Il limbo delle modernità
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SAGGI, PERCORSI & OLTRE

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Prima edizione: agosto 1994 © 1994 by Guaraldi/Gu.fo Edizioni S.r.l. Via Covignano 302, 47037 Rimini, tel. 0541/752218 ISBN 88-86025-96-3 In copertina: elaborazione computer-grafica di un’immagine di Man Ray (Obstruction 1920-61)

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Franco Cardini

IL LIMBO DELLE MODERNITÀ a cura di Chiara Mercuri

Guaraldi

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Indice

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Nota del curatore Introduzione

1. LIMBO DELLA CRISTIANITÀ 15 L’anello debole della catena 18 Pasqua, festa dei perdenti 20 Cristianesimo e cristianità 23 Chiara 24 Teologi e sessuofobia 26 Oro, incenso e mirra 29 Questi santi scomodi 2. LIMBO DELLO SPIRITO 35 Io e la gnosi 37 Mode del piffero 39 Noi e il diluvio 41 Il sogno di Saddam 3. LIMBO DELLE MENTALITÀ 45 Se hai detto raca... 48 San Giorgio e la lucertola 50 La guerra e le sue regole 53 L’omino della malora 55 La truffa dell’eufemismo 4. LIMBO DELLA CIVILTÀ 61 Condannati allo schi-food 64 Poveri benestanti 66 Nazista? No, precursore 69 Parlando del diavolo 72 Marcuse l’aveva previsto 75 Le luci dell’est

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5. LIMBO DELLA STORIA 81 Apologia del crimine storico 83 Nemesi storica 85 Ascolta, Francis... 87 Una città mia e di tutti 89 Storia-funzione e storia-uso 91 Lo zanni e la regina 93 Una povera peccatrice

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6. LIMBO DELL’UNIVERSITÀ 99 Disincentivatzija 101 Baroni e aspiranti-baroni 104 Asini in pillole 7. LIMBO DELL’INFORMAZIONE 109 Il di più agli imbecilli 111 Attenti a chi ci informa 113 Il delitto d’opinione 115 Del complotto universale e di altre divertenti stupidaggini 8. LIMBO DELLE IDEOLOGIE 121 E io grido viva Stalin 124 Io son fatto così... 126 Lettera a un amico comunista 131 La guerra dei pacifisti 133 La mia prima volta col Pds 9. LIMBO DELLA CULTURA 139 I tartufi della cultura 141 Sfida all’ultimo fanatismo 143 Improbabili incontri 145 A scuola con Tolkien 147 La mappa dell’ignoranza 10. LIMBO DELLA POLITICA 153 La sindrome di Churchill 155 Piovre ed allocchi 157 Sacco in spalla 6

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Nota del curatore

Quando l’Editore mi propose di curare l’edizione di questo libro, mi consegnò un pacco con circa 180 articoli del Professor Cardini, di cui una parte inediti e la maggior parte già pubblicati su “Il Sabato”. Si trattava, mi disse, di “creare il libro”; e, come traccia, mi consegnò un titolo provvisorio spudoratamente dantesco: Paradiso, Purgatorio e Inferno della modernità. In effetti, quando si deve ricavare un libro da una serie di articoli, la preoccupazione maggiore è quella di contenere il più possibile l’aspetto inevitabilmente un po’ “schizofrenico” della raccolta. E in questo senso quel titolo era “furbo”. Ma, a lavoro avviato, è apparso con assoluta chiarezza che il luogo più pertinente ove collocare le cosiddette “modernità” era piuttosto il “limbo”. E credo di poter ora rassicurare il lettore affermando che Il limbo delle modernità presenta una sua straordinaria coesione. Dei 180 articoli originari se ne propongono qui una cinquantina in tutto, di cui 10 inediti (contrassegnati alla fine con un asterisco). I “pezzi” selezionati sono stati in alcuni casi riproposti per intero, in altri leggermente tagliati, in pochi casi infine (dove compare la doppia data alla fine) sono stati uniti insieme brani di articoli diversi. Il lettore si stupirà di non vedere seguito alcun ordine cronologico e che, in alcuni casi, anche nell’accostare articoli riguardanti uno stesso argomento, si sia preferito anteporre un pezzo di data più recente. Questa operazione ci è sembrata possibile considerato che tutti gli articoli sono stati pensati e pubblicati in un lasso di tempo relativamente breve. Si è invece seguito un criterio tematico per raccogliere gli articoli in capitoli e all’interno di essi si è preferito disporli nella maniera che di volta in volta è sembrata più efficace. L’omogeneità e la coesione cui accennavo è in realtà dovuta al fatto che in tutti i capitoli riaffiora il “leitmotiv” che caratterizza questo libro: la polemica costante e puntigliosa condotta dall’autore nei confronti di uno dei grandi nemici del nostro tempo, il conformismo intellettuale. 7

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Il vero “limbo” della modernità sembra essere, dalla lettura di queste pagine, proprio quel conformismo “strisciante e belante”, come lo definisce Cardini stesso, che spesso e volentieri vuole essere fatto passare per il suo esatto contrario. La sua polemica contro il luogo comune non è mai fine a se stessa ma viene sempre usata nell’intento di scuotere quella diffusa “atmosfera mentale” che diventa sempre più immobile, stagnante e sospesa. Al di là del “limbo”, strizzando un po’ gli occhi, anche se con qualche brivido gnostico, il lettore non tarderà “a scorgere, oltre il buio spesso e ottuso della materia, lo scintillare del sacro”.

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Chiara Mercuri

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Introduzione

Nel 1988 gli amici della direzione de “Il Sabato” mi offrirono una rubrica fissa sul loro settimanale: una pagina tutta per me, nella quale avrei potuto scrivere qualunque cosa mi fosse passata per la mente, senza condizioni e senza censure. Chiesi che mi fosse assicurato il “diritto” di andar, presentandosi l’occasione, anche contro la linea del giornale. Mi fu risposto di sì. Debbo dire che in oltre quattro anni di collaborazione - tanto è vissuta la rubrica, che prima si chiamò “Periscopio” e quindi, più ambiziosamente, “Terzapagina” - i patti furono rispettati: non subii esplicite censure, né i miei pezzi vennero mai rivisti e ritoccati o decurtati, salvo piccole cose dovute alle esigenze editoriali. Debbo anche dire però che mi fu chiesto di far avere regolarmente alla redazione un certo numero di pezzi, diciamo così, in eccedenza: in modo da non restare mai “a secco”. Mi resi conto che dietro questa richiesta si celava la del resto discreta domanda - da parte della direzione - di esercitare un minimo di censura indiretta attraverso il sistema degli scarti di pezzi ritenuti troppo duri o in troppo chiara rotta di collisione con le scelte della rivista. Era una forma ragionevole e cortese di proporre una soluzione che, altrimenti, sarebbe stata per me inaccettabile. La stagione di “Terzapagina” durò dall’agosto 1988 al novembre 1992; quindi, pur mantenendo la mia collaborazione a “Il Sabato”, passai ad altra rubrica abbandonando la tuttologia e la provocazione sistematica (ché questo mi si era chiesto di fare, anche se non su tutti i numeri) per tornare al mio mestiere abituale, quello dello storico. Furono molti i casi nei quali le opinioni e le posizioni che sostenevo in “Terzapagina” furono raccolte, riprese, citate, talora contestate anche con durezza. Debbo dire che que9

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st’esperienza fu per me un divertimento e un arricchimento; anche se rivelò a me stesso un lato irascibile e attaccabrighe della mia indole, che non conoscevo. Ero abituato a sentirmi trattato, nei mass media, da serio e posato studioso e a considerarmi ascoltato in quanto tale: fu un bel trip il vedermi da un momento all’altro appiccicar, da certa stampa o da certa TV, epiteti come “pirata”, “teppista intellettuale”, bandolero eccetera. Ma, soprattutto, fui fortunato perché per più di quattro anni potei parlare, e da una tribuna autorevole, di tutto: non quattro anni qualunque, ma quei quattro anni dall’ ‘88 al ‘92, gli anni del crollo dell’impero dell’Est, dell’esaurirsi del reagan-bushismo e del sogno americano della “fine della storia”, del nascere di Tangentopoli e quindi della vigilia di quella stagione di veri o supposti grandi cambiamenti che hanno caratterizzato la società italiana dei tempi che andiamo adesso vivendo. Senza averlo mai voluto né programmato, mi trovai quindi - io “cane sciolto”, senza tessere di partito in tasca, thomasmannianamente impolitico - a mia volta opinion maker; e vidi i miei commenti ripresi, dilatati, commentati e a loro volta (e talvolta, con mio grande spasso, non senza accenti di scandalo) dalla grande stampa e dalla televisione. Stetti al gioco, magari non sempre con la necessaria prudenza: come accade spesso a chi ottiene qualche successo in un campo che non è il suo e dove si sente quindi “battitore libero”, free lance. Ora, “Terzapagina” e il “Il Sabato” sono un capitolo concluso, rispetto al quale si può tentare un consuntivo. Chi avrà la pazienza di scorrere queste pagine potrà verificare che certe posizioni allora prese non mancavano di coraggio civico, che certe interpretazioni che allora avanzavo di fatti non ancor del tutto chiari o di situazioni ancor fluide non erano del tutto carenti di capacità intuitiva e addirittura di veridicità; accanto ad altri casi rispetto ai quali, invece, mi capitò di prendere solenni cantonate. Nell’ampia antologia dei miei “pezzi” che qui presento, non ho mancato di lealmente proporre - accanto a quelli azzeccati - anche alcuni 10

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esempi di malintesi, bufale, di pareri poi rivelatisi errati, di battaglie perdute: è il rischio da correre, il prezzo da pagare quando si accetta di trattare quel fluido magma che è il presente. Ma il lettore riscontrerà che menzogne non ne dicevo; e che ritirate strategiche dinanzi ad argomenti pericolosi e compromettenti non ne facevo. Anzi, il fiore all’occhiello di “Terzapagina” erano i paradossi, l’amore per le cause perse e le ragioni minoritarie: è ciò che mi ha procurato il massimo di grattacapi ma anche di consenso da parte dei lettori e di soddisfazione. Ma, come dicevo, gli amici de “Il Sabato” non pubblicavano tutto quel che inviavo loro: talvolta perché, nel lasso di tempo tra fatto commentato e arrivo del pezzo in redazione, l’oggetto perdeva di attualità o d’interesse; talaltra perché i toni da me usati venivano giudicati forse troppo acri o troppo pesanti; talaltra ancora, credo, perché il dissenso tra quel che io dicevo e la linea che il giornale andava in quel momento sostenendo era davvero troppo marcato. Non ho, al riguardo, recriminazione alcuna da fare: anzi mi rendo conto che trattar Francesco Cossiga da “Cossighik”, elevar peana in lode dei “congiurati” della cosiddetta “Gladio” (i quali alcuni decenni fa, in piena guerra fredda, altro non avevano fatto se non riunirsi e organizzarsi per evitare a noi tutti di far la fine della Romania) e chieder gli onori militari per i volontari “dalla parte sbagliata” della seconda guerra mondiale possano essere stati visti come birichinate eccessive. Offro comunque alla minoranza più facinorosa dei miei venticinque lettori una piccola antologia (non datata, questa: ma le date si ricavano facilmente) del Limbo dei pezzi rifiutati. E la dedico ai miei più intransigenti detrattori, affinché tocchino con mano il fatto che io sono molto peggiore di come, talvolta, sembra da quello che di me e su di me pubblicano i giornali. Mario Guaraldi è da alcuni anni un amico prezioso e fedele che condivide anche - Dio lo perdoni - molte delle mie idee; e che comunque è abbastanza generoso, abbastanza spregiudicato e abba11

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stanza imprudente da simpatizzare sempre con le cause perse, le ultime raffiche, i bucanieri e i lanzichenecchi. Se così non fosse, questo libro non sarebbe mai stato pubblicato. Un ringraziamento cordiale, quindi, tanto a lui quanto alla direzione de “Il Sabato” che ha accordato il suo consenso alla riedizione di queste pagine. Debbo infine molta gratitudine a una giovane amica, Chiara Mercuri, per la sensibilità, l’intelligenza e anche la pazienza con la quale ha accettato di scegliere, raccogliere, ordinare e curare i “pezzi” di cui questo libro è costituito. Se esso ha una qualche coerenza, i meriti vanno a lei. Franco Cardini

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1. LIMBO DELLA CRISTIANITÀ

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L’anello debole della catena

Mi capita spesso, in questo tempo pasquale, di ripensare alla mia dolce Gerusalemme e a com’era ai tempi di Gesù. Come davvero fosse allora, per la verità, non lo sa nessuno; e anche con l’archeologia si arriva a poco sotto quel profilo. Così, io Gesù e gli apostoli me li immagino per le strade strette e i suk della Gerusalemme di adesso. Lo so che è un anacronismo: ma in fondo mi chiedo quanto grave. E penso dunque, soprattutto, a quello strano, terribile, quasi fiabesco intervallo di poche settimane tra la morte del Signore e la discesa del fuoco dello Spirito sugli apostoli riuniti nel cenacolo. Mi piace mettere un po’ da parte filologia, storia, archeologia, ed esegesi biblica e ripensare a quel tempo come se fosse il nostro: un po’ come hanno fatto i pittori tra Medioevo e Seicento. Su quelle poche settimane sfuma il racconto evangelico, da esse parte incerto quello degli Atti degli apostoli. Sono stati, quelli, i giorni dello sbigottimento, della paura, ma anche dell’esaltazione quasi febbrile. Braccati, segnati a dito, incapaci forse di reagire allo sconforto, la madre, i parenti e gli amici più cari del Galileo crocifisso s’incontrano di nascosto, vivono quasi alla macchia, fanno di tutto per non dare nell’occhio. Eppure strane, incredibili, meravigliose notizie circolano fra loro. Allucinazioni? Sogni? Proiezioni del desiderio? Delirio d’onnipotenza di un gruppo di falliti, incapaci, ignoranti, ai quali d’un tratto è venuta a mancare la guida? Lui è morto. Quel sogno di gloria, di libertà, di giustizia, di rinnovamento si era infranto sul duro legno della croce. Una vecchia storia, che tante volte si è ripetuta nei secoli... Ma c’è una donna, una povera creatura inaffidabile, una ex pro15

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stituta, che sostiene di averlo visto nell’orto presso il calvario. E due disgraziati che nella sera passavano da Emmaus, e ragionavano della fine delle loro illusioni, giurano di aver incontrato uno strano viandante che conosceva bene le Scritture e di averLo riconosciuto allo spezzare del pane. Dicono poi sia entrato nel rifugio dei suoi seguaci, dove pure le porte erano sprangate: e dicono che uno, un incredulo indurito, uno che crede solo a quel che vede e che tocca, sia caduto in ginocchio davanti a quell’apparizione e abbia esclamato una cosa terribile, una bestemmia atroce dinanzi alla quale ogni buon ebreo rabbrividirebbe: “Mio Signore e mio Dio!”. Favole. Allucinazioni. Deliri di onnipotenza. Certo, Chiesa e cristianesimo sono ben altro. Nati da questo groviglio di memorie e di dicerie, hanno pur fatto strada. Hanno saputo rispondere per secoli - e forse possono ancora farlo - alle ansie, alle paure, alle speranze degli uomini. Sono riusciti a fondere la tradizione ebraica con la cultura greco-romana. Hanno creato una teologia, un’arte, una letteratura, perfino una scienza politica a loro immagine e somiglianza. Da Costantino a oggi, niente forse si è rivelato più solido, più vincente e convincente - nonostante le crisi di questa immensa creazione. Eppure questa catena di uomini, di cose, di realizzazioni, questa catena forte come l’acciaio e splendente come l’oro, ha un anello debole. È lì che la fede ci soccorre; o che ci abbandona; e allora tutto crolla e siamo perduti. Perché nei secoli noi abbiamo continuato con tutte le forze a prestar fede a quella povera donna, a quei due viandanti accecati dalla polvere delle strade della Giudea, al pazzo Tommaso che ha proclamato che un uomo era Dio. Se davvero Lui è risorto dai morti, se davvero ha vinto il Grande Nulla, allora la storia ha trovato il suo asse e non c’è niente che possa nuocerci, nulla che possa impaurirci. La scommessa cristiana sta tutta lì, in quelle lontane e allucinate testimonianze. Gesù non è né Osiride, né Attis, né Adone, né Dioniso, né Baldr, né Quetzalcoatl. Il loro morire e risorgere, il loro 16

