheimer e Adorno. Del resto che Kubrick intenda girare un film sui Lumi mosso da un tale sentimento angoscioso è confermato proprio da Barry Lyndon, che nel suo voler essere dichiaratamente apparenza, spettacolo e rap­ presentazione che, sullo schermo, diventa anti spettacolo e antirappre­ sentazione, raggela ogni dinamismo e si offre come sofferenza; sotto la superficie dipinta di Barry Lyndon, o ai suoi margini, ribolle il coa­ cervo di contraddizioni sulla condizione dell’uomo e sulle sue reali possibilità di possesso e di intervento, lo zoom è ora un attentato a questa superficialità (in avanti), ora il suggerimento del fuoco di una prospettiva che, a ritroso (cioè: all’indietro), riporta allo sguardo privi­ legiato che è quello dello spettatore: ma che il centro del quadro o il luogo dello sguardo siano in qualche modo ordinatori, è credenza e convenzione umana. Le rotture stilistiche del film, rappresentate dall’irruzione della macchina a mano (cioè dalla negazione di un per­ corso meccanico sia esso il binario di un carrello o il dispositivo ottico dell’obiettivo), seguono l’irruzione della violenza non codificata, della pulsione di morte, sono come uno sfregio su un dipinto. «Settecento, illuminismo, cultura laica, razionalità: questa struttura ideologica - ha scritto Alberto Crespi - è continuamente minata dalla logica di potere dei personaggi, dalle loro scelte irrazionali, dalle esplosioni di violen­ za, dalle spie di una cultura romantica [...] che fa già capolino tra i miti culturali del Secolo dei Lumi.»4 Che il Settecento fosse per Kubrick, come ha detto Ghezzi, «l’immagine cristallizzata del “mondo”», era ben comprensibile anche prima di Barry Lyndon, film col quale la citazione diretta al XVIII se­ colo si chiude nel cinema kubrickiano, film che riassume e sistematiz­

4 A. CRESPI, Spazio e tempo in «Barry’ Lyndon»: la quadratura del cerchio, in G.P. Brunetta (a cura di), Stanley Kubrick. Tempo, spazio, storia e mondi possibili, Pratiche, Parma 1985, p. 167.

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za gli spunti d’analisi seminati nella gran parte delle opere che l’hanno preceduto. Già Orizzonti di gloria contiene una serie di riferimenti piuttosto espliciti al XVIII secolo, che Sandro Bernardi ha analizzato bene nella sua monografia sul regista.5 Tali riferimenti fanno da contorno ai due personaggi più negativi del film, i generali Mireau e Broulard, che, nella prima sequenza, si incontrano in una delle stanze del grande ca­ stello settecentesco che funge da quartier generale e da elemento di­ sturbante nel parallelo che verrà ad instaurarsi tra esso e le trincee. Mireau e Broulard passeggiano per l’ampio salone e Kubrick li segue con una sinuosità e una limpidezza che fanno di questa sequenza uno degli omaggi più espliciti a uno dei modelli del giovane regista: Max Ophuls. Questa scelta stilistica, isolata in un film caratterizzato dall’uso geometrico del carrello (sia nel castello, che nelle trincee che, ancora, durante l’attacco al Formicaio), è molto funzionale all’idea che Kubrick vuole dare della conversazione e del comportamento dei due signori della guerra. La sequenza appare divisa in 30 inquadratu­ re, cinque delle quali organizzate come piani-sequenza. Nell’inq. 1 Mireau entra in campo da sinistra e si dirige verso il lato opposto del salone, da dove sta per entrare Broulard: nel suo tragitto ci permette di scorgere tre quadri presenti alle pareti della stanza, tra cui, nell’ordine, L'amour au théàtre frangois di Watteau, un ritratto della Pompadour di Boucher e L'amour au théàtre italien ancora di Watteau, due artisti che Kubrick riprenderà alla lettera in Barry Lyndon. Nell’inq. 2, dopo essersi stretti la mano, i due si dirigono verso il ritratto della Pompa­ dour; segue una lunga sequenza di campo/controcampo che si inter­ rompe all’inq. 21, quando Broulard, alzatosi, si avvicina a\VAmour au théàtre frangois e quindi è raggiunto da Mireau nei pressi della Pom­ padour, dove c’è un tavolino al quale Mireau si versa da bere. Di nuovo, all’inq. 24, stavolta seguendo Mireau, ci è concesso un altro giro nella sala, ma è l’ultima inquadratura del segmento, la 30 e la più ophulsiana, che risulta la più complessa: Mireau raggiunge Broulard che stava per uscire irritato, lo prende sottobraccio e lo riconduce ver­ so il centro della stanza; i due compiono un giro completo attorno a un 5 S. Bernardi, Kubrick e il cinema come arte del visibile, Il Castoro, Milano 2000, pp. 65-67.

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mobile tondo sopra il quale vi è un enorme vaso (vero e proprio sparti­ traffico nel corso di tutta la sequenza); terminato il giro, durante il quale, sotto lo sguardo della Pompadour, Broulard ottiene da Mireau ciò che voleva, i generali si dirigono sotto il primo Watteau che ci era apparso in apertura di sequenza nei pressi di un altro elegante tavoli­ no. Kubrick si è fermato al centro della sala, li riprende in campo lun­ go, mentre l’esitante Mireau ora sostiene che non c’è tempo da perde­ re. In questa magistrale sequenza, la prepotenza scenografica del XVIII secolo obbliga ad interrogarsi sull’atteggiamento kubrickiano nei confronti di quella cultura. Più che ai Lumi il pensiero corre alle fètes settecentesche, al tempo passato senza preoccupazioni, oppure col terrore segreto della noia, della fine della festa. I nobili che vivo­ no sopra le vite dei soldati contadini di Barry Lyndon sono ritratti da Boucher, che Kubrick cita letteralmente nel salone di Mireau, si per­ dono nelle atmosfere lievi e sognate di Watteau, eppure vivono sull’orlo della loro stessa fine. Ha detto Jean Starobinski: «Les pares de Watteau, les boudoirs de Boucher, le camaval de Guardi apparaissent comme les images d’un paradis dejà secrètement travaillé par la mélancolie de sa destruction prochaine, dejà blessé à mort par une fante inséparable de ses plaisirs.»6 Kubrick quindi ci racconta già, nel salone di Orizzonti di gloria, il suo sentimento nei confronti del Sette­ cento, un sentimento forte di fine, di baratro, dissimulato dietro la fal­ sità dell’esibizione, quella del vanitoso Mireau che arreda la sua sala per stupire i Broulard, ma anche quella del mondo come teatro (non è un caso che due quadri su tre rimandino al teatro), come autorappre­ sentazione. Lo sguardo della Pompadour nasconde, nella sua elegan­ za, una pulsione di morte che sarà il tratto costante della citazione kubrickiana di matrice settecentesca e che sarà il velo invisibile steso su tutte le inquadrature dipinte di Barry Lyndon che esala la Storia come ultimo respiro. Così anche in Lolita i riferimenti al XVIII secolo si muoveranno sulla stessa linea: dopo la boutade riguardante il numero telefonico

6 J. Starobinski, L’invention de la liberté, Skira, Genève 1964, p. 9.

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che Charlotte Haze dà a Humbert, 17767, che rimanda ad un Settecen­ to non europeo (quindi non vecchio e morente, meno contraddittorio ancora), alla rivoluzione americana, e, più estesamente, ai miti dell’America e al suo puritanesimo, è il quadro dietro cui muore Quilty che conferma quanto i più attenti avevano già potuto cogliere in Orizzonti di gloria. Il ritratto di Lady Hamilton, di Reynolds, altro pittore più che presente in Barry Lyndon a ulteriore dimostrazione del­ la lunga prospettiva della ricerca pittorica kubrickiana, si ammanta di molteplici significati: si trova nella casa di Quilty, confusionario mu­ seo di ogni oggetto, dove Spartaco gioca a ping pong, dove il noir in­ cappa sorpreso nella irriverenza della commedia, dove Humbert si trova faccia a faccia con la sua Ombra, il suo persecutore, il suo dop­ pio nemico. Un quadro settecentesco è un segno di eleganza che fu, accatastato ora, come tutto, senza cura, utile al più a ripararsi dalla morte. Quilty va a nascondersi proprio dietro ciò che per Kubrick si­ gnifica in fondo morte e Humbert distrutto spara contro l’eleganza della sua cultura di professore, spara dietro la perfezione di un disegno che è come una poesia raffinata, spara a quanto di marcio c’è in lui e che ora gli si nasconde beffardo dietro la superficie buona della sua anima, dietro un passato che ci giunge in tutta la sua esteriorità e com­ postezza, ma che cela nel suo profondo le mille facce di Clare Quilty. Antonio Costa, analizzando brevemente il frammento all’interno della giustapposizione storia/discorso che l’effetto dipinto nel suo senso esteso può avere in relazione al film, osservava che Kubrick sigillava «con 1’“impenetrabile” trasparenza della pittura settecentesca, la per­ fetta simmetria delle morti parallele dei due personaggi.»8 E in 2001, già se ne è parlato nel primo capitolo, la stanza in cui Bowman si ritrova solo nell’infinito è chiaramente settecentesca, vi ritroviamo alle pareti indicazioni pittoriche perfettamente in linea con quelle di Orizzonti di gloria, Lolita e che convoglieranno poi su Barry Lyndon, vi ritroviamo le ceramiche francesi e la sconfitta della ragione dell’astronauta: il processo di decadimento è portato fino in fondo.

7 Questo particolare è assente nel romanzo, ma presente nella sceneggiatura approntata da Nabokov; si veda V. Nabokov, Lolita. Sceneggiatura, traduzione di U. Tessitore, Bompiani, Milano 2001, p. 73. Il romanzo, in Italia, è edito da Adelphi. 8 A. Costa, // cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, p. 316.

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Arancia meccanica eredita la teatralità, l’esibizione: i drughi reci­ tano anzitutto per se stessi e lo scontro con la banda rivale avviene in un teatro abbandonato, nel quale Kubrick ci introduce, con zoom ac­ compagnato da un movimento a scendere, partendo da un delicato af­ fresco di una fioriera fissata su una balaustra, dipinta secondo le leggi della quadratura, di cui il regista si ricorderà benissimo (movimento di macchina compreso) nei castelli visitati e abitati da Redmond Barry. Barry Lyndon sopraggiunge dunque come il grande riepilogo del settecentismo kubrickiano, a suo modo un macrotesto fondamentale per capire tutta una serie di citazioni che si rivelano basilari nell’interpretazione di diversi film nel solco di una linea autoriale. Non si tratta del primo film storico di Kubrick, nemmeno del primo tentativo di ricostruzione filologica di un’epoca (le trincee di Orizzonti di gloria gli erano valse persino l’apprezzamento di Winston Chur­ chill, in quanto a verosimiglianza), ma della prima speculazione diret­ ta sulla Storia. L’orizzontalità di Barry Lyndon, il suo scorrere tem­ porale lungo una linea precisa, lungo date, lungo momenti storici pre­ cisi e riconoscibili, è la più feroce delle illusioni: l’ultimo cartello è l’improvviso riavvolgimento del nastro, e una ripartenza che tutti co­ nosciamo (il 1789, ma il romanzo arrivava a comprendere il periodo napoleonico): «Epilogo - Fu durante il regno di Giorgio III che i sud­ detti personaggi vissero e disputarono. Buoni o cattivi, belli o brutti, ricchi o poveri, ora sono tutti uguali.» Che l’uguaglianza sia in riferi­ mento all’utopia rivoluzionaria è un’interpretazione sottile e ottimista che chi conosce Kubrick sa di non poter accettare. La vocazione al film storico, ormai di lontano desiderio napoleonico, si esprime diver­ samente in Barry Lyndon, che del Napoleon conserva solo parte delle trovate tecniche e qualche riga di sceneggiatura9, Barry Lyndon è il gemello concreto e immanente di 2001, perché è un film che «può fare

9 Va detto che Roy Walker (scenografo in Shining e Eyes Wide Shut) affermò che «tutte le uniformi di Barry Lyndon furono fatte per essere usate in seguito per Napoleon. E anche parte del mobilio, per esempio i letti. Queste cose più tardi furono accuratamente conservate da Stanley in un magazzino vicino agli Elstree Studios. Ma alla fine rinunciò al progetto e di­ strusse tutto.» In M. Di Flaviano, F. Greco, S. Landini, Stanley and us, Lindau, Torino 2001, p. 155.

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paura, può far nascere la paura (ideal-umanistica) di un nulla nella Storia (qui non c’è il monolito, ma la pietra tombale).»1011 Tutto il film, tutto il suo essere cinema sperimentale, riflette la con­ cezione kubrickiana della Storia, ma soprattutto toma a riflettere sul misconoscimento dell’atto fondatore che si continua a ripetere, nel se­ colo del rito e del gioco. Se, come innegabilmente è, il Settecento va considerato il secolo più “frequentato” da Kubrick, bisogna muoversi da presupposti legati al concetto di rappresentazione, di specchio, di raddoppiamento, di mise en abyme per cui il quadro imita la vita che imita i quadri, per cui il quadro è in un certo senso vacuo, vuoto di senso e la vita lo è di conseguenza. Eppure la Storia passa attraverso questi simulacri, che noi siamo costretti ad inseguire alla ricerca di un significato imprendibile, esattamente come accadrà a Redmond Barry. Non siamo lontani da quanto sosteneva Jean Baudrillard quando denunciava l’iperrassomiglianza che faceva sì che niente rassomiglias­ se più a niente se non «alla figura vuota della rassomiglianza, alla forma vuota della rappresentazione.»11 Ma quando accusava il Barry Lyndon di Kubrick di essere il capostipite di una serie di pellicole che ci avrebbero portato «in un’era di film che, propriamente, non hanno più senso, un’era di grandi macchine di sintesi, con una geometria va­ riabile», non si accorgeva che dietro la simulazione di Barry Lyndon, si celava la nostalgia per la Storia in quanto referente perduto che lui stesso, acutamente, denunciava.

2.

Barry Lyndon: la perfezione Ed esso [il romanzo di William M. Thackeray Le memorie di Barry Lyndon] offriva inoltre l’opportunità di fare una delle cose che il cinema può realizzare meglio di qualunque altra forma d’arte, presentare cioè una vicenda a sfondo storico. La descrizione non è una delle cose in cui i romanzi riesca­ no meglio, però è qualcosa in cui i film riescono senza sforzo, almeno allo sforzo che viene richiesto al pubblico. Ciò è altrettanto vero per la fanta­

10 E. GHEZZI, Stanley Kubrick, Il Castoro, Milano 1999, p. 129. 11 J. Baudrillard, La storia: uno scenario rétro (1977), traduzione di P. Lalli, ora in G.M. Gori (a cura di), La storia nel cinema, Bulzoni, Roma 1994, p. 225.

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scienza e per le storie fantastiche che offrono possibilità visive che non si trovano invece nelle vicende contemporanee.12

Questa dichiarazione fu rilasciata da Kubrick a Michel Ciment in una delle loro conversazioni e coglie la questione Barry Lyndon al cuore. Si dovrà obiettare che in verità i buoni romanzi sortiscono ef­ fetti descrittivi di sconvolgente vivezza, ma è evidente che Kubrick allude all’immediatezza, al privilegio sensoriale che il film in quanto esperienza visiva garantisce e che coinvolge tutto il pubblico senza bi­ sogno di chiedere ad alcuno uno sforzo d’astrazione. E questa possi­ bilità cinematografica funziona soprattutto, secondo il regista, nei film fantastici, di fantascienza e storici, cioè in film che scelgono di rap­ presentare qualcosa che non c’è più, qualcosa che nessuno ha mai vi­ sto. Barry Lyndon, ergo, è un film fantastico, o addirittura un film di fantascienza; oppure, il passato è fantascientifico alla stessa maniera del futuro e Barry Lyndon è la prova che Kubrick cerca per dimostrare 1’esistenza di quella struttura permanente che lega passato (il Settecen­ to), presente (lo spettatore) e futuro (2001). Le potenzialità del cine­ ma sono sempre oltre la realtà. Ciò che rende Barry Lyndon diverso da 2001, ciò che distingue il film storico da quello di fantascienza, almeno per Kubrick, altro non è che il diverso lavoro sulle fonti: il film storico ha un universo referen­ ziale fatto di segni e simboli che va considerato. Il punto di partenza era un romanzo minore di Thackeray, autore di cui Kubrick possedeva tutte le opere e del quale aveva per qualche tempo pensato di ridurre il lavoro più famoso, Vanity Fair. Ma The Luck of Barry Lyndon (que­ sto il titolo del 1844, mutato poi nell’edizione del 1852 in The Me­ moirs of Barry Lyndon) si rivelò presto il romanzo più adatto, adatto soprattutto ai “soprusi” kubrickiani, ai tagli, alla condensazione di più personaggi in uno, alla rivoluzione strutturale che già di per sé indica la strada seguita dal regista. Thackeray si muoveva tra la cosiddetta Newgate Fiction, cioè i romanzi che attorno agli anni Trenta dell’ottocento traevano ispirazione dalla vita criminale, e la tradizione della literature of roguery, tenendo a modello Henry Fielding e i suoi eroi, su tutti Tom Jones (fu sulla scorta dell’asse Fielding-Thackeray 12 In M. CIMENT, Kubrick, traduzione di L. Codelli, Rizzoli, Milano 2002, pp. 169-172.

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che gran parte del pubblico istituì arbitrariamente un’asse Tom JonesBarry Lyndon negli esiti cinematografici, con Kubrick che avrebbe seguito il modello di Tony Richardson dodici anni dopo: inutile dire che quella parte restò delusa). Raccontato in prima persona dal narratore/protagonista, il romanzo è la storia divertente e divertita di un li­ bertino settecentesco narrata da un uomo che viveva il moralismo vit­ toriano: avventure mirabolanti a cui era necessario credere pena resta­ re fuori dall’empatia necessaria con l’io narrante, tanto che Barry/Thackeray, alla fine, ammonisce severamente il lettore che po­ trebbe ridere di lui.13 Al di là dei cambiamenti riguardanti personaggi e trama, su cui altri si sono già soffermati14, è anzitutto interessante notare la trasformazione che subisce il narratore, perché da questa procederà la stilizzazione kubrickiana: il narratore sparisce dalla diegesi e dalla prima persona passa alla terza singolare. L’“io” di Tha­ ckeray, destinato a divenire comunque un “egli” nella trasposizione filmica, scompare e al suo posto compare una voce neutra, onniscien­ te, che anticipa (come nel romanzo) gli avvenimenti, ma che sta del tutto dalla parte dell’enunciazione, cioè al di qua della diegesi, dalla stessa parte dello sguardo. Ciò che toglie a Barry Lyndon i possibili residui del picaresco è la scelta di raccontare la storia attraverso i quadri, attraverso le testimo­ nianze di un secolo: i quadri vengono a essere il residuo, l’emergenza cui aggrapparsi, pur sapendo che si tratta di una rappresentazione al quadrato, perché le fonti iconografiche scelte da Kubrick non sono ri­ tratto della realtà, ma dell’ideale di realtà (e per di più vincolato a una classe sociale) settecentesca. È la denuncia e la trasposizione dei ma­ teriali di cui il film si serve e la traduzione di uno spettacolo in un al­ tro, quello popolare del secolo XX, un’ibridazione che non costituisce

13Cfr. W. M. THACKERAY, Le memorie di Barry Lyndon, traduzione di T. Giartosio, Fazi Editore, Roma 2003, p. 355: «Oggi, nella prigione di Fleet Street in cui scrivo queste pagine, c’è un ometto che sta sempre a deridermi, si prende gioco di me e mi sfida anche a lottare con lui; e io non ho il coraggio di toccarlo.» 14 Rimando a J. SEGOND, Le hasard et la nécessité, in «Positif», n. 179, mars 1976 (ora tradotto in italiano in M. CIMENT (a cura di), Stanley Kubrick, La Biennale di Venezia 1997, pp. 267-273, ma erroneamente attribuito a Jean-Loup Bourget) e più diffusamente a PH. PlLARD, Stanley Kubrick Barry Lyndon, traduzione di D. Giuffrida, Lindau, Torino 2004, pp. 53-72.

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altro che un’interrogazione sulla fruizione in quanto visione e sulla simulazione in quanto esibizione. Le fonti iconografiche sono dunque la Storia, ma organizzando il racconto su di loro, si avverte un che di falso, di artefatto, di costruito: i quadri sono la fossilizzazione di un’idealizzazione storica, motivo per cui Barry Lyndon costituisce uno scandalo per il film storico. Il Settecento è il materiale di base, il soggetto del film, il quadro diventa codice d’interpretazione, filtrato però da un ulteriore codice che è quello cinematografico, che diverrà il responsabile della mortalità del quadro invadendolo col tempo, per cui le figure si muovono e non sanno nemmeno come, perché sono all’interno di un sistema di con­ venzioni strutturali che le sovrastano. La metafora che Kubrick cerca­ va è scoperta: Barry Lyndon, si pensi allo zoom all’indietro che lascia irrompere il fuori campo, è il film in cui l’iconico non solo supera il diegetico, ma addirittura lo sminuisce, lo annichilisce. Il nihilsmo ku­ brickiano di fronte all’idea della Storia passa ancora una volta per una crisi di codici. Il senso dell’attesa, già presente nelle fotografìe gio­ vanili e elemento costante anche a livello tematico, è espresso al mas­ simo ed esasperato in Barry Lyndon dove naturalmente viene frustra­ to. Ma è sulle ragioni costitutive di quell’attesa, sull’impossibilità del­ la restituzione storica, nonché nella volontà di allontanarsi da una resa artefatta della Storia per renderla artificialmente attraverso le immagi­ ni lasciateci da essa stessa, che bisogna interrogare il film, conside­ randone il rapporto coi temi cari al suo autore. Per questo chi parlò di album fotografico da 11 milioni di dollari sfiorò la verità senza inda­ garla e anche un grande come Billy Wilder rimase interdetto: «Ci ha messo sei mesi per capire come riprendere gli attori a lume di candela, senza luce artificiale. In realtà, poi, a nessuno frega un accidente se quella che stai vedendo sullo schermo è luce di candela oppure no. Qual è il senso del film? Qual è la storia? No, non mi è piaciuto. È l’unico film di Kubrick che non mi piace.»15 Un’analisi iconologica di un film complesso sotto questo aspetto come Barry Lyndon, non ha senso in questa sede, ma passare rapida­ mente in rassegna alcune delle principali fonti può servire ad esplicita­ re meglio quanto detto sopra, considerando, come ha fatto De Bemar15 Cfr. C. CROWE, Conversazioni con Billy Wilder, Adelphi, Milano 2002, p. 24.

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dinis indagando la figura della porta nel cinema kubrickiano, che i quadri sono effettivamente la porta attraverso la quale il regista ha scelto di accedere al Settecento.16 L’attenzione di Kubrick si focaliz­ za soprattutto su Francia e Inghilterra, la prima per ragioni di egemo­ nia culturale nelle classi aristocratiche, la seconda per questioni più puramente geografiche. Tra i francesi i più citati sono senz’altro Bou­ cher e Watteau (i due presenti nel salone del generale Mireau), ma an­ che Fragonard e, in misura minore, Chardin (impressionante la somi­ glianza tra l’autoritratto di quest’ultimo del 1775 e il primo piano del capitano Feeney). Come si vede si tratta di autori rococò in linea coi gusti delle corti e infatti appaiono negli ambienti aristocratici, dai qua­ li Kubrick capta, più ancora che la lettera, l’atmosfera trasognata, insouciante come direbbe Starobinski. Letterale è certamente il richia­ mo alle illuminazioni di George La Tour. Il rapporto con gli inglesi è lievemente diverso. I più studiati sono senza dubbio Gainsborough, Reynolds e Hogarth. Del primo e del se­ condo Kubrick si serve principalmente per quanto riguarda i ritratti e alcune scene d’interni, ignorando, per Gainsborough, le pitture paesi­ stiche. Questi artisti sono seguiti alla lettera proprio perché sono i veri cantori dell’aristocrazia, essi ritraggono i nobili al massimo della loro volontà celebrativa. Gainsborough ha molto in comune con le scelte francesi del regista e si distingue dalla classicità di Reynolds proprio nella delicata rappresentazione della country life anglosassone. Tutta­ via si deve dire che le differenze tra i due autori tendono a sfumare nella resa filmica e Kubrick finisce col mescolarne i tratti, appiatten­ doli da un punto di vista critico, ma non perdendo nulla a livello di immagine. William Hogarth, di contro, è stato sempre la citazione più precisa, notata e analizzata: lo sguardo impietoso di Kubrick che riconduce Redmond sui suoi stessi passi, viene filtrato dalla modernità del mora­ lismo di questo artista, in modo particolare dal ciclo del Rake’s Progress. Bisogna notare che Kubrick rinuncia all’ironia hogarthiana, come dimostra il fatto che una delle citazioni più precise si ha nel momento in cui Bullingdon torna per sfidare Barry e lo trova abban­ donato su una poltrona completamente inebetito dall’alcol e dal dolo­ 16 Si veda F. De BERNARDINIS, L’immagine secondo Kubrick, Lindau, Torino 2003, p. 78.

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re; la scena è drammatica, terribile più ancora che grottesca e per nulla comica. Ma oltre queste palesi ricostruzioni Hogarth è richiamato sot­ tilmente nel finale: è stata rilevata, in una precisa ricostruzione delle fonti iconografiche del regista, una totale identità di calligrafia tra il pittore e Lady Lyndon. Prestando attenzione alla firma che la Beren­ son appone sull’assegno offertole dal figlio, si nota che l’“H” maiu­ scola (che sta per il nome della dama, Honoria) è uguale in tutto e per tutto a quella di Hogarth e, nonostante la diversità delle lettere, anche il resto richiama la grafìa dell’artista.17 Da considerare è poi il rappor­ to che lo stesso Thackeray intrattenne con la pittura hogarthiana, isti­ tuendo un triangolo che finisce col riguardare pittura, letteratura e ci­ nema: il creatore di Barry Lyndon, che aveva inizialmente cercato an­ che una carriera da pittore, cita esplicitamente, nella prima edizione del testo, gli effetti della pittura morale hogarthiana e ne fa, con Fiel­ ding, uno dei modelli da seguire, seppur con altra scrittura.18 La scelta narrativa di Kubrick richiama alla mente Diderot quando diceva che bisognava trovare dei quadri e proponeva il tableau come nuova misura della scansione drammaturgica. L’ideologia diderotiana che stava dietro il tableau e che lo contrapponeva, in un ritorno all’aspetto visivo dello spettacolo teatrale, al coup de théàtre (che è come dire all’azione) è distante dall’intento kubrickiano: il cineasta respinge l’azione, fissa un modello di inquadratura/tab/eaw nel senso più letterale possibile salvo poi spaccarne la cornice con lo zoom e fa tutto questo per darci un senso della nostra completa estraneità al XVIII secolo e al passato in genere. Allo spettatore resta lo sguardo come possibilità di interpretazione, ma l’assenza dell’azione ne mette a nudo l’insufficienza. La stessa ricostruzione filologica che dovrebbe essere la garanzia di un preciso riconoscimento spazio-temporale, ri­ sulta invece anzitutto uno scacco temporale, per cui le immagini di Barry Lyndon sono viste come passate, non sono soggette alla “presentificazione” cinematografica: Bernardi, che ha studiato tale proce­ 17 La ricerca è stata compiuta da Sara Gandolfi, Barry Lyndon di Stanley Kubrick e la pittura del Settecento, tesi di laurea, a.a. 1989/1990, Istituto di Storia dell’Arte dell’università degli Studi di Parma. 18 Si veda R.M. FISCHER, Pictures at an exhibition ? Allusions and Illusions in Barry Lyn­ don, in Aa.Vv, Stanley Kubrick, Deutsches Filmmuseum Frankfurt am Main, Frankfurt am Main 2004, p. 178.

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dimento identificandone la riuscita nell’utilizzo del piano-sequenza, ha parlato di una moltiplicazione del tempo, di una coscienza del tem­ po che contempla la coesistenza di presente, passato e futuro (ancora la struttura permanente del mito): «attraverso lo scorrere del tempo sopra l’arte e dell’arte sopra la vita, in un certo senso paradossale il tempo diventa visibile.»19 È su queste basi che lo studioso può arguire che il senso della Storia non è tanto l’oggetto del film quanto il suo soggetto, il punto di vista «instabile, glissante» a partire dal quale tutto si organizza. Lo zoom sembra costantemente minacciare la sinistra presenza di qualcos’altro nell’inquadratura, come se le campagne o i giardini di Barry Lyndon fossero popolati da fantasmi proprio come i corridoi dell’Overlook Hotel (dove questa minaccia sarà resa perfet­ tamente dalla fluidità della steadicam). Se dunque, stando alla lettura di Fredric Jameson20, la Storia giaceva nel profondo dell’Overlook e le presenze fantasmatiche erano in un certo senso il peso di quella Sto­ ria, il passo non è poi così lungo per azzardare che \&fantasmaticità di Barry Lyndon altro non sia che la presenza di una Storia che guida i personaggi, li illude, dà loro l’impressione della linearità; non quindi un film sulla Storia, ma il film della Storia, che riempie le strade e le case senza che i personaggi se ne accorgano, proprio come capiterà a Torrance. L’utilizzo del paesaggio concorre in maniera altrettanto determi­ nante a questa riuscita. Anche in questo caso il rapporto non è real­ tà—>rappresentazione, ma rappresentazione—Kubrick parte cioè da un paesaggio in quanto sentimento e vi immerge i suoi perso­ naggi, il paesaggio, come i quadri, è quindi qualcosa di già semiotizzato, per recuperare quanto detto da Bertetto in relazione ad Arancia meccanica. In uno studio recente, Marc Desportes ha offerto una let­ tura di diversi paesaggi sulla base dell’influenza che le tecniche di rappresentazione hanno avuto in relazione alla loro percezione: così, se il cinema e il montaggio sono stati d’aiuto nella percezione caotica, urbana e automobilistica dello spazio del Novecento, la pittura del XVIII secolo ha offerto stimoli decisivi e nuovi soggetti d’interesse al 19 S. Bernardi, Kubrick e il cinema come arte del visibile, cit., p. 105. Mi riferisco al suo fondamentale saggio Storicismo in Shining (1981), ora in F. JAMESON, Firme del visibile. Hitchcock, Kubrick, Antonioni, traduzione di D. Turco, Donzelli, Roma 2003, pp. 67-86.

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viaggiatore.21 Il paysage, anzitutto come genere pittorico, diventa ora un luogo reale, secondo un’inversione ricercata da Kubrick lungo tutte le inquadrature del suo film. L’effetto voluto dal regista è duplice: da una parte vuole cavalcare una fondamentale differenza di tempi, dall’altra una differenza di sentimenti. Nel primo caso la contrapposi­ zione è quella tra figura e sfondo, per cui si ha un tempo della storia (o dei personaggi) e un tempo della natura (o dello scenario raffigura­ to).22 Questa contrapposizione è espressa massimamente da quello che è probabilmente l’accorgimento tecnico principe e simbolico del film, il movimento indotto dallo zoom all’indietro. L’utilizzo della carrellata ottica è dovuto proprio alle caratteristiche essenziali della resa filmica che da essa procede: Kubrick vuole immagini il più pos­ sibile piatte, “scivolose”, dichiaratamente artificiali. Lo zoom all’indietro è l’apertura, l’infinità della lontananza, laddove quello in avanti è chiusura, circoscrizione, dettaglio; normale quindi che questo falso movimento (non si sottovaluti questa peculiarità ai fini dell’interpretazione) si relazioni al paesaggio che nasce da una distanziazione tra sé e lo spazio. E si potrà ricordare un noto saggio di Ra­ ymond Bellour, Il mondo e la distanza, in cui lo studioso osserva che «l’autore cinematografico è così per definizione l’uomo di una distan­ za» e questa distanza consiste in null’altro che «in una ridistribuzione continua dello spazio [...] che svela l’essenza della visione, la possibi­ lità del vicino e del lontano e la preoccupazione essenziale che li or­ ganizza.»23 Si intravede in questa definizione la figura registica di Kubrick e soprattutto le principali preoccupazioni di Barry Lyndon: lo spazio dei personaggi è incommensurabilmente inferiore a quello del paesaggio e Kubrick pare suggerire che il senso più profondo stia nel tempo del paesaggio («chi vuole imporre un senso offre sempre un paesaggio» diceva ancora Bellour). La natura che avvolge i personag­ gi (si consideri che non ci sono scene urbane) è quella natura viva, at­ tiva (natura naturans) che aveva ritrovato fortuna proprio presso certi 21 Si veda M. DESPORTES, Paysages en mouvement, Gallimard, Paris 2005, in particolare le pp. 51-98. 2 Ricavo questa suddivisione da S. Bernardi, Kubrick e il cinema come arte del visibile, cit, p. 95. R. Bellour, L’analisi del film (1979), traduzione di C. Capetta e A.C. Aziz, Kaplan, Torino 2005, p. 49.

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illuministi, una natura che recuperava le connotazioni dell’antica phusis greca e che si liberava dalle griglie in cui l’avevano inserita il pen­ siero cartesiano per certi versi o quello cristiano per altri. Il fantasma della Storia è in quell’immensità. Con lo zoom all’indietro «la storia raccontata è perduta, si è fatta sottile, ridotta a un particolare nella grande estensione del visibile».24 Prendiamo ad esempio la prima apparizione dello zoom all’indietro con questa funzione: Barry ha appena litigato con l’amata cugina Nora perché quest’ultima ha danzato con il capitano inglese Quin. Nora gli rinfaccia l’importanza dell’ufficiale, rimarcando quello che sarà il grande cruccio della vita del cugino. Barry se ne va indispettito. Nella successiva inquadratura Barry è intento a spaccare la legna davanti al­ la sua modesta casa e il narratore ci informa della sua volontà di non rivedere più Nora, prevenendoci tuttavia sulla inconsistenza di deci­ sioni come queste. Pochi istanti prima che il narratore intervenga, Ku­ brick allarga enormemente il campo con uno zoom all’indietro, a par­ tire dal ceppo su cui Barry rompe la legna che viene suggerito come fuoco del quadro ad allargamento avvenuto; ci si svela il paesaggio ir­ landese che circonda la casa dei Barry. Il tempo minuto del giovane innamorato che spacca la legna con rabbia e risentimento e che fa del­ la passione per la cugina la sua ragione di vita, si perde nel tempo co­ smico della natura che incombe sopra di lui e che disperde il perso­ naggio con tutti i suoi propositi e il suo orgoglio. L’apertura di cam­ po, l’invasione dell’iconico sul diegetico (che è lo stato d’animo espresso dai gesti e dal volto di Redmond) è l’esteriorizzazione di ciò che il narratore, con ironia, lasciava drammaticamente intendere: la vita e le scelte del giovane saranno eterodirette da una forza misterio­ sa, che lo guiderà su altre strade, una forza che è irrimediabilmente sopra di lui, che vorrebbe ma non può controllare, ma soprattutto che non può smettere di desiderare. Ma questa scelta stilistica ha anche un altro significato che non ri­ guarda, come dicevamo, solo una differenza di tempi, ma anche una di sentimenti. Il gusto paesistico di Kubrick risente infatti delle compo­ nenti preromantiche rinvenibili soprattutto in opere della seconda metà del secolo, successive cioè alla teorizzazione di Burke sul sublime, e 24 S. Bernardi, Kubrick e il cinema come arte del visibile, cit., p. 44.

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cavalca un’altra diversità che riguarda appunto il bello, il sublime e il pittoresco: dolcezza e armonia, assolutezza e terribile angosciosità, varietà stimolante. Risulta già piuttosto evidente una differenza tra il paesaggio della prima parte del film rispetto a quello della seconda: la poesia dei grandi spazi da cui parte il viaggio di Redmond Barry si or­ dina nella sociale armonia dei giardini, connotandosi di conseguenza come momento pre-sociale e terribile, pronto a riemergere laddove l’oggettivazione spaziale gli conceda il varco. Redmond cresce nei sublimi paesaggi nordici e parte alla ricerca di una carriera e di una fortuna che penserà di trovare nella precisione dei giardini o tra le ac­ que e le rovine pittoresche di grandi castelli, ma tornerà circolarmente verso quei primi, terribili paesaggi, passando per una cattedrale ab­ bandonata, ora piccionaia, in cui filtra una luce blu che rimanda alla gothic sublimity di Burke. L’allargamento del campo viene a coincidere allora anche con un cambiamento di registro che mette in contatto le diverse categorie estetiche e considera una loro compresenza all’interno della medesima inquadratura, del medesimo paesaggio. Prendiamo come esempio l’inquadratura in cui Barry è in barca insieme al figlio Bryan e a un cane bianco. Il quadro è organizzato secondo stilemi che rimandano alla poetica del pittoresco, gli elementi (l’acqua e la vegetazione) nella loro varietà sembrano sovrapposti e diluiti l’uno nell’altro, quasi di­ pinti a macchia. Lo zoom all’indietro sperde la barca in quello che da laghetto diventa pericolo, la vegetazione a macchia si rivela incom­ bente sui personaggi e non più varia, ma assoluta. Barry e Bryan sono sull’orlo di un abisso: i colori non mutano e i personaggi nemmeno, non è introdotto in campo alcun nuovo elemento, tutto sta nel movi­ mento che svela sottilmente il sentimento di morte e violenza che per­ vade il Settecento di Kubrick. Il movimento opposto, cioè la carrellata ottica in avanti, comporta una riduzione dell’iconico rispetto al diegetico e focalizza l’attenzione sul centro del quadro, sul personaggio e il suo tempo. Tuttavia questo movimento denuncia in primis il limite dello spettatore onnivedente, che viene reso vedente da un esplicito ed eloquente intervento dell’istanza enunciatrice, e conferma il sospetto che le strade che il protagonista dovrà calcare gli siano segnate da un’entità che governa il suo vagare. L’esempio migliore è dato dall’entrata in scena di Lady

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Lyndon: la scena scandita stupendamente dal Trio per pianoforte di Schubert, è risolta in un’unica inquadratura molto complessa e comin­ cia con un carrello a precedere che ci introduce su una terrazza; un carrello laterale da sinistra a destra ci mostra una serie di gentiluomini seduti ai tavoli, fermi, dipinti. La carrellata si interrompe al tavolo do­ ve siedono Barry e lo Chevalier, in mezzo alle loro due teste di profi­ lo. Sullo sfondo, nella perfetta armonia del giardino, si muovono quat­ tro figure, seguendo la geometria delle aiuole. Il narratore ci previene, come di consueto, sul fatto che Barry stia pensando di sistemarsi spo­ sando una ricca dama e allora Kubrick procede ad un profondo zoom in avanti che seleziona, appiattendola, la famiglia di sir Charles Lyndon. È il movimento di macchina che sembra regolare il destino di Barry.25 Questa inquadratura rivela una verità fondamentale del film, e cioè che in Barry Lyndon niente si muove, che il movimento è impresso dall’alto, è un’interpretazione, una lettura, ma è qualcosa di esterno all’essere umano, o meglio che sta sopra l’uomo, come la macchina da presa può stare sopra un quadro o sopra (e oltre) la realtà. Allo spetta­ tore, come al personaggio, non resta che lo sguardo, con tutti i suoi limiti e le sue dipendenze, uno sguardo reso instabile dallo zoom. Lo sguardo come possedimento irriducibile e affermazione di presenza, come reciprocità a suo modo pericolosa, come si notava nel primo ca­ pitolo. Kubrick rinserra tutto questo nella stupenda sequenza dell’innamoramento di Lady Lyndon, dove non ci sono movimenti di macchina di nessun tipo, ma il ritmo si sviluppa a partire da semplici raccordi di sguardo: dall’inq. 3 alla 11 di questo frammento che, fino al bacio tra Barry e Lady Lyndon, consta di 16 inquadrature, i due personaggi sembrano per un attimo lasciati liberi dalla prepotente pre­ senza dell’istanza enunciatrice e si incontrano fugacemente (è il caso di Lady Lyndon) o appassionatamente (è il caso di Barry, sempre in primo piano rispetto al mezzo busto della dama che per di più deve dividersi il campo col mezzo busto del reverendo Runt) per il tramite del loro sguardo in un sistema a rima alternata (abab) di eccezionale trasparenza e riuscita.

25 Per l’analisi dettagliata di questa fondamentale sequenza si veda ivi, pp. 82-84.

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Il frame-stop sul quale ci è mostrato per l’ultima volta Barry è un punto, un’interruzione momentanea che arresta il flusso e fa quasi an­ dare a sbattere lo spettatore contro il fotogramma, un gesto beffardo del demiurgo nei confronti dello scorrere misterioso e fantasmatico degli eventi, ma anche una strizzata d’occhio all’analista: l’album da 11 milioni di dollari si arresta su una pagina, cosa che sarebbe impos­ sibile in un film; allora ci si potrà domandare se Barry Lyndon sia davvero più libro che film, cioè se ci si possa fermare, tornare indie­ tro, rileggere, oppure se sia un film avanguardistico in cui il falso mo­ vimento perpetuo allude a una sclerosi sostanziale che finisce con l’investire il soggetto stesso del film che è, appunto, la Storia.

