Il linguaggio e la logica arcaica 9788822901521

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Il linguaggio e la logica arcaica
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Qyodlibet Ernst Hoffmann Il linguaggio e la logica arcaica

A partire da Pitagora ed Eraclito, oggetto della filosofia non è più soltanto il mondo ma anche il discorso umano sul mondo. Con ciò sorgono nuovi interrogativi: la natura del mondo può essere lin­ guisticamente espressa? Il linguaggio può dire la verità? Il testo qui presentato,

!!linguaggio e la logica arcaica,

del 1925, fu un classico fin

dalla sua comparsa. Emst Hoffmann coglie nella filosofia presocra­ tica, e nelle successive sintesi antologiche di Platone e Aristotele, le basi logico-concettuali della filosofia del linguaggio che, a partire da Socrate e dalla sofistica, s'intrecciano in modo permanente anche con i più moderni temi della filosofia della cultura, in particolare con le questioni semantiche della teoria della conoscenza. L'edizione italiana di questo saggio fu ispirata da Enzo Melan­ dri, che lo considerava un punto di riferimento imprescindibile per comprendere non solo le origini del pensiero classico, ma anche l'intera grammatica speculativa dell'Occidente, nelle sue forme lo­ gico-linguistiche e nelle sue implicazioni metafisico-ontologiche. A cura e con un saggio di Luca Guidetti Prefazione di Enzo Melandri Emst Hoffmann (Berlino 188o - Heidelberg 1952) è uno dei maggiori studiosi di filosofia antica e in particolare del pensiero platonico del Novecento. Allievo di W ilamowitz e Diels a Berlino, seppe coniugare il rigore esegetico tipico della scuo­ la filologica classica tedesca con un'originale ricerca teoretica, volta a chiarire i fon­ damenti logico-linguistici del pensiero antico. La profondità analitica e la carica innovativa dell'interpretazione collocano Hoffmann accanto a prestigiose figure intellettuali dell'epoca, come Wemer Jaeger e Ernst Cassirer, con cui intrattenne un fecondo confronto e uno stretto rapporto di amicizia. Nel 1922 Hoffmann ottenne la cattedra di Filosofia e Pedagogia all'Università di Heidelberg e fu con­ direttore, assieme a Heinrich Rickert, delle «Heidelberger Abhandlungen zur Phi­ losophie und ihrer Geschichte». In traduzione italiana è disponibile una raccolta di scritti,

Platonismo e filosofia cristiana (il Mulino, Bologna 1967), che contiene la

bibliografia completa delle sue opere, e un'edizione di alcuni suoi saggi sul pro­ blema dell'opposizione e della partecipazione in Platone

(Antitesi e partecipazione

in Platone, Ferv, Roma 2002). ISBN

9 18,oo euro

978-88-229-Q 152-1

Il 11111111111 788822 901521

Ernst Hoffmann

Il linguaggio e

la logica arcaica

A cura e con un saggio di Luca Guidetti Prefazione di Enzo Melandri

Quodlibet

Titolo originale

Die Sprache und die archaische Logik, «Heidelberger Abhandlungen zur Philosophie und ihrer Geschichte», herausgegeben von Ernst Hoffmann und Heinrich Rickert, n. 3, Verlag vonJ.C.B. Mohr (Pau) Siebeck), Tiibingen 1925 Traduzione di Luca Guidetti Prima edizione dicembre 201 7 © 201 7 Quodlibet srl Macerata, via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 2 3 www.quodlibet.it ISBN

978-88-229-0 1 5 2- 1

Indice

Prefazione

7

di Enzo Melandri

Nota al testo

I7

Il linguaggio

1. Logos ed Epos 1. Eraclito, p. 27; 2. Parmenide, p. 3 5

45

11. Physis

59

111. Logos

67

la logica arcaica

Avvenenza preliminare

23 27

e

IV.

e Nomos agonale e maieutico

Platone 1. Logos pensato e logos parlato, p. 6;1; 2. Peras e apeiron nel linguaggio (Due digressioni nel Teeteto), p. 71; 3· Physis, Nomos, Techne, p. 83; 4· Logos, Epos, Mythos, p. 94

I05

v.

II3

VI.

I2I

Aristotele La dissoluzione della logica arcaica Forme della logica arcaica di Luca Guidetti

I63

Indice dei nomi

Prefazione di Enzo Melandri

Il testo qui presentato in traduzione italiana, Die Sprache und die archaische Logik, risale al 1 9 2 5 , ma fin dalla sua comparsa fu

un classico. Perciò è bene averlo definitivamente acquisito. Non si sa mai bene come rendere Sprache, che è sì fondamentalmente "linguaggio", ma anche e in primo luogo "lingua": e i due signi­ ficati non fanno tutt'uno. Inoltre una logica "arcaica" è, e non è, una logica in senso proprio; si potrebbe forse meglio parlare di linguistica delle strutture profonde•. Non si può tradurre interpre­ tando, e d'altra parte resta la tensione tra le opposte politiche della Entfremdung (de-estraneazione, ossia della resa in volgare) e della ' [Cfr. E. Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull'analogia, il Mulino, Bologna 1968; Quodlibet, Macerata 2004. 2012': cSecondo Hoffmann, a cui dobbiamo forse l'analisi più penetrante del double talk che la semantica persegue nel mondo della logica arcaica, il detto h àPXii �v 6 16-yoç va preso alla lettera. Per far ciò, non dobbiamo tradurre 16-yoç con verbum se, come di solito accade, si intende con ciò il significato della parola intesa come nomen. Meglio sarebbe concepirla come "verbo"; senonché, in tale accezione, entrerebbe in concorrenza con l'uso di distinguere, all'in­ terno del logos, �vo114 e (>�114: una dualità che, per quanto datata, ha per lo meno il merito di mettere bene in evidenza il doppio senso della semantica. Certo è che illogos non si esaurisce nella semantica nominale, se è vero (come sostiene Hoffmann), che la filoso­ fia sorge in Grecia nel VI sec. come "filosofia del linguaggio": nel senso che assolve la funzione storica di liberare il pensiero-proposizione (16-yoç) dalla Gebundenheit an das Wort. Ma la contrapposizione di epos e logos non è sufficiente a render ragione del carat­ tere di ulteriorità, di superaddizione o di trascendenza che, fin dagli iniz� contrassegna il significato de! logos rispetto a quello dell epos E forse è per questo che ancor oggi ci è impossibile identificare la proposizione con quel che i logici chiamano "enunciato" (sentence). Il senso dell'enunciato è stabilito dalla texture dei segni (sintassi e "parti del discorso"), ossia dal puro ordito dei "significanti"; mentre il suo "significato", che è la proposizione, fa parte di una structure non ricostruibile per combinatoria a partire dagli elementi dell'ordito• ]. '

.

IO

ENZO MELANDRI

Verfremdung (estraneazione, barbarismo in accezione classica),

cioè tra gli opposti partiti di Lutero e di Gerolamo•. La volgarizza­ zione risolve le ambiguità del testo, ma col rischio di impoverirlo o, peggio, di scoprirsi incongruente. L'esotismo contrasta forse vantaggiosamente la corrività dell'uso, ma a costo di farci credere di sapere che cosa voglia dire amen, o bar abba. Qui la difficoltà è stata duplice, essendo la traduzione del tedesco in italiano spesso fondata su una preliminare dal greco antico in tedesco. Tuttavia bi­ sogna dire subito che il testo di Hoffmann è, e resta, esemplarmen­ te chiaro. Se permangono oscurità, queste sono dovute alla natura irrimediabilmente filosofica dell'argomento. In prima approssimazione, la logica arcaica è quella regolarità, ordine o struttura che è immanente alla lingua. Questa lingua noi a posteriori la vediamo rilevata come un linguaggio, comprenden­ done autonomamente la funzione logica. Il concetto che funge da discriminante, oltre il quale non si può più parlare di logica arcai­ ca, è quello di theoria. Dunque la logica arcaica è preteoretica e linguistica. È solo con la teoria che l'assetto razionale emerge e si distacca, come modello, al di là del linguistico; la trascendentalità ' [Melandri si riferisce qui al fatto che, nella prassi dell'esegesi biblica, l'ermeneutica che sorge nell'ambito della teologia protestante (evangelico-luterana) ha un'imposta­ zione analogistica, mentre nell'ambito della teologia cattolica post-tridentina si opera fondamentalmente per "allegoresi", la quale «comporta una spiegazione simbolistica dell'anomalia, cioè il rimando a un altro linguaggio» (La linea e il circolo, cit., p. 53). Se infatti la prima opera con metodo comparativo, «distribuendo le varie analogie nei distinti settori della grammatica, della psicologia e della storia» (ibid.), per la seconda «si deve invece credere che Cristo è Dio incarnato per la semplice ragione che l'ha detto lui, accompagnando al dire il fare "anomalo": prodigi, assurdità e soprattutto lo scandalo in­ superabile della Passione» (ivi, p. 54). Quindi, «sostenendo che le Sacre Scritture devono essere per principio completamente interpretabili, Melantone e Flacius si rimettono im­ plicitamente al principio di analogia. Il partito avverso non trova di meglio che sostenere esattamente l'opposto, ossia che la Bibbia è un testo oscuro, per principio inaccessibile a un'interpretazione precisa e, in ultima analisi, superfluo in campo pastorale» (ibid.). Il riferimento a Sofronio Eusebio Gerolamo (o Girolamo, 347-420 d.C.), come maggiore rappresentante del "partito opposto" a quello di Lutero, è legato alla sua traduzione in latino dell'Antico e del Nuovo Testamento, la cosiddetta Vulgata editio riconosciuta nel concilio di Trento del 1 546 come l'unica valida versione dei testi sacri. Gerolamo realiz­ zò tale versione, adatta ad essere compresa dai fedeli, in un linguaggio semplice e chiaro, popolare e al tempo stesso ciceroniano, ma attento a conservare il significato letterale dei testi, in modo da non sovrapporre ad essi alcun codice ermeneutico volto a ridurne l'incomprensibilità e il mistero. Per questo bisogna distinguere la "resa in volgare" di carattere ermeneutico, operata dalla teologia protestante, dalla "vulgata" cattolico-tri­ dentina, che tende invece a conservare l'allegorismo "anomalistico" delle Scritture].

II

PREFAZIONE

del momento teoretico regola la funzione apofantica (o enuncia­ tiva) del linguaggio, rendendone intelligibile l'idea. Ciò definisce post quem la posizione, ovviamente, di Platone; ma il pensiero è già presente in Democrito, la cui theoria oltrepassa i {imiti della logica arcaica. Facendo violenza alla lingua, Democrito dice, a un certo punto, me mallon to den e to meden einai, non esiste l'ente piuttosto che il ni-ente3; e il fatto che ne capiamo l'antifona vuoi dire che il momento eidetico del pensiero può farsi valere indipen­ dentemente dalla lingua. Al di qua della theoria, l'unica incidenza rilevabile nella pura immanenza della lingua è l'opposizione tra epos e logos, tra seman­ tica nominale e semantica proposizionale. Il significato dell'epos, o nome, è dato dalla cosa a cui corrispondeÉpea-aat, è� �v6ç mtvra); l'intero diventa ciò che non è intero, diventa parte (oÀa JCal o1Jx oÀa); così il discorso si scompone in parole, ma «ciò che tende a separarsi si riunisce» e «mediante la contesa ha origine la più bella armonia». Le sem­ plici parole, singolarità di per sé contraddittorie, si connettono a

'4 Con questo non si vuole certo sostenere che Eraclito distinguesse soggetto e predicato da un punto di vista grammaticale, ma solo che la filosofia era a conoscenza già da lungo tempo - anche prima che si desse una grammatica in senso proprio - del carattere sintetico in cui era strutturato il senso della proposizione. «Se il mio pensiero è rettamente ispirato, il motto è: al principio era il senso!». '' Cfr. J. Cohn, Theorie der Dialektik [Formenlehre der Philosophie], Meiner, Leipzig 1923 [Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1965], p. 6. '6 Questo fatto mi sembra essere misconosciuto nello studio, altrimenti assai istrut­ tivo, di H. Diels, Die Anfiinge der Philologie [bei den Griechen], •N[eue] Jahrb[uch fiir das Klassische Altertum}», Xlii, Bd. 25, 1910, p. 3· '7 Cfr. G.W.F. Hegel, Werke, XIII [Vorlesungen uber die Geschichte der Philosophie, hrsg. von K.L. Michelet, Duncker und Humblot, Berlin !83 3), p. 328 [trad. it. di E. Codignola e G. Sanna, Lezioni sulla storia della filosofia, vol. 1, La Nuova Italia, Firenze 1981, pp. 306 sgg.]. È del tutto al di fuori dei limiti di questa trattazione mo­ strare la differenza fondamentale che sussiste tra la dialettica hegeliana e la dialettica eraclitea. '8 Cfr. [DK] 1 2 [22] B 67 [ed. it. cit., p. 21 1 ]. '' Cfr. [DK] 1 2 [n] B 88 [ed. it. cit., p. 2 1 4].