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scomparire e quindi tornar in vita, cela senza dubbio un altissimo messaggio spirituale; ma resta pur sempre un mito, e i miti non appartengono alla realtà spazio-temporale. Essi rinviano a un Kerigma, a un significato che volta per volta dev’essere scoperto. Gesù no. Lui è storia, in Lui la sostanza del racconto, del mythos, coincide con il significato di esso. Dio si è fatto uomo, è venuto tra noi, è stato crocifisso per noi, è risorto. Come non impaurirsi dinanzi all’abissale, assurda sostanza di questo racconto? Non è esso davvero - ora e per sempre - scandalo per i giudei, follia per i gentili? E non siamo noi tutti, forse, ancor oggi o giudei o gentili? Ma se quella povera donna, se quei due viandanti, se quel pazzo ebreo incredulo hanno ragione, se essi hanno visto bene, se il grande edificio nato sulle loro parole non è menzogna, allora non c’è paura. Allora abbiamo già vinto. (8 Aprile 1989)

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Pasqua, festa dei perdenti

Sono davvero un cattivo cristiano. Sarei stato forse un buon pagano adoratore di Mithra o del Sol Comes Invictus; quasi certamente sarei un buon ebreo o un buon musulmano. Mosè e Muhammad - che si somigliano -, lo confesso, mi piacciono e credo di comprenderli: apprezzo in loro il legislatore, il guerriero, perfino il visionario anche se questa dimensione, che pur mi affascina, al tempo stesso mi sconcerta. Ma questo Gesù di Nazareth proprio non lo capisco: aspetto che torni sulle nubi, il Giorno del Giudizio, ma avrei preferito forse già vederlo armato, vittorioso in Gerusalemme come nella domenica delle Palme anziché solo, abbandonato, inchiodato a una croce. Quando questi dubbi (queste tentazioni?) mi assalgono, faccio appello al mio modo tutto particolare di vedere la fede, che forse ricorda molto da vicino (non si fa il medievista per nulla...) la fedeltà feudale, e mi ripeto le parole del patrono di tutta la gente di poca fede come me, dell’apostolo Tommaso: “Mio Signore e mio Dio”. Forse nel mondo dei miti e delle religioni ci sarebbero state cose molto più adatte a me di questo Dio Perdente: non ho mai amato i perdenti. Ma fin dalla nascita sono stato legato a lui, e - militarmente - sarò fedele alla mia consegna. Aspettando che vinca e torni nella gloria. E sforzandomi di credere che possa davvero vincere, in un mondo che - ben più profondamente di quanto non abbia fatto il Padre quando è spirato in croce - lo ha abbandonato. È appunto questo che io - che mi sento l’indole dei nati-per-vincere, e che regolarmente riesco solo ad abbracciar delle cause perse - in questa vigilia pasquale dell’Anno del Signore 1991 mi trovo a pensare con intensità ai grandi perdenti di quest’ora, ai nostri fratelli arabi. 18

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La Bibbia dice che Abramo ebbe il loro patriarca Ismaele dalla schiava egizia Agar allontanata dalla gelosia di Sara; e ad Agar l’Angelo del Signore predisse: “Ecco, sei incinta: partorirai un figlio e lo chiamerai Ismaele perché il Signore ha ascoltato la tua afflizione (Ishma’il: “Dio ascolta”). Egli sarà come un ònagro: la sua mano sarà contro tutti e la mano di tutti contro di lui, e abiterà di fronte a tutti i suoi fratelli”. Eppure questo piccolo bastardo, che sarebbe stato scacciato insieme con la madre nel deserto, era il primogenito del patriarca Abramo: e Dio promise ad Abramo di far scaturire da lui una grande nazione, e la promessa della terra “dal fiume d’Egitto al grande fiume, l’Eufrate” riguarda anche lui. Penso spesso ai tanti amici arabi ed ebrei che ho nella grande terra tra Mar di Levante e Tigri: amici di una vita e amici di qualche ora; religiosi, studiosi, nomadi, guide, ragazzi, gente con cui ho passato intere notti parlando d’infinite cose e gente a cui ho sfiorato un attimo la mano, il tempo per lasciarvi cadere una moneta e per ringraziare della loro benedizione. In questa vigilia di Pasqua prego il Dio che mi sento più vicino, quello di Abramo e del Sinai, e quello che non capisco ma che amo, quello sulla croce, affinché la gente che abita laggiù, arabi ed ebrei, riesca finalmente non solo ad avere pace (ci sono tanti tipi di pace: ed alcuni sono ingiusti e non li vorrei) ma soprattutto a riconoscersi come figlia di uno stesso Padre legata a un identico patto nella diversità delle confessioni. Oggi Israele vince: che si ricordi di quando soffriva sulle rive delle tante Babilonie che ha conosciuto, e che la memoria di quelle amarezze la spinga a comprendere le sofferenze altrui. Oggi gli arabi, musulmani e cristiani che siano, vivono spesso tra noi come i nuovi e veri poveri. Essi sono oggi - come lo erano gli ebrei al tempo della stella gialla - la vera figura del Cristo sofferente nel mondo. Che Dio li ascolti e li aiuti, come fece col fanciullo Ismaele. (30 Marzo 1991)

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Cristianesimo e cristianità

Alcuni anni fa andava di moda, fra i cattolici, discettare di cristianesimo e cristianità. Il cristianesimo, si diceva, è una gran bella cosa: è quello predicato da Gesù e praticato dagli apostoli riuniti dopo l’Ascensione; è la religione del Dio fatto Uomo, dell’amore per il prossimo, della salvezza promessa a tutta l’umanità. Quel che ha guastato tutto, si aggiungeva, è stata la cristianità: cioè la forma storica assunta nel corso dei secoli dalla comunità dei credenti, dalla Chiesa e da tutto l’insieme di forze politiche, sociali, economiche, culturali, perfino militari che essa ha catalizzato e gestito. È stata la cristianità ad inventarsi l’alleanza con l’impero romano, lo Stato fondato sul diritto divino, la gerarchia ecclesiastica dei principi mondanizzati, le indulgenze, lo sfarzo liturgico, l’inquisizione e le crociate; è stata la cristianità ad accumular tesori nelle sacrestie mentre i poveri morivano di fame, a seppellir la semplice e trasparente parola di Dio sotto gli orpelli della teologia, a benedire i colonialisti, i negrieri, le bandiere degli eserciti... Questa dicotomizzazione per la verità un pochino isterica e anche - storicamente parlando - molto libresca, che come esito ultimo presentava un cristianesimo che era stato del tutto impotente a tradursi in realtà e in una cristianità che si era affermata solo come costante tradimento di quello, finiva con il convergere significativamente con una visione della storia portata avanti da alcuni non innocenti settori del mondo laicistico. I quali pretendevano che, specie fra XVI e XVIII secolo, l’Occidente avesse vissuto una lunga fase di braccio di ferro tra una “reazione” ottusa, violenta, nemica della ragione e della libertà, e un “progresso” rappresentato invece dalle forze più vive e aperte del continente, che 20

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potevano essere ora gli umanisti ora i neoplatonici fiorentini, ora i cristiani passati al protestantesimo, ora gli scienziati che avevano combattuto, e vinto i dogmi aristotelico-tolemaici, ora gli illuministi che avevano fondato l’idea di Stato laico e i presupposti della democrazia. Solo relativamente di recente, e a poco a poco, ci si è resi conto (perfino in alcuni manuali scolastici, ch’è come dir tutto...) che le cose erano più complesse, che ad esempio i nascenti Stati laici hanno bruciato fra Cinque e Seicento molte più streghe dell’Inquisizione, o che gli schiavisti del Settecento, in America Latina, erano sostenuti dall’illuminato marchese di Pombal, specchio e modello degli statisti moderni, e avversari della nera Compagnia di Gesù. E, per contro, ci si è resi conto che una quantità di valori anche scientifici, artistici, culturali e umanitari non avrebbero forse avuto la storia che hanno avuto se non vi fosse stato il lievito cristiano (cristianesimo, attenzione: non cristianità) a sollevarli e sostenerli. Che né la Cappella Sistina, né le scoperte del cristianissimo Colombo e del cristianissimo Galileo, né la musica del pio Bach, né la morale del religioso Immanuel Kant, sono pensabili senza cristianesimo: e appunto Michelangelo, Colombo, Galileo, Bach, Kant, anche loro sono cristianità. E allora, proprio in questi anni, si sta delineando un fenomeno nuovo, di segno esattamente opposto a quello caratterizzato dalla stantìa manovra di alcuni rappresentanti meno scrupolosi del mondo laicistico, da decenni intenti a spogliare la cristianità dei suoi meriti attribuendoli al “progresso” del “mondo moderno” e ad attribuirle invece tutte le magagne accusandola di averle mantenute per ottusità o per interesse. Molti segni mostrano come fra i laicisti più seri e spregiudicati si stia facendo strada la convinzione che proprio la cristianità - cioè la società prevalente (anche se non esclusivamente) europea, sostenuta dalla fede cristiana - sia meritevole di un secolare discorso costruttivo, e che il cristianesimo senza la sua imperfetta ma fattiva traduzione storica sarebbe soltanto un’utopia. 21

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“M’interessa relativamente poco la religione cristiana”, osservava giorni fa un amico laicista, “ma sono coinvolto, mi sento partecipe delle sue realizzazioni. Credo che Benedetto Croce avesse ragione a dire che non possiamo non dirci cristiani; a patto che si chiarisca che, in chi non ha la fede, è la cristianità e non il cristianesimo a presentarsi come irrinunciabile. Finirò col diventare praticante, pur non essendo credente”. Non dico che sia una posizione del tutto irreprensibile. Ma la preferisco a quella dei “cristiani” che credono di dimostrare intelligenza e libertà non sottomettendosi alle forme disciplinari e liturgiche della Chiesa, e si dichiarano quindi “credenti ma non praticanti”. Anche perché l’esperienza m’insegna che il non praticante finisce sempre prima o poi per diventare anche non credente. Quand’anche tale non sia già in partenza. (18 Febbraio 1989)

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Chiara

In prossimità della festa di santa Chiara, il 12 Agosto, rileggevo la sua Leggenda, scritta forse da Tommaso da Celano. Per me leggere della vita dei santi è un fatto professionale; ma per Chiara ho un affetto tutto mio, e una delle mie figlie porta il suo nome. E, leggendo, mi ricordavo di quel particolare aspetto della sua personalità, quello che di solito indigna i buoni e seri cristiani: il suo amore anche “umano” per san Francesco. È vero, non lo si può provare alla luce delle fonti, e non cambierebbe comunque nulla. Mi chiedo però perché mai l’ipotesi - anacronismi a parte: l’amore, nel XIII secolo, non era mica lo stesso di oggi... - dovrebbe poi turbare e offendere qualcuno. Chiara è nata fra il 1193 e il 1194: aveva una dozzina d’anni meno di Francesco e, quando egli era uno dei giovani più brillanti di Assisi, un ventenne che sapeva cantare canzoni d’amore e sognava di diventar cavaliere, lei doveva avere fra gli otto e i dieci anni. Forse si cresceva più presto nel Duecento. Comunque, Chiara aveva l’età in cui nella bambina comincia a svegliarsi la donna: fioriscono i seni, si comincia a seguire i ragazzi con la coda dell’occhio, si sta più attente all’abito, ai capelli, a come si guarda o si ride. È un momento intenso, prezioso, delicatissimo. Perché stupirsi se verso il 1211-12, quando la nobile ragazza di Assisi è fuggita verso la Porziuncola per farsi tagliare i capelli e vestire l’abito color terra, un pezzetto della sua anima stava correndo a braccia aperte anche verso il bel cavaliere della sua infanzia? Queste cose abbelliscono gli slanci dello spirito; non li intorbidiscono, non li svalutano. (9 Settembre 1989)

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Teologi e sessuofobia

Decisamente, sto invecchiando. Me ne accorgo da un fatto: fino a qualche anno fa le fesserie che mi sentivo rovesciare addosso dai libri e dalla TV mi facevano ridere. Oggi mi nauseano e mi fanno perder la calma. Prendiamo ad esempio il battage che si è fatto attorno a due libri che parlano dei rapporti tra cristianesimo e sessualità: Cristianesimo, tolleranza, omosessualità di Jhon Boswell e Eunuchi per il regno dei cieli di Uta Ranke-Heinemann (Rizzoli). Nel leggerli - e nell’apprezzarli entrambi - mi hanno dato l’impressione di due buoni saggi eruditi che finiscono con lo scoprire l’acqua calda. E quest’acqua calda, nel caso di Boswell, è che la Chiesa cattolica almeno fino a buona parte del XII secolo non è stata mai granché severa nei confronti dell’omosessualità; mentre nel caso della Ranke- Heinemann l’acqua calda è costituita dall’originale trovata che la stragrande maggioranza delle fonti che sono andate costituendo la - diciamo così - “sessuofobia cristiana” non appartengono al Vangelo, ma sono tratte da tradizioni culturali diverse, sia pur fatte poi proprie dalla teologia patristica o scolastica. Insomma, il cristianesimo non è affatto sessuofobico. In cambio, però, la Chiesa, almeno quella tardomedievale e controriformistica, ha fatto scelte sessuofobiche: e questo è un parere in modo diverso presente sia nel Boswell sia nella Ranke-Heinemann, parere in parte da accogliere, in parte da ridimensionare e da correggere. Ora, l’ “acqua calda” che entrambi scoprono e che il cristianesimo nella sua storia concreta - e la cristianità ad esso sia pur imperfettamente informata che ne è nata - non hanno la lettera evangelica come loro unica scaturigine. Vero è che nella storia della società cristiana si sono fatti molti ricorrenti tentativi di ripor24

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tare il cristianesimo alla “purezza evangelica” o la Chiesa alle “origini”. Ma quelle istanze hanno sempre fatto astrazione dal fatto che il cristianesimo è debitore - sia pure in modi e in misure differenti - non solo all’ebraismo e al vangelo, ma anche alle filosofie dell’ellenismo e, attraverso di esse, al mondo greco da una parte, egizio caldeo- persiano dall’altra. È dunque evidente che la tolleranza dell’omosessualità da una parte, il rifiuto dell’eros eterosessuale dall’altra (o comunque il sospetto nei confronti dell’eros omosessuale) sono portati culturali d’origine non necessariamente biblico-evangelica o non esclusivamente tale, che tuttavia si sono affermati nel corso dei secoli anche sulla base di necessità contingenti. La Ranke-Heinemann, ad esempio, è una buona teologa ma una storica molto modesta: le sfuggono completamente le ragioni per le quali il celibato fu imposto ai chierici nel corso dell’XI secolo, e che erano, essenzialmente, quelle secondo le quali si voleva evitare un ingresso pesante delle ragioni dei lignaggi familiari nelle proprietà e nella vita anche sociale della Chiesa. A entrambi poi sembra sfuggire un punto fondamentale: che cioè il cristianesimo non ha mai confuso tra amore e piacere e, pur non condannando il secondo, non è mai giunto all’aberrazione dualistica ed egoistica di scambiare il secondo con il primo o di ridurre il primo al secondo. Quel che comunque mi resta incomprensibile è la labilità concettuale di certi cattolici. Che si possa trattare il grande mistero del peccato semplicemente come un tabù da rimuovere, mi sembra aberrante. Ma - ripeto - sto invecchiando. (17 Febbraio 1990)