3. La crisi delle differenze Nel rappresentare il Settecento di Barry Lyndon, Kubrick calca la mano sull’importanza che il rito ha nella vita della società aristocrati­ ca. Tutto è sottoposto a convenienze che instaurano una meccanicità inquietante in grado di bloccare ogni libertà, di contenere l’essere umano, di regolarne e in un certo qual modo gestirne la vita. La ripeti­ tività di questi riti garantisce una stabilità e un’impermeabilità sociale e costringe gli individui a sottostare a regole la cui trasgressione li porrebbe immediatamente fuori dalla società che su tali convenienze si fonda. Barry sperimenterà sia l’impermeabilità della classe aristocra­ tica, sia la rigidità di un tale sistema: il modo selvaggio in cui attacca e picchia Bullingdon in quello che si potrebbe definire un eccesso di na­ tura, non è contemplato tra i regolamenti di conti leciti e il povero ir­ landese perderà irrevocabilmente la compagnia di Lord Wendover e compagni. Il gioco è uno dei riti principali, è l’applicazione di una realizzazio­ ne sociale, la chiusura e la perpetuazione di un determinato schema, la repressione neanche troppo riuscita di un impulso irrefrenabile di competizione violenta. Ai tavoli da gioco i ricchi scialacquano le loro sostanze, gli opportunisti e gli avventurieri li provocano, tradendo le regole del gioco, ma mai il gioco in sé. Roger Caillois, nel suo I gio­ chi e gli uomini (1958), divide i giochi in quattro categorie corrispon­

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denti alle fasi del ciclo rituale; René Girard dispone queste categorie in un ordine che corrisponde allo svolgimento del processo fondatore, cioè della violenza reciproca che si estingue poi con la risoluzione sa­ crificale. Riprendiamo per intero il passo in cui Girard espone il suo ordine: Ci sono innanzitutto i giochi d’imitazione, mimi, mascherate, teatro, ecc. (Caillois usa la parola inglese mimicry). Quindi i giochi di competizione o di lotta (agon) come la corsa a piedi, la boxe, ecc. Corrispondono alla lotta dei doppi. Poi i giochi di vertigine che Caillois designa con la parola greca ilinx: essi consistono nel girare rapidissimamente su se stessi, far capriole, ecc. Corrispondono al parossismo allucinatorio della crisi mimetica. Infine i gio­ chi d’azzardo che corrispondono alla risoluzione sacrificale.26

Com’è facile notare, tre di queste categorie sono rinvenibili in Barry Lyndon: i giochi di imitazione altro non sono che l’autorappresentazione della società settecentesca, che è mascherata e teatro continuo, ancor più calcata dalle citazioni pittoriche; i giochi di competizione e di lotta li ritroviamo nei duelli (quattro quelli rappre­ sentati) o nell’incontro di pugilato tra Barry e Toole; i giochi d’azzardo, infine, sono uno dei motori del film. La categoria cosiddet­ ta dei giochi dei vertigine si manifesta meno e in concomitanza alle scene di guerra, la ritroveremo affrontando i film bellici di Kubrick. Girard, già ne La violenza e il sacro, osservava come il gioco andasse senza dubbi riferito al religioso, cioè, nella sua ottica, alla crisi sacrifi­ cale; il gioco riprodurrebbe aspetti di questa crisi: «il carattere arbitra­ rio della posta mostra chiaramente che la rivalità non ha altro oggetto che se stesso, ma questa rivalità è regolata in modo tale che, almeno in linea di principio, non debba degenerare in una lotta senza quartie­ re.»27 Che la società di Barry Lyndon tenda a ingessarsi per contenersi è più che evidente, essa ripete un rito che la tiene lontano dal pericolo dell’esplosione di casi di violenza reciproca. Oltre alle esigenze di una messa in scena che è connaturata e che è già un primo legaccio, il duello, come vedremo meglio, è un’uniformazione della violenza, una 26 R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo (1978), traduzione di R. Damiani, Adelphi, Milano 2001, pp. 130-131. 27 R. Girard, La violenza e il sacro (1972), traduzione di O. Fatica e E. Czerkl, Adelphi, Milano 2003, p. 215.

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sua regolamentazione in seno alla società medesima, e il gioco d’azzardo è appunto la sublimazione della violenza, momento in cui la reciprocità che indurrebbe alla crisi rimane compressa, sul filo di una tensione palpabile eppure forzatamente trattenuta, che al massimo, se deve esplodere, finirà per essere contenuta in quel bacino di sicurezza che è il duello: i vasi sono comunicanti. Il duello, del resto, è accetta­ to, ma con riluttanza, pare quasi che di esso non se ne voglia sapere niente, ecco perché si compie di preferenza all’alba e in luoghi isolati, in aperta campagna o in vecchi edifici abbandonati. L’amore e il denaro sono i due principali agenti di violenza, non a caso sono entrambi soggetti a (e di) tutte e tre le categorie succitate, soggetti al/del rito, al/del gioco e al/del duello. Le due passioni amo­ rose di Barry, quella per Nora e quella per Lady Lyndon, si consuma­ no attorno a un tavolo da gioco (dove alla tenzone delle carte si acca­ valla quella subdola degli sguardi), maturano in un rito (quello meta­ forico del nastro che Nora cela nel seno, quello reale che obbliga Barry a diventare parte della corte dei Lyndon), finiscono drammati­ camente con un duello alla pistola (con Quin e con Bullingdon). L’unico amore gratuito è quello tra Barry e la contadina Lischen che si dichiara non attorno a un tavolo da gioco, ma attorno ad un semplice tavolo sguarnito che dispensa dalla sacralità delle procedure. Il dena­ ro, da parte sua, sostiene sia il rito che il gioco e facilmente conduce al duello. Il duello è l’immagine stessa della crisi delle differenze che, come sappiamo, equivale per Girard alla crisi sacrificale; infatti il duello è pura simmetria e Barry Lyndon accentua questa caratteristica. Il pri­ mo duello, quello in cui in campo lunghissimo perde la vita il padre di Redmond, mostra perfettamente ìa forma: i due contendenti sono uno di fronte all’altro ad una certa distanza; tra loro, spostato lievemente rispetto alla linea immaginaria che lega i duellanti, sta l’arbitro (perno del sistema), alla cui destra e alla cui sinistra, formando una nuova simmetria, si dispongono i padrini; il colpo di pistola è sparato da en­ trambi, l’unica differenza sta nella velocità. Il duello è il risultato di una tensione mimetica che crea dei doppi la cui rivalità costituisce una minaccia e il loro essere doppi trova soluzione laddove l’indifferenza venga annullata (in casi meno gravi, va detto, il duello non contempla

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la morte o il ferimento di uno dei due avversari, semplicemente ne de­ creta la sconfitta, ma resta pur sempre uno scontro tra doppi). Il duello tra Barry e Quin (doppi attorno al possesso di Nora) è in­ trodotto dal dettaglio delle pistole (due, una di fronte all’altra) caricate dai padrini, da cui Kubrick parte indietreggiando con lo zoom; al mo­ mento decisivo Barry e Quin si ritrovano inquadrati in campo lungo e, seppur meno distanti, compongono, con arbitro e padrini, la stessa in­ quadratura dell’uccisione del padre di Redmond. Del tutto diversa è l’organizzazione delle inquadrature nell’incontro tra Barry e Toole: nonostante i commilitoni si dispongano in forma di quadrato per dare una parvenza di gioco rituale al match, Kubrick sconvolge ogni sim­ metria con l’utilizzo della macchina a mano; quello tra i due soldati non è dunque un duello socialmente riconosciuto, ma uno sfogo bruto a cui per scherzo si dà parvenza di gioco (nel senso che qui si dà a questo termine). Del tutto simmetrico, quasi un balletto, è il duello tra Barry e Lord Ludd, nel quale l’utilizzo delle spade al posto delle pistole consente un’ulteriore sottolineatura della crisi dei doppi che sta alla base di questa pratica. L’ultimo duello, quello con Bullingdon, si rivela meno simmetrico, come dimostra il dettaglio di partenza su una sola pistola (rispetto alle due che aprivano il frammento del duello con Quin), la costante contrapposizione Bullingdon/Barry organizzata sull’utilizzo di scale differenti (rispettivamente piano americano e primo piano), per non dire della sostanziale differenza che riguarda l’ordine dell’azione, per cui non si spara insieme, ma prima uno e poi l’altro, affidando il tutto, con vezzo irresistibilmente kubrickiano, al caso di una moneta lanciata in aria. Il più asimmetrico dei duelli, dunque, no­ nostante lo scontro dei doppi sia il più accentuato e complesso. La crisi sacrificale che si è creata in seno alla piccola comunità della fa­ miglia Lyndon si è infatti interamente articolata sull’asse Barry/Bully (volutamente resi doppi anche nei nomi): la loro rivalità è cresciuta su un equivoco di fondo, su una mancata comprensione dei ruoli, che chiude il viaggio di Redmond con la soluzione di una crisi mimetica esattamente come un’altra crisi, risolta con l’inganno (quella Barry/Quin) lo aveva inaugurato. L’equivoco riguarda l’oggetto del desiderio, Lady Lyndon. L’attaccamento di Bullingdon alla madre cresce in maniera esponenziale e distorta proprio dopo l’insediamento

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di Barry in famiglia. È evidente che il bambino desidera possedere la madre e le sta sempre attaccato, tuttavia non scorge nel padre, vecchio e paralitico, un avversario, un contendente; l’impotenza di sir Charles è ciò che mantiene nei ranghi la nevrosi edipica di Bullingdon. La morte del padre e la sua sostituzione con Barry sconvolge il piccolo per una semplice ragione, la possibilità di Barry di possedere Lady Lyndon. Del resto Freud sottolinea come il bambino desideri essere come il padre, sostituirglisi sotto ogni aspetto’, da sir Charles a Barry c’è una bella differenza di modelli e tutt’altra entità di sostituzioni. Ma Bullingdon non considera che Redmond non mira in definitiva a Lady Lyndon, quanto a una posizione sociale che gli assicuri una vita da gentiluomo e anzi trascura la moglie e non la contende al figliastro, che pure si esaspera nel vedere come la madre perdoni tutto al fedifra­ go patrigno. La rivalità si acuirà drammaticamente nel momento in cui Bullingdon, non potendo rimproverare Barry di possedere la ma­ dre salvo scoprirsi, sposterà il suo livore sul lignaggio e sull’infedeltà, toccando Barry nel vivo e avviando la selvaggia scena delle botte du­ rante il concerto. Questa duplicazione esasperata che intride Barry Lyndon (e che poggia sul duello e sul gioco come commutazione e su­ blimazione della crisi sacrificale) si fonda su un equivoco che riguarda un’incomprensione circa quello che si vuole ottenere, circa il reale motivo del contendere: si fonda su un doppio senso. Alla base c’è una più sostanziale e beffarda doppiezza, individuata bene da Sandro Bernardi: la non coincidenza tra significato e significante che, in un processo di allontanamento fino all’irraggiungibile, sperderà il senso e lascerà una rivalità vuota e quanto mai intensa. La storia di Red­ mond Barry muoveva del resto da un equivoco attorno al possesso di un oggetto (che è come dire attorno alla realtà di un evento): nell’incontro amoroso con Nora, Barry si dice emozionato «per la gioia di averlo trovato»; che si tratti del nastro nascosto dalla cugina o del seno in cui viene rinvenuto, non è dato saperlo: il doppio senso occulta e svela il mistero di Barry Lyndon: la ricerca dell’oggetto del desiderio parte da una mitica identificazione fra il significan­ te (il nastro, che nei giochi cavallereschi e poi rinascimentali era utilizzato, tutti lo sanno, per rappresentare, come figura metonimica, il corpo della gen-

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tildonna) e il significato (il seno materno, il seno come totalità della soddisfa­ zione).28

L’illusione di Barry di poter mettere le mani sull’oggetto del suo desiderio è quanto mai effimera e, una volta svanita, il nostro eroe la rincorrerà per tutto il suo viaggio tra contrade e castelli lontani. Ogni volta sembrerà avercela fatta e ogni volta si accorgerà, frustrato, della non coincidenza di significante e significato. La moltiplicazione dei nastri e la loro carica simbolica sperderà Barry «dietro la parata dei significanti» e non sarà possibile infine stringere tra le mani altro che «una serie interminabile di nastri».29 In altri termini: il secolo dei ri­ tuali conosce la ripetizione di gesti rassicuranti e però ignora la loro origine, il loro vero statuto che toma a riguardare una fondazione es­ senzialmente violenta; proprio questa ignoranza è a sua volta il fon­ damento della rassicurazione. Come si è avuto modo di notare analizzando lo scontro tra Barry e Bullingdon, la figura del padre assume un ruolo centrale in Barry Lyndon, viene suggerita e sottratta a più riprese per divenire infine la causa della rovina, dell’indifferenziazione violenta. Ghezzi notava come «la causa prima e razionalmente identificabile delle peripezie di Redmond Barry [fosse] il caso fortuito della morte del padre in duel­ lo»30 e identificava in quel confronto un primo scontro violento, «ar­ chetipico», primordiale. Redmond non ha un padre con cui misurarsi e questo lo porterà a riversare il suo istinto di figlio verso una serie di personaggi che incontrerà lungo il suo cammino e che identificherà, come già notava Ciment e sulla sua scia tutta la critica kubrickiana, ora come padri buoni, ora come cattivi. La prima figura paterna è quella del capitano Quin, che per Redmond è anzitutto un modello dal punto di vista militare: la rivista delle truppe incomincia con Quin e Grogan che marciano davanti ai soldati, il padre cattivo e quello buo­ no uno fianco all’altro. I sogni di gloria del giovane che assiste alla parata lo portano a mitizzare la figura del comandante, per quanto il narratore, molto acutamente, osservi come quelle divise riempissero 28 S. BERNARDI, Barry Lyndon: i percorsi circolari del viaggiatore, in G.P. BRUNETTA (a cura di), op. cit., pp. 171-172. 29 Ivi, p. 172. 30 E. Ghezzi, op. cit., p. 121.

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Barry d’invidia (filled Barry with envy). Il corteggiamento di Quin a Nora è ciò che scatena l’invidia di Barry, che decide di sfidare il capi­ tano. Da parte sua Quin calca la mano, protestando con Nora, sul fatto che Redmond sia un giovanotto e Nora risponde addirittura che si trat­ ta di un ragazzo, poco più importante di un cagnolino; e che Redmond fosse poco più che un bambino al cospetto della maliziosa cugina era dimostrato piuttosto chiaramente nella scena della loro partita a carte, quando Nora prima gli ordina di girarsi con la faccia al muro, quindi lo coinvolge in un gioco erotico che sconvolge il timido Redmond, un gioco che prevede un premio, premio che per Barry rimanda ad altro e che gli costerà la prima frustrazione31: è, insomma, il bambino che non ha capito. Con Quin Redmond scenderà in campo per risolvere la prima crisi mimetica da lui creata e con l’inganno, come si fa con un bimbo fastidioso, verrà allontanato dalla comunità nonostante la vitto­ ria: di nuovo a Redmond sfugge il senso, dietro il nastro non c’è Nora, dietro il cadavere di Quin non c’è alcun nuovo ordine. Padrino di Barry nel duello con Quin è Grogan, che si affeziona al giovane focoso, lo chiama figliolo e lo tratta come il figlio che avreb­ be voluto. È una figura mitica di padre, che accetta di ingannare il fi­ glio per il suo bene, che soprattutto resta differente da lui; Grogan mo­ rirà stupidamente, avanzando verso i colpi dei nemici fino a riceverne uno, cadrà e sarà sostituito in prima linea da un altro dietro a lui, men­ tre Barry se lo carica in spalla e lo porta a morire fuori dal campo di battaglia, scoppiando nel primo dei suoi pianti disperati. Il capitano Feeney, capitano come Quin e come Potzdorf (promo­ zione raccattata sul campo come ladro di strada), è a suo modo un’altra figura di padre cattivo: come Quin chiama, e per ben tre volte, Barry giovanotto (nell’originale young sir, laddove Quin usava young man), gli presenta il figlio Seamus, che avrà più o meno la stessa età di Barry, e non si impietosisce, pur nella sua affabilità, quando Barry chiede di non sottrargli quelle ghinee che sono gli unici risparmi di sua madre, facendo così allusione all’assenza del padre e cercando di 31

Nora è il personaggio femminile più complesso, l’opposto della semplicità di Lischen e dell’immobilità di Lady Lyndon e, rifacendoci alla lettura di Bernardi, è anche il luogo in cui ha inizio «la parata dei significanti»; mi pare che in questa figura femminile, seppur relegata in poche scene, si annidino alcune delle caratteristiche che Kubrick aveva in mente per le donne di Napoleone, delle quali si trattava nel precedente capitolo.

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toccare le corde paterne dell’animo del bandito, che si è dimostrato padre affettuoso. Doppio capovolto di Feeney è un altro capitano, Potzdorf. Anch’egli si presenta a Barry come padre cattivo, giacché sco­ pre l’inganno e la diserzione del giovane e lo costringe ad arruolarsi nel terribile esercito prussiano dove il nostro eroe vivrà anni durissimi e dove tuttavia si distinguerà per il valore militare. Potzdorf dunque è il padre in quanto Legge e Castigo e Barry gli salverà la vita. Dopo questo gesto di devozione, Potzdorf diventerà un padre benevolo, che toglierà Barry dall’esercito e gli affiderà un incarico di massima fidu­ cia, coinvolgendo nell’operazione suo zio il ministro della Polizia, e rendendo più profondo il sentimento di assenza del padre in Barry. Nel romanzo il rapporto filiale con Potzdorf, che è definito dal protagonista/narratore «buon protettore e patrono»32, è anche più manifesto. L’incarico ricevuto dai Potzdorf permetterà rincontro con lo Cheva­ lier de Balibari e anche in questo caso Kubrick smorza il grado di pa­ rentela per fare dello Chevalier il vero padre mitico di Redmond. Nel romanzo, infatti, si sottolinea il fatto che lo Chevalier de Balibari, altri non è che Barry di Ballybarry, fratello maggiore del padre di Red­ mond.33 Kubrick rinuncia all’esplicita parentela, allo zio che sostitui­ sce il padre, per restituire più sottilmente rincontro di Barry con quel­ lo che sarà il suo modello di vita (libertino, giocatore d’azzardo, genti­ luomo che ama le belle donne e la buona cucina) e il suo maestro, gio­ candolo soprattutto nel nome di un irrefrenabile sentimento della Pa­ tria: dinanzi allo Chevalier, che come altri lo chiama dapprima young man, Barry scoppia in un pianto dirotto com’era stato sul corpo di Grogan e lo Chevalier lo abbraccia teneramente come un figlio. Tale «esplosione di sentimenti», come la definisce il narratore, è il risultato di un’assenza, di una mancanza: «Coloro che non sono mai stati lon­ tani dalla patria non immaginano cosa voglia dire sentire una voce amica in cattività.» L’assenza e la nostalgia della patria sono figura dell’assenza e della nostalgia del padre. Come si vede Kubrick ordisce un sistema di padri la cui pericolosi­ tà è sempre scongiurata, un sistema che raggiunge momenti di tensio­ 32 W.M. Thackeray, op. cit., p. 138. 33 Ivi, pp. 145-147.

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ne, ma che mai esplode. Il confronto padre/figlio è un confronto ri­ schioso perché può creare una crisi delle differenze, laddove il figlio interpreti alla lettera il desiderio mimetico di sostituirsi sotto ogni aspetto al padre. Edipo è il distruttore per eccellenza delle differenze, prima col parricidio e poi con l’incesto. Se Girard ha dato tanto spa­ zio a Freud e al complesso di Edipo nei suoi studi, è stato per svilup­ pare quegli effetti mimetici che gravavano dietro una tale questione e che Freud non nascondeva, ma che in un certo senso tratteneva per battere con maggior agio la strada del “complesso”. Dunque la crisi delle differenze e gli effetti mimetici ad essa legati sono strettamente connessi al rapporto padri/figli e alla sua degenerazione edipica e Ku­ brick avverte questo senso di violenza che ha alla base un desiderio mimetico prima ancora che oggettuale e prepara, attraverso i confronti con le cinque figure paterne, la più acuta delle crisi sacrificali, quella che, in un triangolo sui generis, coinvolge Barry, sir Charles Lyndon e Lord Bullingdon. Sir Charles è infatti la prima figura patema nei confonti della quale Barry si pone in senso freudiano e vuole sostituirglisi in tutto, nel li­ gnaggio, nel patrimonio e nel possesso di Lady Lyndon. La frase con cui sir Charles accusa Barry di volerlo morto, e cioè «si vuole infilare nelle mie scarpe» (He wants to step into my shoes), troverà concretiz­ zazione visiva nel supremo gesto di sfida lanciato a Barry da Bullin­ gdon, quando il giovane Lord disturberà il concerto irrompendo in sa­ la con il piccolo Bryan che calza le sue scarpe e, vistane la grandezza, le trascina rumorosamente sul pavimento: Barry voleva infilarsi nelle scarpe di sir Charles e Bully cede le sue a Bryan, irridendo la succes­ sione dei Barry ai Lyndon. Se, come notavamo più sopra, la crisi Barry/sir Charles è evitata dalla morte del vecchio, quella Barry/Bullingdon non può essere evitata e costituisce il prolungamen­ to della precedente, ma, ad essere coerenti, stavolta il padre cattivo da tradire o da uccidere, è Redmond Barry. L’irriducibilità della violenza reciproca, sulla quale poggia il rapporto tra individui nel cinema ku­ brickiano, apparentemente controllata nel secolo del rito e della vio­ lenza calcolata (i duelli) o matematica (la guerra), si conferma al mas­ simo della potenza nella più piccola delle comunità, la famiglia, e nel rapporto, quand’anche non di sangue, tra padre e figlio. La violenza esplode e stravolge la convenienza e la rappresentazione (uno sfregio

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su un quadro, si diceva), pur essendo al fondo di entrambe. Il richia­ mo che Andrea Sani, parlando di Barry Lyndon, fa al Schopenhauer di Parerga e paralipomena è centrato, tanto più che il filosofo tedesco è uno degli autori kubrickiani: l’uomo è da noi conosciuto «soltanto allo stadio di repressione e domesticità che si chiama civiltà», ma fatto crollare o spostato questo strato, è un essere barbaro e spaventoso.34 Ora ci è più facile intendere il costume settecentesco indossato da Alex De Large nel negozio di dischi, o il pubblico che l’applaude nell’ultima inquadratura di Arancia meccanica: Alex è costantemente fuori dai “quadri”. Il gesto finale di Bullingdon è il tentativo di restaurare l’equilibro all’interno di una comunità ormai formata solo dalla madre (che è po­ co più di un ritratto) e dal viscido reverendo Runt e la vittima espiato­ ria deve essere Barry, già identificato dalla comunità più allargata (da Lord Wendover e consimili) come il responsabile di un devastante ri­ schio di contagio. Philippe Pilard definiva la risoluzione di Bullin­ gdon un «“colpo di stato”», ed è in un certo senso in linea con l’interpretazione qui proposta.35 Ma la crisi che l’aristocrazia dei Bul­ lingdon, dei Wendover, dei Runt dovrà subire, sarà di entità ben mag­ giori e andrà ben al di là di un duello, per ora resta scolpita sulla data di un assegno, firmato da una nobildonna che ha la stessa calligrafia di William Hogarth; la Rivoluzione li eliminerà in quanto vittime neces­ sarie perché il mondo possa riequilibrarsi. Ma se Kubrick cala la car­ ta francese è di nuovo per dimostrare la completa uguaglianza dell’uomo con se stesso come causa della sua immobilità, per dimo­ strare una volta di più che Vhistoria non riesce ad essere magistra vi­ tae. D’altra parte, dice Girard che non si può risolvere il problema della violenza per mezzo della vitti­ ma espiatoria senza elaborare nel contempo una teoria del segno e della significazione.[...] Di conseguenza al di là dell’oggetto puramente istintuale, [...]

34 Si veda A. Sani, Il cinema tra storia e filosofia, Le Lettere, Firenze 2002, pp. 169-170. La recente esposizione di Francoforte ha svelato anche gli autori più presenti nella «immense library» del regista: tra nomi noti quali Freud e Nietzsche, compare anche Schopenhauer. Si veda F. Horn, B. Rudhof, Images that go straight to the brain. Exhibiting Kubrick, in Aa.Vv., Stanley Kubrick, op. cit., p. 14. 35 Ph. Pilard, op. cit., p. 114.

Settecento: il sogno inghiottito

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c’è il cadavere della vittima collettiva ed è questo cadavere a costituire l’oggetto primario per questo nuovo tipo di attenzione.36

Barry Lyndon è un film sulla scivolosità dei segni: da qui si vedrà inciampare la Rivoluzione, si vedrà lo spazio aperto per Napoleone e si vedrà inghiottito il grande sogno illuminato del Settecento.

36 R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., p. 128.

IV

Shining:

tutti chiusi dentro «Se fosse riuscito a ricordare quello che era stato dimenticato. Ma era buio e per il terrore aveva perso I’orientamento.» Stephen King, Shining.1

1.

KING ALLE STRETTE

In troppi hanno già calcato la mano sullo scarso valore artistico di The Shining, il romanzo che il maestro dell’orrore Stephen King pub­ blicò nel 1977; Guido Fink lo definì un «romanzacelo» e in nota cercò di dissuadere («meglio evitare»12) dalla lettura la schiera di cinefili che l’avrebbe inseguito nelle librerie in quel 1980 che vide invece venire alla luce l’altro The Shining, di altro valore. E come poi succede, sulle coperte post-kubrickiane del libro c’è Jack Nicholson che ringhia af­ facciato alla porta del bagno e nell’edizione italiana compare un lusin­ ghiero commento di Enrico Ghezzi che, chi ha letto la sua monografia lo sa già, si riferisce al film e non al romanzo definito poco prima «modesto»: estrapolato e incollato là dietro può, se ce ne fosse biso­ gno, aiutare l’indeciso. Sulle troppe e spesso faticose pagine si è d’accordo, sul fatto che la trama sia superba direi anche. King è uno scrittore eccessivo, che ro­ vescia i suoi poteri immaginifici senza filtri, che mescola di continuo i registri più diversi calandoli in strutture ora letterarie, ora cinemato­ grafiche, che un attimo è poetico, un altro è volgare, poi lento in attesa che il fiato gli torni. Ma che presso il suo pubblico tutto questo fun­ zioni alla perfezione non c’è dubbio e che le sue opere siano ambite dai produttori di tutto il globo nemmeno, per quanto non ci si possa 1 S. King, Shining, traduzione di A. Dell’Orto, Bompiani, Milano 2004, p. 137. 2 Cfr. G. Fink, Due, tre, molte apocalissi, in «Cinema & Cinema», n. 24, luglio-settembre 1980.

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ritenere certi che ottenere una trasposizione fìlmica sia del tutto un complimento per un’opera e il suo autore, soprattutto quando la pelli­ cola finisce per travolgere e trainare la carta. Era poi una convinzione kubrickiana che per fare un buon film si dovesse di preferenza partire dalla base solida di un romanzo, magari deboluccio così da poterlo ri­ voltare e rivitalizzare a piacimento? Questo, beninteso, col rispetto dovuto a gente come Nabokov, Clarke, Burgess, Herr e Hasford, Schnitzler e, in misura lievemente minore, per il Thackeray scelto. Venendo ai fatti, è straordinaria la vera e propria liposuzione cui il romanzo di King fu sottoposto da Kubrick, che scelse come aiuto Dia­ ne Johnson, docente universitaria che spiega in maniera spiccia il suo insegnamento: «insegno il romanzo gotico».3 4 Dicevamo prima che la trama era eccezionale ed erano suggeriti al regista temi allettanti quali la solitudine, il lento salire della violenza, il processo di regressione e il sentore della rinascita, il legame di tutto questo con la Storia, che in King appare e scompare e infine brucia con F Overlook Hotel, mentre in Kubrick è il costante protagonista nascosto in campo e resiste con e nell’Overlook Hotel. La Storia di King è quella dell’America malavi­ tosa della Depressione che si trascina negli anni nei saloni dell’albergo divenendo quella mafiosa dei padrini. Abbiamo gli occhi pieni di ci­ nema mentre Jack sfoglia “l’album dei ritagli” (che nel film appare di striscio, aperto sul tavolo da lavoro di Torrance) e l’America ci sem­ bra davvero essere tutta intorno a soffocarci: «ed erano stati tutti lì, proprio sopra la sua testa, in quelle stanze vuote.»5 La storia universa­ le dell’Overlook incrocia quella troppo trascinata dei Torrance, e pro­ prio qui, nel gioco ad incastro del flashback, King si perde e si appe­ santisce. Qui Kubrick interviene e opera. Perché al solito, al regista interessa la Storia come entità, l’oggettivazione dell’uomo e il cronometraggio, in uno spazio sempre più angusto, circolare di una vita che non riconosce il passato. E proprio sul flashback si deve intervenire. Non è un procedimento caro a Kubrick, tutti se ne sono accorti, al flashback preferisce quelle che Del Ministro ha voluto definire, ri­ chiamandosi ad Aristarco che parlava del nuovo romanzo e del nuovo 3 In proposito si osservi quanto rivelato da Diane Johnson in M. CIMENT, Kubrick, tradu­ zione di L. Codelli, Rizzoli, Milano 2002, p. 297. 4 Ibid, 5 S. King, op. cit., p. 169.

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cinema insieme, le intermittenze del cuore67,che recano un sentimento inesorabile di perduto. A ben guardare, eccettuate le visioni luccicanti di Danny, l’unico flashback è sedimentato nella fotografia che chiude il film, stratificato nell’ambiguità più pura dell’immagine, ché le fotografie non possono mentire (ma i fotografi sì, ci direbbe Hine), scavato dal movimento di macchina sulla fissità del testo, come succedeva sui quadri di Barry Lyndon. La storia di Jack è persa per sempre, oppure per sempre ri­ trovata, rilanciata, rinata: Jack ci guarda come ci guardava il feto di 2001. Quello che resta certo è che non è razionalizzata, Jack è stato giocato e infine immobilizzato nelle spire della Storia, in quell’Overlook mitico che La Polla definiva «classico luogo altro, dal momento che, tradizionalmente, la montagna coincide col Centro del Mondo, e più precisamente è proprio nel centro del mondo che si in­ staura una comunicazione fra i tre livelli cielo-mondo-inferi.»1 Resta eccezionale il racconto di Ghezzi, a cui parecchi spettatori conferma­ rono di essere del tutto sicuri che, alla fine, il corpo gelato di Torrance fosse conficcato al centro esatto del labirinto: «il che fa supporre che, al centro di qualcosa, nello spettatore, quel corpo resti pur conficcato, alla fine della visione...».8 Prova che noi spettatori ci crediamo al centro, prova della bontà della critica kubrickiana alla nostra ragione e avremo modo di analizzare ìafantasmaticità di questo centro e la sua illusione che si fonda interamente su un determinato manifestarsi dell’istanza enunciatrice. Il centro è in verità smarrito: arrivato al cuo­ re della Storia (la già citata «babele di voci e di corpi» di Brunetta), Jack Torrance ha sperimentato la privazione di ogni velleità progressi­ sta, di ogni linearità; ci ha confermato quanto essa resti un malinconi­ co referente perduto. La memoria di Jack è una memoria che Ricoeur direbbe ferita, il cui trauma riposa essenzialmente sul sentimento di competizione con gli altri (che costituiscono «minacce reali o immagi­ narie per l’identità») e sul «ruolo della violenza nella fondazione delle 6 Cfr. M. Del Ministro, "Shining il labirinto epifanico dell ’autore, in G. P. Brunetta (a cura di), Stanley Kubrick. Tempo, spazio, storia e mondi possibili, Pratiche, Parma 1985, p. 194-195. 7 F. La Polla, The house that Jack built, ovvero quel che succede nel centro del inondo. Spazio e Tempo in "Shining", in G.P. BRUNETTA (a cura di), op. cit., p. 178. 8 E. Ghezzi, Stanley Kubrick, Il Castoro, Milano 1999, p. 145.

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identità, principalmente collettive. Sullo sfondo delle patologie della memoria si trova sempre il rapporto fondamentale della memoria e della storia con la violenza.»9 Competizione e violenza sono, ormai notoriamente, termini cardine della riflessione girardiana. L’eliminazione del flashback, a livello narrativo, vieta la ricostru­ zione, I’orientamento. Ancora di più, dà ragione di una concezione storica in quanto rimosso, che si presenta alla coscienza disorganizzata e irriconoscibile e la turba con sentimenti remoti di un antico contatto. Non è un mistero che Kubrick e la Johnson subirono l’influenza del saggio di Freud sul perturbante (si noti che Ricoeur, parlando di me­ moria ferita si rifa al saggio Ricordare, ripetere e rielaborare, sulla cui linea, in parte, si è mosso II perturbante) uno scritto congeniale alla sensibilità del regista in quanto capace di cogliere la coscienza al limitare del paranormale, che germoglia da associazioni misteriose al­ la ragione. Del resto, spiegando la differenza che corre tra heimlich e unheimlich (dal momento che il primo termine può subdolamente so­ vrapporsi al suo apparente contrario, gioco contraddittorio gradito a Kubrick), Freud sosteneva che unheimlich, cioè perturbante, fosse ciò che un tempo fu heimisch, cioè familiare, domestico, e il prefisso unindicherebbe rimozione: l’heimisch ha subito una rimozione e poi è ritornato.1011E il riferimento a Jentsch e alla sua idea secondo la quale l’effetto perturbante sarebbe legato ad un dubbio circa il fatto che un oggetto animato lo sia realmente e, viceversa, che un oggetto inanima­ to possa essere vivo (che ci riporta all’opposizione kubrickiana animato/inanimato), permette molto agevolmente di capire quanto e perché si è turbati di fronte alla graduale perdita d’umanità di Jack o alle crisi di Danny che lo trasportano in una dimensione che pare quasi oltre la vita11; e lo stesso Overlook, nome parlante come spesso in Kubrick, 9 P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato (1998), traduzio­ ne di N. Salomon, Il Mulino, Bologna 2004, pp. 71-72. 10 Cfr. S. FREUD, Il perturbante, traduzione di S. Daniele, in Opere 1917-1923, Boringhieri, Torino 1986. 11 A riguardo va saputo che nell’edizione americana (di Shining esistono infatti due ver­ sioni approvate entrambe da Kubrick, una per il mercato europeo e una per quello americano, la prima di 120', la seconda di 144') c’è una breve sequenza di 140 secondi, nella quale Danny è in preda alla più terrificante delle crisi e a Wendy che cerca disperatamente di svegliarlo, risponde la voce roca di Tony: «Danny’s not here Mrs. Torrance», «Danny can’t wake up Mrs. Torrance», ribadendo così l’impressione di cui dicevamo. È comodo, nel raffronto fra le

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che prende vita è il mostro più inquietante di questo finto horror, più inquietante certo dei cespugli animati di King che pure confermano la perturbante indecisione circa la possibilità di vita di un oggetto che dovrebbe esserne privo. Questa decisione definitiva di privare il film di tutti i flashback del romanzo ottiene come risultato quello di condensare i temi migliori della trama kinghiana in un disegno astratto e stringente tipico di Ku­ brick. Dico decisione definitiva, perché la recente possibilità di acce­ dere ai materiali del regista ha rivelato che ad una fase del progetto, da datare all’ottobre del 1977, erano stati pensati due flashback, entrambi riguardanti accessi d’ira presenti in King, che avrebbero prefigurato l’abbrutimento di Torrance: il primo riguardava l’aggressione allo stu­ dente George Hatfield12, il secondo la frattura procurata al braccio del piccolo Danny. King non capì le necessità di Kubrick, non ne capì la logica, restò, molto comprensibilmente, legato al suo modo di intendere Shining, al­ la sua più caotica struttura. Ma sbagliò enormemente quando, in­ tervistato, disse: Kubrick is a very cold man - pragmatic and rational - and he had a great difficulty conceiving, even accademically, of a supernatural world... (A) vis­ ceral sceptic such as Kubrick just couldn’t grasp the sheer inhuman evil of the Overlook Hotel. So he looked, instead, for evil in characters and made the film into a domestic tragedy with only vaguely supernatural overtones. That was the basic flaw: because he couldn’t believe, he couldn’t make the film 13 believable to others.

due versioni, fare riferimento alla precisa analisi di Matteo Bisato, che classifica la scena in questione come quindicesimo taglio. Cfr. M. BlSATO, Shining e il suo doppio, in «Segnocinema», n. 122, luglio-agosto 2003. 12 Tale flashback avrebbe gettato luce ulteriore sul passato universitario di Jack, le cui tracce, perse del tutto nella versione europea, affiorano brevemente durante il colloquio in quella americana, allorché Ullman comunica a Watson che «Jack is a schoolteacher» e Jack risponde «Formerly a schoolteacher». Si tratta, sempre rifacendosi allo schema di Bisato, del primo taglio. Per quel che riguarda una ricostruzioni delle fasi del progetto, si veda U. VON Keitz, The Shining - Frozen materials. Stanley Kubrick’s adaptation of Stephen King’s novel, in Aa.Vv., Stanley Kubrick, Deutsches Filmmuseum Frankfurt am Main, Frankfurt am Main 2004, p. 194. Un altro cenno, interpretabile soprattutto da chi ha letto il romanzo, lo si ha nel­ la scena in cui Wendy porta la colazione a letto al marito, che indossa la maglietta di Stovington. 13 Citato in U. VON K.EITZ, op. cit., p. 187.

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Sulla freddezza questo stesso lavoro e gli altri studi hanno volentie­ ri fatto leva ricalcando i tratti della rigida poesia kubrickiana, il prag­ matismo e la razionalità (sebbene interrogati e posti in crisi) erano di­ venuti stile di vita. Di qua a dire che Kubrick non è in grado di conce­ pire la possibilità del sovrannaturale si può giungere soltanto ignoran­ do troppo della sua opera. Ancora più peregrina è l’idea che il regista non riesca ad afferrare la pura malignità dell’Overlook, laddove, lo vedremo, ne ha fatto l’inesauribile e potenziale serbatoio delle azioni violente dell’uomo, in un continuo rimando relazionale coi suoi per­ sonaggi, nel dialogo fitto tra quinte e proscenio, tra domestico e trage­ dia nel domestico. Quel che è sicuro è che Shining non è più un horror e intorno a questa questione è da pensare si carichi la critica di King: «The Shining resta il guscio vuoto del film dell’orrore».14

2.

L’ombra lunga di 2001

Abbiamo accennato nel precedente paragrafo allo sguardo in mac­ china con cui Jack interroga, nel finale, beffardamente lo spettatore, la sua è una richiesta di resa o un invito a cedere anche noi al tempo dell’Overlook, dove le feste si riformano ad ogni giro. Allo stesso modo ci guardava lo Star Child, che offriva coi suoi occhi enormi non ancora definiti la possibilità infinita di una rinascita (non l’avesse irri­ sa di lì a tre anni l’occhio lento e torvo di Alex De Large). Una morte, una rinascita e un qualcosa che sembrava inanimato e invece è vivo, che dirige questo viaggio su di un’unica tratta: una pietra nera e un grande albergo dei primi del Novecento, anni in apparenza tranquilli. La coerenza dei finali di Kubrick dà in Shining e in 2001 un saggio di quel suo particolare senso della vita: si è di fronte (letteralmente, vis à vis) a «un’immagine aperta, la quale può rappresentare sia una pro­ spettiva di morte, sia un’immagine di eterna resurrezione.»15 Il mono­ lito additato da Bowman restituiva di rimbalzo, in controcampo, il fe14 G. Fink, op. cit. 15 R. Lasagna, S. Zumbo, Ifìbn di Stanley Kubrick, Falsopiano, Alessandria 1997, p. 152.

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to; l’Overlook, interrogato wellesianamente da un’entità narrante sini­ stra che si era dichiarata subito lungo il primo viaggio tra le Montagne Rocciose, contiene infine, for ever... and ever... and ever, tutti i per­ sonaggi che in esso si agitano, convinti di vivere l’Hotel, non di esser­ ne vissuti. Fredric Jameson anticipava il parallelo unendo lo Star Child a Jack congelato (che però non guarda in macchina), sostenen­ do, in un crescendo di pessimismo, che «il presagio che anticipa un fu­ turo inconcepibile viene ora apertamente sostituito dalla tetra prigionia nei monumenti di una cultura alta (la sala in stile reggenza, lo stesso labirinto, la musica classica), che sono diventati le celle carcerarie del­ la ripetizione e il luogo della schiavitù al passato.»1617 Shining, dopo 2001, è il film che di nuovo sceglie la via astratta per dar forma alla filosofia del regista, con in mezzo la sontuosa parentesi fenomenologica di Barry Lyndon. È ancora Jameson che scorge la meditazione profonda di Shining circa l’impossibilità di una rappre­ sentazione storica quale era stata perseguita con follia filologica nel film sul Settecento. La Storia quindi non nell ’immagine, ma conti­ nuamente sotto, come a dire che non si può uscire di casa e vedere la Storia, dire questa è Storia. A Kubrick, nel profondo, non interessa l’evento, interessa il taglio mitico-etnologico che marca da vicino l’uomo fino ad azzerarlo nell’invariante (che si oppone e genera l’evento stesso), salvo poi rilanciare, in un rigurgito, la vita come va­ lore o come obbligo, confondendo di nuovo le strade. Il percorso è in­ terno e Kubrick lo segna ancora, come abbiamo visto di consueto da 2001 in poi, nel tentativo di accompagnare ulteriormente col gesto l’evidenza filmica che già di per sé colma lo scarto arbitrario tra segno e concetto; Bernardi indicava tre procedimenti, tipicamente kubrickiani, che possiamo ritrovare in Shining: il carrello a serpentina, che, nell’esaltare le possibilità della steadicam di Garret Brown, permette di seguire (o meglio, di far seguire) Danny nei corridoi uguali che so­ no le viscere del mostro; lo zoom, espresso al massimo mentre stringe dall’alto le forme cerebrali del modello del labirinto che si scopre es­ 16 F. JAMESON, Storicismo in Shining, in Firme del visibile. Hitchcock, Kubrick, Antonio­ ni, traduzione di D. Turco, Donzelli Editore, Roma 2003, p. 86. 17 Ivi, p. 80. Cfr. S. BERNARDI, Kubrick, Freud e la coazione a ripetere, in «Bianco & Nero», n. 5, settembre-ottobre 1999.