J2

IL LINGUAGGIO E LA LOGICA ARCAICA

formare un'"omologia"•o. Quest'atto del separarsi e del riunirsi è il vero divenire, la vera attività che ci viene offerta in modo emble­ matico nel "discorso". Solo dopo che si riconosce che il discorso umano - se la sua essenza è correttamente compresa - può contenere ed esprimere il senso del governo del mondo e che esso, grazie alla forma sinteti­ ca de llogos, può render noto nello scorrere degli incostanti l'lt'ect il movimento conforme alla legge del ritmo universale, si mostra ciò con cui la cecità della massa si trova nella più intima connessione e persino da dove tale cecità, sotto un certo aspetto, ha origine. La massa non comprende la 7t'ctÀtVTp07t'oç ttp(Lovlct del logos2', essa è vittima del credere alle semplici parole, al loro senso apparente, e non comprende cosa significa ascoltare o parlare22; gli uomini, inebriati, pensano solo a saziarsi come bestie23; si potrebbe anche dire che essi si saziano di semplici parole, e danno retta agli aedi popolari24 che restano solo nel mondo dell ' epos invece di ascoltare i filosofi che annunciano loro il logos. Perciò la massa incorre nel destino delle parole malintese alle quali essa aderisce: per il desti­ no dell'immaginazione si può essere un iòtov, una singolarità per sé sostanziale, mentre tutto l'essere si trova racchiuso solo nel xotv6v. Come le parole danno a intendere di significare qualcosa di pre­ ciso e accurato, e appaiono assurde proprio per il fatto che tenta­ no di sottrarsi alla connessione mediante il logos, così gli uomini credono di possedere una propria «particolare saggezza»25 con cui possono dominare il corso delle cose, ma la loro presunzione è una sorta di miopia26• Col dono del discorso è dato agli uomini lo stru­ mento per cogliere l'universale, ma la maggior parte di essi non è in grado di utilizzarlo: «da questo logos, col quale pure soprattutto continuamente sono in rapporto e che governa tutte le cose, essi discordano»27; «pur presenti, essi sono in verità assentÌ»28• Come

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Cfr. [DK] I2 [22] B 8, IO, SI [ed. it. cit., pp. I97-I98, 208]. Cfr. [DK] I 2 [22] B p [ed. it. cit., p. 208]. Cfr. [DK] I2 [22] B I9 [ed. it. cit., p. 2oo]. Cfr. [DK] I2 [22] B 29, I7 [ed. it. cit., pp. 202, 2oo]. Cfr. [DK] I 2 [22] B 1 04 [ed. it. cit., p. 2 I 7]. [DK] I2 [22] B 2, 89 [ed. it. cit., pp. I95, 2 I s]. Cfr. [DK] I 2 [22] B 46 [ed. it. cit., p. 206]. [DK] I2 [22] B 72 [ed. it. cit., p. 2 I 2]. . [DK] I 2 [22] B 34, 72 [ed. it. cit., pp. 204, 2 1 2].

I. LOGOS ED EPOS

33

manca alla loro indole la volontà di tendere al tutto, alla legge, al legame riferito a «ciò che è comune», così ad essi manca la capacità di comprendere che il mondo delle cose, finché credono di poterlo nominare con "parole", è solo un "ammasso di spazzatura" che potrà diventare "kosmos" solo per colui che progredirà dagli appa­ renti significati delle parole, che danno sempre l'illusione di un fal­ so isolamento, verso il senso del tutto: il che significa, per Eraclito, verso la sintesi degli opposti in forza dellogosz9. Solo qui, infatti, vi è un "progredire"; solo illogos implica il mo­ vimento e il divenire. La frase «vita e morte sono una e la medesima cosa» è essa stessa, in quanto esprime la legge, divenire e movimen­ to. L'autentico divenire eracliteo non appartiene alla mutabilità e all'instabilità degli e7!'ea che, assunti di per sé soli, traggono costan­ temente in inganno, ma è proprio dellogos che coglie il movimento nella sua legalità. Esso va da un battito all'altro del pendolo e, nel pensare questo movimento come ritmo eterno, progredisce esso stesso in eterno, percorrendo - in opposizione alla semplice in­ quietudine, alla mera instabilità e incostanza del cangiamento - un autentico pro-cessus che non ha limiti né si conclude, ma si accresce eternamente. Illogos dell'anima accresce se stessoJo. In Eraclito il "discorso", in quanto organo per cogliere e ab­ bracciare il tutto (À6yoç da ).éyw = riunisco, metto assieme), e la sem­ plice "parola" (e7!'oçl' cfr. voc -, suono) che, in quanto separata nel suo impiego abituale dalla connessione dellogos, è lacerata e fugace come l'oggetto che vorrebbe denominare, rappresentano entrambi non già un'opposizione simile a quella tra la somma e i suoi com­ ponenti elementari, ma il tipo di opposizione su cui si basa tutta la sua filosofia, ossia quella tra la sintesi e le sue parti. Nel dire, Schiller, «Perché lo spirito vivente non può appari­ re allo spirito ? Parla l'anima, così parla, ah! Solo l' anima, niente più»J2, secondo Eraclito con queste parole la natura del logos reste•• L'interpretazione del logos che qui viene presentata mostra una certa affinità con quel­ la di K. Joel, Geschichte der antileen Philosophie, Mohr, Tiibingen I92I, pp. 3 I 5, 3 I 7 e sgg. J• Cfr. [DK] Il (22) B I I 5 [ed. it. cit., p. li9). J• Cfr., a tal riguardo, le accurate indagini di E. Hofmann, Qua ratione br:oç, flVSoç,

alvoç, À.éyoç et vocabula ab eiusdem stirpibus derivata in antiquo Graecorum sermone adhibita sint, Dissertation, Gottingen I 922, cap. r . ' ' [F. Schiller, Distichon aSprache " (I 796), i n Id., Werke und Bn"efe in zwolf Banden, hrs�;. von O. Dann et al., Deutscher Klassiker Verlag, Frankfurt am Main I9BB-2004, Bd. I , p. I B I).

34

IL LINGUAGGIO E LA LOGICA ARCAICA

rebbe totalmente misconosciuta. Lo spirito vivente, la legge cosmi­ ca, appartiene infatti solo all'anima nella misura in cui essa possiede illogos; ma ciò significa "discorso", ed è proprio la definizione ar­ caica dell'anima a indicarla come organo del discorso. Già ai tempi del Medio Regno egizio, nel dialogo tra l'uomo stanco della vita e la sua animan, «l'anima apre la sua bocca», e anche in Omero ogni atto di riflessione è un colloquio dell'uomo col suo thymos. «Spera di non sapere tutte le mie parole (f!.veouç)» dice Zeus ad HeraH; egli non dice: i miei "pensieri". In modo simile, anche per Eraclito il parlare rappresenta la funzione principale dell'anima. Nel discorso si comunica la legge universale, ovvero il dio. In Omero gli dèi parlano una lingua diversa dagli uomini (così essi dicono Xanto invece di Scamandro)H; per Omero, infatti, il linguaggio consiste ancora di singoli vocaboli, e vocaboli così imperfetti come quelli umani non possono convenire agli dèi. Ma per Eraclito il discorso si è trasformato in altro da ciò che i vocaboli sono e possono essere: esso diviene qualcosa di divino che "svela" il segreto del mondo. «Dio è senza nome», così direbbe Eraclito in accordo con tutta la mistica, ma egli direbbe anche, in opposizione ad ogni mistica coerente, «Dio è discorso». Certo, ìl fatto che il "discorso" sia ciò grazie a cui l'anima può cogliere ed esprimere la legge universale, non rappresenta solo l'a­ spetto virtuoso, ma anche il bisogno della dottrina eraclitea. Senza dubbio la legge universale, la misura ritmica dello scomporsi e ri­ comporsi degli opposti, può essere rappresentata attraverso la sin­ tesi proposizionale, ma solo ricorrendo a simboli e metafore come il fiume e la guerra, la lira e la fiamma. Come la sibilla, Eraclito36

JJ Cfr. A. Erman, Die Literatur der Aegypter [Gedichte, Erziihlungen und Lehr­ bucher aus dem J. und 2.jahrtausend v. Chr.], Hinrichs, Leipzig 1923, pp. 1 22 sgg. H Ulteriori testimonianze si trovano in G. Finsler, Homer, I, Teubner, Leipzig 1914, p. 1 49· H Cfr. Omero, Iliade, xx, 74· 16 Eraclito ha manifestamente espresso la "misura del logos anche nella costru­ D

zione delle sue frasi. Le frasi Tou lìì À6yov Toulì' é6vTo�

tbl «tuveTot ylyvovTctl dv8pw1rot ytVOf!EvWV yà;p mivTwv ICctTIÌ TÒv À6yov T6vlìe - • nonché del fatto che essa, in qualsiasi modo si sia originata, è solo un gettone casuale coniato arbitrariamente. È chiaro che, su questa base, anche per gli E7rEct secondo Eraclito la decisione dovesse cadere a favore della loro origine �va-EL; infatti, le parole portano in sé il segno dell'opposizione e quindi della na­ tura. È proprio la loro mutevolezza a indicare la loro origine �va-EL. È colpa della massa ottusa, se essa non è in grado di analizzare e interpretare correttamente le parole, non sapendo porre vicino alla "parte" la "controparte" e, di conseguenza, non sapendo produrre la sintesi di entrambe. Eraclito rivendica in ogni caso la capacità di saper far ciò: «Il dio è giorno e notte, inverno ed estate, guerra e pace, sazietà e fame e muta come il fuoco, quando si mescola ai profumi e prende il nome dell'aroma di ognuno di essi»'. I nomi sono già di per sé "corretti"; deve solo esser compresa la funzione cui essi adempiono. Era quindi nella natura delle cose che Platone, nel suo dialogo linguistico-filosofico Crati/o, identificasse in un rappresentante dell'eraclitismo il difensore della teoria dell'origine �va-EL dei nomi. Contro ciò, Parmenide dovette senza dubbio intervenire a favo­ re dell'origine v61l'!l delle parole. Secondo lui, infatti, il particolare non è certo membro di una sintesi, ma è per principio una pri­ vazione della totalità, e perciò non qualcosa di pienamente inte­ grabile, ma di definitivamente falso. La parola è per lui anzitutto espressione corporea, un abborracciamento della lingua che, nel suo divenire e trasformarsi e nell'appartenere alla sensibilità, vie­ ne erroneamente "fissata" dai mortali e perciò, carica d'inganni, è esclusa dalla veritàJ. La questione se il linguaggio sia v61l'!l o �va-EL riceve però una più forte differenziazione quando, nel quinto secolo a.C., la ricer­ ca sull'essenza del linguaggio entra in connessione con la ricerca [DK] 1 2 [22] B 67 [ed. it. cit., p. 2 1 1]. La mistica è pervenuta più tardi a un percorso simile. «Allora sop'raggiunse il mo­ mento che ella dimenticasse tutto ciò che portava un nome», così Meister Eckhart de­ scrive la circostanza della divinizzazione estatica della sorella Kathrei (cfr. G. Landauer, Meister Eckharts mystische Schriften, Schnabel, Berlin 1903, p. 1 5 9). I problemi lingui­ stico-filosofici della mistica sono appena sfiorati da H. Chr. Eberle, Spracherlebnis und Sprachrhythmus, dissertazione dattiloscritta, Heidelberg 1924. • 1

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sull'essenza di altri ambiti culturali• come il costume e il diritto, lo stato e la religione, le arti e le scienze. Ora non si contrappongono più solo due partiti che si dichiarano a favore o contro il carattere naturale di questi settori culturali, ma a loro volta entrambi i partiti si suddividono di nuovo. Le due le concezioni che, su linee nettamente distinte, polemiz­ zano contro l'origine q>vae1 del linguaggio, sono contrassegnate dai nomi di Gorgia e Democrito. La sofistica gorgiana si connetteva direttamente a Parmenide. Essa passò sotto silenzio la sua filosofia del "logos veritiero", ma ­ noncurante dell'uso linguistico di Eraclito e Parmenide che aveva­ no distinto À6yoç ed enoç - sviluppò la concezione parmenidea degli enea ingannevoli in una teoria che culminava nel principio secondo cui ogni comunicazione mediante parole e ogni tentativo di com­ prendere le stesse è impossibile, perciò ogni insegnamento è vano. L'argomentazione sofistica era strutturata nel modo seguente. Già è diverso il modo in cui gli uomini reagiscono nei con­ fronti delle cose mediante gli organi della percezione sensibile. Le sensazioni (mi9f)) del dolce e dell'amaro sono soggettive (tv �fLiv); esse sono tali solo per lo stesso individuo senziente. Pur tuttavia, almeno l'oggetto nei confronti del quale due uomini reagiscono diversamente è qualcosa d'identico e, nella sua esistenza, d'indi­ pendente rispetto a coloro che reagiscono: in sé e per sé, è sempre lo stesso cibo che viene diversamente assaporato da due uomini distinti. Quando però emettiamo parole, non parliamo dello stes­ so, identico oggetto. Ben lontano dal fatto che le parole possano spiegarci gli oggetti, sono piuttosto gli oggetti che ci forniscono una spiegazione (fLf)Vtrnx:6v) delle parole. La cosa è un che di esterno, di visibile e di udibile; in breve: un oggetto che può esser sentito. Ogni sua proprietà è associata a un determinato organo: i colori alla vista, i suoni all'udito e così via. Queste sono le impressioni che io posso "ricevere" dalla cosa, ed esse vengono già di per sé relativizzate attraverso il senziente, il soggetto. Ora, come potrei io essere in grado di "proferirle verbalmente" come qualcosa di obiet­ tivo ? Io posso solo udire il suono e non certo vederlo o gustarlo; come potrei addirittura dirlo ? Il dire non ha assolutamente nulla a ·



Questo nesso viene già perfettamente riconosciuto da Proclo, In Crat., cit., p. 1 8.

