Il linguaggio. Strutture linguistiche e processi cognitivi 8842079405

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Il linguaggio. Strutture linguistiche e processi cognitivi
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© 2006, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2006

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a cura di Alessandro Laudanna e Miriam Voghera

Il linguaggio Strutture linguistiche e processi cognitivi

Editori Laterza

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Introduzione di Alessandro Laudanna e Miriam Voghera

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel marzo 2006 Poligrafico Dehoniano Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa CL 20-7940-2 ISBN 88-420-7940-5

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

L’idea di questo libro nasce da una serie di riflessioni svolte sia all’interno delle nostre rispettive attività scientifiche e didattiche, sia nel corso della comune partecipazione a progetti di ricerca. Nel corso di queste attività ci è capitato spesso di rilevare quanto sarebbe auspicabile una più fitta collaborazione tra approcci diversi allo studio del linguaggio, in primis tra linguistica e psicologia del linguaggio. L’auspicio è fondato almeno su due motivazioni che riteniamo pienamente fondate. In primo luogo, una maggiore collaborazione potrebbe assolvere la funzione di una migliore chiarificazione concettuale, permettendo ai temi di ricerca propri di ciascuna delle discipline di trovare una migliore definizione con l’aiuto dell’altra: come spesso accade nella ricerca, infatti, gli steccati disciplinari impediscono di scorgere come gli oggetti di interesse di due settori di studio in realtà non rappresentino altro che livelli di analisi diversi degli stessi fenomeni. In secondo luogo, la collaborazione sarebbe auspicabile perché, probabilmente, le delucidazioni concettuali di cui si diceva potrebbero portare ad aumentare il potere esplicativo interno a ciascuna disciplina. Dobbiamo aggiungere che talvolta ci è anche capitato di constatare con piacere che la collaborazione tra studiosi di linguistica e di psicologia del linguaggio si è senz’altro accresciuta nel corso dell’ultimo decennio e che più numerose sono diventate le occasioni di dibattito per scambi di idee e conoscenze. Si è creata, per dir così, una certa consuetudine al contatto che non solo fa sì che termini, nozioni e temi di ricerca delle due discipline siano spesso condivisi, ma talvolta determina anche il travaso di risultati e acquisizioni e interpretazioni di dati da una disciplina all’altra. Tuttavia, se dall’osservazione generale si passa ad un esame più attento ci si accorge che il contatto è tuttora circoscritto a livelli e set-

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tori estremamente specialistici della ricerca. Ciò fa sì che si creino gruppi di ricerca molto avanzati in alcuni settori o su singoli temi o progetti di ricerca, ma al contrario manchi, o sia ancora rara, l’abitudine a integrare i punti di vista propri della linguistica e della psicologia del linguaggio nella comune pratica della ricerca di base. Ciò è ancor più vero se passiamo dal terreno della ricerca a quello della formazione universitaria e post-universitaria, sia per quanto riguarda la presenza di corsi, sia per i materiali didattici disponibili. Quanto al primo punto, basti pensare alle note difficoltà ad inserire corsi a cavallo di ambiti disciplinari diversi; per quanto riguarda il secondo, gli strumenti didattici, esistono naturalmente numerosi manuali di linguistica e di psicologia del linguaggio, ma essi non sono sempre sufficientemente agili per studenti che non vogliano diventare esperti linguisti o esperti psicologi, e che tuttavia desiderino conoscere le teorie, i metodi e i problemi empirici delle due discipline. È sulla base di queste considerazioni che abbiamo pensato fosse utile raccogliere i capitoli di linguistica e psicologia del linguaggio qui presentati, affidando ad essi la funzione di fornire un panorama aggiornato dei principali temi di ricerca nelle due discipline. I capitoli, come diremo meglio tra breve, non hanno lo scopo di offrire uno stato dell’arte esaustivo nelle aree di indagine considerate, quanto quello di mettere a fuoco le questioni più dibattute e di maggiore attualità. Si è quindi cercato da un lato di presentare alcuni risultati che si considerano oramai acquisiti, dall’altro di discutere criticamente i nodi ancora irrisolti e più dibattuti nella letteratura scientifica. Ciascun autore ha di fatto approfondito gli ambiti più problematici, e perciò stesso più interessanti, all’interno delle varie dimensioni di analisi. La scelta degli ambiti presentati indubbiamente non esaurisce l’insieme delle possibili dimensioni di analisi delle lingue e del linguaggio. Tanto la linguistica quanto la psicologia del linguaggio hanno negli ultimi anni sottolineato come le tradizionali partizioni della linguistica, che sono state assunte anche dalla psicologia del linguaggio in una fase iniziale della sua storia, siano spesso inadeguate a descrivere la complessità dei fenomeni linguistici. Sempre più spesso si sottolinea – e i saggi qui raccolti ne sono una testimonianza – che non solo la spiegazione di una determinata struttura o di un determinato processo di elaborazione coinvolge contemporaneamente più dimensioni (lessico e semantica, fonetica e fonologia, morfologia e fonologia, sintassi e pragmatica, ecc.), ma che la definizione stessa degli

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oggetti di analisi diviene inevitabilmente multidimensionale, o non coincidente con le dimensioni tradizionali: ad esempio, per la psicologia del linguaggio costrutti quali «rappresentazioni ortografiche» o «lessico di output» o «strategia di parsing» si presentano come oggetti di studio del tutto legittimi e fecondi dal punto di vista euristico. La suddivisione qui proposta, quindi, non presume né che le dimensioni di analisi scelte siano le uniche possibili né che il linguaggio e le lingue debbano necessariamente essere concepiti come rigide strutture a blocchi. In altre parole, i livelli di analisi che qui presentiamo non solo non esauriscono l’insieme dei punti di vista dai quali si possono indagare le lingue e il linguaggio, ma la stessa partizione da noi effettuata può in alcuni casi apparire inadeguata e riduttiva rispetto alla complessità dei fatti linguistici. Proprio perché consapevoli del fatto che molte altre scelte sarebbero state possibili, vogliamo citarne alcune: tra le aree nelle quali tradizionalmente si suddivide lo studio del linguaggio è qui assente la pragmatica; l’acquisizione del linguaggio, che storicamente ha così profondamente inciso nelle svolte paradigmatiche delle due discipline, non è stata esplicitamente tematizzata; dal punto di vista degli approcci e dei metodi, sui quali ritorneremo più oltre, avremmo potuto concedere più spazio alla simulazione su calcolatore dei processi linguistici, che negli ultimi due decenni è stata adottata in misura crescente soprattutto dagli psicologi, ma anche dai linguisti, seppure in forme più limitate. La suddivisione che abbiamo scelto ha voluto privilegiare la ripartizione tradizionale, presente in tutta la manualistica più diffusa, e favorire, quindi, una certa «riconoscibilità» dell’ambito indagato che potesse essere trasparente sia per gli studenti sia per i lettori non specialisti interessati a questi argomenti. Le peculiarità dei capitoli qui raccolti e i loro numerosi rimandi interni, che riguardano argomenti e nozioni trattati in più capitoli, guideranno il lettore a cogliere le intersezioni tra le varie dimensioni, permettendogli di «ricostruire» a posteriori, induttivamente, la complessità dei fatti indagati. Il volume è idealmente costruito in modo da presentare coppie di saggi di linguistica e psicologia del linguaggio sulle varie dimensioni di analisi delle lingue: fonologia, morfologia, semantica, lessico e sintassi. L’unica eccezione è costituita dai primi due saggi dedicati alla fonetica e all’ortografia. Nel primo caso, la presenza di un unico capitolo è giustificata dal fatto che, per quanto concerne la fonetica, la divaricazione di approcci, teorie e metodi tra linguistica e psicologia del linguaggio è molto meno marcata che nelle altre aree trat-

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tate nel volume. Nel caso dell’ortografia, invece, ci troviamo di fronte a uno di quei casi, citati in precedenza, nei quali un oggetto di studio è tematizzato esplicitamente come tale solo all’interno di una delle due discipline: la psicologia del linguaggio. Come si vedrà dalla lettura dei vari capitoli, molti dei temi affrontati fanno emergere con forza i diversi punti di vista delle due discipline e richiamano problemi di definizione stessa dell’oggetto di studio. La ricchezza teorica di entrambe le discipline e la varietà degli approcci adottati sono tali da non consentire l’attribuzione di facili etichette ai punti di vista loro propri. È difficile pensare infatti alla linguistica e alla psicologia del linguaggio come a due insiemi omogenei al loro interno. Almeno in linea di principio, tuttavia, possiamo individuare alcuni nuclei di interesse propri delle due discipline, che nell’insieme le connotano. Tradizionalmente la linguistica studia la storia, gli usi, ma soprattutto le strutture delle lingue e del linguaggio. La psicologia del linguaggio è interessata principalmente alle rappresentazioni e ai processi mentali implicati nella comprensione, produzione e acquisizione del linguaggio. Ci è sembrato quindi di poter individuare nella coppia di termini strutture e processi la coppia che più immediatamente caratterizza gli oggetti di indagine più tipici della linguistica e della psicologia del linguaggio. Non tutta la linguistica né tutta la psicologia del linguaggio si identificherebbero totalmente negli obiettivi designati da questi due termini, ma certamente le due discipline trovano in essi parte della loro ragion d’essere e delle loro fondamenta. Ciò non implica, ovviamente, che strutture e processi siano i primitivi di teorie universalmente accettate, dato che la loro stessa definizione non è priva di problemi. Il termine struttura, infatti, può avere all’interno delle teorie linguistiche significati diversi identificando di volta in volta fatti di langue, cioè costruzioni linguistiche astratte prevalentemente determinate dal rapporto sociale tra parlanti, o elementi di competenza, cioè costruzioni cognitive innate determinate dalla facoltà del linguaggio o, ancora, elementi linguistici identificati sulla base dell’uso che ne fanno i parlanti per realizzare le principali funzioni comunicative. Benché i punti di vista adottati siano diversi tra loro, ciò che accomuna i vari approcci è la ricerca di elementi sistematici e discreti sulla base dei quali i parlanti costruiscono la complessa rete di invarianze che costituisce la grammatica di ogni lingua.

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Anche il termine processo, nonostante il largo uso che ne viene fatto in psicologia, non ha un significato del tutto univoco. Tuttavia, anche in questo caso potremmo individuare un nucleo di significato condiviso tra i vari usi, sostenendo che con tale termine si intende l’insieme dei meccanismi cognitivi che permettono o di trasformare uno stimolo esterno (ad esempio, una parola scritta) in una corrispondente rappresentazione mentale (ad esempio, il significato di quella parola), ovvero di trasformare una rappresentazione mentale (ad esempio, l’immagine mentale del volto di una persona nota) in un’altra rappresentazione mentale (ad esempio, il nome di quella persona). La distinzione tra strutture e processi, come abbiamo già accennato, non deve essere intesa come una rigida dicotomia, né per quanto riguarda gli oggetti di indagine della linguistica e della psicologia del linguaggio, né per quanto riguarda gli aspetti più propriamente definitori di tali oggetti. Come si può chiaramente constatare proprio a partire dai contributi qui raccolti, vi è un continuo riferimento – sia nei capitoli di linguistica sia in quelli di psicologia del linguaggio – tanto alle strutture quanto ai processi o, meglio, all’interazione tra dato strutturale ed elaborazione del dato nella realizzazione dei processi linguistici e linguistico-cognitivi. Ciò avviene in misura diversa in rapporto alle opzioni teoriche assunte dai vari autori, al tipo di oggetti e alle dimensioni indagati, al diverso incremento di conoscenze nelle varie aree di ricerca e, infine, in rapporto anche alle loro diverse tradizioni. Nella linguistica, per esempio, sono presenti aree in cui vi è tradizionalmente una maggiore attenzione al rapporto tra sistema e uso, tra langue e parole, tra competenza ed esecuzione: si pensi alla fonetica e alla fonologia, ma anche alla semantica e al lessico. Si tratta di dimensioni linguistiche in cui il rapporto tra aspetti sostanziali e formali del linguaggio appare più difficilmente distinguibile o, meglio, più costitutivamente correlato, come dimostrano anche i relativi capitoli in questo volume. Una misura del contatto sempre maggiore tra linguistica e psicologia del linguaggio è la diffusione di una terminologia di base comune e la condivisione di molte nozioni chiave. Sempre più spesso nei saggi di linguistica si fa riferimento alla rilevanza di componenti cognitive, e termini come memoria, elaborazione (processing), parsing, lessico mentale, sono diventati usuali. Allo stesso modo, nozioni di linguistica quali tratto, parametro, costituente, e così via, sono parte

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dell’armamentario abituale di ampi settori della psicologia del linguaggio. Nei casi più felici, la psicologia e la linguistica si sono arricchite vicendevolmente. È successo talvolta che alcune nozioni elaborate in ambito linguistico siano state produttivamente importate nella psicologia cognitiva del linguaggio, ricevendo una conferma del loro ruolo anche come unità di elaborazione del linguaggio (si pensi alle nozioni di sillaba o di morfema); così come, d’altro canto, nozioni derivanti dall’apparato teorico classico della psicologia del linguaggio sono diventate elementi di discussione dai quali la linguistica può ormai difficilmente prescindere (è il caso della già citata nozione di lessico mentale). Sarebbe tuttavia un errore credere che le due discipline procedano di concerto o congiuntamente. Nonostante molte nozioni della linguistica e della psicologia del linguaggio siano entrate in contatto, arrivando ad essere pienamente condivise, le due discipline appaiono ancora distanti quanto all’approccio ai dati. Se da un lato questa diversità è necessariamente connessa alla diversità di obiettivi, dall’altro essa pone a volte problemi di comunicazione tra i due ambiti di ricerca. In prima battuta, possiamo dire che la psicologia del linguaggio si presenta più omogenea al suo interno dal punto di vista metodologico. Pur nella diversità dei metodi propri alle diverse aree indagate, negli studi di psicologia del linguaggio c’è un’accettazione pressoché unanime del metodo sperimentale e la condivisione di procedimenti di raccolta e di trattamento dei dati. Ciò non avviene nei lavori di linguistica, che possono presentare molte e sostanziali diversità non solo nella metodologia usata, ma in ciò che si considera dato (si vedano gli articoli contenuti nella rivista «Lingue e linguaggio» 2003; 2004). È noto, per esempio, che la linguistica generativa basa le sue ipotesi teoriche e la loro verifica su dati provenienti da un processo di controllo con le conoscenze grammaticali dei parlanti: i dati sono essenzialmente costituiti da ciò che i parlanti sanno della lingua più che da ciò che i parlanti fanno con la lingua. Al contrario, la linguistica di tipo funzionalista o, più generalmente, variazionista, basa le sue ipotesi teoriche sulla raccolta di usi linguistici, cioè su ciò che i parlanti fanno con la lingua. Il dibattito su questi temi è vivace e continuo e coinvolge molteplici aspetti epistemologici, teorici e metodologici (si vedano tra gli altri i recenti contributi di Newmeyer 2003, 2005; Clark 2005; Laury e Ono 2005). Le diversità tra le due discipline e tra i vari approcci della linguistica non riguardano tanto – come è ovvio – gli aspetti più fini e spe-

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cialistici della metodologia, ma coinvolgono questioni più generali relative al tipo e alla diversa osservabilità dei dati (Acquaviva 2000; Berruto 2004; Lepschy 2002; Voghera in corso di stampa). Si tratta di diversità, per così dire, costitutive, non solo legittime ma in molti casi proficue proprio perché permettono di affrontare i fatti linguistici da punti di vista diversi: non crediamo infatti che sia un obiettivo scientifico da perseguire la reductio ad unum né dal punto di vista teorico né metodologico. Tuttavia, riteniamo, che si possano fare dei passi in avanti nella discussione comune. Indicheremo a mo’ di esemplificazione solo due punti tra i tanti possibili. Un primo punto riguarda la necessità di lavorare insieme su una migliore definizione dei livelli di pertinenza per l’analisi dei vari fenomeni. Le ricerche linguistiche e di psicologia del linguaggio degli ultimi anni hanno mostrato che l’allargamento del contesto linguistico, o l’attenzione verso lo studio dell’interazione tra livelli di elaborazione diversi, apre nuove prospettive per la comprensione dei fenomeni indagati: si pensi per esempio al ruolo del contesto sintattico nel determinare il riconoscimento di un’unità lessicale, al ruolo che la prosodia della frase può avere nei processi di risillabificazione delle parole o, ancora, al ruolo che la distribuzione dell’informazione (per esempio la suddivisione in topic e comment) ha nella costruzione sintattica della frase. L’insieme di questi dati mostra la necessità di incrementare il lavoro comune su una migliore delimitazione dei livelli di pertinenza della ricerca sulle strutture e i processi di base. Un secondo punto riguarda il peso e il ruolo da assegnare alla variabilità interlinguistica e intralinguistica. Non vi è dubbio che la scelta degli elementi pertinenti del fenomeno indagato avvenga solo all’interno di ciascuna teoria scientifica, che per definizione individua le classi di dati per essa rilevanti, facendo astrazione dagli elementi contingenti o spuri. Inoltre, il vaglio delle ipotesi scientifiche di una teoria deve spesso avvenire su un insieme di dati che sono prodotti in un ambiente controllato, o sono specifici di certe condizioni date. Ciò rappresenta un passaggio in molti casi utile e necessario. Inoltre, esistono in alcuni casi delle limitazioni oggettivamente determinate dal contesto d’analisi. Basti qui semplicemente citare gli studi di afasiologia, che inevitabilmente si basano su quantità e qualità di dati che sono quelle vincolate agli specifici patterns di disturbi che i singoli pazienti analizzati permettono di osservare. È anche vero, tuttavia, che se il tentativo è quello di conseguire teorie del lin-

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guaggio sempre più ampie e integrate, non ci si può limitare a collezionare fenomeni isolati, ma bisogna tentare, per quel che è possibile, di inserire i risultati ottenuti in contesti diversi all’interno di un quadro concettualmente coerente. Tale aspirazione dovrebbe valere sia per quel che concerne la generalizzazione dei risultati sperimentali agli usi spontanei del linguaggio, sia per quanto attiene all’interpretazione di dati che, pur avendo un comune oggetto linguistico, si riferiscono a compiti diversi, che presumibilmente investono componenti almeno in parte diverse del sistema di elaborazione del linguaggio. Per il primo punto – la generalizzazione – basti pensare al fatto che le lingue sono oggetti intrinsecamente variabili, le cui manifestazioni sono profondamente influenzate dalle condizioni enunciative, che possono incidere sullo svolgimento dei compiti linguistici. Per il secondo punto – l’interpretazione – si può prendere come esempio il fatto che, nella psicologia del linguaggio, dati che superficialmente si riferiscono alla stessa entità (ad esempio, i verbi) debbono ricevere un’interpretazione limitata alla particolare intersezione di compiti, modalità, tipo di stimolo, ecc. all’interno della quale sono stati raccolti. Ogni condizione sperimentale, difatti, isola un sottoinsieme di componenti del sistema di elaborazione del linguaggio, ed è a quelle componenti che va circoscritta l’interpretazione dei dati. Quanto detto finora non vuole lasciare intendere che tentativi di tenere nel dovuto conto tutti gli aspetti e le condizioni citate non siano stati effettuati. Anzi, la possibilità di integrare dati provenienti da vari settori di ricerca e acquisiti con tecniche e metodi diversi si è già rivelata proficua in alcune aree, le quali sono state arricchite dalla possibilità di integrare informazioni convergenti. Ad esempio, in anni recenti, nello studio dei nomi e dei verbi, la ricerca in linguistica, da un lato, e in psicologia e neuropsicologia del linguaggio, dall’altro, ha dato un apporto prezioso nel dettagliare sia teoricamente che empiricamente i limiti della distinzione tra le due classi di parole, nonché il modo in cui tale distinzione è codificata nella mente umana (per una rassegna si veda Laudanna e Voghera 2002). L’aumento di dati linguistici provenienti da un numero sempre maggiore di lingue e/o di contesti linguistici diversi ha affinato la conoscenza sulle proprietà categoriali di nomi e verbi, delineando meglio i limiti di questa distinzione ai vari livelli nei quali essa è rilevante: lessicale, semantico, morfologico, sintattico, pragmatico. Parallelamente anche

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la ricerca in psicologia del linguaggio ha cercato di volta in volta di discriminare in quali componenti (lessicale, semantico morfologico sintattico) del sistema di elaborazione del linguaggio il trattamento dell’informazione su nomi e verbi differisce in modo significativo. Affermare che su tale argomento si è verificata una produttiva interazione tra apporti disciplinari diversi non significa che il quadro disegnato da tali ricerche sia del tutto coerente, né che in esso non vi siano anche punti di divergenza. Se si valutano i dati psicolinguistici e neuropsicologici, ad esempio, vi sono pochi dubbi sul fatto che la distinzione tra nomi e verbi sia rappresentata nel lessico mentale e che informi i processi di elaborazione del linguaggio, in compiti sia di produzione che di comprensione. D’altra parte, tuttavia, è altrettanto chiaro che la distinzione si situa a vari livelli del sistema di elaborazione linguistica, e il dibattito sui risultati sperimentali investe di volta in volta il problema dei componenti responsabili delle dissociazioni riscontrate. Inoltre, dati recenti (Laudanna, Gazzellini e De Martino 2004) inducono a dubitare del fatto che, almeno nel caso delle forme del verbo, si possa parlare di una classe grammaticale omogeneamente rappresentata nel lessico mentale. Se si passa ai dati della linguistica, poi, ci si accorge che è la stessa distinzione tra nomi e verbi ad essere più pronunciata o sfumata, a seconda dei livelli osservati e/o delle lingue considerate. In questo caso i risultati suggeriscono che la distinzione tra nomi e verbi si situa lungo un continuum, piuttosto che attestarsi sul piano di una netta dicotomia, e che in alcune lingue essa è lungi dall’apparire ovvia. Tuttavia, al di là delle disparità di approccio e interpretative, per certi versi persino ovvie, quello che ci interessa evidenziare è che il tentativo di integrare prospettive di studio differenti, anche se non garantisce il raggiungimento di un fine conoscitivo, aiuta – come affermavamo all’inizio di questa introduzione – a chiarire il fenomeno indagato e a definirlo meglio lungo linee teoricamente rilevanti, derivabili solo grazie a un confronto trans-disciplinare. Non solo, ma questo passo preliminare può in seguito portare o a corroborare ulteriormente delle interpretazioni già fornite per quel dato fenomeno, o a riformulare e migliorare le spiegazioni preesistenti in modo da adattarle a una gamma di dati più ampia. La nostra speranza, e uno dei principali motivi che ci ha spinto a scrivere questo libro, è che lo scambio di idee e le opportunità di collaborazione a cavallo dei confini disciplinari portino sempre più spesso a una dinamica di miglioramento delle teorie sul linguaggio e

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a una migliore reciproca consapevolezza delle conoscenze maturate in settori diversi. Uno dei modi attraverso i quali favorire questo circuito virtuoso è far sì che l’esposizione a una pluralità di punti di vista abbia luogo non solo tra chi è impegnato nella ricerca sul linguaggio, ma anche, a un livello diverso, tra chi si accosta alle nostre aree spinto da curiosità intellettuali o da esigenze formative, come nel caso – ci auguriamo – dei lettori di questo volume. Non possiamo che concludere ringraziando tutti gli autori che hanno contribuito a questo lavoro per la pazienza e la comprensione con cui hanno collaborato durante la lunga fase di preparazione. Un grazie va anche a James Brucato per l’aiuto offerto nella cura della bibliografia generale. Ma il pensiero più affettuoso va alla nostra casa amica e collega Marica De Vincenzi che, nonostante le difficoltà in cui versava, ha collaborato fino alle ultime fasi della realizzazione di questo volume. Oggi, che ci ha prematuramente lasciato, ne sentiamo dolorosamente la mancanza come amica e come studiosa. Vogliamo ricordarla insieme con tutti coloro che hanno scritto questo libro. Di comune accordo, curatori e autori hanno deciso di devolvere i diritti d’autore ad Amnesty International. A.L.

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Avvertenza generale sull’uso dei segni grafici

Nel volume abbiamo ridotto al minimo l’uso di segni grafici speciali. È tuttavia utile richiamare alcune convenzioni usate nei vari capitoli. Il grassetto è usato per evidenziare termini e concetti di particolare rilievo. Il corsivo è usato, oltre che come di norma per i termini stranieri, anche per indicare: gli usi metalinguistici di parole o frasi; il significante (in quanto opposto al segno o al significato); unità linguistiche usate in esperimenti. Il MAIUSCOLETTO è usato per indicare: i lessemi; il segno (in quanto opposto al significato o al significante). Le barre oblique (/ /) sono usate per la trascrizione fonologica, mentre le parentesi quadre ([ ]) indicano la trascrizione fonetica che fa uso dei simboli dell’International Phonetic Alphabet (IPA), riportati a pagina 10. Le virgolette alte singole (‘ ’) sono usate per indicare: il significato (in quanto opposto al segno o al significante); le glosse. Nel caso in cui due parole siano separate dal simbolo >, la prima parola in tondo è quella attesa, la seconda in corsivo è quella effettivamente prodotta.

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Fonetica di Renata Savy

1. Introduzione Rispetto alle altre discipline della linguistica, la fonetica è, insieme alla fonologia, quella che ha a che fare con una sola delle modalità semiotiche attraverso cui il linguaggio si manifesta, riferendosi per definizione all’analisi della lingua parlata. La fonetica è infatti, nella sua definizione «minima», la disciplina che studia i suoni, in particolare i suoni linguistici, prodotti dall’apparato fonatorio umano. Per questo, essa non può essere decisamente distinta e separata dalla fonologia, che si occupa dell’organizzazione linguistica dei suoni. Il quadro sintetico della disciplina fonetica che stiamo qui per delineare sottende, pertanto, almeno due questioni interrelate: da un lato, come e quanto la fonetica si rapporta ad altre discipline; dall’altro, se è possibile una teoria fonetica autonoma, distinta da quella di altri settori della lingua. L’oggetto di indagine della fonetica sembra ricavarsi, in un certo senso, per sottrazione dalle definizioni comparatorie che tradizionalmente si danno di fonetica e fonologia: tutte poggiano su alcuni elementi comuni, ma adottano punti di vista differenti nel delineare la direzione del rapporto tra le due discipline (si vedano Romito 2000; Laver 1994; Ladefoged 1988; il capitolo di Marotta in questo volume). Nella definizione comune «ampia», la fonetica si occupa degli elementi fonici della voce materiali e continui, nella loro dimensione fisica e temporale, che convogliano al contempo informazione linguistica e altre informazioni paralinguistiche ed extralinguistiche; descrive il modo in cui detti elementi vengono prodotti e percepiti, il come, il perché e le circostanze delle loro modificazioni; ma soprattutto si occupa di identificare e descrivere le proprietà dei

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1. Fonetica: le strutture e i processi

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suoni che sono necessarie, in una determinata lingua, a distinguere parole e ad assicurare la comprensione; e ancora, in altri termini, di definire le basi fisiologiche e fisiche che servono a determinare le categorie da usare nella descrizione linguistica. L’aspetto del continuo (o continuum) è comunemente sottolineato come proprietà intrinseca della materia acustica, legata al suo sviluppo temporale come alle sue modalità di produzione (cfr. § 2.2.3). Tuttavia, l’analisi fonetica cerca di identificare e descrivere gli elementi, le unità che formano il continuum e deve pertanto necessariamente discretizzare questa materia. L’altro elemento comune è il riconoscimento che gli elementi fonici veicolano, oltre l’informazione linguistica, una quota significativa di informazione cosiddetta paralinguistica ed extralinguistica1: uno dei compiti della fonetica è dar conto delle regolarità e dei tratti convenzionalmente (culturalmente) utilizzati come segnali paralinguistici di attitudini, emozioni, relazioni col contesto situazionale, ecc., e di quelli che marcano l’identità extralinguistica del parlante. In alcuni casi, questo viene presentato come obiettivo primario e proprio dell’analisi fonetica; in altri (in verità la maggioranza) costituisce un obiettivo secondario e conseguente a quello della descrizione delle proprietà fisiche, pertinenti sul piano dell’analisi linguistica. Dati questi obiettivi, la fonetica non può fare a meno di accedere alle categorizzazioni del sistema, in primo luogo quello fonologico: ogni descrizione fonetica approda a, o ha alle spalle, una qualche classificazione linguistico-fonologica, che non pertiene direttamente al suo campo d’indagine, ma che la sostiene e giustifica, così come non si può trattare di fonologia senza riferirsi, per esempio, ai tratti articolatori o acustici e alle loro descrizioni, appartenenti tradizionalmente all’ambito di studio della fonetica (si veda il capitolo di Marotta in questo volume). Il rapporto con un livello astratto e sistemico è ancora insito nel riferimento comune e diffuso ai processi fonetici come «modificazioni» dei suoni: tale formulazione implica chiaramente un’unità di misura rispetto alla quale tali modificazioni (che fanno parte del da-

to concreto rilevato) vengono descritte (cfr. § 3). Una spiegazione di questo tipo dei processi fonetici, e dunque la loro predicibilità, diviene di importanza fondamentale nella ricerca di invarianti che assicurino la comprensione (cfr. § 5). Gli approcci alla teoria fonetica differiscono sostanzialmente nel ruolo che le viene riconosciuto all’interno di una teoria semiotica generale: si va da posizioni per così dire «ancillari» della fonetica rispetto alla fonologia (Romito 2000), fino a quelle che sostengono che entrambe hanno a che fare con forma e sostanza degli elementi di seconda articolazione, con una differenza delineabile solo in termini di centralità (Laver 1994). La scelta del tipo di dati fondamento dell’analisi rappresenta un’importante questione teorico-metodologica. Una distinzione primaria va fatta tra il parlato di laboratorio (suoni prodotti specificamente per le analisi fonetiche in condizioni artificiali) e il parlato spontaneo (materiali sonori raccolti al di fuori delle condizioni sperimentali). Il primo è stato per lungo tempo la base unica di fondamento e verifica delle teorie fonetiche, limitando a monte il campo dei fenomeni osservabili. Una svolta decisiva nell’ampliamento della base dei dati degli studi fonetici è rappresentata dallo sviluppo dei sistemi informatici che consentono oggi la conservazione e la gestione di grandi corpora vocali2. Le potenzialità di tali strumenti influenzano le metodologie e le pratiche di analisi, ma hanno ripercussioni più o meno dirette, anche sul versante teorico: una delle strade per la costruzione di una teoria fonetica generale è infatti quella di un ampliamento della base di osservazioni, che copra tutto il range delle possibili variazioni esecutive e si sostanzi di un fondamento quantitativo e statistico. Gran parte della terminologia fonetica è in comune con quella della fonologia, a partire dall’unità basica dell’analisi fonetica, il fono, termine che (insieme a quello di allofono, o variante) indica il suono linguistico come realizzazione concreta dell’unità astratta fonema (si veda il capitolo di Marotta in questo volume). Esistono poi termini specifici utilizzati in ciascuna branca della fonetica.

1 Risiede in questo la differenza tra Language e Speech, coppia terminologica molto in uso nella letteratura in lingua inglese e che solo parzialmente può essere tradotta in ‘Lingua e Parlato’: lo Speech veicola la lingua, ma anche altro che non fa parte della lingua (si veda per esempio Ladefoged 2001).

2 Esistono vari tipi di corpora provenienti da produzioni spontanee o semispontanee elicitate, vale a dire ottenute attraverso tecniche «distrattive» che consentono di osservare comportamenti fonici naturali, sebbene in condizioni ambientali controllate.

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Con configurazione articolatoria o con il più recente gesto articolatorio, si fa riferimento alla dinamica di produzione del suono; in relazione all’aspetto acustico è usato spesso il termine neutro segnale; sul piano uditivo-percettivo è comune invece stimolo sonoro o linguistico. Il termine comune che ricorre più frequentemente nel lessico fonetico è il generico segmento, dietro il cui uso si nasconde una concezione teorica non poco problematica3. Il segmento fonetico è un’unità lineare discreta, in via teorica corrispondente ad un’unità linguistica astratta e delimitabile all’interno della catena fonica. Tanto teorie fonetiche quanto fonologiche recenti (si veda ancora Marotta in questo volume) hanno messo in luce l’aspetto non lineare delle unità e negato al segmento uno statuto di realtà oggettiva (ma non psicologica). Ciò nonostante esso resta un costrutto analitico e un veicolo descrittivo comodo e di facile impiego (modellato sulla segmentazione delle strutture alfabetiche), utilizzato almeno nelle fasi iniziali di una descrizione (Laver 1994). All’aspetto continuo dei suoni del linguaggio ci si può invece riferire variamente con continuum fonico, catena fonica o con un generico stringa fonetica. 2. Articolazioni della fonetica La fonetica si articola tradizionalmente in tre (o quattro) sottodiscipline. La fonetica articolatoria studia la fisiologia e il funzionamento degli organi fonatori per e durante la produzione dei suoni linguistici. La fonetica acustica studia la struttura fisica dei suoni linguistici sotto forma di segnali sonori. La fonetica uditiva studia la fisiologia e il funzionamento dei meccanismi uditivi e la risposta sensoriale (meccanica) del sistema uditivo ai suoni linguistici. Infine, la fonetica percettiva studia il modo in cui il suono linguistico come stimolo sensoriale, una volta trasmesso al sistema centrale, viene elaborato, identificato e riconosciuto. La distinzione tra fonetica uditi3 Tale concezione si può far risalire alle basi dello strutturalismo europeo e agli assunti teorici di articolazione, linearità e soprattutto segmentabilità della catena linguistica in unità (enunciati, sostanzialmente, da Saussure 1916), che costituiscono gli assiomi fondamentali del «paradigma segmentale», prospettiva che deve molto alla rappresentazione scritta della lingua.

1. Fonetica: le strutture e i processi

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va e percettiva (non sempre riportata nelle rassegne sull’argomento) dà conto della differenza tra processo fisiologico e processo cognitivo nella ricezione. È in questa dinamica che hanno luogo i processi di categorizzazione e si esplica la corrispondenza tra unità astratte (linguistiche e fonologiche) e realizzazioni concrete, di cui la ricerca fonetica deve rendere conto. Si è soliti operare un’ulteriore distinzione tra fonetica segmentale e fonetica soprasegmentale: la prima tratta, per definizione, le unità linguistiche identificate in forma di segmenti fonici, come vocali, consonanti, sillabe, ecc.; la seconda tratta elementi e/o proprietà che superano i confini del segmento: tradizionalmente ci si riferisce, con questo termine, a fenomeni ritmici e intonativi (cfr. § 2.4), ma vi possono rientrare diversi fenomeni che riguardano la connessione tra più segmenti. 2.1. Fonetica articolatoria 2.1.1. I meccanismi basilari della produzione La produzione di suoni avviene attraverso quattro meccanismi distinti responsabili di fasi diverse della fonazione: 1. pneumatico (l’aria prodotta dai polmoni viene sospinta dal diaframma attraverso la trachea); 2. glottidale (nella laringe, il flusso d’aria viene trasformato in suono udibile – segnale sonoro o glottico o laringale – dalla vibrazione delle corde o pliche vocali); 3. articolatorio (cfr. §§ 2.1.2 e 2.1.3); e 4. oronasale (le configurazioni assunte attraverso le posizioni degli organi articolatori attivi – lingua e labbra – e passivi – ugola, palato duro e molle, denti – e le cavità nasali fungono da risuonatori e modificano il suono). Se la descrizione dei primi due meccanismi è prevalentemente fisiologica, i processi articolatorio e oronasale sono coinvolti più da vicino nella descrizione dei tratti linguistici pertinenti del suono prodotto, poiché in queste fasi si verifica la differenziazione dei suoni che divengono così distinguibili e classificabili. 2.1.2. Le classificazioni della fonetica articolatoria Tradizionalmente il meccanismo di articolazione dei suoni linguistici viene descritto in base a classi di suoni distinti per modo e luogo di articolazione. Per modo di articolazione si intende il tipo e il grado di costrizione che gli organi articolatori raggiungono per la produzione di un determinato suono, includendo la posizione del velo palatino. I modi di articolazione comunemente descritti sono:

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Il linguaggio. Strutture linguistiche e processi cognitivi

Tab. 1. Modi di articolazione modo

tipo e grado di costrizione

occlusivo

costrizione massima

fricativo

costrizione media

approssimante

costrizione minima

nasale

con abbassamento del velo e passaggio d’aria nella cavità nasale

laterale

con costrizione centrale e passaggio d’aria lateralmente alla lingua

vibrante

con alternanza di costrizioni e rilasci

vocalico

costrizione nulla

A questi si aggiungono di frequente combinazioni articolatorie che danno luogo a modalità come l’affricata (un’occlusione totale seguita da una fase di media costrizione) o la laterale-fricativa, e simili. Per luogo di articolazione, invece, si intende il punto o la zona del cavo orale in cui la costrizione (di qualunque grado essa sia) ha effetto. I luoghi di articolazione primari (elencati dalla massima alla minima distanza dalla glottide) sono: Tab. 2. Luoghi di articolazione luogo

descrizione sintetica

labiale

con avvicinamento del labbro inferiore e superiore

dentale

con avvicinamento della punta della lingua contro i denti superiori

alveolare

con avvicinamento della punta della lingua contro gli alveoli

palatale

con avvicinamento del dorso della lingua contro il palato duro

velare

con avvicinamento della radice della lingua contro il palato molle (o velo)

uvulare

con movimenti dell’ugola

faringale

con restringimenti delle pareti alte della faringe

epiglottale

con restringimenti delle pareti basse della faringe

glottale

con restringimento della glottide

Il continuum fisico dell’apparato buccale discretizzato in queste macrozone, poi, viene spesso ulteriormente suddiviso, per dar conto di articolazioni ai margini delle principali, in zone post-alveolari, pre-palatali, post-palatali, pre-velari. Per le vocali, i luoghi di articolazione corrispondono a discretizzazioni più o meno fini dell’apparato rispetto alle dimensioni verti-

1. Fonetica: le strutture e i processi

9

cale (alto, basso, medio-alto, medio-basso) e longitudinale (anteriore, centrale, posteriore), cui vengono aggiunte informazioni sulla conformazione delle labbra (protruse o distese). In un’ottica squisitamente segmentale, l’oggetto di tale descrizione è l’insieme dei segmenti fonici identificati in base alle loro proprietà distintive in tutti i sistemi linguistici conosciuti e analizzati. Si tratta, dunque, di una descrizione totalmente classificatoria nella quale il rapporto con il livello fonologico è in un certo senso autoevidente. Tale classificazione ha un suo riflesso nella matrice principale di simboli alla base dell’IPA (International Phonetic Alphabet)4, il sistema comunemente usato per trascrivere foneticamente. Nonostante l’intenzione di creare un sistema di trascrizione «in grado di rappresentare tutte le possibili realizzazioni foniche al di là di quelle che costituiscono i diversi sistemi di lingua» (Giannini e Pettorino 1992, p. 94), l’IPA è, per stessa ammissione di uno dei suoi più autorevoli rappresentanti (Ladefoged 1990), sostanzialmente un alfabeto fonologico che rappresenta classi di suoni (cioè fonemi), arricchito da un inventario suppletivo di simboli che catturano alcuni dettagli sistematici, ma non distintivi. Proprio su questi aspetti dell’IPA e sui principi della trascrizione, si ripropone la discussione su quale grado di astrattezza, o viceversa di dettaglio, deve o può raggiungere un sistema di trascrizione. Il dibattito aperto vede posizioni di diverso taglio: da quella «antropofonica» di Lindblom (1990), che sostiene che ogni suono linguistico possibile (definito all’interno di uno spazio fonetico universale) dovrebbe essere rappresentato, ma ciò avrebbe come conseguenza un collasso del sistema stesso di rappresentazione; a quella di Pierrehumbert (1990), che definisce utopistico e incoerente un inventario universale fatto di elementi discreti che non sembrano avere lo stesso statuto cognitivo dei segmenti fonologici; a quella mediatrice e statistica di Ladefoged (1990), che vede come unica via possibile l’osservazione di dati quantitativamente significativi sul maggior numero di lingue possibili e la loro descrizione in termini di categorie appropriate all’oggetto di descrizione. 2.1.3. Dinamica articolatoria e «setting» In tempi più recenti, con l’approfondimento delle conoscenze dei meccanismi fisiologici 4

Per una storia dell’IPA si vedano Giannini e Pettorino 1992; Ladefoged 1990.

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Il linguaggio. Strutture linguistiche e processi cognitivi THE INTERNATIONAL PHONETIC ALPHABET (revised to 1993, updated 1996)

CONSONANTS (PULMONIC) Bilabial

Labiodental

Dental

Alveolar Postalveolar Retroflex Palatal

Velar

Uvular

Pharyngeal Glottal

Plosive Nasal Trill Tap or Flap Fricative Lateral Fricative Approximant Lateral Approximant Where symbols appears in pairs, the one to the right represents a voiced consonant. Shaded areas denote articulations judged impossible.

VOWELS CONSONANTS (NON-PULMONIC) Voiced implosives

Clicks

Front

Central

Back

Close

Ejectives

Bilabial

Bilabial

Examples

Dental

Dental/alveolar

Bilabial

Close-mid (Post)alveolar

Palatal

Dental/alveolar

Palatoalveolar

Velar

Velar

Alveolar lateral

Uvular

Alveoalr frictive

Open-mid

Open Where symbols appears in pairs, the one to the right represents a rounded vowel.

OTHER SYMBOLS

SUPRASEGMENTALS

Voiceless labial-velar fricative

Alveolo-palatal fricatives

Primary stress

Voiced labial-velar approximant

Alveolar lateral flap

Secondary stress

Simultaneous

Long

Voiced labial-palatal approximant Voiceless epiglottal fricative Voiced epiglottal fricative

and

Affricates and double articulations can be represented by two symbols joined by a tie bar if necessary

Half-long Extra-short

Epiglottal plosive

Syllable break Minor (foot) group

DIACRITICS Diacritics may be placed above a symbol with a descender, e.g. Voiceless

Breathy voiced

Dental

Voiced

Creaky voiced

Apical

Aspirated

Linguolabial

Laminal

More rounded

Labialized

Nasalized

Less rounded

Palatalized

Nasal release

Advanced

Velarized

Lateral relase

Major (intonation) group Linking (absence of a break)

TONES AND WORD ACCENTS LEVEL CONTOUR or

Retracted Centralized Mid-centralized Syllabic Non-syllabic Rhoticity

Pharyngealized

Extra High

or

Rising

High

Falling

Mid

High rising

Low

Low rising

Extra low

Raising-falling etc.

Downstep

Global rise

Upstep

Global fall

No audible release

Velarized or pharingealealized Raised Lowered

( (

= voiced alveolar fricative) = voiced bilabial approximant)

Advanced Tongue Root Retracted Tongue Root

Fig. 1. L’alfabeto fonetico IPA, nella versione 1996 (adattata dal «Journal International Phonetic Association», 1996).

1. Fonetica: le strutture e i processi

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dell’articolazione, sono stati proposti altri tipi di descrizioni dei suoni, nelle intenzioni meno classificatorie e più attente alla dinamica reale dell’articolazione. In realtà, anche in questo caso, ciò che si descrive è il segmento, o qualcosa che unisce più segmenti, anche se inteso in termini più autonomi da una pre-classificazione linguistica. Laver (1994) dedica diversi capitoli agli aspetti dinamici dell’articolazione, di cui diamo qui di seguito una sintesi limitata ai punti salienti. In primo luogo, ogni articolazione si realizza attraverso una dinamica analizzabile in almeno tre fasi: una fase di onset (o attacco), in cui gli organi articolatori iniziano il movimento verso il loro target (o bersaglio articolatorio); una fase mediana di tenuta, in cui il bersaglio viene raggiunto o almeno approssimato; una fase di offset (o rilascio), in cui si assiste ad un movimento di ritorno alla posizione di inerzia o di transizione verso una successiva articolazione. Alcune articolazioni mancano o hanno una notevole riduzione della fase mediana (segmenti transizionali). In secondo luogo, un segmento può essere prodotto con movimenti simultanei che riguardano più di un luogo e diversi gradi di costrizione (per esempio un’occlusione labio-velare): si parla, in questi casi, di doppie articolazioni o articolazioni multiple, in cui è presente una costrizione primaria ed altre secondarie. Questi termini vengono utilizzati anche per riferirsi a modificazioni di un’articolazione sotto l’influsso di segmenti adiacenti: si hanno così segmenti velarizzati, labializzati, palatalizzati, laringalizzati, ecc. (quando la modificazione è del luogo di articolazione), o retroflessi, nasalizzati, ecc. (quando la modificazione riguarda il modo di articolazione). Nel parlato continuo, soprattutto veloce, le fasi articolatorie sono spesso sovrapposte. Per questo tipo di produzione si parla di relazioni coordinatorie (o strutture coordinative) che si verificano all’interno di un setting articolatorio definito come una configurazione articolatoria dinamica, coinvolta nella realizzazione di più segmenti adiacenti che condividono alcuni tratti (Laver 1994). Questo modello di descrizione è alla base delle più recenti teorie dell’articolazione e della coarticolazione (cfr. § 3), che costituiscono il settore della fonetica in cui si sono concentrati maggiormente gli sforzi modellistici e teorici.

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labiale

dentale alveolo-dentale alveolare palato-alveolare alveololo palatale palatale velare uvulare faringale epiglottale glottale

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Il linguaggio. Strutture linguistiche e processi cognitivi Dislocata

linguo-labiale labio-dentale interdentale lamino-dentale

apico-alveolare

Doppia labiale alveolare labiale palatale labiale velare

Secondaria

labiale alveolare

labiale palatale labiale velare

Tab. 3. Parametri acustici parametro

labializzata

palatalizzata velarizzata

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1. Fonetica: le strutture e i processi

descrizione

unità di misura

l’inverso del periodo di oscillazione della sorfrequenza fondamentale (f0) gente (1/T), indica il numero di cicli di oscillazione nell’unità di tempo (sec.) e corrisponde alla frequenza della prima componente armonica del segnale periodico

Hz = Hertz (n° cicli/sec.)

intensità (I)

pressione sonora per unità di superficie, determinata dall’ampiezza massima del movimento oscillatorio

dB = Decibel (unità relativa)

frequenza formantica (F1, F2, Fn...)

frequenza centrale (o di taglio) di ognuna delle risonanze o antirisonanze del segnale periodico

Hz = Hertz

faringalizzata laringalizzata

Fig. 2. Luoghi di articolazione neutri e modificati (adattata da Laver 1994, p. 139).

2.2. Fonetica acustica 2.2.1. I principi del suono e l’analisi dei segnali I suoni vocali si configurano come onde sonore complesse, analizzabili e scomponibili in una serie di componenti semplici. Il segnale vocale può essere periodico (o quasi-periodico), quando è generato da una sorgente elastica (le pliche vocali), o aperiodico, se generato da sorgenti sopraglottidali (collocate in qualche punto del cavo orale), solitamente definito rumore. Il segnale acustico generato dalla sorgente (periodica o aperiodica) viene modificato nella sua struttura dall’azione di risuonatori costituiti dalle varie configurazioni assunte dal cavo orale attraverso il posizionamento degli organi articolatori: ogni configurazione funziona da «cassa di risonanza» con una sua specifica risposta al segnale d’ingresso. I segnali linguistici vengono solitamente descritti attraverso un insieme di parametri5: 5 Non si tratta di tutti i parametri acustici utilizzati nell’analisi dei segnali (per i quali si possono consultare manuali basilari di fisica acustica), ma solo di quelli maggiormente in uso nelle descrizioni fonetico-acustiche.

La durata temporale è un altro parametro di cui ci si serve nelle misure acustiche, ma esso non è proprio e costitutivo del segnale, quanto della sua suddivisione in unità linguistiche. 2.2.2. Le classificazioni della fonetica acustica Le descrizioni fonetico-acustiche dei suoni linguistici sono finalizzate, in prima istanza, all’individuazione nel segnale di regolarità dei parametri fisici che possano essere messi in corrispondenza con tratti articolatori e con differenze che operino a livello fonologico. I foni consonantici si distinguono in due classi: quella a struttura di rumore e quella a struttura formantica. Della prima fanno parte i foni costrittivi (occlusivi, fricativi, affricati). Alla seconda appartengono le consonanti a costrizione minima o parziale (laterali, approssimanti, nasali). Queste sono tutte sonore e presentano componenti armoniche con risonanze (gruppi di armoniche amplificate dal risuonatore) e antirisonanze (gruppi di armoniche smorzate o annullate dal risuonatore), la cui posizione in frequenza dipende dal luogo di articolazione. I foni vocalici sono caratterizzati da strutture formantiche (risonanze) ben definite e di intensità elevata (maggiore per quelli più aperti, minore per quelli alti e chiusi, prodotti con maggior grado di costrizione). Le differenze tra le vocali (differenze timbriche) sono da individuare nel diverso posizionamento relativo in frequenza delle formanti. La frequenza delle prime due formanti, F1 ed F2, è infatti funzione rispettivamente dei parametri articolatori di altezza e longitudinalità.

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Fig. 3. Spettrogrammi delle vocali italiane.

Fig. 4. Andamenti transizionali nella parola «guinzaglio».

Anche questo tipo di descrizione prende le mosse da una tassonomia fonemica data a priori: ciò che si descrive, in prima istanza, sono caratteristiche fisiche di classi di suoni distinti a livello di sistema linguistico e identificati prima di tutto su un piano articolatorio. Esistono classificazioni dei suoni vocali più puramente acustiche, basate sull’individuazione di microsegmenti dell’onda sonora che presentano alcune caratteristiche relazionabili a parametri articolatori, secondo la teoria acustica di produzione del suono (Fant 1960).

dividuazione di un confine tra unità. La presenza di nasalità (o nasalizzazione) è poi uno dei fenomeni coarticolatori più pervasivi (cfr. § 3), che si manifesta con un’estensione temporale variabile, ma piuttosto ampia, modificando le strutture formantiche della sequenza con la sovrapposizione di risonanze ed antirisonanze aggiuntive. L’altro punto critico della descrizione acustica dei suoni emerge dall’osservazione dell’estrema variabilità della sostanza fonica che molto spesso rende difficile l’individuazione immediata di regolarità dei parametri fisici. Tale variabilità può essere inter-segmentale o intra-segmentale. La prima comprende i fenomeni coarticolatori ed è in qualche misura predicibile. La seconda riguarda, invece, da un lato le variazioni intersoggettive nella produzione, legate a caratteristiche extralinguistiche e sociolinguistiche (quali sesso, età, tratti idiosincratici del parlante), dall’altro le variazioni, anche da parte di uno stesso parlante, dipendenti da fattori situazionali, comunicativi o del tutto aleatori. Infine, una fonte di variabilità tutta interna al piano fonetico, e che ancora una volta richiede la valutazione di parametri relativi, è quella condizionata da fattori prosodici (cfr. § 2.4).

2.2.3. Il «continuum» acustico, la segmentazione e la variabilità acustica Ciò che appare nella rappresentazione spettroacustica di una stringa di parlato è un segnale ininterrotto nel suo sviluppo temporale, all’interno del quale non sono facilmente e immediatamente identificabili unità o microsegmenti corrispondenti alle unità della lingua in base a caratteristiche certe e stabili. La fonetica acustica, fin dai suoi esordi, ha quindi messo in crisi il concetto stesso di segmento, inteso come somma di tratti univoci e compresenti, e di linearità nella disposizione delle unità foniche. Gli esempi sono innumerevoli. Basti pensare alla definizione che, sul piano acustico, Ladefoged (2001, p. 47) dà delle produzioni consonantiche in generale: «most consonants are just ways of beginning or ending vowels». Le consonanti, infatti, non sono determinate unicamente dalle proprietà di distribuzione spettrale del rumore, ma anche (e a volte soprattutto) dagli andamenti delle transizioni formantiche delle porzioni vocaliche adiacenti. Casi ancora più evidenti riguardano le sequenze contenenti più elementi vocalici consecutivi, dittonghi, o articolazioni nasali: le strutture formantiche sono in questo caso costituite interamente da zone transizionali, senza soluzione di continuità che giustifichi l’in-

2.3. Fonetica uditiva e percettiva 2.3.1. I principi fisiologici del meccanismo uditivo e i fondamenti psicoacustici Il sistema uditivo è strutturato in moduli funzionali per ricevere e pre-elaborare il suono. Le porzioni più esterne dell’apparato uditivo, l’orecchio esterno e l’orecchio medio, si limitano a convogliare le onde sonore verso l’organo di trasduzione vero e proprio, l’orecchio interno: questo converte le vibrazioni meccaniche in segnali elettrici che giungono, attraverso il nervo acustico, come impulsi neurali fino alle aree primarie dell’udito presenti nelle cortecce dei due emisferi cerebrali.

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Le risposte sensoriali del sistema uditivo agli stimoli acustici vengono studiate attraverso le leggi della psicoacustica: le capacità predittive di queste leggi sono limitate ad un ambito probabilistico e sono valide soltanto all’interno di rigorosi approcci metodologici. In breve, a partire da stimoli sonori semplici (toni puri), si richiedono agli ascoltatori alcune valutazioni soggettive, come: a) l’individuazione della soglia minima di ricezione dello stimolo; b) la stima assoluta del valore di una data grandezza acustica all’interno dello stimolo sonoro; c) la valutazione delle differenze tra stimoli sonori simili, ma non uguali. In questo modo vengono identificati: a) il campo di udibilità, cioè l’insieme dei suoni udibili dall’orecchio umano compresi tra soglie di frequenza e intensità; b) le relazioni tra tali grandezze fisiche e le corrispondenti sensazioni uditive (rispettivamente pitch o altezza, loudness o forza); c) la soglia differenziale, cioè la soglia di minima rilevazione delle differenze tra due stimoli. 2.3.2. Le classificazioni uditivo-percettive dei suoni I paradigmi della psicoacustica prevedono due tipi di test, comunemente denominati «test percettivi» (Uguzzoni 1990). I test di identificazione richiedono che l’ascoltatore associ ad uno stimolo sonoro una etichetta descrittiva, scelta all’interno di un insieme limitato (closed set) o non limitato (open set) di possibili opzioni. I test di discriminazione servono a verificare sotto quali condizioni acustiche coppie di stimoli relativamente simili fra di loro sono riconosciuti come uguali o differenti: le risposte dell’ascoltatore sono impiegate per determinare la minima differenza acustica in grado di garantire la distinguibilità relativa dei due stimoli presentati nella coppia. Nei test psicoacustici si utilizzano, di norma, stimoli sintetizzati, in cui un solo indice per volta o un’associazione controllata di indici acustici vengono variati in modo quantitativamente predeterminato e organizzati in una serie che riproduce un continuum fonetico di rilevanza fonologica (per esempio, un passaggio graduale da una vocale all’altra o da una consonante occlusiva bilabiale ad una dentale). In tal modo è possibile studiare come un continuum fonetico venga segmentato in base alle categorie fonologiche di una determinata lingua, e quale sia il parametro acustico che funziona da indice di discriminazione. Facendo appello al sistema fonologico, i risultati di questi test sono ovviamente linguo-specifici. I test di identificazione sono usati pure per convalidare le ipotesi fatte sul piano acustico e soprattutto articolatorio: essi tentano di

1. Fonetica: le strutture e i processi

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dimostrare, infatti, che le classificazioni acustiche e articolatorie hanno un valore predittivo intrinseco perché corrispondenti a distinzioni uditivo-percettive. Resta il fatto che, anche in questo caso, ciò che è distintivo percettivamente per un parlante di una lingua, non lo è necessariamente per il parlante di un’altra lingua: per esempio, la distinzione tra una fricativa alveolare [s] e una prepalatale [∫ ] dà risultati interpretabili con uditori inglesi (o italiani), ma non con ascoltatori olandesi, che non posseggono questa distinzione nel sistema fonologico (Fry 1976)6. I test di discriminazione, inoltre, hanno dimostrato che per alcuni suoni linguistici la percezione è categorica mentre per altri è continua. Si parla di percezione categorica quando il risultato di un test di discriminazione, effettuato su un insieme di stimoli sonori disposti lungo un continuum determinato dai valori che assume un dato parametro acustico, mostra sistematicamente picchi di massima prestazione in coincidenza di confini categoriali (per esempio di fonema): in questo modo funziona, ad esempio, la percezione delle differenze consonantiche. Si parla, invece, di percezione continua nel caso di suoni per i quali il potere discriminativo non risulta mai alterato dalla posizione della coppia nel continuum, e per i quali le prestazioni degli ascoltatori non presentano praticamente mai incertezze (massima discriminazione): è continua, ad esempio, la percezione delle differenze vocaliche. I risultati di una serie di test su stimoli linguistici hanno evidenziato una scala di categoricità costituita, in ordine decrescente, da foni occlusivi, nasali, liquidi, semivocali, fricativi, vocali (Uguzzoni 1990). 2.4. Fonetica soprasegmentale Il termine soprasegmentale viene normalmente e specificamente impiegato per riferirsi agli aspetti prosodici del parlato, che comprendono i due piani ritmico-temporale e intonativo-melodico, in cui si realizza una stretta e complessa interazione tra articolazione, acustica e percezione della voce (si veda il capitolo di Marotta in questo volume). 6 Va ricordato, inoltre, che l’intera metodologia dei test descritti è basata su una pre-classificazione che influenza necessariamente (soprattutto nei test a risposta chiusa) le scelte e le risposte del soggetto, forzandolo a identificare categorie nella batteria di stimoli di natura continua (Cutugno e Savy 1995).

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Il piano ritmico è dato dalla dinamica di interazione nel tempo di elementi prominenti e meno prominenti nella stringa fonetica, mentre il piano intonativo è costituito dalle variazioni di pitch (variazioni melodiche) e loudness (variazioni intensive). Non si può descrivere lo stato dell’arte degli studi prosodici, che costituiscono un settore di ricerca immenso e che ha avuto enorme fortuna, soprattutto negli ultimi trent’anni, con l’esplosione delle descrizioni delle lingue europee e delle lingue tonali; ci si limiterà, pertanto, ad una presentazione dei principali parametri, unità e fenomeni pertinenti. 2.4.1. Parametri e unità L’analisi fonetico-prosodica si fonda sul rilevamento di variazioni e non di costanti attraverso la misurazione di parametri che hanno la caratteristica della relatività. Sono infatti pertinenti, sul piano temporale, le variazioni di durata dei segmenti, sul piano intonativo, oltre che i valori di altezza (f0) e intensità (I), i loro andamenti (sotto forma di curve) nel tempo. I tre parametri cooccorrono nel segnalare le unità e le parti prominenti a diversi livelli nella stringa fonetica, ma la definizione di prominenza si basa necessariamente su un raffronto comparativo tra elementi. Inoltre, i valori assoluti di durata, f0 e I devono anche essere valutati in relazione a valori medi del range e delle abitudini del parlante e del registro utilizzato in una determinata situazione. Nel quadro di tale relatività assume particolare rilievo la definizione delle unità di analisi prosodica; anche in questo caso si pone il problema del rapporto tra continuità fonica e discretezza linguistica. L’unità di base del ritmo è la sillaba, categoria linguistica funzionale che possiede un suo statuto a livello intuitivo e percettivo. Una panoramica delle definizioni di sillaba rivela una sua caratterizzazione sia come gruppo motorio che come gruppo acustico (Cutugno et al. 2001). La sillaba viene definita, tanto sul piano fonetico che fonologico (si veda il capitolo di Marotta in questo volume), come un agglomerato di elementi fonici intorno ad un picco di sonorità o intensità (il nucleo, di norma vocalico). L’unità d’analisi dell’intonazione è una porzione di stringa denominata generalmente, Unità Tonale (Tone Unit - TU), o Sintagma Intonativo (Intonational Phrase). In molti approcci (Halliday 1976), essa è definita come un’unità melodica che demarca blocchi informativi del messaggio; in altri, di stampo generativo (Beckman e Pierrehumbert 1986), corrisponde a un costituente della gerarchia fo-

1. Fonetica: le strutture e i processi

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nologica. Sul piano strettamente fonetico la TU è identificabile attraverso una serie di marche di confine (boundary markers: presenza di pause nel flusso della catena fonica, andamento calante dei parametri di f0 e I (declination intonativa), allungamento dell’ultima sillaba tonica (prepausal lenghtening). La suddivisione tra piano ritmico e intonativo ha valore solo descrittivo; sillaba e TU hanno infatti pertinenza per entrambi i piani e costituiscono, piuttosto che unità di costruzione, domini di fenomeni prosodici. 2.4.2. Fenomeni prosodici L’analisi ritmica consiste nell’individuazione delle alternanze tra sillabe forti e sillabe deboli all’interno di una stringa. L’elemento che determina la prominenza o la forza di una sillaba è l’accento, foneticamente determinato da aumento di intensità, aumento di durata, variazione significativa di f0 rispetto agli elementi adiacenti. Nelle lingue cosiddette ad accento dinamico o intensivo i primi due parametri costituiscono i correlati acustici più stabili dell’accento lessicale (stress)7, mentre nelle lingue tonali sono le variazioni di f0 ad avere maggiore significatività. La posizione e la sequenza di accenti lessicali danno luogo al contorno ritmico di un enunciato. Gli studi fonetici sul ritmo hanno ricevuto in generale scarsa attenzione e sono stati incentrati essenzialmente sul tema dell’isocronia, cioè sull’individuazione di regolarità temporali tra porzioni della stringa; la distinzione tra lingue ad isocronia sillabica (durata media sillabica costante) e lingue ad isocronia accentuale (durata media costante degli intervalli accentuali), sebbene ormai decisamente ridimensionata, ha avuto seguito in una serie di studi specifici volti a determinare la differenza ritmica percepibile tra le lingue (Bertinetto e Magno Caldognetto 1993; Ramus et al. 1999). Di gran lunga più numerosi sono gli studi fonetici dell’intonazione, cioè dei patterns melodici o tonali determinati dall’andamento della curva di f0 all’interno di unità intonative. Anche in questo caso si individuano zone di prominenza prosodica sulla base della presenza di accenti tonali (pitch accents), identificabili con accenti di frase, accenti d’enfasi o focus. Gli accenti tonali sono foneticamente 7 Il termine inglese stress contrapposto ad accent dà conto della differenza tra accenti lessicali e accenti di frase o tonali (cfr. oltre).

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realizzati su elementi sillabici attraverso variazioni significative di f0 (positive o negative) rispetto all’andamento medio (baseline) e al contorno locale: ciò che conta è dunque, ancora una volta, non il valore assoluto di f0, quanto la presenza e l’entità di un movimento relativo. L’analisi intonativa ha ricevuto grande impulso dallo sviluppo, in ambito fonologico, della teoria autosegmentale dell’intonazione (per la quale si rimanda al capitolo di Marotta in questo volume), che ha incanalato gli sforzi modellistici verso l’individuazione di categorie fonologiche discrete e distintive (i toni accentuali) con valore funzionale (Marotta 2003). 2.4.3. Funzioni prosodiche Più di qualunque altro settore della teoria fonetica, il campo degli studi prosodici è quello che maggiormente mette in crisi l’idea di una fonetica pura e dura, separata dagli altri livelli della linguistica. L’aspetto più affascinante degli studi consiste, infatti, nell’individuazione e nell’analisi delle funzioni linguistiche (oltre che paralinguistiche) della prosodia, in particolar modo dell’intonazione. Da sempre è stato sottolineato il rapporto tra organizzazione prosodica e strutturazione informativa degli enunciati: la stessa definizione di Unità Tonale come blocco informativo si basa sul presupposto che essa consista in un’unità di pianificazione del discorso. Un aspetto dell’intonazione che continua a suscitare l’interesse di molti studi è il rapporto tra prosodia e sintassi: pur rifiutando l’idea di un isomorfismo tra i due livelli della grammatica, si è cercato di volta in volta di definire il dominio sintattico dei fenomeni intonativi e di stabilire correlazioni e co-estensività più probabili con alcune strutture (come quella di clausola). Si riconoscono dunque funzioni testuali (di marcatura di elementi salienti, di informazione data e nuova, di focus, ecc.) e grammaticali (di espressione di contrasti sistematici come quelli tra modalità, per esempio dichiarativa e interrogativa) tanto alla suddivisione della catena fonica in unità intonative quanto alla loro strutturazione melodica interna. Infine, di particolare rilievo è il rapporto diretto tra struttura intonativa e piano della significazione, sia sul versante semantico che pragmatico. Tutto ciò fa della prosodia un livello privilegiato di interfaccia tra il piano del contenuto, i livelli di struttura grammaticale e la realizzazione fonica del messaggio linguistico.

1. Fonetica: le strutture e i processi

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3. Coarticolazione e processi fonetici Come sottolinea Marotta (2003, p. 3) la coarticolazione costituisce un «aspetto costante e assai pervasivo della produzione linguistica», prodotto di processi dinamici di intersezione e sovrapposizione spazio-temporale di articolazioni: la causa primaria di tali sovrapposizioni risiede nell’interazione tra i meccanismi centrali, che inviano comandi neuromotori, operando in parallelo, e il principio fisiologico di inerzia degli organi articolatori preposti all’esecuzione. Si fa spesso riferimento alla coarticolazione come ad un processo fonetico di influenza reciproca esercitata da un elemento articolatorio sul contesto e dal contesto sull’elemento, descrivendola quindi come fenomeno di adattamento oppure come estensione di tratti articolatori e acustici tra le unità. In questa definizione rientrano, in prima istanza, tanto i fenomeni di variazione allofonica (grammaticalizzata e lessicalizzata, cfr. Albano Leoni e Maturi 1998; per esempio la sonorizzazione di /s/ in [z] davanti a consonante sonora) quanto i processi di assimilazione largamente trattati dalla fonetica storica tradizionale (cfr. Marotta 2003, per esempio l’assimilazione di nessi consonantici -ct- in -tt-, nel passaggio dal latino all’italiano), cui si aggiungono molti altri fenomeni di variabilità contestuale. Nei modelli della coarticolazione (una sintesi critica è in Farnetani e Recasens 1999) emergono, tuttavia, divergenze teoriche su quali tra i fenomeni del parlato connesso rientrino nel dominio coarticolatorio, e conseguentemente sulla definizione stessa della natura del fenomeno, del livello a cui si manifesta, della sua funzione e degli effetti sul piano della comunicazione. Anche in questo caso il problema si pone nel rapporto tra piano fonetico e fonologico: l’obiettivo comune delle teorie della coarticolazione risiede nel tentativo di colmare la distanza tra le unità discrete del piano fonologico astratto e la realizzazione fonica concreta, attraverso modelli predittivi della variabilità acustica e articolatoria. Secondo le teorie di traslazione (o temporizzazione estrinseca), le unità di input del processo articolatorio sono le unità segmentali della linguistica tradizionale, non specificate nella loro dimensione temporale, che vengono tradotte nella catena fonica mediante processi di regolazione temporale e sincronizzazione. Uno dei modelli più conosciuti è quello della Adaptive Variability sviluppato da Lindblom (1983, 1990).

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livello fonologico-lessicale valori del tratto [± alto]

risultato della regola fonologica di riempimento

V

C

V

V

C

V

+ –

0 0

+ +

– +

0 0

– –

+ –

+ +

+ +

– +

+ +

– –

risultato della regola fonetica di implementazione ex: C=/s/

risultato della regola fonologica di contesto

gesto articolatorio

1

2

dominio di anticipo del gesto 2

3

dominio di posticipo del gesto 2 tempo

+ –

+ +

+ +

– +

0 0

– –

risultato della regola fonetica di implementazione ex: C=/x/ (in russo)

C resta non specificata

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1. Fonetica: le strutture e i processi

prominenza del gesto

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+ –

0 0

+ +

– +

0 0

– –

risultato della regola fonetica di implementazione ex: C=/h/

Fig. 5. Modello «a finestra» di Keating (adattata da Farnetani e Recasens 1999, p. 47).

I modelli ispirati a fonologie di matrice generativa (Feature-spreading Theory, Daniloff e Hammarberg 1973; Look-ahead model, Henke 1966) pongono il processo coarticolatorio non a livello di realizzazione fonetica, ma a livello di pianificazione, attribuendo la variabilità al dominio di competenza fonologica: le unità di input, definite in termini di tratti fonologici (si veda il capitolo di Marotta in questo volume), risultano modificate prima che il comando motorio le traduca in meccanismo articolatorio, da un’espansione di tratti di un segmento a segmenti adiacenti non specificati per quegli stessi tratti. Nel modello «a finestra» (Window model, Keating 1990), infine, si introduce una relazione tra piano fonologico e fonetico con l’introduzione di un livello intermedio di rappresentazione: i segmenti astratti, specificati o meno per tratti, sono convertiti da regole fonologiche in configurazioni spazio-temporali (target) dinamiche e va-

Fig. 6. Gesto articolatorio e sovrapposizioni (adattata da Farnetani e Recasens 1999, p. 52).

riabili, associate ad una finestra di valori, più o meno ampia a seconda del grado di specificazione di un tratto. Le teorie di coproduzione (dette anche di temporizzazione intrinseca o dell’azione, Fowler 1979; Fowler e Saltzman 1993), invece, ispirate alla fonologia articolatoria (Browman e Goldstein 1992), si distinguono dalle precedenti perché considerano come unità di input azioni o gesti articolatori dinamici, specificati anche temporalmente già a livello fonologico-astratto: i gesti sono strutture coordinative pianificate (cfr. anche § 2.1.3), funzionali di per sé al raggiungimento di una meta, che non vengono modificate nella realizzazione. Per finire, nel peso sempre maggiore attribuito alle strutture prosodiche come fattore di organizzazione del parlato, rientrano anche alcuni approcci alla coarticolazione, sia nel definire l’unità sillabica come dominio di alcuni fenomeni coarticolatori (Altmann 1997), sia nel considerare come determinanti o inibenti fattori quali la posizione dell’accento o i confini di unità prosodiche. 4. I rapporti fra le tre fonetiche Un punto centrale della teoria fonetica è lo studio dell’interazione fra i livelli considerati per esplicitare un piano di corrispondenze che renda predicibile il processo di decodifica. In quest’ottica una teoria fonetica consiste nel descrivere e predire come una determinata realizzazione articolatoria è resa acusticamente, e quali sono i parametri acustici che vengono utilizzati dal sistema uditivo e percettivo per decodificare il suono e risalire all’entità astratta che rappresen-

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ta; in linee più generali, ciò significa osservare come il significante si sostanzia e come dalla sostanza del suono si risale alla forma del significante. In questo rapporto si esplica il ruolo della fonetica come scienza del linguaggio a tutti gli effetti. Due appaiono gli aspetti centrali. Il primo può essere illustrato prendendo spunto dall’approccio «antropofonico» (cfr. § 2.1.2) alla descrizione dei suoni linguistici suggerito da Lindblom, il quale nota che rispetto alle potenzialità fisiologiche dell’apparato, il range complessivo dei gesti articolatori mostra un deciso sottoimpiego (Lindblom 1983). La domanda è: perché alcuni suoni, alcune articolazioni sono largamente utilizzati ed altri no? La risposta fa riferimento da un lato a fattori fisiologici, dall’altro a vincoli linguistico-comunicativi (Laver 1994). Ci sono, in sostanza, tre posizioni prevalenti che pongono in evidenza una perfetta integrazione del sistema e del suo funzionamento. La prima (che sottosta ad alcune teorie come la Quantal Theory di Stevens 1989) mette in relazione diretta i tre livelli sul piano della stabilità (perceptual stability): i suoni più frequenti sono quelli che risultano prodotti in zone articolatorie stabili, e che danno luogo a plateau acustici all’interno dei quali le minime differenziazioni non sono percettivamente apprezzabili. La seconda si basa su un principio di adeguata e sufficiente distintività percettiva: si producono suoni che garantiscano la massima distinguibilità perché il sistema percettivo ha precedenza su quello produttivo. La terza è la cosiddetta prospettiva ecologica di Lindblom (1983), in cui requisiti articolatori come quello di economia (il sistema motorio, in assenza di necessità particolari, tende a compiere il minimo sforzo possibile) e di plasticità (il sistema si adatta a raggiungere il bersaglio articolatorio in ogni condizione) concorrono con constraints percettivi. I tre principi determinano un nucleo di suoni statisticamente più presenti nelle lingue del mondo, che costituiscono una sorta di universali fonetici (Ohala 1979; Lindblom 1986; Lindblom e Maddieson 1988). L’altro aspetto, sostanzialmente non lontano dal primo, che coinvolge il rapporto tra il versante articolatorio, acustico e percettivo, riguarda il modo in cui si riesce a risalire dalla infinita variabilità delle realizzazioni alle invarianti astratte: la soluzione a tale questione è argomento di studi e teorie di percezione fonetica, cui possiamo solo brevemente accennare in questa sede.

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5. Fonetica e percezione Le teorie di percezione che affrontano il versante cognitivo del processo di ricezione fonica devono necessariamente confrontarsi con le produzioni reali ipoarticolate e variabili. In termini ristretti, esse devono spiegare come, a partire dalle differenze acustiche, suoni diversi vengono riconosciuti come foneticamente equivalenti (e quindi realizzazione di una categoria fonologica). In termini più ampi, esse devono spiegare come e se la ricostruzione del messaggio linguistico avvenga a partire dalla percezione e riconoscimento delle singole unità fonetiche. Le teorie di percezione si rifanno a modelli di tipo bottom-up (dal basso verso l’alto, dal piccolo al grande) o di tipo top-down (dall’alto verso il basso, dal grande al piccolo). I modelli di primo tipo vedono il processo percettivo partire dal segnale acustico e dal riconoscimento delle unità più piccole successivamente aggregate a formare unità sempre più grandi; il significato globale del messaggio viene ricostruito attraverso la componenzialità dei significati. Nei modelli del secondo tipo, viceversa, la conoscenza parte da domini superiori e da macrounità percettive (Albano Leoni 1998), cui viene associato un significato globale, confrontato poi e definito con quello di unità di livello via via inferiore. La maggioranza dei modelli di percezione fonetica è per lo più incentrata su processi di tipo bottom-up, sebbene una componente top-down sia più o meno esplicitamente presente in ciascuno di essi con peso variabile. Ciò implica necessariamente il riconoscimento di invarianti di «livello basso», identificate variamente a livello di pattern articolatorio o di segnale acustico. Le teorie articolatorie (Motor Theory, Liberman e Mattingly 1985; Direct Realism, Fowler 1986; fino ai più recenti modelli di Action Theory e Articulatory Phonology citati nel § 3) si basano sul presupposto che tra articolazione e percezione ci sia un rapporto diretto che in qualche modo trascende la materialità del segnale fisico. Parlante e ascoltatore utilizzano le stesse categorie: l’invarianza è, dunque, nel comando neuromotorio, sottostante il gesto articolatorio, che l’ascoltatore ricostruisce con una copia a livello del suo sistema nervoso. Nelle teorie acustiche (Analysis by Synthesis, Stevens 1996; Quantal Theory, Stevens 1989) si sostiene che l’ascoltatore decodifica il segnale acustico (analysis) generando un pattern interno (sempre nel sistema sensoriale, periferico) di confronto (synthesis): la comparazione avviene a livello neuroacustico e l’invariante è co-

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stituita da una matrice di segmenti fonetici e di tratti distintivi esplicitamente definiti su base spettrale. Nelle cosiddette teorie passive tratti distintivi estrapolati dal segnale vengono direttamente elaborati da un’analisi uditiva periferica (Auditory Theory, Fant 1967) o messe a confronto con rappresentazioni prototipiche immagazzinate in memoria (Fuzzy Logic, Massaro e Oden 1980). La teoria cosiddetta H&H (Lindblom 1990, 1996), basata sul concetto di variabilità adattiva (cfr. § 3), considera la ricerca di invarianti effetto di una sovrastima dell’informazione presente nel segnale: il processo di percezione è un processo dinamico di integrazione di informazione interna ed esterna al segnale e soprattutto interattivo con vari livelli di conoscenza e di esperienza dell’ascoltatore. Il problema dell’invarianza viene superato attribuendo meno rilievo al segnale, e non si pone il problema della sua segmentazione, semplicemente perché essa non viene assunta come base della decodifica del messaggio, per lo meno non ai livelli più bassi del processo. In questa visione si attua un vero e proprio superamento dell’ottica fonetica verso un modello integrato di comunicazione. 6. Conclusioni Il quadro fin troppo sintetico della fonetica delineato in queste pagine, pur avendo tralasciato molti aspetti d’interesse, può essere sufficiente a mostrarne la natura di disciplina di confine che copre un ampio dominio di interazioni: nei suoi fondamenti essa ha a che fare con la fisiologia, l’acustica, la psicoacustica, la psicologia; all’interno della teoria linguistica dialoga necessariamente con il piano fonologico in primo luogo, ma anche morfologico, sintattico, semantico, pragmatico, attraverso l’interfaccia affidata alla dimensione prosodica. In quest’ottica, una teoria fonetica autonoma non è forse un obiettivo possibile né da perseguire. Sebbene a livello descrittivo possa rimanere utile una rigida separazione tra livelli d’analisi, ciò non deve far perdere di vista la complessità di un quadro costituito da infinite relazioni e condizionato da diversi fattori. Proprio quei settori meno strutturati, come la fonetica (o la pragmatica), tradizionalmente trascurati dalla linguistica teorica perché non facilmente sistematizzabili, mostrano l’importanza di un approccio multidisciplinare e di teorie basate sul reticolo: le sovrapposizioni rilevabili tra le aree altro non sono, infatti, che il palesamento della struttura multilivello e integrata della facoltà di linguaggio.