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sere l’originale, e nell’avvicinamento alla fotografia finale; l’effetto tunnel, infine, che ci fa perdere Danny all’orizzonte e che blinda Jack. Ma queste risoluzioni inducono ad una riflessione profonda sull’uso che Kubrick fa del film e che accomuna anche sul piano della ricerca linguistica e dell’intento metacinematografico Shining e 2001. L’uso della macchina da presa in Shining è infatti eccessivo, costantemente dichiarantesi: se l’Overlook può giustamente considerarsi un perso­ naggio del film, a buon diritto la stessa istanza enunciatrice può re­ clamare la medesima considerazione. Il film in quanto tale è ciò che sovrasta le esperienze visive dei personaggi e dello spettatore, tutte le realtà, tutte le dimensioni si ritrovano sullo schermo apparentemente mescolate. È la macchina da presa, in quanto istanza enunciatrice, che si incarica di fare da tramite tra il mondo dei vivi e quello dei morti, tra la realtà e la visione, fino a giungere all’estremo di dichiararsi essa stessa visione, fantasma irriducibile, per cui il vero elemento para­ normale del film è il film medesimo. Facciamo qualche esempio. Il cambiamento di dimensione (il rapporto realtà/visione) è dato in Shi­ ning, soprattutto per quel che riguarda Danny, il possessore della luccicanza, da un lento carrello ottico in avanti che ricorda quello sul monolito nel finale di 2001; mentre Danny è intento a staccare le frec­ cette dal bersaglio nella sala in cui aspetta i genitori che stanno visi­ tando l’hotel, questo movimento si compie rapidissimamente e in una frazione di secondo passiamo dalla mezza figura del bambino al suo primissimo piano; raccordate al suo sguardo ci vengono mostrate le gemelle. Una situazione analoga, poco dopo, è ripetuta nella dispensa, mentre Hallorann spiega a Wendy che provviste potrà trovarvi: lo zo­ om in avanti, stavolta, è lento e ci porta gradualmente dal piano ame­ ricano del bambino al suo primo piano. Questo espediente (che rin­ verremo identico almeno altre due volte nel film) fa sì che la macchina da presa esaurisca un movimento in linea retta nel corpo di Danny e ne esca, rinnovata, rigenerata in un’altra dimensione spazio-temporale che riguarda le gemelle, il segreto di Hallorann o, più avanti, il fiume di sangue e la scritta redrum. Danny è un portale, un gorgo umano at­ traverso cui si ha accesso alla Storia segreta dell’Overlook, quella di cui Jack è impregnato; Danny è a suo modo (mi rendo conto, azzar­ dando) un richiamo al monolito. Il bambino, lo vedremo meglio pro­ seguendo, gioca a cavallo tra le due dimensioni, cosa che non è affatto

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possibile a Jack e Kubrick ce lo mostra chiaramente: il primo nitido segno di follia di Torrance è reso da un lento zoom in avanti che va dalla mezza figura al primo piano di Nicholson, ma il movimento non è, per così dire, rigenerato, non si riversa in un’altra dimensione, ma resta impantanato, depositato dentro di lui. D’altra parte, quando Jack vedrà per la prima volta un fantasma, il barman Lloyd, Kubrick lo farà guardare e parlare in macchina, confermando l’ambiguità: il fantasma è Lloyd o la macchina stessa? Ambiguità che si rivelerà nella corsa finale nel labirinto (39 inquadrature in tutto divise in tre frammenti in­ tervallati): le inquadrature sono in continuo movimento e si interrom­ pono bruscamente nella fissità di Torrance congelato. Ma la libertà di movimento dimostrata durante l’inseguimento, prosegue nell’ultima inquadratura del film, quando la macchina da presa entra da sola, sganciata da ogni personaggio, nell’hotel e ci svela la Rosebud kubrickiana: e allora, in quanti erano nel labirinto a rincorrersi? E le sogget­ tive di Jack (quattro, nel corso dell’inseguimento) erano davvero sue, oppure erano, irriducibilmente, la presenza ossessiva dell’istanza enunciatrice che sopravvive a Jack e che nell’ultima inquadratura ripete il medesimo movimento in soggettiva, rivelandosi per il fantasma che è? In altre parole: se il fantasma è la macchina da presa (e il film la soggettiva del fantasma), Kubrick riesce ancora ad unire inconscio e coscienza nel corpo del film, e in quell’incontro incastra la sua conce­ zione storica, concezione di possedimento e di imtnemorabilitcr, come 2001, Shining è una ricerca dei contenuti di un inconscio collettivo, cioè di archetipi e ancora il messaggio fa il medium. Messo per assurdo in parentesi Arancia meccanica, potremmo no­ tare un unico filo che lega i tre film che Kubrick porta in sala tra il 1968 e il 1980: se il realismo di Barry Lyndon risulta fantastico come quello di 2001, essendo comunque un viaggio in un tempo e in uno spazio, il fantastico di Shining annulla ogni misurazione e toma a le­ garsi al Tempo della fine e dell’inizio di 2001 e ad uno Spazio che pa­ re infinito, se l’infinità ha a che vedere con l’impossibilità a orientar­ si.19 E d’altra parte 2001 e Shining si richiamano anche per la scelta di

19 Proprio questa difficoltà neH’orientamento è, secondo Juhani Pallasmaa, architetto, ciò che non permette al tempo di avanzare. Cfr. J. PALLASMAA, Monster in the maze. The archi­ tecture of The Shining, in Aa. Vv., Stanley Kubrick, op. cit., p. 203.

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genere, fantascienza e horror, entrambi afferenti in maniere diverse al­ la sfera ampia del fantastico, entrambi generi “gregari”, di larga sedi­ mentazione culturale. Che l’ombra di 2001, metatesto e macrotesto, si stenda fino a copri­ re Shining all’ultima inquadratura, fu cosa di cui si avvide presto Mi­ chel Ciment, che ne diede prova a livello strutturale. Mi permetto di riportare per intero il lungo passo: E evidente che pur appartenendo allo stesso genere fantastico, Shining si distingue per molti aspetti da 2001. Ma presenta dall’altro lato inquietanti analogie con la precedente opera. Così la sua struttura narrativa rispetta anch’essa il numero quattro, anche se il rapporto temporale tra le parti è sin­ golarmente differente. Il primo movimento presenta un grandioso paesaggio di montagne, foreste e laghi, nel quale i personaggi sono perduti, schiacciati, dominati (si veda L’alba dell’uomo). Nel secondo movimento nell’hotel Overlook, il direttore affida a Jack una missione, quella di custodire per parec­ chi mesi l’albergo. La stessa cordialità convenzionale, gli stessi rapporti so­ ciali stereotipati delle scene sulla luna che precedono la partenza del Disco­ very. Il terzo movimento rinchiude i nostri tre passeggeri in un luogo senza uscita, isolato dal resto del mondo, in cui debbono occuparsi di macchine e comunicare con l’esterno per telefono e poi con messaggi via radio, prima che il sistema di trasmissione venga messo fuori uso. L’Overlook, come l’astronave, permette a Kubrick di combinare le sensazioni contraddittorie di agorafobia e di claustrofobia, e permette ai suoi personaggi di dedicarsi ai giochi e agli sport (Danny con il triciclo e le freccette, Jack con la palla), prima che il responsabile numero uno sprofondi nella follia omicida. [...] Il quarto movimento infine, senza parole come il primo (secondo un equilibrio simile a quello di Odissea nello spazio), è un viaggio di iniziazione, di morte e di trasfigurazione, stavolta all’interno di un labirinto, e che si conclude nel passato, con una musica nostalgica degli anni Venti.20

La precisa divisione di Ciment ci riporta alla mente quella proposta nel primo capitolo, eccezion fatta per l’intervallo, momento nero che richiama il monolito, naturalmente assente in Shining. Arrivati a questo punto, una proprietà transitiva consentirebbe da sola di investire Shining di un enorme valore storico-cinematografico, in quanto sede di uno sviluppo ulteriore e più terrestre dei destini degli eroi kubrickiani e in quanto sperimentazione novissima di un modo di

20 M. Ciment, op. cit., p. 135.

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narrare e di ascoltare (si pensi agli arrangiamenti elettrici eccellenti di Wendy Carlos) il cinema. Eppure, sovrapposti i due film, il lucido non restituisce fedelmente tutti i contorni. L’elemento fiabesco sepa­ ra Shining dal mito di 2001. Dimostreremo più oltre le tangenze col mito, ma quel che preme qui rilevare è che Shining si ispira e cita una serie di miti, non si configura come tale. Di contro semina, nel suo corso, una innumerevole quantità di riferimenti a fiabe. Nemmeno si configura come fiaba, per quanto ci si potrebbe divertire a ritrovare al­ cune delle trentuno funzioni proppiane (del resto qualcosa del raccon­ to di magia c’è), ma si pone come ragionamento straniante sul valore della fiaba rapportata alla cognizione di un bambino in età pre-scolare come Danny. Danny non ha certo bisogno delle fiabe per dare corpo e struttura ai suoi sogni, dal momento che i suoi poteri lo mettono seve­ ramente di fronte alla realtà (e realtà intesa secondo quella struttura permanente del mito lévi-straussiana e cara a Kubrick, che unisce pas­ sato-presente-futuro); ma invero la fiaba, di cui il bambino è un atten­ to ascoltatore, riporta un messaggio di speranza che lo aiuterà ad usci­ re dal tempo e dalla Storia estenuanti dell’Overlook e sottintende, per dirla con Bettelheim, che «una lotta contro le gravi difficoltà della vita è inevitabile, è una parte intrinseca dell’esistenza umana, [e] soltanto chi non si ritrae intimorito ma affronta risolutamente avversità ina­ spettate e spesso immeritate può superare tutti gli ostacoli e alla fine uscire vittorioso.»21 La riflessione sulla fiaba è calata dall’alto a co­ struire un ponte artificiale tra i personaggi e lo spettatore ed è un altro elemento di sconfitta per Jack che la razionalizza, anzi la recita e la ir­ ride svuotandola di significato, mentre Danny, di nuovo, la vede e la vive, lavora proficuamente sul significante, sul linguaggio che Jack crede di possedere rimanendo invece impigliato sul versante della convenzione. Kubrick stesso, parlando a Ciment della scelta del fan­ tastico, si disse convinto che «le storie fantastiche quando sono riusci­ te servano allo stesso scopo al quale una volta servivano le fiabe e la mitologia.»22 La vicinanza con Diane Johnson, nel caso di Shining, ol­ tre al modello offerto da King, ha facilitato poi la scelta fiabesca, di­ 21 B. Bettelheim, Il mondo incantato, traduzione di A. D’Anna, Feltrinelli, Milano 1977, PP- I,3'1422 Cfr. M. Ciment, op. cit., p. 185.

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versamente da quella mitica di 2001, per lo meno, ripetiamolo, struttu­ ralmente. E la chiave bettelheimiana, suggerita anche da Cremonini23, coglie la fiaba nel retro, rivelandoci d’un tratto qualcosa che, al di qua della nostra coscienza, ci era noto da lungo tempo. Si aggancia al Freud letto da Kubrick, un po’ a tradimento dal momento che lo psi­ canalista sosteneva l’impossibilità di rinvenire nella fiaba V unheimlich. Le citazioni maggiori, quelle lampanti e volutamente offerte a tutti (sappiamo che Kubrick era un attento lettore dei Grimm, in grado di spargere riferimenti più fini in singoli e brevi episodi) riguardano Barbablù, insistentemente evocata anche nel romanzo, e I tre porcel­ lini, che si perde piuttosto stranamente nella versione italiana quando Jack, fuori dal bagno, vede doppiato il suo «Little pigs» con «Cappuc­ cetto rosso» svilendo la successiva minaccia di soffiare sulla porta. Il lupo quindi è quello dei porcellini e non quello di Cappuccetto24, per quanto Eugeni, nella ricognizione che opera a riguardo, veda nei cap­ pucci di Wendy e Danny nel labirinto una più chiara allusione a questa fiaba. Tra le altre, Eugeni nomina Pollicino nella fuga di Danny dalla finestra del bagno, e Peter Pan pensando a Wendy, bambina in grado di mediare il mondo normale degli adulti e quello magico dell’isola Che Non C’è.25 Fermiamoci però a Barbablù e a 1 tre porcellini. La prima fiaba, scritta da Perrault e priva di evidenti riferimenti a precedenti fiabe, sfruttatissima al cinema, era già presente in King. Dapprima toma alla mente di Danny quando Hallorann gli chiede se gli sia mai capitato di spaventarsi davanti alle illustrazioni di un libro e il bambino si ritrova negli occhi tutte le teste mozzate. Hallorann lo tranquillizza dicendo che le immagini non possono fare del male. In un secondo momento Barbablù ritorna mentre la curiosità spinge Danny verso la camera che 23 Cfr. G. Cremonini, Shining, Lindau, Torino 1999, p. 19. 24 Va detto che Cappuccetto Rosso appare citata brevemente nel romanzo, allorché Danny di fronte alla camera proibita si figura un orrorifico «lupo vestito da Barbablù oppure un Bar­ bablù vestito da lupo» (cfr. p. 218) che esclama l’arcinota formula «che grandi denti hai non­ na». Subito dopo, in questo delirio di fiabe, al bambino vengono alla mente il coniglio bianco e la Dama Rossa di cuori che gioca a croquet in Alice nel paese delle meraviglie, associazione sempre legata a Barbablù per il tramite dell’ossessivo grido della giocatrice: “Tagliategli la testaaa!”. 25 R. Eugeni, Invito al cinema di Kubrick, Mursia, Milano 1999, p. 101.

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nel romanzo è la 217; il bambino, eseguendo un perfetto raccordo tra la funzione della fiaba e le situazioni di vita, ricorda una fiaba «che papà gli aveva letto una volta che era ubriaco» e si era preso i rimpro­ veri della moglie. Danny ripete i gesti della moglie di Barbablù, ma poi si ritira: «Danny aveva la vaga impressione che la favola avesse un lieto fine, ma la cosa perdeva qualsiasi importanza rispetto alle due immagini predominanti.»26 Oltre che per la stanza proibita, questa fia­ ba aleggia sul film nella figura del marito bestiale. Ma quello che più ci interessa, tra film e romanzo, è afferrare come Danny prenda sul se­ rio le fiabe, come ne contempli il lieto fine, se ne fidi, ne comprenda il valore soprattutto correlato al significato della vita, trovando, attraver­ so la loro, la sua profondità, equilibrando i tre aspetti della mente con­ scia e inconscia, Es, Io e Super-Io.27 Jack di contro, adulto, detentore di cultura e scrittura, inciampa an­ cora una volta nella ragione che lo tradisce al cospetto dell’Overlook. Ne abbiamo sottile prova poco prima che abbatta a colpi d’ascia la porta del bagno in cui si nasconde Wendy. Bussa e camuffando la vo­ ce chiama: «Little pigs, little pigs... Let me come in!», con il tono dell’uomo che racconta sopra le righe per compiacere il bambino. Non ricevendo risposta, in una delle più terrificanti e ironiche sfumature della sua recitazione, Nicholson gonfia il petto e inarcandosi annuncia che si vedrà costretto a soffiare per abbattere la porta. L’ironia è finis­ sima: Kubrick sceglie di introdurre l’elemento fiabesco per dimostrare la pretesa superiorità di Jack rispetto ad una forma narrativa che, inve­ ce, si riempie di significati secondi e terzi, uscendo dalle allentate cin­ ghie del fantastico e prendendo forza nell’albergo stregato. L’effetto straniante che il burattino Torrance provoca recitando in chiave farse­ sca la fiaba, crea disappunto nello spettatore e dimostra fuori luogo la parodia: è il sentimento perturbante di qualcosa che a tutti è noto, ma che, capovolto, offre il verso e ci colpisce alle spalle. Il lupo arrogante sarà punito da chi la fiaba l’ha capita, dal porcellino (nella lettura di Bettelheim i tre sono uno solo in progressione) che ha infine raggiunto la forma più elevata di intelligenza e coscienza di sé.

26 S. King, op. cit.. p. 176. 27 Cfr. B. Bettelheim, op. cit., p. 39.

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Shining non è una riflessione mitica sulla Storia, ma fiabesca, co­ struita su strutture fisse, ritornanti, archetipiche. Kubrick usa la fiaba come schermo riflettente, come modello, a denunciarne la perdita da parte dell’uomo che la ritiene del tutto slegata dal suo esistere, senza chiedersi perché un tempo l’ha creata. È persa perché creduta di utiliz­ zo facile e immediato, svanita perché scollegata dalla ricezione e dalla continuazione. Danny è l’unico eroe che esce dal cerchio invertendo il senso delle lancette, secondo una scelta molto consapevole che Ku­ brick prese dopo l’anteprima di New York e prima dell’uscita nazio­ nale.28 Il vincitore crede alle fiabe.

3. Jack, l’autoctono

Non essendoci intenzione alcuna di costruire un racconto mitico, in Shining la suggestione mitica resta in superfìcie, assume lo stesso va­ lore del riferimento fiabesco, lavorando accavallata ad esso e mante­ nendo al contempo un’importante autonomia di registro. È un ulterio­ re filtro narrativo, che ha a che fare volentieri con una riduzione della coscienza, che Kubrick interpone tra lo spettatore e il film e che ri­ guarda, al solito, la trama e l’enunciatore che la propone. Lo schema fisso, tipico del racconto di tal genere, dei caratteri e della narrazione ottiene nel tempo il medesimo impatto su chi ne fruisce (principio di uguaglianza) e conserva una flessibilità valida e resistente agli sbalzi, oltre che spazio-temporali, culturali. Per questo Kubrick cala il rife­ rimento mitico come uno specchio che interroga frontalmente l’uomo riproponendogli la sua immagine, inconsistente nella pellicola, ma in­ negabilmente esistente. Il ricorso allo specchio è esplicito in almeno tre casi, due dei quali altamente significativi: il primo riguarda il dia­ logo tra Jack e Danny durante il quale il padre dirà al figlio che gli 28 II film sarebbe dovuto terminare con il direttore dell’Overlook che va all’ospedale a trovare Wendy e Danny. Uscendo si avvicina al piccolo e gli offre in dono la palla gialla lan­ ciatagli misteriosamente da chi lo vuole introdurre nella camera 237 sulla moquette dell’hotel. Tale gesto avrebbe fatto di Ullman una sorta di deus ex machina e avrebbe ridimensionato il successo del bambino. La scena tagliata è raccontata da Shelley Duvall in M. CIMENT, op. cit., p. 305.

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vorrà sempre bene (ma attenzione: for ever... and ever... and every, prima di andare a sedere sulle ginocchia di Jack, Danny, tenuto sulla soglia della stanza in campo lungo, guarda il padre, ma a noi è dato vedere due Jack grazie aH’immagine riflessa nello specchio posto ai piedi del letto su cui si trova Torrance (alla sinistra dell’inquadratura), ci è lecito intendere il pericolo del personaggio doppio, che in Kubrick vuol sempre sottintendere mostruosità. Il secondo caso è ancora più denso di implicazioni simboliche e riguarda la famosa scritta redrum. Danny entra in camera della madre addormentata e afferra il lungo coltello da cucina che Wendy ha appoggiato sul comodino. Lo spetta­ tore è autorizzato a pensare al peggio, ma invece Danny, pur tenendo salda l’arma in mano (regressivamente), istigato dalla voce di Tony che ripete ossessivamente «redrum redrum», prende il rossetto della madre e va a scrivere sulla porta del bagno la parola suggeritagli. Tut­ tavia questa parola ha un senso soltanto nel momento in cui la si legge allo specchio, nel momento in cui diventa immagine (riproduzione) di se stessa. Wendy può prendere coscienza della parola murder solo vedendola riflessa, lo specchio diventa un’esperienza fondamentale che se rimanda da una parte, chiaramente, al dispositivo cinematogra­ fico in senso tecnico e psicoanalitico, dall’altra ci porta a riflettere sul­ lo sviluppo del Sé del Danny-bambino, che, regredito ad uno stato ip­ notico, comunica attraverso la funzione fondamentale dello specchio. Ora, se 2001 era lo specchio, ed è chiaro osservandone il compor­ tamento nei confronti degli altri film, Shining è come una soggettiva di fronte allo specchio, soggettiva ora di Torrance, il cui disappunto è alla fine totale, ora dello spettatore che cerca di districare i piani del mito, della fiaba, del film, ora, più sottilmente, della stessa macchina da presa. Come sopra abbiamo indicato le principali fiabe che Kubrick ha scelto, così possiamo individuare i racconti mitici cui si è rifatto, per quanto essi non compaiano dichiaratamente in sceneggiatura come le fiabe, coerentemente con la dimensione inconscia del mito, in cui l’uomo è implicato, per dirla con Umberto Eco, «come voce obbedien­ te che si presta a esprimere una combinatoria che lo supera e lo annul­ la come soggetto responsabile.»29 Da Dedalo e Icaro, la cui vicenda 29 U. Eco, La struttura assente, Bompiani, Milano 1994, p. 296.

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continuerà ad interessare Kubrick30, al conseguente Teseo e il Mino­ tauro con un filo d’Arianna molto misterioso che lascia che un piccolo Teseo si ribelli alle asfissie kubrickiane, da Crono al patto faustiano. E ancora Edipo, potendo piegare anche verso la storia sacra di Abramo (per la cieca fiducia con cui Jack procede al suo compito, nient’affatto stando al complesso che il padre ha nei riguardi del figlio). Il gioco che Kubrick intavola è quindi volto a mettere in strettissimo contatto un patrimonio mitico-favolistico con la Storia nell’immanenza dei suoi accadimenti, invariabili quasi come la struttura di un racconto. Già Ciment aveva fatto un rapido quanto puntuale cenno al particolare uso del mito del regista: la civiltà e la scienza moderne escludono ogni mitologia dalla nostra con­ cezione del mondo, servono esclusivamente il principio di realtà e l’istinto di morte. Per il regista conviene allora creare il più gran numero di opere arche­ tipiche - rimescolate tutte le società e le classi - portatrici di miti in cui gli spettatori troveranno un sollievo per i loro tormenti e i loro desideri.31

Il cinema come valvola di sfogo, come luogo di esplosione e an­ nullamento, nell’illusione perfetta del reale, del fondo violento di ogni uomo. E quando Eugeni parla a ragione di memoria «radicalmente al­ tra»32, ricordandoci poi l’apparenza deH’alterità svelata dal meccani­ smo dell’unheimlich, riporta l’attenzione sul dialogo avviato tra la re­ altà (anche passata, ché per Kubrick è comunque già ritornata) e la proiezione, il raddoppiamento che è l’altro polo dell’immaginario. Del resto la natura fantasmatica insita nella riproposizione di un mon­ do è la stessa della storia passata rispetto all’uomo presente, e il fanta­ sma, ce lo diceva Kubrick stesso33, una volta accettatone il concetto, presuppone la fede in una vita dopo la morte, ma in questo caso speci­ fico in una sopravvivenza storica e in una vivificazione immaginaria. 30 Nel discorso col quale Kubrick ricevette il premio Griffith disse: «Non sono mai stato sicuro che la morale della storia di Icaro dovesse essere: “Non tentare di volare troppo alto”, come viene intesa in genere, e mi sono chiesto se non si potesse interpretarla invece in un modo diverso: “Dimentica la cera e le piume e costruisci ali più solide”.» La frase è riportata in M. Ciment, op. cit., p. 315. 31 Ivi, p. 146. 32 Cfr. R. Eugeni, Shining. La cornice spezzata della memoria, in Aa.Vv., Stanley Ku­ brick, «Garage», Paravia, Torino 1998, p. 116. 33 Cfr. M. Ciment, op. cit., p. 185.

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Lo stesso Jameson, lo studioso che ha spinto più lontano le implica­ zioni storiche di Shining, vedeva nel film un esempio di “racconto di fantasmi” e spiegava come, nel periodo d’oro del genere, «il fantasma formafsse] solitamente un tutf uno con un palazzo piuttosto antico, di cui costituisce il brutto sogno e al cui illimitato succedersi di genera­ zioni di abitanti esso allude come in una sorta di ritorno del rimosso dall’animo borghese.»34 L’albergo è il luogo dei fantasmi, è di tutti e di conseguenza di nessuno, ognuno vi passa un po’ di tempo e vi la­ scia o meno un segno, poi lo abbandona per un altro che si comporterà allo stesso modo e usufruirà degli stessi servizi, sarà ricordato più o meno a lungo. Di anno in anno vi si apporteranno miglioramenti tec­ nologici, dai telefoni ai televisori fino a Internet, eppure i muri reste­ ranno gli stessi, i corridoi anche. Ecco perché l’Overlook è il modello di un’eventuale topologia kubrickiana. L’insistenza di King nel co­ struire la metafora storica dell’Hotel ne svilisce la potenza: le ferite americane sono lì, nero su bianco fin troppo comode, addirittura cata­ logate in un album (che Kubrick si premura di far vedere solo ai più attenti, facendone scivolare un lembo sul profìlmico) che ne misura le tracce. Nel film le allusioni sono ridotte e il senso opprimente della Storia germoglia dall’interno, ogni eventuale suggerimento è assai sfumato: è il dominio inconscio che viene portato a galla, non la rivisi­ tazione cosciente. Di originale compare il riferimento ai pellerossa, viatico comodo, per un appassionato in materia come Kubrick, a cre­ denze religiose, magiche e mitiche; ed è anche l’unico elemento cultu­ rale ribadito all’interno dove le numerose comici ai muri sono ignora­ te dal passaggio della macchina, mentre le tappezzerie o i tappeti in stile indiano restano in campo più a lungo e volutamente.35 A Kubrick interessa calcare la mano su un atto di espropriazione, sul segno di una lotta, un trofeo, su una civiltà fondata per i turisti di inizio e fine No­ vecento con la violenza. La Gold Room è il doppio capovolto del cimitero, il regno degli spettri di una generazione che possiede Jack, la generazione dei Twenties, «l’ultimo periodo in cui la coscienza di ap­ partenere a una classe è stata del tutto evidente: perfino il tema del 34 F. Jameson, op. cit., p. 76-77. 35 Sarà bene far notare che, ad una terza fase del progetto, databile all’agosto del 1977, una maschera indiana sarebbe dovuta apparire nella prima visione di Danny. Cfr. U. VON Kleitz, op. cit., p. 194.

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servitore o del cameriere esprime il desiderio di una gerarchia sociale ormai svanita»36; Jack ha bisogno di una comunità sociale in cui po­ tersi riscontrare, o meglio riflettere. Una Storia (la metonimia dell’Overlook) fondata sulla violenza non può che generare violenza. E l’ascia, la cui scelta è stata da molti ri­ condotta al labirinto facendo leva sulla derivazione greca del termine labrys, in origine ascia bipenne e di pietra con funzioni rituali presso la corte di Minosse (nella reggia di Cnosso se ne trovano riproduzioni sulle pareti), è invero anche un’arma indiana. E il West è luogo mitico di civiltà e di vittime ritenute colpevoli e scelte secondo i criteri tipici del meccanismo vittimario. Un’America divisa all’interno dell’Overlook, nel cui ampio salone dai lampadari espressionisti37 è appesa, non lontana dalle succitate tappezzerie, la bandiera a stelle e strisce. La fondazione di una civiltà su un assassinio è ancora una vol­ ta l’origine rimossa e ripetuta, ribadita nella fotografia finale che porta la data del 4 luglio 1921, festa dell’indipendenza americana che a sua volta riporta «al mito della civiltà, della conquista, del pionierismo trionfante.»38 Per questo c’è da essere d’accordo sul fatto che «ciò che caratterizza l’uomo non è il tempo, non la storia [...] ma la natura»39: è l’origine e la struttura della Storia secondo Kubrick. Jack non è allora un figlio degenere della storia americana, ma il figlio violento di una storia degenerata (pare quasi di parlare di Alex DeLarge e nel profondo lo si potrebbe anche fare). La macchia di un passato cattivo resta un marchio a fuoco e non sarà un caso che Danny, correndo con la madre nel labirinto, ponga una strana condi­ zione: «Loser has to keep America clean» (che si perde completamen­ te nella versione italiana in un «Mamma, ho il fiatone»); Jack invece 36 E Jameson, op. cit., p. 82. 37 È Walker che, fedele a una lettura che lo accompagna in molti film, evidenzia il debito di Kubrick verso il cinema tedesco tra le due guerre. Cfr. A. WALKER, Stanley Kubrick Director. A visual analysis, W.W. Norton & Company, New York 2000, p. 290. In comune con quel cinema c’è di certo anche il particolare interesse per l’inconscio. 38 G. Cremonini, Kubrick: la vita dinanzi a sé, in «Cinema & Cinema», n. 29, ottobredicembre 1981. 39 Ibid. E, poco oltre, Cremonini riporta una giusta osservazione di Goffredo Fofi: «Quel che Kubrick ci dice è l’impotenza di questa civiltà a scendere a patti con la natura stessa dell’uomo per abuso di un tentato controllo su di essa, o meglio di un modo sbagliato di trat­ tarla.»

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ne è solo sporcato. La sua follia comincia con la nevicata (a supportare la tesi di La Polla che, richiamando Bachelard, vede nella neve un «ul­ teriore elemento catalizzatore dell’instaurazione di un rapporto mito­ logico tra presente e passato, di una riduzione della distanza fra ciò che fu e ciò che è»40), incomincia in una prospettiva passata che gene­ ra soggetti incapaci di farsi una coscienza del trascorso, che sono co­ stantemente doppi e come tali, già ci diceva Girard altrove, perdono di vista tutto fuorché la rabbia che li oppone l’uno all’altro. Jack ha il suo doppio in Grady, Danny in Tony, le gemelle sono due e uguali, doppia è anche la donna-cadavere della stanza 237, 1’Overlook è il doppio del mondo stesso, la Gold Room del cimitero indiano, addirit­ tura il labirinto, al di là del modello custodito nell’Hotel, cela un dop­ pio modo di dipanarsi combinando due motivi legati all’infinito: il primo è l’intreccio «chiuso, malefico, pessimista (è l’eterno ritorno le­ gato a Jack)», il secondo la spirale «positivo, aperto, ottimista (è il di­ venire perpetuo legato a Danny)»41. Il motivo del doppio è portato all’esasperazione nel momento in cui si decide di suggerire la dimen­ sione più segreta della Storia e della sua azione sull’uomo, tracciando il più ripetitivo ed identico dei percorsi, lungo il quale il sacrificio e la costante vittima di questo meccanismo che finiamo col ritrovare, sem­ brano l’unica inutile soluzione. Lo stesso accenno alla spedizione Donner, al cannibalismo come esigenza, riporta, schematizzata, la convinzione assassina di fondo che Kubrick ha dell’uomo, non lontana ancora dai meccanismi di fondazione guardiani o dall’ossessione di sovrappopolazione lévi-straussiana: sappiamo che la dispensa piena di cibo non rappresenta una garanzia. All’uscita del film, sul New Yorker del 9 giugno 1980, Pauline Kael osservava: «[Kubrick] sembra aver fatto ritorno alla sua concezione dell’inizio di 2001: l’uomo è un assassino, attraverso l’eternità. L’osso scagliato in aria si è trasformato nell’ascia di Jack.»42 Shining, come tutti i film post-2007, era racchiuso nella ben nota ellissi. Torrance agisce guidato da una presenza fantasmatica, il suo è l’inconscio di un paese, dell’umanità. Per questo il mito ha spazio, 40 F. La Polla, op. cit., p. 183. 41 M. Ciment, op. cit., p. 146. 42 Riportato in G. Cremonini, Shining, cit., p. 107.

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perché in Jack si manifesta quello che Jung definiva «il rivivere autoc­ tono di motivi mitologici»43, in grado di attivare pericolosamente F archetipo corrispondente alla situazione. Se è vero, seguendo ancora Jung, che bisogna interpretare i motivi mitologici come elementi strut­ turali della psiche, questa autoctonia di Jack Torrance va ben al di là del semplice rapporto con l’ambiente del modello Overlook. La de­ generazione definitiva della follia del custode si ha nel faccia a faccia con la moglie nel salone e quindi sulle scale, con la macchina che si muove perfettamente lungo la linea che li separa, indietreggiando ri­ spetto a Jack e avanzando verso Wendy, mantenendo la frontalità nel campo/controcampo. Colpito duramente alla testa dalla mazza che Wendy brandisce, Jack viene trascinato e rinchiuso nella stanza delle provviste, da cui lo libererà la voce invisibile di Grady, confermando esplicitamente che i fantasmi non sono parto della mente di Torrance, ma possono anche aprire una porta. Nicholson esce trascinandosi una gamba, infortunata nella precedente colluttazione, e zoppicando si mette sulle tracce di moglie e figlio. Il passo incerto ma tenace diven­ terà il principale motivo del personaggio fino alla corsa nel labirinto. La liberazione dalla dispensa è la nuova nascita di Jack, la definiti­ va convinzione di appartenere al mondo dell’Overlook e di doverne seguire le leggi eliminando chi è ritenuto responsabile dell’attrito veri­ ficatosi nella fantasmatica comunità. Danny è il capro espiatorio, col­ pevole di fronte alla comunità di voler cambiare il ritmo dell’Overlook, che invece uccide proprio chi vuole bloccarne il passo indifferente. È Grady che molto chiaramente, investendo Jack del ruolo di caretaker, facendone il tutore di un antico ordine, gli dice: Deve sapere Mr. Torrance che suo figlio fa tutto il possibile per inserire un elemento estraneo in questa situazione [Hallorann, il “negro”], lo sapeva sir? [...] Suo figlio ha dei poteri segreti, credo che lei non sappia quanti ne ha sir, ma vede sta provando ad usare questi poteri contro di lei, capisce? [...] Se mi permette le do un consiglio e magari più di uno: le mie figlie all’inizio non amavano affatto 1’ Overlook Hotel, una di loro addirittura rubò una scato­ la di fiammiferi e cercò di dargli fuoco, ma io le punii tutte e due e quando mia moglie si mise in mezzo per impedirmi di fare il mio dovere, io punii an­ che lei. 43 C.G. JUNG, Il concetto di inconscio collettivo, traduzione di A. Vitolo, in Opere. Gli ar­ chetipi e l’inconscio, Boringhieri, Torino 1983, voi. 9*, p. 45.

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Grady propone a Jack di tornare ad acquisire una socialità e, attra­ verso di lui, Torrance viene partorito a nuova vita dalle viscere dell’Hotel (la dispensa e la cucina). Ora, la tabella su quattro colonne proposta da Lévi-Strauss per analizzare il mito in verticale oltre che in orizzontale, rivela che «il carattere comune della quarta colonna po­ trebbe dunque essere la persistenza de II’autoctonia umana.» Muo­ vendo dalla storia di Edipo e ragionando sul significato dei nomi (Edipo “piede gonfio”, Laio “sbilenco”, Labdaco “zoppo”), Lévi-Strauss rileva un carattere comune: «quello di comportare significati ipotetici, e di evocare tutti una difficoltà a camminare diritto.» A questa analisi fa seguire una serie di miti radicati presso le tribù da lui visitate e stu­ diate e nota l’incredibile numero di nomi che evocano incapacità e in­ convenienti nell’andatura, fino a dedurne che «in mitologia, è frequen­ te che gli uomini, nati dalla Terra, siano rappresentati, nel momento dell’emergenza, come ancora incapaci, o goffamente capaci, di cam­ minare.»44 Dopo tutto quello che abbiamo detto appare nitida l’immagine di Jack che, “al momento dell’emergenza”, zoppica verso l’obiettivo inconscio che le riviviscenze autoctone junghiane gli hanno indicato; il gioco raffinato di Kubrick, da vero studioso di mitologia, è un ragionamento sull’esistenza di questi elementi strutturali mitologici nella psiche inconscia. Volendo richiamare ancora Bettelheim, po­ tremmo aggiungere che la tragicità del mito è coerentemente legata a Jack, mentre Danny, inquadrato (anche nel romanzo) da motivi più fiabeschi, può sperare nel lieto fine.45 Scoperto Jack come autoctono, nato dalla Terra, dall’Overlook, sa­ rà meno difficile ritrovarlo alla fine, nella fissità della fotografia che rilancia il girotondo perpetuante di un Hotel in cui tutti alloggiamo, capire perché Jack è da sempre dentro 1’Overlook, cogliere il raddop­ piamento estremo, la mise en abyme del doppio per eccellenza che è il film stesso: «in che senso e in quale nuovo modo il moderno universo cinematografico risuscita l’universo arcaico dei doppi?», si chiedeva 44 Si veda C. Lévi-Strauss, La struttura dei miti, traduzione di P. Caruso, in Antropolo­ gia strutturale, Net, Milano 2002, pp. 240-241. 44 Ivi, p. 241. 45 Si veda quanto detto riguardo all’ “ottimismo” della fiaba e al “pessimismo” del mito in B. Bettelheim, op. cit., pp. 38-44.

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proprio nel 1977 Edgar Morin scrivendo la prefazione alla nuova edi­ zione de II cinema o l’uomo immaginario46, avvertendo un profondo legame tra il cinema e il regno dei morti, arrivando poi, credo che a Kubrick sarebbe piaciuto, a confondere i piani, perché il doppio sug­ gerisce l’idea di immortalità, ma nel linguaggio corrente il termine può ricoprire anche un altro significato, l’inganno.

4. Scrivere la sconfitta

Mentre Danny mangia il gelato in cucina, Hallorann, seduto accan­ to, gli parla dello shining, la luccicanza. Hallorann è il “negro”, anzi­ tutto, prima ancora di cuoco; Grady stesso, nel bagno con Jack, lo de­ finisce «a nigger» e solo dopo una pausa «cook». È il segno visibile, per lo meno all’apparenza, di una nuova integrazione, stando a come lo tratta il direttore e stando al ruolo di una certa importanza che rico­ pre in una società non tanto più aperta, quanto meno capace di ricono­ scersi strettamente in comunità. Per questo Hallorann troverà razzi­ smo e morte solo dopo il fantasmatico ritorno sociale della comunità anni Venti, il cui sentimento si era trattenuto latente nel subconscio violento dell’uomo dei Settanta o degli Ottanta. Le cose brutte lasciano tracce, dice il cuoco, e c’è chi ha il potere di vederle queste tracce, chi invece, senza avvertirlo, le subisce. L’Overlook ha un suo passato, fatto di fotografie ai muri o raccolte in un album, ma le tracce di cui parla Hallorann non sono appese o incol­ late, non sono state scritte, sono state sotterrate, come il cimitero che da qualche parte potrebbe essere ritrovato molto sotto le fondamenta dell’albergo. Per tutta la durata del film Kubrick si limita a suggerire la presenza di fonti “ufficiali” circa la storia dell’Overlook e dei suoi ospiti, senza ricorrere all’esplicitazione kinghiana dell’album dei rita­ gli, profondo come la buca del re Mida in cui urlare i peccati di una lunga storia, salvo poi essere ritrovato e aperto come un vaso di Pan­ dora. Nel film gli scheletri usciti da ogni armadio, terminate le loro 46 Cfr. E. Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, traduzione di G. Esposito, Feltrinelli, Milano 1982, p. 17 e, per quanto detto di seguito, pp. 43-44.

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scorribande, tornano tutti in una fotografia, in posa dietro Torrance che è uno di loro. «I fantasmi - diceva Eugeni - chiamano Jack, Danny e Wendy in questo enorme e misterioso archivio della memo­ ria: più che ucciderli, intendono fotografarli.»47 La fotografia fìssa un istante, costituisce un momento, nega, pur nella sua durata, un prima e un dopo: ad Hallorann e ancor più a Danny è concesso di vedere un prima e un dopo, è concesso di mettere in moto la foto e di scoprire ciò che c’è davvero dietro, di aggirare l’arbitrarietà di una ricostruzio­ ne fotografica della storia. La fotografia è un documento da archiviare, ma non restituisce fedelmente la traccia, che nella teoria esposta da Hallorann si presenta come qualcosa di assolutamente irriducibile e ingestibile per la gran parte degli individui. L’oltrepassamento che viene accordato a Danny (cioè il poter identificare la traccia e si noti che Danny si salva proprio perché si impegna a non lasciare tracce nella neve) è la conseguenza di una potenza dell’occhio che vince sul cervello e sulla ragione e la parola ad esso legati. Quando Deleuze te­ orizza nel cinema kubrickiano l’identità tra cervello e mondo e consi­ dera, visualizzando il concetto, la tavola di Stranamore, il computer di 2001 e 1’Overlook, si ferma ad un passo dal notare definitivamente che proprio l’occhio, l’altro organo kubrickiano, si interpone in Shi­ ning tra il mondo e il cervello causando un distacco spaventoso (lette­ ralmente) che lascia Danny al di qua di spazio e tempo, libero. Tornando a quanto sosteneva sopra Eugeni, finiamo con l’imbatterci in uno dei temi più reconditi eppure decisivi di Shining, quello dell’archivio, «e in particolare deìV archivio fotografico».48 Come detto, è la scelta del finale che porta il ragionamento lungo le pareti con le comici appese o su quel lembo di album fotografico in­ travisto un attimo. La fotografia, cui facilmente si lega il concetto di ricordo (foto-ricordo) è un estremo aggrapparsi alla vita («il ricordo può esso stesso essere chiamato vita ritrovata, presenza perpetuata», diceva Morin49) e, al lato opposto, la presenza di un’assenza inesorabi­ le. E cosa c’è di più perturbante che fissare ossessivamente una foto? Qui, in fondo, vuole condurci Kubrick. Qualcosa con cui si intrattiene 47 R. Eugeni, Invito al cinema di Kubrick, cit., p. 105. 48 Ivi, p. 104. 49 E. Morin, op. cit., p. 37.

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una certa familiarità subisce l’effetto straniante del calco, la fissità ri­ vela forme inattese, espressioni che cambiano più l’occhio ci si ferma sopra, l’abitudine al movimento rende dura l’accettazione prolungata dell’immobilità; per questo un film risulta, nel ricordo, più struggente forse, ma meno inquietante. Il movimento infinito che caratterizza ventinove delle ultime quaranta inquadrature del film, si immerge nel gorgo dell’ultima fotografia, la “sfoglia” con una serie di dissolvenze incrociate inusuali in Kubrick, ma presenti in diverse occasioni in Shi­ ning, vi cerca e vi trova un segreto che all’occhio umano non sarebbe stato facile cogliere. Il problema dell’archivio, dunque, e particolarmente dell’archivio fotografico, era stato posto in termini molto precisi in uno studio di Arturo Carlo Quinavalle, che si chiedeva se l’archivio fosse strumen­ to dell’arte della memoria oppure dell’oblio. Riporto le prime righe del saggio in questione: «Certamente è tempo di archivi fotografici ma non so bene se è lecito considerare questi il luogo dell’archiviazione del tempo, cioè della storia.»50 La pretesa di conservazione dell’archivio incontrava il rischio opposto, quello della cancellazione e con essa il lento sorgere di un tempo rimosso. L’archivio dell’Overlook è esattamente il risultato di una conserva­ zione manipolata e costruita lungo le vette degli anni dell’albergo/Storia, un archivio assolutamente ipnotico, indecifrabile al punto da non poter fare affidamento alcuno sulla sua autenticità. Le tracce di cui parlava Hallorann non erano certo le fotografie (non avrebbe in questo caso né parlato di tracce, né avrebbe reso chiara l’impossibilità a lavarle), ma piuttosto la parte nascosta, il negativo, il risvolto di quelle stesse immagini. Louis-Josè Lestocart ha parlato per Shining di cinéma-panoptique, nel senso della collezione di oggetti nell’albergo e non ancora nel senso di una reclusione. L’Overlook sa­ rebbe un «palais de la memoire»51 nell’accezione oratoria del termine, cioè legata alla nozione di mnemotecnica che si sviluppa attraverso il riferirsi a luoghi ed oggetti; l’Hotel è tutto da leggere, ma bisogna es­ serne capaci. Quello che resta da indagare è a questo punto il perché 50 A.C. Quintavalle, Tempo dell’archivio, archivio del tempo, in Messa a fuoco. Studi sulla fotografia, Feltrinelli, Milano 1983, p. 25. (Ma già in Studio Villani, Csac, Università di Parma 1980). 51 L.J. Lestocart, Shining. Le cinéma-panoptique, in «Positif», n. 464, oct. 1999.