IL LINGUAGGIO E LA LOGICA ARCAICA che fare con tutto ciò che io percepisco dell'oggetto. La parola det­ ta non è altro che una reazione soggettiva a un'impressione già del tutto soggettiva; essa è perciò irrimediabilmente distante e separata dalla cosa che dev'essere denominata. L'unico aspetto che nella pa­ rola si rivela "oggettivo" è il suo suono che, però, è privo di senso. Ma come potrebbero due uonùni, uno che parla e uno che ascolta, immaginarsi di pensare la stessa cosa in una parola? Questa infatti non può "essere" la "stessa" e insieme "essere" in molti. Anche qualora ciò accadesse, essa dovrebbe nondimeno "apparire" loro inevitabilmente diversa, poiché loro stessi non sono certo ugua­ li. La parola è pertanto un mezzo inadatto a raggiungere l'intesa comunicativa. Anche se qualcosa esistesse e questo qualcosa fosse pensabile, esso non sarebbe poi comunicabile. Noi crediamo di de­ nonùnare le cose, ma le parole non sono semplici denominazioni, bensì esse stesse cose; la parola "albero" sta accanto all'albero reale come una seconda cosa, come ciò che è udibile vicino a ciò che è visibile. Orbene, come può l'una essere in grado di "asserire" qual­ cosa sull'altra? ' Questa è la curvatura radicalmente soggettivistico-psicologica che Gorgia ha conferito alla teoria-v6fL'Il· Per la prima volta egli solleva per principio e in maniera scettica la questione del "com­ prendere" e finisce col negarne la possibilità. Se la parola fosse tale "per natura", allora dovrebbe risiedere in essa una forza che rende possibile e induce alla comprensione di ciò che viene (cor­ rettamente) detto. Sembra tuttavia che accada il contrario: non c'è un comprendere effettivo. Riguardo a ciò, la tensione tra logos ed epos, che Eraclito e Parmenide avevano rivelato, è caduta vittima delle tendenze positivistiche della sofistica: discorso e parola sono essenzialmente e sostanzialmente equivalenti. Ma ciò significa che, assieme alla parola, decade anche il discorso e con quest'ultimo la comprensione. Ciò si esprime in modo particolarmente evidente nella parola greca che corrisponde al nostro "comprendere", nel

' Cfr. Gorgia in Sesto Empirico, Ad7.Jersus mathematicos, vu, p. 83 sgg. [trad. it. di A. Russo, Contro i logici, Laterza, Roma-Bari I975, pp. 25 sgg.]; Pseudo-Aristotele, De Melisso, Xenophane, Gorgia, 979 a 1 I sgg. [in DK, ed. it. cit., pp. 920-924]; [DK], 76 [82] B 3-5 [ed. it. cit., pp. 9I 6-924]; Platone, Teeteto [trad. it. di M. Valgimigli, in Opere complete, 2, Laterza, Roma-Bari I982], passim; si veda, inoltre, H. Steinthal, Geschichte der Sprachwissenschaft, ci t., I, p. I I 5 .

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auvtévctt6• Come il logos "riunisce", così il auvtévctt "mette insieme". Entrambi i concetti sono per natura collegati, a entrambi aderisce lo �tJV6v. Il loro destino è perciò quello di essere legati l'uno all'altro. Da tutt'altra matrice intellettuale ebbe origine la teoria-v6f!Cfl di Democrito. Il soggettivismo della filosofia del linguaggio di Gorgia era nella relazione più stretta con la vera e propria scoperta della soggettività da parte della sofistica e perciò con la sua fondazio­ ne della psicologia. Per contro, la filosofia del linguaggio di De­ mocrito è inscindibilmente connessa, nella medesima epoca, alla fondazione di un altro campo del sapere, vale a dire al processo di razionalizzazione della filosofia della cultura7• Democrito è indub­ biamente convinto della natura convenzionale e perciò contingen­ te del linguaggio; egli era infatti �itenuto nell'antichità il fondatore e il vero rappresentante classico della concezione-v6f!Cfl e credeva che la convenzionalità delle parole fosse provata dal fatto che un vocabolo può avere due significati o, viceversa, che due vocabo­ li possono averne uno solo, e inoltre che una cosa può cambiare nome o, addirittura, che il nome di una cosa può mancare del tut­ to8. Ma Democrito era ben lontano dal concludere dalla conven­ zionalità del linguaggio all'impossibilità dell'intesa comunicativa, tanto più che egli stesso istituiva la formazione del linguaggio nel genere umano esattamente sul bisogno di accordo comunicativo. L'uomo, come l'animale, possiede per natura una lingua; per na­ tura gli uccelli cantano e certamente gli uomini imitano il canto degli uccelli9• Ma l'articolazione della voce allo scopo di formare parole che devono servire a una reciproca intesa comunicativa ha,

6 Secondo Teofrasto, in Alcmeone il O"'IVlEve!l costituiva la differenza caratteristica tra l'uomo e l'animale (cfr. DK I4 (24] B I [ed. it. cit., p. 243: «L'uomo differisce dagli altri animali perché esso solo comprende; gli altri animali percepiscono, ma non com­ prendono»]). 7 La filosofia della cultura di Democrito è per noi conservata nel primo libro di Diodoro in quella formulazione che era stata fornita ad essa dal democriteo Ecateo di Abdera. Tale scoperta è da attribuirsi a K. Reinhardt, [Hekataios von Abdera und Demokrit], cHermes.., 47, I9I2, pp. 492- 5 1 3, in particolare pp. 492 sgg. Riguardo a ciò, si veda anche la più recente esposizione del problema da parte di W. Uxkull-Gyllenband, Griechische Kulturentstehungslehren, Simion, Berlin I924, pp. 25 sgg. Cfr. anche [DK] II, Appendici, pp. XI-XIV. ' Cfr. Proclo, In Crat., cit., p. I6; cfr. anche [DK] 5 5 [68] B 26 [ed. it. cit., pp. 758759]. • Cfr. [DK] 55 [68] B I 54 [ed. it. cit., p. 78o].

IL LINGUAGGIO E LA LOGICA ARCAICA per Democrito, un fondamento sociologico e non fisiologico; è un prodotto della cultura, non della natura'0• A suo parere, naturale è solo il bisogno (xpelct, àva:yJC7)) degli uomini di associarsi tra loro; per natura è quindi, in un certo senso, la necessità della reciproca intesa comunicativa. Ma il fatto di scoprire un mezzo in grado di soddisfare a quel bisogno, cioè d"'inventare" un linguaggio, è, per Democrito, in stretta relazione con la capacità umana di dare ori­ gine a un nomos. A questo proposito va tuttavia posto in evidenza che, se da un lato la filosofia del linguaggio è per Democrito una parte della filosofia della cultura, dall'altro egli accetta positiva­ mente la cultura, mentre per la sofistica gorgiana solo l'esistenza della physis non può essere messa in discussione, poiché ciò che viene dimostrato strutturarsi come nomos è considerato come di­ struttibile o, in ogni caso, consegnato al gradimento di ognuno. Secondo Democrito - il grande indagatore della natura che sa cos'è il "caso" - }"'arbitrarietà" del nomos porta propriamente in sé fin dall'inizio un momento di spontaneità"; al contrario, la sofistica

•Mentre in origine gli uomini emettevano suoni privi di significato e articolazio­ ne, hanno poi incominciato a formulare espressioni linguistiche attraverso una graduale articolazione e, accostando l 'uno ali' altro simboli linguistici per designare ogni cosa esistente, vennero a creare per sé una chiara comprensione di tutte le cose. Dopo che simili sistemi si imposero, non potevano gli uomini sparsi in ogni luogo sulla terra abi­ tata avere un idioma di suono uguale' per tutti, poiché ogni singolo gruppo compose le espressioni secondo il caso. Ecco perché molteplici sono i tipi di lingua e perché quei sistemi linguistici che stavano sorgendo divennero gli archetipi per tutti i popoli•. (Cfr. Diodoro, l, 8, 1 [in DK 68 B 5, ed. it. cit., p. 744]). " Questo riecheggia ancora nel romanzo utopico di Jambolo in Diodoro, n, H6o [ed. it. Biblioteca storica di Diodoro siculo, Sonzogno, Milano 1 820, pp. 3 30 sgg.]. Jambolo racconta di un popolo paradisiacarnente felice che supera e vince anche il fatto culturale del ò�apSpouv •Qualcosa del tutto tipico e caratteristico si poteva osservare ri­ guardo alla loro lingua, e precisamente sia per natura, sia in seguito a un intento artificio­ samente realizzato (TÒ f!ÈY ucrncwç auToiç CTU')'l't'YEY)]f!hov, Tb ò' e� hnvolaç lÀonxvol>f!EYov): essi hanno infatti già (di natura) una lingua che è in ampia misura doppia, ma essi la tagliano ancora di più in dentro, cosicché diviene doppia fino alla radice. Essi sono perciò anche di grandissima capacità linguistica e non solo imitano ogni dialetto umano e variamente articolato, ma anche la plurivocalità degli uccelli e, in generale, essi possono far risonare qualsiasi sfumatura (lòl6T)]T4) di un suono; ma la cosa più straordinaria di tutte è che essi, nel medesimo tempo, possano parlare in modo perfetto con due uomini che incontrano, rispondendo e entrando a dovere in tutte le circostanze date. Infatti, con una parte della lingua essi parlano all'uno, con l'altra all'altro• (n, 56 [ed. it. cit., p. 332]). Poiché la filosofia della cultura del quinto secolo combattè faticosamente col problema di quale fosse il rapporto tra TEXV)] e i>atç (cfr. lppocrate, De prisca medicina, ci t., Cap. I sgg.), allora l'utopia si fa più lieve: ciò che la natura inizia, la techne Io continua migliorandolo. '0

