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Italian Pages 176 Year 2021
Quodlibet Studio Lettere
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Luca Maccioni Il marchio di Qajin I Dialoghi tra due bestie nell’opera di Giacomo Leopardi
Quodlibet
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Prima edizione: luglio 2021 © 2021 Quodlibet srl Via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 – 62100 Macerata www.quodlibet.it Stampa a cura di nw srl presso lo stabilimento di LegoDigit srl, Lavis (tn) isbn 978-88-229-0745-5 | e-isbn 978-88-229-1253-4 Volume pubblicato con il contributo del Dottorato di Italianistica di Sapienza Università di Roma (Dipartimento di Lettere e Culture moderne).
Quodlibet Studio. Lettere Collana diretta da Franco D’Intino Comitato scientifico Franco D’Intino, Sapienza Università di Roma Paul Hamilton, Queen Mary University of London Robert Pogue Harrison, Stanford University Bernhard Huß, Freie Universität Berlin Thomas Pavel, University of Chicago Paolo Tortonese, Université Sorbonne Nouvelle Paris 3
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Indice
7 Premessa
11
1. 1820: «ho immaginato e abbozzato certe prosette satiriche»
17
2. Il problema della data dei Dialoghi tra due bestie
23
3. Un’ipotesi di datazione
31
4. I “Patriarchi antediluviani”, il Diluvio e Qajin (1813)
45
5. I giganti e la degenerazione del genere umano (1815)
59
6. Un animale non naturale alla prova di Rousseau (1819)
69
7. Un “mondo sanza gente”? Assenza e presenza nei Dialoghi (1820)
77
8. Un “mondo sanza gente”? Antropologia dei Dialoghi (1820)
93
9. Animali perduti. Paleontologia e antropogenesi nei Dialoghi (1820)
105 10. Al Dialogo del Cavallo e del Bue. Un preambolo 107 11. Al Dialogo del Cavallo e del Bue. Il foglietto (1820-1821) 119 12. Al Dialogo del Cavallo e del Bue. Il bifoglio (1821-1825) 135 Appendici 153 Bibliografia 165 Indice dei nomi
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Premessa
Con questo volume si presenta la prima monografia interamente dedicata ai due abbozzi incompiuti dei Dialoghi tra due bestie, pubblicati per la prima volta più di un secolo fa, negli Scritti vari inediti di Giacomo Leopardi dalle carte napoletane (Firenze 1906). Negli affascinanti squarci di dialogo riversati in queste “prosette”, Giacomo mise in scena due coppie di interlocutori animali – prima un Cavallo e un Toro, poi un Cavallo e un Bue – impegnati a discorrere dell’estinto genere umano. O, per essere più precisi: dell’uomo incivilito, il curioso animale che degenerò a tal punto da estinguersi, e venir quasi cancellato dalla memoria dei posteri. Nella prima parte del libro viene affrontata la spinosa questione relativa alla datazione dei Dialoghi, nella convinzione che interrogarsi su questo punto è certamente il primo passo da compiere per tentare di perimetrare il posto occupato dagli abbozzi nel complesso dell’opera leopardiana. Nella lettera inviata il 4 settembre 1820 all’amico Pietro Giordani, Leopardi sostenne di aver «immaginato e abbozzato certe prosette satiriche». Rientrano forse tra queste i Dialoghi tra due bestie? Nei capp. 1-3 si procede a verificare l’attendibilità di tali dichiarazioni leopardiane mediante una serie di incursioni nel corpo vivo dei Dialoghi e in taluni pensieri registrati, tra luglio e agosto, nello Zibaldone di pensieri. Dopo aver discusso i principali studi pregressi sull’argomento – in particolare, l’ipotesi proposta e argomentata da Ottavio Besomi nell’edizione critica delle Operette morali (1979) – si conclude che gli abbozzi vennero elaborati, con ogni probabilità, nell’estate del 1820. Alla straordinaria e vischiosa avventura intellettuale che alimentò il laboratorio dei Dialoghi è dedicata la seconda parte del volume (capp. 4-6). Ivi si retrocede, affondando sensibilmente nel passato;
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premessa
poi si avanza a grandi passi, sino a giungere nei dintorni del 1819. Però sempre con la certezza di chi, scavando, rintraccia fotogrammi forieri di importanti indicazioni in merito alle forze in campo nei futuri abbozzi dialogici. O ancora, di chi scopre tappe affollate di letture decisive, destinate a lasciare un segno assai duraturo nell’immaginario leopardiano. Il viaggio nei meandri della preistoria dei Dialoghi principia dalla digressione sui longevi antichissimi consegnata alla Storia della Astronomia (1813), attraversa il capo dedicato ai Giganti nel Saggio sopra gli errori degli antichi (1815) sino a sfociare nel confronto istituito nel diario (Z 55-56) tra la vita tranquilla dei bruti e la vita contro natura condotta dall’animale umano. Il mito del Diluvio, la figura di Qajin quale fondatore del consorzio sociale e patrocinatore della tecnica, e ancora la secolare teoria della degenerazione delle generazioni: sono, questi, fili che percorrono tutti e tre i capp. della seconda parte, e giungono infine a intrecciarsi, per essere filtrati e risemantizzati, nel 1819, dalle pagine del Discorso sopra l’origine ed i fondamenti della ineguaglianza fra gli uomini di Jean-Jacques Rousseau. L’immensa fascinazione esercitata sul poeta dalle meditazioni del ginevrino è certificata dall’indagine svolta nella terza parte della monografia. Con ciò siamo arrivati al cuore del volume (capp. 7-11). La ricostruzione dell’angolatura antropologica adottata dall’autore dei Dialoghi passa qui attraverso l’istituzione di un serrato confronto tra i copioni degli abbozzi dialogici da una parte, e il cantiere aperto dei disegni leopardiani dall’altra. È in queste pagine che viene messo a fuoco il reale significato del marchio di Qajin eletto a titolo della monografia: si tratta di un determinato stadio della società e della civiltà che l'uomo forgia e diffonde, mediante pratiche violente, alle piante e agli altri animali. La novità della “storia del genere umano” delineata nei Dialoghi è annunciata dal fatto che essa eccede la mera ricostruzione della civilizzazione quale motore della perdita irreversibile di uno stato felice di natura, e dunque quale colpa. La storia dei Dialoghi, difatti, contempla la vicenda di una specie, quella umana, divenuta un pericoloso agente caotico – una causa di degenerazione extraspecifica. Negli abbozzi dialogici, caso unico tra le “prosette satiriche” leopardiane, la mutazione si estende dall’uomo ai vegetali e agli animali,
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premessa
attraversa i confini della specie grazie alla pratica violenta della domesticazione. Ma c’è di più, dal momento che quella medesima storia orbita attorno a due distinti fuochi. Il primo pertiene all’evoluzione biologica, ed è il ruolo della stazione eretta nel complesso fenomeno dell’antropogenesi. Il secondo è lo scandalo paleontologico dell’estinzione del genere umano. Un’estinzione scandalosa perché inaudita per l’epoca. In stretta connessione con la lettura dei Dialoghi sin qui proposta, il volume si chiude (cap. 12) con il primo commento ravvicinato al documento in cui sono conservate le annotazioni prese da Leopardi dopo la stesura del secondo abbozzo dialogico. Lo stesso poeta lo intitolò Al Dialogo del Cavallo e del Bue. La datazione che se ne fornisce (1820-1825) vale come indizio dell’importanza assunta dai Dialoghi agli occhi del loro autore. Il poeta di Recanati, che mai li portò a compimento, pure continuò per almeno un lustro – ben oltre la prima stagione delle Operette morali (1824) – a registrare annotazioni, e a raccogliere materiali in qualche modo correlati ai principali motivi che affiorano dal tessuto dei Dialoghi. Nella speranza, forse, di dar loro l’ultima e risolutiva mano. Gli abbozzi dialogici, pur nascendo nel cuore dell’incunabolistica delle Operette morali, senza condividerne la rassegnazione e il disinganno, ne condivisero, almeno per qualche tempo, il laboratorio compositivo. *** Nel corso della stesura di questo libro molti amici mi hanno offerto consigli e suggerimenti preziosi. Mi è caro ringraziare i compagni di viaggio del Laboratorio Leopardi: il libro è dedicato a tutti loro. Un pensiero riconoscente va in particolare ad Aretina Bellizzi, a Miriam Kay e a Davide Pettinicchio, con i quali ho condiviso le mie riflessioni, oltre che le mie pignolerie. Un sentimento di gratitudine desidero esprimere in particolare a Franco D’Intino per la sua presenza affettuosa: neanche una riga di questo libro sarebbe stata possibile senza l’impagabile supporto che mi ha sempre fornito.
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1. 1820: «ho immaginato e abbozzato certe prosette satiriche»
Il 4 settembre 1820, esauritasi un’estate segnata dai moti insurrezionali siciliani e napoletani, Leopardi invia a Pietro Giordani una lettera che meriterebbe una menzione in ogni storia della vendetta1. Poco prima di accomiatarsi dall’amico, Giacomo lo aggiorna sulle sue recentissime fatiche letterarie. Curiosamente, adopera parole cariche di «esacerbato risentimento», simili a quelle messe in bocca a Galantuomo, il virtuoso penitente della virtù, nel Dialogo Galantuomo e Mondo: «Consoliamoci della indegnità della fortuna. In questi giorni, quasi per vendicarmi del mondo, e quasi anche della virtù, ho immaginato e abbozzato certe prosette satiriche. Vedi che cosa mi viene in pensiero di scriverti»2 (c.vi miei). «[P]rosette satiriche», al plurale: non una, ma più di una. E non solo «immaginat[e]», come si direbbe a proposito di meri disegni relativi 1 Un’affascinante Breve storia della vendetta la dobbiamo ad Antonio Fichera. L’autore menziona anche Leopardi (cfr. Fichera 2004, pp. 151, 200 e 231), ma non in merito ai propositi della lettera che stiamo esaminando. 2 Epistolario, n. 330, p. 438. Cfr. Dialogo Galantuomo e Mondo, in OM, p. 479, rr. 340-346: «Perchè quelli che non hanno mai sperimentato il vivere onesto, non possono avere nella scelleraggine quella forza c’ha un povero disgraziato, il quale avendo fatto sempre bene agli uomini, e seguita la virtù sin dalla nascita, e amatala di tutto cuore, e trovatala sempre inutilissima e sempre dannosissima, alla fine si getta rabbiosamente nel vizio, con animo di vendicarsi degli uomini, della virtù e di se stesso» (c.vi miei). Prendo in prestito la formula «esacerbato risentimento» da Tellini 1995, p. 169. Per un penetrante commento sul nesso diabolico che accomuna la lettera settembrina del 1820 e il dialogo Galantuomo e Mondo si veda D’Intino 2009, p. 224, che vi vede «una delle prime apparizioni del diavolo nell’opera leopardiana». Sulla portata dell’invenzione dell’apostasia di Galantuomo, il Virtuoso penitente, è più sfumata la posizione di Blasucci 2011, p. 205, che parla di «un vagheggiamento del tutto polemico e paradossale del vizio, nel quale si scarica la delusione leopardiana di fronte a un mondo di valori sovvertiti. In realtà quei valori, pur riconosciuti perdenti, non cessano di esercitare il loro fascino sull’animo dello scrittore».
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il marchio di qajin
a cose ancora da comporre: a tutti gli effetti, le prosette sono state finalmente «abbozzat[e]». Se volessimo sondare l’intero spessore di queste formule leopardiane, e afferrare qualcosa che non sia solo un animo risentito, ci tornerebbe utile confrontare la lettera appena citata con un brano di un’altra missiva, datata 20 marzo 1820, e indirizzata al medesimo Giordani: Mi rallegro del bene che tu proccuri di fare a cotesta tua patria, e desidero ardentemente che i tuoi disegni riescano a buon effetto. […] quanto alla nullità della eloquenza italiana di cui tu mi scrivi, che posso dire? Tante cose restano da creare in Italia, ch’io sospiro in vedermi così stretto e incatenato dalla cattiva fortuna, che le mie poche forze non si possono adoperare in nessuna cosa. Ma quanto ai disegni chi può contarli? […] In somma lo stadio da correre è infinito, e io che forse dalla natura avea ricevuto qualche poco di lena per mettermi nella carriera, e giungere a un certo termine, sono sempre rattenuto nelle carceri dalla fortuna, e oramai privo della speranza di mostrare all’italia qualche cosa ch’ella presentemente non si sappia neanche sognare. […] io da gran tempo non penso nè scrivo nè leggo cosa veruna, […] e forse non lascerò altro che gli schizzi delle opere ch’io vo meditando, e ne’ quali sono andato esercitando alla meglio la facoltà dell’invenzione che ora è spenta negl’ingegni italiani3. (c.vi miei)
Con ogni evidenza, tra marzo e settembre – i mesi che intercorrono tra la prima e la seconda lettera – Leopardi era riuscito a sottrarsi alle «carceri» della fortuna, e a mettersi nella «carriera» letteraria, muovendo almeno qualche passo. Accostando le due lettere, si riesce a cogliere agevolmente, dietro la composta dittologia «immaginato e abbozzato» della lettera settembrina, il giubilo che saluta la liberazione al termine di una lunga gestazione. Ora Giacomo può rallegrarsi anche per sé stesso – per essersi lasciato alle spalle la fase del mero concepire (i disegni, gli schizzi), e per aver potuto finalmente adoperare le forze in vista di qualche «buon effetto». Insomma, per esser riuscito a mandare finalmente a effetto qualche abbozzo. Resta ancora da capire a cosa il recanatese faccia riferimento quando, nella lettera del 20 marzo, parla di «disegni» e «schizzi». Se indietreggiamo di un anno, e rovistiamo ancora nell’epistolario leopardiano, scopriremo che già in una precedente lettera a Giordani, datata 12 febbraio 1819, Giacomo aveva alluso ad «alcuni miei dise3 Epistolario,
n. 290, pp. 384-385.
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1. 1820: «ho immaginato e abbozzato certe prosette satiriche»
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gni intorno al comporre certe operette» (c.vi miei). In quell’occasione, in verità, si era mostrato piuttosto reticente: si era limitato a puntualizzare, in greco, che l’argomento piuttosto scabroso dei disegni gli impediva di parlarne apertamente («ἀλλ’, οἶμαι ἐλευθεριωτέρας ἢ ὧς ἀσφαλὲς εἶναι περὶ αὐτῶν σαφῶς ἐπιστέλλειν»)4. Quasi due settimane dopo, Leopardi tornò a utilizzare i caratteri greci per stilare il primo dei cosiddetti Elenchi di letture, una lista di sedici titoli selezionati dalle opere dell’amatissimo Luciano di Samosata. Terminava di leggerli, per sua stessa ammissione, il «24 febbraio 1819»5. L’uso del greco in ambo le sedi, e le date ravvicinate di questi due documenti, difficilmente saranno frutto di una mera casualità. Piuttosto, ci suggeriscono di guardare alla lettera del 12 febbraio, e all’Elenco del 24, come a due contigue cristallizzazioni di un unico afflato progettuale. Afflato al quale sembra lecito richiamare almeno gli interessi speculativi che stanno a monte di un terzo e ultimo documento: il notissimo Disegno letterario (iv.3) sui «Dialoghi Satirici alla maniera di Luciano». Ivi vengono menzionati due titoli compresi nell’Elenco del 24 febbraio – e nuovamente in greco: Dialoghi Satirici alla maniera di Luciano, ma tolti i personaggi e il ridicolo dai costumi presenti o moderni, e non tanto tra morti, giacchè di Dialoghi de’ morti c’è già molta abbondanza, quanto tra personaggi che si fingano vivi, ed anche, volendo, fra animali; (come sento che n’abbia fatto il Monti imitatore di Luciano anche nel Dialogo della Bibl. Italiana, e in quelli che inserisce nella sua opera della lingua) insomma piccole Commedie, o Scene di Commedie: (conforme diceva Luciano che i suoi erano un composto da lui per primo inventato, della natura del Dialogo e della Commedia, e ciò nel trattatello πρὸς τὸν εἰπόντα, προμηθεὺς εἶ ἐν λόγοις) le quali potrebbero servirmi per provar di dare all’italia un saggio del suo vero linguaggio comico che tuttavia bisogna assolutamente creare, e in qualche modo anche della Satira ch’è, secondoch’io sento dire, nello stesso caso. Potrebbero anche adoperarsi delle invenzioni ridicole simili a quelle che adopera Luciano ne’ suoi opuscoli per deridere questo o quello, come nella Βίων πράσις ec. E questi dialoghi supplirebbero in certo modo a tutto ciò che manca nella Comica Italiana giacchè ella non è povera d’intreccio d’invenzione di condotta ec. e in tutte queste parti ella sta bene, ma le manca affatto il particolare cioè lo stile e le bellezze parziali della satira fina, e del sale e del ridicolo attico veramente e plautino e lucianesco, e la lingua al 4 Epistolario,
n. 175, p. 250. Zibaldone iii, i elenco, pp. 1139-1140. Nel medesimo elenco rientra anche un diciassettesimo titolo, registrato solo due anni più tardi, il 31 genn. 1821: cfr. ivi, p. 1140. 5
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il marchio di qajin
tempo stesso popolare e pura, e conveniente ec. e tutto questo sarebbe supplito dai sopraddetti dialoghi. Argomento di alcuni dialoghi potrebbero essere alcuni fatti che si fingessero accaduti in mare sott’acqua, ponendo per interlocutori i pesci, e fingendo che abbiano in mare i loro regni e governi, e possessioni d’acqua ec. e facendo uso de’ naufragi, e delle tante cose che sono nel fondo del mare, o ci nascono, come il corallo ec. e immaginando prede di pesci, portate ai loro tribunali, siano prede di cose naufragate, come fatte da corsari, siano di altri pesci ec. ec. trovando in ciò materia da satireggiare6.
Giunti a questo punto, possiamo chiudere questo breve preambolo ricordandone i punti salienti. Adoperando un criterio lemmatico calibrato sui vocaboli “disegni” e “abbozzi”, abbiamo sinora richiamato l’attenzione su un totale di cinque documenti leopardiani: - una lettera inviata a Giordani (i) e un Elenco di titoli lucianei (ii), risalenti certamente al febbraio del 1819; - un Disegno (iii) che sembrerebbe avvicinabile, con tutte le accortezze del caso, ancora al 1819; - due lettere del 1820, una del mese di marzo (iv), l’altra di settembre (v). Dovremo tenerli bene a mente, non solo perché Leopardi vi snocciola termini “pesanti” del proprio vocabolarietto («carriera» e «operette» su tutti)7, ma anche perché ci serviranno per affrontare lo spinoso problema relativo alla datazione delle due «prosette satiriche» che ci interessano più da vicino: i Dialoghi tra due bestie, vale a 6 Si tratta di Πρὸς τὸν εἰπόντα, Προμηθεὺς εἶ ἐν λόγοις (A chi gli diceva: “Tu sei un Prometeo nella parola”) e di Βίων πράσις (Vendita di vite all’incanto) cui Leopardi rinvia in Zibaldone iii, i elenco, pp. 1139-1140, lettere β e ε. Trascrivo il testo del disegno dei «Dialoghi Satirici alla maniera di Luciano» dall’edizione più recente: Disegni, pp. 94-95. Sottolineo con forza che tendo a parlare di interessi speculativi a monte della compilazione del documento, piuttosto che della fattuale compilazione dello stesso. A tutti gli effetti, non pare lecito escludere che il Disegno v.3 non sia altro che la messa in pulito (o la trascrizione) di appunti più antichi, da Leopardi effettuata in mesi successivi al febbraio 1819. Gli editori dei Disegni leopardiani si muovono con la medesima circospezione: cfr. Disegni, pp. 118-119. L’accostamento del primo Elenco di letture al Disegno v.3 era stato prodotto a suo tempo già da Sangirardi 2000, pp. 27-28. Sul Disegno dei «Dialoghi Satirici alla maniera di Luciano» sono da vedere Sangirardi 2000, pp. 32-33, Russo 2017, pp. 22-25 e Disegni, pp. 105-109. 7 Per «carriera» si veda almeno l’importante pensiero sulla «mutazione totale» in Z 143-144 (1 luglio 1820) trascritto nell’Appendice i; «operette», va da sé, anticipa il titolo delle leopardiane Operette morali.
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1. 1820: «ho immaginato e abbozzato certe prosette satiriche»
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dire Cavallo e Toro e Cavallo e Bue8. Questi ultimi furono pubblicati per la prima volta nel 1906 nel volume degli Scritti vari inediti di Giacomo Leopardi dalle carte napoletane9.
8 D’ora in avanti utilizzerò spesso questi titoli scorciati (Cavallo e Toro e Cavallo e Bue) per richiamare gli abbozzi dei dialoghetti leopardiani. La titolazione autoriale è la seguente: «Dialogo tra due bestie p. e. un cavallo e un toro» e «Dialogo di un cavallo e un bue». Cfr. OM, p. 457. 9 Scritti vari inediti, pp. 310-312 (Cavallo e Toro), 313-316 (Cavallo e Bue) e 316-317 (solo il foglietto de Al Dialogo del Cavallo e del Bue). Gli editori assegnarono tutto il materiale al 1822-1824: cfr. ivi, p. 310.
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2. Il problema della data dei Dialoghi tra due bestie
L’odierna situazione editoriale dei Dialoghi tra due bestie non aiuta il lettore che voglia tentare di veder chiaro nella vicenda compositiva dei Dialoghi. Se questo lettore selezionasse un campione di quattro edizioni correnti delle Operette morali – la critica, curata da Ottavio Besomi, e le tre commentate, procurate da Cesare Galimberti, Rolando Damiani e Laura Melosi – noterebbe facilmente che due soli dati ritornano nell’intero campione. Il primo è la scelta di collocare tanto i Dialoghi, quanto i materiali di lavoro afferenti (ne parleremo a breve), in un’apposita Appendice in calce alle Operette morali1. L’uso risale all’edizione critica del 1979, e a questo partito non contravviene nessuna delle recenti edizioni. Le «prosette satiriche» figurano a corredo delle Operette morali per un motivo molto semplice: ne rappresenterebbero la preistoria o l’incunabolistica, seppure sui Dialoghi e sulle Operette – in particolare, il Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, del quale i Dialoghi sono i precedenti più immediati – si riversano luci provenienti da due diverse costellazioni psichico-ideologiche2. 1 OM, pp. 457-466; OM Damiani, pp. 237-245; OM Galimberti, pp. 555-567; OM Melosi, pp. 617-626. 2 Esemplare, sul punto, la precisazione di OM Melosi, pp. 8-9: «Occorre tuttavia precisare che le “prosette satiriche” sono cosa abbastanza diversa dalle “operette morali”, perché rappresentano il frutto di una condizione ideologica e psicologica altra rispetto a quella in cui è giunta a esecuzione l’esperienza narrativa maggiore. Una condizione da porre, semmai, in relazione con quella delle Canzoni del ’20-’22, delle quali le “prosette” condividono i motivi del rimpianto per la grandezza antica perduta e della deprecazione per la bassezza dei tempi moderni, salvo ribaltarli entrambi in caricatura. Le “prosette” nascono insomma con una visione del rapporto uomo-mondo-natura che prelude alla lucida rassegnazione delle Operette, ma per il momento non ne condivide fino in fondo il disinganno, ed è questo a fare la differenza». Un’articolata ricostruzione genetica del passaggio dalle “prosette satiriche” alle Operette morali si legge in Sangirardi 2000, pp.
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il marchio di qajin
Nel corso del suo preziosissimo lavoro editoriale sulle Operette, ad oggi ancora imprescindibile, Ottavio Besomi siglò con le lettere - [a] e [b] gli abbozzi dei dialoghi Cavallo e Toro e Cavallo e Bue, «ospitati da un bifoglio giallino […] e da un foglio bianco» nei quali «scorci di dialogo» si alternano ad «annotazioni programmatiche»3. Il riscontro autoptico del materiale manoscritto (in particolare, dell’inchiostro adoperato e del ductus della scrittura) portò l’editore a concludere che [a] e [b] sono certamente «coevi»; - [c] un foglietto e un bifoglio in cui si riversano numerose annotazioni e osservazioni, oltre che una nutrita serie di rinvii bibliografici. La complessiva titolazione leopardiana «Al Dialogo del Cavallo e del Bue» certifica che [c] è un aggregato di [b], cioè del solo secondo dialogo, Cavallo e Bue; - [d] ed [e] altri due testimoni manoscritti in cui sono registrate annotazioni riguardanti, rispettivamente, il mammut (siberiano e non) e i giganti (delle tradizioni scandinava e nordamericana)4. Mette conto precisare sin da ora, a scanso di equivoci, che la tipologia testuale cui vanno ricondotti i testimoni [d] ed [e] è affatto diversa da quella cui è riportabile [c]. Quest’ultimo, Al Dialogo del Cavallo e del Bue, è un documento assai articolato sia dal punto di vista strutturale che dal lato propriamente progettuale: raccoglie programmi di lavoro, osservazioni e appunti che si sedimentano l’uno sull’altro, paragrafo dopo paragrafo, assecondando la cronologia delle letture leopardiane. Lo si vedrà nel dettaglio più avanti (cfr. capp. 11-12). Diversamente, [d] ed [e] constano di semplici e puntuali trascrizioni, cui Leopardi fa subito seguire l’esplicitazione della fonte, vale a dire del luogo bibliografico da cui ha estratto l’informazione. D’ora in avanti, nei passi leopardiani integrerò le virgolette caporali sottolineate (« ») per circoscrivere le citazioni implicite che ho via via individuato. L’obiettivo è quello di indicare con precisione al lettore le stringhe testuali (frasi, o anche semplici rinvii bibliografici) 25-86. Per quanto riguarda in particolare il Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo (d’ora in avanti Folletto e Gnomo) si vedano gli appositi cappelli introduttivi in OM Melosi, pp. 151-153 e OM Panizza, pp. 39-42. 3 Russo 2017, p. 31 nota 47. 4 Tutti i dati qui richiamati si leggono nel cappello introduttivo di Besomi ai Dialoghi tra due bestie: cfr. OM, pp. 457-458.
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2. il problema della data dei dialoghi tra due bestie
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che Giacomo si limita a ricopiare nelle proprie carte, trascrivendole dai testi letti. L’appunto [d] sul mammut proviene dal poema eroicomico Gli animali parlanti di Giambattista Casti, precisamente da una nota autoriale posta in calce al primo tomo dell’edizione datata 1802, tuttora ospitata nella Biblioteca di Monaldo. [d] «Il Mammut grandissimo quadrupede. Non è ben deciso se distinguasi dall’Elefante o se sia la cosa stessa; la specie se n’è perduta, e soltanto trovansene dei resti e dei grossi ossami nella Siberia e altrove.» Casti. An. Parlanti. C. 10. nota (a) alla st. 635.
L’allusione alla «Batrac. imitata dal Casti» che si legge nell’incipit della Vita abbozzata di Silvio Sarno (1819) certifica che Leopardi certamente frequentò il poema castiano all’altezza del 18196. Dunque, con ogni probabilità, la trascrizione registrata in [d] non è anteriore a questa data. I brani di [e] sui giganti scandinavi e nordamericani consistono in due trascrizioni (con interpolazioni leopardiane tra parentesi) provenienti da due diversi articoli comparsi nel primo volume della rivista milanese «Il Raccoglitore». Pure questo volume è ancora presente negli scaffali della Biblioteca. La sua data di pubblicazione, 1819, ci indica un terminus post quem per le due trascrizioni: [e] «I libri islandesi spesso ragionano dei giganti della Scandinavia, ed alcuni gravi istorici hanno anche voluto scorgere in essi la prima razza d’uomini stabilita nella penisola» (di Svezia e Norvegia). «Popolari tradizioni sopra i giganti si sono un tempo sparse in molti altri paesi; ma esse hanno dovuto aver più facilmente origine nei paesi scandinavi che altrove. Imperciocchè quivi si trovano, anche ai dì nostri, uomini della più alta statura, e se ne incontra in alcune provincie della Norvegia di quelli che in altri paesi sarebbero reputati giganti. Il vigore e la forza sono parimente gli attributi di questa schiatta, riguardevole p. l’alta statura. Fin dalla prima fanciullezza i Norvegi sotto un cielo severo si avvezzano agli stenti e alle fatiche.» – «La Norvegia. Articolo compendiato dall’opera inti5 Ivi, p. 463 = OM Damiani, p. 244 = OM Galimberti, p. 566 = OM Melosi, p. 625 = Casti 1802, t. 1, p. 388 (in realtà manca l’indicazione della pagina, ma la nota si trova in calce al volume, a seguito della p. 387, l’ultima a essere numerata). Nella strofe lxiii cui è appesa la nota, Casti scrive: «Molti de i grossi bestìon s’uniro / All’Elefante e feron causa insieme: / Il Cabìai, l’American Tapiro, / Il gran Mammut, di cui s’estinse il seme, / Ed altri, che per mole o per figura / All’Elefante avvicinò natura.» (ivi, p. 366). 6 Vita abbozzata di Silvio Sarno, § 1, in SFA, p. 45.
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tolata Histoire des Révolutions de Norvêge suivie du tableau de l’état actuel de ce pays, et de ses rapports avec la Suède, par J. P. G. Catteau-Calleville, chev. de l’Étoile polaire etc. Paris, Pillet, 1818» – nel Raccoglitore di Milano vol. 1, p. 7. «Nessuna cosa in queste riunioni» (conversazioni in casa del presidente del Congresso Americano in Washington) «impegnò tanto la mia attenzione quanto la straordinaria statura della maggior parte dei membri degli Stati occidentali; la camera pareva piena di giganti, tra cui gli uomini moderatamente alti apparivano come pigmei. Io non so bene a che debba attribuirsi questa differenza, ma la sorprendente altezza a cui crescono gli abitanti degli Stati» (Uniti) «occidentali è argomento di maraviglia a quelli degli Stati orientali, ed a quelli della linea della costa generalmente. Le sole persone che potessero paragonarsi con questi Golia dell’occidente, erano sei capi Indiani che venivano dalla Georgia; essendosi recati a Washington per pubblici negozi, essi erano stati presentati alla conversazione del Sig. Madisson» (presid. del Congresso). «Questi avevano un’apparenza di vigor muscolare superiore ancora a quella degli Americani; e nell’atto che io gli stava riguardando, mi tornava in pensiero la prodezza di que’ cavalieri antichi, la cui sola forza bastava p. contenere un esercito, e che costringevano tutta Troia a ritirarsi.» – «Viaggio nel Canadà e negli Stati Uniti fatto nel 1816 e 1817 da Francesco Hall, luogotenente nel 14° reggimento Dragoni leggieri. Londra 1818, in 8.» Passo tradotto e riportato nel Raccoglitore di Milano, vol. 1. p. 135-67.
Il secondo dato ritornante nell’intero campione selezionato concerne il solo Al Dialogo del Cavallo e del Bue, ed è l’assenza di un serio tentativo, da parte degli editori, di aiutare il lettore nel dedalo dei numerosissimi rinvii bibliografici via via snocciolati da Leopardi in questa sede. La lacuna editoriale è piuttosto vistosa, dacché si risolve, in concreto, nel silenzio sul reale contenuto dei testi cui il poeta si richiama nel corso delle annotazioni. Ad esempio: che cosa ha attratto l’attenzione di Giacomo nel De mirabilibus di Flegonte di Tralles, o nella “Dissertazione sui Cinesi” associata al nome di Antoine-Yves Goguet? È questa una domanda (tra le tante) cui il campione di edizioni esaminate non dà alcuna risposta. In questo libro proverò a colmare la detta lacuna, con l’obiettivo dichiarato di delineare criticamente tanto la vicenda compositiva dei documenti siglati [c] quanto, più in generale, il posto occupato dagli abbozzi [a] e [b] dei Dialoghi tra due bestie nel complesso dell’opera leopardiana. 7 OM, pp. 465-466 = «Il Raccoglitore», 1819, vol. 1, pp. 7 (dall’art. La Norvegia) e 135-136 (dall’art. Travels, ecc.).
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2. il problema della data dei dialoghi tra due bestie
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Tornare a interrogarsi sulla datazione orientativa dei Dialoghi e dei materiali di lavoro afferenti è un primo passo in questa direzione. Sul punto gli editori del campione che stiamo esaminando prendono strade divergenti. Nell’edizione a sua cura, Laura Melosi sceglie di seguire da vicino le indicazioni della lettera leopardiana del 4 settembre 1820: non solleva obiezioni a proposito della veridicità della confessione epistolare resa a Giordani, e dunque non esita ad assegnare i Dialoghi tra due bestie, assieme alle altre prosette satiriche (i due dialoghi Filosofo greco, Murco senatore romano, popolo romano, congiuranti e Galantuomo e Mondo; la novella Senofonte e Niccolò Machiavello), all’estate del 18208. L’editrice però non si pronuncia a proposito dei documenti [c], [d] ed [e], che pure inserisce a corredo dei Dialoghi. A suo tempo, invece, Ottavio Besomi non aveva trovato elementi precisi per collocare la stesura dei Dialoghi tra due bestie nell’estate del 1820, e dunque per confermare senza tema di smentita la notizia offerta dalla lettera leopardiana. Con la dovuta cautela, l’editore ne propose una datazione indicativa al 1820-1821, in seguito accettata con riserva da quasi tutti gli altri editori9. Possiamo riassumere i punti salienti della struttura dell’argomentazione di Besomi nel modo seguente10. 1) Innanzitutto, l’analisi autoptica degli abbozzi [a] e [b] suggerì all’editore che essi sono coevi. 2) In seguito, aiutandosi con le date degli appunti di lettura riversati nello Zibaldone di pensieri, egli ricondusse orientativamente al 18201821 i primi paragrafi de Al Dialogo del Cavallo e del Bue. Vale a dire, i capoversi in cui sono registrate le annotazioni che Giacomo desume dall’Historia Romana di Velleio Patercolo e dall’Epitome Rerum Romanarum di Lucio Anneo Floro. 3) Infine, notò l’affinità tra il contenuto di tali brani estratti da Velleio e Floro e una sentenza del finale di Cavallo e Toro. Ivi Leopardi concentra l’attenzione sulla statura e la vigoria degli antichi Germani e Galli: 8 Cfr.
OM Melosi, p. 8. Cfr. ad esempio OM Damiani, p. 1374; OM Galimberti, p. 555; o ancora OM Panizza, p. 266. Con la proposta di Ottavio Besomi veniva soppiantata la datazione dei Dialoghi al 1822-1824, avanzata in precedenza dagli editori degli Scritti vari e inediti e da Alessandro Donati: cfr. OM, p. 458. 10 Anche per l’ipotesi di datazione proposta da Besomi si dovrà vedere il cappello introduttivo ai Dialoghi tra due bestie: cfr. ivi, pp. 457-458. 9
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Si potrebbe anche fare un altro Dialogo tra un moderno e l’ombra gigantesca (dico gigantesca perchè gli uomini in natura erano certo assai più grandi e robusti del presente come si sa degli antichi Germani e Galli) di qualcuno vissuto naturalm. e prima della civilizzazione […]11.
4) L’affinità spinse Besomi a ipotizzare che anche gli abbozzi [a] e [b] potessero essere ragionevolmente ricondotti al 1820-1821. 5) Quest’ultima congettura gli parve avvalorata da un ulteriore riscontro: le tematiche dei Dialoghi tra due bestie concordano con i propositi del disegno sui «Dialoghi Satirici alla maniera di Luciano», che a suo parere (ma non è dato sapere per quale motivo)12 sono «da collocare tra 1820 e 1821».
11 Ivi, 12 Cfr.
p. 460, rr. 43-46. Sangirardi 2000, p. 27 nota 2.
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3. Dialoghi tra due bestie: un’ipotesi di datazione
È bene dichiarare sin da ora che, per elaborare un’ipotesi credibile di datazione dei due Dialoghi tra due bestie, non intendo discostarmi troppo dalle proposte elaborate e discusse da Ottavio Besomi. Le prenderò, anzi, come sponda dialettica utile a sospingere ulteriormente l’approfondimento critico – insomma, come punto di riferimento ineludibile, e meritevole, semmai, di ulteriori specificazioni e di opportune precisazioni. Cominciamo da queste ultime, dacché mi pare che nel limpido ragionamento svolto dall’editore ci siano due punti deboli. Il primo è di ordine logico, e concerne il punto 4: Besomi inferisce la datazione orientativa di Cavallo e Toro sulla base della datazione dei primi capoversi de Al Dialogo del Cavallo e del Bue ([c]datazione → [a]datazione). Credo che tale procedura argomentativa possa essere considerata lecita solo a patto che si sia già dimostrato che la compilazione de Al Dialogo del Cavallo e del Bue ha giocato un ruolo attivo nella stesura di Cavallo e Toro. Sta di fatto, però, che è proprio questo il punctum dolens dei cartafacci dei Dialoghi tra due bestie: non sembra possibile provare che la vicenda compositiva di [c] abbia in qualche modo interagito con quella di [a], o con quella del coevo [b]. Detto altrimenti: nulla ci assicura che ne Al Dialogo del Cavallo e del Bue siano conservati i materiali preparatori degli abbozzi dialogici. Sul punto delle relazioni che intercorrono tra gli abbozzi [a] e [b] e Al Dialogo [c] abbiamo a disposizione un’unica evidenza incontrovertibile: la dipendenza meramente logica che fa di [c] un annesso di [b]. Essa certamente ci aiuta a ipotizzare quali potessero essere gli obiettivi che presumibilmente guidarono Leopardi nella compilazione de Al Dialogo del Cavallo e del Bue. Però non aggiunge nulla a proposito del concreto svolgimento empirico delle vicende com-
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positive dei documenti in questione. Né ci autorizza a escludere la possibilità che Leopardi abbia cominciato a compilare Al Dialogo del Cavallo e del Bue solo dopo aver steso gli abbozzi [a] e [b], senza ritoccarli ulteriormente: ad esempio, per amplificare punti e temi già emersi in Cavallo e Bue; o ancora, per raccogliere pezze d’appoggio utili a un’eventuale messa a punto definitiva della prosetta. Va da sé che, in quest’ultimo caso, sarebbe vano ogni tentativo di inferire la cronologia di [a] e [b] a partire da quella di [c]. Restiamo ancora nel campo delle ipotesi elaborate da Besomi, e stavolta sostiamo sull’altro punto debole, quello di ordine empirico, relativo al punto 3 del suo ragionamento. L’editore ha buon gioco nel cogliere l’affinità tra le «osservazioni sulla statura e la forza dei Galli e dei Germani» che Leopardi registra ne Al Dialogo del Cavallo e del Bue (raccogliendole da Velleio e Floro) e l’allusione del finale di Cavallo e Toro agli antichi Galli e Germani. Al contempo, però, sottovaluta un dettaglio dirimente. In quel medesimo finale di Cavallo e Toro Leopardi scrive en passant, ma a chiare lettere, che la statura poderosa e la grande vigoria degli antichi Galli e Germani sono cosa nota: «[s]i sa». Leopardi non mentiva affatto quando rimarcava il carattere topico di questa notizia, nella quale si era imbattuto a più riprese nel corso dei suoi studi. Per quanto concerne il versante gallico della questione, è necessario tenere a mente che chi stende Cavallo e Toro è la stessa persona che, qualche anno prima, aveva volgarizzato i Frammenti di Dionigi d’Alicarnasso (1816-1817) editi da Angelo Mai1, e si era confrontato con le parole che Dionigi dedicava a taluni giganti Celti e Galli nel libro xiv delle Antichità romane2. 1 Non si dimentichi che nel corso dell’impresa traduttiva Leopardi aveva duellato strenuamente con Bernardo Davanzati volgarizzatore di Tacito, e che proprio lo storico romano aveva ragionato a lungo sulle tribù germaniche in un’importante opera a carattere etnografico: il De origine et situ Germanorum. Nel suo commento ai frammenti di Dionigi d’Alicarnasso, Angelo Mai la richiama una volta: cfr. Dionigi di Alicarnasso 1816, p. 43 nota (i). Sul volgarizzamento leopardiano di Dionigi cfr. Camarotto 2016, pp. 131-183. 2 Cfr. Opere inedite, vol. 1, p. 503: «Tutta insieme [la Gallia] da’ Greci è detta Celtica, secondo alcuni perchè regnovvi un gigante Celto, secondo altri perchè (novellano) Ercole ed Asterope Atlantide ebber due figli, Ibero e Celto, che ai luoghi per loro signoreggiati diedero ciascuno suo nome»; p. 508: «Avea ’l Gallo sterminata corporatura molto sopra l’ordinaria». Gli originali greci da cui Leopardi parte per volgarizzare i due passaggi si leggono in Dionigi di Alicarnasso 1816, rispettivamente pp. 43 e 62.
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3. dialoghi tra due bestie: un’ipotesi di datazione
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Per quanto concerne i Germani, è opportuno retrocedere ulteriormente di un paio d’anni, e concentrare l’attenzione sul capo xv del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815), dedicato a Pigmei e Giganti. Dovremo analizzarlo nel dettaglio più avanti (cfr. cap. 5); nel frattempo, però, possiamo anticipare qualcosa in merito al comportamento assunto da Leopardi per l’occasione. Giacomo plasma la brevissima relazione sui giganti adoperando un puro concentrato di esibizionismo e reticenza. Da una parte, non esita a far presente al lettore che conosce bene la Dissertazione sopra i Giganti di Augustin Calmet; dall’altra, ne richiama solo la conclusione («la esistenza dei Giganti è un fatto fuor di dubbio»), limitandosi ad accennare al fatto che lo studioso vi giunge «dopo aver discusso a lungo». Il lettore avrebbe voluto sapere che tale lunga discussione di Calmet altro non è che un diffuso esame del nutrito ventaglio di autori (sacri e profani) che trattarono di antichi giganti. E ancora, che tra i detti autori figura lo storico Lucio Anneo Floro, il quale nell’Epitome Rerum Romanarum si era soffermato su Teutono, re di due tribù germaniche – i Teutoni e i Cimbri3. In fin dei conti, gli antichi Galli di Dionigi, e gli antichi Germani del Floro menzionato da Calmet, sono sufficienti a sorreggere la sentenza del finale di Cavallo e Toro: «gli uomini in natura erano certo assai più grandi e robusti del presente come si sa degli antichi Germani e Galli». Leopardi non aveva bisogno di leggere distesamente Velleio e Floro per saperlo. Sospingiamo ulteriormente l’approfondimento critico sui Dialoghi tra due bestie, e torniamo a domandarci quando potrebbe essere stato steso il primo dei due, il dialogo Cavallo e Toro. Il condizionale è d’obbligo: come rimarcava correttamente Besomi, pare proprio che manchino «elementi precisi» per collocare una volta per tutte la stesura degli abbozzi «nell’agosto del ’20». Ciò non toglie che abbiamo a disposizione almeno tre indizi, in forza dei quali possiamo quantomeno avvicinare i Dialoghi all’estate di quell’anno. I primi due li raccogliamo da Z 163-164, il terzo da Z 216. Cominciamo dal primo indizio. In Z 163-164, pensiero datato 11 luglio 1820, Leopardi individua per la prima volta, ed esplicitamente, un nesso causale tra la corruzione morale («la depravazione de’ 3 Calmet
1741-1750, t. 1, p. 60, con rinvio a «Florus l. 2. c. 11.».
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costumi»), il progressivo indebolimento del corpo umano («infiacchimento corporale») e la grande mutazione «del mondo e dell’animo e cuore umano», che separa irreversibilmente l’antico dal moderno. A tutti gli effetti, si tratta della medesima struttura concettuale, e della medesima ottica comparativa, con le quali prende avvio Al Dialogo del Cavallo e del Bue. La coincidenza tra il passaggio dello Zibaldone e l’incipit di [c] si estende persino al piano lessicale, arrivando a coinvolgere interi sintagmi ritornanti: Z 163-164
Io riguardo l’indebolimento corporale delle generazioni umane, come l’una delle principali cause del gran cangiamento del mondo e dell’animo e cuore umano dall’antico al moderno. Così anche della barbarie de’ secoli di mezzo, stante la depravazione de’ costumi sotto i primi imperatori e in seguito, la quale è certa cagione d’infiacchimento corporale, come appresso i Persiani divenuti fiacchissimi (e perciò barbari e privi di libertà) per la depravazione degli antichi costumi e istituti che li rendevano vigorosissimi. V. la Ciroped. cap. ult. art. 5. e segg. sino al fine. (c.vi miei)
Al Dialogo
Si può far derivare l’estinzione della specie umana dalla sua corruzione, effetto ben probabile anche in filosofia considerando l’indebolimento delle generazioni, e paragonando la durata della vita, e la statura, il vigore ec. degli uomini moderni con quello degli antichi. E così rispetto ai cangiamenti dell’animo e dello spirito, alle sventure derivatene, al mal essere politico, corporale, morale, spirituale che cagionano. ec4. (c.vi miei)
Si potrebbe obiettare che la sovrapponibilità di questi due brani è solo apparente, dal momento che nell’avvio de Al Dialogo del Cavallo e del Bue Leopardi non esplicita affatto la precisa accezione del termine “corruzione” – e dunque, che non è lecito ricondurre il vocabolo univocamente all’ambito della morale e dei costumi evocati nello Zibaldone. Epperò così facendo si ometterebbe un dato capitale: la carta della corruzione morale, intesa come causa di indebolimento corporeo, è da Leopardi giocata proprio sul tavolo della prosetta cui 4 OM,
p. 463, rr. 136-142.