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Hallorann e Danny abbiano dei flash (nel senso primo di “bagliori”) che gettano luce sulla realtà vera e che salveranno dalla dannazione a ripetere dell’Overlook il bambino. Il nodo centrale riguarda la scrittura, nel senso più largo dell’accezione. L’archivio è d’altra parte questione di scrittura, con­ quista di una memoria salda (un tipo particolare di ritenzione) in grado di attraversare indenne gli anni, più o meno oggettiva una volta conte­ stualizzatala. Non è, in altre parole, il tramandarsi notizie di bocca in bocca, il traballante sovrapporsi di fatti ed episodi della tradizione ora­ le. Nell’uno e nell’altro caso, inevitabilmente, qualcosa resta fuori, precipita e rischia di non esser mai più ritrovato. Alla scrittura poi si affida ciò che ha valore di testimonianza; da nessuna parte sta scritto che anni addietro un custode impazzito ha sterminato la famiglia, que­ sto racconto è lasciato ad una sorta di tradizione orale interna all’albergo e che muove dal capo della comunità, dal direttore, suscet­ tibile di subire cambiamenti. Mentre Ullman spiega, sembra di ascol­ tare un racconto dell’orrore e Jack, sorridente, dirà, giustamente, che sua moglie va matta per i racconti dell’orrore (She’s a confirmed ghost story and horror film addict). L’errore che Kubrick pare criticare ha allora a che fare con l’eccessiva autorità dell’archivio e più ampiamente della scrittura, sia essa letteraria o fotografica o anche, dentro e fuori del film, cinemato­ grafica. Il discorso recupera l’impostazione antropologica cara al re­ gista, a costituire un’ulteriore via di lettura oltre quelle fiabesca e mi­ tologica. Hallorann e Danny sono, per motivi diversi, esclusi dal luogo dell’archivio, dal tempio della scrittura. Il cuoco lavora nelle cucine, sotto l’albergo, il suo regno (così lo definisce Ullman) ha un che di profondamente ancestrale, è, con la stanza delle caldaie, la regione da cui l’albergo riceve alimentazione, è piuttosto chiaramente il punto rimasto più vicino al vecchio cimitero; cimitero che viene da subito individuato come la prima dubbia traccia nel passato dell’albergo. Hallorann poi è il “negro”, sia nel romanzo che nel film. L’insistenza che Kubrick mostra nel voler sottolineare anche registicamente la raz­ za del cuoco, va al di là della violenza che Grady, per tutta la buona società della Gold Room in cui Jack ambisce ad identificarsi, dimo­ stra; al cuoco sono concessi poteri magici, che uniscono il mondo fisi­

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co a quello sovrannaturale, è il solo che può comprendere l’unico eroe vincente di Kubrick, anzi è una sorta di mentore che come tale impor­ rà a Danny un divieto che, il racconto di magia lo richiede, sarà presto infranto. Il “negro” allora è un retaggio primitivo della società vacan­ ziera e corrotta. Non vorrò certo sostenere che Hallorann non sappia scrivere, ma che abbia una proprietà mitica di ragionamento che sca­ valca le possibilità percettive àeWhomo sapiens criticato da Kubrick, questo sì: Hallorann, coi suoi poteri, potrebbe rientrare nel vasto oriz­ zonte culturale della négritude, sia per quanto concerne il dato emo­ zionale e mistico che lo caratterizza, sia per quanto concerne un’esclusione che è poi rifiuto di un’assimilazione e di una dipenden­ za. Lo spettatore coglie perfettamente, magari non in maniera del tut­ to conscia, queste caratteristiche del personaggio, tanto che al momen­ to dell’uccisione del cuoco tutti cominciano a temere in una risoluzio­ ne completamente a vantaggio di Jack e delle forze dell’Overlook, convinti che Danny non abbia sviluppato fino in fondo i poteri di cui anche Hallorann disponeva. Danny è il contrario dell’archivista, è estraneo a quello che Fink definiva «orrore marienbadesco della ripetizione»52, è Vhomo videns e non quello schiavo di un apprendimento supino che passa interamente e solo per gli occhi, ma la realizzazione terrena di Bowman: i corridoi dell’Overlook sono il trip sul triciclo, il bambino è di continuo proiet­ tato nell’infinito, nell’ignoto, ma a differenza dell’astronauta che in­ terrogherà sfinito la pietra nera, Danny farà leva sulla sua capacità di interpretare le immagini di un mondo altro che solo lui può vedere. Dicevamo che è il contrario dell’archivista perché non è in grado di fissare e conservare la sua memoria suggestionata: stando a King, ma Kubrick non ci offre motivi che lo contraddicano, Danny non sa scri­ vere (è evidente che redrum è compreso e dettato da Tony e da quanto esso rappresenta), né leggere (King insiste molto sulla smania autodi­ datta del bambino che, immagazzinando lettere di continuo, passa lunghi periodi a sforzarsi nella lettura, per potersi collocare al livello di comprensione della realtà del padre e della madre, senza sapere che questo esercizio costituisce una via errata al tipo di conoscenza richie­ sto per sconfìggere 1’Overlook). Ciment ha scritto che «il bambino, 52 G.Fink, op. cit.

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così come l’essere primitivo [vedi Hallorann], è più vicino a quelle at­ tività psichiche che caratterizzano l’umanità ad uno stato anteriore del suo sviluppo»5354 ; si dovrà chiarire quale sviluppo, dal momento che anche qui rimane questo il nodo da sciogliere, il falso avanzamento dell’eroe kubrickiano Jack, e l’a ritroso vincente dell’eroe vero Danny. Lévi-Strauss, parlando di pensiero primitivo e mente civilizzata, metteva già in luce l’errore abituale insito nella definizione di primiti­ vi, proponendo piuttosto quella di popoli privi di scrittura, perché era questa la vera discriminante tra le due forme di pensiero. In contrasto con la concezione utilitaristica e funzionalista malinowskiana e con quella affettiva, cui accennavamo prima, di Lévi-Bruhl, Lévi-Strauss cerca di dimostrare come questi popoli senza scrittura siano «perfet­ tamente capaci di pensiero disinteressato, siano cioè mossi dal bisogno o dal desiderio di capire il mondo intorno a loro, la natura e la società. D’altra parte, per raggiungere questo scopo, essi impiegano strumenti intellettuali, proprio come farebbero un filosofo e anche, in certa misura, uno scienziato.» Il labirinto e la funzione fondamentale che viene ad assumere nel film rispetto al romanzo è il centro di questo confronto di culture che oppone Jack e Danny, non tanto padre e figlio, quanto uomo moderno e uomo primitivo (adulto, se si preferisce, e bambino). Giuseppe Fornari, che è tra l’altro uno dei maggiori esegeti guardiani, ha scritto: «Il labirinto si presenta a se stesso come “lingua totale e impervia”, una lingua in sostanza indecifrabile perché coincide con chi dovrebbe comprenderla: il labirinto è il linguaggio, il sistema culturale dell’uomo alle prese col problema insolubile di spiegare, di concepire se stesso.»55 Il labirinto, dunque, è lingua totale, cioè sintetica, è l’esperienza linguistica che è ricercata dichiaratamente dal cinema ku­ brickiano; e come tale è per forza impervia, complessa, addirittura in­ decifrabile a causa di una coincidenza con chi la dovrebbe interpreta­ re. Ne consegue che per uscire da questo impasse è necessario distan­ ziarsi, annullare la coincidenza per poter decifrare; distanziarsi proprio come fa Jack Torrance che infatti il labirinto lo studia dall’alto, in sca­ 53 M. Ciment, op. cit., p. 136. 54 C. Lévi-Strauss, Mito e significato, cit, p. 30. 55 G. Fornari, Fra Dioniso e Cristo. La sapienza sacrificale greca e la civiltà occidenta­ le, Pitagora, Bologna 2001, p. 177.

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la, e dovrebbe, a rigore, conoscerlo meglio di Danny. Tuttavia la di­ stanza è un qualcosa di artificioso e l’interpretazione ne risente per forza; eccoci di fronte al problema insolubile di spiegare, di concepire se stesso. Torrance è impossibilitato a capire il labirinto (che è ormai come dire tutto), perché gli manca la sintesi di pensiero che invece è propria di Danny, il cui ragionamento è sensitivo.56 Il bambino è an­ teriore alla deviazione culturale del padre e ha una visione appunto to­ tale dell’Overlook, laddove Jack è semplicemente overlooked. Jack è lontano dalla primitività rappresentata dal labirinto e, senza capirla, ne avverte soltanto la violenza terribile, perché, continua Fornari, «il labi­ rinto è la sanguinosa preistoria di ogni nostro linguaggio, una preisto­ ria del segno», una sorta di scrittura delle origini che è fatta di sangue e che trova il primo geroglifico nel corpo della vittima.57 «L’onnipotenza del pensiero primordiale» di cui Fink parlava a propo­ sito di Shining, al di là delle pesanti interrogazioni che l’America, in quell’inizio anni Ottanta, si poneva al cinema (le altre “apocalissi” ri­ guardavano Coppola e Lucas), pare anzitutto un’onnipotenza lingui­ stica, la cui struttura ancora Kubrick nasconde, pur esentandola dal cortocircuito in cui si perde la pretesa e codificata onnipotenza lingui­ stica di Jack l’apprendista romanziere (lo scrivente). La memoria artificiale dell’Overlook è quella dell’archivio, quella in cui resta impantanato Jack, capace di decifrare i segni che l’albergo gli concede di leggere, facendo germinare il desiderio (mimetico) di un ritorno all’eleganza dell’antica Gold Room. Alla fine resta archi­ viato anche lui, dopo la sconfitta nel labirinto, appeso e sorridente, e chi non ha lo shining non potrà di certo scorgere la violenza bruta di quel figurino elegante, né immaginare in alcun modo il sangue di Hal­ lorann, il “negro” che nelle foto non compare, di cui forse qualche traccia sarà restata sul marmo pulito, dato che le cose brutte lasciano sempre delle tracce. Ecco perché l’archivio fotografico costituisce un 56 Roberto De Gaetano ha scritto che «lo shining sostituisce l’azione, ma soprattutto l’immagine del tempo come coesistenza e come stratificazione sostituisce quella del tempo come linea.» Mi sembra che ciò sia profondamente legato alla lettura del labirinto e alla con­ trapposizione che si crea attorno ad esso qui proposta. Cfr. R. De Gaetano, Lo spazio e il racconto, in V. ZAGARRIO (a cura di), Overlooking Kubrick, Dino Audino Editore, Roma 2006, p. 58. 57 G. Fornari, op. cit., pp. 178-179.

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rischio; i pezzi del puzzle sono tutti lì o qualcuno è perduto (o rimos­ so)? Jack è il portatore di una scrittura che è sconfitta. Sul suo tavolo c’è la macchina da scrivere e c’è l’album; nella stanza dove lavora ci sono le tappezzerie indiane, la bandiera degli Stati Uniti e le foto alle pareti. Jack è il nuovo custode e il nuovo archivista, aggiunge il suo tassello aH’Overlook/Storia; non è lui che nel romanzo è roso all’interno dal bisogno impellente di scrivere la storia segreta dell’albergo?58 Ha co­ scienza solo di ciò che gli è concesso comprendere, resta intrappolato nei codici offerti dalla Storia stessa, perpetuando il ritorno in circolo ai suoi principi. Non è capace di figurarsi un al di là (o un al di qua) per­ ché troppa fiducia ripone nei “popoli con la scrittura”: All work and no play makes Jack a dull boy. Il lavoro di scrittura affidatogli (Eugeni diceva che gli spettri non vogliono far altro che fotografare) gli pesa e la frase, ecco il cortocircuito, è un lampo inconscio che affiora mentre la mente si perde. No play: niente gioco, ma anche nessuna rappresen­ tazione, incapacità fantastica. Dull boy: un ragazzo triste, depresso, ma prima ancora, ottuso, tardo, sordo. Midnight with the stars and you è il motivetto che sentiamo mentre lo abbandoniamo; la sensazione è ancora una volta quella: ci incontre­ remo ancora, come tra i funghi di Stranamore. Mezzanotte, l’ora delle streghe, l’ora in cui finiscono gli incantesimi, l’ora in cui l’Overlook si risveglia. L’Hotel di Shining è il luogo ideale per capire la concezione della Storia di Kubrick: troppo sopra e troppo dentro di noi.

58 «L’avrebbe scritta perché l’Overlook l’aveva stregato: era possibile trovare una spiega­ zione altrettanto semplice o altrettanto vera? [...] La verità viene a galla; alla fine viene sem­ pre a galla. L’avrebbe scritta perché sentiva di doverlo fare.» Cfr. S. King, op. cit., p. 226.

Novecento: gli occhi su un secolo «L’immagine prende risalto, è pura e nitida come una lettera: essa è la lettera di ciò che mi fa male. Precisa, completa, rifinita, definitiva, essa non mi lascia alcuno spazio: io ne sono escluso come lo sono dalla scena primitiva, la quale forse esiste solo in quanto è delineata dal contorno della serratura. E perciò, ecco la definizione dell’immagine, di ogni immagine: l’immagine è ciò da cui io sono escluso.» Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso

1.

Tra psicoanalisi e etnologia:

l’inatteso ritorno del

PRIMITIVO

Esiste un appunto di Kubrick che in alto a destra reca la scritta «Schnitzler» e sotto, su tre righe: «May 22 1968 / Rhapsody - 5/22 J. Cocks - agent says I $ 40,000 but obviously high -».1 Tra il 1967 e il 1969 compaiono, come abbiamo visto, la gran parte degli scritti intor­ no a Napoleon e, ovviamente, quelli erano nientemeno che gli anni di 2001: Odissea nello spazio, eppure Kubrick inseriva tra il suo film de­ cisivo e il progetto più ambizioso questo appunto sibillino, che se non altro pone Eyes Wide Shut in una prospettiva di lavoro trentennale. In molti hanno posto l’ultimo film di Kubrick in relazione con 2001 vedendovi quasi un’incarnazione terrena del mito di fondazione del suo cinema, vedendovi l’inscrizione concreta nella Storia di molte del­ le premesse là contenute. Ciò che quell’appunto rivela è che Kubrick, ancora impregnato da letture sull’origine della specie e sulle ipotetiche realtà di un futuro spaziale, ha in testa la Vienna schnitzleriana e l’odissea di Fridolin e Albertine nel cuore della notte o nelle profondi­ tà dei sogni. Due agiati borghesi con una figlia e una bella casa in un1 1 Riportato anche in H.T. Lehmann, Film/Theatre. Mask/Identities in Eyes Wide Shut, in Aa.Vv., Stanley Kubrick, Deutsches Filmmuseum Frankfurt am Main, Frankfurt am Main 2004, p. 235.

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quartiere della capitale austriaca dove «sono tutti dottori», che d’un tratto sono trascinati in un vortice di passioni segrete (tanto più credu­ te quando sono sognate, quanto più incredibili quando sono reali) par­ torito dalla loro stessa mente, affiorato alla loro coscienza. Fridolin e Albertine sono sconvolti dalla violenza che riscoprono presente in loro quando la credevano inesistente (o almeno inattingibile), una violenza che toglie loro le maschere della tranquilla vita borghese e li scaraven­ ta in un’esistenza fatta solo di carne e corpi, di dolore e sangue, di odio e tradimento, vittime e sacrifìci. Il loro dentro li mette in contatto con un fuori sfuggente e ambiguo, che non è né la Vienna splendente a cavallo tra XIX e XX secolo, né la New York avanguardia della po­ stmodernità alla fine del XX. La vicinanza del film alla novella è stret­ tissima, in essa non è già solo contenuto il messaggio che interessa Kubrick, ma addirittura è segnata la struttura del film, con un unico cambiamento che riguarda raggiunta del personaggio di Victor Zie­ gler e della prostituta Amanda Curran (due personaggi che non avreb­ bero ragione di esistere l’uno senza l’altro), decisivi nell’ottica più esplicitamente sacrificale ricercata dal regista. «The subject of Eyes Wide Shut - ha scritto Michel Chion - is the everyday life of a couple of mortal human beings from the point of view of the vastness of history and the infinity of the world.»2 Questa vastness of history e infinity of the world, ci rimanda a quel che dice­ vamo chiudendo il capitolo dedicato a Shining: una concezione della Storia persa nell’eccessiva superiorità o nell’irrecuperabile profondità. Ma per forza riporta alla mente anche l’infìnito di 2001, il suo mistero, con la differenza fondamentale che Eyes Wide Shut non perde mai il contatto con una possibilità di giustificazione (folle o scellerata che sia) per così dire terrena di ciò che accade. In altre parole, in Eyes Wide Shut non c’è il monolito, il nero misterioso è trasferito nei vestiti eleganti degli uomini o nei costumi rituali dei membri di Somerton, oppure nella notte di Bill (per la quale Laurent Vachaud è tentato di parlare di «continent noir»3), oppure ancora in quel vedere il non ve­ dibile che è al fondo del titolo contraddittorio. Un nero che diventa nel film simbolo di eleganza (leggi rappresentazione, rito o violenza) in­ 2 M. CHION, Eyes Wide Shut, Bfi, London 2005, p. 41. 3 L. Vachaud, Eyes Wide Shut. Identification d’un femme, in «Positif», n. 464, oct. 1999.

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canalata alla festa di Ziegler, o regressione ad una realtà primordiale e inconscia di cui si toma ad avvertire l’urgenza (l’orgia): non è un caso che Bill Harford viva in quanto medico (il suo tesserino è la conferma cartacea del suo esistere in quanto essere sociale) e cioè con un camice bianco che è l’opposto del costume nero, contrapposizione che Ku­ brick offre visivamente e che Schnitzler suggeriva rapido in due ri­ ghe.4 Dunque in Eyes Wide Shut la storia degli Harford è comunque eterodiretta, ma non da una misteriosa apparizione, quanto da un’improvvisa ri-apparizione di una verità inconscia e rimossa; in questo il film risente della lunga elaborazione, che affonda le radici al tempo di 2001 (il tempo delle origini), ma vede la luce dopo film co­ me Shining e Full Metal Jacket, mescolando il sentimento del primiti­ vo e le letture etnologiche alle psicoanalisi freudiana e junghiana. A tale proposito risulta di primaria importanza una dichiarazione fatta da Christiane Harlan, la moglie di Kubrick, che ha rivelato che Stanley aveva letto numerosi testi di etnologia in particolare sull’Africa e sull’origine della specie, testi che utilizzò nella preparazione di Eyes Wide Shut, interrogandoli circa il rapporto uomo/donna. Fu su quei libri che scoprì che la grande paura dell’uomo primitivo era l’insicurezza della sua progenitura, la paura del tradimento insomma, che portava alla gelosia. Kubrick si interessava al fatto che tra gli animali, quando la comunità si restringe troppo, la femmina si allontana per farsi fecondare da altri maschi e restituire consistenza al suo grup­ po, ma deve agire all’insaputa dei maschi della sua comunità pena la sua uccisione.5 L’inganno della femmina al maschio era ciò che Ku­ brick voleva riportare a galla nella New York alto-borghese di fine Novecento. Il noto dialogo (che potremmo chiamare il dialogo sulle pulsioni) tra Bill e Alice si differenzia da quello originario tra Fridolin e Alber­ tine proprio per la chiara allusione al controllo delle pulsioni che fa saltare i nervi ad Alice. La donna è esasperata dal fatto che il marito non abbia «scopato» le modelle incontrate alla festa di Ziegler solo 4 «Si tolse la pelliccia e indossò il saio, proprio come usava fare ogni mattina nel suo re­ parto d'ospedale quando s’infilava il camice». Cfr. A. SCHNITZLER, Doppio sogno, a cura di G. Farese, Adelphi, Milano 1999, p. 53. 5 Y. Tobin et L. Vachaud, Brève rencontre avec Christiane Kubrick et Jan Harlan, in «Positif», n. 464, oct. 1999.

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perché frenato dall’essere sposato, dal non voler mentire e far soffrire la moglie. Comportamento esemplare, si dovrebbe dire, ma Alice va oltre, punta dritta sulla pulsione: in realtà, se ne dedurrebbe, se Bill non fosse stato sposato o non ritenesse scorretto mentire, se non fosse cioè inserito in un sistema di regole morali alle quali ritiene conve­ niente attenersi, avrebbe «scopato» le due modelle (ed è per questa ra­ gione che non trova affatto strano che l’ungherese Szavost abbia cer­ cato di fare altrettanto con sua moglie). Alla stessa maniera, provoca­ to da Alice che mette in dubbio il rapporto medico/paziente, egli non prova desiderio per le pazienti che visita (Kubrick si premura di me­ starcelo mentre ausculta una giovane a seni scoperti) per il fatto di es­ sere medico e non, di nuovo, perché non lo desideri realmente. E di seguito Bill confida ad Alice di non essere geloso di lei perché è sua moglie e perché è la madre di sua figlia, cioè per il medesimo sistema di convenienze che invocava per sé e che pare soddisfarlo. Per queste ragioni la confessione di Alice lo distrugge, perché la moglie rovescia d’un tratto sul talamo nuziale non un tradimento, ma il pensiero e la fantasticheria di un tradimento, da cui non l’avrebbe fermata né il do­ vere verso Bill, né tantomeno verso la piccola Helena; Alice avrebbe tradito in preda ad una pulsione sessuale irrefrenabile che non è con­ templata nel sistema di certezze edificato da Bill, sistema fondato so­ pra una società che si rivelerà quanto mai previdente nel procacciarsi spazi di liberalizzazione del desiderio. Quando Alice, puntando il di­ to contro Bill, esclamerà la famosa frase «Millions of years of evolu­ tion, right?», il senso sarà esattamente quello cercato e trovato da Ku­ brick nei suoi libri di etnologia: per l’ennesima volta la vera natura dell’uomo, il suo vero istinto, è sepolto sotto una serie di regole e di­ vieti che soffocano la realtà della pulsione, che mai però abbandona l’individuo, e anzi è pronta a riaffiorare e a dominarlo. Il viaggio not­ turno di Bill, come quello del soldato Joker, è un viaggio (incompiuto) alla ricerca del Sé, com’è inteso da Jung. Ancora Chion ha scritto che alla fine «all that remains is naked human nature»6 e non sarà difficile richiamare subito quanto s’è visto sostenere da Cremonini o da Fofi a proposito di Shining, e cioè che l’uomo è primariamente natura e che non si dà controllo su di essa, o lo si dà in maniera del tutto errato: 6 M. Chion, Eyes Wide Shut, cit., p. 45.

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l’ultimo film di Kubrick è l’ennesimo ritorno alla natura dell’uomo, in aperta polemica con le teorie del bon sauvage da lui stesso attaccate in più sedi. Eyes Wide Shut è caratterizzato dunque da un forte senso del primi­ tivo, nel suo rapporto con 2001, nelle letture etnologiche di Kubrick e, non meno, nel rapporto con la psicoanalisi e con la novella di riferi­ mento. Come sappiamo Kubrick era un attento lettore di Freud e Jung, conoscitore preciso, ma non per questo restio ad unire le loro te­ orie, a farle urtare anche l’una contro l’altra, a metterle di fronte ad al­ tri studi (come potevano essere quelli di etnologia), in nome di un ri­ sultato artistico che non era in primo luogo interessato all’ortodossia del metodo. Schnitzler, con la sua Traumnovelle, un’indagine di scrit­ tura differente, veniva a proporsi come ulteriore polo di ispirazione, nonché come primaria fonte al livello del racconto. Kubrick aveva dunque da una parte uno studio del comportamento animale e primiti­ vo che aveva indagato lungo una linea di pensiero estremamente coe­ rente, che di nuovo prendeva le mosse dall’Ur-testo dell’alba dell’uomo; dall’altra aveva tre modelli psicoanalitici, da lui ampia­ mente frequentati negli anni, che aveva intenzione di far interagire. La teoria della sessualità, caposaldo al limite del dogma nella psicoa­ nalisi freudiana, giocava un ruolo fondamentale e non sono mancate le analisi del film che hanno cercato nel trauma sessuale o nella manife­ stazione dell’edipo la giusta chiave di lettura. Ma la stessa natura con­ servatrice delle pulsioni di cui si tratta in Al di là del principio di pia­ cere (1920) viene a costituire un elemento chiave nella resa kubrickiana e facilmente anche in certi passaggi della novella. Il sentimento di un’estensione che venisse a coprire conscio e inconscio, oltre che la forte suggestione dell’esistenza di un a priori collettivo, rimandavano, invece, verso una direzione junghiana che pareva anche la più adatta a seguire le nere profondità primitive che Freud non avrebbe seguito al di fuori di una pista sessuale ritenendole confinare col rischio dell’occultismo («la nera marea di fango dell’occultismo», come disse il grande padre a Jung, facendo vacillare gradualmente la sua autori­

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tà7* ). L’idea fondamentale che il passato della specie e quello dei sin­ goli individui coincidano (coincidenza di ontogenesi e filogenesi), era radicata in Kubrick. La presenza di Schnitzler, preponderante e letterale sul piano narra­ tivo, portava con sé suggestioni di altro genere ancora e lasciava in un certo senso Bill al di qua della primordialità (laddove invece Torrance vi precipitava), lo lasciava fluttuare in quel territorio mediano tra con­ scio e inconscio che,Q nella teorizzazione schnitzleriana è il medioconscio o semiconscio. Ma Schnitzler recava anche altre suggestioni, eccedenti il testo e di tipo culturale, il cui referente era l’area germani­ ca dove la penetrazione della psicoanalisi, in quei primi venti anni del secolo, si era dimostrata molto forte a diversi livelli, dalla letteratura, all’arte espressionista (parzialmente citata in alcune delle opere pitto­ riche di Christiane Kubrick che sono parte integrante del profilmico), al cinema espressionista (cui Kubrick non ha mai fatto mistero di guardare9). Il gioco di contrasti luce/buio, dentro/fuori, realtà/finzione, molto presente nel cinema espressionista, passerà a Kubrick per il tramite della Traumnovelle (dove peraltro le descrizioni di situazioni illuministiche espressioniste sono, a ben guardare, quasi una costante). Michael Henry, in un lungo articolo, ha colto questo particolare rap­ porto vedendo in Eyes Wide Shut addirittura un Kammerspiel kubri­ ckiano chiuso nella New York ricostruita negli studi di Pinewood.10 La ricostruzione delle fonti kubrickiane restituisce così il consueto interesse del regista per il collegamento tra la storia dell’uomo e la sua natura, collegamento che pone di fronte alla Storia in quanto entità af­ fatto esterna. Ma giunti a questo punto ci imbattiamo nella questione che ha interessato da subito chi si è accostato al film: perché Kubrick 7 Si veda al riguardo il capitolo che Jung dedica alla figura di Siegmund Freud in C.G. JUNG, Ricordi, sogni, riflessioni, traduzione di G. Russo, BUR, Milano 2006, in particolare le pagg. 191-194. s Di questo aspetto in relazione al film si è occupato Roberto De Gaetano, Le fluttua­ zioni del “setniconscio”, in Dossier Eyes Wide Shut, a cura di G. Cariuccio e F. Villa, «La Valle dell’Eden», n. 8/9, settembre-dicembre 2001 gennaio-aprile 2002, pp. 63-69. 9 Alexander Walker (Stanley Kubrick Director, W.W. Norton & Company, New York 2000) si è soffermato più di altri, nelle sue analisi di film, sulla componente espressionista che sarebbe presente nel cinema kubrickiano e che lo legherebbe al cinema tedesco tra le due guerre. 10 M. HENRY, La penotnbre des àmes, in «Positif», n. 463, sept. 1999.

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ha voluto cambiare l’ambientazione? L’ambiente di Schnitzler era quello mitteleuropeo, Vienna scintillante, seducente e ammaliante, proprio quel centro Europa da cui la famiglia Kubrick partì per New York. Era l’Europa dell’elegante poesia degli Stroheim, degli Ophtils11, modelli dichiarati di Kubrick; un’Europa austera e vecchia, sull’orlo dell’abisso (la Traumnovelle fu scritta tra il 1921 e il 1925 e uscì nel 1926, ma fu abbozzata già nel 1907), pronta per la fine, di­ stratta: quasi un Barry Lyndon poco più di un secolo dopo. Leggendo il racconto di Frederic Raphael, si scopre che il regista raccomandava di continuo al suo sceneggiatore di attenersi a Schnitzler, ma era os­ sessionato dalla modernità di cui voleva che la sua pellicola fosse per­ vasa: «Non è troppo datato?», chiedeva a Raphael riguardo al libro, oppure: «Vedi se riesci a tirare fuori qualcosa di più... sexy... e maga­ ri di più contemporaneo.»11 12 Spostarsi a New York aveva molteplici significati: dal mondo vecchio al mondo nuovo, ma al mondo nuovo degli anni Novanta del Novecento, quando è già a suo modo invec­ chiato, bruciando con più foga, vecchio non per il troppo antico, ma per il troppo moderno. New York è (o è stata) la modernità per eccel­ lenza, il rovescio e la falsa erede di quella Vienna.13 A Kubrick pre­ meva fare un film sulla fine del Novecento che si andava avvicinando piena di interrogativi (soprattutto bio-tecnologici) che lo interessavano profondamente, un film fine-novecentesco e pre-duemila, al limite, sul crinale tra il secolo breve e il lungo secondo millennio. Per questo Bernardi parla di Eyes Wide Shut come di un attraversamento simbolico di tutto il mondo metropolitano moderno e forse anche dell’immaginario del nostro secolo, che viene qui delineato nella sua incredibile povertà o nella sua ricchezza solo apparente. [...] Kubrick ci 11 Da Schnitzler Ophiils aveva tratto, a distanza di quasi vent’anni, due capolavori quali Amanti folli (Liebelei, 1932) e La ronde ( 1950). Per una trattazione dei rapporti tra Schnitzler e il cinema rimando anzitutto a L. QUARESIMA (a cura di), Sogno viennese. Il cinema secondo Hofmannsthal, Kraus, Musil, Roth, Schnitzler, La casa Usher, Firenze 1984, e a P. VECCHI, Doppi sogni sullo schermo. Schnitzler da Curtiz a Kubrick, in “Cinefonim”, n. 9, novembre 1999. 12 Cfr. F. Raphael, Eyes Wide Open, traduzione di N. Gobetti, Einaudi, Torino 1999, pp. 27 e 125. 13 Ha scritto Sandro Bernardi che «chiuso fra queste due grandi capitali, la prima piena di promesse, la seconda di tradimenti e inganni, il secolo è giudicato.» Cfr. S. BERNARDI, Ku­ brick e il cinema come arte del visibile, Il Castoro, Milano 2000, p. 17.

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Capitolo V

consegna un film postumo che è forse la più profonda, amara critica del No­ vecento e della città, descritta come regno delle immagini14

La Vienna di Schnitzler è una città ipovisuale e come tale non resti­ tuisce, raddoppiato, l’abisso di simulacri inseguito da Bill: è l’immaginario dell’uomo di fine secolo (e americano) che interessa a Kubrick. Se nella novella Fridolin poteva chiedersi «Quale strano romanzo ho mai sfiorato?», è evidente che nel film Bill potrebbe chiedersi al­ trettanto: «Quale strano film ho mai sfiorato?», o meglio ancora, «A quale strano film ho mai assistito?». E allora davvero «Bill è al cine­ ma, e la città, e il castello misterioso, dove Bill tenta di entrare, tutti questi luoghi non sono poi così differenti dal cinema. Lo schermo ci­ nematografico li riassume tutti: è il luogo dove tutti gli spettatori pos­ sono entrare solo a condizione di rimanere fuori.»15 L’immagine è il grande significante che cela il nulla; se già Redmond Barry si era per­ so dietro la «parata dei significanti», Bill pare smarrito sulla stessa strada e dietro parole e immagini non ritrova niente di concreto, tra segno e concetto c’è il vuoto. L’immaginario (o per esso il cinema, o l’immagine) è in fondo il richiamo al primitivo che Kubrick suggerisce; il sentimento della ge­ losia terribile letta nei resoconti degli etnologi, si esprime nel bianco e nero di un vecchio film visto non si sa dove né quando, che passa per la mente di Bill e che è interpretato, stavolta, da Alice e da un miste­ rioso ufficiale.16 E Bill ora crede ciecamente a quelle immagini da ci­ nematografo, a quelle ombre che sottendono il nulla, il falso e che, pur essendo effettivamente false dal momento che Alice non ha mai nem­ meno sfiorato l’ufficiale, per Bill sono realtà e risvegliano un’altra re­ altà, violenta (scrive Schnitzler: 14 Ivi, pp. 15, 16. 15 Ivi, p. 19. E si rivada all’esergo barthesiano di questo capitolo. 16 Interrogato sul fatto che le prime immagini che riproducevano davvero il reale erano in bianco e nero e quindi una tale rappresentazione del mondo potrebbe aver impregnato il no­ stro immaginario e il nostro inconscio, l’antropologo Michel Pastoureau ha risposto: «E forse anche il nostro modo di sognare. È probabile che si sogni in bianco e nero. Chissà? Ciò che è certo è che i vecchi film, i noir, serbano una loro forza e un loro mistero. Probabilmente c’è sotto qualcosa che viene dall’inconscio». Cfr. M. PASTOUREAU, Il piccolo libro dei colori, tra­ duzione di F. Bruno, Ponte alle Grazie, Milano 2006, p. 90.

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Se adesso per esempio gli fosse venuto incontro il giovane danese con cui Albertine... ma no, che gli saltava mai in mente? Ebbene - in fondo era come se fosse stata la sua amante o peggio ancora. Sì, che gli venisse incontro lui in quel momento! Oh, sarebbe un vero piacere potergli stare di fronte in una radura e puntare contro quella testa dai capelli biondi e lisciati la canna di una pistola.

Il duello addirittura: la violenza regolare di Barry Lyndon). Il fondo pulsionale che Kubrick vuol far riaffiorare in ogni suo film, sfrutta in Eyes Wide Shut la realtà di un mondo fantasmatico (il cinema stesso) che è il raddoppiamento esterno e controllato di ciò che ci domina nel profondo e di cui quei fantasmi si giovano per attecchi­ re. Il primitivo si riaffaccia nel tecnologico, ben più vivo e pericoloso delle tre maschere africane che campeggiano sul muro nell’abitazione della giovane prostituta Domino o nel corpo abbondante di Paula sette mesi (il grande quadro di Christiane esposto nel bagno di Ziegler), o ancora in quello della Kidman nuda e di spalle (per due volte) che sembra una stele più che un monolito, come vorrebbe Chion. «La nostra posizione - scriveva Lévi-Strauss in Tristi Tropici - ci dimostra che gli uomini hanno sempre e dovunque intrapreso lo stesso compito assegnandosi il medesimo oggetto e che, nel corso del loro divenire, solo i mezzi sono diversi.»17 Kubrick vuole arrivare qui un’altra volta, con uomini americani che aspettano il Duemila e gira, con una grande attenzione alle fonti, il più importante melodramma della postmodernità e per la prima volta senza scendere a confrontarsi col genere classico. Come ha osservato Franco Prono, l’ultimo film di Stanley Kubrick suggella in modo convincente un tema già affrontato dai suoi film precedenti, quello dello scacco storico della no­ stra civiltà. L’uomo moderno ingaggia una lotta inutile e logorante contro la barbarie, la violenza, la morte, utilizzando anni inadeguate, inefficaci, con­ troproducenti: la natura umana, infatti, è oggi identica a quella di mille anni fa e ci fornisce rimedi e ripari antiquati e inadatti a difenderci dai pericoli che sono elementi costitutivi della civiltà da noi stessi creata.18 17 C.Lévi-Strauss, Tristi Tropici (1955), traduzione di B. Garufi, Il Saggiatore, Milano 2004, p. 381. 18 1 F. PRONO, Lo smascheramento del desiderio e della morte, in Dossier Eyes Wide Shut, a cura di G. Cariuccio e F. Villa, «La Valle dell’Eden», cit, p. 47.

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Il Fuck è l’osso degli Harford, che come tutti i personaggi di Ku­ brick e noi stessi, sono ancora nell’alba dell’uomo: il 2001 è però lì a un passo.

2.

«Where the rainbow ends»: Bill alla festa

Alla festa in casa Ziegler, mentre Alice danza con l’ungherse Szavost, Bill si intrattiene con due modelle che a un tratto, prendendolo sottobraccio una da una parte e una dall’altra, lo conducono lontano dal centro della festa. Bill, divertito, chiede dove lo stiano portando e la risposta è dove finisce l’arcobaleno (Where the rainbow ends). La proposta è allettante, alla fine dell’arcobaleno si sa che si trovano grandi tesori, ma altrettanto si sa che non è affatto facile trovarla. Il viaggio che le due modelle propongono a Bill è un viaggio verso I’infinito. Il personaggio di Victor Ziegler è un’aggiunta kubrickiana, un per­ sonaggio difficile, ma utile per dare una struttura più compiuta alla trama: la notte di Bill ha un testimone, ha una spiegazione. Risulta evidente che la stupenda villa di Ziegler è un doppio del castello di Somerton, soprattutto per il fatto che il padrone di casa è uno dei membri della società segreta e perché alla festa di Ziegler incontriamo personaggi che avranno ruoli centrali a Somerton: Nightingale (V usignolo, tradotto letteralmente dal Nachtigall di Schnitzler) e Mandy. Molto probabilmente le due modelle che vogliono rapire Bill sono due delle splendide donne che Ziegler e soci si concedono per le loro feste; come tanti altri invitati che non ci è dato conoscere, potreb­ bero essere anche loro a Somerton. La festa di Ziegler è una festa di Natale, gioiosa, luminosa, calda (è il giallo che domina), mentre So­ merton è una festa carnevalesca, in maschera (si ricordi che Schnitzler ambienta la Traumnovelle durante il carnevale e non durante il Nata­ le19), dove la morale è sospesa e dove rivive, attraverso la rigidità del 19 Giorgio Cremonini suggerisce, pertinentemente, che nel film «il Natale non è più una festa, ma il doppio dell’orgia, un palinsesto che comprende riunioni familiari sotto l’albero e

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rito, un mito di libertà sessuale; è una festa grottesca e funerea, buia, fredda (vi dominano il nero e il rosso nel suo significato più onorifico e sacrificale). Appena giunti a casa di Ziegler, Bill e Alice si confide­ ranno che non conoscono «un’anima», proprio come accadrà a Somer­ ton a Bill; l’unica persona che Bill conosce da Ziegler è Nightingale, la stessa persona che gli permetterà di entrare a Somerton. La festa di Ziegler introduce già nel lato oscuro del rapporto uomo/donna: Alice conduce un fìnto gioco d’amore con Szavost (ma proprio sulla labilità tra realtà e finzione si fonda il film), Bill si lascia corteggiare (e corteggia a sua volta) dalle due modelle20 e verrà inter­ rotto solo per soccorrere Mandy priva di sensi, venendo in contatto col suo corpo nudo (l’equivoco rapporto medico/paziente sarà una delle questioni sollevate da Alice durante il litigio) e portando alla luce il tradimento di Ziegler, che prega Bill di tenere per sé quanto ha visto (e Bill mentirà ad Alice dicendole che si era assentato perché Ziegler non si era sentito bene). Kubrick insinua un senso di violenza intimamente legato alla ses­ sualità: Alice è quasi vittima di un vero e proprio ratto, mentre Mandy è vittima di una perversione. Aleggia un sentimento di sopraffazione che riconduce al fondo violento come struttura fondamentale dell’essere umano, per cui il sesso diventa luogo di possibili litigi, scontri e rivalità; la doppia coppia formata da Alice-Szavost e da Bill­ modelle è la causa dello scontro tra i coniugi Harford, mentre il segre­ to di Ziegler è mantenuto da Bill, consapevole dei rischi che una rive­ lazione del genere potrebbe comportare. Il sistema di regole volto al controllo della violenza, implica una misurazione delle pulsioni ses­ suali che, Kubrick suggerisce, è alquanto ardua. La sessualità di Eyes Wide Shut è strettamente vincolata ad un senso di pericolo e di morte, che è metafora della sua stessa fondazione: Mandy è in fin di vita e in­ fine si sacrificherà per Bill; le pazienti di Bill non hanno desiderio nei suoi confronti perché temono che egli possa trovar loro una malattia; in mezzo a pacchetti-regalo anziché donne nude e copulazioni.» Cfr. G. CREMONINI, Mesto, rigido e cerimoniale o La vita sessuale nel tardo capitalismo, in «Cinefonim», n. 9, novembre 1999. 20 Michel Ciment ha notato la vicinanza tra la ripresa di Bill tra le due modelle e quella di Alex tra le due ragazze nel negozio di dischi, a conferma di una tensione sessuale forte e volu­ ta. Cfr. M. CIMENT, Kubrick, traduzione di L. Codelli, Rizzoli, Milano 2002, p. 265.