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Oro, incenso e mirra

Eh, no: non ci casco più; anzi, a dirvela come sta, mi hanno rotto le scatole tutte queste storie contro la società opulenta, il consumismo e via discorrendo. Che, ove dessero luogo a un serio impegno, d’accordo (e nella misura in cui a ciò danno luogo, benvenute); ma che ormai stanno diventando materia di un nuovo insopportabile conformismo; anzi peggio, di un repertorio di intollerabili parole magiche pronunziate le quali ci si sente in pace con la Natura e con gli Uomini. E si continua a sporcare in terra e a non concorrere con serietà alla raccolta differenziata dei rifiuti da riciclare: tanto quelle sono sciocchezzuole, bazzecole, pinzillacchere. Quel che conta è l’impegno globale: gran bella cosa, anche perché lo si dichiara sempre, non lo si dimostra mai, e il dichiararlo esenta dal dimostrarlo. Così, mi sono seccato di queste goffe, inutili e imbecilli polemiche annualmente ricorrenti contro le spese di Natale e di fine d’anno; e particolarmente maldisposto mi trovo ad essere quando le vedo sbattute in prima pagina soprattutto dai giornali cattolici. Che la società dei consumi sia in sé e per sé, satura di valori anticristiani, e che lì stia il vero materialismo (altro che quello dei comunisti!...), siamo perfettamente d’accordo; che dinanzi a quei valori anticristiani il mondo cattolico reagisca più o meno come quello laicistico, con l’aggravante che essi vanno contro il primo e non contro il secondo e che quindi il primo ha molte più colpe del secondo se ad essi si arrende, sacrosanto; ma che si debbano di continuo sparger lacrime di coccodrillo sulle nostre abitudini, che si debba di continuo fare ai poveri - quelli veri, dico... - lo sberleffo del nostro ipocrita e inutile piangere sul latte versato questo è davvero troppo. Volete farlo sul serio un po’ di bene, cristianucci dei 26

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miei stivali? e allora guardatevi intorno, invece di giocar sempre agli esseni, ai catari o ai giacobini fuori stagione (che, poi, esseni, catari e giacobini mica erano la stessa cosa...): ci sono tanti anziani e anche tanti giovani abbandonati, tanti lavoratori del Terzo Mondo condannati a passar le feste soli come cani, tanta povera gente alla quale basterebbe una parola di conforto. Non c’è affatto bisogno di posare ad eroi, di sognare il Biafra e il Nicaragua, quando si vuol fare in concreto qualcosa per gli altri. C’è tanto Biafra, tanto Nicaragua anche da noi, sapete? E piantiamola con questa storia del Natale festa dei poveri. I poveri soffrono davvero; mica è simpatico non avere un soldo e aver tanto bisogno. Non prendiamoli anche per i fondelli. Gesù Bambino, povero? Certo, ma anche Re. Ve ne siete dimenticati? E poi, chi è povero davvero? Chi lo decide chi è povero? Il Ministero del Tesoro? L’Ufficio del Registro? La nostra invidia? Si è poveri di tante cose: di beni, certo, ma anche di vita, di salute, di coraggio, di affetti, di sentimenti. Cristianucci, avete mai fatto a un “ricco” l’elemosina di una parola buona, invece di gratificarlo della vostra invidia e del vostro odio? Eppure Gesù ci andava spesso a cena, con i ricchi. Io non amo il consumismo. Però mi piacciono i Natali ricchi, illuminati, con i regali e la gente che - quando può - si veste bene e beve buon vino. Mi dispiace che non tutti possano permetterselo, questo sì: ma sono del parere di Francesco d’Assisi - che di povertà cristiana se ne intendeva - e che avrebbe voluto che per Natale “perfino le mura delle case mangiassero carne”. Mi piace il Natale perché è la festa di un Bambino che è povero, ma anche Re. Mi piace, una volta all’anno, rendergli omaggio, metter l’abito migliore per lui, visitarlo nella luce dei ceri e nel profumo dell’incenso. Amo brindare in suo onore. E amo baciare il piedino al bambolotto di biscuit che lo rappresenta, nelle chiese che hanno la fortuna di avere ancora dei poveri preti reazionari che lo espongono all’adorazione dei fedeli ignoranti e disinformati, quelli che non hanno mai letto un rigo di sociologia delle religioni. Amo baciare il piede del mio Re venuto a salvarmi, in quest’Italia gover27

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nata da Eletti dal Popolo che sono troppo spesso dei capibastone, degli arrivisti, dei ladri o dei ducetti in sedicesimo. Mi dà un’intensa soddisfazione onorare una volta all’anno il mio Re. Non è stato Lui a dire: “I poveri li avrete sempre con me; me invece non mi avrete sempre”?

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Questi santi scomodi

La canonizzazione di un santo è una questione che riguarda la Chiesa, cioè la comunità dei credenti in Gesù secondo la confessione cattolica. Alla Chiesa - intesa però stavolta impropriamente e restrittivamente, come clero e gerarchia ecclesiastica - si rimproverano spesso ingerenze nel mondo laico. Bisogna naturalmente distinguere con prudenza. Tuttavia, in generale, anch’io ritengo personalmente che la Chiesa dovrebbe astenersi dal lasciarsi coinvolgere in temporalibus (quando sia evidente che solo di temporalia si tratta). La mia amata e compianta sovrana Maria Teresa d’Asburgo - che Dio l’abbia in gloria - pensava appunto così. Noto però con sorpresa che, nei Paesi nei quali la Chiesa cattolica ha un certo peso, accade anche il reciproco. Succede cioè che i laicisti - pur disinteressandosi, com’è del resto logico, della vita della Chiesa, e senza neppur capirci un granché - ogni tanto si mettano a trinciar giudizi su questioni che non li riguardano. Lasciamo perdere quando danno lezioni di etichetta al Papa, e gli spiegano che ci si può affacciare ad un balcone con Castro ma non con Pinochet, o che si può dar la mano a Kadar ma non ad Arafat. Queste sono sciocchezzuole. Il buffo è quando approvano o condannano la canonizzazione di un santo senza minimamente rendersi conto di che cos’è un santo per i cattolici, ma semplicemente sulla base di a priori politici. Così, padre Kolbe va bene perché l’hanno ammazzato i nazisti; ché, ove si tratti di preti estoni, o lituani, o lettoni, o polacchi, o croati, o ungheresi, o spagnoli, ammazzati da comunisti (o comunque da chi ha un pedigree laico-democratico-antifascista in regola), allora la faccenda non torna più. Legittima, anzi splendida, la dichiarazione di santità per quei sacerdoti che in Italia, durante il Risorgimento, scelsero in buona 29

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fede il cattolicesimo liberale o addirittura appoggiarono il movimento democratico: ma che non si osi affermare che la pianticella della santità potesse spuntare anche sul prato antistante la cappella di famiglia del conte Monaldo Leopardi; che non ci si permetta di ipotizzare che qualche fior di santità possa essere sbocciato nell’orto dei fratellini o dei nipotini (tanto meno di quelli) del famigerato padre Bresciani. Vogliamo parlar della santità dei preti martiri nella guerra civile spagnola del ‘36 - ’39? Benissimo: ma che siano allora dei baschi antifranchisti. Perché dall’altra parte - i laicisti debbono avere degli schedari aggiornatissimi - i preti erano tutti dei fascisti, dei mascalzoni, dei difensori del privilegio e del capitale. È ovvio che, allo stesso modo, molti si siano indignati della canonizzazione del gesuita messicano Miguel Pro, fucilato nel novembre del 1927 da un plotone d’esecuzione rigorosamente laico e progressista. Che le costituzioni messicane del 1857 e del 1917 siano una negazione della libertà religiosa, un monumento all’intolleranza, un’offesa ad un Paese cattolicissimo, questo non deve riguardare nessuno. Che tra 1920 e 1929 il Messico sia stato insanguinato dalla tirannia di quei due briganti gallonati che erano i generali Alvaro Obregon e Plutarco Calles (altro che Villa e Zapata!), poco importa; che in quel periodo si siano assassinati oltre 5mila religiosi, se ne siano deportati a migliaia, si siano commessi atti di vandalismo e di profanazione di vergognosa ferocia, non ha rilievo storico. Rammentarlo costituisce una provocazione. I cattolici si ribellarono, fra il ‘26 e il ‘29? Ma i cristeros erano dei fanatici, dei pericolosi reazionari! Poco importa se si trattava nella stragrande maggioranza di poveri contadini. La storia ad uso di Lor Signori non dice nulla di tutto questo. E sì che delle fucilazioni ordinate da Franco si parla eccome. Franco, è vero, fu denunziato anche da Bernanos, che pur era cattolico, di destra e aveva un figlio falangista. Ma che la persecuzione anticattolica messicana sia stata denunziata da Graham Greene (e perfino da Gianni Baget Bozzo, che anni fa dedicava un suo libro 30

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ai cristeros...) non ha importanza. Il fatto è che, prima di canonizzare qualcuno, il Papa non deve accertarsi che si tratti di un santo: deve controllare che abbia le carte di laico e di democratico in regola. Ché, ove la santità fiorisse altrove, sarebbe nemica del Progresso e del Senso della Storia. Oh, quale nostalgia di Sua Maestà Apostolica l’imperatore Giuseppe, laico anche lui sì, ma che almeno si limitava a legiferare in materia di lunghezza dei ceri! E che almeno proteggeva Wolfgang Amadeus Mozart! Comunque, nel 1951 le Paoline pubblicavano un modesto libretto di Luigi Ziliani, intitolato Messico martire. Andatevelo a ricercare. In materia di laicismo progressista, è proprio una lettura interessante. (4 febbraio 1989)

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2. LIMBO DELLO SPIRITO

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Io e la gnosi

Non so se si debba definir colpa o merito, comunque è a causa del Sabato se, da alcuni mesi a ora, si parla tanto nel nostro paese di gnosi: al punto tale che la gente ha quasi imparato che cos’è. Ora, io non sono né un integralista né un occultista, per cui credo di non essere - almeno in questo - sospettabile di parteggiare né per l’una né per l’altra delle fazioni, né per la gnosi né per l’antignosi. E mi dispiace perché sono un fazioso e adoro parteggiare. Il fatto è che, in apparenza, io sto da entrambe le parti. E mi spiego meglio. Come cristiano-cattolico, amo definirmi un giudaizzante: anzitutto perché sento molto la fratellanza “in Abramo” con le altre due grandi religioni monoteistiche, e poi perché contro ogni forma di esoterismo e di immanentismo, il mio Dio è decisamente personale e trascendente. Bella forza, direte voi: se sei cristiano come vuoi che sia il tuo Dio, se non personale e trascendente? Eh no, cari miei: è qui che il brigantaggio moderno ci frega. Se non si sta attenti, qui si rischia di sacralizzare ogni cosa, anche quel che non va in alcun modo sacralizzato, e di abbassare la guardia invece proprio quando vogliono propinarci la laicizzazione più barbarica. Fino a pochi anni fa era un po’ in tutte le classi sociali e culturali (salvo i miei cari anarchici toscani, atei, materialisti e bestemmiatori impenitenti, che Dio li benedica!) buona usanza rispettare le fedi, le religioni, i miti, e così via: o quanto meno non dirne male. Era sottinteso che si trattava di balle per ingenui; tuttavia, l’irreligione era cosa poco educata. Se mai, un ateismo tollerante e sorridente, un ateismo storicistico e scettico, quello era chic. Ma ora va di moda uno spiritualismo equivoco, che credevamo di 35

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esserci già lasciati alle spalle con la metà di questo secolo e che invece, complice la crisi delle ideologie, è goffamente tornato alla ribalta. Uno spiritualismo pericoloso che fa tornare alla mente la massima di Chesterton, cioè che quando uno smette di credere in Dio non è che non crede più a nulla: ma, al contrario, comincia a credere a tutto. Sull’onda di questa acritica fede in tutto quel che non si vede - che sembra opposta e invece è gemella della fede razionale - nella sola scienza e nel solo progresso - si è cominciato a circondare di un rispetto indiscriminato qualunque religione orientale o pseudo-orientale, qualsiasi messaggio occulto, qualsiasi rivisitazione del pensiero “magnifico” o “tradizionale”. Io debbo molto alla gnosi. Come tutti i cristiani, del resto. A cominciare da Sant’Agostino. Quando fra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta il pensiero “ufficiale” veleggiava per le secche della più desolata cultura materialistica, il detestato Guénon e il maledetto Evola mi hanno salvato dalla cecità, mi hanno insegnato a scorgere, oltre il buio spesso e ottuso della materia, lo scintillare del sacro. Quel che con forza respingo è però l’evoluzione e la degenerazione di gran parte del pensiero gnostico dal Settecento a oggi: respingo l’appiattimento di tutte le religioni storiche nel nome di un globale riconoscimento che rende impossibile la gerarchia delle scelte; respingo la riduzione del divino al cosmico, del cosmico all’umano e dell’umano al naturale. Respingo la riduzione dell’amore e del rispetto dovuti a Dio a un amore e a un rispetto dovuti all’uomo e alla natura. Respingo l’amore per le creature non sorretto dall’amore per il Creatore. Non voglio adorare un dio che oggi si chiama Immenso, Cosmo, Natura, Uomo, Vita: che sono tutti epiteti impiegati con lo scopo di negare l’Unico o di sminuirlo sciogliendolo nelle cose e dissolvendolo in un Tutto che così diventa Nulla. (6 Giugno 1992)

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Mode del piffero

C’è un tipo di persona che, se esce di casa al mattino, il cielo è scuro e lui dice che forse pioverà, tutti poi sostengono che quello ha augurato il diluvio universale al genere umano. Il cardinal Ratzinger appartiene senza dubbio a questo tipo di persone, e non c’è nulla da fare. Qualunque cosa dica, state certi che tutti se ne scandalizzeranno. Non a caso si ricorda ad ogni piè sospinto che egli è presidente della Congregazione per la dottrina della fede, erede - orrore e raccapriccio - del tristo Sant’Uffizio, quello che ha condannato Galileo; Il Ratzinger è insomma l’erede della santa Inquisizione. L’ultima malefatta del truce prelato è stata la Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della meditazione cristiana, nella quale si sono puntualizzate alcune cose a proposito della domanda, che si sta diffondendo anche in parecchi ambienti cattolici, di “arricchire” la meditazione cristiana con alcuni metodi di meditazione ispirati all’induismo o al buddismo. Si potrebbe dire, in sintesi, che a domanda del genere il cardinale ha risposto picche. E - si potrebbe aggiungere - ve le figurate le risposte che avrebbero fornito il Dalai Lama, o qualche Gran Muftì, o qualche Gran Rabbino, se qualche fedele della loro rispettiva fede avesse chiesto loro di arricchirla con metodi di meditazione ispirati alla prassi cattolica? Avrebbero risposto picche, strapicche, arcipicche, naturalmente: e avrebbero fatto benissimo. E, da noi, laici illuminati e cattolici democratici avrebbero dato loro ragione, e avrebbero ribadito la liceità della loro preoccupazione di preservare l’identità della loro fede. Molto giusto. Ma Ratzinger il diritto di far lo stesso non ce l’ha. Lui, se ci pro37

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va, dà solo spettacolo d’intolleranza. Cosa ha detto Ratzinger? In sintesi, solo questo: che la ricerca di Dio non è monopolio di nessuno, ma è giusto e logico che ogni religione lo cerchi nella strada tracciata dalla propria tradizione e con gli strumenti del proprio linguaggio. E ha aggiunto che il “vuoto interiore” che gli stessi mistici cristiani ricercano è una disposizione d’amore verso Dio attuata attraverso lo spogliamento di sè, non è il vuoto pneumatico che può esser riempito di qualunque cosa. Esistevano, nella tradizione cristiana latina, mezzi e strumenti di meditazione che sono stati presto e unilateralmente messi da parte e che ormai non si conoscono quasi più: anzi, che sono oggetto di quasi universale scherno in quanto ritenuti espressione di bigottismo. Però la stessa gente che non farebbe mai un minuto di adorazione del Santissimo Sacramento e che ride se gli si parla di rosario, poi pretende di darsi allo yoga e biascica qualche mantra imparaticcio e mal pronunciato: e fa tutto questo come se avesse scoperto le radici dell’universo. Qualche settimana in un monastero benedettino, un buon tuffo nella liturgia cattolica o nella spiritualità patristica fornirebbero alla sacrosanta sete dello spirito risposte adeguate e oltretutto più comprensibili a chi abbia un’educazione occidentale. Ma significherebbe impegnarsi sul serio: e allora, è più facile procurarsi un abito arancione e sonare un campanellino. Volete però farvi buddisti? Buon pro vi faccia: cominciate con l’imparare il sanscrito e ripassate quando saprete leggere l’Iti vuttaka. E non ditemi che non sapete che cosa sia l’Iti vuttaka, buddisti del piffero. (27 Gennaio 1990)