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3. dialoghi tra due bestie: un’ipotesi di datazione
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[c] direttamente si ricollega, vale a dire in Cavallo e Bue. Ciò si verifica nel passaggio «in proposito degli animali perduti» (cioè ‘estinti’) con il quale essa si chiude. Gli uomini, dice qui Cavallo, «da principio erano molto più forti e grandi e corputi e di più lunga vita che dopo, che a forza di vizi s’indebolirono e impiccolirono»5 (c.vi miei). Va da sé che tali «vizi» evocati da Cavallo difficilmente indicheranno altra cosa rispetto alla «depravazione de’ costumi» messa a tema da Leopardi nello Zibaldone. Abbracciando con un colpo d’occhio i tre documenti che qui abbiamo chiamato in causa – Z 163-164, il passaggio sugli «animali perduti» di Cavallo e Bue e l’attacco di Al Dialogo del Cavallo e del Bue – emerge più scopertamente la riproposizione del medesimo nesso causale: la corruzione morale del genere umano ne comporta l’indebolimento corporeo. Alla luce di questo dato ritornante, che è il primo indizio a nostra disposizione, sembra ragionevole concludere che la struttura concettuale dell’attacco di [c] presuppone de facto la riflessione sull’«indebolimento corporale delle generazioni umane» registrata tanto in Z 163-164 quanto in Cavallo e Bue. Cosa tutto ciò abbia a che fare con l’altro abbozzo dialogico, Cavallo e Toro, concerne piuttosto il secondo dei tre indizi cui si faceva riferimento poco sopra. Esso è incastonato nella formula «gran cangiamento» di Z 163-164. Il recanatese scrive: «Io riguardo l’indebolimento corporale delle generazioni umane, come l’una delle principali cause del gran cangiamento del mondo e dell’animo e cuore umano dall’antico al moderno» (c.vi miei). Vale la pena sottolineare che non è certo questa la prima volta che Leopardi adopera la formula. Nella Storia della Astronomia (1813), ad esempio, Giacomo si era occupato di un altro «gran cangiamento» culturale, vale a dire della ‘rivoluzione scientifica’ attuatasi grazie al contributo filosofico offerto da René Descartes6. Per comprendere in che senso, nel 1820, la formula «gran cangiamento» assume valore indiziale, sarà necessario aggiungere un ulteriore dettaglio. Essa occorre solo una volta nello Zibaldone, appunto nel pensiero di Z 163-164, datato 11 luglio 1820; inoltre, ricompare solo una volta nelle prosette satiriche che Leopardi sta abbozzando in quella stessa estate. Ciò accade, precisa5 Ivi,
p. 462, rr. 120-122. p. 278.
6 Astronomia,
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mente, e curiosamente, nella sentenza conclusiva del primo abbozzo dialogico, Cavallo e Toro: Si potrebbe anche fare un altro Dialogo tra un moderno e l’ombra gigantesca (dico gigantesca perchè gli uomini in natura erano certo assai più grandi e robusti del presente come si sa degli antichi Germani e Galli) di qualcuno vissuto naturalm. e prima della civilizzazione e dipingere la sua continua maraviglia nel sentire appoco appoco il gran cangiamento e snaturamento delle cose umane7. (c.vi miei)
Concludiamo la rassegna concentrandoci sul terzo e ultimo indizio disponibile. Lo raccogliamo dall’«iperbole profetica» con la quale si chiude il pensiero di Z 216, datato 18-20 agosto 1820: È da sperare che [le illusioni] durino anche in progresso: ma certo non c’è più dritta strada a quello che ho detto, di questa presente condizione degli uomini, dell’incremento e divulgamento della filosofia da una parte, la quale ci va assottigliando e disperdendo tutto quel poco che ci rimane; e dall’altra parte della mancanza positiva di quasi tutti gli oggetti d’illusione, e della mortificazione reale, uniformità, inattività, nullità ec. di tutta la vita. Le quali cose se ridurranno finalmente gli uomini a perder tutte le illusioni, e le dimenticanze, a perderle per sempre, ed avere avanti gli occhi continuamente e senza intervallo la pura e nuda verità, di questa razza umana non resteranno altro che le ossa, come di altri animali di cui si parlò nel secolo addietro.
Commentando il passaggio, Luigi Blasucci notò giustamente che «[s]i tratta dunque di una sorta di iperbole profetica, di cui il Dialogo tra due bestie [vale a dire Cavallo e Toro] costituisce la letterale messa in scena»8. Proviamo ora a riassumere i dati sinora esposti. 1) Con ogni probabilità, Leopardi progetta il disegno sui «Dialoghi Satirici alla maniera di Luciano» nei primi mesi del 1819, accarezzando il progetto di adoperare interlocutori animali per dare all’Italia un saggio del suo linguaggio comico e satirico. 2) L’anno seguente, nella lettera del 4 settembre 1820, Giacomo annuncia a Giordani di aver da poco abbozzato «certe prosette satiriche». 3) Non abbiamo elementi per 7 OM,
p. 460, rr. 43-48. Blasucci 1998, p. 291. Non seguo lo studioso quando, subito di seguito, aggiunge che «è per questo che sembra ragionevole postulare una priorità cronologica della riflessione zibaldonesca». 8
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3. dialoghi tra due bestie: un’ipotesi di datazione
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smentire tale dichiarazione leopardiana, né per escludere che tra queste prosette vadano collocati gli abbozzi dei Dialoghi tra due bestie. Disponiamo, invece, di almeno un indizio assai circostanziato a favore dell’aggiornamento comunicato a Giordani. La precisa convergenza formulaica che risulta tra l’ultimissima sentenza di Cavallo e Toro e il pensiero dello Zibaldone datato 11 luglio 1820 (Z 163-164) suggerisce che i due passaggi siano contestuali l’uno all’altro, e anzi avvalora e circoscrive l’esplicito riferimento cronologico estivo offerto da Giacomo all’amico, nella lettera settembrina. A corroborare il riferimento cronologico pare cospiri anche l’«iperbole profetica» di Z 216 (18-20 agosto 1820), da mettere in connessione ancora con l’abbozzo dialogico di Cavallo e Toro. 4) Un’ultima risultanza si ricava inequivocabilmente dall’analisi autoptica dei manoscritti: gli abbozzi di Cavallo e Toro e Cavallo e Bue sono coevi, e la loro stesura non deve essersi protratta a lungo nel tempo, vista l’identità dell’inchiostro e del ductus della scrittura, oltre che l’assenza di revisioni sostanziali. 5) Sul punto della cronologia degli abbozzi [a] e [b] non pare che Al Dialogo del Cavallo e del Bue possa soccorrerci in qualche modo, dal momento che non si può stabilire con certezza se la compilazione di quest’ultimo abbia effettivamente interagito con l’elaborazione delle prosette. Se il ragionamento svolto sin qui è corretto, si può fondatamente congetturare che: 1) la stesura di entrambi gli abbozzi dei Dialoghi tra due bestie ([a] e [b]) risale all’estate 1820; 2) ne Al Dialogo del Cavallo e del Bue ([c]) sono conservati non i materiali preparatori degli abbozzi dialogici, ma le annotazioni che Leopardi registrò dopo la prima stesura dell’abbozzo dialogico. Torneremo più avanti ad affrontare lo spinoso problema della datazione dei documenti siglati [c], intitolati Al Dialogo del Cavallo e del Bue. Per ora lasciamoli da parte; piuttosto preoccupiamoci di individuare con attenzione il posto che i Dialoghi occupano nel complesso dell’opera leopardiana. Per fare ciò, saremo obbligati a ripercorrere le tappe di una lunga e vischiosa storia, che affonda le proprie radici nella Storia della Astronomia (1813).
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4. I “Patriarchi antediluviani”, il Diluvio e Qajin (1813)
Nel mezzo della sezione che consacra alle conoscenze astronomiche degli Egizi, il compilatore della Storia della Astronomia si lancia in un’interessante e «lunga digressione»1 sulla quale dobbiamo soffermarci, dacché ad oggi non ha ancora ricevuto tutta l’attenzione che merita. Essa tocca due questioni storicamente assai dibattute: la durata dell’anno solare antediluviano e la «singolar lunghezza della vita degli antichi», in particolare «degli uomini antidiluviani». Quando giunge a toccare il secondo argomento, la longevità degli antichissimi, Leopardi dà prova di sapere che le due questioni non sono propriamente irrelate: Evvi chi si avvisa di dimostrare, che gli anni antidiluviani non aveano in alcun modo la lunghezza nemmen somigliante appresso a poco a quella che hanno gli anni al presente. Fondamento di tale opinione si è il numero sterminato di anni, che, al rapporto di Mosè, formavano la vita degli uomini antidiluviani2.
Il «rapporto di Mosè» evocato en passant dal recanatese altro non è che «la genealogia di Noè, e la cronologia del mondo dalla sua creazione sino al Diluvio» tracciate nel quarto, quinto e sesto capitolo del Genesi. «Comprende dunque questo capo [il quinto del Genesi] la storia dei dieci Patriarchi della linea di Seth, che furono e diconsi Antediluviani, perchè ci vissero innanzi al Diluvio»3. Sono le parole con cui il gesuita Giovanni Granelli introduce l’argomen1 La
definizione è leopardiana: cfr. Astronomia, p. 78. p. 76. 3 Granelli 1792-1793, t. 2, p. 53. I dieci Patriarchi antediluviani sono, in ordine cronologico: Adamo, Seth, Enosh, Qenan, Malaleel, Yared, Enoch, Matusalemme, Lamech, Noè. 2 Ivi,
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to della xxxv lezione de L’Istoria Santa dell’Antico Testamento, che Leopardi decise di prendere a modello per redigere la prima parte della relazione sulla lunga vita degli antichissimi4. Con il piglio da library-cormorant5 (‘cormorano di biblioteca’) che lo contraddistinse per tutta la vita, Giacomo inseguì da vicino il gesuita genovese attraverso la trama argomentativa della lezione scritturale, e anche nel fitto comparto delle note poste a piè di pagina. Molte di quelle il quindicenne le incorporò di sana pianta nelle note della sua Astronomia; altre, invece, le utilizzò come bussola per ricontrolli occasionali su edizioni che effettivamente possedeva in Biblioteca. Un sommario confronto tra la lezione scritturale di Granelli e la prima parte della relazione leopardiana spinse a suo tempo Alberto Sana, l’unico esegeta che se ne è occupato, ad arguire che questa prima parte dipende quasi esclusivamente dalla lezione scritturale del gesuita6. Adoperando la lente d’ingrandimento sul testo, e le relative annotazioni leopardiane, potremo invece raccogliere un pugno di indizi utili a convincerci che la vicenda composizionale della relazione fu, verosimilmente, un po’ più complicata di così. 4 La prima parte della relazione sui longevi antichissimi si estende dal passaggio sopra citato, cominciante con «Evvi chi si avvisa di dimostrare», sino al cenno di Plinio sul «censo fatto ai suoi giorni in Italia dai due Cesari Vespasiani» (Astronomia, pp. 76-77). La seconda parte si concentra dapprima sui Μακρόβιοι (o longaevi, ‘dalla lunga vita’) di Luciano di Samosata, poi sui longevi dei «nostri giorni» (ivi, pp. 77-78, da «Luciano Samosatense nell’opuscolo a Quintillo» sino a «in Valachia un uomo di 190 anni»). Sulle fonti della seconda parte della relazione cfr. Appendice ii. 5 La celebre formula risale a S.T. Coleridge: cfr. la lettera del 19 novembre 1796 a John Thelwall, in CL 1951-1971, vol. 1, p. 260. 6 Sana 2000, p. 225: «La sezione procede più spedita alle pp. 603b-604b, giacché il riferimento costante è quasi sempre la lezione xxxv (sugli anni antediluviani) della Istoria Santa di Granelli, con qualche inserto dalla Storia Universale […]. Mi rimangono ignote le fonti da cui Leopardi attinge le ultime notizie della sezione […]». A proposito di queste ultime cfr. almeno le indicazioni sommarie fornite nell’Appendice ii. Per quanto concerne la Storia universale, si dovrà fare attenzione al fatto che Leopardi si limita a ricontrollarla su indicazione di Granelli: è lo stesso Granelli, difatti, a dichiarare la propria dipendenza dalla Storia, con precisi rinvii posti in nota. Ciò accade, ad esempio, nel passaggio in cui il gesuita si occupa dei testimoni della lunghezza prodigiosa della vita degli antichissimi, da Giuseppe Flavio a Esiodo (cfr. Appendice ii). Non solo la trama argomentativa, ma pure la buona parte dei rinvii bibliografici che gli autori inglesi inseriscono tra le note del brano in questione vengono trapiantate di netto nell’Istoria Santa da Granelli e dunque travasate nell’Astronomia da Leopardi. Cfr. Storia universale 1765-1821, t. 1, p. 172 = Granelli 1792-1793, t. 2, p. 56 = Astronomia, pp. 76-77. Si aggiunga che quel medesimo brano della Storia è ripreso anche da Niccolai 1781-1782, t. 3, p. 223.
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4. i “patriarchi antediluviani”, il diluvio e qajin (1813)
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Procediamo con ordine. Innanzitutto, non pare difficile indovinare cosa abbia spinto Leopardi a svolgere una piccola ricerca personale sui temi del Diluvio e della durata degli anni antidiluviani. Lo si può comprendere guardando al passaggio che introduce, a mo’ di cappello, la prima parte della relazione leopardiana: «Dubita il Carli col Weidler che a’ tempi antichissimi di 360 giorni fosse infatti il vero anno solare, e che poi per una rivoluzione del globo, chiamata Diluvio dal Weidler, siasi accresciuta la forza di proiezione della terra»7. Si tratta di una copia appena variata di un passaggio delle Lettere americane nel quale l’istriano Gianrinaldo Carli riflette sull’impatto catastrofico planetario del «Diluvio»8. Il Diluvio, soggetto poetico caro al Leopardi puerile (Il Diluvio Universale, 1810)9, è appunto una delle principali “quistioni” poste dal rapporto mosaico del Genesi. Leopardi sapeva bene in che modo avrebbe potuto informarsi sul punto: compulsando, in primissima istanza, i volumi di “lezioni morali”, “scritturali” o “sacre” nei quali tali “quistioni” vengono a lungo sviscerate. Quei volumi sono tuttora ospitati nella Biblioteca di Monaldo, e Giacomo aveva imparato a servirsene già al tempo dei suoi primi studi, e delle sue prove poetiche e prosastiche puerili10. Abbiamo già visto che Leopardi si è tenuto vicino alla xxxv lezione de L’Istoria Santa di Granelli, nella quale «[t]rattasi la quistione della misura degli anni antediluviani, e spiegasi la cronologia di Mosè dalla creazione del mondo sino al Diluvio». Ora dovremo chiederci se ha intrapreso anche altri percorsi bibliografici pertinenti al dettato di Gen. 5, e se questi affiorano in qualche modo dall’Astronomia. La risposta pare affermativa. Innanzitutto, sappiamo che nell’Astronomia Giacomo si richiama esplicitamente, per ben 5 volte, alle 7 Astronomia,
p. 76. 1784-1794, t. 12, p. 294. 9 EDG, pp. 303-307. 10 Il riferimento va soprattutto all’Istoria Santa di Granelli e alle Lezioni sacre di Roberti 1789-1794, tt. 13-14. Per l’incidenza di questi titoli sulle primissime prove leopardiane si veda almeno EDG, pp. 19, 75, 210-211 e 331-332 per Granelli; pp. 20, 332 e 408 per Roberti. Non è possibile diffondersi in questa sede sulle consonanze tra le Dissertazioni di Niccolai e la leopardiana Sopra l’anima delle bestie, peraltro non rilevate nell’edizione delle Dissertazioni leopardiane a cura di Tatiana Crivelli. Mi limito qui a rinviare il lettore alla lezione xiii che si legge in Niccolai 1781-1782, t. 2, pp. 194 sgg. Del supporto fornito da Niccolai per la stesura della Storia della Astronomia – ove Leopardi rinvia esplicitamente ai tomi 1-5, 7-8 e 13 delle Dissertazioni – si occupa Sana 2000, pp. 227, 242 e 243. 8 Carli
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Questioni della Lezione xxxvii del Genesi del gesuita lucchese Alfonso Niccolai, seppure nessuno di tali richiami espliciti compare nella relazione leopardiana che stiamo esaminando11. Ma c’è di più. Se ci concediamo di transitare dall’esplicito al dominio del non detto, e rovistiamo nel paratesto della relazione sui longevi antichissimi, avremo modo di intercettare almeno un altro rinvio interessante. Puntiamo l’attenzione sui riferimenti bibliografici che, nelle note, Giacomo associa al brano della relazione in cui riassume le tesi avanzate da Thomas Burnet e Samuel Shuckford a proposito dell’impatto geologico del Diluvio: «Archeol. Sac. ii. 3.»; «Hist. to. i. pref.»12. Senza possibilità di errore, questa coppia di rinvii (a testi che il recanatese non possedeva) è presa di peso dalla iv Dissertazione proemiale contenuta nel primo tomo delle Dissertazioni e lezioni di Sacra Scrittura di Niccolai13. Il dato è davvero importante per la ricerca che stiamo portando avanti. Dobbiamo sapere, difatti, che è lo stesso gesuita a preoccuparsi di rinviare il lettore a quella «cronologica Dissertazione», e lo fa con un rimando interno presente più volte nella Lezione xxxvi del Genesi14. Ivi, per l’appunto, si occupa da vicino degli anni antediluviani, e della lunga vita degli antichissimi. Ciò che ci interessa qui sapere è che entrambe le lezioni che abbiamo richiamato, la xxxvii e la xxxvi, insistono sul testo di Gen. 5, e sono dedicate alle questioni correlate al tema dei Patriarchi. Da quanto appena detto si può ragionevolmente concludere che Leopardi, deciso a informarsi sulle questioni suscitate dal dettato scritturale di Gen. 5, non abbia consultato solo l’Istoria Santa di Granelli, ma abbia compulsato anche il terzo tomo delle Dissertazioni di Niccolai. E che solo in un secondo tempo, quando ha dovuto concretamente procedere a selezionare i materiali utili alla stesura della relazione, abbia deciso di eleggere Granelli a propria stella polare: l’Istoria Santa è difatti l’unica fonte “scritturale” di cui rimane traccia esplicita nella relazione dell’Astronomia che stiamo esami11 La lezione xxxvii prende a tema le cognizioni astronomiche del Patriarca Seth. Per gli espliciti richiami leopardiani a questa lezione cfr. Astronomia, pp. 111 note 18 e 23; 124 nota 473; 125 nota 533; 126 nota 550. 12 Ivi, p. 120 note 333-334. 13 Niccolai 1781-1782, t. 1, p. 117 note 1-2. Le opere richiamate sono l’Archeologia Sacra di Thomas Burnet e il The Sacred and Profane History of the World Connected di Samuel Shuckford. 14 Cfr. ivi, t. 3, note alle pp. 207, 222, 223 e 231.
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nando. Non è improbabile che la scelta del recanatese abbia avuto una motivazione operativa, e che Giacomo abbia preferito l’asciutto e stringato Granelli allo strabordante Niccolai. Basteranno due soli esempi per chiarire questo punto. Innanzitutto, nella Lezione xxxvi di Niccolai il tema della lunga vita degli antediluviani è agganciato solo dopo ben 17 pagine di testo, nelle quali il lucchese delinea minuziosamente il profilo della prima età del mondo, senza punto rinunciare a diffondersi su numerosi argomenti – la forma di governo (sulla scorta dei teorici del diritto naturale, e pure di Montesquieu), la comunanza di beni, le arti, e così via. Inoltre Granelli, a differenza di Niccolai, rinuncia a soffermarsi sui longevi non israelitici. Nell’Istoria Santa non si fa parola dei «Popoli Iperborei» menzionati da Pindaro e Strabone, né dell’epigramma sepolcrale del pentamillenario Macrosiride; di conseguenza, nell’Astronomia Leopardi rimane silente sul tema. Il recanatese, però, si riserverà di tornare sugli Iperborei già nelle Osservazioni Sulle Opere di Esichio Milesio (1814), giusto un anno dopo aver compilato la relazione sui longevi antichissimi. E quando riprenderà a parlarne, dieci anni più tardi, durante la stesura del Dialogo di un Fisico e di un Metafisico (1824), si gioverà esplicitamente, e direi non casualmente, proprio della Lezione xxxvi del Genesi di Niccolai15. Dovremo riparlarne con agio più avanti (cfr. cap. 12). Concentriamoci ora sulla “quistione” della longevità dell’uomo antediluviano, e sottolineiamo il fatto che tra l’Istoria Santa e le Dissertazioni si registrano divergenze anche sul piano meramente teoretico. Granelli e Niccolai, va da sé, sono entrambi restii a mettere in discussione il dettato del Genesi sulla lunga vita degli antichissimi. Però non concordano sulle condizioni che resero possibile quella longevità. Il lettore dell’Astronomia non può vedere questa dissonanza, perché Leopardi opta per silenziare i contendenti, e finisce per sorvolare sull’intera questione: «Quali poi fossero le cagioni, per le quali giungevano gli antidiluviani a sì lunga età, non è 15 Per gli Iperborei dell’Esichio Milesio il riferimento va alla piccola ricerca leopardiana svolta sul poema Arimaspea di Aristea di Proconneso: Opere inedite, vol. 1, pp. 283286. Ivi, la chiusa sul «popolo degli Iperborei» è inserita sul fondamento delle indicazioni di Johann Potter in Clemente Alessandrino 1757, p. 642 nota 6 (citato nella nota 4 da Leopardi stesso). Per gli Iperborei del Fisico e Metafisico cfr. il richiamo a Niccolai in OM, p. 438, [X], lett. [h], ove si legga «p. 223.» e non «p. 233.».
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del nostro intento il ricercare»16. Fatto sta che Granelli non dubita che «la misura degli anni» antediluviani non fosse la stessa che la presente, e crede verosimile che gli antichissimi vivessero per la «lunghezza […] prodigiosa» di quasi mille anni. E questo non solo per speciale provvidenza divina, ma anche per «naturali cagioni», quali la complessione vigorosa e l’alimentazione degli antediluviani, e l’aria salubre del mondo primevo17. È stato il Diluvio a «muta[r] faccia alle cose» – scrive il gesuita, valendosi di una formula dal tenore smaccatamente geologico, frequente tra i naturalisti, e per nulla estranea a Leopardi18. Il Diluvio ha provocato non solo «l’alterazione totale» della situazione terrestre, ma anche l’indebolimento delle generazioni.19 Granelli insiste con molta convinzione sugli effetti catastrofici provocati dal Diluvio, anzi vi insiste più di quanto non faccia la Storia universale dal principio del Mondo sino al presente, che Niccolai riproduce ad litteram20. Il motivo è semplice: Granelli non fa che avallare, drammatizzare, e compendiare in poche e incisive frasi la sostanza di una precisa storia del mondo: quella dispiegata da Thomas Burnet nella Telluris theoria sacra (1684). Proprio tale storia, invece, è l’obiettivo polemico tanto della Storia universale quanto di Niccolai; anche questi ultimi procedono a illustrarla, però esclusivamente con l’intento di smentirla. 16 Astronomia,
p. 77. 1792-1793, t. 2, p. 57. 18 Ne Les époques de la nature (1778) Buffon la usa, ad esempio, a proposito delle rivoluzioni del globo causate dal riflusso delle acque che coprivano buona parte delle terre emerse (Buffon 1782-1791, t. 3, p. 205: «e in conseguenza di tali rivoluzioni si cangiò del tutto la prima faccia della Terra»), ma anche per indicare i cambiamenti del paesaggio portati dallo sviluppo delle arti (ivi, p. 433: «La faccia d’un paese può essere interamente trasformata dalla coltura»). La «faccia intera dell’Universo» (ivi, p. 4) o «del globo» (ivi, p. 275) o «della Terra» (ivi, p. 405) o «d’un paese» (ivi, p. 433) sono diverse declinazioni di un’unica immagine, quella del “Volto della Natura”. Anche nello Spettacolo della natura di Pluche il Diluvio, e le rivoluzioni che ne seguirono, mutarono il volto della natura. Cfr. il dialogo Le cave delle pietre preziose, e ordinarie, in Pluche 1786, t. 6, p. 114: «O sia, che al tempo del Diluvio sia nato un terremoto universale, che abbia fatto cangiar faccia a tutta la terra […]». Per quanto attiene all’uso della formula da parte di Leopardi cfr. ad esempio Z 1857 (5-6 ottobre 1821): «Ma Cartesio, Galileo, Newton, Locke ec. hanno veram. mutato faccia alla filosofia». 19 Granelli 1792-1793, t. 2, p. 58. 20 Il dubbio sollevato da Storia universale 1765-1821, t. 1, p. 174: («Ma non è pertanto agevole ad intendere, come abbia potuto il Diluvio indurre nell’aere simigliante cambiamento»), con quel che segue, ritorna pressoché invariato in Niccolai 1781-1782, t. 3, p. 225 (cfr. poco più avanti per la citazione). 17 Granelli
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Nella visione tragica di Burnet il Diluvio giunge a sconvolgere quel perfetto, sferico e invariante Paradiso Terrestre che coincide con il mondo organizzato dalla parola divina – e assomiglia non poco alla prima conformazione data alla Terra da Giove nella Storia del genere umano (1824). A mano a mano che le acque del Diluvio rientrano entro il grande abisso dal quale sono scaturite, l’universo assume l’aspetto di un mondo rugoso, «lying in its rubbish» (‘che giace nelle sue macerie’), in un irreversibile processo di decadimento («dissolution») ritmato dalle variazioni metereologiche, di stagione e di clima21. Nella versione drammatizzata dell’Istoria Santa, il Diluvio ha comportato «un considerabile scadimento nella natura delle cose», un «alteramento e scompiglio aereo» che si riflette inevitabilmente anche «ne’ corpi umani». Esso, insomma, sarebbe non solo l’agente del caos geologico, ma anche, in termini teologici, l’occasione di una nuova caduta (dopo la prima, causata da Adamo): l’aria e la terra ne vengono irrimediabilmente corrotte e guastate, perdendo definitivamente l’originaria «perfezione» o «purità»22. Attraverso la penna dell’autore dell’Istoria Santa sfilano innanzi agli occhi di Leopardi, e prendono vita una volta ancora, «le maledizioni e i miti catastrofici» elaborati dai Padri della Chiesa per «illustrare la triste condizione di tutta la terra dopo la Caduta e dopo il nuovo flagello del Diluvio» – in particolare, «la perdita di vigore della Natura» e «l’instabilità avviata alla decadenza anche del genere umano»23. La lunga durata del mito catastrofico del Diluvio, e della degenerazione universale che esso ha comportato, con o senza peccato originale, è ben più duratura di quanto generalmente non si creda24. E passaggi 21 Burnet 1684, t. 1, pp. 108-110. Per un primo orientamento sulla tragica teoria geologica di Burnet, e sul posto riservato a quest’ultimo nella storia che condusse dal mondo chiuso all’universo infinito, si vedano Rossi 1998a, pp. 340-341, e Rossi 1998b, pp. 763764; cfr. anche Force 2002, pp. 33-37 e il contributo di Rienk Vermij indicato infra, nota 24. 22 Nell’ambito della storia delle letture leopardiane, è forse questo uno dei primissimi esempi in cui assume evidenza palmare il tentativo di naturalizzare (qui, in sede geologica) l’accezione sacrale e teologica del lemma “purità”. In Leopardi il lemma acquista un notevole peso specifico in sede linguistica (63 occorrenze nel solo Zibaldone, a partire da Z 126 giù sino alla pagina 4425) e nell’ambito del rapporto con la pagina a stampa e con il libro. Su quest’ultimo punto cfr. D’Intino 2018. 23 Gerbi 2000, p. 87. 24 Tasselli dell’affascinante e importantissima storia moderna del mito catastrofico del Diluvio sono raccolti ivi, pp. 968-969, s.v. diluvio. L’autore si sofferma, in particolare, sui modi in cui quel mito catastrofico è stato adoperato nel Settecento per spiegare la degrada-
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come questi dell’Istoria Santa di Granelli lo provano senza ombra di dubbio. A ben guardare, nulla di quanto si è appena detto ritorna esplicitamente nella relazione leopardiana dell’Astronomia. Per comprendere il motivo per cui ci siamo comunque soffermati sulla questione, dovremo spostarci dal piano contenutistico a quello lessicale, e registrare le tre voci che dibattono sulla romanzesca storia teologiconaturale elaborata da Burnet. Non sarà difficile accorgersi di un dato singolare. Di fatto, discutendo della catastrofe diluviale, i contendenti snocciolano una copiosa serie di termini e di locuzioni che Leopardi non tarderà a tesaurizzare, e a innestare nel proprio vocabolario antropologico – in particolare, nel proprio lessico della “mutazione”: Granelli
Checchè siasi di ciò, certo che l’aria e la terra fossero guastate molto per lo diluvio, anzi che intieramente per così fatto terribile finimondo fosse mutata faccia alle cose, dubitar non si può da chiunque pensi l’alterazione totale che si fe’ allora di questa macchina ridotta a un caos. Corrotta l’aria, e isterilita ed infetta dal sal marino, […] forza è, che fossero peggiorati di tanto, che sopramodo indebolitine i padri […] (c.vi miei)
Niccolai
ed io non negherò, che nel tempo del diluvio l’aria perdesse alquanto della sua perfezione; benchè col Ray aggiugnerò, non esser facile a concepire, come il diluvio potuto abbia indurre nell’aria una notabile e costante mutazione. (c.vi miei) Il Whiston similmente nella purità dell’aria precedente il diluvio ripone la cercata cagione della lunga vivacità; ma della mutazion sua, e de’ suoi effetti sopra l’umana vita apporta ragioni diverse da quelle del Burnet. (c.vo mio)
zione fisica delle Americhe e dei selvaggi americani. Per intercettare l’importanza del mito del Diluvio per le nascenti teorie geologiche e paleontologiche è importante il contributo di Rossi 1992, al quale si possono aggiungere quelli di Cameron Allen, Rhoda Rappaport, James M. Moore, Stephen Jay Gould raccolti in Dundes 1988, pp. 357-437, e il saggio di Vermij 1998, pp. 150-166. Un utile studio dei modi in cui la prima modernità cinqueseicentesca ha pensato a Fall e Flood (‘Caduta’ e ‘Diluvio’) come agenti della corruzione e della degenerazione universale è in Harris 1966.
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Storia universale
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Ma non è pertanto agevole ad intendere, come abbia potuto il Diluvio indurre nell’aere simigliante cambiamento. (c.vo mio) Il Signor Whiston convien bene col Burnet, e quanto a’ varj stati e temperamenti dell’aere prima e dopo il Diluvio, e quanto agli effetti del nuovo alteramento e scompiglio aereo ridondati ne’ corpi umani, e quanto alle produzioni della Terra notabilmente rendute scarse ed infelici […]. Or quanto si può di ragione da noi bramar su questo argomento, egli è, che l’Autor nostro ne dichiari e divisi, come abbia il Diluvio potuto cagionar mutazioni sì pestifere e triste25. (c.vi miei, ad eccezione dei primi due)
Nei termini, e nelle locuzioni sciorinate da queste tre fonti accessibili a Leopardi, c’è quanto basta per riconoscere almeno i presupposti lessicali di talune scelte traduttive operate dal giovane poeta alle prese con “scene di mutazione del mondo”. Non importa qui se “mutazione” vale ‘cambiamento, modifica’ oppure, più radicalmente, ‘distruzione del mondo (alla fine dell’anno cosmico)’. Interessa, piuttosto, che i volgarizzamenti cui facciamo riferimento, tutti dal greco, cominciano ad affiorare già all’indomani della stesura della relazione che stiamo esaminando: Esichio Milesio
[diceva Eraclito] Essere la mutazione una via, che al di sopra e al di sotto conduce, e farsi il mondo a seconda di essa. (c.vo mio) Ippaso di Metaponto disse, essere stabilito il tempo della mutazione del mondo: l’universo aver limiti e venire agitato da perpetuo moto. (c.vo mio)
Dionigi
Uscendo i Romani l’ultima volta contro i Sanniti, un fulmine caduto in ariosissimo luogo uccise imprima alcuni soldati, guastò due insegne, e molte armi, parte
25 Granelli 1792-1793, t. 2, p. 58; Niccolai 1781-1782, t. 3, pp. 225 e 227; Storia universale 1765-1821, t. 1, p. 174 per entrambi i brani. Per quanto concerne il newtoniano William Whiston e la sua interpretazione del Diluvio cfr. Force 2002, pp. 32-62. Per il lessico leopardiano della “mutazione” cfr. innanzitutto Piperno 2014.
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bruciò, parte abbronzò. I fulmini han nome conveniente agli effetti, perciocchè sono disertamenti e mutazioni del presente, ed arrovesciano le cose umane26. (c.vo mio)
C’è di più. Pare di capire che Leopardi conservi memoria di quel “dibattito diluviale” ancora nel 1820. È l’anno in cui, a eventi già consumatisi, registra nello Zibaldone la “scena di mutazione” par excellence, quella che l’anno passato, il 1819, lo ha coinvolto in prima persona: la «mutazione totale in me» (Z 143-144), il transito dalla condizione degli antichi a quella dei moderni27. Per battezzare tale rivoluzione antropologica il recanatese riecheggia, non a caso, la formula geologica adoperata da Granelli: «l’alterazione totale […] di questa macchina ridotta a un caos»28. Torniamo per l’ultima volta agli esegeti del Diluvio genesiaco, e alle loro divergenze sul punto delle condizioni che resero possibile la mirabile longevità degli antichissimi. Granelli, lo si è visto, sostiene che non fu solo la «special provvidenza» divina a garantire la lunga durata della loro vita. Che cosa precisamente il gesuita intenda, alludendo alla Provvidenza, è chiarito dalle parole di Niccolai. Anche quest’ultimo, non c’è dubbio, presta la dovuta attenzione alla mutazione geologico-antropica cagionata dal Diluvio. Anzi, seguendo da vicino la Storia universale, insiste ancor più di Granelli sull’esuberanza della natura giovinetta – il «primo vigore» della natura, e la «primiera vigorosa constituzione» dei corpi 26 Volgarizzamento Dell’opera di Esichio Milesio (1814), in Opere inedite, vol. 1, pp. 222 per Eraclito (sul greco di Diogene Laerzio 1692, t. 1, p. 553), 224 per Ippaso di Metaponto (sul greco di Diogene Laerzio 1692, t. 1, p. 543); Volgarizzamento di Dionigi d’Alicarnasso (1816-1817), ivi, p. 510 (sul greco di Dionigi di Alicarnasso 1816, pp. 8182). In tutti questi casi, “mutazione” volgarizza il gr. μεταβολή, lat. mutatio. 27 Cfr. Appendice i. 28 Nella xxxv lezione de L’Istoria Santa il gesuita non ricorre mai a “mutazione” per indicare gli effetti devastanti sortiti dal Diluvio. Al contrario, si è visto nelle citazioni che il vocabolo, ancora in accezione geologica, si legge nelle esegesi diluviali di Niccolai e della Storia universale. Con il significato di ‘mutamento della faccia della natura’, il lemma “mutazione” è usato spesso anche da Buffon (cfr. supra, nota 18), il quale lo fa coincidere con quello di ‘epoca’ (scil. della natura). Cfr. ad esempio Les époques de la nature (1778), in Buffon 1782-1791, t. 3, p. 3: «si riconosce ch’essa [la natura] ammette sensibili variazioni, che riceve successive alterazioni, e soggiace a nuove combinazioni, a mutazioni di materia e di forma; […] codeste diverse mutazioni sono appunto quelle che noi chiamiamo sue Epoche». (c.vi miei)
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– come anche sulle funeste malattie che causarono l’indebolimento delle generazioni, in seguito al Diluvio29. Niccolai però, al contrario di Granelli, non ritiene possibile giustificare la lunghissima durata della vita dell’uomo antediluviano per via di soli presupposti naturali. Per rendere ragione di quella prodigiosa longevità, la quale sembra violare le buffoniane «leggi della meccanica» – noi, con un lamarckismo, diremmo le leggi della biologia – che regolano il «numero de’ nostr’anni»30, è necessario postulare un’altra «potissima cagione»: la Provvidenza divina: Assai, credo, si è fatto conoscere, non esser bastevoli, eziandio insieme unite, tutte le naturali cagioni a spiegare il fenomeno, che esaminiamo, in modo da esserne ben persuasi. Che resta adunque? Resta una precisa necessità di ricorrere come a potissima cagione alla singolar provvidenza d’Iddio; acciocchè nel primo mondo si moltiplicasse convenevolmente il genere umano, e si popolasse la terra; e molti uomini lungamente vivendo avessero il bisognevol tempo per inventare e condurre a qualche avanzamento le arti e scienze necessarie alla vita umana; e i padri meglio potessero educare ed istruire i figliuoli in quel tempo, in cui mancava la sperienza maestra d’assaissime cose31. (c.vi miei)
La Provvidenza cospira a favore del popolamento del globo e dell’educazione delle generazioni. Ma anche a giovamento del progresso tecnico e scientifico dell’umanità. Solo tenendo fermo questo particolare si comprende tutto lo spessore che Niccolai assegna, nella Lezione xxxvi del Genesi, a una figura che scompare dalla penna di Granelli, e cade, di conseguenza, nella relazione leopardiana. Voglio dire la figura di Qajin. Nella Lezione xxxvi il nome di Qajin implica essenzialmente due cose. Innanzitutto, assenza di Dio. Contrariamente alla «famiglia di Caino», la longeva stirpe di Seth si mantenne fedele a Dio. Per questo motivo poté ascoltare ancora, pur dopo la caduta di Adamo, la «rive29 Niccolai
1781-1782, t. 3, pp. 224-225. Ivi, p. 228. La sentenza «le leggi della meccanica, onde regolato è il numero de’ nostr’anni» traduce un passo del De la veillesse et de la mort di Buffon: cfr. Buffon 17821791, t. 10 (il t. 2 della seconda divisione), p. 272: «nulla può cangiar le leggi della meccanica, che regolano il numero de’ nostri anni». Ciò non desta alcuna meraviglia, dacché nella sezione della lezione in questione Buffon è uno dei due interlocutori di Niccolai. L’altro è esattamente il Pierre-Louis Moreau de Maupertuis richiamato da Leopardi nel Fisico e Metafisico: cfr. OM, p. 144. 31 Niccolai 1781-1782, t. 3, p. 230. 30
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lazione di viva voce», e poté godere della Sua presenza, camminando «con Dio e avanti a Dio»32. La «purità» della primitiva e semplice religione dei Patriarchi fiorì all’ombra del «desiderabile e glorioso commercio» con Dio, e durò sino al momento in cui quella fu irrimediabilmente «depravata», per via del mescolamento delle famiglie di Seth e Qajin33. In secondo luogo, Qajin è il padre putativo delle arti e della tecnica. Seppure non viene nominato nel passaggio della Lezione xxxvi che abbiamo trascritto, è indubbio che la storia della tecnologia e degli inventori, abbozzata qualche pagina prima da Niccolai, porta il suo signum, il marchio di Qajin. Per esplicita ammissione del lucchese, quella storia è esemplata non tanto sul testo mosaico quanto, piuttosto, sui frammenti superstiti dell’opera del fenicio Sanchuniathon. È quest’ultimo ad annodare Qajin e le arti: «nel tessere la generazione de’ Cainiti […] [Sanchuniathon] ha insieme avuto per fine d’annoverare gl’inventori dell’arti, onde fa delle medesime più particolar menzione, che non ha fatto Mosè, il quale al contrario […] tutto si volge alla religiosa stirpe di Seth»34 (c.vi miei). Cainiti della terza generazione furono, ad esempio, Phos, Pur e Pholox, ai quali Sanchuniathon ascrive la scoperta casuale del fuoco. Vale la pena ricordare che, nella Lezione xxxvi, Niccolai non intraprende affatto il ritratto di Qajin; piuttosto, lo porta a compimento. Lo aveva iniziato nelle precedenti lezioni, commentando da vicino la narrazione genesiaca, e vi era tornato nella Lezione xxxiv (sul testo di Gen. 5, 17-9) per darvi ancora qualche altra pennellata. In quell’occasione si era chinato a ragionare sulla figura di «Caino autore della prima Città del mondo», Enochia (dal nome del figlio Enoch)35. Ricollocare le parole di Sanchuniathon nel giusto sfondo delineato qui, nella lezione xxxiv, ci aiuta a comprendere in che senso, per Niccolai, è del tutto lecito ascrivere 32 Ivi, pp. 207-209. Più in breve: «Iddio allor mostravasi e parlava in una maniera sensibile» (ivi, p. 214). Nell’Antico Testamento il motivo del “camminare con Dio” si legge esclusivamente a proposito di Enoch (Gen. 5, 22-24) e di Noè (Gen. 6, 9). L’altro del camminare “avanti a Dio” si legge a proposito di Abramo e Isacco (Gen. 48, 15), Davide (1 Re 3, 6 e 9, 4), Ezechia (2 Re 20, 3) ed Isaia (Is. 38, 3). In 1 Re 8, 25 e 2 Cr. 6, 16 è Dio a “camminare innanzi” a Davide. 33 Cfr. Niccolai 1781-1782, t. 3, p. 210. 34 Ivi, p. 217. 35 Ivi, p. 152.
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4. i “patriarchi antediluviani”, il diluvio e qajin (1813)
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l’invenzione delle arti ai Cainiti. Lo è perché, senza dubbio, Qajin, giusta le Sacre Scritture, fu l’inventore della prima città, vale a dire del consorzio sociale. Giunti a questo punto, ci troviamo in possesso di tutte le tessere necessarie per comprendere il remoto antefatto della riflessione svolta da Leopardi in Z 191 (29 luglio 1820) su Qajin «primo autore delle città vale a dire della società, secondo la Scrittura». Tessere utili, inoltre, a ricostruire almeno il prodromo di un altro paio di importanti pensieri, registrati ancora nel diario, e risalenti probabilmente al 1819. Su questi ultimi torneremo più avanti (cfr. capp. 6 e 8), dopo aver analizzato la seconda tappa della lunga storia che stiamo tentando di ricostruire. È arrivato il momento di guardare da vicino al Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815).
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5. I giganti e la degenerazione del genere umano (1815)
In un Saggio intessuto di favole e pregiudizi, quale è quello dedicato agli Errori popolari degli antichi (1815), il pronunciamento leopardiano sulla quaestio de gigantibus costituisce un caso più unico che raro1. Lo troviamo nell’apposita relazione contenuta nel capo xv, Dei Pigmei e dei Giganti. È certo che sul tema gli antichi elaborarono idee confuse e francamente «ridicole» – così sentenzia Giacomo, senza approfondire oltre. Nondimeno, aggiunge subito di seguito, è altrettanto certo che «i Giganti non sono una chimera», e che la qualifica di «purissim[a] fol[a]», da lui calata impietosamente sulle opinioni antiche circa i pigmei2, non può essere estesa sic et simpliciter anche ai giganti. Il motivo è semplice: non vi sarebbero argomenti sufficienti «a convincerci della sua falsità assoluta», ragion per cui non sorprende se ai giganti «[s]i è creduto dagli antichi, e si crede ancora da molti dei moderni»3. Quest’ultima dichiarazione relativa ai «moderni» è assolutamente corretta, specie se ricollocata all’interno dei due contesti di riferimento da cui Leopardi sicuramente la estrapola: la diatriba sul valore testimoniale delle recenti relazioni di viaggio, attestanti il gigantismo dei Patagoni sudamericani, e 1 Lo aveva notato a suo tempo Edoardo Sanguineti: cfr. OM Damiani, p. 1374 nota 2 al Cavallo e Toro. 2 Errori popolari, p. 234. Andria-Zito 2017, p. 94 nota 1 opportunamente ricordano che «anteriormente alla prima edizione e ancora in vita dell’autore, parte del capitolo xv (Dei Pigmei e dei Giganti) fu pubblicata nella raccolta Traditions téralogiques, ou récits de l’antiquité et du moyen age en occident sur quelques points de la fable du merveilleux et de l’histoire naturelle del francese Jules Berger de Xivrey (Paris, Imprimerie Royale, 1836)». Alle pp. 102-108 della detta raccolta si legge la parte della relazione sui Pigmei che va da «Oltre Erodoto» sino a «che s’interpreta combattimento», con le relative note inserite direttamente a testo. Cfr. Errori popolari, pp. 228-233 e 308-309 note 1-35. 3 Ivi, p. 233.