2.

Ortografia di Alessandro Laudanna

1. Introduzione La capacità umana di elaborare informazioni sul linguaggio scritto è un’acquisizione relativamente recente dal punto di vista evoluzionistico: il linguaggio scritto è una proto-tecnologia o, se si preferisce, una «invenzione» della nostra specie, che risale a non molto più di 5000 anni or sono (i primi sistemi di scrittura cuneiformi emersero probabilmente solo intorno alla fine del quarto millennio avanti Cristo). Il linguaggio orale, invece, si è sviluppato durante la storia naturale della specie homo sapiens, presumibilmente grazie alla convergenza di diverse pressioni evolutive e di un insieme di modificazioni biologiche (stazione eretta, lateralizzazione cerebrale, modificazione del tratto vocale, ecc.) che sono venute a compimento nell’arco di centinaia di migliaia di anni. È anche – o forse principalmente – da questa storia evolutiva assai differente che deriva una conseguenza importante dal punto di vista cognitivo: i processi di elaborazione delle lingue scritte, che permettono di leggere e scrivere a una parte sempre più estesa di esseri umani, sono basati su meccanismi e rappresentazioni solo in parte coincidenti con quelli che sostengono la conoscenza e l’uso delle lingue parlate (Laudanna 2004). In primo luogo, sono sensibilmente diversi i meccanismi di apprendimento. I processi di elaborazione del linguaggio orale si servono di dispositivi neurali specializzati e di predisposizioni biologiche universali; per questo, anche con un grado di stimolazione non ottimale, essi si evolvono in tutti gli individui precocemente, nello stesso arco di tempo critico, attraverso tappe di maturazione simili e, in gran parte, grazie a un apprendimento non volontario. Al con-

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trario, i processi di elaborazione delle lingue scritte, che ci permettono di svolgere i compiti di lettura e scrittura, non si sviluppano che a partire dall’età scolare attraverso un apprendimento esplicito; essi inoltre non sono universali ma appartengono, a tutt’oggi, solo a una parte della popolazione. Queste palesi diversità evolutive tra lo scritto e il parlato potrebbero già giustificare in un volume come questo la presenza di un capitolo dedicato all’elaborazione del linguaggio scritto e fanno capire perché abitualmente, da un punto di vista cognitivo, tale elaborazione venga studiata separatamente rispetto ai processi di produzione e comprensione del parlato. Da un punto di vista psicologico, tuttavia, le differenze tra elaborazione del linguaggio parlato e del linguaggio scritto non sono solo quelle filogenetiche e ontogenetiche cui abbiamo accennato finora. In secondo luogo, sono diversi i canali sensoriali e motori e i codici nei quali le due forme di linguaggio si dispiegano: il linguaggio orale utilizza la modalità fonico-uditiva, nella quale sono impegnati l’apparato articolatorio e il sistema uditivo; il linguaggio scritto utilizza la modalità grafico-visiva, che investe il sistema motorio manuale e l’apparato visivo. In terzo luogo, i processi di elaborazione della lingua scritta dipendono maggiormente dal tipo di input al quale gli utenti sono esposti, dal tipo di lingua scritta e dal tipo di corrispondenza che essa intrattiene con la lingua parlata. Per questa ragione, come vedremo nel paragrafo seguente, è rilevante distinguere i diversi tipi di lingua scritta, non solo a scopo meramente descrittivo, ma anche al fine di guidare le ipotesi teoriche sull’elaborazione cognitiva delle parole scritte, in comprensione così come in produzione. Infine, è diverso il corso temporale delle attività di elaborazione del linguaggio scritto: quando scriviamo o leggiamo, abbiamo a disposizione molto più tempo di quando parliamo o comprendiamo il linguaggio parlato; queste ultime attività sono quindi più automatiche e immediate delle prime. A questo punto, per tutte le ragioni esposte, dovrebbe apparire chiaro perché sia addirittura necessario impostare in modo autonomo la trattazione dei processi ortografici di riconoscimento e produzione. Un’attività di ricerca in profondità sui processi ortografici si è di fatto sviluppata soprattutto negli ultimi tre decenni e ha preso in esame i fattori cognitivi che soggiacciono all’elaborazione di tutte le unità linguistiche, sia nel riconoscimento che nella produzione, presso varie fasce della popolazione (bambini e adulti, senza o con distur-

2. Ortografia

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bi del linguaggio). Nel presente capitolo verranno trattate solo alcune tra le più importanti questioni concernenti il riconoscimento e la scrittura di parole singole in individui adulti (per la lettura di parole si rimanda al capitolo di Peressotti e Job in questo volume). Prima di entrare nel vivo della trattazione, sarà opportuno chiarire che in questo capitolo la parola ortografia non ha il senso corrente, rilevabile in un dizionario dell’italiano, di «studio della scrittura corretta». Prendendo a prestito l’uso che, di riporto dall’inglese, si fa del termine anche nella letteratura specialistica in italiano, per ortografia intenderemo l’elaborazione che ha a che vedere con la forma scritta delle parole. Più specificamente, quando si parlerà di ortografia o di processi ortografici, lo si farà per indicare lo studio delle modalità o dei metodi di messa in corrispondenza o di un insieme di segni visivi con i suoni di una lingua (e viceversa), o dell’insieme delle forme scritte delle parole con il sistema dei significati. Nel prossimo paragrafo osserveremo come tali metodi varino da lingua a lingua, dando luogo a diverse tipologie di corrispondenza tra struttura fonologica e struttura ortografica di una parola. 2. I diversi sistemi di scrittura La maggior parte dei sistemi di scrittura oggi esistenti si suddivide in tre categorie: sistemi logografici, sistemi sillabici e sistemi alfabetici (Sampson 1985). I sistemi logografici come quello del cinese o, almeno in riferimento alle parole-contenuto come nomi e verbi, quello Kanji del giapponese, si caratterizzano per il fatto che in essi un simbolo, il logogramma, formato da un carattere o da un insieme di due caratteri, corrisponde ad un’intera parola dal punto di vista fonologico. In tali sistemi di scrittura, la relazione tra simbolo grafico e parola è globale e non analitica, ossia non comporta corrispondenze tra singole parti costitutive del segno e singoli suoni della parola. I sistemi di scrittura sillabici, come quello Kana del giapponese o quello del cherokee, prevedono una corrispondenza approssimativa tra ciascun segno grafico e ciascuna delle sillabe costitutive della parola. Generalmente tali segni grafici rappresentano o l’insieme di un suono consonantico e di un suono vocalico, o un singolo suono vocalico; in tali sistemi i segni graficamente simili non corrispondono necessariamente a sillabe con caratteristiche simili dal punto di vista fonetico.

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I sistemi di scrittura alfabetici si avvalgono di un insieme molto più ristretto di segni grafici, le lettere, che corrispondono a grandi linee ai suoni distintivi (fonemi) della corrispondente lingua parlata. Nei sistemi di scrittura alfabetici consonantici, come quelli di molte lingue semitiche, come l’arabo o l’ebraico, in scrittura vengono riportati obbligatoriamente soltanto i segni corrispondenti ai suoni consonantici. Nei sistemi di scrittura alfabetici regolari, quelli a noi più familiari perché usati nella grandissima maggioranza delle lingue europee, un segno scritto o un insieme di segni scritti riproducono, in modo più o meno approssimato, un fonema. Nelle lingue con sistemi di scrittura alfabetici fonologicamente trasparenti (o superficiali), come l’italiano o il finnico, la corrispondenza tra lettere e suoni tende a essere biunivoca, fatte salve talune deviazioni locali da tale corrispondenza che spesso sono previste dal contesto ortografico immediato: in italiano la lettera g ha valore velare davanti a consonante o alle vocali a, o, u, mentre ha valore palatale davanti alle vocali i ed e. Le lingue scritte alfabetiche ortograficamente opache (o profonde) come l’inglese presentano una corrispondenza «uno a molti», tanto tra fonemi e lettere in scrittura quanto tra lettere e fonemi in lettura. Nei paragrafi seguenti si osserverà come lo studio dei processi di riconoscimento e produzione ortografica sia stato ispirato soprattutto dalle lingue alfabetiche ortograficamente opache. Perché tali lingue rivestono un chiaro interesse per lo studio dei processi di elaborazione della lingua scritta? Per dirla in modo molto succinto, perché in esse uno stesso fonema o insieme di fonemi può avere realizzazioni grafiche diverse in unità lessicali diverse: in inglese, ad esempio, il dittongo [ei] viene reso per iscritto come ei nella parola veil, come a nella parola name, come ai nella parola train, o come ea nella parola steak. Come appena detto, solitamente in tali ortografie una corrispondenza non univoca è operante anche in lettura tra lettere e suoni, dato che una stessa lettera, o uno stesso insieme di lettere, può essere letto diversamente a seconda della parola nella quale appare (sempre in inglese, il gruppo vocalico ea viene letto [ei] nella parola steak, [i:] nella parola please, [e] nella parola head, [a:] nella parola heart, ecc.)1. 1 In altri casi ancora, il rapporto tra forma fonologica e forma ortografica della stessa parola è del tutto impredicibile ed eccezionale: è il caso di parole come yacht o colonel.

2. Ortografia

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Prima di passare alla rassegna dei modelli e dei risultati sperimentali, è basilare una chiarificazione terminologica: anche se l’unità di base delle lingue alfabetiche è la lettera, nel prosieguo di questo capitolo si farà spesso riferimento alla nozione di grafema. Le nozioni di grafema e lettera non coincidono necessariamente, giacché il grafema è definito come la lettera o l’insieme di lettere che rappresentano un singolo fonema; pertanto, nella parola ghermisce avremo 9 lettere ma solo 7 grafemi, in quanto i gruppi gh e sc equivalgono ciascuno a un singolo suono. 3. Il riconoscimento delle parole scritte 3.1. I movimenti oculari Il primo contatto tra lo stimolo scritto e il sistema linguistico-cognitivo avviene attraverso l’apparato percettivo visivo ed è stato studiato soprattutto mediante la tecnica dei movimenti oculari. Quando i nostri occhi esplorano il testo scritto non lo fanno in modo continuo e regolare, bensì compiendo dei rapidi movimenti, chiamati saccadi. Durante le saccadi, la cui durata di 10-20 millisecondi è sufficiente a «scavalcare» anche più di 10 caratteri, i movimenti oculari sono troppo rapidi perché possano essere rilevate delle informazioni ortografiche. Vi sono tuttavia anche dei periodi di tempo tra un movimento e l’altro, le fissazioni, durante i quali gli occhi restano immobili e l’informazione può essere recepita dal sistema visivo. La maggior parte delle parole viene fissata solo per una volta per periodi che vanno dai 50 ai 250 millisecondi e la cui durata dipende sia dalla difficoltà del testo, sia dalla velocità individuale di lettura, sia dalla presenza nel testo di snodi critici (ad esempio dal punto di vista sintattico): è per quest’ultimo motivo che le fissazioni sono utilizzate come indicatori della difficoltà di elaborazione cognitiva legata alle diverse strutture linguistiche presenti in un testo. A volte i movimenti oculari seguono una direzione opposta a quella naturale del testo (da sinistra verso destra in un’ortografia come quella dell’italiano o da destra a sinistra nell’ebraico), ovvero si torna su parti della riga già lette: si tratta delle cosiddette ricorsioni (regressions), le quali spesso segnalano un bisogno del lettore di riesaminare parti del testo, ad esempio singole parole, già analizzate. È stato notato che talvolta vengono saltate le parole brevi, che molto

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spesso coincidono con i funtori grammaticali (articoli, congiunzioni, preposizioni), spesso meno informativi delle parole di contenuto (nomi, verbi, aggettivi), mentre al contrario le parole più lunghe o meno frequenti possono essere fissate più di una volta. Come già accennato, la velocità di riconoscimento dei caratteri varia a seconda delle abilità individuali e del tipo di testo, ma vi sono precisi limiti fisici a un’illimitata compressione dei tempi di lettura: l’ampiezza del testo all’interno della quale il sistema percettivo è in grado di raccogliere dell’informazione generica è al massimo di 4 lettere a sinistra e 15 a destra nelle ortografie che costruiscono il testo da sinistra a destra. La precisa identità delle lettere, invece, può essere determinata solo per una gamma ristretta di lettere, fino a circa 12 caratteri per quanto riguarda l’informazione visiva e fino a circa 6 per l’estrazione dell’informazione semantica. Al di là di queste finestre, vengono percepite solo la forma delle lettere e la lunghezza delle parole (Pollatsek e Rayner 1990). 3.2. Rappresentazioni ortografiche e riconoscimento di parole: tratti, lettere, parole Da un punto di vista cognitivo, capire come avviene il riconoscimento di una parola scritta significa descrivere e spiegare i meccanismi attraverso i quali dapprima una sequenza di caratteri grafici (la parola, o alcune sue sottoparti) viene elaborata dal sistema visivo e poi la rappresentazione percettiva così acquisita entra in contatto con (o rende disponibili) una o più forme di rappresentazione nel lessico mentale, come ad esempio quella semantica, che permette la comprensione della parola. Il riconoscimento di parole scritte è quindi un’attività complessa, che al suo interno può essere suddivisa in stadi distinti di elaborazione dell’informazione, i quali operano su più tipi di rappresentazioni. In un’ortografia di tipo alfabetico, la struttura interna delle parole scritte fornisce un numero rilevante di informazioni, a diversi livelli di complessità. Il problema del riconoscimento delle parole, dunque, può essere inquadrato a vari livelli. Possiamo distinguerne almeno tre, tra quelli teoricamente rilevanti: i tratti, le lettere e le parole. 3.2.1. Le (micro) caratteristiche o tratti delle lettere A tale livello, il più elementare, lo stimolo è descritto dalle singole caratteristiche fisiche che compongono le lettere dell’alfabeto. Le lettere che compongono la parola sono descrivibili come una configurazione di trat-

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ti ortografici primari: la lettera maiuscola A è costituita da due segmenti obliqui e uno orizzontale, la F da due segmenti orizzontali e uno verticale, e così via. Studi sulla percezione di lettere presentate con tempi di esposizione molto rapidi (poche decine di millisecondi) hanno mostrato che i tratti interni alle lettere hanno un ruolo importante nel riconoscimento corretto delle lettere presentate: lettere che condividono un certo numero di tratti (ad esempio P-R o E-F) tendono ad essere maggiormente confuse tra loro rispetto a lettere tra loro più dissimili visivamente. Ciò viene interpretato come l’effetto di un’attivazione precoce dei tratti che si propaga a tutte le lettere che contengono quei tratti, creando possibili interferenze quando alcuni tratti sono condivisi da più lettere. 3.2.2. Le lettere Nelle ortografie di tipo alfabetico anche le lettere sono considerate da molti ricercatori come delle unità percettive di base nel riconoscimento di parole scritte, appartenenti a un livello separato di rappresentazione. A tale livello, le lettere sarebbero rappresentate come entità astratte, in modo indipendente dalla loro manifestazione fisica, dal fatto cioè che siano minuscole o maiuscole, o realizzate in un dato carattere tipografico piuttosto che in un altro (Evett e Humphreys 1981). Come vedremo tra breve esaminando il modello ad attivazione interattiva, lo stadio di riconoscimento delle lettere è intermedio tra quello di riconoscimento delle caratteristiche e quello di riconoscimento della parola, interagendo con entrambi. Diversi modelli postulano una codifica in parallelo sia dell’identità della lettera, sia della sua posizione all’interno della parola. La gran parte delle prove a favore di un modello parallelo di riconoscimento delle lettere proviene dalla letteratura sui movimenti oculari, cui si è già accennato. Uno studio recente basato sulla risonanza magnetica funzionale (Polk et al. 2002) ha valutato l’attività neurale durante la visione di stringhe di lettere e ha dimostrato che una specifica area dell’emisfero sinistro (il giro fusiforme) risponde in maniera specifica alle lettere più che ad altri stimoli visivi significativi, come ad esempio le cifre arabe. Inoltre, il risultato veniva replicato anche quando le lettere e gli altri stimoli visivi di controllo erano bilanciati per la presenza degli stessi tratti ortografici. Si può quindi concludere che vi è una specializzazione neurale per il riconoscimento delle lettere, indipendente da quella per le caratteristiche ortografiche, e che il livello di

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elaborazione delle lettere è un livello autonomo, seppure interagente con altri livelli, nel processo di riconoscimento di parole scritte. Molti risultati sperimentali dimostrano che lo schema di codifica delle lettere è basato su informazioni relative sia all’identità delle lettere contenute nella parola, sia alla loro posizione. In un esperimento sul francese, Peressotti e Grainger (1999) hanno trovato un effetto di facilitazione nel riconoscimento di una parola come balcon quando questa parola era preceduta sia da una sequenza come b_lc_n che da una sequenza come blcn. Questi risultati suggeriscono che il sistema di riconoscimento delle parole utilizza le informazioni sulla posizione delle lettere e, inoltre, che tali informazioni si riferiscono alla posizione di una lettera rispetto alle altre, piuttosto che alla sua posizione assoluta nella stringa. Altri esperimenti hanno ulteriormente precisato questa ipotesi, mostrando che vi è differenza nella codifica delle lettere iniziali e finali da un lato e centrali dall’altro: la posizione delle prime è codificata con precisione, quella delle seconde è codificata sulla base della loro collocazione reciproca. 3.2.3. Le parole intere A tale livello, una stringa di tratti e lettere è rappresentata come un’unità familiare. Una volta riconosciuta la parola scritta come forma visiva, diventano disponibili varie proprietà delle parole: quelle sintattiche, semantiche, fonologiche, ecc. Alcuni studi neuropsicologici hanno mostrato che il riconoscimento delle parole è indipendente dai processi di riconoscimento degli oggetti in genere. Infatti sono stati documentati casi di pazienti con buone capacità di riconoscimento delle parole, basate sulla forma intera e non sull’assemblaggio delle singole lettere, ma con notevoli difficoltà nel riconoscimento di oggetti (Rumiati et al. 1994). Come abbiamo osservato parlando di tratti, lettere e parole, esistono fondate prove sperimentali a favore del ruolo giocato da tutti e tre i livelli nel riconoscimento di parole e nel successivo accesso al lessico mentale. Il problema è se i tre livelli intervengano nel processo serialmente, a un crescente livello di complessità (prima i tratti, poi le lettere e infine le parole intere) o se essi agiscano in maniera interattiva. A favore di quest’ultima ipotesi gioca un importante effetto sperimentale: l’effetto di superiorità della parola (ESP) (Reicher 1969). L’ESP consiste nel fatto che le persone incontrano una maggiore facilità, e quindi impiegano meno tempo, nel riconoscere una singola lettera, ad esempio la s, in una parola reale come pensare piuttosto che in una pseudo-parola come pansera. Tale effetto mette in difficoltà

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qualsiasi modello che voglia spiegare il riconoscimento di parole come un processo rigidamente sequenziale nel quale il riconoscimento delle lettere avviene in modo esaustivo prima che abbia inizio il processo di riconoscimento della parola. Se ciò fosse vero, infatti, il riconoscimento della singola lettera non dovrebbe essere influenzato dalla stringa in cui si trova, e sarebbe difficile spiegare come una parola nota (che evidentemente deve essere stata già in parte riconosciuta o attivata) faciliti la rilevazione di una particolare lettera al suo interno. Una possibilità di spiegazione dell’ESP rimane quella di ipotizzare un feedback («retroazione») dal livello delle parole a quello delle lettere, ossia un’interazione tra i due livelli: l’attivazione di un’unità-parola nel lessico mentale potrebbe potenziare l’attivazione delle lettere in essa contenute, permettendo un loro riconoscimento più rapido rispetto a quando, nelle pseudo-parole, l’accrescimento di attivazione viene a mancare. Una spiegazione di tal genere è stata avanzata da uno tra i più influenti modelli del riconoscimento di parole scritte: il modello ad attivazione interattiva (Interactive Activation Model) di McClelland e Rumelhart (1981). 3.3. Due modelli del riconoscimento della parola scritta La nozione di riconoscimento implica che le parole conosciute dal lettore siano rappresentate in una parte della sua memoria, il lessico mentale. Secondo la prospettiva più diffusa, il lessico mentale è un insieme organizzato di unità di rappresentazione corrispondenti a parole che si attivano in risposta alla stimolazione sensoriale. Tali unità sarebbero quindi delle strutture dinamiche, e il meccanismo che permetterebbe l’accesso ad esse sarebbe di tipo passivo: sulla base delle informazioni sensoriali, una delle unità si attiverebbe più rapidamente delle altre fino a raggiungere il livello della soglia di riconoscimento della parola corrispondente. La più importante esemplificazione di tali principi è costituita dal modello Logogen di Morton (1979), il primo in ordine di tempo tra i moderni modelli di riconoscimento di parole. Secondo tale modello, ogni parola conosciuta ha una rappresentazione (un logogen), che funziona come un rilevatore della parola stessa: tale rilevatore agisce selettivamente sulla base delle caratteristiche ortografiche della parola ed è contenuto in un sistema di rilevazione, chiamato appunto sistema Logogen. Ogni unità logogen ha un proprio valore di soglia che deve essere raggiunto per il riconoscimento; quando le informazioni ortografiche provenienti dallo stimolo sono compatibili con quelle di un lo-

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gogen, questo si attiva, grazie a una corrispondenza diretta tra la parola scritta e una rappresentazione della parola intera, e quando l’attivazione raggiunge il livello di soglia la parola può dirsi identificata. Ogni logogen ha un proprio livello di attivazione, che varia in funzione di numerose variabili cognitive e dipende prima di tutto dalla frequenza d’uso della parola; logogen corrispondenti a parole ad alta frequenza hanno una soglia più bassa e per tale motivo hanno bisogno di una minore quantità di attivazione per il raggiungimento della soglia, permettendo così un riconoscimento più rapido di tali parole rispetto a parole a bassa frequenza. Il modello spiega in tal modo l’effetto di frequenza (cfr. § 3.5.1). Inoltre, il modello di Morton postula un principio di competizione tra le diverse unità candidate al riconoscimento, anticipando i risultati sui vicini ortografici che sarebbero stati ottenuti anni dopo (cfr. § 3.4): un’ipotesi del modello, infatti, è che ogni parola scritta attiverebbe non uno ma più logogen, in funzione diretta della loro somiglianza ortografica con la parola scritta. Al termine del processo competitivo solo un logogen raggiungerebbe la soglia per l’identificazione. Una volta identificata la forma superficiale della parola, l’attivazione viene trasmessa al sistema semantico (chiamato da Morton «sistema cognitivo»), dove è recuperata l’informazione sul significato della parola. Il modello Logogen prevede un’interattività tra il sistema Logogen di riconoscimento e il sistema cognitivo, responsabile del recupero del significato delle parole. In altri termini, si propone che i contesti semantico e sintattico siano in grado di modulare la soglia di attivazione dei logogen: la presentazione di una parola (ad esempio cane) abbasserebbe la soglia di attivazione di tutte le parole ad essa semanticamente associate (gatto, abbaiare, ecc.), provocando in tal modo il noto fenomeno chiamato priming semantico (si veda il capitolo di Tabossi in questo volume), che è dato dalla facilitazione nel riconoscimento di una parola quando tale parola è preceduta da un’altra parola ad essa collegata semanticamente. Ora, quello che ci preme osservare sul modello Logogen è che in esso il riconoscimento di una parola scritta non avviene attraverso l’attivazione di unità più piccole della parola stessa, ma procede grazie allo stabilirsi di una corrispondenza tra la parola intera e il suo logogen. Tuttavia, abbiamo già rilevato che le parole scritte hanno una struttura interna analizzabile a più livelli, ognuno dei quali è potenzialmente rilevante, giacché potrebbe fornire informazioni utili per l’accesso al lessico mentale.

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Fig. 1. Il modello Interactive Activation del riconoscimento di parole scritte.

L’IInteractive Activation Model (IAM) di McClelland e Rumelhart, schematizzato nella figura 1, parte proprio dall’assunto che il sistema di riconoscimento sia organizzato in tre strati, tre livelli di elaborazione che corrispondono alle diverse unità rilevabili nella parola. I tratti ortografici si presentano come il primo elemento di elaborazione da parte del sistema: essi vengono attivati in varia misura a seconda dello stimolo e, combinati correttamente tra loro, determinano l’attivazione delle rappresentazioni corrispondenti alle lettere contenute nella parola, attraverso connessioni rappresentate dai segmenti con la freccia. Il secondo gruppo di unità attivate durante il riconoscimento della parola corrisponde alle lettere astratte2. In 2 Per «astratte» si intende il fatto che la rappresentazione delle lettere è indipendente dai dettagli grafici (grandezza, carattere tipografico, ecc.).

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particolare, si ipotizza che siano attivate tutte le lettere che, combinate tra loro, formano la parola bersaglio da riconoscere e che tali lettere inviino a loro volta un’attivazione, rappresentata dalle linee curve con le frecce, alle parole con esse compatibili. Il livello delle parole rappresenta il terzo e ultimo insieme di unità attivate durante il processo di identificazione. A questo livello avverrà il riconoscimento di una singola parola, quella che avrà accumulato il più alto grado di attivazione nel corso del processo sviluppatosi all’interno dell’intera rete. Oltre all’organizzazione in più strati, vi sono altri tre elementi di interesse nel modello di McClelland e Rumelhart. In primo luogo, come si può osservare nella figura 1, il modello prevede due tipi di processi: processi di attivazione (rappresentati dalle frecce), che collegano i tratti alle lettere compatibili e le lettere alle parole compatibili; processi di inibizione (rappresentati dalle linee con i pallini), che uniscono tratti e lettere non compatibili, lettere e parole non compatibili, lettere tra loro alternative e parole tra loro alternative. Nel postulare questi due tipi di processi, il modello IAM si accorda con un’ipotesi che, come vedremo nel successivo paragrafo sui vicini ortografici, trova conferma nei dati sperimentali: il riconoscimento di una parola è funzione non solo dell’attivazione e della selezione di una rappresentazione nel lessico mentale, ma anche dell’inibizione di rappresentazioni concorrenti che competono con la parola bersaglio per l’identificazione. In secondo luogo, il modello, come esplicitamente affermato nel nome, è un modello interattivo: il riconoscimento delle lettere è guidato dall’attivazione dei tratti ortografici, ma è influenzato anche dall’attivazione positiva di ritorno proveniente dalle parole compatibili. Tale attivazione favorisce il riconoscimento delle singole lettere all’interno della parola e dà conto dell’ESP (cfr. § 3.2.3). In terzo luogo, secondo il modello IAM, il funzionamento del sistema di riconoscimento è parallelo, in un senso che potremmo definire sia «orizzontale» che «verticale». In senso orizzontale, cioè all’interno della parola, perché non vi sarebbe una scansione seriale delle lettere da sinistra verso destra, ma verrebbero contemporaneamente attivati gruppi di lettere, in modo relativamente indipendente dalla loro posizione nella stringa. In senso verticale, cioè tra livelli, perché la loro attivazione è a cascata: non è necessario, poniamo, che sia terminata l’elaborazione nello strato delle lettere, perché abbia inizio l’attivazione nello strato delle parole.

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3.4. I vicini ortografici Negli stadi iniziali del riconoscimento di una parola scritta, la parola da riconoscere attiva in memoria non solo la rappresentazione corrispondente alla parola stessa, ma anche le rappresentazioni relative alle parole che sono ad essa ortograficamente simili. Si tratta di un problema teoricamente interessante per il riconoscimento, poiché le parole di fatto variano tra loro per il numero di parole ad esse simili (i loro vicini) presenti nella lingua. Il numero di parole simili viene convenzionalmente stabilito in base a una procedura che ha il nome di N-count (Coltheart, Davelaar, Jonasson e Besner 1977) e che fornisce il numero di parole che si possono ricavare permutando ciascuna lettera della parola critica con tutte le altre lettere dell’alfabeto, una alla volta. Secondo tale procedura, quindi, la parola osti ha un N-count pari a 8 (e formato dalle parole opti, orti, osai, osci, ossi, osta, oste, osto) o a 9 se si considera, come sarebbe giusto, anche il nome proprio Asti. In relazione al riconoscimento di parole scritte, sono stati studiati gli effetti dell’ampiezza e della frequenza del vicinato ortografico. Cerchiamo di spiegare con due esempi che cosa si intende per ampiezza e frequenza del vicinato ortografico. Ampiezza del vicinato: due parole come corte e certe, entrambe di frequenza medio-alta, della stessa lunghezza e tra loro ortograficamente simili, hanno un numero diverso di vicini ortografici, rispettivamente 18 (tra di essi le parole porte, conte, coste, corde) e 8 (ad esempio verte, carte, ceste). Frequenza del vicinato: altre due parole, stavolta entrambe di frequenza medio-bassa, come spala e sfuma, hanno un N-count simile (rispettivamente 6 e 5), ma nel primo caso tra i vicini sono comprese parole (come ad esempio scala e spara) che sono di frequenza più alta rispetto a quella dei vicini della seconda parola (ad esempio spuma e sfama). In base agli studi effettuati, sappiamo che l’ampiezza del vicinato ortografico di una parola scritta influenza il suo riconoscimento: le parole con più vicini sono riconosciute più rapidamente di quelle con pochi vicini (Andrews 1989), anche se la facilitazione è significativa solo per le parole a bassa frequenza, e anche se l’identità della parte finale della parola è più rilevante nel determinare l’effetto: in altri termini, per il riconoscimento di una parola come corte, a parità di altre condizioni, un vicino come torte ha un’influenza maggiore rispetto a uno come corse (Peereman e Content 1997). Tutta-

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via, l’effetto dei vicini ortografici sul riconoscimento delle parole scritte è soggetto a numerosi altri fattori e può cambiare di segno, trasformandosi da facilitatorio in inibitorio quando una parola (spala) ha tra i suoi vicini almeno una parola (spara) di frequenza più alta (Grainger et al. 1989). Dunque, anche la frequenza dei vicini, o di almeno uno di essi, può giocare un ruolo considerevole nel riconoscimento di una parola. 3.5. Altri effetti nel riconoscimento di parole scritte Oltre alla quantità e alla frequenza delle parole simili dal punto di vista ortografico, vi sono altri parametri e altri fattori distribuzionali che guidano i processi di elaborazione delle parole scritte. La letteratura sperimentale al riguardo è assai vasta, dato che la specificazione dei modi e dei contesti in cui tali fattori operano è fondamentale per vincolare le teorie del riconoscimento e della produzione di parole. In questo paragrafo non si potrà fornire che un succinto elenco dei principali tra tali fattori. 3.5.1. La frequenza La frequenza d’uso di una parola è il fattore più influente nei compiti di natura lessicale in genere (Whaley 1978). Le parole usate più di frequente sono riconosciute e prodotte in modo più rapido e più accurato. L’effetto concerne certamente la frequenza delle parole intere ma anche, seppure in maniera più controversa, alcune delle unità di cui è composta (ad esempio, le sillabe o i morfemi; cfr. § 3.6). Inoltre la frequenza è intrinsecamente correlata ad altri parametri come il giudizio soggettivo di familiarità dei parlanti e l’età di acquisizione delle parole. Ciò ha dato luogo ad alcune controversie circa la localizzazione di tale effetto all’interno del sistema lessicale, ma ha anche permesso di sviluppare ipotesi sui possibili stadi di elaborazione in cui la frequenza ha effetto. 3.5.2. Il «priming» ortografico Il p r i m i n g (cfr. § 3.3) è uno dei paradigmi più usati in psicologia sperimentale. Esso si basa sulla presentazione di una parola bersaglio (il target) che viene fatta precedere a distanza temporale variabile dalla presentazione di un’altra parola (il prime) ad essa collegata per uno o più particolari aspetti. Lo scopo è osservare in che modo l’informazione condivisa tra le due parole influenza l’elaborazione della seconda. La variante più usata è quella del già citato priming semantico (si veda il capitolo di Tabossi

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in questo volume). Per il problema che qui ci riguarda è da citare il p r i m i n g ortografico, una tecnica che consiste nel far precedere una parola scritta (cane) da una parola ad essa ortograficamente simile (case). L’uso di questo paradigma ha permesso di evidenziare come parole visivamente simili competano tra loro per il riconoscimento. Inoltre, il fatto che l’effetto si modifichi al variare delle condizioni sperimentali, delle modalità di presentazione del prime e dell’intervallo temporale tra la prima e la seconda parola, ha permesso di generare interessanti inferenze su quali sono i principi di organizzazione del lessico ortografico. L’effetto è particolarmente evidente quando le condizioni di presentazione del prime sono tali da non permetterne un’identificazione cosciente (Humphreys, Besner e Quinlan 1988). 3.5.3. La regolarità Si è detto nel § 2 che le lingue a ortografia non trasparente includono parole irregolari dal punto di vista del rapporto tra scrittura e pronuncia. Non è chiaro se le parole regolari vengano elaborate con maggiore efficienza rispetto a quelle irregolari. Quello che sembra accertato è che in compiti di riconoscimento e lettura un effetto di regolarità si riscontri soprattutto, se non esclusivamente, tra le parole a bassa frequenza d’uso. In altri termini, mentre tra le parole ad alta frequenza le differenze di rapidità e accuratezza tra parole regolari e irregolari tendono a essere sfumate o nulle, si riscontra un forte effetto di regolarità sulle parole irregolari a bassa frequenza (come ad esempio la parola inglese pint, [paint], «pinta»), che vengono lette peggio di quelle regolari di pari frequenza (come ad esempio lint, [lint], «garza»). 3.5.4. La lunghezza Nel riconoscimento di parole scritte la rapidità e l’efficienza del processo sembrano essere influenzate dal numero di lettere di cui la parola si compone. Tuttavia, l’effetto è meno chiaro di quanto si potrebbe immaginare: è forte solo nelle parole a bassa frequenza e più nei lettori non esperti rispetto a quelli esperti. Inoltre, la lunghezza può essere misurata in almeno due modi: a partire dal numero di lettere o a partire dal tempo medio di pronuncia della parola stessa. Infine, in analogia con quanto già detto per l’effetto di frequenza, anche per la lunghezza non è stato chiarito quale ruolo svolgano le unità sillabiche e morfemiche presenti nella parola il cui numero, ovviamente, tende a correlare con la lunghezza in lettere.

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3.6. Distinguere gli effetti ortografici da quelli sillabici e morfologici In altri capitoli di questo volume – in particolare quelli sulla fonologia e sulla morfologia – viene discussa la rilevanza, dal punto di vista sia strutturale che dell’elaborazione, di elementi interni alla parola quali le sillabe e i morfemi. A proposito di tali elementi, si è da tempo ipotizzato che possano servire come chiave di accesso all’informazione lessicale non solo nel riconoscimento e nella produzione del parlato, ma anche nella produzione e nel riconoscimento delle parole scritte. Su questi ultimi processi, tuttavia, uno dei problemi centrali nell’interpretazione dei dati sperimentali è che gli effetti che potrebbero essere determinati dalla struttura sillabica o morfemica potrebbero molto spesso derivare semplicemente dalla struttura ortografica delle parole: ad esempio, due parole morfologicamente collegate, tra le quali si rileva un reciproco effetto di facilitazione nel riconoscimento, sono quasi sempre anche ortograficamente simili. In altre parole, l’esistenza di relazioni morfologiche e sillabiche tra le parole si confonde spesso con la loro somiglianza ortografica. Nella letteratura sperimentale vi è quindi un dibattito molto serrato tra due diverse visioni. Alcuni modelli, in particolare di tipo connessionista, affermano che le proprietà morfologiche e sillabiche non sono esplicitamente rappresentate nel lessico, ma sono solo proprietà emergenti di un sistema lessicale che fornisce solo delle mere correlazioni tra la struttura ortografica e fonologica delle parole da un lato e il loro significato lessicale dall’altro (Seidenberg e Gonnerman 2000). Altri modelli, prevalentemente di tipo simbolico, sostengono che le rappresentazioni di tipo morfologico e sillabico non possono essere ridotte a semplici epifenomeni della struttura ortografica e, sulla base di alcuni risultati sperimentali (Laudanna, Badecker e Caramazza 1989, 1992; Rapp 1992), attribuiscono uno status indipendente a tali rappresentazioni nel lessico mentale. 4. Le rappresentazioni ortografiche nella scrittura In linea con una comune tendenza della ricerca in psicologia del linguaggio, che a vari livelli di analisi ha spesso privilegiato lo studio dei processi di ricezione del linguaggio, le ricerche sulla produzione di parole scritte sono meno numerose di quelle sul riconoscimento e la

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comprensione. Inoltre, mentre nello studio dei processi di riconoscimento e comprensione lessicale la modalità scritta ha ricevuto un interesse maggiore rispetto a quella uditiva, nello studio, pur minoritario, dei processi di produzione lo stato delle cose è simmetricamente contrario: i processi di produzione del parlato sono stati maggiormente indagati rispetto a quelli della scrittura. Cosicché non è azzardato affermare che nella psicologia dei processi lessicali la scrittura appare come la parente povera. Di fatto, la maggioranza dei dati che oggi ci permettono di tracciare delle ipotesi sull’architettura cognitiva del sistema di scrittura, e sui meccanismi dei quali esso si serve, derivano dalla neuropsicologia del linguaggio, che in anni recenti ha studiato a fondo i disturbi della scrittura negli adulti: le disgrafie acquisite. È di questo filone di studi, dunque, che ci serviremo in prevalenza per delineare il quadro delle conoscenze sui processi ortografici in produzione. Come la lettura (si veda il capitolo di Peressotti e Job in questo volume), anche la scrittura di parole è un’attività complessa, che coinvolge nel sistema cognitivo varie componenti, ognuna delle quali è deputata a un certo insieme di operazioni. Nel caso della scrittura, tali operazioni si situano tra il momento in cui la sequenza di suoni linguistici che costituisce la parola viene percepito dal sistema uditivo (nella scrittura sotto dettatura) e il momento in cui il significato attivato da quella sequenza, o attivato autonomamente da chi scrive (nella scrittura spontanea), viene tradotto in una sequenza di segni grafici. La ricerca sulla scrittura si è interessata soprattutto allo spelling, ossia alla capacità di produrre la corretta forma scritta di una data parola. Nei paragrafi seguenti ci occuperemo soprattutto delle fasi finali del processo di scrittura, quelle che più interessano l’elaborazione delle rappresentazioni ortografiche. Nel processo di scrittura spontanea sono stati individuati tre stadi (Hayes e Flower 1986): il primo è quello della pianificazione, nel quale vengono stabiliti gli scopi, generate delle idee e l’informazione è recuperata dalla memoria a lungo termine e organizzata nel programma di ciò che si deve scrivere. Qui si può distinguere tra la generazione iniziale delle idee e la loro successiva manipolazione in una forma già adatta alla loro traduzione nel testo finale. Il secondo stadio è quello della traduzione: il linguaggio scritto è prodotto a partire dalle rappresentazioni in memoria e il programma deve essere tradotto in frasi. Nel terzo stadio, la revisione, lo scrivente legge e corregge ciò che ha scritto.

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parola detta

gica e converte progressivamente tale sequenza in una rappresentazione seriale di grafemi che andrà anch’essa ad attivare le componenti di uscita. Questa seconda via permette, ad esempio, la scrittura di una parola nuova: si pensi al caso di un cognome mai udito in precedenza. Nel caso della scrittura spontanea, l’elaborazione comincia nel sistema semantico (si vedano i capitoli di Lepschy e Tabossi in questo volume) e poi interessa due successivi stadi di elaborazione, che manipolano entrambi informazione ortografica ma realizzano due diverse funzioni. Tali stadi sono il lessico ortografico, che attiva la conoscenza a lungo termine sulla forma scritta della parola, e il buffer grafemico, che mantiene l’informazione ortografica in una memoria temporanea.

Componenti coinvolte nella scrittura sotto dettatura

Analisi acustico-fonologica

Lessico fonologico di input

Conversione dalla fonologia all’ortografia

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Sistema semantico

4.2. Il lessico ortografico di «output» e il «buffer» grafemico

? Lessico ortografico di output

?

Lessico fonologico di output

Buffer grafemico

parola scritta

Fig. 2. Il modello standard della scrittura di parole.

4.1. Architettura funzionale del sistema di scrittura Il modello maggiormente accreditato della scrittura di parole è quello standard riassunto nella figura 2. Il modello dà conto sia della scrittura spontanea sia della scrittura sotto dettatura. In quest’ultimo caso, l’accesso al sistema semantico avviene a partire da uno stimolo esterno: la parola pronunciata (e ascoltata da chi scrive) deve essere sottoposta ad un’analisi acustico-fonologica, che la segmenta in unità più piccole (ad esempio, sillabe). Attraverso questa procedura può essere attivato prima il lessico fonologico di input, che conserva le informazioni sulla forma fonologica delle parole conosciute, e infine il sistema semantico, nel quale sono rappresentati i significati delle parole. Contemporaneamente all’elaborazione dell’informazione lessicale, una procedura non-lessicale analizza i suoni che compongono la sequenza fonolo-

Quando scriviamo parole a noi note, sulla cui forma scritta si è sedimentata una conoscenza a lungo termine nel nostro lessico mentale, solitamente recuperiamo l’informazione necessaria nel lessico ortografico, ossia nel componente del lessico mentale che rappresenta le forme scritte di quelle parole. Il ricorso a tale tipo di conoscenza diventa tanto più probabile quanto più le parole sono frequenti, o può diventare addirittura necessario per le parole irregolari presenti in quelle lingue – come l’inglese – nelle quali non sempre vi è una corrispondenza precisa o prevedibile tra struttura fonologica e struttura ortografica. Tali parole potrebbero essere scritte in modo scorretto in assenza di informazioni precise sulla loro specifica forma ortografica: ricordando quanto detto nel § 2, una parola come brain («cervello») in linea di principio potrebbe anche essere scritta come brane, conservando la stessa pronuncia. L’idea che la scrittura delle parole possa sfruttare due vie indipendenti, seppure attivate in parallelo e, come vedremo, interagenti nel buffer grafemico, ha ricevuto puntuali conferme dall’analisi dei disturbi acquisiti della scrittura. Infatti, da una parte sono stati riportati casi di pazienti con un disturbo acquisito della scrittura, la disgrafia fonologica, che consiste in un disturbo selettivo dell’elaborazione non-lessicale (la parte sinistra colorata in grigio del modello in figura 2): tale disturbo si esprime in una scrittura corretta delle parole, sia regolari che irregolari, a differenza di quanto accade per le parole nuove. D’altra parte, sono stati riportati casi di pazienti con un altro disturbo acquisito, la disgrafia superficiale, che colpisce selettivamente l’elaborazione non-

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lessicale: tale disturbo si esprime in una scrittura corretta delle parole regolari ma non di quelle irregolari. Se nella disgrafia fonologica si osserva l’impossibilità o la difficoltà di scrivere parole nuove, ciò significa che il problema è nell’assemblaggio della corretta forma scritta a partire dai singoli suoni della corrispondente parola orale, attraverso le procedure di conversione non-lessicali. D’altra parte, se nella disgrafia superficiale è la scrittura delle parole irregolari ad essere colpita in modo specifico, la spiegazione va ricercata in un disturbo della via di elaborazione lessicale che è la sola a consentire l’accesso alla corretta forma scritta di quel tipo di parole. Questa doppia dissociazione dimostra nei processi di scrittura (come in quelli di lettura, si veda il capitolo di Peressotti e Job in questo volume) l’esistenza di rappresentazioni lessicali di uscita (nel lessico ortografico di output), dalle quali si può recuperare lo spelling corretto dell’intera parola, anche quando questa non è regolare e non può essere scritta prescindendo dalle conoscenze lessicali specifiche sulla sua forma ortografica. Successivamente all’attivazione del lessico ortografico, affinché il processo di scrittura delle parole sia completato correttamente, è necessario l’intervento di un secondo componente, che svolge un’altra funzione cruciale. Nel lessico ortografico sono contenuti grafemi astratti che devono essere tradotti materialmente in lettere scritte. Questa operazione richiede tempo. Ciò richiede che in una fase successiva, l’informazione circa i grafemi che compongono la parola venga conservata temporaneamente in un magazzino di memoria a breve termine, il buffer grafemico, dove il livello di attivazione della sequenza di lettere da scrivere viene mantenuto sufficientemente alto, sia prima che inizi la produzione seriale delle lettere, sia durante l’esecuzione materiale della scrittura. L’attività del buffer grafemico è basilare, se consideriamo che la scrittura di parole richiede tempo, molto più tempo della produzione della corrispettiva parola orale, e che in ogni momento del processo il sistema deve disporre dell’informazione circa l’identità dei grafemi e il loro ordine, monitorando costantemente il punto del processo in cui ci si trova, quali elementi sono stati già prodotti e quali invece sono ancora da produrre. All’interno del buffer grafemico avvengono almeno due operazioni (Rapp e Kong 2002): 1. il mantenimento dell’attivazione dei grafemi che compongono la parola, necessario affinché non si disperda la traccia di memoria ad essi relativa; 2. la loro selezione seriale, finalizzata alla produzione del-

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le loro forme superficiali, la quale è a sua volta regolata da un ordine temporale. 4.3. Rapporto tra rappresentazioni ortografiche e fonologiche Nello studio dei processi di scrittura vi è un acceso dibattito tra chi sostiene che l’accesso alle conoscenze ortografiche avviene direttamente dal sistema semantico, come mostrato nella figura 2 non considerando il percorso tratteggiato, e chi invece formula la tesi che per attivare le rappresentazioni ortografiche a partire dal sistema semantico sia necessaria una mediazione fonologica, come raffigurato dal percorso tratteggiato della figura 2. La teoria della mediazione fonologica, in altri termini, sostiene che, quando scriviamo, prima recuperiamo la forma fonologica della parola (come se stessimo per pronunciarla) e in un secondo momento produciamo la parola scritta. Dunque, mentre per la teoria standard della scrittura vi sarebbe un’indipendenza funzionale dei sistemi lessicali di output, preposti rispettivamente alla lettura e alla scrittura, per la teoria della mediazione fonologica il significato attiverebbe prima la forma fonologica della parola nel lessico fonologico e, solo in seguito, la corrispondente forma ortografica nel lessico ortografico. I dati neuropsicologici di cui disponiamo indicano, se non altro, che la teoria non spiega alcuni tra i casi documentati in letteratura. Infatti, la tesi della mediazione fonologica predice che un disturbo al lessico fonologico dovrebbe avere necessariamente delle conseguenze sia sulla lettura che sulla scrittura. Da questo punto di vista, il fatto che siano stati trovati pazienti con un disturbo del lessico fonologico ma con buone capacità di scrittura parrebbe indebolire la tesi di una necessaria mediazione fonologico-lessicale nello spelling: Caramazza, Berndt e Basili (1983), ad esempio, hanno descritto il caso di un paziente capace di scrivere parole che invece non riusciva a produrre oralmente. La stessa esistenza della disgrafia fonologica costituisce un’indiretta prova sperimentale contro l’ipotesi della mediazione fonologica: infatti i pazienti con tale disturbo scrivono attraverso la via lessicale le parole familiari, ma non riescono a generare la scrittura a partire dai suoni delle parole che vengono loro dettate.

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3. Fonologia: le strutture

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Fonologia: le strutture di Giovanna Marotta

1. Introduzione La fonologia è tradizionalmente la disciplina che si occupa degli elementi fonici impiegati nelle lingue naturali per trasmettere significati. Si è soliti contrapporre la fonologia alla fonetica: la prima disciplina è di carattere astratto e tratta elementi mentali e discreti, mentre la seconda, fisica e fisiologicamente condizionata, tratta elementi materiali e continui (si veda il capitolo di Savy in questo volume). Mentre la fonetica appartiene da sempre allo studio della lingua, la fonologia si è imposta come disciplina autonoma soltanto nel corso del secolo scorso. Si deve alla teoria strutturalista, sviluppatasi nei primi decenni del Novecento, il primo riconoscimento esplicito della necessità di un livello di descrizione diverso ed almeno in parte autonomo rispetto a quello fonetico. In rapporto al dominio di analisi, distinguiamo tradizionalmente tra fonologia segmentale e fonologia soprasegmentale; nella fonologia segmentale, il dominio è dato dal segmento, considerato sia come elemento unitario che come entità a sua volta scomponibile in tratti simultaneamente presenti (cfr. § 2.2). I domini di analisi superiori al singolo segmento sono di pertinenza della fonologia soprasegmentale, o prosodica, cui appartengono la sillaba, l’accento, il ritmo e l’intonazione. Le analisi di carattere prosodico si sono sviluppate soprattutto negli ultimi decenni, in stretta dipendenza dall’imporsi di modelli teorici non lineari (cfr. § 3), i quali adottano livelli plurimi di rappresentazione.

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2. Fonologia segmentale 2.1. Il fonema Nozione centrale e tradizionale della fonologia segmentale, la sua definizione rinvia allo strutturalismo, in particolare alla cosiddetta Scuola di Praga. In questo ambito, fonema indica un elemento fonico dotato di valore distintivo e oppositivo, in quanto consente di distinguere significati lessicali diversi in rapporto alla sua presenza versus assenza all’interno di una stessa parola. Sono, ad esempio, fonemi in italiano le due consonanti nasali /m/ e /n/ che si oppongono nella coppia minima1 mano~nano, oppure le due vocali /a/ e /e/ nella coppia rana~rena. I fonemi sono detti anche invarianti, perché la loro occorrenza non è limitata a specifici contesti, ma è potenzialmente libera. I segmenti che non hanno funzione distintiva sono invece denominati allofoni, o varianti, di un fonema, e sono in genere contestualmente determinati. Consideriamo ad esempio la classe delle consonanti nasali in italiano. Sulla base dell’analisi distribuzionale, cioè dell’esame dei possibili contesti di occorrenza, si individuano cinque diversi segmenti: una nasale bilabiale ([m]), una labiodentale ([M]), una dentale ([n]), una palatale ([ˆ], scritta ) ed una velare ([N]). La distribuzione di [m], [n] e [ˆ] è libera (mano, nano, gnomo, campo, canto, anello, agnello), mentre quella di [M] e [N] non lo è, dal momento che questi due segmenti possono ricorrere solo in contesto preconsonantico, rispettivamente prima di una consonante labiodentale (anfora, invidia) e prima di un’occlusiva velare (banca, anguilla). Si dirà pertanto che [M] e [N] sono varianti combinatorie del fonema /n/. Una concezione alternativa del fonema è invece quella cognitivista, che lo considera come entità di carattere mentale. Il fonema diviene in questa prospettiva un’unità astratta e ideale, una sorta di «intenzione fonica» (in tedesco Lautabsicht) che si realizza concretamente nella produzione fonetica. A questa linea di pensiero è possibile assegnare le riflessioni teoriche di Sapir (1921), il quale, muovendo da una prospettiva antropologica, tipica di una parte dello

1 Per coppia minima s’intende una coppia di parole che contrastano per significato al variare di un solo segmento nella stessa sequenza fonica.

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strutturalismo americano della prima metà del Novecento, pervenne ad una concezione della fonologia in chiave mentalistica: il fonema è definito come entità avente natura psicologica prima ancora che funzionale. La prospettiva mentalistica sapiriana è stata rivalutata dalla grammatica generativa, per la quale forme soggiacenti ed unità fonologiche fanno parte della competenza linguistica del parlanteascoltatore. Va tuttavia ricordato che la nozione di fonema è stata criticata dalla teoria generativa, in cui il componente fonologico viene concepito come interpretativo, diversamente da quanto accade per il componente sintattico. Al posto di fonema, i generativisti preferiscono il più generico segmento, neutro in rapporto al livello di analisi. In ogni caso, indipendentemente dal termine impiegato (fonema o segmento), la rilevanza di un’unità fonologica contrastiva risulta dimostrata dagli studi condotti sugli errori linguistici (lapsus linguae), perlomeno a partire da Fromkin (1971). Nell’ambito della Scuola di Praga, il fonema era inteso come minima unità fonologica, non suscettibile di ulteriore scomposizione in unità minori. Ma già la complessa classificazione delle opposizioni fonologiche elaborata da Trubeckoj (1939) mostrava che l’elemento fonico minimo è il tratto distintivo; ad esempio i due fonemi /p/ e /b/ in italiano, come in molte altre lingue naturali, si differenziano soltanto per il tratto di sonorità (cfr. infra), essendo per il resto identici. Analogamente, Bloomfield (1933), esponente di spicco dello strutturalismo americano, definiva il fonema come fascio di tratti che ricorrono simultaneamente. La nozione di tratto si è ben presto imposta nella disciplina, tanto da divenire entità imprescindibile sia sul piano teorico che su quello metodologico. 2.2. I tratti distintivi Nell’analisi fonologica corrente, ogni segmento viene scomposto in elementi sub-segmentali simultanei, denominati tratti. Se ad esempio classifichiamo il fonema /f/ come consonante fricativa labiodentale sorda, questi attributi corrisponderanno ad altrettanti tratti composizionali, vale a dire a proprietà caratteristiche la cui compresenza definisce quel fonema. Oltre alla funzione combinatoria, i tratti hanno anche una funzione classificatoria, dal momento che consentono di classificare i fonemi in classi naturali. I fonemi che appartengono ad una stessa classe naturale condividono alcuni tratti. La specificazione in tratti di

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una classe naturale richiede un numero di tratti inferiore a quello necessario a definire il singolo fonema appartenente a quella stessa classe naturale. Consideriamo i segmenti [i e ε] dell’italiano: essi hanno in comune i tratti di vocalicità, sonorità intrinseca, continuità, anteriorità; quest’ultimo tratto, in particolare, determina la loro comune appartenenza alla classe naturale delle vocali anteriori, che si contrappone a quella delle vocali posteriori arrotondate [u o O]. D’altra parte, per identificare in maniera non ambigua il fonema /i/ tra le vocali anteriori, ai succitati tratti si dovrà aggiungere quello di altezza. In virtù della loro capacità di identificare, discriminandoli, i fonemi di una lingua, ai tratti deve essere attribuita anche una funzione distintiva, ed è per questa ragione che vengono di norma denominati tratti distintivi. L’impiego dei tratti nella prassi analitica consente una descrizione più semplice dei fenomeni fonologici, riducibili a semplice aggiunta o sostituzione di tratti. La rilevanza psicolinguistica dei tratti è dimostrata in primo luogo dai lapsus: negli errori linguistici di tipo fonologico-lessicale, il fonema target viene spesso sostituito da un altro fonema che differisce dal primo solo per un tratto; se ad esempio un parlante italiano produce la parola tana al posto di sana, l’errore fa riferimento cruciale al tratto di continuità (cfr. § 2.3), mentre se viene prodotto tino anziché pino, sarà coinvolto il punto di articolazione (si veda il capitolo di Romani in questo volume). Condizione necessaria affinché i tratti possano svolgere le funzioni ad essi proprie, è che formino un insieme finito e limitato numericamente. In considerazione delle comuni capacità e restrizioni dell’apparato fonatorio degli esseri umani, possiamo assumere non solo che il numero dei segmenti possibili nelle varie lingue parlate nel mondo sia finito, ma anche che i tratti che li compongono costituiscano un insieme ridotto. Ai tratti distintivi viene dunque assegnato carattere universale (si veda il capitolo di Savy in questo volume). Un ulteriore attributo che viene di norma riconosciuto ai tratti è il binarismo. Secondo l’opinione espressa da Jakobson (1963), tutti i tratti distintivi sono binari, nel senso che i singoli fonemi possono rispondere soltanto positivamente o negativamente ad ogni possibile tratto compreso nell’inventario universalmente definito. Nell’opposizione tra /p/ e /b/ in italiano, il primo fonema sarà marcato (per la nozione di marca, cfr. § 2.5) negativamente rispetto al tratto di sonorità, mentre il secondo sarà marcato positivamente. Analogamen-

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te, le due vocali /i/ e /u/ si opporranno in rapporto al tratto binario di arrotondamento, marcato negativamente nel primo segmento, ma positivamente nel secondo. Tuttavia, il carattere binario risulta intrinseco ed immediatamente esprimibile soltanto nel caso di alcuni tratti, come quelli fin qui considerati, mentre per altri tratti la riduzione a due soli valori (+ oppure −) non è affatto immediata. L’altezza vocalica in sistemi fonologici a tre gradi di apertura, ad esempio, non risulta riducibile ad un solo tratto binario: le vocali chiuse sono infatti marcate dal tratto [+alto], mentre tanto la vocale aperta quanto le vocali di media apertura saranno marcate, in modo ambiguo, dal tratto [-alto]. Per rendere binaria un’opposizione n-aria è necessario introdurre tratti aggiuntivi; ad esempio, nel caso qui discusso, il tratto [compatto], o [basso]. 2.3. I tratti jakobsoniani La teoria jakobsoniana dei tratti distintivi rappresenta sia il punto estremo dello strutturalismo, nella sua conferma della natura oppositiva e relazionale delle unità linguistiche, sia il suo superamento, con la svolta in senso universalistico, che già prelude all’avvento del generativismo. Il modello elaborato da Jakobson, Fant e Halle (1952) rappresenta uno dei tentativi più ambiziosi di coniugare fonetica e fonologia. Una caratteristica innovativa della proposta jakobsoniana riguarda infatti il ricorso all’analisi spettrografica: i tratti proposti sono definiti sulla base non solo dell’articolazione dei foni, ma anche dei loro parametri acustici (si veda il capitolo di Savy in questo volume). Jakobson identificò inizialmente 12 tratti distintivi (in seguito portati a 13), concepiti come universali e binari. Mediante il semplice ricorso a questo insieme definito di tratti diventa possibile caratterizzare i fonemi di ogni sistema fonologico attestato. I principali tratti distintivi proposti da Jakobson sono i seguenti: 1. vocalico~non vocalico: i segmenti vocalici e liquidi (marcati + per questo tratto) sono opposti a quelli consonantici e ai legamenti (marcati −); 2. consonantico~non consonantico: oppone i segmenti consonantici e la classe delle liquide alle vocali e ai legamenti; 3. grave~acuto: nell’ambito del vocalismo, in riferimento alla posizione occupata dalle formanti nello spettro, oppone le vocali posteriori, gravi, a quelle anteriori, acute; nel consonantismo, oppone i fonemi periferici a quelli centrali; per la classe delle occlusive italiane, /p b k g/, gravi, si oppongono pertanto a /t d/, acute;

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4. compatto~diffuso: tratto acustico, che si riferisce alla zona più o meno ampia occupata dalle formanti nello spettro; articolatoriamente, oppone le vocali aperte (compatte) a quelle chiuse (diffuse); date le difficoltà sorte per l’interpretazione dei sistemi vocalici a tre gradi di apertura, questo tratto è stato in seguito scisso in due opposizioni: 4a) compatto~non compatto: oppone /a/, compatta, a /e o/, non compatte; 4b) diffuso~non diffuso: oppone /i u/, diffuse, a /e o/, non diffuse; 5. teso~rilassato: tratto polivalente, in quanto attivo sia nel vocalismo che nel consonantismo; ad esempio, oppone le vocali semichiuse /e o/, tese, a quelle medio-aperte /ε O/, rilassate; oppure oppone fonemi lunghi, sia consonantici che vocalici (tesi), ai corrispondenti brevi (rilassati); 6. sonoro~non sonoro: nel consonantismo, oppone le ostruenti sonore a quelle sorde; vocali, come pure liquide e nasali, sono marcate intrinsecamente come sonore; 7. nasale~non nasale: tratto attivo di norma nel consonantismo, ove oppone le ostruenti nasali a quelle non nasali (ad esempio /n/ a /d/, /m/ a /b/, ecc.), può interessare anche il vocalismo, nei sistemi che oppongono distintivamente vocali nasali a vocali orali (ad esempio il francese). 2.4. I tratti chomskiani Pur assumendo l’universalismo e il binarismo della proposta jakobsoniana, Chomsky e Halle (1968) hanno proposto una serie di tratti fonologici in parte diversa da quella di Jakobson. I tratti chomskiani sono identificati sulla base di parametri fonetici articolatori, e non acustici. Il loro numero è superiore, essendo in totale una ventina. Le innovazioni più importanti riguardano i seguenti tratti: – sillabicità: sostituisce vocalicità del sistema jakobsoniano; sono marcati positivamente i segmenti vocalici, ma anche le liquide e le nasali con funzione di apice sillabico; negativamente, tutti gli altri segmenti, legamenti (glides) compresi; – sonoranza: marcato positivamente nei segmenti vocalici, liquidi e nasali, intrinsecamente sonori; negativamente in quelli ostruenti, vale a dire le consonanti fricative, affricate ed occlusive; – altezza: si riferisce alla posizione della lingua durante la produzione dei foni; sono alte le vocali /i u/, tradizionalmente dette

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chiuse, e diffuse nel sistema di tratti jakobsoniano, mentre sono basse le vocali aperte, compatte per Jakobson; – coronalità: i segmenti marcati [+ coronale] sono prodotti con la corona della lingua in posizione relativamente innalzata rispetto alla posizione neutra; i corrispondenti punti di articolazione tradizionali sono dentale, alveolare e palatale. 2.5. La marcatezza La nozione di marca risale a Trubeckoj (1939), il quale propose una complessa tassonomia delle opposizioni fonologiche; tra queste, le opposizioni bilaterali privative, che oppongono due fonemi per la presenza versus assenza di una certa proprietà (ad esempio /t/ si oppone a /d/ per il solo tratto di sonorità). La nozione di marca si pone alla base del binarismo dei tratti (cfr. supra). Va tuttavia osservato che per Trubeckoj solo la classe delle opposizioni bilaterali privative è binaria, mentre Jakobson ha esteso il binarismo a tutte le opposizioni fonologiche. I tratti distintivi binari consentono la rappresentazione dei fonemi in forma di matrici fonologiche, che, analogamente a quanto accade nelle matrici matematiche, presentano una struttura bidimensionale in cui ogni elemento è identificato in maniera univoca dagli indici impiegati. Di norma, nelle matrici, le righe indicano i tratti distintivi, mentre le colonne i fonemi; la matrice è riempita di valori positivi o negativi per ogni associazione tra fonema e tratto. Diamo qui di seguito la matrice relativa al vocalismo italiano con l’impiego dei tratti jakobsoniani: Tab. 1. Matrice relativa al vocalismo italiano con l’impiego dei tratti jakobsoniani

vocalico

a

e

ε

O

o

i

u

+

+

+

+

+

+

+

consonantico















compatto

+













diffuso











+

+

grave







+

+



+

teso



+





+

+

+

Nell’ambito della teoria fonologica di impianto strutturalista, la marca è dunque nozione formale e dipendente dal sistema fonologi-

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co in esame, legata al segno positivo o negativo che caratterizza un dato fonema in rapporto ad uno specifico tratto distintivo. Nella fonologia generativa, la nozione acquista invece una forte caratterizzazione in senso universalistico. Marcato diventa così sinonimo di scarsamente attestato nelle lingue naturali e, nel contempo, di appreso tardi dal bambino durante il processo di acquisizione linguistica; al contrario, non marcato viene a significare relativamente frequente dal punto di vista tipologico e, in parallelo, acquisito precocemente dal bambino. Una matrice come quella presentata nella tabella 1 è interamente specificata, perché ogni incrocio tra righe e colonne è riempito da un segno positivo o negativo. I tratti presenti in questo caso devono essere tutti specificati, perché pertinenti. Se aggiungessimo i tratti di sonorità o di continuità, il loro valore sarebbe invece diverso, dal momento che la marca positiva per questi due ultimi tratti può essere derivata dal tratto di vocalicità. Non tutti i tratti che concorrono a definire un segmento nei termini di una matrice hanno lo stesso valore: alcuni sono da considerarsi primari o pertinenti, mentre altri possono essere considerati ridondanti, nel senso che il loro valore può essere derivato a partire da un altro tratto presente nella matrice. Tenendo conto delle solidarietà che esistono fra i tratti all’interno dei segmenti, diventa quindi possibile non indicare i valori dei tratti ridondanti nelle matrici fonologiche; in questo caso, si dirà che uno o più tratti sono sottospecificati. 2.6. Le regole fonologiche Nella teoria generativa standard, il passaggio dalla struttura profonda, o soggiacente, a quella superficiale avviene mediante le regole. Le regole fonologiche sono dispositivi formali che esprimono i mutamenti che ricorrono nella conversione di una rappresentazione soggiacente astratta nella corrispondente forma fonetica concreta. Il formato tipico di una regola è il seguente: (1)

AB/C

da leggersi: «l’unità (segmento o tratto) A diventa () B nel contesto (/) indicato da C». Il processo di spirantizzazione attivo in Toscana in contesto intervocalico, comunemente noto come gorgia, che genera forme su-

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perficiali quali [a'mi:ho], ['sta:Qo], [a'φεrto] per amico, stato, aperto, può essere descritto mediante il ricorso alla regola segmentale: (2)

/k, t, p/



[h, Q, φ]

/

V_V

che si leggerà: «i segmenti /k, t, p/ diventano spiranti nel contesto in cui siano preceduti e seguiti da un segmento vocalico». La stessa regola espressa mediante il ricorso ai tratti sub-segmentali avrà invece la seguente forma: (3)

− sill + cons − cont − son



[+cont] /

+ sill − − cons

+ sill − cons

I tratti elencati a sinistra della freccia individuano la classe naturale dei segmenti occlusivi sordi che subisce il processo in esame; a destra della freccia viene indicato il tratto il cui valore viene modificato; dopo la barra obliqua, segue il contesto rilevante, che contiene crucialmente la posizione occupata dal segmento in entrata, indicata dal tratto orizzontale. Le regole fonologiche possono eliminare (cancellazione) o inserire segmenti (epentesi) all’interno di una stringa; oppure possono modificare il valore dei tratti, di norma a causa di un condizionamento contestuale. L’alternanza tra [s] e [z] nelle forme del plurale in inglese è, ad esempio, determinata dal segmento che precede la sibilante, per cui cats, books, con [-s], ma dogs, bags, con [-z]. La regola sub-segmentale corrispondente avrà questa forma (si veda il capitolo di Thornton in questo volume): (4)

− sill + cons + cor + cont + ant − son



− sill + cons [+son] / _ + son # − cont

3. Fonologia: le strutture

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3. La fonologia non lineare 3.1. Derivazione e rappresentazione Nello sviluppo del generativismo, la distanza tra la struttura profonda e quella superficiale è andata progressivamente riducendosi. A partire dagli anni Settanta del Novecento, in fonologia, analogamente a quanto è accaduto in sintassi, la rappresentazione e i principi che la governano hanno assunto una rilevanza sempre maggiore, a discapito dell’apparato derivazionale (si veda il capitolo di Rizzi in questo volume). Di conseguenza, abbiamo assistito alla scomparsa pressoché totale delle regole, sostituite ora da restrizioni (constraints) sulla rappresentazione. La critica del paradigma derivazionale ha avuto come bersaglio principale il principio di linearità, risalente già a Saussure (1916). Tale principio deriva dall’immagine del continuum fonico come una linea ininterrotta di elementi, immagine espressa nell’adozione del sintagma tradizionale catena fonica: ogni anello della catena corrisponde ad un fonema, ed è inserito in una successione ordinata nel tempo. In primo luogo, la scomposizione del fonema in tratti distintivi mette in crisi la linearità stretta: i tratti sono infatti simultanei e non organizzati linearmente. In secondo luogo, molti processi fonologici sono sensibili ad un contesto più ampio del segmento e non ristretto a segmenti contigui; ad esempio la metafonia. Lo studio delle lingue tonali africane ha dato un impulso determinante allo sviluppo della fonologia non lineare, in particolare nel suo modulo autosegmentale (Goldsmith 1990). I toni sono infatti unità soprasegmentali; inoltre, i toni complessi, del tipo ascendente-discendente o, viceversa, discendente-ascendente, mostrano l’associazione non biunivoca sia con le unità segmentali sia con quelle sillabiche. Dal superamento della linearità sono derivati i vari moduli della fonologia non lineare, tutti basati sull’adozione di livelli plurimi di rappresentazione. Di norma vengono riconosciuti i livelli segmentale, scheletrico, sillabico, metrico e tonale. I vari modelli proposti negli anni Ottanta sono essenzialmente configurazionali, e non più derivazionali. 3.2. Il livello scheletrico Nella fonologia non lineare, il livello astratto, detto scheletrico (skeletal tier), è responsabile dell’assetto della stringa fonetica, ed è rappresentato formalmente mediante una serie di x, ciascuna delle qua-

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li corrispondente ad un’unità temporale (timing slot). Questo livello gioca un ruolo cruciale nella struttura fonologica, in quanto costituisce il punto di collegamento per le unità che appartengono ai diversi livelli della rappresentazione. Per illustrare la funzione dello scheletro, si ricorre di solito alla metafora del libro: i singoli livelli di rappresentazione sarebbero assimilabili alle pagine, mentre lo scheletro sarebbe la costola del libro, che tiene insieme le singole pagine. Le unità dei diversi livelli devono trovare il loro punto di ancoraggio nello scheletro; se un’unità di un qualsiasi livello non è ancorata al livello scheletrico, rimane fluttuante (floating) e non può essere prodotta a livello fonetico. Le unità di un livello sono messe in rapporto con quelle degli altri livelli grazie ad alcuni principi di collegamento, che obbediscono in primis al vincolo del binarismo. Formalmente, il collegamento avviene mediante linee di associazione, massimamente binarie. I singoli livelli, o strati, per quanto collegati tra di loro, sono autonomi l’uno rispetto all’altro; in particolare, non esiste un rapporto di biunivocità stretta tra le unità di livello diverso. 4. La sillaba 4.1. Rilevanza e definizione Sia la fonologia strutturale che quella generativa standard hanno generalmente escluso la sillaba dall’analisi fonologica (con l’eccezione di Jakobson). In Chomsky e Halle (1968), le questioni legate alla sillaba venivano risolte mediante il semplice ricorso al tratto [sillabico]. Negli anni Settanta, si assiste ad una svolta radicale. Il successo della sillaba nella letteratura fonologica degli ultimi trent’anni è strettamente connesso con lo sviluppo della fonologia non lineare, di cui costituisce un livello di rappresentazione imprescindibile (cfr. supra). Va ricordato che sia il termine che la categoria di sillaba appartengono stabilmente al lessico tradizionale della grammatica. Una nozione intuitiva di questa entità è del resto presente nella coscienza metalinguistica dei parlanti di ogni lingua naturale. La rilevanza della sillaba è dimostrata anche dagli studi sugli errori linguistici, commessi sia da parlanti normali che afasici, tanto che nella letteratura psicolinguistica recente la rappresentazione sillabica è di norma assunta come livello del lessico mentale (si veda il capitolo di Romani in questo volume).

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3. Fonologia: le strutture

La sillaba può essere definita come l’unità soprasegmentale che consiste di almeno un nucleo, o apice sillabico, in cui si concentra il massimo della sonorità. Di norma, l’apice sillabico coincide con una vocale, ma in molte lingue può essere costituito anche da segmenti sonoranti (ad esempio cèco Vltava, Brno). 4.2. La struttura sillabica Il modello di sillaba assunto di norma nella teoria fonologica è il seguente: (5)

$ R (A)

N

(Cd)

I costituenti sillabici sono il Nucleo (N), l’Attacco (A) e la Coda (Cd); nucleo e coda costituiscono la Rima (R). Questa struttura è di tipo gerarchico binario. L’unico elemento imprescindibile della sillaba è il nucleo, come risulta formalmente dall’uso delle parentesi2. In riferimento al modulo X-barra della sintassi generativa, potremmo dire che il nucleo è la testa della struttura sillabica, mentre l’attacco corrisponde allo specificatore e la coda al complemento (si veda il capitolo di Rizzi in questo volume). Formalmente: (6)

N'' N' (Spec)

N

(Comp)

La rilevanza della rima è dimostrata dal fatto che nelle lingue naturali, gli algoritmi di assegnazione dell’accento lessicale sono spesso sensibili alla struttura di questo costituente, mentre la ricchezza maggiore o minore dell’attacco non sembra giocare alcun ruolo. Ad esem2 Nella prassi invalsa in fonologia generativa, le parentesi tonde indicano l’opzionalità dell’elemento incluso tra di esse.

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pio, nel latino classico, l’accento di parola cade sulla penultima sillaba se lunga, vale a dire se comprende una vocale lunga o un dittongo, oppure una vocale breve seguita da una consonante in coda; altrimenti, cioè se la penultima sillaba è formata da una vocale breve priva di consonante in coda, l’accento cade sulla terzultima sillaba. L’algoritmo accentuale dipende quindi dalla struttura interna della rima sillabica. 4.3. La scala di sonorità e la gerarchia di forza I diversi segmenti di una lingua naturale possono essere disposti su una scala con indici di sonorità diversi e progressivi per ogni gradino (si veda il capitolo di Savy in questo volume). I segmenti vocalici e quelli sonoranti, che hanno valori di sonorità maggiori a quelli relativi alle consonanti ostruenti, occupano posizioni alte nella scala; tra le ostruenti, le occlusive sorde occupano il gradino più basso della scala. Data una stringa fonetica, la posizione di nucleo sillabico è associata ai segmenti che presentano il maggiore valore di sonorità, mentre i segmenti con valori bassi di sonorità tenderanno ad occupare i margini della sillaba, vale a dire, le posizioni di attacco e coda. Speculare rispetto alla scala di sonorità è la gerarchia di forza consonantica: ai segmenti di maggiore sonorità è associato un indice minimo di forza; viceversa, le consonanti con indici minimi o nulli di sonorità occupano le posizioni più elevate nella gerarchia. In sintesi, i valori di sonorità e di forza sono opposti. Con riferimento ai segmenti italiani, la scala di sonorità e l’opposta gerarchia di forza sono le seguenti: (7)

+ sonoro

− sonoro

a εO eo iu i8 u8 jw liquide nasali fricative sonore fricative sorde affricate sonore affricate sorde occlusive sonore occlusive sorde

− forte

+ forte

3. Fonologia: le strutture

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Un principio generale della struttura sillabica prevede che i segmenti si dispongano secondo valori crescenti di sonorità (e decrescenti di forza), a partire dal margine sinistro verso il nucleo, e secondo valori decrescenti di sonorità (e crescenti di forza), a partire dal nucleo verso il margine destro della sillaba. In rapporto a questo principio, i due segmenti di sequenze quali rt o lp potranno essere tautosillabici soltanto se associati al costituente coda, visto che la sonorità diminuisce passando da una liquida ad un’occlusiva; viceversa, le sequenze speculari (tr e pl) potranno costituire un attacco complesso, ma non essere associate ad una stessa coda. 4.4. Il peso sillabico La nozione di peso sillabico dipende dal riconoscimento della rima, dal momento che solo i costituenti nucleo e coda concorrono a determinare se una sillaba è pesante o leggera. Data la stretta solidarietà esistente nelle lingue naturali tra peso e accento lessicale, potremmo dire che le sillabe accentate tendono ad essere pesanti. Come abbiamo visto nel § 3.2, la fonologia non lineare assume un livello astratto, detto scheletrico. In questa prospettiva, una rima sarà pesante se associata a due unità scheletriche astratte3, mentre sarà leggera se associata ad una sola unità. La forma canonica di una sillaba leggera è data da una rima costituita soltanto da un nucleo breve, mentre una sillaba pesante può avere essenzialmente il formato di una vocale lunga o di un dittongo, oppure di un nucleo breve seguito da una consonante tautosillabica che occupa la posizione di coda. Saranno pertanto pesanti le sillabe iniziali di carta o etto, leggere quelle di farina o casetta. Il tratto di lunghezza (o tensione) conferisce peso alla sillaba; in italiano la lunghezza è distintiva nel consonantismo (si vedano le coppie minime casa~cassa, calo~callo, ecc.), ma non nel vocalismo. Tuttavia, a livello fonetico superficiale, ricorrono anche vocali lunghe, limitate al contesto di sillaba accentata aperta non finale di parola, ad esempio /'sa.le/ = ['sa:le]. In sillaba tonica finale, invece, le vocali sono sempre brevi, ad esempio città, cantò, caffè. In un quadro non lineare, l’allungamento viene interpretato alla luce di una restrizione (constraint) operante sulla struttura sillabica:

3 Le unità astratte che concorrono a determinare il peso sillabico, necessariamente associate ai costituenti nucleo e coda, sono dette talora anche more.