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Marion bacia Bill di fianco al cadavere del padre; Domino ha l’AIDS; Amanda Curran è un corpo morto cui Bill si avvicina equivocamen­ te.2122 Eppure il sesso è anche vita, come dimostra il grande quadro che invade la parete del bagno di Ziegler (Paula sette mesi) raddoppiando il generoso nudo di Mandy, con in più il grosso grembo che porta un figlio. Ed è la vita che offre Alice a Bill, vita all’interno di un sistema comunitario che prevede la propagazione della specie attraverso un circuito monogamico: il flick di Bill e Alice è una possibilità di vita, di cominciamento, quello di Ziegler con Mandy è mortifero, così come quello di Domino coi suoi clienti. Su questo lieve crinale di vita e di morte, Kubrick costruisce il suo complesso film sulla fine del Nove­ cento, in cui il corpo è posto al centro di una regolamentazione che ne decide la vita o la morte e di nuovo c’è un meccanismo imperfetto che rischia di distruggere tutto; Alice, che non è un personaggio vincente, ma che è la depositaria di una consapevolezza, chiude il film con una proposta che, come ha detto bene Ciment, «risuona oggi come un epitaffìo.» Se dovessimo montare i film di Kubrick come un unico grande racconto, non c’è dubbio che si dovrebbe partire da L'alba dell'uomo per finire sul/wc£ di Alice Harford. Eyes Wide Shut è un film sulV atemporalità dei processi psichici in­ consci, che stride al contatto col progressismo di un’umanità che co­ struisce un mondo sempre più esteriore rispetto a se stessi e che è di continuo ritrascinata indietro da una forza centripeta che ci appartiene. Freud aveva scritto: «Sarebbe in contraddizione con la natura conser­ vatrice delle pulsioni se il fine dell’esistenza fosse il raggiungimento di uno stato mai attinto prima. Al contrario deve trattarsi di una situa­ zione antica, di partenza, che l’essere vivente abbandonò e a cui cerca di ritornare al termine di tutte le tortuose vie del suo sviluppo.»23 Ku21 La scena è più esplicita nella novella: «Istintivamente, quasi costretto e guidato da una forza invisibile, Fridolin sfiorò con le mani la fronte, le guance, le spalle, le braccia della mor­ ta; poi intrecciò le sue dita in quelle di lei come in un gioco d’amore, e per quanto fossero ri­ gide, gli sembrò che esse cercassero di muoversi e di ricambiare la stretta; ebbe persino l’impressione che sotto le palpebre semichiuse uno sguardo estraneo e spento andasse in cerca del suo; e come attratto magicamente si chinò su di lei.» Cfr. A. SCHNITZLER, op, cit,, p. 109. 22 M. Ciment, op. cit., p. 272. 23 1 * S. Freud, Al di là del principio di piacere (1920), traduzione di A.M. Marietti, in Ope­ re 1917-1923, Boringhieri, Torino 1986, vol. EX, p. 224.

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brick intende mostrare come la rimozione pulsionale su cui si vorreb­ be fondato il mondo è sistema ben fragile e la sessualità, nel secolo che l’ha infine liberata, o meglio, sdoganata, diventa l’occasione per osservare l’assenza di cambiamento (si sa che una delle divergenze tra Kubrick e Raphael poggiava sul fatto che quest’ultimo ritenesse l’uomo della New York anni Novanta troppo diverso da quello schnitzleriano della Vienna inizi secolo). La violenza sessuale kubrickiana è una violenza fortemente corpo­ rale: il corpo esibito della Kidman, quello di Mandy, delle pazienti di Bill, delle donne dell’orgia, è l’oggetto di un desiderio, e conseguen­ temente di una rivalità, di una conquista e di un possesso, che si placa a Somerton nell’annullamento non del corpo, ma del volto e cioè dello sguardo identificatorio, primo stadio della violenza reciproca. Eyes Wide Shut comincia con lo svelamento di un corpo (quasi un esergo) e termina sull’atto fìsico per eccellenza: siamo ancora e sempre al cor­ po, sembra dire Kubrick. René Girard ha osservato come la sessualità sia «un’occasione permanente di disordine, anche nelle comunità più armoniose» e come «lo spostamento dalla violenza alla sessualità, e dalla sessualità alla violenza si effettua con estrema facilità, in un senso come nell’altro, perfino nelle persone “più normali”, e senza che sia necessario invoca­ re la benché minima “perversione”.»24 La sessualità è molto presente nei miti d’origine così come in ogni pensiero religioso primitivo; è certo che Kubrick, costruendo il film all’intersezione tra la psicoanali­ si e le sue letture etnologiche, abbia tenuto conto di ciò, in vista di quel luogo mitico di partenza che nominava anche Freud e che costi­ tuisce sempre la rimozione decisiva, se non l’immemorabile, per i suoi personaggi. Tuttavia il concetto collettivo di violenza presente in tanti suoi film, parrebbe venir meno di fronte ad una questione non colletti­ va come quella sessuale; ecco perché, come sostiene Girard, una lettu­ ra del sacro fondata sulla sessualità minimizza l’essenzialità della vio­ lenza. Ma Eyes Wide Shut è per l’appunto il film meno sacro e più terreno di Kubrick, il film nel quale pare impossibile rintracciare una trascendenza che vada oltre la carnalità dei personaggi e 24 R. Girard, La violenza e il sacro (1972), traduzione di O. Fatica e E. Czerkl, Adelphi, Milano 2003, pp. 58-59.

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dell’immagine stessa che è come densa di vernice.25 Il collegamento tra sessualità e violenza è inverso: «la sessualità è impura perché si ri­ collega alla violenza»26 e non viceversa. E questa violenza è presente anche quando tutte le prescrizioni, quelle poste in discussione in Eyes Wide Shut, vengono rispettate. La Traumnovelle diventa, nelle mani di Kubrick, una riflessione sulla violenza dell’essere umano, sulla natura conservatrice delle pul­ sioni verso una situazione antica, sul rapporto vita/morte che si intrec­ cia intorno ai corpi che fanno sesso. È la costante del suo pensiero: la colpa originale è da cercare nell’uomo e nel suo istinto alla violenza, in quella «babele di voci» che è al fondo dei «tanti cortocircuiti della Storia di cui è pieno il cinema di Kubrick».27 Questa concezione vio­ lenta è ciò che aliena spesso i personaggi femminili nel cinema kubrickiano, un cinema maschilista ma al negativo, in cui la donna è ogget­ to per un’inferiorità di corpo, proprio come tra i primitivi: Alice spe­ rimenta la sessualità violenta nei due sogni terribili che racconta (po­ tremmo dire che rimanda al personaggio veggente di Danny Torran­ ce), mentre Bill è posseduto dalla violenza che la moglie vede e la spe­ rimenta sulla sua pelle (ha una capacità di veggenza ridotta, richiama Jack Torrance). L’orgia di Somerton è il culmine e la teorizzazione di una conce­ zione violenta e al fine sacrificale della sessualità, ma Bill vi arriva dopo il passaggio dal negozio di Milich. L’arrivo al negozio è la bef­ farda fine del viaggio prospettato al medico dalle modelle di Ziegler, è giunto under the Rainbow, come si legge sotto l’insegna luminosa che reca solo la scritta Rainbow. Dove l’arcobaleno finisce Bill non trova 25

Un saggio a parte meriterebbe l’uso del colore in Eyes Wide Shut, fondato principal­ mente sul triangolo giallo/rosso/blu, impiegati ricorrentemente con un intento chiaramente espressionista nel comporre e organizzare lo spazio. Ha detto bene Sidney Pollack, intervista­ to da Michael Henry (Sidney Pollack. Ce que voulait Stanley, in «Positif», n. 463, sept. 1999): «C’est la première fois de ma vie que j’ai vu un film dont la lumière était plus brillante que ce que je voyais de mes yeux.» E sempre nella stessa intervista rivela che Kubrick «avait trouvé le moyen de scotcher une petite camera vidéo au moniteur, afin de voir les images en couleurs et pas seulment en noir et blanc; un gars ne faisait que cela: commander cette petite caméra vidéo amateur. Cela permettait à Stanley de toujours surveiller les temperatures et les combinations des couleurs.» 26 Ivi, p. 57. G. CARLUCCIO, Somewhere under the rainbow, in Dossier Eyes Wide Shut, a cura di G. Cariuccio e F. Villa, «La Valle dell’Eden», cit., p. 30.

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alcun tesoro, ma il luogo della sua trasformazione, del travestimento che gli permetterà (non fino in fondo) di cambiare identità e di prender parte all’orgia. Tutti hanno scorto un voluto richiamo a II Mago di Oz, quello cinematografico di Victor Fleming anzitutto, in cui Judy Garland canta il noto motivo Over the Rainbow (non under, tuttavia) e Giulia Cariuccio ha notato come una delle due modelle che avevano nominato l’arcobaleno, confessi a Bill di averlo conosciuto in un gior­ no di forte vento, richiamando il famoso ciclone presente già in Baum.28 Il mago di questo regno, che trasforma Bill, è un impostore, che dopo essersi indignato per aver trovato la giovanissima figlia in compagnia di due anziani orientali, la prostituisce senza farsi troppi scrupoli. Il negozio di Milich è il punto di non ritorno, oltrepassatolo Bill accede alla dimensione più segreta di sé; non trovando la forza, tornandovi, di ribellarsi all’abuso che Milich fa della figlia, il medico si accorge di essersi davvero trasformato: Bill ha attraversato il «sogno/sonno della Storia e della Ragione.»29 Sostituire un’orgia al re­ gno di Oz è un po’ come far cantare Sing in’in the rain ad Alex De Large. La parola d’ordine per entrare a Somerton è Fidelio, un lampo sot­ tile che rischiara l’amore coniugale e un travestimento opposto a quel­ lo che dovrà operare Bill, ed è un cambiamento piuttosto rimarchevole rispetto al testo di partenza. In Schnitzler, infatti, la parola è Dani­ marca, direttamente legata all’ufficiale danese protagonista delle fan­ tasie di Albertine: Fridolin sobbalza e la password è quasi un invito decisivo alla vendetta. Bill invece non reagisce in alcun modo alla pa­ rola Fidelio, probabilmente non ne coglie l’ironia; e tuttavia la parola d’ordine non è, per esempio, Cape Cod (sarebbe stata una soluzione più fedele alla Traumnovelle, dal momento che avrebbe rimandato di­ rettamente alla fantasia di Alice e avrebbe fatto sobbalzare e imbestia­ lire Bill), cioè un offrire legati la moglie e l’amante alla rabbia del ma­ rito, ma un ammonimento che Bill non riesce a cogliere, non è un in­ vito a vendicarsi, ma uno a desistere, troppo poco esplicito però per fare presa.

28 Ivi, p. 33. 29 Ivi, p. 35.

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Bill arriva a Somerton in taxi, nel modo più anonimo dunque (Ku­ brick mostra le automobili dei partecipanti parcheggiate nel giardino del castello), eppure sarà questo anonimato che lo renderà sospetto e sarà proprio utilizzando l’autista del suo taxi come esca che verrà con­ dotto dinanzi ai membri della setta per essere giudicato. L’anonimato, l’inidentificabilità che vige a Somerton è a sua volta una finzione, una maschera: dalle automobili è facile risalire ai partecipanti, il che signi­ fica che i membri di questa strana setta si conoscono perfettamente dietro il travestimento e sono in grado immediatamente di capire chi non è dei loro (anche Mandy indovina subito la presenza di Bill). A Somerton si ricostruisce una comunità ideale; fuori dalla New York caotica e multietnica, si ricrea, in un castello che esternamente riman­ da all’Europa sette-ottocentesca e internamente al fiabesco mondo orientale, un sentimento primitivo di gruppo fondato sul (fasullo) an­ nullamento delle differenze e sulla libertà istintuale che si esprime at­ traverso il sesso. A Somerton si fa nei saloni o in biblioteca quello che nelle proprie case (almeno per gente come Ziegler) si fa in bagno, senza paura alcuna che ciò comporti rivalità, scontri, vendette. La festa ha un carattere rituale molto evidente, esplicitato nel ruolo del “maestro di cerimonia” in rosso (interpretato da Léon Vitali, già Lord Bullingdon e al tempo assistente personale di Kubrick), che con un bastone dirige le operazioni, facendo svestire e quindi scegliendo le singole donne. Il rituale a cui Bill assiste è un rituale panico molto strano, in cui le donne sono all’apparenza molto meno degli uomini e in cui esse si offrono al maschio nude (situazione cui abbiamo già as­ sistito: Mandy rispetto a Ziegler e Bill, ma anche la giovane paziente del medico nel suo ambulatorio), ma hanno il diritto di scegliere il lo­ ro accompagnatore. La scelta del travestimento dichiaratamente car­ nevalesco, e più precisamente rifacentesi al carnevale veneziano, con­ corre a quell’annullamento delle differenze, alla sospensione della mo­ rale e ad una nuova promiscuità proprie di una tale festa. Questa crisi delle differenze rinvenibile a Somerton, la violenza compressa che pervade il rito e che si esprime di nuovo attraverso la sessualità, ci porta a ritenere che la festa di Somerton sia una sorta di commemorazione della crisi sacrificale, sia un ritorno (ritualizzato, dunque controllato) ad una situazione antica, per usare ancora le paro­ le di Freud. In altre parole, l’orgia sarebbe il punto più estremo del

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vagabondare di Bill, il congiungimento con quel senso del primitivo che era alla base dello scontro con Alice (Millions of years of evolu­ tion, right?), della scappatella evitata con Domino (le maschere afri­ cane al muro), della regressione under the Rainbow presso Milich. La comunità di Somerton è una comunità fondata sulla violenza, in cui essa, quale elemento fondatore, è fossilizzata nel rito: «La festa pro­ priamente detta - ha scritto Girard - è soltanto una preaparazione al sacrificio, che ne segna nello stesso tempo il parossismo e la conclu­ sione.»30 Kubrick compie il suo ritorno all’origine, ad una commemo­ razione dell’origine, in cui l’indifferenziazione violenta, un sistema di doppi prolungato all’infinito, acquista una connotazione favorevole che è alla base della festa stessa (e del resto lo smoking in casa Ziegler non sortisce in parte i medesimi effetti?). In questo caso il diverso è elemento negativo e nemico: si ricordi che nella novella Fridolin non si toglie la maschera; pur invitato a farlo, ne è dispensato dal puntuale intervento della donna misteriosa. Bill invece è costretto a levarsela e si mostra a quei fantasmi senza che essi si mostrino a lui; vi è una so­ spensione nella reciprocità degli sguardi, per cui Bill può solo scorge­ re l’imperscrutabilità del suo incubo ad occhi aperti. L’intrusione della donna misteriosa (che nel film scopriremo essere Mandy, laddo­ ve Schnitzler mantiene il segreto), apparsa per riscattare (to redeem) Bill, ci ripiomba intenzionalmente verso il rito sacrificale: lo sposta­ mento da Bill a lei pare non avere alcuna importanza per la comunità di Somerton. Alla fine, quel che resterà sarà un cadavere, il corpo della vittima, a partire dal quale Bill dovrà rifondare se stesso cercando di districare i piani del suo incredibile viaggio. E il corpo della vittima, alla fine di questo percorso e per dirla ancora con Fomari, è il «primo geroglifi­ co», che riconduce Bill all’origine di un meccanismo sacrificale ricor­ rente nel cinema di Kubrick, che già aveva ricondotto prepotentemen­ te Fridolin alla realtà del giorno (per cui il corpo morto della donna «non rappresentava per lui, né poteva rappresentare ormai, che il ca­ davere pallido della notte passata, destinato irrevocabilmente alla de­ composizione.»31), ed entrambi... a casa. 30

R. Girard, La violenza e il sacro, op. cit., p. 171. 31 A. Schnitzler, op. cit., p. 111.

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3.

«THERE’S NO PLACE LIKE HOME»

«Fece una visita scrupolosa, trovò il malato alquanto migliorato, se ne rallegrò sinceramente e scrisse su una vecchia ricetta il consueto Repetatur.»32 Fridolin è uscito indenne dalla sua notte più lunga, tor­ nato a casa ha ascoltato il terribile incubo di Alice, quindi alle sette del mattino viene svegliato dalla cameriera, bacia la moglie addormentata ed esce per andare a visitare un paziente. Da qui parte il viaggio a ri­ troso del medico, in cerca di una spiegazione frustrata nella novella e fornita dal film, un viaggio che ripercorre le orme della notte, orme che la luce del giorno pare avere cancellato. Repetatur è quel che Fri­ dolin scrive sulla ricetta del suo assistito proprio prima di avviare la parte cosciente del suo viaggio, che sarà infatti nulla più che una ripe­ tizione coatta, un confronto con un nemico che non conosce e con una parte di sé e della sua vita privata che non immaginava. E la scritta potrebbe valere anche per l’altro medico, newyorkese, che pure rico­ mincia il viaggio. Già in più luoghi abbiamo riconosciuto l’importanza che il concetto di coazione a ripetere viene ad assumere nel cinema kubrickiano a livello tematico e stilistico, e qui troviamo una delle conferme circa il fatto che la Traumnovelle sia modello non solo narrativo, ma davvero strutturale. Tale concetto di coazione a ri­ petere, che Freud articola in più interventi, giunge a Kubrick sicura­ mente per il tramite del saggio freudiano da lui più amato e frequenta­ to, quello sul Perturbante (ma c’è da credere che Kubrick conoscesse anche altri testi fondamentali in questo senso come Ricordare, ripete­ re e rielaborare o Al di là del principio di piacere), e si salda perfet­ tamente a quel senso di immemorabilità che è alla base del comporta­ mento violento dei suoi personaggi. Ora, com’è noto, Freud sostiene che il perturbante è una sorta di spaventoso che è da far risalire a qualcosa che ci è noto da molto tem­ po, a qualcosa che ci è familiare. Da qui muove la contrapposizione 32 Ivi, p. 82.

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tra heimlich e unheimlich, sulla cui finezza di significato Kubrick ha saputo speculare molto proficuamente. L’unheimlich, diceva Schel­ ling citato da Freud, «è tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e che invece è affiorato.»33 Una presenza dunque fantasma­ tica, perturbante per il fatto che è avvenuta una rimozione all’interno del nostro stesso universo domestico e familiare, della nostra coscien­ za (certo, avvertiva lo stesso Freud, non è da pensare che tutto ciò che ha a che vedere con una rimozione o coi primordi della storia indivi­ duale e anche collettiva sia da ritenersi perturbante). Nel vocabolario tedesco dei Grimm, cui Freud ricorre per render chiara la complessità semantica del termine heimlich, si legge che heim, cioè la casa, «è an­ che il luogo libero dagli influssi dei fantasmi.» Eyes Wide Shut è un film di case, la vicenda di Bill Harford si di­ pana lungo una serie di abitazioni: la sua, quella di Ziegler, quella di Marion, di Domino, Somerton, di nuovo la sua, di nuovo quella di Marion (anche se via telefono), di Domino, di Ziegler e infine ancora la sua. La storia del medico è vincolata alle case (quando Alice gli chiede come mai Ziegler li ha invitati alla festa, Bill risponde che que­ sto è quello che succede a chi fa visite a domicilio), che trova familiari proprio in quanto medico: l’unico luogo veramente inospitale è So­ merton, dove il suo essere medico non funziona. La Storia della fine del Novecento passa per una serie di dimore che celano (è uno dei si­ gnificati possibili di heimlich) il groviglio di passioni annidato in loro dietro la facciata domestica: la violenza dell’ultimo Kubrick colpisce al cuore la cellula prima del vivere in comune, la famiglia. Ruggero Eugeni ha proposto un grafico interessante e molto utile che analizza da vicino gli spostamenti di Bill. La struttura del film appare molto geometrica e costruita a partire esattamente dalle diverse case. La casa degli Harford viene a rappresentare «il punto di parten­ za e di arrivo di ciascuno dei segmenti narrativi», mentre quella di Ziegler o Somerton rappresentano «il punto di massima lontananza raggiunto prima del ritorno, in una disposizione a epanalessi (o gemi­ nazione) simmetrica (a-b-b-a).»34 Il viaggio di Bill è sempre un

33 Cfr. S. Freud, Il perturbante (1919), traduzione di S. Daniele, in Opere 1917-1923, Boringhieri, Torino 1986, vol. IX, p. 86. 34 R. Eugeni, Invito al cinema di Kubrick, Mursia, Milano 2002, pp. 128-129.

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viaggio da\V heimlich all’unheimlich, da un luogo di sicurezze a un luogo di riapparizioni inquietanti, ma quando fa ritorno aìVheimlich egli vi scorge qualcosa che all’inizio gli era impossibile vedere, vi scorge il non-domestico (la moglie infedele), quell’t/n- che è contras­ segno di rimozione. La maschera appoggiata sul suo cuscino sarà il punto più alto, la convergenza inaspettata delle due dimensioni, un ponte tra Somerton e la propria casa, tra le donne senza volto e Alice: fissando la maschera Bill vede se stesso, e piange. In casa Harford ir­ rompono allora gli accordi inquietanti di Ligeti e ravvolgente valzer di Sostakovic, con cui il film si apriva in quelle stesse stanze, è solo un ricordo. Il dottor Harford è sospeso, per dirla con De Gaetano, «all’incrocio fra erranza e veggenza»35, bloccato tra un’ingiustificabilità storica e un rigetto razionale e il ritorno appare come una resa dei conti, come il momento più spaventoso. Lo stesso Fridolin provava «una strana avversione a ritornare a casa», oppure si accorgeva che «i suoi passi, invece che in direzione di casa, lo condu­ cevano istintivamente sempre più lontano, dalla parte opposta.»36 Casa Harford (la casa per Kubrick) rimane però il punto d’arrivo e, coerentemente di ripartenza, Vheimlich nel suo significato secondo. Eppure, alla fine, Bill e Alice si ritroveranno proprio a casa, e proget­ teranno il loro futuro: There’s no place like home diceva Dorothy alla fine de II mago dì Oz, e Kubrick sembrerebbe voler prolungare ulte­ riormente il gioco intrapreso con 1’immaginario di Baum/Fleming, ma col consueto cinismo. Il luogo del repetatur (del fuck nel senso di Alice) è la casa, la famiglia, gli individui come coppia; da lì, poi, ci si può allontanare fino a Somerton, salvo alla fine farvi ritorno.

4.

«Supponiamo che...»

Il personaggio di Victor Ziegler è del tutto nuovo ed è il personag­ gio che dovrebbe, almeno nell’ottica di Raphael (che davvero, cono­ scendo il metodo kubrickiano, pare approffìtare in questo caso 35 R. De Gaetano, Le fluttuazioni del “semiconscio”, cit, p. 67. 36 Cfr. A. Schnitzler, op. cit., pp. 29 e 99.

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dell’assenza del regista per prendersi troppi meriti3738 ), dare al film una struttura laddove la novella resterebbe troppo sospesa. In realtà Ziegler, neH’ottima interpretazione di Sidney Pollack, sembra essere molto più di un riempitivo, di un riepilogo, di una sorta di strano narratore o deus ex machina. Di Ziegler non si sa nulla, se non che è molto ricco (ma senza conoscerne i motivi: che lavoro fa?) e che conduce una doppia vita. Lo si vede solo due volte sempre a casa sua, durante la festa che apre il film e nella conversazione attorno al biliardo che dovrebbe chiuderlo; certamente è presente anche a So­ merton e tutti lo identificano nel personaggio che si sporge a salutare Bill e che indossa la più veneziana delle maschere, la cosiddetta baut­ ta3* (anche se lo stesso Pollack gioca a mischiare le carte dicendo che non sa se Ziegler era a Somerton e affermando che comunque egli sa­ rebbe in qualche modo responsabile dell’orgia). Se si considera che l’avventura di Bill comincia alla festa in casa Ziegler con la proposta delle due modelle e termina sempre là con lo stentato resoconto di Victor, si dovrà vedere in questo nuovo personaggio una sorta di nume che soprassiede all’intera vicenda, che reca in sé parte del mistero e del trasformismo di Quilty e parte della grossolanità risolutiva di Stranamore. Ziegler come il Colombo di Peter Falk, secondo le indica­ zioni di Kubrick a Pollack, cioè come il divulgatore della verità con­ quistata alla fine di un percorso di ricerca, come l’eroe positivo della storia che deve stupire e compiacere il pubblico, che deve dare un senso alle motivazioni sparse nel film. Come si vede l’ironia di Ku­ brick nell’indicare al suo attore la strada da seguire è finissima, perché Ziegler non è il divulgatore della verità, ma il suo gestore e il suo ruo­ lo è esattamente quello di occultare la verità, egli è il custode del rito e dei simboli di una società e di una specie che il viaggio di Bill rischia di mettere in crisi; Ziegler è il protettore del misconoscimento. 37 Basterà leggere quanto dichiarato da Sidney Pollack nell’intervista rilasciata a MICHAEL Henry (Sidney Pollack. Ce que voulait Stanley, in «Positif», n. 463, sept. 1999) per cogliere l’evoluzione che tale personaggio subì durante le riprese e in assenza di Raphael. Abbiamo inoltre già fatto cenno alle polemiche mosse da Christiane Kubrick e dal fratello Jan Harlan attorno all’attendibilità di parti del resoconto dello sceneggiatore. 38 L’etimologia di tale nome potrebbe risalire dal tedesco behiiten, cioè proteggere, natu­ ralmente il volto, l’identità, ma Ziegler cercherà dopo Somerton, a suo modo, di proteggere Bill, di difenderlo dai rischi che potrebbe correre se continuasse le sue indagini, che è poi un difendere nient’altro che se stesso.

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Capitolo V

Ma procediamo con ordine. La morale del discorso di Ziegler ha radici in una breve sequenza di 17 inquadrature in tutto che viene per lo più trascurata e che ha invece una sua importanza: è il momento in cui Bill, appena uscito da casa di Domino con la notizia della sieropo­ sitivi tà della ragazza, vaga inquieto per le vie di New York e si accor­ ge di essere seguito in lontananza da un uomo calvo con un cappotto beige. Il medico, sempre più provato, non riesce inizialmente a capire se quell’individuo sia davvero lì per lui o se non si tratti di un’ossessione crescente e preoccupante. Bill sembra per un attimo en­ trare nelle tenebre come un altro personaggio schnitzleriano il Robert di Fuga nelle tenebre (pubblicato nel 1931, ma steso tra il 1912 e il 1917, prima di Doppio sogno). Come Robert, in fondo, Bill non riesce a capire com’è morta (se è morta) una donna che ha visto sparire nel buio accompagnata da un uomo che portava la maschera veneziana del medico della peste (il cui lungo becco richiama la falce della morte) e se sia lui il colpevole di tale morte. Bill è sulla strada della follia, che può essere scongiurata solo accettando la parte più nera di sé, solo di­ venendo tutt’uno coi fantasmi che lui stesso ha risuscitato. L’uomo calvo è lo strascico di quella realtà, la prova che tutto ciò che è acca­ duto è vero e grave. Bill non può sapere se quell’uomo venga o meno dal castello, e non può saperlo, paradossalmente, perché non indossa nessuna maschera, perché gli offre il volto così com’è. Bill invece è riconoscibile perché a Somerton è stato costretto a togliersi la masche­ ra, a mostrare il suo vero volto che, fuori dall’ambulatorio, dove non è riconosciuto in quanto medico, è davvero smascherato. Per chi lo ha visto a Somerton, Bill non potrà più essere il dottor Harford, non ci sa­ rà tesserino che tenga, perché a Somerton i volti sono smascherati, so­ no autentici, primitivi, al punto tale che vengono coperti con delle ma­ schere. Il litigio con Alice era stato interrotto dalla telefonata della fi­ glia di Lou Nathanson che annunciava a Bill la morte del padre; ebbe­ ne il medico, prima di uscire, dice alla moglie: «I think I have to go over there and show my face» (nella versione italiana diventa, atte­ nendosi più fedelemente a Schnitzler: «Bisogna che vada. Non posso farne a meno»). Show my face: Bill deve rivestirsi, fingere di dimen­ ticare la confessione di Alice e presentarsi in casa del paziente come dottor Bill Harford, il solo Bill Harford che lui stesso conosce, non c’è malizia nella sua frase, egli intende davvero andare là solo per mo­

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strarsi, ma tutto questo assume in un film come Eyes Wide Shut un si­ gnificato molto particolare (non per nulla è una battuta originale). Dunque Bill lungo quella strada non è più medico, il che equivale a dire che ha perso ogni certezza. E la sequenza è certamente la più oni­ rica del film: oltre a essere quasi del tutto muta, è la prima volta che Bill non interagisce con un personaggio che gli è posto di fronte, cioè con il suo secondo (come si sa, soprattutto nelle relazioni tra individui, Eyes Wide Shut predilige ed esaspera il numero due). Tra loro non c’è contatto, che è come dire verificabilità: il calvo è all’apparenza una figura demonica, ma potrebbe essere anche solo un incubo. Si tratta infatti di una presenza avvertita (il personaggio misterioso ci è mostra­ to sempre sul raccordo di sguardo di Cruise) e non di una presenza in cui Bill si imbatte, come la gran parte delle altre: è il medico a girarsi, a sentirsi seguito, è la prima volta che in lui monta la paura, è la prima volta che, lungi dal voler capire, cerca disperatamente di fuggire. L’onirismo è in qualche modo suggerito anche dall’incertezza spazio­ temporale che caratterizza il frammento, molto particolare per la pre­ senza di due strane dissolvenze incrociate (tra le inqq. 1 e 2 e tra la 5 e la 6) e di due scavalcamenti di campo (tra le inqq. 8 e 9 e tra la 9 e la 10): così se da un lato la dissolvenza rende impossibile quantificare la durata dell’inseguimento, lo scavalcamento di campo crea una fram­ mentazione spaziale che sperde lo spettatore, proprio come Bill che imbocca strade a caso nel tentativo di fuggire. L’avvicinamento dei due si compie all’inq. 10, l’unica in cui i personaggi condividono lo stesso piano. Bill cerca riparo presso un’edicola dove acquista un giornale; il calvo gli si avvicina ulteriormente, si ferma e ora lo fissa, ma d’un tratto riprende a camminare ed esce di campo, come se il suo dovere fosse assolto. E in effetti così è: egli ha fornito a Bill in un sol colpo due consigli decisivi che vorrebbero chiudere la faccenda. Il giornale che Bill ha preso reca la soluzione non solo della notta­ ta, ma dell’intero film. L’errore che Bill compie è quello di aprirlo e concentrarsi sull’articolo di Mandy che lo rispedisce su vie insondabili e incomprensibili, che necessiteranno di nuovi inseguimenti e della “spiegazione” di Ziegler. Ma se il dottore avesse prestato attenzione alla prima pagina, che Kubrick si premura di mostrare nei suoi caratte­ ri cubitali a noi spettatori, avrebbe letto il titolo a lui necessario, le stesse parole che gli avrebbe voluto dire l’uomo calvo e che non gli ha

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detto nel momento in cui si è accertato che Bill avesse il giornale in mano. «Lucky to be alive», esattamente quello che pensava Joker (I’m alive) che aveva fatto lo stesso viaggio iniziatico (incompiuto) di Bill; esattamente quello che balena in mente a Fridolin dopo aver la­ sciato la casa del paziente morto: «Si rallegrò di essere ancora vivo». A Kubrick interessa che l’uomo viva, o meglio che sappia quanto è fortunato a essere vivo, ad esserlo comunque, anche solo e sperduto al cospetto di se stesso e della Storia: è il vitalismo cinico del suo cine­ ma. E del resto Ziegler chiude il suo discorso così: «Ascolta Bill, non è stato ucciso nessuno. È morta una. Succede ogni giorno. La vita con­ tinua. Fino a quando non continua più. Ma questo lo sai bene tu, no?», mischiando la morale del Lucky to be alive alla pratica medica. La spiegazione di Ziegler, dunque, si rende necessaria perché Bill non ha preso abbastanza paura (sarà proprio Victor a far balenare a Bill l’ipotesi che tutto sia stato costruito solo per spaventarlo): ora è anche amministratore della paura. La questione è da che parte prende­ re Bill e Ziegler sceglie la via del gioco e della messa in scena. Ku­ brick sceglie di girare la lunga scena in una biblioteca con al centro un biliardo («But who would trust a man with a red billiard table?»39) e Ziegler chiede a Bill: «Vuoi giocare un po’?», ricevendone in risposta un coerentissimo «No grazie. Gioca tu. Io guardo.» Riportiamo per intero il fulcro della spiegazione di Ziegler: «Sup­ poniamo che io ti dica che tutto quello che ti è capitato lì, le minacce, gli avvertimenti della ragazza, il suo intervento all’ultimo minuto, supponi che ti dica che tutto questo è stata una messa in scena, che si è trattato di una specie di sciarada, che è stata una finta (fake).» Tor­ niamo con la mente a Somerton, dove si è compiuto un rito che, come abbiamo visto, è una commemorazione di un atto violento e che si è concluso con un sacrifìcio. Ora, se la ragazza non fosse apparsa a ri­ scattare Bill, se Bill fosse stato sacrificato, egli non avrebbe compreso il meccanismo sacrificale, che è stato svelato proprio dall’offerta di se stessa della ragazza come capro espiatorio (un sistema che Kubrick aveva già utilizzato brillantemente in Orizzonti di gloria, quando Dax si offre come vittima in vece dei suoi soldati proprio per svelare il 39 A. Walker, Stanley Kubrick Director. A visual analysis, W.W. Norton & Company, New York 2000, p. 358.

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meccanismo e naturalmente Broulard e Mireau non possono accettare, pena scoprire la violenza). Ricorderemo che Girard non esitava a de­ finire il sacrifìcio «falso» e dunque nella «fìnta (fake)» di Ziegler ci sarebbe del vero. La falsità di Somerton è una commemorazione della violenza su cui l’intera società si fonda e Ziegler, in quanto uomo di società, deve proteggere la sicurezza che sta nel misconoscimento del­ la pratica. Ma Bill non riesce a capire né ad accettare una spiegazione criptica eppure più onesta del previsto40, e non ci riesce a causa del corpo di Mandy. Potrebbe infatti essere vero che Amanda Curran è morta per overdose, lo stesso precedente nel bagno di Ziegler parrebbe avvalorare questa tesi, ma la coincidenza di eventi non convince Bill: la regressione di Bill verso la primordialità, quella cercata da Kubrick, lo ha portato al di qua del rito, al di qua dei segni e dei simboli ad esso legati, al di qua della società degli Ziegler, fuori da un tempo e da una Storia nei quali sta ad Alice riportarlo. Flavio De Bernardinis, rifacendosi a Benjamin, ha letto Eyes Wide Shut come sogno del risveglio «dalla cultura, dalla storia e dal cine­ ma», laddove «il risveglio dal sogno è pur sempre l’eterno ritorno del­ la storia come miraggio della modernità.»41 Eyes Wide Shut, in una complessa composizione di bambole russe, sogna l’uscita dal sogno e cioè sospende il ritorno di tutto quanto attiene alla veglia: si arriva al punto in cui le scene diurne paiono bizzarre e false al cospetto di quel­ le notturne. Eyes Wide Shut ha la forma del sogno, esattamente come la Traumnovelle, che, come puntualizzava Umberto Curi, «significa appunto che il sogno non è tanto il contenuto del racconto, ma la sua forma; che, anzi, lo specifico principio di individuazione di quel rac­ conto non è che esso abbia per oggetto un sogno, quanto piuttosto che 40 Giaime Alonge nota che ben tre personaggi antepongono ai loro racconti l’allocuzione «To be perfectly honest» (Bill, il portiere d’albergo e la compagna di casa di Domino) e l’unico caso che possiamo verificare è quello di Bill che spiega alla cameriera del bar perché ha urgente bisogno di vedere Nightingale e, nonostante l’antifona, dice il falso. Potremmo aggiungere che anche Alex De Large usa il «To be perfectly honest» presentandosi alla «Cat Lady» e dice di essere un partecipante ad un concorso studentesco riguardante la vendita di riviste: è chiaro che mente. Tornando ad Alonge, a ulteriore riprova del serrato gioco di am­ biguità che si organizza attorno al personaggio di Ziegler, egli aggiunge che «forse di Ziegler, paradossalmente, possiamo fidarci, perché egli usa una formula diversa: To be completely frank.» Cfr. G. ALONGE, «To be peifectly honest...» or Mr. Harford and the vicious circle, in Dossier Eyes Wide Shut, a cura di G. Cariuccio e F. Villa, «La Valle dell’Eden», cit., p. 25. 41 F. De Bernardinis, La collezione K., in «Segnocinema», n. 100, dicembre 1999.

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la sua specifica qualità sia di essere esso stesso un sogno.»42 Ma non si può mischiare la vita col sogno, anche se la prima fosse ancor meno affidabile del secondo, e infatti 1’Albertine di Schnitzler osservava che infine lei e Fridolin si erano svegliati «per lungo tempo.» L’Alice di Kubrick fa suonare una sveglia diversa, una spada di istinti che taglia trasversalmente tutte le epoche.

42 U. CURI, Lo schermo del pensiero. Cinema e filosofia, Raffaello Cortina Editore, Mila­ no 2000, p. 162.

VI

In guerra «Paths of glory lead but to the grave.» Thomas Gray, Elegia scrìtta in un cimitero campestre (1751)

1.

Dentro e dietro alla guerra

Quello che manca è una morale. Intesa in due modi. La concezione storica di Kubrick non ha una morale nel senso di tirata conclusiva volta all’insegnamento e al tesaurizzare ciò che si è visto, o almeno, se la si può scorgere, non era quella che interessava il regista.1 In secon­ do luogo manca una moralità nelle trame che si ordiscono per i suoi eroi, potremmo dire che non esistono codici o regole se non quello di lasciarsi trascinare, di non opporsi. La guerra diviene così una rapida esplicitazione di tutto questo in termini umani, una ferita aperta nel tessuto storico dall’uomo per dominare l’altro uomo, per essere più forte, padrone, famoso, temuto, per marcare la propria presenza nella indifferenza che lo circonda. Sembrerebbe un tentativo di nascondersi al ritorno alla Storia cui Kubrick condanna i suoi personaggi, para­ dossale riparo ed esplicito quanto inconscio rimando alla violenza come fondamento della civiltà. Quattro sono i film in cui Kubrick affronta direttamente il corso di una guerra, Fear and Desire (1953), Orizzonti di gloria (1957), Il dot­ tor Stranamore (1963), Full Metal Jacket (1987), ma la violenza e la morte come costanti si ritrovano in tutti i suoi film e scene di battaglia assumono importanza in Spartacus (sono inoltre le poche scene che Kubrick sente sue) e Barry Lyndon. L’uomo kubrickiano pare non 1 Anche Pierre Giuliani è di questa idea: «Kubrick lascia ai suoi spettatori la facoltà di esercitare un giudizio d’ordine morale, sociale, politico sui film che fa e sul mondo che mo­ stra? [...] i suoi film rimandano a quello zoccolo umanistico che tutti grosso modo condivido­ no, ma questo fatto non è poi così interessante per lui, se non a un livello giornalistico, nella misura in cui le forme e le forze del mondo che egli mostra oltrepassano all’infinito i destini individuali e i problemi della società.» Cfr. P. Giuliani, Stanley Kubrick, traduzione di C.A. Bonadies, Le Mani, Recco (GE) 1999, p. 84.

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riuscire ad emergere da questa situazione di guerra potenziale, o di pax armata per usare un termine che ci rimanda alla guerra fredda, quasi per un fatto naturale: la guerra rappresenta una minaccia che pe­ sa sull’uomo come risultato di un istinto e come tale lo vincola ad una legge inesorabile che potrebbe dirsi ironicamente scientifica, e lo con­ danna ad un’inellutabilità particolarmente avvertita da Kubrick; è lo stesso dinamismo del desiderio mimetico, «orientato verso la follia e la morte da sempre». Sono i desideri dell’uomo a far scoppiare le guerre, ma soprattutto esse gli danno la possibilità, in quanto sue creature, di esercitare un controllo ambito, di credere che il mondo si muova in funzione di una intuizione sul campo di battaglia o di una strategia che necessita giorni di preparazione. La guerra si offre dunque come modello sul quale sperimentare l’ambizione al controllo che è uno dei punti nevralgici del cinema kubrickiano; la guerra come modello di vita e il film come modello di guerra. La realtà e soprattutto la realizzabilità di questo proposito è poi più teorica che pratica e la creatura tende non tanto a rivoltarsi contro il creatore, ma a superarlo in grandezza, in una ten­ sione reciproca moltiplicata all’infinito che rende le rappresaglie spa­ ventose e allontana ogni risoluzione fissando per essa una posta al­ quanto onerosa; a nulla valgono gli insegnamenti del passato, non esi­ ste educazione capace di arginare l’ardore autodistruttivo (dove auto investe la specie intera) che riposa in ogni individuo e ciò vale anche per la funzione che spesso si ritiene possa assolvere il film bellico: di­ ceva Kubrick a Ciment che «è illusorio pensare che mostrando la guerra come qualcosa di brutto la gente sarà meno desiderosa di com□ battere.» La guerra ha un altro grande motivo di interesse che riguarda l’accelerazione storica dei rapporti di forza e di quelli umani. Intervi­ stato da Renaud Walter, Kubrick aveva detto: La guerra produce situazioni molto drammatiche e visivamente interes­ santi ai fini di una sceneggiatura. In un breve arco di tempo le persone attra­ versano un fantastico periodo di tensione, il che, in una storia in tempo di pa2 R. GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo (1978), traduzione di R. Damiani, Adelphi, Milano 2001, p. 498. 3 In M. CIMENT, Kubrick, traduzione di L. Codelli, Rizzoli, Milano 2002, p. 250.