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l’accesa discussione sul valore archeologico dei ritrovamenti, antichi e recenti, di ossa e scheletri enormi4. Nella relazione leopardiana sui giganti poco affiora del secondo di questi contesti; nulla, invece, del primo. Per recuperarli nella loro interezza sarà necessario, come primo passo, concentrare la nostra attenzione piuttosto sui due documenti autografi (c.l. xiv.6) aggregati al manoscritto napoletano degli Errori popolari. Densi come sono di «appunti riferiti alle innumerevoli fonti compulsate» da Leopardi durante la fase preliminare di compilazione5, tali documenti si riveleranno estremamente preziosi e utili per la nostra disamina. Analizzeremo da vicino solo una serie dei detti appunti, cioè il tracciato bibliografico che Giacomo associa all’intestazione “Giganti”: [i] Plin. 1. 308. [ii] Opusc. fisici. [iii] Hofman. [iv] Isid. 4. 33. [v] Solin. 51. p. 2. fin. 526. 4 Per quanto concerne la diatriba sull’esistenza dei giganti in Patagonia (estremità dell’America meridionale divisa tra Argentina e Cile) i riferimenti d’obbligo sono Gerbi 1975, p. 606, s.v. Giganti, e Gerbi 2000, p. 976, s.v. giganti. Si veda anche il più recente Fiorani 2009, in particolare il cap. L’illusione ottica: il gigantismo patagonico, pp. 85-164, per l’analisi puntuale delle vicende legate alla pubblicazione del resoconto del viaggio del commodoro Byron intorno al mondo. Volendo limitarci a qualche teste accessibile al Leopardi compilatore degli Errori popolari, e tenendo da parte le altre fonti analizzate nel corpo del presente studio, conviene soffermarsi su due nomi. Due sicure fonti moderne dell’Astronomia si pronunciano decisamente a favore dell’esistenza di giganti americani. Si tratta di Gianrinaldo Carli e di Francisco Clavijero. Per il primo cfr. la sezione dedicata ai Patagoni nella terza delle Lettere americane, in Carli 1784-1794, t. 12, pp. 41-60. Per il secondo cfr. la discussione intavolata sui giganteschi ossami ritrovati in Messico (testimone il gesuita José de Acosta) e in Perù (testimone lo storico Agustín de Zárate) di Clavijero 1780-1781, t. 4, pp. 10-11 e nota (d). 5 Andria-Zito 2017, p. 106. 6 Il tracciato si legge in uno dei due documenti – un foglietto ripiegato, a c. 2r – trascritti ivi, p. 108. I numeri romani sono mie integrazioni. Al netto delle intestazioni «Opusc. fisici.» e «Hofman.», di cui si dirà in questo capitolo, Leopardi fa riferimento a: (i) Plinio il Vecchio 1601, t. 1, lib. 7, cap. 16, p. 308 (cfr. gli Indices Pliniani non paginati nel t. 3, s.v. Gigantes miræ magnitudinis). Vi si leggono: l’osservazione sulla diminuzione successiva della statura degli uomini; il lamento di Omero per il rimpicciolimento dei corpi rispetto all’antichità; alcuni casi di gigantismo, sia antichi che più recenti; (iv) Isidoro 1797-1803, t. 4, lib. 11, cap. 3 (De Portentis), §§ 13-14, p. 33 (cfr. l’Index nel t. 7, p. 5552, s.v. Gigantes, primo rinvio). Il teologo chiarisce l’etimologia del termine greco γηγενεῖς (‘nati dalla terra’), poi nega che i Giganti possano essere identificati con i Nephilim di Gen. 6, 1-4; (v) Solino 1518, cap. 4 del Polyhistor, cc. 51v-52v. Sul punto della statura umana, il geografo latino sostiene che gli uomini si sono rimpiccioliti per un processo di degenerazione successiva («sed corrupta[m] degeneri successione sobolem nostri temporis per nascentium
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5. i giganti e la degenerazione del genere umano (1815)
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La stringa alfanumerica, di per sé abbastanza esigua, non è affatto omogenea. Certamente, essa ospita ben tre rinvii decisamente puntuali a Plinio il Vecchio (i), Isidoro di Siviglia (iv) e Solino (v); epperò li affianca a un riferimento assai generico al Lexicon universalis di Jacob Hofmann (iii: «Hofman.»), oltre che a non meglio identificati «Opusc. fisici.» (ii). Da un sommario confronto tra questo tracciato e la relazione sui giganti degli Errori popolari emergono due dati inequivocabili: nessun luogo testuale individuato nel primo ritorna nella seconda, e nessuno degli autori annotati nella compilazione preliminare viene menzionato nella stesura definitiva. Prima facie sarebbe lecito concludere che Leopardi non tenne conto della stringa associata all’intestazione “Giganti” quando si risolse a elaborare la sua relazione7. Per mostrare che, in realtà, c’è qualche motivo per evitare di formulare una conclusione così netta, dovremo procedere ad analizzare da vicino quel tracciato bibliografico – e puntare a rinvenire i fili nascosti del ragionamento elaborato dal recanatese lungo il tragitto compiuto dalla compilazione preliminare alla stesura definitiva. Nel passaggio dall’una all’altra cadono senz’altro le risultanze che diremmo lessicali ed etimologiche, vale a dire quelle legate allo spoglio di due importanti enciclopedie come il Lexicon di Hofmann e le Etymologiae di Isidoro. Scompaiono, assieme a quelle, anche altre importanti acquisizioni. A tutti gli effetti, ad esempio, proprio attraverso la breve voce Gigantes del Lexicon Leopardi aveva potuto recuperare un primo, sommario cenno al presunto gigantismo dei Patagoni8. Il filologo tedesco, si badi, principia il suo discorso segnalando la sinonimia dei termini «Gigantes» (dell’antichità) e «Patagones» (odierni, dell’America meridionale) – sostantivo, quest’ultimo, adoperato nella recente letteratura di viaggio, negli «Itinerariorum Scriptores». Ma Hofmann di certo non si limita a suggerire percorsi bibliografici. Subito di seguito, infatti, solleva almeno due importanti questioni: dapprima si chiede, con la voce di Athanasius Kircher, se la detrimenta decus ueteris pulchritudinis perdidisse») ed esibisce alcuni casi che proverebbero l’alta statura degli antichi. Il passaggio di Solino si legge anche in Salmasio 1689, t. 1, pp. 6g-7c (con due variazioni di lezione rispetto a Solino 1518: sobolem > subolem; pulchritudinis > proceritudinis). Nelle edizioni moderne corrisponde a Polyhistor i, 88-93. 7 La stringa confermerebbe un assunto più generale, vale a dire, con le parole degli editori, che «[l]a folta compilazione preliminare» è «solo parzialmente utilizzata in fase di stesura, destinata a un uso strettamente personale»: Andria-Zito 2017, p. 107. 8 Hofmann 1683, t. 1, p. 805 , s.v. Gigantes. 2
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natura abbia dismesso la produzione di uomini dalla così vasta mole; poi si domanda, assieme agli “eruditi”, se davvero i nostri antenati furono più alti di noi moderni, e se è vero, dunque, che l’uomo rimpiccolisce progressivamente, recede «a magnitudine sua», nel corso dei secoli. In altre parole, Hofmann richiama, seppure in modo assai tangenziale, ambo i corni del secolare dilemma della degenerazione, cioè della teoria della progressiva decadenza fisica e morale delle generazioni9. Sia il corno che pertiene alla storia collettiva dell’umanità, e al progressivo rimpicciolimento fisico e morale del genere umano (secondo il celeberrimo adagio «le genre humain ne cesse de dégénerer»)10; sia l’altro, relativo al destino biologico dell’intera natura, che si vorrebbe già pervenuta all’epoca della senescenza e dell’impotenza. Non importa qui sottolineare che il Settecento illuminato, ligio alla religione del progresso, fu tutt’altro che incline a riconoscere nella natura un’anziana avviata all’ultima rovina. È più importante rilevare, piuttosto, che nel Lexicon Hofmann ribatte un punto sul quale si era pronunciato con decisione anche Linguet, curatore di quelle «Annales politiques» certamente adoperate da Leopardi per chiudere la seconda parte della relazione sui longevi nell’Astronomia. In Vieillesse extraordinaire, l’articolo usufruito dal recanatese nel 1813, il celebre pubblicista inanellava testimonianze sui longevi moderni, e anche contemporanei, proprio per negar fondamento al ritornello passatista sulla senescenza della natura. Anzi, si adoperava per celebrare la natura malgré tout: scrive infatti che, sebbene le sue produzioni deperiscono perché hanno tempo limitato, essa comunque «conserve une jeunesse éternelle, & sa vigueur ne peut pas plus s’altérer, que sa fécondité se tarir»11. Al Leopardi compilatore degli Errori popolari non mancavano affatto gli strumenti bibliografici utili a farsi un’idea della vecchia 9 I curatori di Flegonte 2013, p. 83 nota 66 opportunamente ricordano che i temi della vecchiezza della natura e del progressivo decadimento dell’universo eccedono «di gran lunga l’ambito della classicità grecoromana (cfr. almeno Agostino, De civitate Dei 15.9)», e «sono riscontrabili a livello popolare […] presso varie culture tradizionali». 10 La frase proviene da La Méthode de l’histoire di Jean Bodin (Bodin 1951, p. 430), che con essa intende sferzare le pretese di chi afferma che la natura è avviata all’ultima rovina. Cfr. Bodin 1566, p. 361 per l’originale latino: «fallunt qui genus hominum semper deterius seipso euadere putant». 11 Cfr. l’Appendice ii. La citazione proviene da Linguet 1780, p. 25.
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5. i giganti e la degenerazione del genere umano (1815)
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teoria della degenerazione umana. Vale la pena richiamarne almeno due, pertinenti più di altri al tracciato bibliografico in esame, e a quanto ci è dato sapere circa la cronologia delle letture leopardiane. Il primo è la Dissertazione sopra i Giganti di Augustin Calmet. Dovremo analizzarla più avanti, in questo capitolo, perché Leopardi la convoca esplicitamente nella relazione sui giganti degli Errori popolari. Per ora concentriamoci, piuttosto, sul secondo contributo, il commento di Alfonso Niccolai nelle Questioni della Lezione xxxviii (sul testo di Genesi 6, 1-4)12. Ivi il gesuita intavola una lunga discussione sulla vexata quaestio de gigantibus: «Questi giganti sono stati e sono soggetto di gran controversia tragli autori». Il lucchese intende, innanzitutto, quelli della storia sacra, pre- e postdiluviani. Ma nulla lo trattiene dal diffondersi ampiamente anche sui giganti della storia profana – in particolare, i Patagoni richiamati nella Vénus physique di Maupertuis, i Galli del De bello Gallico di Cesare e i Germani di Vegezio e Tacito. Un dato ci interessa da vicino. Dopo aver richiamato le felici condizioni geo-antropiche dell’era precedente il Diluvio, e aver rassicurato il lettore sull’indiscutibile realtà dei giganti prediluviani13, Niccolai presenta anche gli antichi e i moderni fautori della teoria della degenerazione. Tra gli autori profani antichi figurano diversi testimoni, come Lucrezio, Giovenale, e soprattutto il Plinio della pagina richiamata da Leopardi nel tracciato associato all’intestazione “Giganti”: «Cuncto mortalium generi minorem in dies mensuram fieri propemodum observatur» (‘Si osserva che in tutto il genere dei mortali la statura diventa per lo più minore di giorno in giorno’)14. La modernità, invece, si avvale di un unico campione, il filosofo francese Pierre-Daniel Huet: «L’illustre Uezio ha creduto non pur la vita dell’uomo, ma ancor la statura de’ primi tempi infino ai nostri avere avuta considerabile diminuzione». Dal credito accordato a Johann Mencke contradditore di Huet, e dalle parole con cui è liquidata la scala cronologica dell’accademico 12 Niccolai 1781-1782, t. 4, pp. 4-25. La lezione non figura tra quelle esplicitamente richiamate nell’Astronomia. In ogni caso, i brani che analizzeremo sono comodamente raggiungibili tramite l’Indice nel t. 8, p. 382, s.v. Giganti. 13 «La natura umana nel suo primo vigore, le stagioni forse meno stemperate, i cibi di maggior sostanza e più sani, la tanto più lunga età, che allora viveasi» inducono a credere «che i giganti allor fossero in maggior numero»: ivi, t. 4, p. 13. 14 Ivi, pp. 13-14. Cfr. supra, nota 6.
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e orientalista Nicolas Henrion (1718), si comprende facilmente che Niccolai considera la teoria della degenerazione poco più che un’amenità15. Più avanti, quando torna di nuovo sul punto dei giganti, il lucchese non risparmia strali polemici né contro la credulità di Augustin Calmet, l’estensore della Dissertazione sopra i Giganti, né tantomeno contro le «esagerazioni» e gli «aggrandimenti poetici» disseminati in lungo e in largo nelle opere di antichi autori come Solino, Plinio, Plutarco, Arriano, Omero e Virgilio16. Prima di lasciare Niccolai sarà necessario aggiungere un ulteriore dettaglio, e trascrivere le parole con cui il gesuita colora di scetticismo le relazioni relative ai tanti ritrovamenti di «mostruose ossa» dissepolte – a cominciare dai ritrovamenti paradossografici del De mirabilibus di Flegonte di Tralles, il liberto già tirato in ballo, a suo tempo, per la notizia sull’epitaffio di Macrosiride (cfr. cap. 4). Il passaggio si chiude con una piccata osservazione sul presunto valore archeologico dei ritrovamenti più recenti: Ma che diremo di quelle mostruose ossa, che scavando sotterra si son trovate […] e molti autori l’attestano? tra’ quali il nominato liberto d’Adriano Flegonte riporta lo scoprimento di smisurate ossa e d’alcuni cadaveri di straordinaria grandezza […]. Diremo col Banier, che tutte le sì fatte son relazioni d’artefici e manuali, senza che mai alcun intendente e degno di fede abbia potuto dire d’esserne stato ocular testimonio: […] che evidenti sperienze ed osservazioni fatte da Valenti fisici han dimostrato, essere ossa d’elefanti, di balene, o d’altri mostri marini, o fossili di pietre prodotte dalla natura a somiglianza d’umane ossa: che tale per attestazion del Gassendi fu il sentimento del Peyresch; che tale è stato quel del Mullero e del Molineaux in due lor particolari Dissertazioni sopra i giganti, bench’essi ammettano qualche osso d’insolita grandezza essere appartenuto a qualche gigante, ma di poco eccedente le misure da noi sopra stabilite17. (c.vo mio)
15 Cfr. ivi, pp. 15 (per Mencke: «Così il Menkenio va proseguendo a mostrare con contrarj esempli l’insussistenza dell’ipotesi Ueziana») e 14 (per Henrion: «Sistemi fatti per divertire!»). Quella di Henrion era «une sorte de table ou d’échelle chronologique des variations de la taille humaine depuis la création jusqu’à l’ère chrétienne», come è spiegato nel Traité de Tératologie da Isidore Geoffroy Saint-Hilaire. Che subito dopo aggiunge: «Ces rêveries de l’érudit Henrion ne sont au fond que les idées des rabbins. Suivant eux, Adam eut d’abord neuf cents coudées; mais après qu’il eut péché, Dieu lui fit subir une diminution considérable»: Saint-Hilaire 1832-1836, t. 1, p. 170. 16 Niccolai 1781-1782, t. 4, pp. 17 sgg. 17 Ivi, p. 19.
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5. i giganti e la degenerazione del genere umano (1815)
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Il dettaglio per noi interessante è il riferimento alle «sperienze ed osservazioni fatte da Valenti fisici». Nella frase di Niccolai, il termine “fisici” non può indicare altro che quei naturalisti – noi diremmo, piuttosto, paleontologi – che esperiscono e osservano, lavorano applicando l’anatomia comparata allo studio dei resti organici. A ben vedere, il termine tecnico utilizzato dal gesuita ci aiuta a capire cosa precisamente intende Leopardi quando scrive degli «Opusc[oli] fisici.» che si riproponeva di leggere, lo si è visto sopra, durante la fase di compilazione. Resta ancora da capire quali siano, in concreto, i detti «Opusc[oli] fisici.». Il controllo della relazione sui giganti ospitata negli Errori popolari non lascia spazio a dubbi in merito. Ivi il recanatese si china a discutere non solo la Lezione accademica sopra i Giganti di Francesco Donato Marini, ma anche una Relazione di Tiburtius con annessa Memoria di Roland Martin. Ebbene, i tre documenti sono ospitati in un unico volume, il xvii, della serie Scelta di opuscoli interessanti18. Si tratta, per la precisione, della Relazione di ossa umane di straordinaria grandezza di Tiburzio Tiburtius, seguita dalle Osservazioni Su la precedente Relazione di Roland Martin e dall’Aggiunta Del Traduttore Alle precedenti Osservazioni. Lo scarno cenno leopardiano alla Dissertazione dell’abate Francesco Donato Marini dipende da quest’ultima Aggiunta. A tutti gli effetti, essa non è altro che un «diffuso estratto» della Dissertazione di Marini, preparato dal traduttore a servigio dei lettori, con l’intento di integrare «l’argomento troppo succintamente trattato» dalle Osservazioni di Martin. Il traduttore ci presenta un Marini cauto e, al contempo, caustico. Cauto, perché disponibile ad ammettere l’esistenza, non solo passata ma anche presente, di «uomini maggiori della comune altezza», però senza aderire supinamente all’opinione di chi dava per assodata «la passata esistenza di Giganti altissimi» – fondandosi sui «sepolcri più antichi», sulle «enormi ossa scavate», sulla «Sacra Scrittura» e sulle «storiche relazioni de’ Viaggiatori»19. 18 A scanso di equivoci, conviene precisare che i volumi della Scelta di opuscoli interessanti sono tuttora presenti tra gli scaffali della Biblioteca di Monaldo, e figurano regolarmente nel Catalogo BL 2011, p. 2042, s.v. Opuscoli, contrariamente a quanto è sostenuto in diverse sedi, ad esempio Zibaldone Peruzzi, vol. 10, p. 519 nota 51 e Natura di una lingua, p. xxiii nota 23. 19 Opuscoli 1776, pp. 45-47.
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Quest’ultimo riferimento, va da sé, è ai Patagoni sudamericani20. Un Marini, si diceva, anche caustico, perché rimprovera aspramente i fautori dell’adagio della degenerazione universale. Gli strali polemici dell’abate raggiungono in particolare quei cantori e quei filosofi che nelle loro opere estesero la degenerazione umana «sì riguardo al fisico, che al morale»: «non solo come migliori, ma eziandio come più robusti e più grandi degli uomini de’ giorni loro gli antichi Eroi decantar sogliono». Non può sfuggire il fatto che Leopardi, stendendo la relazione sui giganti, sceglie di assegnare una posizione strategica ai tre testi provenienti dalla Scelta di opuscoli interessanti. Dapprima procura di giocare il caustico scetticismo di Marini contro le incrollabili certezze della Dissertazione sopra i Giganti di Calmet21, ottenendo che si neutralizzino a vicenda; infine opta per lasciare l’ultima parola assertiva a Tiburtius e Martin – per inciso, le relazioni più recenti e aggiornate. C’è però almeno un’ulteriore osservazione da fare in merito alla condotta adottata da Leopardi per l’occasione. Compendiando dalla Scelta i due articoli di Tiburtius e Martin, Giacomo si concede di manipolarli artatamente, seppur impercettibilmente, così che il favore accordato dai due accademici al partito dei giganti paia meno contrastato possibile. L’intervento più consistente è esercitato sulle Osservazioni di Martin. La posizione dell’accademico svedese è, in effetti, più circospetta di quanto è dato capire dalle sole parole leopardiane. Martin è ben disposto a trattenere i giganti entro i confini del reale22, anzi si prodiga persino a esibire qualche testimonianza (anche recentissima) utile a comprovare la tesi, e a concludere con una domanda retorica: «[s]e ciò avvenne a nostri giorni, perchè non può in altri tempi esser 20 Sui Patagoni, presunta «nazione di Giganti», l’autore si sofferma esplicitamente più avanti: cfr. ivi, pp. 51-52. 21 Al termine della Dissertazione, quando precede a compendiare quanto ha sinora sostenuto, e a rispondere alle possibili obiezioni, Calmet scrive: «Dal detto fin’ora pare che non si possa più dissentire, che in quasi tutte le parti del mondo, non ci sieno stati per l’addietro Giganti in gran numero; che non sieno stati popoli intieri»: Calmet 1741-1750, t. 1, p. 64. Poco più avanti, p. 68, conclude più perentoriamente che «la esistenza dei Giganti è un fatto fuor di ogni dubbio». 22 Opuscoli 1776, p. 38: «Egli è incontrastabil però, che v’è stato sovente uno sviamento dalle consuete leggi della Natura nella grandezza degli uomini, come in molte altre cose».
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5. i giganti e la degenerazione del genere umano (1815)
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avvenuto lo stesso?». Tuttavia questo schieramento di Martin in pro del partito dei giganti giunge, per così dire, solo nella seconda parte delle Osservazioni. Cioè, solo dopo aver sottolineato con forza che la maggior parte delle tradizioni relative ai giganti è «immaginat[a] a talento», e che è assolutamente necessaria «un’attenta disamina per giudicare delle ossa dissepolte», e così rintracciarne l’archetipo. Difatti, l’«occhio anatomico» che si esercitasse sui ritrovamenti archeologici di ossa e scheletri enormi confesserebbe che una buona parte di questi non è di origine umana. Anzi, generalmente appartiene a «grossi bruti», e in particolare a grandi animali marini23. È a questo punto che il traduttore italiano si premura di dar carta all’allusione di Martin, e aggiunge in nota un rinvio a un articolo contenuto nel iii volume della Scelta di opuscoli interessanti. Si tratta delle Conghietture24 dello scozzese William Hunter, uno studio dedicato ai fossili di un grosso mammifero dell’Ohio, apparentemente simile al mammut siberiano25 – un «animal ignoto americano» (Ohio incognitum) di cui si dice, sin dal titolo, che «s’è perduta la specie». Non sarà disutile sostare un poco su questo articolo, dal momento che esso è passato alla storia come un importantissimo (e controverso) caso di anatomia comparata applicata allo studio degli organismi del passato26. Le ricerche dell’anatomista scozzese, affi23 Ivi,
pp. 37-38. L’articolo traduce le Observations on the Bones, commonly supposed to be Elephants Bones, which have been found near the River Ohio in America, comunicazione presentata alla London Royal Society da William Hunter il 25 febbraio 1768 (Hunter 1769). 25 La crescente attenzione del mondo scientifico sei-settecentesco per il misterioso mammut è al centro di Cohen 2002, pp. 63-73 e Semonin 2000, pp. 62-83. I due studiosi si soffermano sulla diffusione della parola “mammoth” nella letteratura dell’epoca (a cominciare dal North- and East Tartary, 1692, dell’esploratore olandese Nicolaas Witsen) e sulle numerose esplorazioni scientifiche settecentesche in territorio russo, particolarmente in Siberia. Un significativo viaggio naturalistico siberiano è quello compiuto tra 1768-1773 da Peter Simon Pallas, celeberrimo antievoluzionista che scoprì numerosi fossili di mammut. Di Pallas, nella Biblioteca di Monaldo sono conservati i cinque volumi dei Viaggi compendiati da Giuseppe Compagnoni, risalenti al 1816 (Pallas 1816), e dunque inaccessibili al compilatore degli Errori popolari. 26 Precisi cenni su Hunter e l’anatomia comparata applicata agli organismi del passato si leggono in La Vergata 1998a, pp. 346 e 353. La vicenda relativa al Mastodon americano, dalla scoperta dei fossil bones da parte di William Croghan (1765-1766) agli interventi di Buffon, Daubenton, Hunter e Cuvier, è ricostruita e analizzata da Cohen 2002, pp. 85-124 e Hedeen 2008, pp. 45-98. Da quanto emerge dallo studio di Semonin 2000, il ritrovamento nel 1801 del primo scheletro completo di Mastodon nella Valle dell’Hudson 24
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ni a quelle di altri celeberrimi studiosi quali Petrus Camper, Johann Friedrich Blumenbach e Louis-Jean-Marie Daubenton, si dispiegano qualche decennio prima della riforma cuvieriana della paleontologia (intesa come zoologia del passato). Nel 1806 fu proprio Georges Cuvier, nel contributo Sur le Grand Mastodonte, a classificare l’animale americano studiato da Hunter nel genere Mastodon, distinguendolo nettamente dal mammut siberiano o Elephas primigenius, specie estinta del genere Elephas. Agli occhi del biologo francese, i fossili del Mastodon americano non erano solo diversi da quelli del mammut siberiano; erano anche più antichi. Per questo Cuvier li collocò in due distinte sezioni della colonna stratigrafica. Dal canto suo, nelle Conghietture Hunter dichiara di aver tratto profitto dalle rilevazioni sull’animale dell’Ohio che Buffon e Daubenton avevano lasciato in eredità ai lettori dell’Histoire naturelle27. Però finisce per rovesciare completamente le conclusioni dei francesi – sia sul piano della classificazione zoologica, che su quello dell’estinzione della specie. L’anatomia comparata aveva suggerito a Daubenton «che gli animali americani e siberiani fossero della stessa specie degli elefanti attuali», dunque che la loro specie non si era affatto estinta28. Ad Hunter, piuttosto, aveva indicato che le ossa e la dentatura da carnivoro dell’animale americano erano tanto «diverse dalle elefantine», quanto analoghe a quelle dell’animale siberiano, e che dunque anche l’Ohio incognitum probabilmente si era estinto. Lo scozzese poteva allora concludere con un ringraziamento alla Provvidenza: «s’egli era carnivoro, […] può bensì dispiacere a qualche Naturalista, ma l’umanità in generale deve ringraziare la Provvidenza, che siasene, com’è probabile, interamente estinta la specie»29. Merita un commento anche il trattamento che Leopardi riserva alla Dissertazione sopra i Giganti di Calmet. Non è errato sostenere che il recanatese, tutto sommato, la riduce all’osso, ricordandone al lettore solo l’incipit (relativo all’altezza dei giganti) e la frase di chiusura, con la quale il benedettino conclude che «la esistenza dei Giganti è un fatinaugurò un lento processo di mitizzazione, che culminò nell’assunzione della creatura preistorica (a quei tempi creduta un feroce carnivoro) a simbolo dell’identità nazionale americana. 27 Opuscoli 1775, p. 106. 28 La Vergata 1998a, p. 353. 29 Opuscoli 1775, pp. 109-110.
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to fuor di ogni dubbio»30. La manipolazione del pronunciamento di Calmet sull’altezza effettiva dei giganti è inessenziale, tanto da poter passare quasi inosservata31. Invece non si può tacere sul fatto che Giacomo lascia cadere ogni riferimento alla lunga discussione («dopo aver discusso a lungo») intavolata dal benedettino. Ancor prima di revocare la validità della vecchia teoria della degenerazione32, Calmet schidiona una fittissima messe di testimonianze (antiche e moderne, di storia sacra e profana) sui giganti. Molte delle quali si mostrano di grande momento per gli interessi leopardiani. Si intende innanzitutto per gli immediati interessi compositivi del compilatore degli Errori popolari. Non sfugga, ad esempio, che per ben due volte Calmet convoca Plinio il Vecchio e Solino33, cioè la coppia di testimoni che si legge anche nel percorso bibliografico associato all’intestazione “Giganti”. Di grande momento, si diceva, anche per gli interessi del futuro antropologo ed estensore dei Dialoghi tra due bestie – in particolare, di Cavallo e Toro, dove Leopardi sceglie di non soffermarsi sui ben noti casi di gigantismo attestati presso gli antichi Celti e Germani (cfr. cap. 2). Come Niccolai, anche Calmet passa sovente al vaglio la lezione dossografica di Flegonte, a conti fatti uno dei testimoni più volte menzionati nella Dissertazione. Ma non solo: di certo non lesina riferimenti ad altri autori di storia profana che hanno trattato di giganti nelle loro opere. Tra queste figurano, ad esempio, le Indica di Arriano, per il riferimento a Poro, Re delle Indie, o l’Epitome di Floro, per la figura di Teutono, Re dei Teutoni e dei Cimbri34. Possiamo ora concludere la nostra incursione nella quaestio de gigantibus degli Errori popolari. Torniamo per l’ultima volta sui do30 Calmet
1741-1750, t. 1, p. 68. pp. 37-38: «Ma ragionar vogliamo di Giganti, che eccedevano di alcuni piedi la statura degli uomini de’ nostri tempi, i quali erano uno, o due, ovvero tre, oppur quattro volte più grandi di noi»; Errori popolari, pp. 233-234: «[Calmet] intendendo per giganti uomini di statura una o due volte maggiore dell’ordinaria». A conti fatti, la riscrittura leopardiana sembra più vicina all’altro calcolo della statura dei giganti che il benedettino esegue al termine della dissertazione, quando si appresta a compendiare quanto detto in precedenza. Cfr. Calmet 1741-1750, t. 1, p. 64: «Dal detto fin’ora pare che non si possa più dissentire, […] che lo loro grandezza non abbia duplicata, e triplicata la nostra». 32 Ivi, p. 67, v risposta: «La opinione, la qual vuole, che gli uomini vadano di giorno in giorno divenendo più piccoli, non può sostenersi, ed è molto più favorevole, che contraria all’esistenza dei Giganti». 33 Ivi, pp. 41-42 e 57. 34 Ivi, p. 60. 31 Ivi,
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cumenti autografi aggregati al Saggio, e mettiamo a confronto gli appunti rubricati sotto l’intestazione “Giganti” con la relazione che Giacomo affida al capo xv del Saggio. Tutto sommato, non pare possibile sostenere che Leopardi, in fase di stesura, utilizzò «solo parzialmente» quel tracciato bibliografico della compilazione preliminare35. Nessuno dei nomi evocati nel tracciato ritorna nella relazione, eppure attorno al materiale desunto dagli «Opusc. fisici.» orbita in buona sostanza la porzione assertiva della stessa. Cadono le risultanze suscitate da interessi lessicali, ma il motivo del gigantismo patagonico affiorante nel Lexicon di Hofmann pervade come un ritornello tutte le fonti esplicitamente adoperate da Leopardi (tanto Calmet, quanto gli articoli della Scelta di opuscoli interessanti). Di Plinio e Solino non c’è traccia nella relazione, però non è possibile escludere che, già nella compilazione preliminare, i rinvii puntuali ai due autori antichi («Plin. 1. 308.», «Solin. 51. p. 2. fin. 52.») non stiano a segnalare altrettanti ricontrolli (svolti su edizioni possedute) di luoghi testuali suggeriti da un comune archetipo. Magari, perché no, proprio quel Calmet che li convocava in coppia per ben due volte, ed è esplicitamente richiamato da Leopardi nella relazione definitiva. Ciò che si può sostenere senza tema di smentita, invece, è che nel passaggio dalla compilazione alla versione definitiva Giacomo procura di tener celate – al lettore, come anche allo studioso – molte più informazioni di quante ne dia effettivamente a vedere. Ad esempio, quelle ricavabili assecondando la lunga Dissertazione sopra i Giganti intavolata da Calmet, che Giacomo dà prova di conoscere. E forse (prove non ce ne sono) anche quelle che avrebbe potuto facilmente ricavare interrogando Niccolai, o seguendo fino in fondo, da vero library-cormorant, la pista bibliografica “paleontologica” aperta dal traduttore delle Osservazioni di Roland Martin. Come che sia, ai lettori, e agli studiosi di Leopardi, è bene ricordare che, già all’altezza del 1815, il recanatese certamente era ben informato sul punto della secolare teoria della degenerazione antropica – teoria che in futuro avrebbe certamente ritrovato in altri autori36; ha avuto modo di appurare l’importanza dell’anatomia comparata nell’analisi scientifica dei fossili di natura organica; si è confrontato col motivo, parados35 Andria-Zito 36 Cfr.
2017, p. 107. Appendice iii.
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sografico ma anche archeologico, delle ossa e dei fossili disseppelliti; infine, ha potuto tesaurizzare un primo esiguo, ma comunque significativo ventaglio di casi emblematici di gigantismo, tanto antichi (in particolare, tra i Galli e i Germani) quanto moderni (l’intera nazione dei Patagoni). Forse, chissà, si è anche confrontato con l’ipotesi dell’estinzione di un’intera specie – quella del mastodonte americano.
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6. Un animale non naturale alla prova di Rousseau (1819)
Quattro importanti pensieri sulla vita delle bestie, e il posto dell’uomo nell’economia della natura, sono registrati in Z 55-56. Due pagine che si collocano tra le primissime prove zibaldoniane databili al 18191. Prima di procedere ad analizzarli richiamiamo brevemente il ragionamento svolto all’inizio di questo studio (cfr. cap. 1). Lì abbiamo formulato l’ipotesi secondo la quale, nel febbraio 1819, Leopardi potrebbe aver elaborato un progetto cristallizzatosi in ben tre documenti: la lettera del 12 febbraio a Giordani (a proposito di «alcuni miei disegni»); il primo Elenco di letture, datato «24 febbraio 1819», con titoli del solo Luciano di Samosata; il Disegno letterario (IV.3) sui «Dialoghi Satirici alla maniera di Luciano». Ora dovremo concederci di seguire sino in fondo questa ipotesi, per guadagnare l’opportunità di mettere a fuoco i nessi che allacciano i pensieri di Z 55-56 non, genericamente, alla riflessione leopardiana sull’animalità2, ma, più nello specifico, alla scelta leopardiana di adoperare interlocutori animali per i «Dialoghi Satirici». Dei quattro pensieri annotati in Z 55-56 solo il primo (i) e il quarto (iv) ci interessano da vicino, perché Leopardi vi si china a riflettere sulla «vita» delle bestie, mettendola in relazione alla «vita» dell’uomo: [i] Vita tranquilla delle bestie nelle foreste, paesi deserti e sconosciuti ec. dove il corso della loro vita non si compie meno interamente colle sue vicende,
1 Per la datazione delle prime cento pagine dello Zibaldone di pensieri cfr. D’Intino Maccioni 2016, pp. 12-13. 2 Un’intelligente e agile sintesi del contributo leopardiano alla questione dell’animalità si legge in Aloisi 2021, pp. 103-106. Si vedano anche gli Approfondimenti bibliografici ivi, pp. 122-123.
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operazioni morte, successione di generazioni ec. perchè nessun uomo ne sia spettatore o disturbatore. nè sanno nulla de’ casi del mondo perchè quello che noi crediamo del mondo è solamente degli uomini. [iv] Com’è costantissimo e indivisibile istinto di tutti gli esseri la cura di conservare la propria esistenza, così non è dubbio che quasi il compimento di questa non sia l’esserne contento, e l’odiarla o non soddisfarsene non sia un principio contraddittorio il quale non può stare in natura e molto meno in quell’essere il quale senza entrare nella teologia, è chiaro ch’essendo l’ordine animale il primo in questo globo e probabilmente in tutta la natura cioè in tutti i globi, ed egli essendo evidentemente il sommo grado di quest’ordine, viene a essere il primo di tutti gli esseri nel nostro globo. Ora vediamo che in questo è tanta la scontentezza dell’esistenza, che non solo si oppone all’istinto della conservazione di lei, ma giunge a troncarla volontariamente, cosa diametralmente contraria al costume di tutti gli altri esseri, e che non può stare in natura se non corrotta totalmente. Ma pur vediamo che chiunque in questa nostra età sia di qualche ingegno deve necessariamente dopo poco tempo cadere in preda a questa scontentezza. Io credo che nell’ordine naturale l’uomo possa anche in questo mondo esser felice, vivendo naturalmente, e come le bestie, cioè senza grandi nè singolari e vivi piaceri, ma con una felicità e contentezza sempre, più o meno, uguale e temperata (eccetto gl’infortuni che possono essere nella sua vita, come gli aborti le tempeste e tanti altri disordini (accidentali, ma non sostanziali) in natura) insomma come sono felici le bestie quando non hanno sventure accidentali ec. Ma non già credo che noi siamo più capaci di questa felicità da che abbiamo conosciuto il voto delle cose e le illusioni e il niente di questi stessi piaceri naturali del che non dovevamo neppur sospettare: «tout homme qui pense est un être corrompu,» dice il Rousseau, e noi siamo già tali. E pure vediamo che questi piccoli diletti non ostante che noi siamo già guasti pur ci appagano meglio che qualunque altro come dice Verter ec. e vediamo il minore scontento dei contadini, ignoranti ec. (quantunque essi pure assai lontani dallo stato naturale) che dei culti, e dei fanciulli massimamente, che dei grandi. E l’esser l’uomo buono per natura, e guastarsi necessariamente nella società, può servir di prova a questo sistema, e il veder che le bestie non hanno tra loro altra società che per certi bisogni, del resto vivono insieme senza pensar l’una all’altra, e che l’istinto si vien perdendo a proporzione che la natura è alterata dall’arte onde è grande nelle bestie e nei fanciulli, piccolo negli uomini fatti, ma ciò non prova che l’uomo sia fatto per l’arte ec. giacchè la natura gli aveva dato quegl’istinti ch’egli perde poi ec. Sì che si potrebbe pensare che la differenza di vita fra le bestie e l’uomo sia nata da circostanze accidentali e dalla diversa conformazione del corpo umano più atta alla società ec.
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6. un animale non naturale alla prova di rousseau (1819)
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Non siamo in grado di stabilire se i due brani siano stati stesi a stretto giro di posta, dacché non disponiamo di puntuali evidenze utili a datarli con precisione. Però possiamo rilevare agevolmente che tra quelli esiste almeno una contiguità teoretica, assicurata innanzitutto dal refrain tematico3. Leopardi, difatti, compie un’unica incursione nell’«ordine animale» (con Linneo, noi diremmo nel “regno”), seppure finisce per mettere a punto due diversi modi di pensare la distanza che separa gli animali dall’animale umano: nel primo (Z 55), la distanza è l’assenza di spettatori umani allo spettacolo del compiersi della vita animale; nel secondo (Z 56), essa prende corpo nella radicale differenza di vita (naturale negli animali, non naturale nell’animale umano). Due immagini elaborate da Giacomo nel primo pensiero meritano una qualche enfasi, perché ci aiutano a capire in che senso quel pensiero possa dirsi connesso al cantiere aperto dei progetti leopardiani, tanto poetici quanto prosastici. Cantiere nel quale non vi sono solo i «Dialoghi Satirici alla maniera di Luciano» dai quali siamo partiti, ma anche l’elenco di Inni cristiani da comporre (estate-autunno 1819), il disegno di «Poema di forma didascalica sulle selve e le foreste» (forse ideato tra il 1819 e il 1820) e l’abbozzo dell’Inno ai Patriarchi (1822)4. La prima immagine ritrae «foreste, paesi deserti e sconosciuti ec.». Non è difficile scorgervi un primo, sfocato fotogramma – ben ammantato di lessico poeticamente indeterminato5 – di ciò che nel disegno del «Poema» sulle selve saranno «le foreste d’America non mai penetrate da uomo», e nell’abbozzo dell’Inno ai Patriarchi sarà «lo stato di solitudine» del «mondo non abitato per anche dagli uomini, e solamente da pochi animali»6. È necessario aggiungere, però, 3 A voler approfondire, si dovrebbe aggiungere che il nesso tematico è consolidato (e confermato) anche da altri fattori, retorici e semantici. Al primo fattore va ricondotto, ad esempio, il modo transuntivo della vita/esistenza come corso/progresso e come spettacolo che devono arrivare a compimento (Z 55 «il corso della loro vita non si compie»; Z 56 «il compimento di questa [esistenza]»). Al secondo, l’implicazione semantica di «tranquilla» (Z 55) e «contenta» (Z 56). 4 Per gli Inni cristiani cfr. Poesie, pp. 638-640; per il «Poema» si vedano i Disegni, pp. 98-99 (in particolare, per la datazione cfr. ivi, pp. 118-119); per l’abbozzo dell’Inno si rinvia a Canti ii, pp. 284-288. Su quest’ultimo si veda almeno Polizzi 2011, pp. 18-22. 5 Analogo a quello utilizzato per l’Inno ai Patriarchi (1822). Sul punto cfr. Canti Blasucci, p. 210. 6 Disegni, p. 98, rr. 181-182; Canti ii, p. 284. Per il debito contratto da Leopardi con Chateaubriand per l’immagine de «le foreste d’America non mai penetrate da uomo» cfr.
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che ancor prima di anticipare esiti futuri, i luoghi «deserti e sconosciuti» di Z 55 confermano precedenti o forse coeve intuizioni: voglio dire che consuonano anche con l’insondabile «fondo del mare», con gli impenetrabili abissi marini che Leopardi ha ipotizzato, o sta ipotizzando, come scenario ideale dei suoi «Dialoghi Satirici». Degna di nota per il discorso da intavolare a proposito dei Dialoghi tra due bestie è anche un’altra immagine di Z 55: «perchè nessun uomo ne sia spettatore o disturbatore». Leopardi non si premura affatto di annotare cosa intenda precisamente, qui, per «disturbatore». Ci lascia solo intuire che la figura dell’attivo «disturbatore» non può coincidere con quella del passivo, contemplativo «spettatore». Avremo modo di tornare su questo personaggio più avanti, quando commenteremo il passaggio dei Dialoghi in cui Leopardi gli presta carne (cfr. capp. 8-9). E lo faremo tenendo a mente il secondo dei pensieri zibaldoniani in esame, quello di Z 56. Il dato sul quale si regge la riflessione leopardiana di Z 56 è quello della «differenza di vita fra le bestie e l’uomo». L’uomo, sovrano del regno animale, potrebbe essere felice «vivendo naturalmente», come fanno le «bestie» ligie al dettato della natura. Ma non può più esserlo, dacché ha appercepito il vuoto delle cose, e in progresso di tempo si è irrimediabilmente e totalmente «guastato» e «corrotto». Insomma, l’uomo conduce una vita decisamente contro natura, una vita dimentica dell’istinto che spinge tutti gli esseri a «conservare la propria esistenza»: al presente egli si mostra scontento dell’esistenza, e all’occasione è capace persino di troncarla volontariamente, tramite il suicidio. Fermiamoci un poco, perché non passi inavvertita l’insistenza di Giacomo sul termine «scontentezza», ribattuto per ben 2 volte nel pensiero che stiamo esaminando. Anzi, teniamo a mente sin da ora il fatto che, attorno alla «scontentezza», orbitano due importanti passaggi leopardiani, provenienti, non a caso, da testi cronologicamente prossimi a Z 56. Il primo si trova in Cavallo e Toro; ci riserviamo di tornarci con agio più avanti (cfr. cap. 8). Il secondo lo leggeremo subito, perché ci aiuta a sondare la radice autobiografica del termine. Risale, difatti, alla Vita abbozzata di Silvio Sarno (1819), un brogliaccio di appunti sparsi, presi in vista della stesura di un romanzo autobiografico: Disegni, pp. 116-117. Non si dimentichi la suggestione esercitata sul francese dalle «forêts immenses que la Coignée ne mutila jamais» del Discours di Rousseau: cfr. Rousseau 1964, p. 135.
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scontentezza nel provar le sensazioni destatemi dalla vista della campagna ec. come per non poter andar più addentro e gustar più non parendomi mai quello il fondo oltre al non saperle esprimere7.
Chiudiamo questa piccola digressione sulla «scontentezza», e torniamo di nuovo sulla pagina del diario. Leopardi procede a evocare il guasto e la totale corruzione del genere umano incorporando un filamento rousseauiano nel tessuto del proprio ragionamento. In concreto, ritraduce in francese una sentenza letta nel Discorso sopra l’origine ed i fondamenti della Ineguaglianza fra gli uomini (1797) del filosofo ginevrino, senza il supporto dell’originale: Rousseau
l’homme qui médite est un animal dépravé
Rota
l’uomo che medita è un animal depravato
Leopardi
tout homme qui pense est un être corrompu8
Quando ritraduce in proprio il sintagma «animal depravato» con «être corrompu» (che poi glossa con l’aggettivo «guast[o]»), Leopardi certamente non si attiene alla pista lessicale tracciata da Niccolò Rota, il traduttore del Discours: opta piuttosto per un sinonimo9. Ciò non vuol dire, però, che Giacomo ha abbandonato la versione di 7 Per la citazione cfr. cap. 12 nota 23. Un discorso analogo a quello fatto a proposito della radice autobiografica del termine “scontentezza” si dovrebbe estendere anche all’antonimo “contentezza”. Basti pensare, ad esempio, alla sentenza lapidaria nella celebre “lettera della fuga” indirizzata a Monaldo (fine luglio 1819): «Io so che la felicità dell’uomo consiste nell’esser contento» (Epistolario, n. 242, p. 323). 8 Rousseau 1964, p. 138; Rousseau 1797, p. 19. Sulla ritraduzione leopardiana della sentenza del Discorso è d’obbligo il rinvio a Muñiz Muñiz 2012, pp. 134-135. Un’utile sintesi dei modi in cui essa è stata interpretata dagli studiosi di Leopardi si trova in Polizzi 2011, p. 55 nota 55. 9 Sono incline a credere che, traducendo «depravato» con «corrompu», Leopardi si sia aiutato con un termine adoperato da François De La Tour in uno dei tre brani delle sue Réflexions sur le Discours de J. Jaques Rousseau in cui l’esegeta riflette sulla corruzione del genere umano e si richiama al mito platonico della statua di Glauco, fatto proprio da Rousseau nella Préface del Discours. Cfr. De La Tour 1778, pp. 23-24: «C’étoit sur-tout une des plus nécessaires conséquences de cette corruption que l’ignorance de nous mêmes, & de notre première nature; car il est bien évident qu’on ne peut pas si aisement reconnoître le bon ordre dans une machine dérangée, ni la bonne saveur dans un fruit corrompu. […] Or comment voir parmi tant de désordre ce que l’homme devoit être dans son état d’intégrité? Voilà ce qui a rendu cet homme semblable à la statue de Glaucus» (c.vi miei, tranne i finali). Cfr. infra, cap. 8 nota 29.