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una sillaba accentata deve avere la rima pesante. Questo requisito appare soddisfatto nel caso in cui la rima sillabica contenga un segmento in coda. Se questa condizione non si verifica, l’allungamento della vocale accentata provvede a ripristinare il giusto peso sillabico, operando come una vera e propria strategia di riparazione. Di conseguenza, in parole come cam.po, sas.so, bar.ca, la vocale accentata rimane breve, perché il giusto peso sillabico è garantito alla sillaba tonica dalla presenza di una consonante in coda, mentre in parole come so.le, ma.re, ta.vo.lo, l’allungamento vocalico provvede ad assicurare il peso sillabico adeguato alla sillaba accentata. In sillaba finale accentata, l’adeguamento del peso sillabico avviene invece mediante il Rafforzamento Fonosintattico (RF), processo fonologico che consiste nella geminazione, o allungamento, della consonante iniziale di una parola, quando sia preceduta da parola terminante con vocale accentata (parlò bene [parªlO 'b:ε:ne], caffè lungo [kaªf:ε 'l:uNgo], oppure da alcuni morfemi specifici (ad esempio a casa [a 'k:a:sa], io e lui [ªi:o e 'l:ui]4. 5. Fonologia metrica 5.1. L’accento lessicale L’accento lessicale ha funzione distintiva in alcune lingue (ad esempio l’italiano: càpito/capìto/capitò, àncora/ancóra), ma non in altre (ad esempio il francese). Nel primo caso, l’accento non ha di norma una posizione fissa nella parola, ma è libero e, almeno entro certi limiti, impredicibile; l’informazione relativa alla posizione dell’accento deve pertanto essere contenuta nel lessico, diversamente da quanto avviene nelle lingue ad accento fisso. Vi sono anche lingue nelle quali l’accento, pur non essendo fisso, è prevedibile sulla base del peso sillabico; ad esempio, il latino classico era sensibile al peso della penultima sillaba di parola, che funzionava come «pendolo» prosodico (cfr. § 4.4). Un residuo dell’algoritmo latino è ancora visibile in italiano, dal momento che, nel lessico di derivazione latina, una 4 Diacronicamente, il processo è generato in entrambi i contesti dall’assimilazione della consonante finale di una parola (o di un morfema) con quella iniziale della parola seguente; ad esempio, lat. ad casam > ital. [a 'k:a:sa]. In sincronia, in considerazione del diverso contesto che innesca il processo, si è soliti tenere distinto il RF morfologico, indotto da specifici morfemi (preposizioni, congiunzioni, ecc.), dal RF fonologico, che risulta prosodicamente condizionato.

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penultima sillaba che presenti una consonante in coda è di norma accentata; ad esempio cipolla, ornamento5. All’interno del dibattito teorico sviluppatosi in seno alla fonologia generativa sul contrasto derivazione versus rappresentazione, una posizione centrale è stata occupata fin dall’inizio dalle tematiche accentuali. L’affermazione di una prospettiva gerarchica e polistratica ha infatti trovato un impulso primario nello studio degli aspetti soprasegmentali del linguaggio. Nella fonologia generativa standard, l’accento lessicale era trattato alla stregua di un tratto segmentale, associato alla vocale tonica di parola. Gli studi di fonetica sperimentale hanno dimostrato che l’accento ha un dominio più ampio del singolo segmento vocalico. Inoltre, è possibile stabilire se una qualsiasi sillaba è accentata o atona solo comparandola con almeno un’altra sillaba per i parametri fonetici (durata, intensità, tono) di volta in volta pertinenti per la percezione dell’accento. Dalla critica del trattamento dell’accento in Chomsky e Halle (1968), nonché dal parallelo riconoscimento della natura relativa e contrastiva della fenomenologia accentuale, ha preso le mosse la fonologia metrica, un modulo della fonologia non lineare. I modelli di rappresentazione formale proposti sono essenzialmente due, basati rispettivamente sul piede metrico e sulla griglia metrica (Liberman e Prince 1977). Poiché i principi sottesi sono fondamentalmente gli stessi, ci limiteremo ad illustrare, sia pure sinteticamente, solo il primo dei due modelli sopra citati. 5.2. Il piede metrico Elemento fondamentale dell’intera architettura del modulo accentuale, il piede metrico (metrical foot)6 è il costituente dell’albero prosodico che si compone di due sillabe, di cui una prominente, associata al nodo forte, e l’altra non prominente, associata al nodo debole. Nello 6 Da rilevare che nelle parole di nuova formazione, come pure nei prestiti più recenti, si osserva un superamento di questa tendenza, poiché si tende a ritrarre l’accento lessicale verso il margine sinistro della parola, indipendentemente dalla pesantezza della penultima sillaba; per esempio Ìnternet, Èternit, Fìninvest. 7 Foot rinvia alla tradizione degli studi prosodici di area anglosassone, cui apparteneva stabilmente già prima dell’avvento del generativismo e in cui indicava il gruppo ritmico costituito da una sillaba tonica e dalle sillabe atone seguenti. L’accento tendenzialmente protosillabico dell’inglese ha senz’altro favorito l’identificazione del foot con il trocheo, che ha il suo elemento forte, la ‘testa’, sul lato sinistro.

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schema seguente, presentiamo il grafo ad albero della parola italiana tasto7: (8)

t

a

s

t

$f

o $d

P La sillaba forte costituisce la testa del piede. La posizione della testa nel piede rappresenta uno dei parametri assunti dalla fonologia metrica. Come in sintassi, sono ammesse due sole opzioni, mutuamente esclusive: testa iniziale o finale. L’italiano seleziona il parametro «testa iniziale», vale a dire sillaba forte collocata al margine sinistro del piede, il che produce un ritmo di tipo trocaico; il francese seleziona il parametro sull’opzione opposta, il che genera un ritmo giambico. Nelle parole polisillabiche, come pure all’interno della parola fonologica, possono essere presenti più piedi. Ad esempio, in ammirare, vi sono due piedi, di cui il primo è sede di accento secondario e il secondo di accento primario; alla penultima sillaba sarà assegnato lo statuto di Designed Terminal Element (DTE), formalmente definito come l’elemento che risulta dominato da nodi forti nell’intero albero metrico. In rapporto all’ampiezza del piede, in una lingua a testa iniziale, come l’italiano, o l’inglese, sono ammessi trochei (formati da due sillabe, di cui la prima forte) e dattili (tre sillabe, sempre con elemento forte iniziale). Per molto tempo, sono in realtà stati impiegati soltanto piedi trocaici (o giambici, a seconda della selezione operata per il parametro «testa»), in osservanza del binarismo stretto. Per interpretare le strutture accentuali di tipo dattilico, si preferiva ricorrere alla nozione di extrametricalità: una sillaba atona collocata al margine della parola veniva considerata extrametrica, cioè invisibile dall’algoritmo metrico. 7 In questo schema, $f = sillaba forte, $d = sillaba debole, P = piede metrico. Sui fondamenti della teoria metrica, si vedano Goldsmith (1990), Kenstowicz (1994) e, più criticamente, Laks (1997).

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6. La teoria autosegmentale dell’intonazione 6.1. Il livello tonale L’intonazione è uno dei macro-fenomeni prosodici la cui analisi è stata a lungo negletta nell’ambito degli studi linguistici in generale e fonologici in particolare. Anche in questo caso, l’avvento della fonologia non lineare ha segnato una svolta, non solo per aver introdotto uno specifico livello di analisi ad essa consacrato, ma anche per aver affermato l’esistenza di una competenza prosodica autonoma come parte integrante della competenza fonologica dei parlanti di una qualsiasi lingua naturale, e non solo di una lingua tonale (si veda il capitolo di Savy in questo volume). L’intonazione può essere definita come l’andamento melodico dell’enunciato; il suo parametro acustico è la frequenza fondamentale, determinata dalla velocità di vibrazione delle pliche vocali. Le funzioni fondamentali della curva tonale sono sintattiche (segnalazione della modalità, nonché dei confini sintattici maggiori), pragmatiche (intenzioni comunicative del parlante, fenomeni di focalizzazione) ed emotive (espressione degli stati d’animo). Gli approcci teorici elaborati tradizionalmente in linguistica per descrivere ed interpretare la fenomenologia intonativa sono fondamentalmente due: a) modello olistico, o a profili tonali; b) modello discreto, o a livelli tonali. Nel primo modello, il contorno tonale è descritto in riferimento ai movimenti (ascendenti o discendenti) ed alla pendenza delle variazioni della frequenza, mentre nel secondo modello si considerano pertinenti soltanto i livelli. Appartiene al secondo tipo di approccio la teoria autosegmentale dell’intonazione, che condivide gli assunti teorici e metodologici della fonologia non lineare, tra cui in primo luogo il binarismo e il riconoscimento di livelli multipli di rappresentazione. L’intonazione viene rappresentata su uno specifico livello, il livello tonale. 6.2. I «Pitch Accents» Le categorie tonali basilari sono i Pitch Accents, o Toni Accentuali (TA), che possono essere monotonali, o semplici (Alto o Basso), oppure bitonali, o complessi (A+B, B+A). Non sono ammessi TA tritonali, in osservanza del binarismo stretto. I toni di confine sono soltanto monotonali e si differenziano a seconda che si collochino al termine del sintag-

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ma intermedio (B−, A−) oppure del sintagma intonativo (A%, B%). Il contorno melodico, di un sintagma o di un enunciato, è rappresentato sul livello tonale come una sequenza lineare di TA e di toni di confine. I TA sono associati con le sillabe prominenti della stringa. Al TA associato alla sillaba accentata che costituisce il nodo più forte dell’albero metrico (cioè il cosiddetto DTE; cfr. § 5.2) viene assegnato lo statuto di tono nucleare; ad esempio, in «la cugina di mia cognata», il DTE e il nucleo tonale saranno associati alla penultima sillaba del sintagma nominale. Modulo intonativo e modulo metrico sono dunque strettamente collegati, dal momento che la gerarchia metrica non solo determina le potenziali sedi per i TA, ma individua anche la sillaba nucleare. Ancorare la rappresentazione del livello tonale a quella del livello metrico risulta teoricamente motivato all’interno di un’ottica multilineare; ma assumere una dipendenza può implicare l’assegnazione di un carattere sussidiario alla struttura intonativa, rispetto a quella accentuale. Il riconoscimento automatico dell’identità di TA nucleare e DTE comporta, inoltre, l’esclusione di ulteriori fattori, tipicamente pragmatici, che nel parlato spontaneo spesso concorrono a selezionare la posizione del nucleo nell’enunciato. L’individuazione dei TA richiede il duplice riferimento ai due parametri noti in letteratura come alignment e scaling, vale a dire allineamento sull’asse temporale e valore in frequenza dei bersagli tonali. Il primo dei due parametri citati è stato in particolare oggetto di dibattito negli studi recenti di fonologia intonativa. L’aspetto problematico riguarda essenzialmente l’assegnazione del diacritico *, che indica quale delle due sillabe associate ad un TA complesso è accentata; ad esempio, se il TA è marcato B+A*, significa che siamo in presenza di due bersagli tonali, il secondo dei quali (A*) è associato alla sillaba tonica; viceversa, nella notazione B*+A, è la sillaba su cui si realizza il bersaglio Basso ad essere accentata e seguita da una sillaba atona, associata con il bersaglio Alto. 7. «Optimality Theory» 7.1. Aspetti preliminari Gli sviluppi recenti della teoria generativa hanno puntato coerentemente verso il recupero della struttura superficiale. In ambito fonologico, in particolare, l’accresciuto interesse nei confronti della prosodia ha accelerato quella tendenza verso la riduzione dell’apparato

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derivazionale a vantaggio della rappresentazione che si è rivelata proficua anche in altri settori della grammatica. Nel mutato quadro teorico, alcune nuove nozioni si sono da tempo imposte. Tra queste, risulta cruciale quella di constraint, traducibile con «restrizione, vincolo». Ed è proprio questa nozione che si pone alla base della più recente proposta teorica elaborata in seno alla fonologia generativa, vale a dire la teoria ottimalista, originariamente avanzata da Prince e Smolensky (1993). Optimality Theory (= OT), pur muovendosi sulle linee portanti della ricerca in grammatica generativa, sembra per più di un verso rappresentarne il punto estremo. La grammaticalità delle forme rilevabili in superficie è condizionata dalle restrizioni date in partenza: è l’output a determinare quali restrizioni debbano operare e in che modo. La stessa Grammatica Universale è ora vista come una serie di restrizioni che costituiscono l’ossatura della grammatica delle lingue naturali (cfr. Archangeli e Langendoen 1999). L’elemento di maggiore novità presente in OT è dato dalla violabilità delle restrizioni: non essendo reciprocamente coerenti, ma anzi l’una in conflitto con l’altra, le restrizioni non sono più concepite come divieti rigidamente imposti sulla rappresentazione, ma come vincoli che possono essere violati, a seconda delle condizioni contestuali. I singoli vincoli si collocano su una gerarchia di dominanza stretta, cioè ogni vincolo ha assoluta priorità su tutti gli altri che occupano una posizione più bassa nella gerarchia. La gerarchia dei vincoli (constraint ranking) è determinata dall’output superficiale. La differenza tra le lingue viene così ridotta ad una differenza nell’ordine delle restrizioni, universali. Un ulteriore elemento di novità di OT consiste nella sua possibile applicazione anche alla sintassi e alla morfologia. Diversamente che in passato, in questo caso è la fonologia che ha elaborato un modello teorico esportabile anche al di fuori del proprio livello di analisi. Elemento portante di OT è l’affermazione che la grammatica delle diverse lingue naturali debba rispettare il più possibile le convenzioni di marcatezza della Grammatica Universale. Da qui l’idea stessa di ottimalità, intesa come minimo scarto tra input e output. 7.2. La struttura di OT I componenti essenziali di una grammatica in OT sono il generatore (= GEN), i candidati e il meccanismo di valutazione (= EVAL). GEN produce i vari candidati, vale a dire tutte le forme virtualmente possi-

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bili per un lessema. Si osservi che il dispositivo di GEN non è limitato: in teoria, può produrre un numero di candidati infinito. I candidati, cioè le forme generate, vengono quindi valutati da EVAL in rapporto alle restrizioni della Grammatica Universale ed alla loro eventuale violazione. L’interazione tra i vincoli e i candidati è rappresentata convenzionalmente in tavole di formato speciale, denominate tableaux. I vari candidati sono in competizione tra di loro; la loro vittoria dipende dalla risposta che ottengono nella prova di verifica dei vincoli. La posizione occupata da un vincolo nella gerarchia gioca un ruolo determinante nel processo di valutazione: le restrizioni collocate in alto nella gerarchia rivestono un ruolo più significativo rispetto a quelle poste in basso. Ogni qual volta una forma non è in linea con una restrizione posta in posizione elevata nella gerarchia si verifica una violazione detta fatale, che comporta l’automatica esclusione di quel candidato dalla competizione. Il candidato vincente, l’unico che viene effettivamente prodotto a livello superficiale tra tutti i candidati generati, non è tanto quello che presenta il minor numero di violazioni dei vincoli, quanto piuttosto quello che viola restrizioni di basso livello. In questo modello, il dispositivo di produzione delle forme superficiali può dirsi ipertrofico, visto che non genera soltanto una forma, quella effettiva, ma una serie di forme, più o meno compatibili con il set di vincoli postulati. 7.3. Esempi Presentiamo ora qualche restrizione che concerne la struttura sillabica: (9) ONSET NUCLEUS NO-CODA *COMPLEX *N/C

= = = =

tutte le sillabe devono avere un attacco; tutte le sillabe devono avere un nucleo; le sillabe non hanno coda; i costituenti sillabici non devono essere complessi; = le consonanti non devono occupare il nucleo sillabico.

Alla luce di questi vincoli, la sillabazione della parola italiana mirto può essere rappresentata mediante il seguente tableau8: Un tableau si compone di: un input (posto in alto a sinistra), la lista dei possibili candidati in output (a sinistra, in colonna); la serie dei vincoli (collocati sulla prima riga in alto). I simboli convenzionalmente usati in OT sono i seguenti: √ = 8

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(10) mirto

NUCLEUS

N/C

a. mi.rto  b. mir.to c. m.i.rto

√ √ √

√ √ *!

*COMPLEX *! √

ONSET NO-CODA √

*

Dei tre candidati presi in esame, il primo e il terzo sono esclusi in quanto violano restrizioni poste in alto nella gerarchia dei vincoli10, mentre il secondo viene selezionato come ottimale, e quindi vincente, nonostante violi anch’esso una restrizione (NO-CODA), perché in questo caso il vincolo è di basso livello. Se la restrizione NO-CODA fosse stata collocata più in alto nella gerarchia, crucialmente prima di *COMPLEX, il candidato vincente sarebbe invece stato il primo. Nell’analisi della fenomenologia accentuale, è operativo il vincolo NON-FINALITY (= il margine finale della parola non deve essere metrificato), che corrisponde alla classica nozione di extrametricalità (cfr. § 6.2). Un esempio di applicazione di OT in morfologia può essere costituito dalla formazione del plurale nei nomi inglesi (si veda la regola fonologica che rende conto dell’alternanza tra cats e dogs, cfr. § 2.6). In un’ottica ottimalista, si dovrà fare ricorso ad un vincolo VOICE HARMONY, che prevede uniformità di sonorità nei gruppi consonantici eteromorfemici, e che andrà posto in posizione alta nella gerarchia delle restrizioni. 8. Conclusioni In questo capitolo abbiamo inteso delineare un quadro della disciplina che, per quanto sintetico, fosse in grado di illustrare le tematiche di maggiore interesse teorico, seguendo a grandi tappe il percorso diacronicamente svolto in questo campo di studi. La fonologia presenta uno statuto del tutto peculiare nella linguistica del XX secolo. Oltre ad aver giocato un ruolo centrale e fondante, soprattutto nella prima metà del secolo, il suo campo d’azione empirico risulta da tempo ben definito ed essenzialmente unitanon violazione del vincolo sopra indicato; * = violazione; * ! = violazione fatale; . = confine di sillaba;  indica il candidato vincente. 9 Nel tableau, in realtà, poste a sinistra nella linea delle restrizioni collocate sulla prima riga in alto.

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rio, così che la disciplina mostra un assetto delle proprie conoscenze cumulativo e solo in parte antitetico. Si pensi ad esempio ai tratti sub-segmentali, assunti da tutti i modelli correnti, indipendentemente dal tipo e dal numero di tratti prescelti; oppure alla nozione stessa di fonema, comunque presente, sia pure sotto nuova etichetta terminologica. Fulcro del dibattito in corso appare il ruolo della derivazione, e, più in generale, il rapporto tra struttura soggiacente (o lessicale) e struttura superficiale (o fonetica). Ridurre il più possibile lo scarto tra i due piani di analisi, magari fino ad eliminarlo, sembra essere il diktat dei modelli correnti, soprattutto di quello ottimalista; ma in questo sforzo riduzionista si rischia di cancellare le nozioni di distintività e pertinenza, che, a nostro parere, sono invece essenziali in fonologia.

4.

Fonologia: i processi di Cristina Romani

1. Introduzione Le parole sono oggetti complessi. La produzione di parole implica l’accesso sequenziale a vari tipi di rappresentazione. Un messaggio deve essere decomposto in concetti. Ad ogni concetto deve essere associata una forma fonologica e questa deve essere quindi realizzata da programmi articolatori. Infine, questi programmi devono inviare i giusti comandi ai muscoli dell’apparato fonatorio. Queste operazioni avvengono velocemente, dato che di norma, durante una conversazione, produciamo dalle due alle cinque parole al secondo. Per cercare di penetrare l’alchimia di queste trasformazioni sono stati in genere impiegati due metodi. Il primo consiste nell’esaminare cosa succede quando il sistema s’inceppa e la parola prodotta risulta diversa da quella che si intende produrre. Alcuni ricercatori hanno raccolto gli errori compiuti accidentalmente nella conversazione da parlanti normali (Fromkin 1971; Shattuck-Hufnagel 1979; Stemberger 1985); altri hanno analizzato gli errori prodotti da parlanti afasici con difficoltà dovute a lesioni cerebrali che coinvolgono le aree di rappresentazione del linguaggio (Blumstein 1978; Romani e Galluzzi 2005; Romani, Olson, Semenza e Granà 2002). Questi errori seguono delle regole ben precise che valgono indipendentemente dalla lingua, dalla condizione del parlante (normale o afasico) e dal tipo di produzione considerata (ripetizione, linguaggio spontaneo, scioglilingua). Sono queste caratteristiche che hanno attratto l’attenzione di psicologi e linguisti. Il secondo metodo consiste nel condurre esperimenti di laboratorio in cui delle parole devono essere prodotte in tempi ristretti. Si è guardato a come la presentazione di vari tipi di stimoli distrattori

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in diverse condizioni influenzi la velocità e l’accuratezza con cui le parole target sono prodotte. Questo capitolo si concentrerà prevalentemente sulle informazioni che ci forniscono gli errori fonologici sui processi di produzione delle parole. Nella prima parte confronteremo due modelli di produzione di parole considerati tra i più influenti nella letteratura recente: quello di Dell (Dell 1986, 1988; Dell, Schwartz, Martin, Saffran e Gagnon 1997; Foygel e Dell 2000) e quello di Levelt (Levelt 1992; Levelt, Roelofs e Meyer 1999). Esamineremo in particolare come viene elaborata l’informazione e come viene rappresentata la struttura sillabica. Vedremo come i due modelli rendono conto delle caratteristiche degli errori fonologici commessi da parlanti normali. Nella parte successiva esamineremo i principali patterns di errore prodotti da parlanti afasici. Nell’ultima parte presenteremo un nuovo modello che cerca di superare alcune delle carenze teoriche ed empiriche dei modelli esistenti, integrando idee provenienti dalla afasiologia e dalla psicologia sperimentale. 2. Modalità di elaborazione dell’informazione 2.1. Il modello di Dell e il modello di Levelt a confronto 2.1.1. Suddivisione in componenti Come quasi tutti i modelli attuali, anche quelli di Dell e Levelt assumono che il sistema linguistico includa componenti diverse che rappresentano il significato delle parole (il sistema semantico) e la loro forma fonologica (il lessico fonologico). All’interno del lessico si distinguono poi unità che rappresentano parole e fonemi. Questa suddivisione spiega la presenza di errori corrispondenti a unità semantiche, a unità fonologiche lessicali e a singoli fonemi che avvengono comunemente nel linguaggio normale e afasico. Chiameremo errori semantici quelli in cui una parola viene sostituita con un’altra di significato simile od opposto. Per esempio: «Fa un gran caldo..mh..freddo oggi». «Ho visto un cane..mh..gatto». Chiameremo errori fonologici quelli in cui alcuni dei fonemi della parola sono prodotti scorrettamente. Chiameremo fonologici lessicali gli errori che risultano in una parola reale della lingua (cavolo>tavolo; infermiera>cerniera). Questi errori sono stati anche chiamati malapropismi, dal nome del reverendo Malaprop, famoso per l’abbondanza con cui li produceva (Fay e Cutler 1977). Chiameremo fonologici nonlessicali gli errori che non danno luogo a una parola reale. Sono possibili sostituzioni (giraffa>ciraffa), elisioni (giraffa>giaffa), inserzioni

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(giraffa>giriaffa) e trasposizioni di fonemi (giraffa>ragiffa). Nel linguaggio dei parlanti afasici, ma non in quello di parlanti normali, avvengono con una certa frequenza anche errori fonetici; questi sono errori in cui i segmenti fonologici sono selezionati correttamente, ma realizzati in maniera scorretta; per esempio, in italiano, un’ostruente prodotta con un’aspirazione iniziale o una nasale dove il velo non è stato completamente abbassato. Il fatto che alcuni pazienti afasici commettano quasi esclusivamente errori circoscritti ad un tipo specifico (ad esempio, solo semantici, o solo fonologici lessicali o solo fonologici non-lessicali) costituisce una prova ancor più forte a sostegno della natura componenziale del sistema linguistico. 2.1.2. Selezione delle rappresentazioni I modelli di Dell e Levelt condividono con altri modelli alcune assunzioni su come le rappresentazioni mentali vengano «ripescate» dai corrispondenti magazzini di memoria. La metafora, inizialmente suggerita da Morton (si veda il capitolo di Laudanna in questo volume) negli anni Settanta, ma ancora attuale, è che ogni rappresentazione abbia associato un livello di attivazione. Il livello di base varia con la frequenza d’uso: più alta è la frequenza, più alto il livello di attivazione. In presenza di un input, il livello di attivazione sale a seconda del grado di somiglianza con l’input. Per essere selezionate, le rappresentazioni competono tra loro. A seconda dei modelli, vince quella che per prima raggiunge una certa soglia o quella che ha il più alto grado di attivazione ad un momento stabilito. Gli errori di selezione hanno luogo perché occasionalmente una rappresentazione alternativa raggiunge un livello di attivazione più alto di quella target. Tale spiegazione implica l’attivazione simultanea di più rappresentazioni a un dato livello. L’attivazione simultanea di varie rappresentazioni nel sistema semantico è spiegata in modo diverso dai modelli di Levelt e di Dell. Nel modello di Dell, i significati sono rappresentati da sotto-insiemi di tratti distintivi. Questo vuol dire che quando il significato ‘cane’ è attivato, anche il significato ‘gatto’ è parzialmente attivato, poiché condivide con ‘cane’ i tratti: animale, mammifero, domestico, ecc. Nel modello di Levelt i significati corrispondono a unità non decomposte. Tuttavia sono collegati da una rete di legami semantici che specificano la loro relazione (ad esempio, il legame tra i significati di ‘cane’ e ‘gatto’ dice che appartengono alla stessa categoria di animali domestici). Poiché l’attivazione si diffonde lungo questi legami, unità semanticamente relate sono co-attivate.

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Entrambi i modelli spiegano gli errori fonologici non-lessicali ipotizzando che la fonologia di una parola sia rappresentata accedendo ad un insieme comune di fonemi. Questo vuol dire che, per esempio, la parola lana e la parola mela attivano la stessa unità corrispondente al fonema /l/. I legami tra la parola e i fonemi specificano l’ordine di questi ultimi. Questa modalità di rappresentazione in cui i fonemi devono essere ogni volta selezionati ben spiega la presenza degli errori fonologici non-lessicali, ma ha difficoltà nel rappresentare l’ordine dei fonemi specialmente in parole dove lo stesso fonema è ripetuto. La maggior differenza tra i modelli di Dell e Levelt è nel grado di interdipendenza tra i livelli del sistema, in particolare tra il livello di rappresentazione delle parole e quello dei fonemi. Queste diversità hanno conseguenze su come i due modelli spiegano alcune importanti caratteristiche degli errori fonologici lessicali che descriveremo successivamente. 2.1.3. La sovrapposizione temporale I due modelli variano nell’ammettere o meno che l’elaborazione ad un dato livello possa cominciare prima che quella al livello precedente sia terminata. In entrambi i modelli, le rappresentazioni parzialmente attivate nel sistema semantico attivano le corrispondenti rappresentazioni «parola» nel lessico fonologico. Tuttavia, nel modello a stadi discreti di Levelt, i processi che attivano e ordinano i fonemi (codifica fonologica) cominciano solo quando la parola target ha vinto la competizione ed è stata selezionata. Invece, nel modello a cascata di Dell, la codifica fonologica comincia non appena le entrate lessicali cominciano ad essere attivate. Questo vuol dire che più parole sono codificate fonologicamente allo stesso tempo (la parola target, ma anche altre parole semanticamente relate). Solo quando una di queste parole raggiunge un grado di attivazione sufficiente riceve un’ulteriore attivazione che le permette di dominare nel processo di codifica fonologica. 2.1.4. L’interattività Il modello di Dell è un modello interattivo dove tutti i legami di attivazione sono bi-direzionali. In particolare, le unità parola attivano i fonemi corrispondenti (feed-forward), ma questi fonemi attivano di rimando tutte le parole che sono con loro congruenti (feed-back). Così la parola cane attiva i corrispondenti fonemi /k/, /a/, /n/, /e/. Ma il fonema /k/ attiva di rimando /'karta/, /'korto/, /lu'maka/, /'bruko/, ecc. Il fonema /a/ attiva di rimando /'anna/, /a'more/, /kar'tεlla/ e così via. Il modello di Levelt, invece,

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è un modello a senso unico, dove le parole attivano i fonemi corrispondenti ma non avviene il contrario. 2.1.5. Confronto teorico Un sistema a cascata può essere più veloce di uno a stadi discreti, perché l’elaborazione della parola target comincia non appena questa riceve un certo grado di attivazione. Tuttavia, questo sistema è più soggetto ad errore perché più parole sono elaborate in parallelo. L’interattività tra i nodi fonema e i nodi parola può forse trovare la sua giustificazione nella necessità di un sistema di controllo che selezioni delle produzioni corrispondenti a parole ed elimini errori corrispondenti a non-parole. Tuttavia, il sistema proposto da Dell comporta la simultanea attivazione di migliaia di rappresentazioni e riduce la discriminazione tra unità attivate e non. L’implementazione computazionale del modello è stata compiuta con pochissime parole (8 nel modello di Dell et al. 1997), tutte di tre fonemi; non è chiaro come il sistema funzionerebbe cambiando l’ordine di grandezza delle unità. La domanda, dunque, è se le caratteristiche degli errori fonologici e i risultati di esperimenti di laboratorio possano essere spiegati ugualmente bene anche da un modello più semplice come quello di Levelt. 2.2. Caratteristiche degli errori fonologici lessicali I modelli di Dell e di Levelt variano nel modo e nella facilità con cui spiegano l’esistenza degli errori fonologici lessicali (bias lessicale) e la presenza di un sottogruppo di errori che sono semanticamente, oltre che fonologicamente, relati (errori misti). 2.2.1. Il «bias» lessicale Gli errori fonologici lessicali sembrano indicare la selezione di una parola errata nel lessico fonologico. Una domanda che ci si può porre subito, tuttavia, è se questi errori non siano errori fonologici come tutti gli altri che danno luogo ad una parola della lingua «per caso». L’errore tavolo>cavolo, per esempio, potrebbe essere sì un errore di selezione lessicale, ma potrebbe anche essere un errore di selezione fonemica, dove il fonema /k/ è stato selezionato e prodotto invece di /t/ (Butterworth 1979; Ellis 1985, pp. 125-126). Questa è una ipotesi plausibile specialmente per il linguaggio afasico, in cui gli errori fonologici lessicali sono rari mentre quelli non-lessicali sono comuni. Alcuni studi, infatti, hanno mostrato un’incidenza degli errori lessicali non superiore a quella che ci si aspetterebbe in base alla proporzione degli errori non-lessicali

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(Nickels e Howard 1995); altri studi, tuttavia, hanno descritto pazienti che commettono quasi esclusivamente errori fonologici lessicali, dimostrando così la realtà indipendente di questi errori (Best 1996; Blanken 1990, 1998; per un caso analogo in produzione scritta, cfr. Romani, Olson, Ward e Ercolani 2002). La maggior frequenza degli errori fonologici lessicali rispetto a quanto atteso sulla base di quelli non-lessicali è stata chiamata bias lessicale. Il bias lessicale è stato spesso dimostrato negli errori prodotti da soggetti normali in condizioni di laboratorio. Per elicitare gli errori, viene in genere richiesto di produrre degli scioglilingua (ad esempio, «sopra la panca la capra campa, sotto la panca la capra crepa») o, più semplicemente, una serie di parole (in genere 3 o 4) che hanno dei fonemi in comuni: ad esempio, 1) tappo, fatto, tipo, fino; 2) tela, fila, tana, fata, ecc. In queste circostanze, gli errori sono più frequenti quando uno scambio di fonemi genera delle parole esistenti (fogliovino > voglio-fino) piuttosto che quando il risultato consiste in delle non-parole (teglia-fungo >feglia-tungo). È stato anche visto che il bias lessicale dipende dalla velocità di produzione: è più forte quando la velocità è moderata, ma diminuisce quando la velocità aumenta (Dell 1988). Per questo Dell ha considerato il bias lessicale un’indicazione della qualità della elaborazione linguistica. Un sistema che funziona in condizioni ottimali produrrebbe più errori fonologici lessicali di un sistema in condizioni di stress. Questa ipotesi tuttavia mal si accorda con l’esistenza di pazienti afasici, il cui sistema non funziona in modo ottimale, e che perciò commettono un gran numero di errori formali (fonologici od ortografici), ma in cui il bias lessicale è fortissimo, tanto che la stragrande parte degli errori è di questo tipo. 2.2.2. Gli errori misti Per definizione, gli errori fonologici lessicali condividono delle caratteristiche formali con il loro target, insieme ad altre caratteristiche: spesso la classe grammaticale e a volte tratti di significato. Nel caso di errori che sono insieme fonologici e semantici (ad esempio, martello>mattarello; mela>pera) ci si è chiesti di nuovo se questi errori non siano per caso misti. Per esempio, potrebbero essere errori semantici puri, con la condivisione casuale di alcuni fonemi. Contro questa possibilità, però, una serie di studi ha dimostrato che la frequenza degli errori misti è significativamente superiore a quanto ci si aspetterebbe sulla base della frequenza delle due classi di errori puri (lessicali-fonologici e semantici; Martin 1996).

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2.3. Gli errori fonologici: implicazioni per i modelli di Dell e Levelt Il modello di Dell è nato proprio per spiegare le due caratteristiche di errori che abbiamo descritto. Il bias lessicale è una conseguenza della natura bi-direzionale dei legami di attivazione. Facciamo l’esempio di produzione della parola cane. Durante il processo di selezione dei fonemi, anche l’unità pane avrà un certo stato di attivazione, e questo perché i fonemi /a/, /n/, /e/ attivati da cane attivano di rimando la parola pane. In circostanze normali, la parola prodotta sarà cane, perché il fonema /k/ riceve maggiore attivazione dalla parola cane attivata dal sistema semantico. Tuttavia, in condizioni non ottimali (rumore di fondo più elevato, danno alle rappresentazioni semantiche o lessicali, livelli di attivazione che decadono più velocemente del normale, ecc.), l’unità pane può guadagnare terreno nella competizione e determinare la selezione di /p/. La selezione di un fonema che non dà come risultato una parola reale (ad esempio, /d/ > /dane/) è un evento più raro perché un tale fonema non riceverà una dose di attivazione significativa da nessuna unità lessicale. La realtà degli errori misti è una conseguenza diretta della modalità di elaborazione a cascata in cui il processo di codifica fonologica si sovrappone temporalmente al processo di selezione lessicale e può essere influenzato da esso. Prendiamo come esempio l’errore pera > mela. Questo errore è facilitato da due condizioni. Mela condivide con pera due fonemi, e quindi riceve un certo grado di attivazione dal basso in alto (bottom-up). Ma, in aggiunta, riceve un certo grado di attivazione dal sistema semantico dall’alto in basso (topdown), poiché mela e pera condividono una serie di tratti semantici. Questo spiega perché questi errori sono relativamente più frequenti di errori dove la relazione con il target è solo fonologica. Per il modello di Levelt spiegare gli errori fonologici lessicali è più difficile perché non vi è alcuna co-attivazione tra unità parola che condividono fonemi (non vi è attivazione dal basso in alto). Ugualmente, è più difficile spiegare la presenza di errori misti perché quando comincia la codifica fonologica, l’accesso dal sistema semantico al lessico è terminato, e quindi non vi è posto per una simultanea influenza di fattori fonologici e semantici. Levelt risolve il problema facendo derivare il bias lessicale e gli errori misti da meccanismi di controllo che vengono esercitati sulle rappresentazioni di uscita. Questi meccanismi agirebbero sulle rappresentazioni interne

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pre-articolatorie, come dimostrato dal fatto che autocorrezioni possono essere molto precoci, quando solo una parte della parola errata è stata già prodotta vocalmente. La proposta di Levelt è che questi meccanismi di autocontrollo si realizzino rinviando le rappresentazioni fonetiche pronte per la produzione al sistema semantico. Gli errori che corrispondono a parole reali e quelli che condividono caratteristiche, sia fonologiche sia lessicali, con il target sarebbero più comuni perché passano più facilmente inosservati. Il problema principale è che senza maggiori dettagli questa spiegazione è poco più di una ridescrizione dei fenomeni da spiegare (cfr. Roelofs 1997). 3. Modalità di rappresentazione sillabica In questa parte del capitolo ci chiederemo se le rappresentazioni fonologiche siano organizzate in unità intermedie tra i fonemi e i morfemi; in altre parole, se siano organizzate in sillabe, e discuteremo le modalità e le funzioni di questa organizzazione. Le caratteristiche degli errori fonologici non-lessicali sono state importanti nel motivare la rappresentazione delle sillabe nei modelli di Levelt e Dell. Cominceremo dunque con il descriverle. 3.1. Caratteristiche degli errori fonologici non-lessicali Come gli errori fonologici lessicali anche quelli non-lessicali hanno delle caratteristiche comuni che sono state importanti nell’informare i modelli di produzione di parole. a) Unità oggetto di errore. Gli errori riguardano per la maggior parte singoli fonemi. Assai meno comunemente corrispondono a gruppi consonantici o a combinazioni di consonanti e vocali (Fromkin 1971; Wilshire 1998). b) Preservazione della posizione sillabica. Gli errori commessi da parlanti normali in linguaggio spontaneo riguardano per la maggior parte movimenti di fonemi. Quando un fonema è anticipato, ripetuto o trasposto va, in genere, ad occupare lo stesso tipo di posizione all’interno di un’altra sillaba. L’attacco della sillaba è la parte iniziale che precede la vocale; la coda è la parte finale dopo la vocale: ad esempio, in /’pon.te/, /p/ è l’attacco e /n/ la coda della prima sillaba. Gli spostamenti sono da attacco ad attacco (il cartello sul ponte> il partello sul conte) o da coda a coda (il cartello sul ponte> il cantello sul porte), ma non da attacco a coda o viceversa (il cartello sul ponte> il nartello

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sul pocte) (Fromkin 1971; MacKay 1970; Shattuck-Hufnagel 1979). Inoltre quando gli errori coinvolgono fonemi adiacenti, questi corrispondono più frequentemente a sequenze che possono costituire il componente sillabico rima, per esempio VC (si veda il capitolo di Marotta in questo volume; Dell, Juliano e Govindjee 1993). c) Preservazione della distinzione in consonanti e vocali. Generalmente le vocali sono sostituite con altre vocali e le consonanti con altre consonanti. MacKay (1970) e Stemberger (1983) non riportano nessuna violazione di questa regola. Secondo Shattuck-Hufnagel (1979), queste violazioni sono estremamente rare. Lo stesso fenomeno si verifica nel linguaggio afasico. d) Preservazione delle regole fonotattiche della lingua. Le regole fonotattiche stabiliscono quali sequenze di suoni sono possibili nella lingua e quali sono escluse. La stragrande maggioranza degli errori preserva queste regole. Per esempio, l’italiano non ha attacchi costituiti da una nasale più una liquida (*/nra/, */mla/). Questi attacchi non vengono prodotti neanche negli errori (con minime eccezioni). Questi vincoli sono rispettati con grande sistematicità sia da parlanti normali che afasici in tutte le condizioni in cui è prodotto linguaggio: linguaggio spontaneo, lettura, scioglilingua, denominazione di figure, ecc. e) Ruolo speciale per il fonema all’inizio della parola. La gran parte degli errori di movimento commessi da parlanti normali avviene in linguaggio spontaneo e coinvolge lo scambio del fonema iniziale di due parole (in genere una consonante e quindi un attacco). La frequenza di questi errori mette in dubbio la necessità di postulare un più generale principio di rispetto della posizione sillabica (Berg 1991; Meijer 1997; Shattuck-Hufnagel 1992). Questa propensione all’errore per i fonemi iniziali, però, non è presente in tutte le condizioni. Per esempio, Wilshire (1998) ha trovato che è presente nella ripetizione di serie di parole, ma non di non-parole. Inoltre, nel caso di pazienti afasici o di parlanti normali con la parola «sulla punta della lingua», l’inizio della parola mostra un vantaggio invece di uno svantaggio, nel senso che è recuperato più facilmente. Wilshire spiega questi risultati contrastanti ipotizzando un modello di attivazione lessicale con due caratteristiche: 1. i fonemi di una parola hanno un gradiente di attivazione per cui il fonema iniziale ha un’attivazione massima e quelli seguenti un’attivazione progressivamente inferiore; questo garantirebbe la produzione dei fonemi nell’ordine corretto. Questo spiegherebbe anche perché i fonemi iniziali sono recuperati meglio in compiti di denominazione.

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2. vi sono legami reciproci di inibizione tra entrate lessicali. Più una rappresentazione è attiva, più inibisce rappresentazioni rivali. Questa competizione spiegherebbe perché i fonemi iniziali sono più soggetti ad errore in produzione di frasi. La competizione sarebbe meno forte per gli altri fonemi per l’inibizione crescente esercitata dalla parola target sulle rivali. f) Maggiore probabilità d’errore in contesti fonologici simili. Scambi di posizione tra fonemi sono più frequenti quando questi condividono la maggior parte dei tratti distintivi. Inoltre anticipazioni, ripetizioni e scambi di fonemi sono tutti più comuni quando un fonema si muove in una posizione che è circondata da fonemi simili a quelli che circondavano la posizione originaria (una bella caramella > una mella carabella).

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4. Fonologia: i processi

laba. Il meccanismo di selezione e copia assume una separazione tra forma (la struttura sillabica) e contenuto (i fonemi) che è alla base di un approccio linguistico detto fonologia autosegmentale (si veda il saggio di Marotta in questo volume). Secondo questo approccio, ogni parola è costituita da più livelli o piani. Struttura e contenuto fonologico sono due di questi piani. Un esempio è fornito qui sotto. σ′

σ

Livello sillabico

A

A

N

A

N

Livello scheletrico

X

X

X

X

X

Livello vocalico

3.2. Rappresentazione sillabica: implicazioni per i modelli di Dell e Levelt

t

r

ε

n

o

Livello consonantico

3.2.1. Meccanismi di selezione e copia I modelli di Dell e Levelt hanno usato un meccanismo simile per rendere conto del fatto che gli errori rispettano la posizione sillabica. Questo meccanismo, noto come selezione e copia (scan and copier mechanism), è stato proposto per la prima volta da Shattuck-Hufnagel (1979, 1992). I fonemi presenti nella parola verrebbero copiati in una serie di caselle vuote categorizzate per posizione sillabica. Queste caselle rappresenterebbero una sorta di scheletro sillabico della parola. Sarebbero associate alla rappresentazione lessicale (nodo parola), così come i fonemi, ma solo al momento della produzione le caselle verrebbero per così dire «riempite» con i fonemi corrispondenti. In condizioni non ottimali, un fonema può essere saltato, copiato due volte o assegnato alla posizione sbagliata. Il rispetto del vincolo di posizione è garantito dal fatto che i fonemi sono categorizzati in tre gruppi: fonemi attacco, fonemi coda e fonemi nucleo (ci sarebbero dunque due /n/: /n/attacco e /n/coda). Il meccanismo di copia funziona solo se l’etichetta sillabica del fonema e quella della casella coincidono (per modelli simili cfr. anche MacKay 1972; Meijer 1997; Stemberger 1991). Il meccanismo di selezione e copia spiega anche la preservazione della distinzione in consonanti e vocali (solo una consonante, infatti, potrà essere inserita nelle caselle marcate attacco e coda, e soltanto una vocale nelle caselle marcate nucleo) e la preservazione delle regole fonotattiche: è chiaro che se un fonema era ammesso in una certa posizione in una sillaba lo sarà anche nella stessa posizione in un’altra sil-

Nei modelli di Shattuck-Hufnagel, Dell e Levelt, questa separazione è portata alle sue estreme conseguenze. Nella fonologia autosegmentale, contenuto e struttura fonologica sono messi in stretta relazione l’uno con l’altra da legami di congiunzione che seguono regole precise. Nei modelli psicolinguistici, invece, ogni relazione è perduta. Nel modello di Dell, la sequenza di fonemi corrispondenti ad una parola e la struttura sillabica sono rappresentate nel lessico da nodi completamente distinti. Nel modello di Levelt, solo le parole irregolari sono associate a delle unità che rappresentano numero di sillabe e accento. In entrambi i modelli, tuttavia, il sistema linguistico recupera dal lessico o computa per ogni parola una serie di caselle sillabiche in cui solo successivamente copia i relativi fonemi. Il meccanismo di selezione e copia ipotizzato da Shattuck-Hufnagel, Dell e Levelt, ha due punti deboli fondamentali. Il primo è l’ipotesi di unità strutturali formali slegate dai fonemi che organizzano. Questa separazione è in contrasto con la ragione d’essere delle sillabe, che è appunto quella di organizzare il contenuto fonologico. I dati sperimentali non hanno inoltre fornito prove a sostegno dell’esistenza di unità strutturali «vuote». Il secondo è l’ipotesi che i fonemi nel lessico siano categorizzati per posizione sillabica. Questa distinzione potrebbe avere una giustificazione a livello fonetico, visto che in alcuni casi i fonemi hanno realizzazioni articolatorie diverse a seconda della posizione sillabica (in inglese, per esempio, le

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consonanti ostruenti sono pronunciate aspirate in posizione di attacco, ma non in posizione di coda), ma non ha alcuna motivazione ad un livello fonologico, che per definizione è più astratto. 3.2.2. Unità segmentali corrispondenti a sillabe Tanto il modello di Dell che quello di Levelt ipotizzano sia unità strutturali vuote corrispondenti a sillabe sia unità piene corrispondenti ciascuna ad una sillaba con un contenuto fonologico preciso. I due modelli, tuttavia, ipotizzano che queste unità esistano a livelli diversi. Nel modello di Dell sono a livello fonologico. La loro funzione è di rappresentare l’ordine dei fonemi. Ogni unità parola è legata alle corrispondenti unità sillabe tramite legami con diverso grado di attivazione (il legame con la prima sillaba è il più forte di tutti, seguito dal secondo, che è più forte del terzo e così via). Ciò fa sì che le sillabe siano selezionate in ordine una dopo l’altra (Dell 1986). L’ordine all’interno della sillaba è garantito dal fatto che i fonemi sono etichettati per posizione sillabica. Levelt, invece, ritiene poco utile un’organizzazione delle rappresentazioni lessicali in sillabe. Egli nota che, per garantire una produzione fluida, le parole devono essere comunque spesso risillabificate tenendo conto delle parole adiacenti. In inglese e in olandese è comune il caso di parole che terminano con una coda e sono seguite da una parola che comincia per vocale. In questo caso, la coda si trasforma nell’attacco della sillaba successiva. Per esempio, un’espressione come run away può essere realizzata come ['rUn.ë'wei] oppure come ['rU.në.ªwei], dove la /n/, originariamente in coda, diviene l’attacco della sillaba seguente. Levelt ipotizza, invece, che unità corrispondenti a sillabe esistano a livello fonetico con la funzione di facilitare la produzione articolatoria. Dopo la codifica fonologica, le rappresentazioni (costituite a questo punto da caselle sillabiche riempite) sarebbero mantenute attive in un buffer di uscita e trasformate in altrettante rappresentazioni articolatorie. Vi sono buone ragioni per ritenere necessario il computo di rappresentazioni articolatorie prima che i comandi siano inviati ai rispettivi muscoli motori. Nella produzione sia di frasi sia di parole bisogna stabilire il contorno prosodico, la qualità della voce (dolce, arrabbiata, ecc.) e la forma fonetica dei fonemi. Nel caso di una frase, inoltre, è necessario che le parole siano legate l’una all’altra in una produzione fluente. Levelt assume che le rappresentazioni fonologiche nel buffer accedano ad un sillabario, ovvero a un magazzino di pacchetti articolatori corrispondenti a sillabe. Avere dei pacchetti pre-computati al-

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leggerirebbe il lavoro di programmazione articolatoria. La sillaba inoltre sarebbe l’unità ideale perché il sistema non deve preoccuparsi della variazione allofonica che è generalmente intra-sillabica. Le sillabe verrebbero attivate in funzione della loro congruenza con il contenuto fonologico e secondo un gradiente di frequenza. Le sillabe più comuni sarebbero attivate più velocemente e accuratamente delle sillabe meno comuni. Le considerazioni empiriche non sostengono però l’ipotesi di unità corrispondenti a sillabe sia a livello fonologico che articolatorio. Levelt e Wheeldon (1994) hanno riportato risultati che indicano una maggior facilità nel produrre parole costituite da sillabe frequenti piuttosto che poco frequenti. Tuttavia, è assai difficile separare effetti dovuti alle sillabe da effetti dovuti ai segmenti che le compongono e, controllando questo fattore, i risultati non sono stati replicati (Levelt et al. 1999). Anche le caratteristiche degli errori fonologici non sono a favore dell’esistenza di unità corrispondenti a sillabe. Secondo Levelt, il processo di attivazione e selezione delle sillabe ha caratteristiche simili a quelli che coinvolgono parole e fonemi. Non è chiaro, quindi, perché errori corrispondenti a sillabe siano così rari. Per spiegare questa mancanza, Levelt sostiene che: a) le sostituzioni di sillabe sono comuni ma indistinguibili da quelle di fonemi, perché due sillabe simili avranno spesso tutti i fonemi in comune tranne uno; b) le trasposizioni di sillabe sono rare perché gli errori di movimento avvengono solo nel processo di copia dal lessico al buffer fonologico e nel lessico non ci sono unità sillaba; c) le inserzioni ed elisioni di sillabe sono rare, ma lo stesso vale per i fonemi. Queste spiegazioni potrebbero essere meglio verificate da studi futuri che utilizzino il linguaggio afasico, in cui gli errori sono più numerosi e più complessi. L’ipotesi di unità corrispondenti a sillabe predice che una buona parte degli errori nei quali fonemi adiacenti sono cancellati o inseriti corrisponderanno a sillabe. 4. Gli errori dei pazienti afasici Un buon modello deve render conto non solo di come si comporta il sistema linguistico in condizioni ottimali, ma anche delle sue caratteristiche in condizioni di stress, apprendimento o danno cerebrale. In questa sezione vogliamo descrivere brevemente i diversi patterns di errori prodotti dai pazienti afasici e il modo in cui sono stati simulati dai modelli di Dell e Levelt.

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Gli errori fonologici nei pazienti afasici presentano caratteristiche eterogenee che sono da mettere in relazione con tipi diversi di danno cognitivo. Abbiamo già visto che alcuni pazienti commettono prevalentemente errori fonologici lessicali. Questi errori potrebbero derivare da un elevato livello di «rumore» nel lessico che rende la discriminazione tra unità relate più difficile. Un problema per questa interpretazione è che, in produzione, le entrate nel lessico sono attivate dal sistema semantico. Dato un input semantico, errori di selezione dovrebbero essere semanticamente e non fonologicamente relati. Abbiamo visto che il modello di Dell risolve il problema ipotizzando non solo un’attivazione delle entrate lessicali semantiche (dall’alto in basso), ma anche un’attivazione fonologica di ritorno (dal basso in alto). Questa attivazione di ritorno è responsabile degli errori lessicali anche nei parlanti afasici. La maggior parte dei pazienti afasici, però, commette errori fonologici che non producono un’altra parola della lingua. Questi errori riguardano spesso la sostituzione o elisione di singoli fonemi o più raramente la loro inserzione e trasposizione. Studi dal nostro laboratorio indicano che questi errori hanno due fonti principali (Romani e Calabrese 1998; Romani et al. 2002; Romani e Galluzzi 2005). Alcuni pazienti hanno un deficit di selezione fonologica. In questi pazienti, gli errori riflettono una degradazione/disorganizzazione dell’informazione sull’identità e l’ordine dei fonemi corrispondenti alle parole. Un secondo gruppo di pazienti ha un deficit che definiremo fonologico-articolatorio. Questi pazienti fanno errori superficialmente simili a quelli dei primi. La differenza è che gli errori sono per lo più mirati a ridurre la complessità sillabica e presumibilmente articolatoria delle sequenze da produrre. Ad esempio, errori di elisione e inserzione eliminano strutture sillabiche marcate come attacchi complessi, code, iati e vocali all’inizio di parola; le sostituzioni riducono la sonorità delle consonanti in attacco ma non in coda, cosa che secondo il principio di dispersione di sonorità semplifica il profilo della sillaba (Clements 1990; si vedano i capitoli di Savy e Marotta in questo volume). 4.1. «Pattern» di errori a confronto 4.1.1. Errori nei parlanti normali e afasici Abbiamo attribuito gli errori fonologici dei pazienti afasici ad un deficit fonologico-lessicale o articolatorio. Questa ipotesi è più difficile da sostenere per gli errori prodotti da parlanti normali. Inoltre, nei parlanti normali gli errori sono in genere commessi in linguaggio spontaneo e riguardano lo spo-

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stamento di fonemi tra parole. Nei parlanti afasici, invece, sono generalmente commessi nella produzione di parole singole (ripetizione di parole e denominazione di figure) e raramente riguardano movimenti di fonemi. Le trasposizioni sono rare e gli errori di anticipazione e perseverazione spesso non sono più frequenti di quanto ci si aspetterebbe per caso (Romani e Galluzzi 2005). Inoltre, questi errori di movimento non sempre preservano il vincolo di posizione sillabica (circa il 30% di violazioni nel nostro corpus di trasposizioni). Questi risultati suggeriscono che gli errori commessi in produzione di frasi e gli errori di denominazione di parole singole abbiano una origine diversa. C’è bisogno quindi di studi che comparino gli errori commessi in queste due condizioni nella stessa popolazione di parlanti (normali o afasici). 4.1.2. Errori afasici ed errori simulati In una serie di studi, Dell e collaboratori hanno cercato di simulare gli effetti cognitivi di lesioni cerebrali «danneggiando» in vari modi il loro modello computazionale. Una prevalenza di errori lessicali è stata simulata aumentando la velocità con cui l’attivazione decade nel sistema (Dell et al. 1997; Martin e Saffran 1992; Martin, Saffran e Dell 1996). Ciò ha l’effetto di ridurre il vantaggio della parola target sui suoi competitori lasciando però invariato il bias lessicale. Gli errori non-lessicali sono stati simulati sia riducendo il numero di interazioni tra i livelli (Dell 1988, 1990) sia indebolendo le connessioni tra le unità parola e i rispettivi fonemi (Schwartz, Saffran, Bloch e Dell 1994). Entrambe queste manipolazioni riducono l’influenza che le entrate lessicali hanno nella selezione dei fonemi, rendendo così più facile la selezione di fonemi errati anche quando la sequenza risultante non corrisponde ad una parola della lingua. Queste simulazioni hanno modificato parametri globali, che si applicano cioè a tutti i livelli del sistema. Ciò determina un aumento indiscriminato degli errori lessicali, mentre ci sono pazienti che producono quasi esclusivamente o errori semantici lessicali o errori fonologici lessicali. Un’altra limitazione dei modelli correnti (computazionali e non) è che non sono in grado di render conto degli effetti di complessità sillabica descritti sopra. Levelt ha suggerito che effetti di complessità possano essere collocati al livello dei processi di sillabificazione (Levelt et al. 1999, p. 67). Non è chiaro, però, perché debba essere più difficile sillabificare un gruppo consonantico piuttosto che un’alternanza di consonanti e vocali (strano vs. tavolo). Inoltre, come discusso sopra, i nostri studi legano effetti di complessità al livello articolatorio e non a quello fonologico.

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5. Un modello di produzione alternativo Abbiamo visto come i modelli di Dell e Levelt rendano sì conto di una serie di caratteristiche degli errori commessi da parlanti normali e afasici, ma a costo di alcune assunzioni poco plausibili, che riassumiamo qui di seguito. a) L’esistenza degli errori fonologici è spiegata con il fatto che le rappresentazioni lessicali accedono ad un insieme di fonemi comuni. Questo crea però problemi nella rappresentazione dell’ordine. b) L’esistenza di errori fonologici lessicali è spiegata da Dell con meccanismi di interazione, per cui ogni fonema riattiva di rimando tutte le parole con cui è congruente. Questo vuol dire che ogni volta che una parola viene codificata fonologicamente anche gran parte delle altre rappresentazioni lessicali viene attivata (si pensi a quante parole italiane contengono il fonema /a/). Questo può portare a una generale «sovraeccitazione» delle entrate lessicali riducendo le possibilità di discriminazione. c) Il rispetto dei vincoli sillabici ha motivato l’ipotesi di meccanismi di selezione e copia. Una rappresentazione sillabica distinta dal contenuto che dovrebbe organizzare, però, è poco plausibile, così come l’ipotesi di fonemi categorizzati per posizione sillabica. d) Non vi è alcuna evidenza empirica per unità sillabiche «piene», sia a livello fonologico che articolatorio. e) Gli errori che hanno motivato i modelli di Dell e Levelt sono errori prodotti da parlanti normali in produzione spontanea. Questi errori sono errori di movimento tra parole. Gli errori prodotti da pazienti afasici hanno caratteristiche diverse che devono essere spiegate. Il modello che qui proponiamo presenta due differenze fondamentali con quelli di Dell e Levelt. Prima di tutto ipotizziamo che le rappresentazioni lessicali siano costituite ognuna dalla sua specifica sequenza di fonemi (senza l’accesso ad un insieme comune) e che queste rappresentazioni siano organizzate in sillabe secondo modalità simili a quelle suggerite dalla fonologia autosegmentale (si veda il capitolo di Marotta in questo volume). Questa modalità di rappresentazione rende ridondante l’accesso a unità fonologiche distinte corrispondenti a sillabe, ha il vantaggio di eliminare problemi di rappresentazione di ordine e restituisce alle sillabe il loro ruolo «naturale» di organizzazione dei fonemi; infine, rende ridondante un meccanismo di copia basato su una rappresentazione separata prima, e ricombinata poi, di contenuto fonologico e struttura sillabica. Le rappresentazioni lessicali sillabifica-

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te sarebbero trasferite in blocco nel buffer di uscita. Qui la sillabificazione ai margini delle parole se necessario potrebbe essere cambiata. Il secondo punto di differenza è che gli errori fonologici avverrebbero non nel processo di copia, ma quando una rappresentazione fonologica imperfetta viene riparata nel buffer di uscita. I processi di riparazione dell’informazione nel buffer avverrebbero automaticamente (senza controllo volontario), a intervalli regolari. Nei parlanti normali avrebbero la funzione di supplire al naturale decadimento dell’informazione. Nei pazienti afasici metterebbero in condizioni di essere prodotte rappresentazioni che sono degradate. I processi di riparazione utilizzerebbero due tipi di informazione: le conoscenze fonotattiche e le conoscenze lessicali semantiche. L’idea di meccanismi di riparazione basati sulle conoscenze fonotattiche è già stata utilizzata nella spiegazione degli errori afasici (Beland, Paradis e Bois 1993; Romani e Calabrese 1998). L’idea di meccanismi di reintegrazione basati sull’informazione lessicale-semantica è stata usata per spiegare effetti di lessicalità, frequenza e concretezza in compiti di memoria a breve termine (si vedano i capitoli di Burani e Laudanna in questo volume) ad esempio, è più facile ricordare una serie di parole che di non-parole, Hulme et al. 1997. La nostra proposta è che queste idee possano essere combinate per spiegare una più ampia fascia di fenomeni, tra cui tutte le principali caratteristiche degli errori fonologici descritte in questo capitolo. Le conoscenze fonotattiche sarebbero la prima fonte di informazione utilizzata per riparare l’informazione nel buffer. Questo spiegherebbe l’ubiquità del rispetto delle regole fonotattiche nella produzione di parole. Consideriamo, per esempio, la rappresentazione seguente, dove l’identità del secondo fonema e la posizione relativa dei fonemi /n/ e /t/ sono andate perdute. Rappresentazione originaria

Rappresentazione degradata

σ

σ

σ

σ

A N C

A N

A N C

A N

t r ε n

t o

t ? ε n t

o

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Una conoscenza delle regole fonotattiche dell’italiano ci dice che solo una liquida (/r/ o /l/) o una semiconsonante (/y/ o /w/) possono occupare la posizione interna di un attacco complesso. Data la stessa rappresentazione, il fonema /n/ deve precedere /t/, poiché l’italiano non permette ostruenti in coda (eccetto che per le geminate). Queste conoscenze non solo evitano la produzione di sequenze illegali (ad esempio */'tεtno/), ma facilitano di molto la ricostruzione della rappresentazione originale. In aggiunta, l’uso delle conoscenze fonotattiche può rendere conto almeno in parte del vincolo di posizione sillabica. Consideriamo la rappresentazione seguente dove l’informazione riguardo alla posizione di alcuni fonemi è andata perduta. NC I l

ANCANCAN ? ? k a r t ε l l o

ANC ? s u l

ANCAN ? p o n t e

Data questa rappresentazione, le regole fonotattiche consentiranno lo scambio dei fonemi /k/ e /p/ o dei fonemi /r/ e /l/, ma non altre combinazioni. In altre parole, ci saranno scambi attacco-attacco e coda-coda, dovuti non al fatto che il segmento deve mantenere la posizione sillabica originaria, ma al fatto che l’italiano permette sono alcuni segmenti in coda (*/kaptεllo/ ). Questo, aggiunto al fatto che la maggior parte degli scambi sono tra attacchi all’inizio della parola, può rendere superflua ogni spiegazione ulteriore. Infine, il rispetto delle regole fonotattiche implica il rispetto di una categorizzazione in consonanti e vocali: in italiano solo una vocale può occupare un nucleo e solo una consonante può occupare un attacco o una coda (cfr. anche Dell et al. 1993). La seconda fonte principale di informazione utilizzata per riparare le rappresentazioni nel buffer è l’informazione lessicale-semantica. L’uso di questa informazione spiega gli errori fonologici lessicali e gli errori misti. Le rappresentazioni nel buffer verrebbero riparate riattivando all’indietro l’informazione lessicale e semantica. Se l’informazione nel buffer è degradata e corrisponde sia alla rappresentazione lessicale della parola target, sia a quella di una parola alternativa, si può verificare un errore fonologico lessicale. Tuttavia, poiché l’informazione lessicale attiva a sua volta «all’indietro» la corrispondente informazione semantica, una parola che condivide sia fonemi che unità di significato con quella target sarà ancora più facilmente prodotta per errore. Ad esempio, supponiamo che l’informa-

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zione rimasta nel buffer sia /?e?a/. Tale informazione corrisponde a /'mela/, /'pera/, /'tela/, ecc., ma /'pera/ o /'mela/ saranno selezionate se l’attivazione residua nel sistema semantico indica un frutto. Naturalmente, ci si deve domandare come il nostro modello spieghi i diversi patterns di errori fonologici osservati in individui normali e afasici. Abbiamo visto che alcuni pazienti afasici producono prevalentemente errori fonologici lessicali. È possibile che in tali pazienti le rappresentazioni nel buffer decadano troppo velocemente e che l’informazione lessicale venga utilizzata per ricostruirle. In alternativa o in aggiunta è possibile che questi pazienti abbiano problemi non di attivazione ma di discriminabilità lessicale, per cui l’informazione nel buffer fonologico attiva fortemente non solo la rappresentazione target ma anche altre rivali (Romani et al. 2002). Il secondo pattern da spiegare è quello, più comune nell’afasia, in cui la maggior parte degli errori è fonologica non lessicale. Abbiamo ipotizzato che questi errori abbiano due fonti. In alcuni pazienti, derivano dal fatto che l’informazione contenuta nel lessico circa l’identità e l’ordine dei fonemi è danneggiata e/o difficile da recuperare; in altri pazienti, derivano da un disturbo articolatorio. In entrambi i casi, tuttavia, l’informazione lessicale non può essere utilizzata per riparare le rappresentazioni fonologiche. Nel primo caso, vi è una difficoltà di accesso all’informazione lessicale che causa in primis questi errori. Nel secondo caso, riparare gli errori vanificherebbe la semplificazione articolatoria che permette la pronunciabilità della parola. L’ultimo pattern che si deve spiegare è costituito dagli errori commessi da parlanti normali nel parlato connesso. Questi errori riguardano prevalentemente scambi di fonemi tra parole e sono molto influenzati dalla somiglianza del contesto sillabico e più generalmente del contesto fonologico. Per spiegare queste caratteristiche si può ipotizzare che tali errori derivino per la gran parte da confusioni nel buffer di output quando l’informazione è selezionata per essere trasformata in programmi articolatori. Normalmente, il buffer di output contiene più parole. Le confusioni di ordine potrebbero essere ampliate dal fatto che all’ordine all’interno della parola si sovrappone l’ordine all’interno della frase (vi è un fonema in terza posizione nella prima parola, ma anche un fonema in terza posizione nella seconda parola). 5.1. Una rappresentazione senza sillabe Nella discussione precedente abbiamo legato le regole fonotattiche al concetto di sillaba. Le regole fonotattiche ci dicono quali segmenti so-

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no possibili in diverse posizioni sillabiche. Ci si può chiedere ora se le regole fonotattiche possano essere espresse senza ricorrere al concetto di sillaba. Una prima possibilità è ricondurre queste regole al concetto di pronunciabilità o difficoltà articolatoria. Questo, tuttavia, è escluso dal fatto che le regole fonotattiche variano da lingua a lingua. Una sequenza fonotatticamente ammessa in una lingua non lo è in un’altra. Una seconda possibilità è ridurre le regole fonotattiche ad una lista che specifichi quali sequenze sono possibili ed escluda automaticamente tutte le altre. Ma questo è più difficile di quanto si possa pensare. Consideriamo, per esempio, il fatto che, in italiano, sequenze come /ardore/, /alTSe/, /ampjo/, /antonjo/, ecc. sono legali mentre altre come */agto/, */azta/, */pavza/, ecc. non lo sono. Questo pattern si può facilmente descrivere con la regola che solo liquide e nasali sono possibili in coda. L’alternativa di una lista non solo è poco economica, ma presenta il problema della lunghezza delle sequenze da rappresentare (bifonemiche, trifonemiche, ecc.). Sequenze bifonemiche sono chiaramente inadeguate (per esempio, /tr/ e /pr/ sono due sequenze possibili ma la combinazione /trpr/ non lo è), ma più le sequenze sono lunghe, più lunga è la lista. Più è lunga la lista, meno chiaro è il suo vantaggio (per una discussione e dati sperimentali cfr. Olson e Caramazza 2004). Infine, una terza possibilità è quella di rappresentare le regole fonotattiche implicitamente nelle rappresentazioni lessicali, come nel modello di Dell e collaboratori (Dell et al. 1993). Il modello simula il processo di codifica fonologica: l’input è un’entrata lessicale; l’output una serie di tratti fonologici. L’elaborazione è del tipo PDP (Parallel Distributed Processing, si vedano anche i capitoli di Laudanna e Peressotti e Job in questo volume): le regole sulla co-occorrenza di fonemi sono rappresentate in maniera distribuita sulla base di patterns di attivazione di gruppi di unità e sulle loro relazioni. Questa proprietà fa sì che, dati una serie di esempi, il modello «impari» a comportarsi secondo «le regole» senza però avere di queste una rappresentazione discreta. Ad apprendimento terminato, la maggior parte degli errori commessi dal modello rispetta le regole fonotattiche. Una parte degli errori però rimane implausibile, mettendo in dubbio se e a che costo si possa fare a meno di una organizzazione in sillabe. 6. Conclusioni Abbiamo discusso alcune tra le principali caratteristiche dei modelli di Dell e Levelt, due tra i più influenti modelli di produzione di pa-

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role. Queste caratteristiche sono in gran parte derivate dalle caratteristiche degli errori fonologici. Abbiamo sottolineato una serie di debolezze nelle spiegazioni ipotizzate da questi modelli e proposto un modello alternativo. Questo modello assegna alla struttura sillabica un ruolo importante nell’organizzare e stabilizzare le rappresentazioni lessicali. Abbiamo sostenuto che gli errori fonologici possono derivare dalla combinazione di rappresentazioni degradate integrate con le conoscenze linguistiche a disposizione del parlante, e abbiamo descritto il ruolo delle conoscenze fonotattiche e di quelle lessicali-semantiche. Nell’applicazione delle regole fonotattiche, abbiamo nuovamente fatto riferimento al concetto di sillaba. Sono le sillabe che raggruppano i suoni in unità secondo regole precise e pongono così dei limiti al numero (altrimenti astronomico) di possibili combinazioni.

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5.

Morfologia: le strutture di Anna M. Thornton

1. Introduzione Tradizionalmente, la morfologia è definita come la disciplina che studia la struttura interna delle parole. La nozione di parola però è notoriamente ambigua. Quante parole ci sono nella frase (1)? (1)

Anno nuovo, vita nuova

Da un certo punto di vista, quattro. Ci sono infatti quattro oggetti diversi, che nello scritto si presentano preceduti e seguiti da spazi bianchi, cioè quattro parole grafiche diverse. Ma si può anche dire che nella frase (1) ci sono solo tre parole: se dovessimo cercare sul vocabolario il significato di ciascuna delle parole contenute in (1), ci basterebbe infatti cercare ANNO, VITA e NUOVO. La frase (1) contiene cioè quattro occorrenze di tre lessemi, ovvero di tre elementi del lessico della lingua italiana: i lessemi VITA e ANNO occorrono una volta ciascuno, nelle forme vita e anno; il lessema NUOVO invece occorre due volte, in due diverse forme, nuovo e nuova. Le diverse forme dei lessemi VITA, ANNO e NUOVO sono forme flesse di questi lessemi, ossia forme che portano il significato lessicale del lessema unito ad alcuni significati grammaticali, quali numero e genere. Sono considerati tradizionalmente oggetto della morfologia sia la struttura interna dei lessemi sia la struttura interna delle forme flesse dei lessemi. Il fatto che tradizionalmente si sia usato il termine «parole» per riferirsi sia a lessemi che a forme flesse di lessemi ha ingenerato confusione. Che le parole abbiano una struttura interna è dimostrabile considerando esempi come quelli in (2):

(2)

notte facilmente

Le parole in (2) sono segmentabili in unità più piccole, ciascuna delle quali è portatrice di una parte del significato dell’intera parola: in notte, nott- porta il significato lessicale di ‘periodo in cui non è visibile la luce del sole’, ed -e porta il significato grammaticale di ‘singolare’; in facilmente, facil- porta il significato lessicale di ‘agevole’, e -mente porta un significato grammaticale che in prima approssimazione potremmo definire ‘avverbio di modo’. Le unità nott-, facil-, -mente e -e presentano tutti i requisiti di un segno linguistico: si tratta di unioni tra un significato e un significante, ciascuna ricorrente anche in altri contesti (nott-urn-o, voc-e, facil-ità, stabil-mente, ecc.). Ciascuna di esse costituisce anche un segno linguistico minimo, cioè un’unità non ulteriormente scomponibile in sottounità che rappresentino associazioni stabili tra una stringa di fonemi e un significato. Nella linguistica moderna, un’unità di questo tipo è detta morfema. Una caratteristica importante dei morfemi è che almeno alcuni di essi possono presentarsi in forme diverse in contesti diversi. Si considerino gli esempi in (3) - (5): in (3)a - (5)a sono elencati dei nomi inglesi al singolare, in trascrizione ortografica e fonologica, in (3)b – (5)b è indicato il plurale degli stessi nomi, in trascrizione fonologica: (3)a ass

/æs /

(3)b

/æsız /

‘asino’

(4)a cup

/ kUp /

(4)b

/ kUps /

‘tazza’

(5)a room key

/ ru:m/ / ki: /

(5)b

/ ru:mz / / ki:z /

‘stanza’ ‘chiave’

Appare chiaro che il significato grammaticale di ‘plurale’ in (3)b è portato da /ız/, in (4)b da /s/, in (5)b da /z/. Ciascuno di questi tre elementi è un morfo, cioè il significante di un morfema; poiché ogni rappresentante fonologicamente diverso di uno stesso morfema è detto allomorfo, i tre morfi /ız/, /s/ e /z/ sono tre allomorfi del morfema inglese che porta il significato di ‘plurale’ (si veda il capitolo di Marotta in questo volume). Le parole possono essere monomorfemiche, cioè costituite da un solo morfema, come gru, se, in, o polimorfemiche, cioè composte da

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più morfemi. Tra le parole polimorfemiche si distinguono tradizionalmente almeno tre sottogruppi, che possiamo esemplificare rispettivamente con notte, barista e portacenere. Notte è una forma flessa del lessema NOTTE, costituita, come abbiamo già visto, da una radice, o morfema lessicale, che porta il significato di ‘periodo in cui non è visibile la luce del sole’, e una desinenza, o morfema grammaticale flessivo, che porta il significato di ‘singolare’; in barista, oltre a un morfema lessicale bar e un morfema grammaticale flessivo -a, troviamo anche un morfema grammaticale derivazionale -ist-, che è usato per derivare nomi di mestieri e professioni a partire da altri nomi che indicano un elemento essenziale allo svolgimento del lavoro in questione (bar → barista, dente → dentista, camion → camionista, ecc.); in portacenere, troviamo due morfemi lessicali, che rappresentano il verbo PORTARE e il nome CENERE. Barista è una parola derivata, mentre portacenere è una parola composta. Si noti che queste ultime due entità andrebbero denominate, più correttamente, lessema derivato e lessema composto: nella letteratura, però, si continuano a trovare le espressioni «parola derivata» e «parola composta». Una parola composta è formata a partire da (almeno) due morfemi lessicali, rappresentanti di due diversi lessemi; una parola derivata è formata unendo un morfema grammaticale derivazionale a un morfema lessicale; i morfemi derivazionali sono detti prefissi, se precedono il morfema lessicale (come in- in inutile) e suffissi se lo seguono (come -ista in barista). Le parole polimorfemiche possono essere definite anche parole morfologicamente complesse1. 2. Problema: esiste la morfologia? Se si adotta un punto di vista secondo il quale le parole (sia lessemi che forme flesse) sono sequenze di morfemi, ognuno dei quali costituisce un segno linguistico, non è immediatamente evidente la necessità di istituire una disciplina che studi la combinazione di segni in parole (cioè la morfologia) come settore della linguistica autonomo e distinto dalla disciplina che studia le combinazioni dei segni in generale, cioè la sintassi. È infatti possibile ipotizzare che i segni si Scalise riserva la denominazione di «parole morfologicamente complesse» per i soli lessemi polimorfemici, non per le forme flesse polimorfemiche, che nella sua terminologia, se sono forme di un lessema non derivato né composto, sono «parole semplici» (Scalise 1990, p. 127, dove si danno come esempi di parole semplici le forme italiane ama, libro, bello). 1

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combinino in parole secondo regole e criteri analoghi a quelli che presiedono alla combinazione di parole in sintagmi e frasi, e che dunque ogni combinazione di morfemi in unità più ampie sia da ricondurre a un singolo insieme di principi. Al massimo, si potrebbe ipotizzare che la morfologia debba occuparsi dell’allomorfia: ma anche l’allomorfia si potrebbe provare a descriverla e spiegarla facendo appello ai principi di un altro livello dell’analisi linguistica indipendentemente necessario, la fonologia. Ad esempio, la distribuzione degli allomorfi del plurale inglese presentati in (3)b - (5)b è spiegabile in base a principi fonologici: si ha /ız/ dopo sibilanti alveolari o alveopalatali, /s/ dopo consonanti sorde che non siano sibilanti alveolari o alveopalatali, /z/ in tutti gli altri casi. Il problema è dunque il seguente: la combinazione di unità che danno luogo a parole obbedisce agli stessi principi della combinazione di unità che danno luogo a sintagmi e a frasi? Questo problema ha due versanti, che potremmo definire versante sintattico e versante fonologico. Da una parte, è necessario verificare se la combinazione di segni in parole ha luogo secondo principi identici a quelli della combinazione dei segni in sintagmi e frasi, cioè secondo i principi della sintassi, o in base a principi anche in parte diversi. Dall’altra, è necessario verificare se le allomorfie che si presentano nella combinazione di morfi per dare luogo a parole sono completamente spiegabili in base ai principi della fonologia, o se obbediscono anche a principi diversi. Se almeno uno dei due versanti non è riducibile ai principi di un altro livello dell’analisi linguistica (la sintassi o la fonologia), la morfologia, intesa come disciplina che studia i principi che regolano la formazione delle parole (intese sia come lessemi che come forme flesse), ha ragione di esistere. Se invece entrambi i versanti della combinazione di morfemi in parole risultassero riducibili ai principi della sintassi e della fonologia, non avrebbe senso postulare un livello di analisi aggiuntivo, quello della morfologia. 3. Assenza e ritorno della morfologia nei modelli generativi Nelle sue prime formulazioni, la grammatica generativa ha sposato l’ipotesi della riducibilità dell’oggetto tradizionale della morfologia alla sintassi e alla fonologia. Nel modello di Chomsky (1957), regole di uno stesso tipo, le regole di riscrittura, introducono sia parole che affissi nella struttura di una frase, e un altro tipo di regole, le trasforma-

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zioni, sono responsabili sia della formazione di alcune parole polimorfemiche (come alcune forme flesse verbali, e nomi derivati e composti) sia di alcuni tipi di frasi (come le dichiarative passive). In un modello di questo tipo, la parola non ha alcuno statuto privilegiato, non c’è differenza di principio tra sequenze di morfemi che si assemblano in parole e sequenze che si assemblano in sintagmi e frasi. Riflessioni successive hanno però portato a ipotizzare che la formazione di almeno alcune parole derivate non fosse spiegabile facendo ricorso allo stesso tipo di regole responsabili della formazione di sintagmi e frasi. Chomsky (1970) ha osservato che sono possibili, a partire da verbi inglesi, due tipi di nominalizzazioni, che egli ha denominato rispettivamente «nominali gerundivi» e «nominali derivati». I due tipi di deverbali differiscono per diverse proprietà. In particolare, mentre quasi ad ogni frase con verbo corrisponde un possibile nominale gerundivo, non ad ogni frase con verbo corrisponde un possibile nominale derivato: un esempio citato da Chomsky (1970, p. 268) è il contrasto tra (6)a-b e (6)c: (6)a John amused (interested) the children with his stories John divertì (interessò) i bambini con le sue storie (6)b John’s amusing (interesting) the children with his stories Il divertire (interessare) i bambini con le sue storie da parte di John (6)c * John’s amusement (interest) of the children with his stories ‘John-di divertimento (interesse) di i bambini con le-sue storie’ Dunque ci sono delle limitazioni sulla produttività della derivazione di nominali derivati, mentre la derivazione di nominali gerundivi, come altre regole sintattiche, ha produttività quasi illimitata. Inoltre, mentre i nominali gerundivi si formano sempre con il suffisso -ing, i nominali derivati si formano con una varietà di suffissi, la cui distribuzione non è predicibile in base a principi di ordine esclusivamente sintattico. Infine, si hanno anche casi di esistenza di nominali derivati la cui sintassi non corrisponde a quella di frasi ben formate né di nominalizzazioni gerundive possibili, come mostrano gli esempi in (7)a-e: (7)a John’s doubts about their proposal ‘John-di dubbi su la-loro proposta’ I dubbi di John sulla loro proposta

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(7)b *John doubts about their proposal ‘John dubita su la-loro proposta’ (7)c John doubts their proposal ‘John dubita la-loro proposta’ John dubita della loro proposta (7)d *John’s doubting about their proposal ‘John-di dubitare su la-loro proposta’ (7)e John’s doubting their proposal ‘John-di dubitare la-loro proposta’ Il dubitare della loro proposta da parte di John In (7)a vediamo che il nome doubt regge un complemento introdotto dalla preposizione about, mentre in (7)c e (7)e vediamo che il verbo to doubt e il nominale gerundivo doubting reggono un oggetto diretto, e le strutture nelle quali sono seguiti da un sintagma preposizionale con about [(7)b e (7)d] sono agrammaticali. Dunque non è possibile che una frase come (7)c sia la base dalla quale derivare (7)a trasformazionalmente, dato che (7)c non contiene about, e non ci sarebbe modo di render conto trasformazionalmente dell’apparire di questo elemento. Quindi si può sostenere che i nominali gerundivi siano la trasformazione di una frase, ma non si può sostenere lo stesso per i nominali derivati. Si deve quindi concludere che almeno alcuni nomi derivati da verbi non possono essere generati attraverso regole dello stesso tipo di quelle che rendono conto della generazione di frasi (cioè le trasformazioni, nel modello dell’epoca). Poco dopo l’uscita di Chomsky (1970) si fa strada l’idea che i lessemi derivati debbano essere generati non attraverso trasformazioni, ma attraverso regole di un altro tipo, che hanno il compito di generare lessemi, non di generare frasi. A queste regole possiamo dare il nome di regole di formazione di lessemi2. 4. Le regole di formazione di lessemi Una regola di formazione di lessemi (d’ora in poi RFL) permette di derivare un nuovo lessema a partire da un lessema già esistente (o da 2 La proposta di denominare le regole che permettono di formare nuovi lessemi «regole di formazione di lessemi» appare esplicitamente solo in Aronoff (1994). Tradizionalmente queste regole sono state chiamate «regole di formazione delle parole» (in inglese, word formation rules).