II. PHYSIS E NOMOS concepisce come già orientato in un certo senso ciò che si mo­ stra casuale. Lo spirito della filosofia della cultura di Democrito è strettamente affine a quello che viene evocato nel canto corale di Sofocle: «Esistono molte cose straordinarie, ma nulla di più stra­ ordinario dell'uomo [ . . . ]. Egli ha appreso anche il linguaggio e il pensiero veloce come il vento». Sotto l'aspetto filosofico-culturale, Democrito si pone del tutto dalla parte di Protagora", per il quale l'articolazione della voce in parole, e perciò la creazione del linguaggio, è un fenomeno che, come l'arte popolare o l'artigianato, si colloca al di là dei fatti natu­ rali e appartiene già a quella fase in cui il genere umano è divenuto «partecipe della sorte divina». Pertanto, tra la psicologia del linguaggio gorgiana e la visione fi­ losofico-culturale del linguaggio democritea non vi è assolutamente nulla in comune, eccetto il solo fatto che su nessuna delle due può es­ sere fondata una logica del linguaggio. Se, come accade in Gorgia, il linguaggio viene concepito solo nella forma di un tentativo per espri­ mere impressioni soggettive e rappresentazioni (n�a�, cj>ctvT�CTf.tcmt év �fiiv), allora esso è un tentativo destinato al fallimento, poiché la pa­ rola, essendo un segno convenzionale, priva il processo psichico del suo carattere soggettivo; inoltre, essa non raggiunge nemmeno l'es­ sere oggettivo della cosa rappresentata, l'impressione da essa causata; la parola viene infatti enunciata da un soggetto, e ciò a cui il soggetto pensa parlando non può attribuirsi alla parola. D'altro canto, se con Democrito il linguaggio viene considerato solo come un fenomeno della cultura, allora dal semplice "bisogno" dell'uomo di riunirsi in una società e di realizzare un'intesa comunicativa non vi è ancora nessun passaggio verso il contenuto di verità di ciò che vien detto. Se il linguaggio è un prodotto della cultura, allora è TÉXV�; ma può esistere una logica della techne? A questa domanda non si può certo rispondere con i soli mezzi filosofico-culturali. Senza dubbio, era molto più arduo impegnarsi con validi ar­ gomenti a favore dell'origine cj>vcreL'J, tanto più che, chi lo faceva,

" Cfr. Platone, Protagora, 322 A [trad. it. di F. Adorno, in Opere complete, 5, La­ terza, Roma-Bari 1984, p. 82]. Cfr. Uxkuii-Gyllenband [Griechische Kulturentstehungs­ lehren, ci t.], pp. 3 1 sgg. •l Riguardo a questo problema, l'influenza di Epicuro sugli inizi della più recente filosofia del linguaggio fu certamente operante: come potrebbe il linguaggio essere pu-

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apparentemente si batteva dal lato della superstizione. Infatti, la forma mitica di pensiero che nella parola credeva di conoscere e di avere la cosa, era profondamente radicata nella coscienza del popolo. Essa ha trovato la sua più nota espressione nella cosid­ detta magia dei numeri'4• Ora, se la parola mostra una qualche sorta di potenzialità o persino una forza magica, allora essa è cpuCTel. Preghiera e maledizione, passioni amorose e modo di vivere dei popoli sono istintivamente connesse alla credenza nella forza naturale delle parole; e da forme di pensiero mitico-magico così rozze, quali ad esempio si esprimono nella credenza che persino i segni fonetici scritti'1 abbiano una natura magica, fino al timore rispettoso che incute il "nome" di Dio, viene per principio e ad ogni livello affermata l'origine cpuCTel delle parole. Risulta perciò facilmente comprensibile perché la spiegazione razionalistica mes­ sa in atto nel quinto secolo, a quanto pare, anche riguardo alla questione del linguaggio abbia sostenuto unanimemente una con­ cezione convenzionalistica '6• Solo poche tracce accennano, nella filosofia arcaica, al tentativo di salvaguardare in qualche modo la concezione cpuCTel della lingua. ramente convenzionale - domanda Epicuro - se esso dev'essere presupposto già come mezzo per stipulare convenzioni! Per giunta, deve almeno essere 4>6crtt nelle lingue tutto ciò che in esse è così diverso, come il carattere corporeo, il clima e il territorio dei diversi popoli. Si veda, a tal proposito, la filosofia del linguaggio di Epicuro in Lucrezio, [De rerum natura], V, 1 0 1 3 sgg. [ed. it. a cura di A. Fellin, UTET, Torino 1 997, pp. 3 9 1 sgg.]; e Diogene Laerzio, X, 75 sgg. [ed. it. a cura di M. Gigante, Vite deifilosofi, Laterza, Bari 1962, pp. 507 sgg.]. •< Cfr. ]. Grimm, Deutsche Mythologie, Dieterich, Géittingen 1 8 3 5, Il, 4, p. 1023 sgg. Si veda, inoltre, E. Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen, 1: Die Sprache, cit., p. 56 [tr�d. it. cit., pp. 63 sgg.], e Id , Il: Das mythische Denken, Bruno Cassirer, Berlin 1 923, pp. p e sgg. [trad. it. cit., vol. Il: Il pensiero mitico, pp. 5 9 sgg.]. '' Un esempio particolarmente drastico si trova in Dante, Purgatorio, XXIII, 3 1 , dove nel volto dell'essere umano viene letto il nome "uomo" (orno). Il naso e la linea delle orbite oculari formano la M, gli occhi le due O. '6 Che la difesa classica della teoria-vofl'll abbia origine da Democrito, ci viene as­ sicurato da Proclo, [In Crat., cit.], p. 6. Di contro ai più recenti tentativi di vedere in Protagora il difensore della teoria-cj>uCTI� [G]. Grote, Plato [and the Other Companions of Sokrates, Murray, London 1867], Il, pp. 5 1 6 sgg.) e Th. Gomperz, Die Apologie der Heilkunst, [Veit, Leipzig 1910], pp. 102 e sgg.) indicano giustamente il suo posto vicino a Democrito. Sulla base del passo 384 B del Cratilo di Platone [trad. it. di L. Minio­ Paluello, in Opere complete, 2, cit., p. 8], anche a Predico non si può ricorrere come sostenitore della teoria-cj>i>CT�l. Socrate dice solo che, se avesse potuto udire il discorso di Predico, avrebbe saputo la verità sul problema della correttezza delle parole. Ma da questo non risulta certo quale posizione Predico abbia preso in merito. .

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Esse, tuttavia, non solo sono così isolate e difficilmente riconosci­ bili, ma manifestano anche una significativa diversità reciproca. Proclo (come già accennato a p. 3 5 ), riguardo alla questione su quale sia la cosa più saggia, fa rispondere a Pitagora che essa è il numero. Al secondo posto, però, si trova ciò che ha dato i nomi alle cose. Per il pitagorismo, il ruolo giocato dal numero dev'essere assolutamente unico e incomparabile, poiché è identico (TctòT6v) alla conoscenza (v6l]atç) e al suo oggetto (volJT6v); solo grazie al numero, che compenetra e ordina sia l'organo della conoscenza sia il mondo degli oggetti, è possibile l'atto di conoscenza. Il numero è perciò la sapienza stessa (aocplct). Ma quello che Pitagora «nel suo enigmatico modo di espressione» - così dice Proclo - ha inteso con il concetto di numero, è l'ordine intelligibile del tutto, il VOlJT6ç Òtctxoa!loç, che è identico al voiiç, mentre con ciò che ha dato i nomi alle cose si deve intendere l'anima. Il nous possiede i numeri, gli voepèt eiÒlJ; l'anima però, nel dare i nomi, imita il nous. I nomi sono immagini di quella forma di conoscenza pura, pertanto non qualcosa di originario, ma di riprodotto; e non sono raffigurazioni delle cose, ma degli eiÒlJ. «Non è dunque opera di chicchessia - dice Pitagora - l'imporre i nomi alle cose, ma solo di quello che contempla l'intelletto e la natura degli esseri'7• I nomi sono quindi per natura»'8• Per quanto dal tenore delle parole di Proclo si possa difficilmen­ te stabilire una diretta connessione con le antiche fonti pitagoriche, nondimeno l'antichissima dottrina pitagorica appare qui, riguardo al suo contenuto, inconfondibile. Il numero è lo strumento in forza del quale l'uomo conosce e possiede le cose. Ma come ovunque, anche nel pitagorismo il livello del pensiero mitico-magico è già in linea di principio oltrepassato. Il numero non "è" più la cosa e io non mi approprio più di esso come qualcosa di estraneo e magico; esso è anzi una potenza che si offre come conoscenza, come criterio oggettivo nel mio intelletto e, parimenti, come principio ordinato­ re delle cose; esso è voep6v elòoç. Ebbene, i nomi sono raffigurazioni '' Cfr., di contro, Genesi, 2, 19: «Dopo che il Signore Iddio ebbe fatto del mondo ogni specie di animale sulla terra e ogni specie di uccello nel cielo, li portò quindi da Adamo per vedere con quale nome li avrebbe chiamati: infatt� così come egli avrebbe nominato ogni specie di animale vivente, essi avrebbero dovuto chiamarsi». D'altronde, la denominazione primaria qui vale, come appare evidente, solo per gli esseri viventi. Il "giusto" nome "è", per l'appunto, "vita", o meglio, esso "chiama" in vita. '' [DK 68 B 26, ed. it. cit., p. 758].

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dell'essere di questi puri concetti di conoscenza, e non già delle cose. Così, quando Proclo identifica la concezione pitagorica con la concezione-vcret, in questo caso vcret non designa la natura delle cose nella loro esistenza materiale e nella loro apparenza sensibile, ma la natura della ragione che tanto nell'organo della conoscenza quanto nell'oggetto della conoscenza domina come istanza ordi­ natrice e determinante. Le parole sono "per natura" perché sono "conformi alla ragione", cioè a dire esse sono state formate dall'a­ nima con riguardo agli eiÒfj razionali. 2. Un senso del tutto diverso ha il vcret quando s'intendono le parole come �À«CTTIJf.l«T« vcrtoç, come prodotti della natura. Tale concezione è sostenuta da quegli ignoti contro cui polemizza l'au­ tore dello scritto pseudoippocratico De arte'9, cap. 2. Questi affer­ ma che ogni arte ('ti;cvf)) è qualcosa di reale nel senso di una realtà visibile e pensabile. Tuttavia, oggetto del conoscere sono solo gli eiÒfj, le "qualità specifiche" delle arti già precedentemente stabilitezo. Tali specie concettuali, in quanto oggetti di conoscenza, sono vcret come le arti stesse. Ora, i nomi (ov6ft«T«) sarebbero tratti dalle qua­ lità specifiche, e non viceversa; questo tipo di denominazione ver­ rebbe ad essere, però, del tutto convenzionale. «E io credo, appun­ to, che ciascuna arte derivi il suo nome dalle sue proprietà, perché è assurdo, oltre che è impossibile, pensare che le proprietà delle cose traggano origine (�ÀaCTTtivetv) dai nomi; infatti i nomi sono conven­ zioni (vofto9eT�f.l«Ta), mentre le proprietà non sono convenzioni, ma formazioni naturali (�À�ft«T« vcrtoç)» ll . Ecco dunque dove risiede la physis: essa è natura di ciò che esiste, che è visibile e pensabile nel senso della realtà empirica e concreta. La facoltà umana di creare concetti segue in modo automatico la realtà naturale, e perciò si sviluppa "naturalmente". I diversi modi di rap­ presentazione «crescono e si estendono»; per contrassegnarli abbia­ mo però bisogno di nomi, sicché la denominazione appare alla fine senza dubbio arbitraria. Se ora invece si volesse spiegare attraverso un esempio quale significato assume il concetto di "natura" per i sostenitori della teoria qui combattuta, bisognerebbe forse dire che le nostre forme di rappresentazione sono da loro considerate "natu'' Cfr. Th. Gomperz, Die Apologie der Heilkunst, cit., pp. 36 sgg. Con "stabilite" cerco qui di tradurre 8e8eyJLévov. " [DK 87 B 1, ed. it. cit., p. 987].