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Rota perché vi ha intravisto una qualche venatura morale, e che dunque ha preferito «“corrotto” in luogo del più morale “depravato”»10. Il recanatese poteva facilmente comprendere che il termine “depravazione” (dal lat. depravatio, ‘alterazione, degenerazione, corruzione’), adoperato sia da Rousseau che dal suo traduttore Rota, non indicava null’altro che lo s-naturamento, inteso precisamente come una ‘infedeltà alla natura e alle sue leggi’, come uno ‘stato contro natura’ che non portava con sé alcuna connotazione morale11. Gli sarebbe bastato aprire l’edizione italiana, e leggere la frase della Politica di Aristotele posta in epigrafe al Discorso, ove le ‘cose depravate’ («in depravatis») sono collocate agli antipodi delle cose «quae bene secundum naturam se habent» (‘che sono ben disposte secondo natura’). Ancora, gli sarebbe stato sufficiente fare attenzione al contesto in cui è incastonata la sentenza che egli ritraduce nel diario: «Se essa [la natura] ci ha destinato ad esser sani, ardisco quasi di assicurare, che lo stato di riflessione è uno stato contro natura, e che l’uomo che medita è un animal depravato» (c.vi miei)12. Ciò che più conta, però, è che è lo stesso Rousseau a stornare qualsiasi interpretazione moraleggiante delle tesi sostenute in questo passaggio. Lo fa qualche pagina più avanti, inserendo la frase che sigilla tutta la prima sezione del Discorso: «Io non ho considerato fin qui che l’uomo fisico, procuriam di riguardarlo adesso dalla parte metafisica e morale»13. Sino a quel punto, insomma, il ginevrino ha parlato esclusivamente dell’Homme physique – della «machine ingenieuse» che è il «corps de l’homme sauvage». E ha declinato la “depravazione” nel quadro medicale della santé, la ‘salute’ garantita dagli automatismi biologici, dalle buffoniane «leggi della meccanica» 10 Così
scrive Muñiz Muñiz 2012, p. 135. ricorda Jean Starobinski in Rousseau 1964, p. 1311 nota 3, Rousseau nel Discours circoscrive il concetto di «animal dépravé» aiutandosi con la definizione di «animal dénaturé» (‘animale snaturato’) consegnata all’articolo Droit naturel dell’Encyclopédie da Denis Diderot. Per quest’ultimo, l’«animal dénaturé» non è l’uomo che ragiona, come in Rousseau, ma, al contrario, l’uomo che non vuole ragionare, che rinuncia «à la qualité d’homme». Il ginevrino prende sì «l’exact contrepied» del filosofo di Langres, ma senza punto mutare il significato dei termini adoperati da quest’ultimo: l’equivalenza di «depravé» e «dénaturé» non è messa in questione. Sul punto dei tormentati rapporti tra Rousseau e Diderot cfr. soprattutto Delon 2013, pp. 166-178 e Dictionnaire de JeanJacques Rousseau 2006, s.v. Diderot, Denis, pp. 216-222. 12 Rousseau 1797, p. 19. 13 Ivi, p. 24. 11 Come
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che abbiamo visto riprese e discusse da Alfonso Niccolai nelle sue Dissertazioni (cfr. cap. 4). Ebbene, nella prospettiva di Rousseau, lo sviluppo dei poteri intellettuali, certificato dall’avvenuta fondazione della società14, compromette la salute naturale. La macchina corporea umana si deprava, cioè si corrompe (come ritraduce Leopardi), nella misura in cui l’homme sociale riflessivo si è liberato dalle maglie del determinismo zoologico, e ha con ciò permesso l’ingresso della malattia nel dominio della natura. La malattia, e converso, è lo stigma che annuncia lo snaturamento della specie umana. Nulla di morale c’è nella “depravazione” della sentenza del Discours. Come nulla di morale c’è nella “corruzione” di Z 56. Se il rifacimento leopardiano scarta dalla sentenza originaria del Discorso è, piuttosto, perché Giacomo decontestualizza la frase: lo snaturamento giocato da Rousseau è ribattuto da Leopardi, il quale però lo strappa dall’originaria sede physique per riutilizzarlo in chiave metafisica. In Z 56 lo stato di riflessione non corrompe perché compromette la salute, ma perché ci fa accorti del vuoto delle cose. Credo che cogliere la particolarissima “fedeltà traslata” della ritraduzione leopardiana sia assolutamente necessario per rendere pienamente intelligibile la presente pagina dello Zibaldone. Ci aiuterà a comprendere, ad esempio, in che misura il pensiero di Z 56 può essere definito un pensiero “a due tempi”, e in che senso il piglio del Leopardi logico si fa stringente solo dopo il rifacimento del dettato di Rousseau. A guardar bene, solo a questo punto, in effetti, la riflessione affidata al diario si trasforma evidentemente in un abbozzo di trattatello. Le tesi leopardiane sulla vita non naturale e sulla scontentezza del genere umano, avanzate prima di riscrivere il Discours, vengono ora decisamente rubricate come «sistema» ancora condendo, che abbisogna di «prov[e]». E solo quando si prodiga ad addurre qualche evidenza a favore del proprio sistema, Leopardi sposta insensibilmente la discussione sul versante morale. Difatti, in questo secondo tempo della riflessione di Z 56 il verbo «guastarsi», ad esempio, finisce per assumere un indubbio valore morale. Giacomo ora oppone l’uomo guasto non, genericamente, all’uomo naturale ancora incorrotto, ma, 14 Come sostiene Rousseau sin dalla Préface. Cfr. Rousseau 1964, p. 125: «Ce qui signifie precisément que les hommes ont dû employer pour l’établissement de la société, des lumiéres qui ne se développent qu’avec beaucoup de peine et pour fort peu de gens dans le sein de la société même».
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precisamente, al rousseauiano «uomo buono per natura»: «E l’esser l’uomo buono per natura, e guastarsi necessariamente nella società, può servir di prova a questo sistema». D’un tratto, il problema della corruzione del genere umano fuoriesce dall’ambito metafisico, il quadro nel quale, poco sopra, era stata collocata l’infrazione originaria del genere umano («da che abbiamo conosciuto il voto delle cose e le illusioni e il niente di questi stessi piaceri naturali del che non dovevamo neppur sospettare»). Ora l’attenzione di Leopardi non verte più sulla metafisica disobbedienza alla legge naturale; piuttosto si concentra sul meccanismo che infetta la bontà originaria dell’uomo, e giunge a dissolverla completamente. Tale meccanismo è la società, nella sua versione propriamente umana15. È importante tener fermi tanto il quadro metafisico in cui si colloca il primo tempo della riflessione, quanto l’afflato socio-morale che permea il secondo tempo. Ci rende più semplice capire che, nell’angolazione antropologica adoperata in Z 56, la costituzione del consorzio civile non costituisce in nessun modo l’analogon naturale del peccato originale. È questo, tutto sommato, il maggiore tratto differenziale che distingue il «sistema» abbozzato nel 1819, in Z 56, dalla “storia del genere umano” tracciata, nel 1822, nell’abbozzo dell’Inno ai Patriarchi16. Proviamo a tradurre questo tratto nei termini dei quadri lirico-narrativi di quell’abbozzo, senza dimenticare che essi sono assenti nel diario. Nell’abbozzo dell’Inno Qajin, fondatore della prima città, sancisce la (quasi) definitiva perdita della pace edenica che ancora abbracciava l’umanità adamitica, e lo stesso Adamo: «il ruolo di peccato originale sembra essere assunto per L. dalla fondazione della città, […] da parte di Caino, il fratricida errante, secondo il racconto biblico, in preda ai terrori del castigo divino»17. In Z 56 Qajin, ancora innominato, può solo accelerare lo snaturamento varato dall’infrazione originaria, ancora imputabile ad Adamo18. Accelerare direttamente sul versante socio-morale, e indirettamente 15 Leopardi sapeva bene che anche gli animali ne hanno una. Sul punto cfr. infra, cap. 8 nota 9. 16 L’angolatura adottata da Leopardi nell’Inno ai Patriarchi è bene analizzata da Luigi Blasucci. Cfr. Canti Blasucci, pp. 206-209. 17 Ivi, p. 207, a proposito della visione dei primordi offerta dall’Inno ai Patriarchi. 18 Va nella stessa direzione il saggio lungo di Z 393-420, in cui Leopardi cerca di riconciliare il proprio sistema con l’ideologia cristiana che affiora dall’analisi del Genesi.
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sul versante fisico, stante che la depravazione dei costumi, come sarà riconosciuto apertamente in Z 163-164 (11 luglio 1820), «è certa cagione d’infiacchimento corporale»19. Abbiamo visto poco fa che la ritraduzione decontestualizzata della sentenza di Rousseau silenzia il “problema del corpo” che essa enfatizzava nel Discours. Ora dovremo aggiungere però che Leopardi non elide affatto quel “problema”. Anzi, lo mette esplicitamente a tema nella coda dell’abbozzo di trattatello: «Sì che si potrebbe pensare che la differenza di vita fra le bestie e l’uomo sia nata da circostanze accidentali e dalla diversa conformazione del corpo umano più atta alla società ec.». Le «circostanze accidentali» sono un tipico equivalente naturalistico di ciò che, nella storia sacra, è la trasgressione originaria – un equivalente deassiologizzato, e deprivato di ogni tratto riflettuto riconoscibile nell’azione volontaria. E la peculiare «conformazione del corpo umano» è la precondizione biologica che rende spiegabile la costituzione del consorzio sociale («più atto alla società»), e la corruzione dell’uomo in seno alla medesima società. Oltre queste generiche indicazioni non è lecito andare. Accade con il «corpo» di Z 56 ciò che si era verificato con il «disturbatore» di Z 55: neanche in questa occasione Leopardi sa essere più specifico, e lascia il lettore senza chiarire cosa intenda per «diversa conformazione del corpo umano». È necessario, in ogni caso, tenere a mente questi due punti, perché fra poco dovremo vedere come Giacomo proverà a dar loro carne nei Dialoghi tra due bestie (cfr. capp. 8-9). In quell’occasione avremo modo di aggiungere qualcos’altro sul debito contratto dal «sistema» di Z 56 con il Discours di Rousseau. È ora di guardare ai Dialoghi più da vicino.
19 L’enfasi che Leopardi pone sul fattore corporeo in Z 163-164 appena citato, nell’estate del 1820, non giunge per nulla improvvisa. Anzi, a guardar bene, si direbbe che nel 1820 il recanatese stia portando avanti proprio quel programma di ricerche su società, corpo e snaturamento inaugurato l’anno passato, nel 1819, con il varo del «sistema» di Z 56. È lecito, insomma, considerare Z 56 un antecedente tematico di Z 163-164.
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7. Un “mondo sanza gente”? Assenza e presenza nei Dialoghi (1820)
Gli studiosi che si sono occupati dei Dialoghi sono soliti seguire dappresso le osservazioni elaborate a suo tempo da Mario Fubini1, e sostenere che Leopardi vi ha coniugato l’idea portante della decadenza (da un primitivo stato felice di natura) con il motivo del «mondo sanza gente» (Inf. 26, 117), già dantesco e assai caro a Leopardi, perlomeno a partire dal 18192. Vorrei provare in questo capitolo a spiegare i motivi per cui credo che, negli abbozzi dei Dialoghi, Leopardi non insceni propriamente un ‘mondo senza uomini’ (un «mondo sanza gente» inteso lato sensu). Nel successivo (cap. 8), invece, mi soffermerò sulle ragioni per cui ritengo che il mondo dei Dialoghi non assomigli al mondo ‘disabitato’ evocato nell’orazione di Ulisse (un «mondo sanza gente» inteso stricto sensu). 1 Nel cappello introduttivo al Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo Fubini scriveva: «La concezione di questo dialogo risale forse al primo vago disegno di dialoghi satirici e precisamente all’idea di quei dialoghi dei pesci, a cui accenna il poeta nel primo appunto su questo genere di opere, e in ogni modo ha la sua origine in un motivo che ritorna tante volte nella poesia e nella speculazione del Leopardi, il motivo del “mondo senza gente”, della vita che si svolge nell’universo estranea a noi ed ignara della vita nostra. […] Si vede perciò come naturalmente il Leopardi […] fosse portato a fingersi l’immagine o la favola di un remoto tempo avvenire quando la specie umana più non esisterà su questa terra. […] l’immagine di un tempo nel quale dal mondo saranno scomparse le tracce dell’uomo, così come egli non fosse mai stato» (Opere, p. 623). A conforto della propria tesi, lo studioso richiama l’attenzione sulla Vita abbozzata di Silvio Sarno, § 32 (SFA, pp. 70-73), sul disegno di «Poema di forma didascalica sulle selve e le foreste» (Disegni, pp. 98-99), sul pensiero di Z 55 a proposito della «Vita tranquilla delle bestie», e infine sui vv. 27-34 dell’Inno ai Patriarchi. 2 Si veda Blasucci 1998, p. 291; e più di recente Sangirardi 2000, pp. 33-34: «Forse non molto tempo dopo il cavallo e il bue (cambiato temporaneamente in toro per poi tornare al bue), tolti alla favoletta per adulti del Pignotti e trasferiti nello scenario fantastico del “mondo senza gente”, diventano i protagonisti dell’abbozzo Dialogo tra due bestie che per la sua architettura prospettica può ancora dirsi “alla maniera di Luciano”». Cfr. anche OM Melosi, pp. 151 e 153.
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Procediamo con ordine, occupandoci dapprima del presunto ‘universo senza uomini’. Non credo sia produttivo leggere i Dialoghi puntando l’attenzione esclusivamente sul motivo dell’assenza dell’uomo, vale a dire sul fatto che Giacomo elabora il proprio copione immaginando che il genere umano si sia estinto da tempo. Il motivo è semplice: seppure è fuor di dubbio che nei Dialoghi gli uomini sono scomparsi dalla faccia della Terra, è pur vero che essi non sono affatto rigettati fuori dai confini del mondo ivi immaginato. Insomma, non sono realmente assenti: le vestigia che essi hanno lasciato nel mondo garantiscono loro una speciale presenza attenuata, in forza della quale ciò che tuttavia rimane dell’uomo non solo continua a sfidare la distruzione e l’annullamento, ma fa pure in modo che gli animali sopravvissuti alla sua estinzione continuino a parlarne. Faccio riferimento qui a due diverse tipologie di vestigia: il tipo in re, costituito dai resti umani, le «ossa»; il tipo in mente, rappresentato dal ricordo di un racconto che perpetua le gesta umane. In entrambi i dialoghi il ricordo è conservato da Cavallo, ed è lui a incorporare il ricordo nelle maglie di una storia offerta all’interlocutore (prima Toro, poi Bue). Seppur tipologicamente diverse, le due vestigia finiscono per convergere su un unico obiettivo: prestare all’uomo le fattezze del personaggio «mort[o] per sempre», tuttavia «present[e] come in ombra» – il profilo di un attore che sulla scena rimane silente, ma continua ad agire nell’ombra. In Cavallo e Toro le ossa dell’uomo estinto hanno una duplice funzione, tanto scenografica quanto narrativa. Sono poste al cuore della scenografia, dacché il dialogo si svolge effettivamente in prossimità di resti umani. Inoltre, funzionano da motore dell’azione, perché forniscono l’abbrivio alla primissima battuta dialogica3, pronunciata da Toro: «Che ossa son queste». «Ossa», appunto, non fossili: nell’abbozzo della prima prosetta Giacomo non fa mai questione di fossil bones, cioè di fossili veri e propri («ossami impietriti» di natura organica riportati in superficie, o dissotterrati)4, 3 Blasucci
1998, p. 290; OM Melosi, p. 159 nota 23. ne fa questione, invece, nel Folletto e Gnomo, ma non a proposito dell’uomo. Cfr. OM, p. 76, rr. 59-61: «varie qualità di bestie si trovarono anticamente che oggi non si trovano, salvo pochi ossami impietriti». Nell’operetta del 1824 Leopardi chiama in causa il fenomeno della pietrificazione spiegato nel dialogo Le cave delle pietre preziose, e ordinarie di Pluche, sicura fonte non solo del giovanile Compendio di Storia naturale (1812), 4 Se
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paleontologicamente antichi per definizione. Però si premura di sottolineare che quei resti organici provengono dal passato: gli uomini, dice Cavallo, sono periti «da chi sa quanto tempo». Il dettaglio avvalora un punto della confessione che il medesimo Cavallo rende subito dopo a Toro: ciò che egli sa a proposito dell’uomo non deriva da conoscenza diretta (frequentazione o testimonianza oculare), ma lo ha sentito raccontare dai «nostri vecchi», quasi fosse una favola5. Ciò significa che l’antichità delle ossa umane consuona con la remota origine della storia che narra le gesta umane; quest’ultima, a sua volta, è radicata in un ricordo altrettanto ancestrale. In Cavallo e Bue il trattamento favolistico delle vicende umane, e lo sfondamento a ritroso nel tempo, si approfondiscono ulteriormente, perché fanno capo a intermediari ancora più antichi: la «nonna» e i «nonni» (i «nostri vecchi» del primo dialogo) hanno raccontato a Cavallo grandi cose a proposito di quella curiosa «scimia», ma neanche loro ne hanno conoscenza diretta. In realtà, ne hanno sentito parlare «dai loro vecchi»6. A ben guardare, insomma, le ricordanze7 dell’animale estinto – il ricordo, il racconto, le ossa – saturano entrambi i Dialoghi, e contribuiscono a illudere il lettore che sia possibile esorcizzare temporanema anche del Folletto e Gnomo. Si tratta del terzo dialogo contenuto nel sesto tomo dello Spettacolo della natura, che segue, non a caso, l’altro dedicato ai Fossili. Si veda dapprima ciò che sostiene il Priore di Gionvalle in Pluche 1786, t. 6, p. 114: «Diversi corpi marini d’ogni ragione trovandosi ricoperti di terra, si sono appoco appoco pietrificati mediante l’insinuazione dell’acque, de’ sali, e d’altri corpuscoli cristallini, o arenosi, acconci a riempiere i loro pori, senza sconcertare le lor naturali figure». Poi ciò che conclude il Cavaliere del Broglio, ivi, p. 116: «Le scelci e le conchiglie eran già al mondo prima del Diluvio. La terra, ove si trovano imprigionate, s’è impietrita dopo il Diluvio». Insomma, il Cavaliere del Broglio si fa fautore della tesi dell’origine diluviale dei fossili – i carcami o ossami “pietrificati” o “impietriti” che abbondano nelle pagine de Le cave, e fanno capolino anche tra le righe del Folletto e Gnomo. Le oscillazioni di Pluche in merito al riconoscimento della natura organica dei fossili (tra il secondo e il terzo dialogo appena ricordati) sono ben colte da Polizzi 2008, pp. 63-65. A proposito del Compendio si veda la sezione dedicata agli «impietrimenti» in Compendio, p. 139. 5 OM, p. 459, rr. 3-4. 6 Ivi, p. 461, r. 59. 7 Concordo con Claudio Colaiacomo quando scrive, a proposito de Le Ricordanze (1829), che «[r]icordanza non è solo ricordo, ma anche ciò che fa ricordare. Sono oggetti morti che, tuttavia, premono sull’Io (e, in questo senso, sono vivi) come contenitori di tempo vissuto», «che hanno, in rapporto all’Io, la capacità di una attivazione della memoria» (Colaiacomo 1995, p. 400).
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amente il completo annullamento delle cose umane. Quasi allo stesso modo funziona la «bella illusione» attivata dalle «istituzioni feste ec. civili ed ecclesiastiche», messa a tema in Z 60, forse nel 1819: È pure una bella illusione quella degli anniversari per cui quantunque quel giorno non abbia niente più che fare col passato che qualunque altro, noi diciamo, come oggi accadde il tal fatto, come oggi ebbi la tal contentezza, fui tanto sconsolato ec. e ci par veramente che quelle tali cose che son morte per sempre nè possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in ombra, cosa che ci consola infinitamente allontanandoci l’idea della distruzione e annullamento che tanto ci ripugna e illudendoci sulla presenza di quelle cose che vorremmo presenti effettivam. o di cui pur ci piace di ricordarci con qualche speciale circostanza; come va sul luogo ove sia accaduto qualche fatto memorabile, e dice qui è successo, gli pare in certo modo di vederne qualche cosa di più che altrove non ostante che il luogo sia p. e. mutato affatto da quel ch’era allora ec. Così negli anniversari. (c.vi miei)
A parlare è qui il soggetto disilluso che ha oramai visto la propria credenza nell’immortalità smentita dalla realtà dei fatti. Egli non rimuove affatto la consapevolezza dell’irreversibile caducità delle cose, anzi è ben persuaso che οὐδεὶς ἀναστρέφει (‘nessuno ritorna’: Sap. 2, 5): le cose «morte per sempre» non «possono più tornare». Però conserva ancora la capacità di illudersi, almeno temporaneamente, e la forza per mettere da parte «l’idea della distruzione e annullamento che tanto ci ripugna». L’illusione che le cose possano, in talune circostanze, tornare a vivere «come in ombra» è il feticcio che sostituisce, agli occhi del disilluso, quella credenza nell’immortalità cui egli non può più prestare l’orecchio, perché sa che non corrisponde al vero8. Nel pensiero che stiamo esaminando l’illusione non può radicarsi se non attraverso il tramite della parola: «noi diciamo […] e ci par veramente che»; «dice […] gli pare in 8 Faccio mia la discussione intavolata da Octave Mannoni in Sì, lo so, ma comunque… (1963) a proposito della Verleugnung (‘diniego’, ‘ripudio’) feticistica: «Ma la Verleugnung in sé non ha nulla in comune con la rimozione, come viene detto espressamente […]. La si può comprendere come un semplice ripudio della realtà […]: ciò che viene in primo luogo ripudiato è la smentita che una realtà infligge a una credenza. Tuttavia […] il fenomeno è più complesso e la realtà constatata non è senza conseguenze. Il feticista ha ripudiato l’esperienza in base alla quale le donne non hanno fallo, però non conserva la credenza che esse ne abbiano uno, conserva un feticcio, proprio perché ne sono prive. Non solo l’esperienza non viene cancellata, ma diventa per sempre incancellabile, lascia uno stigma indelebile che segna il feticista per tutta la vita» (Mannoni 1972, pp. 6-7). Sul feticismo leopardiano si veda Ceccagnoli 2015.
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7. un “mondo sanza gente”? assenza e presenza nei dialoghi (1820)
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certo modo». Vale a dire che la «bella illusione» prende vita, accade realmente nella forma di una persuasione, e porta con sé la consolazione, solo quando la parola ripercorre l’avvenimento fissato dall’anniversario, e dà corpo al ricordo custodito dalla memoria. Non prima. L’analogia parziale9 tra questo pensiero registrato nel diario e il cuore drammaturgico dei Dialoghi non è affatto pretestuosa, e forse non è neanche casuale. Poco prima di chiudere il primo esperimento dialogico, infatti, Leopardi ne individuava un punto di forte originalità proprio nel motivo del genere umano estinto e trasformato in una «rimembranza», poi in un racconto elaborato da soggetti extraumani: Si avverta di conservare l’impressione che deve produrre il discorrersi dell’uomo come razza già perduta e sparita dal mondo, e come di una rimembranza, dove consiste tutta l’originalità di questo Dialogo, p. non confonderlo coi tanti altri componimenti satirici di questo genere dove si fa discorrere delle cose nostre o da forestieri, selvaggi ec. o da bestie, in somma da esseri posti fuori della nostra sfera10. (c.vi miei)
Per assaporare «tutta l’originalità» ricercata da Leopardi per questo sguardo straniato è utile mettere a contrasto la persistenza che Giacomo riconosce alle ricordanze umane, negli abbozzi dei Dialoghi, con il trattamento che Alfred Tennyson riserva alla posterità delle specie nelle lasse “evoluzionistiche” (liv-lvi) di In Memoriam (1833-1850). La Natura di Tennyson, ‘rossa nei denti e negli artigli’, lancia il suo impietoso grido dalle ‘balze dirupate’ e ‘dai blocchi di pietra’ – dai luoghi, cioè, ove è dato di ritrovare taluni fossili: Are God and Nature then at strife, That Nature lends such evil dreams? So careful of the type she seems, So careless of the single life; […] 9 Qualche distinguo è pur necessario: ad esempio, nel pensiero del diario il soggetto disilluso vuole che le cose oramai estinte siano ancora effettivamente presenti; ivi, ancora, la consolazione che deriva dalla temporanea messa da parte dell’annullamento definitivo ricade sul medesimo soggetto disilluso. Sono, questi, due punti irrintracciabili nei Dialoghi tra due bestie. 10 OM, p. 460, rr. 37-43. Sulla nota compositiva del finale di Cavallo e Toro si vedano Blasucci 1998, pp. 290-291 e Sangirardi 2000, pp. 34-35.
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‘So careful of the type?’ but no. From scarpèd cliff and quarried stone She cries, ‘A thousand types are gone: I care for nothing, all shall go11.
«all shall go», ‘tutto perirà’: non solo le specie («types») e gli individui («single life»), ma anche i fossili – cioè ogni testimonianza paleontologica della vita passata. Il poeta inglese effettivamente non esplicita quest’ultimo punto. Saremo noi a farlo affiorare in superficie, ricordando che qui Tennyson presta alla Natura la voce registrata nel finale del capitolo xvi (Recent origin of man) dei Principles of Geology (1830-1833) di Charles Lyell. In questa occasione il grande geologo scozzese si occupa da vicino dei limiti assegnabili alla «perpetuation of some of the memorials of man, which are continually entombed in the bowels of the earth or in the bed of the ocean» – intendendo per «memorials» tanto le opere umane quanto «the skeletons of men, and casts of the human form». L’autore dei Principles è famoso per aver scritto a chiare lettere che l’estinzione è parte integrante del corso della natura (lo si vedrà più avanti, nel cap. 9). Un po’ meno per passaggi come questo, ove confessa che il medesimo destino di dissoluzione spetta anche ai fossili contenuti nelle rocce primarie, «in the bowels of the earth» – ai fossili che perpetuano il ricordo delle forme di vita passata: «And even when they have been included in rocky strata, […] they must nevertheless eventually perish, for every year some portion of the earth’s crust is shuttered by earthquakes or melted by volcanic fire, or ground to dust by the moving waters on the surface»12. Terremoti, eruzioni vulcaniche e acque superficiali sono i processi e gli agenti geologici latori della “seconda morte”, dacché giungono a polverizzare persino le «memorials» delle cose del mondo già perite. «[A]ll shall go», come scrive Tennyson. Al contrario, nei Dialoghi tra due bestie del 1820, è proprio la (feticistica) sopravvivenza delle ricordanze umane, delle «memorials», a stornare temporaneamen11 Cfr. Tennyson 2014, pp. 397-398 e la nota ad locum per le informazioni sulla lettura dei Principles of Geology di Charles Lyell da parte di Tennyson. 12 Lyell 1832, p. 271. Un’illustrazione delle posizioni di Lyell in merito alle circostanze che determinano la conservazione o la distruzione dei resti organici è in La Vergata 1998b, pp. 584-589 (in particolare p. 586).
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7. un “mondo sanza gente”? assenza e presenza nei dialoghi (1820)
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te la minaccia della distruzione definitiva. Gli interlocutori animali prendono a burla l’antropocentrismo e l’operato infettivo che l’uomo ha esercitato su vegetali e animali, ma lo fanno sempre a partire da ciò che tuttavia sopravvive – dalle ossa che gli interlocutori animali ancora possono toccare, e da un racconto, quasi una favola, che qualcuno ancora ricorda. Un racconto che sprona le bestie sopravvissute a parlare, una volta ancora, della crudele «scimia» oramai estinta. È importante sottolineare con forza che nei Dialoghi tra due bestie tutto ciò si verifica per una curiosa eterogenesi dei fini, e in barba alle dichiarazioni contrarie di Cavallo in Cavallo e Bue: «E ora che [gli uomini] non ci sono più, il mondo non se n’accorge e non se ne ricorda più che di quegli altri animali di cui t’ho detto che non si trova altro che l’ossa ec.»13. Non si può fare a meno di notare che le cose stanno esattamente al contrario: tanto la «nonna» e i «nonni», quanto i «loro vecchi» – i cavalli affabulatori del secondo abbozzo – certificano che una parte di mondo ricorda ancora quella razza umana che è de facto «già perduta e sparita dal mondo»14. La strappano involontariamente all’estinzione, e la rendono presente «come in ombra», ogniqualvolta si prodigano a narrarne la storia. In conclusione, direi che non posso essere in disaccordo con Mario Fubini quando scrive che Leopardi ha accarezzato «l’immagine di un tempo nel quale dal mondo saranno scomparse le tracce dell’uomo, così come egli non fosse mai stato»15. Al contempo, però, credo pure che quel «tempo» non abbia fatto capolino all’orizzonte dei Dialoghi tra due bestie.
13 OM,
p. 462, rr. 101-103. Ivi, p. 460, rr. 38-39. È questo un punto da tenere bene a mente, per evitare di distorcere e fraintendere la dinamica dialogica. Si pensi ad esempio a Sangirardi 2000, p. 34, a detta del quale in Cavallo e Toro le «ossa umane portano a due bestie la sola incerta testimonianza di una razza dimenticata». 15 Cfr. supra, nota 1. 14
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8. Un “mondo sanza gente”? Antropologia dei Dialoghi (1820)
È tempo di illustrare le ragioni per cui ritengo che il mondo che fa da cornice ai Dialoghi non assomigli punto al mondo evocato da Dante in Inf. 26. La formula che il poeta fiorentino mette in bocca a Ulisse, nella sua famosa orazione, circoscrive un mondo ‘disabitato’ (si intende in riferimento all’uomo) che ha numerosi confratelli nell’opera leopardiana, in particolare nel cantiere aperto dei disegni. Ad esempio, le «foreste, paesi deserti e sconosciuti ec.» inquadrati in Z 55 (1819?); gli impenetrabili abissi marini (il «fondo del mare») immaginati nel disegno dei «Dialoghi satirici» (1819?); le «foreste d’America non mai penetrate da uomo», raggiunte nel disegno del «Poema di forma didascalica» (1819-1820?); in ultimo, il solitario «mondo non abitato per anche dagli uomini, e solamente da pochi animali» dell’abbozzo dell’Inno ai Patriarchi (1822), per descrivere il quale Leopardi si richiama esplicitamente al proprio Inno a Nettuno (1816-1817), in particolare alla discesa di Rea «nella terra inabitata per darvi alla luce quel Dio»1. L’intero ventaglio degli esemplari appena esibiti può essere riportato al dominio dei luoghi ‘finora non abitati’ (questo il significato di «per anche» nell’abbozzo dell’Inno), o al quadro degli spazi ‘giammai abitati’ (il «non mai» del disegno del «Poema»). Detto questo, non sarà difficile capire perché Leopardi ne accentua sensibilmente il carattere remoto – cioè la distanza che di fatto separa e protegge quei luoghi dalla presenza e dall’operato dell’uomo – mediante l’uso dei segnali d’infinito, o dei marcatori di vaghezza idillica. Ebbene, se tra quei confratelli leopardiani del «mondo sanza gente» non ho collocato il mondo dei Dialoghi tra due bestie, è precisamente per il fatto 1 Canti
ii, p. 284; Inno a Nettuno, pp. 107-108, vv. 13-20 e 37-39.
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che esso eccede sia l’ambito dei luoghi ‘finora non abitati’, sia quello degli spazi ‘giammai abitati’ dall’uomo. Al contrario, è ‘già stato abitato’ dal genere umano, ed è rimasto oltremodo segnato dalla sua presenza e dal suo operato. In quel mondo, difatti, l’uomo non si è limitato a degenerare a tal punto da estinguersi, anzi si è adoperato per estendere la detta degenerazione a talune specie vegetali e animali, procurando una profonda infezione extraspecifica. Non c’è più spazio, nei Dialoghi, per la contemplazione, né per la figura del «contemplatore» introdotta da Leopardi in Z 55 (cfr. cap. 6). La scena dialogica è già occupata dal ben più pericoloso «disturbatore» (ancora Z 55), il quale ha polverizzato la funzione preservativa della vaghezza idillica2, ed è giunto a profanare la purezza e la verginità delle selve e delle foreste di cui si legge nel disegno del «Poema» – anticipazioni pregnanti dei «giovani prati» del futuro Inno ai Patriarchi (1822; v. 24). In altri termini, ha seguito sino in fondo l’invito esplorativo porto da Chateaubriand nel capitolo Que la mythologie rapetissoit la nature del Génie, stella polare per l’estensore del disegno del «Poema». Però, piuttosto che trovare silenzio e riposo nelle foreste e nelle selve, vi ha portato il caos: Abbozzo del Poema Ma principalmente dovrebbe servirsi della infinita materia poetica che le foreste e le selve somministrano, […] la selva terribile di Marsiglia a cui non si poteva alcuno avvicinare di mezzogiorno e della quale parla Lucano, […] le foreste d’America non mai penetrate da uomo, così quelle d’altre parti del mondo […]. Si potrebbe anche far uso di quello che somministrano le vite p. es. de’ padri antichi solitari, e le diverse storie sì profane sì massimamente sacre sia ebrea sia cristiana, come anche tutta la nostra Religione. (c.vi miei) Génie
Pénétrez dans ces forets américaines aussi vieilles que le monde, quel profond silence dans ces retraites, quand les vents reposent! (c.vo mio)
2 “Segnali d’infinito” e funzione “protettiva” della “vaghezza idillica” sono formule coniate da Luigi Blasucci. Per la loro applicazione in particolare nell’Inno ai Patriarchi cfr. Canti Blasucci, p. 210.
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8. un “mondo sanza gente”? antropologia dei dialoghi (1820)
Cavallo e Bue
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come anche le razze nostre (de’ cavalli, ed anche de’ buoi) s’indebolivano e imbastardivano tra le loro mani, e per averne delle belle e forti le andavano a pigliar nelle selve ec. e così le piante3. (c.vi miei)
Dismettendo l’occhio contemplativo a beneficio delle mani manipolatrici («tra le loro mani»), e muovendosi sino ad annullare ogni distanza e a penetrare nelle selve, il genere umano ha dato inizio alla storia dell’imbastardimento vegetale e animale. Questo è un punto fermo della “storia del genere umano” messa in bocca a Cavallo in entrambi i Dialoghi dell’estate 1820. Ma non solo. Due anni dopo, nell’abbozzo dell’Inno, Leopardi annuncerà la fine della natura incontaminata dell’era adamitica, e l’avvio del regno della morte sulla «sventurata progenie» di Adamo. Lo farà con un sostantivo che suggerisce quanto Giacomo ancora pensasse al movimento del «disturbatore» dei Dialoghi: «Caino. Ingresso della morte nel mondo»4 (c.vo mio). Questo parallelismo tra l’abbozzo dell’Inno e i Dialoghi è della massima importanza. Ci rivela in maniera inequivocabile la natura del movimento del «disturbatore», e della manipolazione da lui effettuata per mezzo delle mani. Il «disturbatore» penetra nelle selve nello stesso modo in cui la morte penetra nel mondo attraverso l’operato di Qajin. Ebbene, quando scrive «Caino. Ingresso della morte nel mondo», senza possibilità di errore Leopardi fa eco a un passo della Lettera ai Romani in cui Paolo di Tarso parla del peccatus primitivus, il peccato originale: Διὰ τοῦτο ὥσπερ δι’ ἑνὸς ἀνθρώπου ἡ ἁμαρτία εἰς τὸν κόσμον εἰσῆλθεν, καὶ διὰ τῆς ἁμαρτίας ὁ θάνατος, καὶ οὕτως εἰς πάντας ἀνθρώπους ὁ θάνατος διῆλθεν, ἐφ’ ᾧ πάντες ἥμαρτον5.
‘Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato [εἰσῆλθεν] nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato’. Il ‘solo uomo’ peccatore cui pensa Paolo è Adamo, dacché, scrive subito dopo, «ἀλλὰ ἐβασίλευσεν ὁ θάνατος ἀπὸ Ἀδὰμ μέχρι Μωϋσέως», 3 Cfr. Disegni, pp. 98-99, rr. 168-191; Chateaubriand 1802, t. 2, p. 225; OM, p. 462, rr. 122-125. 4 Canti ii, p. 285. 5 Rom. 5, 12. Trascrivo il passaggio della Lettera da Merk 1957, p. 520.
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‘la morte regnò da Adamo fino a Mosè’6. Diversamente, lo si è visto, l’autore dell’abbozzo dell’Inno pensa al peccato commesso da Qajin – al marchio cainico, la «colpa che attraversa l’intera storia della civiltà e che coincide con la costituzione della società»7: «Caino. Ingresso della morte nel mondo». E due anni prima l’estensore di Cavallo e Bue, ancora più genericamente, aveva fatto riferimento alla specie “disturbatrice” par excellence, l’umana, che penetra nelle selve con l’obiettivo di assicurarsi degli animali domestici: «per averne delle belle e forti le andavano a pigliar nelle selve ec.». E così conduce con sé la morte e pecca, giusta l’intertesto scritturale. Restiamo ancora un poco sull’abbozzo dell’Inno. Poco più avanti, precisamente nel quadro storico dedicato alle vicende della torre di Babele, Giacomo descrive gli effetti della diffusione del genere umano. Leggiamo il passaggio facendo attenzione al rinnovato riferimento alla verginità violata e ai nefasti effetti de «l’influenza dell’uomo» su una natura immota, e inserita in un ciclo vitale senza variazioni: Il nostro globo s’empie tutto di sventure e di delitti. Noi le insegnamo a terre vergini, le quali per la prima volta sentono l’influenza dell’uomo, e con ciò solo divengono consapevoli del male e del dolore, cose fin qui sconosciute e non esistenti per loro8. (c.vi miei)
Questo ennesimo quadretto leopardiano di “storia del genere umano” sarebbe perfettamente congruente con la scena di Cavallo e Bue, se non fosse che nell’abbozzo dialogico l’uomo non porta affatto con sé la metafisica consapevolezza «del male e del dolore». Piuttosto, egli diffonde un determinato stadio della civiltà e della società. Agli occhi di Leopardi, addomesticare gli animali non è diverso da incivilirli, e dunque indebolirli, causandone lo snaturamento e la degenerazione. Quando nello Zibaldone affronterà di petto l’analogia addomesticare-incivilire, tra agosto e settembre del 1821, Giacomo proporrà come campioni d’analisi proprio le razze dei cavalli e dei tori che interloquiscono nel primo dialogo:
6 Rom.
5, 14 (ibidem). 2011, p. 18. 8 Canti ii, p. 285. 7 Polizzi
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la nosologia cresce di volume, e la salute umana decresce, in proporzione della civiltà. Questo si vede anche nelle razze de’ cavalli, de’ tori ec. che passati dalle selve alle nostre stalle, e ad una vita meno incivile9, indeboliscono e degenerano appoco appoco. Lo stesso dico delle piante coltivate con cura ec. Esse acquisteranno in delicatezza ec. ec. ma perderanno sempre in forza, e se per quella delicatezza saranno meglio adattate a’ nostri usi (massime nel nostro stato presente, sì diverso dal naturale), ciò non prova che non sieno degenerate10. (c.vi miei)
Il passaggio è notevole, e merita tutta la nostra attenzione. Il lettore avrà già notato la stretta somiglianza con il brano di Cavallo e Bue che abbiamo riportato poco sopra: «come anche le razze nostre (de’ cavalli, ed anche de’ buoi) s’indebolivano e imbastardivano tra le loro mani, e per averne delle belle e forti le andavano a pigliar nelle selve ec. e così le piante». Questa sensibile somiglianza pare suggerire che, tra agosto e settembre del 1821, Leopardi stia esplicitando e dilatando la teoresi che informa l’abbozzo dialogico, tenendolo sott’occhio, e rileggendolo. Molti particolari sono perfettamente sovrapponibili, ad esempio l’esplicitazione dell’equazione incivilire-indebolire, o l’estensione analogica del processo di degenerazione anche alle «piante». Altri invece non tornano. Il riferimento non è tanto alla variazio9 Si ricordi cosa aveva scritto Leopardi in Z 56: «il veder che le bestie non hanno tra loro altra società che per certi bisogni, del resto vivono insieme senza pensar l’una all’altra». La formula «vita meno incivile» incastona un dettaglio molto importante. A guardar bene, Leopardi qui è molto preciso: il transito delle bestie dalle ampie selve alle anguste stalle comporta solo l’aumento del grado di civiltà della vita animale – rapporti sociali più stretti e circoscritti (allusi nel passaggio dal vasto all’angusto, cioè dalle selve alle stalle), non creati ex novo. Leopardi sapeva bene che anche le bestie godono di una qualche forma di società, o meglio (con le parole dell’ultimo trattatello zibaldoniano sulla società) di un «grado di società» che prevede «una scarsissima comunione de’ suoi individui tra loro» (Z 3777, 25-30 ottobre 1823). Il quattordicenne autore del Dialogo filosofico (1812) lo aveva imparato dall’articolo Instinct dell’Encyclopédie, firmato da Denis Diderot. O meglio, l’aveva appreso da Giambattista Roberti, che glielo mediava per l’occasione: «Le bestie hanno grandi e belle cognizioni, le quali si dilaterebbero se sapessero convivere insieme in maggior società; ma spesso si separano per sicurezza, soddisfatto l’Amore, ed educata la prole. Le sole specie forte si attruppano, come i Cervi […]. Le Femine Cinghiali stanno come più deboli per trè anni insieme co’ giovani maschi; e quindi fuggono alla solitudine: Le Bestie inoltre non hanno ozio, essendo sempre occupate, o in pascersi, o in difendersi […]. Non avendo ozio, non hanno conseguentemente alcuno di que’ bisogni di convenzione, che vengono prodotti dalla oziosità, e dalla noja» (c.vi miei). Cfr. Dialogo filosofico, pp. 80-81 nota 36 e Roberti, Della probità naturale, in Roberti 1789-1794, t. 7, pp. 312-313. 10 Z 1601-1602 (31 agosto - 1 settembre 1821).
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ne del piccolo campione di animali addomesticabili esibito in queste sedi (i cavalli e tori del diario; i cavalli e i buoi del secondo abbozzo). Vorrei porre enfasi, piuttosto, su due verbi adoperati da Leopardi. Il primo occorre nel diario, ed è «passati» (dalle selve alle nostre stalle), che oblitera completamente la violenza e il movimento rapinoso perpetrato dall’uomo, come si evince dall’antecedente «le andavano a pigliar» (nelle selve) di Cavallo e Bue. Il secondo verbo, il curioso «[s’]imbastardivano» adoperato in Cavallo e Bue, rappresenta una traccia importantissima per l’analisi che stiamo portando avanti. Serba memoria esatta di un passo del testo-matrice evidentemente ben ruminato e rielaborato da Leopardi, cioè del Discorso sopra l’origine ed i fondamenti della Ineguaglianza fra gli uomini di Rousseau. Vale la pena leggerlo nella sua interezza: Il cavallo, il gatto, il toro, l’asino istesso, hanno la più parte una statura più alta, tutti una costituzione più robusta, maggior vigore, forza e coraggio nelle foreste che nelle nostre case; essi perdono la metà di questi vantaggi nel diventar domestici, e si direbbe che tutte le nostre attenzioni a ben trattare e nutrire questi animali non tendono che ad imbastardirli. Egli è così dell’uomo stesso: divenendo egli sociabile e schiavo, diventa debole, timoroso, vile, e la sua maniera di vivere molle ed effeminata finisce di snervare insieme la sua forza ed il suo coraggio. […] l’animale e l’uomo essendo stati dalla natura egualmente trattati, tutte le comodità che si dà l’uomo a se medesimo di più di quelle che dà agli animali ch’egli addomestica, sono altrettante cause particolari che lo fanno più sensibilmente degenerare11. (c.vi miei)
Per avviarci a chiudere il cerchio dei cortocircuiti tra Discorso, Dialoghi e Z 1602 dobbiamo indietreggiare ancora nell’edizione italiana del Discorso di Rousseau. E segnalare che, giusto una pagina prima dell’ultimo brano citato, si legge una frase pregnante che deve aver funzionato da spunto ispiratore per il rapporto proporzionale che Leopardi istituisce tra nosologia e civiltà in Z 1602. Scrive infatti Rousseau: «quando si sa che non conoscono eglino [i selvaggi] altre malattie che le ferite e la vecchiezza, si sta per credere che facilmente si potrebbe fare la storia delle umane malattie, seguitando quelle delle civili società»12. 11 Rousseau
1797, pp. 21-22. Ivi, pp. 19-20. Per l’edizione 1782 del Discours Rousseau aggiunse in nota il riferimento alla testimonianza di Celso su Ippocrate (cfr. Rousseau 1964, p. 138: «Et Celse rapporte que la diéte, aujourd’hui si nécessaire, ne fut inventée que par Hipocrate»). Celso 12
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Manca ancora un ultimo tassello per completare l’archivio delle suggestioni rousseauiane che potrebbero aver offerto il destro alle argomentazioni leopardiane circa il rapporto tra le bestie e l’animale umano. Dobbiamo tornare nuovamente sul pensiero del diario in cui Leopardi, forse nel 1819, aveva ritradotto la sentenza di Rousseau sull’«animal dépravé» (Z 56; cfr. cap. 6), e confrontarlo con le pagine del Discorso che stiamo sfogliando in questo capitolo. Scopriremo che la ricostruzione sperimentale dello «stato di natura» che il ginevrino presenta al proprio lettore (nella forma di una pura congettura)13 interseca in più punti certi gangli dell’abbozzo di «sistema» registrato nel diario. Un sistema che, si ricordi, orbita attorno alla nozione di «vita naturale», per molti versi analoga a quella del rousseauiano «stato di natura». Qui ci concentreremo solo sugli spunti che paiono utili a ricostruire l’angolatura antropologica adottata da Leopardi nei Dialoghi, vale a dire: 1) l’invito rousseauiano a scartare la testimonianza del racconto scritturale, in particolare della relazione mosaica relativa al Diluvio; 2) l’enfasi posta sull’imperativo della conservazione di sé, inteso come principio naturale anteriore alla ragione; 3) l’elogio dell’organizzazione umana, in particolare del bipedalismo e della stazione eretta: Rousseau, Discorso 1. Nella maggior parte de’ nostri non è caduto nemmen in pensiero di sospettare, se lo stato di natura abbia giammai esistito, essendo evidente per la lettura de’ sacri libri, che avendo il primo uomo ricevuto immediatamente da Dio dei lumi e dei precetti, neppure egli stesso fosse in questo stato: e che prestando agli scritti di Mosè quella fede che gli deve ogni filosofo cristiano, bisogna negare che nemmen pria del diluvio si sieno giammai trovati gli uomini nello stato di natura, quando qualche straordinario avvenimento non li avesse fatti ricadere: paradosso compare anche nel brano di Z 1602, ma Giacomo deve averlo aggiunto per conto suo, perché la nota di Rousseau non compare nell’edizione it. adoperata dal recanatese. 13 Sin dall’inizio la «théorie de l’homme» (Lettre à Christophe de Beaumont) del ginevrino è concepita in termini sperimentali. Le quattro tappe dell’inchiesta che Rousseau istruisce per «concevoir par conjecture l’homme naturel à partir de l’homme en société» (Discours Inégalité; Émile; Confessions; Rousseau juge de Jean Jaques) sono ricostruite e analizzate a fondo da Jean-François Perrin in Rousseau 2019, pp. 71-82 (la citazione proviene da p. 76).