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due, nel caso della formazione di lessemi composti), attraverso un’operazione che ha effetti sintattici, semantici e fonologici. Ogni RFL specifica una classe di lessemi cui la regola può applicarsi, detti basi della regola, e un’uscita, cioè il tipo di lessema risultante dall’applicazione della regola a una base. Il significato dell’uscita è funzione del significato della base combinato con il significato della regola; le regole di derivazione spesso, ma non sempre, introducono un affisso che si lega alla base; esistono anche regole, dette di conversione, che hanno effetti paragonabili a quelli di regole di suffissazione o prefissazione, ma non introducono nessun affisso (ad esempio, arrivo è derivato per conversione da arrivare, come partenza è derivato da partire tramite il suffisso -enza). Sul piano fonologico, l’applicazione di una RFL (di affissazione, di conversione o di composizione) può avere effetti più o meno rilevanti: si va dalla semplice concatenazione di base e affisso, a vari tipi di allomorfia che possono colpire sia la base che l’affisso. Le RFL sono soggette a restrizioni: non ogni affisso può unirsi a ogni base, come prova il giudizio di non grammaticalità che parlanti dell’italiano danno di fronte a parole come *bevista, *moritore, *danneggiazione, *sutile. L’inaccettabilità di questi lessemi non dipende da una loro inconcepibilità semantica: potremmo parafrasare questi lessemi con sintagmi dotati di senso e interpretabili. La sensazione di agrammaticalità che proviamo nei confronti dei lessemi che abbiamo asteriscato è dovuta al fatto che ciascuno di essi è stato costruito violando almeno una restrizione sulla RFL che introduce l’affisso che questi lessemi contengono. Le restrizioni sulle RFL vengono di solito ricondotte ai diversi livelli di analisi linguistica: si possono individuare restrizioni fonologiche, morfologiche, sintattiche e semantiche. Innanzitutto, i suffissi, di solito, si attaccano solo a basi di una determinata categoria: ad esempio, il suffisso -ista si attacca a nomi, non a verbi, ed è per questo che un lessema come *bevista ci appare mal formato, anche se interpretabile. Tuttavia, si hanno restrizioni che vanno al di là di quella sulla categoria della base: i suffissi possono selezionare, tra le basi che appartengono a una certa categoria, solo quelle che presentano determinati tratti, ed escludere quelle che ne presentano altri. Ad esempio, -tore si attacca a verbi, ma non ai verbi il cui soggetto non ha le caratteristiche di Agente, tra cui morire, ed è per questo che il lessema *moritore ci appare mal formato. Gli studiosi oscillano nel classificare le restrizioni sui tratti della base, come quella appena vi-

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sta: secondo alcuni si tratta di una restrizione sintattica, secondo altri di una restrizione semantica, mentre altri ancora osservano che è difficile operare una distinzione netta tra sintassi e semantica a questo livello, e parlano di restrizioni sintattico-semantiche. Oltre alle restrizioni sintattiche e semantiche, si hanno anche restrizioni chiamate solitamente morfologiche, tra le quali le più comuni riguardano l’impossibilità di certi suffissi di apparire dopo certi altri. Ad esempio, in italiano, sia -mento che -zione sono suffissi che si attaccano a verbi per formare nomi d’azione, e moltissimi verbi presentano derivati sia in -mento che in -zione; tuttavia, -zione non si attacca mai a verbi derivati con il suffisso -eggiare (per questo percepiamo *danneggiazione come lessema mal formato). Infine, si hanno restrizioni di tipo fonologico: in italiano, il prefisso s- che forma, a partire da aggettivi, aggettivi di significato contrario (come scontento da contento), non si attacca a basi che cominciano in vocale (per questo *sutile ci appare mal formato, e diciamo invece inutile). Un’ulteriore caratteristica delle RFL è che esse sono dotate di un certo grado di produttività, diverso da una regola all’altra. La definizione di produttività maggiormente condivisa è ancora quella proposta da Schultink (1961, p. 113): «la possibilità [...] per gli utenti della lingua di formare non intenzionalmente attraverso un procedimento morfologico una quantità di nuove formazioni in linea di principio innumerevole». In pratica, una RFL è produttiva nella misura in cui si formano con essa nuovi lessemi (neologismi), ed è tanto più produttiva quanti più neologismi forma. 5. Flessione e formazione di lessemi Abbiamo visto che, dopo l’impulso dato alla ricerca dalle osservazioni di Chomsky (1970), si è ipotizzato che le regole che permettono di generare nuovi lessemi siano di natura diversa dalle regole sintattiche che generano sintagmi e frasi. Una questione non affrontata da Chomsky (1970) è, però, se anche le regole che generano le diverse forme flesse dei lessemi siano di natura diversa dalle regole sintattiche. Nei lavori pubblicati negli anni immediatamente successivi all’uscita di Chomsky (1970), le opinioni su questo punto divergono radicalmente. Jackendoff, mentre ammette che le trasformazioni non possano formare nuovi lessemi (derivati o composti), le considera ancora lo strumento per la formazione di forme flesse: «the only change that transformations can

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make to lexical items is to add inflectional affixes» (Jackendoff 1972, p. 13, cit. in Scalise 1983, p. 32). Al contrario, Halle, forse il primo ad introdurre la denominazione di «rules of word formation or morphology» (Halle 1973, p. 3), ritiene che «the rules of word formation should […] also include rules for positioning the inflectional affixes appropriately or for handling […] other inflectional phenomena» (ivi, p. 6). Aronoff, nel lavoro più influente tra tutti gli studi di morfologia pubblicati tra il 1970 e l’inizio degli anni Novanta, restringe esplicitamente il suo campo di indagine alla formazione di nuovi lessemi e identifica le «word formation rules» (letteralmente, «regole di formazione di parola», con tutta l’ambiguità del termine «parola») esclusivamente con regole di formazione di nuovi lessemi; egli osserva che la formazione di forme flesse è di natura sintattica (Aronoff 1976, p. 4), così come l’incorporazione di clitici e altri elementi in una parola fonologica, ed esclude la formazione delle forme flesse dal suo campo d’indagine. La risposta alla questione se la formazione di forme flesse e la formazione di lessemi avvengano grazie allo stesso tipo di meccanismo, e nello stesso componente della grammatica, o invece attraverso meccanismi diversi, e in componenti diversi della grammatica, non è affatto scontata. Infatti, la formazione di nuovi lessemi e la formazione di forme flesse di lessemi condividono alcune caratteristiche superficiali, ma differiscono per aspetti molto significativi. Ciò che i due tipi di processi hanno in comune è il tipo di mezzi formali con i quali si opera un’aggiunta di tratti a un elemento di base: sia nella formazione di lessemi che nella formazione di forme flesse si usano procedimenti quali l’affissazione, l’introflessione, la reduplicazione, la manipolazione della struttura prosodica, ecc. Ciò in cui i due processi differiscono è, però, la ragione stessa del loro esistere. Nuovi lessemi si formano per denominare nuovi concetti (come autocertificazione, Eurolandia, palestrato, torrentismo) o per riferirsi anaforicamente con un unico lessema a uno stato di cose complesso (come calendarizzare, singlitudine). Ma perché si formano forme flesse di un lessema? 6. Flessione e sintassi Le forme flesse di un lessema si formano per esprimere una serie di valori di determinate categorie grammaticali che la grammatica di una lingua richiede che siano obbligatoriamente espressi. Facciamo un esempio: in italiano, ogni lessema che appartenga alla classe dei

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nomi si presenta necessariamente o in forma singolare o in forma plurale; ogni lessema che appartenga alla classe dei verbi si presenta necesariamente in un certo modo, tempo e persona. È importante sottolineare che questo vale anche per quei lessemi cosiddetti difettivi, quali i nomi pluralia tantum, che non hanno una forma singolare (come nozze), o i nomi massa (come burro) e alcuni nomi astratti (come pazienza), che non sono pluralizzabili, o i verbi difettivi, che non hanno alcune forme (come soccombere, che non ha un participio passato, o piovere, che non ha forme di prima e seconda persona). Nonostante l’assenza nel loro paradigma di alcune delle forme teoricamente possibili per un lessema della rispettiva classe, questi lessemi quando si presentano in un testo si presentano comunque in una forma che porta un determinato valore di una determinata categoria grammaticale: non è possibile usare in italiano un nome senza che la forma usata sia o singolare o plurale, o usare un verbo senza che la forma usata esprima un determinato tempo e modo e una determinata persona. Ogni lingua ha una grammatica che rende obbligatoria l’espressione di determinate categorie grammaticali da parte dei lessemi che appartengono a determinate classi di parole. Le lingue possono differire per il numero e il tipo di categorie grammaticali la cui espressione è resa obbligatoria dalla loro grammatica, e per i valori che la loro grammatica seleziona come esprimibili nell’ambito di una determinata categoria grammaticale. Possiamo quindi dire che le forme flesse dei lessemi esprimono valori delle categorie grammaticali obbligatorie nella grammatica della lingua cui appartengono. Diversi autori (in particolare Anderson) hanno sostenuto che le forme flesse dei lessemi servono ad esprimere valori grammaticali che hanno rilevanza per la sintassi: «Inflectional morphology is what is relevant to the syntax» (Anderson 1982, p. 587). L’elemento importante che questa ipotesi sottolinea è il seguente: le regole della sintassi non richiedono mai che una parola inserita in un certo contesto sia un lessema derivato: la formazione e l’uso di un derivato non sono mai obbligatori, sono sempre frutto di una scelta del parlante; invece, la scelta di determinate forme flesse a volte è obbligatoria: ad esempio, in italiano, un verbo deve accordarsi in persona e numero con il suo soggetto, un aggettivo deve accordarsi in genere e numero con il nome cui si riferisce, ecc. Ma non tutte le forme flesse sono scelte obbligatoriamente in base a regole sintattiche. In un sintagma come le case rosse, la sintassi

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mi obbliga a scegliere il femminile plurale dell’articolo IL e dell’aggettivo ROSSO, cioè a scegliere le forme flesse le e rosse, perché in italiano articolo e aggettivo concordano obbligatoriamente in genere e numero con il nome che è la testa del sintagma nominale (SN) in cui compaiono; ma la scelta di case, un nome femminile usato al plurale, invece di casa, lo stesso nome usato al singolare, o invece di edifici, un nome dal significato parzialmente sovrapponibile a quello di CASA, ma maschile, non è dettata da alcuna regola della sintassi. La scelta di usare al singolare o al plurale un nome che è testa di un sintagma nominale è una libera scelta del parlante, così come è una libera scelta del parlante quella di usare un lessema semplice o un lessema complesso (derivato o composto), o anche quella di usare uno specifico lessema invece di un altro. Ma se scegliere di usare CASA al singolare o al plurale è una libera scelta del parlante tanto quanto è libera la scelta di usare, invece di CASA, CASETTA o EDIFICIO, cioè se questa scelta non è dettata da una regola della sintassi (come invece è dettata da una regola della sintassi la scelta di le e rosse una volta scelto case), come mantenere una distinzione tra forme flesse di un lessema e lessemi derivati? Sembra, infatti, che tanto l’uso della forma flessa case quanto l’uso del lessema derivato CASETTA siano determinati da libera scelta del parlante, e non da regole della sintassi, rendendo almeno parzialmente inadeguata la definizione di flessione proposta da Anderson e citata sopra. Tuttavia, ci sono casi, come abbiamo visto, in cui la scelta di una determinata forma flessa di un certo lessema invece di un’altra è determinata da regole della sintassi: lo è, per esempio, la scelta tra le e la, e tra rosse e rossa, che dipende dall’accordo con la forma del nome testa, case o casa (questa sì liberamente scelta dal parlante). Alcuni studiosi, quindi, hanno proposto di distinguere due sottotipi di flessione, denominati flessione inerente e flessione contestuale: la flessione inerente «is the kind of inflection that is not required by the syntactic context, although it may have syntactic relevance», mentre la flessione contestuale «is that kind of inflection that is dictated by syntax» (Booij 1996, p. 2). È importante rilevare che non è possibile definire come inerente o contestuale una certa categoria grammaticale in assoluto, ma solo una certa relazione fra una categoria grammaticale e una classe di parole: il numero, in italiano, è flessione inerente nei nomi, mentre è contestuale negli articoli, negli aggettivi e nei verbi (dipende cioè dall’accordo con la testa del SN o con il sog-

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getto). Di solito, nelle lingue, si presentano come inerenti le categorie di genere e numero nei nomi, di grado negli aggettivi, di aspetto e tempo nei verbi (con l’eccezione di casi di consecutio temporum, nei quali il tempo del verbo in una frase subordinata dipende dal tempo della principale, e si configura quindi come caso di flessione contestuale, cioè determinata da una regola sintattica); si presentano, invece, come flessione contestuale la categoria di caso nel nome (che dipende dalla funzione sintattica del nome nella frase), le categorie per le quali gli aggettivi concordano con il nome (quindi genere e numero in italiano, genere, numero e caso in latino, ecc.), le categorie di persona e numero nel verbo. 7. «Split morphology?» Stabilita una distinzione tra flessione inerente e flessione contestuale, possiamo tornare a un problema lasciato aperto poco fa, e cioè se la formazione di forme flesse si attui attraverso regole specifiche o, invece, tramite regole della stessa natura di quelle della sintassi. Abbiamo visto che a partire da Chomsky (1970) si è riconosciuto che la formazione di nuovi lessemi non sembra poter essere effettuata dalle stesse regole che permettono la formazione di sintagmi e frasi, e che è preferibile supporre che esistano specifiche regole di formazione di lessemi. Abbiamo anche visto che una parte delle regole di formazione di forme flesse, quelle che abbiamo chiamato flessione inerente, condividono una caratteristica fondamentale con le regole di formazione di lessemi: la loro applicazione è determinata da una libera scelta dei parlanti, e non richiesta da regole sintattiche. Si potrebbe quindi supporre che anche la formazione di forme flesse che portano informazione flessiva di tipo inerente si attui tramite regole diverse da quelle della sintassi, e in tutto simili alle regole di formazione dei lessemi, regole che si applicano prima dell’inserimento di una parola in una struttura sintattica. Resta però da vedere se anche la formazione di forme flesse che portano informazione flessiva di tipo contestuale sia attuata tramite regole diverse da quelle della sintassi. In effetti, l’ipotesi che la formazione di nuovi lessemi si attui attraverso RFL che operano nel componente lessicale, prima dell’inserzione di un lessema in una struttura sintattica, mentre quella di forme flesse si attui nella stessa fase in cui si applicano le altre regole sintattiche, è sostenuta da diversi autori. Questa ipotesi è nota con il nome di split morphology, cioè morfologia «spaccata» o «divisa»,

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spaccata a metà tra il componente lessicale, dove si formano nuovi lessemi, e il componente sintattico, dove si formano le loro forme flesse. Anche nel capitolo di Rizzi in questo volume si assume che la formazione di forme flesse (sia quelle che portano informazione inerente che quelle che portano informazione contestuale) abbia luogo nel componente sintattico e non in quello lessicale di una lingua. Su questa questione, però, non c’è accordo unanime fra gli studiosi. Molti sono convinti che non sia possibile separare e collocare in componenti diversi della grammatica le regole di formazione di nuovi lessemi e le regole di formazione di forme flesse, e neppure collocare formazione di lessemi e flessione inerente da una parte, e flessione contestuale dall’altra. Per capire perché molti studiosi non accettino l’ipotesi che una parte almeno della formazione di forme flesse possa essere attuata da regole di tipo sintattico, e non da regole interne al componente lessicale, bisogna esaminare un aspetto delle forme flesse che finora abbiamo lasciato in ombra, e cioè la struttura del loro significante. Finora abbiamo illustrato la distinzione tra flessione inerente e flessione contestuale parlando delle categorie di significati grammaticali che sono espressi secondo l’uno o l’altro principio, ma non abbiamo parlato di come questi significati si esprimano in significanti. Il problema è che spesso non è possibile distinguere nettamente, nel significante di una forma flessa, i morfi che rappresentano un valore di una categoria flessiva inerente da quelli che rappresentano un valore di una categoria contestuale. Prendiamo ad esempio un nome latino, come LUPUS, ‘lupo’: questo lessema, inerentemente di genere maschile, ha le forme flesse elencate in (8), che esprimono diversi valori delle due categorie di numero (che per il nome è flessione inerente) e caso (che è flessione contestuale): (8) caso nominativo genitivo dativo accusativo vocativo ablativo

sing. sing. sing. sing.

forme flesse lupus pl. lupı¯ lupı¯ pl. lupo¯rum lupo¯ pl. lupı¯s lupum pl. lupo¯s

sing. lupe sing. lupo¯

pl. lupı¯ pl. lupı¯s

glossa ‘lupo’ usato come soggetto ‘del lupo’ ‘al lupo’ ‘lupo’ usato come compl. oggetto forma allocutiva (‘oh lupo!’) forma del lessema usata, con o senza preposizioni, per diversi complementi

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Se proviamo a segmentare le forme flesse di LUPUS, riusciamo facilmente ad isolare un morfo lup- che rappresenta un morfema lessicale (radice) con il significato di ‘lupo’, ma non riusciamo altrettanto agevolmente a separare in ogni forma una porzione di significante che porti uno dei valori della categoria di numero e un’altra porzione che porti uno dei valori della categoria di caso. Le informazioni di numero e caso si presentano, invece, amalgamate, ed espresse insieme, inscindibilmente l’una dall’altra, da un suffisso non ulteriormente segmentabile in parti dotate di significato: così diciamo che -∞ significa ‘genitivo singolare’, senza poter riconoscere un elemento che significhi ‘genitivo’ e uno che significhi ‘singolare’: infatti, un elemento /i:/ non è presente in nessuna delle altre forme che hanno il valore singolare della categoria di numero, e nemmeno nell’altra forma che ha il valore di genitivo nella categoria di caso, il genitivo plurale lupo¯rum, dove è tutto il suffisso -o¯rum che porta amalgamati i due valori di genitivo e plurale. Il fatto che in almeno alcune lingue, come il latino, i valori di categorie flessive inerenti, come il numero nel nome, si presentino amalgamati in uno stesso morfo ai valori di categorie flessive di tipo contestuale, come il caso, rende difficile sostenere che le due informazioni siano aggiunte alla forma flessa in momenti diversi, da regole appartenenti a diversi componenti della grammatica, cioè il lessico e la sintassi (cfr. Booij 1996, p. 13). In effetti, gli autori che sostengono che gli affissi che portano informazione flessiva contestuale sono aggiunti alle parole tramite regole della sintassi hanno per lo più lavorato su lingue di tipo agglutinante, nelle quali fenomeni di amalgama sono più rari, ed in cui è più facile segmentare le forme flesse in morfi portatori ciascuno di un determinato valore di una determinata categoria. Anche in lingue di questo tipo, però, si presentano problemi per l’ipotesi che la flessione contestuale sia aggiunta da regole sintattiche. Il fatto che i morfi flessivi contestuali, cioè quelli che esprimono valori di certe categorie richiesti in un determinato contesto da regole sintattiche, siano aggiunti a una radice dopo i morfi che esprimono valori di categorie inerenti, è da alcuni autori considerato un principio che impone restrizioni alla forma di tutte le grammatiche possibili. Questo principio è noto come mirror principle, cioè «principio del rispecchiamento» o «principio dello specchio», e consiste nell’ipotesi che l’ordine di apparizione dei morfi all’interno di una parola rispecchi l’ordine con cui viene generata l’informazione che questi morfi por-

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tano (si veda il capitolo di Rizzi in questo volume). Dunque morfi derivazionali, che servono a derivare nuovi lessemi, dovrebbero apparire sempre più vicini alla radice dei morfi flessivi, e tra i morfi flessivi quelli inerenti dovrebbero apparire più vicini alla radice di quelli contestuali, dato che avviene prima la formazione di lessemi, poi la selezione dei valori di categorie flessive inerenti con i quali utilizzare i lessemi, e solo alla fine, dopo che il lessema corredato di certe scelte nell’ambito delle categorie flessive inerenti è inserito in una certa struttura sintattica, l’assegnazione dei valori delle categorie flessive contestuali. Il fatto che nelle lingue sia molto comune trovare i morfi derivazionali più vicini alla radice di quelli flessivi è stato riconosciuto da molto tempo. Nella lista di universali linguistici proposta da Greenberg (1963), l’universale n. 28 è il seguente: «Se tanto la derivazione quanto la flessione seguono il radicale, o se esse precedono entrambe il radicale, la derivazione si trova sempre tra il radicale e la flessione» (Greenberg 1976, p. 136). Questa affermazione è stata corretta recentemente, dopo che diversi studi avevano messo in luce l’esistenza di casi in cui alcuni morfi flessivi si presentavano più vicini alla radice di alcuni morfi derivazionali, come negli esempi yiddish in (9), dove un morfo derivazionale (diminutivo) appare dopo un morfo flessivo (plurale): (9)

singolare

plurale

diminutivo plurale

kind dorn guf

kinder derner gufim

kinderlex dernerlex gufimlex

‘bambino’ ‘spina’ ‘corpo’

(dati da Perlmutter 1988, p. 80)

Dopo l’acquisizione della distinzione tra flessione inerente e flessione contestuale, è stato possibile ipotizzare che siano i morfi flessivi contestuali ad essere sempre periferici rispetto ai morfi derivazionali, mentre i morfi flessivi inerenti possono anche apparire più vicini alla radice dei morfi derivazionali. Un vero banco di prova per il mirror principle, quindi, non è tanto l’ordine di apparizione tra morfi flessivi e morfi derivazionali, ma l’ordine di apparizione tra morfi flessivi inerenti e contestuali. Sarà quindi necessario esaminare lingue in cui i morfi dei due tipi si presentano non amalgamati. In finlandese e in altre lingue ugro-finniche i nomi sono flessi sia per la categoria di possessivo che per la categoria di caso: il posses-

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sivo è una categoria flessiva inerente, dato che dipende dalla scelta del parlante se dire o meno a chi appartiene il referente indicato da un certo nome, mentre il caso è una categoria contestuale. Dunque, ci aspetteremmo di trovare all’interno delle forme flesse prima un morfo che esprime un valore della categoria di possessivo e poi un morfo che esprime un valore della categoria di caso. Invece accade il contrario: in finlandese, l’espressione del caso precede quella del possessivo, come si vede negli esempi in (10): (10) kirja kirja-ni kirja-a kirja-a-ni

nominativo singolare nominativo singolare possessivo di prima persona partitivo3 singolare partitivo singolare possessivo di prima persona

il libro (soggetto) il mio libro (soggetto) il libro (oggetto) il mio libro (oggetto)

Questo tipo di situazione e altri problemi simili, che si presentano anche in lingue agglutinanti (cfr., per una rassegna, Spencer 1992), hanno portato alcuni studiosi a concludere che della formazione di forme flesse si deve render conto tramite regole specifiche che operano nel componente lessicale di una grammatica, e non tramite l’aggiunta di affissi da parte di regole sintattiche, neppure nel caso di flessione contestuale. Ovviamente, questa conclusione ha forti ripercussioni sul modello di sintassi da adottare, ma in questa sede non possiamo esplorare ulteriormente questo tema. 8. Non biunivocità delle corrispondenze tra significati e significanti in flessione Le forme flesse rappresentano un banco di prova cruciale per la questione dei rapporti tra morfologia e sintassi anche per un altro motivo. Infatti, è soprattutto nel caso delle forme flesse che si presentano diversi tipi di sistematiche e frequenti deviazioni dal modello ideale di

3 Il partitivo in finlandese è un caso usato per marcare l’oggetto diretto in alcuni tipi di costruzioni (per esempio, in frasi negative). Ringrazio Krista Ojutkangas per avermi aiutato nella selezione dell’esempio finlandese.

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una parola composta da una sequenza di morfemi, ciascuno dei quali costituisca un segno biplanare, con un determinato significato e un determinato significante, un modello comune alle due principali teorie linguistiche del XX secolo, quella saussuriana e quella generativista. I diversi tipi di deviazioni riscontrate sono stati illustrati da Carstairs (1987, pp. 12-18; cfr. anche Matthews 1991, cap. 9), che osserva come spesso si presenti in forme flesse, invece di una corrispondenza «uno a uno» tra significati e significanti, una corrispondenza «uno a molti» o «molti a uno», dal punto di vista sintagmatico o paradigmatico. Abbiamo già avuto modo di osservare casi di corrispondenza «molti a uno» a livello sintagmatico, cioè all’interno della stessa parola. Si tratta dei casi di amalgama, nei quali molti significati sono portati da un unico significante: ad esempio, diversi valori di diverse categorie grammaticali sono fusi insieme in un unico morfo, come -o¯rum, che nei nomi della seconda declinazione in latino porta sia il valore di genitivo nella categoria di caso che quello di plurale nella categoria di numero. Tra i dati latini in (8) è esemplificata anche la corrispondenza «molti a 1» a livello paradigmatico: la forma lupı¯s rappresenta sia il dativo plurale che l’ablativo plurale del lessema LUPUS, dunque il morfo -ı¯s porta sia il significato di dativo plurale che quello di ablativo plurale. Una corrispondenza «uno a molti» a livello sintagmatico si ha quando diversi morfi all’interno di una parola portano lo stesso significato: ad esempio, nel greco antico lelúkate ‘avete sciolto’ il valore di perfetto è portato sia dal raddoppiamento le-, prefissato alla radice lu-, che dal suffisso ka-, che segue la radice e precede il suffisso di persona e numero -te. Esempi di corrispondenza «uno a molti» a livello paradigmatico si hanno nella flessione verbale italiana: si osservino le forme del presente indicativo del verbo ANDARE, riportate in (11)a e poste a confronto con quelle del verbo PARLARE in (11)b, e le forme di terza persona singolare dei verbi AMARE, TEMERE e DORMIRE, presentate in (11)c: (11) a. b. c.

vad-o parl-o am-a

va-i parl-i tem-e

v-a parl-a dorm-e

and-iamo parl-iamo

Mentre nelle diverse forme di PARLARE in (11)b il significato lessicale è sempre portato dal morfo parl-, il significato lessicale di ANDARE nelle quattro forme in (11)a è portato da quattro morfi diversi: vad-, va-, v- e and-. Dunque a un unico significato (il significato lessicale di

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ANDARE) corrispondono non uno, ma quattro significanti diversi. Nelle diverse forme di terza persona singolare in (11)c, il morfo di terza persona è -a in am-a, ma -e in tem-e e dorm-e. Anche qui, a uno stesso significato corrispondono due diversi significanti. La cosa importante da osservare è che in entrambi questi casi la distribuzione degli allomorfi non è governata da regole fonologiche. Ad esempio, i morfi lessicali in (11)c terminano tutti in /m/, ma il morfo flessivo che li segue varia. Anche la distribuzione dei diversi allomorfi del verbo ANDARE non è governata da regole fonologiche né semantiche (c’è sinonimia completa tra i quattro allomorfi individuati).

9. «Morphology by itself» La distribuzione degli allomorfi, sia dei morfemi lessicali che di quelli grammaticali, nelle diverse forme flesse di uno stesso lessema e/o nelle diverse forme flesse di lessemi diversi appartenenti a una stessa categoria lessicale, sembra costituire un campo di indagine autonomo. Per spiegare le allomorfie non semanticamente né fonologicamente governate, del tipo di quelle esemplificate in (11), è necessario fare appello a principi specifici, non riducibili né a quelli della sintassi né a quelli della semantica né a quelli della fonologia. Questo campo è stato denominato da Aronoff «morphology by itself»: questa formula costituisce il titolo del lavoro di Aronoff (1994), che ha come sottotitolo «Stems and inflectional classes». Sia la distribuzione delle stems, cioè degli allomorfi dei morfemi lessicali, sia la distribuzione dei lessemi in diverse classi di flessione, costituiscono casi di corrispondenze «uno a molti» a livello paradigmatico: diversi morfi portano uno stesso significato, lessicale nel caso delle diverse stems di uno stesso lessema, grammaticale nel caso delle diverse realizzazioni di un valore di una categoria grammaticale flessiva (o di un amalgama di valori di diverse categorie) in diverse classi di flessione. Il contributo originale dello studio di Aronoff sta nella proposta che la morfologia costituisca un livello autonomo di analisi, che media tra l’informazione semantica e quella fonologica: l’unione di significato e significante non è più vista (come era nel modello strutturalista, sia saussuriano che americano) come diretta, il che implicherebbe necessariamente una corrispondenza biunivoca tra significati e significanti (con al massimo la possibilità di allomorfie fonologicamente governate), ma come mediata dal livello morfologico, che è dotato di suoi autonomi principi di organizzazione.

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Uno dei più importanti criteri di organizzazione del livello morfologico sta nel fatto che le diverse forme flesse dei lessemi si organizzano in paradigmi e i diversi lessemi si organizzano in classi di flessione: sono entità quali i paradigmi e le classi di flessione che governano la distribuzione degli allomorfi non fonologicamente governati4. Un esempio semplice ma efficace del fatto che la distribuzione di alcuni allomorfi di morfemi lessicali è governata dalla struttura di un paradigma (cioè un’entità che non è né fonologica né semantica né sintattica, ma puramente morfologica) è offerto dai dati italiani in (12): (12) Distribuzione di alcune allomorfie nella flessione verbale italiana FINIRE

finisco

finisci

finisce

finiamo

finite

finiscono

SEDERE

siedo

siedi

siede

sediamo

sedete

siedono

USCIRE

esco

esci

esce

usciamo

uscite

escono

UDIRE

odo

odi

ode

udiamo

udite

odono

ANDARE

vado

vai

va

andiamo

andate

vanno

In (12), vediamo che diversi verbi presentano nelle forme del presente indicativo (almeno) due allomorfi, la cui forma è molto diversa da verbo a verbo: si va dall’alternanza tra forme con -isc- e forme senza -isc- nel verbo FINIRE (e in moltissimi altri verbi in -ire dell’italiano), all’alternanza tra forme con e senza il cosiddetto dittongo mobile nel verbo SEDERE (e in qualche altro verbo in -ere o in -ire), all’alternanza tra esc- e usc- e tra od- e ud-, propria solo dei due verbi USCIRE e UDIRE, all’alternanza tra v(a(d))- e and- nel verbo ANDARE. Quello che è importante osservare qui è che la sostanza fonologica che alterna è molto diversa nei diversi casi (presenza o assenza di -isc- o di un dittongo, alternanza tra determinate vocali o sequenze priva di paralleli in altri lessemi dell’italiano), ma la sede in cui si presentano i due alternanti è la stessa nei diversi verbi: è la struttura del paradigma del presente indicativo dei verbi italiani che detta la re4 Questo senza negare naturalmente l’esistenza di allomorfi fonologicamente governati, quali i diversi allomorfi del plurale inglese esemplificati in (3)b - (5)b. Un livello morfologico autonomo, però, serve comunque a spiegare la distribuzione di quelle allomorfie che NON sono spiegabili come semplice effetto di regole fonologiche.

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gola per cui quando si hanno due allomorfi non fonologicamente governati di un morfema lessicale verbale, essi si distribuiscono nel modo illustrato in (12), e non in altri modi teoricamente possibili. Poiché il significato, ad esempio, di od- e ud-, è lo stesso, nulla impedirebbe di avere presenti indicativi come quelli in (13): (13)a

* udo

odi

ude

odiamo

udite

odono

(13)b

* odo

udi

(13)c

* udo

udi

ode

udiamo

odite

udono

ude

odiamo

odite

odono

(13)d

* odo

odi

ode

udiamo

udite

udono

Anzi, i tipi (13)c e (13)d avrebbero anche il pregio di regolarizzare la struttura del paradigma, semantizzando la distribuzione degli allomorfi, dato che presentano un allomorfo per tutte le forme del singolare e l’altro per tutte le forme del plurale. Tuttavia, i patterns presentati in (13) non sono attestati né per il verbo UDIRE né per altri verbi dell’italiano. Invece il pattern in (12) è ben stabile, e in diacronia ha avuto anche la forza di attrarre verbi che originariamente non presentavano alternanze, quali quelli con -isc- e uscire. Dati come quelli appena illustrati portano a concludere che la struttura di un paradigma è un principio di organizzazione della distribuzione degli allomorfi, che merita riconoscimento in una teoria della struttura di una lingua, tanto quanto i principi della fonologia, della sintassi e della semantica5. Basterebbe questo a giustificare l’esistenza di un livello di analisi autonomo dagli altri tre appena menzionati, che possiamo chiamare morfologia6. 5 Per una presentazione particolarmente illuminante di quest’idea, cfr. Maiden (1992); per un’applicazione accurata alla flessione verbale italiana, cfr. Pirrelli e Battista (2000), Maiden (2003); per altri dati sull’italiano, cfr. anche Thornton (1999). 6 Per approfondire gli argomenti trattati in questo capitolo, si rimanda a Matthews (1991) e a Thornton (2005).

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Morfologia: i processi di Cristina Burani

1. Introduzione Una parola morfologicamente complessa è formata da due o più parti diverse, ciascuna dotata di significato proprio. Parole come bar o sopra non hanno parti interne, se si eccettuano le lettere, i suoni o le sillabe che la compongono. Né lettere, né suoni, né sillabe che costituiscono la parola hanno di per sé significato. Al contrario, una parola come bambine è costituita da due parti (o morfemi) (si veda il capitolo di Thornton in questo volume): la radice bambin-, che porta il significato principale (‘essere umano di pochi anni di età’), e il suffisso flessivo -e, che specifica che gli esseri umani di pochi anni di età, a cui si fa riferimento sono più di uno e sono di sesso femminile. Anche una parola come bambinesco è un aggettivo derivato mediante il suffisso -esco dalla radice bambin-. Le parole possono essere costituite da più morfemi. Ad esempio, la parola deindustrializzazione è composta da molte unità morfologiche, che ne rendono possibile la comprensione anche se non la si è mai sentita o letta in precedenza. Per capirne il significato, si può ricorrere alla conoscenza delle parti che la compongono (industria, industriale, industrializzare, industrializzazione, de-), ricombinandole per formare il significato complessivo. La psicolinguistica studia i processi mentali e linguistici che permettono di riconoscere, capire, produrre o leggere una parola morfologicamente complessa. La probabilità che la parola venga elaborata mediante i suoi costituenti morfologici dipende da molti fattori. È intuitivo che la probabilità di ricorrere alla scomposizione morfologica sia maggiore per riconoscere e capire una parola come deindustrializzazione rispetto a una parola come casa, corta e di uso

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molto frequente. Anche le caratteristiche fonologiche e di significato della parola e dei suoi morfemi incidono sulla probabilità che la parola venga elaborata facendo ricorso alle unità morfologiche. Quanto più una parola derivata conserva le caratteristiche fonologiche della parola di base, e quanto più è collegata ad essa per significato, tanto più sarà riconoscibile e capibile scomponendola nei morfemi costituenti. Così il significato della parola osservazione è facilmente individuabile combinando il significato di osservare, la parola da cui deriva, con quello del suffisso -zione, che indica ‘l’azione di…’; al contrario, la parola concezione molto più difficilmente sarà messa in collegamento con la parola di base concepire, da essa distante sia fonologicamente che per significato. La parola osservazione è trasparente sia fonologicamente che semanticamente rispetto alla sua base, mentre la parola concezione è considerata opaca sia fonologicamente che per significato rispetto alla base. In questo capitolo si illustreranno le ricerche che hanno preso in considerazione il contributo al processo di elaborazione morfologica delle variabili quantitative associate ai costituenti morfologici. Queste ricerche mostrano che, a parità di altre caratteristiche delle parole, quali la trasparenza semantica e fonologica, la probabilità di elaborazione della parola mediante attivazione dei suoi costituenti morfologici, sia radici che affissi (suffissi flessivi, derivazionali, e prefissi: cfr. Scalise e Thornton 1993), è tanto maggiore quanto maggiore è il numero di combinazioni nelle quali un costituente morfologico è coinvolto. Sarà tanto più probabile che una parola con il suffisso -zione venga capita utilizzando il significato del suffisso, presente in tantissime parole dell’italiano, rispetto a una parola come alterigia, formata dalla radice della parola altéro e dal suffisso -igia, presente solo in un paio di altre parole dell’italiano contemporaneo, quali ingordigia e cupidigia. I risultati che illustreremo provengono da ricerche sperimentali condotte prevalentemente su adulti coinvolti in compiti di elaborazione di parole singole presentate in forma scritta. Il compito sperimentale più utilizzato è la decisione lessicale, che consiste nel presentare in successione rapida, sullo schermo di un computer, delle stringhe di lettere che possono corrispondere o a una parola reale o a una parola inventata (non-parola o pseudoparola). Gli stimoli sperimentali sono presentati uno per volta, e si registra il tempo necessario al partecipante per riconoscere lo stimolo come parola o come nonparola, usando un tasto per la risposta SÌ (parola) e uno per la rispo-

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sta NO (non-parola). Vengono registrati anche gli errori. Dal tempo di reazione medio e dalla percentuale di errore ai diversi stimoli si traggono inferenze su come avvenga l’accesso al lessico per i diversi tipi di parole, e sulle variabili che influiscono su tale processo. Verranno passate in rassegna ricerche condotte sull’italiano, ma anche su altre lingue (l’olandese, l’inglese, il serbo-croato e il finlandese). Queste ricerche mostrano che la probabilità di elaborazione dei costituenti morfologici di una parola è condizionata da: frequenza della radice (cfr. § 2); ampiezza del paradigma flessivo (o famiglia morfologica flessiva) (cfr. § 3); ampiezza della famiglia morfologica derivazionale, cioè delle diverse parole derivate e composte in cui una determinata radice è presente (cfr. § 4; si veda anche il capitolo di Thornton in questo volume); frequenza relativa della parola derivata e della sua base (cfr. § 5); frequenza, numerosità e produttività dell’affisso (cfr. § 6); salienza dell’affisso derivazionale, rispetto a sequenze uguali ortograficamente ma non corrispondenti ad affissi (cfr. § 7). Verranno infine descritte alcune ricerche che utilizzano compiti diversi dalla decisione lessicale, quali la lettura ad alta voce (cfr. § 8) e i giudizi metalinguistici su familiarità, complessità morfologica e interpretabilità delle parole morfologicamente complesse (cfr. § 9). Questi risultati trovano interpretazione in una classe di modelli che non prevedono un’unica possibilità di accesso al lessico e di rappresentazione per le parole costituite da più morfemi, bensì due modalità di elaborazione degli stimoli percepiti visivamente: una che si basa sulla parola intera, più rapida e diretta, e una che utilizza la rappresentazione della radice e degli affissi separatamente, più lenta perché implicherebbe fasi di scomposizione e di verifica della plausibilità della combinazione radice + affisso (ad esempio, cantevi, pur essendo costituito da una radice, cant-, e da un suffisso, -evi, reali, non è una parola). Tra i modelli che prevedono entrambe le modalità di accesso al lessico mentale, particolare rilevanza hanno assunto l’AAM (Augmented Addressed Morphology) (Burani e Caramazza 1987; Caramazza, Laudanna e Romani 1988; Chialant e Caramazza 1995) e il Race model di Schreuder e Baayen (1995). Nell’AAM, la scomposizione morfemica è una procedura attivata soltanto per parole rare, neologismi e pseudoparole, cioè per stimoli che, non avendo una propria rappresentazione di tipo globale, possono essere decodificati a partire dalle rappresentazioni dei morfemi in essi contenuti. Il Race model prevede invece l’attivazione automatica sia di componenti morfemiche sia di parole intere per qualsiasi ti-

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po di stimolo: l’attivazione di tali rappresentazioni innescherebbe in parallelo sia la procedura d’accesso diretta, sia quella basata su scomposizione-ricomposizione. Questo modello non prevede, in modo deterministico, l’utilizzo di una particolare procedura in funzione di uno specifico tipo di stimolo, ma la probabilità di successo di una via a scapito dell’altra dipende dai costi e dai benefici ad essa associati. I benefici si riferiscono essenzialmente alla velocità di attivazione delle rappresentazioni, dovuta alla frequenza d’uso di queste (siano esse la parola intera o i costituenti morfologici). I costi, invece, si riferiscono esclusivamente all’utilizzo della via morfo-lessicale; essi riflettono il tempo necessario per attuare le procedure di controllo della ammissibilità della combinazione radice + affisso, e di combinazione del significato della parola intera a partire da quello dei singoli componenti. Il Race model prevede che parole poco frequenti che contengono però radici molto frequenti (ad esempio chiamaste) saranno con maggiore probabilità riconosciute su base morfemica, dato che il vantaggio derivante dall’utilizzo di rappresentazioni morfemiche molto frequenti (chiam-) sarà tale da compensare i costi di elaborazione derivanti dal controllo della liceità della combinazione di radice + affisso. Nel caso in cui, invece, la radice non sia sufficientemente frequente da indurre tale vantaggio, è probabile che il riconoscimento derivi dalla via diretta, basata sulla parola intera. 2. Frequenza della radice e frequenza della parola Alcune delle prime ricerche hanno evidenziato l’effetto di frequenza della radice: quanto più una forma morfologicamente complessa contiene una radice usata frequentemente, tanto più quella parola sarà riconosciuta velocemente e con accuratezza. Il fatto che la velocità di riconoscimento della parola sia funzione della frequenza della radice prova che la parola viene riconosciuta mediante scomposizione in radice e affisso, o mediante attivazione simultanea delle altre parole che condividono quella radice, la cui frequenza complessiva contribuisce a facilitare il riconoscimento della parola stessa. Così la parola chiamavo, poco usata in forma scritta ma contenente una radice usata frequentemente (chiam- del verbo chiamare), comporterà tempi di decisione lessicale più veloci rispetto a una parola come fiutavo, altrettanto poco usata in forma scritta ma, in più, proveniente da un verbo (fiutare) usato molto raramente (Burani, Salmaso e Caramazza 1984).

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L’effetto della frequenza cumulata della radice si riscontra, in inglese e in italiano, sia per parole con suffisso flessivo come grouped («raggruppato»), tales («storie»), o chiamavi (Taft 1979; Burani et al. 1984), sia per parole con suffisso derivazionale come singer («cantante»), advancement («avanzamento»), amabile o traditore (Burani e Caramazza 1987). In francese, l’effetto di frequenza della radice è stato mostrato per le parole derivate con suffisso come jardinier («giardiniere»), ma non per le parole prefissate come incomplet («incompleto») (Colé, Beauvillain e Segui 1989). Secondo gli autori, l’effetto di frequenza della radice sarebbe dovuto alla sequenzialità del processo di elaborazione della parola, che procedendo da sinistra a destra comporterebbe l’accesso alla radice quando questa si trova in prima posizione, seguita dal suffisso, ma non quando la parola inizia con un prefisso (ma cfr. § 6). Tale direzionalità dell’accesso si avrebbe anche per le parole scritte, analogamente a quanto avviene per quelle presentate uditivamente (Meunier e Segui 1999): la parte iniziale delle parole suffissate renderebbe disponibile l’informazione semantica essenziale fornita dalla radice, favorendo una organizzazione delle parole in famiglie morfologiche che condividono la stessa radice. L’effetto di frequenza della radice si riscontra prevalentemente in parole trasparenti, fonologicamente e per significato, rispetto alla base. Effetti di frequenza della radice sono stati comunque riscontrati anche per parole non completamente trasparenti rispetto alla base (Taft 1979; Holmes e O’Regan 1992; Schreuder, Burani e Baayen 2003), quando queste contengono affissi frequenti e produttivi (cfr. § 5). Secondo alcuni autori, è più facile riscontrare effetti morfologici in lingue che presentino relazioni sistematiche (cioè ricorrenti e regolari) fra aspetti di forma e di significato (Rueckl e Raveh 1999), in lingue con struttura morfologica ricca, come l’ebraico (Frost, Deutsch, Gilboa, Tannenbaum e Marslen-Wilson 2000; Plaut e Gonnerman 2000) o l’italiano (per le nozioni di ricchezza e complessità morfologica, cfr. Dressler 1999). In una lingua morfologicamente ricca sarebbe più probabile cogliere una relazione fra due parole come stato e statura, anche se non più collegate per significato, o come eccepire e recepire, che derivano da una radice non più esistente (Burani, Laudanna e Cermele 1992; Chialant e Burani 1992), perché in una tale lingua l’organizzazione complessiva del lessico, comprese le parole opache, è più strutturata morfologicamente rispetto a una lingua povera in morfologia. In una lingua morfologicamente ricca, anche gli elementi contenuti in parole opache sarebbero analizzati come quelli

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presenti in parole trasparenti. Al contrario, lingue con struttura morfologica non particolarmente ricca potrebbero non essere sensibili alla frequenza della radice, ma solo a quella della parola intera. Ed infatti le parole flesse dell’inglese, lingua caratterizzata da una morfologia flessiva scarsa, sembrano risentire della sola frequenza della parola intera (Katz, Rexer e Lukatela 1991; Sereno e Jongman 1997). 3. Ampiezza della famiglia morfologica flessiva La probabilità di scomporre una parola flessa nei morfemi costituenti non risente solo della ricchezza morfologica della lingua, ma anche dell’ampiezza del paradigma flessivo della categoria grammaticale di appartenenza. Anche in lingue morfologicamente molto ricche, quali l’ebraico o il serbo-croato, a parità di altre proprietà, quanto più ampio è il paradigma flessivo di una categoria grammaticale, tanto maggiore è la probabilità di elaborazione morfologica (Deutsch, Frost e Forster 1998; Kosticˇ e Katz 1987). In italiano, nomi, aggettivi e verbi hanno paradigmi flessivi di ampiezza diversa. Mentre nomi e aggettivi hanno da due a quattro suffissi flessivi (indicanti il genere, maschile o femminile, e il numero, singolare o plurale), i verbi hanno un paradigma flessivo caratterizzato da circa cinquanta forme flesse in media. Questa diversa ampiezza del paradigma flessivo potrebbe comportare una maggiore probabilità, per i verbi dell’italiano, di venire elaborati mediante attivazione della radice: la radice verbale costituirebbe un’unità di elaborazione più saliente e disponibile, in quanto presente in più combinazioni, con un maggior numero di suffissi flessivi. La probabilità di elaborazione morfologica sarebbe minore, invece, sia per i nomi che per gli aggettivi, caratterizzati da un numero inferiore di combinazioni radice-suffisso flessivo: nomi e aggettivi verrebbero riconosciuti prevalentemente come parole intere, senza scomporli in radice e suffisso flessivo (Baayen, Burani e Schreuder 1997; Baldi 1998; Colombo e Burani 2002; Laudanna, Voghera e Gazzellini 2002; Traficante e Burani 2003; Traficante, Barca e Burani 2004). Quando una parola flessa fa parte di una famiglia numerosa di forme flesse, è in certo senso inevitabile l’accesso mediante riconoscimento di radice e suffisso flessivo, nonostante questa modalità di scomposizione (parsing morfologico) possa avere dei costi computazionali, soprattutto in parole singole presentate fuori contesto di frase (Laine, Vainio e Hyönä 1999; Traficante e Burani 2003; Trafican-

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te et al. 2004). In un modello in cui sono attivate in parallelo sia unità di elaborazione corrispondenti alla parola intera, sia unità corrispondenti ai morfemi, l’accesso al lessico mediante attivazione della parola intera è più immediato dell’accesso mediante attivazione dei costituenti. Le unità di riconoscimento corrispondenti alla parola intera, infatti, forniscono un accesso diretto alla rappresentazione mentale della parola e alle sue proprietà semantico-concettuali. L’accesso al lessico mediante attivazione dei costituenti morfologici comporta invece un processo più elaborato. Secondo il modello di Schreuder e Baayen (1995), l’elaborazione morfologica comporta un processo di segmentazione della parola, seguito dalla ri-composizione degli elementi costituenti e dal controllo dell’appropriatezza semantico-sintattica della combinazione, necessaria per il processo di comprensione e integrazione del significato. Esistono dunque, oltre ai benefici, anche costi connessi all’elaborazione morfologica. Le parole che presentano costi di elaborazione hanno un paradigma flessivo ampio, in cui ad una stessa forma flessa possono essere associate diverse funzioni sintattiche e diversi significati, indipendentemente dal fatto che in una determinata lingua (ad esempio il serbocroato o il finlandese) queste parole corrispondano alla categoria grammaticale dei nomi (Kosticˇ 1995; Laine et al. 1999), mentre in un’altra lingua (ad esempio l’italiano) corrispondano ai verbi (Traficante e Burani 2003). 4. Ampiezza della famiglia morfologica derivazionale In alcuni casi, una famiglia morfologica ampia può invece facilitare la velocità e l’accuratezza dell’accesso al lessico (si veda il capitolo di Peressotti e Job in questo volume). Questo avviene quando la parola fa parte di un’ampia famiglia morfologica derivazionale, cioè contiene una base (o una radice) presente in un gran numero di parole derivate o composte. La facilitazione dovuta all’ampiezza della famiglia derivazionale è stata trovata con parole monomorfemiche dell’olandese: una parola come meel («farina»), presente in molte parole derivate e composte, viene riconosciuta più velocemente ed accuratamente rispetto ad una parola come regio («regione») che invece è presente in una sola altra parola dell’olandese (Schreuder e Baayen 1997). L’effetto è stato riscontrato, per l’olandese, anche con parole flesse (De Jong, Schreuder e Baayen 2000) e derivate (Bertram, Baayen e Schreuder 2000). La facilitazione indotta dalla famiglia derivazionale sa-

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rebbe di tipo semantico: in una famiglia derivazionale ampia, l’attivazione del significato della parola di base si diffonde a un alto numero di membri della stessa famiglia che, condividendo parte del significato, contribuiscono alla immediatezza del riconoscimento. Gli effetti di facilitazione si riscontrerebbero, dunque, prevalentemente quando la maggior parte dei membri della famiglia derivazionale sono trasparenti per significato rispetto alla base. Questa misura di numerosità dei tipi di parole (types) che condividono una stessa radice non si identifica con la frequenza con cui tali parole occorrono (tokens). Anche se correlate (nel senso che parole con radice molto frequente tendono anche ad essere presenti in un largo numero di parole derivate), numerosità e frequenza sono però misure differenti. Si può avere una famiglia di una decina di parole derivate dalla stessa radice, ciascuna delle quali molto rara, così come si può avere una famiglia composta da dieci parole derivate tutte molto frequenti. La dimensione determinante per favorire velocità e accuratezza dell’accesso al lessico sarebbe la numerosità dei diversi tipi di parole che condividono una stessa radice, più che la frequenza di occorrenza delle stesse. La distinzione fra numerosità e frequenza verrà ripresa nel § 6. Una domanda interessante è se il ruolo della famiglia derivazionale si riscontri solo o principalmente in lingue in cui le famiglie derivazionali assumono dimensioni molto ampie, come l’olandese, caratterizzato da molte parole composte. In italiano, per la presenza molto minore di parole composte, le differenze di ampiezza fra le famiglie morfologiche derivazionali non sono molto grandi e potrebbero non influire in modo decisivo sull’elaborazione lessicale. De Jong e collaboratori (2000) sostengono comunque che, più che l’ampiezza assoluta della famiglia derivazionale, quello che conta è la coerenza di significato fra le parole che la costituiscono. 5. Frequenza relativa di parola derivata e parola di base La probabilità di accesso lessicale mediante parsing morfologico è condizionata dalla frequenza dei costituenti morfologici in rapporto alla frequenza della parola intera. I principali modelli ad accesso parallelo assumono che la probabilità di parsing morfologico sia maggiore per le parole di bassa frequenza che includono costituenti di alta frequenza (Burani e Laudanna 1992; Frauenfelder e Schreuder 1992; Bybee 1995a; Chialant e Caramazza 1995; Schreuder e

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Baayen 1995). Una parola derivata trasparente, poco frequente nella lingua italiana, come bassezza, composta però da una radice (bass-) e da un suffisso molto frequenti (-ezza), sarà facilmente riconoscibile mediante attivazione dei morfemi costituenti, piuttosto che dell’unità corrispondente alla parola intera, che presumibilmente è scarsamente disponibile nel lessico. Come già visto, le parole composte da più di un morfema attivano in parallelo due tipi di unità di accesso: unità corrispondenti alla parola intera (bassezza) e unità corrispondenti ai morfemi che la costituiscono (bass- ed -ezza). Ed è la frequenza relativa della parola intera rispetto a quella dei suoi costituenti che influisce sull’andamento temporale dell’attivazione delle unità (parola, radice, affisso): quanto più alta è la frequenza di un’unità lessicale, tanto più alta è la probabilità che quell’unità venga elaborata velocemente nelle varie fasi di accesso al lessico. Ciò che è cruciale nel determinare la probabilità che l’accesso al lessico si basi sulla parola intera o sui suoi costituenti morfologici, è l’equilibrio esistente fra la frequenza delle diverse unità, cioè la frequenza relativa, piuttosto che quella assoluta. 6. Frequenza, numerosità e produttività del suffisso derivazionale La grande maggioranza delle ricerche ha considerato la frequenza della radice o la numerosità della famiglia derivazionale. Sorprendentemente, nonostante si possa ritenere che entrambi i costituenti (radice e affisso) giochino un ruolo nella probabilità di accesso morfologico, poche ricerche hanno indagato il contributo delle caratteristiche quantitative degli affissi. Le proprietà quantitative degli affissi derivazionali sono state studiate in compiti di elaborazione di pseudoparole morfologiche, cioè combinazioni di costituenti morfologici inesistenti nella lingua (Burani, Thornton, Iacobini e Laudanna 1995; Laudanna e Burani 1995). Tali pseudoparole permettono di indagare il riconoscimento di parole nuove o potenziali per la comprensione delle quali il contributo del suffisso è determinante. Per mostrare che la probabilità di accesso morfemico è condizionata dalla frequenza del suffisso, Burani, Dovetto, Thornton e Laudanna (1997) hanno sottoposto a un compito di decisione lessicale delle pseudoparole costituite da una radice reale in combinazione con un suffisso derivazionale non compatibile con quella radice. In un primo gruppo di stimoli sperimentali, le radici erano combinate con suf-

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fissi molto frequenti (ad esempio comprista), e queste pseudoparole venivano confrontate con pseudoparole in cui le stesse radici venivano combinate con sequenze ortografiche molto frequenti in posizione finale di parola, che non costituivano però dei suffissi (comprosto). Nel secondo gruppo, le pseudoparole morfologiche erano costituite da radici reali combinate con suffissi di bassa frequenza (ad esempio sentigia), messe a confronto con pseudoparole con la stessa radice ma sequenza ortografica finale (di bassa frequenza) non corrispondente a un suffisso (sentegio). Per decidere che si trattava di parole non esistenti, le pseudoparole con suffissi reali hanno richiesto più tempo di quelle che non contenevano suffissi, originando molti errori. Questo, però, è avvenuto solo quando la pseudoparola conteneva un suffisso molto frequente: le persone sono propense a considerare come parola possibile una combinazione nuova radice-suffisso, ma solo quando il suffisso è sufficientemente frequente, cioè è usato molto spesso nella lingua. La probabilità che i suffissi influenzino l’elaborazione morfologica sembra dunque condizionata dalla loro frequenza, come è stato confermato da Burani e Thornton (2003) con pseudoparole morfologiche costituite dal solo suffisso combinato con una radice non esistente (ad esempio cempenista). Anche in questo caso veniva impiegato più tempo, rispetto a una pseudoparola non morfologica (cempenosto), per decidere che la pseudoparola con suffisso non costituiva una parola reale. Ciò accadeva però solo quando la pseudoparola conteneva un suffisso molto frequente. Le pseudoparole con suffisso frequente (come cempenista) davano anche luogo a falsi allarmi: tendevano cioè a essere considerate parole possibili, nonostante l’assenza di una radice reale. Anche per i suffissi, così come per le radici o basi (cfr. §§ 2 e 4), è possibile distinguere due misure quantitative: la frequenza delle occorrenze e la numerosità delle differenti parole, o lemmi, nelle quali ciascun suffisso è contenuto. La frequenza del suffisso è calcolata sommando tutte le occorrenze in un corpus delle parole che contengono un determinato suffisso. La numerosità (Burani et al. 1995; Thornton 1998) è ricavata, invece, calcolando il numero totale di parole diverse con quel determinato suffisso esistenti nella lingua. La numerosità del suffisso sembra una caratteristica quantitativa più importante per determinare la probabilità di parsing morfologico. Un suffisso «numeroso», infatti, compare in molte combinazioni diverse con radici diverse, e potrebbe favorire l’emergere del suffisso come unità di elaborazione indipendente. È comunque difficile

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scorporare frequenza e numerosità del suffisso, che tendono ad essere molto correlate: i suffissi particolarmente disponibili nel processo di parsing morfologico sono caratterizzati sia da alta frequenza che da alta numerosità. Un solo studio ha indagato il contributo delle proprietà quantitative dei suffissi all’interno di parole reali. Burani e Thornton (2003) hanno sottoposto a decisione lessicale quattro gruppi di parole derivate di bassa frequenza, costituite rispettivamente da: 1) radice e suffisso entrambi di alta frequenza (ad esempio bassezza); 2) radice di alta frequenza e suffisso di bassa frequenza (ad esempio frutteto); 3) radice di bassa frequenza e suffisso di alta frequenza (ad esempio saldezza); 4) radice e suffisso entrambi di bassa frequenza (ad esempio roveto). Il tempo e l’accuratezza di decisione lessicale sono risultati funzione della frequenza di entrambi i costituenti, radice e suffisso, con la decisione per le parole di tipo (1), più veloce ed accurata rispetto a quella per parole di tipo (2) e (3), a loro volta più veloci ed accurate delle parole di tipo (4). Le parole sono risultate tanto più familiari quanto più contenevano morfemi frequenti. Una volta pareggiate per familiarità, risultavano più veloci ed accurate le parole contenenti una radice di alta frequenza (cfr. § 9 per una discussione della misura di familiarità soggettiva). Alcune ricerche hanno indagato il ruolo di altre proprietà dei suffissi derivazionali correlate a frequenza e numerosità. Esiste un forte legame fra produttività del suffisso e probabilità di parsing morfologico (Hay e Baayen 2002). Per produttività del suffisso si intende la relativa facilità con cui un suffisso viene combinato con un gran numero di radici diverse, dando così luogo a parole nuove o neologismi (si veda il capitolo di Thornton in questo volume). Per il finlandese e per l’olandese, è stato mostrato che sia la produttività che l’omonimia del suffisso (cioè l’ambiguità nel servire a più di una funzione sintattico-semantica) influenzano l’elaborazione lessicale: parole con un suffisso produttivo e non omonimo, cioè non ambiguo semanticamente, vengono più facilmente elaborate in morfemi (Bertram, Laine e Karvinen 1999; Bertram, Laine, Baayen, Schreuder e Hyönä 2000). La produttività è molto correlata alla frequenza e soprattutto alla numerosità del suffisso, anche se non si identifica necessariamente con esse (Baayen 1992; Bybee 1995b; Thornton 1998; Gaeta e Ricca 2002). In genere una variazione in produttività corrisponde a una differenza di frequenza/numerosità. Tuttavia, possono aversi differenze nella numerosità di un suffisso non corrispondenti

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a differenze di produttività, così come non sempre le differenze di produttività corrispondono a differenze di frequenza o numerosità. Consideriamo ad esempio i tre suffissi -ista, -ezza e -oide. I primi due sono molto frequenti e numerosi in corpora di lingua scritta, però differiscono in produttività, prendendo come indicatore della produttività il numero di neologismi coniati con quel suffisso in un certo arco di tempo (Thornton 1998). Mentre -ista compare in un numero altissimo di neologismi, -ezza è presente solo in un paio di questi. Un caso diverso è quello di -oide, che ha frequenza e numerosità molto basse, ma compare in un numero di neologismi quattro volte maggiore di quello in cui è presente il pur frequentissimo -ezza. Per cui potrebbe non essere irrilevante, anche se difficile, tenere separati sperimentalmente gli effetti di produttività da quelli di frequenza/numerosità del suffisso. 7. Confondibilità ortografica per i prefissi? Le proprietà quantitative che incidono sulla probabilità di attivare un affisso derivazionale valgono in linea di principio tanto per i suffissi che per i prefissi. Nel caso dei prefissi, la proprietà statistico-quantitativa più importante sembra però essere un’altra rispetto a quelle discusse. Questa proprietà, probabilmente connessa alla posizione all’inizio di parola del prefisso, può essere chiamata confondibilità ortografica (Laudanna, Burani e Cermele 1994) del prefisso rispetto a sequenze ortografiche uguali ma non corrispondenti a un prefisso. In italiano, le parole che contengono il prefisso dis- (ad esempio disabile, dismisura, disperdere) costituiscono più del 75% di tutte le parole che cominciano con dis, prefissate e non (come discoteca, dispotico). Al contrario, solo il 26% di tutte le parole che cominciano con pre- sono parole prefissate come prematuro, preavviso, prevalere, mentre la grande maggioranza delle parole che cominciano con pre non sono prefissate (come prefetto, pregare, premuroso). Quindi un prefisso come dis- è un’unità di elaborazione morfologica molto più saliente e meno confondibile con sequenze non corrispondenti a prefissi, rispetto a un prefisso come pre-. Nella ricerca di Laudanna, Burani e Cermele (1994) sono state sottoposte a decisione lessicale visiva delle pseudoparole formate da un prefisso in combinazione inappropriata con una parola (ad esempio discorpi), confrontandole con pseudoparole non prefissate, come pascorpi (pas non è un prefisso). Il prefisso contenuto nella pseudoparola poteva essere più o

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meno confondibile, cioè presente in una proporzione più o meno grande di parole veramente prefissate. Indipendentemente dal numero assoluto di parole nel quale un determinato prefisso è presente, i risultati hanno mostrato tempi più lunghi e un numero maggiore di errori nelle decisioni su quelle pseudoparole che includevano prefissi contenuti in un’alta percentuale di parole veramente prefissate. Questa variabile contribuisce a determinare il grado di salienza del prefisso: quanto maggiore è nella lingua la proporzione di parole veramente prefissate, tanto più alta è la probabilità che quel prefisso giochi un ruolo come unità di accesso e rappresentazione. Secondo Schreuder e Baayen (1994), che hanno indagato le conseguenze computazionali della diversa distribuzione delle forme prefissate in lingue diverse, i vantaggi del parsing morfologico sarebbero strettamente dipendenti dalla proporzione di parole prefissate rispetto a quelle pseudo-prefissate. Se una parola che inizia con un possibile prefisso venisse sempre scomposta, in diversi casi (come ad esempio con le parole dell’italiano inizianti con pre, in maggioranza non prefissate), si incorrerebbe in difficoltà o ritardi nell’accesso al lessico (prefetto sarebbe erroneamente scomposto in pre e fetto, che non significa nulla, e pregare in pre e gare, la cui combinazione significa un’altra cosa). La maggior probabilità di parsing morfologico per le parole con prefisso non confondibile è stata mostrata non solo per l’italiano, ma anche per l’inglese. Wurm (2000) ha mostrato che, per stimoli presentati uditivamente, la confondibilità di un prefisso interagisce con altre variabili, quali la trasparenza semantica della parola o la frequenza della radice: è tanto più probabile scomporre una parola contenente un prefisso presente in una larga proporzione di parole prefissate, quando la parola è trasparente per significato rispetto alla radice da cui è formata, e la radice è frequente. 8. Lettura di pseudoparole morfologiche Un compito non molto utilizzato con stimoli morfologicamente complessi è la lettura ad alta voce, che consiste nel leggere il più velocemente e accuratamente possibile le parole o le pseudoparole presentate una per volta in successione rapida sullo schermo di un computer. Per ogni stimolo viene rilevato il tempo necessario per iniziare (onset) la pronuncia, e vengono registrati gli errori. La lettura rapida ed automatica si avvale del ricorso al lessico: una parola viene letta tanto più velocemente quanto più è disponibile nel lessico

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interno. Una parola mai incontrata prima in forma scritta può essere letta, invece, non tanto consultando il lessico, nel quale essa non è (ancora) presente, ma utilizzando le regole ortografico-fonologiche che permettono di tradurre la forma scritta nella corrispondente forma fonologica. La lettura per regola è più analitica, più lenta e più soggetta ad errore rispetto alla lettura lessicale (si vedano i capitoli di Laudanna e di Peressotti e Job in questo volume). Un modo per appurare la disponibilità nel lessico dei costituenti morfologici di una parola è quello di indagare se tali costituenti vengano utilizzati per leggere parole nuove costituite da elementi morfologici conosciuti. Se il sistema di elaborazione lessicale operasse solo su forme intere, una combinazione nuova di radice e suffisso potrebbe essere letta solamente mediante regole di conversione grafema-fonema: quella particolare combinazione di radice e suffisso non è infatti presente nel lessico interno. Una pseudoparola come donnista, ad esempio, non esiste per intero nel lessico interno, quindi potrebbe essere letta solo per regola, se non fosse possibile scomporla in morfemi (donn- e -ista). Dovrebbe essere letta quindi con tempi e accuratezza simili a quelli rilevati per una pseudoparola come dennosto, simile per lunghezza e struttura ortografico-fonologica, ma non composta da radice e suffisso. Se, invece, il sistema di elaborazione comporta l’accesso a unità morfologiche, sarà possibile leggere donnista non solo per regola ma anche per via morfo-lessicale, attivando nel lessico interno le unità corrispondenti alla radice donn- e al suffisso ista, e utilizzandole per leggere lessicalmente la parola nuova. Ciò comporterà una lettura più veloce e più accurata rispetto a una pseudoparola come dennosto, che, non potendo usufruire di una lettura morfo-lessicale, può solo basarsi sul riconoscimento analitico dei grafemi e sulla traduzione di questi nei fonemi corrispondenti, assemblandoli ai fini della coarticolazione e della pronuncia. Essendo questo secondo processo molto più analitico e sequenziale, ci si potranno dunque aspettare tempi più lunghi di lettura e una maggiore probabilità di errore con dennosto, rispetto a donnista. In vari esperimenti di lettura con pseudoparole morfologiche è stato mostrato che anche in una lingua come l’italiano, in cui la lettura per regola è particolarmente semplice, essendo le corrispondenze grafema-fonema molto trasparenti e regolari, il ricorso alla lettura morfo-lessicale è estremamente efficiente nel caso di combinazioni morfologiche nuove, traducendosi in maggiore velocità e accuratezza rispetto a parole nuove in cui non è possibile avvalersi della strut-

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tura morfologica (Burani e Laudanna 2003). La lettura morfo-lessicale si sviluppa già dal secondo ciclo della scuola elementare (Burani, Marcolini e Stella 2002; Marcolini e Burani 2003), ed è tanto più efficiente quanto più i suffissi sono frequenti (Burani et al. 1997). 9. Giudizi metalinguistici Fino ad ora abbiamo parlato esclusivamente di compiti sperimentali cosiddetti on-line, che rilevano cioè il tempo di reazione e l’accuratezza nel rispondere a stimoli linguistici presentati in successione rapida e con limiti di tempo. Alcuni studi hanno confrontato le prestazioni on-line con i giudizi off-line forniti, sugli stessi stimoli linguistici, da persone cui si richiedono valutazioni soggettive senza particolari limiti di tempo. Le misure off-line sono risultate correlate in modo sistematico tanto con le misure on-line, cioè con i tempi e l’accuratezza di decisione lessicale e lettura ad alta voce, quanto con le proprietà quantitative dei morfemi che incidono sui compiti di riconoscimento e lettura, fornendo così una conferma indipendente del ruolo di queste. Sono stati utilizzati giudizi di familiarità o frequenza soggettiva, in cui si chiede di valutare quanto una parola è conosciuta o familiare, con valori crescenti di familiarità da uno a sette. Una parola monomorfemica caratterizzata da un’ampia famiglia morfologica derivazionale, come schijf («disco» in olandese) oppure bean («fagiolo» in inglese), è stata valutata più familiare di una parola altrettanto frequente nella lingua e di struttura simile, come rund («mucca» in olandese) o come sofa («divano» in inglese), che però non compare in un numero altrettanto ampio di parole derivate o composte (Schreuder e Baayen 1997; Baayen, Lieber e Schreuder 1997, per l’olandese e l’inglese rispettivamente). Le parole monomorfemiche valutate più familiari erano anche quelle che altri partecipanti riconoscevano più velocemente e con maggiore accuratezza in compiti on-line di decisione lessicale (Schreuder e Baayen 1997). Come osservano gli autori, paradossalmente anche una parola semplice, senza struttura morfologica interna, come boek o bean, presenta una complessità morfologica, dato che il numero di parole complesse che contengono quella parola ne influenza il riconoscimento. Analogamente, una parola derivata di bassa frequenza dell’italiano, come acquario, costituita da radice e suffisso presenti in molte altre parole, è stata giudicata più nota di una parola come querceto, altrettanto po-

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co frequente nella lingua ma costituita da radice e suffisso presenti in poche parole. Il valore di familiarità attribuito alla parola suffissata è risultato strettamente correlato alla velocità e accuratezza di riconoscimento (Burani e Thornton 2003). Un altro tipo di giudizio è quello di complessità morfologica. Hay (2001) ha sottoposto a parlanti inglesi delle coppie di parole prefissate o suffissate, chiedendo di giudicare quale delle due sembrasse loro «più complessa». Un esempio di coppia era generally (‘generalmente’) ed equally (‘ugualmente’). Nonostante entrambe le parole fossero molto frequenti (quindi ugualmente poco soggette a scomposizione morfologica), generally veniva giudicata più complessa (più scomponibile in parti) di equally: generally contiene infatti una base (general) molto più frequente della sua derivata generally. Al contrario, la base di equally (equal) è meno frequente di equally. Il giudizio sembra dunque risentire della frequenza relativa della parola di base e della parola derivata: le persone percepiscono come meno complesse morfologicamente le parole derivate la cui base è meno frequente di esse, mentre ritengono più complesse quelle parole derivate che contengono una base più frequente della parola derivata (cfr. § 5). La presenza in una parola nuova (o pseudoparola) di un suffisso frequente e produttivo permette anche di fornire giudizi di interpretabilità sulla neoformazione. Il giudizio di interpretabilità, valutato mediante una scala a sette punti (1= per nulla o scarsamente interpretabile; 7= completamente interpretabile), risente della distribuzione dei morfemi nella lingua e delle regole di formazione delle parole. Dovetto, Thornton e Burani (1998) hanno sottoposto a giudizio di interpretabilità tre tipi di parole di nuova coniazione o inventate (pseudoparole), tutte formate con suffissi frequenti e produttivi (-aio, -ale, -ese, -iere, -ista e -oso). Il primo gruppo (A) di neoformazioni violava le regole di combinabilità grammaticale, secondo cui certi tipi di suffissi si combinano solo con radici di una determinata categoria grammaticale (ad esempio, un suffisso che si combina solo con basi nominali, come -aio, veniva combinato con una base verbale, come in seppellaio). Nel secondo gruppo (B), gli stessi suffissi erano combinati con radici adeguate dal punto di vista grammaticale, che però non avevano le caratteristiche sintattico/semantiche richieste dal suffisso. Ad esempio, il suffisso -aio, che si combina con nomi concreti per formare nomi di mestiere (corniciaio, vetraio, ecc.), di luogo (pollaio, pagliaio) o, raramente, di strumento

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(telaio), veniva combinato con basi nominali astratte (ad esempio umoraio o terroraio). Infine, nel terzo gruppo (C), il suffisso -aio poteva essere combinato con basi nominali concrete, dando luogo a parole possibili, anche se non attestate (ad esempio quadernaio o divanaio). Nel dare il giudizio di interpretabilità le persone mostravano sensibilità alla distribuzione dei morfemi nella lingua e alle regole di formazione delle parole: giudicavano infatti più interpretabili le pseudoparole del tipo C rispetto a quelle del tipo B, a loro volta giudicate più interpretabili di quelle del tipo A. Il giudizio off-line non veniva però rispecchiato completamente nella prestazione al compito on-line di decisione lessicale: nel decidere che la pseudoparola non esiste nella lingua, si impiegava più tempo e si facevano più errori quando la pseudoparola era più interpretabile, indipendentemente dal fatto che la sua base fosse compatibile grammaticalmente con il suffisso (Burani, Dovetto, Spuntarelli e Thornton 1999). Anche Coolen, Van Jaarsveldt e Schreuder (1991) hanno mostrato che la decisione lessicale su parole non esistenti o pseudoparole composte dell’olandese (ad esempio citroenmarkt, ‘mercato dei limoni’) risentiva del giudizio di interpretabilità dato alla combinazione nuova: la decisione «non parola» era tanto più lenta ed incerta quanto più la neo-combinazione veniva giudicata interpretabile. Van Jaarsveld, Coolen e Schreuder (1994) si sono chiesti quanto l’interpretabilità di un neo-composto risenta della produttività dei nomi costituenti il composto, per cui un determinato nome (ad esempio trein, ‘treno’) può comparire in molte parole composte dell’olandese mentre un altro (ad esempio sok, ‘calza’) in poche. I risultati hanno mostrato che il tempo e l’accuratezza di decisione lessicale erano funzione tanto del grado di interpretabilità del neo-composto, quanto del numero di parole composte nelle quali erano presenti gli elementi costituenti, e i due fattori avevano effetti indipendenti: un neo-composto tendeva ad essere preso come parola possibile quando era molto interpretabile e quando era formato da nomi presenti in molte parole composte dell’olandese. Quest’ultimo è un effetto di ampiezza della famiglia derivazionale (cfr. § 4): i composti nuovi formati da costituenti presenti in molte parole composte (cioè con un’ampia famiglia derivazionale) risultano più simili ad una parola reale, ed è quindi più difficile rifiutarli come parole non esistenti. Le persone, dunque, sembrano possedere una consapevolezza implicita della composizione morfologica delle parole, anche se probabilmente molti non saprebbero neppure definire esplicitamente una

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parola come costituita da radice e affisso, e questa consapevolezza è in larga misura plasmata dalle caratteristiche quantitative dei morfemi. In conclusione, è interessante notare che la consapevolezza morfologica sembra svilupparsi precocemente nei bambini (Lo Duca 1987, 1990), fornendo un contributo determinante alla capacità di lettura e soprattutto di comprensione delle parole nuove (Bimonte e Burani 2005). La capacità dei bambini di capire e definire una parola mai incontrata prima risente delle proprietà quantitative dei morfemi: bambini italiani di scuola elementare sanno definire meglio parole nuove o poco frequenti quando queste contengono radici conosciute e suffissi frequenti e produttivi (ad esempio valigeria), rispetto, nell’ordine, a parole derivate altrettanto nuove e poco frequenti che contengano però suffissi poco frequenti e produttivi (ad esempio bananeto), o rispetto a parole che non siano scomponibili in radice e suffisso (ad esempio corteccia) (Bimonte e Burani 2005).