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rali" in quanto si sviluppano in noi da se stesse, in modo conforme e corrispondente alla legge di natura. Pertanto, le "parole" sarebbero ugualmente naturali solo se sorgessero e si sviluppassero nel genere umano in modo altrettanto inevitabile e conforme a quello in cui nei galli si sviluppa il chicchiricchì. Ma che le cose non stiano effettiva­ mente così, è già ampiamente dimostrato dalla diversità che sussiste tra le lingue dei diversi popoli. Il gallo non ha bisogno d'imparare il suo canto giacché, essendo parte della sua "natura", lo saprebbe intonare anche se fosse allevato in completo isolamento. Al contra­ rio, l'uomo deve apprendere•• le parole e i nomi, e in nessun caso un bambino di origine greca, cresciuto in isolamento, parlerebbe in greco. Come detto, non ci è noto chi venga qui attaccato dallo Pseu­ do-Ippocrate; questo anonimo, però, sembra essere stato il solo in quel periodo ad aver connesso così strettamente il problema della physis delle parole con la questione della loro origine. 3 · In tutt'altro senso, l'origine cj>uaEL della lingua fu di nuovo so­ stenuta da una tendenza di pensiero che conosciamo indirettamen­ te attraverso Platone. Secondo tale tendenza, il linguaggio è "per natura" in quanto la struttura di ciò che è detto viene a coincidere con la struttura del mondo naturale e delle cose. Le "lettere" sareb­ bero gli "elementi" che compongono le "sillabe"; queste ultime si connetterebbero a loro volta per formare le "parole" e il "discorso" consisterebbe in una combinazione di parole. Il discorso dunque, per quanto concerne la sua struttura, sarebbe un aggregato al pari del mondo materiale, e ciò troverebbe conferma nel fatto che per­ sino le rispettive denominazioni concordano: stoicheion significa sia "elemento" sia "lettera"; syllabe significa al contempo "sillaba" e "complesso materiale". Ora, questa concezione di un diretto pa­ rallelismo tra ciò che è detto e ciò che esiste, viene assunta nel Tee­ teto•J e nel Cratilo•4 come appartenente a una certa interpretazione

" "Apprendere" nel senso dell'"imparare" (f!av91ivEuae1 delle parole, si deve parlare, per quanto riguarda il quinto secolo, di una vitto­ ria temporanea della concezione-v6f!.Cfl· Fu infatti indubitabilmente dimostrato che in realtà nel lessico di una lingua c'è qualcosa di casuale e arbitrario, effettivamente creato e combinato a piacere; di contro, però, si presentavano anche aspetti che, essendo più o meno cj>uae1, non erano né posti in rilievo in modo univoco, né erano utilizzabili in senso logico. Questo tuttavia significò per la congiuntura storica della filosofia nient'altro che un momento di stagnazione nel processo di sviluppo della logica arcaica. La teoria-v6f!.Cf> non poteva né intendeva fondare una logica; ma proprio qui si rivelava l'aspetto arcaico dell'impostazione proble­ matica, vale a dire nel fatto che nella questione dell' orthoepeia stava nel contempo ancora racchiuso il problema del valore logico del linguaggio. A chi non sembrava provato nel linguaggio un aspetto "naturale" e perciò "corretto", quello stesso doveva anche ritenere impossibile garantire in qualche modo logicamente il senso di ciò che veniva detto. Ma al tempo stesso, anche partendo dalle quattro teorie-cj>uae1, nella forma in cui esse si presentavano, non era possibile fondare una logica. La teoria di Democrito si atteneva alla physis dei suoni vocali, e non già al senso. La teoria presa di mira dallo Pseudo-Ip­ pocrate doveva fallire non appena avesse oltrepassato l'ambito dei suoni vocali e naturali dell'uomo, cioè di alcune interiezioni e della pura onomatopea. La teoria degli eraclitei aveva come conseguenza di portare, in ultima istanza, un personaggio come Cratilo a rinun­ ciare al discorso in generale, poiché il logos umano, anche quando

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IL LINGUAGGIO E LA LOGICA ARCAICA

è correttamente costruito così come pensa Eraclito, nelle sue varia­ zioni infinitamente molteplici conduce sempre al medesimo punto, ossia a esprimere quell'unico ritmo universale' che, in fondo, è pos­ sibile rappresentare anche con il solo cenno di un dito2• A sua volta, nella disputa sul valore del numero e della parola, la concezione attribuita da Proclo a Pitagora aveva formulato un giudizio senza riserve a favore del numero in modo tale che, coerentemente, la lo­ gica pitagorica veniva a fondarsi solo sulla categoria del quantum. Ma allora perché ci si deve ancora servire, in generale, delle parole? La soluzione presentata dalla sofistica è, in linea di massima, la seguente: se le parole non possono nemmeno essere impiegate allo scopo di denominare le cose rendendole utilizzabili per noi, se dunque esse non "colgono" e non riguardano le cose, sono però certo in grado, laddove s'intenda usarle in modo "appropriato", di colpire chi ascolta. La sofistica concepisce infatti le parole stesse come cose; ora, secondo la sua psicologia, la nostra vita interiore si basa su affezioni (rrti9Yj) dell'anima provocate dalle cose. Le parole devono pertanto poter essere coniate e impiegate, nonché raggrup­ pate e riferite, in modo tale da suscitare nell'anima dell'ascoltatore determinati effetti che ci si era proposti. Inoltre la retorica, attra­ verso la techne, può essere resa come una forma di «psicagogia per mezzo del discorso» (tvxaywyia Ttç òla Àoywv).J La fondazione sofistica della retorica agonale4 è strettamente collegata al fatto di

' Hegel certamente afferma che non esiste alcun principio di Eraclito che egli non abbia accolto nella sua logica (cfr. Werke, XIII, p. 328 [trad. it. Lezioni di storia della filosofia, cit., pp. 306 sgg.]). Ma l'utilizzazione dei principi eraclitei a fini logici ebbe luogo per la prima volta nella mistica, cui doveva premere alquanto il fatto di superare il principio di non contraddizione. Nell'eraclitismo delle origini, ogni tendenza di carat­ tere logico risulta del tutto secondaria. Quello che a tal riguardo importava a Eraclito, era condurre la comunità umana alla ragione attiva e operante, nonché inquadrare la vita dello stato in quella del cosmo. ' Cfr. Aristotele, Metafisica, IV, 5, IOIO a 1 3 [trad. i t. ci t., p. 286]. J Cfr. Platone, Fedro, 261 A [trad. it. di P. Pucci, in Opere complete, 3, Laterza, Roma-Bari 1 982, p. 2 56]. • Riguardo al carattere per così dire agonale, in quanto volto alla formazione di antitesi, della costruzione fraseologica greca, che venne in aiuto ai tentativi retorici della sofistica, afferma E. Norden, [Die] Antike Kunstprosa, cit., I, p. 25: «Ai greci era con­ naturata una tendenza assai spiccata al confronto antitetico dei pensieri, tendenza che, in un certo qual modo, rappresenta l'espressione ben visibile del loro gusto agli ltyciJveç e ai aVTctcr�-tct év é�-tol) e che, pertanto, non può assolutamente essere vero. Vero, infatti, non può essere il semplice termine, ma solo il discorso. Tuttavia, solo il discorso che ha assunto la forma del giudizio rende possibile l'ac­ cordo comunicativo, permettendo di dimostrare se esso ha "fonda­ menti" e se possa o no "render ragione". Il logos non ha bisogno di atterrare o di demolire; esso convince o si lascia convincereJ'. Se però le chiacchiere dei sofisti pretendono di essere discorso, il logos di contesa diviene un «logos che combatte sé stesso,., Quindi un discorso che, come quello sofistico, enunci òurcrol À6yot, negando così il principio di non contraddizioneJ•, diventa un logos ridicolo o folle, poiché dirige solo le proprie armi contro se stessoH. Se Platone riprende il motto sofistico del logos agonale e, in pie­ na opposizione a esso, compie la raffigurazione del logos socratico, ciò torna anzitutto a vantaggio dell'immagine di Socrate presentata nei suoi dialoghi. Se si tralasciano tutte le altre sfumature occa­ sionali (come ad esempio il fatto che il logos agonale porti a un guadagno di denaro e che in generale l'eristica sia una componente dell'arte dell'acquisire)H, allora quell'unica e piena opposizione permane come qualcosa di fondamentale: infatti l'attività speciosa e ingannevole, nonché la multioperosità della "contesa" sofistica, " 1 • Per questo motivo Platone ha sempre utilizzato le denominazioni "eristica", an­ tilogica" e "agonistica" in completa opposizione alla "dialettica". Cfr. O. Apelt, nota 1 1 2 alla traduzione del Fedro. 1 • Cfr. la mia ricerca Der historische Ursprung des Satzes vom Widerspruch, in �sokrates�, 192 3, p. 1 1 [ora in Drei Schriften zur griechischen Philosophie, Heidelberger Akademie der Wissenschaften, Heidelberg 1 964, pp. 53-64 e 77-79, trad. it. di G. D'Acunto, L'origine storica del principio di non-contraddizione, in E. Hoffmann, Antitesi e partecipazione in Platone, FERV, Roma 2002, pp. 16- 1 9]. JJ Cfr. Platone, Parmenide, 127 E, 1 28 D [trad. it. di A. Zadro, in Opere complete, 3, cit., pp. 9- 1o]; Filebo, 1 4 C (trad. it. di A. Zadro, in Opere complete, J, cit., p. 71]. H Cfr. Platone, Sofista, 226 A [trad. it. di A. Zadro, in Opere complete, 2, cit., p. 195].

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IL LINGUAGGIO E LA LOGICA ARCAICA

dev'essere comprovata, secondo le parole di Socrate in Protagora, 3 29 A (e anche di Paolo di Tarso, con un topos che risale a Platone)3', come «bronzo risonante», cioè come un nullal6, Al contrario, la «dissimulazione ironica» (etpwvela.)l7 di Socrate, che apparentemen­ te si perde nella semplice negatività, è ciò che è veramente positivo: egli sa come interrogare. E se la psicologia della sofistica può anco­ ra aver ragione riguardo al fatto che la vita spirituale dell'individuo non debba esser semplicemente colta "dall'esterno" e che quello che appartiene al soggetto non sia né misurabile né rappresentabile "obiettivamente", tutto ciò non è più vero per il logos dato alla luce mediante l'interrogazione socratica. La domanda conveniente e opportuna può far sì che la risposta abbia la forma del "giudizio", in maniera tale che il logos, manifestandosi in modo chiaro e obiet­ tivo, possa eseguire le anfidromie intorno al pensiero appena nato e verificare se esso sia degno di essere allevato oppure se si tratta di una creazione vanaJ8 o di un inganno. Certamente, il significato dell'immagine della maieutica oltrepassa il ritratto di Socrate e si pone già nella più stretta connessione con la dottrina delle idee.

H Cfr. Paolo di Tarso, 1 Cor, I }, I [ed. it. a cura di S. Grasso, Prima lettera ai Corinzi, Città Nuova, Roma 2002, p. 1 45]. J 6 In Paolo, la frase «Allora io sono un bronzo risonante o un cembalo che tintinna» corrisponde alle due frasi: «Allora io sono nulla» e •Allora nulla mi torna utile». Per Platone il sofista valeva come un nulla (cfr. Aristotele, Met., VI, I026 b I4 [trad. it. cit., p. 347]). Nondimeno, già in Protagora, 329 A [trad. i t. cit., pp. 90-9 I], la futilità sofistica viene indicata con le parole «bronzo risuonante». Paolo intende penanto dire che l'e­ loquenza senza "r"7r'1 resta nonostante la glossolalia sofistica. (Il fatto che i Septuaginti abbiano creato e usato la parola «r"7r>J per rendere N;JJTI (ahavà) mi sembra soprattutto fondato foneticamente, poiché le lettere corrispondono in modo così preciso com'è pos­ sibile solo tra una parola ebraica e una greca. Molto istruttivo riguardo a eros e agape è Dionigi Areopagita, De div. nom., IV, I 2 [trad. it. di P. Scazzoso e l. Ramelli, Nomi divini, in Id., Tutte le opere, Bompiani, Milano 2009, pp. 423-425]). J7 Questa traduzione [cfr. Hinterhaltigkeit dissumulazione ironica, N.d. T.] ha luogo in base allo studio assai istruttivo di E. MaaB, Die Ironie des Sokrates, «Sokrates», 49, I 924, pp. 8 8 sgg. J8 Cfr. ànf.Ltaiov in Teeteto, I6I A [trad. it. cit., p. Io6], dove con «ventoso, incon­ sistente», il semplice flatus vocis, s'intende forse al tempo stesso ciò in cui, secondo Platone, si risolvono tutti i discorsi che non si sottomettono al principium contradictio­ nis. Cfr., anche, I 5 I E [trad. it. cit., p. 93]: el�wÀov. =

Capitolo quarto Platone

I.

Logos parlato e logos pensato

Ancora una volta, il principio della logica arcaica ci appare in Platone in modo del tutto preciso e chiaro: logos parlato e logos pensato sono la medesima cosa. Tuttavia, proprio nell'interrogarsi ora sul fondamento di questa identità, Platone abbandona il terre­ no della sua validità, eleva il metodo logico al di sopra di questo terreno e spezza così le catene dell'arcaismo. Riguardo a ciò, si ri­ vela anzitutto esemplare il passo 261 C - 264 B del Sofista'. Pensare (òtavoeiaSat) significa: esprimere un giudizio (À6yov). A sua volta, giudicare significa o compiere la connessione di concet­ ti ('rwv elòGJv atlfl7l'Ào!djv) attraverso l"'è" della copula, oppure negare tale connessione attraverso il "non è". In ogni singolo caso, tanto l'affermare quanto il negare producono "di necessità" o un giudi­ zio vero o uno falso. Pertanto, secondo Platone giudicare significa compiere nell'anima un atto di decisione all'interno di un'alternati­ va contraddittoria1• Com'egli afferma in modo esplicito, questa de­ cisione si manifesta però sempre come una decisione tra "sì" e "no" (q>tiatç o ti71'6q>aatç). L'anima, quando giudica, parla dunque con se stessa: «Pensiero (�llivota) e discorso (À6yoç) sono identici, con la sola eccezione che il dialogo senza voce che ha luogo all'interno dell'a­ nima con se stessa, proprio questo fu da noi denominato pensiero [. . . ]. Noi sappiamo d'altra parte che nei discorsi c'è affermazione e ' [Cfr. Platone, Sojista, 16 1 C - 264 B, trad. it. cit., pp. 241-24s]. ' Cfr. E. Hoffmann, Der historische Ursprung des Satzes vom Widerspruch, cit., pp. 1 sgg. [trad. it. ci t., pp. 1 sgg.].