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molto imbrogliato a difendersi, ed affatto impossibile a provarsi. Cominciam dunque dal por a parte tutti i fatti, non avendo essi che fare colla questione. […] La religione ci ordina di credere, che Dio egli medesimo avendo tratto gli uomini dallo stato di natura, eglino sono ineguali perchè egli ha voluto che lo fossero; ma essa non ci proibisce di formar delle congetture tratte dalla sola natura dell’uomo e degli enti che lo circondano, su ciò che avrebbe potuto divenire il genere umano se fosse rimasto abbandonato a lui medesimo. 2. Non bisogna confondere l’amor proprio, e l’amore di sestesso […]. L’amor di sestesso è un sentimento naturale che porta ciascun animale a vegliare sopra la sua propria conservazione, ed il quale diretto nell’uomo dalla ragione, e modificato dalla pietà, produce l’umanità e la virtù. 3. senza ricorrere alle sovrannaturali cognizioni che abbiamo su questo punto, e senza aver riguardo ai cambiamenti che han dovuto sopravvenire nella conformazione tanto interna quanto esterna dell’uomo, a misura ch’egli applicava i suoi membri a nuovi usi, e che si nutriva di nuovi alimenti, io lo supporrò conformato in tutti i tempi come lo veggo al dì d’oggi, camminando a due piedi, servendosi delle sue mani, come noi facciam delle nostre, portando i suoi sguardi su tutta la natura, e misurando cogli occhi la vasta estensione del cielo14. Leopardi, Z 56
14 Rousseau
Com’è costantissimo e indivisibile istinto di tutti gli esseri la cura di conservare la propria esistenza, [= 2] così non è dubbio che quasi il compimento di questa non sia l’esserne contento, e l’odiarla o non soddisfarsene non sia un principio contraddittorio il quale non può stare in natura e molto meno in quell’essere il quale senza entrare nella teologia, [= 1] è chiaro ch’essendo l’ordine animale il primo in questo globo e probabilmente in tutta la natura cioè in tutti i globi, ed egli essendo evidentemente il sommo grado di quest’ordine, viene a essere il primo di tutti gli esseri
1797, rispettivamente pp. 9-10; 173 nota 13; 12-13.
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nel nostro globo. Sì che si potrebbe pensare che la differenza di vita fra le bestie e l’uomo sia nata da circostanze accidentali e dalla diversa conformazione del corpo umano più atta alla società ec. [= 3]
Se davvero Giacomo prese la parola per effetto dell’impressione provocata dalla recente lettura del Discorso, allora sarebbe lecito suggerire che il recanatese forse procedette a plasmare la propria théorie de l’homme, e a obliterare la teologia («senza entrare nella teologia»), perché si sentì autorizzato dalla mossa analoga di Rousseau, che mette da parte gli «scritti di Mosè» sul Diluvio (punto 1). E se davvero l’allusione vaga alla «diversa conformazione del corpo umano» fu ispirata dal trasformismo ristretto del Discorso (punto 3), allora sarebbe più semplice chiarire quale sia l’origine del riferimento esplicito alla stazione eretta e al bipedalismo del genere umano calato in Cavallo e Bue: «Era una sorta di bestie da quattro zampe come siamo noi altri, ma stavano ritti e camminavano con due sole come fanno gli uccelli» (c.vi miei). Ci torneremo nel prossimo capitolo. Ai fini dell’analisi dei Dialoghi tra due bestie era necessario tornare su Z 56 e adoperare la lente d’ingrandimento: al netto di qualche dettaglio, nei Dialoghi Leopardi riprodurrà per l’appunto la medesima angolatura antropologica adottata nel pensiero affidato al diario, in Z 56. Però con un importante scarto, e qui sta il punto. Nell’estate del 1820 Giacomo non esiterà a dar carta alla figura del «disturbatore» di Z 55, riconoscendolo nell’uomo che polverizza ogni distanza contemplativa, e va «a pigliar nelle selve» le bestie da addomesticare pro domo sua. Né si farà scrupoli a porre de facto fuori quadro l’immagine dello «spettatore» di Z 55, assieme a quella dei contemplatori «padri antichi solitari» affiorata nel disegno del «Poema di forma didascalica sulle selve e le foreste» (1819-1820?). L’istante in cui l’attivo e crudele «disturbatore» precipita tra le carte leopardiane è il medesimo in cui i Dialoghi scartano una volta per tutte dal più angusto progetto annunciato nel disegno dei «Dialoghi Satirici», e in particolare dalla scelta di adoperare interlocutori marini. I pesci parlanti lucianeschi di quel disegno15 avrebbero potuto fornire una 15 Sul mondo subacqueo dei «Dialoghi Satirici» come rovesciamento satirico del mondo umano cfr. soprattutto Sangirardi 2000, p. 34, che richiama l’attenzione anche sui pesci parlanti, «gli stessi pesci che la similitudine dello Zeus confutato citata nello Zibaldone (41-2) usa come doppi satirici degli dei olimpici».
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solida piattaforma straniante agli abbozzi dialogici, però di certo non avrebbero potuto assecondare il proposito leopardiano di affrontare il tema del «grande impero [dell’uomo] sugli altri animali», la tirannia snaturante che il genere umano esercita sugli animali domestici. In entrambi i Dialoghi il motivo della tirannia umana è introdotto dalle parole di Cavallo, cioè di una vittima degli abusi perpetrati dall’uomo. La circostanza non è affatto casuale: non aveva forse scritto Petrus Camper, nella seconda lezione Sur l’analogie qui existe entre les quadrupedes les oiseaux et les poissons (1778), certamente letta dal recanatese, che il cavallo è «l’Animal le plus utile à l’homme»?16 Insomma, se la scelta leopardiana ricade precisamente sul cavallo, il toro e il bue, non è in risposta a un’esigenza legata alla mera «invenzione narrativa»17, ma perché su questo ristretto ventaglio di bruti Leopardi riesce agevolmente a concentrare tanto l’operazione satirica, quanto quella antropologica – cioè, entrambi i poli del colpo d’occhio «filosofico e satirico sopra la razza umana» di cui Giacomo parla sul finire del Cavallo e Toro (per la citazione cfr. più avanti, cap. 9). L’operazione satirica è patrocinata innanzitutto dai Σίλλοι di Senofane, in particolare da un frammento sull’«assurdità dell’idolatria» che Leopardi aveva volgarizzato in poesia per il Saggio sopra
16 Camper 1792, p. 43. Il nome del fisiologo e antropologo olandese Petrus Camper ricorre solo due volte nel corpus leopardiano, e sempre all’interno di rinvii bibliografici. Tali rinvii, certamente non omogenei dal punto di vista formale – generico il primo, più puntuale l’altro – possono però considerarsi solidali dal punto di vista tematico, dacché sono entrambi suscitati dal fascino di certe riflessioni di natura estetica che Camper promuove in due diversi discorsi raccolti in un solo volume: Camper 1792. Leopardi non si premura mai di specificare il titolo del volume cui rimanda. Tuttavia, nello Zibaldone trascrive il titolo del Discours cui si riallaccia (Z 8: «V. Camper Diss. sur le beau physique.», cioè il Discours sur le beau physique), mentre nell’abbozzo dell’articolo sull’Errore attribuito a Innocenzo per aver dipinto Apollo piuttosto col violino che con la lira (forse del marzo 1819) procede a puntualizzare il numero delle pagine dei luoghi stralciati. Questi ultimi due luoghi testuali richiamati da Giacomo (Prose, p. 986: «p. 43 fine e 45 fine.») conducono alla seconda delle Deux leçons sur l’analogie qui existe entre les quadrupedes les oiseaux et les poissons, in particolare a passaggi in cui Camper oppone la risposta estetica incardinata dalla minuta conoscenza dell’anatomia animale alla risposta estetica che sorge dall’apprensione più generale dell’insieme delle parti (Camper 1792, p. 43: «connoîssance intime» o «approfondie» vs «connoîssance generale»; p. 45: «connoîssance précise» vs «l’ensemble»). Si noti che il primo passaggio è estratto dalla medesima pagina (la 43) in cui compare la sentenza sul cavallo che abbiamo riportato a testo. 17 Così Blasucci 1998, p. 290.
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gli errori popolari degli antichi (1815)18 e, più di recente, anche in prosa, per il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (1818): delle stesse bestie diceva Senofane che se i buoi se gli elefanti avessero mani, e con queste potessero dipingere, e fare quelle cose che fanno gli uomini, allora i cavalli dipingendo gli Dei gli avrebbero fatti di figura cavallina, e i buoi di figura bovina, e dato loro un corpo simile al proprio19. (c.vi leopardiani)
La caustica messa in ridicolo del punto di vista filocentrico di questo passaggio senofaneo Leopardi l’avrebbe in seguito ritrovata ancora in Petrus Camper, in un passaggio di quel Discours sur le beau physique richiamato esplicitamente sulla soglia dello Zibaldone (Z 8, 1817?) e poi nell’abbozzo dell’articolo sull’Errore attribuito a Innocenzo per aver dipinto Apollo piuttosto col violino che con la lira (forse del marzo 1819): Il n’est pas invraîsemblable par suite que si un Eléphant, un Lion, un Cheval, une Baleine, un Aigle, une Ecrevisse ou une Araignée pouvoîent comme nous manifester leurs raisonnements, chacun de ces Animaux ne donnât à ses Dieux sa figure, comme offrant la beauté la plus rare & la plus touchante20.
Senofane su tutti, dunque. Ma non solo Senofane. L’operazione satirica leopardiana è perorata anche dalle Favole di Lorenzo Pignotti, ad esempio in quella «dell’asino del cavallo e del bue» raggiunta da Leopardi in Z 67 (estate-autunno 1819) e poi inclusa nella Crestomazia poetica (1827)21; o ancora, dagli Animali parlanti di Giambattista Casti, certamente frequentati nel 1819 (cfr. cap. 2). 18 Errori
popolari, p. 75. Poesia romantica, pp. 87-88. Si tenga a mente l’avvertenza di Cesare Galimberti in OM Galimberti, p. 122: «Dalla citazione, fatta [nella Poesia romantica] per sostenere la naturalezza delle figurazioni poetiche di tipo antropomorfico, Leopardi passerà per gradi alla derisione dell’antropocentrismo fatta da esseri extranaturali, nonché extraumani [nel Folletto e Gnomo]». Per il modello di Casti, Gelli (e forse Firenzuola) cfr. in ultimo Disegni, p. 108. Sul punto della traduzione poetica del frammento 15 dei Σίλλοι di Senofane negli Errori popolari cfr. la nota di Ottavio Besomi in Poesia romantica, pp. 156-157. 20 Camper 1792, p. 96 (ma si veda l’intero passaggio, pp. 95-96). Cfr. Z 8 e supra, nota 16. 21 Sangirardi 2000, pp. 33-34 e nota 9 (per la citazione cfr. supra, cap. 7 nota 2). Cfr. Crestomazia poesia, n. ccxii Il cavallo, il bue, il montone e l’asino, pp. 368-369. 19
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L’operazione antropologica, invece, è condotta con ogni evidenza nel nome di Rousseau, il ginevrino che, nel passo sopra richiamato, aveva tenuto a ribadire che «[i]l cavallo, il gatto, il toro, l’asino istesso, hanno la più parte una statura più alta, tutti una costituzione più robusta, maggior vigore, forza e coraggio nelle foreste che nelle nostre case; essi perdono la metà di questi vantaggi nel diventar domestici, e si direbbe che tutte le nostre attenzioni a ben trattare e nutrire questi animali non tendono che ad imbastardirli» (c.vi miei). Collocare Senofane, Pignotti e Casti (oltre che Luciano) dietro le quinte dei Dialoghi leopardiani è conditio sine qua non se si vuole tentare di comprendere appieno la novità del cronotopo satirico che li informa. Ma, si badi, ciò non basta affatto a comprendere appieno l’operazione zoologica e antropologica che anima quei Dialoghi. Per non fraintenderne il variegato progetto, allora, è importante cominciare, come prima cosa, a insistere con forza sul fatto che, negli abbozzi dialogici, Leopardi non si prodiga solo a deridere l’antropocentrismo, o ancora a satireggiare i vizi del gran mondo ormai estinto. Ciò che più preme di sottolineare è che il poeta si spende pure a illustrare il profilo sinistro di una specie irrimediabilmente degenerata, e divenuta un pericoloso agente caotico – una causa di degenerazione extraspecifica. Non si può fare a meno di notare che Giacomo non affronta questo punto in nessun’altra prosetta satirica. È vero che il problema della “mutazione” e degenerazione delle cose umane, portata dall’incivilimento, infesta tutto il compasso delle prosette satiriche22, ma è altrettanto vero che solo nei Dialoghi tra due bestie la “mutazione” attraversa i confini della specie, e dall’uomo si estende ai vegetali e agli animali. Il lessico regale che compare nella formula leopardiana in cui si cristallizza il tema del «grande impero [dell’uomo] sugli altri animali» certamente conserva memoria del racconto del Genesi, e dell’impero sugli esseri viventi che ivi Dio affida ad Adamo23. Epperò il problema che prende corpo in quella formula leopardiana, più che teologico, è francamente biologico, e latamente antropologico. Era 22 Basteranno un paio di esempi, tratti dal dialogo Filosofo greco, Murco senatore romano, popolo romano, congiuranti: «Che mutazione è questa?» (OM, p. 453, r. 11); «Non sono più quei tempi. […] Oh il mondo è cambiato assai. L’incivilimento ha fatto gran benefizi» (ivi, p. 454, rr. 28-34). 23 Leopardi vi fa riferimento già nelle dissertazioni Sopra l’anima delle bestie (1811) e Sopra le doti dell’anima umana (1812). Cfr. Dissertazioni, rispettivamente pp. 83-84 e 317.
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stato scolpito a chiare lettere nel De la dégénération des animaux (1766) di Buffon, il primo pensatore a riconoscere nell’influenza antropica una delle tre cause del «cangiamento, dell’alterazione, e della degenerazione nei bruti»: Se a siffatte cagioni naturali dell’alterazioni negli animali liberi s’aggiugne quella dell’impero dell’uomo sopra quelli, ch’egli ha ridotti in servitù, si dovranno far le maraviglie in vedere sino a qual segno la tirannìa può degradare e trasfigurar la Natura; si troveranno su tutti gli animali schiavi le cicatrici della loro cattività, e l’impressione de’ lor ferri; si vedrà […] che nello stato, in cui noi gli abbiam ridotti, non sarebbe forse più possibile di rimetterli, e di restituirli alla lor forma primitiva, e di rendere ad essi gli altri attributi della Natura, che abbiam loro tolti. La temperatura del clima, la qualità de’ nodrimenti, e i mali della schiavitù sono adunque le tre cagioni del cangiamento, dell’alterazione, e della degenerazione nei bruti24. (c.vi miei)
Per capire se l’estensore dei Dialoghi possa aver pensato a pagine come queste, e se possa averne seguito sino in fondo la lezione, sarà necessario fare un passo indietro, e illustrare il reale significato delle tesi di Buffon25. Con la Dégénération des animaux il naturalista francese smentì di colpo le tirate antitrasformistiche che era andato elaborando sin dal 1749, anno della pubblicazione della Théorie de la Terre. Dopo aver ripetuto per anni che non c’era modo di dimostrare che la natura avesse prodotto specie attraverso la degenerazione, Buffon si risolse a cambiar partito e si schierò a favore di un trasformismo netto ma selettivo, limitato ai gruppi sistematici minori (senza toccare le 13 specie nobili o maggiori, più complesse dal punto di vista anatomico). Partendo da una concezione genetica delle specie, le «sole entità della natura» (De la nature, 1765), il naturalista illustrò la sua nuova teoria 24 Buffon 1782-1791, t. 39 (vale a dire il t. 24 dei quadrupedi), pp. 172-173. All’immagine regale il naturalista francese farà ritorno ancora ne Les époques de la nature (1778). Cfr. ivi, t. 3, pp. 418-419: «Il primo tratto dell’uomo, che comincia a incivilirsi, è l’impero, ch’egli sa prendere su gli animali, e questo primo tratto del suo intendimento diviene dipoi il maggior carattere della sua potenza su la Natura; dopo essersegli sottomessi allora fu, che col loro soccorso cangiò la faccia della terra». Nel Système analitique des connaissances positives de l’homme, pubblicato nel 1820, sarà Lamarck a portare alle estreme conseguenze le tesi sostenute dal suo maestro Buffon. E lo farà, come scrive Barsanti 2005, pp. 160-161, in una delle prime pagine “ecologiste” della cultura occidentale. 25 In ciò che segue a proposito della teoria della “degenerazione” in Buffon mi rifaccio ampiamente e da vicino, senza alcuna pretesa di originalità, alla lucida messa a punto di Barsanti 2005, pp. 96-103.
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ricorrendo per primo all’immagine evoluzionistica per antonomasia, quella dell’albero: da un certo numero di specie originarie (chiamate anche “famiglie” o “ceppi”), venticinque in tutto, gli organismi degenerano localmente. Si modificano per via di cause come clima, nutrimento e spazio vitale, dando vita a 187 specie. La storia della vita è raffigurata da una serie di alberi, ognuno dei quali individua precise affinità morfologico-funzionali. Il significato che Buffon assegna a termini come “degenerazione” o “snaturamento” deve essere valutato prestando attenzione al contesto che abbiamo appena ricostruito. Secondo l’autore della Dégénération des animaux, «relativamente alla Natura il perfezionarsi o il viziarsi è la stessa cosa»26, dacché qui egli intende la “degenerazione” in senso etimologico e deassiologizzato. Si tratta, in breve, di una de-gradazione, un ‘allontanamento graduale dal tipo originario’, cioè di una divergenza dal tipo anatomico-morfologico parentale. Nella Dégénération des animaux essa comporta la progressiva cancellazione delle tracce della provenienza, e dunque una difficoltà di afferrare le affinità; non implica mai, invece, quell’idea regressiva incastonata, ad esempio, nell’immagine teologica della caduta da un’originaria perfezione. E non vi affiora mai quel senso fortemente assiologizzato che Leopardi invece annette, immancabilmente, alle parole “degenerazione” e “snaturamento”, sempre nella direzione che va dal meglio al peggio (o, per dirla con Granelli, al peggiore «di tanto»)27: perdita di forza e vigore, indebolimento, corruzione, cagionevolezza, e così via. Ciò accade perché la stella polare del Leopardi di cui ci stiamo occupando non è tanto la limpida impostazione del problema dell’evoluzione dato da Buffon nella Dégénération des animaux, quanto piuttosto il “platonismo traslato” che pervade il Discorso di Rousseau. A cominciare dalla Préface, in cui il ginevrino si riappropria liberamente del mito platonico della statua di Glauco, e lo piega a significare che l’anima umana si degrada e si corrompe in seno alla società, per effetto di una moltitudine di cause esterne, «au point d’être presque méconnoissable»28. Platone, invece, l’aveva giocato al termine della Repubblica (x, 611) per illustrare la degenerazione cui l’anima immor26 Buffon
1782-1791, t. 39 (vale a dire il t. 24 dei quadrupedi), p. 174. 1792-1793, t. 2, p. 58. Cfr. cap. 4. 28 Rousseau 1964, p. 122. 27 Granelli
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8. un “mondo sanza gente”? antropologia dei dialoghi (1820)
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tale va necessariamente incontro – indipendentemente dai fattori esterni – sin dal momento in cui essa si unisce al corpo. Nell’edizione italiana del Discorso letta da Leopardi la Préface non compare, così come scompare ogni accenno alla statua di Glauco29. Rimane però il Discorso stesso, e con esso la ricostruzione di una storia («O Uomo, […] ecco la tua storia»)30 nella quale il genere umano si deprava (fisicamente ancor prima che moralmente) nel vortice del tempo storico; una storia in cui l’uomo diffonde l’infezione portandola agli animali «ch’egli addomestica». L’autore del Discorso è un pensatore che si situa hors du champe théologique, al contempo, però, adopera a piene mani categorie analoghe a quelle teologiche di salvezza e perdizione: salvezza è identità inerziale, restare simili a sé stessi; perdizione è mutamento, lo smarrimento della rassomiglianza31. Il tempo storico è intriso di colpevolezza nella misura in cui esso si risolve immancabilmente nella cancellazione della provenienza. Siamo molto remoti da Buffon, e della sua concezione puramente biologica della degenerazione, intesa come mero allontanamento (non importa se in meglio o in peggio). E molto vicini alla teoresi di Leopardi – sia ben chiaro: non solo dell’autore dei Dialoghi32. Nell’ultimo trattatello zibaldoniano sulla società, 29 Va aggiunto, in ogni caso, che al mito della statua di Glauco fa riferimento, per ben tre volte, De La Tour 1778, pp. 13, 24, 313-314. Nella seconda occorrenza compare il termine «corrompu», forse riutilizzato da Leopardi in occasione della ritraduzione della sentenza rousseauiana sull’«animal dépravé» (Z 56): cfr. supra, cap. 6 nota 9. 30 Rousseau 1797, p. 11. 31 Su questo punto insiste a ragione Starobinski 1982, pp. 43 sgg. 32 Un esempio eloquente è nell’abbozzo di trattatello sull’uso delle monete nel processo di creazione della civiltà e nel cosiddetto sistema della «perfezione dello stato sociale» (Z 1171-1174, datato 16 giugno 1821). Ivi muoversi («l’immenso spazio che ha dovuto percorrere lo spirito umano») vuol dire corrompersi, mentre, al contrario, la stasi aiuta ad arginare in qualche modo il processo di snaturamento («e incorrotta, e quasi stazionaria»). Il 16 maggio dello stesso anno, appena un mese prima, Giacomo aveva scritto: «Uno dei principali dogmi del Cristianesimo è la degenerazione dell’uomo da uno stato primitivo più perfetto e felice: e con questo dogma è legato quello della Redenzione, e si può dir, tutta quanta la Religion Cristiana. Il principale insegnamento del mio sistema, è appunto la detta degenerazione. Tutte, per tanto, le infinite osservazioni e prove generali o particolari, ch’io adduco per dimostrare come l’uomo fosse fatto primitivamente alla felicità, come il suo stato perfettamente naturale (che non si trova mai nel fatto) fosse per lui il solo perfetto, come quanto più ci allontaniamo dalla natura, tanto più diveniamo infelici ec. ec: tutte queste, dico, sono altrettante prove dirette di uno dei dogmi principali del Cristianesimo, e possiamo dire, della verità dello stesso Cristianesimo» (Z 1004).
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steso tra 25 e 30 ottobre 1823, Giacomo potrà ancora scrivere che «[n]ella società l’uomo perde quanto è possibile l’impronta della natura» (Z 3809).
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9. Animali perduti. Paleologia e antropogenesi nei Dialoghi (1820)
Prima di lasciare gli abbozzi dei Dialoghi conviene soffermarsi con agio sulla meraviglia e lo sconcerto che trasudano dalla domanda di Toro: «Come, è perduta una razza di animali?». Non è solo una tra le numerose domande del dialogo: è la primissima domanda formale che si legge in Cavallo e Toro. Leopardi dà enfasi allo sbigottimento della bestia con un preciso movimento di natura non tanto semantica, quanto stilistica. Toro costruisce il quesito riprendendo letteralmente il già detto – nella fattispecie, i materiali lessicali forniti poco prima da Cavallo1 – ma inverte a chiasma la posizione dei termini salienti, e volge in domanda la precedente risposta del suo interlocutore, premettendovi un’eloquente interiezione impropria («Come», da intendersi ‘Come!’): toro. Che ossa son queste cavallo. Io ho sentito dire spesso ai nostri vecchi ch’elle son ossa d’uomini. t. Che vale a dir uomini c. Era una razza di animali che ora è perduta già da chi sa quanto tempo. t. Come, è perduta una razza di animali?2
Potremmo riformulare la sua domanda in questo modo: ‘È mai possibile che si sia estinta un’intera specie animale?’. Cosa motivi il trasalimento di Toro, e cosa si celi dietro l’uso apparentemente scontato della formula «razza di animali» per classificare il genere umano – sono due 1 Qualcosa di simile accade in Folletto e Gnomo, ove il Folletto, altro interlocutore extraumano, nelle sue prime battute si limita a ripetere il già detto. Cfr. OM, pp. 73-74, rr. 13-18. Tanto in Cavallo e Toro, quanto in Folletto e Gnomo, la ripetizione del già detto converge verso il punto della “perdita”, o estinzione, del genere umano. 2 OM, p. 459, rr. 3-6. I punti interrogativi delle due precedenti domande sono integrazioni editoriali, che dunque non figurano nel ms. . La domanda di Toro verrà riproposta da Bue nel secondo abbozzo (OM, p. 461, rr. 59-60, ove si noti l'indicazione «come sopra.») e poi, nel 1824, verrà rimodulata da Gnomo in Folletto e Gnomo (ivi, p. 76, rr. 55-57).
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punti nodali dell’intero dialogo, per giunta posti in posizione incipitale. Punti sui quali Leopardi, si è visto, ha procurato di far sostare il lettore, ma che rischiano malgré lui di passare anacronisticamente inosservati. Cominciamo dal primo punto e focalizziamo l’attenzione sull’aggettivo che Toro prende in prestito da Cavallo: «perduta», cioè ‘estinta’. Si badi, innanzitutto, che Toro si mostra profondamente turbato perché è appena venuto a sapere che un’intera specie si è ‘estinta’, non perché la specie in questione è la specie umana. Il documento [d] trascritto all’inizio di questo libro (cfr. cap. 2) certifica che Leopardi desume il tecnicismo paleontologico dagli Animali parlanti di Casti, ove il termine «perduta» compariva in riferimento alla specie cui appartiene il mammut siberiano. Giacomo lo spende a più riprese nei due abbozzi, in particolare nel brano «[i]n proposito degli animali perduti» con cui si chiude Cavallo e Bue (rr. 118 sgg.), e lo riutilizzerà nell’operetta più prossima agli abbozzi del ’20, cioè Folletto e Gnomo (1824). La consuetudine contratta dai lettori del xxi secolo con il fenomeno biologico dell’estinzione non aiuta a sondare pienamente il movente della perplessità che anima la domanda di Toro. Ci si dimentica facilmente, ad esempio, che la paleontologia moderna (come zoologia del passato) nasce solo di recente, a cavallo tra Sette e Ottocento, grazie alla riforma della zoologia attuata da Cuvier. E non perché sia stato il primo a cimentarsi con i fossili dei grandi mammiferi siberiani e americani (si pensi a Buffon, Daubenton e Hunter, dei quali si è detto nel cap. 5), ma perché fu il primo a certificare incontrovertibilmente e scientificamente, alla luce dell’anatomia comparata, tra il 1796 (Mémoire sur les espèces d’éléphans vivantes et fossiles) e il 1812 (Recherches sur les ossemens fossiles de quadrupèdes), il fatto dell’estinzione3. Ciò significa che, quando Toro formula la sua domanda, nell’estate del 1820, quel fatto era ancora minorenne. Non è un mistero che alle specie “perdute” si fosse cominciato a pensare sin dagli inizi del Settecento4, ben prima che Linneo regi3 Cfr. Cohen 2002, p. xxxii: «Cuvier in 1796 masterfully demonstrated that the remains were in fact those of a “lost” species. In his Mémoire sur les espèces d’éléphans vivantes et fossiles, he argued that the mammoth had become extinct and suggested a history of the earth in which all living beings had periodically succumbed to gigantic cataclysms. Cuvier was henceforth hailed as the founder of a new discipline that would take its place in learned institutions». Sulla nascita della paleontologia moderna con Cuvier cfr. La Vergata 1998b, pp. 570-573. 4 Barsanti 2005, p. 121 menziona ad esempio le riflessioni di Johann Jakob Scheuchzer sui fossili. Un breve profilo di Scheuchzer e un chiarimento sulla “teologia dei fossili” da
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9. animali perduti. paleologia e antropogenesi nei dialoghi (1820)
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strasse nel Systema naturae la fortunatissima formula species deperditae con la quale si è soliti riferirsi a tale questione, e che evidentemente sta a monte del tecnicismo utilizzato da Casti. Ipotesi che non riconoscevano assurdità nell’ammettere il fenomeno dell’estinzione di intere specie circolavano in ogni diramazione della storia naturale e delle riflessioni filosofiche del Settecento. Anche in sedi prestigiosissime. Si pensi, ad esempio, che il barone d’Holbach ne sposava l’ammissibilità non solo nelle voci Fossiles (1755) e Terre (1765) dell’Encyclopédie5, ma pure nel Système de la nature (1770). Includendo nella lista, assieme ad alcuni degli animali leopardiani, persino il genere umano, in una radicale messa in questione delle pretese antropocentriche: Così l’uomo, al pari di tutto ciò che esiste sul nostro globo e su tutti gli altri, può essere considerato come sottoposto a perpetue vicissitudini. […] Così non vi è alcuna contraddizione nel credere che le specie varino senza tregua e ci sembra impossibile sia sapere che cosa diventeranno sia sapere che cosa sono state. […] Quale assurdità o incoerenza vi è dunque nell’immaginare che l’uomo, il cavallo, il pesce, l’uccello non saranno più? Questi animali sono dunque necessari e indispensabili alla natura ed essa non potrebbe continuare senza di loro il suo eterno cammino? Non cambia tutto intorno a noi? Non cambiamo noi stessi? […] Soli si spengono e si corrugano, pianeti periscono e si disperdono nelle distese celesti; […] e l’uomo, parte infinitamente piccola di un globo che è esso stesso un semplice punto impercettibile nell’immensità crede che l’universo sia fatto per lui, s’immagina di dover essere il confidente della natura, s’illude di essere eterno, si proclama re dell’universo! O Uomo! non capirai mai che sei solo un essere effimero? Tutto cambia nell’universo, la natura non contiene alcuna forma costante e tu pretenderesti che la tua specie non possa affatto scomparire e debba fare eccezione alla legge generale che vuole che tutto si alteri!6 (c.vi miei)
Epperò, e qui sta il punto, tra d’Holbach e Cuvier c’è tutta la distanza che separa l’ipotesi logicamente ammissibile (cioè priva di contraddizioni interne, come sottolinea il barone) dal fatto scientificamente acquisito. Prima di Cuvier era ancora lecito dubitare della realtà del fenomeno: «ci si chiedeva ancora se gli animali estinti lui proposta si leggono in Cohen 2002, pp. 75-79. 5 Rossi 1998b, p. 771. 6 Holbach, Système de la nature, t. 1, cap. 6 (De l’homme; de sa distinction en homme physique & en homme moral; de son origine), tradotto in La Vergata 1979, pp. 180-181.
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appartenessero allo stesso genere e alla stessa specie degli analoghi viventi»7, o ci si risolveva in un senso o nell’altro senza il sigillo della certezza, come in fondo fa anche l’anatomista William Hunter nelle Conghietture, a proposito del mastodonte americano (cfr. cap. 5). Era ancora lecito negare la realtà del fenomeno con argomentazioni contrarie8, o ancora concederlo con restrizioni, senza lasciare di interrogarsi sul suo concreto significato – come faceva Jean-Baptiste de Lamarck, secondo il quale estinzioni possono essere avvenute solo in tempi recenti, e per mano dell’uomo, l’unico agente perturbatore della regolarità e uniformità della natura9. Dopo il pronunciamento di Cuvier tutto ciò non è punto più lecito. Solo sulle spalle di Cuvier, nel 1832, Lyell potrà sostenere senza tema di smentita che l’estinzione è parte integrante del corso della natura10. Si faccia attenzione a un ulteriore dettaglio: lo stesso Cuvier aveva sottratto l’uomo alle impietose leggi dell’estinzione. Non tanto per ragioni ideologiche, quanto in forza di una precisa motivazione empirica: all’epoca in cui il francese attuava la riforma della zoologia, la documentazione paleontologica relativa all’uomo era letteralmente nulla, vale a dire che non s’era ancora rinvenuta alcuna traccia di resti fossili umani, o di quadrumani. Veri progressi della paleontologia umana e dell’archeologia preistorica sono posteriori al 183111. È fuor di dubbio, allora, cosa Leopardi intendesse quando scrisse, abbozzando Cavallo e Toro nell’estate del 1820, che la razza umana «finalmente si finge estinta»: ne immaginava di sana pianta l’estinzione, senza il minimo conforto della documentazio7 La Vergata 1998a, p. 353, a proposito dell’Ohio incognitum di cui si è parlato nel cap. 5. 8 I tre argomenti contro l’estinzione sono esposti e discussi in La Vergata 1998b, p. 571: 1) non è possibile che si aprano vuoti nella perfetta economia della natura; 2) i presunti organismi “perduti” sono sfuggiti sinora all’osservazione; 3) le presunte “specie perdute” si sono modificate nel corso del tempo (Lamarck). 9 Ibid. 10 Nel frontespizio di Lyell 1832 si legge un passo eloquente a proposito: «The inhabitants of the globe, like all the other parts of it, are suject to change. It is not only the individuals that perishes, but whole species». Come esplicitamente segnalato, la citazione proviene dalle Illustrations of the Huttonian Theory, § 413 del fisico scozzese John Playfair. 11 Barsanti 2005, p. 173: «[secondo Cuvier] l’uomo è una creatura senz’altro molto recente perché non se ne trovano resti fossili, come non se ne trovano di quadrumani». Sui progressi della paleontologia umana e dell’archeologia preistorica dopo il 1831 cfr. La Vergata 1998b, pp. 579 (Schmerling e i crani di Engis: 1831), 580 (Lartet, il Pliopithecus e il Dryopithecus: 1836-56).
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9. animali perduti. paleologia e antropogenesi nei dialoghi (1820)
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ne paleontologica. Chissà, fu forse proprio questa immaginaria – e scandalosa – estinzione del genere umano la principale offerta sacrificale che, nella lettera del 4 settembre 1820 a Giordani, Leopardi pose sull’altare della vendetta, «quasi per vendicar[s]i del mondo» (cfr. cap. 1). Spostiamoci ora sul secondo punto sopra individuato, vale a dire sull’altro emisfero della domanda di Toro. «Come, è perduta una razza di animali?» (c.vi miei). Merita un commento il fatto che nessuna delle due bestie faccia fatica a localizzare precisamente il posto dell’uomo nell’economia della natura, arrivando quasi istantaneamente a classificare il genere umano come una «razza di animali». Non è affatto un’operazione scontata, né nei termini della scienza dell’epoca, né, a guardar bene, in termini leopardiani. Era stato Linneo a classificare per la prima volta l’uomo nel regno animale, e dunque ad avviare il trasferimento dell’antropologia dal regno della teologia, e delle lettere, a quello delle scienze naturali. «È un’impresa difficilissima trovare la differenza specifica dell’uomo», ovvero trovare anche un solo «carattere che consenta di distinguere l’uomo dalla scimmia antropomorfa». In tutte le edizioni del Systema naturae il genere Homo figura invariabilmente «nell’ordine degli Anthropomorpha (poi Primates) della classe dei Quadrupedia (poi Mammalia)»12. La storia delle scienze è però molto meno lineare di quanto generalmente si crede. Difatti, la presa di posizione di Linneo non scoraggiò né impedì affatto il ritorno di altri naturalisti e biologi a congiunture pre-linneane. Mentre agli occhi del medico Julien Offroy de La Mettrie l’uomo è senza dubbio un animale13, per il naturalista Buffon vi è «una distanza infinita» tra l’uomo e la natura completamente diversa degli animali14, dacché l’uomo è anatomicamente, organicamente e mentalmente diverso dagli animali superiori. La stessa tesi sosterrà pure il fisiologo tedesco Johann Friedrich Blumenbach. Evidentemente, con Buffon e Blumenbach, 12 Barsanti
2005, pp. 73-74 (anche per la citazione di Linneo). Cfr. La Mettrie, Sistema di Epicuro, § xxxii, in La Mettrie 1978, p. 271: «Tutti gli animali, e dunque anche l’uomo, che nessun saggio pensò mai di togliere dalla loro categoria, sono dunque figli della terra, come la favola racconta dei giganti?». La favola cui fa riferimento La Mettrie è quella intercettata nelle Etymologiae da Isidoro: cfr. supra, cap. 5 nota 6. 14 Barsanti 2005, p. 100. 13
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l’antropologia aveva ormai imboccato una strada che le permetteva di fare una «storia naturale» dell’uomo anche se questi non appariva pienamente riconducibile alla natura animale, e anche se veniva classificato – come faceva Blumenbach – non solo in un genere ma perfino in un ordine diverso e isolato da quello delle scimmie15.
Ancora nel 1816 l’agronomo Charles-Hélion de Barbançois si sentiva legittimato a strappare l’uomo dal regno animale e a inserire la specie umana in un quarto e nuovissimo Regno della natura, il «Regno morale»16. Solo quattro anni separano la proposta di Barbançois dalla stesura degli abbozzi dei Dialoghi leopardiani. Si potrebbe obiettare che quanto appena accennato non ha rilevanza in sede leopardiana, e a maggior ragione in sede di analisi dei Dialoghi. Perché nel primo dialogo Cavallo e Toro non esitano a classificare l’uomo come animale, e non esiteranno neanche Cavallo e Bue all’inizio del secondo. Né diversamente farà Giacomo nell’intero corpus della sua opera. Anzi, a rincarare la dose, si potrebbe far notare che in entrambi i Dialoghi l’uomo è curiosamente raccostato proprio alla scimmia linneana, e che ambo le volte quest’ultima è protagonista di una cavalcata autoritaria a danno dei cavalli. La brutalità dell’immagine ritornante merita di essere enfatizzata, perché vi si avverte la flebile eco di un inquietante ricordo d’infanzia registrato nel diario non molto tempo prima della stesura dell’abbozzo, in data 26 marzo 1820: Cavallo e Toro
Esercitavano un grande impero sugli altri animali, sopra noi sopra i buoi ec. come fanno adesso le scimie, che qualche volta ci saltano indosso, e con qualche ramuscello ci frustano e ci costringono a portarle ec.
Cavallo e Bue
Hai veduto quell’animale che ieri mi saltò a cavalcione sulla groppa, e mi tenea forte per li crini […]. Mia nonna mi disse ch’era una scimia17.
15 Ivi,
p. 107. p. 168. 17 OM, pp. 459, rr. 24-27; 460, rr. 50-53. A proposito del nesso tra il cavallo bistrattato dalle scimmie nei Dialoghi e il ricordo d’infanzia registrato in Z 106, vale la pena ricordare che Buffon aveva messo apertamente in luce, sulla scorta delle comparazioni anatomiche di Daubenton, la somiglianza nascosta, anzi singolare e quasi completa, riscontrabile tra uomo e cavallo. Cfr. Buffon 1782-1791, t. 17 (vale a dire il t. 2 dei quadrupedi), pp. 4-5: 16 Ivi,
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9. animali perduti. paleologia e antropogenesi nei dialoghi (1820)
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Quando io era fanciullo, diceva talvolta a qualcuno de’ miei fratellini, tu mi farai da cavallo. E legatolo a una cordicella, lo venia conducendo come per la briglia e toccandolo con una frusta. E quelli mi lasciavano fare con diletto, e non per questo erano altro che miei fratelli. (c.vi miei)
Torniamo all’obiezione appena sollevata. Ebbene, è sufficiente una lettura anche solo un poco attenta dei Dialoghi per notare che, sin dall’entrata in scena degli interlocutori, in Cavallo e Toro, è proprio Cavallo, la vittima preferita delle stolide angherie delle scimmie, a chiarire che l’umana non era propriamente una razza di animali – o almeno, che a un certo punto aveva smesso di essere pienamente riconducibile alla natura animale. Lo fa richiamando l’argomento metafisico cardinale di Z 56, la differenza di vita tra le bestie e l’uomo snaturato, preda della “scontentezza”: Non viveva già [‘più’] naturalmente, e come tutti gli altri, ma in mille modi loro propri. E perciò avevano questa particolarità curiosa che non potevano mai esser contenti nè felici, cosa maravigliosa p. le bestie che non hanno mai pensato ad essere scontenti della loro sorte18. (c.vi miei)
Per bocca di Cavallo, Leopardi identifica apertamente la «differenza specifica dell’uomo» nella sua irrimediabile infelicità, e la promuove a punto focale della sceneggiatura di Cavallo e Toro. Potremmo chiamarla una sceneggiatura ex post, nel senso che, in essa, i riflettori sono puntati piuttosto sulle conseguenze che discendono dalla vita degenerata dell’uomo, non sulle supposte cause della corruzione. La scontentezza, difatti, è rubricata come signum dello snaturamento già in atto. È il suo portato par excellence, non una sua causa: l’uomo «[n]on viveva già naturalmente […]. E perciò», per il fatto di essere già degenerati, gli uomini «avevano questa particolarità». Prova ne sia il fatto che, subito dopo aver abbozzato queste «Il corpo del cavallo, a cagion d’esempio, che a prima giunta compare pur tanto differente da quello dell’uomo, dove se ne venga a un confronto circostanziato, e si consideri a parte a parte, anzichè sorprendere pel divario, cagiona maraviglia per la singolare e quasi totale conformità, che vi si ravvisa. […] e giudicherassi, se questo rassomigliamento nascoso non sia più mirabile delle varietà apparenti […]». Anche Leopardi scrive in Z 195 (1 agosto 1820) che «gli uomini sono come i cavalli», però intende qualcosa di diverso. 18 OM, p. 459, rr. 10-13.
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frasi di Cavallo, Leopardi inserisce la «vita non naturale» nel quadro delle tre «Cagioni dell’infelicità umana», a fianco della «scienza» e delle «opinioni». E ancora, il fatto che su tali ragioni Giacomo evita di tornare sopra una seconda volta. Evidentemente, gli interessa di più illustrare cosa significhi de facto essere un animale non naturale. Possiamo analizzare il trattamento che Leopardi riserva al motivo della “scontentezza” umana in Cavallo e Bue per mettere in risalto tutta la distanza che separa la sceneggiatura ex post del primo dialogo dalla sceneggiatura ex ante del secondo. Ivi la primissima informazione circa gli umani, offerta di nuovo da Cavallo, non ha nulla a che vedere con lo stigma dell’infelicità. Messosi nuovamente alla ricerca di una «differenza specifica dell’uomo», Giacomo stavolta la rintraccia in un preciso tratto differenziale anatomico-morfologico, nel quale sembra finalmente cristallizzarsi lo spunto sulla «diversa conformazione del corpo umano più atta alla società ec.» di Z 56 (cfr. cap. 6): Era una sorta di bestie da quattro zampe come siamo noi altri, ma stavano ritti e camminavano con due sole come fanno gli uccelli, e coll’altre due s’aiutavano a strapazzare la gente. (c.vi miei)
Il tentativo di ricondurre pienamente l’uomo alla natura animale, vuoi perché quadrumane («bestie da quattro zampe»), vuoi per il bipedalismo («camminavano con due sole [zampe]»), fallisce miseramente. Se non altro, perché l’efficacia della doppia comparazione «come […] come» evapora nel preciso momento in cui, tramite la congiunzione avversativa «ma», Leopardi pone sul tavolo la questione della stazione eretta, indiscusso tratto distintivo della specie umana: «ma stavano ritti». Ritti, appunto, come gli uomini “ovidiani” del Discorso di Rousseau (cfr. cap. 8). E dunque finalmente liberi di servirsi delle proprie mani, e con ciò di dare inizio alla storia della violenza («coll’altre due s’aiutavano a strapazzare la gente») e, in particolare, alla storia della civilizzazione. Conviene sostare un poco, a questo punto, per rimarcare che questo è uno snodo assolutamente nevralgico dell’abbozzo dialogico di Cavallo e Bue. Prima ancora di additare qualsivoglia segno della civiltà istituita (ad esempio la pratica della guerra e l’uso del fuoco, dei quali si legge ne La scommessa di Prometeo), il dialogo squaterna innanzi al lettore, comprimendole come in scorcio telescopico, le precondizioni biologiche dell’antropogenesi. Solo dopo aver sgomberato la scena per installarvi
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9. animali perduti. paleologia e antropogenesi nei dialoghi (1820)
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la macchina antropogenica, Leopardi fa sì che i lettori possano scrutare il volto dell’uomo, e riconoscervi il marchio della civilizzazione in atto. Sappiamo, difatti, che in Cavallo e Bue l’uso delle mani è direttamente collegato con la pratica violenta della domesticazione degli animali (cfr. cap. 8). Ebbene, Buffon aveva riconosciuto proprio nella diffusione di questa pratica il varo di una novella epoca della natura – l’atto inaugurale di una “mutazione” dell’ordine naturale. L’epoca, appunto, del lavoro antifisico dell’uomo che comincia a incivilirsi; l’era del dominio dell’uomo civilizzando sul resto della natura: Il primo tratto dell’uomo, che comincia a incivilirsi, è l’impero, ch’egli sa prendere su gli animali, e questo primo tratto del suo intendimento diviene dipoi il maggior carattere della sua potenza su la Natura; dopo essersegli sottomessi allora fu, che col loro soccorso cangiò la faccia della terra19.
Torniamo ora sul punto della sceneggiatura ex ante della seconda prosetta. Abbiamo già anticipato che il dato della “scontentezza” è fatto esplodere anche in Cavallo e Bue. Dobbiamo ora aggiungere, però, che nel secondo dialogo il rumore della sua detonazione è attutito da un paio di silenziatori. Innanzitutto, è decisamente dislocato dall’incipit alla coda del dialogo: evidentemente, non è più il primum movens della sceneggiatura. Inoltre, neanche in questo stesso passaggio sugli «animali perduti» la “scontentezza” assume un rilievo veramente centrale. Piuttosto figura come uno dei tanti fotogrammi impressi sulla pellicola che Leopardi consacra alla “mutazione”, il vero evento nucleare dell’antropologia leopardiana della modernità: Anche gli uomini s’erano mutati assai ed erano quasi altri animali da quelli di prima che s’erano perduti. […] I primi uomini saranno stati [contenti], ma poi che non vivevano più come noi e come i loro antenati e come era naturale, si trovavano scontentissimi […]20.