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Lessico: le strutture di Gaetano Berruto

1. Introduzione Il lessico, l’insieme delle parole di una lingua, si presenta agli occhi del linguista in una duplice veste, con aspetti largamente contraddittori. Da un lato, il lessico – assieme ai principi, alle regole e ai costrutti della grammatica – è uno dei due componenti assolutamente essenziali di una lingua; senza lessico non esisterebbe una lingua, non potremmo comunicare verbalmente, i messaggi sarebbero vuoti. Dall’altro lato, per molti versi il lessico è anche allo stesso tempo lo strato più esterno e superficiale della lingua, più esposto alle contingenze extralinguistiche e più condizionato da fattori estranei al sistema linguistico. Nel lessico si fondono, infatti, conoscenza del mondo e conoscenza della lingua (Lepschy 1979; Dardano 1993). Per certi aspetti, il lessico è quindi per il linguista teorico anche il livello d’analisi meno «linguistico», e dunque relativamente meno interessante per adire ai recessi interni del sistema, alla struttura immanente della lingua. Il lessico, inoltre, è lo strato della lingua più ampio, costituito, rispetto alla fonologia e alla morfologia, dall’inventario incomparabilmente più numeroso di elementi; e meno strutturato, apparentemente asistematico e caotico, composto da elementi eterogenei. Si tratta infatti di un insieme aperto e fluttuante, suscettibile di essere continuamente incrementato di nuove unità. Circa il primo punto, l’ampiezza dell’inventario, risulta in pratica impossibile enumerare con esattezza tutte le parole di una lingua che oggi o nel passato sono state adoperate in qualche circostanza nello scrivere e/o nel parlare e che quindi hanno diritto di essere computate come unità lessicali di quella lingua. I comuni dizionari generali di consultazione (per l’italiano, ad esempio, lo Zingarelli, che esce ogni anno in versione aggiornata, il

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Garzanti 1987, il Disc 1997 e il De Mauro 2000a) contengono fra le 90.000 e le 130.000 parole, o meglio lemmi, in quanto molti dizionari lemmatizzano anche prefissi (ana-, eso-...), suffissi (-ale, -ario...), locuzioni, ecc. Il più completo dizionario generale dell’italiano, il recente Gradit 1999, riporta 286.272 entrate. Anche sottraendo a questa cifra le circa 3400 abbreviazioni, sigle e simboli, circa 2900 formativi di parola, e quasi 700 interiezioni e fonosimboli, nonché 1788 locuzioni o espressioni idiomatiche lemmatizzate autonomamente (De Mauro 1999a), rimangono pur sempre quasi 280.000 vocaboli. Ma si tenga conto che si calcola che il lessico posseduto da un parlante medio, anche piuttosto colto, non superi in genere le 50.000 unità (cfr. § 8). Circa il secondo punto critico del lessico, la caoticità e asistematicità, dovute al fatto che il lessico in fondo riflette la realtà esterna e incamera tutte le conoscenze che abbiamo del mondo reale e di quelli virtuali, basti osservare il fatto, esteriore ma pur sempre significativo, che l’unico ordinamento sistematico inoppugnabile ed esaustivo del lessico è quello totalmente basato sul significante, l’ordine alfabetico normalmente adottato dai dizionari. Ma, come vedremo, al di là dell’apparenza è possibile porre ordine, basato su criteri interni linguisticamente significativi e non solo su caratteristiche esteriori del tutto inessenziali, anche in un insieme così complesso e sterminato. 2. Classificazione delle parole Una prima classificazione, sommaria ma basilare, delle unità del lessico è quella, risalente all’antica grammatica greca e poi latina, che distingue diverse parti del discorso (partes orationis) o classi lessicali, classi di parole (o anche categorie grammaticali), nove nella versione scolastica corrente (nome, verbo, aggettivo, avverbio, pronome, articolo, preposizione, congiunzione, interiezione). Tale classificazione è sia su base morfosintattica sia su base semantica, cioè fa appello congiuntamente, e a volte in maniera confusa e contraddittoria, al comportamento e funzione grammaticale e al tipo di significato delle parole: nomi o sostantivi sono, per esempio, quelle parole che designano esseri, cose, oggetti, entità, proprietà, che assumono certi tipi di marcature morfologiche e che sono suscettibili di occupare nell’articolazione combinatoria delle frasi una certa posizione funzionale (sono teste di sintagmi che svolgono le funzioni sintattiche di soggetto, oggetto, complemento), agendo, in termini logici, da argomenti di un predicato; verbi sono quelle parole che designano azioni, processi,

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stati, eventi, che assumono marcatura per categorie flessive come modo, tempo, aspetto, persona, ecc., che (almeno in molte lingue) sono assoggettati a morfologia di accordo e che funzionano da predicati, facendo da perno alle strutture frasali (Graffi 1994). Pur essendo tuttora fondamentale nella classificazione del lessico, la suddivisione corrente delle parole in parti del discorso non è esente da problemi. Ne citiamo qualcuno. Le interiezioni, almeno le interiezioni primarie (ahi, uffah), per esempio, non sembrano presentare a pieno titolo le caratteristiche di segni linguistici integrati in un sistema, ed è pertanto difficile considerarle parole. Nella classe degli aggettivi andrebbero probabilmente distinte categorie separate che presentano per l’uno o l’altro dei parametri sopra elencati caratteri significativamente diversi. Sono presenti plurivocità, sovrapposizioni e incertezze di classificazione: non solo i possessivi e i dimostrativi, per esempio, possono funzionare, in dipendenza dal contesto sintattico, sia da aggettivi sia da pronomi, ma soprattutto un certo numero di parole vengono classificate sia come preposizioni che come avverbi (per esempio, sopra), o sia come avverbi che come congiunzioni (per esempio, comunque). Il tutto è complicato dalla proprietà nota come conversione, per cui una parola può passare da una categoria lessicale ad un’altra: sapere verbo e il sapere nome, saggio aggettivo e il saggio nome (si veda il capitolo di Thornton in questo volume). I nomi propri (Antonio, Milano, Pietro Rossi) hanno poi una posizione del tutto particolare all’interno della classe dei nomi, in quanto hanno referenza unica, designano cioè un individuo e non una classe, e in maniera tale che non hanno intensione, ma solo estensione (si veda il capitolo di Lepschy in questo volume). Nella grammatica generativa, vengono individuate quattro classi lessicali maggiori, che fungono da teste dei sintagmi o costituenti maggiori di frase: nomi (N), verbi (V), aggettivi (A), preposizioni (P), definite in base ai due tratti binari fondamentali [Nome] ([±N]) e [Verbo] ([±V]). N sarebbe [+N, -V], V [-N, +V], A [+N, +V], P [-N, -V]. I valori che i due tratti assumono nelle teste lessicali maggiori consentirebbero di formulare generalizzazioni che giocano un ruolo importante nei meccanismi della sintassi, come per esempio «solo le categorie [- N] (cioè, verbi e preposizioni) assegnano Caso». Una distinzione estremamente importante all’interno del lessico, infine, è quella fra parole piene, o parole lessicali, o parole di contenuto, e parole vuote, o parole grammaticali, o parole funzionali. Le prime (nomi, aggettivi, verbi, avverbi) costituiscono classi aper-

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te, e rappresentano in fondo propriamente il «vero» lessico, mentre le seconde (pronomi, articoli, preposizioni, congiunzioni) non corrispondono a entità concettuali esterne, costituiscono classi chiuse, e fanno quindi più propriamente parte della grammatica. Sedia è una tipica parola piena, di una tipica parola vuota. Un’altra possibilità di classificazione di tipi diversi di parole è basata sulla struttura interna delle parole, sul modo in cui sono articolate in morfemi, cioè sulla loro costituzione morfologica (si veda il capitolo di Thornton in questo volume). Da questo punto di vista, si distinguono basi lessicali, parole derivate, parole composte ed espressioni stereotipe o locuzioni o fraseologismi o unità polilessematiche (o plurilessematiche; chiamate spesso anche polirematiche: vedere rosso, libro bianco, essere al verde). Le parole derivate possono arrivare a un grado anche elevato di complessità interna, se sono formate da un numero relativamente alto di morfemi, attraverso l’applicazione a passi successivi di diversi moduli di suffissazione e prefissazione: smobilitazione, per esempio, è formata a partire dall’aggettivo mobile, con suffissazione verbale (mobilitare), prefissazione (smobilitare), ulteriore suffissazione nominale deverbale (smobilitazione). Un’ulteriore via per porre ordine e cercare sistematicità nel lessico consiste nel rintracciare parentele fra parole in base, contemporaneamente, alla comunanza di forma, significante, e di significato, dovuta solitamente all’origine da, o al rimando a, una comune base etimologica. Abbiamo così vere e proprie famiglie lessicali, o famiglie semantiche, costituite da tutte le parole derivate dalla medesima radice o base: per esempio, mano, manuale, maniglia, manomettere, manomissione, manovella, manopola, manodopera, manutenzione, smanacciare, maneggiare, maneggevole, ecc., sono tutte parole che fanno parte della famiglia lessicale di mano, aventi il comune capostipite in diacronia nel latino MA˘ NU(M) e in sincronia nella radice lessicale man-. 3. Forma e significato delle parole Per quanto riguarda la forma con cui si presentano nel discorso, in molte lingue1 le parole possono essere variabili o invariabili. Sono 1 Anche se non in tutte: le lingue isolanti non conoscono in genere morfologia flessionale e le parole si presentano dunque sempre in un’unica medesima forma.

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variabili le parole che sono suscettibili di essere marcate per le categorie morfematiche flessive operanti in una certa lingua e che quindi danno luogo a paradigmi di forme. È qui opportuna una distinzione fra ‘parola’ (in questo senso, da alcuni definita più precisamente come lessema) e forma di parola: alto, alta, alti, alte sono forme diverse della parola alto; tutte le voci della coniugazione del verbo mangiare (mangio, mangiamo, mangiando, ecc.) sono forme diverse della parola mangiare (si veda il capitolo di Thornton in questo volume). Nelle classi di parole variabili, a una parola come unità del lessico corrisponde sempre un paradigma di forme, le forme flesse in cui la parola può occorrere. Il significato delle parole piene può essere concepito e rappresentato secondo due prospettive diverse (si veda il capitolo di Lepschy in questo volume). Un primo modo di vedere il significato di un lessema consiste nel rappresentarlo come un fascio di tratti o componenti semantici (o semi) che lo differenziano pertinentemente dal significato di ogni altro lessema e che si realizzano in simultaneità. Uomo sarà per esempio analizzato come /+ UMANO, + MASCHIO, + ADULTO/; uccello potrà essere analizzato come /+ ANIMALE, − MAMMIFERO, + CON LE ALI/; lanciare potrà essere analizzato come /+ AZIONE, X CAUSA (ALLONTANAMENTO Y), + VELOCE, + MEDIANTE FORZA FISICA O STRUMENTI, + CON UN MOVIMENTO PARTICOLARE DEGLI ARTI SUPERIORI/ (dove X e Y stanno per variabili individuali su cui operano i tratti; Berruto 1987); vecchio come /+ AGGETTIVO DI ETÀ, + DI GRADO RELATIVAMENTE ALTO/ (Berruto 1976). A questa visuale del significato denotativo di un lessema come una lista di tratti semantici categorici, tutti contemporaneamente necessari e sufficienti per stabilirne l’intensione, è stata contrapposta una prospettiva che guarda al significato piuttosto come un’immagine concettuale coincidente con una certa rappresentazione costituita da una lista di proprietà graduali, alcune più rilevanti e altre meno nel definire la categoria concettuale, e non tutte ugualmente possedute da tutti i referenti che sono compresi nella categoria. Il significato di uccello potrà quindi essere rappresentato (Smith e Medin 1981) da una lista di tratti, alcuni dei quali decisamente enciclopedici, come /SI MUOVE, ALATO, CON PIUME, VOLA, CANTA, PICCOLE DIMENSIONI…/, che sono ben lungi dall’avere tutti la stessa categoricità e la stessa importanza: solo i primi tre saranno posseduti da tutti gli animali che designiamo come uccelli, mentre le altre proprietà sono, in maniera via via decrescente e scalare, godute solo da un sot-

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toinsieme di membri della categoria. I vari membri della categoria saranno più centrali (vicini al punto focale) o periferici a seconda della quantità di proprietà del prototipo condivise: lo struzzo è un uccello, ma non vola, né è di piccole dimensioni; l’aquila non è di piccole dimensioni, ma vola, e quindi è «più» uccello dello struzzo. Tutte le proprietà si ritrovano invece nel prototipo della categoria, che evidentemente è un uccelletto come il passero2. Seguendo Coleman e Kay (1981), e traducendo in tratti semantici convenzionali, in maniera tale da unire in un certo modo l’analisi prototipica e l’analisi componenziale, si può proporre la seguente descrizione prototipica del significato di (to) lie ‘mentire’ (Berruto 1987): /+ ASSERZIONE, + INTENZIONALE, α, β, γ/, dove fra parentesi uncinate e con un indice in alfabeto greco indichiamo gerarchicamente i tratti che risultano non categoricamente presenti, nel giudizio dei parlanti, non necessariamente in tutte le istanze di atti linguistici definibili come «menzogna»3. La natura del significato delle parole è molto eterogenea, e nel lessico possono quindi trovare realizzazione categorie semantiche assai diverse, secondo varie dimensioni. Alcune di queste dimensioni oppositive hanno particolare importanza, giacché intervengono nel caratterizzare il significato di un numero molto alto di lessemi. È per esempio il caso della dimensione astratto vs. concreto (bontà vs. pietra); oggetto vs. evento (libro vs. temporale); relazionale vs. non relazionale (moglie vs. gatto); enumerabile vs. non enumerabile (libro vs. acqua); animato vs. inanimato (gatto vs. libro); referenziale vs. non referenziale (libro vs. perché); valutativo vs. non valutativo (buono vs. liquido); naturale vs. artefatto (grotta vs. casa); ecc. Tutte queste conoscenze, assieme ad altre di svariatissima natura, entrano a far parte della competenza lessicale. 2 Sulla concezione prototipica del significato dei lessemi, che riprende idee della psicologa Rosch e che viene a integrarsi con i risultati di studi in prospettiva più sociolinguistica, come quello di Labov (1975) sulla precarietà dei confini tra i significati di termini come tazza, tazzone, ciotola, scodella, si vedano fra gli altri Kleiber (1990) e Tsohatzidis (1990). 3 Da cui si vede che lo stesso /+ PER INGANNARE/, che tutti credo saremmo pronti a ritenere un tratto essenziale, può essere in certi casi «rilasciato»: un’asserzione intenzionale non vera è una menzogna – sia pure non prototipica – anche se non è fatta per ingannare, e così un’asserzione intenzionale fatta per ingannare, anche se è vera.

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4. Relazioni semantiche nel lessico La rete più fitta, e più interessante per la teoria linguistica, di rapporti fra gli elementi costitutivi del lessico, e in particolare del lessico vero e proprio, dato dalle classi di parole piene, è tuttavia quella basata sulla semantica, sulle relazioni di significato che si pongono fra le parole. In questa prospettiva, le parole sono viste esclusivamente dal piano del significato; un termine che viene spesso usato appunto per indicare le parole considerate dal punto di vista del significato è quello di lessema4: in questo paragrafo parleremo quindi più propriamente di lessemi. Particolarmente importante in questa prospettiva è la relazione di iponimia. Si ha un rapporto di iponimia fra due lessemi X e Y quando la classe rappresentata da X è inclusa o contenuta in quella rappresentata da Y, nel senso che per tutti gli elementi n di cui si può dire «n è (un) X» si può anche dire «n è (un) Y», ma non è vero il viceversa, non tutti gli Y sono anche X. Si dice allora che X è iponimo di Y, o, specularmente, che Y è iperonimo (o sovraordinato) di X. Per esempio, cipresso e automobile sono iponimi rispettivamente di albero e di veicolo. In termini di intensione/estensione, X ha allora intensione maggiore (più proprietà semantiche caratterizzanti) e quindi estensione minore (meno referenti per la cui designazione essere assegnato) di Y. Si ha iponimia diretta quando non ci sono lessemi per così dire intermedi fra un termine e l’altro: gatto è iponimo diretto – almeno nella lingua comune – di felino, ed è anche iponimo, ma non diretto, di mammifero e di animale. La catena iponimica potrebbe ancora essere estesa sia verso sinistra (termine con estensione ancora minore) sia verso destra (termine con estensione ancora maggiore). Nelle tassonomie popolari, come sono appunto le categorizzazioni non scientifiche delle specie naturali o degli oggetti artefatti, si riconoscono tre fondamentali livelli di categorizzazione, un livello sovraordinato (per esempio, appunto, animale, frutto, calzatura), un livello di base (rispettivamente cane/gatto, ecc.; mela/pera, ecc.; scarpa/stivale, ecc.) e un livello subordinato (rispettivamente mastino/bassotto ecc. per cane; delizia/renetta ecc. per mela; mocassino/ballerina ecc. per scarpa): il livello di base (cane) è quello più funzionale e meglio infor4 Si badi che in altre terminologie «lessema» indica invece la parola come entità fono-morfologica astratta, sinonimo di «parola» come opposto a «forma di parola»: cfr. § 3 (si veda il capitolo di Thornton in questo volume).

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mativo, con il miglior rapporto fra quantità di informazione ed elenco di proprietà contenute, che unisce precisione di riconoscimento con sforzo categorizzante relativamente ridotto. Sulla base della relazione di iponimia si possono individuare sottoinsiemi organizzati del lessico, i campi semantici o campi lessicali. Un campo semantico è dato da tutti i lessemi che sono iponimi diretti di uno stesso sovraordinato. Un esempio classico di campo semantico è costituito dai nomi dei colori, bianco, nero, rosso, ecc.: ciascun lessema del campo è tale in quanto è iponimo diretto dell’iperonimo colore, e occupa una spazio ben determinato nell’area globale di significato codificata come «colore». Non va confusa con l’iponimia un’altra relazione semantica, meno rilevante linguisticamente ma importante enciclopedicamente, la meronimia. Si ha meronimia quando un lessema X designa una parte, un membro, di un tutto designato dal lessema Y: braccio è meronimo di corpo (umano), tetto è meronimo di edificio (e corpo ed edificio sono olonimi rispetto a braccio e tetto). Un rapporto meronimico speciale, in cui la definizione semantica dei lessemi interessati è particolarmente precisa e rigida, e che coinvolge un’intera serie di termini, è quello di gerarchia lessicale, o gerarchia semantica. Una gerarchia semantica si ha quando un lessema X designa una parte del referente designato da un lessema Y, nel senso che ne è una suddivisione di misura, un’unità più piccola di un sistema di misura di una certa dimensione: secondo, minuto, ora, giorno, settimana, mese, anno, ecc. costituiscono, per esempio, una gerarchia semantica, quella delle unità di tempo cronologico. Un’altra relazione semantica fra lessemi di fondamentale importanza è la (quasi) sinonimia. Due lessemi sono sinonimi quando hanno lo stesso significato denotativo, e sono quindi intercambiabili (teoricamente) in qualunque contesto senza che il significato denotativo globale dell’espressione muti: porta/uscio, capo/testa, urlare/gridare, spedire/mandare/inviare. La relazione di sinonimia si può considerare in un certo senso derivata da quella di iponimia: si tratta in effetti di un rapporto di iponimia bilaterale, in cui è vero che tutti gli X sono Y, ma è vero contemporaneamente anche l’opposto, cioè che tutti gli Y sono X. La specificazione di «quasi sinonimia» si presenta necessaria in ragione del fatto che l’intercambiabilità assoluta e totale in qualunque contesto in genere non si dà; vi è sempre qualche contesto in cui, per qualche ragione, non necessariamente solo sociolinguistica o pragmatica, l’intercambiabilità in effetti non

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si dà: pietra e sasso costituiscono un buon esempio di sinonimia, ma vi sono contesti in cui si impiega solo l’uno o solo l’altro dei due lessemi (*una statua di sasso, *rimanere di pietra). Se teniamo conto dell’articolazione di una lingua in varietà, la (quasi) sinonimia diventa ancora più frequente. Si dànno infatti, spesso, lessemi che hanno lo stesso significato denotativo ma appartengono a varietà di lingua diverse: a diverse varietà diafasiche, sia sull’asse dei registri (gatto, lingua comune / micio, registro informale, affettivo) che sull’asse dei sottocodici e lingue speciali (raffreddore, lingua comune / rinite, lingua della medicina); o a diverse varietà diatopiche (padre / babbo toscano ed emiliano, appartamento / alloggio piemontese / quarto meridionale, ecc.). Si tratta qui in effetti di geosinonimi, cioè di sinonimi appartenenti a diverse varietà geografiche di lingua; la geosinonimia rappresenta un caso piuttosto frequente in italiano. Mentre la sinonimia concerne un rapporto plurivoco fra significanti e significato, il rapporto di senso opposto, vale a dire plurivoco fra significati e significante, costituisce l’omonimia o polisemia. Se i differenti significati corrispondono a differenti etimi o a una differente categoria lessicale, si ha omonimia, con parole o entrate lessicali diverse casualmente uguali nella forma; se invece i differenti significati rappresentano la separazione di sensi diversi attribuibili alla medesima parola, si ha polisemia; porta ‘uscio’ e porta ‘3a pers. sing. del presente di portare’ sono un caso di omonimia, capo ‘testa’ e capo ‘comandante’ (e, se vogliamo, capo ‘promontorio’, capo ‘punto terminale’) sono un caso di polisemia. Un caso molto particolare di polisemia è dato dall’enantiosemia, che si ha quando due diversi significati della stessa parola, attraverso diverse trafile di spostamento semantico, vengono a risultare opposti: per esempio, tirare ‘lanciare’ (come tirare il pallone in porta) e tirare ‘trarre, trascinare’ (come in tirare la carretta). Altre relazioni semantiche che meritano di essere considerate nel quadro dell’organizzazione interna del lessico sono le relazioni di opposizione semantica. Si distinguono qui tre principali rapporti. L’antonimia si ha fra lessemi che designano gli estremi opposti di una dimensione o un’asse di valutazione graduale, senza che vi sia opposizione esclusiva tra i due estremi, ma con la possibilità di gradini intermedi, per cui vale quindi che X implica non-Y, ma non è vero il contrario, non-Y non implica X, e si può dare non-X e non-Y: alto/basso, bello/brutto, vincere/perdere sono antonimi. Se due lessemi sono invece in rapporto di mutua esclusione, X implica non-Y e Y implica

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non-X, si ha complementarità: uomo/donna, parlare/tacere sono complementari. Nel caso di termini relazionali, quando cioè il significato dei lessemi implica il riferimento a termini o individui posti fra loro in una certa relazione, si può avere un altro rapporto oppositivo, l’inversione; due lessemi X e Y sono inversi se designano la stessa relazione, lo stesso stato di cose o evento implicante le stesse entità, ma considerato da punti di vista opposti: per esempio, marito/moglie, comprare/vendere. In determinati casi, i rapporti di opposizione semantica possono sovrapporsi: per un certo verso possiamo, per esempio, considerare sotto/sopra come antonimi, per un altro invece li dobbiamo considerare inversi («non essere sopra» non implica «essere sotto», si può essere né sotto né sopra una certa cosa, un certo punto di riferimento, e d’altra parte si può sempre essere più o meno sopra o sotto una certa cosa, l’opposizione è graduale, quindi c’è antonimia; ma d’altra parte se A è sopra B, B è sotto A, quindi c’è inversione). Infine, una relazione semantica che merita di essere tenuta presente nell’ordinamento del lessico, e che contrariamente alle relazioni che abbiamo sopra elencato, che si collocano sull’asse paradigmatico, in absentia, si situa sull’asse sintagmatico, è la solidarietà lessicale, o solidarietà semantica. È il rapporto che vige fra denti e mordere, in cui uno dei lessemi è per così dire contenuto nell’altro, che lo implica: si morde solo con i denti (non teniamo conto qui, ovviamente, dei traslati e degli spostamenti metaforici, o di altra natura, del significato dei lessemi); i lessemi legati da solidarietà semantica tendono quindi, spesso, a comparire usati in contiguità sintagmatica. 5. Lessico e grammatica Il lessico non è semplicemente la lista delle parole di una lingua, ma è l’inventario delle parole con le loro proprietà semantiche e sintattiche. Le parole del lessico si presentano come dotate intrinsecamente di proprietà sintattiche, tratti che ne determinano la combinabilità e che si inseriscono negli schemi previsti dalla sintassi. Già l’appartenenza delle parole all’una o all’altra delle categorie lessicali rappresenta un tratto distintivo di sottocategorizzazione assai importante; a questo si aggiungono tratti che specificano l’intorno sintattico in cui la parola può comparire e che partecipano più o meno direttamente alla creazione delle strutture sintattiche stesse. Inoltre, alcuni dei tratti o componenti semantici propriamente detti (o semi) che costituiscono inerentemente il significato dei lessemi (cfr. § 3 e il capitolo di Lepschy in que-

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sto volume), come per esempio [± Animato], [± Umano], [± Enumerabile] per i nomi (Chierchia 1997), [+ Azione], [+ Processo] per i verbi, ecc., possono avere conseguenze importanti sulla sintassi. Nella teoria generativa, e in correnti che ad essa si ispirano, a una parola è anche associata una struttura tematica, una configurazione argomentale o costellazione di ruoli semantici, o, secondo altre impostazioni teoriche, uno schema valenziale, riempito dai sintagmi nominali previsti dallo schema sintattico che il significato della parola implica: vedere comporta una configurazione argomentale (Sperimentatore o: Esperiente, ingl. Experiencer), (Paziente), dove naturalmente il primo argomento, lo Sperimentatore (chi vede), coincide col sintagma nominale soggetto, e il secondo argomento, il Paziente (la cosa vista), cancellabile, coincide col sintagma nominale oggetto. I nomi deverbali avrebbero anch’essi una configurazione argomentale, ereditata dal verbo da cui derivano: nel caso di vedere, sono due i nomi deverbali diretti, visione, che eredita lo schema a due argomenti (è il vedere qualcosa), e vista, che eredita lo schema a un solo argomento (è il vedere, come facoltà). In certi sviluppi della linguistica formale è addirittura il lessico a generare le strutture sintattiche, che non rappresenterebbero altro che proiezioni delle unità lessicali coi loro schemi sintattici profondi e con le loro specificazioni morfologiche flessive. Così, nella lexical-functional grammar (Bresnan 1982), la voce offre sarebbe, per esempio, specificata nel lessico come: (1) offre

PRED = ‘OFFRIRE ’ AFF [TEMPO = PRES & (↑SOGG PERS) = 3 & (↑SOGG NUM ) = SG]

La prima riga contiene lo schema di argomenti implicato da un predicato a tre posti come offrire. Nel caso dell’occorrenza offre, si dà (a) l’entrata lessicale offrire, con il contenuto semantico che la caratterizza, associata a tre posizioni argomentali, la prima riempita dalla funzione sintattica soggetto, la seconda riempita dalla funzione sintattica oggetto, la terza riempita dalla funzione sintattica oggetto indiretto (le freccette, detto molto sommariamente, indicano la direzione, superiore – o inferiore – in un albero strutturale, in cui si inserisce l’elemento che realizza la funzione: quindi, è rappresentata nella formula anche la relazione con la struttura in costituenti); e (b) la flessione marcata con gli affissi di tempo verbale (presente), di accordo col soggetto di 3a persona e di numero singolare.

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Grammatiche cognitive più recenti (Levelt 1989; Jackendoff 1990, e, in un quadro più strettamente generativista, Pustejovsky 1995) accentuano ulteriormente questa primarietà del lessico come lo strato più profondo della grammatica, concependo il processo di formulazione di una frase come muovente dall’attivazione, da parte del parlante, di una struttura lessicale-concettuale profonda, in cui le intenzioni comunicative si organizzerebbero in un fascio di tratti semantici e pragmatici, in modo da proiettare una struttura tematica particolare (comprendente sia i ruoli semantici che le funzioni della struttura informativa e discorsiva, come topic e focus; si veda il capitolo di Rizzi in questo volume); in un secondo passo, quindi, verrebbe generata una determinata struttura predicato-argomenti, che proietta la struttura tematica in quella sintagmatica gerarchica di un CP (proiezione di complementatore, nella grammatica generativa recente: corrisponde all’incirca, mutatis mutandis, al nodo iniziale F, frase, nell’indicatore sintagmatico di una rappresentazione sintattica «ingenua»); infine, in un terzo passo, a questa verrebbero assegnati patterns di realizzazione morfologica, che regolano l’ordine degli elementi e la marcatura flessiva e inseriscono eventuali parole funzionali richieste dalle condizioni di buona formazione di una data lingua. 6. Formazione delle parole e arricchimento del lessico Le parole nuove che vengono create e possono entrare a far parte del lessico di una lingua sono chiamate neologismi. La formazione dei neologismi e il loro ingresso nella lingua possono seguire diverse strade. Una prima dicotomia si ha fra i neologismi che vengono prodotti con materiale indigeno ed endogeno, interno alla lingua stessa, e quelli che vengono invece presi da un’altra lingua, una lingua straniera, i forestierismi (in italiano, non raramente, anche dai dialetti: dialettismi). I neologismi interni possono essere creati attraverso diversi meccanismi. Quando abbiamo bisogno di coniare una nuova parola per designare un nuovo concetto o un nuovo referente, concreto o astratto, o dare un nome nuovo a un concetto o referente già esistente, se non la prendiamo da un’altra lingua ci si presentano fondamentalmente tre vie: o assegniamo semplicemente un nuovo significato a un significante già esistente nella lingua, o creiamo un significante completamente nuovo, o facciamo ricorso ai processi di formazione di parola. Nel primo caso, si tratta di un neologismo semantico. Un esempio è curva nel senso di ‘settore di uno stadio in cui trovano posto i tifosi di una de-

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terminata squadra’, e per estensione i ‘tifosi’ stessi. Si noti che spesso i neologismi sono effimeri (sono cioè degli occasionalismi), e nel giro di qualche anno cadono fra le parole in disuso. Ciascuno dei moduli di creazione dei neologismi con materiale proprio, interno al sistema linguistico, che abbiamo delineato presenta vantaggi e svantaggi dal punto di vista funzionale: il neologismo semantico è economico per quel che riguarda il significante, non richiede l’immagazzinamento in memoria di una nuova stringa di fonemi come parola autonoma, ma essendo sempre caratterizzato da un alto grado di arbitrarietà e dando luogo a polisemia pone rischi di ambiguità nella decodificazione. La creazione di una parola totalmente nuova come base lessicale a sé sarebbe ottimale dal punto di vista dell’economia sintagmatica e della biunivocità paradigmatica, ma introduce la necessità di memorizzare un elemento del tutto nuovo. La derivazione è più economica dal punto di vista del carico della memoria, riutilizzando una base lessicale già nota e procedimenti contenuti nella grammatica, come i moduli di prefissazione e suffissazione, ed è più trasparente, ma crea un significante lungo, a volte con ambiguità quando, per esempio, si abbiano suffissi omonimi. La composizione è ancora più trasparente, non richiede alcuna nuova entrata nella memoria lessicale, ma produce significanti lunghi e aumenta il carico sintagmatico, è poco «agile». La creazione di una parola nuova, tuttavia, può essere risolta ancora in un altro modo, cioè importando una parola da una lingua straniera. Immaginiamo di dover dare il nome ad una nuova macchinetta per spargere rapidamente il formaggio, che fosse, abbastanza sorprendentemente, stata inventata negli Usa, dove poniamo fosse stata chiamata *cheese-strewer, e venisse di lì. La soluzione in un certo senso più «facile» è quella di introdurre in italiano una nuova parola straniera. Si tratta in questo caso di un prestito, più o meno adattato nella misura in cui viene assoggettato a convenzioni di pronuncia più indigene: [t∫ ize’struer], per esempio, invece che [t∫ i:z’stru:∂]. Il prestito inglese avrebbe il rinforzo derivante dal prestigio che gli anglismi recano sempre con sé come connotazione. Il passaggio di elementi lessicali da una lingua ad un’altra può avvenire anche per quel che riguarda il solo piano del significato, quando si ha la riutilizzazione di una parola già esistente nella lingua in oggetto con un nuovo significato preso da un termine di una lingua straniera, parallelo nella forma: è per esempio il caso dell’acclimatarsi di realizzare nel senso di ‘capire, rendersi conto’, significato assunto sul modello dell’inglese (to)

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realize, che ha appunto questo significato. Si tratta dunque di una forma di neologismo semantico: la varia tipologia dei forestierismi semantici è spesso trattata sotto la categoria di calco. Come fonte più produttiva per i neologismi, tuttavia, va considerato il ricorso alla derivazione (in cui la parte del leone è fatta dalla suffissazione: Iacobini e Thornton 1992). 7. Dizionario mentale e competenza lessicale Dal punto di vista dell’individuo parlante, come sono organizzate le informazioni inerenti al lessico, e quale genere di competenza è implicato per l’impiego appropriato delle parole nel discorso? A questioni del genere si può dare una risposta molto più argomentata dall’ottica della psicolinguistica che non da quella della linguistica, ma nondimeno alcuni aspetti della questione sono affrontabili anche da una prospettiva strettamente linguistica. Una concezione plausibile, confortata da numerosi dati empirici e sperimentali (Laudanna e Burani 1993), vede il dizionario mentale, in termini cognitivi, come un insieme di rappresentazioni (oggetti mentali che codificano i tratti rilevanti degli elementi della realtà a cui corrispondono) e di processi (operazioni e correlazioni fra le rappresentazioni), connessi in reti. Ogni parola avrebbe una rappresentazione mentale, presumibilmente in termini di proprietà intrinseche ad essa associate (cfr. § 5) e di frames, intorni schematici contenenti i contesti tipici di impiego della parola coi concetti e le parole a loro volta ad essi pertinenti (Blank 1997; per una prospettiva un po’ diversa, Petrilli 1999), che rappresentano situazioni e impongono una struttura agli aspetti della nostra esperienza, mediando fra lingua e conoscenza del mondo (dizionario e enciclopedia non sono qui più separati/separabili). Nella mente umana esisterebbe un inventario di frames per interpretare e classificare tutte le esperienze; ogni parola sarebbe associata nella memoria a uno o più frames particolari: l’occorrenza della parola in un determinato contesto attiva un frame appropriato, che a sua volta dà accesso ad altro materiale linguistico associato allo stesso frame. Rimane largamente aperto il problema di quale sia l’ordinamento delle parole nel dizionario mentale (si veda il capitolo di Peressotti e Job in questo volume), se cioè il dizionario mentale sia organizzato in base a principi semantici, o formali, o associativi, o di altro genere. Dati empirici e sperimentali a volte contrastanti (provenienti dai lapsus, dalle afasie, dai disturbi del linguaggio di vario ge-

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nere, dall’acquisizione, dagli errori di comprensione e produzione, dai test di associazione, ecc.) inducono a ritenere che sia probabile un’organizzazione di natura molteplice, modulare e interrelata, nella quale il lessico, o meglio le sue parti sono accessibili a seconda degli stimoli da più punti di vista; ogni stimolo dà accesso a una rete di collegamenti sollecitati dal frame di riferimento in quella situazione (Aitchison 1987). Con la concezione generale del dizionario mentale che abbiamo schizzato sopra è compatibile la teoria della competenza lessicale oggi forse più accreditata, che vede (Marconi 1999) la padronanza dei significati delle parole composta di due aspetti distinti, da un lato la competenza referenziale, cioè la capacità di riconoscere istanze reali del significato della parola, di associare parole a referenti (di sapere, riconoscendolo quindi come istanza della classe omonima, se e quando incontriamo un gatto); e dall’altro la competenza inferenziale, cioè la capacità di vedere e porre relazioni fra (i significati di) parole, e di utilizzarle per compiere inferenze semantiche (di riconoscere quindi parafrasi, sinonimie, rapporti fra parole e definizioni; e di sapere che se in un luogo è vietato introdurre animali, non possiamo portarci un gatto). Nel caso delle parole vuote e delle parole con un significato astratto, non corrispondenti a entità del mondo reale o di un mondo possibile (come per esempio ciononostante, improbabile), la competenza lessicale si baserebbe naturalmente sul solo aspetto inferenziale, che assorbirebbe tutto ciò che conosciamo e sappiamo fare con una data parola. La competenza lessicale è parte della più generale competenza semantica, e come tale non è accessibile direttamente all’osservazione scientifica, ma deve essere studiata attraverso i dati empirici (usi delle parole nel più alto numero possibile di contesti) e i giudizi intuitivi dei parlanti. Studi che cercano di ricostruire la competenza lessicale dell’italiano in chiave cognitiva e tenendo conto degli aspetti sia semiologici che semantici, sintattici e pragmatici connessi con un’entrata lessicale si sono infittiti negli ultimi tempi: si vedano, per esempio, in direzioni diverse, Basile (2001) e Moneglia (1997, 2001). 8. Strati del lessico: lessico comune e vocabolari tecnico-specialistici Nel lessico si distinguono e si sovrappongono più strati di parole, da quelli più frequenti, elementari e basilari, alla portata di tutti i parlanti, a quelli via via più settoriali, specialistici, rari. Su queste temati-

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che in relazione all’italiano hanno lavorato in particolare Tullio De Mauro e la sua scuola (De Mauro 1980; De Mauro e Vedovelli 1999). Nel lessico occorre, dunque, distinguere anzitutto un nucleo centrale, essenziale, detto di solito vocabolario di base. Per l’italiano, esso è costituito da circa 6800 parole ed è formato a sua volta da tre sottoinsiemi. Il primo di questi è il vocabolario fondamentale, di circa 2000 parole, costituito da parole vuote (di, a, il, questo, che) e da lessemi pieni con significati molto ampi e generici (cosa, casa, fare, andare, dire, bello, alto). Si tratta di parole ad altissima frequenza nell’uso, il cui insieme da solo, contando le loro repliche, copre fra il 90% e il 94% circa delle unità lessicali contenute nei testi parlati e scritti. Il secondo sottoinsieme del vocabolario di base è dato dal vocabolario di alta frequenza o alto uso, costituito da circa 3000 parole che compaiono con una frequenza relativamente alta, e coprono nell’insieme con le loro repliche un altro 5% circa dei testi: si tratta di termini come affitto, canzone, cartolina, fiutare, veloce. Infine, il vocabolario di base conta circa 1800 parole che vanno considerate vocabolario di alta disponibilità (o di alta familiarità), in quanto pur trattandosi di termini che compaiono solo in maniera relativamente rara nell’uso effettivo si riferiscono ad azioni, oggetti ed eventi della vita quotidiana, e quindi hanno notevole importanza pratica, come acceleratore, ambulanza, bollo, cipolla, forchetta, pigro, sciatore, zuppa. Attorno a questo nucleo centrale del lessico, vi è uno strato, stimabile attorno alle 13.000 unità, di «parole correnti», di carattere più tecnico delle precedenti, ma «specialmente utili per muoversi nella vita sociale e per entrare in campi tecnici e speciali elementari» (De Mauro 1999b, p. 28), come abbreviazione, addizionare, diabolico, scialbo, zolfo. Viene poi il grosso di quelle che vengono considerate «parole comuni», tutti quei termini cioè che possono essere compresi e all’occorrenza usati senza far riferimento a specifici ambiti tecnici, come per esempio alieno, bisturi, diagnosi, frodare, livrea, teologia: per l’italiano si tratterebbe di circa 40.000-60.000 vocaboli. Saremmo arrivati a questo punto a un inventario fra le 60.000 e le 80.000 parole. Lo strato più esterno del lessico consiste nella grande pletora delle parole tecnico-specialistiche o esclusivamente letterarie, usate solo in ambiti molto settoriali e speciali, che ammonterebbero ad alcune centinaia di migliaia. Anche nel lessico specialistico è utile distinguere più strati, che vanno dallo strato dei termini tecnici di grande rilevanza e ampio uso in una disciplina (come, per esempio, fonema in linguistica, oncologico in medicina, equazio-

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ne in matematica, ecc.), che possono essere almeno passivamente noti anche a non addetti ai lavori, a quello dei termini molto rari e specifici, noti esclusivamente agli addetti ai lavori. De Mauro (ivi, p. 29) mette in correlazione gli strati del vocabolario con il grado d’istruzione dei parlanti, stimando che le 2000 parole del vocabolario fondamentale siano integralmente note a chi ha un livello d’istruzione elementare; le 7000 parole circa del vocabolario di base sarebbero possedute da tutti coloro che hanno un livello d’istruzione medioinferiore (il 52% della popolazione italiana); il vocabolario corrente dovrebbe essere posseduto da chi ha frequentato la scuola media superiore (un altro 25% della popolazione), mentre il vocabolario comune o buona parte di esso dovrebbe essere patrimonio dei laureati (o almeno di «chi ha conseguito una buona laurea in una buona facoltà universitaria»; ibid.). 9. Strati del lessico: sedimentazione storica e contatti linguistici Dal punto di vista della sua provenienza e della sua storia, il lessico di una lingua è costituito da tre tipi di materiali: lessico indigeno originario, a volte chiamato «patrimoniale» (Migliorini), posseduto dalle determinate lingue sin dal loro cominciare ad esistere come lingue autonome; lessico, sempre indigeno, formato successivamente in base ai moduli di formazione di parola propri della data lingua (neoformazioni endogene); e lessico straniero, esogeno, proveniente dal contatto linguistico con altre lingue e altre culture. Per quanto riguarda il tronco ereditario dell’italiano, De Mauro (1999a) calcola che sul complesso dei lemmi del Gradit 1999 (cfr. § 1) circa il 14% sia di origine latina; la percentuale sale però al 52% circa se si considera il solo vocabolario di base (cfr. § 8). Sempre rimanendo al vocabolario di base, che pare un metro di riferimento più valido per i ragionamenti che stiamo facendo, il 34% circa del lessico (De Mauro 2000b, p. 173) sarebbe costituito da neoformazioni indigene, mentre un 12% circa proverrebbe da altre lingue e l’1,6% sarebbe di etimologia dubbia o ignota. Il lessico di origine latina, tuttavia, va a sua volta distinto in strati diversi: vi è infatti il lessico ereditato di tradizione diretta, cioè passato dal latino volgare all’italiano senza interruzione, di trasmissione quindi «popolare»: per esempio fuoco dal lat. FO˘ CU(M); e vi è quello di trafila dotta, non di trasmissione diretta ininterrotta, entrato in italiano in epoca medievale o moderna (per esempio, elettrico dal lat.

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ELE˘ CTRUM, ‘ambra gialla’, a sua volta dal greco eˆ´ lektron, attraverso la mediazione del francese électrique). Coniazioni di termini su una base greco-latina sono state del resto, e sono ancora oggigiorno, frequentissime nel lessico colto e nelle terminologie scientifiche: psicologia, bibliofilia, ecografia. A volte da una stessa base etimologica latina provengono due parole diverse in italiano, l’una per tradizione diretta, l’altra per ripresa dotta. Un altro serbatoio importante di materiali per il lessico di una lingua è costituito dai contatti fra culture e fra lingue. Quando due lingue sono in contatto e due comunità linguistiche hanno rapporti, e se il contatto e i rapporti durano almeno un certo tempo, avviene molto facilmente il passaggio di elementi dall’una all’altra. E le parole sono i primi e più vistosi materiali a passare da una lingua a un’altra, sotto forma di prestiti, più evidenti, o di calchi (cfr. § 6). Quando le culture delle due lingue hanno peso e prestigio analogo, sono normali scambi nei due sensi, con particolare rilevanza per le sfere di significato relative ai settori in cui una o l’altra delle culture è più sviluppata; se invece una cultura ha maggior peso e più alto prestigio, i passaggi tendono ad avvenire dalla lingua di maggior prestigio e diffusione alla lingua meno diffusa. È questa la situazione attuale del lessico italiano rispetto all’anglo-americano. Nel 12% circa di parole italiane provenienti da altre lingue, bisogna anzitutto tener conto di molti termini entrati nella nostra lingua durante i secoli passati, dei quali spesso in sincronia, e al non linguista, non è (più) per nulla evidente né nota l’origine straniera: è il caso per esempio di elettrico, elettricità visto appena sopra, o di marciare (entrato in italiano dal francese, marcher, a inizio ’500)5. Fra le altre lingue che hanno contribuito al lessico italiano vanno anche citate, almeno il tedesco, lo spagnolo, il portoghese, il provenzale, il russo, il turco, il giapponese (Zolli 1991). Nel nostro secolo l’influsso di gran lunga predominante è, ovviamente, quello dell’inglese. Un’altra fenomenologia importante della vita del lessico durante i secoli è data dai mutamenti semantici, su cui non abbiamo tempo di fermarci in questa sede. Il mutamento semantico può interessare, a largo raggio, sia la vita di una parola lungo i secoli (testa viene per esempio dal lat. TE˘ STA(M), ‘vaso di terracotta’, con spostamento pro-

5 Calcoli statistici accurati dell’apporto delle diverse lingue romanze al lessico italiano suddiviso per secoli sono forniti da Lorenzetti (1998).

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gressivo di significato attraverso i valori connotativi metaforici della testa paragonata a un vaso; si pensi oggi all’analogo valore metaforico scherzoso di zucca) sia configurarsi in sincronia come neologia semantica (si veda l’esempio di curva nel § 6). Molto importanti per la fenomenologia del mutamento semantico sono i processi della metafora (basata sulla somiglianza di proprietà: il bosco si addormenta, Gianni è un coniglio) e della metonimia (basata su rapporti di contiguità: bere una bottiglia, contenuto per contenente). Gli usi metaforici, in particolare, applicabili in linea di principio a qualunque entità lessicale, e che consentono quindi di usare una parola in un significato traslato diverso rispetto a quello previsto dal sistema lessicale e comunemente inteso, costituiscono un ingrediente molto importante dell’illimitata creatività lessicale.

8.

Lessico: i processi di Francesca Peressotti e Remo Job

1. Introduzione Il lessico mentale può essere definito come l’insieme delle conoscenze di un parlante sulle parole della propria lingua. Le parole sono coinvolte in tutti i processi di produzione e comprensione; il loro riconoscimento ha le caratteristiche dei processi automatici: è rapido, non richiede sforzo apparente ed è impenetrabile alla consapevolezza. Nonostante il parlante sia consapevole solo del prodotto finale, cioè il significato e/o il suono di un determinato vocabolo, l’accesso alle conoscenze lessicali è caratterizzato dall’attivazione di tipi diversi di informazione, probabilmente resi disponibili a livelli di rappresentazione diversi. I modelli del riconoscimento di parole e della lettura formulano ipotesi diverse sul modo in cui tali rappresentazioni sono attivate. L’assunto principale, comune ai diversi approcci teorici, è che i processi di elaborazione delle parole consistano principalmente nell’attivazione di conoscenze contenute in memoria: tutto ciò che il lettore sa di una data parola a partire da una data rappresentazione visiva (la serie di lettere, o segni, che la compongono). In tal senso, dunque, la letteratura sui processi di lettura costituisce un ponte tra i processi di elaborazione visiva delle informazioni sensoriali e i processi legati agli aspetti semantici ed interpretativi della conoscenza. Anche se il lessico è coinvolto in altri processi (produzione spontanea di parole, comprensione di parole nella modalità uditiva, scrittura, ecc.), in questo capitolo ci occuperemo di riconoscimento di parole scritte e soprattutto di lettura. Esamineremo le diverse proposte teoriche ed espliciteremo sia gli assunti teorici di partenza di ciascun approccio, sia l’architettura funzionale dei diversi modelli.

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2. Modelli «a ricerca» e modelli «ad attivazione» Riconoscere una parola presuppone il fatto che tale parola sia rappresentata nella memoria del lettore. Possiamo definire questa porzione della memoria a lungo termine il lessico mentale, costituito dall’insieme delle rappresentazioni delle parole conosciute. A parte il problema dell’acquisizione di ciò che è contenuto in tale magazzino, che non verrà qui considerato, le ricerche in questo settore hanno principalmente affrontato due tipi di problemi: la natura del lessico mentale da un lato (cioè quali tipi di informazione siano in esso contenuti e in quale formato), e i meccanismi di accesso dall’altro. A proposito dei meccanismi di accesso, esistono due concezioni generali. La prima paragona il lessico mentale a un dizionario composto da molte entrate, ognuna delle quali corrisponde ad una parola, organizzate secondo alcune dimensioni psicologicamente salienti (Forster 1976). Secondo tale teoria, le entrate lessicali sono viste come strutture passive. Per attivare una di esse è necessario mettere in atto appropriate strategie di ricerca e un conseguente processo di selezione. Secondo la prospettiva alternativa, il lessico mentale è concepito come un insieme di unità di rappresentazione (unità-parole) che possono attivarsi in risposta alla stimolazione sensoriale (Morton 1970, 1979; si veda anche il capitolo di Laudanna in questo volume). Tali unità sarebbero delle strutture attive e dinamiche, mentre il meccanismo di accesso al lessico è concepito come un processo passivo: sulla base delle informazioni sensoriali, una delle unità si attiverebbe prima delle altre fino a raggiungere il livello della soglia di riconoscimento della parola corrispondente. Un terzo modello sul riconoscimento delle parole, che ha influenzato la modellistica in quest’ambito, è il modello ad Attivazione Interattiva (IAM, Interactive Activation Model; McClelland e Rumelhart 1981; Rumelhart e McClelland 1982), per la descrizione del quale si rimanda al capitolo di Laudanna in questo volume. Alcune caratteristiche di questo modello verranno riprese nella descrizione dei modelli computazionali più recenti. 3. Modelli di lettura a due vie e modelli di lettura a una via Un settore che ha prodotto una notevole quantità di dati empirici e modelli interpretativi sul riconoscimento delle parole è quello della lettura. La letteratura in quest’ambito è caratterizzata dal dibattito sui processi implicati nel recupero della fonologia di una data sequenza di lettere

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scritte. In origine, tale dibattito si è soprattutto concentrato sulla distinzione tra i modelli che proponevano l’esistenza di due vie (Coltheart 1987; Coltheart, Curtis, Atkins e Haller 1993; Coltheart, Rastle, Perry, Langdon e Ziegler 2001) e quelli che sostenevano l’esistenza di un’unica via (Glushko 1979). Attualmente, come si vedrà in seguito, i modelli computazionali prevedono tutti l’esistenza di più percorsi che consentono di recuperare la forma fonologica a partire dalla rappresentazione ortografica, e la discussione riguarda, piuttosto, quali siano i livelli di rappresentazione implicati e la natura dei processi di elaborazione. 3.1. Il modello a due vie di Coltheart L’architettura funzionale di questo modello prevede l’esistenza di due procedure in grado di produrre una forma fonologica (cfr. figura 1). stimolo

Identificazione delle lettere

Lessico di input ortografico Regole di conversione G/F

Sistema semantico

Lessico di output fonologico

Buffer fonemico

suono Fig. 1. Architettura funzionale del modello di lettura a due vie. La procedura lessicale è rappresentata a sinistra e la via sub-lessicale a destra. Ambedue confluiscono nel buffer fonemico, struttura dedicata alla computazione della pronuncia definitiva attribuita dal sistema allo stimolo. La parte in grassetto è quella implementata da Coltheart et al. 1993 e Coltheart et al. 2001.

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La prima procedura, detta via lessicale, deriva la forma fonologica di una data parola dall’accesso al lessico ortografico. All’interno di tale procedura sono individuabili due percorsi. Il primo, chiamato via lessicale diretta, collega il lessico ortografico con il lessico fonologico. Quando un’unità ortografica si attiva sulla base delle informazioni provenienti dal sistema visivo, l’attivazione si trasmette alla corrispondente unità fonologica. Il secondo percorso, chiamato via lessicale-semantica, attiva il lessico fonologico attraverso le connessioni con il sistema semantico; l’attivazione, perciò, si trasmette dalle unità ortografiche alle unità semantiche e da queste a quelle fonologiche. La seconda procedura, detta via non lessicale, elabora la pronuncia applicando l’insieme di regole, specifiche per ciascuna lingua, sulla base delle quali ogni lettera (o gruppo di lettere) è tradotta nel fonema corrispondente. Solo questa via è in grado di produrre un output corretto nel caso in cui la sequenza di lettere sia sconosciuta al lettore. La via lessicale può essere utilizzata per leggere correttamente le parole conosciute e, poiché le diverse unità-parola si attivano più o meno rapidamente in funzione della loro frequenza d’uso, essa è anche responsabile degli effetti di frequenza nei compiti di riconoscimento di parole. Tale via, inoltre, ha un ruolo fondamentale nella lettura delle parole irregolari, per le quali non vi è corrispondenza tra la pronuncia derivata attraverso le regole di conversione grafema-fonema e la pronuncia corretta. Queste parole caratterizzano soprattutto lingue, come l’inglese o il francese, ad ortografia opaca (si pensi alla parola have /hæv/, la cui pronuncia non corrisponde a quella ottenuta dalle regole di conversione grafema-fonema come per save /seiv/ o gave /geiv/). Per pronunciare correttamente la parola have è necessario conoscerne la pronuncia e recuperarla dal lessico mentale. In italiano le parole irregolari sono praticamente inesistenti dal punto di vista segmentale; tuttavia se prendiamo in considerazione una caratteristica soprasegmentale come l’accento delle parole trisillabiche è possibile creare un parallelismo interessante con l’inglese. La gran parte delle parole trisillabiche in italiano ha una accentazione piana, cioè sulla penultima sillaba (ad esempio, mercato, sapone). Per un numero minore di parole (circa il 30%), chiamate parole sdrucciole, la sillaba accentata è la prima (ad esempio, angelo, cellula). Colombo (1992) ha proposto di considerare le parole piane come regolari e quelle sdrucciole come irregolari. La via

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di conversione grafema-fonema, dunque, produrrebbe sempre pronunce con accento piano e tenderebbe a regolarizzare le parole sdrucciole che, invece, possono essere lette correttamente solo attraverso la via lessicale (cfr., tuttavia, Burani e Arduino 2004). Le due vie sono sempre attivate da qualunque stimolo ortografico. Come si può vedere dalla figura 1, l’architettura del modello è tale per cui esse condividono gli stadi iniziali e gli stadi finali del processo di lettura. Ambedue hanno origine dalla rappresentazione della sequenza dei grafemi elaborata sulla base delle informazioni visive, e in seguito convergono sulla stessa struttura, il b u f f e r fonemico, che computa la sequenza dei fonemi che costituisce lo stimolo. Esse quindi possono interagire nella produzione della pronuncia di una parola. Infatti, entrambe le procedure inviano informazioni al buffer fonemico, informazioni congruenti nel caso di una parola regolare e incongruenti nel caso di una parola irregolare, producendo tempi di lettura rispettivamente più lunghi e più brevi per i due tipi di stimoli. L’interazione tra regolarità e frequenza che si osserva nei dati comportamentali (Taraban e McClelland 1987), per cui non vi è differenza nei tempi di lettura tra parole ad alta frequenza regolari ed irregolari, mentre si ottiene un effetto di regolarità per le parole a bassa frequenza, è spiegata nel modello sulla base della velocità relativa di elaborazione lungo le due vie. La via lessicale elabora le rappresentazioni fonologiche in funzione della frequenza della parola; essa è perciò molto rapida per le parole ad alta frequenza e lenta, invece, per le parole a bassa frequenza. La via non lessicale, dovendo applicare l’insieme delle regole di corrispondenza, procede per tutti gli stimoli piuttosto lentamente. L’output da essa prodotto non sarebbe perciò in grado di interferire con l’output della via lessicale quando questa elabora parole ad alta frequenza. 3.2. Modelli di lettura a una via: leggere per analogia I modelli a due vie descritti nel paragrafo precedente propongono l’esistenza di un meccanismo ortografico basato sulla conoscenza delle regole di corrispondenza grafema-fonema, che serve per pronunciare quelle stringhe di lettere la cui pronuncia non è codificata in memoria, cioè le non-parole o le parole sconosciute al lettore. Le regole ortografiche sono concepite come conoscenze esplicite circa la traduzione di una data lettera o gruppo di lettere in un fonema (c-> /k/ o gn −> /ˆ/), oppure come principi relazionali astratti (c cor-

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risponde a /k/ o /t∫ / in funzione della lettera che segue). Questo meccanismo, basato su regole, integra un meccanismo specifico per le parole che recupera le forme fonologiche direttamente dal lessico mentale. Una teoria alternativa, la lettura per analogia, mette in dubbio l’esistenza di meccanismi separati, basati cioè su tipi di informazione distinti, per la lettura di parole e non-parole. Se si considera il fatto che le parole scritte in maniera simile sono anche pronunciate in maniera simile, si può ipotizzare che per generare la pronuncia di una non-parola ci si basi sulla conoscenza delle parole note ad essa simili. Secondo la teoria della lettura per analogia, la pronuncia di qualsiasi stringa di lettere è assemblata integrando informazioni che sono automaticamente attivate in parallelo durante la lettura. Tali informazioni includono le rappresentazioni fonologiche delle parole conosciute, le rappresentazioni fonologiche delle parole che contengono sequenze di lettere simili a quelle dello stimolo da pronunciare, nonché le conoscenze sulla corrispondenza tra le lettere e i suoni di varie parti della stringa di lettere. La pronuncia viene generata da meccanismi che modificano e integrano le varie informazioni attivate e sintetizzano l’adeguato programma articolatorio. 3.3. Il modello di Glushko sulla conoscenza ortografica Le ricerche di Glushko (1979) costituiscono un caposaldo per lo sviluppo dei modelli ad una via, poiché consentono di anticipare concetti fondamentali per questo approccio, quale quello di attivazione parallela di varie fonti di informazione utili per generare la pronuncia. Glushko ipotizza che la conoscenza ortografica consista nella capacità di mettere in relazione insiemi di lettere di grandezza variabile con le corrispondenti pronunce. Gli insiemi di lettere possono contenere una sola lettera o, più spesso, un numero ampio di lettere, che possono costituire anche intere parole. Per questo motivo, tra la pronuncia di una parola e di una non-parola esiste solo una differenza quantitativa. Mentre le parole sono pronunciate utilizzando insiemi molto ampi di lettere, la pronuncia di una non-parola viene assemblata sulla base di unità più ristrette, attivate per analogia con sequenze già note, o sulla base di specifici insiemi di corrispondenze tra gruppi di lettere e suoni. Per verificare le sue ipotesi, Glushko ha condotto una serie di esperimenti in cui ha analizzato principalmente la lettura delle non-parole. Le predizioni da cui parte sono molto semplici. Se le non-parole sono lette applicando l’insieme del-

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le regole di trasformazione grafema-fonema, non dovrebbero esserci differenze tra una non-parola e l’altra, a parità di lunghezza della stringa e complessità delle regole coinvolte. Inoltre, la pronuncia prodotta dovrebbe essere sempre «regolare» e riflettere l’applicazione di regole. Se invece, come sostiene Glushko, nel generare la pronuncia di una non-parola si utilizzano anche le conoscenze sulle parole conosciute, allora le parole irregolari potrebbero in qualche modo influenzare la pronuncia delle non-parole. Così, la non-parola heaf, che attiva sulla base della somiglianza ortografica la parola irregolare deaf [dεf], potrebbe essere occasionalmente pronunciata come quest’ultima anziché in modo regolare, e cioè [hif]. Al contrario, alla non-parola hean, che attiva la parola regolare dean [din], verrà sempre attribuita la pronuncia regolare [hin]. Le previsioni del modello sono state confermate dai risultati sperimentali. Le non-parole eccezione, come heaf, hanno tempi di riposta più lunghi rispetto alle non-parole regolari come hean. Inoltre, nel 18% dei casi, alle prime viene attribuita una pronuncia simile alla parola eccezione alla quale assomigliano. Risultati analoghi si sono ottenuti anche quando la lista sperimentale conteneva esclusivamente delle non-parole, il contesto più adeguato per favorire l’uso delle regole di conversione grafema-fonema. Sulla base di questi dati empirici, Glushko «rivisita» anche l’effetto di regolarità ortografica, proponendo che esso risulti dall’attivazione di pronunce più o meno incongruenti. Secondo questa prospettiva, una parola non sarebbe regolare o irregolare rispetto alle regole di corrispondenza tra lettere e suoni, ma sarebbe congruente o incongruente rispetto alle parole ortograficamente e fonologicamente simili che essa attiva. A differenza delle parole regolari, quelle irregolari attiverebbero sempre informazioni ortografiche e fonologiche incongruenti rispetto alla loro pronuncia; dal livello dell’incongruenza dipenderebbe lo svantaggio che accumulano per essere lette rispetto alle parole regolari, che spesso attivano un pattern di pronunce ad esse congruenti. Dunque, secondo Glushko, alla lettura delle parole e delle non-parole è sotteso uno stesso meccanismo, sensibile: (a) alle pronunce delle parole ad esse ortograficamente simili e (b) a specifici insiemi di corrispondenze tra gruppi di lettere e suoni. Le differenze nei tempi di risposta tra i diversi tipi di parole e non-parole sono spiegate dal conflitto tra le pronunce alternative che sono attivate in modo automatico e parallelo quando si pronuncia una data sequenza di lettere.

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4. I modelli computazionali dei processi di lettura: il modello DRC Recentemente Coltheart et al. (1993) e Coltheart et al. (2001) hanno elaborato una versione computazionale del modello a due vie, il DRC (Dual-Route Cascaded Model). Tale modello ha tre principali caratteristiche di elaborazione. 1) L’attivazione o inibizione di ciascuna unità si accumula nel tempo attraverso cicli di elaborazione, sicché le unità possono essere parzialmente e differentemente attivate in diversi momenti. 2) L’attivazione si propaga «a cascata» da un livello di rappresentazione all’altro. Ciò significa che man mano che si genera attivazione ad un livello, questa si propaga ai livelli adiacenti senza aspettare che le computazioni a quel livello siano concluse. 3) L’elaborazione è totalmente interattiva; l’attivazione o inibizione a ciascun livello contribuisce all’attivazione o inibizione di tutti gli altri livelli. L’architettura funzionale del DRC è analoga a quella del modello a due vie rappresentato in figura 1. In esso sono rappresentate tre procedure per la computazione della pronuncia, che sono funzionalmente distinte e si basano su tre diversi livelli di rappresentazione: sub-lessicale, lessicale e semantico. Mentre il percorso lessicale diretto e quello sub-lessicale (la via di conversione grafema-fonema) sono attualmente implementati nel modello, non esiste una versione computazionale del percorso lessicale semantico, probabilmente a causa delle difficoltà legate alla precisa definizione della semantica. 4.1. La via lessicale Il percorso lessicale diretto produce la pronuncia di una parola attraverso la seguente sequenza di processi: le caratteristiche visive (i tratti grafici) delle lettere attivano le unità corrispondenti alle lettere, parallelamente per tutte le posizioni, e queste lettere attivano l’unità corrispondente alla parola nel lessico ortografico. L’attivazione dell’unità ortografica produce attivazione nella corrispondente unità nel lessico fonologico, e tale unità attiva parallelamente nel buffer fonemico, nelle diverse posizioni, i fonemi che compongono la parola. Questa via è implementata attraverso una generalizzazione dell’IAM (Grainger e Jacobs 1996; McClelland e Rumelhart 1981), in cui il lessico ortografico contiene 7891 parole monosillabiche di lunghezza variabile da 1 a 8 lettere. Per ciascuna delle 8 posizioni sono presenti 14 rilevatori della presenza di caratteristiche (Rumelhart e Siple

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1974), che si attivano in presenza delle caratteristiche nello stimolo, e 14 rilevatori dell’assenza di caratteristiche, che si attivano, invece, quando le caratteristiche sono assenti nello stimolo (si veda il capitolo di Laudanna in questo volume). L’attivazione di una lettera in una determinata posizione attiva tutte le unità ortografiche del lessico che contengono quella lettera in quella posizione; quando un’unità lessicale si attiva, invia inibizione a tutte le altre unità. Le unità del lessico ortografico e quelle del lessico fonologico sono sensibili alla frequenza d’uso e a ciascuna di esse è associato un determinato valore, derivato dalla frequenza della parola corrispondente, che ne determina la velocità di attivazione: l’attivazione di una parola ad alta frequenza cresce più rapidamente dell’attivazione di una parola a bassa frequenza. Infine, a livello del buffer fonemico, l’attivazione di un’unità nel lessico fonologico produce l’attivazione di un fonema per ciascun set fonemico del buffer. Ad esempio, l’attivazione dell’unità fonologica corrispondente alla parola sole, /sole/ attiva, in parallelo, il fonema /s/ nel primo set e inibisce tutti gli altri fonemi in quel set, il fonema /o/ nel secondo set e inibisce gli altri fonemi, e così via per ciascun set fonemico. 4.2. La via non lessicale La via non lessicale deriva la pronuncia di una sequenza di lettere da un insieme di regole di trasformazione dei grafemi in fonemi, specifiche per ciascuna lingua (regole di corrispondenza Grafema-Fonema). Ogni grafema corrisponde al fonema a cui viene più frequentemente associato nelle parole monosillabiche. Alcune regole sono contestuali, cioè la pronuncia di un dato grafema dipende dal grafema che segue (come c e g in italiano, che corrispondono a /k/ e /g/, quando seguite dalle vocali a, o, u, e a /t∫ / e /dJ/, quando seguite dalle vocali e o i). Altre sono specifiche per posizione, nel senso che la pronuncia di un grafema varia in funzione della posizione che occupa nella stringa (si pensi al grafema y in inglese, che corrisponde a /j/, /i/ e /ai/ quando compare all’inizio, in posizione intermedia o alla fine della stringa). Infine le regole di output modificano la pronuncia di un dato grafema a seconda del contesto in cui si trova, facendo in modo che siano rispettate le regole fonotattiche della lingua. La via di conversione grafema-fonema opera nel modo seguente. Durante i primi dieci cicli di attivazione essa non si attiva; in seguito viene cercata la regola più appropriata per trasformare il primo grafema della sequenza; il fonema corrispondente comincia ad essere atti-

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vato nel primo set fonemico del buffer fonemico, sommando la sua attivazione a quella proveniente dalla via lessicale. Dopo un numero costante di cicli il sistema passa a considerare il grafema successivo, trova il fonema corrispondente e lo attiva nel buffer, e così via per i diversi grafemi nelle diverse posizioni. Questa procedura opera, dunque, serialmente da sinistra verso destra, come sembrano mostrare alcuni risultati sperimentali (Forster e Davis 1991; Rastle e Coltheart 1999). Ambedue le vie lessicale e non lessicale sono sempre attivate da uno stimolo linguistico e forniscono il loro output al buffer fonemico. A tale livello nasce un conflitto ogni qualvolta le due procedure elaborano risultati diversi, e il conflitto provoca un allungamento dei tempi di risposta, poiché l’elaborazione deve proseguire per un numero di cicli maggiore al fine di produrre una risposta univoca. Vi sono soprattutto due casi in cui le due procedure producono risultati conflittuali: la lettura di parole irregolari e la lettura di non-parole. 4.3. L’effetto di regolarità Nel caso di una parola irregolare, mentre la via lessicale attiva a livello del buffer la sequenza corretta di fonemi, la via non lessicale attiva i fonemi corrispondenti ai grafemi applicando le regole di conversione grafema-fonema, quindi produce una pronuncia «regolarizzata». La quantità di interferenza prodotta nel buffer è funzione della velocità con cui la procedura lessicale elabora lo stimolo. In accordo con i risultati sperimentali, infatti, l’effetto di regolarità si osserva solo per gli stimoli elaborati più lentamente dalla procedura lessicale, vale a dire per le parole a bassa frequenza. Nel caso delle parole ad alta frequenza, invece, la procedura lessicale elabora la pronuncia molto rapidamente, prima che le computazioni della via lessicale possano dar origine all’interferenza. Recentemente Rastle e Coltheart (1999) hanno dimostrato che l’effetto di regolarità dipende dalla posizione della sequenza irregolare di fonemi nella parola: le parole a bassa frequenza irregolari che contengono la sequenza di fonemi irregolari all’inizio sono lette più lentamente delle parole a bassa frequenza irregolari che contengono tale sequenza alla fine. Il DRC è in grado di simulare correttamente tale comportamento proprio in virtù della modalità di elaborazione seriale con cui opera la via non lessicale. Più a sinistra si trova la sequenza di fonemi irregolare, più probabile sarà che generi un conflitto tra l’attivazione del fonema prodotto dalla via lessicale e quello prodotto dalla via non lessicale che ha già elaborato i primi grafemi della stringa.

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4.4. La lettura di non-parole Nella lettura di non-parole la via non lessicale è l’unica procedura in grado di produrre un output corretto. Tuttavia, mano a mano che essa elabora la sequenza di fonemi e invia informazioni al buffer fonemico, la procedura lessicale attiva tutte le unità del lessico fonologico che condividono dei grafemi con lo stimolo, inviando a sua volta informazioni, in parte congruenti e in parte conflittuali, al buffer fonemico. Mentre le prime contribuiscono all’assemblaggio della pronuncia facilitando il compito della via non lessicale, le seconde interferiscono con tale procedura e generano un aumento dei cicli necessari per produrre la risposta. Attraverso tale meccanismo di interazione si spiegano gli effetti lessicali nella lettura di non-parole riportati da Glushko (1979) per l’inglese e da Job, Peressotti e Cusinato (1998) per l’italiano. In quest’ultimo studio, da un’unica parola di base sono stati derivati due tipi di non-parole variando la vocale che segue uno dei grafemi critici contenuto nella parola stessa, c, g o sc. Così, ad esempio, dalla parola base delicato si sono derivate le due nonparole delicoto e deliceto: la prima, in cui la pronuncia del grafema critico c è analoga a quella della parola base (/delikato/, /delikoto/), è detta congruente; la seconda, in cui la pronuncia del grafema critico è diversa da quella della parola base (/delikato/, /delitSeto/), è detta incongruente. In un compito di lettura ad alta voce si è osservato un allungamento dei tempi di lettura delle non-parole incongruenti rispetto a quelle congruenti. Tale effetto è presente quando la lista di stimoli contiene anche delle parole e scompare quando la lista sperimentale contiene solo non-parole. L’effetto di congruenza è spiegato all’interno del modello DRC come risultato del conflitto che emerge nel buffer fonemico tra le informazioni provenienti dalle vie lessicale e non lessicale. Il conflitto è maggiore nel caso delle non-parole incongruenti, che differiscono dalla parola base anche per la pronuncia del grafema critico, oltre che per la vocale che segue. Il modello spiega anche l’effetto di lista (tale questione sarà trattata nel § 4.5). Il modello DRC riesce a riprodurre altri effetti lessicali, fra i quali la lettura di pseudomofoni1. Il fenomeno della pseudomofonia si caratterizza per il fatto che le non-parole pseudomofone, pur essen1 Gli pseudomofoni, a differenza degli omofoni, sono sequenze di caratteri grafici che, pur suonando come una parola reale di una data lingua, sono inesistenti (ad esempio, squola o kane).

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do riconosciute più lentamente nel compito di decisione lessicale (Besner e Davelaar 1983; Coltheart, Besner, Jonasson e Davelaar 1979), nel compito di lettura sono lette più rapidamente di non-parole non pseudomofone (McCann e Besner 1987; Taft e Russell 1992). Inoltre, tale vantaggio è maggiore nel caso in cui lo pseudomofono è simile ortograficamente alla parola di base. Infine, nel caso di lettori «lenti», anche la frequenza della parola base influenza i tempi di lettura: pseudomofoni di parole ad alta frequenza sono letti più rapidamente di pseudomofoni di parole a bassa frequenza (Taft e Russell 1992). Il modello DRC è in grado di riprodurre questi effetti; la distinzione tra lettori lenti e veloci è simulata variando la velocità delle computazioni della via non lessicale. Quando questa via opera lentamente c’è più tempo per l’attivazione dell’unità lessicale nel lessico fonologico e, poiché le informazioni trasmesse al buffer fonemico attraverso questa via sono congruenti con quelle che derivano dalla via non lessicale, la pronuncia della non-parola è facilitata. Poiché la velocità di attivazione delle unità del lessico fonologico è anche funzione della loro frequenza, pseudomofoni di parole ad alta frequenza saranno facilitati maggiormente rispetto a pseudomofoni di parole a bassa frequenza. 4.5. Aspetti strategici del processo di lettura All’interno dei modelli a due vie, già Coltheart (1987) aveva proposto che i soggetti potessero controllare strategicamente l’uso relativo di ciascuna procedura a seconda delle richieste del compito. Ad esempio, che il coinvolgimento delle due procedure può essere modulato dal materiale sperimentale. La presenza di non-parole nella lista presentata ai partecipanti può favorire l’uso preponderante della procedura non lessicale, la presenza di parole irregolari l’uso preponderante della procedura lessicale. Attraverso questo meccanismo di modulazione è possibile interpretare molti risultati sperimentali che hanno mostrato effetti di composizione della lista (Rastle e Coltheart 1999; Tabossi e Laghi 1992; Baluch e Besner 1991; Content e Peerman 1992; Job et al. 1998). Ad esempio, Tabossi e Laghi (1992) hanno evidenziato un effetto di priming semantico (si vedano i capitoli di Tabossi e Laudanna in questo volume) quando la lista sperimentale è composta esclusivamente da parole, mentre l’introduzione di non-parole provoca una scomparsa dell’effetto. Il fenomeno può essere spiegato assumendo che la presenza di parole spinga i partecipanti all’uso di una strategia lessicale; quindi, solo in tali circostanze possono es-

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sere evidenziati effetti di origine semantica. Job et al. (1998), come riportato nel § 4.4, hanno osservato che gli effetti lessicali nella lettura di non-parole erano presenti solo quando la lista conteneva anche delle parole e scomparivano, invece, in una lista composta solo da nonparole. In questo caso si assume che l’assenza delle parole favorisca l’uso di una strategia non lessicale, e che questo porti alla scomparsa o all’attenuazione degli effetti legati all’attivazione delle informazioni lessicali. Un’interpretazione alternativa degli effetti strategici deriva dall’ipotesi del criterio temporale variabile nella produzione delle risposte. Lupker, Brown e Colombo (1997) hanno mostrato che quando un certo tipo di stimoli, associato a risposte veloci, è mescolato a stimoli associati a risposte più lente si osserva un’omogeneizzazione dei tempi di risposta, con un abbassamento dei tempi lenti ed un innalzamento dei tempi veloci. Secondo l’ipotesi, i lettori userebbero un criterio temporale variabile per decidere quando rispondere: per far sì che la maggior parte delle risposte siano rapide e corrette, quando gli stimoli sono tutti di un certo tipo verrebbe fissato un dato criterio temporale adeguato per tutti gli stimoli. Per stimoli difficili il criterio verrà posizionato in avanti e dunque le risposte saranno lente, per stimoli facili il criterio sarà «precoce» e le risposte saranno veloci. Quando però stimoli difficili e facili sono mescolati insieme, il criterio viene fissato in una posizione intermedia, rendendo le risposte agli stimoli lenti più veloci e le risposte agli stimoli veloci più lente. Secondo Lupker et al. (1997), tale ipotesi è in grado di spiegare la scomparsa (o la diminuzione) di alcuni effetti come il priming associativo (Tabossi e Laghi 1992) o l’effetto di frequenza nella lettura di parole inserite in liste in cui sono presenti non-parole (Baluch e Besner 1991). L’assenza di tali effetti sarebbe determinata dall’allungamento generalizzato dei tempi di risposta e non da una strategia che varia il peso delle diverse fonti di conoscenza utilizzabili per derivare il codice fonologico di un dato stimolo. 5. Processi di elaborazione parallela e distribuita: i modelli PDP Secondo i modelli a due vie, gli aspetti sistematici del linguaggio sono rappresentati ed elaborati da insiemi di regole che stabiliscono le connessioni tra unità lessicali, che traducono lettere in suoni e così via. Una visione alternativa è costituita dai modelli connessionisti o reti a elaborazione parallela e distribuita (Parallel Distributed Processing

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models, PDP). Secondo tali modelli (Seidenberg e McClelland 1989; Plaut e McClelland 1993; Plaut, McClelland, Seidenberg e Patterson 1996), le elaborazioni linguistiche sono il risultato di interazioni di tipo cooperativo e competitivo tra un numero molto ampio di semplici unità. Questi sistemi sono in grado di apprendere attraverso un progressivo aggiustamento dei pesi delle connessioni tra le unità e sono sensibili alla struttura statistica dell’ambiente in cui operano. Una delle principali conseguenze di questa architettura è che all’interno del sistema non vi è differenziazione nella rappresentazione e/o elaborazione delle parole regolari e di quelle irregolari. Tutte le unità coesistono in un unico sistema, le cui computazioni riflettono il grado di congruenza dei diversi items. Secondo l’approccio PDP, dunque, non è necessario distinguere tra un processo lessicale e un processo sublessicale: un unico meccanismo, una rete connessionista, è in grado di associare alla forma scritta di ogni parola la sua forma fonologica. Il modello di Seidenberg e McClelland (1989) costituisce il primo tentativo di elaborazione di una rete connessionista, da cui se ne sono sviluppati più recenti (Plaut e McClelland 1993; Plaut et al. 1996; Plaut 1997). Secondo tali modelli le parole e le non-parole sono elaborate allo stesso modo da una rete in cui le informazioni ortografiche, fonologiche e semantiche sono rappresentate in termini di patterns distribuiti di attivazione (cfr. figura 2). Semantica

unità nascoste

unità nascoste

unità nascoste Ortografia

Fonologia

Fig. 2. Architettura del modello PDP proposto da Seidenberg e McClelland 1989. Ogni rettangolo rappresenta un insieme di unità e ogni freccia rappresenta un gruppo di connessioni. La parte in grassetto è quella di cui esiste la versione computazionale.