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Noi e il diluvio

Mi è recentemente capitato di confrontare tre casi: uno ispirato da una fonte medievale, uno relativo a un episodio della guerra civile spagnola del ‘36-’39 e uno preso dalla cronaca di tutti i giorni. L’episodio medievale riguarda Francesco d’Assisi, il quale una volta riuscì ad ammansire e a convertire un lebbroso la cui indole era così malvagia che i frati i quali lo accudivano lo ritenevano posseduto dal diavolo. Francesco vinse la malvagità di quell’ammalato con la sua pazienza e la sua bontà. Non è affato un episodio melenso, come spesso sono le pagine edificanti: al contrario, il testo narrativo ci mostra lo scontro durissimo di due caratteri di ferro: la disperazione lucida e perversa del lebbroso e l’incrollabile serenità del santo. Francesco fa qualcosa di più che non semplicemente commuovere l’interlocutore con l’esempio della sua pazienza: lo riconduce a Dio liberandolo così dalla disperazione. Ma questo era più facile a farsi, forse, in quei lontani e duri tempi nei quali la vita era più amara e faticosa, ma non si aveva la diffusa certezza che dopo di essa non ci fosse più nulla. Per questo chi vedeva scappargli l’esistenza di mano, come quello sventurato lebbroso, poteva più facilmente acconciarsi a sperare ancora. Oggi l’Occidente è popolato di ben satolli sciagurati i quali giorno dietro giorno vedono scivolare la loro esistenza verso il baratro del Nulla: ed è precisamente questo che li spinge a una disperazione senza nome e senza possibile rimedio. Da sempre il malato è solo, da sempre invidia la vita e la salute altrui. Tutto ciò è umano, troppo umano. Durante la Guerra civile spagnola, all’inaugurazione dell’anno accademico nell’ Università di Salamanca (in territorio già occupa39

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to dai nazionalisti), il generale Millan Astray, pluridecorato e plurimutilato, pronunziò una celebre frase, che era poi il motto del Tercio: “Viva la Muerte”. Il rettore dell’Università di Salamanca, Miguel de Unamuno, gli rispose con pacato coraggio (ed erano risposte che in quel momento potevano costar davvero care...) che quello era un grido assurdo, e ricordò che i mutilati hanno sovente desiderio di vedere tutto il mondo mutilato come loro. È umano: ma non è giusto. Millan Astray apparteneva a quel genere di persone (la maggioranza) che non sanno perdonare agli altri la propria disgrazia e l’altrui presunta fortuna: e travestiva questa sua debolezza d’amor di patria e di sacrificio. Il ragazzo impazzito di fame, di paura, di droga, che oggi minaccia i passanti con la siringa insanguinata e forse infetta, il ragazzo che vorrebbe contagiare il mondo intero e vederlo morire di Aids come teme di dover morire lui, somiglia al lebbroso di Fracesco e al generale Millan Astray. “Quest’oggi v’invidio la vita” dice un morente in uno dei pezzi che Fabrizio De Andrè, anni fa, dedicò ad una sua rivisitazione musicale dei Vangeli apocrifi. È da questa disperazione cupa, terribile, senza fondo, che l’esempio del Cristo sulla croce ci ha redenti. È al suo modello - anche soltanto al suo modello esistenziale - che oggi più che mai è necessario aggrapparsi per non sprofondare. Riaddomesticare la morte, imparare a relativizzare di nuovo l’idea stessa di fine. Questa è la grande conquista della civiltà tradizionale che il progresso e la “ragione” del mondo contemporaneo ci hanno strappato e che bisogna di nuovo recuperare. Pena l’infelicità, pena l’insostenibile pesantezza dell’esistere. (28 Luglio 1990)

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Il sogno di Saddam

L’ignoranza, la grossolanità e la malafede degli occidentali hanno cessato da tempo di meravigliarmi. Sono tuttavia ancora abbastanza ingenuo da indignarmene: pazienza, sono difetti che guariscono col tempo. Mi passerà anche questo. Ma per ora mi sono indignato una volta di più per le reazioni dei nostri mass-media alla notizia secondo la quale Saddam Hussein avrebbe deciso di modificare le sue posizioni in seguito a un sogno nel quale gli sarebbe apparso il profeta Muhammad - che sia benedetto il suo nome - quello che da noi si è usi chiamare, con una sfumatura di disprezzo, Maometto. La società occidentale, scegliendo l’ateismo pratico, ha sostituito la religione con una serie di succedanei: e fra questi la psicanalisi è probabilmente il più radicato. Così stando le cose, ci si aspetterebbe quanto meno un maggior rispetto per il fenomeno - sogno - e, se si crede poi che il rais abbia raccontato una balla per uscire alla meglio da una situazione insostenibile, si dovrebbe quanto meno riflettere con ottusità un po' meno pesante circa le strutture mentali (individuali e collettive) che fanno sì che l’annunzio di un sogno profetico possa essere ancora nei Paesi arabi, e nonostante la marcia del progresso, moneta politicamente spendibile. Invece, macché: giù a sbellicarsi sulle istrionerie del dittatore irakeno e sulla credulità dei suoi sciagurati sudditi; o, nella migliore delle ipotesi, giù sproloqui sull’ignoranza e l’arretratezza delle plebi arabe sottoposte alla ferula del Corano. Che giudizi del genere siano improntati a un rozzo etnocentrismo che quasi confina col razzismo, alle mosche cocchiere che ci fanno da opinion maker non sembra essere neppure passato per la te41

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sta: come se alcune decine di anni di ricerche nel campo dell’antropologia culturale fossero passate invano. Ora, sia ben chiaro che non è scritto da nessuna parte che Saddam non lo abbia sognato davvero, il Profeta: e che il sogno non lo abbia scioccato nonostante (o magari proprio perché) in realtà qualcosa del genere egli se lo augurava. È noto che i sogni si possono, in un certo modo, “pilotare”. Ma anche ammettendo che la trovata onirica sia un espediente, la cosa mi sembra tanto più interessante: alla faccia di quanti credono fermamente nelle magnifiche sorti progressive della ragione, esiste ancora al mondo una larga fetta d’umanità che bada alle voci che provengono dal profondo (e/o dall’alto) e che si guarda bene dal sottovalutare. È una fetta d’umanità per la quale un presagio profetico può essere altrettanto serio della Libertà dei popoli, della Pace nel mondo, della Patria, della Classe, della Razza, della Democrazia, della Giustizia, e di tutti gli altri fantasmi (davvero più concreti dei messaggi del Profeta colti in sonno?) che affollano di maiuscole le prime pagine dei nostri giornali e che noi fingiamo di prendere maledettamente sul serio. Del resto, la storia è maestra. Non sapremo mai se Costantino abbia davvero sognato, e che cosa: eppure la sua visione ha obbligato la storia a prendere un senso diverso. La storia antica, medievale e moderna è piena di episodi che da Costantino conducono senza soluzioni di continuità a Saddam: solo il nostro miserabile orgoglio progressista ci fa pensare che, da quando l’Occidente ha scelto la cultura dello “strappo” rispetto alla tradizione, le strutture mentali profonde dell’intera umanità debbano per forza essere mutate radicalmente. Il faraone ascoltò Giuseppe e salvò il suo paese dalla carestia; Cesare non dette ascolto al sogno di Calpurnia e perse la vita. Auguriamoci che Saddam ascolti il Profeta e svegliamoci noi, piuttosto, dal sogno della ragione, quello che crea i mostri. (3 novembre 1990)

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3. LIMBO DELLE MENTALITÀ

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Se hai detto raca ...

Gianni Vattimo mi era già simpatico da prima: molto di più mi è però diventato da quando ha confessato, su “L’Europeo” di aver disertato un convegno per restar vicino al suo gatto vecchissimo e asmatico. Avrei fatto lo stesso, anche se il mio gatto non è ancora troppo vecchio. Per Vattimo, la solidarietà con il vecchio gatto rientra nella “morale della tenerezza”: è poco, osserva lui, ma abbiamo veramente qualcosa di più? Un cristiano dovrebbe rispondere che sì, qualcosa di più ci dev’essere, è credibile o quanto meno sperabile ci sia (“fede è sustanza di cose sperate”). Ma anche se non ci fosse niente di più, quel poco sarebbe già moltissimo. Anche in questi tempi di zoofilia sfrenata, c’è sempre chi si meraviglia e s’indigna dinanzi all’amore degli animali, come se amando quei nostri compagni più umili noi togliessimo qualcosa al genere umano. Però mia nonna, vecchia popolana fiorentina, soleva ripetermi che chi non vuol bene alle bestie non può volerne nemmeno ai “cristiani”: e i cristiani per lei erano tutta la gente. Dal canto mio, ho sempre diffidato profondamente di tre categorie di persone: i moralisti, i perfezionisti e gli umanitaristi. Ho sempre diffidato di chi sostituisce il numero ai nomi concreti, di chi si esprime per valori di massa e per sostantivi astratti. Diffido pertanto profondamente dell’amore universale e diffuso per tutta l’umanità e preferisco chi, concretamente e umilmente, non si rifiuta di dare una mano al vicino di casa o di allungare mille lire all’omino che chiede l’elemosina all’angolo. Ma oggi non si sa più che cosa sia il “prossimo”. Ho conosciuto ragazzi che non si perdono una marcia della pace ma che quando sono in motorino sorpassano a destra e gridano 45

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fuck you alla vecchietta sulle strisce pedonali che protesta impaurita; ho conosciuto gente che si commuove sulla sorte dei bambini affamati del Biafra ma che poi cambia strada per non incrociare l’handicappato, la zingarella o il “vu cumprà”. Conosco poi molto bene cristiani ecumenici, aperti al mondo intero, i quali sputano veleno sul loro vecchio parroco che si ostina ad insegnare ai bambini il catechismo all’antica, quello del Dio-è-l’Essere-perfettissimo. Diffido dei moralisti, dei perfezionisti e degli umanitaristi. Io credo che la solidarietà vera, l’autentico amore per tutti sia fatto non già di parole grosse e di maiuscole bensì di umili gesti concreti. Per questo se siete alla marcia della pace e ricordate di aver mandato a quel paese, uscendo di casa, il coinquilino che vi chiedeva - magari in malo modo - di spostare la macchina dal cortile, abbandonate la marcia, tornate in cortile, spostate la macchina e abbiate la forza di scusarvi. Perché le guerre non esistono in quanto ci sono i missili, le centrali atomiche, i generali in uniforme e gli eserciti con le fanfare: esistono perché, nelle piccole come nelle grandi questioni, il mondo è pieno di gente che manda a quel paese il coinquilino scortese. E di coinquilini scortesi. Bene. Almeno una volta nella vita siamo stati o l’una o l’altra cosa. Almeno una volta abbiamo dunque seminato malinteso e rancore; e abbiamo raccolto incomprensione e violenza. Almeno una volta nella vita abbiamo rifiutato il nostro aiuto che ci sarebbe costato pochissimo a qualcuno e abbiamo così contribuito a renderlo disperato e a farlo sentire più solo. Il mondo non va male perché ci sono la Cia e il Kgb, i capitalisti che sfruttano o i sovversivi che complottano, va male perché tutti noi, infinite volte al giorno, annodiamo con ebete ostinazione le nostre collanine di gesti egoisti, disonesti, malvagi. Piccoli gesti, microscopiche vergogne. Sono quelle ad avvelenare la terra. Perciò ha ragione il Vangelo. Se sei dinanzi all’altare e ricordi di aver detto raca al fratello, lascia l’offerta sui gradini e corri a riconciliarti con lui. E smettila di gridare al mondo intero che scop46

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pi di amore per lui - tantopiù che è lontano, e gridare non ti costa nulla - mentre l’omino all’angolo stringe la cinghia per le mille lire che non gli hai dato e il vecchio gatto lasciato solo crepa d’asma sul pianerottolo.

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San Giorgio e la lucertola

Mi vengono alla mente casi come l’apartheid, Pinochet, Gelli e Sofri. Ho sentito in tutte queste occasioni molti tartarini tonare come altrettanti catoni, ho visto infiniti tartufi atteggiarsi a donchisciotti. Intendiamoci: l’apartheid la detesto, Pinochet mi sta antipatico, Gelli non mi piace e, quanto a Sofri, metterei la mano sul fuoco su quel che è oggi, ma non su quel che può essere stato alcuni anni or sono. Eppure, via, riflettiamo onestamente: quanti di noi sanno veramente come funziona l’apartheid, quanti hanno un’idea precisa dei caratteri di governo del dittatore cileno, quanti hanno veramente capito che cosa in concreto ci fosse dietro la P2 e in che cosa consistessero gli addebiti sollevati contro Sofri? Ma la vox publica bastava: e un briciolo di affrettata informazione unita a molte parole magiche (del tipo “dàlli all’untore”) erano sufficienti alla maggioranza degli italiani per prendere posizione. Posizione, beninteso, dura e pura, netta e coraggiosa: tanto non costava nulla, non c’era tema di venir contestati o sbugiardati in pubblico, i rischi di dover sostenere un confronto di idee con gente di opposto avviso erano minimi. Che cosa voglio dedurne: che l’apartheid è una gran bella cosa, Pinochet è una mammola in fiore, Gelli un esemplare galantuomo e Sofri incapace di concepire alcunché di male? Per carità: lungi da me intenzioni del genere. Voglio semplicemente dedurne che i conformisti possono anche aver ragione. Ma non hanno nessun merito di averla; in un certo senso, non ne hanno neppur moralmente il diritto. Voglio dedurne che, quando qualcuno è coralmente attaccato da tutti, nostro dovere metodologico oltre che civico è dubitare. Oggi, Tartuffe sarebbe contro l’apartheid, contro 48

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Pinochet, contro Gelli e contro Sofri. E anche contro Stalin, naturalmente: il perbenismo politico imperante ha stabilito ormai che è lecito anzi doveroso dir male, adesso. Certo, far la parte del San Giorgio è troppo bello. Come resistere alla tentazione di indossar una lucente corazza e correre contro quelli che l’opinione pubblica qualifica concorde come draghi? Solo che, guarda caso, molti di noi non si abbassano la celata e non spronano al galoppo il loro destriero prima di essersi attentamente accertati che il loro drago sia una lucertola. E allora, per Giove, meglio Don Chisciotte con i suoi mulini a vento. Sbagliava anche lui, poveraccio: ma almeno era solo, e pagava di persona. Documento acquistato da () il 2023/09/20.