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IL LINGUAGGIO E LA LOGICA ARCAICA

negazione»J. E inoltre, in perfetta conformità con quanto precede: «Pensare io lo chiamo un ragionamento attraverso cui l'anima di­ scorre da sé con se stessa sulle cose che esamina [. . . ], interrogando e rispondendo da sé a se stessa, affermando e negando»4• Tuttavia, se da un lato logos pensato e logos parlato sono la stessa cosa in ragione della loro essenza, dall'altro l'anima, quando pensa, non sempre si esprime in parole; ma quando realmente "parla", essa altresì pensa sempre. Ne segue che un parlare privo di pensieri non è affatto un "parlare" e, a maggior ragione, i semplici segni vo­ cali corporei non valgono come "discorso". Discorso è solo ciò che ha una "natura determinata" (7tot6v)l in modo tale da dover essere vero o falso. Perciò, attraverso questa natura "necessaria" il discor­ so rientra "necessariamente" nell'ambito della validità logica. Dove si colloca allora il confine, dove si trova quella "cesura" caratteristica tra ciò che è semplice materiale fonetico e ciò che può invece rivendicare di essere vero discorso e, con questo, discorso razionale? La soluzione che Platone offre nel Sofista è la seguente: poiché tutto il pensiero razionale e tutta la filosofia si basa sul fatto che una determinata parte di concetti si trova in comunione con un 'altra (!Cotvwvia Twv yEvwv) - che pertanto nell'intero ambito dei concetti dominano l'appartenenza e la non-appartenenza allo stes­ so genere, cioè l'essere unito e l'essere separato -, allora un discor­ so merita il nome di logos se effettivamente in esso le parole, come segni di concetti, stabiliscono fra loro quell'unità e separatezza che, per la sua essenza, appartiene ai concetti. Ma questa condizione non risulta certo soddisfatta quando ciò che viene enunciato è una

Platone, Sofista, 263 E [trad. it. cit., p. 244]. Platone, Teeteto, I 89 E - I90 A [trad. it. cit., pp. I 44-14 5]. ' Cfr. Platone, Sofista 262 E [trad. it. cit, p. 243]. Già per questo 1rot6v si potrebbe anche dire 1rtpaç: il discorso ha, in primo luogo, il carattere della determinatezza e della forma chiusa proprio in forza di quel 1ro16v. Di fatto, alla parola 1rtpa;ç si allude anche nel «mpalvetv»; si veda, a tal proposito, il passo 262 D del Sofista [trad. it. ci t., p. 24 3]: «Infatti, già in questo caso il discorso dà un'indicazione su cose che sono o divengono o sono diventate o stanno per diventare e non denomina solo (ovo�u), ma esprime un senso compiuto (-rì 1repalvu), connettendo i verbi ai nomi». Ciò significa che esso è un peras e, in questo caso, un peras linguistico, un enunciato determinato. Lo stesso uso linguistico si può trovare in Filolao (DK 3 2 [44] B I I [ed. it. cit., p. 469]): «Ma il numero, armoniz­ zando nell'anima tutte le cose con la percezione, rende conoscibili esse e le loro relazioni secondo la natura dello gnomone, col dar corpo e distinguere le determinazioni delle cose, di quelle illimitate e di quelle limitanti (-rwv -re limlpwv Kal mpt:uv6v-rwv)». 1



IV.

PLATONE

semplice giustapposizione (a-vvéxetct), una mera aggregazione di pa­ role, come, ad esempio, di puri sostantivi: come sempre, anche in questo caso per Platone la semplice aggregazione, che conduce solo a un ammasso caotico, a un mero tutto (7t'ctVTct)6, costituisce il se­ gno distintivo di una regione subalterna. Tuttavia, quella medesima condizione viene soddisfatta se, invece della giustapposizione, essa rende possibile una connessione (xepctvvvvctt)7, cioè quando, invece dell'aggregato, si consegue una totalità (5Àov). E con ciò che è "mes­ colato" in modo tale (hepov ÈTÉp"' fLiyvva-9ctt)8 che il principio della mescolanza consista nel render partecipe all'essere - e nulla più del­ la totalità porta in sé il «sigillo dell'essere»9 -, il discorso è sottratto alla regione della percezione sensibile ( ctia-9't')a-tç), alla composizione meccanica e alla dissolubilità (otc'tÀva-tç) propria di tutto ciò ·che è transitorio, venendo così ad appartenere a quel regno intermedio ((Léa-ov, fLETct�V)'o la cui natura è costituita dal tendere filosofico alla conoscenza, e con ciò dall'essere indirizzata alle idee. Ora, l'enunciato diventa totalità solo in forza della proposizio­ ne. «I vocaboli, infatti, né in questo modo né in quell'altro, non indicano alcuna azione né assenza di azione, né alcuna sostanza di un essere né di un non essere, prima che qualcuno abbia collegato i verbi ai nomi. Solo allora si ha un accordo e la connessione pri­ maria diventa immediatamente un discorso, il primo e il più breve dei discorsi»". Quindi non le semplici parole, non i meri 6v6fLctTct o l7l'ect rappresentano gli autentici elementi del discorso, e nemmeno il soggetto sostantivate in quanto fattore "agente" e il predicato

• Sull'aggregato e la totalità si veda, ad esempio, Platone, Teeteto, 204 A sgg. [trad. it. cit., p. I63]. ' Cfr. Platone, Sofista, 262 C [trad. it. cit., pp. 242-243]. • Cfr. ivi, 260 A [trad. it. cit., p. 240]. • Cfr. la mia Appendice a E. Zeller, Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtli­ chen Entwicklung dargestellt, 5 ed., Fues, Leipzig I 922, 11, sez. I, pp. I083 sgg. Solo sulla totalità si fonda il riflesso estetico dell'essere metafisica. Cfr. E. Hoffmann, Methexis und Metaxy bei Platon, «Sokrates. Zeitschrift fiir das Gymnasialwesen, sez: •Jahresberichte des Philologischen Vereins zu Berlin,., XLV, I9I9, pp. 48-70, in particolare pp. 48 sgg. [ora in Drei Schriften zur griechischen Philosophie, Heidelberger Akadenùe der Wissenschaften, Heidelberg I964. trad. it. di G. D' Acunto, Methexis e metaxy in Platone, in E. Hoffmann, Antitesi e partecipazione in Platone, cit., pp. 2I-55, in particolare pp. 2I sgg.], con la correzione apportata in E. Zeller, Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung dargestellt, cit., II, sez. I, p. Io8 I. " Platone, Sofista, 262 C [trad. it. cit., pp. 242-243]. ••

IL LINGUAGGIO E LA LOGICA ARCAICA verbale in quanto rappresentante dell'" azione" costituiscono, presi di per sé, l'essenza del logos parlato. Una simile funzione spetta solo all'atto della connessione'', cioè a quell'atto del comporre at­ traverso la mescolanza che consente di riunire in un intero elementi tra loro eterogenei. Questo logos espresso è, come quello matema­ tico, "armonia"; esso infatti fa delle due sfere del soggetto e del predicato una struttura armonica. Il logos è sempre omologia. Ora, colui che porta in "symphonia" col logos gli erga è - secondo il Lachete'J - il vero "philologos". La sua attività consiste nel "render ragione" (logon didonaz) dei propri discorsi. Pertanto, anche in Platone l'anima parla; anzi, in senso proprio, solo essa può parlare! Il materiale fonetico prodotto dagli organi vocali può sì portare nel mondo spaziale esterno'4 ciò che vien det­ to, ma il linguaggio è, nella sua essenza, molto distante dal voler più o meno riprodurre a mo' di copia gli oggetti, o altrimenti dall'es­ sere in qualche modo obbligato a servire il mondo esterno. Ogni forma di totalità, e quindi anche l'enunciato, appartiene a quelle entità cui spetta non di servire, ma di governare (non il "servire ed esser dominato", bensì il "comandare e dominare"). Ora, com'è possibile che l'enunciato, che per Platone possiede come sua dote più ragguardevole la costanza della forma del giudizio, possa ri­ specchiare un mondo cosale che muta di momento in momento in modo caotico e che mai "è" ? Al contrario: su tutte le cose che sempre asseriamo nella forma del logos «noi imprimiamo il sigillo " Eccellenti sono, al riguardo, le prime ricerche di J. Classen sull'�vOflvcrel del linguaggio riceve un senso completamente nuovo: anche gli e1tect. da un certo punto di vista possono dirsi c�>vcrel, ovvero nella misura in cui ogni vera physis porta in sé la determi­ nazione qualitativa del peras. La vera grammatica vuole il contrario dell'"atomizzazione" del linguaggio. Se il linguaggio intendesse riprodurre la mera costituzione sensibile delle cose, se esso voles­ se di conseguenza offrire un'imitazione ingannevole di ciò che è già un'immagine di minor valore, allora anche la grammatica non potrebbe essere altro che una ripartizione materiale degli eiowÀct. pneumatici. Ma qui è stato messo in risalto qualcosa di decisamen­ te diverso: come da un lato lo stesso senso linguistico è un genere dell'essere ('rwv OVTCalV ev TI CTl'jflEiov), dall'altro la grammatica mostra in qual maniera il corpo linguistico sia capace di farsi portatore di " ICGtTà -r�v cj>vcnv !kul>J9WfLEV lKGtO"Tov TEfLVEIV -roii TEfLVEIV n Kt.tl TEfLVEC'6t.ti 1CGtl w 7rEcj>UICE.

'' Platone, Crati/o, 387 A [trad. it. cit., p. 1 2 ] . '' Cfr. Platone, Filebo, 1 8 B [trad. it. cit., p. 76]. '' Cfr. ivi, 18 C [trad. it. ci t., ibid.].

IV.

PLATONE

75

questo senso. Ciò che il peras porta con sé è nel contempo adatto a fungere da mezzo (5pya.vov) o segno (CTl'J!-lETov) per determinati fini e per concetti. La grammatica non può essere usata come un mecca­ nismo, ma dev'essere applicata in un senso teleologico'6• Di nuovo, il linguaggio si dimostra appartenere alla sfera del me­ taxy in cui ciò che è intellettuale viene rappresentato attraverso ciò che è corporeo e quest'ultimo appare esprimere un fine intellettuale, cosicché si crea una sfera che media tra le idee e le cose, tra il "bene più alto" e il "necessario". «Quanto alla bocca, fu in virtù della ne­ cessità e del bene che i nostri ordinatori la sistemarono con denti, lingua e labbra, sì come è ora disposta: in virtù della necessità pre­ pararono l'entrata per il nutrimento, in virtù del bene, l'uscita delle parole: difatti tutto ciò che entra, per dare nutrimento al corpo, è necessario, mentre il fiume delle parole, che scaturisce fuori in ser­ vizio dell'intelligenza, è fra tutti i fiumi il più bello, il più buono»'7• Che il linguaggio appartenga al genere del metaxy è perciò al­ trettanto evidente come il fatto che il metaxy appartiene all'anima. Quest'ultima'8, definita come il principio dell'autocinesi, rimanda, in base a tale definizione, a due aspetti: da un lato al movimento in­ tellettuale dei concetti nella sintesi, nella dialettica e nella filosofia; dall'altro al movimento corporeo, il cui principio si trova nell'a­ nima stessa. Secondo Platone, infatti, il tratto distintivo del corpo animato e quindi vivente è che esso sia in grado di muoversi da sé.