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All’interno di ciascun dominio (fonologico, ortografico e semantico), items simili sono rappresentati da patterns di attivazione simili. I compiti di natura lessicale prevedono trasformazioni tra questi tre tipi di rappresentazioni; ad esempio, la lettura implica che il pattern ortografico di uno stimolo produca il corrispondente pattern fonologico. Le unità ortografiche, fonologiche e semantiche interagiscono tra loro attraverso un insieme di unità «nascoste» che mediano le connessioni tra unità. I legami possono essere di natura eccitatoria e inibitoria e di diverso peso. Quando viene elaborato un input, le diverse unità interagiscono fino a che la rete nel suo insieme raggiunge un pattern di attivazione stabile (chiamato attrattore) che corrisponde alla risposta della rete allo stimolo. Le connessioni tra le unità e il loro peso codificano perciò la conoscenza del sistema sulla relazione tra i diversi tipi di informazione. I pesi che producono delle risposte appropriate sono dovuti a un processo di auto-apprendimento che si basa sull’esposizione della rete alle parole scritte, alle loro pronunce e al loro significato. Anche all’interno dei modelli PDP si possono prevedere due procedure utili a generare il pattern fonologico di una data parola. Nella prima, le unità ortografiche sono direttamente connesse alle unità fonologiche (percorso fonologico); la seconda procedura prevede che le unità fonologiche siano attivate attraverso la mediazione delle unità semantiche. L’implementazione del percorso fonologico simula con successo la prestazione dei lettori adulti su parole regolari e irregolari ad alta e bassa frequenza. La rete riproduce anche l’interazione tra regolarità e frequenza, fenomeno che è sempre stato considerato una prova dell’esistenza di rappresentazioni lessicali esplicite e di regole di conversione grafema-fonema. L’osservazione delle computazioni operate dal modello PDP (Plaut et al. 1996) rivela che questi effetti sono una diretta conseguenza dei principi di elaborazione e di apprendimento della rete. L’effetto di frequenza viene rappresentato esponendo più spesso la rete a parole ad alta frequenza. Ciò produce un cambiamento dei pesi delle connessioni e facilita la produzione dell’output corretto per quelle parole. La regolarità ortografica, espressa nei termini della congruenza delle parole con le regole di conversione grafema-fonema, è rappresentata nella rete PDP dalla similarità tra le unità ortografiche e fonologiche attivate. Perciò, se due parole attivano unità ortografiche simili, esse producono variazioni dei pesi altrettanto simili. Come per l’effetto di frequenza, l’output fonologico di una data parola viene favorito dall’esposizione della re-

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te a parole congruenti, che hanno cioè patterns di attivazione simili. Gli effetti di frequenza e di congruenza, perciò, contribuiscono indipendentemente a stabilire il tempo di denominazione di un dato item, poiché ambedue sono prodotti da variazioni simili nei pesi delle connessioni e sono sommati durante il training. L’attivazione di un pattern fonologico di output corrispondente ad una parola in una rete PDP è funzione di tre fattori: a) la frequenza cumulativa del pattern di attivazione prodotto dalla parola durante la fase di apprendimento; b) la somma delle frequenze dei patterns prodotti da parole ad essa congruenti (definite «amici» da McClelland e Rumelhart 1981); c) la somma delle frequenze dei patterns prodotti da parole incongruenti (i «nemici»). Le parole ad alta frequenza sono lette più rapidamente di quelle a bassa frequenza, poiché la componente (a) è maggiore per le prime che per le seconde. Inoltre, le parole con un più alto grado di congruenza (e cioè le parole regolari) sono lette più rapidamente di quelle incongruenti (irregolari), poiché la somma delle frequenze degli «amici», componente (b), risulta maggiore della somma delle frequenze dei «nemici», componente (c). Il contributo di questi fattori tuttavia diminuisce all’aumentare del livello di prestazione a causa delle proprietà non-lineari della funzione di attivazione: più aumenta il livello generale di prestazione, meno è rilevante il contributo dei singoli fattori. Di conseguenza, man mano che la forza delle tre componenti (a), (b) e (c) aumenta (e dunque all’aumentare dell’apprendimento), gli effetti di frequenza e di congruenza diminuiscono. Inoltre, la prestazione di stimoli che risultano «forti» per una delle componenti risulta meno sensibile all’effetto delle altre componenti: le parole regolari mostreranno solo un piccolo effetto di frequenza, mentre le parole ad alta frequenza, mostreranno solo un piccolo effetto di congruenza, riproducendo il fenomeno empirico dell’interazione tra regolarità e frequenza. L’equazione appena descritta tra frequenza e congruenza costituisce un utile punto di partenza per comprendere il ruolo della semantica nel processo di lettura all’interno dei modelli PDP. Le unità semantiche (cfr. figura 2), connesse a quelle ortografiche e fonologiche, contribuiscono alla trasformazione dei patterns ortografici in patterns fonologici. Più precisamente, la semantica costituisce un’ulteriore componente, assieme alle componenti sopra descritte in a), b) e c), che contribuisce a determinare il pattern di attivazione delle unità fonemiche. Maggiore è il contributo della componente semantica, più l’input complessivo di attivazione si sposta verso l’asintoto,

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minore sarà l’effetto degli altri fattori. Secondo tale ipotesi, dunque, le parole per le quali ci si aspetta un contributo semantico più ridotto (ad esempio, le parole che meno facilmente evocano un’immagine mentale) dovrebbero mostrare un forte effetto di interazione tra regolarità e frequenza; inoltre, parole deboli rispetto a tutte e tre le dimensioni (parole a basso valore d’immagine, bassa frequenza e irregolari) dovrebbero essere lette in tempi più lunghi e con più errori (Strain, Patterson e Seidenberg 1995). In una rete PDP, le parole e le non-parole possono anche essere lette senza il contributo della semantica, come dimostrato dalle simulazioni presenti in letteratura (Plaut et al. 1996; Plaut e McClelland 1993). Tuttavia gli autori di quest’approccio sostengono che la completa competenza linguistica si basi proprio sulla combinazione di conoscenze semantiche e fonologiche: più il percorso semantico si attiva, minore è il contributo richiesto al percorso fonologico. A tal proposito è stato ipotizzato che la rete ottimizzi le computazioni necessarie per la produzione di output corretti attraverso una redistribuzione del lavoro tra i due percorsi. Quando il percorso semantico risulta attivo, il percorso fonologico diminuisce gradualmente la capacità di rispondere correttamente agli items che ha appreso meno bene: le parole con un basso livello di frequenza e congruenza. Per quanto riguarda la lettura di non-parole, gli effetti lessicali sono stati spesso utilizzati a favore dell’architettura proposta dai modelli PDP, nei quali si assume che a parole e non-parole si applichi lo stesso processo per la trasformazione dei patterns ortografici nei patterns fonologici. Ne consegue che la lettura di stimoli nuovi, come le non-parole, è influenzata dalle caratteristiche ortografiche e fonologiche delle parole conosciute. L’effetto di congruenza riportato da Job et al. (1998) è dunque facilmente spiegato all’interno dei modelli PDP, in cui la conoscenza usata per generare la pronuncia di una nonparola deriva dall’esposizione della rete alle pronunce delle parole esistenti (per la simulazione di effetti lessicali nella lettura di non-parole, cfr. Plaut et al. 1996). Questo tipo di modelli incontra, tuttavia, delle difficoltà a spiegare gli effetti del contesto che derivano, ad esempio, dalla composizione della lista sperimentale. Job et al. (1998) hanno trovato che la non-parola congruente delicoto è letta più rapidamente della non-parola incongruente deliceto solo quando la lista sperimentale contiene sia parole che non-parole, e che l’effetto scompare in una lista composta solo da non-parole. Questo dato è particolarmente difficile da spiegare se si assume che la trasformazione di pat-

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terns ortografici in patterns fonologici avvenga attraverso un sistema unico che elabora sia le parole che le non-parole. 6. Il modello connessionista a due vie Questo terzo modello, proposto da Zorzi, Houghton e Butterworth (1998), rimanda ad alcune delle caratteristiche dei modelli a due vie, ma, analogamente ai modelli PDP, utilizza una rete neurale in grado di trasformare il codice ortografico in codice fonologico. Zorzi et al. (1998) assumono l’esistenza di due percorsi per l’attivazione della forma fonologica di una parola, un percorso sub-lessicale che assembla la sequenza di suoni a partire dai grafemi che formano la stringa ed un percorso lessicale basato su connessioni dirette tra unità ortografiche ed unità fonologiche corrispondenti alle parole conosciute (cfr. figura 3). PDS Sistema di decisione

Sistema di recupero della fonologia lessicale

Sistema di assemblaggio della fonologia lessicale

Fig. 3. Architettura funzionale del modello implementato da Zorzi, Houghton e Butterworth 1998. La procedura lessicale e quella sub-lessicale inviano il risultato delle rispettive computazioni al sistema di decisione fonologica, dove il codice fonologico corrispondente alla risposta viene definitivamente prodotto.

La competenza sub-lessicale non è basata sulla specificazione di un insieme di regole che stabiliscono la corrispondenza tra lettere e suoni (come nel DRC), ma viene appresa da una rete connessionista strutturata in due soli livelli (TLA, Two-Layer Assembler): il primo comprende unità ortografiche di input e il secondo unità fonologiche di output. La connessione diretta tra unità di input e di output è motivata dal fatto che la corrispondenza tra suoni e lettere, anche per una lin-

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gua «opaca» come l’inglese, è tutto sommato sistematica. Ciò è ancora più vero se si considerano gruppi di grafemi e fonemi piuttosto che singole lettere e suoni (Treiman et al. 1995). L’altro aspetto innovativo del modello è infatti costituito dalle assunzioni sulla struttura della sillaba in onset e rima (si veda il capitolo di Marotta in questo volume). Sulla base di numerosi studi (tra gli altri, Bradley e Bryant 1983; Dell 1986; Treiman 1989), si è ipotizzato che la struttura ortografica della lingua inglese sia basata sulla struttura fonologica, e che ogni parola monosillabica sia descrivibile nei termini di un’unità ortografica corrispondente all’onset, composta dai grafemi che precedono la prima vocale, e di un’unità ortografica corrispondente alla rima, composta dalla vocale e dai grafemi che seguono. Le unità di input e di output della procedura TLA del modello di Zorzi et al. (1998), sono così strutturate in unità ortografiche e fonologiche corrispondenti a rima e coda. Una rete in cui il livello di input e il livello di output sono direttamente connessi tra di loro è in grado di cogliere le regolarità statistiche di corrispondenza tra grafemi e fonemi delle parole usate per il training, ma non è in grado di apprendere con specificità quei casi di pronunce eccezionali costituiti dalle parole irregolari. La rete TLA commette, infatti, molti errori di regolarizzazione nella lettura di quest’ultimo tipo di stimoli. La prestazione è invece molto buona per le parole regolari e le non-parole. Inoltre, a differenza della via sub-lessicale del modello DRC, basata su regole di conversione, la procedura TLA riproduce l’effetto di congruenza. Sia per le parole che per le non-parole, gli stimoli congruenti, che hanno molti «amici», sono elaborati più velocemente degli stimoli incongruenti, che hanno molti «nemici». Tali differenze sono determinate dal numero di fonemi attivati per una stessa posizione. La pronuncia finale di uno stimolo è stabilita da un sistema di decisione fonologica (PDS, Phonological Decision System), sensibile alla competizione tra fonemi alternativi. Solo gli stimoli incongruenti danno origine a più di un fonema per posizione, con il fonema congruente (più frequentemente incontrato in fase di apprendimento) più attivo di quello incongruente; la competizione che si genera tra i fonemi alternativi produce un allungamento dei tempi di risposta, in termini di numero di cicli di elaborazione necessari al PDS per giungere ad un’unica pronuncia definitiva. La procedura lessicale ipotizzata da Zorzi et al. (1998) realizza connessioni mediate tra rappresentazioni ortografiche e fonologiche, ed è molto simile a quella elaborata all’interno del DRC. Tale procedura recupera la forma fonologica di una parola sulla base del-

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la sua forma ortografica ed è sensibile alla frequenza della stessa. Le computazioni avvengono parallelamente alle computazioni della procedura TLA e l’output ottenuto viene convogliato sempre al sistema PDS, dove le informazioni derivate dalla via di assemblaggio e dalla via di recupero diretto della pronuncia interagiscono per produrre la risposta finale. A differenza del modello DRC, in cui la procedura sub-lessicale comincia le elaborazioni in ritardo rispetto a quella lessicale ed elabora la sequenza di grafemi serialmente, la procedura TLA del presente modello (analogamente a quella lessicale) si attiva rapidamente ed elabora lo stimolo in parallelo, perciò i fonemi in tutte le posizioni sono attivati contemporaneamente. Il modello di Zorzi et al. (1998) è in grado di riprodurre correttamente l’interazione tra regolarità e frequenza sulla base dell’interazione a livello del PDS tra l’output prodotto dalle due procedure. Dato che la procedura lessicale è particolarmente lenta nell’elaborazione di parole a bassa frequenza, le computazioni effettuate dalla procedura TLA facilitano l’elaborazione del corretto codice fonologico nel caso di parole regolari, oppure la ostacolano nel caso di parole irregolari. L’effetto di congruenza sulle parole regolari non deriva dall’interazione tra le due procedure, come nel caso del DRC, ma è generato all’interno della sola procedura TLA, che attiva, nel caso degli stimoli incongruenti, anche i fonemi alternativi. La differenza tra parole regolari incongruenti e parole irregolari che si osserva all’interno del modello è che ambedue generano, nella procedura TLA, più pronunce possibili, ma il fonema più attivo risulta quello più frequente, e perciò quello corretto per le parole regolari incongruenti e quello scorretto per le parole irregolari. Solo la procedura lessicale è in grado di generare la corretta pronuncia di quest’ultimo tipo di stimoli che, per la risposta finale, dovranno competere con (anziché essere rinforzate da) l’output prodotto dalla procedura TLA. Tale analisi rivela che, a differenza dei modelli PDP, in questo modello gli effetti di regolarità e di congruenza sono dissociati. Essi hanno origine a livelli diversi, anche se ambedue emergono nel PDS e implicano, a questo livello, la competizione tra l’attivazione di fonemi diversi nella stessa posizione. 7. Conclusioni Da un punto di vista storico, questa breve panoramica sui modelli di elaborazione di parole ci permette di comprendere come lo svilup-

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po delle conoscenze in quest’ambito, sostenuto da tecniche di indagine sempre più sofisticate, abbia condotto a un alto grado di specificazione dei processi studiati. L’applicazione di metodologie di ricerca con un elevato livello di controllo ha permesso di esplicitare in modo chiaro il ruolo di alcune variabili che influenzano i meccanismi di accesso lessicale. I modelli più recenti sono in grado di rendere conto della gran parte dei fenomeni conosciuti e, dunque, sono caratterizzati da un alto livello di specificazione delle procedure e dei meccanismi postulati. L’aspetto più rilevante in questo senso è il passaggio dai diagrammi «carta e matita» ai modelli computazionali che simulano i processi di elaborazione delle parole.

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so della semantica, rispondendo «lo studio del significato» ricorriamo a una nozione che, implicitamente o esplicitamente, si era fatta entrare in gioco nel formulare la domanda stessa, introducendo uno sdoppiamento, un autoriferimento che provoca un intoppo, una sorta di disagio, appunto, «semantico». 2. Significato ed etimologia

1. Introduzione Che cos’è la semantica? Che cosa vuol dire semantica? Che cosa significa semantica? Qual è il significato (o il senso) della parola semantica? Di primo acchito può sembrare che queste domande si equivalgano, e che la risposta sia semplice e diretta, la stessa in tutti i casi: lo studio del significato. Ma basta rifletterci un momento per rendersi conto che la questione è problematica, e che la risposta è quanto meno insufficiente. Già il rapporto fra le diverse formulazioni della domanda fa emergere un nodo di problemi controversi. Se uno ci chiede che cos’è l’idrogeno, pensiamo che conosca, più o meno, il senso della parola, e che desideri informazioni sulla natura chimica o fisica di questa sostanza. Se ci domanda, invece, che cosa vuol dire (che cosa significa) idrogeno, penseremo che non conosca la parola e che ne richieda una parafrasi, un sinonimo, o una traduzione, informazioni insomma di tipo lessicale, piuttosto che enciclopedico e in termini di scienze naturali. Se poi ci chiede qual è il significato di questa parola, saremo incerti se la risposta desiderata sia del primo o del secondo tipo, cioè se sia lessicale o enciclopedica, e saremo forse tentati di tener conto di entrambi gli aspetti. Riguardo ai termini che indicano discipline, come fonetica, morfologia e sintassi, per citare alcuni titoli usati dai capitoli di questo volume, la distinzione si attenua. Per esempio, se chiediamo che cos’è la fonetica (che cosa vuol dire fonetica, qual è il significato della parola fonetica), possiamo rispondere in ogni caso: lo studio dei suoni del linguaggio. Ma nel ca-

Quando cerchiamo di chiarire i termini che usiamo (nel nostro caso le parole semantica e significato) ci troviamo a dover scegliere fra due punti di vista, che i linguisti di solito chiamano sincronico e diacronico. Il primo si limita ad usi considerati come se fossero contemporanei fra loro (e nel nostro caso anche contemporanei a noi), prescindendo dalla loro evoluzione cronologica. Il secondo considera invece la loro etimologia, la loro storia, il loro cambiare nel tempo. La linguistica moderna, almeno da Saussure in poi, privilegia la prospettiva sincronica su quella diacronica. Ma non sempre si osserva che, riguardo all’aspetto semantico, questo pone problemi peculiari. Mentre la lingua che usiamo ha un suo sistema di fonetica e di sintassi che ha rimpiazzato quelli precedenti, e che, risultando dai cambiamenti avvenuti, ha per così dire eliminato quelli precedenti, sostituendosi ad essi, per la semantica la nostra lingua ha invece in qualche modo preservato, immagazzinato, memorizzato senza abolirle le fasi precedenti. Richiamarsi al superare/conservare (aufheben) della dialettica hegeliana può essere a questo proposito tanto inevitabile quanto fuorviante. Per la nostra tradizione culturale questo si rispecchia nella difficoltà che si è spesso riscontrata nel separare, in ambito lessicologico e lessicografico, la sincronia dalla diacronia, il dizionario dell’uso da quello storico, la considerazione semantica da quella etimologica, il significato di una parola dalle vicende socio-culturali attraverso cui esso si è formato (si veda il capitolo di Berruto in questo volume). Questo viene indicato anche dal modo in cui si è sospinti, cercando di chiarire i termini semantica e significato, a ripercorrere la loro storia e i loro rapporti con le designazioni collegabili a tali concetti. 3. Semantica e significato Il termine semantica è attestato in italiano nel 1922, nella prima edizione dello Zingarelli, e basato sul francese sémantique, a quanto pa-

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re introdotto (o comunque presentato come un neologismo) nel 1883 da Michel Bréal, con l’avvertimento che i linguisti per lo più hanno studiato il corpo (fonetica) o la forma (morfologia) della parole, mentre «les lois qui président à la transformation des sens, aux choix d’expressions nouvelles, à la naissance et à la mort des locutions, ont été laissée dans l’ombre ou n’ont été indiquées qu’en passant. Comme cette étude, aussi bien que la phonétique et la morphologie, mérite d’avoir son nom, nous l’appelerons la SÉMANTIQUE (du verbe shmainw), c’est-à-dire la science des significations» (Bréal 1883, p. 133)1. Il termine è stato poi ripreso nel titolo del fortunato volume dello stesso Bréal (1897), Essai de sémantique (science des significations)2. Come si vede, e come ci si può aspettare nel clima culturale di fine Ottocento, la prospettiva è storica, o meglio, senza appellarsi alla distinzione fra sincronico e diacronico, presuppone un punto di vista storico. La parola semantica è basata sull’aggettivo greco semantikós, collegato a semaíno, a cui corrisponde il latino significare ‘dar segno, indicare, manifestare’. L’origine del sostantivo significato è controversa. De Mauro, nel suo commento al Cours di Saussure (1967), fa risalire il francese signifié alla forma neutra sostantivata (significatum) del participio passato di significare. Di recente, Roberto Gusmani (1998, 2001) ha sostenuto che conviene invece rifarsi (d’accordo con Battisti-Alessio [1950-1957], s.v., e Wartburg [1957], p. 605) al latino significatus, sostantivo astratto della IV declinazione, che indica la capacità di significare, cioè di indicare, di far segno, segnalare3. 1 «Le leggi che presiedono alla trasformazione dei sensi, alle scelte di espressioni nuove, alla nascita e alla morte di locuzioni, sono state lasciate nell’ombra o non sono state indicate che di sfuggita. Poiché questo studio, così come la fonetica e la morfologia, merita di avere un suo nome, noi lo chiameremo SEMANTICA (dal verbo shmainw), cioè scienza delle significazioni» (trad. dei curatori). 2 Tralasciamo qui un uso tecnico, di qualche anno precedente, documentato nella voce sémantique del Grand dictionnaire universel du XIXe siècle, Tome 14, pp. 515-516. Qui la semantica è definita come termine dell’arte militare: «Art de mouvoir les troupes à l’aide de signaux». Mentre i segnali usati dalla céleustique sono uditivi (celeuma è la battuta del celeuste che dava il ritmo ai rematori; si veda anche l’etimologia di ciurma), quelli della semantica sono visivi: i movimenti della mazza del tamburo maggiore, o della spada che fa iniziare o cessare le batterie, i «sémaphores», e la «télégraphie militaire sont les moyens de la sémantique actuelle». 3 La formazione della parola è analoga a quella di altri termini in -tus, come arbitratus, «capacità di discernere», commeatus, «possibilità di andare e venire». Così in Apuleio (Florida 17) si nota come la tromba o il corno (bucina) possa essere «significatu longinquior», possa cioè arrivare più lontano con il suo suono, farsi

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4. Significante e significato Per chiarire il termine significato occorre fare qualche altra considerazione. Nella linguistica moderna, da Saussure in poi, siamo abituati a distinguere tre nozioni, che Saussure chiamava signe, signifiant e signifié. La resa italiana con segno, significante e significato sembra ovvia, ma di fatto nasconde varie difficoltà. Il segno è un’entità linguistica che denota un oggetto extralinguistico, la cosa che esso designa e che appartiene alla realtà esterna. Il segno è per Saussure un’entità bifronte, consistente del rapporto fra significante e significato, che costituiscono rispettivamente l’espressione e il contenuto del segno, entrambe nozioni astratte o mentali. Più precisamente, adottando termini che sono stati codificati dalla glossematica di Hjelmslev, per tutte e due le facce del segno, conviene distinguere tra forma e sostanza. La forma rappresenta l’aspetto astratto, quasi il modello mentale; la sostanza è la realizzazione concreta, materiale, percepibile coi sensi. Se consideriamo la parola CANE, possiamo dire che si tratta di un segno che appartiene alla lingua italiana, e che consiste del significante cane e del significato ‘cane’4. La forma dell’espressione, cane nel nostro esempio, è costituita dai fonemi che compongono la parola, /'kane/, e la sostanza dell’espressione è costituita dalle pronunce effettive, ad opera di voci diverse, in circostanze diverse, della stessa parola, per esempio ['ka:ne] e ['γa:në]. La forma del contenuto riguarda l’organizzazione grammaticale e semantica del significato ‘cane’, il fatto, poniamo, che la parola sia in italiano (ma, ovviamente, non in altre lingue) un sostantivo maschile, singolare, ecc., e che rientri in una particolare classificazione zoologica, che distingue certi animali da altri (per esem-

sentire più in là, che non la voce umana; in Vitruvio (De architectura 9, 6, 3) si elencano i nomi di quelli che hanno ricavato dall’osservazione degli astri «tempestatum significatus», cioè i modi di prevedere le tempeste; e più in generale per le parole, in Verrio Flacco (De verborum significatu) il termine indica la capacità di significare, cioè di esprimere e di comunicare. I tre passi citati sopra sono quelli dati per illustrare la parola significatus nell’Oxford Latin Dictionary. 4 Per le convenzioni grafiche usate in questo capitolo si veda l’avvertenza generale sull’uso dei segni grafici. Nella mia voce Semantica per l’Enciclopedia Italiana (Lepschy 2000), per il segno si usavano le virgolette alte singole (‘ ’). Il corsivo serve anche per le parole straniere, ma questo non dovrebbe creare ambiguità con l’uso che ne facciamo per il significante.

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pio il cane dal lupo). La sostanza del contenuto fa entrare in gioco il rapporto con la realtà esterna extralinguistica, alla quale il segno si riferisce, per cui CANE può designare animali tanto diversi quanto un bassotto e un levriero. Quest’assunto saussuriano (secondo cui il segno ha una natura duplice, consiste del rapporto fra significante e significato, riflette, all’interno della lingua, nella sua stessa essenza dicotomica, un’originaria frattura fra mondo e linguaggio) non corrisponde alle idee tradizionali di linguisti, filosofi e logici. Secondo le concezioni prevalenti fino al Novecento, l’opposizione di base è quella fra parole e cose, per cui le parole sono i nomi, o etichette, con cui si designano le cose. La distinzione saussuriana fra signifiant e signifié sembra corrispondere a quella degli stoici fra se¯maînon e se¯mainómenon, ma, come osserva Gusmani (1998), è possibile che l’analogia sia soltanto formale. Il se¯mainómenon (participio passivo di se¯maínein ‘indicare’) è la cosa di cui si parla, l’oggetto a cui si riferisce il se¯maînon (participio attivo), che è il termine che designa tale oggetto. Signifiant e signifié sono invece due facce o due aspetti del segno. Saussure sottolinea esplicitamente che il signifié non è l’oggetto denotato, e perciò termini come l’inglese signified e il tedesco Bezeichnete, che fanno pensare alla cosa designata, sono particolarmente infelici (Gusmani 1998).

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porto fra significante e significato è arbitrario. Anche questa tesi è meno ovvia di quanto potrebbe sembrare. Come è ben noto, il Cours di Saussure è stato messo insieme, dopo la sua morte, da allievi e colleghi, sulla base degli appunti raccolti durante tre corsi di linguistica generale. Sul problema filologico della ricostruzione del testo ci sono studi fondamentali di Godel (1957), Engler (Saussure 1974), De Mauro (Saussure 1967), Bouquet e Engler (Saussure 2002), che hanno messo in luce l’ambiguità di questa nozione. Da un lato Saussure sembra presupporre (ma lasciare nell’ombra) la secolare storia di questa nozione, che risale all’antichità. In un famoso dialogo di Platone, il Cratilo, si discute se le parole significhino per natura (phúsei) o per convenzione (nómoi, o thései); o katà sunthe¯´ke¯n in Aristotele; secundum placitum in Boezio; ad placitum nei modisti e in Dante; in Aulo Gellio i verba sono considerati non già arbitraria ma naturalia. Come fanno prevalentemente gli studiosi di linguistica storica e comparativa dall’inizio dell’Ottocento, Saussure (1967, n. 136) condivide la tesi dell’arbitrarietà, conferendole peraltro un risvolto radicale. Più tardi, nel corso del Novecento, si assiste al riemergere, insieme agli assunti universalistici, di posizioni che sono state chiamate cratilistiche, che sottolineano gli aspetti di tipo espressivo e iconico, e quindi «naturali» piuttosto che «arbitrari» in molte aree del linguaggio.

5. Arbitrarietà Per lo studio dei termini e dei concetti di cui ci serviamo quando parliamo di semantica, cercare di chiarire i valori che essi hanno assunto nella loro storia può essere più istruttivo che non proporre definizioni rigorose, e inevitabilmente artificiose, che non rendono giustizia alla complicazione, ancora insufficientemente chiarita, dei problemi di cui ci occupiamo. Abbiamo visto che in greco non pare che ci sia un termine che corrisponda in maniera ovvia e naturale a «senso» o «significato». Del resto, come potrebbe esserci se, come è stato sostenuto, si tratta non di avere un’etichetta per un oggetto predeterminato e ben identificabile, quanto piuttosto di riferirsi a nozioni complesse e spesso sfuggenti, che si sono trasformate nel corso dell’evoluzione di diverse tradizioni culturali e nazionali, e che inoltre fin dall’inizio recavano l’impronta dei sistemi linguistici differenti in cui erano state espresse? Conviene ricordare che Saussure, nel suo esame del segno linguistico, considera fondamentale il principio dell’arbitrarietà: il rap-

6. Relativismo A questa dicotomia se ne collega un’altra, basata sulla tesi secondo cui non è tanto la nostra mente (ciò che pensiamo) a determinare la nostra lingua, quanto viceversa la nostra lingua a determinare il nostro modo di pensare. Quest’ultima tesi viene fatta risalire a Wilhelm von Humboldt, e viene anche designata, in certe sue forme estreme, come ipotesi Sapir-Whorf, dai nomi del grande linguista americano di origine russa, Edward Sapir, e di un geniale dilettante studioso di lingue amerindiane, Benjamin Lee Whorf. Secondo questa ipotesi, ogni lingua impone ai suoi parlanti un modo diverso di vedere il mondo, e inevitabilmente li costringe ad esprimersi secondo categorie concettuali e strutture logiche diverse da lingua a lingua. Su questa base si sostiene che ogni lingua è una sorta di monade, un sistema autonomo, non trasferibile in altre lingue. Da questo punto di vista la traduzione sarebbe, a rigor di termini, impossibile. La letteratura, in proposito, è ricca di esempi incisivi, ed è largamente

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diffusa la convinzione che ci siano espressioni tipiche, spesso usate nella loro forma straniera originaria, proprio perché sembrano incarnare nozioni ed atteggiamenti caratteristici di certe culture, e non trovano equivalenti adeguati in altre lingue: per esempio, si dice, aggettivi come l’italiano furbo o simpatico appaiono intraducibili in inglese, e viceversa sostantivi inglesi come fairness o evidence non trovano una resa soddisfacente in italiano; e così si usano parole come il portoghese saudade, o il tedesco Sehnsucht, o il russo nicˇego che simboleggia l’indifferenza di Oblomov, il personaggio di Goncˇarov. Questo vale anche per le strutture grammaticali. Una frase apparentemente semplicissima come His friend left, ci costringe, se vogliamo dirla in italiano, a introdurre o a tralasciare una serie di scelte in disaccordo con l’originale: (1) his ci dice che la persona in questione è amica di un uomo, mentre il possessivo italiano (il suo o la sua) ci dice che la persona in questione è un uomo o una donna, ma non ci indica il sesso dell’individuo per cui prova amicizia; (2) friend non ci dice il sesso della persona di cui si parla, mentre la presenza del genere grammaticale in italiano ci costringe a scegliere fra amica e amico; (3) left non ci dà informazioni sufficienti per decidere se l’equivalente italiano dovrebbe essere partì, è partito/a, o addirittura, in certi contesti grammaticali, partiva. A questo atteggiamento, che incoraggia un’analisi sottile e precisa delle differenze fra lingue diverse, si è spesso associata, particolarmente nei paesi germanofoni, nel corso dell’Ottocento e del Novecento, l’esaltazione della propria cultura nazionale e il culto della madrelingua, considerata inseparabile dall’identità etnica e razziale (intesa su basi biologiche e/o spirituali). 7. Universalismo La tendenza opposta, di carattere universalistico, che oggi prevale nella linguistica teorica, grazie al forte impulso di Chomsky e delle scuole che a lui si ispirano, proclama anch’essa la base biologica, genetica del linguaggio, anche se di fatto ne indica il carattere mentale, sottolineando l’ipoteticità e l’insufficienza dei tentativi finora compiuti per specificarne il funzionamento in termini cerebrali e neurologici. Nel contesto a cui ci riferiamo ciò che più colpisce, confrontando questa tendenza con la precedente, è come la grammatica universale chomskiana si richiami al singolo parlante, di cui cerca di studiare e di capire la facoltà linguistica, fondamentalmente la

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stessa per tutti gli esseri umani, al di là delle differenze che distinguono fra loro parlanti di lingue diverse. Quanto più un tratto è specifico di una lingua o di una comunità, tanto più richiede di essere spiegato in base a principi generali, proprio perché il linguaggio è una caratteristica biologica che accomuna gli esseri umani, distinguendoli da altre specie. Un’indagine che si concentrasse su ciò che differenzia una lingua da un’altra, senza rifarsi a principi generali, garantirebbe l’insuccesso di una ricerca il cui scopo è proprio quello di capire come funziona la facoltà del linguaggio. Naturalmente, l’analisi di singoli fenomeni linguistici verte su dati che appartengono a lingue particolari, e molto del lavoro compiuto dalla linguistica teorica negli ultimi anni è consistito nell’identificazione di principi sempre più semplici che illustrano come l’attivazione, in un senso o in un altro, di un numero limitato di parametri, possa avere conseguenze di largo raggio che portano alle diversità macroscopiche riscontrate osservando i dati di lingue diverse. Questo vale in particolare per chiarire quei tratti semantici che, anche a un’ingenua osservazione intuitiva, sembrano dipendere dalla natura della mente umana e rivelarsi gli stessi al di là delle diversità delle lingue. Chomsky (1988), come è noto, sostiene (contrariamente agli assunti saussuriani a cui abbiamo accennato) che nell’acquisizione del linguaggio si tratta proprio di apprendere quali etichette, diverse da lingua a lingua, si usino per concetti preesistenti, organizzati secondo strutture che sono una comune proprietà umana (si veda il capitolo di Berruto in questo volume). Consideriamo, per esempio, persuadere e costringere. In Anna ha persuaso Mario a partire e Anna ha costretto Mario a partire, il comportamento di Mario (cioè il fatto che egli parta) può essere uguale nei due casi, ma solo se Mario è stato persuaso (e non in quello in cui sia stato costretto) noi attribuiamo la sua azione a un fattore di scelta, di intenzionalità, di volizione (si noti che i due esempi ci parlano, in superficie, di ciò che ha fatto Anna, non di ciò che ha pensato Mario). La stessa differenza nella struttura logica dei due predicati, che richiede una elaborata e complessa teoria della mente, si ritrova in altre coppie di verbi, che non sembrano aver niente in comune con questa, come seguire (nel senso di trovarsi dietro a qualcuno) e inseguire (nel senso di tener dietro a qualcuno). E le stesse configurazioni semantiche si ritrovano in lingue diverse, per esempio nell’inglese to persuade vs. to compel (persuadere vs. costringere), to follow vs. to chase (seguire vs. inseguire).

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Una stessa differenza di configurazione semantica si può manifestare in una diversità fra due unità lessicali in una lingua, e fra due costrutti sintattici in un’altra. Osserviamo, per esempio, il funzionamento di provare a e cercare di in italiano. Si «prova a» fare qualcosa per vedere che cosa succede, per controllare l’esito dell’azione, dunque a scopo euristico, conoscitivo; quando invece si «cerca di» fare qualcosa, il proposito è di superare le difficoltà che ostacolano il compimento dell’azione, e lo scopo è dunque esecutivo, operativo. In entrambi i casi il verbo corrispondente in inglese è to try. A prima vista questo sembrerebbe contraddire la tesi universalistica: abbiamo una sottile e complessa distinzione nel lessico italiano che sembra non essere disponibile in quello inglese. I vocabolari bilingui non sono di grande aiuto su questo punto. Ma basta osservare l’uso reale per vedere che la stessa differenza che distingue i due verbi italiani si manifesta in inglese attraverso due costrutti diversi: «provare a fare» corrisponde a to try doing e «cercare di fare» a to try to do. Per esempio,

8. Senso e voler dire

(1) (2)

Prova ad aprire la finestra (try opening the window) per vedere se si respira meglio Cerca di aprire la finestra (try to open the window), per me è troppo dura

È anche interessante osservare che questa distinzione non si presenta esplicitamente alla coscienza dei parlanti, ma viene spontaneamente praticata, senza esitazioni, nello stabilire una corrispondenza fra italiano ed inglese, da chi conosce entrambe le lingue, anche nei casi in cui le due espressioni potrebbero sembrare intercambiabili, come i seguenti: (3) (4)

Cerca di aprire la finestra (try to open the window): io ho provato ad aprirla (I tried opening it) ma non ci sono riuscito Prova ad aprire la finestra (try opening the window): io ho cercato di aprirla (I tried to open it) ma non ci sono riuscito

Sia in (3) sia in (4) «cercare di aprire» (to try to open) conserva il suo valore esecutivo piuttosto che conoscitivo, cercare di fare invece che cercare di sapere; e così «provare ad aprire» (to try opening) conserva il suo valore conoscitivo, ma quello che si vuole appurare in (4) è se si è in grado di aprire la finestra, mentre in (1) lo scopo era di verificare se si poteva cambiare aria.

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Si è osservato sopra (§ 5) che non conviene, e forse non è possibile, distinguere nettamente fra il linguaggio comune (con il suo ricco equipaggiamento di termini e nozioni che interessano il significato, i fattori semantici e in genere le attività della mente) e il linguaggio tecnico con cui logici e linguisti hanno cercato di metter ordine in questo campo. Non conviene, proprio perché le indagini di logici e linguisti non possono vertere su dati che, pur restando sempre linguistici, si prestino ad essere trattati come una realtà esterna. Invece, molte delle ricerche più interessanti consistono proprio di analisi del modo in cui normalmente parliamo di che cosa voglia dire quel che diciamo. Soffermandoci su alcune delle lingue europee, nelle quali è documentata una lunga tradizione di riflessioni su questi temi, troviamo una terminologia assai ricca. A parte il problematico signifié, a cui si è accennato, troviamo in francese signification, in inglese signification, in italiano significazione, che spesso trasmettono il valore generico della significatività, dell’interesse di quel che vien detto. Il francese sens, l’inglese sense, l’italiano senso, il tedesco Sinn, rendono l’idea del contenuto mentale, del valore intellettuale, e anche della sensatezza di quel che si dice. L’italiano voler dire e il francese vouloir dire suggeriscono un elemento intenzionale, quasi una volontà di comunicare, ma sono in realtà ambigui, in quanto possono avere come soggetto non soltanto un locutore che vuol dire qualcosa (vuole esprimere il suo pensiero), ma anche un’espressione linguistica (una parola, o una frase che «vuol dire» qualcosa, che può essere la resa in un’altra lingua, o un’espressione equivalente nella stessa lingua, o una descrizione dell’oggetto di cui si parla). Del resto, non è ovvio se una domanda come «che cosa vuol dire questo discorso?» richieda come risposta una parafrasi, un chiarimento, o invece una rassicurazione riguardo alla buona fede, alle intenzioni e ai fini dell’interlocutore («che cosa c’è dietro? Ho capito benissimo le parole che hai detto, ma mi chiedo che cosa tu abbia in mente, che scopo tu ti proponga facendo questo discorso»). Voler dire non ha in italiano un sostantivo che equivalga al verbo. All’inglese to mean, che ha entrambi i valori di voler dire in italiano, si affianca invece il sostantivo meaning. Grice (1968) ha dedicato un saggio penetrante alla distinzione fra un uso che egli chiama naturale (word’s meaning) di to mean, relativo a espressioni linguistiche, che vengono menzionate piuttosto che usate: una parola, o una frase «vuol dire qualcosa»; e un uso non naturale (utterer’s meaning), rela-

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tivo al locutore che «vuol dire qualcosa». Si noti la presenza del corsivo nel primo caso, in cui ciò che una parola vuol dire è un’altra parola, in corsivo, e la sua assenza nel secondo, in cui ciò che il parlante vuol dire (ciò che intende, a cui si riferisce) è invece una cosa, un evento esterno designato da una parola che in questo caso viene usata, non menzionata, e compare perciò senza virgolette. Per esempio, (a) «kelev vuol dire cane» e (b) «quando Mario parla del suo migliore amico vuol dire il suo cane» (si noti anche che, di solito, l’articolo si omette per il word’s meaning e si introduce per l’utterer’s meaning). Come si è accennato sopra, è lecito chiedersi se (e fino a che punto) queste distinzioni riguardino la semantica, cioè aspetti diversi della nozione di significato nel linguaggio umano, o se invece interessino la struttura lessicale di singole lingue, nel nostro caso l’uso di meaning in inglese e di voler dire in italiano. Come si vede, in certi casi il ragionamento di Grice si prestava ad essere reso in italiano, in altri richiedeva la menzione delle espressioni inglesi da lui usate. 9. Implicazioni e implicature Grice distingue, all’interno del valore complessivo di un’epressione, per il quale usa il termine signification (a cui potremmo far corrispondere significazione), ciò che il parlante ha detto esplicitamente da ciò che ha fatto capire, lasciato intendere o suggerito. Per quest’ultima nozione egli ricorre al verbo inglese to implicate (a volte reso in italiano con implicare, nel senso di ‘comunicare in maniera indiretta’)5 e al sostantivo neologistico implicature (in italiano implicatura), che ha avuto grande fortuna nel dibattito, fittamente frequentato negli ultimi decenni, nell’ambito della linguistica pragmatica, e che ha coinvolto molti aspetti della semantica e della logica. Grice distingue fra implicatura convenzionale, che riguarda i valori codificati nel sistema linguistico, e implicatura conversazionale, relativa al contesto sociale e culturale degli enunciati, che rende particolarmente problematico specificare esattamente la loro interpretazione. Questo aveva indotto già la linguistica strutturale bloomfieldiana, fin dal suo periodo più scientistico, verso la metà del Novecento, a diffidare della possibilità di elaborare una semantica «scientifica». La frase ho fame sem5 Anche qui la terminologia non è ovvia. In inglese i logici distinguono fra «imply», «entail» e «implicate». La distinzione fra implicazione materiale e implicazione formale o stretta (entailment) è stata chiarita da B. Russell e C.I. Lewis nel primo Novecento. Per l’aspetto semantico cfr. Lyons (1995).

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brerebbe avere un suo significato chiaro ed inequivoco. Ma Bloomfield osserva che quando essa viene pronunciata da un bambino che ha appena mangiato, la madre la interpreta come se volesse dire, poniamo, ‘non voglio ancora andare a letto, voglio restare alzato in compagnia dei grandi’, e offre, giustamente, una risposta appropriata a questo senso, che è quello corretto, ricavabile più dalla situazione contestuale che dal significato letterale delle parole usate. 10. Senso e significato Il filosofo e logico tedesco Gottlob Frege elaborò in un celebre articolo del 1892 la distinzione fra Sinn e Bedeutung, che in italiano sono stati resi con senso e significato (Frege 1965), o senso e denotazione (Bonomi 1973), e in inglese con sense e reference (oltre che meaning e altri termini, al posto di reference; cfr. Swiggers 1984, pp. 51-52; Beaney 1997, pp. 36-46) (si veda il capitolo in questo volume). La parola Bedeutung si è rivelata particolarmente problematica. Gusmani (2001) ricorda che Frege aveva suggerito, in una lettera a Peano, di renderla in italiano col tecnicismo significazione, e osserva che la resa denotazione appare preferibile a significato perché quest’ultimo non si presta alle glosse che Frege stesso offre del termine Bedeutung, parafrasandolo con «das Bezeichnete» (‘l’oggetto’), «der Gegenstand» (‘il denotato’). Il senso è relativo all’intensione di un termine, cioè al suo valore concettuale, all’insieme dei tratti che ne determinano l’applicabilità. La denotazione o riferimento, invece, è relativa all’estensione, cioè agli enti a cui il termine può essere applicato (si veda il capitolo di Berruto in questo volume). Alcuni studiosi considerano sia estensione sia intensione come aspetti della denotazione. Ma la differenza di fondo è chiara: il senso è una nozione interna al linguaggio e dipende dal rapporto fra i vari termini della lingua, la denotazione riguarda il rapporto fra linguaggio e realtà extralinguistica. Va inoltre osservato che denotazione e riferimento vengono a volte distinti (Lyons 1995), in quanto il rapporto di denotazione, fra cane e la classe dei cani, è di natura diversa da quello di riferimento, fra Fido e un cane particolare. La denotazione può essere considerata indipendente dalla situazione enunciativa, il riferimento no. 11. Semantica e semiotica Ci sono anche altri termini/nozioni che è opportuno ricordare, per i loro rapporti di parentela, etimologica e culturale, con semantica e

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significato. Un gruppo è costituito da semiotica e semiologia. Nell’uso italiano colto, ampiamente diffuso tra filosofi e letterati, i due termini valgono generalmente come sinonimi e la loro differenza rivela, piuttosto che scelte concettuali, preferenze di gusto e di adesione a tradizioni culturali distinte: quella francese nel caso di semiologia (sémiologie) e quella anglo-americana nel caso di semiotica (semiotic o semiotics)6. La fortuna del termine ha infatti radici diverse, una francese e una americana. Da una lato Saussure auspicò una scienza generale dei segni, da chiamarsi semiologia, di cui la linguistica era considerata una parte, anche se preponderante. Paradossalmente, quando la semiologia divenne di moda, in Francia negli anni Sessanta, soprattutto ad opera di Barthes, essa si trovò ad essere presentata come una parte della linguistica (piuttosto che viceversa, secondo il progetto di Saussure) e a modellarsi su di essa. Quando Barthes (1967) pubblicò il suo Sistema della moda i lettori si trovarono davanti non già l’analisi di quelle configurazioni di oggetti, manufatti, immagini che la società fa rientrare nella categoria della moda, ma bensì la descrizione e l’interpretazione delle parole con cui si parla di tali oggetti e categorie. Molto più elaborata di quella di Saussure, rimasta allo stato di progetto e di esigenza programmatica, è la semiotica di Peirce, autore di numerose importanti proposte terminologiche e concettuali per la classificazione dei segni. La versione più semplice e diffusa presenta una classificazione dei segni in simboli, icone ed indici. I simboli sono tipicamente i segni arbitrari, cioè le parole del linguaggio, quelle che variano da lingua a lingua e per le quali non c’è un nesso che consenta, se si conosce il significato ma non il significante, o viceversa, di dedurre l’uno dall’altro. Questo uso di simbolo corrisponde a quello che compare nella logica detta appunto simbolica, e quando si parla dei simboli dell’algebra o della matematica; si noti che il termine può anche avere un valore opposto, e che Saussure chiamava simbolici i segni non arbitrari per cui, poniamo, l’immagine della bilancia rappresenta la giustizia, ne è, in questo senso, appunto il simbolo. 6 Il termine «semiology», nella forma latina resa impropriamente con ae invece di ei («semaeologia») compare in Wilkins (1694, p. 14 e pp. 111-118), per indicare il terzo tipo di linguaggio segreto, oltre a quello parlato (cryptologia) e a quello scritto (cryptographia), quello «by signes or gestures».

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Le icone sono segni il cui significante ha qualcosa in comune col significato, ed è quindi possibile, se non propriamente dedurre l’uno dall’altro, stabilire un rapporto che consente di collegare in maniera ragionevole l’uno all’altro. Un disegno ha un rapporto iconico con l’oggetto rappresentato: ne esibisce in maniera riconoscibile il profilo, pur modificando ed eliminando altri tratti sensibili che possono essere essenziali dell’oggetto, come il peso, colore, odore, movimento, ecc. I segni linguistici, le parole, possono avere degli aspetti iconici, per i quali si parla tradizionalmente di onomatopea: si pensi a parole che si riferiscono ad animali e sembrano imitare il loro verso, come (nelle voci originarie da cui derivano quelle italiane) barrire, muggire, frinire, ecc., o ai nomi stessi che designano versi di animali, anche in lingue diverse, come chicchirichì, cocorico in francese, cock-a-doodle-doo in inglese, ecc. Di solito, il termine onomatopeico si riferisce all’aspetto uditivo, al rumore prodotto da un essere animato o da un fenomeno naturale, o anche ad altri aspetti, non necessariamente acustici, che possano, sinesteticamente, aver contribuito a determinare il suono di una parola (si preferisce, in tal caso, parlare di formazioni espressive piuttosto che onomatopeiche). In questo campo si incontrano spesso opinioni dilettantesche e inattendibili, che presuppongono un rapporto diretto, di tipo naturale e non arbitrario, fra la parola e la cosa. Ma si trovano anche studi più sobri e meglio fondati, come quelli per esempio di Jespersen (1922), che segnalano il valore espressivo per cui in molte lingue del mondo vocali chiuse, come [i], compaiono in parole che significano piccolezza, e vocali aperte, come [a], in parole che indicano larghezza (italiano piccolo vs. grande, inglese little vs. large; ma ci sono anche esempi di tipo opposto, come big e small); e, per esempio, in inglese parole che contengono suoni come [fl] e [sl] tendono ad avere valori semantici associati a movimenti come scivolare, strisciare, ecc. Negli ultimi decenni si sono dedicate molte ricerche agli aspetti iconici anche nella grammatica e nella sintassi. Si possono del resto osservare in qualsiasi lingua caratteristiche che sembrano universali, per cui espressioni che designano la lentezza o la rapidità di un’azione, il volume alto o basso di un suono, vengono pronunciate, appropriatamente, in maniera lenta o rapida, alta o bassa, come possiamo indicare ricorrendo a convenzioni grafiche, a loro volta di tipo iconico: «era l e n t o, l e n t o, l e n t o», o «ha gridato a gran voce: INSOMMA, BASTA!». Gli indici, infine (segni indessicali, dall’inglese indexical, o indicali), sono legati a ciò che significano da rapporti di causa ed effetto, o di conseguenza naturale: il fumo è segno di fuoco, i capelli bian-

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chi sono segno di vecchiaia, la febbre è segno di malattia, certe nuvole sono segno di pioggia (cielo a pecorelle, acqua a catinelle), ecc. Lo studio di questi indici è centrale per lo sviluppo delle scienze, attraverso l’osservazione e l’interpretazione dei fenomeni naturali, e in particolare lo studio dei sintomi delle malattie costituisce l’oggetto della semeiotica medica7. Si veda un suggestivo saggio di Carlo Ginzburg (1979) sullo studio di segni, sintomi e tracce, e, per una trattazione complessiva della semiotica, il trattato di Eco (1975). Quanto alla differenza fra semantica e semiotica, mi limiterò ad osservare che, nell’uso prevalente, la semantica si riferisce allo studio del significato nel linguaggio, ed è dunque parte della linguistica. Ma in un saggio di Benveniste (1974) si è formulata la proposta, a mio parere poco felice, sebbene abbia ottenuto largo credito in Francia, di usare semiotica per parlare della significazione dei segni, in senso paradigmatico, all’interno della lingua concepita come sistema, e semantica per occuparsi del senso dei segni, realizzati in un contesto sintagmatico, nel discorso, a fini comunicativi, uscendo dal linguaggio, e tenendo conto del rapporto fra segno e oggetto denotato, fra parole e cose, oltre che dell’intenzione comunicativa del parlante nel suo interagire con l’ascoltatore e con l’ambiente. Un’ultima osservazione di carattere terminologico riguarda due termini che hanno avuto una certa diffusione anche fra gli studiosi di grammatica comparativa, semasiologia e onomasiologia. Il primo termine, che risale a quanto pare a Reisig (1839, p. 286; ma il termine era stato usato nelle lezioni di Reisig, morto nel 1829), viene usato per lo studio del significato delle parole; il secondo, che risale all’inizio del Novecento, indica lo studio dei nomi che designano certe nozioni. Esso è stato introdotto da Zauner (1902), che lo preferisce alla designazione di lessicologia comparativa (vergleichende Lexikologie) proposta da Tappolet nel 1895, per il suo più esatto parallelismo con semasiologia, come indica nel suo saggio dedicato ai nomi romanzi delle parti del corpo8. 7 Il termine viene dal greco «semeiotike», da «semeîon», «segno», e compare in Locke (1690, IV, 20, p. 361) nella forma «Semeiotike or the Doctrine of Signs». 8 Cito le parole di Zauner nella traduzione di Clemente Merlo (1904, pp. 7-8) che a quanto pare ha introdotto il termine in italiano: «Vi son due branche nella dottrina delle lingue che si compiono a vicenda: l’una muove dall’esteriore, dalla parola, e si chiede quale concetto le vada strettamente unito, quale significato [Bedeutung] essa abbia, epperò semasiologia (shmasía ‘significazione’ [Bedeutung]); l’altra prende le mosse dal concetto e determina quale denominazione [Bezeichnung, Benennung] gli risponda nella lingua (‘denominazione’ [Benennung] o¬nomasía), quindi onomasiologia: così si avrebbe, parmi, una vera corrispondenza nel nome».

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All’accoppiamento di semasiologia e onomasiologia si richiama il titolo della celebre rivista «Wörter und Sachen» (1909), dedicata da Meringer allo studio congiunto delle parole e delle cose da esse designate. Questo è, del resto, il periodo degli atlanti linguistici, che possono emblematicamente recare questa accoppiata addirittura nel titolo, come nel caso del grande atlante linguistico italo-svizzero di Jaberg e Jud (1928-1940), lo Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz. 12. Significato delle parole e delle frasi Molte delle considerazioni fatte nelle sezioni precedenti si riferiscono al significato come aspetto del linguaggio. Non tanto al significato «del» linguaggio – cioè al suo valore e alla sua funzione nella vita degli esseri umani e della società – quanto al posto occupato dalla semantica «nel» linguaggio. Si tratta, dunque, della questione – che troviamo fin dall’inizio della storia della filosofia, ma che emerge esplicitamente con Saussure e con la linguistica moderna – dell’importanza del significato nella riflessione dei linguisti: se vi sia, cioè, un livello del contenuto, le cui caratteristiche vanno studiate separatamente da quelle dell’espressione, o se queste ultime siano le uniche che possiamo indagare in maniera scientifica. Occorre decidere se il linguaggio è un sistema di espressioni, che usiamo per capire e interpretare il mondo, e il cui valore semantico consiste appunto nel modo in cui le usiamo, e nel rapporto che si stabilisce fra tali espressioni e gli oggetti su cui vertono; o se esista, invece, necessariamente collegato alle espressioni, ma in linea di principio da esse indipendente, un sistema di significati, di contenuti mentali, che appartiene al linguaggio e di cui ci serviamo per riferirci al mondo ed interpretarlo; un sistema che può, e forse deve, essere studiato di per sé, come qualcosa di distinto sia dal mondo esterno, sia dal sistema delle espressioni che costituiscono il tramite indispensabile, ma estrinseco, che collega il mondo mentale dei significati alla realtà esterna a cui i segni, grazie alla loro natura dicotomica, si riferiscono. Quale che sia la soluzione a questo dilemma, si sarà notato che coloro che partecipano a queste discussioni parlano a volte del significato delle parole e a volte del significato delle frasi. La distinzione è per certi aspetti apparente e superficiale: le frasi consistono di parole, e si trova spesso citato un principio di composizionalità (chiamato anche «principio di Frege»), secondo il quale il significato di un’espressione è una funzione del significato delle sue parti e del modo in

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cui esse sono collegate. Per altri aspetti la distinzione tocca questioni che sembrano essere più cruciali. Ci sono aspetti della semantica, soprattutto dal punto di vista della linguistica storica e comparativa, che paiono concentrarsi sullo studio delle parole; mentre nella prospettiva dei logici e dei filosofi, piuttosto che dei glottologi, le questioni semantiche fondamentali riguardano le frasi. Questo si spiega in quanto le indagini etimologiche si sono sempre concentrate su come si costituisce e si trasforma l’aspetto esterno, fonetico, e quello interno, semantico, delle singole parole; e, in generale, se uno si interessa al significato di un elemento linguistico, questo è tipicamente la parola, piuttosto che un segmento più piccolo (poniamo il morfema, per cui la parola cane è analizzabile in due parti, un tema can-, che significa ‘cane’, e una desinenza -e, che significa ‘maschile’ e ‘singolare’; si veda il capitolo di Thornton in questo volume) o una struttura più estesa (poniamo un sintagma, come can che abbaia non morde, il cui significato, ai suoi vari livelli, richiederebbe per essere spiegato un’analisi abbastanza elaborata). 13. Significato e verità Per i logici, lo studio della semantica si associa a quello del contenuto proposizionale di una frase e al suo valore di verità. Le nozioni di significato e di verità vengono usualmente collegate nella tradizione filosofica, in quanto entrambe coinvolgono il rapporto fra linguaggio e realtà. Qui conviene aggiungere che la terminologia corrente non è univoca. Di solito, in italiano si parla di frasi, in senso generico, di periodi, come unità sintattiche che possono essere semplici o complesse, a seconda che constino di una o più proposizioni, e di enunciati (in corrispondenza all’inglese utterance), come strutture che appartengono piuttosto al discorso, e possono riflettere la variabilità e l’irregolarità del parlato, consistendo di un frammento di frase, o di varie frasi, secondo come si svolge la conversazione e si articolano le battute di vari interlocutori. La terminologia inglese sembra essere più uniforme e standardizzata, distinguendo sentence, per l’unità sintattica completa, clause, per la proposizione dotata di un suo verbo, o predicato, e phrase (in italiano sintagma o nesso, gruppo, e non frase), per una struttura minore costituita da parole grammaticalmente collegate (si veda il capitolo di Rizzi in questo volume). Si dirà quindi che in the man kicked the ball, the man è un sintagma nominale, e kicked the ball è un sintagma verbale, che a sua volta contiene il verbo kicked e il sintagma nominale the ball.

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I logici preferiscono usare il termine enunciato in un senso diverso, come espressione di un giudizio, cioè di una proposizione che può essere vera o falsa. (Queste nozioni risalgono ad Aristotele e agli stoici, che parlano, a questo proposito, di lógos apophantikós.) Descrivere il significato di una frase vorrebbe allora dire indicare le condizioni che la rendono vera o falsa a seconda delle circostanze, cioè in un dato «mondo possibile», per usare una nozione che risale a Leibniz. Come, di fatto, si possano definire esattamente le condizioni che consentono di stabilire la verità di un’affermazione quale, poniamo, «la neve è bianca» (in generale, o specificamente, «questa distesa di neve è bianca»), è molto più problematico di quanto sembri. Partendo dalla concezione semantica della verità proposta dal logico polacco Tarski, è stata formulata l’ipotesi della de-citazione. Consideriamo la frase «‘la neve è bianca’ è vera se e solo se la neve è bianca». Nella parte sinistra della frase, fra virgolette alte, un’espressione viene «citata», e nella parte destra essa viene «usata». Considerare vera tale espressione consiste semplicemente nel togliere le virgolette, nel «de-citarla». La nozione di verità viene in qualche modo a scomparire. Dichiarare che la frase «la neve è bianca» è vera non vuol dire attribuire a tale frase una determinata proprietà, ma semplicemente «affermare» che la neve è bianca. Come dice Rorty, affermare che una frase è vera è un modo di «renderle omaggio», ed è ciò che normalmente si fa di fronte ad affermazioni che, per complessi motivi di ordine culturale e sociale, ci si trova a condividere. Da una concezione logicistica si arriva a una visione più storica e pragmatica della verità. Questo stesso percorso è stato compiuto parallelamente dalle indagini sul significato. I neopositivisti sostenevano che il significato delle frasi dipende dalla loro verificabilità. A parte le proposizioni analitiche a priori della logica e della matematica, le proposizioni sintetiche delle scienze devono essere verificabili ricorrendo ai fatti del mondo fisico. Ogni altra proposizione che non sia verificabile è letteralmente priva di significato, come la maggior parte di quelle che si usano nella vita quotidiana, nella letteratura, nelle varie aree della filosofia tradizionale. Ovviamente, queste affermazioni si sono rivelate inaccettabili, oltre che, come è evidente, non verificabili, e perciò tali che dovrebbero, paradossalmente, essere considerate esse stesse prive di significato da coloro stessi che le sostengono. Davidson (1984), ricorrendo alle teorie di Tarski, si serve del concetto di verità per chiarire quello di significato. Ma il concetto di verità vie-

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ne assunto come una nozione pre-teorica: occorre fondarsi su certi atteggiamenti generali in base ai quali si accetta una frase come vera. Il fatto che una frase sia vera richiede che essa sia ritenuta tale dai parlanti. Come la nozione di verità, anche quella di significato finisce col dipendere dalle pratiche interpretative che predominano in una certa società e in una certa cultura. Mi pare importante, alla fine di questo capitolo, sottolineare un aspetto sul quale continua a concentrarsi l’attenzione di molti studiosi, i quali vedono nella semantica un punto di incontro fra logica e linguistica. La feconda collaborazione fra le due discipline va da Aristotele fino al Settecento, passando per gli stoici, i modisti, PortRoyal e Leibniz. Successivamente, la linguistica si è sviluppata soprattutto in direzione storico-filologica e comparativa (da Bopp a Schleicher e ai neogrammatici), e la logica in quella matematica e formale (si pensi a Peano, Frege, Russell), che sembrava poco adatta all’analisi della sfuggente e confusa fenomenologia delle lingue naturali. Ma un grande logico quale Reichenbach, nel suo manuale di logica simbolica del 1947, inseriva uno stimolante capitolo sul linguaggio quotidiano e offriva, come esempio, un’analisi del sistema temporale nelle lingue naturali dalla quale, ancora oggi, sarebbe difficile prescindere. Uno degli ispiratori della semantica moderna è Montague, secondo il quale non ci sono differenze teoriche importanti fra i linguaggi naturali e quelli artificiali creati dai logici, ed entrambi sono analizzabili entro una stessa teoria matematicamente precisa. Non è ovviamente possibile affrontare qui questioni che richiedono un esame tecnico; mi limiterò a notare come di recente la semantica sia venuta occupando, negli studi linguistici, un’area la cui importanza avrebbe stupito gli studiosi formatisi prima dell’ultimo trentennio del secolo scorso.

10.

Semantica: i processi* di Patrizia Tabossi

1. Introduzione Un principio accettato dalla maggior parte di coloro che studiano il linguaggio è il principio di composizionalità, la cui formulazione può essere fatta risalire a uno dei padri della logica moderna, il filosofo tedesco Gottlob Frege. Frege (1892) introdusse un’importante distinzione fra il significato di un’espressione linguistica e il suo riferimento. Negli studi di semantica formale la stessa distinzione si trova espressa mediante i concetti di intensione ed estensione (si vedano i capitoli di Berruto e Lepschy in questo volume). Mentre il riferimento o estensione di un’espressione indica ciò che l’espressione denota nel mondo, il significato o intensione fa riferimento al modo in cui l’espressione denota ciò a cui si riferisce. Il classico esempio utilizzato da Frege riguarda il pianeta Venere, chiamato tanto stella del mattino quanto stella della sera. Le due espressioni hanno evidentemente intensioni o significati diversi, pur riferendosi entrambe al medesimo corpo celeste. Data questa distinzione, il principio di composizionalità assume che l’intensione di un enunciato dichiarativo, la cui estensione per Frege è il suo valore di verità, può essere costruita composizionalmente a partire dalle intensioni dei suoi costituenti, cioè dalle condizioni che devono realizzarsi perché l’enunciato sia vero, in un modo che dipende interamente dalle relazioni grammaticali esistenti fra le intensioni (Chierchia 1997). Dal punto di vista dei processi psicologici coinvolti nella comprensione del linguaggio, l’assunzione di composizionalità equivale a dire che capire una frase consiste nel combinare i significati delle * Questo lavoro è stato condotto con i finanziamenti HFSP, Grant 140/2000-B.

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parole che la compongono secondo le relazioni grammaticali che intercorrono fra queste parole. Così, sulla base della conoscenza di un numero limitato di parole e di regole, che costituiscono rispettivamente il lessico e la grammatica della sua lingua, una persona può capire il significato di qualunque nuova espressione. Un parlante dell’italiano che conosce la grammatica e i significati delle parole il, cane, contenitore e rovesciare, ad esempio, può comporre questi significati e capire la frase «il cane rovescia il contenitore». La composizionalità è certamente alla base della cosiddetta creatività del linguaggio umano, cioè della capacità delle persone di capire e produrre un numero illimitato di frasi nuove. Ma, per quanto importante, in molte occasioni questo meccanismo non è sufficiente a garantire ad un ascoltatore l’adeguata comprensione di un’espressione complessa. Il caso più evidente è quello delle espressioni idiomatiche, caratterizzate dal fatto che il loro significato non è funzione diretta del significato delle loro parti. Le espressioni idiomatiche costituiscono una classe molto eterogenea: sebbene molte siano espressioni verbali, come restare di sale, questa non è certamente una caratteristica necessaria (ad esempio, per lo più). Mentre alcune espressioni idiomatiche hanno sia un’interpretazione letterale sia un’interpretazione figurata (ad esempio, alzare il gomito), per altre l’interpretazione letterale è impossibile o fortemente implausibile (ad esempio, essere al settimo cielo). Ancora, mentre alcune espressioni idiomatiche hanno una forte connotazione metaforica (ad esempio, cadere dalla padella alla brace, mangiare la polvere), in altre questo aspetto è molto marginale o assente (ad esempio, andare via). Ciò che tiene assieme queste espressioni è il fatto che il loro significato non è derivabile, o almeno non completamente, usando il meccanismo composizionale, vuoi perché la composizione delle parole che le compongono non è grammaticale (ad esempio, per lo più), vuoi perché il significato derivato attraverso le regole grammaticali è altro dal significato figurato della stringa (ad esempio, mangiare la polvere) (si veda il capitolo di Berruto in questo volume; Tabossi 2003). Un caso forse meno eclatante ma non meno interessante è offerto dalle espressioni metaforiche. Molte persone potrebbero sottoscrivere l’affermazione «Questo lavoro è un inferno» e considerarla vera in riferimento alle proprie situazioni lavorative. Ciononostante, dal punto di vista di una semantica dei valori di verità à la Frege, l’enunciato «Questo lavoro è un inferno» è evidentemente falso. L’apparente contraddizione si risolve se si considera che ciò che è vero

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dell’enunciato non è il significato letterale, bensì il significato metaforico, in cui inferno viene interpretato come ‘luogo estremamente spiacevole’, e il lavoro come un luogo che condivide quelle caratteristiche di spiacevolezza. A differenza del significato delle espressioni idiomatiche, il significato delle metafore è derivato composizionalmente, ma la corretta comprensione di queste espressioni richiede qualcosa di più o di diverso della semplice combinazione sintattica dei significati delle parole che le compongono: occorre che queste parole vengano appropriatamente interpretate (Glucksberg 2001). Espressioni idiomatiche e metafore sono forme linguistiche molto diffuse, al punto che esiste un’autorevole corrente di pensiero che nega la realtà psicologica della distinzione fra linguaggio letterale e linguaggio figurato (Gibbs 1984). L’ampia diffusione e l’evidente semplicità con cui i parlanti di una lingua sono in grado di produrre e capire il linguaggio figurato non sono che due degli elementi che rendono indispensabile ipotizzare meccanismi di interpretazione del linguaggio. Infatti, uno dei punti fermi stabiliti dalla psicolinguistica cognitivista è che affinché un messaggio linguistico venga compreso è necessario che l’ascoltatore sia in grado di operare numerosi processi di interpretazione che vanno molto al di là del meccanismo di composizionalità illustrato sopra. Consideriamo il seguente esempio, tratto da un classico studio di Johnson, Bransford e Solomon (1973): (1)

John cercava di aggiustare la gabbia degli uccelli e stava battendo un chiodo

Con tutta evidenza, la comprensione di questa frase non coinvolge usi figurati del linguaggio, ma non si esaurisce neppure nella composizione dei significati delle parole che la compongono. Infatti, le persone che avevano letto la frase, intervistate successivamente, la confondevano con (2)

John stava usando un martello per aggiustare la gabbia degli uccelli

ritenendo quest’ultima frase identica alla precedente. In realtà, quello che era capitato era che sulla base del testo letto avevano conclu-

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so che lo strumento che John usava per battere il chiodo era un martello e avevano dimenticato che questo fatto non era esplicitamente menzionato nella frase iniziale. L’allora originale studio di Johnson et al. (1973) fu seguito da numerosi altri lavori e divenne presto chiaro che la comprensione, assieme a processi linguistici, richiede l’uso di meccanismi di inferenza che sulla base delle nostre conoscenze del mondo e delle informazioni linguistiche esplicite ci permettono sia di fare uso di informazioni non esplicitamente presenti nel messaggio, come nell’esempio, sia di precisare informazioni lessicalmente ambigue o generiche. Fin dal suo nascere, la psicolinguistica cognitivista ha dedicato molta attenzione allo studio dei meccanismi di interpretazione delle parole, mettendo in luce fenomeni fino a quel momento poco noti o trascurati. Nelle pagine seguenti prenderemo brevemente in esame i risultati più importanti conseguiti nel corso di questa ricerca. Considereremo, in particolare, i tre fenomeni che hanno maggiormente attratto l’interesse dei ricercatori, e cioè l’ambiguità lessicale, la flessibilità semantica e l’instanziazione di termini generici. Quindi, nelle conclusioni, discuteremo brevemente che cosa questi lavori, ormai classici, consegnano alla ricerca contemporanea e quali sono i temi che oggi, sulla scia delle conoscenze acquisite, si possono finalmente cominciare ad affrontare. 2. L’ambiguità lessicale L’ambiguità lessicale è il fenomeno per cui una stessa forma fonologica od ortografica (ad esempio, merlo) viene impiegata in una lingua per denotare entità distinte (‘un tipo di uccello’ e ‘una struttura architettonica’). In linea di principio occorrerebbe distinguere fra parole fonologicamente ambigue, nel qual caso si parla di omofonia, e parole ortograficamente ambigue, nel qual caso si parla di omografia. In lingue come l’inglese, omofonia e omografia sovente non coincidono. Ad esempio, /sUn/ è una forma omofona che significa ‘figlio’ oppure ‘sole’ a cui non corrisponde ambiguità ortografica (son vs. sun); al contrario, bass è un omografo che pronunciato /beıs/ significa ‘chitarra basso’ e pronunciato /bæs/ significa ‘spigola’. Ma in una lingua come l’italiano, in cui il rapporto fra fonologia e ortografia è trasparente, le parole omofone sono spesso anche omografe (si vedano i capitoli di Laudanna e di Peressotti e Job in questo volume). Per gli scopi di questo capitolo la distinzione fra omofonia e

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omografia non è rilevante, per cui la distinzione non sarà mantenuta e parleremo più genericamente di parole ambigue. L’ambiguità non è ristretta al lessico; si tratta di un fenomeno molto comune che si incontra a tutti i livelli ai quali si può analizzare una lingua. A livello percettivo, ad esempio, un frammento di linguaggio parlato come /visitedi/ è ambiguo, potendosi segmentare in «Visite di altri parenti», oppure in «Visi tediati e stanchi». Invece, un esempio di ambiguità morfologica è il verbo mangi, che può essere sia la seconda persona singolare dell’indicativo presente, quanto la prima, seconda e terza persona singolare del congiuntivo presente del verbo mangiare. A rendere le cose più complesse è il fatto che i diversi tipi di ambiguità possono co-occorrere come nel caso di porto, che ha due significati nominali (‘il ricovero delle navi’ e ‘il vino’) e un significato verbale, come nella frase «Ti porto il libro». Inoltre, in alcuni casi una situazione di ambiguità ad un livello trae origine da un’ambiguità ad un altro livello. In «la vecchia porta...», ad esempio, l’ambiguità di porta è all’origine dell’ambiguità strutturale della frase «la vecchia porta la sbarra». Infatti, nell’interpretazione di porta come nome, la frase si riferisce ad una vecchia porta che impedisce l’accesso presumibilmente ad una stanza, mentre nell’interpretazione verbale di porta la frase ci dice di un’anziana signora che sposta una sbarra. Per quanto riguarda l’ambiguità lessicale, è del tutto evidente che i parlanti di una lingua non fanno alcuna fatica a capire forme con più di un significato. Di norma, infatti, le parole non compaiono isolate, ma in contesti che ne rendono chiara l’interpretazione appropriata. Non c’è il minimo dubbio, dunque, che sia il contesto, in particolare il contesto linguistico, a fornire le informazioni necessarie per giungere alla corretta comprensione di una parola ambigua. Dal punto di vista teorico, la questione che ha ispirato il lavoro di molti ricercatori non è stata se il contesto avesse un ruolo importante nel chiarire il significato appropriato di una parola ambigua, bensì quando, durante il processo di comprensione, l’informazione di contesto venisse utilizzata e in che modo. Tre sono state le posizioni che per lungo tempo hanno catalizzato l’interesse dei ricercatori. La prima ipotesi, nota come modello esaustivo, sostiene che la comprensione di una parola ambigua avviene in due fasi. Durante la prima fase di accesso, tutte le informazioni relative ai significati della parola vengono momentaneamente attivati, indipendentemente dal contesto o da altri fattori. Durante la seconda fase, invece, ha luogo l’in-

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terpretazione. È a questo punto che i significati recuperati vengono confrontati col significato della frase in cui compare la parola ambigua e viene selezionato il significato contestualmente pertinente (Onifer e Swinney 1981; Swinney 1979; Seidenberg, Tanenhaus, Leiman e Bienkowski 1982). In relazione al dibattito sull’organizzazione funzionale del sistema cognitivo in generale e del sistema lessicale in particolare – dibattito che animava le discussioni degli scienziati cognitivi negli anni di maggior sviluppo degli studi sull’ambiguità – l’ipotesi esaustiva aveva un punto di vista rigidamente modulare: l’accesso iniziale al lessico non è sensibile a effetti di contesto (Fodor 1983; Forster 1979). Un’altra caratteristica di quest’ipotesi è di assumere che l’accesso sia insensibile anche ai cosiddetti effetti di dominanza. Con questo termine ci si riferisce al fatto che la maggior parte delle parole ambigue viene usata più comunemente in un’accezione (quella dominante, appunto) che nella o nelle altre (subordinate). La parola merlo, ad esempio, si incontra più frequentemente nel significato di ‘uccello’ che non nel significato di ‘struttura architettonica’; il significato zoologico è dunque quello dominante, mentre il significato architettonico è quello subordinato. Gli effetti di dominanza, che riguardano esclusivamente l’organizzazione interna del lessico, distinguono l’ipotesi esaustiva da un’altra famiglia di ipotesi, la cui prima formulazione è stata offerta da Hogaboam e Perfetti (1975). Secondo il modello di questi autori, detto a ricerca ordinata, i significati di una parola ambigua vengono recuperati sequenzialmente, indipendentemente dal contesto, a partire dal più frequente. Se il significato recuperato è congruente col contesto, la ricerca termina; se invece non è congruente, viene recuperato il secondo significato in ordine di frequenza. Se anche questo risulta non congruente col contesto, viene recuperato il terzo, e così via fino a che non viene recuperato un significato congruente. Un punto di vista analogo a quello di Hogaboam e Perfetti (1975) è stato sostenuto in anni più recenti anche da Rayner e colleghi, che hanno denominato la loro proposta integration model (Rayner e Frazier 1989). Anche questa famiglia di modelli, come il modello esaustivo, fa propria una visione modulare del lessico, secondo cui i meccanismi di accesso non possono essere influenzati da informazioni extra-lessicali, quali il significato di una frase. Ma, a differenza dell’ipotesi esaustiva, questi modelli ammettono che la frequenza relativa dei diversi significati di una parola ambigua imponga diffe-

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renze nell’accesso a questi significati, dando priorità al recupero dei significati più frequenti. La filosofia espressa dalla terza classe di modelli classici è nonmodulare e fa propria l’idea che i processi lessicali possano essere influenzati da informazioni extra-lessicali (Glucksberg, Kreuz e Rho 1986; Simpson e Krueger 1991; Swinney e Hakes 1976; Vu, Kellas e Paul 1998). Secondo questi modelli, detti ad accesso selettivo, in assenza di un contesto che dia indicazioni sull’interpretazione appropriata, viene recuperato prima il significato dominante della parola ambigua. Tuttavia, la presenza di chiare informazioni sul significato contestualmente appropriato di una parola ambigua può dare luogo all’accesso selettivo solo di quel significato, anche se si tratta del significato subordinato. Sul piano empirico, molte ricerche hanno mostrato l’alto grado di autonomia del processo di accesso lessicale, giustificando il forte credito di cui ha goduto per molto tempo, presso la maggior parte dei ricercatori, l’ipotesi dell’accesso esaustivo. D’altra parte, un numero sempre crescente di risultati ottenuti in laboratori diversi ha messo in luce come, per quanto fortemente autonomo, il processo di accesso non sia completamente cieco a informazioni extra-lessicali (Dopkins, Morris e Rayner 1992; Tabossi 1988b; Tabossi, Colombo e Job 1987). Considerati complessivamente, i risultati di questi lavori danno sostegno a modelli ibridi, secondo cui dominanza e contesto hanno entrambi un ruolo rilevante nel processo di risoluzione dell’ambiguità lessicale. Il significato dominante di una parola ambigua viene sempre attivato indipendentemente dal contesto; ma il contesto può influenzare il processo fin dai primi stadi dell’accesso lessicale, facendo sì che il significato subordinato possa o non essere attivato o non raggiungere mai un livello di attivazione capace di competere col significato dominante. Su posizioni di questo tipo, poco condivise per diversi anni, sta ora convergendo larga parte dei ricercatori, inclusi coloro che, inizialmente su posizioni strettamente modulari (Rayner e Frazier 1989), hanno successivamente abbracciato punti di vista più aderenti ai dati empirici (Dopkins et al. 1992). 3. La flessibilità semantica Il fenomeno della flessibilità semantica può facilmente essere illustrato per mezzo di un esempio. Considerate le frasi che seguono:

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(3)a L’uomo sollevò il pianoforte (3)b L’uomo accordò il pianoforte Barclay, Bransford, Franks, McCarrell e Nitch (1974) mostrarono che se ad una persona il cui compito è ricordare la frase (3)a viene dato un aiuto, l’aiuto è più efficace se è «qualcosa di pesante» piuttosto che «qualcosa di musicale», mentre succede il contrario se la persona deve ricordare la frase (3)b. Fra le informazioni che sono a disposizione di una persona che conosce il significato della parola pianoforte è sicuramente incluso il fatto che l’oggetto denotato da quel nome è uno strumento musicale ed è molto pesante. Le due proprietà, però, non sono egualmente rilevanti in (3)a e (3)b. Ciò che lo studio di Barclay et al. (1974) mette in luce è che il significato di una parola come pianoforte viene codificato in maniera diversa nei diversi contesti, viene cioè interpretato in maniera differente. Di qui la diversa efficacia dei due aiuti. L’espressione flessibilità semantica fu introdotta proprio da Barclay et al. per riferirsi all’uso selettivo di diversi aspetti del significato di una parola nel processo di comprensione di una frase. Il fenomeno fu inizialmente studiato da Barclay e colleghi sulla scia del principio della specificità della codifica, proposto da Tulving in relazione ai meccanismi di memoria (Tulving 1974), ed ebbe l’importante funzione di sottolineare la rilevanza dei meccanismi interpretativi coinvolti nella comprensione del linguaggio, secondo gli allora nuovi orientamenti teorici della neonata scienza cognitiva. A partire da quel lavoro, diversi altri studi sono stati condotti al fine di precisare i processi coinvolti nel fenomeno illustrato da Barclay e colleghi (Barsalou 1982; Tabossi 1982; Tabossi e Johnson-Laird 1980). In uno di questi studi, per esempio, i partecipanti rispondevano a una domanda su una proprietà di un oggetto o di una sostanza (ad esempio, Is fire hot? «Il fuoco è caldo?») dopo aver letto una frase che menzionava l’oggetto o sostanza e rendeva saliente una delle sue proprietà. I risultati mostrarono che le risposte erano più veloci quando la frase rendeva saliente la stessa proprietà della domanda piuttosto che una diversa proprietà (ad esempio, The fire protected the soldiers in the winter «Il fuoco proteggeva i soldati in inverno» vs. The fire dispelled the darkness in the night «Il fuoco fugava l’oscurità nella notte». Inoltre, non c’era differenza nell’efficacia della frase a seconda che contenesse o meno parole che individualmente richiama-

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vano alla mente la proprietà su cui verteva la domanda (ad esempio, The fire protected/warmed the soldiers in the winter «Il fuoco proteggeva/riscaldava i soldati in inverno»; Tabossi 1982). Non tutte le proprietà, tuttavia, sono ugualmente suscettibili di effetti di contesto. Proprietà che sono centrali nell’uso tipico di un oggetto vengono incluse nella rappresentazione di una frase che menziona l’oggetto, indipendentemente dall’enfasi della frase, mentre proprietà che sono periferiche tendono a venire rappresentate soltanto quando vengono rese salienti dalla frase (Greenspan 1986). I lavori considerati fino a qui sono coerenti con l’ipotesi che solo alcuni aspetti del significato di una parola vengono impiegati nella costruzione della rappresentazione mentale del significato della frase in cui compare la parola, e la selezione di questi aspetti è funzione, fra le altre cose, del contesto linguistico e della centralità delle proprietà del referente denotato dal nome. Essi, tuttavia, non esplorano la natura dei processi che danno luogo a questi fenomeni. Si può ipotizzare che la selezione delle proprietà contestualmente rilevanti sia il risultato di processi lessicali, che hanno luogo al momento del recupero dell’informazione semantica dal lessico mentale, o che invece sia il risultato di processi post-lessicali che avvengono in una fase successiva a quella dell’accesso. Il problema è analogo a quello che abbiamo considerato nel paragrafo precedente in relazione ai meccanismi di risoluzione dell’ambiguità lessicale, anche se ha ricevuto attenzione assai minore da parte dei ricercatori. Uno dei rari studi dedicati all’argomento è un vecchio lavoro di Potter e Faulconer (1979): i partecipanti ascoltavano frasi in cui il nome target (ad esempio, house) poteva essere preceduto o meno da un aggettivo (ad esempio, burning). Immediatamente dopo aver sentito il nome, i partecipanti vedevano un disegno che rappresentava o un tipico esemplare dell’oggetto denotato dal nome, ad esempio una tipica casa, oppure l’oggetto modificato in accordo con l’aggettivo, ad esempio una casa in fiamme, o un oggetto diverso, ad esempio una bandiera. Il loro compito era di premere un pulsante il più velocemente possibile ogniqualvolta il disegno corrispondeva alla parola target. I risultati mostrarono che i partecipanti erano più veloci quando la figura era modificata piuttosto che quando compariva in forma tipica. Consistenti con questi risultati sono quelli ottenuti da Tabossi (1988a) in uno studio in cui le persone ascoltavano una frase che finiva con un nome (ad esempio, lepre) e immediatamente dopo vedevano un target che denotava un aspetto del significato del nome (ad

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esempio, veloce). Il loro compito era di premere un pulsante il più velocemente possibile se il target era una parola dell’italiano. La frase poteva rendere saliente la proprietà denotata dal target (ad esempio, Il cane rincorse invano senza raggiungerla una lepre), oppure rendere saliente un’altra proprietà (ad esempio, Il ristorante offriva insieme ad altra cacciagione una lepre), oppure ancora non rendere saliente alcuna proprietà (ad esempio, Il documentario mostrava insieme ad altri animali una lepre). I risultati mostrarono che le risposte erano più veloci dopo la frase che rendeva saliente la proprietà denotata dal target, avevano un tempo intermedio dopo la frase neutra e avevano il tempo più lungo dopo la frase che rendeva saliente un’altra proprietà. Mentre questi lavori suggeriscono un effetto immediato del contesto sull’interpretazione di una parola, uno studio di Whitney, McKay, Kellas e Emerson (1985) sembra condurre a conclusioni diverse. In questo studio i partecipanti ascoltavano una frase che rendeva saliente una proprietà centrale o periferica del significato dell’ultima parola della frase (ad esempio, trout, trota), oppure era una frase di controllo, come nell’esempio che segue: (4) Proprietà centrale (‘ha squame’) Controllo

The boy skinned the trout/Il ragazzo spellò la trota The boy skinned his knees/Il ragazzo si sbucciò le ginocchia

Proprietà periferica The boy dropped the trout/Il ragazzo fece ca(‘è scivolosa’) dere la trota Controllo The boy dropped the milk/Il ragazzo fece cadere il latte Dopo 0, 300 o 600 millisecondi (ms.) dalla fine della frase, i partecipanti vedevano un target visivo che denotava la proprietà centrale o periferica del nome. Il target era scritto in inchiostro il cui colore doveva essere denominato dai partecipanti. I risultati mostrarono che a 0 ms. entrambe le frasi che rendevano salienti le proprietà del nome producevano interferenza su entrambi i target, mentre a 300 e 600 ms. la proprietà centrale continuava a produrre interferenza indipendentemente dal contesto da cui era preceduta, ma la proprietà periferica produceva interferenza solo dopo il contesto che la rendeva saliente.