(17 dicembre 1988)

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La guerra e le sue regole

Due fatti che ho letto come una felice coincidenza mi hanno aiutato in queste settimane a tornare col pensiero a una cosa che i sociologi e gli intellettuali di ieri dichiaravano il grande nemico del genere umano mentre oggi gli stessi sociologi e gli stessi intellettuali - con una coerenza pari soltanto al pudore - dichiarano tranquillamente una realtà insopprimibile nell’animo umano e nei rapporti fra gruppi strutturati. Una cosa che ormai soltanto le professoresse di scuola media inferiore, fedeli a quel che sociologi e intellettuali dicevano ieri e ignare di quel che essi dicono oggi, continuano a ritenere il grande nemico del genere umano: la guerra. La felice coincidenza cui poc’anzi alludevo è fatta di due cose ben diverse. Prima, l’uscita del bel saggio dedicato da Emanuele Severino a La guerra (Rizzoli) del quale si è molto parlato ora che la cultura sta uscendo dal lungo tunnel dell’isterismo pacifista e delle illusioni irenistiche kantiane e no. Seconda, l’edizione col titolo La culture de la guerre, nella prestigiosa Bibliothèque des Histoires della Nrf (ebbene sì: Gallimard!), della versione francese del mio libro Quell’antica festa crudele. Non credo di meritare affatto un onore che Gallimard riserva di solito solo ai grandi storici; d’altronde sono contento perché in Francia i libri degli studiosi italiani raramente vengono tradotti; e anche perché ora, grazie a Rizzoli e a Gallimard, il dibattito sulla guerra torna in primo piano. Non starò qui a ribadire le molte cose che mi fanno sentire perfettamente all’unisono con il pensiero di Emanuele Severino, né a richiamarne le poche ma forse essenziali che mi obbligano a scostarmi da lui. Soprattutto que50

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sta: che l’impossibilità del pensiero occidentale di rifiutare guerra e violenza non mi sembra datare tanto dal pensiero postparmenideo, come pensa lui, quanto da quello “moderno” e “illuminato” sorto nel XVIII secolo e correlativo alla rivoluzione industriale e alle parallele modificazioni etiche da essa provocate e avviate nel tessuto tradizionale di quella che allora si definiva ancora la cristianità. Dice bene Severino: esiste la violenza solo se esistono anche limiti inviolabili, e che quindi possono essere violati. Quando i limiti dell’etica si spostano all’infinito a rigore non si può più parlare di violenza. Chi blatera di una liberazione del mondo moderno dalla “schiavitù repressiva” della morale, deve cacciarsi anche in testa che tale liberazione coinciderà con il generalizzarsi di una violenza che non sarà più possibile definir come tale. I nostri ragazzi che ormai arrivano a uccidere i genitori e i genitori che alla faccia di tutti i telefoni azzurri del mondo continuano a trattare i figli come cose, sono solo la punta d’un micidiale, immondo, orrendo iceberg. Ma ne consegue, a livello storico, un fatto importante. Che cioè l’identificazione tout court di guerra e di violenza è improponibile. Che, fra tutte le forme di violenza, la guerra - almeno quella tradizionale e convenzionale pensata per risolvere “a misura d’uomo” i conflitti, non l’infamia nucleare né la vergogna della guerra ideologica - è la più ragionevole e accettabile perché pone dei limiti a sè stessa e cerca di contenersi, di autoregolarsi. Che, al limite, guerra e violenza sono addirittura opposte sul piano concettuale; e quando si dice un “no” globale alla guerra quel che si vuol pronunziare, in realtà, è un “no” alle sue norme, alle sue regole, ai suoi confini. Non a caso gli odiatori di tutte le guerre finiscono poi col giustificare moralmente solo quelle ideologiche che sono le più tremende di tutte e quelle in cui il torto e la ragione sono più opinabili. Bisogna pensarci bene, a queste cose. Perché fino a ieri il pacifismo indiscriminato era il cavallo di Troia dell’ideologia comuni51

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sta. Ma oggi potrebbe essere la maschera del nuovo ordine mondiale, quello che mette al bando le guerre e le monopolizza chiamandole operazioni di polizia internazionale.

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(23 maggio 1992)

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L’omino della malora

Spero che la maggior parte dei miei venticinque lettori sia fatta di giovani, magari di adolescenti o giù di lì oppure di ragazzi dell’Università. Non perché senta di doverli privilegiare rispetto ad altri, ma solo perché forse, dato il mestiere che mi capita di fare, il colloquio con loro mi resta più facile. Allora, miei cari ragazzi, voialtri sapete tutti senz’alcun dubbio che cos’è un keffyyeh. No? Male. Quando si porta qualcosa indosso - anzi, quando si ostenta con provocante fierezza qualcosa - bisogna pur sapere cos’è e come si chiama. Il keffyyeh, miei sprovveduti amici, è quello che voi di solito chiamate fichu, foulard o, nei casi più biechi “fazzolettino arabo”. Definizione quest’ultima che domanda vendetta al cospetto di Dio. Ormai lo si vende in tutte le tinte e in tutte le misure: è, per voi degli Anni Ottanta, quello che per noi degli Anni Sessanta era l’eskimo. Ma l’originale dovrebbe essere di lino, quadrangolare, a disegni rossi o neri. Gli arabi lo piegano in due in senso trasversale, a triangolo, e lo portano sulla testa in modo che il vertice del triangolo cada all’indietro, fra le scapole. Sulla testa lo si ferma con un cordone di solito nero, detto agal o iqal (l’arabo è una lingua consonantica, il che rende sempre difficile la pronunzia delle vocali). Sono gli arabi dell’area giordano-palestinese a portare il caratteristico keffyyeh a disegni rossi o neri (il più bello e glorioso è quello bianco-rosso della vecchia Legione Araba fondata da Glubb Pascià e distintasi con onore nelle guerre arabo-israeliane). Altrove, il mondo arabo usa un semplice keffyyeh candido. Io vado spesso in Giordania, un paese che amo sconfinatamente; e ho una batteria di keffyyeh (il più bello, tipo Legione Araba, mi è stato però fregato da mia nipote Eleonora). Mi rifiuto però di portarli qui, da noi, come si porta una sciarpa. 53

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Perché? So bene che, almeno originariamente, indossarli era un segno di solidarietà nei confronti del popolo palestinese. E quella è una battaglia che condivido in pieno: Israele deve vivere, ma i palestinesi hanno diritto a una patria. Il fatto è che ormai il “fazzolettino arabo” è diventato un segnale conformistico, qualcosa che hanno tutti e che viene inoltre recepito come un generico messaggio “progressistico-giovanilistico”. Qualcosa come appunto l’eskimo; oggi con rammarico, dato l’amore che porto ai palestinesi, non inalbero il keffyyeh. Questo, lo faccio soprattutto perché ritengo che il combattere qualunque segno di conformismo - anche quelli esteriori - sia un dovere civico e al tempo stesso un impegno di buon gusto. Non è certo un caso se i totalitarismi amano le uniformi paramilitari e gli slogans. Oggi, le uniformi sono out: ma il conformismo politico e quello consumistico offrono in cambio una larghissima gamma di oggetti, indumenti, atteggiamenti da inalberare in gruppo o meglio ancora in massa. Ed è attraverso queste cose, magari pretestuosamente fatte passare come “moda”, che passa il dilagante pecoreccismo di chi si sente realizzato e sicuro solo se pensa alla stessa maniera degli altri. Per questo non ci sto. Anzi, lancio un proclama a parenti, amici, conoscenti eccetera. Nel prossimo biennio vi diffido formalmente dal comparirmi dinanzi fregiati di distintivi da asola, spille, cravatte, gemelli o qualunque altro supporto sul quale sia effigiata l’insulsa mascotte dei Mondiali ‘90, l’omino della malora dipinto in tricolore e con la testa di foot-ball. Portate qualunque altra cosa: ma quella bassa prova di conformismo strisciante e belante, quella prova di cattivo gusto e di voglia di sparire nella massa per scodinzolare e belare con lei, per favore non me la date. Chi porta il distintivo con la testa di foot-ball dimostra di essere una testa anche lui. Ma non di foot-ball. (25 Novembre 1989)

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La truffa dell’eufemismo

Di recente ho cercato di spiegare ad alcuni giovani che cosa non va nel loro linguaggio fatto di “wow” e di “vaffanculo”. Ho detto loro - ma non sono stato creduto - che il punto non è affatto un concetto stereotipo e atemporale di buona educazione. La faccenda è che l’esclamazione fumettistica e la parolaccia sono delle pericolose scorciatoie che sembrano dispensare chi le usa dalla fatica di esprimere un giudizio articolato e che finiscono con il disabituare al discorso chiaro e logico, con l’inibire le possibilità e le capacità di spiegarsi in modo compiuto e flessibile. Sia noto a tutti che m’infastidiscono moltissimo anche il ricorso all’eufemismo cronico nel linguaggio professionale e sociale. È ad esempio un odioso pregiudizio il ritenere che ci sia qualcosa di disonorevole nell’esercitare oneste professioni come quelle di domestica o di netturbino, e ch’esse debbano venir nobilitate da goffe circonlocuzioni tipo “collaboratrice domestica” o “operatore ecologico”. Di questo passo cosa diventeranno le adepte del più antico mestiere della terra, già ormai da tempo derubricate a massaggiatrici? Delle operatrici erotiche? Per lo stesso motivo, si è cominciato poi a parlare di “neri” per indicare quelli che, appunto, erano un tempo i negri. Visto che gli altri sono bianchi, in fondo, perché non affidarsi a questa fin troppo ovvia struttura cromoantropologica? Sappiamo che cinesi e giapponesi sono gialli, che quel che resta degli indiani d’America sono rossi e via discorrendo. Bene. Però io non ci sto. Perché conosco un po’ di storia e perché i negri mi stanno simpatici. La parola “negro” è legata a lontani ricordi di schiavismo e di schiavitù, tristi per loro e vergognosi per noi. Ma essa designa anche, 55

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tradizionalmente, le antiche e gloriose culture centroafricane con la loro geniale fusione di motivi etnici e religiosi desunti da più parti; è negra la radice di alcune fra le più belle espressioni musicali del XX secolo; sono negri gli spirituals, è negro il carnevale di Rio, è negro il jazz. Gli africani migliori, quelli più colti e sensibili - in Africa come in America - sanno bene tutto questo e ne vanno fieri. È nata in tale ambito, da molti decenni, l’ideologia della négritude, la “negritudine”, alla quale Roger Bastide ha dedicato molti studi e che uomini come Senghor hanno fatto propria. Abbandonare tutto questo patrimonio in cambio di una supposta omologazione “antirazzista” del linguaggio è improponibile. Ma peggio ancora vanno le cose nel mondo della salute. È giunto il momento di dire che termini come “motuleso” o “non-vedente” appartengono a un lessico orribile, disumanizzante, burocratico, squallidamente asettico: un lessico che sembra ispirato al rispetto mentre tende all’occultamento, alla riduzione della malattia a imbarazzante e umiliante inferiorità sociale. Non riesco a immaginare nulla di più lontano di questo dal linguaggio di quelle pagine nelle quali la Buona Novella è annunziata laddove i ciechi vedono, i sordi odono, i lebbrosi sono mondati. E il livello più basso, quanto a dignità, si raggiunge nel lessico delle fasce d’età. Espressioni come “terza età”, “età libera”, sono sintomo del collasso morale di una civiltà nella quale si è cittadini a pieno diritto solo se si è giovani, sani, belli ad ogni costo: e dove chi non è tutto questo è costretto a camuffarsi, a travestirsi, a nascondersi e a inghiottire ad amari bocconi la sua disperazione. Nossignori. Invecchiare è una bella cosa. Nella Bibbia i vecchi benedicono il Signore per la loro tarda età. A Sparta gli anziani erano considerati il fiore, il vanto, l’ornamento della città. E sempre quando una società è ammattita il primo segnale è stato - “giovinezza, giovinezza” - l’esaltazione del giovanilismo a tutti i costi. 56

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Ai giovani si deve augurar d’invecchiare. E io, che vado per la cinquantina, non voglio affatto andar per “l’età libera”. Voglio invecchiare, spero d’invecchiare. Capito?

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(17 Marzo, 5 Maggio 1990)

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4. LIMBO DELLA CIVILTÀ

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Condannati allo schi-food

Appiccicati agli angoli di parecchie delle nostre grandi città, sono apparsi strani manifestini underground, redatti con sistemi almeno apparentemente artigianali, di quelli che ricordano il caro vecchio ciclostyle. Sono manifestini allarmati e allarmanti, strategicamente affissi nelle vicinanze di certi punti di vendita di Fast food. E se la prendono contro una celebre multinazionale à tête americaine, una grande Food corporation, forse la più celebre di tutte, quella che da sola fa tanto American graffiti. La Mac Callaghan’s. Vabbè, forse il nome non è proprio quello; ma è un bel cognome scozzese, e non fa niente se ho sbagliato clan. Forse lo faccio anche per evitar querele. Comunque, ci siamo capiti. Quella lì. Bene. Quella lì (mi limito a riferire quanto ne dicono i suddetti manifestini) svenderebbe ad alto prezzo truccato da pochi spiccioli della robaccia “corretta” a colpi di coloranti, conservanti, aromatizzanti e altre porcherie esiziali per la salute; tirerebbe su i vitelli che le servono a confezionare i suoi pestilenziali hamburger a secchiate di estrogeni e di pasticci ormonali. Ma farebbe ancora di peggio. Pare che la Mac Callaghan’s o comeaccidentisichiama nasconda, all’ombra della sua fatidica e gigantesca M che campeggia sui suoi negozi e sulle uniformi delle sue kellerine, un autentico Impero. Un Impero del male, beninteso. Sfrutta il lavoro di legioni di disgraziati del terzo mondo. Spianta migliaia di ettari di foresta o di aree coltivate per ridurli a pascoli e stabilirci i suoi ranches, perché gli hamburger mica nascono così, già fatti a polpetta: prima, per alcuni mesi, zoccolano e muggiscono, poverini. E mangiano ciofeche indegne, fatte crescere per forza grazie alla pioggia di ferti61

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lizzanti chimici che la perversa aereonautica del truce Mac Callaghan rovescia dai suoi elicotteri. Apocalypse now per bovini, Platoon per paninari. Il Vietnam a quel che pare continua a danno della natura, dell’ambiente e del proletariato giovanile che si abbuffa delle polpettacce condite con le cipollacce e la mostardaccia di questa Spectre dell’alimentaristica postmoderna. Insomma, la Mac Callaghan è il volto hamburgesaro dell’imperialismo yankee; è il Potere universale che ha colpito ancora e ci ammannisce orribile carne e immonde patatine, arrostita la prima e fritte le seconde nel sangue del proletariato. Quale orrore. Ma c’è di peggio. Una denuncia del genere, anni fa, sarebbe stata condotta a livello di politica planetaria: una nuova, bella denuncia contro i boia della Casa Bianca, e ci si levava il pensiero. Ma ora no: ormai, non c’è lotta rivoluzionaria degna di essere detta tale che non coinvolga l’ambiente e i diritti sia della natura, sia degli animali. E allora, voilà: quelli della Mac Callaghan vengono anche indicati come biechi carnefici di bovini portati al macello in stato semicosciente, ammazzati in fretta e in furia, senza troppi preliminari umanitari (o zoofili, per meglio dire). Il mercato ha fretta e fame di fast-food, anzi - tutto considerato - di schi-food. Non si può mica star a pensare al vitellino che prende paura o che sente male. Efficienza e profitto: questo il motto della Mac Callaghan, alla quale dei lavoratori del terzo mondo non cala granché, e dell’ambiente se ne frega; quanto ai diritti degli animali, ne fa polpette (è il caso di dirlo). Eh, sì: è facile ridere di queste cose. Eppure, mica sono tanto incredibili. E se qualcosa di vero ci fosse? Naturalmente, quelli della Mac Callaghan, obietteranno che queste calunnie sono messe in giro da sporchi sovversivi o da scorretti concorrenti, e che da loro si fanno le cose come Dio comanda, e che gli animali non soffrono (anche se non si può dire che, a esser ridotti in hamburger, ci abbiano gusto), e che i loro prodotti sono tutti di prima qualità, tanto da sfidare tutti i Veronelli e i Buonassisi del mondo. Staremo a vedere. 62

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Ma intanto, perché invece degli hamburger non vi fate qualche bella mangiata fuori porta, come si faceva una volta? Già: il fatto è che ormai nemmeno le trattorie fuoriporta sono più quelle di una volta. Il gioco del fast-food sarà infame finchè si vuole, ma non si scende dai treni in corsa. Il prezzo del progresso, del pianeta sovrappopolato, del consumismo sfrenato, lo paghiamo tutti, anche in hamburger. L’importante non è forse tanto il non farsi un hamburger, quanto piuttosto il non trangugitare hamburger ideologici. Di quelli ce ne sono parecchi, sotto forma di libri, di film, di movimenti politici. Attenti allo schi-food confezionato per lo spirito. Fra tutte le porcherie, resta ancora la peggiore e la più pericolosa. (7 gennaio 1989)

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Poveri benestanti

La ragazza è ben vestita, ha i capelli freschi di shampoo lunghi sulle spalle, è carina. Ti viene incontro sorridendo, ti fissa negli occhi e prima di parlare esita un istante. Quasi d’istinto, tu rispondi col “pancia-in-dentro-petto-in-fuori” (è l’abituale posa di caccia dei cinquantenni sovrappeso) e il più affascinante dei tuoi sguardi, contando sul successo che, qualche volta, ti è stato procurato dai fili d’argento della barba. È allora che la fanciulla avvia il suo racconto: ha bisticciato violentemente con la madre (“una stronza”) e ora sta fuori di casa; le servono le cinquantamila per la pensione di stanotte e un paio di yoghurt. Domani è un altro giorno. Si esprime con proprietà di linguaggio, addirittura con qualche ricercatezza, calcolando bene l’inflessione romanesca e la parolaccia al punto giusto. La prima volta le cinquantamila me le ha beccate: mi aveva preso di contropiede. La seconda volta avevo fretta, l’ho guardata storto e le ho passato un cinquemila in corsa. La terza l’ho fissata negli occhioni color pervinca e le ho chiesto ridendo come mai, tutte le volte che quella stronza di sua madre la sbatte fuori di casa, lei si dirige sempre nell’atrio di Termini e, regolarmente, incontra me che scendo dal Pendolino. Ha riso anche lei e m’ha chiesto di offrirle la colazione. Ma le cinquantamila e più al giorno le servono lo stesso. E non per la pensione e lo yoghurt. Nuovi poveri, nuove povertà. Ne incontri tanti, e la loro condizione in fondo non è differente da quella delle zingarelle, dei vù cumprà e dei vù lavà. C’è la bambina col paltoncino quasi nuovo che t’assale al caffè di fronte al Pantheon, c’è la signora quasi elegante e dall’aria dignitosa, senza dubbio una ex bella, che racconta ad alta voce sull’autobus 64, sce64