Cavallo insinua sottilmente che la contentezza può forse essere stata la condizione dei «primi uomini», gli antenati di quella razza perduta. Forse21. È certo, invece, che quelli erano «altri animali», 19 Les époques de la nature (1778), in Buffon 1782-1791, t. 3, pp. 418-419. Cfr. supra, cap. 4 nota 28 e cap. 8 nota 24. 20 OM, p. 462, rr. 119-130. 21 Leopardi adopera un’attenuazione che si direbbe sorella della litote «minore scon-
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e che poi le cose sono irrimediabilmente cambiate. È sopraggiunto «altro tempo», come direbbe il futuro cantore de Le Ricordanze. Prima di lasciare la confessione di Cavallo occorre enfatizzarne un dettaglio dirimente. Ci servirà per tornare nuovamente a domandarci in che misura il lessico leopardiano della “mutazione” porta incisa su di sé la traccia del Diluvio biblico, oltre che delle lezioni scritturali che dovevano commentarlo (cfr. cap. 4). Il dettaglio concerne i «primi uomini», e il fatto che quegli antichissimi «erano […] di più lunga vita che dopo». Esattamente il punto sollevato da Leopardi già nel 1813, nella relazione della Storia della Astronomia sui μακρόβιοι antichi – in particolare i Patriarchi antediluviani – e moderni. A ben guardare, insomma, il dettaglio registrato da Cavallo suggerisce che neanche la “storia del genere umano” tratteggiata nei Dialoghi può fare a meno del parallelo scritturale. C’è ancora un’ulteriore notazione che pare puntare nella stessa direzione, e sembra confermare il parallelismo tra storia dei Dialoghi e relato scritturale. Per evidenziarla dobbiamo tornare sulle sceneggiature dialogiche di Cavallo e Toro e Cavallo e Bue. Il focus sulla stazione eretta dell’uomo non compare nel primo dialogo, dove anzi, si è visto, è la “scontentezza” della razza umana il vero punto focale della sceneggiatura. Con ogni evidenza, l’estensore degli abbozzi dei Dialoghi ha deciso, strada facendo, di modificare il piano dialogico. Ma quando ciò è accaduto? Difficile dirlo con certezza. Ad ogni modo, c’è qualche fondato motivo per ipotizzare che il movente ideologico del cambio di rotta sia esattamente quello registrato nella pausa riflessiva che fa da coda a Cavallo e Toro: In somma questo Dialogo deve contenere un colpo d’occhio in grande, filosofico e satirico sopra la razza umana considerata in natura, e come una delle razze animali, rendutasi curiosa per alcune singolarità, insinuare la felicità destinataci dalla natura in questo mondo come a tutti gli altri esseri, perduta da noi per esserci allontanati dalla natura […]22. (c.vi miei)
È solo dopo aver vergato queste precisazioni che Leopardi si prodiga per innestare l’intero svolgimento dialogico sul tronco deltento dei contadini» di Z 56, e quasi genitrice del futuro cenno (ancora una litote) alla felicità non assoluta dei primi padri dell’Inno ai Patriarchi (gli «incliti padri, / […] molto / Di noi men lacrimabili» dei vv. 2-5). 22 OM, pp. 459-460, rr. 27-32.
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9. animali perduti. paleologia e antropogenesi nei dialoghi (1820)
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la “mutazione”. Si risolve a scrivere una diversa sceneggiatura: in Cavallo e Bue opterà per una sceneggiatura ex ante, funzionale a spiegare nel dettaglio come l’uomo sia stato strappato al seno della natura e sia infine arrivato a rendersi scontento. Come fare tutto ciò? Innanzitutto, esibendo sin dall’incipit la precondizione biologica della “mutazione”, ovvero la questione del corpo umano «più atto alla società» affrontata di sguincio in Z 56. E ancora, giocando in sede dialogica, nel passaggio sugli «animali perduti», il nesso causale tra la corruzione morale e il progressivo indebolimento del corpo umano: «da principio», sostiene Cavallo, gli uomini «erano molto più forti e grandi e corputi e di più lunga vita che dopo, che a forza di vizi s’indebolirono e impiccolirono». Non può sfuggire il fatto che Giacomo evoca qui uno dei tre nessi che si leggono nel diario alle pagine 163-164, in un pensiero che abbiamo ipotizzato essere contestuale a questa pausa riflessiva (cfr. cap. 3). Ed è bene aggiungere che il medesimo nesso apre la porta all’ingresso di due motivi cardinali di Cavallo e Bue, invece irrintracciabili nel primo dialogo: la lunga vita degli antichissimi e la degenerazione fisica del genere umano. Se in Cavallo e Bue appare in modo cristallino l’ascendente esercitato dal relato diluviale – nel riferimento ai «primi uomini» e alla lunga vita degli antichissimi – è perché esso si era già riattivato all’altezza della pausa riflessiva che fa da coda a Cavallo e Toro. Quando Leopardi scrive della felicità destinata dalla natura all’uomo, e «perduta da noi per esserci allontanati dalla natura», opera una blanda naturalizzazione di un preciso motivo teologico: la perdita della presenza divina, e del «commercio» con Dio, come quelle che Alfonso Niccolai aveva illustrato nella Lezione xxxvii del Genesi parlando delle schiatte di Seth e Qajin: anche dopo la colpa d’Adamo Iddio continuò a comunicarsi con modi sensibili agli uomini, siccome per la storia di Caino abbiam potuto comprendere; la quale altresì ci fa sentire, che, se alcuno si abbandonava alla malvagità, il maggior gastigo era il rimaner privo del divino special commercio, e il camminar quasi all’oscuro e nelle tenebre, contrario al camminare con Dio e avanti a Dio […]. Quindi Caino contò subito per sua gran pena l’esser rigettato dalla faccia divina: Ecce ejicis me hodie a facie terrae, & a facie tua abscondar; cioè non sentirò più la tua voce, non avrò le tue particolari rivelazioni, e mi mancheranno le direzioni circa la mia condotta. Questo sì desiderabile e glorioso commercio si conservò più veramente nella famiglia di Seth, finchè questa di-
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stinta col glorioso titolo di figliuoli d’Iddio, lontana si tenne dai costumi della famiglia di Caino: e cessò, quando seguì l’infausta unione dell’una coll’altra23.
Disponiamo di tutti gli elementi per concludere, con qualche fondamento, che il «disturbatore» e profanatore calato in Cavallo e Bue è, tutto sommato, un analogon di Qajin, il primo assassino e fondatore della prima città e del consorzio civile – oltre che patrocinatore delle arti, giusta il fenicio Sanchuniathon (cfr. cap. 4). Nei Dialoghi, però, il marchio di Qajin non esibisce solo la linea che gli prestava il gesuita Niccolai nelle sue Lezioni. Sfoggia anche il colore fosco che Rousseau assegna alla civiltà depravatrice nel Discorso. La società stretta forgiata e diffusa da questo novello Qajin è indubitabilmente rousseauiana: indebolisce il corpo e appesta minacciando la salute, imbastardisce non solo l’uomo che la istituisce, ma anche gli animali e le piante che l’uomo tenta di civilizzare, addomesticandoli. Le allontana dal seno della natura, come nelle Scritture accade alla pura schiatta di Seth in occasione dell’infausto mescolamento con l’empia progenie di Qajin. «[D]a principio [gli uomini] erano molto più forti e grandi e corputi […] che dopo, che a forza di vizi s’indebolirono e impiccolirono». Quando, nel 1820, riprende la secolare teoria della degenerazione umana che, nel 1815, aveva visto dispiegata e rigettata nella Dissertazione sopra i Giganti di Augustin Calmet (cfr. cap. 5), Leopardi non la trapianta sic et simpliciter nel proprio campo di riflessione. Piuttosto, la risemantizza attraverso il filtro rousseauiano, e la gioca su più tavoli. Non solo negli abbozzi di Cavallo e Toro e Cavallo e Bue, ma anche nell’affascinante documento di lavoro annesso all’abbozzo del secondo dialogo. Leopardi lo intitolò Al Dialogo del Cavallo e del Bue (cfr. cap. 2).
23 Niccolai
1781-1782, t. 3, p. 208.
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10. Al Dialogo del Cavallo e del Bue. Un preambolo
È ora di scrutare più da vicino questo affascinante e spesso sottovalutato documento siglato [c], intitolato Al Dialogo del Cavallo e del Bue. Per meglio assecondare l’inchiesta analitica ho concepito gli ultimi due capitoli di questo libro come un’analisi serrata, una sorta di commento ravvicinato ai materiali registrati nel documento [c], ad oggi mancante nel panorama degli studi leopardiani. Il testo dei due documenti (foglietto e bifoglio) esaminandi è quello stabilito da Ottavio Besomi nell’Appendice iii dell’edizione critica delle Operette morali a sua cura; fanno sempre eccezione le virgolette caporali sottolineate, che integro per circoscrivere i passaggi trascritti da Leopardi dalle numerose fonti via via compulsate. Per comodità d’analisi e di lettura, nel presente e nel successivo capitolo mi soffermerò, rispettivamente, prima sul foglietto (cap. 11), poi sul bifoglio (cap. 12) che compongono Al Dialogo del Cavallo e del Bue. Terrò sempre sott’occhio entrambi gli abbozzi dei Dialoghi tra due bestie (trascritti integralmente in un’apposita Appendice vi), in particolare l’abbozzo siglato [b], il dialogo Cavallo e Bue, dal momento che [c] è un aggregato di quest’ultimo (cfr. cap. 2). L’obiettivo dichiarato dell’inchiesta è individuare le fonti da cui dipendono le informazioni e le trascrizioni che affiorano dai due documenti. Confrontando i dati ottenuti con quanto ci è dato sapere a proposito delle letture leopardiane, cercherò di stabilire con la migliore approssimazione possibile la cronologia interna dei materiali stratificatisi nel foglietto e nel bifoglio. La datazione che se ne fornisce (1820-1825) vale come indizio dell’importanza assunta dai Dialoghi agli occhi del loro autore. Il poeta di Recanati, che mai li portò a compimento, pure continuò per almeno un lustro – ben oltre la prima stagione delle Operette morali (1824) – a registrare annotazioni, e a raccogliere
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materiali in qualche modo correlati ai principali motivi che affiorano dal tessuto dei Dialoghi. Nella speranza, forse, di dar loro l’ultima e risolutiva mano Di tale raccolta, e di tale registrazione, fa fede, appunto, il nostro documento [c]. Lo si è detto all’inizio di questo libro: Al Dialogo del Cavallo e del Bue è un documento assai articolato. Raccoglie materiali eterogenei che si sedimentano l’uno sull’altro, capoverso dopo capoverso, assecondando la cronologia delle letture leopardiane. Ora dobbiamo aggiungere che tanto nel foglietto, quanto nel bifoglio, Leopardi principia con una testa compositiva (note compositive, considerazioni filosofiche, programmi di lavoro) e prosegue immediatamente con una coda documentale (trascrizioni, appunti di lettura). Per questo motivo, nel corso dell’analisi, sarà utile innanzitutto separare mediante l’uso dei numeri ordinali la porzione compositiva dalla parte propriamente documentale, e poi ancora sviscerare quest’ultima adoperando un criterio tematico, così da poter accorpare i vari paragrafi in apposite sezioni tematiche.
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11. Al Dialogo del Cavallo e del Bue. Il foglietto (1820-1821)
i. Testa compositiva (OM, rr. 136-142) Al Dialogo del Cavallo e del Bue Si può far derivare l’estinzione della specie umana dalla sua corruzione, effetto ben probabile anche in filosofia considerando l’indebolimento delle generazioni, e paragonando la durata della vita, e la statura, il vigore ec. degli uomini moderni con quello degli antichi. E così rispetto ai cangiamenti dell’animo e dello spirito, alle sventure derivatene, al mal essere politico, corporale, morale, spirituale che cagionano. ec.
La riflessione filosofica con cui si apre il foglietto si riconnette alle battute naturalistiche sugli «animali perduti» messe in bocca a Cavallo in Cavallo e Bue (rr. 118-127). Stendendo l’abbozzo, Leopardi dà vita a una scena di biologia immaginaria, nella quale gli interlocutori animali ricordano l’estinzione del genere umano, e la interpretano senza indugi come l’effetto a lungo termine dei «vizi» umani e della degenerazione fisica che ne è conseguita: «da principio erano molto più forti e grandi e corputi e di più lunga vita che dopo, che a forza di vizi s’indebolirono e impiccolirono» (rr. 120-122). Ora, approntando Al Dialogo del Cavallo e del Bue, Giacomo passa a considerare la probabilità di quell’effetto «anche in filosofia» (si noti la congiunzione «anche»), senza lasciare di insistere ancora sul rapporto causale tra la «corruzione» della «specie umana» (termine tassonomico che affiora solo in Cavallo e Bue: «specie d’animali», r. 88) e la sua «estinzione» (r. 137). Il medesimo nesso causale affiora in un pensiero affidato alle pagine 163-164 del diario, datate 11 luglio 1820, probabilmente contestuale alla stesura dei Dialoghi (cfr. cap. 3). La «depravazione de’ costumi» messa a tema in quel pensiero consuona con il contesto morale entro il quale vanno ricollocati i «vizi»
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umani di Cavallo e Bue; dunque, fornisce un indizio indiretto per determinare l’accezione che Leopardi assegna alla «corruzione» della specie umana nell’incipit de Al Dialogo del Cavallo e del Bue. Il sintagma «l’indebolimento delle generazioni» certifica che l’attenzione dell’estensore del documento [c] sarà convogliata sulla teoria della progressiva decadenza fisica delle generazioni. Teoria della quale Leopardi era venuto certamente, e precocemente, a conoscenza, se non altro per il tramite delle letture svolte tra il 1813 e il 1815, il triennio che va dalla relazione sulla lunga vita degli antichissimi della Storia della Astronomia (1813) al capitolo su Pigmei e Giganti del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815) (cfr. capp. 4-5). Ne Al Dialogo del Cavallo e del Bue l’approccio filosofico al problema della degenerazione umana passa attraverso l’istituzione di un paragone tra antichi e moderni. La comparazione dovrebbe insistere, almeno nelle intenzioni, tanto sul versante del physique (forza e vigore, durata della vita e statura)1 quanto su quello del morale (i «cangiamenti dell’animo e dello spirito»). Si noti però che il recanatese, in effetti, procederà tra le sezioni della coda documentale del foglietto senza insistere troppo sul paragone tra antichi e moderni, e concentrandosi sul solo versante physique del processo della degenerazione umana, disattendendo de facto il programma delineato in apertura del foglietto. Espressamente dedicata al versante morale della degenerazione umana è, invece, la testa compositiva del bifoglio, ma in quella sede la comparazione non si eserciterà tanto sugli antichi e i moderni, quanto, propriamente, sugli animali e l’animale umano (cfr. cap. 12). ii. Coda documentale (OM, rr. 143-168) La documentazione che segue si articola in quattro sezioni. Le prime tre sono dedicate a tre diversi (ma convergenti) argomenti: la 1 L’enfasi posta sui tre elementi corporali della forza, della durata della vita e della statura, è topica nel quadro della teoria della progressiva decadenza fisica delle generazioni. Per un sintomatico esempio moderno cfr. il passaggio del sermone del puritano John Dove (1594) trascritto da Tuveson 1964, p. 51: «Man himselfe whome al these things doo serue, is of lower stature, lesse strenght, shorter life than at the first he was, so that there is a general decay of nature, & in euery leaf of that book it is written, that ye frame of that heauenly arche erected ouer our heads must very shortly lose and dissolue it selfe» (c.vi miei).
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11. al dialogo del cavallo e del bue. il foglietto (1820-1821)
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«degeneraz. delle forze e della statura umana ec. insomma del corpo umano» (rr. 143-160); l’estinzione di «alcune specie perdute di uccelli» (rr. 161-162); infine la «lunga vita degli uomini antichissimi» (rr. 163-166). Per l’ultima sezione (rr. 167-168) Leopardi non esplicita un vero e proprio contesto tematico. Ciò non toglie che le sue annotazioni si riferiscono a casi di gigantismo attestati nell’odierna Andalusia, e convalidati da un testimone oculare d’eccezione: il moderno scrittore ginevrino Albert de Rocca. Sezione 1 (OM, rr. 143-160): dicembre 1820 - febbraio 1821 Della degeneraz. delle forze e della statura umana ec. insomma del corpo umano v. il capo v di Velleio, e quivi molte testimonianze nelle note Variorum. «Omnis eorum juventus» (Cauchorum, popoli della Germania), «infinita numero, immensa corporibus» etc. Velleio ii. 106. sect. i. Lo dice come testimonio di vista. «Galli Senones, gens natura ferox, moribus incondita, ad hoc ipsa corporum mole, perinde armis ingentibus, adeo omni genere terribilis fuit, ut plane nata ad hominum interitum, urbium stragem videretur.» Floro i. 13. Vedilo pure ii. 4. «Insigne spectaculum triumphi fuit. Quippe vir, proceritatis eximiæ» (Theutobochus rex Theutonorum) «super tropæa sua eminebat.» Id. iii. 3. «Cum rege Parthorum iuvene excelsissimo.» Velleio ii. 101. sect. 1. come testimonio oculare. V. i commentatori. «Batonemque et Pinetem excelsissimos duces» de’ Pannonii e de’ Dalmati. ii. 114. sect. 4. Questi pure poco prima ch’egli scrivesse, veduti da tutto l’eserc. di Tiberio, presi, e forse condotti a Roma in trionfo, e forse allora ancor vivi. V. gli Storici. V. Floro della corporatura dei Galli propri iii. 10. dove del re Vercingetorige. Ed ivi, prima, dei Germani.
Le prime righe della porzione documentale sono dedicate al tema della degenerazione del corpo umano (con riferimento specifico alla forza e alla statura), e la documentazione ivi raccolta è confortata da varie testimonianze relative a Galli, Parti e Germani. Leopardi le estrae dalle opere di due storici romani: dai frammenti superstiti dell’Historia Romana del campano Velleio Patercolo e dall’Epitome Rerum Romanarum dell’africano Lucio Anneo Floro2. Giacomo 2 Per Leopardi, Floro è un supposto oriundo spagnolo di età traianea: cfr. Z 620. «[P]atria ut videtur Hispanus» scrive ad esempio Fabricius 1728, t. 1, lib. 2, cap. 23 (De Floro, & Ampelio), p. 624. Secondo Stefano Rocchi, l’origine africana di Floro può essere oramai ascritta con una certa sicurezza alla categoria dei “fatti”. Per una breve
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principia la sezione riversandovi dapprima gli appunti presi durante la lettura dell’Historia di Velleio (primi due capoversi); successivamente, li intreccia con le risultanze dello scrutinio dell’Epitome di Floro (capoversi 3-4); in ultimo, sugella la sezione con un rinvio alle pagine del supposto oriundo spagnolo (capoverso 5). Prima facie, le oscillazioni citazionali tra l’Historia Romana e l’Epitome (schematicamente, con l’occhio ai capoversi: Historia / Historia / Epitome / Historia / Epitome) paiono fornire almeno due suggerimenti: 1) Leopardi ha dapprima cominciato a leggere Velleio, e solo in un secondo momento è approdato alle pagine di Floro; 2) ha terminato prima la lettura dell’Historia, e poi quella dell’Epitome. Se così è stato, si potrebbe dedurre che, per qualche tempo, le due letture procedettero in parallelo. Possiamo cercare conferma di tali suggerimenti rovistando tra gli appunti di lettura dell’Historia e dell’Epitome che Leopardi riversò nello Zibaldone. Ivi i richiami ai due testi compaiono in pagine esplicitamente datate dall’autore e risultano estremamente precisi, al punto che non è difficile seguire la progressione del poeta tra le pagine delle edizioni adoperate o, ancora, individuare le saltuarie soste riflessive, o gli occasionali ritorni su brani già attraversati. Al contempo, però, si dovrà aggiungere che nessun aggancio all’Epitome o all’Historia Romana è veramente puntuale, dacché Leopardi non si preoccupa mai di indicare la pagina delle edizioni consultate. In ogni caso, non vi sono dubbi sul fatto che Giacomo affrontò l’Historia di Velleio nella settecentina stampata a Leida nel 1744, tuttora ospitata tra gli scaffali della Biblioteca di Monaldo. L’edizione è meticolosamente registrata in Z 4653, e non poche sono le occasioni in cui Leopardi controlla le copiose note Variorum o l’Index contenuti in quell’edizione. In un caso, invece, compulsa uno scritto di Giusto Lipsio ospitato nel volume, precisandone puntualmente la pagina, ma il movimento rimane invisibile ai lettori perché Giacomo cancella tutto il passo (Z 486). biografia dello storico latino cfr. Rocchi 2020, pp. 7-12. 3 Nella pagina in questione si legge che Leopardi si riproponeva anche di verificare, alla prima occasione disponibile, «edizioni […] posteriori» a quella da lui utilizzata. 5 edizioni velleiane, tutte posteriori a quella conservata nella Biblioteca di Monaldo, sono registrate nella lista bibliografica messa in pulito probabilmente tra il 1816 e il 1817: cfr. Leopardi bibliografo, pp. 133, n. 239; 192, n. 515; 192, n. 518; 195, n. 534; 196, n. 542.
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11. al dialogo del cavallo e del bue. il foglietto (1820-1821)
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Per quanto concerne Floro, non è semplice determinare con assoluta certezza l’edizione utilizzata da Giacomo, dacché non c’è traccia di rinvii puntuali all’Epitome nell’intero corpus leopardiano. Una volta aperto il volume, sua preoccupazione costante fu quella di ricordare a sé stesso, nel mezzo del confronto con il corpo testuale, di verificare se le sue proprie proposte filologiche non fossero già state avanzate in altre, più recenti edizioni. Il proposito di controllare «le ult. ediz. di Floro» è ribattuto più volte sin dai primissimi appunti del diario (Z 489, 490, 495, 511, 523). Tutto questo, con ogni probabilità, è alla base della precisazione interlineare consegnata a Z 494, unico luogo del diario in cui Leopardi annota almeno il luogo di stampa del volume che ha tra le mani: «ed. Manhem.». L’indicazione laconica fa pensare alla notissima collana degli Auctores classici latini edita appunto a Mannheim, e in particolare all’edizione dell’Epitome Rerum Romanarum stampata nel 17794. Sebbene non se ne trovi traccia nel Catalogo della Biblioteca paterna, la prenderemo come edizione di riferimento per la lettura leopardiana dell’Epitome floriana5. Fatta questa premessa, torniamo alla prima sezione del documento [c]. Ebbene, gli scarni indizi relativi alla lettura di Floro e Velleio che affiorano da questa sede sembrano confermati dagli appunti di lettura consegnati allo Zibaldone: 1) nel diario, la prima menzione di Velleio risale al 22 dicembre 1820 (Z 453, con trascrizione da Historia Romana i.8), mentre la prima esplicita menzione utile a certificare l’avvio della lettura di Floro6 è datata 11 gennaio 1821 (Z 489, con trascrizione da Epitome Rerum Romanarum i.8); 2) l’appunto di lettura dell’Epitome che contiene il rinvio con paginazione più alta si trova in Z 620-621, datato 7 febbraio 1821: il luogo di Epitome iv.12 ivi raggiunto si trova a pagina 195, su un totale di 196 pagine di testo. Siamo praticamente alla fine del volume. A quell’altezza cro4 Per la presenza dell’Epitome di Floro nella collana dei Classici di Mannheim cfr. Garampi 1796, t. 3, p. 31. Il catalogo di Garampi fu certamente compulsato da Leopardi, ad esempio per la compilazione della lista bibliografica del 1816-1817. 5 L’ed. Mannheim 1779 è certamente posteriore alle due edizioni che il recanatese aveva annotato tra i desiderata della lista bibliografica del 1816-1817: cfr. Leopardi bibliografo, pp. 121, n. 190; 122, n. 194. Non risulta che il recanatese le ebbe mai tra le mani. 6 Occorrerà, invece, distogliere gli occhi dal rinvio a «Floro iv. 12. sect. 17.» registrato in Z 477, perché indiretto, e dipendente da una nota dell’edizione dell’Historia Romana di Cassio Dione posseduta dalla Biblioteca di Monaldo: cfr. Cassio Dione 1750-1752, vol. 1, lib. 54, cap. 34, pp. 764-765 nota 316.
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nologica Leopardi ha certamente già esaurito il percorso tra le pagine dell’Historia: l’appunto dall’Historia Romana che contiene il rinvio con paginazione più alta si trova in Z 480, in data 9 gennaio 1821: il luogo di Historia Romana ii.129 ivi raggiunto si trova alle pagine 608-609, su un totale di 619 a testo. Anche in questo caso, insomma, Leopardi è in procinto di chiudere il volume. Il trattamento riservato nella prima sezione di [c] ai due storici romani non è perfettamente simmetrico. Solo per Velleio Leopardi fa ricorso anche ai paratesti dell’edizione maneggiata (le «note Variorum» di r. 145 e «i commentatori» di r. 155), e solo per lo storico campano si preoccupa di sottolineare, per ben due volte, che fu αὐτόπτης, cioè «testimonio di vista» dei fatti che narra7. La medesima preoccupazione si manifesterà ancora per Senofonte e per il cronista spagnolo Cieça de León, per limitarci ai soli autori menzionati ne Al Dialogo del Cavallo e del Bue. A ciò andrà aggiunto un ulteriore dettaglio. Il primo dei quattro agganci all’Historia romana (primo capoverso, rr. 144-145: «v. il capo v di Velleio, e quivi molte testimonianze nelle note Variorum») funziona da pietra angolare per l’intera inchiesta leopardiana, perché serve a incardinarne i versanti letterario e antropologico8. Nel passaggio enfatizzato da Leopardi non si parla dei Germani, dei Galli o dei Parti, cioè dei popoli che nella prima sezione di [c] testimoniano a proposito della vigoria fisica che l’umanità ha perduto. Piuttosto, il rinvio concerne l’ingegno inimitabile di Omero, che incarna l’inizio e al contempo la perfezione del genere epico da lui stesso inventato; circostanza replicata solo da Archiloco nel genere giambico9. Ancora nel medesimo passaggio, Velleio mette in risalto la frase «οἷοι νῦν βροτοί εἰσι» (‘come sono oggigiorno gli uomini’), usata più volte da Omero (Il. 5.304; 12.383 e 449; 20.287) per sottolineare la differentia tra gli uomini del passato e quelli del presente. Il lamento di Omero per la progressiva decadenza fisica 7 Per la formula leopardiana cfr. già il Commentario Della vita e degli scritti di Esichio Milesio (1814), in Opere inedite, vol. 1, p. 177. 8 Non c’è da meravigliarsi se Leopardi affida all’opera di Velleio un compito che si direbbe fondativo: nel diario, difatti, per ben due volte il recanatese si sofferma su quanto Velleio ha da dire in merito al problema antropologico dell’influsso fisico. Cfr. infatti Z 453 e 473. 9 Velleio Patercolo 1744, lib. 1, cap. 5, pp. 34-38.
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11. al dialogo del cavallo e del bue. il foglietto (1820-1821)
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delle generazioni è un punto messo esplicitamente a fuoco da Calmet nella Dissertazione sopra i Giganti, letta da Leopardi per la stesura del cap. xv del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815). Il benedettino lorenese, a sua volta, si appoggia tacitamente al passo dell’Historia naturalis di Plinio il Vecchio richiamato da Giacomo durante la fase preliminare di compilazione del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (cfr. cap. 5)10. I restanti tre rinvii a Velleio danno luogo ad altrettante trascrizioni dal testo dell’Historia. Il primo richiama l’attenzione sulla folla innumerevole dei giganti della tribù dei Cauchi, «popoli della Germania» (capoverso 2, r. 146) ridotti all’obbedienza dai soldati romani; il secondo su Fraatace, giovane ed «excelsus» re dei Parti che vennero a scontrarsi con Cesare presso le rive dell’Eufrate; l’ultimo su Baatone e Pinnete, «excelsi» condottieri dei Pannoni e dei Dalmati11. Come si vede, nel secondo e nel terzo rinvio Leopardi ha piegato l’aggettivo excelsus a significare ‘altissimo’, e ha evidentemente procurato di adoperarlo come parametro lemmatico utile a selezionare i passi richiamati nel capoverso12. La prima delle due trascrizioni dall’Epitome floriana raggiunge il medesimo luogo (i.13) scandagliato anche in Z 494-496 (12 gennaio 1821), vale a dire nei primissimi appunti leopardiani su Floro. Nel secondo rinvio, privo di trascrizione (ii.4), spicca il riferimento dello storico romano alla corporatura «plus quam humana» dei Galli Insubri; nel terzo (iii.3) è Teutobodo, l’altissimo re dei Teutoni sconfitto e catturato da Mario, che attrae l’attenzione leopardiana e conquista una trascrizione13. Al libro iii dell’Epitome guarderà Giacomo 10 Calmet 1741-1750, t. 1, p. 42: «Già lagnavasi Omero, che del suo tempo fossero i corpi molto più piccoli di quei degli antichi». La nota marginale rimanda a «Illiad. vii.». Calmet si appoggia al passaggio di Plinio il Vecchio annotato da Leopardi durante la fase di compilazione preliminare del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi: cfr. Plinio il Vecchio 1601, t. 1, lib. 7, cap. 16, p. 308 e supra, cap. 5 nota 6. La lunga nota di Johann Heinrich Boeckler in Velleio Patercolo 1744, pp. 37-38, che è quella verosimilmente richiamata da Leopardi («molte testimonianze nelle note Variorum»), non aggiunge pressoché nulla di sostanziale al folto repertorio esibito nella Dissertazione sopra i Giganti di Calmet. 11 Velleio Patercolo 1744, lib. 2, cap. 106, sez. 1, p. 517 (Cauchi); lib. 2, cap. 101, sez. 1, p. 502 (Fraatace); lib. 2, cap. 114, sez. 4, p. 550 (Batone e Pinnete). 12 A riscontro, cfr. l’Index non paginato in calce al volume Velleio Patercolo 1744, ss.vv. Excelsissimus juvenis (che rinvia a 2.101.1, il passaggio su Fraatace) ed excelsissimi duces (che rinvia a 2.114.4, il passaggio su Baatone e Pinnete). 13 Floro 1779, lib. 1, cap. 13, p. 35; lib. 2, cap. 4, p. 62; lib. 3, cap. 3, p. 106.
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quando, nel capoverso 5, inserirà la seconda serie di richiami a Floro, funzionale all’evocazione della corporatura possente dei Germani e dei Galli – tra questi ultimi in particolare, del terribile e fortissimo re Vercingetorige (iii.10)14. Sezione 2 (OM, rr. 161-162): febbraio - aprile 1821 Di alcune specie perdute di uccelli. V. la Bibliot. Ital. t. 6. p. 190. dopo il mezzo.
Nella sua edizione critica delle Operette morali Besomi rileva che gli ultimi tre rinvii del foglietto (rr. 161-168) sono stati registrati in due momenti successivi15. Il riscontro autoptico del manoscritto (c.l. x.5.2 τ) conferma il pronunciamento dell’editore: in effetti, di qui sino al termine del foglietto, Giacomo adopera un inchiostro nero, diverso da quello marrone sin qui utilizzato, e si serve di due ulteriori pennini, di diverso spessore. Il primo pennino è adoperato per la porzione corrispondente alla seconda e terza sezione (rr. 161-166), l’altro per la quarta e ultima (rr. 167-168). Rimane tuttora difficile capire quando il recanatese abbia inserito il richiamo che si legge nella seconda sezione, perché non disponiamo di alcuna evidenza che possa autorizzarci a datarla con precisione. Ciò detto, possiamo comunque elaborare qualche fondata ipotesi facendo leva su due dati congetturali estrapolabili dalla cronologia relativa delle sezioni: 1) abbiamo assegnato la stesura della prima sezione a un periodo verosimilmente compreso tra dicembre del 1820 e febbraio del 1821; 2) dovremo vedere più avanti che la compilazione della terza sezione può essere ragionevolmente ricondotta all’aprile del 1821. Se i dati congetturali sono corretti, è lecito supporre che l’inserimento della seconda sezione del foglietto sia avvenuto tra febbraio e aprile del 1821. La presente sezione si risolve in un rinvio puntuale a una recensione non firmata delle Lettere di Antonio Cicciaporci sugli Etruschi. Essa è contenuta nell’Appendice alla Parte italiana del sesto tomo della «Biblioteca italiana», pubblicato nel 1817. Il sintagma «specie perdute» (cfr. cap. 9) che apre la sezione registra nuovamente il ca14 Ivi,
lib. 3, cap. 10, pp. 125-126. p. 463 nota ad locum.
15 OM,
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stismo dagli Animali parlanti (cfr. il documento [d], r. 209, trascritto nel cap. 2) adoperato più volte in Cavallo e Bue, e riproduce ad litteram un sintagma che si legge anche nell’articolo della «Biblioteca italiana». Il recensore delle Lettere fa riferimento a un preciso passo della Naturalis historia di Plinio il Vecchio. Parlando dell’arte augurale etrusca, l’enciclopedico latino scriveva che «nei libri della etrusca disciplina si vedeano dipinte diverse specie d’uccelli che non si erano vedute da secoli, o che si erano perdute»16. L’attenzione leopardiana per gli uccelli in questa sede non stupisce, dal momento che in Cavallo e Bue Leopardi sottolineava l’analogia uomo-uccello fondandola sul condiviso bipedalismo (rr. 61-62). Sezione 3 (OM, rr. 163-166): aprile 1821 Della lunga vita degli uomini antichissimi v. l’opinione mitologica degl’indiani nel Ramayuna. Annali di Scienze e lettere. Milano. 1811. Novembre. N° 23. p. 35. dal mezzo in giù. Il Ramayuna è uno de’ principali libri di mitologia indiana.
La testimonianza della terza sezione si riconnette alle osservazioni di Cavallo sul punto della longevità degli antichissimi, gli antenati dell’uomo «mutat[o] assai» (r. 119), ch’erano «di più lunga vita che dopo» (r. 121). Per l’occasione Leopardi si avvale dell’«opinione mitologica» offerta dal poeta Vālmīki autore del Ramayana, il più antico poema epico indiano. Il rinvio del recanatese raggiunge l’articolo Il Ramayuna di Valmeeki, stampato nel fascicolo 23 degli «Annali di Scienze e lettere» (1811). Giacomo non poteva sapere che aveva di fronte una tra-recensione, vale a dire che l’anonimo autore italiano de Il Ramayuna di Valmeeki non aveva davvero lavorato direttamente sul testo da recensire – la traduzione inglese del Ramayana comparsa a Londra nel 1808. Detto altrimenti: l’anonimo non era propriamente un recensore, piuttosto era un traduttore che aveva tacitamente volgarizzato una recensione comparsa in una rivista ginevrina17. Come 16 «Biblioteca italiana», 1817, t. 6, p. 190. Cfr. Plinio il Vecchio 1601, t. 1, lib. 10, cap. 15 (17 nelle edizioni moderne), p. 473: «Svnt præterea complura genera depicta in Hetrusca disciplina, seculis non visa: quæ nunc defecisse mirum est, cum abundent etia[m], quæ gula humana populatur». 17 Il Ramayuna di Valmeeki, articolo non firmato comparso in «Annali di scienze e lettere», 1811, t. 8, fasc. 23, pp. 32-47. La tra-recensione volgarizza testo e note di una re-
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che sia, è certo che ciò che attrae l’attenzione leopardiana proviene dalla quinta sezione del primo libro del poema indiano: commentando la descrizione dell’opulenta città di Uyodhya, il recensore segnala che nessuno degli abitanti di questa città d’Utopia «visse mai ivi meno di mille anni». È difficile assegnare una precisa datazione alla terza sezione del foglietto, vista la lunga durata degli interessi di Leopardi per la lingua sanscrita e per le composizioni indiane in lingua sanscrita. Ai libri di «mitologia indiana» quali il Ramayana, i Purana e il Meghaduta, Leopardi aveva fatto cenno già nel 1818, durante la stesura del Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, avvalendosi delle informazioni provenienti dall’articolo The Megha Duta firmato da Davide Bertolotti, uscito nel luglio 1817 sulle pagine dello «Spettatore straniero»18. Ciò che ci interessa qui è il fatto che a distanza di tre anni, precisamente il 18 aprile 1821, Giacomo tornerà di nuovo sull’articolo per estrapolarne un passaggio, e trascriverlo nel proprio diario (Z 955-956)19. A guardar bene, sembra che a monte del rinvio al Ramayana affidato al foglietto, così come alla base della trascrizione dallo «Spettatore straniero» depositata nello Zibaldone, sia possibile individuare i medesimi moventi: non solo l’interesse per i libri di «mitologia indiana», ma anche, più precisamente, l’attenzione per le recentissime traduzioni inglesi di antichi testi in sanscrito. Ragion per cui all’aprile del 1821 (data della trascrizione nel diario) tenderei ad avvicinare l’inserimento della terza sezione del foglietto.
censione non firmata comparsa nella serie Littérature della rivista ginevrina «Bibliotheque britannique», 1811, t. 48, pp. 250-266. Ivi a p. 255 l’originale fr. della frase enfatizzata da Leopardi. 18 Cfr. Poesia romantica, p. 79, con il commento ad locum di Ottavio Besomi a p. 156. 19 A trascrizione ultimata, il poeta soggiunge che l’articolo è «estratto però senza fallo da un giornale forestiero, e non dalla stessa traduzione». Stavolta, insomma, Giacomo si accorge di aver maneggiato una tra-recensione, e tra le righe accusa Bertolotti di non essere affatto «il compilatore di quest’articolo» (sono le parole con cui Bertolotti fa riferimento a sé stesso nella prima nota dell’articolo). Al netto di qualche dettaglio, Leopardi coglie in pieno il nocciolo della questione: la presunta recensione della traduzione inglese del Meghaduta comparsa, a detta di Bertolotti, nel 1814 a Calcutta, era in effetti una traduzione di taluni stralci della Preface confezionata da Hayman Wilson, traduttore e curatore inglese del poema lirico sanscrito. Si noti che Bertolotti scrive «1814» perché di fatto adopera un volume uscito in quell’anno. La prima edizione della traduzione risale invece al 1813.
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11. al dialogo del cavallo e del bue. il foglietto (1820-1821)
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Sezione 4 (OM, rr. 167-168): fine settembre 1821 V. pure Rocca. Memorie intorno alla guerra in Ispagna. Milano, Stella, 1816. p. 161-2. Parte ii. ed ib. p. 180. principio.
L’ultima annotazione del foglietto proviene dagli appunti presi durante la lettura delle Memorie intorno alla guerra in Ispagna del ginevrino Albert de Rocca, uomo d’armi che prese parte come ussaro alla campagna di Napoleone in Spagna (1808-1809), e in seguito (1811) sposò Mme de Staël in gran segreto. I dati della progressione della lettura delle Memorie registrati nello Zibaldone sembrano suggerire che il rinvio multiplo in coda al foglietto sia stato inserito non prima dei giorni che vanno dal 21 al 26 settembre 1821, date, rispettivamente, del primo e dell’ultimo richiamo zibaldoniano alla seconda parte delle Memorie (Z 1761 e 1798). I brani richiamati ne Al Dialogo del Cavallo e del Bue sono annodati per via tematica, e insistono sulla vigoria e il gigantismo degli abitanti degli «aridi monti» della «Serrania de Ronda» (nell’odierna Andalusia), da lungo tempo «[a]ssuefatti a lottar continuamente colle difficoltà di una selvaggia natura». In particolare, sulla descrizione delle donne: «Quando calano giù a Ronda si riconoscono facilmente tra le altre femmine alla gigantesca loro statura, alle robuste lor membra, ed al loro sguardo nel tempo stesso attonito e minaccioso»; «[le donne della Serrania de Ronda] non differivano, conforme ho già detto, dagli uomini, se non che nel vestire, in una più alta statura, e nella asprezza un poco maggiore delle maniere»20. Merita qualche enfasi il fatto che taluni dei tratti qui registrati da Rocca anticipano quelli che Leopardi attribuirà alla Natura nell’incipit del Dialogo della Natura e di un Islandese (1824)21.
20 Rocca 1816, pp. 161 (natura selvaggia), 162 (donne gigantesche), 180 (statura e maniere). 21 Cfr. OM, pp. 167-168.
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12. Al Dialogo del Cavallo e del Bue. Il bifoglio (1821-1825)
i. Testa compositiva (OM, rr. 169-182): settembre 1821 - primi mesi del 1823 La prima pagina del bifoglio si apre con un’integrazione dialogica (rr. 169-177) alle frasi che Cavallo pronuncia nei rr. 128-131 del Cavallo e Bue. Siamo assicurati in tal senso dalla ripresa del medesimo verbo «sapevano» (rr. 130 e 169). All’integrazione è annessa una nota leopardiana sull’umanissima «previdenza del futuro» e sui suoi effetti, in particolare la tristezza e la malinconia (rr. 178-182; cfr. già Cavallo e Toro, rr. 34-35). Gli uomini oramai snaturati «sapevano troppe cose», e per questo erano «scontentissimi». Così sostiene Cavallo in Cavallo e Bue (rr. 128-131). Qui nel bifoglio, a distanza di qualche tempo, la bestia aggiunge qualcosa di più preciso. Non è tanto la scientia a nuocere, ma la «previdenza del futuro», e più esattamente ciò che nel diario è chiamato «previdenza de’ mali (che nelle bestie non è)» (Z 40; 1818?): Cavallo. Sapevano quali erano le malattie delle quali si poteva morire, e appresso a poco se sarebbero morti o no, e in genere pochi morivano senz’averlo preveduto con sommo spavento e dolore, e sentita la morte innanzi tempo. Ora chi di noi, bene o male che stia, pensa mai alla morte e si attrista per dover morire, o su nulla di questo negozio? E mantenevano i medici quasi non per altro che per sapere innanzi tempo quando sarebbero morti ec. Così che la morte era per loro uno spasimo, e frequentissimo anche nel corso della vita, per i dubbi, i timori, i sospetti ec. di malattie mortali, di pericoli ec. Osservazioni sulla previdenza del futuro, e come la tristezza, la malinconia ec. derivante dall’aspettazione o timore del male (cosa per una parte maggior del male, come prova Senofonte nella Ciropedia con vari esempi; per altro lato, costituente la massima parte della nostra infelicità) sia quasi affatto ignota e straniera ed aliena agli animali.
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Al saper troppo del dialogo subentrano ora, nel bifoglio, i saperi nosologico e tanatologico (circa le malattie mortali e la morte), del tutto estranei agli animali. Ma c’è di più. «[I]gnota e straniera ed aliena agli animali» è soprattutto la capacità di prevedere i mali ordinari della vita, in particolare la morte; di pensarvi con tanto assillo da anticiparli (si noti la ripetizione di «innanzi tempo», solidale con l’ante tempus che Lucio Anneo Seneca adopera di frequente nelle Epistulae ad Lucilium) e sentirli nell’hic et nunc, trasformando di conseguenza il presente in una gravosa tortura. Attraverso le parole di Cavallo la “scontentezza” di Cavallo e Bue viene approfondita sino a coincidere con una morte-in-vita che ingenera tormenti e sofferenze, «uno spasimo, e frequentissimo anche nel corso della vita». Gli uomini snaturati si condannano alla medesima tortura cui vanno incontro i malinconici à la Rousseau: «in genere pochi morivano senz’averlo preveduto con sommo spavento e dolore, e sentita la morte innanzi tempo» (rr. 170-172; c.vi miei). La pennellata è magistrale perché con essa arrivano a coincidere le connotazioni che Leopardi assegna a due opposte immagini. Da una parte, la connotazione tenebrosa del «divino ondeggiamento» (Z 100; 8 gennaio 1820), lo spavento del soggetto che desidera analizzare, cioè gustare e divorare l’oggetto del desiderio, ma finisce col subire inopinatamente lo scacco del vuoto analitico e della possibilità irrealizzata. Detto in altre parole: l’afflizione di chi si inabissa, penetra addentro qualcosa per «ponderarne» e gustarne «la profondità»22, tuttavia ottiene solo di rimanere confuso e attonito perché non ne ha saputo trovare il «fondo». Come accade nella Vita abbozzata di Silvio Sarno (1819): scontentezza nel provar le sensazioni destatemi dalla vista della campagna ec. come per non poter andar più addentro e gustar più non parendomi mai quello il fondo oltre al non saperle esprimere ec.23 22 Condanna
e viaggio del redentore al Calvario, in Prose, p. 561. abbozzata di Silvio Sarno, § 29, in SFA, pp. 67-69. La formula icastica «andar più addentro» adoperata nella Vita abbozzata – appunto in nesso con la «scontentezza» che riaffiora negli «scontentissimi» del Cavallo e Bue (OM, p. 462, r. 130) – rivela l’attrazione esercitata su Giacomo dalla lezione di Pluche. Cfr. Pluche 1769, t. 2, p. 172: «Può egli con quest’ajuto penetrare al di là del sensibile? può egli andar più addentro della superfizie, e sviluppare qualche cosa di più delle mere connessione e simiglianze?». E a proposito della lavorazione dei terreni agricoli cfr. Pluche 1786, t. 4, pp. 50 («sì perchè, a scassarle 23 Vita
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12. al dialogo del cavallo e del bue. il bifoglio (1821-1825)
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Dall’altra, invece, il deragliamento dell’immaginazione del soggetto moderno che ha finalmente rintracciato l’orizzonte agognato, ha acquisito «la cognizione dell’oggetto intiero» (Z 100). Varcata la soglia del novello «universo della precisione» (è la nota formula coniata da Alexandre Koyré), quel soggetto finisce per identificarsi senza residui con il palombaro che ha finalmente raggiunto il fondale marino, ed è ora in grado di vedere con precisione – una volta per tutte, senza possibilità di errore, né spazi per congetture24 – ciò che prima era nascosto. Sa non solo leggere nel libro della Necessità, ma pure anticipare «i mali ordinari e certi che il tempo reca alla nostra vita» (Z 102); sa circoscrivere e perimetrare precisamente il mondo e la vita umana, soprattutto la propria. Tuttavia, con le parole di Montaigne, il suo presunto vantaggio «lui est bien cher vendu, et duquel il a bien peu à se glorifier»25. L’Inno ai Patriarchi (vv. 20-21) e la canzone Alla Primavera (lezione rifiutata dei vv. 85-87), entrambe del 1822, non lasciano dubbi in merito: il fondale che il palombaro ha scrutato ‘con occhio lucido e sobrio’ (Eschilo, Supplici, 407-409) non gli offre salvezza. Anzi, riemerge assieme a lui, lasciando l’uomo moderno, signore delle profondità26, nella condizione delle disperate anime infernali27. Quello stesso mondo che egli ha circoscritto e conosciuto appuntino finisce inesorabilmente per rinserrarlo nella gabbia di Ananke, e per «istupidir[lo] di spavento». Analogamente a quanto accade in carcere a un condannato, che non può non sapere quando scoccherà l’ora della messa a morte (Z 102). troppo addentro ne svaporerebbono tutti i sughi, ed umori, che in lor contengonsi») e 59 («a scassare, quando più addentro, e quando più a galla»). Sul privilegio della superficie a scapito del profondo, e sui limiti posti all’esercizio della facoltà intellettiva nello Spettacolo della natura di Pluche, cfr. Polizzi 2008, pp. 57-63. 24 La certezza e la sicurezza della pre-videnza messa a tema da Leopardi scavano tutta la distanza che è possibile rinvenire tra queste pagine leopardiane, collocate nella cornice dell’«universo della precisione», e i passaggi che Seneca dedica al medesimo tema (e, si direbbe, alle medesime immagini leopardiane, con coincidenze lessicali anche notevoli) nelle Epistulae morales ad Lucilium. Cfr. Appendice iv. 25 Montaigne 2012, lib. 2, cap. 12 (Apologie de Raymond Sebond), p. 820. 26 La profondità è da Leopardi sempre accostata all’indole filosofica (cfr. ad esempio «il sistema di profondità, di ragione, di esame» di Z 1062), e come tale ritornerà associata all’uomo anche nell’operetta più prossima a Cavallo e Bue, vale a dire Folletto e Gnomo (1824). 27 Inno ai Patriarchi, vv. 20-21: «e violento / Emerse il disperato Erebo in terra»; Alla Primavera, vv. 85-87 rifiutati: «e poi ch’in terra / L’ignavo Pluto, e d’Acheronte avaro / Il sordo flutto emerse». Sulla parziale analogia di queste due immagini cfr. Canti Blasucci, p. 215.