'' Le nostre conoscenze riguardo alle prestazioni grammaticali dei solisti sono troppo scarse per poter dire contro chi Platone si opponesse personalmente. L'ambito particolare in cui Ippia operava era rappresentato dalla funzione delle lettere, delle sillabe, dei ritmi e delle armonie (cfr. Platone, Ippia Maggiore, 285 C [trad. it. di F. Adorno, in Opere complete, 5, cit., pp. }o6-307]); quello di Protagora, dalle parole e dalla loro forma (cfr. Aristotele, Retorica, m, 5, 1 407 b 7 [trad. it. cit., p. 1 50, da cor­ reggere con "Protagora al posto di "Pitagora"]); quello di Prodico, dall' ortoepia (cfr. Platone, Cratilo, 384 B [trad. it. cit., p. 8]) e quindi dal significato delle parole; quello di Gorgia, dallo stile (cfr. Aristotele, Retorica, m, 1 , 1 404 a 24 [trad. it. cit., p. 1 4 1 ]). Non c'è alcun dubbio sul fatto che siano stati i solisti a fondare per primi e in termini generali la grammatica. Ancor oggi, un gran numero di termini grammaticali mostrano di esser stati coniati dai sostenitori del logos di contesa benché, nel passare attraverso la Stoa e la traduzione latina, essi abbiano perso alquanto della loro immediatezza (Cratete di Mallo). A questo proposito, si veda E. Alberti [Die Sprachphilosophie vor Platon], «Philologus [Zeitschrift fiir das klassische Alterthum» ], XI, 1 8 56, pp. 681 sgg. '7 Platone, Timeo, 75 D-E [trad. it. cit., p. 427]. '' Cfr. Platone. Fedro, 245 C sgg. [trad. i t. cit., pp. 235 sgg.]. Sul problema si veda H. Barth, Die Seele in der Philosophie Platons, Mohr, Tiibingen 192 1 , pp. 1 98 sgg. •

IL LINGUAGGIO E LA LOGICA ARCAICA Ma ora, lo stesso rapporto che vige tra il movimento corporeo e

l'autokinesis dell'anima impronta anche la relazione tra l'espressio­ ne fonetica e il logos razionale. Come la vita intellettuale del pen­ siero non sorge nell'anima senza che il corpo viva e si muova, così non si ottiene alcuna sintesi del logos parlato senza che gli organi del linguaggio si muovano e si mettano all'opera'9• Come ovunque, anche in questo caso ciò che rivela una natura meccanica dev'essere compreso come mezzo in vista del telos, e non ciò che è intellet­ tuale come prodotto dell'ananke. E certo nello stesso modo in cui «Dio ci ha donato la vista affinché, contemplando nel cielo i movi­ menti periodici dell'intelligenza, ce ne servissimo per i movimenti del nostro pensiero», così «quanto alla voce ed all'udito si ripeta lo stesso discorso, che gli dèi ce li hanno donati per lo stesso fine e per la stessa causa», cioè come aiuto contro l'attività disarmonica della nostra anima (livctpfLocrro ç 'ljrvx* 1reploòoç)Jo, Dovunque compaia e comunque sempre si riveli, il logos è "armonia".

DUE DIGRESSIONI NEL TEETETO 2. 1 . L'origine dell'immagine della colombaia «Nuovamente allora, come prima abbiamo foggiato nelle nostre anime un non so qual blocco di cera plasmata, così ora costruiamo in ciascuna anima una sorta di colombaia di uccelli di ogni specie,

'9

Pertanto, Platone non è affatto contro «quel discorso di celebrazione (À6'}'o> (cfr. Metafisica, 1072 b 27 [trad. it. cit., p. 5 1 2]).

IL LINGUAGGIO E LA LOGICA ARCAICA

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renderlo qualcosa di "già divenuto". Nel far questo, essa falsifica l'oggetto verso cui si dirige, rendendolo tuttavia "conveniente" per la rappresentazione umana. Derivare l'origine del cosmo partendo da elementi e atonù irrazionali è, secondo Platone, una mera as­ surdità. Il cosmo, concepito sia come un organismo sia come un meccanismo, rimanda in verità a un fine che può esser posto solo dalla ragione; ma come il cosmo spaziale sia divenuto nel tempo a partire dalla regione non spaziale e atemporale, non è pensabi­ le senza contraddizione. Il Timeo deve perciò assumere la forma espositiva del mythos, il cui metodo è molto al di sotto della scienza dialettica, ma il cui oggetto è di gran lunga superiore. Per Platone lo stesso vale riguardo al problema dell'origine del linguaggio. Chi è a conoscenza dell'essere e del peras, della techne e dell'organon del linguaggio, non può accontentarsi di un "bisogno" (xpel.a) che operi meccanicamente; ma con ciò la sua origine viene nel contem­ po sottratta alla conoscenza dialettica. Il "bisogno" del linguaggio rappresentava propriamente già il "bisogno" della dialettica. Ma l'origine del linguaggio si trova al di là dell'essere allo stesso modo dell'origine della ragione. Perciò il nùto non può ricorrere ad altro che allo stesso denùurgo per modellare il corpo dell'uomo in modo tale da permettergli di creare il linguaggio e porlo così al servizio della conoscenza.

4· Logos, epos, mythos Si è mostrato quale senso abbia ricevuto in Platone l'antica op­ posizione tra logos ed epos: essa viene utilizzata al fine di conside­ rare anche dal punto di vista del linguaggio il rapporto tra il mondo del pensiero e il mondo dei sensi come rapporto tra due mondi "diversi" (hepct), il secondo dei quali, essendo inferiore, acquista valore e significato solo se posto al servizio del primo. Ma ora in Platone alla funzione denominativa della "parola" e a quella giudi­ cativa del "discorso" si aggiunge una terza forma di comunicazione linguistica: il mythos, la conoscenza narrativa, la quale, assieme alle altre due, costituisce una significativa triade. Quali che siano le ragioni per cui così di frequente si pone in connessione la "nùtica" platonica con la "mistica" e nuovamente quest'ultima con i "misteri", in ogni caso sembra anzitutto neces-

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sario sottoporre a una breve indagine questi tre termini, che hanno una radice simile, con riguardo al problema linguistico-filosofico. Il fatto che un mysterion sia un à:rropprrrov, e dunque qualcosa che non può essere espresso (ma che potrebbe nondimeno esserlo dato che, per sua natura, non si sottrae alla riproduzione fonetica mediante parole), non può ceno essere messo in dubbio. I mysti, e dunque gli "iniziati", mantengono il loro segreto solo allo scopo che esso non sia violato e non ne venga fatto abuso da pane della massa profana. Già Platone gioca sull'assonanza dei termini "non iniziato" e "incontinente e incapace di conservare nulla" (à!J.OlJTOç, cfr. !J.OEtv e il derivato !L1JEiv)86; senonché l'Eil�lJ!J.Eiv del culto non sta a significare quel silenzio dove il discorso è impossibile, ma dove il discorso non è consentito. Le sette sono il luogo dei misteri, e il contatto tra la filosofia greca e i misteri greci non è né più stretto né più blando di quanto possa essere il rappono tra le scuole filo­ sofiche87 e le sette religiose. Di contro, la mistica si compona spesso - e si comportereb­ be così sempre, se non avesse motivi di essere per principio sen­ za principi - come qualcosa che non può essere adeguatamente espresso. « È sempre una specie di morte per la nostra taciturna felicità quando essa dev'esser trasformata in linguaggio. Come un bambino, vivo più volentieri in una pace felice e lieta, senza riflettere su ciò che ho e ciò che sono; ciò che io posseggo, infatti, di certo nessun pensiero può coglierlo del tutto». Queste parole di Holderlin88 potrebbero appanenere senz'altro alla mistica. Ad ogni oratio aderisce, per così dire, una pane di ratio (si confronti anche "calcolare", "fare il conto di"); tuttavia il mistico non vuole il razionale, bensì l'irrazionale in qualità di sovrarazionale. Il con­ tenuto della mistica non è "interdetto" nel senso in cui qualcosa è

" Cfr. Platone, Gorgia, 493 A-B [trad. it. cit., pp. 200-201]. '' Devo utilizzare quest'espressione infelice perché non ve n'è a disposizione un'altra. Per i pitagorici essa designa una sorta di organizzazione ecclesiastica; per i milesii forse una scuola nautica; probabilmente, per gli eraclitei solo quella comunità che si riconnette teoreticamente a Eraclito, e così via. Già da considerazioni sociologi­ che, non è consentito ritenere alcune delle cosiddette scuole filosofiche presocratiche come delle "sette» nel senso più stretto della parola. Sulla sociologia della setta, si veda E. Troeltsch, Das stoisch-christliche Naturrecht und das moderne profane Naturrecht, «Verhandlungen des Ersten Deutschen Soziologentages», Tiibingen 1 9 1 1 , p. 166 sgg. 98 F. Holderlin, Werke, IV, Kiepenheuer, Potsdam 192 1 , p. 1 50.

IL LINGUAGGIO E LA LOGICA ARCAICA semplicemente vietato; esso sta piuttosto al di là di ogni dicibilità. Il silenzio è perciò la prima forma adeguata per riprodurre il senso dell'esperienza mistica. L'eterno silenzio in certi ordini monasti­ ci è la più elevata e più toccante espressione del superamento del mondo sensibile da parte della mistica. Ogni evento razionale si pone negativamente di fronte all'unio mystica, e ciò si esprime ne­ gando il discorso. Ma accanto al silenzio c'è anche un'altra forma espressiva: il discorso può esser negato, in quanto si nega solo ciò che di razionale vi è in esso. Sorgono così forme di espressione paradossali del tipo: «il buio luminoso» o «l'ente che non è» ecc. Pertanto, anche il "silenzio" mistico può trasformarsi in un silen­ zio "eloquente", e Dio, che è al di là di ogni discorso, può «parlare nel silenzio». Nella mistica cristiana, questo motivo riceve ancora la sua particolare forma mediante l'intreccio col problema della Trinità. Dio si colloca al di sopra di tutto ciò che ha nome, parola, discorso; e tuttavia il «figlio di Dio» è la sua parola. Il mistico può contemplare Dio da due lati: come "Dio" e come "divinità"; nel primo caso, come "positiva negazione" di ogni linguaggio e, nel secondo, proprio come parlante; anzi, come quel parlante cui non appartiene altro predicato89 meglio della "parola" e della "verità". Ma la natura del pensiero mistico consiste appunto nel fatto che per esso il paradosso dell'opposizione significa solo il raggiungi­ mento dell'unità ardentemente desiderata, cioè il superamento del­ la sfera razionale. Il mistico non pensa la sintesi di tesi e antitesi, ma l'unità paradossale di entrambe. L'obiezione di "incoerenza" non costituisce quindi un valido argomento contro la mistica; per essa, la "coerenza" significherebbe ancora qualcosa di non ultimo, d'incompiuto. Ma proprio per questo, che il silenzio rappresenti la forma adeguata dell'espressione mistica non è né annullato dal fatto che anche il Dio dei mistici parli, né dall'ulteriore fatto che il silenzio del mistico possa esser sostituito da tutte le forme immagi­ nabili del discorso che vanno fino alla glossolalia. Come nel silen­ zio, così proprio nei discorsi deliranti, estatici e privi di significato il linguaggio umano viene ugualmente superato e negato; tuttavia, ciò accade in una diversa dimensione. La stessa esperienza dell'illu-

'' Cfr. Meister Eckhart, [Predigten], ed. F. Pfeiffer, [Deutsche Mystiker des XIV. ]h., Goschen, Leipzig 1 8 57], 11, p. 2 7 I .

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minazione e della visione estatica è tanto poco dicibile e pensabile, quanto poco è insegnabile e conoscibile, umana e mondana. Dal fLUEtv = "chiudere gli occhi" deriva il fLUEtv nel senso di "chiudere la bocca". Come si sa, è oggetto di vivacissime controversie a partire da quando il puro concetto di mistica si sia materialmente legato alla filosofia greca9o e se ciò avvenga già prima di Filone e Plotino. In ogni caso - come sembra - in base al nome questo accade a par­ tire da Dionigi Areopagita. Il volersi esprimere attraverso il discorso non è comunque l'idea dominante del mysterion e della mistica. È invece un'idea dominan­ te del mythos il voler parlare e il voler lasciar risuonare qualcosa, poiché mythos significa "notizia". Il mythos può perfino aderire al "nome", poiché questo può conservare nella forma più condensata l'intero complesso di una leggenda. Mv9eofLctl significa parlare, e in ogni caso la radice fLV- indica che qualcosa vien fatto risuonare, che questo qualcosa vuole assumere un suono (fLu�etv; mugire; andar di­ cendo, bisbigliare ecc.). Il mythos, già nel modo in cui la sofistica letterariamente lo impiega, sa certo di essere in opposizione al logas: «Debbo dimostrarvi la cosa raccontando un mito (mythos), come un vecchio che parla ai giovani, o procedendo con un ragionamen­ to (logos, cioè in modo concettuale) ?» chiede Protagora nel dialogo omonimo9'. E Platone, che fa della mitopoietica una componente essenziale della sua forma di comunicazione filosofica, sviluppa e perfeziona appunto questo contrasto con particolare incisività. Resta comunque il fatto che, secondo la sua essenza, il mythos è linguaggio (anche se non il linguaggio del logos), cosa che neppure lontanamente può esser asserita del mysterion e della mistica. Per gli scopi linguistico-filosofici del presente lavoro, dobbiamo dunque separare nettamente i tre concetti, sebbene nell'effettivo sviluppo storico delle Weltanschauungen occidentali siano sussi­ stiti collegamenti tra tutti e tre gli ambiti tematici: la mistica elleni­ stica si sviluppò e si conservò sino alla fine dell'antichità in stretta connessione con i culti misterici, e rimase a questi intimamente affine in special modo attraverso il significato della redenzione e

"' A questo proposito rimando, senza però aderire alla linea interpretativa dell'arti­ colo, a H. Leisegang, in «Philologische Wochenschrift», 44, 1924, Nr. 5/8, pp. 1 3 7 sgg. [Si veda anche Id., Die Gnosis, Kriiner, Leipzig 1924]. '' Platone, Protagora, 320 C [trad. it. cit., p. 8o].