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gliendo le ore non di punta, i suoi drammi esistenziali prima di avviare una questua perentoriamente selettiva (“sia chiaro che non desidero l’elemosina; accetterò solo aiuti concreti, sopra le mille lire”). Queste scenette romane colte al volo da un provinciale che cade in crisi d’astinenza se non si fa almeno una volta ogni due settimane la sua passeggiatina fra Tritone e piazza di Spagna mi appaiono sempre di più qualcosa di simile ai sinistri scricchiolii che in primavera annunziano, ai poli, lo sciogliersi della banchisa. Mentre i veri poveri si assiepano alle periferie e ai bordi del ricco Occidente, ecco farsi avanti dalle pieghe del consumismo e della società opulenta questi strani indigenti dall’aria perbene e semibenestante: questa gente che non sa o non vuole o non può “inserirsi” ma che ha voglie, bisogni, tentazioni e pretese e non intende rinunziarci. Gente ben decisa a farti sentire il peso della tua miglior condizione e a vivere sfruttando la tua cattiva coscienza. I bisogni non hanno mai niente di naturale: e, quando cominciano a dominarti, non ti danno respiro. Nella nostra società, la creazione dei bisogni è l’anello iniziale della catena: è così che, come ha lasciato scritto una giovanissima suicida, noi diamo sempre ai nostri figli il necessario e il superfluo nel momento stesso in cui neghiamo loro l’indispensabile. Ma chissà se ormai l’essenziale, loro, saprebbero riconoscerlo. Così forse l’overdose o il bacillo che ti libereranno davvero da quella stronza di tua madre, mia bella ragazza romana, li avrai pagati un po’ anche con i miei soldi. E magari tu, in realtà, mi stavi chiedendo solo una parola. (3 ottobre 1992)

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Nazista? No, precursore

Credo che Giorgio Galli stia per dare alle stampe, o che l’abbia addirittura già fatto, un suo studio sul mondo esoterico nel Terzo Reich e sul rapporto tra nazionalsocialismo da una parte, gruppi e tendenze occultistiche e misteriosofiche dall’altra. Galli è un caro amico, un valoroso studioso, un galantuomo e una persona squisita: non dubito che il suo libro sarà un successo, e non solo per l’attrazione che certi temi suscitano nel pubblico. La questione della quale egli si è ultimamente occupato m’interessa molto, e talvolta ne abbiamo discusso insieme. È molto delicata; e spero che egli riesca a trattarla con il rigore scientifico e la prudenza dovuti. Non posso d’altronde tacere che il libro di Galli - proprio perché è scritto da uno studioso di prestigio e di successo - mi dà qualche preoccupazione. Temo in altri termini che esso contribuisca, anche al di là delle intenzioni del suo autore, a dar nuovo vigore alla tesi del nazismo come “mostro irrazionalistico”, atavico e antimoderno. Intendiamoci: lo so che tutte queste cose nel nazismo c’erano, e che in qualche caso (lo stesso Hitler, ma soprattutto il circolo attorno a Rudolf Hess) confinavano con la magia vera e propria. E non dirò neppure - anche se lo do per scontato - che esse non abbiano avuto, salvo qualche marginale e raro caso, un’influenza effettiva nello sviluppo della tragedia nazista e nella guerra. È indubbio che, nel nazionalsocialismo, agisse una forza mistica, escatologica, che va al di là delle esperienze carismatiche di qualunque altro totalitarismo del XX secolo e che talora acquista un vero e proprio carattere religioso (o pseudoreligioso, se si preferisce). Temo però che tutte queste considerazioni finiscano con il far pas66

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sare il nazismo, per così dire, “dalla parte dello spirito”, anche se di uno spirito aberrante e corrotto. E che consentano ai fautori indiscriminati del mondo moderno e ai materialisti d’ogni tinta di pretendere, rispetto all’hitlerismo, un’estraneità alla quale non hanno diritto. Sono rimasto molto colpito, in occasione del Meeting di Rimini delle scorso agosto, dall’interpretazione che Ionesco - a proposito di padre Kolbe - dà del comandante nazista del lager. Un nazista medio, certo: forse non più brutale né più incolto di tanti altri. Non so se il personaggio storico fosse realmente così. Certo, quello rappresentato è credibile. E non è un mistico del Blut und Boden, non è un nibelungo perduto in sogni wagneriani. È un pragmatista ateo, per il quale Dio è un’anticaglia e un rifugio per servi impauriti e impotenti. Lì non c’è solo Nietzsche: c’è la tracotante fiducia in se stessi e nella materia tipica degli uomini moderni, c’è la cupa visione del mondo del darwinismo sociale, c’è l’insensibilità dei materialisti per i valori dello spirito. Il nazismo era anche quello, non solo i miti d’un medioevo reimmaginato a sua immagine. Leggete I medici nazisti di Jay Lifton (Rizzoli): lì non c’è quasi nulla che ci riconduca a una grande crudeltà, quella per intenderci alla Gilles de Rais, che potrebbe anche approdare a una sia pur sinistra caricatura dell’eroismo. Niente Titani del male, niente Angeli della morte alla Milton o alla Byron. Macché. Piccoli burocrati perversi, che in qualche caso indulgono a un sadismo d’accatto ma che nella stragrande maggioranza dei casi, mentre le loro vittime muoiono attorno a loro, pensano alla carriera e agli avanzamenti. Piccoli Signori Dottori, rispettosi delle gerarchie e dei fogli d’ordine, che arrivano al paradosso vergognoso dell’ “uccisione come terapia” coprendosi dietro l’alibi della disciplina e alla buona fede con la quale ricorrono, quando possono, all’eutanasia. Perché il loro, in fondo, era un umanitarismo. Erano convinti della superiorità della razza ariana e sognavano un’umanità egemonizzata da essa, ma anche più sana e felice perché “ripulita” non 67

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solo degli ebrei e degli zingari, ma anche degli handicappati, degli incurabili, di tutti gli “asociali” e gli “indesiderabili”. Un’umanità tutta bella e sana; e chi non era tale, era indegno di vita. È stato proprio sconfitto, sotto quest’aspetto, il nazismo? Certo, come militarismo e come pangermanesimo, non lo rivedremo più. Ma in Francia l’associazione Apeh avanza la proposta della soppressione dei bambini handicappati prima o addirittura dopo la nascita; in Svezia, ai troppo anziani si nega la costosa cobaltoterapia; altrove, l’eutanasia trionfa sotto l’accattivante ed eufemistica veste del “diritto a una vita felice fino all’ultimo giorno”. Non vorrei che si dovesse concludere che a suo tempo il nazismo è stato battuto perché troppo in anticipo sui tempi. Non sarebbe una conclusione allegra. (4 marzo 1989)

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Parlando del diavolo

Giorni fa, con un sacerdote amico il quale ha avuto sovente modo di occuparsi di cose che oggi vanno di moda (ma che a quanto pare negli ultimi sei o sette millenni della storia del genere umano hanno sempre riscosso un notevole interesse), si cercava di dare un senso anche culturale a certi fenomeni abbastanza inquietanti e, soprattutto, di cattivo gusto, che sembrano verificarsi con qualche frequenza specie nel mondo delle culture giovanili. Stavamo cioè elencando alcuni fatti di cronaca risalenti, o comunque ipotizzabili come degni di esser fatti risalire, al cosiddetto satanismo. Cose come profanazione di chiese e di sacramenti, tracce di culti in cimiteri abbandonati o in luoghi isolati, indizi di sacrifici animali e - in qualche caso al quale è di recente toccato il discutibile onore della cronaca - anche addirittura umani. Dal canto mio, esprimevo il mio solenne disgusto per pratiche del genere, negando loro qualunque sia pure infame e degenerata “dignità” culturale e attribuendone il dilagare al diffondersi di subcultura pseudodemoniaca attraverso certi film e certa stampa dedicata ad esemplari semianalfabeti e subsviluppati della razza umana, esemplari che purtroppo hanno imparato a leggere e ai quali capita disgraziatamente di avere qualche spicciolo per andare al cinema o avvicinarsi a un’edicola. Veramente, il nostro discorso partiva da più lontano e, come spesso accade quando si è inter pocula e non si nutrono preoccupazioni per chi ci sta ascoltando né si deve stare attenti a misurare le parole, procedeva per larghe pennellate. E allora ci davo dentro, subissando - in fondo è il mio mestiere - il mio interlocutore di argomenti e di dati. Il cosiddetto satanismo, dicevo, non ha nul69

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la o quasi a che fare con la magia, che è una realtà molto articolata e composita ma che ha un altissimo significato antropologico. Balle come le evocazioni demoniache e le cosiddette Messe Nere, proseguivo, sono state messe insieme raccogliendo e mischiando elementi tratti da certi rituali magici, ma costituiscono nel loro insieme uno spiacevole giocattolo elaborato da libertini in vena di divertirsi e in preda a una sorta di delirio di potenza, e al quale nel secolo scorso una cattiva letteratura romantico-decadente ha avuto il torto di conferire fama diffusa. Il resto di questi balocchi sado-masochisti lo conosciamo tutti, e abbiamo più volte avuto il dispiacere di vedercelo arrivare perfino a casa, piovendo dalla TV, sotto forma di film brutti (e qualcuno meno brutto) o di cattiva musica sul tipo di quella dei KISS (che quella dei KISS sia sempre e comunque cattiva musica è opinabile: ma la questione non riguarda l’argomento di queste poche righe). Così, il mondo contemporaneo dove il diavolo era quasi riuscito a seguire il consiglio di Baudelaire e di Lewis, cioè a raggiunger l’effetto di far diventare pressoché unanime il rifiuto della sia pur lontana ipotesi di una sua reale esistenza, si è risvegliato letteralmente pieno del suo nome e dei suoi simboli. Il che è tanto più paradossale se si pensa a quanti intellettuali bennati, anche magari soprattutto cattolici, si scandalizzano ogni volta che il Papa si permette di avanzare qualche riserva sul dogma laico dell’inesistenza del diavolo. Non creder nel diavolo sembra sia diventato, per un cattolico, la condizione alla quale egli deve ottemperare affinché i laicisti non scoppino a ridere se e quando càpita di parlare di Dio. Eppure, questo diavolo negato torna poi, accolto e magari privilegiato sugli schermi piccoli e grandi, sui palcoscenici, nelle librerie, nei salotti e nelle periferie dell’occidente come agente di vendita di libri e di dischi, come ispiratore di moda e di design, come leader di gruppi giovanili e perfino come divinità di Chiese alternative. Da questo punto di vista, lo si accoglie quasi a braccia spalancate. Perfino i proibitissimi ed esecratissimi simboli nazisti sono ormai tollerati nelle stesse aule scolastiche (e magari prima o poi li produrrà Fio70

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rucci) da quando, con una ulteriore patina demoniaca sono stati arruolati nella simbolica consueta delle bande giovanili. Ma il mio interlocutore, sacerdote tutt’altro che incline a pratiche superstiziose e profondo estimatore ma non certo seguace di forme di religiosità popolare di sorta, dinanzi alla mia perorazione sulla inanità e in ultima analisi sull’inconsistenza culturale del demonismo attuale è rimasto perplesso. A suo modo di vedere, la questione non si liquida soltanto ritenendola l’ultima novità subculturale partorita da un mondo nel quale il consumismo impazzito richiede che si inventino sempre nuovi oggetti di consumo e nel quale non c’è nulla di tanto abbietto né di tanto kitsch che non valga la pena di esser buttato sui mercati e non trovi acquirenti se opportunamente e accortamente sponsorizzato. Con l’occhio attento agli epifenomeni di questo bislacco e slabbrato culto demoniaco, il mio interlocutore elenca - traendoli anche dalla sua esperienza pastorale - casi frequenti e impietosi di stupidità, di bestialità, di ottusità, di violenza che non c’è ragione di definir bestiale perché le bestie sono care compagne della nostra vita e meritano il nostro affetto e il nostro rispetto. E poi mi chiede: se qui non c’è la presenza reale del demonio, tu dove la vedi? E come te la immagini? Non so che cosa rispondere. (*)

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Marcuse l’aveva previsto

Non ricordo più dove ho letto una bella descrizione di come un padre, ragazzo del 1860, cercasse di far capire al figlio, ragazzo del 1880, che cosa avesse significato per lui e per la sua generazione Giuseppe Garibaldi. Ricordo che una volta il padre di un mio caro amico, che era stato un ragazzo del ‘40 e che era andato volontario in guerra, cercò di spiegare a noi ragazzi del ‘60, che sognavamo Joan Baez e Che Guevara, che cosa avesse significato per lui Mussolini. Disse molte cose, alcune delle quali anche belle e giuste: ma noi non lo capivamo. Con le generazioni, il linguaggio muta; mutano i referenti, i valori, i significati. E da un po’ di tempo a questa parte i tempi intercorrenti fra le generazioni, pur restando matematicamente parlando i medesimi, hanno cominciato a dilatarsi. Fra me che sono del ‘40 e mio padre, che era del ‘14, correvano ventisei anni: e lui mi faceva già l’effetto di uno che fosse nato ai tempi delle guerre puniche. Fra me e mia figlia Giovanna, che è del ‘67, corre più o meno lo stesso lasso di tempo: ma io le faccio l’effetto di uno nato nel cenozoico. Noialtri nati con la seconda guerra mondiale siamo l’ultima generazione dell’Ottocento. I nostri figli sono la prima generazione informatica e telematica: fra noi e loro c’è più distanza storica, culturale e tecnologica di quanta non ci sia fra uno che oggi è sulla cinquantina e un contemporaneo di Francesco Giuseppe. È anche per questo che, ricorrendo poche settimane orsono il decennale della morte di Herbert Marcuse, non ho nemmeno provato a spiegare alle mie figlie o a qualche mio laureando chi fosse. Del resto, il suo nome è passato come una meteora, le sue massime suonano ora troppo “datate”, i suoi libri non si leggono più. 72

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Debbo dire di non essere mai stato un marcusiano ortodosso. Certo, la scuola di Francoforte mi attraeva, ma sotto il profilo intellettuale subivo piuttosto il fascino di un Adorno o di un Horkheimer. Direi che il mio interesse per Marcuse era cinicamente nichilista. E mi spiego meglio. Per anni il progressismo dogmatico ed opprimente, il volgare ottimismo legato all’idea che quello moderno e occidentale fosse il migliore dei mondi possibili, mi avevano perseguitato. Per anni mi ero chiesto, ad esempio, come fosse possibile non rendersi conto del baratro verso il quale l’uso indiscriminato delle risorse energetiche del pianeta stava conducendo l’umanità. E per anni queste preoccupazioni, che - intendiamoci - erano lungi dall’esser solo mie, erano state negate, ridicolizzate, bollate come “reazionarie”. Il sistema partitocratico e clientelare della società che mi viveva attorno non mi soddisfaceva e non mi convinceva: eppure, ero abituato a non riuscire a manifestare questi più che ragionevoli e legittimi dubbi senza che qualcuno non mi appiccicasse l’infamante etichetta di antidemocratico. Ed ecco infine Marcuse, a gridare alto che il re era nudo, a parlare di quella occidentale come di una democrazia solo “formale”, a preconizzare un futuro nel quale non più il danaro, ma la fantasia fosse al potere. Ora so bene quanto di pressapochismo, di rousseauianesimo in ritardo, di vitalismo ingenuo vi fosse nelle tesi di Marcuse. E al tempo stesso assisto all’appropriazione tanto indebita quanto chiassosa dei temi, per esempio, della “morte del pianeta” e dell’ecologismo proprio da parte di forze, storicamente e ideologicamente parlando, eredi del progressismo galoppante e volgare che ha la responsabilità di aver ridotto la Terra a quello che è adesso. Non venderò ai cantori grossolani della crisi delle foreste dell’Amazzonia la mia primogenitura per averne in cambio il piatto di lenticchie del riconoscimento della mia fede democratica. Continuerò a sostenere che il fatto che il mondo andasse a rotoli l’avevo capito prima io, perché mi ero reso conto che, spogliato di ogni spi73