In guerra

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ce, sembrerebbe in realtà artificioso e forzato, perché tutto succederebbe troppo rapidamente per essere credibile.4

La manipolazione spazio-temporale che lo scontro bellico offre a un regista che è maestro nello stilizzare le sue trame attraverso una ri­ flessione critica che investe le due dimensioni, ci riporta a quell’idea di film come modello di guerra cui accenavamo poco sopra. Tutto succede rapidamente e tutto rapidamente si dissolve, permettendo così di scavalcare l’evento in sé e di raggiungere il luogo astratto e circola­ re che soprassiede alla condizione dell’uomo. La guerra appare all’uomo come momento impermeabile alla Storia essendone l’agente (c’è una Storia prima e una dopo la discesa sul campo di battaglia), momento di sospensione in cui per un attimo l’uomo è chiamato ad agire in prima persona, a governare gli eventi; ma lo strascico psicolo­ gico che essa lascia, ciò che maggiormente interessa a Kubrick, lo riimmette, schiavo, nel giro di presenze, di coincidenza spaventosa tra passato e futuro che è il da vivere. Questa rapidità, questo parossismo vertiginoso richiama quella categoria di gioco designata da Caillois con la parola greca ilinx, cioè il gioco in cui si compie un totale di­ stacco dalla realtà, in cui si compie un’intensificazione delle sensorialità e un oltrepassamento, una forzatura della percezione. Questo ca­ tegoria di giochi era esattamente quella che Girard sosteneva corri­ spondesse al parossismo allucinatorio della crisi mimetica ed era l’unica categoria, tra quelle definite da Caillois, che non avevamo ri­ scontrato in Barry Lyndon, il film più giocato di Kubrick. Barry Lyndon è infatti il film in cui l’impermeabilità della guerra è più ac­ centuata: quando Barry è nell’esercito è protetto, non sente la sua infe­ riorità, non desidera ricchezze, pensa a combattere e lo fa con succes­ so e altruismo. Soprattutto nella sua permanenza nell’esercito prussia­ no perde ogni coloritura di opportunismo e arrivismo. Fuori dall’esercito toma un cinico scalatore sociale. La guerra in Barry 4 R. Walter, Intervista a Stanley Kubrick da Killer’Kiss a 2001, in M. CIMENT (a cura di), Stanley Kubrick, La Biennale 1997, p. 34. Si può aggiungere, a proposito della congenia­ lità del genere bellico al regista, quanto sostenuto da Roy Menarmi, e cioè che «il tema della guerra serve a Kubrick per portare a incandescenza l’ossessione del rapporto tra mente e mondo, tra il preordinato e l’avvenimento, tra il pensiero e il fenomeno. L’orrore che suscita­ no i suoi film di guerra è maggiormente frutto di questa insanabile frattura. Cfr. R. MENARINI, C. Bisoni, Stanley Kubrick Full Metal Jacket, Lindau, Torino 2002, p. 87.

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Lyndon è geometrica e controllata, i soldati avanzano ordinati, pronti a morire senza sferrare un colpo piuttosto che disperdersi (è così che muore Grogan), tutto è regola’, per quanto il risultato e il movente sia­ no sempre gli stessi, il parossismo e l’ipersensorialità sono esclusi dal codice bellico settecentesco, i “giochi di vertigine” sono riconosciuti come pericolosi (l’unico a praticarli sarà Redmond, il parvenu che re­ sta fuori dalle convenienze). Se la Storia in Kubrick muove, dall’esterno o dall’interno, l’uomo come una pedina (abbiamo già sottolineato come Kubrick ambisca al­ lo stesso ruolo di dominio, in qualità di regista), la guerra non è certo da meno. Andrea Martini notava che «la guerra costituisce una forma kubrickiana. [...] lontano dal rappresentare la materia narrativa finisce con l’esercitare la funzione di telaio su cui vengono ordite le trame».5 E infatti i film bellici kubrickiani saranno anzitutto esasperati nella forma, dalla teatralità e dall’attenzione agli spazi di Orizzonti di glo­ ria, alle scenografie di Stranamore (che alludono a una guerra non combattuta eppure pronta ad esserlo), fino alla stilizzazione estrema di Full Metal Jacket. La guerra è forma, come dice Martini, e quindi non è contenuto, il contenuto resta uno solo e si rincorre di film in film, la guerra è un luogo teorico in cui esplicitarlo con facilità e im­ mediatezza. Ecco che il film bellico così frequentato si dimostra un altro falso genere, un paradigma utile a continuare un discorso omo­ geneo, per il quale alla piccola storia, alla storiografia, peraltro sempre inseguita con scrupolo, Kubrick sostituisce il respiro della Storia come cammino del suo uomo sempre uguale, cammino che è infatti lo stesso per i quattro soldati di Fear and Desire, per il colonnello Dax, per i governanti di Stranamore o per il soldato Joker e i suoi compagni; il Vietnam di Full Metal Jacket è l’approdo perfetto, anzi il falso appro­ do perfetto delle incursioni kubrickiane nel film di guerra, «ultimo er­ rore umano di una concezione ottimistica del progresso [lineare, quin­ di] e della sua consustanzialità con la guerra e la catastrofe».6 In que­ sto girotondo dove tutti si tengono per mano, c’è posto sicuramente per Bowman e le sue scimmie, per Alex, per Barry, per Torrance, per 5 A. Martini, Logica e sacrificio, in G. P. Brunetta (a cura di), Stanley Kubrick. Tempo, spazio, storia e mondi possibili, Pratiche, Parma 1985, p. 113. 6 R. Menarini, C. Bisoni, op. cit., p. 101.

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gli Harford e ci sarebbe stato anche per Napoleone. Tutti hanno calca­ to campi di battaglia accomunati dall’impulso alla violenza e all’imitazione e tutti rientrano senza sforzi in una massima tra le più ciniche del regista: «l’uomo è l’assassino più privo di rimorsi che sia apparso sulla terra. L’attrazione che la violenza esercita su di noi rive­ la, in parte, che nel nostro subcosciente noi ci differenziamo poco dai nostri pomi antenati.» Se in Kubrick la guerra si dà nella sua universalità, fuori da ogni contingenza e pur mantenendo referenti forti, è dovuto allo sforzo di astrazione operato dal regista, sforzo che consiste appunto nel trasferi­ re il contenuto nella forma: dalla guerra-modello, concentrica, di Fear and Desire, ai registri stilistici che in Orizzonti di gloria essenzializzano le diverse guerre, dall’ironia che scoppia nelle stanze in cui si svolge Stranamore e distanzia il tema della guerra fredda, a una vec­ chia fabbrica abbandonata alle porte di Londra che diventa d’un tratto il Vietnam, dietro l’angolo, quasi dentro casa. Kubrick quindi finge di fare film bellici per rubarne le potenzialità non già storico-morali, ma umane, approfittando dell’esasperazione dei caratteri propria di questo genere. La dedizione, l’impegno e il co­ raggio, cioè gli elementi chiave del film di guerra del cinema america­ no classico7 8, devono condurre alla gloria, personale o collettiva che sia; per capire in che maniera Kubrick si ponesse nei confronti di un genere codificato di Hollywood, basta cogliere l’ironia e il cinismo con la quale investe l’obiettivo, la gloria appunto: nel film che lo pre­ senta definitivamente al grande pubblico la schernirà ispirandosi nel titolo a un verso di Thomas Gray (qui riportato in esergo), di freddez­ za e puntualità, guarda caso, settecentesca. Trattando della guerra nel cinema di Kubrick, e non solo, la critica ha più volte fatto ricorso aìVHomo ludens di Huizinga, dove si prende seriamente in considerazione la natura ludica delle azioni dell’uomo, che non vuol dire allegra o scherzosa, ma regolata da codici severi e che escludono l’atteggiamento pietoso nei confronti dell’avversario,

7 Da una dichiarazione al Newsweek, in seguito ad Arancia meccanica, riportata in A. Martini, op. cit., p. 114. 8 Si veda a riguardo R. CAMPARI, / modelli narrativi, Quaderni di Storia dell’Arte, Parma 1974, pp. 147-sgg.

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pena la sconfitta al gioco.9 Se nel terzo capitolo, dove il tema del gio­ co si è rivelato centrale, non si è richiamato questo nome è stato per il fatto che Huizinga anziché riferire il gioco al religioso (aprendo così a una possibile interpretazione alla luce della crisi sacrificale), riferisce il religioso al gioco, facendo del gioco il fondamento di una sacralità che invece lo precede e anzi lo istituisce in quanto rito. La guerra è del resto uno tra i primi giochi che i bambini sperimentano insieme ai loro coetanei, ma spesso anche soli e se è vero, come dice Umberto Eco10, che i bambini giocando simulano situazioni in cui potrebbero trovarsi da adulti, questo comportamento è più che indicativo. Ku­ brick ha certo in mente un concetto di gioco che si avvicina alla teo­ rizzazione di Huizinga, ma la sua grandezza sta nel vincolare questo concetto ad un sentimento del sacro, cioè dell’ ineluttabile, dell’ inconoscibile, a sua volta legato ad un istinto primordiale di vio­ lenza (la violenza e il sacro, appunto). Il fatto che il gioco conosca un limite di durata (lo si dice comunemente: il gioco è bello quando è corto), ma che lo travalichi spesso arrivando, come lo stesso Huizinga dice, anche al versamento di sangue e all’omicidio, fa della guerra un soggetto ideale, un soggetto sul quale lavorare di sottrazione (anche quando l’apparenza pare rivelare il contrario: il “Kubrick regista ba­ rocco” è definizione scivolosa) in cerca dell’invariante che infine blocchi e cristallizzi il meccanismo. Kubrick ha rappresentato la violenza come presa di possesso e pre­ sa di coscienza, quand’anche distorta, illusorio motore di una Storia che si muove da sé, e l’ha fatto mostrandoci i conflitti nella preistoria (guerra mimetica, spontanea, gara in cui vince il più forte), nel mondo romano (le scene di battaglia di Spartacus, geometriche, efficienti, pre-tecnologiche), nel Settecento (guerra ordinata e rispettosa delle re­ gole), fino alla prima guerra mondiale (prima guerra industriale, con eserciti di massa, con paurosa efficienza tecnica e burocratica), al Vietnam (sporco e infernale, luogo nero dell’anima) e alla guerra fredda senza armi per paura delle stesse. Ci sarebbe stato anche la 9 ANDREA Martini (op. cit., p. 116) rileva come ciò sia perfettamente vero in Spartacus, dove il guerriero etiope interpretato da Woody Strode risparmia Spartaco preso da una esita­ zione morale che non è contemplata dalle regole del gioco. Gli costerà la vita. Un discorso analogo potrà valere anche nel duello finale che oppone Barry a Bullingdon. 10 U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Bompiani, Milano 1994, p. 163.

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nuova idea di guerra napoleonica, per la quale Kubrick era stato preci­ so in sceneggiatura e che avrebbe sostituito l’esigenza militare alla ri­ tualità e all’esattezza del secolo XVIII: NARRATOR: Napoleon now introduced a new era of wars of maneuver.

Everything would be sacrificed to mobility. The complicated battle forma­ tions of the 18th century would be abandoned [...] NAPOLEON (v.o.): The art of war is a simple art. Everything is in the execution. There is nothing vague in it. It is all common sense. Theory does not enter into it. The simplest mo­ ves are always the best.

Una guerra non più prevedibile, ma affidata all’abilità e al controllo di un’unica mente in grado di capovolgere e rendere vana ogni previ­ sione; Tolstoj, che di quelle guerre napoleoniche scriveva, rese bene l’idea, in un passo che certo sarà piaciuto moltissimo a Kubrick: -Si dice che la guerra è simile a una partita di scacchi. - Sì - disse il prin­ cipe Andrea - ma con questa differenza: che negli scacchi tu puoi riflettere quanto ti piace su ogni mossa, che tu ti trovi là al di fuori delle condizioni del tempo; e anche con questa differenza: che il cavallo è sempre più forte di una pedina e due pedine sono sempre più forti di una, mentre nella guerra un bat­ taglione non è sempre più forte di una divisione, e qualche volta più debole di una compagnia. La forza relativa delle truppe non può essere nota ad alcu­ no.11

La passione di Kubrick per gli scacchi, sempre esibita dal regista al punto da rischiare talora di indurre alla sovrainterpretazione, ci porte­ rebbe a ritenere che la guerra che intende lui mantenga, nella struttura fondamentale e in parte, una delle caratteristiche della partita di scac­ chi descritta dal principe Andrea: il trovarsi al di fuori delle condizioni del tempo. Kubrick diceva che giocare a scacchi lo entusiasmava per il senso di dominio che dava e per il piacere di immobilizzare l’avversario; nella sua guerra le pedine sono posizionate su un’altra scacchiera e il gioco non riguarda di certo gli eventi bellici in sé, ma l’avversario è comunque bloccato.

11 L. TOLSTOJ, Guerra e pace, traduzione di E. Cadei, Mondadori, Milano 1968, vol. Ili, p. 240.

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2.

Fear and Desire: la fortuna del principiante

Day of the fight (1951) era un prolungamento, una messa in moto del servizio fotografico che Kubrick aveva dedicato, per Look, alla giornata tipo del pugile Walter Cartier; durava sedici minuti e già la­ sciava intravedere (come del resto il servizio, che apparve sulla rivista nel gennaio del 1949) il gusto del giovane artista per la simmetria e la geminazione.12 Dello stesso anno erano i nove minuti del sacerdote volante di Flying Padre. Kubrick sentiva impellente il bisogno di pas­ sare definitivamente dalla fotografia al cinema, ma per ufficializzare il salto doveva misurarsi col lungometraggio. A questo scopo raccolse circa 10.000 dollari (collaborarono amici e parenti, tra i quali soprat­ tutto lo zio, Martin Perveler, che nei titoli di testa compare come “As­ sociate Producer”) e partì per dirigere Fear and Desire, su sceneggia­ tura di un amico del Greenwich Village, Howard Sackler. Il film rac­ conta la storia di quattro soldati restati intrappolati dietro le linee ne­ miche; si ritrovano soli in una foresta (che è più che altro un bosco montano, precisamente i monti San Gabriel, appena fuori Los Ange­ les) e devono difendersi da un nemico che non vedono. Fermatisi per costruire una zattera che li possa aiutare ad attraversare un fiume, il soldato Mac scorge col binocolo quella che pare essere una base ne­ mica, governata da un uomo che dall’abbigliamento sembra un gene­ rale, e chiama il tenente Corby a vedere. Ripreso il cammino, al calar della notte, avvistano nel bosco una casa di legno e vi scorgono all’interno due soldati nemici che mangiano; fatta irruzione, li uccido­ no senza pietà. Il giorno seguente (per quanto il film giochi a sconvol­ gere ogni appiglio temporale) incappano, nei pressi del fiume, in un gruppo di tre ragazze che fanno il bagno; una di esse si accorge della loro presenza e viene immobilizzata e legata ad un albero per paura 12

«I gemelli Cartier [...] costituiscono l’immagine più commuovente dell’arte cinemato­ grafica (fino a Shining?) della duplicazione, o perpetuazione, della lotta e delle miserie uma­ ne.» Cfr. R. Combs, Day of the fight, in M. Ciment (a cura di), op. cit., p. 185. Il servizio fo­ tografico è riprodotto in Stanley Kubrick Ladro di sguardi. Fotografie di fotografie 19451949, Bompiani, Milano 1994.

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che possa denunciare la loro presenza: la giovane non li capisce e non parla la loro lingua. Tuttavia la “missione” deve continuare, i quattro devono trovare il modo di passare il fiume e conquistare la base nemi­ ca. Il soldato Sidney viene lasciato, nonostante le sue proteste, a sor­ vegliare la ragazza e, dopo aver cercato di divertirla con qualche imi­ tazione, scoppia in lacrime e cerca di abusare di lei: la giovane riuscirà a svincolarsi e a fuggire e Sidney le sparerà addosso, impazzendo de­ finitivamente. Rimasti in tre, Mac, Corby e Fletcher organizzano la spedizione: Mac attirerà l’attenzione della guarnigione nemica arri­ vando con la zattera dal fiume (e si farà ammazzare), mentre Corby e Fletcher, arrivando da terra, irromperanno nella base e uccideranno il generale e il capitano nemico. Ma la sorpresa che ci attende, prima del sanguinoso finale, sarà scoprire che, all’interno della base nemica, il generale e il capitano parlano della paura e dell’attesa cui sono con­ dannati e hanno rispettivamente gli stessi volti di Corby e Fletcher. Ciò in cui Fear and Desire è assolutamente carente è nella fattura, e presumibilmente fu proprio questa imperizia, più ancora di una tra­ ma esile che comunque offre più di uno spunto, a irritare Kubrick: il montaggio (il film è “Directed, Photographed and Edited by Stanley Kubrick”) è sconnesso e in certe occasioni impunemente e maldestra­ mente accelerato; le inquadrature sono mal costruite, non v’è l’esattezza tipica dei piani kubrickiani; la scelta dei monologhi interio­ ri dei militari è posticcia e denota l’incapacità di gestire un materiale narrativo troppo vasto e pretenzioso; vi è perfino un’inesattezza un po’ grossolana nella posizione di un personaggio nel passaggio da un’inquadratura alla successiva.13 Di contro a questa incertezza tecni­ ca che è il vero scandalo per uno come Kubrick, resiste, seppure un po’ stentata, una trama che reca in sé un certo interesse per il fatto di contenere una serie di elementi che il giovanissimo regista (aveva ven­ ticinque anni) saprà recuperare.

13 Alludo al momento in cui Mac si allunga sul cadavere della ragazza: Kubrick lo ripren­ de in primo piano, sguardo in macchina, mentre allunga una mano come a coprire il volto del­ la giovane (il che renderebbe tale piano una impossibile soggettiva del cadavere), mano che finisce col coprire l’obiettivo. L’inquadratura successiva conferma la natura del gesto, Mac copre effettivamente il volto, solo che ora è ripreso in campo medio e alle spalle della fanciul­ la, col che il punto di vista del piano precedente è del tutto assurdo.

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Il valore del film ha paradossalmente riposato sulla sua invisibilità. Fear and Desire si ammantava di un’aura mitica che, col solo dato di trame desunte e qualche fotografia, permetteva di dare lustro a quell’esordio inserendolo, come non è sbagliato fare a posteriori, nella scia dei film che lo seguirono.14 La rimozione operata da Kubrick giovò senza dubbi al film; certo, questa damnatio memoriae non era davvero una mossa volta a gettare, per contrasto, interesse sull’esordio, dal momento che da più parti (alimentando così le leg­ gende sulla sua figura) si vociferò che fosse riuscito a ritirare dal mer­ cato quasi tutti le copie di Fear and Desire. La realtà è che la volontà distruttrice di Kubrick dovette fermarsi laddove la costrinsero i diritti, che il regista non possedeva (errore che mai più commise), e qualche copia sopravvisse, mantenendo i difetti del film sovrabbondante di un giovane ambizioso, ma acquistando il fascino del proibito che, in fon­ do, il suo stesso creatore aveva costruito. Ad alcuni intervistatori parlò, breve e lapidario, di «tentativo serio fatto in modo inetto», o addirittura di pellicola «uscita solo perché era stata girata in 35mm ed era costata troppo per tenerla del cassetto».15 Fatto sta che quel primo film divenne negli anni mitico (pur negati­ vamente), un misterioso inizio, un rimosso (termine che giustamente Cherchi Usai ha usato nel titolo del dossier da lui curato in cui si an­ nunciava il ritrovamento di una copia del film) e la tentazione di anda­ re ancora più in là della semplice lettura metatestuale e di fare di Fear and Desire il «rimosso del mito» e cioè il punto di partenza del rito, trascinando Kubrick in persona nel sistema interpretativo che fino a qui ha coinvolto i suoi film, si reprime a fatica. Per non spingersi troppo oltre (soprattutto perché chi ha visto il film si sente “bloccato” più di chi ne parla senza averlo visto), si può accettare quanto detto da 14 Per un’idea precisa delle reazioni all'uscita del film e per una dettagliata analisi di que­ sta pellicola misteriosa è fondamentale il dossier di «Segnocinema» (Kubrick rimosso), n. 40, novembre 1989, curato da Paolo Cherchi Usai e in particolare il suo saggio Scacco al Gene­ rale: analisi di Fear and Desire. Tra i critici che più di altri hanno trattato del film va men­ zionato Norman Kagan, The Cinema of Stanley Kubrick, Holt, Rinehart and Winston, New York 1972 e più di recente MICHEL CHION, Stanley Kubrick I’humain, ni plus ni moins, Cahiers du Cinema, Paris 2005, pp. 11-30. Meno sono intervenuti i due grandi esegeti ed amici del regista, Walker e Ciment, forse proprio a causa della loro stretta frequentazione con Ku­ brick, che aveva deciso di non pronunciarsi più sul film. 15 Si veda R. WALTER, op. cit., p. 30.

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Marcello Walter Bruno, che ha definito Fear and Desire un filmarchitesto.16 La fortuna di Fear and Desire è, oggi, quella del princi­ piante: in altre parole si è disposti a perdonare qualsiasi sbavatura ad un Kubrick appena venticinquenne (se avesse fatto un capolavoro a quell’età avrebbe superato addirittura il suo maestro ideale, Orson Welles) a patto di rinvenire già in quei sessantotto minuti (ufficiali, in realtà circa sessantuno) alcuni degli elementi che diverranno chiave di interpretazione del suo modo di fare cinema e del suo pensiero. In Fear and Desire abbiamo in apertura, mentre la macchina da presa ci mostra la foresta dall’alto, l’intervento di un narratore (poi so­ stituito infelicemente dai monologhi interiori) che non soltanto ci in­ troduce nella storia, ma ci induce a dubitare della storia stessa, istitui­ sce un rapporto di coinvolgimento/straniamento che sarà tipico del Kubrick a venire, ma che qui viene teorizzato e non praticato (laddove in futuro avverrà il contrario). Così, se la critica contestò questa pre­ senza in quanto svelava già all’inizio la esile trama, possiamo imma­ ginare che Kubrick, nient’affatto preoccupato della rivelazione (baste­ rà il narratore di Barry Lyndon a confermarlo), rimase scontento dell’eccessiva interpretabilità del suo film, che si offriva ad un livello troppo razionale e troppo poco sintetico: In questa foresta c’è la guerra. Non una guerra già combattuta, né una guerra futura, ma una guerra e i nemici che si fronteggiano qui non esistono finché non ne suscitiamo 1’esistenza. Perciò questa foresta, e tutto quello che ora vi accade, è al di fuori della storia; solo le forme immutabili della paura, del dubbio e della morte provengono dal nostro mondo. I soldati che vedete parlano la nostra lingua e vivono il nostro tempo, ma non hanno altra patria che la mente.17

Kubrick non sbaglia tanto, come sottolineava Cherchi Usai nel suo lungo saggio, nell’«annunciare con le proprie mosse d’apertura il pro­ prio metodo di assedio al Re (al Generale) avversario», ma nel rubare prepotentemente il lavoro al critico, nella foga di voler parlare del suo esordio, di volerlo commentare usando la parola come mezzo chiarifi­

16 M.W. Bruno, Joker-Killer. Kubrick e il Vietnam della mente, in G.P. BRUNETTA (a cura di), Stanley Kubrick, Marsilio, Venezia 1999, p. 255. 17 La traduzione è quella presente nel citato dossier di «Segnocinema».

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catore, comportandosi esattamente all’opposto di come farà da 2001 in poi. Eppure è fuori di dubbio che nell’intervento qui riportato dell’inesperto narratore siano condensate le linee guide di tutta l’esegesi kubrickiana, il che rende onore ad un autore che, ai primordi della sua carriera, possiede già, per lo meno allo stato embrionale, i capisaldi di un pensiero che si evolverà nel tempo. Anzitutto vi è la stilizzazione spaziale che rimanda alle giovanili suggestioni conradiane (si pensi poi alla lunga discesa in zattera lungo il fiume del soldato Mac, che resta, anche dal punto di vista stilistico, la sequenza più felice del film), stilizzazione che sarà rinvenibile an­ che in seguito, ma che qui si offre letteralmente. La foresta di Fear and Desire, l’inconscio di cui chiaramente parla il narratore e che i monologhi finiscono con lo svilire, è presente in ognuno di noi, è già un livellamento dell’essere umano su base istintuale che stringe il rap­ porto tra l’individuo e il suo ambiente: come ha detto Brunetta, nei film di Kubrick «nulla ci accade, o sembra poterci accadere, di cui non possiamo già reperire le tracce o i segni negli ambienti che ci circon­ dano.»18 La rivalità come presenza primigenia in questa foresta è espressa alla perfezione nel fronteggiarsi dei nemici, la cui esistenza è suscitata da noi stessi, è conseguenza di una tensione mimetica che parte dal nostro profondo, è il risultato di una reciprocità che verrà esplicitata nella scena più inquietante del film, quando si scoprirà l’identità di Corby e Fletcher rispetto al Generale e al capitano nemici, i loro doppi mostruosi. La foresta e questa strana guerra che vi si combatte è poi al di fuori della storia. Il problema della concezione storica è confermato come primario e Kubrick è interessato massimamente alle sorgenti della Storia, cioè ai luoghi in cui la Storia prende le sue forme, che sono «le forme immutabili della paura, del dubbio e della morte» che, sottoli­ nea, «provengono dal nostro mondo.» Qui l’esposizione kubrickiana è piuttosto complessa e cerebrale, ma lo sviluppo successivo del suo pensiero viene in aiuto. Se per Kubrick la Storia è un flusso spazio­ temporale tendente all’infinito che procede indipendentemente dalla presenza e dall’azione dell’uomo, anzi lo opprime perché è da lui av18 G.P. BRUNETTA, Stanley Kubrick: Odissea nel cinema, in Id., (a cura di), Stanley Ku­ brick. Tempo, spazio, storia e mondi possibili, cit., p. 18.

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vertita inconsciamente, è pure evidente che l’uomo nel suo piccolo fa (o così crede) una sua storia, che è ritualizzata e ripetuta, che ignora per incompatibilità di pensiero la sua infinità e per istintiva protezione il suo vero motore. Certo, Fear and Desire non è affatto L’alba dell’uomo, ma quel sentimento di atemporalità che caratterizzerà 2001 è presente nelle premesse di questo esordio, anche se non sarà mante­ nuto nel risultato. Del resto la guerra in Kubrick, lo si diceva, è uni­ versale: in Orizzonti di gloria le informazioni relative al conflitto sono date frettolosamente dall’unico intervento di una voce off all’ inizio del film, mentre lo scontro della guerra dei Sette Anni in cui perisce Gro­ gan in Barry Lyndon, ci è detto dal narratore, «non è ricordato sui libri di storia». L’ultima osservazione del narratore di Fear and Desire, vale a dire che quei soldati «non hanno altra patria che la mente», è una ridon­ danza inutile, ma è anche l’alba del cinema-cervello. La paura, il dubbio, la morte come forze oscure provenienti dal no­ stro mondo resteranno la costante catena dell’uomo kubrickiano, in­ sieme agli sforzi (appunto) della mente che partoriscono mostri o pau­ re ancestrali (è fin troppo facile rinvenire tutto questo nel Dottor Stra­ namore, in 2001, Arancia meccanica, Shining, Full Metal Jacket, Eyes Wide Shut); Full Metal Jacket parlerà proprio della sprogrammazione e riprogrammazione della mente umana: se qualcuno la mantiene sana, il Vietnam (che, stilizzato in fabbrica, è qualsiasi guerra) lo porterà o alla follia o lo avvelenerà di cinismo. D’altra parte Fear and Desire contiene già le scelte narrative e di genere preferite da Kubrick: «po­ trebbe essere quel tipo particolare di avventuroso che è il film bellico [...] Ma non solo: nel finale c’è un elemento che, a volerlo per forza definire in termini di genere, apparterrebbe di diritto al fantastico.»19 Parker Tyler, recensendo Fear and Desire per il Theatre Arts, disse che in esso si riconosceva «l’universalità della mentalità militare e della sua latente coscienza omicida»; quasi vent’anni dopo, a seguito della uscita di Arancia meccanica, Kubrick diceva: «ad un livello in­

19 R. Campari, Kubrick e il sistema dei generi, in G.P. Brunetta (a cura di), Stanley Ku­ brick. Tempo, spazio, storia e mondi possibili, cit., p. 48.

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conscio io sospetto che tutti abbiamo in comune certi aspetti della per­ sonalità di Alex.»20 All’uscita del film si parlò addirittura di rapporti di parentela con Rashomon, il capolavoro che Kurosawa aveva girato nel 1950 e che nel ’51 aveva trionfato a Venezia, destando l’attenzione dell’occidente verso la cinematografìa orientale; Kubrick non negò mai, nel corso della sua carriera, di ammirare profondamente il cinea­ sta giapponese, ma il paragone non ha troppa ragione di esistere e il giovane regista del Bronx cercava, forse ancora inconsciamente o maldestramente, la strada che avrebbe caratterizzato la sua concezione del destino umano: Ciment infatti notava come l’impresa, priva di si­ gnificato, fosse riportata al punto di partenza; era, solo abbozzato, il primo dei lunghi viaggi di ritorno dei personaggi kubrickiani; la dico­ tomia Storia/coscienza, che troverà la sua teorizzazione nella lettura jamesoniana di Shining, che scorre sotto ogni film di Kubrick, si face­ va timidamente sentire. Dietro quanto si offriva immediatamente a pubblico e critici, si de­ lineava la concezione hobbesiana (Hobbes è in qualche modo un pri­ mo passo verso Girard) deWhomo homini lupus, dove Vuomo uccide se stesso in quanto altro uomo, condizione che si ripeterà, con mag­ gior raffinatezza, in Orizzonti di gloria, quando il generale Mireau, imbestialito, chiederà ai suoi soldati di sparare sui loro compagni (e Norman Kagan definisce Orizzonti di gloria come una perfetta esplicitazione dello stato hobbesiano). Ciò che d’altra parte ossessiona lette­ ralmente il giovane regista e i suoi personaggi, sono i corpi morti: da quelli dei soldati ammazzati mentre mangiano (che irromperanno nel montaggio come proiezione mentale del soldato Sidney che impazzi­ sce), a quello della ragazza, fino a quello del generale. C’è un rappor­ to diretto e molto stretto tra i corpi dei vivi e quelli dei morti, che tor­ nerà altrove (per lo meno in 2001, Shining, Full Metal Jacket, Eyes Wide Shut) e che fa degli ultimi un segno fondamentale (in senso eti­ mologico) e decisivo per i primi: è un sentimento che, nella sua evolu­ zione ed elaborazione, condurrà verso la figura della vittima e il mec­ canismo che ne consegue. 20

Per la recensione di Tyler si rimanda al citato dossier di “Segnocinema”; la dichiarazio­ ne di Kubrick è in M. CIMENT, op. cit., p. 163.

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Piuttosto approssimativa nella sua pretesa metafisica, ma ugual­ mente degna di nota è la battuta che Kubrick e Sackler mettono in bocca a Corby, nel monologo interiore che lo assilla mentre osserva i corpi morti dei soldati nemici: «No man is an island? Perhaps that was true a long time ago, before the Ice Age. Glaciers have melted away. Now, we are all islands, parts of a world made of islands only.» In maniera macchinosa Kubrick rompe la Pangea mitica e lascia l’uomo andare solo alla deriva, isola contro isola e Chion può ben osservare la presenza precoce dell’universo e dell’uomo risistemato nel corso im­ menso del tempo cosmico.2122 Fear and Desire si offre oggi così, come luogo di raccolta di spunti che il Kubrick maturo ha portato a compimento e non si tratta, nella sua pochezza, di difenderlo, ma di capirlo, di afferrare già il Kubrick dello spazio e il Kubrick di guerra insieme, di scorgere tra l’astratto e il concreto, tra la nuova esperienza malmatura del cinema e quella più solida della fotografia, i poli di un discorso che si dimostrerà coerente: Pierre Giuliani, a proposito del tema del film, ha scritto che «vi è in questo già tutto Kubrick». Non è vero, ma è fuor di dubbio che qualcosa c’è già.

3.

Orizzonti di gloria : uomini come formiche

Orizzonti di gloria è il film che fa definitivamente di Kubrick un regista da tenere in considerazione ed è il film in cui emergono molti dei temi a lui cari, uniti felicemente ad una maturità stilistica e tecnica notevolissima per un uomo che non ha ancora raggiunto i trent’anni. Nel terzo capitolo ci siamo lungamente soffermati sulla sequenza ini­ ziale di questo film, quella dell’incontro tra i generali Mireau e Brou­ lard, analizzandola alla luce dell’importanza che il XVIII secolo e il riferimento culturale kubrickiano ad esso relativo vi assumono; questa prima sequenza è un ottimo esempio per capire che Orizzonti di gloria è, come tutti i film di Kubrick, la parte di un discorso unitario e eoe21

M. CHION, Stanley Kubrick l’humain, ni plus ni moins, cit, p. 17. 22 P. Giuliani, op. cit., p. 31.

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rente, discorso in cui l’ordine delle parole non ha importanza, la rice­ zione è ugualmente assicurata. In altri termini, se andremo a leggere molte delle recensioni positive che accolsero il film alla sua uscita, troveremo poco di davvero interessante e questo non per demerito dei recensori, ma perché il senno di poi, al cospetto della filmografia kubrickiana, illumina nella sua complessità un messaggio che se non è supportato dal sistema in cui è (o si ritroverà) inserito potrà essere compreso solo parzialmente. Per queste ragioni molte monografie sul regista, e questo stesso studio, si permettono di sconvolgere la crono­ logia della sua filmografia, per rendere giustizia alla coerenza straor­ dinaria di un pensiero, e sempre per queste ragioni Fear and Desire è un testo da difendere. Alexander Walker fu tra i primi a mettere in guardia dal considera­ re Orizzonti di gloria un film di guerra: nel 1957 i generi erano ancora forti e Kubrick aveva fino ad allora indubbiamente lavorato all’interno di regole di genere piuttosto riconoscibili, soprattutto esteticamente. Orizzonti di gloria sembrava dunque il suo secondo film di guerra e così parevano intenderlo tutti, un film antimilitarista che venne da più parti accostato a Niente di nuovo sul fronte occidentale (All Quiet on the Western Front, 1930) di Lewis Milestone. Proprio traendo spunto da questo accostamento, Walker indicò la differenza fondamentale: il film di Milestone è una riflessione sulla guerra che conduce ad una de­ finitiva scelta pacifista, quello di Kubrick è un saggio sull’ingiustizia umana.23 Kubrick è già orientato verso un discorso molto preciso: la lotta dell’uomo contro l’uomo, l’incontrollabilità della violenza e la rappresentazione di una società (qui riprodotta nel sistema militare) che si fonda su quel medesimo istinto di violenza pur rifiutando cate­ goricamente di ammetterlo. «Ci sono poche cose più stimolanti e in­ coraggianti di veder morire gli altri», sentiamo dire, eppure questo sentimento che appare così necessario viene nascosto da un ridicolo rito giudiziario che assolve l’assassino, che lascia deflagrare la violen­ za senza che l’individuo possa rendersi conto di esserne posseduto. La perfetta riuscita di Orizzonti di gloria va però ricercata altresì nella consapevolezza tecnica e registica di Kubrick, che si rivela nella 23 Si veda A. Walker, Stanley Kubrick Director, W.W. Norton & Company, New York 2000, p. 66.

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scelta fotografica, nell’organizzazione dello spazio profilmico e nella riduzione dei movimenti di macchina a due essenziali. La fotografia oscilla costantemente tra realismo e espressionismo, secondo una linea culturale che caratterizzava anche i suoi scatti giovanili: in questo sen­ so, al realismo delle trincee si oppone l’atmosfera metafisica e stravol­ ta della terra di nessuno durante l’escursione notturna in cui il soldato Lejeune perde la vita. Lo stesso personaggio del cattivo, il generale Mireau, rientra nel filone noir-gangsteristico e appare sfigurato in vol­ to da una cicatrice, che ci riporta a un antieroe classico dei film di gangster come il Tony Camonte di Hawks. Ed è da pensare, conti­ nuando su questa linea di realismo/espressionismo, che per questo personaggio Kubrick si sia ispirato ad una fotografia di Robert Capa scattata a Palermo e comparsa sul numero otto di Life nell’agosto del 1943. In essa sono ripresi in primo piano, di profilo, faccia a faccia, il generale statunitense Keyes e l’italiano Molinero la cui guancia è de­ turpata da una vistosa cicatrice che va dall’angolo della bocca all’orecchio (la didascalia lo sottolinea: «scar on his cheek»). Al Ku­ brick fotografo, che a Capa guardava come a un maestro e a Life avrebbe più tardi guardato come la rivista concorrente di Look, non sarà certo sfuggita questa suggestiva immagine. Fu lo stesso Kubrick, del resto, a curare la fotografia di Orizzonti di gloria, dopo che per le ri­ prese di Rapina a mano armata aveva ripetutamente avuto di che di­ scutere con un fotografo del peso di Lucien Ballard. Del direttore della fotografia ufficiale, l’esperto George Krause, il regista disse che «era un assistente a cui diede un ruolo di facciata come direttore della foto­ grafia, a patto che se ne stesse fuori dai piedi.»24 Le scelte fotografi­ che di Orizzonti di gloria sono funzionali alla creazione di un’atmosfera ora realista, ora soffocante, tra il reportage bellico e la ciclicità ossessiva del noir, la guerra è la metafora di un condizione umana selvaggia che è suggerita da rimandi stilistici a un preciso ge­ nere.

24 È quanto riporta JOHN BAXTER nel suo Stanley Kubrick. La biografia, traduzione di E. Cerasuolo e A. Serafini, Lindau, Torino 1999, p. 126. Wilhelm Roth, nel suo saggio sul film, sostiene invece che Krause (di cui traccia un breve profilo) ebbe un ruolo importante nella realizzazione del film. Si veda W. Roth, Generals and censors, in Aa.Vv., Stanley Kubrick, Deutsches Filmmuseum Frankfurt am Main, Frankfurt am Main 2004, p. 47.

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Il lavoro di Kubrick sullo spazio trova in Orizzonti di gloria il mo­ dello che si ripeterà poi nella gran parte dei film a venire: riduzione e stilizzazione. Gli spazi sono fondamentalmente due, il castello e le trincee. Il castello è la chiara figura del dominio, dietro la cui patina colta e raffinata si cela l’inganno che scatena la violenza; la storia si fa e si decide nel castello, ma si combatte e muore nelle trincee. Come ha detto Walker, «the chateau in Paths of glory, the War Room in Dr. Strangelove, and the Wheel in 2001 represent Kubrick’s most distinc­ tive ways of using a created environment to contain, define, and dominate the protagonists.»25 Senza troppo sforzo vi si potranno ag­ giungere i quadri di Barry Lyndon, l’Overlook Hotel di Shining e il campo d’addestramento di Parris Island di Full Metal Jacket. Come si noterà sono tutti luoghi della Storia, ma accecati dalla violenza, desti­ nati alla follia e alla ripetizione. I movimenti di macchina che contribuiscono alla riuscita di queste premesse sono due: il carrello (laterale, a precedere e in avanti) e l’uso della macchina a mano; la stabilità e in un certo senso la costrizione, e la libertà e in un certo senso l’arrotolarsi su se stessi. Il set viene quindi costruito perché enfatizzi il rapporto che intercorre tra sé ed i suoi personaggi e riesce automatico scorgere già in questo film giova­ nile l’idea di una impossibilità di uscita dell’uomo da un sistema che lo governa. A tal riguardo va riportata l’osservazione di Chion che nota come i personaggi di Kubrick si trovino ad agire in luoghi dai quali non solo è difficile uscire, ma nei quali uscire significa non po­ tervi più rientrare: accade al protagonista de II bacio dell’assassino, che lascia il suo appartamento e non può più farvi ritorno; ai perso­ naggi di Stranamore, che sembrano rinchiusi nei diversi luoghi del film e solo Kong uscirà dal bombardiere ma per andare incontro alla distruzione a cavallo della bomba; accade a Bowman che lascia il Di­ scovery per recuperare Poole (chiuso fuori e quindi morto) e vi rien­ trerà con fatica per passare poi ad una nuova vita; a Torrance, che per tutto il film non esce mai dall’hotel per morire inseguendo nel labirin­ to Danny; infine anche a Bill Harford, che non riesce a rientrare nella villa-castello dove ha assistito all’orgia, ma che nonostante ciò resta in

25 A. Walker, op. cit., p. 107.

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vita.26 È una prima e possibile variazione del tema dentro/fuori come lo intende Deleuze. La scelta dei movimenti di macchina è sempre significante, ma sempre indissolubilmente legata alla disposizione del profilmico. Ab­ biamo già visto come nel castello la disposizione di tavolini, tappeti o altri oggetti, costringa Mireau e Broulard a girare per la stanza se­ guendo tragitti irregolari che obbligano la macchina da presa ad assu­ mere un’andatura sinuosa. Questo tipo di scelta, opposta al campo/controcampo che caratterizza parte del dialogo tra i generali, esprime alla perfezione la costante volontà di girare intorno alle cose. Diversamente, nelle trincee, la strettezza dei corridoi obbliga ad un uso del carrello (a precedere quando si tratta di Mireau, in avanti in soggettiva quando si tratta di Dax) frammentato, adattato all’angustia dello spazio. In maniera ancora differente l’assalto al Formicaio è fil­ mato con un unico carrello laterale che ci tiene costantemente vicini a Dax e ai suoi uomini senza essere del tutto in battaglia, senza subire le scosse del suolo lunare della terra di nessuno27 (saremo più coinvolti dalla macchina a mano di Full Metal Jacket che si unisce al gruppo dei marines). Durante il processo, la precisa disposizione di giurati e imputati e il pavimento come una scacchiera, creano movimenti netti e decisi, dettati dai passi delle pedine Dax e Saint-Auban. E a questa limpidezza contribuisce anche un montaggio che, per la prima volta, denuncia alcune ascendenze ejzensteiniane, nelle combinazioni lineari (si guardino i fucili delle guardie) o volumetriche (si veda nel partico­ lare la contrapposizione di piani tra Saint-Auban e Arnaud durante l’interrogatorio di quest’ultimo). Infine, mentre i condannati vengono condotti alla fucilazione, le file ordinate dei commilitoni, l’incedere solenne delle vittime, il suono dei tamburi, ma soprattutto la nitida prospettiva della strada che porta al castello, permettono alla macchina da presa di muoversi sicura senza trovare ostacolo alcuno, proprio come è successo al processo.

26 Cfr. M. CHION, Stanley Kubrick l’humain, ni plus ni moins, cit, p. 409. 27 Questa scelta del carrello, strana in una scena di battaglia che in genere si articola se­ condo inquadrature brevi, ricorda un altro attacco, presente in un film che a tratti (a partire dal titolo) ricorda Orizzonti di gloria, essendo anch’esso ambientato nel 1916 e nell’esercito fran­ cese: Le vie della gloria (Road to glory, 1936) di Howard Hawks.