IL LINGUAGGIO E LA LOGICA ARCAICA dell'esperienza estatica. Così come da un lato la forma di religiosità dei misteri si serviva dell'azione drammatica come di un conteni­ tore simbolico per la raffigurazione del Dio redentore e delle sue gesta, dall'altro essa operava costantemente formando miti e favo­ rendo in tal modo la mitopoietica filosofica. Nel frattempo, ciò che resta per noi da stabilire è che le relazioni essenziali che tutti e tre gli ambiti intrattengono col linguaggio sono in sé fondamentalmente differenti: il mysterion è tale da essere, in generale, senza signifi­ cato dal punto di vista linguistico-filosofico. Il divieto di parlare intorno ad esso si fonda su motivi che non hanno nient'altro a che fare col linguaggio, se non che esso è mezzo di diffusione, mentre il sacramento deve rimanere un possesso del singolo. Per contro la mistica ha, in ogni circostanza, molto a che fare col linguaggio: essa lo nega e lo supera, lo aggira con astuzia, lo schiaccia per il fatto che il linguaggio è e rimane qualcosa di materiale, e con ciò ostacolo, resistenza al carattere puro e immateriale dell' bÀwcnç. Tuttavia, non è solo il linguaggio in quanto materia che è di ostacolo alla mistica riguardo alla sua meta estrema, ma anche il linguaggio come forma. Il linguaggio strutturato è infatti logos, espressione dell'atto del giudizio razionale e perciò della dualità e dell'alterità (hep6T)]ç) di soggetto e predicato che ogni giudizio pone. Ma nello stesso modo in cui l'esperienza mistica è "unio" (gvwutç, ct7l'Àwutç), così anche la forma di pensiero che l'accompagna non è quella dell'hep6T)]ç, ben­ sì della Tct.lh6T)]ç. Di certo, il mistico pensa a un tempo in modo diretto la contraddizione, non tuttavia per realizzare logicamente un processo di pensiero, ma proprio per rinunciare ad esso. Infatti, tale forma di pensiero si prende gioco del linguaggio. Dall'altro lato, il rapporto del mythos col linguaggio è del tutto diverso. Se­ condo Platone, il mythos in ogni caso appartiene allo stesso genere dell'epos e del logos , e forma con questi una successione: l'epos non è scindi bile da ciò che è sensibile, essendo una creazione eterea pro­ dotto della bocca, condizionata da meccanismi, fugace e transitoria come tutto ciò che si trova nello spazio e nel tempo e che, per l'in­ tera sua natura, è un qualcosa di relativo, casuale, un apeiron per così dire "stigmatizzato" solo con il momento delperas. Viceversa, il logos intende sottrarsi ad ogni forma di sensismo; esso dimora nella sfera non-spaziale dei significati ed è oggetto dell'anima ra­ zionale; esso ha la libertà della "forma" e si è appropriato della legalità di tutto ciò che è "noetico". Il mythos, in definitiva, non

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vuole né materializzarsi, né liberarsi di alcun carattere sensibile; esso intende anzi tradurre in simbolo, ehcov[�wv TI]v tiÀ�9wtv (Suida). Il mythos vuole "dare notizia" di ciò che trascende l'essere, la plu­ ralità delle idee e, con ciò, la connessione (CT1.1f.t7rÀoldj) e la divisione (òtcdpecrtç) del logos; non però mediante concetti, ma in immagini. Le cesure tra epos, logos e mythos sono semplicemente le cesure che intercorrono tra la regione estetica, quella noetica e quella me­ tafisica in quanto proiettate nella possibilità dell'espressione92, Il mythos si rivolge a quell'uno che è "al di là dell'essere", essendo più di un semplice oggetto di conoscenza pura, più del semplice essere esemplare: esso è, infatti, causa prima e produttrice9J, valore 9' Quest'uso del linguaggio mitico per un fine posto al di sopra della sfera di ciò che è conoscibile dalla ragione umana non ha quindi nulla in comune con le peculiarità di quella forma di pensiero mitico e prescientifico che, ad esempio, trova espressione nel fatto che gli dèi parlano un linguaggio diverso dagli uomini, oppure nel fatto che si deve parlare agli dèi in altre forme (ad esempio, in poesia invece che in prosa). Cfr., a tal riguardo, Rigveda Brahmanas [The Aitareya an d Kausitaki Brahmanas of the Rigveda ], engl. transl. by A.B. Keith, «Harvard Orientai Series», xxv, pp. r8o sgg. •1 Nella Critica del Giudizio, Kant afferma, platonizzando, che l'arte poetica non ricava lo spirito che anima le sue opere a partire dal versante logico. Essa vuole dare slancio all'immaginazione per pensare più di quanto si possa riunire in un concetto e quindi in una determinata espressione linguistica. L'aquila di Giove, ad esempio, dà alla nostra facoltà immaginativa quello slancio che ci permette di pensare Zeus come l'insieme di ogni maestà o sublimità, cosa che non si può certo raggiungere concettual­ mente. Riguardo a ciò, come esempio massimamente sublime Kant cita «quell'iscrizione posta in calce nel tempio di lside: "Io sono tutto ciò che è, che fu e che sarà, e nessun mortale ha sollevato il mio velo •. In questo passo viene espresso nel modo più perfetto il segreto di tutti i segreti, poiché l'immaginazione, non vincolata da alcun concetto de­ terminato, può fare un libero uso di una molteplicità di rappresentazioni parziali (cfr. l. Kant, [Kritik der Urteilskraft (1790), in] Werke, hrsg. von E. Cassirer, [Bruno Cassirer, Berlin 1 9 1 2- 1922], V, p. 391 [trad. it. di A. Bosi, Critica del Giudizio, UTET, Torino 1993, pp. 289-290]). Più o meno nello stesso modo in cui Kant riporta il testo dell'iscri­ zione, anche in Plutarco (cfr. De Iside et Osiride, rx [ed. it. a cura di V. Cilento e P. Volpe Cacciatore, Su Iside e Osiride, in Id., Diatriba isiaca e dialoghi delfici, D' Auria, Napoli 2005]) si trova: «Davanti ai templi essi posero, in modo appropriato, le sfingi, perché la loro teologia racchiudeva una saggezza enigmatica. Il tempio di Atena, che essi ritene­ vano essere Iside, porta la seguente iscrizione: "Io sono tutto ciò che fu, è e sarà, e il mio peplos, non è stato ancora sollevato da alcun mortale"». Oltre a Kant, non solo Schiller ha almanaccato sull'immagine velata di Sais, ma anche Beethoven ha posto il testo dell'i­ scrizione sul suo tavolo di lavoro. Tuttavia, nessuno di loro era a conoscenza del luogo in cui il testo è conservato nel modo migliore e più completo, vale a dire in Proclo, (cfr. [Procli Diadochi] in [Platonis] Timaeum [Commentaria], hrsg. von E. Diehl, Teubneri, Lipsiae 1903, p. 98). Secondo il racconto degli egiziani, davanti all'adyton della dea stava scritto ciò che segue: «Ciò che è, sarà e fu, io lo sono. Nessuno ha mai alzato il mio chiton. Il frutto che io partorii divenne sole•. "Adyton" (santuario) è meglio di tempio; •

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creatore. Il linguaggio paradossale del mistico si crede più perfetto e più vicino a Dio di quanto non lo sia il linguaggio logico; per con­ tro, il linguaggio paradossale del creatore di miti sa che, in quanto linguaggio, in quanto metodo di riproduzione, è molto al di sotto del logos, e che solo il suo oggetto - Dio - si colloca al di sopra dell'oggetto del logos, ossia delle idee. Il mythos sa che la sua im­ magine di Dio come artefice, come padre e giudice, è molto meno adeguata del modo in cui il logos afferra il suo oggetto; la sintesi del logos "è" infatti una funzione che coglie direttamente la verità della "comunione dei generi" (JCotvwvlct Tcilv yEvcilv), mentre le immagini del mythos sono inferiori alla verità del loro oggetto a tal punto che il logos può dirle impunemente "false" {fLii9oç À6yoç 'ljrEvÒ�ç, Suida). Il mythos è "conveniente" solo in quel senso in cui la stessa mitopo­ ietica rappresenta qualcosa di "poietico" e di "demiurgico". Il vero creatore di miti deve al contempo risultare un buon dialettico: solo la dialettica apre infatti la via alla visione di quell'uno che si trova al di là di essa. Ma se la dialettica ha mostrato la via, l'unica possibile, il mythos è allora una questione di vera e propria arte94, così come il logos è cosa che riguarda l'autentica scienza, e l'epos - secondo Platone - è faccenda che riguarda la massa. Le nostre considerazioni dovrebbero aver posto abbastanza in chiaro il rapporto tra mitica e mistica, essendo stati accostati en­ trambi i concetti dal punto di vista del loro rapporto col linguag­ gio; al tempo stesso, si è in tal modo preso posizione nei confronti delle due direttrici della moderna esegesi platonica che si devono "chiton" (tunica sacerdotale) è meglio di peplos. Ma soprattutto è assai illuminante la conclusione. Per Kant, secondo il quale il cielo stellato era simbolo dell'esistenza di Dio, il ruolo qui giocato dal sole avrebbe dovuto avere il massimo interesse. Non solo: la luce fenomenica del mondo viene qui "partorita dal trascendente (causalità metafisica). Ma Proclo dice ancora di più: «Una dea certamente demiurgica che non appare e insieme si mostra nel cielo�. E con ciò viene gettato un ponte verso Platone. Proclo trova nella concezione egiziana un momento che egli interpreta in modo platonizzante: il divino è invisibile nel suo essere, ma visibile nel suo effetto demiurgico. Se concepiamo il Dio come demiurgo, allora asseriamo qualcosa di vero al suo riguardo senza sollevare in maniera profana il velo. Nella storia di quella tradizione che va dal Sole di Platone, in quanto creazione dell'idea del Bene, fino al simbolo della luce in Kant, il neoplatonismo rappresenta il tratto d'unione più fondamentale. Kant non sospettava quanto egli, so­ prattutto nella Critica del Giudizio estetico, fosse erede di Platone. Il testo di Plutarco ha offuscato la continuità storica, mentre quello di Proclo la rende evidentissima. •• Perciò il mythos designa anche il testo della rivelazione (così come ii logos la prosa scientifica e l'epos, nel tardo uso linguistico, quella poesia che si rivolge a tutti). •

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indicare come attualmente dominanti. Da un lato si ritiene il pen­ siero mitico platonico come il ricettacolo di una presunta misti­ ca; dall'altro si tende a considerarlo come una sorta di scherzo o divertimento che non vuoi essere preso seriamente, e la stessa vi­ sione delle idee viene concepita come un atto puramente mistico che essenzialmente rappresenta la filosofia platonica, ponendola in opposizione alla scienza. Contro la prima concezione si deve obiettare che essa non dice chiaramente nulla di più se non che l'oggetto della mitica platonica rappresentava per Platone stesso qualcosa di sovrarazionale, e che i concetti riguardanti la relazione del mondo con codesto sovrara­ zionale sono di tipo irrazionale. Mi sembra però più discutibile se sia servito con ciò alla ricerca storico-filosofica l'aver impiegato la parola "mistica" in un'estensione ulteriore, in modo tale da signi­ ficare, in definitiva, anche la presenza di momenti irrazionali in un sistema. In ogni caso, nella presente esposizione, sotto il concetto di mistica s'intende solo ciò che rappresenta una filosofia dell'unio mystica. E sicuramente la mitica di Platone non ha nulla a che fare con questa. Platone conosce un "assimilarsi al Dio" (6fLoiwcnç Tcfl 9ecf>) ma nessuna unione (éhrÀw