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ritualità, esso sarebbe caduto vittima della più feroce speculazione capitalista e del più ottuso ottimismo progressista. Marcuse, falso profeta, ebbe in ciò quanto meno il merito di lanciare un grido d’allarme che molti suoi colleghi ideologicamente a lui vicini si affrettarono a dichiarare irrazionale e “obiettivamente reazionario”. È per questo che, al neomarcusismo inconfessato di quelli che hanno scoperto solo l’altro ieri che le foreste d’Amazzonia languono e che i delfini muoiono, io preferisco ancora il vecchio falso profeta che vent’anni fa cercò di scuoterli. E al quale essi risposero sussiegosi, ben riparati dalla muraglia del loro tronfio storicismo che - allora - sembrava incrollabile e che adesso frana come un castello di sabbia. (30 settembre 1989)

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Le luci dell’est

Le feste e i “ponti” di primavera mi hanno consentito di rimanere in casa un po’ più a lungo del consueto: ho così potuto fare anch’io per qualche giorno la vita di molti italiani, che di solito (e per mia fortuna) non mi è consentito fare, e che comunque non mi è granché congeniale. Ho potuto cioè passare diverse ore incollato alla TV, grazie a Dio soprattutto con dei bambini. Il che mi ha consentito di aggiornarmi: ho ingerito una buona dose di orribili cartoons giapponesi, ma in cambio ho rivisto Biancaneve, Cenerentola, e insieme tutto il grande Disney, quello migliore. Ho poi assistito, con vera e propria commozione, a una quantità di servizi sull’est europeo: e come convinto europeista, mi sono sentito orgoglioso fino alle lacrime di potermi dire compatriota dei russi, polacchi, ungheresi, tedeschi orientali. Mi sono commosso dinanzi alle immagini dei ragazzi di Berlino che cantano il Deutsches Lied sulle macerie del muro; e ho provato un brivido lungo la schiena di quelli che non provavo da tempo all’immagine delle infinite luci della notte di Pasqua, le candele accese dai fedeli a milioni da Budapest a Sofia a Kiev. Ho finalmente visto di nuovo dei popoli interi in preghiera, ho sentito ancora una volta quel che ormai ero abituato a legger descritto solo nei libri: che cosa sia una nazione, che cosa significhi essere una comunità di fede e di tradizione. Mi è difficile descrivere in modo adeguato le mie sensazioni dinanzi a spettacoli come quelli: tenerezza, esaltazione, e anche un po’ di invidia perché so bene che, come italiano, difficilmente mi capiterà mai di vivere momenti di quel genere nel “mio” paese. Che è tale, ormai più anagraficamente e fiscalmente che altro. 75

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Ma nei miei giorni televisivi ho anche visto dell’altro: e, paragonandolo alle belle immagini di un’Europa fresca, risvegliata, rigenerata, ho rabbrividito. Non c’è dubbio che la primavera dell’est Europa sia stata causata anche dal desiderio di un più alto tenore di vita, di più qualificati consumi. Ed essi arriveranno: nessun dubbio su ciò. Ma io mi sorprendo angosciato a chiedermi che cosa accadrà di questa gente magnifica, che ha sfidato senza paura e quasi disarmata le polizie più feroci e agguerrite del mondo, il giorno che essa sarà invasa dalle telenovelas, dalla musica-rumore e dai filmacci made in USA che deliziano il nostro Occidente, dal fastfood, dalla febbre suicida e omicida del sabato sera, dagli spots pubblicitari ossessivi e demenziali. Queste cose hanno già fatto capolino in Oriente: e sono state salutate con gioia e desiderio, come parte del “paniere della libertà”. Ma sono doni avvelenati: da noi hanno distrutto la cultura, la morale, le possibilità di dialogo tra generazioni diverse, e la volontà d’imparare e di costruire nei giovani. Là, duri decenni di persecuzione non hanno svuotato le chiese; qua, lunghi anni di benessere malinteso e peggio vissuto le hanno ridotte a deserti e le hanno degradate ad hangar nei quali si celebra sì il mistero divino, ma profanato da scene paraliturgiche d’accatto e inquinato dalle più volgari espressioni di un cristianesimo postcristiano semplificato ai livelli d’un umanitarismo e d’un pacifismo invertebrati e beoti. Occorrerebbe quindi una sana campagna di difesa dei nostri fratelli esteuropei. Sarebbe necessario un cordone sanitario che impedisse alla televisionaccia, alla musicaccia, e alle abitudini ispirate al conformismo consumistico di penetrare anche da loro. Rispetto e ammiro la sete di libertà dei nostri fratelli dell’Est. Sono felice per loro, anche se - come occidentale - mi vergogno di aver fatto poco per aiutarli a conquistare la libertà. Eppure, con tutto il rispetto per le loro pluridecennali e immeritate sofferenze, mi chiedo che cos’abbia veramente vinto all’Est, e soprattutto che cosa stia veramente per vincere. La libertà o il desiderio dei consumi? 76

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Certo, dopo tanto malessere, che all’Est si cerchi il benessere è comprensibile. Qualcuno dice addirittura sacrosanto. Io no: e mi chiedo quale sia il materialismo peggiore, quello dialettico che il mondo ex-comunista ormai ha rifiutato, o quello individualista e pragmatico verso il quale sta marciando col nostro aiuto. Nunc est bibendum, nunc pede libero pulsanda tellus, mi scrive da Budapest un amico ungherese che dal ‘56 lotta per la libertà e che ha pagato di persona, duramente, il biglietto per la felicità di questi giorni. Ma al suo Orazio io rispondo col mio San Paolo, tessitore di tappeti, romano e fariseo. Vigilate.

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(12 Maggio 1990)

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5. LIMBO DELLA STORIA

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Apologia del crimine storico

Il 1993 sarà, come tutti sanno, l’Anno Europeo. E assisteremo allora fra l’altro - assieme ad altre piacevolezze, tipo il definitivo confino dell’Italia in serie B da parte degli altri neosemicompatrioti a varie iniziative tese a far capire agli europei chi sono, e da quanto tempo, e perché. Per esempio, pare che talune tv unite (fra cui ahimè l’italica) produrranno un kolossal sul Padre della Patria, Carlomagno. Che l’imperatore Carlo sia effettivamente il “padre” dell’Europa, intendiamoci, è storicamente cosa discutibile: siamo più nell’ambito delle celebrazioni che in quello della critica scientificamente attrezzata. Comunque, siccome le cose saranno presentate così, c’è da scommettere che il vecchio sovrano franco verrà immediatamente anche attaccato e svillaneggiato dai soliti contestatori in servizio permanente. Quelli per intendersi che ce l’hanno con Colombo per via degli indios, che sostengono che Lorenzo il Magnifico era un criminale perché faceva sopprimere gli avversari politici e nel 1472 fece mettere Volterra a ferro e fuoco per una questione di sfruttamento minerario eccetera. Ora, vorrei mettere in guardia gli amici ecopacifisti per quel che attiene la criminalizzazione di Carlomagno. Il brav’uomo era specializzato nell’ammazzare sassoni, musulmani e avari. Se lo si vuol denunziare all’opinione pubblica, però, bisogna stare attenti. I sassoni erano germani e per giunta pagani: come sapete, non è prudente indignarsi perché qualcuno ha sterminato dei tedeschi. C’è da prendersi la nomèa di filonazisti; giacchè, com’è noto, vi sono vittime eccellenti e vittime che non lo sono affatto. Stesso discorso per i musulmani, che sono notoriamente gentaccia come Gheddafi e Saddam Hussein. 81

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Se ve la prendete con Carlomagno come ammazzamusulmani, magari vi trattano da filoarabi e dunque antisionisti. Restano gli avari, e lì si va sul sicuro: si tratta di genti ugrofinniche. Una protezione del Wwf a quelli non gliela nega nessuno: potete inveire contro Carlomagno come sterminatore di tale “specie protetta”. Ma più in generale, e scherzi a parte, ne ho davvero piene le scatole. L’ultima trovata del pietismo umanitaristico, nella storia, è l’appiattimento del giudizio su cose e fatti del passato a puri e stolidi canoni irenistici. Alla storia non si pongono più domande: la si giudica solo sulla base del sangue versato o no, della carne macellata o meno. Non starò neppur a dire che tale visione pecca di moralismo antistorico, che sarebbe replica professorale. Mi limiterò a osservare che fatti e persone del passato hanno diritto da parte dei posteri a un giudizio un po’ più serio e articolato che non il puro e semplice computo delle malefatte. Non si può ridurre Alessandro Magno a quello che ha incendiato Ecbatana, o la scoperta dell’America al massacro degli indios, o la storia romana a un’assurda sequenza di conquiste e di stragi. Insomma, io voglio mantenermi il diritto di giudicar Mosè come grande legislatore e fondatore di religioni, non solo come il responsabile delle stragi di cui narra la Bibbia; voglio poter continuar a pensare ad Hammurabi come all’autore di un grande testo giuridico, non semplicemente come al massacratore dei popoli soggetti; esigo di poter guardare a Napoleone come allo statista che ha redatto il grande Codice Civile, non solo come al gran macellaio dell’Europa primottocentesca. Se non si fa così, ci si preclude la possibilità di concepire la storia in termini critici; e resta solo il belante piagnisteo dei difensori della vita come puro fenomeno biologico refrattario a qualunque valutazione qualitativa. (16 maggio 1992)

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Nemesi storica

La Ragione della Storia, il Vento della Storia, il Senso della Storia. Ormai abbiamo accettato tutti o quasi il principio che si tratta di chiacchiere, di balle, d’illusioni ideologiche o moralistiche, di tentativi di truffa aggravata e continuata da parte di generazioni di ideologi e di intellettuali ai danni di generazioni di studenti di liceo e di vittime dei giornali. Eppure, se di tutti questi frusti concetti dovessi rivalutarne uno, sceglierei il più immaginifico, decadente e desueto di tutti: quello carducciano della Nemesi storica. Ricordate il discorso sul puro, forte e bello Massimiliano d’Asburgo, rampollo innocente della schiatta imperiale che aveva travolto l’impero di Montezuma e che in pieno Ottocento andò come un commovente imbecille (e contro il parere del suo imperiale fratello Francesco Giuseppe) a farsi fucilare dagli indios di Benito Juarez, vindice in qualche modo degli antenati aztechi? Beh, la storia di Massimiliano d’Asburgo a dir la verità stava in modo un po' diverso, come un po' tutta la storia del Messico. Che però, a parte i fumettoni su Pancho Villa, nessuno vi racconterà mai come stia davvero: i laicisti sanno che è meglio glissarci sopra, tanto è vergognosa per loro; e i cattolici sono troppo ignoranti (di storia e non solo di quella) e troppo occupati a curarsi i loro complessi nei confronti dei laicisti per riuscire a rendersi conto di come davvero stiano le cose. Però la nemesi storica ci deve essere davvero. E non è una nemesi priva d’ironia. Sapete chi è Sam Zakhem? Era l’ambasciatore statunitense che l’emiro del Kuwait aveva a suo tempo ingaggiato con una mazzetta la cui entità fa impallidire le somme percepite da tutti gli assessori lombardi messi insieme. Il perché della bella mancia? Lo Zakhem doveva mettere insieme 83

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un bel po’ di prove per convincere il mondo intero che Saddam Hussein era il più feroce dei criminali e che bisognava scendere in crociata contro di lui. E allora giù con le bufale informatiche e telematiche: la più grossa, forse, quella dei bambini kuwaitiani strappati dalle incubatrici e seviziati dai truci iracheni. Poi, sempre nella sciagurata guerra del Golfo, vennero fuori altre bufale: quella del cormorano impetroliato poi rivelatosi baltico, quella dei soldati iracheni corsi in frotta ad arrendersi ai liberatori e risultati poi comparse saudite e via dicendo. Balla non era invece la storia dei soldati iracheni veri soffocati “per sbaglio” dai bulldozer: ma, quella, ce l’hanno tenuta nascosta. Vien voglia di ricordare l’aurea massima di Alberto Asor Rosa: Schwarzkopf? Con quel cognome, avrebbe potuto essere un generale Usa come della Wehrmacht. Con la differenza che i generali della Wehrmacht erano dei guerrieri: e il guerriero può vincere o perdere. Schwarzkopf, la sua guerra, poteva solo vincerla: e il guerriero che può solo vincere non è un guerriero, è un macellaio. Ora, questi nodi stanno venendo al pettine mentre dalla Casa Bianca stanno soffiando, per nobilissimi fini elettorali, nuovi venti di guerra. Ma intanto la gente si sta chiedendo di chi ormai ci si possa più fidare. Anche perché, intanto, gli storici hanno cominciato a scavare più a fondo anche in altre, più vecchie fosse; ad aprire altri armadi, dai quali escono più vecchi scheletri. Come la mettiamo con gli ucraini, i croati, gli slovacchi, ceduti a Stalin a migliaia dopo la fine della seconda guerra mondiale, perché li fucilasse? E con i soldati tedeschi e le loro famiglie fatti morire d’inedia e d’incuria dal prode e simpatico generale Eisenhower? Diteci: quante balle ci avete raccontato nell’ultimo mezzo secolo? (5 settembre 1992)

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Ascolta, Francis...