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Ancora una volta dietro i movimenti di macchina c’è il messaggio principale di Kubrick: all’uomo non è dato avanzare, né liberarsi da ciò che lo opprime; l’unica cosa che ancora non è esplicitata è la circo­ larità che soprassiede a questa teoria. Se le vie del castello, nella sala del processo e, all’esterno, verso la fucilazione, sono binari dai quali la macchina, e i personaggi con lei, non possono in alcun modo dera­ gliare pur sapendo che la strada è sbagliata, oppure possono perdersi dietro vuote piroette del senso (come nel primo dialogo Mireau/Broulard), le trincee sono luogo di soffocamento e costrizione nel quale si è costretti a obbedire alle leggi dei cunicoli e uscirne è cosa da pazzi che si paga con la vita (cioè: non si rientra più), se solo ci si rie­ sce (e ad un certo punto Dax è respinto in trincea dal corpo di uno dei suoi soldati). Del resto la cosa che sembra interessare maggiormente la ottusa giuria è sapere se i soldati sono andati avanti o sono andati indietro. Lo spazio di Orizzonti di gloria risulta astratto e labirintico, grazie all’uso che ne fa Kubrick, diventa lo spazio di molti suoi film che, come dice Eugeni, «è svuotato, privato di punti di riferimento; ed è al tempo stesso uno spazio che si ripete uguale (o apparentemente ugua­ le) a se stesso all’infinito. [...] spazio disumano in cui l’uomo appare in una scala di dimensioni incongruente»2829 , proprio come nei saloni del castello. Nella introduzione al suo volume sul cinema e la Grande Guerra, Giaime Alonge, segnala come due poli metaforici di un percorso at­ traverso cui il cinema riprende l’argomento, la scacchiera e il labirin­ to: la prima figura allude al punto di vista aereo, quello insomma del generale che osserva le fasi delle battaglie da lontano e da una posi­ zione sopraelevata, quello di Mireau, la seconda simboleggia invece il punto di vista del soldato di prima linea, quello di Dax.2 Questo sen­ timento spaziale è molto sentito da Kubrick che lo gioca coerentemen­ te tra i due luoghi del suo film. Scacchiera e labirinto, due figure e due concezioni di gioco diffe­ renti, che volentieri Kubrick richiama, ora come sosta ironica, ora co28 R. EUGENI, Invito al cinema di Kubrick, Mursia, Milano 1999, p. 148. 29 G. ALONGE, Cinema e guerra, UTET, Torino 2001, p. 4. A p. 201 osserva: «Kubrick è in qualche modo il naturale punto di arrivo del nostro ragionamento perché in Orizzonti di gloria questi due sguardi si incontrano, entrando inevitabilmente in collisione.»

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me tappa regressiva. L’homo kubrickiano è falsamente sapiens, forse potrebbe esserlo, ma indirizza male la sua sapientia a causa della sua cattiva natura, è senz’altro faber, indiscriminatamente faber, ma prima di tutto è ludens, per necessità. È col gioco che l’uomo kubrickiano si crea uno spazio di vita autonomo, uno spazio inattaccabile che lo pre­ serva dalla realtà e lo proietta verso la rassicurazione del rito. Lo spazio del gioco, come ha insegnato Huizinga, è sacro, imper­ meabile all’esterno purché si resti strettamente fedeli alle sue regole; la condizione del giocare è accettata in maniera tale che il giocatore sa di ricoprire un ruolo, ma sfugge in quel momento alla realtà più seria. Il prolungamento di questa coscienza fuori dalla sfera ludica stricto sensu, permette di continuare a vivere secondo regole dettate dai gio­ catori stessi e da tutti riconosciute, di sfuggire al dominio della Storia. È anche un modo di entrare ed uscire (dentro/fuori) costantemente da un approccio razionale alla vita, sempre più difficile: «noi giochiamo e sappiamo di giocare, dunque siamo qualche cosa di più che esseri puramente raziocinanti, perché il gioco è irrazionale. [...] L’uomo gioca come il bambino, per divertirsi e ricrearsi, sotto il livello della seria vita.»30 L’irrazionalità dei giocatori kubrickiani, in questo come abbiamo visto diverso da Huizinga, è fondata sul rapporto gio­ co-areligioso che riproduce aspetti della crisi sacrificale ed è vittima di una rimozione originaria. Il gioco di Kubrick è duplice: da un lato ci viene mostrato come i personaggi giochino la loro vita, ma non riescano comunque a posse­ derla e governarla, dall’altro c’è un burattinaio nascosto (la Storia, nella figura del regista31) che gioca di continuo contro i personaggi che giocano. Quest’ultima figura l’abbiamo già più volte rinvenuta e in Orizzonti di gloria potrebbe essere rappresentata dal castello stesso, con valenza di personaggio: è nel castello, infatti, che le trame ordite dai personaggi crollano tutte miseramente. All’interno del castello perde Dax, che non riesce mai a far valere le sue idee, perde Mireau 30 J. Huizinga, Homo ludens, traduzione di C. von Schendel, Einaudi, Torino 1946, pp. 20, 38. 31 Già Brunetta accennava a un Kubrick come re che non subisce mai lo scacco. Cfr. G.P. Brunetta, En attendant Kubrick, in Id., (a cura di), Stanley Kubrick (1999), cit., p. 11. E Sergio Toffetti (Stanley Kubrick, Moizzi, Milano 1978) intitolava la prima sezione della sua monografia Le mosse del Re invisibile.

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che, dopo aver nascosto nell’eleganza delle sue stanze la sua vera na­ tura, è a sua volta smascherato proprio in quello stesso salone, ma perde anche l’ipocrita Broulard, che scopre di non aver potere su Dax, di essere addirittura compianto dal colonnello. La guerra è uno dei giochi degli uomini, uno dei giochi di vertigine, come rilevavamo più sopra. Il processo stesso è un gioco che si basa su regole unilaterali il cui rispetto nuocerà ai condannati, ma proprio la natura agonale del procedimento costringe i partecipanti ad accet­ tarne gli esiti. I soldati accusati si muovono avanti e indietro rispetto alla corte come pedine, Dax e Saint-Auban giocano l’uno contro l’altro, ma c’è un arbitro che permette a quest’ultimo molte mosse e gli concede posizioni vantaggiose. Alla fine un altro arbitro, Kubrick, darà scacco a chi ha creduto di poter comandare il gioco, perché, come già detto, ci sono due tipi di gioco, uno, meno percettibile, sovrastante l’altro. Anche in questo caso però le regole del gioco vengono contraddet­ te: il castello non garantisce quell’annullamento delle differenze socia­ li di cui trattava Huizinga spiegando il tribunale, non ha nemmeno la forma del «cerchio magico» (nonostante il grande cerchio che sta al centro del pavimento in marmo del salone) entro cui «giocare stando alle regole della giustizia.»32 La scelta delle angolazioni di ripresa de­ nuncia il trucco: Dax è sempre ripreso in mezza figura o in primo pia­ no, spesso dal basso e comunque solo, mentre Saint-Auban si muove con la benedizione delle teste nere dei giurati, gli arbitri corrotti, che Kubrick mantiene di spalle in primo piano durante i suoi interventi. Il personaggio di Dax è l’unico personaggio interamente positivo della intera cinematografia del regista e questo fu probabilmente il motivo che indusse Douglas a sposare così decisamente la causa del film (con Kubrick l’attore avrebbe interpretato un altro eroe positivo, Spartaco, costruito però interamente da lui in qualità di produttorepadrone).33 32 J. Huizinga, op. cit., p. 105. 33 Kubrick si è sempre lamentato del fatto di non aver potuto controllare il film su Sparta­ co. A Ciment ha confessato che gli sarebbe piaciuto soffermarsi su un aspetto particolare della sua storia: Spartaco sarebbe potuto uscire dai confini settentrionali dell’Italia, ma non lo fece «e riportò indietro il suo esercito per saccheggiare le città romane. Il perché di questo compor­ tamento sarebbe stato il problema più interessante che il film avrebbe potuto affrontare. Erano

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Dax si distingue dagli altri per l’atteggiamento di autenticità col quale sceglie di affrontare il suo essere nel mondo, che equivale a dire il suo essere-nel-gioco. Dax comprende che per salvare i suoi uomini deve uscire dal gioco, allontanarsi dalle regole che lo reggono; il co­ lonnello conosce il mondo dei giocatori, è un brillante avvocato e quindi è informato circa il gioco dei ruoli (di cui il tribunale è un esempio importante) e le sue regole, tuttavia vuole fame un uso diverso rispetto ai membri della corte marziale, un uso disincantato che non si presti ad alcun compromesso riappacificatore: Dax è disposto a ri­ schiare la frattura e la crisi. Il suo personaggio ha un grande animo, in battaglia e fuori, e il cinismo necessario a non girare troppo intorno alle questioni più chiare. Nel primo incontro che ha con Mireau e Saint-Auban, i due ufficiali si lamentano della codardia dei soldati che, davanti al pericolo della morte, tendono a stringersi e fuggire; «come uno sciame di mosche» dirà Mireau e Saint-Auban aggiungerà che in questo si ravvisa «l’istinto del gregge» che porta i militari a comportarsi come «animali inferiori». O come «esseri umani; o non fa distinzione fra le due cose maggiore?» sarà la risposta secca di Dax, che è ancora uomo delle differenze. Il colonnello, quindi, conosce le regole del gioco inventato da Mi­ reau e Broulard, ma, conoscendo anche gli uomini delle trincee (Dax ha infatti accesso sia alle trincee che alle sale del castello), non può accettarle. Sani nota come, nelle parole finali di Broulard che offre il posto di Mireau a Dax e, incassatone il rifiuto, lo compiange come un idealista, «la guerra come tutti i giochi, si affidi unicamente alla logica ed escluda ogni riferimento morale. Dax, invece, si comporta, agli oc­ chi di Broulard, come un ipotetico giocatore che pretendesse di impor­ re delle norme etiche in una partita di scacchi.»34 Toma in sostanza il tema della morale mancante con cui aprivamo il capitolo. Il colonnel­ lo non è un buon compagno di giochi, è il punto debole di una squadra che a causa della sua ostinazione deve faticare molto di più per salva­ guardare la felice riuscita delle proprie partite. Quando nel suo allog­ gio Dax darà i primi segni di insofferenza nel rispondere per le rime a forse cambiate le finalità della ribellione? Forse Spartaco aveva perso il controllo dei suoi ca­ pi, più interessati al bottino di guerra che alla propria libertà?». Cfr. M. CIMENT, op. cit., p. 152. Ancora il controllo e la dicotomia dentro/fuori. 34 A. Sani, // cinema tra storia e filosofìa, Le Lettere, Firenze 2002, p. 73.

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Mireau, il generale gli dirà: «Lei è stanco», e insisterà per sostituirlo, come si fa con un giocatore che non è più in grado di dare il meglio. La stessa frase, identica, sarà usata anche da Broulard, quando Dax, indignato dalla convinzione del generale che l’uccisione di soldati presi a caso dal gruppo sia un tonico per l’esercito, gli proporrà, pro­ vocatoriamente, di fucilare l’intera compagnia. «Lei è stanco» ribatte­ rà Broulard, giocatore preoccupato. Dax è l’uomo che non vuole giocare con gli altri uomini perché ha colto l’inefficacia di tale metodo di vita e viene così schiacciato da un apparato ludo-burocratico che lo costringe a sé o ad autoemarginarsi. Dax sceglierà di restare, ma sapendo che i giocatori suoi superiori so­ no a loro volta pedine, e giocano di continuo per non doversene rende­ re conto. Il colonnello, in altre parole, è perfettamente conscio della necessità di una vittima: «Troppo è accaduto - dirà a Broulard - e qualcuno deve pagare; l’unica questione è chi.» Quello che non riesce a capire, di cui non si capacita e per cui è fuori dal gioco ed è com­ pianto da Broulard, sono le caratteristiche che tale vittima deve avere perché il sistema possa funzionare e trarre rafforzamento dalla risolu­ zione della crisi creatasi. Il gioco in Orizzonti di gloria, questa violenta e impazzita partita a scacchi, questo gioco di vertigine che corrisponde al parossismo della crisi sacrificale, è quindi elemento sclerotizzante, atteggiamento inau­ tentico che si ripiega su se stesso per non dover guardare in faccia la Storia come si è visto la intende Kubrick, e non permette all’uomo di avanzare, obbligandolo di continuo a riprodursi uguale, sottomesso al­ le medesime regole: «d’altra parte - osservava Brunetta - la storia, proprio nei suoi eventi più ricorrenti e ciclici, sembra incarnarsi in fi­ gure mosse quasi soltanto dalla paranoia del dominio e del potere. Personaggi capaci di riprodursi in qualsiasi epoca e sotto qualsiasi uni­ forme e di mantenere gli stessi caratteri ereditari, a distanza di Seco­ lili.» 35 Sta emergendo dunque che un tema fondamentale (che conferma ad uno stato ancora precoce la coscienza del mimetismo come procedi­ mento irrinunciabile per l’uomo e per l’uomo kubrickiano), è quello del sacrifìcio. Abbiamo già avuto modo di vedere come Girard abbia* 35 G.P. BRUNETTA, Stanley Kubrick: Odissea nel cinema, cit., p. 19.

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colto nell’atto sacrificale il momento di affermazione dell’unità co­ munitaria, unità che sorge «nel parossismo della divisione», di fronte alla lacerazione con cui la discordia mimetica aveva avviato un ri­ schioso e interminabile, nella sua circolarità, procedimento di rappre­ saglie vendicatrici. In Orizzonti di gloria le vittime scelte, diminuite di numero fino a diventare solo un pegno simbolico, hanno la funzione di placare la se­ te di sangue e potere di Mireau, «di calmare la violenza intestina e di impedire che i conflitti si manifestino eccessivamente»36, soggiogando con l’esemplarità le truppe. Girard teorizza perfettamente tutto questo quando dice che «il sacrificio è solo una violenza in più, una violenza che si aggiunge ad altre violenze, ma è la violenza ultima, l’ultima pa­ rola della violenza.»37 Il sacrificio è, nelle comunità primitive, ciò che è per le società evolute il tribunale e il sistema giudiziario. Quest’ultimo infatti altro non è che il sistema che allontana la minac­ cia della vendetta, che compie l’ultima rappresaglia, che ha il diritto di proferire «l’ultima parola della vendetta.» Contro di esso nessuno può porsi in quanto rivale: «il sistema giudiziario razionalizza la ven­ detta, riesce a suddividerla e a limitarla come meglio crede; la mani­ pola senza pericolo; ne fa una tecnica estremamente efficace di guari­ gione e, secondariamente, di prevenzione della violenza.»38 Alla luce di tutto questo diventa interessante e fortemente indicativo la rappre­ sentazione che Kubrick dà della corte marziale, rappresentazione che gioca sulla straordinaria ambivalenza, che il regista in seguito caval­ cherà più volte, del dato di fatto e del suo semplice capovolgimento non di significato, ma di senso. L’approssimativo sistema giudiziario di Orizzonti di gloria mette in crisi la definizione girardiana, perché effettivamente, a ben guardare, la corte marziale altro non fa che ciò che viene esposto dall’antropologo: razionalizza la vendetta (pur orientandola su vittime arbitrarie), la suddivide (uno per ogni compa­ gnia), la limita e la manipola senza pericolo, al fine di guarire il mora­ le delle truppe e prevenire rappresaglie violente.

36 A. Martini, op. cit., p. 118. 37 R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., p. 42. 38 R. Girard, La violenza e il sacro, cit, p. 41.

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Il sacrificio risponde ad una logica che è interna alla struttura più volte messa in evidenza dello stato maggiore e quindi Dax ne è fuori. Il colonnello si offrirà come capro espiatorio, sapendo che così co­ stringerebbe il meccanismo fondatore a uscire dal suo ritiro, portando­ ne sotto gli occhi di tutti l’ingranaggio39; verrà deriso perché Mireau e Broulard sanno che sacrificare Dax vorrebbe dire svelare ciò che in realtà sta dietro le loro folli pretese: Dax non ha le caratteristiche della vittima sacrificale, come non le ha Mireau che il colonnello, denun­ ciandolo a Broulard, vorrebbe condannare al posto dei soldati.40 Le vittime diventeranno tre, prese a caso, soldati tra i soldati («perché non uccidono loro?» si chiederà sull’orlo della follia il soldato Ferol, uno dei condannati, guardando i commilitoni presenti alla esecuzione), di modo che per gli altri sia di monito, dal momento che quelle vittime potrebbero essere loro stessi (toma l’incubo di Fear and Desire). Tut­ ta la comunità, evidentemente, riconosce la colpevolezza assurda dei tre militari, dal momento che una esitazione potrebbe riaccendere le ire dei generali e magari costare caro a qualcun altro del gruppo. Le motivazioni che hanno portato alla designazione dei tre capri espiatori sono altrettanto interessanti: uno è stato tirato a sorte, così da liberare l’uomo dalla gravità della decisione (il caso dunque, lo stesso di Rapina a mano armata e quello che sarà di Barry Lyndon); un altro è stato scelto in quanto «socialmente indesiderabile», e qui risuona l’eco del maccartismo, momento penoso di sacrificio e non avanza­ mento; il terzo infine, è stato spedito al patibolo perché testimone di un atto scellerato di un superiore, e quindi elemento pericoloso ai fini degli equilibri della compagnia. Dax farà di tutto per cercare di salvare questi innocenti, sceglierà addirittura di prendere parte al gioco di 39 Lo stesso concetto di sacrificio è presente in Spartacus, in cui il protagonista addirittura deve vincere in combattimento per essere sacrificato. Nella realtà Spartaco morì in battaglia, mentre qui viene crocefisso in una delle scene volute dal regista stesso. In questo caso, con chiari riferimenti cristologici, lo schiavo spera di svelare la inumanità del meccanismo e vede correre via la donna amata e il figlio che tentano di sfuggire da un mondo che non è in grado di uscire da un circolo vizioso di violenza. Spartacus, la cui portata ideologica era prodotto del testo di Fast, della sceneggiatura di Trumbo e del divismo positivo di Douglas, illuse molti circa il progressismo di Kubrick. 40 Si noti che alla fine Broulard silura Mireau e offre il suo posto a Dax che rifiuta. Mire­ au, indignato e definendosi «l’unico innocente», dice ipocritamente: «Sono io il capro espiato­ rio», distorcendo il significato della scelleratezza da lui compiuta.

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Broulard e Mireau, di comportarsi come loro, e racconterà al primo dei due del folle ordine di Mireau di sparare sulle proprie truppe. In altri termini decide di adattarsi ad un meccanismo sacrificale in cui non crede, ma che vuole almeno orientare su chi è veramente colpevo­ le. Dax non sa però una cosa: che solo una vittima arbitraria e non ne­ cessariamente colpevole, è in grado di risolvere la crisi.41 L’ingiustizia dell’uomo sarà punita dall’ostilità indifferente della Storia che per Kubrick resta il punto di riferimento fisso, positivo e negativo che sia. Orizzonti di gloria non ha ancora la struttura circolare tipica della filosofia kubrickiana, struttura che si avvertirà con Stranamore e si compirà definitivamente con 2001. Il finale di Orizzonti di gloria è un finale speranzoso, in cui la brutalità degli uomini si scioglie nel canto trattenuto e disperato della giovane tedesca che si esibisce, dolce, sulle assi rozze di un palco in una bettola: canta la canzone dell’ussaro fe­ dele. Tuttavia a quel momento di commozione (a Walter il regista disse che il film voleva essere «cinicamente romantico»42), in cui Ku­ brick restituisce un’identità prima brutale e poi infantile ai soldati con la scelta del primo piano, segue il ritorno alle trincee, in prima linea. Nulla è cambiato, il gioco di vertigine riprende; la comunità è di nuo­ vo unita, nelle trincee non ci saranno più Ferol, Amaud e Paris, ma pochi se ne accorgeranno, si sarebbero accorti di più dell’assenza di Dax o di quella di Mireau. Eppure Orizzonti di gloria è il film dei soldati, di uomini immersi nella terra, che strisciavano, rischiando la vita, per raggiungere il loro formicaio. Accennavamo, in apertura di questo paragrafo, a come sia mutato il punto di vista sul film a mano a mano che la filmografia kubrickiana cresceva e assumeva una fisionomia precisa; così in molti che crede 41 Lo stesso concetto di vittima sacrificale è espresso alla perfezione, quasi teorizzato, da uno dei migliori film di William Wellman, Alba fatale (The Ox-Bow incident, 1943), nel quale una piccola comunità, convinta che tre viandanti abbiano assassinato uno di loro (che alla fine si scoprirà essere ancora vivo), li giustizia sommariamente. Il film, girato in studio, raggiunge un’assoluta astrattezza che lo innalza a discorso universale sottoforma di western. Le vittime sono tre, come in Orizzonti di gloria; una di esse (Francis Ford) si chiede di continuo perché proprio lui deve morire, un’altra (Anthony Quinn) chiede un prete (e mentre si confessa la luce filtra tra gli alberi a fasci, proprio come nella prigione del film di Kubrick), la terza (Da­ na Andrews) non sa rassegnarsi. Quinn poi non si regge in piedi, come il soldato Amaud. Il vecchio ufficiale che guida la comunità inviperita dice una frase che esplicita ciò di cui ab­ biamo parlato: «Suggerisco di fare fronte unico, così non ci saranno possibili rappresaglie.» 42 Cfr., R. Walter, op. cit., p. 36.

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vano in un Kubrick progressista, dovettero ricredersi e abbandonarlo come fallito all’indomani di Stranamore. Uno dei padri della critica italiana come Guido Aristarco, che subito all’uscita del film lo recensì entusiasticamente su “Cinema Nuovo”43, fu tra coloro che non accetta­ rono il “cambiamento” di rotta kubrickiano che in realtà manifestava la sua vera personalità e che, a posteriori, avrebbe illuminato dall’angolo giusto anche Orizzonti di gloria. Aristarco apprezzava il Dax personaggio «vitale, e cosciente, [con una] prospettiva»44 e nota­ va che la natura umana si può cambiare, che gli uomini sono uomini e non bestie, come testimonierebbe la scena finale. Questa propositività di Dax pare scivolare comodamente sopra un’idea di sviluppo storico più che di stallo o di scacco e, nel suo saggio intitolato appunto I sen­ tieri della gloria, Aristarco, citando Dunham, contrastava il “mito primo” e cioè l’invariabilità della natura umana. Su questa linea il cri­ tico apprezzava naturalmente Spartacus, non potendo sapere ancora quel che Kubrick avrebbe detto a Ciment, ma considerava due cadute Lolita e Stranamore, arrivando a leggere nella realizzazione di questi film una resa del promettente regista: «escluso dall’ingranaggio, è fa­ cile convincere il “resistente” Kubrick della sua insufficienza, ed egli realizza Lolita e II Dottor Stranamore».45 Ora, ciò che Aristarco osserva, fermo per forza a Stranamore, e che contrasta con quanto questo nostro lavoro ha fin qui sostenuto, è evi­ dentemente valido ad uno stadio della carriera del regista in cui la sua poetica non si era ancora palesata decisamente. Abbiamo insistito più volte sul fatto che 2001 rappresenti la svolta autoriale, e Stranamore è certo il film che lo preannuncia. Kubrick non pare il tipo da arrendersi a esigenze politiche o economiche, non si può certo dire oggi che Stranamore sia il film della resa, si può piuttosto osservare, col senno di poi dalla nostra, che certi indizi da sviluppo spiralico non si sono confermati affidabili, soprattutto a voler confrontare tra loro i film di guerra del regista. Kubrick inseguiva un altro genere di protesta, cu­ pa, cinica e disarmante, spaventosa. La sua logica, che maturava in quegli anni sessanta nella lunga preparazione di 2001, sarebbe parsa 43 La recensione è oggi riportata anche in M. CIMENT (a cura di), op. cit. 44 G. Aristarco, Il dissolvimento della ragione, Feltrinelli, Milano 1965, p. 232. 45 Ivi, p. 238.

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ad alcuni tremendamente reazionaria. Per Kubrick il tempo dell’uomo in cui credere era già finito, ora parlava di maschere grottesche e di macchine impazzite.

4.

Il dottor Stranamore:

ci incontreremo ancora

Il dottor Stranamore è un film per certi versi anomalo nella filmo­ grafia kubrickiana, ma è senza dubbi la resa più compiuta delle coor­ dinate del pensiero del suo autore giusto prima di 2001. Anomalo per due ragioni soprattutto: in primo luogo per la scelta, felicissima, di gi­ rare una commedia nera su temi fondamentali quali il potere, l’istinto violento, la perdita del controllo e l’inscindibile legame amore/morte; in secondo luogo per la struttura del film che è essenzialmente parlato e che è molto più asciutto, dal punto di vista stilistico, dei precedenti, coi quali resta in contatto per l’ibridazione realistico-espressionista della fotografia. Da una parte dunque Stranamore è, alla sua uscita, una parodia su una delle questioni storico-politiche più spinose del XX secolo e, a posteriori, una parodia della struttura di fondo dell’intera opera kubrickiana; dall’altra è un’inaspettata opzione di so­ brietà linguistica volta a lasciare il campo a quello che è poi uno degli assi portanti del film: il problema della comunicazione tra esseri uma­ ni. Stranamore è parlato e costruito secondo un montaggio che ora scompone i luoghi dell’azione, ora li mette in impossibile contatto. Ciò rende perfettamente intelligibile la volontà di Kubrick: tra gli in­ dividui c’è una difficoltà comunicativa pericolosa; il “cervello”, che è il tavolo rotondo della War Room e che dovrebbe comandare gli altri luoghi, non riesce a mettersi in contatto né con gli aerei, né con la base del generale Ripper, a causa di un cortocircuito comunicativo voluto dall’uomo stesso (nel caso degli aerei per motivi di sicurezza, nel caso di Ripper per isolarsi e mantenere all’oscuro i suoi uomini dei suoi progetti). La conversazione gira viziosa lungo il cerchio del tavolo e ne esce solo grazie al telefono, che pure non sempre rende facile la comunicazione (il Presidente fatica a intendersi col premier russo e

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Mandrake è alle prese con un telefono a gettoni che gli chiede più monete di quelle che ha). Del tutto differente è il rapporto di comuni­ cazione tra l’essere umano e le macchine: basta un codice o un altro input ancor più diretto per azionarle, ma l’informazione non è poi mo­ dificabile, o lo è con estreme fatiche. La linearità della parodia, dunque, concorre, come sempre in Ku­ brick, a serrare il senso del film nel suo stesso impianto stilistico. L’uomo di Stranamore crede nelle sue possibilità infinite di sapiens che lo portano ad essere un faber disastroso e un ludens incorreggibi­ le. Per la prima volta compare la macchina creata e già sfuggita all’uomo, macchinico a sua volta, compare la falla nel meccanismo, compare, in termini non ancora mitici, l’idea di morte e rigenerazione che, nei piani di Stranamore, sarà comunque un ripetere il già visto, dal momento che si ritiene necessario salvare quelle stesse persone che hanno causato la fine del mondo. La concezione negativa dell’uomo e del suo posto nella Storia per­ vade tutto il film e fa crollare quanto di ottimistico o progressista si era voluto leggere in Orizzonti di gloria e Spartacus. La negatività prorompe dai corpi stessi degli uomini, corpi caricaturali, primi piani distorcenti che restituiscono la distorsione del senso che rischia di por­ tare l’uomo del Novecento all’autodistruzione. Il corpo è letteralmen­ te messo in scena, è il primo palcoscenico di Stranamore; in proposito Roger Dadoun ha parlato di «une mise en corps, une incorporation. Kubrick incorporating, cela signifie que les motivations, désirs, idéologies, fantasmes, projets, structures mentales de tous ordres, bref, le conscient non moins que l’inconscient, sont saisis et tenus dénsement dans des corps.»46 Quest’uomo farsesco è stretto dalla presenza ostile della Storia, oggettivata nella stupenda scenografia della War Room47, una Storia incontrollabile e esterna, che forza il rapporto dentro/fuori istituito qui, nel primo alto esempio di cinema-cervello. 46 R. Dadoun, Docteur Folamour. Kubrick incorporating, in «Positif», n. 464, oct. 1999. 47A tale proposito è di grande interesse lo studio delle diverse fasi del progetto della War Room attraverso gli schizzi di Ken Adam; si nota come, di disegno in disegno, le diverse con­ cezioni e formazioni culturali dello scenografo e del regista siano infine giunte ad un felice punto di incontro. Si veda, anche per le immagini, B. Hars-Tschachohn, Superpower para­ noia expressed in space. The War Room as the key visual in Dr. Strangelove, in Aa.Vv., Stan­ ley Kubrick, Deutsches Filmmuseum Frankfurt am Main, Frankfurt am Main 2004, pp. 75-87.

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Stranamore è poi l’unico film contemporaneo di Kubrick, dove per contemporaneo si intende la presa di petto di un problema che scon­ volgeva gli stessi anni in cui il regista lavorava; l’unico altro film che per certi aspetti potremmo definire tale sarà Eyes Wide Shut. La resa era al solito perfetta: la ricostruzione dell’intemo del B-52, la War Room pur esasperata, la base di Ripper furono ricostruite così attendi­ bilmente da creare più di un problema alla produzione. Lo scenografo Ken Adam raccontò di aver ricevuto un giorno una telefonata da Ku­ brick che gli diceva: «Farai meglio a scoprire dove hai ricavato i tuoi dati perché potremmo essere interrogati.»48 In un momento di tensio­ ne come quello della crisi dei blocchi, in cui la fuga di informazioni era il più temuto dei rischi (e Stranamore parodiava questa fuga inten­ dendola come imprendibilità dell’informazione), la paura che l’effetto di reale cinematografico potesse suscitare scandali o sfiducie nell’opinione pubblica, indusse ad anteporre al film una didascalia: «È ufficialmente riconosciuto dalla U.S. Air Force che le misure di sicu­ rezza da loro poste in atto, non consentirebbero lo sviluppo degli eventi mostrati in questo film. È inoltre importante ricordare che nes­ suno dei personaggi descritti in questo film si riferisce a persone real­ mente esistite.»49 Certo che a forza di rivedere Stranamore, anche questa premessa, ritenuta così importante, suona sinistra. Alle prese col film che segna la svolta nel suo pensiero, col film che mette davanti ad uno scenario storico-politico di enorme vastità che ritornerà, sotto altre spoglie, in alcuni dei progetti a seguire, Ku­ brick sceglie la via della satira, dell’ironia, crea cioè una distanza, apre a una riflessione che formuli dubbi sulla realtà dei valori storici e sociali oltre che sul proprio valore; in questa commedia nera che corre 48 Riportato in V. LoBrutto, Stanley Kubrick. L’uomo dietro la leggenda, traduzione di M. Bizzarri e A. Farina, Il Castoro, Milano 1999, p. 261. 49 Tale didascalia non è oggi conservata in tutte le copie del film. Una didascalia simile fu posta anche alla fine di A prova di errore (Fail-Safe, 1964), film di Sidney Lumet tratto dal best-seller Fail-Safe di Eugene Burdick e Harvey Wheeler, che era pressoché identico al Red Alert di Peter George da cui Kubrick era partito per Stranamore. Kubrick intentò una causa contro gli autori e il loro editore accusandoli di plagio e riuscì ad ottenere che A prova di er­ rore uscisse nelle sale solo dopo la regolare distribuzione di Stranamore (il film di Lumet, che affronta l’argomento in maniera seria e drammatica, appare oggi invecchiato e limitato, nono­ stante la notevole interpretazione di Henry Fonda, soprattutto se confrontato con quello di Kubrick). Su questa vicenda giudiziaria si soffermano i due biografi del regista: cfr. V. LoBrutto,op. cit., pp. 263-sgg. e J. Baxter, op. cit., pp. 214e 233-234.

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sul filo pericoloso della farsa, si riconoscono alcune delle costanti che Deleuze rinviene nella commedia americana: la mobilitazione delle nazioni («confronto deH’America con la Francia, l’Inghilterra, l’URSS...»), delle regioni («l’uomo del Texas», che in Stranamore è Slim Pickens), e delle diverse classi, «per far vedere le interazioni, i disagi nell’interazione, i capovolgimenti nell’interazione.»50 All’intersezione tra lo scrupolo della ri costruzione e la frantuma­ zione farsesca, Kubrick avrebbe comunque girato un film universale su temi per lui urgentissimi, il più dichiarato dei suoi «filmcongegno», secondo Ghezzi, «la più visibilmente perfetta delle sue macchine per la storia [corsivo mio].»51 Lo scacco principale, il più affascinante per un regista che amava il film di guerra, era quello di una guerra in corso tra due superpotenze, che tuttavia non si combatteva per la riconosciuta pericolosità delle armi che sarebbero state impiegate; per dirla in poche righe, c’era da confrontarsi con «una guerra che era tale in quanto non poteva diven­ tare pace e che era fredda perché non poteva risolversi [...] in scontro diretto e definitivo tra i contendenti. Non è dunque sempre vero che tertium non datar. La guerra fredda, infatti, è stata proprio un tertium, prolungamento nel tempo tra la guerra e la pace.»5253 Kubrick lavorava quindi su un tempo che non era in sé definibile, una pax armata che rappresentava il più lungo e difficile tra i momenti di cesura da lui scelti. Era un momento di assoluta immobilità, da cui non sembrava esserci via di uscita. Lo stesso Kubrick, analizzando i problemi deri­ vanti da questo Delicate Balance of Terror, ebbe a dire: If you are weak, you may invite a first strike. If you are becoming too strong, you may provoke a pre-emptive strike. If you try to mantain the deli­ cate balance, it’s almost impossible to do so because secrecy prevents you from knowing what the other side is doing, and vice versa, ad infinitum... 3

50 G. DELEUZE, L’immagine tempo (1985), traduzione di L. Rampe Ilo, Ubulibri, Milano 2001, p. 256. 51 E. Ghezzi, op. cit., p. 69. 52 B. Dongiovanni, Storia della guerra fredda, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 22. 53 Cfr. A. Walker, op. cit., p. 28.

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Il meccanismo mimetico, che abbiamo più volte visto essere alla base dello scacco storico dei personaggi di Kubrick, chiamati ogni volta a un desiderio di imitazione e distruzione cui non si riesce a ve­ nir meno, raggiunge, nei fatti alla base del film, dimensioni preoccu­ panti. Le due superpotenze hanno infatti in comune lo stesso oggetto ed entrano in un regime di rivalità, di violenza reciproca. Non è più solo il mondo che vogliono, non basta. Vogliono lo spazio, vogliono arrivare ai limiti delle possibilità dell’uomo, ad infinitum. Ogni passo compiuto, sia esso militare, politico o spaziale, deve rappresentare un avanzamento per una delle due potenze e uno scacco per l’altra. Que­ sta crisi si sarebbe dovuta risolvere con una vittima che la comunità (il mondo) ritenesse colpevole. Ma nessuna delle due superpotenze reca­ va le caratteristiche adatte ad essere vittima sacrificale, e la stessa pe­ ricolosità dello scontro ispessiva sempre più un sistema di divieti che impedisse il contatto. Il rischio più grande sembrava essere allora quello della non risoluzione del conflitto mimetico. Parlando di comu­ nità primitive, ma 2001 sarà finalmente servito a facilitarci la trasposi­ zione, Girard ritiene probabile che certi gruppi sociali non siano so­ pravvissuti proprio a causa di una mancata risoluzione delle crisi mi­ metiche scatenatesi al loro interno.54 Il sentimento di uguaglianza, il voler essere così uguali da non potersi muovere più, era vicino alle te­ orie kubrickiane sull’uomo, così come l’ossessione dell’autoannullamento, dello sparire per un tragico gesto suicida (nel B-52 sono infatti azionati i circuiti di autodistruzione). Perché la si­ tuazione potesse smuoversi sembrava necessaria solo un’esplosione, quella finale che pare quasi una danza liberatoria; il desiderio di morte e di rinascita resta, circolarmente, la costante del cinema di Kubrick, non a caso un desiderio contradditorio. Il meccanismo che si era instaurato e provocava questo stallo era ciò che rendeva la guerra fredda un soggetto kubrickiano e, figura di quello politico, il meccanismo sessuale forniva l’impressione di gelida coazione a ripetere, macchinica e priva di ogni risvolto umano. Già nei titoli di testa il rifornimento degli aerei (preludio certo alla danza delle astronavi) richiamava l’atto sessuale, ribadito poi all’infinito nel­ 54 R. Girard, Origine della cultura e fine della storia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003, p. 39.

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le ansie del generale Jack D. Ripper (il famoso Squartatore) , negli svaghi del puritano Turgidson (nome composto parlante), nel nome del Presidente che allude al sesso femminile, nel primo ministro russo che si chiama Kissov e in inglese “to kiss off’ significa lasciare, ab­ bandonare, anche in senso amoroso; sulle bombe del B-52, poi, sono scritte due frasi equivoche, “Hi there!” che è una avance omosessuale e “Dear John” gergalmente usata quando si va in bianco. Il B-52 è, se­ condo Kagan55, un’allusione fallica che corre verso il coito (e Ghezzi parla del mondo che «si distrugge nel gigantesco orgasmo di una co­ pula tra la bomba e la Terra»56), Stranamore infine è allusivo fin dal nome e trascina la sua ambiguità nell’esposizione delle teorie per la conservazione della razza («a strange-love», come sottolinea Kagan) che gli procurano un visibile stato di eccitamento. Se davvero in Ku­ brick esiste un nesso amore/morte ricorrente ed esso è in qualche ma­ niera legato ad un’idea di sesso distruttivo (su tutti Lolita, Arancia meccanica, Full Metal Jacket, Eyes Wide Shut), Stranamore ne è sen­ za dubbio il manifesto. Dietro tutto questo si nasconde un meccanismo più pericoloso, quello che riguarda «l’ordigno fine di mondo» (the Doom’s Day Ma­ chine), in grado di ridurre «tutta la superfìcie di Terra come Luna» (e ritorna alla mente la terra di nessuno di Orizzonti di gloria). L’ordigno è spaventoso proprio per la sua automaticità: nessuno può impedire, in sostanza, che il mondo finisca, l’uomo non può impedirlo perché è lui che l’ha voluto; siamo agli albori delle tautologie kubrickiane, per cui un soggetto reca già in sé le cause della sua fine. Quando il Presidente Muffley chiederà all’ambasciatore sovietico come hanno potuto parto­ rire un mostro simile, questi gli risponderà che il motivo principale era il risparmio, perché non potevano sostenere le spese della corsa agli armamenti, della corsa allo spazio e della corsa alla pace. Conoscendo i tragitti del mondo secondo Kubrick, l’ironia è ancora più fine, perché la corsa dell’uomo, quella che lui crede tale, non è altro che un conti­ nuo inseguirsi in cerchio, senza possibilità di raggiungimento alcuna: è il circolo vizioso della War Room. 2001, il film in cui ormai la corsa 55 Kagan sviluppa la lettura più articolata dei doppi sensi di Stranamore in N. Kagan, op. cit.,pp. 136-sgg. * E. Ghezzi, op. cit., p. 72.

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allo spazio era conquista acquisita (ricordiamo ancora che ad un primo stadio del progetto i rapporti tra USA e URSS dovevano avere mag­ gior peso), rappresentava il punto estremo della corsa dell’uomo e la sua uguale ripartenza. In tutto questo l’uomo non ha quasi più spazio, si è autoescluso. Stranamore espone molto bene questa autoesclusione e i suoi motivi e spiega perché l’automaticità dell’ordigno è in qualche modo necessa­ ria. Il fatto che la Doom’s Day Machine si azioni da sola, senza nes­ suna «indebita interferenza umana», è da comprendere all’interno di un pensiero che preferisce il preventivo al curativo, che cerca di fon­ darsi sulla pericolosità e sulla minacciosità per evitare di dover dimo­ strare la sua pericolosità e la sua minacciosità. È un’evoluzione civile e sociale che ha come primario obiettivo la protezione dalla vendetta (evoluzione che Girard identificava, al massimo della sua efficacia, nel sistema giudiziario e che già Orizzonti di gloria prendeva di mira), evoluzione che al solito Kubrick pone in crisi, sbeffeggia letteralmente nel ghigno folle del dottore che dà ragione di tutto. L’uomo crea un sistema tecnologico fitori di sé che è null’altro che la conseguenza di una crisi di fiducia nei suoi confronti; ma questa mancanza di fiducia non tiene in considerazione il rischio di dover cedere a questo sistema, di dover abdicare in favore delle macchine e della loro esistenza. Stranamore è anche colui che consiglia che sia un cervello elettronico a scegliere chi salvare e chi no dall’ecatombe nucleare: hal trova in questo film almeno due progenitori umani, il folle programmatore Stranamore e il generale impazzito Jack Ripper, che ha potere di vita e di morte sugli uomini della sua base. Che l’elemento umano sia sfuggito a questa rete di controlli non umani, è ammesso dallo stesso generale Turgidson, responsabile dei test di affidabilità umana. La resistenza decisiva alla scientificità del­ la programmazione è dimostrata proprio dall’uomo medesimo, che di quella scientificità è il fautore. L’uomo, come già tante volte abbiamo visto, è il dentro, che non può controllare il fuori e che naturalmente gli si oppone: per questa ragione Stranamore è un film di corpi, per­ ché attraverso il corpo si esprime l’inconciliabilità, la rottura; Full Me­ tal Jacket sarà in questo senso l’esempio migliore: Palla di Lardo resi­ ste in quanto corpo, è letteralmente un corpo estraneo, che rompe le simmetrie, che è troppo alto e troppo grasso. Da questa posizione è

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molto più facile intendere la concezione storica kubrickiana e soprat­ tutto la base istintuale su cui considera fondati i rapporti tra esseri umani. L’uomo è l’autore e la prima e principale falla del meccanismo: quel che ne consegue è la lotta dell’uomo contro l’uomo che, nel Ku­ brick di guerra soprattutto, si esprime con lo sparare verso i propri compagni (Orizzonti di gloria) o verso se stessi (Fear and Desire e, vedremo in che modo, Full Metal Jacket)-, in Stranamore sono prima quelli della base di Ripper che aprono il fuoco verso altri americani in uno scontro durissimo che si svolge sotto il cartellone con la scritta «Peace is our profession», poi sarà lo stesso Presidente a fornire le co­ ordinate per abbattere gli aerei impazziti. Durante il conflitto a fuoco fuori dalla base di Ripper i soldati del folle generale si meraviglieran­ no e renderanno merito ai nemici di essersi travestiti alla perfezione e si chiedono dove avranno trovato carri armati così uguali ai loro: am­ mazzare il proprio identico, sparare a se stessi. Kubrick pone l’accento su come tutta questa follia abbia comple­ tamente fatto perdere di vista l’esatta dimensione delle cose (sia lette­ ralmente che simbolicamente) e ce lo dimostra con due tra le migliori battute del film, messe in bocca al Presidente. La prima riguarda la re­ azione alla furia omicida di Turgidson, che suggerisce di approfittare dell’incidente per sterminare una volta per tutte i russi: «Lei parla di assassini! di massa, non di guerra». L’altra si ha invece mentre Muffley cerca di dividere Turgidson e l’ambasciatore sovietico che si stanno azzuffando; la traduzione italiana («Signori non potete fare a botte in centrale operativa!») storpia malamente il significato della frase di Muffley che è: «Gentlemen, you can’t fight in here. This is the War Room! («Signori, non potete litigare, siamo nella Sala della Guerra!»). Ecco che i giochi dell’uomo l’hanno smarrito nella Storia, della quale non c’è più speranza che possa avere consapevolezza. L’uomo si limita a creare un sistema meccanico di vita che gli conce­ da almeno di sentirsi libero di agire; «tutte le ideologie moderne - dice Girard - sono immense macchine per giustificare e legittimare anche e soprattutto i conflitti che ai giorni nostri potrebbero porre fine all’esistenza della umanità.»57 La rivalità nucleare, in particolar modo, ha ampiamente dimostrato, ed è ciò che ricorre in tanto Kubrick, «co57 R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., p. 50.