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Leggiamo con agio i passaggi del diario che abbiamo appena sunteggiato (Z 100 e 102), e che evidentemente risultano connessi da fili sottilissimi: [Z 100] [gli antichi] descrivendo con pochi colpi, e mostrando poche parti dell’oggetto, lasciavano l’immaginazione errare nel vago e indeterminato di quelle idee fanciullesche, che nascono dall’ignoranza dell’intiero. Ed una scena campestre p. e. dipinta dal poeta antico in pochi tratti, e senza dirò così, il suo orizzonte, destava nella fantasia quel divino ondeggiamento d’idee confuse, e brillanti di un indefinibile romanzesco, e di quella eccessivamente cara e soave stravaganza e maraviglia, che ci solea rendere estatici nella nostra fanciullezza. Dove che i moderni, determinando ogni oggetto, e mostrandone tutti i confini, son privi quasi affatto di questa emozione infinita, e invece non destano se non quella finita e circoscritta, che nasce dalla cognizione dell’oggetto intiero, e non ha nulla di stravagante, ma è propria dell’età matura, che è priva di quegl’inesprimibili diletti della vaga immaginazione provati nella fanciullezza. (c.vi miei) [Z 102] È pure un tristo frutto della società e dell’incivilimento umano anche quell’essere precisamente informato dell’età propria e de’ nostri cari, e quel sapere con precisione che di qui a tanti anni finirà necessariamente la mia o la loro giovinezza ec. ec. invecchierò necessariam. o invecchieranno, morrò senza fallo o morranno, perchè la vita umana non potendosi estendere più di tanto, e sapendo formalmente la loro età o la mia io veggo chiaro che dentro un definito tempo essi o io non potremo più viver goder della giovinezza ec. ec. Facciamoci un’idea dell’ignoranza della propria età precisa ch’è naturale, e si trova ancora comunemente nelle genti di campagna, e vedremo quanto ella tolga a tutti i mali ordinari e certi che il tempo reca alla nostra vita, mancando la previdenza sicura che determina il male e lo anticipa smisuratamente, rendendoci avvisati del quando dovranno finire indubitatamente questi e quei vantaggi della tale e tale età di cui godo ec. Tolta la quale l’idea confusa del nostro inevitabile decadimento e fine, non ha tanta forza di attristarci, nè di dileguare le illusioni che d’età in età ci consolano. Ed osserviamo quanto sia terribile in un vecchio p. e. d’80. anni, quel sapere determinatam. che dentro 10. anni al più egli sarà sicuram. estinto, cosa che ravvicina la sua condizione a quella di un condannato, e toglie infinitam. a quel gran benefiz. della natura d’averci nascosto l’ora precisa della nostra morte che veduta con precisione basterebbe per istupidire di spavento, e scoraggiare tutta la nostra vita. (c.vi miei)
Agli occhi di Leopardi, insomma, il carcerato ha le stesse fattezze dell’anziano precisamente avvertito dell’ora della propria morte, anzi – con un termine che evoca il fenomeno biologico che sta al cuore dei
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12. al dialogo del cavallo e del bue. il bifoglio (1821-1825)
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Dialoghi tra due bestie – dell’ora in cui «sarà sicuram. estinto». A sua volta, l’anziano assomiglia all’uomo incivilito che tutto ha veduto «con precisione», e che ha conquistato a caro prezzo «la previdenza sicura» dei mali che il futuro ha in serbo per lui. Lo si sarà già capito: è il medesimo animale non più naturale, dotato appunto di «previdenza del futuro» (r. 178), del quale parla Cavallo nell’integrazione dialogica in testa al bifoglio di [c]. A quando risale questa integrazione? Non è dato saperlo con certezza. Ad ogni modo, ai fini della datazione può esserci d’aiuto un’informazione contenuta nella nota che Leopardi scrive subito di seguito (rr. 178-182), e che, in realtà, è piuttosto un abbozzo di programma di lavoro. Vi si fa riferimento ai «vari esempi» offerti da «Senofonte nella Ciropedia» sul tema del timore del male, che per una parte risulta «maggiore del male» stesso (rr. 179-180). E si direbbe che Leopardi pensi innanzitutto al discorso di Tigrane su φόβος quale supplizio più grave delle pene che sensibilmente tormentano il corpo28. Per la lettura distesa della Κύρου παιδεία non sembra si possa retrocedere oltre il 1818-1819, biennio in cui Giacomo stende alcune schede di Note lessicali, e vi fa esplicito riferimento non solo al greco dell’originale senofonteo, ma anche alla paginazione dell’edizione dell’opera senofontea curata da Wells e Thieme, oltre che al latino della traduzione del Leunclavius29. In ogni caso, vi sono almeno cinque motivi che ci riconducono verso una data più recente: 1) l’aggregazione del bifoglio all’abbozzo di Cavallo e Bue, steso verosimilmente nell’estate del 1820 (cfr. cap. 3); 2) il cortocircuito con le pagine 100 e 102 dello Zibaldone, datate rispettivamente 8 e 20 gennaio 1820, a proposito del tema della «previdenza sicura»; 3) il ritorno di Leopardi sulla Κύρου παιδεία, e sulla figura di Senofonte in funzione di educatore, in Z 882-883 (30 marzo - 4 aprile 1821) e nella novella Senofonte e Machiavello, risalente forse al 1821; 4) la sensibile somiglianza che si ravvisa tra il brano di Z 1601-1602 e il passaggio di Cavallo e Bue dedicato al tema dell’indebolimento di alcune razze animali addomesticate dall’uomo (rr. 122-125). Come si è detto nel cap. 8, essa pare suggerire che tra la fine di ago28 Cfr.
Senofonte 1801-1804, vol. 1, lib. 3, cap. 1, pp. 151-152, §§ 13-14. Scritti filologici, p. 140, rr. 46-49, ma anche l’osservazione che segue ivi, rr. 6466. Per tutto ciò che concerne il “Senofonte di Leopardi” si veda D’Intino 2012. 29 Cfr.
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sto e l’inizio di settembre 1821 Leopardi fosse ritornato sul secondo abbozzo. Una rilettura svolta a questa altezza cronologica potrebbe fornirci qualche lume utile, se non altro, a contestualizzare l’integrazione dialogica in testa al bifoglio di [c] che stiamo esaminando; 5) la cronologia relativa dei materiali registrati ne Al Dialogo del Cavallo e del Bue. La testa compositiva del bifoglio è in posizione seriore rispetto alla coda del foglietto, che è stata inserita presumibilmente a fine settembre 1821; inoltre, precede la prima sezione della coda documentale, che invece non dovrebbe essere anteriore ai primi mesi del 1823. Con cautela, tenderei a collocare tra queste due date la registrazione dell’integrazione dialogica e dell’osservazione poste in apertura del bifoglio. ii. Coda documentale (OM, rr. 183-207) La documentazione che segue consta di cinque sezioni, l’ultima delle quali ritorna come per Ringkomposition sull’argomento che esauriva l’inchiesta del foglietto, e lo sugella con il medesimo titoletto: «lunga vita degli uomini antichiss.» (r. 206). Sezione 1 (OM, rr. 183-185): inizio 1823 Εἰσὶ δὲ χαὶ ἄλλως οἱ Κέλτοι μαχρῷ πάντας ὑπερῃρχότες μήχει τοὺς ἀνθρώπους. Pausan. l. 10. c. 20. οἱ δὲ Γάλαται τοῖς μὲν σώμασιν εἰσὶν εὐμήχεις. Diod. l. 5. c. 28.
Ai rr. 183-185 sono consegnate due trascrizioni di altrettante sentenze in greco, accompagnate dall’indicazione dei rispettivi loci bibliografici di provenienza. Il primo è tolto alla Periegesi di Pausania, il secondo alla Biblioteca storica di Diodoro Siculo. Con la presente sezione siamo di colpo nel 1823, e per giunta a Roma. Gli excerpta provengono dalle Osservazioni Artistico-Antiquarie di Antonio Nibby, comparse nelle «Effemeridi letterarie di Roma» nel 182130. Leopardi ne prese visione verosimilmente solo all’ini30 Osservazioni Artistico-Antiquarie sopra la statua volgarmente appellata il Gladiator Moribondo del Sig. Professore A. Nibby ec., in «Effemeridi letterarie di Roma», 1821, t. 3, pp. 49-79. Gli excerpta da Pausania e Diodoro si leggono alle pp. 71-72.
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zio del 182331, anno in cui «trovò finalmente nelle “Effemeridi” del De Romanis un periodico disposto a pubblicare le sue osservazioni eusebiane»32, vale a dire le Annotazioni sopra la Cronica d’Eusebio. È lo stesso Nibby a tradurre i passaggi: ‘I Galli sono alti di statura’, dice Diodoro; ‘sono d’altronde i Celti nell’altezza della persona superiori a tutti gli uomini’, soggiunge Pausania. Nelle due citazioni delle Osservazioni Artistico-Antiquarie manca l’accentazione greca che, al contrario, figura nelle trascrizioni leopardiane. Questo dettaglio suggerisce che, con ogni probabilità, Giacomo ha proceduto a ricontrollare i passi suggeriti da Nibby nelle edizioni di Diodoro e Pausania a lui accessibili. Sezione 2 (OM, rr. 186-201): febbraio-marzo 1823 Nel ginnasio d’Asopo in Laconia si conservavano dell’ossa umane di prodigiosa grandezza. «Pausan. l. 3. c. 22. p. 264.»33 ap. Voyage d’Anach. ch. 41. p. 83. t. 4. «L’on nous montra dans un temple d’Esculape» (à Megalopolis en Arcadie) «des os d’une grandeur extraordinaire, et qu’on disoit être ceux d’un géant» («Pausan. l. 8. c. 32. p. 667»). Même ouvrage ch. 52, t. 4. p. 301.34 «On étoit alors persuadé que la nature, en donnant aux anciens héros une taille avantageuse, avoit» etc. («Philostr. Apollon. ii. 21. p. 73. iv. 16. p. 152. Gell. iii. 10»). «Eschyle releva ses acteurs par une chaussure très-haute.» («Philostr. Apoll. vi. 11. p. 245. Vit. Sophist. i. p. 492. Lucian. de Salt. § 27. t. 2. p. 284. Vit. Aeschyl. ap. Robort. p. 11.») Même ouvrage t. 6. ch. 69. p. 19. Vedete ancora circa la statura d’Ercole, «Apollod. ii. 3. § 9. p. 96. Philostr. Apoll. ii. 21. p. 73. iv. 16. p. 152. Gell. iii. 10.» «Nous parcourûmes l’ile» (de Rhodes) «dans sa partie orientale où l’on prétend qu’habitoient autrefois des géants.» («Diod. Sic. l. 5. p. 327.») «On y a découvert des os d’une grandeur énorme.» («Phleg. de mirabilibus c. 16.») Voy. d’Anach. ch. 73. t. 6. p. 242.
31 Cfr. il ii elenco di letture in Zibaldone iii, p. 1140, n. 8. Per quanto concerne la precisazione “1823”, da prendere comunque con cautela: nello Zibaldone le ultime annotazioni sul Trattato dello stile e del dialogo di Sforza Pallavicino, inserito nel medesimo ii elenco al n. 6 (e dunque prima delle «Effemeridi Romane»), risalgono al 5 gennaio 1823. 32 Così Giuseppe Pacella e Sebastiano Timpanaro in Scritti filologici, p. 203. 33 Barthélemy 1789, t. 4, p. 83 nota (d) riporta «p. 265.». 34 Il rinvio bibliografico si riferisce alla trascrizione precedente (sulle ossa del tempio di Esculapio), non a quella seguente.
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Tutte le notizie colate in questa sezione – a proposito delle «ossa umane di prodigiosa grandezza» conservate nel «ginnasio d’Asopo in Laconia»; della «taille avantageuse» degli antichi eroi; della calzatura «très-haute» indossata dagli attori delle tragedie di Eschilo; della statura di Ercole35; dei giganti dell’isola di Rodi – provengono dai tomi 4 e 6 del Voyage du jeune Anacharsis en Grèce di Jean-Jacques Barthélemy, come da Leopardi stesso viene indicato. Per giunta, le trascrizioni (dal corpo del testo, oltre che dalle note) si stratificano l’una sull’altra in ordine progressivo, assecondando l’avanzamento della lettura: ciò rende più semplice il confronto con lo Zibaldone, ove Giacomo riversa le trascrizioni dall’Anacharsis procedendo allo stesso modo, in ordine progressivo, al netto di qualche eccezione. Queste ultime si leggono in Z 2669-2683, e sono stese tra il 7 febbraio e il 29 marzo 1823. Leopardi lesse l’originale francese dell’Anacharsis, in versione integrale, durante il primo soggiorno a Roma (1822-1823)36. Sezione 3 (OM, rr. 202-203): ottobre-dicembre 1823 Dei giganti vedete la Parte primera de la Chronica del Peru di Pedro de Cieça del Leon. en Anvers. 1554. 8.vo piccolo. cap. 52 e cap. 82. fin. p. 212.
È questa l’unica sezione del bifoglio espressamente dedicata alle antiche tradizioni sui giganti. Il campo d’analisi è il Regno del Perù, non la Grecia di Barthélemy (cfr. cap. 12, ii. Sezione 2); e l’unico testimone convocato per l’occasione è Cieça de León, , cronista de Indias e primo storico del Perù. Al rimando generico al capitolo 52 concernente la celebre favola dei giganti sbarcati a Sant’Elena (nell’attuale Costa Rica), segnalata anche nei Comentarios reales (1609) dall’Inca Garcilaso de la Vega37, segue il rinvio al capitolo 82 della Chrónica. Più puntualmente, anzi, l’aggancio raggiunge la «p. 212.» dell’edi35 I rinvii concernenti la statura di Ercole sono gli unici per i quali Leopardi dimentica di segnalare la pagina dell’Anacharsis da cui li ha desunti. Cfr. Barthélemy 1789, t. 6, p. 97 nota (b). 36 Cfr. Zibaldone iii, ii elenco, p. 1142, n. 46. 37 De la Vega 1704, t. 2, lib. 9, cap. 9, pp. 392-394. L’Inca Garcilaso avverte che trascrive mot à mot la favola dal capitolo 52 della Chrónica di Cieça. A proposito dell’uso dell’Histoire des Yncas per la stesura della sezione dedicata alle cognizioni astronomiche peruviane nella Storia della Astronomia cfr. Sana 2000, p. 226.
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12. al dialogo del cavallo e del bue. il bifoglio (1821-1825)
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zione stampata ad Anversa presso Juan Steelsio, e ospitata tra gli scaffali della Biblioteca paterna38. Quest’ultimo luogo testuale concerne il gigantismo degli antichi abitanti della provincia peruviana di Huaraz, testimoniata da antichissime sculture in pietra: «hombres a manera de gigantes», «figuras que estauan esculpidas en las piedras». Una sorta di analogo peruviano di quanto, nei Comentarios, Garcilaso racconta a proposito del sito boliviano di Tiahuanaco39. La forma del rinvio multiplo qui adoperata da Giacomo giustifica la seguente conclusione: quando scrive l’annotazione, Leopardi ha già acquisito una certa familiarità con la Chrónica. C’è di più, perché in effetti si ha l’impressione di trovarsi di fronte a una stringa alfanumerica modulata su parametri lemmatici, in particolare sul lemma/soggetto “gigantes”. Non si può non rilevare, allora, che il principio che informa questa sezione del bifoglio non diverge affatto da quello adoperato per gli appunti estratti dalla Chrónica e riversati nello Zibaldone40. Possiamo mettere almeno un punto fermo sul problema della datazione di questa sezione del bifoglio. In via preliminare, bisogna confessare che non disponiamo di alcuna evidenza che possa autorizzarci a datare con precisione la sezioncina riguardante Cieça. Ciò detto, possiamo comunque elaborare qualche fondata ipotesi facendo leva su due dati sicuri. Il primo concerne il bifoglio nel complesso: l’abbozzo di lavoro su Senofonte è lo strato più antico (rr. 178-182), la notazione su Eusebio e Goguet è il materiale più recente (rr. 206-207). Il secondo dato riguarda la posizione relativa dello strato riguardante Cieça. Il rinvio multiplo alla Chrónica (rr. 202-203) è incastonato tra i fitti appunti di lettura tratti dall’Anacharsis di Barthélemy (rr. 186-201) e i rinvii al De rebus mirabilibus di Flegonte di Tralles (rr. 204-205). Ciò significa che il materiale proveniente dalla Chrónica è stato riversato nel bifoglio dopo quello estratto da Barthélemy, e prima di quello preso a prestito da Flegonte. Gli appunti su Barthélemy dovrebbero verosimilmente risalire 38 Cfr. Z 3795. La precisazione dello stampatore è d’obbligo, dal momento che nello stesso anno ad Anversa furono stampate due o tre edizioni della Chrónica. Sul punto cfr. Millones Figueroa 2001, p. 84 e nota 9: «Una de las ediciones de Amberes tuvo dos editores, Jean Bellèr (Juan Bellero) y Jean Steelsio (Juan Steelsio), de ahí que se pueda contar como una o dos ediciones». 39 Cfr. Carli 1784-1794, t. 12, pp. 202-203. Il brano di Garcilaso sul «grande edifizio» di Tiahuanaco («lib. iii cap. i») è introdotto dalle parole di Plinio il Vecchio (ivi, t. 12, p. 202, a proposito delle Canarie: «colà appajono le vestigia d’antichi edifizj»). 40 Cfr. l’Appendice v.
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al periodo compreso tra 7 febbraio e 29 marzo 1823, date della prima e dell’ultima trascrizione dall’Anacharsis nello Zibaldone (Z 2669-2683). Con ogni evidenza, invece, i rinvii al De rebus mirabilibus nel bifoglio risalgono ai primi mesi del 1825, come si dovrà vedere in seguito. Insomma, per la datazione del rinvio a Cieça non si dovrebbe andar oltre l’arco temporale compreso tra fine marzo 1823 e febbraio 1825. L’ipotesi più economica che si possa formulare, stante quanto detto, è che esso sia coevo agli appunti di lettura dalla Chrónica registrati nel diario tra le pagine 3572 e 396241. Se si esclude il rinvio multiplo riversato nell’aggiunta marginale non richiamata a Z 3430, tali appunti risalgono tutti, ed esplicitamente, ai mesi compresi tra ottobre e dicembre del 1823. Sezione 4 (OM, rr. 204-205): inizio 1825 Delle grandi ossa d’uomini trovate in vari luoghi v. Flegonte De mirabilibus cap. 11-19. e particolarm. la riflessione ch’egli fa nel cap. 15. fine.
A poco serve ricordare che il nome di Flegonte di Tralles, paradossografo di età adrianea, affiora precocemente nell’opera leopardiana (cfr. Appendice ii); o ancora, che le fitte testimonianze di Flegonte sul tema dello «scoprimento di smisurate ossa e d’alcuni cadaveri di straordinaria grandezza»42 sono vagliate da autori con i quali Leopardi si è confrontato precocemente (Calmet, e forse anche Niccolai, nel 1815: cfr. cap. 5), e anche più di recente (Barthélemy nel 1823: cfr. cap. 12, ii. Sezione 2). Più importante è sottolineare che, con ogni evidenza, i rinvii ai «cap. 11-19.» del De rebus mirabilibus che aprono la penultima sezione del bifoglio sono da Giacomo inseriti in sincrono con la lettura dell’opuscolo, terminata nel febbraio 182543, e con la stesura delle «osservaz. a Flegonte de mirabil.» (Z 4135) comprese nei quattro foglietti delle Note ai Taumasiografi greci (con le relative Giunte)44. Qualche prodigio
41 Muñiz Muñiz 2020, pp. 281-282 ha dimostrato che dalla Chrónica di Cieça dipendono i rilievi linguistici leopardiani di Z 3572 e 3772. Queste pagine sono datate, rispettivamente, 1 e 25 ottobre 1823. 42 Niccolai 1781-1782, t. 4, p. 19. Cfr. supra, cap. 5 nota 17. 43 Cfr. Zibaldone iii, iv elenco, p. 1153, n. 289. 44 Scritti filologici, pp. 571 sgg. Da confrontare con le note consegnate allo Zibaldone tra Z 4124 e 4151.
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12. al dialogo del cavallo e del bue. il bifoglio (1821-1825)
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dell’imponente ventaglio paradossografico esibito da Flegonte45 riesce ad attraversare persino le fitte maglie filologiche di quelle Note. Lì, ad esempio, Leopardi fa esplicito riferimento al terremoto asiatico dell’epoca dell’imperatore Tiberio, subito prima di lasciare l’argomento e concentrarsi sul problema dell’identità di quell’Apollonio grammatico che ne aveva parlato46. La riflessione del «cap. 15» enfatizzato da Leopardi intercetta nuovamente il fortunatissimo tema della senescenza della natura, cuore di ogni teoria della degenerazione: «Per questo motivo non bisogna considerare con incredulità neppure tali prodigi, se si pensa a come la natura in pieno rigoglio delle origini abbia fatto crescere tutti gli esseri fino a far loro raggiungere una statura prossima a quella degli dèi mentre in seguito, sopraggiungendo per essa l’età del declino, si siano deteriorate di conserva anche le dimensioni degli esseri viventi»47. Questa natura nell’«età del declino» si colloca agli antipodi rispetto all’altra, dotata invece di «jeunesse éternelle», che Linguet elogia nell’articolo Vieillesse extraordinaire. Leopardi aveva compulsato l’articolo nel 1813, ben tredici anni prima, per stendere la seconda parte della relazione sulla lunga vita degli antichissimi della Storia della Astronomia (cfr. Appendice ii). Nello stesso 1813, e per la medesima ragione, Giacomo si era confrontato anche con la Lezione xxxvi del Genesi di Alfonso Niccolai. Il dato va ricordato, se non altro, per dar volume a una singolare eco lessicale: de facto, il «pieno rigoglio delle origini» (gr. ὅτι κατ’ ἀρχὰς μὲν ἡ φύσις, lat. initio natura, vigens viribus) di cui si legge nel passaggio dei Mirabilia consuona pienamente con il «primo vigore» della natura, cioè con l’esuberanza della natura giovinetta – ancora non deteriorata dal Diluvio – messa sotto i riflettori dal gesuita (cfr. cap. 4).
45 L’enorme teschio di Ideo (cap. 11); le carcasse della Caverna di Diana in Dalmazia (cap. 12); la statua colossale di Tiberio nel foro romano (cap. 13); gli enormi scheletri delle città siciliane e di quelle prossime a Reggio, colpite da terremoti (cap. 14); i grandi resti ossei esposti al pubblico nella regione egiziana di Nitro (cap. 15); gli enormi ossami ritrovati a Rodi (cap. 16); gli scheletri cartaginesi (cap. 18) e quello di Macrosiride (cap. 17); gli abnormi resti ossei ritrovati nella regione del Bosforo Cimmerio (cap. 19). Per tutto questo cfr. Meurs 1741-1763, t. 7, coll. 101-106 = Flegonte 2013, pp. 23-27. 46 Scritti filologici, pp. 574-575, con riferimento al cap. 13 del De rebus mirabilibus di Flegonte. 47 Trascrivo la traduzione da Flegonte 2013, p. 25. L’originale greco-latino è in Meurs 1741-1763, t. 7, coll. 103-104.
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Sezione 5 (OM, rr. 206-207): post-inizio 1825 Della lunga vita degli uomini antichiss. v. la Cron. d’Euseb. ove parla dei primi re egiziani e assiri, Goguet tom. 3. Diss. sui Cinesi.
A tutta prima, il ventaglio paradossografico di Flegonte (cfr. cap. 12, ii. Sezione 4) sembrerebbe slegato dai richiami non puntuali alla Chronica di Eusebio e alla “Dissertazione sui Cinesi” associata a Goguet che chiudono il bifoglio. In effetti non è così. La medesima coppia di rimandi bibliografici compariva già in un’annotazione marginale, siglata [h], al manoscritto dell’operetta Dialogo di un Fisico e di un Metafisico (risalente al maggio 1824). In quella sede, la coppia è accompagnata da altri quattro rinvii, assenti, invece, nella sezione del bifoglio che stiamo esaminando: [i] Euseb. Chron. [ii] Goguet t. 3. Diss. sui Cinesi. [iii] Annali di Scienze e Lett. Mil. 1811. n. 23. p. 35 fine. [iv] Arrian. Indica l. c. [v] Nicolai Lez. 36. t. 3. p. 223. [vi] Phlego de mirabil. c. 1748.
Nelle intenzioni di Leopardi, questi sei loci dovevano strutturare le due versioni, iniziale e finale, di un preciso brano del Fisico e Metafisico (rr. 134-136). Per comodità, riportiamo entrambe le pericopi qui di seguito, ricordando che è sempre Metafisico a pronunciare la battuta: versione originaria ed anche a quella >di Macrosiride, che visse, per tornare alle favole, cinquemila anni.< versione finale
ed anche a quella 49
Concentriamoci dapprima sulla variante originaria del passaggio. Nell’annotazione marginale siglata [h] si trovano le due fonti bibliografiche (v-vi) cui Giacomo si affida per il cenno alla «favol[a]» del 48 OM, p. 438, [x], lett. [h]. Ivi però si legga «p. 35 fine.» e non «p. 35 fine» per il rinvio agli Annali; «l. c.» e non «i. c.» per il rinvio ad Arriano; «p. 223.» e non «p. 233.» per il rinvio a Niccolai. Corregge tacitamente Cesare Galimberti in OM Galimberti, p. 202 note 36-37. Integro per comodità i numeri romani, assenti nel ms. 49 OM, p. 144, testo (rr. 134-136) e apparato.
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12. al dialogo del cavallo e del bue. il bifoglio (1821-1825)
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pentamillenario Macrosiride: «Nicolai Lez. 36. t. 3. p. 223. Phlego de mirabil. c. 17.». Si faccia attenzione, però. Questi appunti non ci autorizzano in nessun modo a concludere che nel 1824, quando stende l’operetta, Leopardi conosce già l’intero De rebus mirabilibus. Piuttosto, ci aiutano a capire che il recanatese approda alle pagine di Flegonte seguendo l’indicazione fornita dal gesuita: l’epitaffio sepolcrale di Macrosiride evocato da Flegonte di Tralles («Phlego de mirabil. c. 17.»), e di conserva dal Metafisico dell’operetta, è esibito da Niccolai nel passaggio sui longevi non israelitici della Lezione xxxvi del Genesi, dedicata al tema dei Patriarchi. Ne abbiamo già parlato (cfr. cap. 4): Leopardi aveva compulsato quella lezione scritturale nel 1813, quando era in procinto di elaborare la relazione sui longevi antichissimi della Storia della Astronomia. Gli altri quattro rinvii bibliografici inseriti nel marginale siglato [h] (i-iv) stanno al fondo delle battute dialogiche della versione definitiva. Per la lunga vita dei primi re egiziani e assiri vale l’aggancio alla Chronica di Eusebio («Euseb. Chron.»); per la Cina rileva la dissertazione associata al nome di Goguet («Goguet t. 3. Diss. sui Cinesi.»); infine, gli spunti per i longevi indiani derivano dal capitolo 9 delle Indica di Arriano – già richiamato in una precedente annotazione del Fisico e Metafisico, siglata [e] («Arrian. l. c.») – oltre che dalla tra-recensione del Ramayuna di Valmeeki, di cui si è detto sopra («Annali di Scienze e Lett. Mil. 1811. n. 23. p. 35 fine»; cfr. cap. 11, ii. Sezione 3). Il confronto tra questa porzione del marginale [h] del Fisico e Metafisico e la Sezione 5 del bifoglio non lascia spazio a dubbi: i rinvii ad Eusebio e a Goguet che si trovano nella prima (i-ii) sono identici a quelli che si leggono nell’altro50. Leopardi, insomma, si è limitato a trascriverli nel bifoglio, estraendoli dall’annotazione marginale. Lo scarto tra le quattro testimonianze del marginale e le sole due del bifoglio certifica, se non altro, che Giacomo deve aver operato una cernita accurata. A farne le spese è il materiale indiano, obliterato in blocco. Cade, innanzitutto, l’aggancio alla tra-recensione del Ramayuna di Valmeeki, e con esso il cenno del Ramayana a Dusharutha, il sovrano di Uyodhya, il quale «avea vissuto egli stesso alcune 50 La differenza è minima, e limitata alla precisazione relativa alla Chronica di Eusebio, ovvero alla specificazione inclusa nella frase «ove parla dei primi re egiziani e assiri».
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migliaja d’anni»51. Per quanto concerne Arriano, tutto suggerisce che Leopardi ha avuto un ripensamento: il riscontro autoptico del bifoglio certifica che Giacomo stava inserendo anche il richiamo alle Indica, e che poi, invece, lo ha cancellato52. Nelle sue storie il «buono antico» di Nicomedia non aveva solo aperto la strada alle considerazioni di Metafisico su miseria e felicità, scrivendo che «gli uomini di alcune parti dell’India e dell’Etiopia non campano oltre a quarant’anni»53. Aveva anche suggerito a un lettore attento come Leopardi la notevole longevità degli antichi sovrani indiani. Secondo lo storico, difatti, gli indiani contavano, da Bacco (primo sovrano a infrangere la libertà di quei popoli) fino ad Androcoto, 153 re in 6042 anni54. Se a questa cifra sottraiamo gli anni di libertà da ogni sovrano, che ammontano complessivamente a 420,55 e poi dividiamo quanto ottenuto per il numero dei re, potremo comprendere che la vita media degli antichi sovrani indiani dovette essere smisuratamente lunga. Una simile cifra esorbitante emerge dal computo effettuato sulle vite dei primi sovrani cinesi da Michel-Ange-André Le Roux des Hautes-Rayes nella Lettera sopra alcuni passi tratti dagl’istorici cinesi. Leopardi la conosceva bene, dacché l’aveva ritrovata nel terzo tomo del Della origine delle leggi, delle arti e delle scienze di Yves-Antoine Goguet, e l’aveva utilizzata nella Storia della Astronomia (1813) per stendere la sezione dedicata alle conoscenze astronomiche dei cinesi56. Detto questo, tuttavia, non si può fare a meno di aggiungere che 51 «Annali
di scienze e lettere», 1811, t. 8, fasc. 23, p. 35. Cfr. l’apparato in OM, p. 465. Ivi la svista «Avvian.» per «Arrian.» rende opaco il senso dell’operazione leopardiana. 53 Ivi, p. 141, rr. 88-90. Il passo di Arriano è indicato nell’annotazione siglata [e] ed è il punto di riferimento per l’aggancio alle Indica nell’annotazione [h] che stiamo esaminando. 54 Il computo di Arriano era stato analizzato anche in una recensione del ix volume delle Asiatic Researches (Calcutta 1807), comparsa sulle pagine dell’«Edinburgh Review» (1810, vol. 15, art. xii, pp. 175-189). Il passo delle Indica è esibito e sunteggiato dal recensore nel corso della discussione delle Observations on the sect of Jains di Henry Thomas Colebrooke (pp. 183-187). Leopardi poteva avere notizia di tutto questo dagli «Annali di scienze e lettere», 1810, t. 4, ove è ospitata una tra-recensione (in due parti: pp. 30-49 e 190-205) dell’articolo comparso sull’«Edinburgh Review». Ivi, p. 194, si legge l’estratto da Arriano. 55 Arriano 1757, p. 568. Manca però la cifra relativa a un ulteriore, terzo intervallo di anni di libertà. 56 Le Roux des Hautes-Rayes 1761, pp. 239-265. Per l’uso di questa lettera nella Storia della Astronomia cfr. Astronomia, p. 121 note 365-369, 371 e 377. 52
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12. al dialogo del cavallo e del bue. il bifoglio (1821-1825)
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la formula «Diss. sui Cinesi.» usata a mo’ di rinvio bibliografico (sia nel marginale [h] del Fisico e Metafisico che qui nel bifoglio) sembra alquanto sommaria: Giacomo fa riferimento a una Lettera, non certo a una dissertazione. A conti fatti, il poeta deve aver fissato sulla carta la formula per ricordare a sé stesso di ricontrollare, in un secondo tempo, il materiale cinese in Goguet. E si direbbe, per orientarsi all’interno dei materiali contenuti nel terzo tomo del Della origine: la Lettera, difatti, è contenuta proprio nella sezione Dissertazioni del terzo tomo, ed è l’unica concernente la cultura cinese. Nella Lettera sopra alcuni passi tratti dagl’istorici cinesi il Professore Reale francese commenta spazientito i fabulosi resoconti degli storici cinesi: «È una follia l’attenersi alle epoche di questi sei Ki». Il Ki è il periodo cinese, e il conto di sei fa riferimento alle epoche succedutesi a partire dal principe Gine-hoang, sotto il quale si cominciò a distinguere tra sovrano e suddito. «[D]e’ quali niuna cosa è più assurda: Lo-pi cita uno scrittore, che ad essi dà liberamente l’estensione di 1100750 anni, e lo stesso Lo-pi dice, che i cinque primi Ki dopo Gine-hoang fanno in tutto 90000 anni»57.
57 Le
Roux des Hautes-Rayes 1761, p. 243.
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Appendici
i – La mutazione totale (Z 143-144) «Nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito umano in generale. Da principio il mio forte era la fantasia, e i miei versi erano pieni d’immagini, e delle mie letture poetiche io cercava sempre di profittare riguardo alla immaginazione. Io era bensì sensibilissimo anche agli affetti, ma esprimerli in poesia non sapeva. Non aveva ancora meditato intorno alle cose, e della filosofia non avea che un barlume, e questo in grande, e con quella solita illusione che noi ci facciamo, cioè che nel mondo e nella vita ci debba esser sempre un’eccezione a favor nostro. Sono stato sempre sventurato, ma le mie sventure d’allora erano piene di vita, e mi disperavano perchè mi pareva (non veramente alla ragione, ma ad una saldissima immaginaz.) che m’impedissero la felicità, della quale gli altri credea che godessero. In somma il mio stato era allora in tutto e per tutto come quello degli antichi. Ben è vero che anche allora, quando le sventure mi stringevano e mi travagliavano assai, io diveniva capace anche di certi affetti in poesia, come nell’ult. canto della Cantica. La mutazione totale in me, e il passaggio dallo stato antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè nel 1819. dove privato dell’uso della vista, e della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso, cominciai ad abbandonar la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose (in questi pensieri ho scritto in un anno il doppio quasi di quello che avea scritto in un anno e mezzo, e sopra materie appartenenti sopra tutto alla nostra natura, a differenza dei pensieri passati, quasi tutti di letteratura), a divenir filosofo di professione (di poeta ch’io era), a sentire l’infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla, e questo anche per uno stato di languore corporale, che tanto più mi allontanava dagli antichi e mi avvicinava ai moderni. Allora l’immaginazione in me fu sommamente infiacchita, e quantunque la facoltà dell’invenzione allora appunto crescesse in me grandemente, anzi quasi cominciasse, verteva però principalmente, o sopra affari di prosa, o sopra poesie sentimentali. E s’io mi metteva a far versi, le immagini mi venivano a sommo stento, anzi la fantasia era quasi disseccata (anche
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astraendo dalla poesia, cioè nella contemplazione delle belle scene naturali ec. come ora ch’io ci resto duro come una pietra); bensì quei versi traboccavano di sentimento. (1. Luglio 1820). Così si può ben dire che in rigor di termini, poeti non erano se non gli antichi, e non sono ora se non i fanciulli, o giovanetti, e i moderni che hanno questo nome, non sono altro che filosofi. Ed io infatti non divenni sentimentale, se non quando perduta la fantasia divenni insensibile alla natura, e tutto dedito alla ragione e al vero, in somma filosofo».
ii – La seconda parte della relazione sui longevi antichissimi della Storia della Astronomia In questa Appendice proverò a ipotizzare il modo in cui Leopardi potrebbe essere giunto a stendere la seconda parte della relazione sui longevi antichissimi della Storia della Astronomia. Credo che il recanatese sia approdato alle pagine dell’opuscolo di Luciano perché ha ricontrollato la fonte cui si appoggia il passaggio dell’Istoria Santa di Granelli ricopiato in Astronomia, p. 77 (cfr. supra, cap. 4 nota 6). In quel punto il gesuita dispiega un ventaglio di testimoni autorevoli della lunga vita degli antichi, e dichiara subito che essi sono menzionati da «Gioseffo» in «Jos. Antiq. lib. i. cap. 4.»: cfr. Granelli 1792-1793, t. 2, p. 56 e note (assieme ad Astronomia, pp. 77 e 120 note 346-348). Se, come credo, Leopardi ha ricontrollato il passo di Giuseppe sulla propria edizione, ha potuto constatare che, nella nota (q) a Giuseppe Flavio 1726, t. 1, p. 18 (siamo, appunto, come indica Granelli, in Antichità giudaiche i, 4), il teologo olandese Joannis Cocceius richiama di sfuggita lo storico Isidoro Caraceno sulla scorta della menzione che, di quest’ultimo, fece il De Macrobiis di Luciano («ut constat ex Luciano de Macrobiis»). Si noti che Giacomo, procedendo più avanti a sunteggiare l’opuscolo di Luciano (Luciano 1687, t. 2, pp. 465-476), sembra ricambiare il favore: tra gli esempi di longevi da lui selezionati non manca quello di «Goeso vissuto 115 anni, al riferir di Isidoro Caraceno» (Astronomia, pp. 77-78). Le note leopardiane a questa parte della relazione (ivi, p. 120 note 354-359) testimoniano di una verifica dei dati offerti da Luciano – verifica effettuata a partire non solo dal commento di Gilles Ménage, ospitato nel secondo tomo delle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio (cfr. ivi, p. 120 note 355 e 357), ma pure dalle note poste a piè di pagina nel primo tomo delle medesime Vite (cfr. ivi, p. 120 nota
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356). Restiamo ancora tra le note leopardiane a questa parte della relazione, e aggiungiamo che ivi (nota 358) Giacomo si richiama a un’annotazione di Meurs 1741-1763, t. 7, col. 118 all’opuscolo De longaevis di Flegonte di Tralles, a proposito dell’età di Ctesibio al momento della sua morte. Per questa precisazione non c’è bisogno di supporre che già nel 1813 Leopardi conoscesse il testo del liberto. Innanzitutto, l’accostamento di Flegonte a Luciano sul tema dei longevi è stabilito da Ménage in una nota relativa a Democrito, proprio quella raggiunta da Leopardi in Astronomia, p. 120 nota 355 («Menag. ad. Laert. ix. 43. p. 409.»). Inoltre, nel De longaevis di Flegonte, Ctesibio è nominato subito dopo Democrito. A conti fatti, tutto ciò sembra suggerire che Leopardi non abbia fatto altro che seguire l’indicazione di Ménage, e intercettare il passo relativo a Ctesibio mentre si adoperava a verificare nei volumi di Meurs (Diogene Laerzio 1692, t. 2, p. 4092, segm. 43: «Meursius de Archont. Athen. iii. 13.») ciò che Flegonte aveva riferito a proposito di Democrito. Concludo il discorso sulle fonti della seconda parte della relazione leopardiana sottolineando che tutte le informazioni sui longevi dei «nostri giorni» (la madre Négresse di 120 anni, la negra del Tucuman, i fratelli di Temeswar e l’uomo della Valachia veduti da Cramers) sono estratte e ritradotte (dal francese), con qualche aggiustamento, dalle «Annales politiques» di Simon-Nicolas-Henri Linguet. Cfr. l’articolo Vieillesse extraordinaire (ivi, t. viii, Février 1780, pp. 23-28. Per esplicita dichiarazione di Linguet, la testimonianza sulla negra del Tucuman deriva da una rivista, la «Gazette de France» (cfr. ivi, p. 23). Nulla il polemista dichiara sull’origine del brano relativo a Cramers, ma anche questo è estratto da una rivista (cfr. l’articolo Histoire naturelle del «Journal de politique et de Littérature» di Bruxelles, n. 5 del 15 febbraio 1775, p. 195). La fonte di Linguet, insomma, è analoga a quella richiamata anche da Buffon che pure si sofferma sull’episodio del «medico imperiale» Cramers nell’Aggiunta all’articolo della vecchiaja e della morte. Cfr. Buffon 1782-1791, t. 13 (vale a dire, nella parte generale della Storia, il t. 5 della seconda divisione, dedicato alle Aggiunte a varj articoli della Storia Naturale), pp. 111-112. Prima di lasciare Linguet occorre ricordare en passant che una celebre confutazione delle tesi di Linguet sull’imperatore Tiberio si legge nelle pagine della Prefazione di Tiraboschi al tomo 2 della Sto-
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ria della letteratura italiana, e che un passaggio delle «Annales politiques» viene tradotto anche da Monaldo Leopardi nelle Considerazioni sulla Storia d’Italia di Carlo Botta (cfr. Considerazioni 1834, p. 170 nota 1, a proposito dei miracoli di Clemente xiv). Monaldo si preoccupa di avvertire i propri lettori che il polemista francese «non fu miscredente; ma neppure i filosofi potranno annoverar[lo] fra quelli che essi chiamano uomini oscuranti e pregiudicati» (ibid.). iii – Chateaubriand e la teoria della degenerazione progressiva delle generazioni Un esempio eloquente sul punto della teoria della degenerazione progressiva delle generazioni presso gli autori moderni è lo Chateaubriand del Génie du Christianisme. Per i passaggi analizzati qui di seguito mi rifaccio ampiamente alle indicazioni di Gerbi 2000, pp. 489-498 e note. L’apologeta tenta di ricavare argomenti etico-religiosi dalla presunta legge della degenerazione fisica umana, e quando vi si accosta per spiegarla, oscilla tra diverse cause. Difatti, per Chateaubriand, l’uomo può rimpicciolire per cause fisiche, quando la natura è troppo grande; ma anche per cause metafisiche, per effetto della caduta. In merito alle cause fisiche cfr. Chateaubriand 1802, t. 1, pp. 263-265 (parte 1, lib. 6, cap. 4 De quelques Objections alla tesi dell’immortalità dell’anima. L’esuberanza della natura alle latitudini estreme affligge l’anima, che a sua volta causa la debolezza e la degenerazione del corpo: «l’homme […] s’affoiblit en raison de l’accroissement de la création animale autour de lui. […] l’homme diminue, où la brute augmente», ivi, pp. 262-263). Per quanto concerne le cause metafisiche cfr. ivi, t. 4, p. 163 (parte 4, lib. 4, cap. 4 Missions du Paraguay: «Race indolente, stupide et féroce, elle [la razza degli indiani del Paraguay] montroit dans toute sa laideur l’homme primitif dégradé par sa chûte»). Particolarmente interessante per gli studiosi leopardiani è il lamento di Chateaubriand per gli effetti perniciosi del razionalismo settecentesco, prima causa della degradazione morale e del rattrappimento delle generazioni odierne, dell’isterilimento del génie francese. Cfr. ivi, t. 3, p. 152 (lib. 4, cap. 5 Que l’incrédulité est
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la principale cause de la décadence du goût et du génie): «l’impiété, qui rend tout stérile, se manifeste encore dans je ne sais quel appauvrissement de la nature physique. Jetez les yeux sur les générations qui succédèrent immédiatement au siècle de Louis xiv. Où sont ces hommes aux figures calmes et majestueuses […]? On les cherche et on ne les trouve plus. De petits hommes inconnus se promènent comme des pygmées sous les hauts portiques des monuments d’un autre âge». Già nel 1812 Leopardi ebbe modo di adoperare i volumi del Génie che la Biblioteca gli metteva a disposizione. L’occasione gli fu offerta dalla stesura della Dissertazione sopra la virtù morale in generale, nella quale il contino fa confluire un catalogo di leggi degli antichi legislatori desumendolo, a suo dire, da un non meglio specificato «moderno Scrittore» (Dissertazioni, p. 253). Si tratta, in effetti, della traduzione di un brano dal secondo libro del primo tomo del Génie (Des Loix morales, ou du Décalogue), deprivata, per l’occasione, delle sezioni in greco (che Giacomo ancora non conosceva) e delle note poste a piè di pagina da Chateaubriand. Cfr. Chateaubriand 1802, t. 1, lib. 2, cap. 4 (Des Loix morales, ou du Décalogue), pp. 96-101. Nella Biblioteca è tuttora ospitata un’edizione dell’opera del francese, non la princeps (Parigi 1802) ma una contraffazione (Nouvelle édition) stampata nello stesso anno, che dall’altra differisce per la paginazione e per un secondo particolare: annette le Appendices (stilate dall’autore) direttamente in calce ai singoli volumi, mentre la princeps le raccoglie in un quinto tomo. Che l’edizione adoperata da Leopardi sia la Nouvelle lo si deduce senza tema di smentita controllando la pagina indicata nell’unico rinvio puntuale al Génie (un brano dal t. 2) registrato nel corpus leopardiano, un’aggiunta marginale perpendicolare non richiamata a p. 2978 dello Zibaldone: «V. Chateaubriand, Génie. Paris 1802. Par. 2. l. 2. ch. 10. fin. t. 2. p. 105-6.». La segnalazione relativa all’edizione posseduta in Biblioteca si legge già in Polizzi 2011, p. 29 nota 26, che però aggiunge per svista che la nouvelle édition sarebbe «uguale nella foliazione» alla princeps. Ciò è smentito appunto dal puntuale rinvio leopardiano che abbiamo appena segnalato: nella princeps il detto passo si legge sì nel t. 2, ma a pp. 99-100.