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A prima vista, questi risultati sembrano far pensare a effetti tutti post-lessicali nel processo di interpretazione, ma occorre osservare che in diverse delle frasi impiegate nello studio il contesto precedente il nome (ad esempio, The man used the... «L’uomo usò il...») non dava alcuna indicazione utile circa la proprietà saliente del nome (ad esempio, legname), che diveniva evidente solo dopo il recupero del nome (ad esempio, oak «quercia»). In queste circostanze, non è sorprendente che effetti precoci di interpretazione non siano stati trovati. 4. L’instanziazione Se qualcuno ci dice di andare a prendere il contenitore in cui si trova la Coca Cola, con tutta probabilità andremo a cercare una bottiglia, oppure una lattina o una caraffa; ma se la stessa persona ci chiede di andare a prendere il contenitore in cui si trovano le mele, ciò che cercheremo sarà invece un cesto o qualcosa di simile. L’esempio è tratto da un noto studio di Anderson e Ortony (1975), i quali dimostrarono che se ai partecipanti veniva richiesto di ricordare frasi come (5)a Nel contenitore c’erano mele (5)b Nel contenitore c’era Coca Cola bottiglia aiutava maggiormente il ricordo di (5)a che di (5)b, mentre era vero il contrario per cesto. L’esempio illustra il fenomeno che con un brutto anglicismo si chiama instanziazione. In psicologia cognitiva con questo termine ci si riferisce generalmente al fatto che in diverse occasioni le persone operano processi di specificazione (Nosofsky 1991; Rips 2000). Wisniewski (1998), ad esempio, ha mostrato come il trasferimento di una proprietà da un concetto ad un altro abbia luogo non per semplice copiatura, ma attraverso un meccanismo di instanziazione che permette di aggiustare la proprietà alle caratteristiche del nuovo concetto. Così, la proprietà tipica delle zebre di essere a strisce, se si trasferisce a un cavallo-zebra viene instanziata in modo diverso da come viene instanziata nel caso di una vongola-zebra. Nell’ambito degli studi psicolinguistici sulla comprensione, il fenomeno dell’instanziazione è stato studiato tradizionalmente in re-

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lazione ai cosiddetti termini generici. Sebbene nozioni come generico, vago, indeterminato, sfocato (fuzzy) vengano impiegate con accezioni spesso diverse, dando luogo a non poca confusione, c’è un certo accordo fra i ricercatori nel ritenere che la nozione di genericità si riferisce al fatto che il significato di un’espressione non specifica certi dettagli (Zhang 1998): il significato di città, ad esempio, è generico, dal momento che non specifica se una città è grande o piccola, antica o moderna, ecc. Ovviamente, mentre praticamente tutte le espressioni lasciano qualcosa di non specificato, il loro grado di genericità può variare di molto. È del tutto intuitivo, ad esempio, che il significato di contenitore è più generico di quello di bottiglia o cesto. Ciò corrisponde al fatto che tra i concetti che hanno relazioni iponomiche, il sopraordinato è più generale del subordinato: pesce è più generico di squalo o triglia, cibo è più generico di carne o pesce, mobili è più generico di tavolo o comodino, utensile è più generico di martello o cacciavite, ecc. Usando relazioni di questo genere, fenomeni di instanziazione sono stati osservati non solo con nomi come contenitore (Anderson, Pichert, Goetz, Schallert, Stevens e Trollip 1976), ma anche con verbi. Cucinare è più generico di friggere, e una frase come «La massaia cucinava le patatine» suggerisce che la signora stesse friggendo le patatine. Ci si dovrebbe dunque aspettare che il ricordo della frase dovrebbe risultare più facilitato da un aiuto come friggeva che da un aiuto come cucinava. Questo è appunto ciò che ha ottenuto Garnham (1979), il quale ha anche fatto l’ipotesi che il fenomeno dell’instanziazione rifletta meccanismi relativi al modo in cui le persone codificano mentalmente il significato di una frase all’atto della comprensione, anziché processi che hanno luogo nel momento in cui si chiede ai partecipanti di ricordare il materiale precedentemente compreso. Quanto alla natura di questi processi, Anderson e colleghi ipotizzarono che l’instanziazione fosse il risultato di un processo di selezione. I termini generici, a parere di questi autori, sarebbero fortemente polisemici, avrebbero cioè un grande numero di significati diversi e il contesto permetterebbe di specificare quale di questi significati è di volta in volta rilevante (Anderson e McGaw 1973). Questa spiegazione, però, contrasta con l’intuizione che il significato di contenitore, ad esempio, non include ‘cesto’ e ‘bottiglia’. In altri termini, il fenomeno non sembra riguardare tanto la rappresentazione mentale del significato dei termini generici, quanto il modo

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in cui questo significato viene interpretato in contesto. In alternativa all’ipotesi della polisemia, Garnham (1979) ha proposto che ciò che accade durante la comprensione di una frase che include un termine generico è che chi legge, o ascolta, possa usare la propria conoscenza del mondo e, sulla base di questa, possa fare un’inferenza per cui se un contenitore contiene mele, questo contenitore è probabilmente un cesto. Secondo questa ipotesi, gli studi sull’instanziazione riflettono il fatto che le persone comunemente fanno inferenze relative al referente dei termini generici, senza che questi debbano essere considerati polisemici. 5. Conclusioni Ambiguità, flessibilità e instanziazione dei termini generali sono i fenomeni che hanno ricevuto maggior attenzione da parte degli psicolinguisti nell’ambito degli studi sugli effetti del contesto sull’interpretazione delle parole, ma non esauriscono la ricerca sul tema. Considerate, ad esempio, le espressioni seguenti: a) un grattacielo alto; b) un bambino alto. Esse hanno la medesima struttura sintattica e dunque il loro significato si ottiene attraverso l’applicazione delle medesime regole. Si potrebbe forse credere che l’aggettivo alto, che compare in entrambe le espressioni, apporti il medesimo contributo di significato in (a) e (b). Tuttavia, mentre in (a) alto si riferisce ad un’altezza la cui misura può essere indicata in termini di metri, in (b) si riferisce ad un’altezza dell’ordine di centimetri. Evidentemente, la corretta interpretazione delle due espressioni richiede più che la semplice composizione del significato di alto una volta con grattacielo e una volta con bambino. Infatti, a seconda del significato del nome con cui si combina è necessario che chi comprende l’espressione sia in grado di scegliere appropriatamente la classe di riferimento, ad esempio i bambini di sei anni o gli edifici, rispetto alla quale va compreso il significato di alto. Parole come alto oppure molto vengono considerate vaghe da molti autori, nel senso che hanno un unico significato, ma i confini di questo significato non sono precisi e cambiano nei diversi contesti (Chierchia 1997). Anche per queste parole, studi psicologici hanno mostrato effetti di interpretazione. Ad esempio, se si chiede ad una persona di giudicare se il rosso nella frase «La moto rosso fuoco correva lungo la strada» sia più, meno o altrettanto rosso del rosso nella frase «La pelle era rossa a causa del troppo sole», si osserva

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che i giudizi variano consistentemente a seconda dei contesti (Halff, Ortony e Anderson 1976). Le ricerche sull’interpretazione delle parole hanno costituito una vera e propria pietra miliare in psicolinguistica e, più in generale, nella scienza cognitiva. Uno dei punti che questa linea di ricerca ha permesso di esplorare e chiarire concerne i rapporti fra processi linguistici e processi extralinguistici, e, nell’ambito dei processi linguistici, fra meccanismi lessicali ed extra-lessicali. Si è così giunti alla conclusione che i meccanismi linguistici di comprensione procedono in larga misura autonomamente e indipendentemente da considerazioni extralinguistiche e costituiscono la condizione necessaria per capire messaggi linguistici. Tuttavia, la capacità linguistica non esiste isolatamente, in astratto, ed è parte della capacità cognitiva degli esseri umani, che nel comunicare utilizzano oltre alle capacità linguistiche anche conoscenze condivise, senza le quali le informazioni linguistiche risulterebbero incomprensibili. Secondo questa concezione, i processi linguistici sono un mezzo per aumentare e scambiare conoscenze, e il punto d’arrivo del processo di comprensione di una frase non è un oggetto linguistico, bensì una rappresentazione mentale di uno stato di cose costruita sulla base delle informazioni linguistiche contenute nella frase, ma che include informazioni non presenti nel messaggio, bensì inferite, nonché informazioni che sono assai più specifiche di quelle fornite linguisticamente (Johnson-Laird 1983). I meccanismi che portano alla costruzione di queste rappresentazioni sono diversi. In alcuni casi, come nella risoluzione dell’ambiguità o nell’interpretazione flessibile delle parole non ambigue, il processo di selezione, guidato dal contesto, può avvenire già al momento del recupero del significato della parola dal lessico, anche se spesso richiedere processi post-lessicali. Nel caso dell’instanziazione, è molto poco plausibile che il processo sia lessicale ed è molto più probabile che la specificazione avvenga attraverso meccanismi di inferenza. Non va dimenticato, infine, che la quantità di inferenze tratte durante la comprensione di un messaggio linguistico può essere anche molto ridotta, e comunque varia grandemente in funzione del grado di comprensione del messaggio stesso (Whitney e Kellas 1984). Quanto al contributo che la ricerca sull’interpretazione contestuale delle parole ha dato alla concezione corrente dell’architettura del sistema cognitivo, non si può dimenticare il ruolo del tutto speciale svolto dagli studi sull’ambiguità, i cui esiti sono risultati determinanti nel permettere l’affermazione dell’idea che l’impermeabilità

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dei diversi sottosistemi cognitivi non può essere concepita come assoluta, anche se la capacità di questi sottosistemi di svolgere le proprie elaborazioni autonomamente è in genere molto elevata. Infine, le ricerche considerate hanno avuto una parte importante nel modificare la visione tradizionale, e a lungo dominante, secondo cui nel linguaggio fenomeni come ambiguità, vaghezza, indeterminatezza sono eccezioni in un sistema in generale libero da imperfezioni di questo tipo. Gli studi sull’interpretazione delle parole hanno ampiamente contribuito a modificare questo atteggiamento, mettendo in luce l’importanza per il sistema linguistico di disporre di meccanismi sufficientemente flessibili da permettere alle persone di riferirsi efficacemente all’infinita varietà e molteplicità del reale. Questi modelli restano tutt’oggi un punto di partenza imprescindibile nella ricerca sull’organizzazione mentale dei significati, che, dopo il grande impulso degli anni a cui risale la maggior parte delle ricerche riportate in questo capitolo, hanno subito una battuta d’arresto fino a riprendere oggi con grande vigore, parallelamente agli studi sulla produzione del linguaggio. Insieme all’accento sul processo di produzione, la ricerca contemporanea sta mettendo in luce la grande disparità esistente fra le conoscenze che abbiamo in relazione all’organizzazione mentale dei significati dei nomi e quella di altre parole, in particolare dei verbi. È noto che i verbi, e più in generale le parole che denotano azioni, hanno una struttura semantica assai complessa, che richiede la precisazione, oltre che del nucleo di significato, anche di informazioni relative al tipo di azione di cui si parla e/o al tipo di entità che devono partecipare all’azione. Ad esempio, un verbo può denotare uno stato, come sapere, oppure un’attività, come guardare (Sanz 2001), e l’azione che specifica può richiedere che esista un agente che la compie un tema, come in «Mario osserva il tramonto» (Grimshaw 1990). La precisa caratterizzazione di questi tipi di azioni e il loro rapporto con la specificazione dei ruoli tematici coinvolti nelle azioni e con il comportamento sintattico del verbo sono oggetto di complesse discussioni fra i linguisti, e anche dal punto di vista psicologico molti aspetti della conoscenza che i parlanti hanno di queste parole devono ancora essere chiariti. Ad esempio, come sono organizzati i verbi nel nostro lessico mentale? La teoria di Miller e Johnson-Laird (1976) è probabilmente l’ultimo tentativo di affrontare sistematicamente la questione, e solo di recente le difficoltà emerse nella ricerca sperimentale sulla produzione dei verbi hanno contribuito a risollevare il problema.

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Una di queste difficoltà riguarda proprio gli effetti del contesto e la necessità di ridefinire la natura di questi effetti in relazione ai meccanismi di produzione dei verbi. Infatti, una caratteristica dei verbi, in particolare dei verbi transitivi, è di esprimere relazioni fra entità. In scrivere, ad esempio, c’è qualcuno che scrive e qualcosa che viene scritto e la realizzazione di queste entità fa sì che l’azione di scrivere possa partecipare a domini concettuali diversi. Così, se ciò che viene scritto è un tema, l’azione fa parte del dominio concettuale dello studiare, mentre se ciò che viene scritto è una lettera, l’azione fa parte del dominio concettuale del comunicare. Lavori recenti sembrano mettere in luce l’importanza di questi contesti, costituiti dalla specificazione degli argomenti del verbo, nel determinare il dominio concettuale del quale il verbo viene a far parte e che ne determina i potenziali competitori durante il processo di produzione (Tabossi e Collina, inviato per la pubblicazione). Ma in che rapporto sta il significato di scrivere con le specificazioni che derivano dalla realizzazione dei suoi argomenti? In altri termini, qual è la relazione fra le nostre conoscenze semantiche sui verbi e le nostre conoscenze di eventi complessi che includono azioni denotate da quei verbi? Il problema delle relazioni fra organizzazione concettuale e semantica non è ristretto ai verbi, ma certo assume proporzioni molto maggiori con i verbi che con i nomi, e in particolare con i verbi transitivi, proprio in ragione della loro natura relazionale. Non è un caso, infatti, che se il fenomeno dell’ambiguità, almeno in italiano, è assai più diffuso con i nomi che con i verbi, i verbi hanno un grado maggiore di indeterminatezza dei nomi: mentre il numero medio di interpretazioni dipendenti dal contesto in cui può essere usato un nome è 3,82, nel caso dei verbi la media è 4,60, che diventa 5,37 per i verbi transitivi (Marzinotto 2001). È proprio questa indeterminatezza che ci permette di produrre e capire senza difficoltà frasi come «Mario prese la palla» e «Mario prese il raffreddore»: gli oggetti forniscono un contesto rispetto al quale il significato indeterminato di prendere può facilmente venire specificato. La rappresentazione mentale dei verbi e il loro processo di produzione sono (ri)entrati solo da poco nell’agenda della ricerca psicolinguistica, ma l’interesse che stanno suscitando è ampio e non è improbabile che la loro chiarificazione possa costituire il prossimo tassello nel complesso puzzle di ciò che sappiamo sul modo in cui i parlanti usano e interpretano le parole della propria lingua.

11.

Sintassi: le strutture di Luigi Rizzi

1. Introduzione Questo capitolo riguarda «le strutture della sintassi». Era questo il titolo del lavoro che ha fondato lo studio moderno della sintassi, dando il via a mezzo secolo di studi teorici e descrittivi (Chomsky 1957). Il problema fondamentale che questo approccio cerca di affrontare è quello della creatività governata da regole che caratterizza le nostre capacità linguistiche. Qualunque parlante produce e riceve continuamente, nel suo normale uso del linguaggio, enunciati in cui non si è mai imbattuto nella sua precedente esperienza linguistica; eppure non ha difficoltà a gestire e integrare tali oggetti per lui nuovi. Inoltre, le capacità linguistiche si esplicano su un dominio illimitato di enunciati possibili: a parte le limitazioni estrinseche di tempo, memoria, energia, ecc., non c’è alcun intrinseco limite superiore alla lunghezza di un enunciato. Qual è la natura di questa capacità caratteristica della nostra specie? Per meglio definire il problema bisogna partire dall’osservazione che il linguaggio è suono con senso. O meglio, se vogliamo estendere la definizione alle lingue dei segni, che condividono con le lingue orali le fondamentali caratteristiche computazionali profonde, il linguaggio è gesto articolato (percepibile acusticamente, visivamente, ecc.) con senso. Per brevità, continuerò a parlare di «suono» in quanto segue, ma l’espressione va interpretata estensivamente in modo da adattarsi a sistemi linguistici che usano altre modalità. Dunque, quando sappiamo una lingua dobbiamo avere un metodo per (1)a rappresentarci internamente i suoni (1)b rappresentarci internamente i sensi (1)c correlare rappresentazioni di suono e di senso su un dominio illimitato

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Una prima approssimazione al problema è di ammettere che il parlante possieda un lessico mentale costituito di segni a due facce, associazioni di suono e senso (si vedano i capitoli di Berruto e di Peressotti e Job in questo volume). Ma questo non basta per render conto della capacità illimitata di costruire enunciati: dobbiamo anche postulare il possesso di un insieme di procedimenti (regole, meccanismi computazionali, ecc.) che consentano al parlante di metter insieme elementi del lessico per costruire entità di ordine superiore, sintagmi, frasi, frammenti di discorso. Abbiamo, quindi, un modello costituito almeno dai seguenti elementi: (2)a Lessico (2)b Computazioni (2)c Interfacce Il lessico mentale è un insieme finito di segni associanti suoni e sensi; è esso stesso altamente strutturato in modo analogo a (2), in quanto include inventari sub-lessicali organizzati sistematicamente e gerarchizzati su più livelli (fonemi, morfemi, ecc.), e computazioni interne al sistema lessicale per la formazione di parole complesse. La fonologia e la morfologia si occupano di questi livelli di organizzazione sub-lessicale. Le computazioni sintattiche (2)b determinano come gli elementi del lessico si possano unire per dar luogo a unità più ampie, e sono formalmente caratterizzate dalla loro natura ricorsiva. La ricorsività è la caratteristica saliente di due capacità fondamentali, le capacità linguistiche e di calcolo, che sembrano essere prerogativa unica della nostra specie nel regno animale. La ricorsività, nella sua essenza, è la capacità di «aggiungere uno»; nel caso del linguaggio, di aggiungere un sintagma che può essere parte di un’unità più grande del medesimo tipo. Esempi di strutture ricorsive nella sintassi delle lingue naturali sono i seguenti: (3)a [La copertina [di [un fascicolo [ di [una rivista [di [una associazione [di [specialisti [ di...]]]]]]]]]] (3)b [Piero crede [ che [ la gente pensi [ che [ il presidente abbia detto [che...]]]]]] (3)c [Hanno recensito [un libro [che parlava di [un argomento [che ha preoccupato [le persone [che...]]]]]]] Nell’ipotesi non scontata, ma plausibile per molte ragioni, che il linguaggio rappresenti un sistema isolabile nella mente/cervello (nel-

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lo stesso senso in cui, per esempio, è isolabile il sistema circolatorio), dovranno esserci delle interfacce attraverso cui la facoltà di linguaggio scambia informazione con altri sistemi che costituiscono l’individuo. Se il linguaggio è suono con senso, almeno due interfacce vanno postulate: la forma fonetica (FF), espressione delle pronunce (o, più generalmente, delle articolazioni gestuali) possibili, in contatto con i sistemi sensomotori dell’articolazione e della percezione; e la forma logica (FL), rappresentazione del significato per quanto esso è determinato dal lessico e, composizionalmente, dalle computazioni linguistiche, interfaccia in contatto con i sistemi di pensiero (dei concetti, delle intenzioni, ecc.) indipendenti dal linguaggio. Nei modelli che si sono imposti, la sintassi ricorsiva è il motore centrale del sistema, calcolando ed associando rappresentazioni di interfaccia FF e FL: (4)

FF  Sintassi  FL

Nei modelli standard, quali la teoria dei principi e parametri classica (Chomsky 1981), ed anche nella prima fase del minimalismo (Chomsky 1995), la sintassi computa strutture frasali complesse nella loro interezza, e tali strutture sono quindi inviate all’interpretazione fonetica e semantica, rispettivamente. Nelle versioni minimaliste più recenti (Chomsky 2001), la computazione avviene in fasi (grosso modo le unità proposizionali semplici): al termine di ogni fase la struttura computata viene inviata all’interpretazione fonetica (spell-out) e semantica, e quindi la computazione sintattica riprende e continua alla fase successiva, ciclicamente. 2. Le strutture Vari meccanismi sono stati proposti per trattare la generazione di strutture in mezzo secolo di grammatica generativa, dai sistemi di riscrittura indipendenti e dipendenti dal contesto, alla teoria X-barra. Il minimalismo propone il distillato ultimo della computazione ricorsiva nell’operazione di merge (fusione). Dati due elementi A e B (elementi tratti dal lessico, oppure oggetti sintatticamente complessi ottenuti da precedenti applicazioni della fusione), li si può fondere creando un terzo elemento di cui essi siano i costituenti immediati:

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(5)

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A

B

 A

B

Quanto all’etichetta del pezzo di albero sintattico creato, essa corrisponderà a quella dell’uno o dell’altro dei due elementi fusi; l’elemento in questione proietta la sua categoria, ed è la testa della configurazione. I sintagmi si costruiscono per applicazioni successive della fusione. Nel caso di espansione massimale, la testa del sintagma si combina tipicamente con due sorte di elementi: il complemento selezionato dalla testa (che negli esempi seguenti è sempre un sintagma preposizionale, ma potrebbe essere un sintagma nominale, o una frase) e lo specificatore del sintagma (che negli esempi seguenti è un quantificatore o avverbio esprimente una quantificazione, ma potrebbe corrispondere a varie categorie sintattiche)1 (si veda il capitolo di Marotta di questo volume): (6)

NP: VP: AP: PP:

molte sempre poco proprio

foto parlato contento accanto a

di Maria di questa storia del risultato Maria

SPEC

TESTA

COMPLEMENTO

Vi sono buone ragioni per ritenere che la testa si combini dapprima con il complemento e l’unità testa-complemento si unisca, quindi, allo specificatore. Che la struttura sia effettivamente (7)a, e non (7)b,

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11. Sintassi: le strutture

è suggerito da numerose asimmetrie tra specificatore e complemento, per esempio il fatto che uno specificatore può legare un riflessivo in posizione di complemento (per esempio nel sintagma nominale in inglese), ma non viceversa: (8)a John’s picture of himself ‘John-di foto di se stesso’ la foto di John di se stesso (8)b * Himself’s picture of John ‘se stesso-di foto di John’ Siccome sappiamo, per ragioni indipendenti, che un elemento può legarne un altro quando lo c-comanda2, i fatti di (8) seguono se la corretta struttura del sintagma è (7)a, mentre (7)b predirebbe fatti opposti a quelli empiricamente osservati. La struttura assegnata al sintagma nominale Molte foto di Maria è dunque la seguente: (9)a

N Q Molte

N

N foto

P P di

N Maria

(7)a [ SPEC [TESTA COMPL ] ] (7)b [ [ SPEC TESTA ] COMPL]

Ho adottato qui il formalismo della cosiddetta struttura sintagmatica nuda (bare phrase structure) del programma minimalista. Nella più tradizionale notazione X-barra (Chomsky 1970; Jackendoff 1977), la struttura sarebbe

1 Utilizzo le etichette categoriali della notazione internazionale, basata sull’inglese: NP = Noun Phrase (sintagma nominale); VP = Verb Phrase (sintagma verbale); AP = Adjective Phrase (sintagma aggettivale); PP = Prepositional Phrase (sintagma preposizionale); DP = Determiner Phrase (sintagma determinante); T = Tense, TP = Tense Phrase (sintagma temporale); C = complementatore; CM = Class Marker (marcatore di classe); CP = Complementizer Phrase (sintagma complementatore); Agr = Agreement (accordo), AgrS = accordo soggetto, AgrO = accordo oggetto; Asp = Aspect (aspetto); Hab = Habitual (aspetto abituale); Freq = Frequentative (aspetto frequentativo); Fin = Finiteness (finitezza); Force = forza; Foc = Focus; Top = Topic.

2 La relazione di c-comando, introdotta da Reinhart (1976), è formulabile come segue (cfr. Chomsky 2000): (i) A c-comanda B se B è contenuto nel nodo sorella di A Due nodi sorelle sono quelli messi insieme dall’operazione di fusione. Quindi, data la struttura (7)a, lo specificatore c-comanda il complemento, ma non viceversa. Così, per esempio, il soggetto può legare un riflessivo in posizione di complemento, ma non viceversa: (ii) Gianni parla di sé (ii) * Sé parla di Gianni.

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(9)b

NP QP

N’ Q’

N foto

PP

Q Molte

P’ P di

NP N’ N Maria

In questa notazione, ogni testa proietta lo stesso schema: (10)

XP X’ X

e le etichette distinguono la testa (X) dal costituente testa-complemento (X’) e da tutto il sintagma (XP), mentre tali distinzioni non sono direttamente espresse dalle strutture nude come (9a), ma sono algoritmicamente desumibili (per esempio, N è testa quando domina direttamente un elemento, una parola singola, è sintagma completo quando cessa di proiettare, ecc.). In ciò che segue si utilizzeranno soprattutto strutture di stampo classico, la cui traducibilità in termini «nudi» è comunque immediata. L’organizzazione gerarchica dei sintagmi sembra essere, per quanto ne sappiamo, universale. Varia invece l’ordine lineare degli elementi: in particolare, in alcune lingue la testa precede il complemento (italiano, inglese, ecc.), mentre in altre la testa segue il complemento (giapponese, turco, ecc.). La grammatica universale lascia qui aperto un punto di scelta, o parametro (ma si veda il quadro an-

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tisimmetrico di Kayne 1994, per un diverso approccio alla questione). Ogni lingua sceglie l’uno o l’altro valore; ogni bambino che impara una lingua deve determinare, sulla base dell’esperienza, quale dei cammini dati a priori è stato scelto dal sistema ai cui dati è esposto. L’apprendimento della lingua, quindi, è concepibile in parte come una operazione di fissazione dei parametri sulla base dell’esperienza. Greenberg (1963) aveva osservato che le lingue tendono alla coerenza nella scelta delle proprietà d’ordine: nel 90% delle lingue del suo campione, l’ordine VO (verbo-oggetto) si correla all’ordine PO (preposizione-oggetto preposizionale), mentre l’ordine OV si correla all’ordine OP (e la lingua ha quindi posposizioni), e vi sono analoghe correlazioni per altri tipi di categorie. Una fissazione unica del parametro d’ordine per tutte le categorie è la scelta più semplice (una sola specificazione valida per tutti i tipi di sintagmi), e sembra anche essere quella statisticamente non marcata. 3. Le strutture funzionali: la frase Che statuto categoriale possiamo attribuire alle strutture frasali? Nella versione classica, la teoria X-barra veniva limitata alle categorie lessicali (N, V, A, P) e alle loro proiezioni, mentre la frase veniva concepita come una struttura esocentrica, priva di testa. Dalla metà degli anni Ottanta si è osservato che era vantaggioso restringere ulteriormente la teoria delle strutture consentendo un unico meccanismo di costruzione strutturale: ci sono teste che si combinano ad altri elementi e proiettano, e non c’è alcun altro mezzo per ottenere struttura nelle lingue naturali. Se le strutture esocentriche non sono generabili, si pone il problema di identificare la testa della frase. L’ipotesi che è stata sviluppata negli ultimi anni è che la testa della frase sia la specificazione temporale, presente e obbligatoria in ogni frase (per lo meno nelle frasi principali). Una caratteristica saliente della frase principale è che la sua morfosintassi obbliga il parlante a prender posizione sul tempo. L’evento a cui si riferisce un predicato verbale viene necessariamente situato sull’asse temporale rispetto al momento dell’enunciazione come precedente (passato), successivo (futuro) o coincidente (presente) con tale momento (non così per un evento espresso da un sintagma nominale: La distruzione della città da parte del nemico è una descrizione atemporale rispetto alla frase Il nemico distrusse / distruggerà / distrugge la città). L’idea che si è imposta è che la specificazione temporale obbligato-

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ria poteva essere vista come espressa da una testa sintattica autonoma, e che tale testa aveva anche il ruolo di creare una configurazione strutturale per la predicazione, prendendo il soggetto come specificatore e il sintagma verbale come complemento: (11)

TP

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11. Sintassi: le strutture

(14) [TP NP T Gianni ha

[VP

V NP ] ] visto Maria

Ma in lingue come l’italiano, in altre forme verbali, il tempo non è una parola morfologica autonoma ed è espresso da un affisso attaccato al verbo lessicale: (15) Gianni ved-e, -eva, -rà Maria

NP

T’ T

VP

In certe lingue è immediatamente plausibile che la specificazione temporale funzioni sempre così: il tempo è realizzato da una particella morfologicamente distinta dal verbo lessicale (morfologicamente invariabile) e occorrente tra soggetto e sintagma verbale: per esempio, nelle lingue creole (gli esempi seguenti riguardano il giamaicano), in cui la particella esprimente il presente è nulla (Durrleman 2001): (12)a Im ‘lui

PRES

nuo sa

dat questo’

(12)b Im ‘lui

en PAS

nuo sa

dat questo’

(12)c Im ‘lui

wi FUT

nuo sa

dat questo’

Seguendo la consueta intuizione-guida di uniformità attraverso le costruzioni e le lingue, la proposta analitica è stata di ammettere che la struttura frasale sia sempre la stessa, con la posizione T realizzata come affisso: (16)

TP NP T -e N Gianni

VP

V ved-

NP

(13) Gianni è / era / sarà [AP molto fiero di questo risultato]

Ma questa struttura non è morfologicamente ben formata: l’affisso e la radice verbale non possono sopravvivere da soli, devono congiungersi per formare la parola complessa vede. Al fine di soddisfare le esigenze della morfologia, il verbo si sposta quindi alla flessione temporale, formando il verbo flesso, parola ben formata. La salita del verbo ha un effetto morfologico, la creazione di una parola complessa, e un effetto sintattico: il movimento cambia l’ordine delle parole, spostando il verbo in un’altra posizione dell’albero; il movimento può avere riflessi immediatamente visibili sull’ordine delle parole, per esempio spostando il verbo flesso alla sinistra di un avverbio. Così, (17) è derivata come indicato in (18)3:

Analoga strategia di ricorso ad un verbo semanticamente vuoto viene seguita quando il predicato lessicale è una forma verbale che non esprime morfologicamente il tempo, come il participio; in tal caso, T viene espresso su un altro verbo funzionale, l’ausiliare:

3 La posizione V vuotata dal movimento è la «traccia». In quanto segue, le tracce sono talvolta indicate con il simbolo «t», ma sono in effetti da intendersi come copie non pronunciate dell’elemento mosso. La teoria delle tracce come copie è sviluppata in Chomsky 1995.

Altre lingue, come l’italiano, funzionano essenzialmente in questo modo se il predicato lessicale è non-verbale, e quindi, data la morfosintassi di queste lingue, incapace di supportare la morfologia temporale. In questo caso, viene inserito un verbo grammaticale o funzionale, la copula, che esprime il tempo:

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(17) Gianni vede spesso Maria (18)a Gianni T [ spesso V Maria ]  b Gianni T [ spesso V Maria ] -e vedved-e La modalità di associazione di verbo e flessione varia da lingua a lingua: in certe lingue (italiano, francese, ecc.) il verbo si sposta alla flessione temporale; in altre (inglese) il verbo lessicale non si sposta. Questo determina il diverso ordine dell’avverbio rispetto al verbo nei due tipi di lingua: avverbi come souvent o often occupano presumibilmente la stessa posizione, e possono occorrere uniformemente tra l’ausiliare e il participio nelle due lingue, come illustrato in (19)a-b. Ma in francese, come in italiano, il verbo lessicale flesso si sposta alla flessione temporale determinando l’ordine V Avv O di (20)a; in inglese il verbo resta nel VP, e l’ordine di superficie riflette quindi quello di base Avv V O di (21)b: (19)a J’ ai souvent vu Marie Io ho spesso visto Marie (19)b I have often seen Mary Io ho spesso visto Mary (20)a Je vois souvent Marie Io vedo spesso Marie (20)b * Je souvent vois Marie Io spesso vedo Marie (21)a * I see often Mary Io vedo spesso Mary (21)b I often see Mary Io spesso vedo Mary Questo è il nucleo centrale dell’analisi di Pollock (1989), che ha dato inizio ad un importante filone di studi comparativi sull’interfaccia morfologia-sintassi. Belletti (1990) ha esteso l’analisi alle strutture verbali italiane.

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In casi come (21)b non vi è alcuna morfologia udibile sul verbo, quindi è del tutto naturale che il verbo non sia attratto a T. L’inglese ha una morfologia flessiva verbale molto povera, ma non del tutto nulla: -s marca il presente alla terza persona, e -ed marca il passato. La posizione dell’avverbio rivela che neppure in questi casi il verbo si è spostato a T: (22) John often call-s / call-ed Mary John spesso chiama / chiamò Mary Quindi, in inglese, la flessione temporale povera sembra incapace di attrarre il verbo, e al fine di permettere la buona formazione morfologica si sposta essa stessa al verbo (è essenzialmente il processo di salto degli affissi, già proposto in Syntactic Structures). È stato proposto che la capacità di T di attrarre il verbo lessicale si correli alla ricchezza della morfologia flessiva del verbo: una flessione relativamente ricca, come in italiano e in francese, attira il verbo, una flessione povera come quella dell’inglese non è in grado di farlo, e può tutt’al più «saltare» sul verbo. Che la ricchezza del paradigma flessivo verbale sia crucialmente coinvolta è suggerito dalla diacronia dell’inglese, come osservato da Roberts (1993). In fasi precedenti della storia della lingua, l’inglese consentiva il movimento del verbo lessicale alla flessione temporale, come rivela la posizione del verbo prima della negazione e di vari avverbi: (23) If I gave not this accompt to you (1557) ‘se io detti non questo conto a te’ Se io non ti detti questo conto In doleful way they ended both their days (1587) ‘in doloroso modo essi terminarono entrambi loro giorni’ In modo doloroso essi terminarono entrambi i loro giorni La perdita del movimento del verbo alla flessione è plausibilmente legata all’impoverimento del paradigma flessivo, più ricco nelle sue specificazioni di accordo con il soggetto fino al XVI secolo. Questi studi illustrano anche un’altra proprietà saliente delle lingue naturali: il movimento. Date strutture ad albero come (16), ecc., generate da applicazioni successive della fusione, gli elementi possono spostarsi ad altre posizioni dell’albero al fine di risolvere

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certi problemi che si pongono alla computazione linguistica. Il problema che il movimento del verbo a T risolve ha a che vedere con l’interfaccia tra sintassi e morfologia: le unità della computazione sintattica (le teste sottoposte a merge) non sono esattamente coincidenti con le unità morfologiche (le parole). Per garantire la buona formazione morfologica, talvolta le teste devono muoversi ed unirsi in conglomerati che la morfologia riconosca come parole ben formate, per esempio, un verbo flesso. Vedremo più avanti che le motivazioni del movimento possono essere anche di natura assai diversa, ma lo schema generale resta lo stesso: il movimento si applica per risolvere un problema, in genere per soddisfare una esigenza post a da un sistema di interfaccia con la sintassi propriamente detta.

funzioni come punto di arrivo del movimento verso la periferia sinistra della frase che osserviamo nelle interrogative, relative, esclamative, ecc.

4. Altre strutture funzionali: il complementatore e il determinante

Francese del Québec: Qui que tu as vu? ‘chi che tu hai visto?’

Il quadro che si è venuto delineando dalla metà degli anni Ottanta è il seguente. Gli elementi della computazione sintattica, quelli che possono fungere da teste, sottostare alla fusione e proiettare struttura, sono suddivisi in due inventari: il lessico propriamente detto, composto di nomi, verbi, aggettivi, elementi dotati di contenuto descrittivo; e il lessico funzionale, composto di espressioni temporali, modali, aspettuali (talvolta realizzate come elementi autonomi, talaltra come flessioni verbali), verbi funzionali (modali, ausiliari e copule), complementatori, determinanti, ecc. Entrambi i tipi di elementi danno luogo alle stesse computazioni: possono partecipare a operazioni di fusione, proiettano, possono muoversi, ecc. C’è una certa divisione del lavoro in quanto gli elementi funzionali determinano le configurazioni strutturali in cui gli elementi lessicali e le loro proiezioni vengono introdotti, fornendo il contenuto descrittivo (per esempio, T crea la configurazione per la predicazione, N e V descrivono il tipo di evento e i partecipanti). In questa prospettiva, candidato naturale per la testa delle frasi subordinate è il complementatore. Si può pensare che un complementatore come che prenda il TP come complemento: (24)

Credo [che [ Maria sia partita]]

Come può essere utilizzata la posizione sintagmatica di Spec di C? Una utilizzazione immediatamente plausibile è che lo Spec di C

(25) Non so [con chi C [ Gianni abbia parlato ___ ]] In effetti, mentre in italiano standard (così come in francese e inglese standard) il sintagma preposto è incompatibile con che, in molte varietà dialettali la cooccorrenza con l’equivalente di che è possibile: (26) Inglese di Belfast:

Veneziano:

I wonder which book that he read ‘io mi domando quale libro che lui ha letto’

Cossa che la magna? ‘cosa che lei mangia?’

Come nel caso di T, lo status sintattico della posizione C diventa interessante quando si prende in esame il suo ruolo potenziale come punto di arrivo per il movimento. Diversi processi di inversione soggetto-verbo flesso risultano naturalmente analizzabili in questi termini. Consideriamo, ad esempio, l’inversione tra il soggetto e l’ausiliare nelle interrogative principali in inglese: (27) [ ___ ___ [ John has bought this book]] John ha comprato questo libro [What has ‘che cosa ha

[ John ___ bought ___ ]] ? John comprato?’

L’interrogativa vertente su un costituente (in questo caso sull’oggetto diretto) può essere analizzata come mettente in gioco un duplice spostamento verso il sistema del complementatore: T muove a C scavalcando il soggetto, e il sintagma interrogativo muove allo Spec di C. L’inversione tra verbo flesso e soggetto clitico, in francese, può essere analizzata in maniera parzialmente analoga (Rizzi e Roberts 1989):

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(28) [ ___ ___ [ il est allé où ]] ‘lui è andato dove ?’ [ Où est [-il ___ allé ___]] ? ‘dove è lui andato?’ È stato proposto che anche l’adiacenza obbligatoria tra il verbo flesso e almeno alcuni elementi interrogativi in italiano (da cui l’impossibilità di (29)b) sia riconducibile alla stessa analisi (Rizzi 2000, cap. 9): (29)a [ ___ ___ [ Gianni è qui ]] (29)b * [ Dove ___ [ Gianni è ___ ]] ? (29)c [ Dove è [ Gianni ___ ___ ]] ? Questi processi di inversione sono il residuo specifico di certe costruzioni di un processo che in altre lingue, è generalizzato a tutte le dichiarative principali e ad alcuni tipi di subordinata: il verbo secondo. Nelle strutture a verbo secondo, l’ordine degli elementi comporta un primo costituente, seguito dal verbo flesso, seguito dal resto della frase: (30) XP V+T [ ………………] I due elementi iniziali in tale ordine sono naturalmente analizzabili come manifestanti le due posizioni del CP: lo specificatore, riempito da qualsiasi sintagma della frase, e C, a cui si è mossa la testa T con il suo contenuto. Illustra questa proprietà il tedesco contemporaneo. Le frasi subordinate manifestano l’ordine basico a testa finale a livello del VP e del TP:

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11. Sintassi: le strutture

soggetto, un elemento avverbiale, l’oggetto diretto, ecc.) si sposta nello specificatore di C: (32)a [Hans hat [ ___ gestern ein Buch gekauft ___ ]] ‘Hans ha ieri un libro comprato’ (32)b [Gestern ‘ieri

hat ha

(32)c [Ein Buch hat ‘un libro ha

[Hans ___ Hans [Hans Hans

ein Buch un libro

gekauft ___ ]] comprato’

gestern ___ ieri

gekauft ___ ]] comprato’

Il verbo secondo era apparentemente attivo, in forme un po’ diverse, in tutte le lingue germaniche e romanze medievali. Si è mantenuto nelle lingue germaniche moderne ad eccezione dell’inglese4, mentre tutte le lingue romanze lo hanno perso, tranne il reto-romancio e le connesse varietà ladine (Benincà 1994). Le lingue che hanno perduto il verbo secondo nella sua forma più generale hanno, tuttavia, mantenuto residui del processo in particolari costruzioni. I processi di inversione nelle interrogative e in altri particolari costrutti (per esempio, l’inversione negativa in inglese: Never in his life would John say that, o l’inversione con certi avverbi di frase in francese, Peutêtre est-il parti, ecc.) sono riconducibili a questo schema. Una analisi parzialmente simile a quella del verbo secondo può essere proposta per le lingue a ordine fondamentale VSO. Tale ordine è illustrato, per esempio, dalle lingue celtiche quali l’irlandese e il gallese. (33) Irlandese

Cheannaigh siad teach anuraidh ‘Comprarono essi casa l’anno scorso’

(31) … dass [Hans gestern [ein Buch gekauft] hat]] ‘che Hans ieri un libro comprato ha’

L’esistenza stessa di lingue VSO è a prima vista assai sorprendente: come può darsi un ordine in cui il verbo e l’oggetto sono separati dal soggetto, e in cui quindi, apparentemente, V e O non formano un costituente? La cosa è ancor più sorprendente quando si osserva (McCloskey 1996) che molti degli argomenti normalmente indicati a so-

Nelle dichiarative principali, il sistema CP si attiva, il verbo flesso (l’ausiliare in (32)) si sposta a C e un sintagma (che può essere il

4 Sulla perdita del verbo secondo nella storia dell’inglese cfr. ancora Roberts (1993).

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stegno del VP (per esempio, l’esistenza di numerosissime espressioni in cui VO ha un’interpretazione idiomatica e S è composizionale, come Gianni ha tirato le cuoia, di contro all’assenza pressoché totale di espressioni idiomatiche SV, con O composizionale; asimmetrie di legamento per cui il soggetto può legare un riflessivo oggetto, ma non viceversa, ecc.) si rivelano validi anche in queste lingue. La possibilità che il verbo sia suscettibile di muoversi nella struttura funzionale della frase consente una soluzione immediata. L’ordine di base può essere SVO (o SOV), ammettendo così un costituente VP; ma il verbo flesso si sposta poi ad una testa funzionale indicata con X nello schema seguente (forse a C, o forse ad una testa del sistema flessivo: McCloskey 1996), determinando così l’ordine derivato VSO: (34)a X [ SVO ]



b V+X [ S ___ O ]

Seguendo queste linee guida, una serie di proprietà apparentemente assai diverse tra le lingue e le costruzioni (formazione di parole complesse come i verbi flessi, ordine del verbo e degli avverbi, ordine VSO, processi di inversione specifici di costruzioni o generalizzati, verbo secondo, ecc.) sono riconducibili ad un insieme molto limitato di processi computazionali di grande generalità e semplicità: 1. le strutture sintagmatiche derivanti, in ultima analisi, dall’applicazione del processo ricorsivo di fusione agli elementi sintattici; 2. il movimento di una testa in un’altra posizione di testa, o di un sintagma in posizione di specificatore. Questi meccanismi si applicano uniformemente, salvo che per la parametrizzazione binaria responsabile della variazione interlinguistica osservabile: la testa precede o segue il complemento; una data testa funzionale attira o non attira il verbo; una data testa funzionale attira o non attira un sintagma nel suo specificatore. Lo stesso tipo di analisi è immediatamente estendibile alle strutture nominali. Se gli elementi funzionali danno luogo a proiezioni sintagmatiche, ci dobbiamo attendere che anche il determinante proietterà un proprio sintagma, il DP, prendendo come complemento la proiezione lessicale del nome, l’NP. La struttura di una espressione nominale sarà quindi:

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11. Sintassi: le strutture

(35) [DP il [NP libro ] ] Che vi sia bisogno di almeno questo livello di ricchezza strutturale è immediatamente reso plausibile da esempi appena più complessi, in cui il quantificatore tutte presumibilmente appare nello Spec di D, mentre l’aggettivo nuove appare nello Spec di N5: (36) [tutte [le [nuove [interpretazioni [della costituzione]]]]] 5. La flessione scissa e la cartografia Verso la metà degli anni Ottanta, la struttura della frase era concepita secondo quanto è indicato dall’albero seguente: (37)

CP Spec C

TP DP T

VP

V

XP

In breve tempo, però, risultò chiaro che, utilizzando gli argomenti che inducevano a scindere la flessione dal verbo si arrivava immediatamente alla conclusione che la struttura doveva essere più articolata. Per esempio, studiando attentamente le posizioni che il verbo lessicale può occupare rispetto a diversi avverbi in francese, emerge che le tre posizioni di testa espresse in (37) non sono sufficienti: 5 Sulla struttura del DP cfr. Abney 1987; Cinque 1996; Giusti 1993; Longobardi 1994.

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(38)a X

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ne X pas X complètement comprendre la théorie… ‘non Neg completamente capire la teoria…’

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(38)c X Il ne comprend pas

X complètement X la théorie

menti restano al loro posto in questo tipo di lingua. In lingue come l’italiano, invece, gli elementi Agr e T sono morfologicamente realizzati come affissi, e quindi il verbo deve muoversi ad essi incorporandoli; l’incorporazione avviene nell’ordine degli affissi nella struttura sintattica: l’affisso più basso, T, è incorporato per primo, e quindi la testa complessa V+T incorpora l’affisso di accordo:

(38)d Ne comprend-il X pas

X complètement X la théorie?

(43)a Agr T V 

(38)b X

ne X

pas comprendre complètement X la théorie…

b Agr V+T t 

c V+T+Agr t t

Il verbo infinitivo può seguire o precedere un avverbio basso come complètement (38)a-b, il verbo flesso sale ad una posizione più alta dell’avverbio negativo pas, (38)c, e nelle interrogative il verbo flesso si sposta a C (38)d; l’alternanza (38)a-b richiede quindi almeno una posizione in più. Di che posizione si tratta? La morfologia verbale esprime anche altre proprietà oltre al tempo: esprime, per esempio, l’accordo in persona e numero col soggetto. È stato quindi proposto che, oltre ad una testa di T, la frase contenga una testa funzionale di accordo col soggetto, AgrS. Dove si situa tale testa? Nelle strutture in cui i due affissi sono chiaramente isolabili, l’affisso di accordo chiude la parola, è il più esterno:

L’ordine dei suffissi, quindi, è l’immagine speculare dell’ordine gerarchico delle rispettive teste funzionali: l’affisso più esterno corrisponde alla posizione sintattica più alta, l’affisso più vicino alla testa corrisponde alla posizione sintattica più bassa e così via. È questo il cosiddetto mirror principle «principio dello specchio» o «principio del rispecchiamento») di Mark Baker (si veda il capitolo di Thornton in questo volume):

(39) Parl-o Parl-i Parl-a

Una volta scissa la flessione verbale in almeno due componenti più elementari, Agr e T, il problema della posizione del verbo rispetto agli avverbi in (38) può essere risolto. La struttura è

parl-av-o parl-av-i parl-av-a

parl-er-ò parl-er(a)-i parl-er-à

(44) Principio dello specchio: l’ordine dei suffissi nella morfologia riflette l’ordine delle teste sintattiche (il suffisso più interno è quello più basso in sintassi, ecc.) (Baker 1988).

(40) V+T+Agr

(45) C ne Agr pas

Nelle lingue Bantu, ad esempio, in cui l’accordo col soggetto ed il tempo è espresso da particelle preverbali, l’ordine è AgrS – T (il complesso è seguito da particelle di accordo con i complementi, in (41) con l’oggetto diretto)

con pas in una posizione di specificatore tra Agr e T e complètement tra T e V. Il verbo infinitivo sale facoltativamente a T, dando luogo ai due possibili ordini di (38)a-b, mentre il verbo finito sale fino ad Agr, scavalcando obbligatoriamente anche pas. Questa è, essenzialmente, la teoria di Pollock (1989), ma con le teste Agr e T invertite, secondo la revisione di Belletti (1990), motivata, tra l’altro, dal principio dello specchio. Questa linea di analisi ha dato luogo ad una mole considerevole di lavoro descrittivo nel corso di una decina d’anni, facente riferimento ad un gran numero di lingue diverse. Verso la fine degli anni Novanta, questa tendenza è stata pienamente sistematizzata nel lavoro di Guglielmo Cinque (1999), che ha fornito una dettagliata ana-

(41) Chicewa njuchi zi -na -wa -lum -a alenje ‘le api AgrS-Past-AgrO-pungere-ASP i cacciatori’ (42) Agr T ... V Come conciliare i due ordini di (40) e (42)? Una maniera naturale consiste nell’ipotizzare che (42) è l’ordine basico, e i diversi ele-

T

complètement comprendre la théorie…

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lisi comparativa delle posizioni avverbiali nella frase, in rapporto alle posizioni del verbo. Riprendendo molto lavoro descrittivo precedente sulla sintassi e semantica avverbiale, Cinque nota che gli avverbi occorrono, in genere, in un ordine fisso l’uno rispetto all’altro. Per esempio, in inglese (e in italiano) un avverbio abituale come usually, che descrive una situazione che è caratteristica di un periodo di tempo esteso, precede un avverbio frequentativo come often, indicante la mera ripetizione di una situazione (Comrie 1976): (46)a John is usually often obliged to stay home ‘John è usualmente spesso obbligato a stare a casa’ (46)b * John is often usually obliged to stay home ‘John è spesso usualmente obbligato a stare a casa’ In altre lingue, le proprietà espresse dall’avverbio in inglese e in italiano sono espresse da particelle funzionali, che possono a loro volta essere morfemi liberi (come in rapanui) o suffissi verbali (come in yareba): (47) Yareba (Papua):

yau - r - edib - eb - a - su ‘siede CM FREQ HAB PRES 3ms’ lui abitualmente ripetutamente si siede

(48) Rapanui (Austronesia): Pura vara tu’u mai a Nau ‘HAB FREQ viene verso Pers. Sing Nau’ Nau abitualmente viene spesso qui L’osservazione importante è che queste diverse gerarchie si corrispondono: l’ordine degli avverbi corrisponde all’ordine delle particelle e a quello dei suffissi (in quest’ultimo caso, l’ordine è rovesciato a causa del principio dello specchio: in (47) il suffisso frequentativo, più basso nell’albero, è il più vicino alla radice e quindi precede il suffisso abituale). La proposta di Cinque per cogliere il parallelismo è la seguente: la struttura della frase si conforma ad una gerarchia universale di teste funzionali; ci sono teste di modo o modalità, di tempo, di aspetto, di voce, oltre alle diverse specificazioni di accordo. Queste teste esprimono proprietà interpretativamente rilevanti, e possono prendere i corrispondenti avverbi nel loro specificatore. Quindi, per

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esempio, un avverbio frequentativo è selezionato come specificatore di una testa funzionale di aspetto frequentativo: (49) [ usually [FREQ ….. ] ] Alcune lingue esprimono la gerarchia funzionale pronunciando le teste come particelle o morfemi liberi; altre le realizzano come affissi destinati ad attaccarsi al verbo tramite il movimento di quest’ultimo; altre ancora esprimono la proiezione realizzandone lo specificatore, l’avverbio. E, ovviamente, possono darsi casi di realizzazione mista. L’ordine rimane però costante, dettato dalla gerarchia universale (la quale è plausibilmente determinata, almeno in parte, da esigenze esterne dei sistemi di interfaccia, relazioni obbligatorie di portata tra diversi tipi di operatori, ecc.). Questo approccio porta molto avanti l’ipotesi pollockiana della scissione della flessione, rivelando, attraverso lo studio dettagliato della sintassi avverbiale, una struttura funzionale molto più complessa rispetto agli assunti di una quindicina di anni fa. Se le strutture di Cinque rappresentano una approssimazione più realistica della complessità della struttura frasale, lo studio dei dettagli di tale complessità diventa impresa importante e meritevole di essere perseguita in sé. È questa l’idea di base dei cosiddetti studi «cartografici», che cercano di disegnare mappe strutturali il più possibile precise delle diverse zone della frase (si vedano i diversi capitoli riuniti in Cinque 2002; Rizzi 2004; Belletti 2004). Se le mappe sono complesse, gli ingredienti computazionali di base sono sempre gli stessi: la fusione che crea struttura mettendo insieme elementi e il movimento che la modifica in parte. Se non che, il lessico funzionale si rivela più ricco e strutturato di quanto precedentemente assunto. 6. La cartografia della periferia sinistra Parallelamente al lavoro di Cinque sulla struttura flessiva, l’altro punto di partenza degli studi cartografici è stata l’analisi della periferia sinistra della frase (Rizzi 1997). Nell’analisi standard, la periferia sinistra è manifestata dal complementatore, che può eventualmente ricevere nel suo specificatore diversi tipi di elementi, quali gli operatori interrogativi e relativi. Il complementatore può assumere

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diverse forme nelle frasi finite e infinitive, per esempio nelle lingue romanze il complementatore infinitivo è omofono a certe preposizioni (Rizzi 1982; Kayne 1984): (50)a Credo che dovrei leggere il tuo libro (50)b Credo di dover leggere il tuo libro Vi sono tuttavia indicazioni che rivelano un quadro più complesso. Si consideri la dislocazione a sinistra clitica, una tipica costruzione che mette in gioco la periferia sinistra della frase (Cinque 1990): (51) Il tuo libro, lo dovrei leggere TOPIC COMMENT Questa costruzione ha particolari caratteristiche informative, ed esprime l’articolazione della frase in topic e comment: il topic è l’argomento relativamente al quale la frase fa un’affermazione, ed è scelto tra gli elementi già presenti nel discorso o comunque salienti; il comment è ciò che si predica del topic: in questa costruzione è una frase aperta con un pronome clitico necessariamente interpretato come coreferente al topic. Ora, se consideriamo la posizione dell’elemento dislocato o topic rispetto ai complementatori di (50), osserviamo che la posizione non è la stessa. La posizione naturale del topic è dopo il che, ma prima del di: (52)a Credo che, il tuo libro, lo dovrei leggere (52)b Credo, il tuo libro, di doverlo leggere Per render conto di questa distribuzione e di tanti altri casi analoghi, si è fatto l’assunto che il sistema del complementatore sia in realtà una zona strutturale definita da più teste funzionali: la testa che delimita il sistema verso l’alto è la testa di Forza, esprimente il tipo della proposizione: dichiarativa, interrogativa, esclamativa, relativa, ecc. È questa l’informazione che deve essere immediatamente accessibile ad un selettore più alto (per esempio, un verbo che deve prendere come complemento una dichiarativa o una interrogativa). La testa che delimita il sistema verso il basso, FIN, esprime il carattere finito o meno della proposizione. All’interno della zona delimitata da FORCE e FIN si crea uno spazio utilizzato da posizioni dedicate a speciali proprietà interpretative, quale il topic:

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11. Sintassi: le strutture

(53) … FORCE … TOP … FIN … Che lessicalizza FORCE, di lessicalizza FIN: di qui la diversa posizione rispetto al topic. I complementatori finiti nelle lingue romanze e germaniche (que in francese, that in inglese, ecc.), normalmente, lessicalizzano FORCE e precedono, quindi, il materiale periferico a sinistra. In lingue celtiche, come l’irlandese, l’elemento tradotto come che, go in (54), sembra invece lessicalizzare FIN, ed in effetti segue la stringa del materiale periferico: (54) Is doíche [ faoi cheann cúpla lá [go bhféadfaí imeacht]] ‘è probabile dopo un paio di giorni che potrebbe partire’ (McCloskey 1996) Oltre alla posizione topicale, la periferia sinistra include altre posizioni dedicate a speciali proprietà interpretative relate alla struttura informazionale. Una di queste è il focus, illustrato dalla seguente costruzione in italiano: (55) IL LIBRO FOCUS

gli dovremmo dare PRESUPPOSIZIONE

(, non l’articolo)

L’elemento anteposto, marcato da particolare enfasi prosodica (suggerita qui dall’uso delle maiuscole), è il focus, che introduce una informazione contrastandola con le aspettative dell’interlocutore: si parla pertanto, in questo caso, di focus contrastivo. Il resto della frase è la presupposizione, conoscenza condivisa tra parlante e ascoltatore. Topic e focus possono cooccorrere in molte lingue in ordine stretto: (56) Credo che, FORCE

a Gianni, IL LIBRO gli dovremmo dare, non l’articolo TO FOC FIN

Come sono costituiti il topic e il focus? È naturale pensare che il «materiale di costruzione» di queste posizioni sia lo stesso che per ogni altra configurazione strutturale: ci sono teste di Top e Foc che si uniscono ad altre configurazioni strutturali, dando luogo a strutture come le seguenti:

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TopP XP

FocP XP

Top

YP

Foc

YP

XP = Topic YP = Comment XP = Focus YP = Presupposizione Queste teste, in maniera sostanzialmente analoga alle teste del sistema flessivo, hanno il ruolo di creare posizioni dedicate a particolari interpretazioni, qui interpretazioni relate al discorso. Questo approccio, quindi, formula l’ipotesi che l’interfaccia tra sintassi e sistemi interpretativi sia molto trasparente, con la sintassi che trasmette alla semantica e alla pragmatica informazioni tipo «un elemento che si trovi nella posizione di Spec della tale testa deve ricevere la tale interpretazione». Le teste che designano tali posizioni interpretativamente dedicate sono prive di contenuto morfofonologico in alcune lingue, come l’italiano, mentre sono pronunciate in altre: per esempio, in gungbe, una lingua kwa parlata in Benin, il topic è marcato dalla particella ya e il focus dalla particella we: (59) ... do Kofi ya gankpa me we kponon le su i do ‘... che Kofi Top in prigione Foc i poliziotti hanno chiuso lui là’ ... che, quanto a Kofi, è in prigione che i poliziotti lo hanno chiuso (Aboh 1998) La situazione non è dissimile da quanto avviene nei sistemi casuali, che possono differire molto significativamente quanto alla realizzazione morfofonologica, ma un sistema di caso sintattico è plausibilmente da postularsi in tutte le lingue ed ha conseguenze relative, per esempio, alla spostabilità delle espressioni nominali (secondo gli assunti di Chomsky 1995). Questa ipotesi sul carattere sostanzialmente superficiale della variabilità morfologica dei sistemi casuali è stata fondamentale per l’elaborazione di una teoria sintattica del caso, a partire da Vergnaud (1982). Torniamo, per concludere, alle motivazioni del movimento. Vi sono due tipi di proprietà semantiche che le strutture del linguaggio devono esprimere: le strutture argomentali, i ruoli tematici, chi fa che cosa a chi, e le proprietà di portata e relate al discorso (per esem-

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pio, la portata degli operatori interrogativi e dei quantificatori, l’articolazione informazionale in topic-comment e focus presupposizione). Ora, le proprietà argomentali sono espresse nella posizione in cui una espressione nominale è unita a una espressione dotata di struttura argomentale, per esempio, un verbo: Gianni riceve il ruolo argomentale (tematico) di paziente nella posizione oggetto diretto della frase Maria contatterà Gianni domani; le proprietà di portata e relate al discorso sono espresse in posizioni più alte nella struttura, spesso nel sistema del complementatore, per esempio l’oggetto diretto può diventare un topic: Gianni, Maria lo contatterà domani. È stato proposto che una ragion d’essere del movimento sintattico è la necessità di assegnare alle espressioni le proprietà semantiche dei due tipi (Chomsky 2004): quindi, nell’esempio appena menzionato, l’espressione nominale Gianni viene inserita in una posizione nella quale riceve un certo ruolo argomentale, e successivamente viene spostata in un’altra posizione, dove riceve una certa proprietà interpretativa del tipo portata-discorso (topic, nel nostro caso). Uno degli scopi del movimento, quindi, è di connettere posizioni dedicate ai due tipi di proprietà e consentire ad uno stesso elemento spostato di manifestarle entrambe. Abbiamo visto in precedenza che certi tipi di movimento sembrano essere motivati da necessità morfologiche, ed avere il fine di creare parole morfologicamente ben formate; i movimenti di cui stiamo parlando adesso sono invece motivati da necessità interpretative, per consentire ad uno stesso elemento di cumulare più proprietà di senso. Mettendo insieme i due casi, si può pensare che, in generale, il movimento sia motivato dal soddisfacimento di esigenze delle interfacce attraverso cui la sintassi parla con altri sistemi: l’interfaccia, interna alla facoltà di linguaggio, con la morfologia; e l’interfaccia con i sistemi di pensiero. È questa la concezione del movimento come «ultima risorsa», una operazione che non si applica mai facoltativamente, ma è sempre motivata per risolvere un problema computazionale che si pone alla facoltà di linguaggio.

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12.

Sintassi: i processi di Marica De Vincenzi

1. Introduzione I processi psicologici sottostanti alla comprensione del linguaggio avvengono con grande velocità. Nonostante ciò, essi non sono istantanei, ma sono distribuiti nel tempo. Inoltre, tali processi sono altamente complessi e coinvolgono diversi livelli di analisi (fonologica, sintattica, semantica, ecc.). I risultati di queste analisi sono quindi rapidamente integrati in una interpretazione coerente. Infine, questi processi sono in gran parte, se non quasi totalmente, inaccessibili alla riflessione conscia. Queste caratteristiche pongono una formidabile sfida metodologica per chi sia interessato a studiare i meccanismi di comprensione del linguaggio e l’architettura della mente, cioè l’organizzazione delle conoscenze ed il loro utilizzo. Il metodo ideale (che, diciamolo subito, per ora non esiste) dovrebbe fornire una misura continua dei processi nel loro svolgersi, essere sensibile in maniera differenziata ai diversi livelli di analisi e non utilizzare giudizi consci. Uno degli ultimi metodi utilizzati dagli psicolinguisti è la registrazione dei potenziali cerebrali correlati ad eventi (in inglese Event-Related Potentials, ERPs) durante la comprensione del linguaggio. I potenziali evocati sono una misura dell’attività elettrica cerebrale concomitante al verificarsi di specifici eventi, registrata mediante degli elettrodi collocati sullo scalpo. Essi forniscono una stima diretta dell’attività cerebrale prima, durante e dopo un certo evento di interesse che si estende nel tempo. Tale stima ha un’elevata risoluzione temporale, dell’ordine del millisecondo, e fornisce informazioni sia quantitative (ampiezza, latenza) che qualitative (polarità positiva o negativa, forma, distribuzione sullo scalpo) sulle differenze di attività elettrica cerebrale associate a due condizioni spe-

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rimentali che vengono confrontate tra di loro. Il primo lavoro che parla specificamente di un potenziale evocato correlato al linguaggio è il lavoro di Kutas e Hillyard (1980), nel quale venne rilevato un potenziale negativo che insorgeva a circa 400 millisecondi (ms.) dalla presentazione di una parola semanticamente anomala. Questo potenziale, da allora chiamato N400, è stato trovato innumerevoli volte ed è ora una «firma» sicura di anomalia semantica e, più in generale, di difficoltà di integrazione a livello semantico o del messaggio. I primi studi che parlano invece di potenziali evocati associati a errori sintattici sono dei primissimi anni Novanta, in particolare il lavoro di Neville, Nicol, Barss, Forster e Garrett (1991) e il lavoro di Osterhout e Holcomb (1992). Le risposte cerebrali più comunemente evocate da errori sintattici sono potenziali negativi generalmente riscontrati in posizione anteriore sinistra, detti ELAN, Early Anterior Negativity, se la latenza è tra 100 e 300 ms., o LAN, Late Anterior Negativity, se la latenza è tra 300 e 500 ms. Essi sono seguiti da un potenziale positivo, il cui picco più ampio si verifica a circa 600 ms. dalla presentazione dello stimolo critico, per questo indicato come P600. Da allora, gli studi di psicolinguistica che usano la metodologia dei potenziali evocati hanno avuto un incremento fortissimo. Innanzitutto perché gli studi sui potenziali evocati hanno dimostrato che la risposta ad anomalie sintattiche è distinta dalla risposta ad anomalie semantico-pragmatiche. Ciò consente di ipotizzare che almeno un sottogruppo dei processi neurali (e, per estensione, cognitivi) che rispondono a queste categorie di anomalie sia separabile e distinte. Questa diversa sensibilità dei potenziali evocati a due distinti processi linguistici è importante dal punto di vista teorico, poiché viene dimostrato anche da dati neurofisiologici che esiste una distinzione qualitativa tra i due tipi di processi, come a lungo sostenuto da diverse teorie sulla rappresentazione e sull’uso del linguaggio (Frazier, 1995). Questo capitolo parlerà selettivamente dei lavori che trattano di processi di comprensione della frase, analizzando gli effetti di violazioni sintattiche e di incongruenze semantiche. I lavori scelti sono così suddivisi: 1) le ricerche che si occupano di violazioni semanticopragmatiche; 2) le ricerche che studiano diversi tipi di violazioni sintattiche, da noi così raggruppate: violazioni di struttura sintagmatica, violazioni di sottocategorizzazione, violazioni di accordo; queste ultime, a loro volta, così suddivise: accordo tra soggetto e verbo, tra ausiliare e verbo, tra pronome e antecedente. Due tabelle raggruppano sin-

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teticamente le ricerche ed i risultati per aiutare il lettore nell’inquadramento dei lavori. La tabella 1 si riferisce ai lavori sulle violazioni semantiche e la tabella 2 ai lavori sulle violazioni sintattiche. Prima di passare alla parte di presentazione dei lavori specifici, faremo una breve presentazione sulla comprensione frasale; successivamente, su cosa sono i potenziali evocati e come si misurano; passeremo poi alla presentazione dei lavori con i potenziali evocati. 2. Comprensione delle frasi Per comprendere il linguaggio dobbiamo capire in che rispettivo ruolo grammaticale le singole parole devono essere interpretate. In (1) e (2) le parole delle frasi sono le stesse, ma il significato della frase cambia radicalmente, in quanto in (1) Maria è il soggetto della frase, mentre in (2) Maria è l’oggetto: (1) (2)

Maria ama Giovanni Giovanni ama Maria

Stabilire questi ruoli grammaticali implica l’attribuzione di una struttura sintattica alla frase stessa (De Vincenzi, 1991). Ma attribuire questa struttura sintattica non è un compito facile, poiché nella comprensione delle frasi i problemi di complessità dello stimolo linguistico aumentano. Per esempio vi sono molti casi di ambiguità strutturale, come illustrato dagli esempi: (3) (4) (5) (6)

Ha chiamato Mario Ho salutato la zia della ragazza che è arrivata ieri A quale ragazza hai detto di scrivere la lettera? Mario guardava la ragazza con il binocolo

Nella frase (3), Mario può essere sia il soggetto del chiamare che l’oggetto. In (4) la frase relativa che è arrivata ieri può riferirsi sia a zia che a ragazza. In (5) quale ragazza può essere sia il soggetto di scrivere sia colei che riceve la lettera. In (6) il sintagma preposizionale con il binocolo può riferirsi sia a guardare sia a ragazza. Queste frasi sono molto comuni, e a ciascuna possono corrispondere due diverse strutture grammaticali e due diverse interpretazioni. Come riusciamo a comprendere le frasi, cioè a stabilire velocemente quale sia la struttura intesa, nonostante questa pervasiva ambiguità?