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me lo sviluppo scientifico e tecnologico moderno sia centrato sulla morte; tutto è organizzato per essa e intorno ad essa.»58 I calcoli dell’uomo vorrebbero essere utili ad una evoluzione della civiltà e risultano invece mortiferi perché non prendono in considera­ zione la loro fragilità, non contemplano l’errore. Stranamore è il film sull’errore, da cui dipende poi uno tra i filoni d’analisi maggiori dell’opera kubrickiana. E la cosa più sconvolgente riguardo a questa potenzialità di fallimento è la piccolezza delle cause, il topolino che fa impazzire l’elefante. La distruzione del genere umano passa per quat­ tro ambienti che sono gli unici del film: la base militare di Ripper, la War Room, il B-52 e la stanza da letto del generale Turgidson. Gli eventi che si compiono in essi sono impercettibili eppure di conseguen­ ze così disastrose; i canali per cui passa la distruzione sono messi in ridicolo da Kubrick (a proposito Roger Dadoun intitola uno dei para­ grafi del suo citato intervento, De quelques petites choses). Jean Narboni, all’uscita del film, notò giustamente che il film è caratterizzato dallo squilibrio di due durate, vincolate e differenti, la cui descrizione è fornita contemporaneamente: avvenimento e suo meccanismo, azio­ ne e sua attuazione.59 L’ironia di Kubrick è rinserrata esattamente in quello scarto impercettibile e decisivo. Tanto per cominciare la notizia del pericolo viene annunciata a Turgidson dalla sua amante (pressoché identica alla ragazza che com­ pare sulla copertina di Playboy, la rivista che si legge sul B-52), che fa da tramite tra un alto ufficiale, che lei sottovoce chiama Freddy, e il generale che al telefono proprio non ci può andare perché è seriamente impegnato in bagno. Poi, sul B-52, una volta ricevuti gli estremi per l’attacco, viene consultato solennemente un codice con sopra scritto “Top Secret”, che altro non è che una rubrica telefonica. E a proposito di telefoni, la salvezza del mondo corre sul filo di questi e si affida all’introito di una macchinetta automatica (ironia della sorte) di CocaCola. Viene spontaneo domandarsi come sia possibile che la Storia (e la fine della Storia dell’uomo, perché è chiaro, in Kubrick, che si tratta di due cose diverse) possa passare per tali piccolezze, possa esplodere 58 Ivi, p. 498. 59 J. Narboni, Homo ludens, in «Cahiers du Cinema», n. 155, mai 1964, ora tradotto in italiano in Ciment (a cura di), cit., pp. 231-233.

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per così poco. La realtà è che l’uomo è gran poca cosa e le sue possi­ bilità di intervento nel flusso che lo sovrasta sono commensurate ai canali per cui passano, e sono possibilità sempre connesse alla sua di­ struzione, mai ad una reale evoluzione. L’illusione del controllo resta e la War Room ne è il centro, è una di quelle sale in cui, usando una perifrasi fortunata e debole, si fa la storia. Attorno al tavolo si calcolano le vite come fa Mireau da dietro il suo binocolo, solo in scala molto maggiore. Le mappe elettroniche che campeggiano sulle pareti hanno la funzione (stavolta frustrante) che avrebbero avuto sul tavolo di Napoleone o la tracotanza di Tor­ rance che guarda dall’alto il modellino del labirinto pensando di poter dominare dall’alto i passi della moglie e del figlio, di avere potere di vita e di morte. È la falsità del wargame, un plastico in scala che resti­ tuisce il terreno dello scontro, volto a regolare la battaglia; ma, appun­ to, è un game. In altre parole si ricerca la regola e la si trova magari, ma ciò che Kubrick svela è la pochezza della regola, proprio ciò che l’uomo si rappresenta come punto di arrivo della sua scienza. Lo spa­ zio del wargame è infatti una pericolosa astrazione matematica.™ Ghezzi aveva già ben osservato che «Stranamore è infatti soprattutto, nell’oggettivazione suprema del problema atomico (cioè della conser­ vazione o distruzione del mondo), l’ennesimo lavoro su una struttura logico-matematica in questo caso sulla teoria dei giochi che tanta par­ te ha negli studi americani di strategia.»60 61 Il gioco, ancora, l’inautenticità della scelta, la Storia per finta. Il dottor Stranamore dà giustamente il titolo al film perché rappre­ senta la caricatura estrema di questo nuovo uomo (è lui, al massimo, l’oltreuomo kubrickiano). Stranamore trova il modo, sorridendo, di spiegare le ragioni dell’ordigno “fine di mondo”, escogita, eccitato, una estemporanea teoria di conservazione della specie calcolandone la riuscita sulla punta delle dita. In sostanza Stranamore si presenta come l’anima pensante della comunità, ma reca in sé chiari tratti di irrazio­ nalità. Entra in scena dal buio, dal profondo della War Room (da un 60 G. ALONGE, op. cit., p. 6. E Menarmi richiama Paul Virilio, che «ha intitolato uno dei capitoli del suo Guerra e cinema [Lindau, Torino 1996]: -La guerra non è io vedo. È io volo-, intendendo con ciò la necessità di dominare il campo visivo -e di battaglia- per dare senso all’atto bellico.» Cfr. R. Menarini, C. Bisoni, cit., p. 93. 61 E. Ghezzi, op. cit., p. 75.

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recesso del cervello), come un genio del male che, nell’accento e nella resa fotografica, rimanda alle creature dell’espressionismo tedesco, al suo misticismo e alla sua macabra fantasia, oltre che ai fantasmi del nazismo. Quando appare per spiegare l’utilità della grande macchina apocalittica, Kubrick lo mostra tutto nero, in inquietante raccordo con l’ultima esclamazione dell’invasato Turgidson che ha appena parlato dell’angelo della morte. Stranamore che dovrebbe garantire il control­ lo della situazione, non controlla il suo braccio finto (=meccanico, se­ condo un’equazione non trascurabile) che vuole fare il saluto nazista o che cerca di strangolarlo. Stranamore può solo illusoriamente salvare il mondo, i suoi uditori sono eccitati solo dall’idea di poter avere dieci donne a testa per accelerare la ripresa della specie (donne splendide, suggerisce Stranamore), ma in realta è un mostro, che emerge dagli antri scuri della follia: la carrozzella, il braccio finto, gli occhiali scuri, l’improbabile parlata, ne fanno uno strano ibrido «metà-carne e metàmetallo» , il quasi completato incrocio dell’uomo con la macchina. Ma del resto Stranamore non è un monstrum, dacché non è mostrato, segnato a dito dagli altri, e la scelta di fare interpretare a Peter Sellers anche altri ruoli non è soltanto dovuto alle straordinarie capacità mi­ metiche dell’attore, già sperimentate in Lolita, ma è piuttosto coerente col fatto che esista un mondo in cui Stranamore ricopra un posto così importante, un mondo in cui Stranamore sia un uomo normale. A Stranamore, e per esteso ai suoi vicini, non è dato avanzare, non c’è via di fuga; parlando del labirinto che chiude sempre i personaggi di Kubrick, Eugeni ha osservato che i personaggi sono impossibilitati a uscire dal labirinto in orizzontale, muovendosi per così dire in avanti, indietro o di fianco. Ma sono anche im­ possibilitati a praticare la direzione verticale, a innalzarsi sul labirinto e a controllarne in tal modo l’andamento. [...] Per altro verso è sintomatica la presenza di personaggi impediti a salire [cioè paralizzati] e il collegamento di tale impedimento con turbe psichiche»62 63.

Quando Stranamore si alza sulle sue gambe le esplosioni rompono la fascinazione che aveva preso il suo uditorio. 62 P. Giuliani, op. cit., p. 47. 63 R. Eugeni, op. cit., p. 153.

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Le esplosioni sono belle come le astronavi di 2001, montate secon­ do il commento musicale. La canzone è un vecchio brano della secon­ da guerra mondiale, di quelli che si potevano accompagnare alle carto­ line in cui l’amato vestito da militare saluta l’amata: «We’ll meet again...». Sono parole che recano in sé la grande paura che non si pos­ sano realizzare, ma in Kubrick sono le parole ciniche e divertite di chi sa che quell’uomo profetizzato da Stranamore saprà ritornare, uscendo dal ventre della Terra, pronto a nuove esplosioni. I funghi atomici sono fine ed inizio, andata e quindi ritorno, co­ smogonia, apocalisse. Lo Star Child è una soluzione meno beffarda, ma analoga. Il critico americano Roger Ebert racchiudeva in una breve, ma inci­ siva formula il procedimento ironico di Stranamore: «a man wearing a funny hat is not funny. But if the man doesn’t know he’s wearing a funny hat - now you’ve got something. The characters in Dr. Strange­ love do not know their hats are funny.»64 In conclusione è proprio il caso di dire, con Walker, che l’antico detto «Give me a place to stand and I shall move the earth» viene sos­ tituito dal più moderno «Give me a place to sit down and I’ll destroy it.»65 Ma una cosa è certa: ci incontreremo ancora.

5.

Full Metal Jacket: l’impressione della fine

Full Metal Jacket è un film terminale. Kubrick vi arriva dopo più di trent’anni di scavo profondo sugli uomini di ogni tempo che diventano l’uomo di un unico inattaccabile Tempo, lo stesso in cui si muovevano incerti altri soldati, quelli di Fear and Desire. Opera terminale, ma non ultima: se Kubrick avesse ritenuto Full Metal Jacket un approdo del suo pensiero si sarebbe certo fermato per sempre, anche a soli cinquantanove anni, ma sarebbe stato un po’ tradire la concezione infinita della sua filosofia, il suo senso ciclico della Storia, quel «finire senza finire» di cui parlava Auduraud. E infatti Kubrick ha continuato con 64 R. Ebert, The Great Movies, Broadway Books, New York 2002, p. 156-157. 65 A. Walker, op. cit., p. 116.

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l’unico film che poteva seguire Full Metal Jacket, anzi che già, come sempre, era prefigurato in certi passaggi, in certi brani di sceneggiatu­ ra, nonostante Schnitzler sembrasse lontano dal Vietnam e fosse un progetto che Kubrick accarezzava da tempo. Detto questo, è più giusto che Eyes Wide Shut sia l’ultimo film di Stanley Kubrick. Anzitutto Full Metal Jacket è un film terminale nello stile. Ha ra­ gione Ciment quando per asciuttezza lo accosta a certe tele di pittori arrivati alla fine del loro percorso artistico, «quando rimane solo l’essenziale» (e cita Cézanne).6667 Full Metal Jacket è la conquista di quella frontiera di cui parlava Bernardi: «fare significare le immagini e, al contrario, liberarle dalla tirannia del costrutto simbolico». Il Vietnam è simulato alla perfezione, eppure è diverso dai Vietnam ver­ deggianti e umidi che erano stati mostrati nella gran parte dei Vietmovies che anticiparono il film di Kubrick. Come è noto, Full Metal Jacket fu girato in una fabbrica in disuso nei pressi di Londra che Ku­ brick potè gestire a suo piacere, incendiandola, diroccandola, impri­ mendo il suo gesto come se lavorasse sulla scenografia in un teatro di posa, mentre invece modellava la realtà. La matericità del suo Viet­ nam è reale, lo spettatore ricostruisce la città di Hue nella sua mente sommando le rovine, i fuochi e i volti dei marines: uno sguardo iper­ realista, è stato detto, e certo Kubrick ha cercato di adottare un’ottica distaccata, l’ottica dell’obiettivo, così insistentemente chiamato a far parte della diegesi. Le immagini di Full Metal Jacket sono sospese nel tempo e nello spazio, sono un residuo, ché la pittura iperrealista segue alla sua maniera la tradizione della Pop Art. D’altra parte che il regista tenga in considerazione la radice pop che ha fatto seguito a quella che può definirsi «la sottocultura del Vietnam», è chiaro fin dalla prima inquadratura del secondo segmento del film: un incrocio trafficato, con cartelloni pubblicitari e la prostituta che contratta coi soldati americani nel vernacolo strano che mischia vietnamita, inglese e francese (il ricorrere del termine beaucoup), mentre un ragazzino ru­ ba a un marine, non a caso, una macchina fotografica e prima di salire su un motorino lo minaccia con una serie di mosse da arti marziali che Joker imita beffardamente. Ciò che Kubrick trattiene della sottocultu­ 66 M. Ciment, op. cit., p. 240. 67 S. Bernardi, op. cit., p. 145.

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ra del Vietnam, alimentata quanto mai dal cinema, è Fimmaginario dei marines, fatto di film, televisione e pubblicità (dalle ripetute imitazio­ ni di Wayne fatte da Joker, a Gomer Pyle, il nomignolo affibbiato al soldato Leonard Lawrence e che nella versione italiana diventa Palla di Lardo) e senz’altro dall’icasticità verbale del sergente Hartman, co­ sicché Parris Island costituisce un vero e proprio training culturale (e Joker se ne ricorderà nel suo ultimo intervento da narratore). Del Vietnam non c’è altro, c’è solo un pre-Vietnam fatto dall’immaginario dei giovani arruolati e dal trattamento che subiscono a Parris Island; tutto questo perderà di senso una volta catapultati nella guerra, a con­ tatto con la parte nera di quell’immaginario, con la parte reale di esso, dove davvero si può sparare o sentirsi eroi come Wayne, dove davvero c’è una Mary Jane Ficarotta a portata di mano, dove la «scopata» co­ sta qualche dollaro e non è più da rincorrersi in sogno o nel profondo puritano deH’America da cui i marines provengono. Questo immagi­ nario riemergerà alla fine, in uno dei finali più macabri eppure vitalistici del cinema kubrickiano, quando l’inconscio guardato in faccia indurrà coloro che hanno visto l’aldilà (It’s like you’ve really seen be­ yond) alla rimozione e alla regressione. Full Metal Jacket è l’ultimo dei principali Viet-movies e conserva pochi tratti di questo sottogenere ; a Kubrick non interessa princi­ palmente fare i conti con la recente storia americana (come a Cimino o a Stone), ma interessa ancora la forma del Vietnam: come Coppola ri­ trovava là il suo cuore di tenebra, Kubrick vi scorge un luogo (anzi due, quasi due film) in cui mettere alla prova la sua idea di controllo e programmazione e quindi, in contrasto, l’infinito senso di ritorno che pervade il suo cinema. Di diverso da tutti gli altri Viet-movies, Full Metal Jacket ha il fatto di essere un film di Kubrick, per cui il Viet­ nam non è storia, ma Storia, secondo una ricerca di stilizzazione o un procedimento che potrebbe dirsi di désévénementialisation. Il Vietnam viene a rappresentare non tanto un momento drammati­ co della storia dell’uomo, quanto l’abbandono di una storia de//’uomo, cioè realmente agita. Non c’è possibilità di farla questa* 68 A proposito dei film sul Vietnam come ipotetico genere, rimando ad un intervento di particolare interesse di Thomas Doherty, Full Metal Genre, in «Film Quarterly», n. 2, in­ verno 1988-1989, ora tradotto in italiano in M. CIMENT (a cura di), op. cit., pp. 293-298.

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Storia, per cattiveria o piccolezza, e le parole finali di Joker, narratore quasi in-cosciente, ne sono la prova: «Per oggi abbiamo scolpito abba­ stanza i nostri nomi nelle pagine della Storia. Ci mettiamo in marcia per il Fiume dei Profumi per passarci la notte.» Come in Stranamore erano stretti i luoghi per cui si pensava dovesse passare la Storia, così qui essa sarebbe scritta da uno sparuto gruppo di soldati intontiti dal fuoco e che cantano il Club di Topolino. «Ci mettiamo in marcia» dice Joker e noi già sappiamo che in Kubrick il senso della direzione non esiste, esistono spirali di un’altra Storia nelle quali si cammina pen­ sando di avanzare perché ci si crede capaci. Il Fiume dei Profumi ha un’aria seducente, misteriosa e infernale, ma non rappresenta il pas­ saggio dello Stige, come vorrebbe Sani69, cioè il punto di un non ritor­ no, quanto il confonto con una verità appena intravista e volutamente respinta; là semplicemente passeranno la notte gli uomini di Kubrick, dopo aver visto l’aldilà ed aver accettato, abbandonando una parte di loro su quei campi di battaglia, l’al di qua. L’incoscienza di Joker e compagni è conseguente ad una distorsio­ ne della memoria che risale al tempo di Parris Island, il luogo protetto dove la Storia non entra e dove se ne edifica il mito, dove si modifica il dentro per riordinare il fuori, senza considerare che il fuori è l’infinito, il superiore, il profondo, V indifferente. Sono due sistemi inconciliabili, tant’è che le due parti del film sono saldate dall’esplosione simbolica del dentro (il suicidio di Palla di Lardo): ora si può partire per il fronte, l’elemento resistente non c’è più. Ha scritto Philippe Lavergne: «l’utilité de la longue première partie de 44 minutes n’apparait sur les plans filmique, dramatique et structu­ re! qu’au fur et à mesure de la vision de la deuxième partie (73 minu­ tes pourtant) dans un veritable effet d’après coup.»70 Quando ci ritro­ viamo in Vietnam ormai è troppo tardi, tutto è già compiuto e non si può tornare indietro (né, in fondo, andare avanti e questo è molto ku­ brickiano); la morte di Palla di Lardo, l’esplosione del suo cervello, equivale all’osso scagliato dalla scimmia, quel che seguirà sarà inevi -

69 Si veda A. Sani, op. cit.,p. 175. 70 Ph. Lavergne, Full Metal Jacket. Culture de guerre,course vers l’abime, in «Positif», n. 464, oct. 1999.

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labile e conseguente (Kubrick sfrutta l’ellissi e la ricezione: post hoc, ergo propter hoc): Parris Island è pure un luogo di apprendimento. Nel campo d’addestramento regna l’identico; si è portati a fare di Parris Island l’immagine del cervello, quella suggerita da Deleuze, e più volte già incontrata; il filosofo non aveva avuto modo di inserire nella sua analisi il film, uscito nel 1987 (il testo di Deleuze è del 1985). Abbiamo già visto, a tale proposito, come Girard, introducendo la sua teoria sul mimetismo, parli del cervello come della più grande macchina per imitare. E Girard cita Monod che sostiene, ne II caso e la necessità, che la funzione di simulazione tipica del cervello umano si manifesti «al livello più profondo delle funzioni conoscitive, quello su cui si basa il linguaggio e che questo, senza dubbio, esprime solo in parte.»71 I futuri marines imparano anzitutto un nuovo vernacolo e nuovi nomi, imparano e imitano la lingua di Hartman, «poeta laureato della volgarità verbale.»72 Parris Island è dunque un enorme cervello, di precisione estrema, quasi elettronico come quello che in Stranamo­ re avrebbe dovuto scegliere i salvatori della razza, che mira a spro­ grammare (uccidere) e riprogrammare (rigenerare) gli uomini. Venia­ mo così a scoprire che gli incubi tecnologici di Hai esistevano già qua­ rantanni prima tra gli uomini. Claudio Bisoni ha notato che il programma ha delle parole d’ordine ricorrenti: strappare i bulbi oculari, aprire il cervello, sciacquarlo via, defecarci dentro, spaccare quelle scatole craniche [...] Il progetto di evacuazione cerebrale è preso alla lettera nel ge­ sto estremo di Palla-di-Lardo in cui il cervello che abbandona il corpo è una variante spiacevole e non prevista della deprogrammazione mentale praticata da Hartman.73

Quella a cui assistiamo è una sorta di crisi delle differenze indotta. Se l’uguaglianza, da un punto di vista mimetico, è un rischio, essa viene indubbiamente ricercata a Parris Island. I soldati devono essere identici, doppi infiniti: vestiti uguali, con a disposizione gli stessi og­ getti, allineati nelle brande con un gioco simmetrico e prospettico che Kubrick sfrutta sia durante l’addestramento che nel campo in Viet71 J. Monod, Il caso e la necessità, traduzione di A. Busi, Mondadori, Milano 1970, p. 125. 72 T. Doherty, cit., p. 295. 73 R. Menarini, C. Bisoni, op. cit., p. 47.

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nam. Un’uguaglianza ricercata da subito, con i primi piani delle teste che vengono rasate in apertura di film, mentre ascoltiamo le parole di una canzone popolare «Goodbye sweetheart, hello Vietnam» e i capel­ li cadono copiosi come una virilità persa sessualmente (Goodbye swe­ etheart), e tutta concentrata sul corpo dei marines (hello Vietnam), che teme alla follia femmine (prova ne è l’insulto più ricorrente e offen­ sivo del sergente: ladies). A Parris Island si tratta di uccidere l’uomo e di farlo rinascere macchina, di produrlo in serie (tutti rasati): l’uomo nell’era della sua riproducibilità tecnica verrebbe da dire, e d’altra par­ te non era industriale la teoria riproduttiva di Stranamore, e non era un’uccisione volta a creare un prototipo la cura Ludovico? In maniera meno esplicita (lo diverrà nella seconda parte) l’uomo uccide l’altro uomo, il suo simile, il suo compagno, secondo un procedimento che in Kubrick segnala il massimo dell’aberrazione e che in questo caso si ammanta di una contraddizione cara al regista e cioè quella che oppo­ ne l’animato all’inanimato: il marine è una macchina da guerra, Har­ tman insegna ad avere il cuore di pietra e a innamorarsi del proprio fu­ cile. La perdita di consapevolezza di sé, la trasformazione in macchine, dovrebbe sopire ogni desiderio, dovrebbe creare una comunità di uo­ mini senza cervello incapaci di imitare. «Qui vige l’uguaglianza. Non conta un cazzo nessuno», dirà Hartman: la perdita di valore del pro­ prio vicino, il fatto di sapere che non vale nulla, svilisce ogni desiderio di imitarlo, crea soggetti privati di possibilità di agire al di fuori delle coordinate del loro programma. L’uomo subisce una prima violenta regressione, che lo riporta verso quell’inconscio collettivo considerato da Kubrick e dagli istruttori violento per tutti (è il ritorno all’Alex che è in noi) e su quello Hartman deve lavorare. Parris Island è quindi un personaggio del film, come 1’Overlook Hotel.74 Il campo di addestra­ mento è una prigione, del corpo e dell’anima: il processo di carceriz74 «Parris Island si collega direttamente all’Overlook Hotel: lunghi travelling con la steadicam, scenografie algide in cui sembrano trionfare la simmetria e la serialità, perturbanze crescenti che sconvolgeranno l’ordine apparente. La novità è il peso determinante del sonoro, la quantità delle parole urlate dal durissimo istruttore sergente Hartman, anche se spesso l’effetto dell’eco capovolge tale pienezza, trasformandola in enfasi del vuoto, dell’assenza, come appunto accadeva in Shining.» Cfr. M. Marangi, Full Metal Jacket, l’opera al nero, in Aa.Vv., Stanley Kubrick, «Garage», Paravia, Torino 2000, p. 124.

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zazione, analizzato nella sua pratica, è in fondo in stretto riferimento, nella riflessione foucaultiana, con pratiche quali quelle della scolariz­ zazione e ancor più della disciplina militare.75 Il sergente lavora sui corpi per indurire gli animi, ma il metodo non sarà perfetto; infatti è il corpo il luogo in cui, attraverso una dura disciplinazione, i poteri trag­ gono la propria legittimità, ma è anche il luogo in cui lo scontro pri­ mario che viene a crearsi può dimostrare l’indisponibilità del corpo stesso alla manipolazione e configurarlo dunque come limite e falli­ mento del potere stesso.76 L’obiettivo dei programmatori è quello di incanalare la violenza, ma il sistema non è a prova di errore. La diffe­ renza tra Parris Island e l’Overlook è nel mistero: l’hotel cela l’inconscio collettivo di un paese, lo stanzone o i campi di addestra­ mento non celano niente, i movimenti netti della steadicam ci rendono tutto visibile, laddove in Shining eravamo in costante attesa dell’epifania delV invedibile; ma allora Parris Island non è l’inconscio dei marines, quanto un sistema coercitivo che è costruito per agire sul­ la loro coscienza. Palla di Lardo è l’elemento pericoloso, quello che rischia di far sal­ tare i piani dell’addestramento, il corpo indisponibile. Fin dall’inizio è diverso dagli altri per la mole che gli causa il soprannome e poi per l’incapacità che dimostra nel fare gli esercizi. Kubrick poi lo riprende in maniera particolare, gli fa rompere le simmetrie: all’orizzontalità che caratterizza Parris Island, contrappone la verticalità di questo sol­ dato, lo riprende dall’alto, lo pone sempre fuori dall’ordine dei com­ pagni (ultimo della fila con le braghe calate e il pollice in bocca, o in piedi mentre mangia una ciambella tra i compagni chini a fare flessio­ ni), gli si avvicina con lo zoom in un paio di occasioni, gli fa perfino rovinare la splendida pulizia e alternanza dei gabinetti77, ne sottolinea 75Sulla base di una corrispondenza molto fedele che riguarda il pugno sferrato da Hartman a Joker durante il loro primo incontro, Full Metal Jacket è stato accostato a The Brig (1964), il noto film di Jonas e Adolfas Mekas basato su una rappresentazione del Living Theatre. Si ve­ da R. Menarini, C. Bisoni, op. cit., p. 77 (n.). 76 Si veda l’introduzione di Pierre Dalla Vigna a M. Foucault, Poteri e strategie. L’assoggettamento dei corpi e l’elemento sfuggente, Mimesis, Milano 1994, p. 9. 77 Come ha notato Flavio De Bernardinis, «il gabinetto, ancora una volta nella filmgrafia kubrickiana, è il luogo della mutazione. Con perfida ironia, la mutazione di un ragazzo ameri­ cano in killer spietato.» Cfr. F. De BERNARDINIS, L’immagine secondo Kubrick, Lindau, Tori­ no 2003, p. 111.

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insomma l’estraneità. Palla di Lardo è la falla nel meccanismo, quello che fa capire il fallimento del metodo che vuole creare, come dirà Jo­ ker ancora molto lucido, «falsi duri e pazzi furiosi». I compagni, or­ mai uguali, fanno di Palla di Lardo non una vittima espiatoria, ma una vittima rituale, proprio perché egli è del tutto esterno alla comunità ed è scelto in sostituzione di Hartman; si tratta di un sacrificio che è volto a proteggere la comunità, cioè le reclute che dividono lo stesso dormi­ torio e lo stesso istruttore, dalla stessa violenza a cui vengono esercita­ ti, e «polarizza sulla vittima i germi di dissenso sparsi ovunque e li dissipa proponendo loro un parziale appagamento.» Hartman, da parte sua, è ossessionato dal rischio che Palla di Lardo sia diverso, mantenga la possibilità di imitare (cioè un cervello) e possa risvegliar­ la negativamente negli altri (in altre parole è contagioso, è tabù): quando Leonard sbaglia spalla negli esercizi col fucile, il sergente lo accusa di farlo apposta, di voler essere diverso (You did that on pur pose! You want to be different). Dal momento che il mimetismo è ciò che sclerotizza le possibilità di avanzamento dell’uomo, Parris Island vorrebbe aggirarlo, vorrebbe evitare dispersioni di violenza ma per farlo deve aggirare, anzi annul­ lare l’uomo; fintanto che l’uomo resisterà la violenza sarà impossibile da contenere e da dirigere (è la morale di Arancia meccanica). La prima rinascita, quella da marines, è fasulla e artificiale e per as­ sistere ad un cambiamento vero bisognerà aspettare la catabasi viet­ namita, riassunta nelle parole di Joker: «Certo vivo in un mondo di merda, ma sono vivo. E non ho più paura.» Le pretese si sono ridotte, l’uomo chiede solo di vivere, non crede più alla bellezza e alla gover­ nabilità della sua esistenza, è in balìa di qualcosa che ha avvertito es­ sere sopra di lui e al contempo giacere dentro di lui, in profondità; chiede solo di non dover aver paura. Il narratore di Fear and Desire parlava delle «forme immutabili della paura, del dubbio e della mor­ te», Joker si preoccupa solo della prima, il secondo cercherà di non porselo più (o di volgerlo in scherzo) e alla morte proverà a non pen­ sare; dopo tutto si era detto che «il corpo dei marines mira a creare uomini indistruttibili, uomini senza paura.»*

78 R. Girard, La violenza e il sacro, cit, p. 22.

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I marines hanno creduto di essere rinati uomini perché hanno gio­ cato alla guerra, accettando delle regole loro imposte e sapendo di es­ sere all’interno di un falso mondo. Non si è lontani da ciò che Joel Schumacher ha cercato di sostenere in Tigerland (2000): nel campo di addestramento che dà il titolo al film, tutto è costruito con precisione, i marines si preparano fingendo attacchi a finti villaggi vietnamiti abita­ ti da altri soldati/attori che fingono a loro volta la fuga o la sorpresa; «mi piace questo parco giochi della guerra», dirà uno dei soldati giunti alla fase finale del corso d’addestramento (e del resto molti degli at­ trezzi su cui si esercitano i marines di Full Metal Jacket non li ritro­ viamo forse, in una scala giusta per dei bambini, nella gran parte dei nostri parchi giochi? Michael Herr, co-sceneggiatore del film insieme a Kubrick e a Gustav Hasford, l’autore di Nato per uccidere da cui il film è tratto, ha scritto nel suo Dispacci: «Io credo che il Vietnam sia ciò che abbiamo avuto al posto di un’infanzia felice»79). In Full Metal Jacket il passaggio da Parris Island al Vietnam segna la fine dello spazio del gioco, il tutto secondo simmetrie differenti e spiazzanti. Durante il periodo di addestramento i marines erano stati inseriti in un sistema di regole che aveva loro insegnato che la fatica, la resistenza, l’obbedienza e la tenacia avrebbero permesso di perse­ guire i loro obiettivi. Non c’era ambiguità alcuna, vittoria e conquista erano elementi risultanti da un calcolo preciso che le nuove macchine da guerra avrebbero saputo fare senza troppi problemi. Il gioco era ancora una volta l’atteggiamento inautentico che dava l’impressione di dominare gli eventi, di teorizzarli. In Vietnam i marines sono spiazzati perché le regole di questo gioco sono state messe in discussione e que­ sto comporta il ripensamento di se stessi come giocatori. Joker, lo scherzoso, sarà il protagonista di questo tentato recupero della memo­ ria e dell’umanità perduta, di una nuova morte e di un’altra rinascita. I movimenti di Kubrick restano gli stessi, ma si moltiplicano nel loro interiorizzarsi. La Storia non si può fare (i tempi di Parris Island sono nient’altro che giochi d’infanzia), viverla nemmeno, è troppo fuori portata, è perduta, la si può per un attimo vedere, quando si vede la parte rimossa di sé.

79 M. Herr, Dispacci, traduzione di M. Bignardi, Leonardo Editore, Milano 1990, p. 232.

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In Vietnam tutto è ambiguo, a partire dalle architetture. I grossi blocchi di cemento sbeccato e sbriciolato non danno appigli, così co­ me non ne davano le precise e lisce pareti della camerata vuota a Par­ ris Island; ma il ritmo del vuoto, in Vietnam, non è regolato (ancora una volta i movimenti di macchina parlano da sé: la stabilità della steadicam negli stanzoni di Parris Island si infrange nelle corse traballan­ ti dei soldati in Vietnam, esplicitate nell’estemporaneo carrello allesti­ to dal cineoperatore e dai suoi collaboratori che lo tirano per la giac­ ca). La città di Hue è inizio e fine della inconscia ricerca dei marines e Bernardi vi scorge una parentela col castello di Kane in Quarto po­ tere’. In Welles la macchina da presa incontra un cancello, una scritta (no tre­ spassing) e il film, iniziato su quel divieto, è destinato a chiudersi con esso. In Kubrick la macchina da guerra dei marines dovrà incepparsi proprio all’ingresso dello spazio cittadino, addentrarsi in una ricognizione di spazi desolati, fmo a un cuore di tenebra, devastato e incendiato, dove il nemico non è che una nostalgia del nemico, come in Citizen Kane la slitta non era che una nostalgia della vita.

Il nemico non c’è, o meglio non è chiaro dove sia. I marines ne stanno per avere un altro che cresce dentro di loro e che li mette in cri­ si come macchine, li fa sentire ingannati. La linearità e la univocità del percorso appresa nei mesi di addestramento, l’ideale di una progres­ sione, di un avanzamento derivante dall’applicazione di talune costan­ ti, va smaterializzandosi. Kubrick delinea, come d’abitudine, il suo movimento circolare fuori dalle possibilità storiche dell’uomo e il Vietnam diventa una trappola spiralica che mescola le strade della Storia a quelle di una coscienza sofferente che, pur avvertendosi, non si ritrova e continua a girare. Joker ha perso se stesso e se ne rende conto più degli altri che comunque hanno perso ogni convinzione e continuano a vivere solo per l’inerzia impressa al loro meccanismo. Questa fine si avverte nelle parole di Animai, la macchina da guerra all’apparenza più efficiente: «Tira la catena e sciacquati il cervello. Credi che li ammazziamo per la libertà? Questa è strage. Se devo ri­ schiare la pelle per una parola, allora, l’unica che mi va bene è scopa-* 80 S. Bernardi, op. cit., p. 22.

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re.» Kubrick apriva già uno spazio per il suo film ultimo (non termina­ le come questo) e per la meccanica degli Harford. A questo punto rincontro col cecchino che stermina uno ad uno i membri della pattuglia, diventa l’occasione per un incontro con se stessi (di nuovo, dopo Fear and Desire), diventa un possibile centro, la conquista di un labirinto: il sordido dedalo della città in rovina, il campo di battaglia meno lirico del mondo si congiunge al dedalo igienista di Parris Island, come la notte succe­ de al giorno e lo sfinimento all’esaltazione. La guerrigliera vietnamita, mili­ tante sudista o regolare nordista, rannicchiata in fondo alla città in agonia, ac­ cede a questa condizione minotaurica.81

L’entrata nell’edificio da cui il cecchino spara è lo sprofondamento definitivo nell’inferno. Tutt’attomo ardono le fiamme della città di­ strutta e il rosso del fuoco oscura le larghe aperture della costruzione di cemento. I volti dei marines e della ragazza vietnamita si ispessiscono e tremolano per il riverbero della luce cupa. Tra le colonne che scandiscono lo spazio dello stanzone si concluderà la ricerca. I mari­ nes cercano finalmente qualcosa di vero, qualcosa che appaia, un ne­ mico da uccidere come hanno imparato nell’addestramento, cercano l’univocità del prolungamento braccio-arma (che, essendo il cecchino una donna, ribadisce l’allusione sessuale, è un omicidio che sembra uno stupro). Molto a proposito Krohn chiudeva il suo intervento su Full Metal Jacket accostando al modo di procedere di Kubrick le paro­ le del poeta haiku del XVII secolo Basho: «Je ne cherche pas à mar­ cher sur les traces des hommes d’autrefois. Je cherche ce qu’ils cherchaient.»82 Ecco l’immobilità dell’uomo kubrickiano e al contempo la sua irriducibilità; si realizza in Vietnam quell’idea di Storia onnicom­ prensiva, «confine estremo dell’esistenza umana», di cui l’individuo «non pare più di tanto consapevole e responsabile.»83 E infatti i marines, e Joker per noi, non troveranno quello che spe­ ravano, per il personaggio kubrickiano le risposte non ci sono. Faccia 81 P. Giuliani, op. cit., p. 51. 82 B. Krohn, Le film-cerveau, in «Cahiers du Cinéma», n. 400, oct. 1987. 83 Si rimanda a G. RONDOLINO, Qualche idea sull’opera di Kubrick, in Aa.Vv., Stanley Kubrick, «Garage», Paravia, Torino 1998, p. 150.

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a faccia col cecchino gli enigmi si moltiplicheranno. In quella sala si compirà una nuova morte e una nuova rinascita. Joker, che mantiene sempre un atteggiamento sfumato, di fondamentale rifiuto di ogni ma­ nicheismo, esplicitato dall’elmetto con la scritta Bom to kill e dalla spilla pacifista appuntata sul petto, sarà messo di fronte ad una scelta, più urgente di quella impostagli dal sergente che l’aveva interrogato sul perché di quei simboli contraddittori e da cui il marine si era svin­ colato citando Jung. Joker ha visto morire i suoi compagni, ha cono­ sciuto la pietosa condizione della prima falsa rinascita, quella a mari­ ne, sa di dover di nuovo morire come era morto a Parris Island. Joker sprofonda nel regno della sua Ombra84, cioè nelle possibilità di esistenza da lui respinte, sprofonda verso lo strato selvaggio della sua esistenza, da joker (= Parris Island) a killer (= Hue), la sua stessa educazione morale è ciò che gli svela questa parte di sé, egli la vede negli occhi della giovane vietnamita che ha ucciso i suoi compagni e che ora per pietà dovrebbe uccidere completando il suo percorso e contravvenendo alla sua morale. «L’Ombra - dice Jung - è, in verità, come una gola montana, una porta angusta, la cui stretta non è rispar­ miata a chiunque discenda alla profonda sorgente.»85 Joker è passato per questa porta angusta e si è ritrovato faccia a faccia col cecchino che è inquietante parte di sé86; il suo gesto è una miscela confusa dei simboli che porta indosso e dentro. Quello che Joker ha perso in quella stanza, in quello che credeva il centro del labirinto, il luogo delle risposte, l’arrivo e il premio di un gioco cominciato a Parris Island, è la consapevolezza della ambiguità: adesso Joker è ambiguo. Non ha potuto uccidere una parte di sé, il ma­ rine o il pacifista, e le ha mischiate. L’ordine della prima parte del film viene interiorizzato dal personaggio insieme al disordine della se­ 84 Ha detto Michael Herr che al centro di Full Metal Jacket stava «il concetto junghiano di “ombra”, che era veramente il divo del film.» Cfr. M. CIMENT, op. cit., p. 255. E altrove (cfr. M. Herr, L’obsession de l’Ombre, in «Positif», n. 464, oct. 1999), confermandoci i reali mo­ tivi che portano Kubrick a scegliere di girare film bellici: «La guerre est le champ ultime où se déploie l’activité de l’Ombre, celui auquel nous mènent toutes ses autres activités.» 85 C.G. JUNG, Gli archetipi dell’inconscio collettivo (1934/1954), traduzione di E. Schanzer, in Opere, Boringhieri, Torino 1983, voi. 9*, p. 20. 86 Andrea Sani, prolungando l’interpretazione junghiana, vede nell’uccisione del cecchino la disperata repressione deH’Anima, per cui la vietnamita diverrebbe il doppio femminile di Joker. Cfr. A. Sani, op. cit., pp. 174-175.

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conda; né l’uno né l’altro lo hanno soddisfatto, e ora Joker lo scherzo­ so è un cinico. Crede di aver scritto un pezzo di Storia e non si accorge di esserne invece la vittima. Nella testa resta solo un passato urlato, violento, giocato, quello della prima programmazione; un passato tenace però, come la memoria inconscia e collettiva sa essere, resistente a tal punto da crederlo felice: «I miei pensieri vanno di nuovo ai capezzoli eretti, alle eiaculazioni notturne, ai sogni bagnati di Mary Jane Ficarotta, alle fantasie dell’immensa scopata al ritorno a casa. Sono proprio contento di essere vivo, tutto d’un pezzo e prossimo al congedo.» La canzone dei marines fa di Topolino una sorta di essere inquietante: Mickey Mouse rappresenta l’unico brandello di passato cui aggrapparsi, come Daisy (o il Girotondo, nella versione italiana) era una lontana memo­ ria neW infanzia di un calcolatore. I fuochi di Hue si spegneranno e se ne riaccenderanno altri. La pienezza del discorso autoriale, la sua amoralità se si vuole, la sua so­ spensione del giudizio, è però qui e per questo Full Metal Jacket è un film terminale e non ultimo, dà l’impressione della fine, che è invece continuo rilancio. Joker non se n’è accorto, pensa di aver scritto la Storia e invece ha fatto molto di più, è arrivato ad un passo dal capirla: «Chi riflette ha perciò da molto tempo capito che le condizioni stori­ che esterne di qualsiasi tipo sono soltanto l’occasione degli effettivi pericoli che sovrastano resistenza: i vaneggiamenti politico-sociali, i quali non vanno interpretati da un punto di vista causale come conse­ guenze necessarie di condizioni esteriori, bensì come decisioni deter­ minate dall’inconscio.»87 Eccola la sorgente: Full Metal Jacket è un’odissea alla ricerca della totalità psichica del Sé.

87 C.G. Jung, op. cit.

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