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iv – Anticipare il male nelle Epistulae morales ad Lucilium di Lucio Anneo Seneca Sul tema dell’anticipazione dei mali futuri nelle Epistulae di Seneca si vedano, ad esempio, Seneca 1995, vol. 1, pp. 56 (lib. 2, ep. 13, 4-5: «illud tibi praecipio, ne sis miser ante tempus, cum illa quae velut inminentia expavisti fortasse numquam ventura sint, certe non venerint. Quaedam ergo nos magis torquent quam debent, quaedam ante torquent quam debent, quaedam torquent cum omnino non debeant; aut augemus dolorem aut praecipimus aut fingimus» ‘Ciò che ti raccomando vivamente è di non affliggerti prima del tempo, perché quei mali che hai temuto come se ti pendessero sul capo, forse non verranno mai e, comunque, non si sono ancora presentati. Dunque certi stati d’animo ci tormentano più di quanto dovrebbero, altri ci assillano prima del tempo dovuto, altri ancora ci affliggono, mentre non lo dovrebbero affatto: o accresciamo il dolore o lo anticipiamo o lo immaginiamo’); 122 (lib. 3, ep. 24, 1: «Quid enim necesse est mala accersere, satis cito patienda cum venerint praesumere, ac praesens tempus futuri metu perdere? Est sine dubio stultum, quia quandoque sis futurus miser, esse iam miserum» ‘Orbene, che bisogno c’è di invocare i mali che fin troppo presto dovremo sopportare, quando siano venuti? Perché anticiparli e guastare il presente con la paura del futuro? È senza dubbio una follia che tu sia infelice già da questo momento perché, tanto, o presto o tardi, lo sarai’); 310 (lib. 6, ep. 60, 4: «qui vero latitant et torpent sic in domo sunt quomodo in conditivo. Horum licet in limine ipso nomen marmori inscribas: mortem suam antecesserunt. Vale» ‘Quelli, invece, che se ne stanno in disparte e che vegetano, si trovano nella loro casa come in un sepolcro. Di costoro puoi bene incidere il nome nel marmo sulla soglia stessa della porta: hanno preceduto la morte. Stammi bene’); 430 (lib. 8, ep. 74, 32-33: «Si vero aliquod timetur malum, eo proinde, dum expectat, quasi venisset urguetur, et quidquid ne patiatur timet iam metu patitur. Quemadmodum in corporibus infirmis languorem signa praecurrunt – quaedam enim segnitia enervis est et sine labore ullo lassitudo et oscitatio et horror sembra percurrens – sic infirmus animus multo ante quam opprimatur malis quatitur; praesumit illa et ante tempus cadit. Quid autem dementius quam angi futuris nec se tormento reservare, sed arcessere sibi miserias et admovere? Quas optimum est
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differre, si discutere non possis» ‘Se poi subentra il timore di qualche male, mentre lo aspetta, si sente messa alle strette come se già fosse arrivato ed è già tutta presa dalla paura per qualsiasi avversità che essa teme di dover soffrire. Come nei corpi ammalati taluni sintomi precorrono uno stato di generale abbattimento – ci si sente svogliati, senza energie, debilitati senza aver sostenuto alcuna fatica e si sbadiglia continuamente e le membra sono percorse da brividi –, così l’animo indebolito è scosso dai mali molto prima di esserne oppresso, li avverte in anticipo e crolla prima del tempo. Che cosa c’è di più insensato che il tormentarsi per i mali futuri e non riservare le proprie energie per le sofferenze reali, ma invitare le sventure e tirarsele addosso, mentre l’atteggiamento migliore consiste nel differirle, se non è possibile liberarsene?’); vol. 2, p. 792 (lib. 16, ep. 98, 6-7: «Calamitosus est animus futuri anxius et ante miserias miser, qui sollicitus est ut ea quibus delectatur ad extremum usque permaneant; nullo enim tempore conquiescet et expectatione venturi praesentia, quibus frui poterat, amittet. In aequo est autem amissae rei et timor amittendae. […] Nihil est nec miserius nec stultius quam praetimere: quae ista dementia est malum suum antecedere?» ‘Sventurato è l’animo in ansia per il futuro e infelice prima dell’infelicità è chi vive nel timore angoscioso che non gli rimarranno fino all’ultimo dei suoi giorni le cose che egli ama. Infatti, non avrà un momento di pace e aspettando ansiosamente il futuro perderà i beni presenti, di cui poteva godere. Su uno stesso piano si trovano, a dire il vero, il dolore di avere perduto un bene e il timore di perderlo. […] Non c’è nulla di più assurdo che provare paura in anticipo. Che follia è precorrere le proprie sventure?’). v – Rinvii multipli e parametri lemmatici negli appunti di lettura dalla Parte primera de la Chrónica del Peru di Pedro Cieça de León nello Zibaldone Basterà un solo esempio per dare enfasi alla presenza di stringhe alfanumeriche modulate su parametri lemmatici tra gli appunti estratti dalla Chrónica di Cieça e riversati nello Zibaldone. In Z 3430-3432 (15 settembre 1823) la riflessione leopardiana si esercita sull’innaturalezza dei diversi modi in cui si attua la sepa-
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razione irreversibile («perpetuamente») tra i vivi e il cadavere dei congiunti estinti. Seppellire e bruciare i corpi degli estinti (due diversi modi di «torceli […] davanti agli occhi») sono pratiche non insegnate dalla natura, la quale, al contrario, le vieta espressamente. Essa si limita, scrive Giacomo, a «insegn[are] il curare e onorare i cadaveri di quelli che in vita ci furon cari o conoscenti per sangue o per circostanze». Malgrado ciò, aggiunge di seguito il recanatese, «gli antichi e i primi poeti e sapienti» (Leopardi ha in mente innanzitutto Orazio e Virgilio) seppero vincere la sua tenace opposizione facendo leva sull’immaginazione dei popoli. Dapprima giunsero a elaborare «l’opinione religiosa» dell’immortalità dell’anima, la principale «parte dell’uomo […] che costituisce la persona», poi la piegarono ai «comodi della società» e della convivenza civile. Infine, arrivarono a mostrare come la pratica di seppellire i cadaveri fosse opera d’amore e di grande utilità, tanto per i vivi, quanto per le anime degli estinti. I popoli del Regno del Perù non fanno eccezione alla regola che qui si predica come naturale. I loci della Chrónica cui Leopardi rimanda per dar carta alla tesi sono incardinati dal lemma ritornante “sepoltura”, e figurano in un rinvio multiplo riversato in un’aggiunta marginale (perpendicolare) non richiamata all’attacco di Z 3430: «cap. 53. fine. a car. 146. p. 2. cap. 62. 63. 100. 101. principio.». Prima di procedere a trascrivere qualche filamento dei passaggi cui Giacomo verosimilmente guarda per l’occasione, è bene prestare attenzione a due dettagli: 1) i brani richiamati dal recanatese non coincidono con quelli richiamati nella Tabla alphabetica non paginata, collocata in calce all’edizione posseduta, alle voci Sepolturas de Indios (rinvii a capp. 12, 15 e 62) e Sepolturas como hoyos o pozos (rinvio a cap. 51). Ragion per cui è ragionevole concludere che Leopardi abbia costruito la stringa del rinvio multiplo in piena autonomia; 2) nel volume adoperato da Leopardi il capitolo della Chrónica raggiunto dal primo rinvio dell’aggiunta marginale è indicato erroneamente come «54». Giacomo ritiene di dover correggere l’errore dell’edizione che aveva tra le mani, e così scrive «cap. 53. fine. a car. 146. p. 2.». Diversamente si muoverà, invece, Clements Markham, editore e traduttore della prima parte della Chrónica. Cfr. Cieza 1864, p. 192 nota 1: «In the second edition of Cieza de Leon [sic] the chapters are incorrectly numbered. Two chapters are numbered liv, and chapters liii and lv are omitted altogether. Two chapters are also numbered lix.
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It is necessary to retain the incorrect numbering, because all modern writers have quoted from the second edition». I passaggi spagnoli della Chrónica sono estratti dall’edizione usufruita da Leopardi: la cinquecentina stampata ad Anversa presso Juan Steelsio (Cieça de León 1554). La traduzione che viene fatta seguire proviene dal volgarizzamento a cura di Agostino di Cravaliz, stampato a Venezia nel 1564 e presente nella Biblioteca di Monaldo. Cfr. Catalogo BL, p. 1001, s.v. Cieca [de] Pedro: «idem tradotta in italiano». La precisazione bibliografica a proposito dell’edizione veneziana si legge in Balzano 2008, p. 108. cap. 53, c. 146v:
Estas cosas fueron sabidas por el rey Guaynacapa, el qual como lo supo, recibio (a lo que dizen) grande enojo: y mostro mucho sentimiento: porque ta[n]tos de los suyos y ta[n] principales careciessen de sepolturas. Y a la verdad en la mayor parte de las Indias se tiene mas cuydado de hazer y adornar la sepoltura donde han de meterse despues de muertos, que no en adereçar la casa en que han de biuir siendo biuos. [Cieça de León 1564, cap. 54, c. 112v: «queste cose si seppero dal Re Guaynacapa, & come lo seppe, hebbe (secondo dicono) grandissimo fastidio & malinconia: perche tanti de i suoi & de i principali fussero priuati di sepolture, & in uerità nella maggior banda dell’Indie si tiene piu cura di fare et adornare la sepoltura doue si hanno da sotterrare di poi che son morti, che in acconciar la casa, nella quale hanno da uiuer sendo uiui […].»]
cap. 62, cc. 166r-7v: Como los Indios destos valles y otros de estos reynos creyan que las animas salian de los cuerpos y no morian: y porque mandauan echar sus mugeres en las sepolturas. Mvchas vezes he tratado enesta hystoria, que en la mayor parte de este reyno de Peru, es costumbre muy vsada y guardada por todos los Indios, de enterrar con los cuerpos de los difuntos todas las cosas preciadas que ellos tenian, y algunas de sus mugeres las mas hermosas y queridas dellos. […] Enel Cenu, q[ue] cae en la prouincia de Cartagena, me halle yo el año de mil y quinientos y treynta y cinco: donde se saco en vn ca[m]po raso junto a vn templo q[ue] alli estaua hecho a ho[n]
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rra de este maldito demonio, tan gran ca[n]tidad de sepolturas, que fue cosa admirable: […] y sacaro[n] mas de vn millon destas sepolturas […]. De manera que en mandar hazer las sepolturas magnificas y altas, y adornallas con sus lo sas y bouedas, y meter con el difunto todo su auer y mugeres, y seruicio, y mucha cantidad de comida, y no pocos cantaros de chicha o vino, de lo que ellos vsan, y sus armas y ornamentos, da a entender, que ellos tenian conoscimiento de la immortalidad del anima, y que enel hombre auia mas que cuerpo mortal. […] tienen mas cuydado en adereçar sus sepulchros o sepolturas, que ninguna otra cosa. Y muerto el señor le echan su thesoro y mugeres biuas, y muchachos, y otras personas con quien el tuuo siendo biuo mucha amistad. Y ansi por lo que te[n]go dicho era opinio[n] general en todos estos Indios Yu[n]gas, y aun en los serranos deste reyno del Peru, que las animas de los difuntos no morian sino que para siempre biuian y se juntauan alla enel otro mundo vnos con otros: adonde como arriba dixe creyan q[ue] se holgauan, y comia[n] y beuian, q[ue] es su principal gloria. […] Y muchos de sus familiares por no caber en su sepoltura, hazian hoyos en las heredades y campos del señor ya muerto: o en las partes donde el solia mas holgarse y festejarse, y alli se metian: creye[n] do que su anima passaria por aquellos lugares, y los lleuaria en su co[m]pañia para su seruicio. [Cieça de León 1564, cc. 127r-128r, cap. 63: «Come gl’Indiani di queste ualli, et altri di questi Regni credeuano che le anime usciuano de i corpi, & non moriuano; & perche comandauano mettere le lor donne nelle sepolture. Molte uolte ho detto in questa historia che nella maggior banda di questo Regno del Perù, è costume molto usato, & guardato per tutti gl’Indiani, di sotterrare con i corpi de i defunti tutte le cose prezzate che lor teneuano, et alcune delle lor donne le più belle et amate da loro […]; nel Cenu, che casca nella prouincia di Cartagena, mi trouai io nell’anno 1535. oue si cauò in un campo raso presso ad un tempio che gli era fatto ad honore di questo maladetto demonio, una quantità tanto grande di sepolture, che fu cosa d’ammiratione: […] et cauor-
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no piu di un millione d’oro di qu[e]ste sepolture, […] di modo che in comandare di fare le sepolture magnifiche, et alte, et adornarle co[n] le lor pietre & uolte, et mettere con il morto tutte le cose loro, & le donne, & seruitio, & molta prouisione di mangiare, & non pochi boccali di cicia, ò uino, di quello che loro usano, & le lor arme & ornamenti, da ad intendere, che loro teneuano conoscenza dell’immortalità dell’anima, & che ui era nell’huomo più che cosa mortale […]; hanno piu cura in ornare i lor sepolchri, ò sepolture, che nissuna altra cosa, & morto il signore gli mettono il suo tesoro et donne uiue, et putti, et altre persone con i quali lui sendo uiuo hebbe amicitia, & cosi per quello che ho detto era opinione generale in tutti questi Indiani Iungas, & anchora in quei de i monti di questo Regno del Perù, che le anime de i defunti non moriuano se non che per sempre uiueuano, & si radunaua di là nell’altro mondo, l’uno con l’altro: doue come di sopra dissi credeuano che haueuano piaceri, & mangiauano & beueuano, laquale è la lor gloria principale […]: & molti de i lor famigliari, per non capire nella sua sepoltura, faceuano certi buchi nelle possessioni, et campagne del signore gia morto; o nelle parti doue lui soleua pigliar piu piacere & sollazzi, & si metteuano lì: credendo che l’anima sua passerebbe per quei luochi, & li leuaria in compagnia sua per seruitio suo […].»] cap. 63, c. 169r:
Pves conte en el capitulo passado lo q[ue] se tiene de estos Indios, en lo tocante a lo que creen de la immortalidad del anima: y a lo que el enemigo de natura humana les haze entender, me parece sera bien en este lugar dar razon de como hazian las sepolturas, y de la manera que metian en ellas a los difuntos. Y en esto ay vna gran diferencia: porque en vna parte las hazian ho[n]das, y en otra altas, y en otra llanas, y cada nacion buscaua nueuo genero para hazer los sepulchros de sus difuntos. [Cieça de León 1564, c. 129r, cap. 64: «Poi che raccontai nel capitolo passato quello che si tiene di questi Indiani, in quello che tocca a quello che credono della immortalità del Anima, et a quello che lo inimico di natura humana gli fa
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intendere, mi pare che sarà bene in questo luoco dare ragione come facevano le lor sepolture, et della maniera che metteuano in esse i lor morti, et in questo c’è una grandissima differentia, perche in una banda le faceuano profonde, et in altra altissime, & in altra piane, et ogni natione cercaua nuovo genero, per far i sepolchri de i suoi morti […].»] cap. 100, cc. 245v-256v: La cosa mas notable y de ver que ay en este Collao, a mi ver es las sepolturas de los muertos. Quando yo passe por el, me detenia a escreuir lo que entendia de las cosas que auia que notar destos Indios. Y verdaderamente me admiraua, en pensar como los biuos se dauan poco por tener casas grandes y galanas: y con quanto cuydado adornauan las sepolturas donde se auian de enterrar: como si toda su felicidad no consistiera en otra cosa. […] Hecho pues su breuage, y muertas las ouejas y corderos, dize[n] q[ue] lleuaua[n] al difunto a los campos, do[n]de tenian la sepoltura: ye[n]do (si era señor) aco[m] pañando al cuerpo la mas ge[n]te del pueblo: y ju[n] to a ella q[ue]maua diez oue jas, o veynte, o mas o menos, como quie[n] era el difunto. Y matauan los mugeres, niños, y criados que auian de embiar conel, para q[ue] le siruissen, conforme a su vanidad. Y estos tales juntame[n]te con algunas ouejas, y otras cosas de su casa entierran junto conel cuerpo en la misma sepoltura: metiendo (segun tambien se vsa entre todos ellos) algunas personas biuas. [Cieça de León 1564, c. 186r-v, cap. 101: «la cosa piu notabile & da uedere che c’è in questo Collao, al mio giuditio è le sepolture de i morti, quando io passai per esso, mi ritteneuo per scriuere quello che uedeuo, et intendeuo delle cose che ui erano da notare di questi Indiani, et ueramente mi ammirauo, in considerare come i uiui si dauano poco per hauer case grandi et galanti, & con quanto pensiero adornauano le sepolture doue se haueuano da sotterrare; come se tutta la sua felicità non consisteua in altra cosa […]. Fatto adunque la sua beuanda, et morte le pecore et agnelli, dicono che leuauano il morto alla campagna, doue haueuano la sepoltura, andando (se era signore) accompagnando il corpo la piu gente della terra, & presso ad essa
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appendici
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brusciaua dieci pecore, o uinti, o piu manco, secondo che era il morto, & ammazzauano le mogli, putti, & seruitori c’haueuano da mandare con lui, perche lo seruissero conforme alla lor uanità, & questi tali insieme con alcune pecore, & altre cose di casa sua sotterrano insieme con il corpo nella medesima sepoltura, mettendo (secondo anchora si usa fra tutti loro) alcune persone uiue […].»] cap. 101, c. 247r-v: Como estas gentes tuuiessen en tanto poner los muertos en las sepolturas, come se ha declarado enel capitulo ante deste. Passado el entierro las mugeres y siruientes que quedauan se tresquilauan los cabellos, poniendose las mas comunes ropas suyas sin darse mucho por curar de sus personas. Sin lo qual por hazer mas notable el sentimiento se ponian por sus cabeças sogas de esparto y gastaua[n] en co[n]tinos lloros, si el muerto era señor vn año, sin hazer en la casa donde el moria lumbre por alguuos dias. Y como estos fuessen engañados por el demonio, por la permission de Dios, como todos los demas, con las faltas aparencias que hazia, haziendo con sus illusiones demostracion de algunas personas de las q[ue] eran ya muertas […]. [Cieça de León 1564, c. 187v, cap. 102: «Come queste genti tenessero in tanto mettere i morti nelle sepolture, come si è dichiarato nel capitolo prossimo passato, hauendo passato il sotterramento le donne, et serue che restauano si carosauano li capelli, mettendosi le robbe piu communi che haueuano senza hauere cura di adornare le loro persone, senza ilquale per fare piu notabile il dolore si metteuano per lo capo corde di sparto et spe[n]deuano in pia[n]ti co[n]tinui, se il morto era signore un’anno, senza fare nella casa doue lui moriua lume per alcuni giorni, et come questi fussero inga[n]nati per il Demonio, per permissione diuina, come tutti gli altri, con le false apparentie che faceua, facendo con le sue illusioni dimostratione di alcune persone di quelle che già erano morte […].»]
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v – Gli abbozzi dei Dialoghi tra due bestie Per una migliore comprensione, trascrivo in questa Appendice il testo dei Dialoghi tra due bestie. La lezione degli abbozzi è quella stabilita da Ottavio Besomi, Appendice iii, in OM, pp. 459-463. [a] dialogo tra due bestie p. e. un cavallo e un toro toro. Che ossa son queste cavallo. Io ho sentito dire spesso ai nostri vecchi ch’elle son ossa d’uomini. T. Che vale a dir uomini C. Era una razza di animali che ora è perduta già da chi sa quanto tempo. T. Come, è perduta una razza di animali? C. Oh tanti altri animali si trovavano antichissimamente che ora non si conoscono altro che per l’ossa che se ne trovano. ec. Discorso in grande sopra questa razza umana che finalmente si finge estinta, sopra le sue miserie, i suoi avvenimenti, la sua storia, la sua natura ec. Non viveva già naturalmente, e come tutti gli altri, ma in mille modi loro propri. E perciò avevano questa particolarità curiosa che non potevano mai esser contenti nè felici, cosa maravigliosa p. le bestie che non hanno mai pensato ad essere scontenti della loro sorte. T. Oh io non ho mai veduto un bue che fosse scontento d’essere un bue. Cagioni dell’infelicità umana, la vita non naturale, la scienza (e questa darà materia ne’ vari suoi rami a infinite considerazioni e ridicoli) le opinioni ec. Credevano poi che il mondo fosse fatto per loro. T. Oh questa sì ch’è bellissima! come se non fosse fatto per li tori. C. Tu burli. T. Come burlo? C. Eh via, non è fatto per li cavalli? T. Tu pure hai la pazzia degli uomini? C. Tu mi sembri il pazzo a dire che il mondo sia per li buoi, quando tutti sanno ch’è fatto per noi. T. Anzi tutti sanno ec. E vuoi vederlo? Per li buoi v’è luogo da per tutto e chi non è bue non fa fortuna in questo mondo. C. Ben bene, lasciamo stare questi discorsi, e tu pensala come ti pare ch’io so quello che m’abbia da credere. Esercitavano un grande impero sugli altri animali, sopra noi sopra i buoi ec. come fanno adesso le scimie, che qualche volta ci saltano indosso, e con qualche ramuscello ci frustano e ci costringono a portarle ec. In somma questo Dialogo deve contenere un colpo d’occhio in grande, filosofico e satirico sopra la razza umana considerata in natura, e come una delle razze animali, rendutasi curiosa per alcune singolarità, insinuare la felicità destinataci dalla natura in questo mondo come a tutti gli altri esseri, perduta da noi per esserci allontanati dalla natura, discorrere con quella maraviglia che dev’essere in chiunque si trovi nello stato naturale, delle nostre passioni, dell’ambizione, del danaro, della guerra, del suicidio, delle stampe, della tirannia, della previdenza, delle scelleraggini, ec. ec. T. Oh che matti, oh che matti. Lasciami cercare un po’ d’ombra, che questo sole mi cuoce. C. Vattene dove vuoi ch’io corro
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12. al dialogo del cavallo e del bue. il bifoglio (1821-1825)
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al fiume per bere. Si avverta di conservare l’impressione che deve produrre il discorrersi dell’uomo come razza già perduta e sparita dal mondo, e come di una rimembranza, dove consiste tutta l’originalità di questo Dialogo, p. non confonderlo coi tanti altri componimenti satirici di questo genere dove si fa discorrere delle cose nostre o da forestieri, selvaggi ec. o da bestie, in somma da esseri posti fuori della nostra sfera. Si potrebbe anche fare un altro Dialogo tra un moderno e l’ombra gigantesca (dico gigantesca perchè gli uomini in natura erano certo assai più grandi e robusti del presente come si sa degli antichi Germani e Galli) di qualcuno vissuto naturalm. e prima della civilizzazione e dipingere la sua continua maraviglia nel sentire appoco appoco il gran cangiamento e snaturamento delle cose umane. [a] dialogo di un cavallo e un bue C. Hai veduto quell’animale che ieri mi saltò a cavalcione sulla groppa, e mi tenea forte per li crini, e per quanto m’adoperassi non ci fu caso di staccarmelo da dosso finattanto che non gli parve di lasciarmi andare? B. Che sorta d’animale era? C. Mia nonna mi disse ch’era una scimia. Per me aveva creduto che fosse un uomo e questo m’avea messo una gran paura. B. Un uomo? che vale a dire un uomo? C. Una razza d’animali. Non hai saputo mai quello ch’erano gli uomini? B. Non gli ho mai visti ec. C. Neanch’io gli ho visti. B. E dove si trovano? C. Non si trovano più, che la razza è perduta, ma i miei nonni ne raccontano gran cose che le hanno sentite dai loro vecchi. B. Come può stare che una razza d’animali sia perduta. C. ec. come sopra. ec. ec. Era una sorta di bestie da quattro zampe come siamo noi altri, ma stavano ritti e camminavano con due sole come fanno gli uccelli, e coll’altre due s’aiutavano a strapazzare la gente. (Segua il discorso sopra gli effetti naturali di questa costruzione). C. Credevano che il mondo fosse fatto per loro. B. ec. come se non fosse fatto per li buoi. C. Parli da scherzo? ec. come sopra. Diavolo chi non sa ch’è fatto per li cavalli? ec. S’io non fossi nato cavallo mi dispererei, e non vorrei diventare un bue per tutta la biada di questo mondo. B. E io per tutte le foglie e tutti gli alberi (tutti i prati) della terra non avrei voluto essere un cavallo. ec. La buassaggine è il miglior dono che la natura faccia a un animale, e chi non è bue non fa fortuna in questo mondo. ec. C. Ben bene, se tu sei pazzo io non voglio impazzire per cagion tua. Lasciamo queste bubbole e torniamo al fatto nostro. Gli uomini credevano che il sole e la luna nascessero e tramontassero per loro e fossero fatti per loro, benchè dicessero che il sole era infinite volte più grande non solo degli uomini ma di tutti i paesi di quaggiù, e lo stesso delle stelle, e tuttavia credevano che queste fossero come tanti moccoli da lanterna infilzati lassù per far lume alle signorie loro. B. A maraviglia. E quando cascava giù dal cielo qualche scintilla come fa la state, avranno creduto che qualcuno su nell’al-
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to andasse smoccolando le stelle per servizio degli uomini suoi padroni (prima bisogna aver detto che gli uomini dormivano il giorno e vegliavano la notte e si facevano lume accendendo certa roba che la venivano acconciando tratto tratto perchè ardesse). C. Che so io? ec. Ora se sapessero che il mondo resta tal quale senza loro, essi che credevano che tutto il mondo consistesse nella loro razza, e se succedeva qualche alterazione alle loro monarchie, ammazzamento di capi, cangiamento di padroni in qualche paese, li chiamavano le rivoluzioni del mondo, e i racconti delle loro faccende li chiamavano le storie del mondo, e sì non erano altro che d’una specie d’animali, quando ce ne saranno state e ce ne saranno ora altrettante quanti uomini si contavano allora, e mille razze poi ciascuna da se è infinite volte più numerosa della loro, e questa era più piccola della nostra, e molto più rispetto agli elefanti alle balene e a tanti altri bestioni. E di queste rivoluzioni e queste vicende e casi del mondo ch’essi dicevano, non s’accorgeva altri che loro, e tutto il resto delle cose tirava innanzi collo stess’ordine e badava ai fatti suoi, e noi altri per le selve e per li prati e anche in mezzo agli uomini non sapevamo niente che il mondo fosse mutato. E figurati se un leone quando si svegliava la mattina nel suo covacciolo e s’allestiva per andare a caccia pensava punto nè poco, che il mondo fosse diverso, e sapeva o si curava punto che nel tal paese fosse stato ammazzato un certo capo di certi uomini, e che questa cosa fra loro facea gran romore, e mutava lo stato de’ loro affari. E ora che non ci sono più, il mondo non se n’accorge e non se ne ricorda più che di quegli altri animali di cui t’ho detto che non si trova altro che l’ossa ec. C. Mangiavano gli altri animali. B. Come fa il lupo colle pecore? C. Ma erano nimicissimi de’ lupi e ne ammazzavano quanti potevano. B. Oh bravi, in questo gli lodo. C. Eh sciocco, non lo facevano mica per le pecore ma per loro che poi se ne servivano ec. (si proccuri di render questo pezzo allusivo alla cura che hanno i monarchi d’ingrassare i sudditi per poi spremerne il sugo). Ma poi venne un’altra moda e i padroni non si curavano più d’ingrassare le loro bestie, ma secche com’erano se le spremevano e se le mangiavano (allusivo al tempo presente). E a’ tuoi pari davano tra le corna e gli ammazzavano, e poi gli abbrostolivano e se li mangiavano e non facevano pranzo senza la carne vostra. B. Oh bestie maledette! E i buoi di quel tempo erano così gaglioffi che li lasciavano fare? C. Risponda allusivamente a quello che fanno ora i popoli coi tiranni. Ciascuno badava ai fatti suoi, e sperava che non toccherebbe a lui. ec. E aveano paura ec. oziosi ec. indolenti ec. Da principio non era così. Poi gli uomini trovarono altre arti (la politica moderna) gl’ingrassavano gli accarezzavano e poi davano loro sulla testa. ec. ec. In proposito degli animali perduti. Anche gli uomini s’erano mutati assai ed erano quasi altri animali da quelli di prima che s’erano perduti. Perchè da principio erano molto più forti e grandi e corputi e di più lunga vita che dopo, che a forza di vizi s’indebolirono e impiccolirono, come anche le razze nostre (de’ cavalli, ed anche de’ buoi) s’indebolivano e imbastardivano tra le loro mani, e per averne delle belle e forti le andavano a pigliar nelle selve ec. e così le piante. Da secoli immemorabili non
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12. al dialogo del cavallo e del bue. il bifoglio (1821-1825)
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avevano altro che dire, oh che mondo, oh che mondo, e tutti, padri e figli, giovani e vecchi dicevano sempre la stessa cosa, e il mondo non migliorava mai. B. Come? non erano contenti di questo mondo? C. I primi uomini saranno stati, ma poi che non vivevano più come noi e come i loro antenati e come era naturale, si trovavano scontentissimi 1. perchè sapevano troppe cose, e niente pareva loro bello. 2. perchè tutti erano birbanti, vale a dire che non moriva un uomo che non avesse fatto qualche male agli altri volontariamente ec. B. Dunque anche i topi e le mosche crederanno che il mondo sia fatto per loro. C. Io non so niente, ma se lo credono, son bestie pazze. Libertà naturale e innata delle bestie paragonata alla servitù delle nazioni umane.
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Indice dei nomi Giacomo Leopardi non è indicizzato. Ad eccezione di Adamo, Mosè, Qajin (Caino) e Seth, i personaggi (storici, mitologici, biblici, di fantasia) non sono indicizzati. Sono esclusi i nomi che figurano in titoli di opere.
Adamo, 31n, 37, 41, 66, 79, 80, 88, 103 Agostino di Ippona, 48n Agustín de Zárate, 46 Alighieri, Dante, 77 Allen, Cameron, 38n Aloisi, Alessandra, 59n Andria, Marcello, 45n, 46n, 47n, 56n Apollodoro di Atene, 125 Aristea di Proconneso, 35n Aristotele di Stagira, 64 Arriano, Lucio Flavio, 50, 55, 130 e n, 131, 132 e n Balzano, Marco, 143 Banier, Antoine, 50 Barbançois, Charles-Hélion de, 98 Barsanti, Giulio, 89n, 94n, 96n, 97n Barthélemy, Jean-Jacques, 125n, 126 e n, 127, 128 Berger de Xivrey, Jules, 45n Bertolotti, Davide, 116 e n Besomi, Ottavio, 7, 17, 18 e n, 21 e n, 22, 23, 24, 25, 87n, 105, 114, 116n, 148 Blasucci, Luigi, 11n, 28 e n, 61n, 66n, 69n, 70n, 73n, 78n, 86n, 121n Blumenbach, Johann Friedrich, 54, 97, 98 Bodin, Jean, 48n Boeckler, Johann Heinrich, 113n Buffon, Georges-Louis Leclerc de, 36n, 40n, 41n, 53n, 54, 89 e n, 90 e n, 91, 94, 97, 98n, 101 e n, 137 Burnet, Thomas, 34 e n, 36, 37 e n, 38, 39 Calmet, Augustin, 25 e n, 49, 50, 52 e n, 54, 55 e n, 56, 104, 113 e n, 128 Camarotto, Valerio, 24n
Camper, Petrus, 54, 86 e n, 87 e n Carli, Gianrinaldo, 33 e n, 46n, 127n Cassio Dione, Lucio, 111n Casti, Giambattista, 19 e n, 87 e n, 88, 94, 95 Catteau-Calleville, Jean-Pierre-Guillaume, 20 Ceccagnoli, Patrizio, 72n Celso, Aulo Cornelio, 82n Cesare, Gaio Giulio, 49, 113 Chateaubriand, 61n, 78, 79n, 138, 139 Cicciaporci, Antonio, 114 Cieça de León, Pedro, 112, 126 e n, 127, 128 e n, 141, 142, 143, 144, 145, 146, 147 Clavijero, Francisco, 46n Clemente di Alessandria, 35n Cocceius, Joannis, 136 Cohen, Claudine, 53n, 94n, 95n Colaiacomo, Claudio, 71n Colebrooke, Henry Thomas, 132n Coleridge, Samuel Taylor, 32n Compagnoni, Giuseppe, 53n Cravaliz, Agostino di, 143 Crivelli, Tatiana, 33n Croghan, William, 53n Cuvier, 53n, 54, 94 e n, 95, 96 e n Damiani, Rolando, 17 e n, 19n, 21n, 45n Daubenton, Louis-Jean-Marie, 53n, 54, 94, 98n Davanzati, Bernardo, 24n De La Tour, François, 63n, 91n De la Vega, Garcilaso, 126 e n, 127 e n Delon, Michel, 64n Democrito di Abdera, 137 De Romanis, Filippo, 125 Descartes, René, 27, 36n
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166 Diderot, Denis, 64n, 81n D’Intino, Franco, 11n, 37n, 59n, 123n Diodoro di Sicilia, 124 e n, 125 Diogene di Laerte, 40n, 136, 137 Dionigi di Alicarnasso, 24 e n, 25, 39, 40n Donati, Alessandro, 21n Dove, John, 108n Dundes, Alan, 38n Eraclito, 39, 40n Erodoto, 45n Eschilo, 121, 125, 126 Esiodo, 32n Eusebio di Cesarea, 127, 130, 131 e n Fabricius, Johann Albert, 109n Fichera, Antonio, 11n Filostrato, Lucio Flavio, 125 Fiorani, Flavio, 46n Firenzuola, Agnolo, 87n Flegonte di Tralles, 20, 48n, 50, 55, 125, 127, 128, 129 e n, 130, 131, 137 Floro, Lucio Anneo, 21, 24, 25 e n, 55, 109 e n, 110, 111 e n, 113 e n, 114 Force, James E., 37n, 39n Fubini, Mario, 69 e n, 75 Galilei, Galileo, 36n Galimberti, Cesare, 17 e n, 19n, 21n, 87n, 130n Garampi, Giuseppe, 111n Gassendi, Pierre, 50 Gelli, Giovan Battista, 87n Gellio, Aulo, 125 Geoffroy Saint-Hilaire, Isidore, 50n Gerbi, Antonello, 37n, 46n, 138 Giordani, Pietro, 7, 11, 12, 14, 21, 28, 29, 59, 97 Giovenale, Decimo Giunio, 49 Giuseppe Flavio, 32n, 136 Goguet, Antoine-Yves, 20, 127, 130, 131, 132, 133 Gould, Stephen Jay, 38n Granelli, Giovanni, 31 e n, 32 e n, 33 e n, 34, 35, 36 e n, 38, 39n, 40, 41, 90 e n, 136 Hall, Francis, 20 Harris, Victor, 38n Hedeen, Stanley, 53n Henrion, Nicolas, 50 e n
indice dei nomi Hofmann, Johann Jacob, 46 e n, 47 e n, 48, 56 Holbach, Paul Henri Thiry barone d’, 95 e n Huet, Pierre-Daniel, 49 Hunter, William, 53 e n, 54, 94, 96 Ippaso di Metaponto, 39, 40n Ippocrate di Cos, 82n Isidoro di Carax, 136 Isidoro di Siviglia, 46 e n, 47, 97n José de Acosta, 46n Kircher, Athanasius, 47 Koyré, Alexandre, 121 Lamarck, Jean-Baptiste de, 89n, 96 e n La Mettrie, Julien Offroy de, 97 e n Lartet, Édouard, 96n La Vergata, Antonello, 53n, 54n, 74n, 94n, 95n, 96n Leopardi, Monaldo, 19, 33, 51n, 53n, 63n, 110 e n, 111n, 138, 143 Le Roux des Hautes-Rayes, Michel-AngeAndré, 132 e n, 133n Linguet, Simon-Nicolas-Henri, 48 e n, 129, 137 Linné, Carl von, 61, 94, 97 e n Lipsio, Giusto, 110 Locke, John, 36n Löwenklau (Leunclavius), Johannes, 123 Lucano, Marco Anneo, 78 Luciano di Samosata, 13, 14n, 22, 28, 32n, 59, 61, 69n, 88, 125, 136, 137 Lucrezio, Tito Caro, 49 Lyell, Charles, 74 e n, 96 e n Maccioni, Luca, 59n Mai, Angelo, 24 e n Mannoni, Octave, 72n Marini, Francesco Donato, 51, 52 Markham, Clements, 142 Martin, Roland, 51, 52, 53, 56 Maupertuis, Pierre-Louis Moreau, 41n, 49 Melosi, Laura, 17 e n, 18n, 19n, 21 e n, 69n, 70n Ménage, Gilles, 136, 137 Mencke, Johann, 49, 50n Merk, Augustinus, 79n Meurs, Johannes van, 129n, 137
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indice dei nomi Millones Figueroa, Luis, 127n Moller, Daniel Wilhelm, 50 Molyneux, Thomas, 50 Montaigne, Michel Eyquem de, 121 e n Montesquieu, Charles-Louis de Secondat, 35 Monti, Vincenzo, 13 Moore, James M., 38n Mosè, 31, 33, 42, 80, 83, 85 Muñiz Muñiz, Maria de las Nieves, 63n, 64n, 128n Newton, Isaac, 36n Nibby, Antonio, 124, 125 Niccolai, Alfonso, 32n, 33n, 34 e n, 35 e n, 36 e n, 38, 39n, 40 e n, 41 e n, 42 e n, 49 e n, 50 e n, 51, 55, 56, 65, 103, 104 e n, 128 e n, 129, 130 e n, 131 Omero, 46n, 50, 112, 113n Orazio, Quinto Flacco, 142 Pacella, Giuseppe, 125n Pallas, Peter Simon, 53n Panizza, Giorgio, 18n, 21n Paolo di Tarso, 79 Pausania, 124 e n, 125 Peiresc, Nicolas-Claude Fabri de, 50 Perrin, Jean-François, 83n Pignotti, Lorenzo, 69n, 87, 88 Pindaro, 35 Piperno, Martina, 39n Platone, 90 Playfair, John, 96n Plinio il Vecchio, 32n, 46 e n, 47, 49, 50, 55, 56, 113 e n, 115 e n, 127n Pluche, Noël-Antoine, 36n, 70n, 71n, 120n, 121n Plutarco di Cheronea, 50 Polizzi, Gaspare, 61n, 63n, 71n, 80n, 121n, 139 Potter, Johann, 35n
Rocchi, Stefano, 109n, 110n Rossi, Paolo, 37n, 38n, 95n Rota, Niccolò, 63, 64 Rousseau, Jean-Jacques, 8, 60, 62n, 63 e n, 64 e n, 65 e n, 67, 82 e n, 83 e n, 84n, 85, 88, 90 e n, 91n, 100, 104, 120 Russo, Emilio, 14n, 18n Salmasio, Claudio, 47n Sana, Alberto, 32 e n, 33n, 126n Sanchuniathon, 42, 104 Sangirardi, Giuseppe, 14n, 17n, 22n, 69n, 73n, 75n, 85n, 87n Sanguineti, Edoardo, 45n Scheuchzer, Johann Jakob, 94n Schmerling, Philippe-Charles, 96n Semonin, Paul, 53n Seneca, Lucio Anneo, 120, 121n, 140 Senofane di Colofone, 86, 87 e n, 88 Senofonte, 112, 119, 123 e n, 127 Seth, 31 e n, 34n, 41, 42, 103, 104 Sforza Pallavicino, Pietro, 125n Shuckford, Samuel, 34 e n Solino, 46 e n, 47 e n, 50, 55, 56 Staël, Anne-Louise Germaine Necker de, 117 Starobinski, Jean, 64n, 91n Steelsio, Juan, 127 e n, 143 Strabone, 35 Tacito, Publio Cornelio, 24n, 49 Tellini, Gino, 11n Tennyson, Alfred, 73, 74 e n Thieme, Carl August, 123 Tiburtius, Tiburzio, 51, 52 Timpanaro, Sebastiano, 125n Tiraboschi, Girolamo, 137 Tuveson, Ernest Lee, 108n
Qajin (Caino), 8, 41, 42, 43, 66, 79, 80, 103, 104
Valmiki, 115 Vegezio, Publio Renato, 49 Velleio Patercolo, Gaio, 21, 24, 25, 109, 110, 111, 112 e n, 113 e n Vermij, Rienk, 37n, 38n Virgilio, Publio Marone, 50, 142
Rappaport, Rhoda, 38n Ray, John, 38 Roberti, Giambattista, 33n, 81n Robortello, Francesco, 125 Rocca, Albert de, 109, 117 e n
Weidler, Johann Friedrich, 33 Wells, Edward, 123 Whiston, William, 38, 39 e n Wilson, Hayman, 116n Witsen, Nicolaas, 53n
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Quodlibet Studio. Lettere
Andrea Landolfi (a cura di), Memoria e disincanto. Attraverso la vita e l’opera di Gregor von Rezzori Felice Rappazzo, Eredità e conflitto. Fortini, Gadda, Pagliarani, Vittorini, Zanzotto Felice Ciro Papparo (a cura di), Di là dalla storia. Paul Valéry: tempo, mondo, opera, individuo Carlo A. Madrignani, Effetto Sicilia. Genesi del romanzo moderno Francesco Spandri, Stendhal. Stile e dialogismo Antonietta Sanna, La parola solitaria. Il monologo nel teatro francese del Seicento Marco Rispoli, Parole in guerra. Heinrich Heine e la polemica Giancarlo Bertoncini, Narrazione breve e personaggio. Tozzi, Pirandello, Bilenchi, Calvino Luca Lenzini, Stile tardo. Poeti del Novecento italiano Wilson Saba, Il punto fosforoso. Antonin Artaud e la cultura eterna Paolo Petruzzi, Leopardi e il Cristianesimo. Dall’Apologetica al Nichilismo Filippo Davoli, Guido Garufi (a cura di), In quel punto entra il vento. La poesia di Remo Pagnanelli nell’ascolto di oggi Christoph König, Strettoie. Peter Szondi e la letteratura Vito Santoro, L’odore della vita. Studi su Goffredo Parise Alejandro Patat, Patria e psiche. Saggio su Ippolito Nievo Antonio Tricomi, La Repubblica delle Lettere. Generazioni, scrittori, società nell’Italia contemporanea Claudia Pozzana, La poesia pensante. Inchieste sulla poesia cinese contemporanea Vito Santoro (a cura di), Notizie dalla post-realtà. Caratteri e figure della narrativa italiana degli anni Zero Enio Sartori, Tra bosco e non bosco. Ragioni poetiche e gesti stilistici ne Il Galateo in Bosco di Andrea Zanzotto Angela Borghesi, Genealogie. Saggisti e interpreti del Novecento Francesco Fiorentino (a cura di), Figure e forme della memoria culturale Maurizio Pirro, Come corda troppo tesa. Stile e ideologia in Stefan George Vito Santoro, Calvino e il cinema Giulio Iacoli, La dignità di un mondo buffo. Intorno all’opera di Gianni Celati Massimo Rizzante (a cura di), Scuola del mondo. Nove saggi sul romanzo del xx secolo Alessio Baldini, Dipingere coi colori adatti. I Malavoglia e il romanzo moderno Andrea Rondini, Anche il cielo brucia. Primo Levi e il giornalismo Irene Fantappiè, Karl Kraus e Shakespeare. Recitare, citare, tradurre Camilla Miglio, La terra del morso. L’Italia ctonia di Ingeborg Bachmann Luca Lenzini, Un’antica promessa. Studi su Fortini
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Fabio Moliterni, Una contesa che dura. Poeti italiani del Novecento e contemporanei Luca Maccioni, Il marchio di Qajin. I Dialoghi tra due bestie nell’opera di Giacomo Leopardi
lettere. ultracontemporanea
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