12. Sintassi: i processi

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Diversi ricercatori hanno proposto che l’analizzatore del linguaggio usi delle strategie per costruire la struttura sintattica, strategie che si basano su principi di minimalità. L’analizzatore del linguaggio costruisce rapidamente, a mano a mano che ogni parola viene riconosciuta, una struttura grammaticale che serve da input per l’interpretazione semantica. Data l’ambiguità strutturale delle frasi, l’analizzatore compie delle scelte sulla base di alcuni principi di minimalità, cioè sceglie di costruire ad ogni dato momento la struttura meno complessa e che richiede meno ricerca all’indietro. Il perseguimento costante di questi principi di minimalità è dovuto ai limiti di memoria a breve termine. Ecco qui, di seguito, alcune di queste strategie: Strategia dell’Attaccamento Minimale (Frazier, 1978): non postulare struttura sintattica che sia potenzialmente non necessaria. Strategia della Chiusura Ritardata (Frazier e Fodor, 1978): se grammaticalmente possibile, attacca i nuovi elementi nella frase o sintagma che stai attualmente elaborando. Strategia della Catena Minima (De Vincenzi, 1991): costruisci dipendenze sintattiche il più semplici possibile. La strategia di Attaccamento Minimale predice che in frasi come (6) il sintagma preposizionale sarà di preferenza interpretato come argomento del verbo (guardare con il binocolo), in quanto questa è l’analisi più semplice grammaticalmente. Come si stabilisce sperimentalmente se l’analizzatore segue questa strategia? Si creano delle coppie di frasi minime, che presentano un’ambiguità strutturale. In un caso l’interpretazione finale è quella determinata dalla struttura minima, nell’altro caso no. In (7)a l’interpretazione corretta è quella minimale, dove il sintagma preposizionale con il binocolo è argomento del verbo (cioè: guarda con il binocolo). Invece, in (7)b l’interpretazione corretta è quella dove il sintagma preposizionale con la pistola non può modificare il verbo (guardare), ma deve modificare il nome (la spia), cioè si ha un attaccamento non minimo: (7)a Il poliziotto guardava la spia con il binocolo (7)b Il poliziotto guardava la spia con la pistola

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Rayner, Carlson e Frazier (1983) hanno dimostrato che i lettori impiegano più tempo a leggere la frase (7)b che non la (7)a. In particolare, registrando i movimenti degli occhi, si è visto che le persone si soffermano più a lungo sul sintagma con la pistola, come se, appunto, dovessero re-interpretarlo. La strategia di Chiusura Ritardata entra in gioco quando esistono due possibili attaccamenti minimali, cioè dove le due interpretazioni hanno la stessa complessità sintattica, come nel caso della frase (4). In tal caso l’interpretazione preferita iniziale dovrebbe essere quella dove la frase relativa che è arrivata ieri modifica il nome più recente, e cioè ragazza. In questo modo l’analizzatore attacca il modificatore all’ultimo nome in memoria, senza dover fare una ricerca all’indietro. Frazier e Rayner (1982) hanno riportato che i movimenti oculari indicano che nelle prime fasi di analisi interviene la strategia della Chiusura Ritardata. Le coppie di frasi sperimentali sono presentate in (8): la struttura attaccamento recente è la (8)a e il suo controllo, cioè la struttura dove si rivela corretta l’interpretazione con Chiusura Ritardata, è (8)b: (8)a Poiché Rino corre sempre un km e mezzo questa gli sembra una distanza breve (8)b Poiché Rino corre sempre un km e mezzo gli sembra una distanza breve Queste frasi richiedono l’uso della strategia della Chiusura Ritardata, poiché il sintagma nominale un km e mezzo può essere inizialmente interpretato come oggetto del verbo correre, cioè attaccato all’ultimo costituente letto. Oppure un km e mezzo può essere interpretato come soggetto di una frase seguente, per esempio come soggetto del verbo sembra. Se l’analizzatore sceglie inizialmente l’interpretazione con l’attaccamento recente, in (8)a essa porta all’interpretazione corretta; in (8)b porta «fuori strada» e alla conseguente rianalisi della frase (un km e mezzo deve diventare soggetto del verbo sembrare). Le previsioni sperimentali che possiamo fare sono pertanto le seguenti: (a) le frasi come (8)b, che «violano» i principi di Chiusura Ritardata, richiedono tempi di lettura più lunghi della frase (8)a, in quanto necessitano di una rianalisi; (b) poiché le strategie vengono applicate in modo automatico valutando solo la struttura sintattica elaborata fino a quel momento, non dovremmo aspettarci variazioni nell’andamento degli indici oculari nella regione di tem-

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poranea ambiguità, ma dovremmo aspettarci un aumento delle fissazioni nella regione di disambiguazione. Queste previsioni vengono confermate: i tempi di lettura sono significativamente più lunghi per la struttura (8)b nella regione che segue l’ambiguità. Infine, la strategia di Catena Minima predice che in frasi come (9) l’interpretazione preferita sia quella dove l’elemento interrogativo A quale ragazza viene interpretato nella prima posizione strutturale disponibile (9)a, e cioè come soggetto del verbo scrivere. Nei casi come (9)b, in cui l’interpretazione corretta corrisponde all’interpretazione più distante, si riscontrano tempi di lettura più lunghi e più errori di comprensione (Stowe, 1986): (9)a A quale ragazza hai detto __ di scrivere la lettera? (9)b A quale ragazza hai detto di scrivere la lettera __? Questa preferenza è stata dimostrata in lingue diverse ed in strutture diverse: in inglese, in olandese, in tedesco, in italiano1. Queste strategie della minimalità implicano architetture modulari della mente. Esse si basano su un’ipotesi di modello della mente in cui vi sono componenti specifiche dedicate al linguaggio, cioè moduli. In particolare, si ipotizza che vi sia un modulo sintattico che ha accesso esclusivo a informazione sulle strutture grammaticali della lingua e che, inizialmente, usa solo questa informazione in maniera automatica per costruire una rappresentazione sintattica della frase. L’accesso esclusivo a questa informazione grammaticale, che è per sua natura limitata (le strutture grammaticali di una data lingua sono finite), è ciò che garantisce un funzionamento rapido e automatico del meccanismo di analisi (Fodor, 1983). Il prezzo da pagare per questa rapidità ed automaticità consiste nel fatto che l’informazione semantica, pragmatica, discorsiva non viene consultata in questa costruzione iniziale, poiché è informazione che implica conoscenze del mondo e inferenze di tipo non linguistico, che sono anche usate nella comunicazione non linguistica. Il modello che emerge da queste teorie, pertanto, è quello di un analizzatore del linguaggio che risponde a criteri puramente linguistici per costruire la struttura sintagmatica. Dopodiché la struttura semantica e quella lessicale ver1 In inglese, Stowe (1986), Frazier e Clifton (1989); in olandese, Frazier e Flores d’Arcais (1989); in tedesco, Meng (1995), Schriefers, Friederici e Kühn (1995); in italiano, De Vincenzi (1991).

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ranno utilizzate per interpretare la struttura. Infine, in un terzo momento, tutta l’informazione verrà integrata. Vediamo adesso come i potenziali evocati si inseriscono in questo dibattito. 3. L’utilizzo dei potenziali evocati in psicolinguistica In ambito psicolinguistico, i potenziali evocati permettono di osservare le modificazioni dell’attività elettrica cerebrale che si verificano durante il processo di comprensione di parole o frasi. L’approccio consueto consiste nell’esaminare aspetti specifici del processo di comprensione per vedere se c’è una risposta dei potenziali che covaria, sistematicamente, con la manipolazione di un certo stimolo linguistico. Quando si trova una di queste covariazioni si possono fare delle inferenze su alcuni aspetti psicologici, basandosi sulle differenze nei potenziali evocati nelle diverse condizioni. Per una approfondita descrizione metodologica sull’utilizzo dei potenziali evocati in psicolinguistica, rimandiamo a De Vincenzi e Di Matteo (2001, 2004).

3.2. L’interpretazione dei dati La presenza di anomalie nelle frasi produce effetti osservabili sull’ampiezza delle componenti evocate dalle parole critiche o sulle parole finali delle frasi che contengono un’anomalia. In particolare, per le parole critiche si hanno effetti specifici che dipendono dal tipo di anomalia, e per le parole finali si osserva un effetto generico di negatività. Nella seguente esposizione le parole critiche degli esempi verranno sempre sottolineate. 4. Potenziali evocati e violazioni semantiche La tabella 1 presenta un quadro riassuntivo degli studi sulle violazioni semantiche. Il lavoro di Kutas e Hillyard (1980) è stato il primo ad utilizzare la tecnica dei potenziali evocati con materiale linguistico, evidenziando un aumento dell’ampiezza della componente endogena negativa (effetto N400) quando la parola critica non era congruente con il resto della frase rispetto a quando lo era (cfr. figura 1).

3.1. Modalità di presentazione del materiale Il materiale utilizzato in questo tipo di studi consiste di frasi di controllo che sono formalmente corrette e pragmaticamente accettabili, e frasi sperimentali, del tutto simili alle frasi di controllo eccetto che per una parola, detta parola critica, che viola degli specifici vincoli di natura sintattica o semantica. In esperimenti di lettura, le frasi vengono presentate parola per parola, al centro di uno schermo. Ogni parola viene presentata per una durata di circa 300-350 ms. ed è seguita da un intervallo vuoto di simile durata prima della comparsa della parola successiva. Questa modalità è utilizzata per limitare al massimo gli effetti della sovrapposizione dell’elaborazione di parole successive. L’ultima parola della frase è seguita da una pausa più lunga (oltre 1000 ms.), alla quale può seguire o meno la richiesta di eseguire un compito aggiuntivo. Il compito aggiuntivo ha, normalmente, il duplice scopo di verificare che i soggetti abbiano rivolto sufficiente attenzione alla frase presentata e di accertare che abbiano rilevato l’anomalia, e può consistere nel chiedere di esprimere, ad esempio, un giudizio di accettabilità della frase. In questo caso i soggetti devono dire se la frase appena letta è sensata oppure no, dal punto di vista della forma e del contenuto.

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12. Sintassi: i processi

N400

-5μV

il cane Il caffè mi piace con il miele

lo zucchero

Fig. 1. Componente N400 in risposta ad una parola finale semanticamente anomala rispetto ad una parola inconsueta o ad una parola attesa (adattata da Kutas e Hillyard 1983).

A grandi linee, la N400 viene oggi definita come la risposta specifica all’incongruenza semantica. Ad oggi moltissime ricerche in lingue diverse hanno investigato questo tipo di violazione: in inglese, in

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Il linguaggio. Strutture linguistiche e processi cognitivi

Tab. 1. Quadro riassuntivo dei risultati ottenuti su frasi con violazioni semanticopragmatiche. N.D.: non disponibile; C = F: parola critica uguale a parola finale Violazione della compatibilità semantico-pragmatica tra soggetto e verbo

Parola critica Compito

Parola finale Fase I

Fase II

Fase III

Rösler, Pütz, Friederici e Hahne (1993)

decisione lessicale

N.D.

N.D.

Osterhout e Mobley (1995)

giudizio di accettabilità

N.D.

Osterhout e Mobley (1995)

solo lettura

N.D.

N400 (300-700) distribuita parietale posteriore N400 (300-500) antero-parietale sinistra N400 (300-500) distribuita verso sinistra

Gunter, Stowe e Mulder (1997) Osterhout e Nicol (1999)

solo lettura

N.D.

giudizio di accettabilità

N.D.

Hahne e Jescheniack (2001)

giudizio di accettabilità

Hahne e Friederici (2002) De Vincenzi et al. 2003

N400 (320-560) distribuita N400 (300-500) distribuita

N.D. N400-like (300-500) posteriore (Jabberwocky) giudizio di N.D. N400 (400-700) accettabilità distribuita posteriore solo lettura + N.D. N400 (300-500) 20% domande distribuita posteriore

Violazione della compatibilità Compito semantico-pragmatica tra verbo e complementi

N.D. N.D.

N.D. N.D.

C=F

NEG (300-500) distribuita NEG (300-800) distribuita posteriore C=F

N.D.

NEG (300-500) distribuita posteriore C=F

N.D.

C=F

N.D.

NEG (300-800) distribuita posteriore

Parola critica Parola finale Fase I

Fase II

Fase III

N.D.

N400 (300-500) centrale posteriore N400 (200-500) distribuita

N.D.

———

N.D.

N.D.

N400 (200-500) distribuita N400 (300-600) centroparietale e posteriore ———

N.D.

———

Ainsworth-Darnell, Shulman e Boland (1998) Hagoort e Brown (2000a)

solo lettura + 30% domande solo lettura

Kutas e Hillyard (1983)

solo lettura + domande finali

N.D.

N400 (300-600) centro-parietale e posteriore

N.D.

Neville, Nicol, Barss, Forster e Garrett (1991) Münte, Heinze e Mangun (1993)

giudizio di accettabilità

N.D.

N400 (300-500) posteriore

giudizio di sinonimia

N.D.

N400 (450-500) centro-parietale

N.D.

12. Sintassi: i processi

239

tedesco, in olandese e in italiano2. Tutti questi studi hanno usato violazioni delle restrizioni di selezione tra soggetto e verbo, oppure tra verbo e complementi. Un esempio del primo caso è in (10), tratto da De Vincenzi et al. (2003), mentre (11) è un esempio del secondo caso, tratto da Ainsworth-Darnell et al. (1998). Negli esempi successivi la parola critica è sempre sottolineata. (10) Il nuovo capotreno fischia/germoglia alla partenza della locomotiva (11) Jill entrusted the recipe to friends/platforms before she suddenly disappeared ‘Jill affidò la ricetta ad amici/marciapiedi prima di sparire improvvisamente’ Come si può notare dalla tabella 1, i risultati, in tutte le lingue e nonostante variazioni nel compito, ossia sola lettura o giudizio di accettabilità, sono estremamente coerenti: le violazioni di selezione semantico-pragmatica elicitano sempre una N400, cioè un’onda ad andamento negativo distribuita su tutto lo scalpo, ma presente soprattutto nelle aree posteriori, che emerge a circa 300 ms., con un picco intorno ai 400 ms., dalla presentazione della parola critica. Questo quadro così univoco è determinato dal fatto che è stato studiato, in realtà, un solo tipo di violazione semantica, cioè le restrizioni di selezione, e quasi sempre esse coinvolgevano violazioni del tratto di animatezza. Nessuno studio ha mai affrontato altri aspetti della semantica, quali definitezza o quantificazione. Pertanto, essendo il quadro linguistico dello studio pressoché univoco, ne conseguono risultati univoci. E la N400 emerge indiscutibilmente come correlata alle violazioni di selezione semantico-pragmatiche. Questo effetto N400, che compare su una parola semanticamente anomala all’interno di una frase, è comunque distinto dalla negatività chiamata effetto «N400-like», che compare sulla parola finale di una frase che contiene una anomalia di qualsiasi tipo. Notiamo già dalla ta2 In inglese: Osterhout e Mobley (1995); Osterhout e Nicol (1999); AinsworthDarnell, Shulman e Boland (1998); Neville et al.(1991); in tedesco: Hahne e Friederici (2002); Hahne e Jescheniak (2001); Münte, Heinze e Mangun (1993); Rösler, Pütz, Friederici e Hahne (1993); in olandese: Gunter, Stowe e Mulder (1997); Hagoort e Brown (2000b); in italiano: De Vincenzi, Job, Di Matteo, Angrilli, Penolazzi, Ciccarelli e Vespignani (2003).

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Tab. 2. Quadro riassuntivo dei risultati ottenuti su frasi con violazioni sintattiche. N.D.: non disponibile; C = F: parola critica uguale a parola finale Violazione della struttura sintagmatica e/o della categoria della parola

Neville et al. (1991)

Parola critica Compito

Parola finale Fase I

Fase II

Fase III

ELAN LAN (300-500) P600 (50-250) temporale (500-700) parietale distribuita sinistra posteriore Hahne e Friederici giudizio di ELAN N.D. P600 (1999) accettabilità (100-300) (500-1000) posteriore (solo lista 20%) Hahne e giudizio di Early Neg N.D. P600 Jescheniak (2001) accettabilità (100-250) (500-1000) anteriore centro-parietale Hahne e Friederici giudizio di Early Neg N.D. P600 (2002) accettabilità (100-250) (300-1000) anteriore distribuita posteriore Münte, Heinze e giudizio di N.D. LAN (500-550) N.D. Mangun (1993) grammaticalità frontale sinistra «False» violazioni di struttura sintagmatica (violazioni di interpretazione)

giudizio di accettabilità

Fase II

N.D.

N.D.

N.D.

N.D.

N.D.

solo lettura + domande finali

N.D.

Osterhout e Mobley (1995)

Esp 1 giudizio di accettabilità Esp 3 solo lettura solo lettura

N.D.

N.D.

solo ascolto

N.D.

De Vincenzi et al. 2003

solo lettura + 20% domande

N.D.

C=F

———

P600 ——— (700-950) centro-parietale P600 NEG (500-700) (250-600) distribuita distribuita P600 ——— (500-1000) distribuita centro-parietale

Violazioni di accordo di numero nome-aggettivo

Kutas e Hillyard (1983) Violazioni di accordo di numero ausiliare-verbo

Fase I

N.D.

Hagoort e Brown (2000b)

solo lettura

N.D.

Fase II

Fase III

LAN P600 (400-700) (700-1200) anteriore sinistra NEG P600 (350-450) (500-1000) anteriore centrodestra parietale

Localmente le frasi non violano regole sintattiche. Le frasi corrispondono a strutture frasali poco preferite piuttosto che errate.

NEG P600 (200-400) (500-800 ca.) anteriore parietale LAN P600 (300-500) (500-800) antero-temporale centrosinistra posteriore N.D. P600 (500-700) centroparietale NEG P600 (350-550) (500-1000) anteriore distribuita centroparietale LAN P600 (350-450) (500-800) anteriore distribuita sinistra centroposteriore

——— NEG (300-800) distribuita posteriore NEG (250-600) centroparietale ———

NEG

Parola finale Fase I

solo lettura + domande finali

N.D.

Fase II

Fase III

NEG P600 (200-500) (500-800 ca.) anteriore parietale

———

Parola critica Compito

Parola finale Fase I

Kutas e Hillyard (1983)

solo lettura + domande finali

N.D.

Gunter, Stowe e Mulder (1997)

solo lettura

N.D.

Osterhout e Nicol (1999)

giudizio di accettabilità

N.D.

Violazioni di accordo tra pronome e antecedente

Fase III

Parola critica

C=F ———

Fase II

Compito

Parola finale

decisione lessicale

4

Kutas e Hillyard (1983)

Hagoort e Brown (2000b)

Fase III

Compito

Parola finale Fase I

C=F

Parola critica

Rösler et al. (1993)

3

N.D.

Parola critica Compito

Hagoort, Brown e Groothusen (1993)

Parola finale Fase I

Violazioni di accordo di numero soggetto-verbo

C=F

Parola critica Compito

Ainsworth-Darnell, solo lettura + Shulman e Boland 30% domande (1998)3 Hagoort, Brown solo lettura e Groothusen 4 (1993) Hagoort, Brown Esp 1 solo (2000b) lettura Esp 2 solo ascolto Violazione della sottocategorizzazione (verbo transitivo / intransitivo)

———

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12. Sintassi: i processi

Fase II

Fase III

NEG P600 ——— (300-400) (500-800 ca.) anteriore parietale LAN P600 C=F (350-380) (590-980) parietale centro sinistra posteriore NEG P600 NEG (400-500) (500-800) (300-500) destra centrodistribuita posteriore posteriore Parola critica

Compito

Parola finale Fase I

Fase II

Fase III

P600 (500-800) posteriore N.D.

Osterhout e Mobley (1995)

giudizio di accettabilità

N.D.

N.D.

Osterhout e Mobley (1995)

solo lettura

N.D.

N.D.

NEG (300-800) distribuita N.D.

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bella 1 che negli studi dove la parola critica non coincide con la parola finale, quando viene fatta un’analisi sulla parola finale si riscontra una negatività di fine frase nella condizione sperimentale in cui è contenuta la violazione. In quest’ultimo caso l’effetto viene attribuito a difficoltà di integrazione del contenuto dell’intera frase, mentre nel primo caso viene attribuito, in modo più specifico, al processo di rilevazione dell’incongruenza. Lo stesso effetto «N400-like» sulla parola finale si riscontra anche nelle frasi contenenti violazioni sintattiche (cfr. tabella 2), e anche qui è interpretato come una manifestazione di problemi di integrazione del materiale linguistico, causati dalla violazione sintattica. 5. Potenziali evocati e sintassi Le ricerche che hanno studiato le risposte ERPs ad errori sintattici hanno evidenziato più di una componente in risposta a tali anomalie. La tabella 2 presenta un quadro riassuntivo degli studi sulle violazioni sintattiche che verranno qui discussi. A seconda del tipo di violazione si può trovare una componente Negativa Anteriore Precoce, spesso localizzata a sinistra e detta ELAN, oppure una componente Negativa Anteriore, detta LAN; entrambe seguite da una componente Positiva Posteriore (P600). La varietà delle risposte alle anomalie sintattiche deriva dal fatto che le manipolazioni utilizzate in questi studi sono molto diverse l’una dall’altra: alcune, come le violazioni di struttura sintagmatica, dipendono dalla posizione delle parole all’interno della frase, altre, come la concordanza soggettoverbo, dipendono, invece, dalle relazioni tra le parole, che sono indipendenti dalla posizione. La tabella 2 presenta i lavori più significativi, raggruppati in base al tipo di violazione sintattica studiata e partendo dalle violazioni di struttura sintagmatica. Il ragionamento che seguiremo qui è che se all’interno della grammatica sono ipotizzate delle rappresentazioni e dei meccanismi di analisi cognitivamente diversi, questi coinvolgono plausibilmente una diversa attività cerebrale che può essere pertanto riflessa in potenziali evocati distinti.

12. Sintassi: i processi

243

no regole generali sulla costruzione della frase e di parti di essa che sono indipendenti da uno specifico item lessicale. Data la loro caratteristica di riguardare la costruzione iniziale della frase, ci si aspetta che la violazione di tali regole provochi una risposta molto precoce in termini di latenza, cioè nell’arco temporale compreso tra 100 e 300 ms. Uno dei primi studi sulla relazione tra potenziali evocati e sintassi è di Neville et al. (1991). Le frasi erano costruite invertendo l’ordine del nome testa e della preposizione: per esempio, «la dimostrazione del teorema...» diventa «della dimostrazione il teorema...», come in (13). La frase contenente la violazione veniva confrontata con una frase senza violazione, come in (12). L’asterisco indica le frasi contenenti violazioni. (12) The scientist criticized Max’s proof of the theorem ‘Lo scienziato ha criticato Max-di dimostrazione del teorema’ Lo scienziato ha criticato la dimostrazione del teorema di Max (13) *The scientist criticized Max’s of proof the theorem ‘Lo scienziato ha criticato Max-di della dimostrazione il teorema’ Lo scienziato ha criticato della dimostrazione il teorema di Max’ I risultati hanno mostrato che le frasi con violazione della struttura sintagmatica evocavano una precoce negatività, detta ELAN, seguita da una LAN e da una P600. Una precoce negatività sinistra (ELAN), seguita dalla P600, è stata trovata anche in tedesco da Hahne e Friederici (1999, 2002) e Hahne e Jescheniak (2001), con coppie di frasi come (14) e (15). In (14) c’è la frase corretta di controllo, mentre (15) è la frase contenente la violazione. Come si può notare la violazione è data dal fatto che la preposizione im deve essere seguita da un nome o da una combinazione aggettivo-nome; per cui un verbo principale in questa posizione è sintatticamente scorretto. (14) Das Baby wurde gefüttert La bimba era allattata

5.1. Violazioni di struttura sintagmatica

(15) *Die Gans wurde im gefüttert *L’oca era nel allattata

Le violazioni di struttura sintagmatica sono violazioni delle cosiddette regole di riscrittura sintagmatica: per esempio, che un sintagma preposizionale è costituito da una preposizione e da un nome. Queste so-

C’è un unico studio sulle violazioni categoriali, quello di Münte et al.(1993), che non ha trovato una negatività precoce ELAN, ma

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una LAN, cioè una negatività con una insorgenza più ritardata e, precisamente, nell’arco di 300-500 ms. Il materiale di questo studio consisteva in coppie di parole su cui dare un giudizio, come in (16): (16) you write * your write La ragione della differenza tra questo studio e i precedenti dipende dal materiale linguistico utilizzato. In particolare, la differenza sta nel quando si può decidere la categoria della parola, cioè quanto rapidamente è disponibile l’informazione categoriale della parola critica (è un nome o è un verbo?). Nell’esperimento di Neville et al. (1991), l’informazione categoriale è disponibile rapidamente su una breve parola funzione, quale la preposizione of. Anche nell’esperimento di Hahne e Friederici (1999, 2002) l’informazione che un verbo segue la preposizione è immediatamente rilevabile dal prefisso del participio regolare tedesco ge- del verbo principale. Invece, nell’esperimento di Münte et al.(1993), l’informazione categoriale è disponibile solo dopo aver codificato tutta l’entrata lessicale (per esempio: write è verbo, mentre writing può essere un nome: tale informazione si ricaverebbe solo dal suffisso -ing). Pertanto, casi dove il pieno accesso all’entrata lessicale è prioritario per stabilire la violazione, determinano una negatività con insorgenza a 300-350 ms. (cioè nell’intervallo temporale della LAN, non più dell’ELAN), contando che almeno 300 ms. sono indispensabili per un accesso lessicale (Kutas e Hillyard, 1983). 5.1.1. Le «false» violazioni di struttura sintagmatica Ci sono due studi, di Hagoort, Brown e Groothusen (1993) e di Ainsworth-Darnell et al. (1998), che non riportano negatività anteriori sinistre in correlazione con presunte violazioni di categoria della parola. In realtà, se si esaminano attentamente i materiali linguistici utilizzati, si vede che essi non presentano violazioni strutturali, ma violazioni di preferenze di analisi, cioè strutture frasali poco preferite piuttosto che errate. Vediamo in dettaglio partendo da Ainsworth-Darnell et al. (1998). (17)a Jill entrusted the recipe to friends before she suddenly disappeared ‘Jill affidò la ricetta a amici prima lei improvvisamente sparisse’ Jill affidò la ricetta agli amici prima di sparire improvvisamente

12. Sintassi: i processi

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(17)b *Jill entrusted the recipe friends before she suddenly disappeared ‘Jill affidò la ricetta amici prima lei improvvisamente sparisse’ *Jill affidò la ricetta agli amici prima di sparire improvvisamente Alla parola critica in (b) è stata trovata solo una P600. In realtà, in inglese la condizione (b) diventa errata solo alla parola before, poiché dopo la parola critica friends la frase poteva continuare in maniera perfettamente accettabile, come nella frase (18), con una frase relativa incassata: (18) Jill entrusted the recipe friends liked most, to Mary ‘Jill affidò la ricetta amici trovavano piacevole più, a Mary’ Jill affidò la ricetta, che gli amici preferivano, a Mary Pertanto non è sorprendente che Ainsworth-Darnell et al. (1998) abbiano trovato una P600 che è l’indice di violazione di analisi preferite, non di errori sintattici (Osterhout e Holcomb, 1992), anziché una LAN. Stesso ragionamento vale per Hagoort et al. (1993), per la loro violazione di struttura sintagmatica, esemplificata in (19) in una frase olandese: (19)a De echtgenoot schrikt van de nogal emotionele reactie van zijn vrouw Il marito è allarmato dalla piuttosto emotiva risposta di sua moglie (19)b *De echtgenoot schrikt van de emotionele nogal reactie van zijn vrouw Il marito è allarmato dalla emotiva piuttosto risposta di sua moglie Infatti, la condizione violata (19)b sarebbe legittima fino alla parola critica nel caso di una continuazione come in (20): (20) Il marito è allarmato dalla emotiva piuttosto... che razionale risposta di sua moglie In conclusione, gli studi sulle violazioni di struttura sintagmatica, cioè di categoria della parola, evocano una risposta di precoce nega-

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tività, ELAN, seguita dalla classica P600, sintomo di rianalisi o di riaggiustamento dell’errore. Passiamo ora agli studi su una fase considerata posteriore a quella di costruzione della struttura sintagmatica, e cioè agli studi sulle violazioni di sottocategorizzazione e agli studi sulle violazioni di accordo. 5.2. Violazioni di sottocategorizzazione Le violazioni di sottocategorizzazione sono violazioni locali della struttura sintagmatica, determinate però dalle proprietà lessicali del verbo: per esempio, un verbo intransitivo non vuole un complemento oggetto e la selezione dell’ausiliare (essere o avere) dipende dalla scelta lessicale del verbo (Rösler et al. 1993). Poiché queste scelte hanno a che fare con l’entrata lessicale del verbo, ci aspettiamo che esse non siano calcolate alla stessa velocità della costruzione della struttura sintagmatica, ma appartengano ad una fase successiva dell’analisi sintattica nella quale è consultata l’informazione lessicale. Pertanto non dovremo trovare più negatività precoci, ma negatività nell’intervallo temporale della seconda fase, 300-500 ms., cioè LAN. I risultati confermano le predizioni: in tedesco, Rösler et al. (1993) hanno trovato una LAN seguita da una P600, usando materiali, come in (21), che presentano una violazione sintattica di sottocategorizzazione nel caso in cui l’ausiliare wurde, «è stato», è usato con verbi che non passivizzano. (21)a Der Präsident wurde begrüscht Il presidente è stato salutato

12. Sintassi: i processi

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5.3. Violazioni di accordo I lavori sulle violazioni di accordo sono abbastanza numerosi negli studi con gli ERPs. Ci sono diversi tipi di accordo nelle lingue naturali: l’accordo tra soggetto e verbo, l’accordo tra nome e articolo, tra nome e aggettivo, tra pronome e antecedente. Non sempre un certo tipo di accordo usa gli stessi tratti: per esempio, in italiano, l’accordo soggettoverbo utilizza i tratti di persona e di numero, mentre utilizza il tratto di genere, quantomeno a livello superficiale, solo nel caso di participio passato con verbo ergativo (è partito/partita) e con i verbi al passivo. 5.3.1. Accordo di numero soggetto-verbo Uno dei primi studi sulle violazioni di accordo è un lavoro sulla lingua inglese di Kutas e Hillyard (1983). Lo studio utilizzava frasi che contenevano errori di accordo di numero sul nome, (23), sul verbo (accordo di numero soggetto-verbo), (24), e di tempo verbale (25). (23) *All turtles have four leg and a tail *Tutte le tartarughe hanno quattro zampa e una coda (24) *The turtles will spit out things they does not like to eat *Le tartarughe sputano le cose che non ama mangiare (25) *It has very powerful winds that can caused great damage *Ha dei venti molto forti che possono causato danni gravi

(22)a Der zoon van de rijke industrieel leent de auto van zijn vader Il figlio del ricco industriale prende la macchina di suo padre

Le incongruenze erano associate con un aumento di negatività tra i 200 e i 500 ms. nelle aree anteriori. È importante notare che questa negatività è differente dalla N400 evocata dalle anomalie semantiche, poiché è più ridotta e soprattutto distribuita sulla parte anteriore. Oltre a ciò vi era una successiva positività, P600. Le violazioni di accordo soggetto-verbo sono state esaminate in olandese da Hagoort et al.(1993), in un compito di lettura, e da Hagoort e Brown (2000a), con presentazione uditiva. L’olandese ha delle caratteristiche simili all’italiano, in quanto presenta una ricca morfologia e un ordine delle parole che consente anche il soggetto post-verbale, come si vede in (26) e (27).

(22)b * Der zoon van de rijke industrieel pocht de auto van zijn vader Il figlio del ricco industriale si vanta la macchina di suo padre

(26) Het verwende kind gooit/*gooien het speelgoed op de grond Il bambino viziato getta/*gettano i giocattoli sul pavimento

(21)b *Der Lehrer wurde gefallen Il maestro è stato caduto In olandese, Hagoort et al.(1993), usando i materiali come in (22), contenenti violazioni di sottocategorizzazione (cioè verbo intransitivo seguito da complemento oggetto), hanno trovato una negatività anteriore sempre nell’intervallo 350-450 ms.:

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fine, uno studio sull’italiano di De Vincenzi et al. (2003) ha esaminato le violazioni di accordo di numero tra soggetto e verbo. I risultati hanno mostrato una LAN seguita da una P600. Pertanto i risultati dei lavori sull’accordo di numero soggettoverbo mostrano un quadro univoco di LAN o negatività anteriore nell’intervallo 300-500 ms., seguite dalla classica P600.

Pz

+ gramm. corretto gramm. scorretto

5μV

12. Sintassi: i processi

P600/SPS

0

600

1600

1800

2400

3000

Het verwende

kind

gooit *gooien

het

speelgoed

op de grond

Il bambino

viziato

getta *gettano

i

giocattoli

sul pavimento

Fig. 2. Componente P600/SPS (Syntactic Positive Shift) in risposta ad una violazione di accordo di numero soggetto-verbo (adattata da Hagoort et al. 1993). Sulla parte finale della frase è possibile osservare l’aumento di negatività della risposta per la frase scorretta (effetto N400-like).

(27) Na afloop van het feest bestellen/*bestelt de gasten een taxi Dopo la fine della festa chiamano/chiama gli ospiti un taxi I risultati hanno mostrato che le frasi scorrette evocano una negatività anteriore, nell’intervallo 350-500, e successivamente la componente positiva P600. In inglese, Osterhout e Mobley (1995) hanno esaminato le violazioni di accordo soggetto-verbo. Le frasi, come nell’esempio (28), avevano sempre il soggetto plurale e il verbo al plurale o al singolare. (28) The elected officials hope/*hopes to succeed Gli ufficiali designati sperano/*spera di avere successo Il compito era un giudizio di accettabilità. I risultati mostrano una LAN sulle aree anteriori e temporali dell’emisfero sinistro nell’intervallo compreso tra 300-500 ms., seguita da un’ampia P600. In-

5.3.2. Accordo di tempo ausiliare-verbo Pochi studi si sono occupati di altre violazioni di accordo. Una violazione che ha tre studi all’attivo, è la violazione di accordo di tempo tra ausiliare e verbo. Oltre al sopra citato Kutas e Hillyard (1983), vi è lo studio di Gunter et al. (1997) in olandese, esempio in (29), e quello di Osterhout e Nicol (1999) in inglese, esempio in (30). 29)

De vuile matten werden door de hulp geklopt/*kloppen I tappetini sporchi furono dalla governante sbattuti/*sbattere

30)

The cats won’t eat/*eating the food that Mary leaves them I gatti non mangeranno/*mangiando il cibo che Maria lascia loro

Lo studio di Gunter et al. (1997) ha mostrato una LAN parietale sinistra (350-380 ms.) e una P600 sulla parola critica, mentre lo studio di Osterhout e Nicol (1999) ha mostrato una negatività destra (400-500 ms.) e una P600. Questi studi offrono uno spunto interessante per le violazioni precoci: in realtà non si sa se si trova una LAN o una N400 destra. Poiché la violazione di tempo è una violazione particolare, ulteriori approfondimenti sembrano essere necessari per capire tale fenomeno. 5.4. Accordo tra pronome e antecedente Passiamo, infine, ad un tipo di accordo che non riguarda più quello tra costituenti frasali, ma è accordo di coreferenza, cioè l’accordo tra un pronome riflessivo ed il suo antecedente. Osterhout e Mobley (1995) hanno studiato l’accordo pronome-antecedente per valutarne la similarità con l’accordo tra soggetto e verbo. Le frasi contenevano un pronome riflessivo che era o non era congruente con il numero dell’antecedente soggetto, (31), oppure un pronome riflessivo che era o non era congruente con il genere dell’antecedente, (32).

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(31) The hungry guests helped themselves/himself to the food Gli ospiti affamati servirono a se stessi/se stesso il cibo (32) The successful woman congratulated herself/himself on the promotion La donna in carriera si congratulò con se stessa/se stesso per la promozione I risultati mostrano per entrambe le violazioni una P600 e, a fine frase, presentano una negatività simile all’effetto N400. La presenza della P600 sembra indicare che la concordanza soggetto-verbo e la concordanza pronome-antecedente vengono elaborate almeno in parte in modo simile. Quest’ultimo esperimento di Osterhout e Mobley (1995) vuole anche verificare se le risposte elettriche cerebrali a violazioni di accordo possono essere attribuite alla natura del compito richiesto, e cioè alla specifica richiesta di esprimere un giudizio di accettabilità. Per questo motivo ai soggetti viene chiesto di leggere semplicemente le frasi. La logica di questa manipolazione è la seguente: nonostante si sia già stabilito che anomalie sintattiche e semantiche suscitano risposte ERPs diverse, dobbiamo comunque chiederci se queste violazioni sono sempre e comunque percepite (e cioè computate automaticamente), o se invece la loro percezione è dovuta ad un processo innescato dal compito, cioè al fatto che viene richiesto un giudizio sull’accettabilità della frase. Il materiale includeva frasi con violazioni di accordo soggettoverbo, frasi con violazioni di accordo riflessivo antecedente e frasi con violazioni semantiche. I risultati indicano che anche in condizione di semplice lettura le violazioni di accordo di numero soggetto-verbo e le anomalie semantiche provocano la comparsa di risposte distinte, e cioè rispettivamente una risposta LAN seguita da P600 per l’accordo soggettoverbo e una risposta N400 per l’anomalia semantica. Invece, per le violazioni di accordo riflessivo-antecedente (sia di numero che di genere) si perde l’effetto P600. Questo effetto selettivo del compito sull’accordo pronominale e non sull’accordo soggetto-verbo è un dato sperimentale molto importante per almeno due ragioni: da un punto di vista linguistico, esso conferma la distinzione fatta da teorie sintattiche quale quella del Governo e Legamento di Chomsky (1981), che prevedono una se-

12. Sintassi: i processi

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parazione tra i processi inerenti la struttura frasale (Governo) e i principi che regolano la coreferenza (Legamento); dal punto di vista psicolinguistico, poi, questo dato conferma in modo forte una distinzione tra i processi «automatici», che sarebbero quelli che riguardano la costruzione della struttura della frase, e «processi non automatici», ma di interpretazione della struttura, quali stabilire una relazione di coreferenza. In altre parole, c’è una distinzione tra processi di costruzione della struttura e processi di indicizzazione della struttura stessa (Berwick and Weinberg, 1984; De Vincenzi, 1991). Diversi studi sperimentali hanno già dimostrato che l’interpretazione dei pronomi è un processo che può avere tempi di computazione molto diversi, può avvenire in maniera veloce o in maniera ritardata, o può anche non avvenire del tutto (Greene, McKoon e Ratcliff, 1992). La manipolazione del compito ha messo in luce che tale effetto ritardato di interpretazione si trova anche con i pronomi riflessivi, che sono gli unici per i quali il coreferente è linguisticamente determinato, e cioè deve essere un elemento all’interno della frase. 6. Conclusioni I dati ERPs qui esemplificati sono facilmente spiegabili ed integrabili nel modello neuropsicologico di Friederici (2002), che prende spunto da, e sostanzialmente ricalca, il modello della comprensione del linguaggio proposto da Frazier e colleghi (Frazier, 1987; Frazier e Rayner, 1982). Questo modello prevede tre stadi di analisi: 1. Primo stadio. L’analizzatore del linguaggio costruisce in maniera incrementale la struttura sintattica usando solo informazione categoriale e le regole di riscrittura frasale della lingua in oggetto. Questo primo stadio è riflesso nelle negatività anteriori precoci (ELAN), nell’arco temporale di 100-300 ms. trovate nelle ricerche illustrate nel § 5.1. A maggior conferma di questo modello dell’analizzatore, abbiamo visto che le strutture non preferite non provocano questa precoce negatività. Ciò dimostra che durante questa prima fase l’analizzatore è guidato solo da regole di riscrittura frasale e non considera altre informazioni quali la frequenza di occorrenza di una struttura. 2. Secondo stadio. Questa seconda fase si estende nell’arco temporale di 300-500 ms. In questa fase è disponibile l’informazione lessicale. Dopo che l’informazione categoriale delle parole è usata per costruire la struttura iniziale, tutta l’informazione contenuta nell’en-

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trata lessicale è recuperata. Pertanto, l’informazione sintattica quale numero e genere, sottocategorizzazione verbale e il significato delle singole parole sono disponibili ed utilizzate. In questa fase è elaborata anche l’informazione morfo-sintattica che determina le relazioni tra diversi costituenti. A questo punto, l’elaborazione sintattica e quella semantica lavorano in parallelo. La prima è riflessa nelle negatività anteriori e nella LAN che si trova in risposta a violazioni di sottocategorizzazione e a violazioni morfosintattiche di accordo. L’elaborazione semantico-lessicale è invece riflessa nella classica N400, con distribuzione centro-parietale. 3. Terzo stadio. Nella terza fase l’informazione strutturale e quella semantico-lessicale (tra cui quella tematica) e i processi di coreferenza sono integrati. Se questa integrazione non ha successo, l’analizzatore cerca di rianalizzare o aggiustare la struttura sintattica costruita inizialmente, in modo da arrivare ad una interpretazione coerente. Questi processi avvengono nell’arco temporale di 500-1000 ms. e sono riflessi nella P600. Questo modello è modulare nella distinzione tra fase 1 e fase 2 e nell’indipendenza dei processi sintattici e semantici della fase 2. Riguardo ai legami tra psicolinguistica e teorie sintattiche, esso convalida le teorie sintattiche che prevedono una distinzione tra i diversi componenti della grammatica, quali le regole di riscrittura frasale, le sottocategorizzazioni, i processi morfosintattici e i processi di coreferenza.

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Gli autori

Gaetano Berruto Cristina Burani Marica De Vincenzi Remo Job Alessandro Laudanna Giulio C. Lepschy Giovanna Marotta Francesca Peressotti Luigi Rizzi Cristina Romani Renata Savy Patrizia Tabossi Anna M. Thornton Miriam Voghera

Università di Torino CNR, Roma Università di Chieti Università di Trento Università di Salerno Università di Reading e University College, Londra Università di Pisa Università di Padova Università di Siena Università di Aston Università di Salerno Università di Trieste Università di L’Aquila Università di Salerno

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Indici

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Accento, 19, 48. Accento lessicale (Stress), 19, 61, 62, 63, 81, 152, 153. Accento primario, 64. Accento secondario, 64. Accento tonale, 19. Accesso lessicale, 36, 114, 118-120, 124, 150, 152,169, 193, 195, 244. Accordo, 222, 223, 231, 241, 247-251. Action Theory, 25. Adaptive Variability, 21. Afasia, 73, 75, 76, 83-85, 87, 89. Afasiologia, XI. Affisso, 95, 98, 107, 113, 213, 215, 223. Aggettivo, 131, 132, 216. Alfabeto fonetico internazionale, vedi International Phonetic Alphabet. Allofono, 5, 49, 93. Allomorfia, 95, 98, 107. Allomorfo, 93, 95, 98, 107, 109, 110, 111. Altezza vocalica, 52. Altezza tonale, vedi Pitch e Frequenza fondamentale. Amalgama, 105, 108. Ambiguità lessicale, 192-195. Ampiezza del vicinato ortografico, effetto di, 39, 40. Analisi acustico-fonologica, 44. Analisi componenziale, 135. Analisi prototipica, 135.

Analysis by Synthesis, 25. Animatezza, 135, 140, 239. Antirisonanza, 13. Antonimia, 138, 139. Apprendimento, 27, 28, 162-164, 177, 211. Arabo, 30. Arbitrarietà, 174. Architettura cognitiva, 43, 44, 150, 151, 153, 156, 162, 165, 166, 202, 230. Argomento, 131, 140, 141. Articolazione, 25. Articolazione (Fasi della), 11. Articolazione multipla, 11. Aspetto, 105, 132, 224, 225. Associazione semantica, 36, 73, 84. Attaccamento minimale, strategia dell’, 233, 234. Attacco sillabico (Onset), 59, 60, 61. Attivazione, processo di 33, 35-39, 44, 47, 73-75, 77, 79, 80, 82-86, 88-90, 114, 115, 118-120, 141, 143, 149165, 193, 195. Attivazione automatica, 28, 87, 114, 124, 149, 154, 155, 234, 235, 250, 251. Attivazione interattiva, XI, 34, 35, 3738, 74, 75, 85, 86, 156, 162, 163. Attivazione parallela, 33, 38, 45, 75, 90, 115, 118-120, 154-157, 161-168. Auditory Theory, 26.

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284 Ausiliare, 212. Avverbio, 131, 132, 221, 224. Base lessicale, 98, 133, 142. Binarismo, 51, 58, 65. Buffer fonemico, 82, 83, 87-89, 151, 153, 157-160. Buffer grafemico, 44-46. Calco, 143, 147. Campo di udibilità, 16. Campo semantico, 137. Cancellazione (regola fonologica), 56. Caratteristiche delle lettere, vedi Tratti ortografici. Cartografia, 221, 225. Caso, 103, 104, 105, 107, 228. Categoria flessiva, 132. Categoria flessiva contestuale, 105. Categoria flessiva inerente, 105. Categoria grammaticale, 100, 101, 102, 109, 117, 131. Categoria lessicale, vedi Classe lessicale. Categoria semantica, 135. Catena fonica, 6, 14, 16, 57. Catena minima, strategia della, 233, 235. C-comando, 209n. Cervello, 206. Cherokee, 29. Chiusura ritardata, strategia della, 233, 234. Cinese, 29. Classe di flessione, 109, 110. Classe lessicale, 132, 139, 211. Clitico, 100, 226. Coarticolazione, 21-23. Coda sillabica, 59, 60, 61, 62, 63. Codifica fonologica, 74, 77, 90. Comment, 226, 228. Competenza, VIII. Competenza fonologica, 22. Competenza lessicale, 135, 144. Competenza prosodica, 65. Competenza semantica, 144.

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Indice analitico

Competizione, 36, 68, 162, 167, 168, 204. Compito, XII. Complementarità, 139. Complementatore, 216, 217, 218, 219, 225, 226, 227. Complemento, 59, 131, 208, 209, 210, 212, 220. Componente lessicale, 103, 104, 107. Componente sintattico, 104. Composizione, 98, 142. Composizione della lista, effetto di, 160,161, 165. Comprensione, XIII, 4, 32, 112, 118, 120, 129, 189-193, 196, 199-201, 202, 230-236, 251, 252. Comprensione di espressioni idiomatiche, 190-192. Comprensione di frase, 196, 200, 201, 202, 230-236, 251, 252. Comprensione di parola, 32, 112, 120, 129, 193, 201. Computazioni linguistiche, 207. Computazioni sintattiche, 206, 216. Concetti, 71, 100, 133, 141, 199, 200, 204, 207. Configurazione articolatoria, vedi Gesto. Confondibilità ortografica, 123, 124. Congiunzione, 131, 132, 133. Congruenza, effetto di, 153, 155, 159, 160, 163-165, 167, 168. Consonante, 7, 13, 14, 17, 49, 52, 53, 60, 68. Contesto, 193-204. Contenuto proposizionale, 186 . Continuum acustico, vedi Catena fonica. Conversione (morfologia), 98, 132. Conversione dalla fonologia all’ortografia, 29, 30, 44-47. Conversione grafema-fonema, 29. 30, 125, 151-153, 155, 157, 158, 163, 167. Coppia minima, 49. Corde vocali, vedi Pliche.

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Coreferenza, 249, 251, 252. Costituente morfologico, 112-114, 118-120, 122, 125. Creatività governata da regole, 205. Dattilo, 64. Decisione Lessicale, 113, 115, 120, 122, 128. Denominazione, 79, 85, 164. Denotazione, 181. Determinante, 216, 220, 221. Derivazione, 94, 96, 98, 106, 113, 118-123, 142, 143. Designed Terminal Element (DTE), 64. Desinenza, vedi Morfema grammaticale flessivo. Diacronia, 171. Differenze tra parlato e scritto, 27, 28. Dimostrativo, 132. Dinamica articolatoria, 9. Direct Realism, 25. Discorso, 186. Disgrafia, 45-47. Dittongo, 14, 60, 61. Dittongo mobile, 110. Dizionario, 130, 131. Dizionario mentale, vedi Lessico mentale. Dominanza, effetto di, 194, 195. Doppia dissociazione, 46. Durata, 13, 18, 19, 63. Ebraico, 30, 31, 116, 117. Elaborazione, componenti o stadi di, VI, XI, XII, XIII, 32, 37, 44-47, 72, 7477, 90, 151-153, 156-161. Elaborazione fonologica, 90. Elaborazione lessicale, 44-46, 125, 151-153, 156-161. Elaborazione morfologica, 42, 112115. Elaborazione ortografica, 27-30, 32, 34, 37, 38, 40-43, 45. Elaborazione semantica, 32, 88, 109, 116, 197, 235.

285 Enantiosemia, 138. Enciclopedia, 143. Enunciato, 186, 187. Epentesi, 56. Errore, 50, 51, 58, 71-91, 167. Errore sintattico, 242, 245, 247. Espansione massimale, 208. Espressione idiomatica, 190, 191, 220. Espressione metaforica, 190, 191. Estensione, 132, 136, 181, 189. Età di acquisizione, 40. Etimologia, 171, 186. Extrametricalità, 64. Facilitazione, effetto di 34, 35, 39, 40, 42, 82, 83, 115, 118, 119, 160, 163, 200. Facoltà del linguaggio, 176, 177, 207, 229. Famiglia morfologica, 117-119, 128. Famiglia semantica, 133. Feature-spreading Theory, 22. Feed-back, 35, 74. Finlandese, 30, 106, 107, 118. Finnico, vedi Finlandese. Flessibilità semantica, 195, 196. Flessione, 99-103, 106, 107, 110, 117, 118, 140, 213-215, 221, 225. Flessione contestuale, 102, 103, 104, 105, 106, 107. Flessione inerente, 102, 103, 104, 106. Flessione verbale, 108, 110, 111n., 223. Focus, 141, 227, 228. Fonazione (meccanismi della), 7. Fonema, 5, 9, 49, 50, 51, 52, 54, 57, 70, 171, 206. Fonetica, VII, 3, 24, 48, 63, 172. Fonetica acustica, 6, 12-15. Fonetica articolatoria, 6, 7-12. Fonetica percettiva, 6, 15-17. Fonetica segmentale, 7. Fonetica soprasegmentale, 7. Fonetica uditiva, 6, 15-17.

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286 Fono consonantico, vedi Consonante. Fono vocalico, vedi Vocale. Fono, 5. Fonologia, 48, 95, 130, 206. Fonologia articolatoria, 23, 25. Fonologia generativa, 22, 55, 58, 63, 67. Fonologia metrica, 62-64, 63, 64. Fonologia non lineare, 57, 58, 61, 63, 65. Fonologia segmentale, 48. Fonologia soprasegmentale, 48. Fonologia strutturale, 58. Forma flessa, 92, 94, 99, 100, 101, 103, 104, 107, 108, 110, 134. Forma, 173. Forma dell’espressione, 173. Forma fonetica, 207. Forma logica, 207. Formante, 13. Formazione delle parole, 95, 141. Forza, vedi Loudness. Frame, 143, 144. Francese, 214. Francese del Québec, 217. Frase, 185, 186, 187, 206, 211, 221, 222, 226. Frase finita, 226. Frase infinitiva, 226. Frase principale, 211. Frequenza del vicinato ortografico, effetto della, 39, 40. Frequenza dell’affisso, 120-123. Frequenza della radice, 115-117. Frequenza d’uso, 32, 36, 39-41, 45, 73, 76, 83, 87, 114-117, 119-124, 126, 145, 152, 153, 157, 158, 160165, 168, 194 . Frequenza fondamentale (F0), 13, 18, 65. Frequenza formantica, 13. Fusione (Merge), 207, 208, 215. Fuzzy Logic, 26. Generatore (GEN), 67. Genere, 92, 102, 103.

Indice analitico

Geosinonimo, 138. Gerarchia di forza consonantica, 60. Gerarchia funzionale, 224. Gerarchia semantica, 137. Gesto articolatorio, 6, 24, 25. Giambo, 64. Giudizio del parlante, 40, 98, 126129, 144, 201, 202, 236, 238, 240, 241, 250. Grammatica, VIII, 20, 58, 66, 67, 100, 101, 104, 105, 107, 130, 131, 133, 139, 141, 183. Grammatica cognitiva, 141. Grammatica comparativa, 184. Grammatica generativa, vedi Teoria generativa. Grammatica universale, 67, 176, 210. Grado, 103. Giamaicano, 212. Grafema, 31, 44-46, 125, 153, 157159, 166-168. Greco, 108. Griglia metrica, 63. Gorgia Toscana, 55. Gungbe, 228. H&H Theory, 26. Icona, 182, 183. Indice, 182, 183, 184. Implicatura, 180. Inglese, 30, 41, 45, 56, 63n., 64, 81, 82, 93, 95, 96, 97n., 114, 117, 124, 126, 142, 147, 152, 157, 159, 167, 176, 177, 178,179, 183, 186, 192, 209, 210, 214, 215, 217, 219, 224, 235, 237, 239, 245, 247, 248, 249. Inglese di Belfast, 217. Inibizione, processo di, 33, 38, 40, 80, 153, 156-158, 163, 198. Instanziazione 199-201. Integration Model, 194, 195. Intensione, 132, 136, 181, 189. Intensità, 13, 18, 19, 63. Interactive activation model, 28, 35, 37, 38, 150, 156, 164.

Indice analitico

Interazione tra regolarità e frequenza, 41, 153, 163-165, 168. Interfaccia, 207, 225, 229. Interferenza, vedi Inibizione. Interiezione, 131, 132. International Phonetic Alphabet (IPA), 9, 10. Interpretazione figurata, 190, 191. Interpretazione fonetica, 207. Interpretazione letterale, 190. Interpretazione semantica, 192, 193, 196, 201-203, 207, 233. Intonazione, 7, 17, 18, 19, 20, 48, 64, 65. Inversione, 139. Iperonimia, 136. Iponimia, 136, 137. Ipotesi della de-citazione, 187. Ipotesi Sapir-Whorf, 175. Irlandese, 219, 227. Isocronia accentuale, 19. Isocronia sillabica, 19. Kana, 29. Kanji, 29. Langue, VIII. Latino, 60, 62, 104, 105, 146. Lemma, 131. Lessema, 92, 94, 99, 100, 103, 107, 134, 135, 136, 138. Lessema composto, 94n 133. Lessema derivato, 94, 97, 133. Lessema invariabile, 133. Lessema variabile, 133. Lessico, 105, 130, 131, 133, 139, 140, 144, 145, 194, 202, 206, 207, 216. Lessico esogeno, 146. Lessico fonologico, 44, 47, 72, 152, 156, 157, 159, 160. Lessico funzionale, 216, 225. Lessico indigeno, 146. Lessico mentale, XIII, 32, 35, 36, 38, 42, 45, 58, 114, 143, 144, 149, 150, 152, 154, 197, 203, 206.

287 Lessico ortografico, 41, 44-47, 152, 156, 157. Lessico specialistico, 145. Lessicologia comparativa, 184. Lettera, 30-35, 37-39, 41, 46, 151154, 156, 157. Lettera astratta, 37. Lettera, identità della, 32-34, 39, 46. Lettera, posizione della, 32, 34, 38. Lettura, 30, 31, 41, 47, 124-126, 149167, 234-236, 238-241, 250. Lettura per analogia, 153-155. Lexical-functional grammar, 140. Lingua agglutinante, 105, 107. Lingue Bantu, 222. Lingua dei segni, 205. Lingua isolante, 133n. Lingua tonale, 19. Linguaggio, 177, 205, 206. Linguaggio, evoluzione del, 27. Lingue celtiche, 219, 227. Lingue germaniche, 219, 227. Lingue romanze, 219, 226, 227. Linguistica, V, VI, VIII, XI, XII, 140,171, 176, 177, 188. Linguistica funzionale, X. Linguistica generativa, vedi Teoria generativa. Linguistica storica, 186. Livello segmentale, 57, 82, 83. Livello scheletrico, 57, 58, 61, 80, 81. Livello sillabico, 57. Livello metrico, 57. Livello tonale, 57. Logica, 180, 188. Look-ahead Model, 22. Loudness, 16, 18. Lunghezza (fonologia), 61. Lunghezza della parola, 32, 41. Luogo di articolazione, 8, 12, 13. Marca, 51, 54. Marcato vs. non marcato, vedi Marcatezza. Marcatezza, 54, 55. Materia acustica, 4.

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288 Meccanismo computazionale, 206. Meccanismo di valutazione (EVAL), 67. Mediazione fonologica, 47. Memoria, 35, 39, 43, 45, 46, 73, 87, 142, 143, 149, 150, 153, 196, 205, 233, 234. Mente, XII, 206. Meronimia, 137. Metafonia, 57. Metafora, 148. Metonimia, 148. Minimalismo, 207. Mirror Principle, 105, 106, 223, 224. Modalità, vedi Modo. Modello a cascata, 38, 74, 75, 77, 156. Modello a due vie, 45, 150-153, 156161, 166-168. Modello a una via, 153-155. Modello a ricerca, 150. Modello a ricerca ordinata, 194. Modello a stadi discreti, 74, 75. Modello AAM, 114. Modello ad accesso selettivo, 195. Modello connessionista, 37, 42, 161168. Modello logogen, 35, 35, 73, 150. Modello discreto dell’intonazione, 65. Modello esaustivo, 193-195. Modello solistico dell’intonazione, 65. Modo, 20, 101, 132, 224. Modo di articolazione, 7, 11. Modularità, 144, 194, 195, 235, 252. Mora, 61n. Morfema, 42, 62, 93, 112-115, 118, 120, 125, 129, 133, 206. Morfema derivazionale, 94. Morfema lessicale, 94, 105, 107, 110, 111, 113, 114-117, 213. Morfema grammaticale 94, 107. Morfo, 93. Morfo derivazionale, 106. Morfo flessivo, 106. Morfologia, 69, 92, 94, 95, 109, 111,

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Indice analitico

130, 172, 206, 213, 214, 216, 223, 229. Morfologia flessiva, vedi Flessione. Motor Theory, 25. Movimenti oculari, 31-33, 234. Movimento, 213, 215, 216, 228, 229. Mutamento semantico, 147. N-count, 39. Neologismo, 141. Neologismo semantico, 141, 142, 143. Neopositivismo, 187. Neuropsicologia del linguaggio, XII, 34, 43, 47, 251. Nome, XII, XIII, 101, 131, 139, 140, 203, 204, 216, 221. Nome deverbale, 140. Nominale derivato, 96. Nominale gerundivo, 96, 97. Nominalizzazione, 96, 97. Non-parola, 79, 113, 114,120, 121, 124-126, 128, 153-155, 159-162, 165, 167. Nucleo sillabico, 18, 59, 60, 61. Numero, 92, 101, 102, 103, 104, 105, 222. Occasionalismo, 142. Oggetto, 131, 219. Olandese, 82, 114, 118, 119, 122, 126, 128, 235, 239, 245-247, 249. Olonimia, 137. Omonimia, 138. Onomasiologia, 184. Onomatopea, 183. Optimality Theory, 66-69. Ordine lineare, 210, 219, 220. Ordine OV, 211. Ordine VO, 211. Ortografia, VII-VIII. Paradigma, 108, 110, 111, 117, 118, 134, 215. Parametro, 177, 210, 211. Parametri acustici, 13, 23, 52.

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Indice analitico

Percezione (fonetica), 17, 24, 25. Parola, 130, 131. Parola complessa, 94, 213. Parola composta, vedi Lessema composto. Parola derivata, vedi Lessema derivato. Parola fonologica, 64. Parola grammaticale o vuota 32, 132. Parola invariabile, vedi Lessema invariabile. Parola irregolare, 41, 45, 46, 81, 152, 153, 155, 158, 160, 167, 168. Parola lessicale o piena 29, 132. Parola ortografica, 29, 30, 32, 34-38, 42, 44-47, 149-168. Parola regolare, 41, 46, 153, 155, 162164, 167, 168. Parola variabile, vedi Lessema variabile. Parsing morfologico, vedi Scomposizione. Parte del discorso, vedi Classe lessicale. Paziente, 140. Percezione, 31-33, 193, 250. Percezione di lettere, 33. Percezione uditiva, 17, 25, 26. Periferia sinistra della frase, 225, 227. Periodo, 186. Persona, 101, 103, 132, 222. Peso sillabico, 61. Pianificazione (scrittura), 43. Piede metrico, 63. Pitch, 16, 18, 63. Pliche vocali, 12. Polisemia, 138, 142. Possessivo, 106, 132. Potenziali evocati, 230, 231, 236-250. PDP model, 90, 161-166. Pragmatica, 26, 180, 228. Predicato, 131, 141, 211. Predicazione, 212. Prefissazione, 98, 133, 142. Prefisso, 94, 99, 113, 123, 124, 127, 131, 244.

Preposizione, 131, 132, 133. Prestito, 142, 147. Presupposizione, 228. Priming ortografico, 40, 41. Priming semantico, 36, 160, 161. Principio di composizionalità, 185, 189-191. Processo (mentale), VIII, IX, XIII, 28, 143, 189, 230. Processo fonetico, 4. Processo post-lessicale, 197, 199, 202. Produttività, 99. Produttività dell’affisso, 120-123, 128. Produzione del linguaggio, XIII, 28, 42-47, 71, 72, 75-91, 141, 142, 151153, 155, 156, 158, 159, 203, 204 . Produzione fonica, 7-12. Proiezione, 211. Proiezioni di complementatore, 141. Pronome, 131, 132, 133. Pronuncia, 41, 45, 82, 89, 90, 151159, 165, 167, 168, 173. Pronuncia eccezionale, 30, 155, 167. Proposizione, 186, 187. Proprietà lessicale, 246. Prosodia, 17, 19-20. Prototipo, 135. Pseudoparola, vedi Non-parola. Psicoacustica, 16. Psicolinguistica, V, VI, VIII, X, XII, XIII, 112, 143, 191, 192, 202, 231, 236, 237, 251. Psicologia cognitiva, X, 199. Psicologia del linguaggio, vedi Psicolinguistica. Quantal Theory, 24, 25. Race Model, 114, 115. Radice, vedi Morfema lessicale. Rafforzamento fonosintattico, 62. Rafforzamento fonosintattico morfologico, 62n. Rapanui, 224.

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290 Rappresentazione (mentale), IX, 27, 35-39,114, 115, 118, 143, 149, 150. Rappresentazione, livelli di, 149, 151, 156. Rappresentazione articolatoria, 72. Rappresentazione fonologica, 47, 55, 72, 74, 78-83, 86-88, 153, 154. Rappresentazione lessicale, 46, 80, 86, 87, 149-161, 163. Rappresentazione ortografica, 32-35, 42-47, 167. Rappresentazione semantica, 32, 44, 72, 73, 74, 77, 88, 89, 134, 136-139, 197, 202, 207. Rappresentazione sintattica, 235. Regola, 206. Regola di formazione di parola, vedi Regola di formazione di lessemi. Regola di formazione di lessemi (RFL), 97, 98, 99, 100, 103. Regola di riscrittura, 95. Regola fonologica, 55. Regolarità ortografica, 41, 152, 153, 155, 158, 163, 165, 168. Relazioni di significato, 136, 138. Restrizione, 57, 61, 67-69. Restrizione di selezione, 239. Restrizione fonologica, 98, 99. Restrizione morfologica, 99. Restrizione sintattica, 98, 99. Restrizione semantica, 98, 99. Reto-romancio, 219. Revisione, 43. Riconoscimento di parola, 31-42, 112, 115, 117-120, 126, 127, 149, 150. Ricorsività, 206. Riferimento, 181. Riflessivo, 220. Rima sillabica, 59, 60, 61, 62. Riparazione, 62, 87. Risonanza, 13. Risuonatore, 12. Ritmo, 7, 17, 18, 48, 64. Ruolo tematico, 228, 229.

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Indice analitico

Scala di categoricità, 17. Scala di sonorità, 60. Scienza cognitiva, 196, 202. Scrittura, 28, 42-47. Scrittura sotto dettatura, 43, 44. Scrittura spontanea, 43-45. Scomposizione morfologica, 93, 112115, 117, 124, 125. Scuola di Praga, 49, 50. Segnale, 6. Segno linguistico, 93, 94, 108, 173, 174, 182, 183, 205. Segmento (fonetico), 6, 49, 50. Selezione e copia, meccanismo di, 80, 81, 86. Selezione fonemica, 77, 80, 84, 85. Selezione grafemica, 46. Selezione lessicale, 38, 73, 75, 77, 150. Selezione semantica, 197, 200, 202. Selezione sillabica, 83. Semantica, 32, 136, 164-165, 170, 171, 172, 180, 181, 184, 188, 228. Semasiologia, 184. Semi, vedi Tratti semantici. Semiologia, 182. Semiotica, 182, 184. Senso, 172, 174, 179, 181, 205. Serbo-Croato, 114, 117, 118. Setting articolatorio, 9, 11. Significare per convenzione, 175. Significare per natura, 175. Significato, 36, 43, 47, 93, 109, 112, 113, 118, 119, 133-136, 138, 141, 142, 170-175, 179, 181, 182, 185188, 190-195, 197, 198, 200-204, 207, 232. Significato denotativo, 134, 137, 138. Significato grammaticale, 92, 93, 104. Significato lessicale, 49, 92, 108. Significante, 24, 93, 104, 105, 108, 109, 131, 133, 138, 141,142, 173, 174, 175, 182, 183. Significazione, 179, 180, 181. Sillaba, 7, 18, 48, 58, 59, 60, 63. Sincronia, 171. Sinonimia, 137, 138.

Indice analitico

Sintagma, 186, 205, 208, 210, 220. Sintagma complementatore, 218. Sintagma determinante, 220. Sintagma intermedio, 65. Sintagma intonativo, 18, 65. Sintagma nominale, 186, 220. Sintagma temporale, 218. Sintagma verbale, 186, 212, 220. Sintassi, 20, 64, 94, 101, 103, 105, 132, 139, 171, 183, 205, 207, 214, 216, 228. Sintassi ricorsiva, 207. Sistema di elaborazione, XII. Sistema di riscrittura, 207. Sistema di scrittura, 27, 29, 30, 43, 44. Sistema di scrittura opaco, 30,152, 167. Sistema di scrittura trasparente, 30, 41, 125, 192. Sistema semantico, 36, 44, 45, 47, 7274, 77, 84, 151, 152. Solidarietà lessicale o semantica, 139. Soggetto, 131, 212, 219, 220, 222, 232, 234. Sostanza, 173. Sostanza del contenuto, 174. Sostanza dell’espressione, 173. Sostantivo, vedi Nome. Specificatore, 59, 208, 209, 212, 216, 218, 219, 220, 221, 225. Specificità di codifica, 196. Speech, 4. Spelling, 43, 46, 47. Sperimentatore, 140. Split Morphology, 103. Struttura, VIII, IX. Struttura argomentale, 228, 229. Struttura sintagmatica nuda, 209. Struttura lessicale, 141, 180. Struttura profonda, 57. Struttura superficiale, 57. Struttura tematica, 140. Strutturalismo, 50, 180. Suffissazione, 98, 133, 142, 143. Suffisso, 94, 96, 98, 99, 105, 108, 112-

291 114, 116, 117, 120-123, 125-129, 131, 223, 224, 244. Suono, 205. Superiorità della parola, effetto di, 34, 35, 38. Tedesco, 218, 235, 239, 243, 244, 246. Tempo, 101, 103, 132, 212, 213, 214, 215, 216, 218, 222, 223. Teoria Autosegmentale, 57. Teoria Autosegmentale dell’Intonazione, 20, 65. Teoria dei principi e parametri, 207. Teoria generativa, X, 50, 66, 67, 95, 132, 140. Teoria generativa standard, 55. Teoria Governo e Legamento (Government and Binding), 250, 251. Teorie acustiche, 25. Teorie articolatorie, 25. Teorie di coproduzione, 23. Teorie di percezione passive, 26. Teorie di percezione, 25-26. Terminologia, IX. Test di discriminazione, 16. Test di identificazione, 16. Test percettivi, 16. Testa, 64, 131, 132, 208, 210, 211, 212, 216, 223, 228. Testa di Finitezza, 226, 227. Testa di Forza, 226, 227. Testa funzionale, 220, 222, 223, 224, 225, 226. Timbro, 13. Tono, vedi Pitch. Tono accentuale (Pitch Accent), 20, 65. Tono di confine, 65. Tono nucleare, 66. Topic, 141, 226, 227, 228. Traduzione, 175. Traduzione (scrittura), 43. Trasformazione, 96, 99. Trasparenza fonologica, 113, 116, 120.

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292 Trasparenza semantica,113, 116, 120, 124. Tratto acustico, 21, 52-53. Tratto articolatorio, 21, 53, 54. Tratto distintivo, 50-54, 55, 57. Tratto fonologico, 22, 53, 80, 90. Tratto grammaticale, 247. Tratto ortografico, 32-34, 37, 38, 156. Tratto segmentale, 63. Tratto semantico, 73, 80, 134, 139, 141, 177, 239. Tratto pragmatico, 141. Tratto sub-segmentale, 56, 70. Trocheo, 63, 64. Unità tonale, 18, 20. Universali fonetici, 24. Universalismo, 176. Uso, VIII, XII. Utterer’s meaning, 179, 180. Valenza, 140. Valore di verità, 186, 187. Variabilità, XI. Variabilità intersegmentale, 15. Variabilità intrasegmentale, 15. Variante, vedi Allofono. Variante combinatoria, 49. Variazione allofonica, 21. Varietà difasica, 138. Varietà diatopica, 138.

Indice analitico

Veneziano, 217. Verbo, XII, XIII, 101, 131, 132, 139, 140, 177, 200, 203, 204, 211-214, 216, 219, 220, 222, 223, 235, 238, 243-251. Verbo funzionale, 216. Verbo lessicale, 212, 213, 215, 221. Verbo secondo, 218, 219. Via lessicale, 47, 152, 153, 156-158. Via lessicale-semantica, 152, 156. Via non lessicale, 152, 153, 157-160. Vicinato ortografico, 36, 39, 40. Violazione semantica, 231, 237-239, 242. Violazione sintattica, 231, 240, 241, 242-251. Vocabolario comune, 146. Vocabolario corrente, 146. Vocabolario di alta disponibilità, 145. Vocabolario di base, 145, 146. Vocabolario fondamentale, 145, 146. Vocali, 7, 8, 13, 14, 17, 18, 51, 52, 53, 54, 55, 59, 60, 61, 62, 63. Window Model, 22. Word’s meaning, 179, 180. X-barra, 59, 207, 209, 211. Yareba, 224. Yiddish, 105.

Indice del volume

Introduzione di Alessandro Laudanna e Miriam Voghera Avvertenza generale sull’uso dei segni grafici 1. Fonetica di Renata Savy

V XV

3

1. Introduzione, p. 3 - 2. Articolazioni della fonetica, p. 6 - 3. Coarticolazione e processi fonetici, p. 21 - 4. I rapporti fra le tre fonetiche, p. 23 - 5. Fonetica e percezione, p. 25 - 6. Conclusioni, p. 26

2. Ortografia di Alessandro Laudanna

27

1. Introduzione, p. 27 - 2. I diversi sistemi di scrittura, p. 00 - 3. Il riconoscimento delle parole scritte, p. 31 - 4. Le rappresentazioni ortografiche nella scrittura, p. 42

3. Fonologia: le strutture di Giovanna Marotta

48

1. Introduzione, p. 48 - 2. Fonologia segmentale, p. 49 - 3. La fonologia non lineare, p. 57 - 4. La sillaba, p. 58 - 5. Fonologia metrica, p. 62 - 6. La teoria autosegmentale dell’intonazione, p. 64 - 7. «Optimality Theory», p. 66 - 8. Conclusioni, p. 69

4. Fonologia: i processi di Cristina Romani

71

1. Introduzione, p. 71 - 2. Modalità di elaborazione dell’informazione, p. 72 - 3. Modalità di rappresentazione sillabica, p. 78 - 4. Gli errori dei pazienti afasici, p. 83 - 5. Un modello di produzione alternativo, p. 86 - 6. Conclusioni, p. 90

5. Morfologia: le strutture di Anna M. Thornton 1. Introduzione, p. 92 - 2. Problema: esiste la morfologia?, p. 94 - 3. Assenza e ritorno della morfologia nei modelli generativi, p. 95 - 4. Le regole di formazione di lessemi, p. 97 - 5. Flessione e formazione di

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Indice del volume

lessemi, p. 99 - 6. Flessione e sintassi, p. 100 - 7. «Split morphology?», p. 103 - 8. Non biunivocità delle corrispondenze tra significati e significanti in flessione, p. 107 - 9. «Morphology by itself», p. 109

6. Morfologia: i processi di Cristina Burani

112

130

149

1. Introduzione, p. 149 - 2. Modelli «a ricerca» e modelli «ad attivazione», p. 150 - 3. Modelli di lettura a due vie e modelli di lettura a una via, p. 150 - 4. I modelli computazionali dei processi di lettura: il modello DRC, p. 156 - 5. Processi di elaborazione parallela e distribuita: i modelli PDP, p. 161 - 6. Il modello connessionista a due vie, p. 166 - 7. Conclusioni, p. 168

9. Semantica: le strutture di Giulio Lepschy

170

1. Introduzione, p. 170 - 2. Significato ed etimologia, p. 171 - 3. Semantica e significato, p. 171 - 4. Significante e significato, p. 173 - 5. Arbitrarietà, p. 174 - 6. Relativismo, p. 175 - 7. Universalismo, p. 176 - 8. Senso e voler dire, p. 179 - 9. Implicazioni e implicature, p. 180 - 10. Senso e significato, p. 181 - 11. Semantica e semiotica, p. 181 - 12. Significato delle parole e delle frasi, p. 185 - 13. Significato e verità, p. 186

10. Semantica: i processi di Patrizia Tabossi

189

1. Introduzione, p. 189 - 2. L’ambiguità lessicale, p. 192 - 3. La flessibilità semantica, p. 195 - 4. L’instanziazione, p. 199 - 5. Conclusioni, p. 201

11. Sintassi: le strutture di Luigi Rizzi 1. Introduzione, p. 205 - 2. Le strutture, p. 207 - 3. Le strutture fun-

12. Sintassi: i processi di Marica De Vincenzi

230

1. Introduzione, p. 230 - 2. Comprensione delle frasi, p. 232 - 3. L’utilizzo dei potenziali evocati in psicolinguistica, p. 236 - 4. Potenziali evocati e violazioni semantiche, p. 237 - 5. Potenziali evocati e sintassi, p. 242 - 6. Conclusioni, p. 251

1. Introduzione, p. 130 - 2. Classificazione delle parole, p. 131 - 3. Forma e significato delle parole, p. 133 - 4. Relazioni semantiche nel lessico, p. 136 - 5. Lessico e grammatica, p. 139 - 6. Formazione delle parole e arricchimento del lessico, p. 141 - 7. Dizionario mentale e competenza lessicale, p. 143 - 8. Strati del lessico: lessico comune e vocabolari tecnico-specialistici, p. 144 - 9. Strati del lessico: sedimentazione storica e contatti linguistici, p. 146

8. Lessico: i processi di Francesca Peressotti e Remo Job

295

zionali: la frase, p. 211 - 4. Altre strutture funzionali: il complementatore e il determinante, p. 216 - 5. La flessione scissa e la cartografia, p. 221 - 6. La cartografia della periferia sinistra, p. 225

1. Introduzione, p. 112 - 2. Frequenza della radice e frequenza della parola, p. 115 - 3. Ampiezza della famiglia morfologica flessiva, p. 117 - 4. Ampiezza della famiglia morfologica derivazionale, p. 118 - 5. Frequenza relativa di parola derivata e parola di base, p. 119 - 6. Frequenza, numerosità e produttività del suffisso derivazionale, p. 120 7. Confondibilità ortografica per i prefissi?, p. 123 - 8. Lettura di pseudoparole morfologiche, p. 124 - 9. Giudizi metalinguistici, p. 126

7. Lessico: le strutture di Gaetano Berruto

Indice del volume

205

Bibliografia

253

Gli autori

279

Indice analitico

283