Ragazzi, attenti: questo Fukuyama o non ha capito nulla o è un menagramo della peggior specie. Ma andiamo per ordine. Francis Fukuyama, funzionario (di grado purtroppo, pare, elevato) al dipartimento di Stato di Bush, ha messo il mondo a rumore con un articoletto pubblicato qualche mese fa su National Interest. Saggio mediocre e superficiale, per fortuna. Che cosa sostiene, in sintesi, codesto iettatore? Nientedimeno che la storia sta finendo; o, se preferite, che stiamo uscendo dalla storia. Quello che avrebbero voluto e non hanno saputo fare Marx e Lenin, lo sta facendo - continua lui - il liberalismo. Nessuna possibile alternativa alla democrazia liberale: nessun ostacolo dinanzi ad essa, nessun problema che essa non sia in grado di risolvere. Non che si sia proprio arrivati alla soluzione finale, allo sterminio di tutto quel che non è liberale. Siamo però sulla buona strada: e, continua l’ineffabile consigliere di Bush, “non è necessario che tutte le società si trasformino in società liberali riuscite; è sufficiente che esse rinunzino alla pretesa di rappresentare forme diverse e superiori dell’organizzazione umana”. Unico motivo di mestizia, a velar la sua razionale e progressistica festa: forse ci annoieremo un pochino. “Nell’età post-storica, non ci saranno più né arte né filosofia; solo la perpetua manutenzione dei musei della storia dell’umanità”. Beh, Fukuyama, rassicurati. Non ci annoieremo nei prossimi decenni. Tu non hai sentito il fracasso, Fukuyama: però il muro di Berlino è crollato lo stesso. Dal 1870 Francia e Inghilterra, unite in tragico patto, avevano tentato di congelare la storia negando alla Germania quel quarto d’ora di egemonia mondiale che esse avevano pur goduto fra XVII e XIX secolo: il risultato di questo ten85

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tativo folle di arrestare la storia è stato due guerre mondiali e il nazismo. Ora però la Germania si riunisce, dopo mezzo secolo di punitiva e coatta separazione: e, in pace e nella pace, assumerà finalmente - con l’Europa - quel ruolo che le era stato negato. Perché, se ha perduto due guerre, ha vinto splendidamente la pace. Ci saranno certamente ben pettinati giardini dove lavori tu, Fukuyama. Essi attutiranno i rumori. Ma non tanto da impedirti - anche se tu sei duro d’orecchio - di sentire il fracasso di quel che avviene tra Danubio e Pacifico. Se la Germania si unisce, la Jugoslavia si divide e l’impero sovietico frana. Li senti, Fukuyama, gli sloveni, i croati, i moldavi, gli armeni, i lituani, i mongoli? Fra poco sentirai anche gli ucraini, i turkmeni, gli uzbeki. Non senti come suonano alte le campane di Chiese cattoliche condannate da decenni al silenzio? Non ti giunge l’eco dei muezzin che proclamano la gloria di Allah? Sta’ tranquillo, Fukuyama. Si sono risvegliate le nazioni, si sono rimesse in moto le fedi religiose. Tu parli di liberalismo dalle tue ben pettinate aiuole, ma dall’Africa all’India c’è chi ha fame, c’è chi è gonfio di rabbia, chi vuol dare la scalata all’Olimpo occidentale, chi si vuol riappropriare del suo passato e chi non sa che farsene d’un futuro come quello che tu auspicheresti. Il Terzo e il Quarto mondo, Fukuyama, tu li giudichi con disprezzo come ancora “impantanati nella storia”. Ma già, al posto della tradizionale rivalità Est-Ovest, sta avanzando la nuova rivalità NordSud. La storia si è rimessa in moto. Da quel pantano, Fukuyama, ci arriveranno molti schizzi di fango. Per fortuna, e grazie a Dio. (3 marzo 1990)

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Una città mia e di tutti

Io amo Gerusalemme. Per gli ebrei sono un goi, per i musulmani sono un “infedele”, per i cristiani orientali un corrotto e un cattivo “latino”, per i cattolici forse solo un correligionario abbastanza tiepido. Io non so proprio a chi dovrebbe spettare Gerusalemme: gli israeliani l’hanno tolta ai giordani, che l’avevano estorta agli inglesi che l’avevano strappata agli ottomani i quali l’avevano conquistata ai mamelucchi che l’avevano ereditata dagli ayyubidi i quali l’avevano riconquistata ai crociati che l’avevano conquistata ai selgiuchidi che vi si erano sostituiti ad abbasidi e fatimidi i quali avevano soppiantato gli ommayyadi che l’avevano ereditata dai primi califfi i quali l’avevano tolta ai bizantini che se l’erano contesa a lungo con i persiani che vi si erano sostituiti ai romani che l’avevano ereditata dai generali di Alessandro Magno che l’avevano conquistata agli ebrei che se l’erano vista prendere dagli assiri e dai babilonesi ma che già da prima l’avevano tolta ai gebusei che non ci sono più. Io con tutta questa gente - dai poveri gebusei agli attuali israeliani - non c’entro niente. Eppure Gerusalemme mi appartiene: conosco le vicende dei suoi monumenti archeologici, so le storie delle sue chiese, in una ventina di minuti posso attraversarla tutta da occidente ad oriente sostando nella basilica del Santo Sepolcro e quindi raggiungendo attraverso il mercato e le sue intricate viuzze la grande spianata del Muro del Pianto e di lì, salendo qualche gradino e passando qualche arco, entrare nello splendido recinto delle due moschee di Omar e di alAqsa. Ho percorso decine di volte i pochi metri che separano il santuario di Abramo - la roccia del Moriah, su cui sorge la moschea di Omar - dal Muro del Pianto (che appartiene agli ebrei, e che pure, da povero “gentile” accolto grazie al Cristo sotto la ten87

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da di Israele, sento appartenere un poco anche a me) e dalle due chiese dei due sepolcri vuoti, quello di Gesù e quello della Vergine, dove tanto spesso i musulmani vengono a pregare insieme con i cristiani. Ho avvicinato rabbini, mullah, francescani, monaci etiopi, sacerdoti georgiani: e mai - neppure le rarissime volte in cui ho colto qualche gesto d’impazienza o d’intolleranza - sono riuscito a pensare a nessuno di loro come all’ “altro”; non diciamo al nemico, ma nemmeno all’estraneo. Ecco, questo è il punto. Certe cose hanno la forza dei millenni: e chiunque politicamente e militarmente comandi dentro a Gerusalemme deve convincersi che quella città non è come tutte le altre. Lì, entro poche centinaia di metri quadrati, sono accadute negli ultimi tremila anni cose che hanno scosso, folgorato, riplasmato l’umanità intera. Troppi uomini, troppe fedi, troppe tradizioni si riconoscono in quelle vecchie pietre e in quei consunti selciati. Gli uomini si possono uccidere, i nemici si possono battere, i trattati internazionali si possono stracciare e riscrivere: ma questa grande realtà storica non la si può né dimenticare né disattendere. Gerusalemme non può esser sottratta a nessuno che l’ami, o non ci sarà mai pace. E l’amiamo tutti. (11 febbraio 1989)

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Storia-funzione e storia-uso

Mi capita di tutto, ultimamente. Perfino di essere quasi d’accordo con Indro Montanelli, il che allarmerà soprattutto lui: che, dice, se avesse un figlio come me si butterebbe dalla torre di Pisa. Sono quasi d’accordo con Montanelli sulla faccenda della lettera di Bobbio al Duce. Certo, mi riesce difficile credere che davvero il professor Bobbio avesse dimenticato quell’episodio; e, per il rispetto che ho per lui - pur dissentendo da molte delle sue scelte preferisco pensare che egli nel ‘35 fosse davvero, se non fascista, quanto meno disorientato dinanzi allo spettacolo del fascismo vincente piuttosto che non arrendermi all’idea di una lettera giustificata certo in parte dalla situazione, ma nondimeno poco dignitosa per il tono di piaggeria che (se fosse del tutto insincera) la pervaderebbe. Ma erano senza dubbio tempi difficili. Onore quindi a Vittorio Foa che ebbe la forza di non cedere, e comprensione per Giulio Einaudi, per Massimo Mila, per Cesare Pavese che furono meno determinati, o che magari erano meno motivati ad esserlo. Chi è sicuro che al loro posto avrebbe fatto meglio, scagli la prima pietra: io non la scaglierò di sicuro. Ma non è per questo che sono tornato sulla penosa vicenda, bensì perché essa ha attivato una strana - e, quella sì, poco degna - reazione nella quale gli elementi d’una malintesa questione morale si mischiano con quelli di una strumentale visione della storia. Che dinanzi alla scivolata di Bobbio qualcuno abbia gongolato, è fin troppo logico. Mi vien da ricordare quel tal popolano ateniese, che votava contro Aristide non perché avesse niente da rimproverargli, ma perché ne aveva piene le tasche di sentir dire in giro che era tanto virtuoso. Mi pare però meno logico - e, a parità d’ineleganza, anche molto meno corretto - che vi siano tra i sa89

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cerdoti dell’indefettibile sinistra di modello “Giustizia e Libertà” taluni che s’indignano per il fatto che la lettera del ‘35 è stata fatta conoscere all’opinione pubblica e che addirittura accusano di scorrettezza Silvio Berlusconi, patron del settimanale che l’ha pubblicata, e parlano con indignazione di giornalismo-spazzatura, di scandalismo, di sciacallaggio. C’è addirittura chi ha tirato fuori la faccenda dell’ “uso della storia”, della “storia come grimaldello”. E il grimaldello, si sa, l’usano i ladri. Eh, no. Qui bisogna andarci piano. L’aneddotica compromettente usata come “rivelazione”, anzi come “denunzia” ispirata da “rigore”, è da oltre un quarantennio strumento quasi esclusivo proprio della sinistra, e in particolare di quella sinistra che oggi se la prende tanto perché la sua arma tradizionale si è rivolta contro uno dei suoi maîtres-à-penser. (*)

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Lo zanni e la regina

“Io supplico il mio signore il re, e raccomando e ordino alla principessa mia figlia e al principe suo marito... di non ammettere né permettere che gli indigeni delle isole e della terraferma conquistate o da conquistare subiscano il minimo torto né nella loro persona né nei loro beni, ma al contrario di comandare che siano trattati con giustizia e con umanità e che i torti che essi possono aver eventualmente subito siano riparati”. Questo faceva scrivere sul suo letto di morte Isabella di Castiglia, nel 1504. Sono parole di un testamento. Già dal 1478 Isabella aveva fatto liberare dalla schiavitù gli indigeni delle Canarie. E nel 1492 - cedendo alla pressione popolare che ormai rendeva una triste necessità d’ordine pubblico la cacciata degli ebrei dalla Spagna - garantiva (nella maggioranza dei casi con successo) che essi potessero portar con sè i loro beni mobili. Si tratta di verità storiche note, documentate. Nessuno storico serio contesta più questi dati. Dario Fo non è uno storico: e ha tutti i diritti di non esserlo. È uno splendido animale da palcoscenico, questo sì: e quando si diverte e diverte gli è ben lecito falsare la storia, come fa quando racconta degli Zanni o rivisita le eresie medievali. Anche su Prete Liprando, è meglio ascoltare Cinzio Violante che Jannacci: ma Jannacci diverte, e anche un po' commuove. A me piace molto Dario Fo: e per questo gli perdono quasi sempre esibizionismi, giullarate e falsi storici. Ma ora, nel suo annunziato Johan Padan a la discoverta de le Americhe, in fatto di falsi passa il segno. Definire Isabella “ladra e sanguinaria” è un’infamia anche per un comico. Parlare del “genocidio” spagnolo nelle Americhe e raccontar l’immaginaria vicenda d’un povero zanni ispanoveneto che finito con i conquistadores e stufo delle loro in91

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famie finisce col passare dalla parte degli indios potrebbe essere anche una buona trovata, ma il Fo la tesse sposando con arrogante e ignorante faziosità una versione storica di quei fatti alla quale ormai credono soltanto i pretini seguaci di Leonardo Boff e i vedovi inconsolabili del katanghismo milanese. Ma il Fo ama stare con i vinti, o quelli che a lui sembrano tali. È una bella vocazione, quando è seria e non un’astuzia da teatrante demagogo: perché, diciamo la verità, è spesso anche una scorciatoia per buscarsi con poca fatica tanti applausi a scena aperta dal solito pubblico di bigotti travestiti da rivoluzionari. O perché il Fo, il suo Johan Padan, non l’ha mandato a fare il disertore sovietico che combatte nelle file dei patrioti afghani? O magari il ragazzo veneto di oggi che passa la frontiera e va a dare una mano a Ragusa assediata? Quello sì che sarebbe stato un buon modo di mettersi dalla parte dei deboli: ma, chissà, poco gradito agli impresari di partito che di solito sostengono e incensano il Dario Fo. (*)

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Una povera peccatrice

“Chi bussa?”. Da dietro le porte chiuse della cripta, la voce del padre Cappuccino suona bassa, solenne, cavernosa. Come nel secondo atto del Flauto magico; o come in un sogno lontano. Sotto la pioggia, sotto lo stesso cielo bigio di quando Joseph Roth aveva accompagnato all’estrema dimora il Kaiser Francesco Giuseppe, la carrozza nera è enorme: come in una versione funerea della fiaba di Cenerentola. “Sua Maestà Apostolica Zita d’Asburgo-Borbone, imperatrice d’Austria, regina d’Ungheria, di Boemia, di Dalmazia, di Croazia, granduchessa di Toscana...”. La voce del Cappuccino è inflessibile: “Non la conosco”. Solo quando sarà presentata per quel che è e che siamo tutti, eine arme Sünderin, una povera peccatrice, la piccola signora chiusa nel feretro potrà passare e raggiungere i suoi, che l’aspettano. Fuori sono in centocinquantamila, da quasi tutta l’Europa ma soprattutto dai paesi dell’ex-impero. Anche italiani: tanti, e non solo istriani e goriziani. Nobili, reporters, nostalgici, turisti, curiosi... e tanta gente venuta qui per un impulso forse ancor arduo a decifrare. Della cerimonia compiutasi a Vienna il 1° aprile scorso non ho voluto parlare subito. Ne parlo ora, a distanza: “a bocce ferme”, come si dice nel linguaggio del biliardo. L’imperatrice Zita d’Asburgo se ne è andata a novantasette anni, dopo aver attraversato in punta di piedi un tremendo secolo di storia europea. Senza eccentricità, senza scandali, senza aver fatto parlare di sè i rotocalchi: dando a quest’Europa di teatranti e di politicanti un’ultima lezione di riservatezza e di stile. Non ne ho parlato prima perché temevo che, se lo avessi fatto, le mie parole sarebbero cadute nel 93

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mucchio delle rievocazioni dense di colore o degli appelli emotivi sul tipo di quelli lanciati dai vecchi e nuovi fans del tempo degli Asburgo, quelli di cui si dà di solito (a torto) la responsabilità a Claudio Magris. Perché tornare quindi, in ritardo, su questa ormai trascorsa pagina di cronaca viennese? È molto semplice. Anzitutto perché, una volta tanto, l’avvenimento mi è parso di quelli che per fortuna convincono da un lato che la storia insegna pur qualcosa, e dall’altro che “il senso della storia” è molto più complesso e meno lineare di quanto non credano certi non disinteressati semplicisti. E poi perché quelle esequie uscite da un’altro tempo, che a taluno sono sembrate il definitivo finis Europae, la simbolica lastra tombale calata sul nostro vecchio continente, a me hanno fatto piuttosto l’impressione di un lontano albeggiare. Accompagnare per l’estremo viaggio, dal duomo di Santo Stefano alla Cripta dei Cappuccini, l’ultima sovrana cattolica della vecchia Europa ha avuto il senso nemmeno tanto recondito di una palinodia. Quell’Europa “delle nazioni” che comincia a risvegliarsi - e in prima fila c’erano gli ungheresi con la loro gloriosa bandiera, quella con le insegne di santo Stefano - e a dichiarare sul serio di voler essere, nel futuro, libera e una, ha infiniti modelli utopistici; ma ha un solo concreto modello storico, lo stato plurinazionale e sovranazionale asburgico nel quale il Kaiserlied di Haydn si cantava in venti lingue diverse. Un modello contestabile, autoritario, ambiguo, malfermo: ma che pure ha rappresentato per decenni un punto di riferimento sicuro. I nazionalismi lo hanno abbattuto; ma noi sappiamo bene a che cosa ci hanno condotto i nazionalismi. L’impero bolscevico ne ha ereditato una parte: ma oggi, da Varsavia a Budapest, quell’impero si sgretola e il tessuto consunto ma robusto della vecchia Europa riappare sotto le crepe. Piegati ma non domati dopo l’insurrezione del ‘56, gli ungheresi tornano a riconoscersi nell’emblema della corona di Santo Stefano e il nome di Otto d’Asburgo serpeggia tra loro come una nuova speranza. Non sono bastati né il brigantaggio di Versailles, né la fol94

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lia nazista, né il nuovo e più grave brigantaggio di Yalta, a uccidere l’Europa. Mentre gli Schutzen portavano la bara fuori della cattedrale, dinanzi ai resti di quella piccola anziana signora che praticamente non aveva mai avuto alcun potere, io mi chiedevo che cosa ne è, che cosa ne sarà dei Grandi della Terra, quando il loro momento sia passato. Chi si ricorda più, ormai, di Reagan o di Breznev? Eppure, fino a pochi mesi or sono, la nostra stessa esistenza dipendeva per molti versi da loro. Che cosa ne sarà dei politici che oggi reggono le (si fa per dire) fortune del nostro paese? Quando se ne andranno, la notizia del loro trapasso prenderà sì e no due colonne sui giornali, e quelli che facinorosamente non ci berranno sopra si limiteranno a stringersi nelle spalle. Per Zita no. Su quella piccola bara, al passare del nero feretro imperiale, piangono tutti e qualcuno si inginocchia; e fra loro ci sono ragazzi dall’apparenza di punk o di paninari, non solo vecchie dame aristocratiche, arcigni Schutzen o severi lealisti triestini. È l’Europa che si riconosce, che vuol vivere libera e unita, che manifesta così, come può, e magari in ritardo, il rincrescimento per le due guerre che l’hanno ferita e offesa. Non è il finis Europae, questo: è l’auspicio migliore per un 1992 che segni veramente l’inizio di qualcosa. (*)

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6. LIMBO DELL’UNIVERSITÀ

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Disincentivatzija

Anche se si è dei “cani sciolti” come il sottoscritto (cioè persone senza tessere di partito in tasca e senza particolari appoggi in alto loco), quando si fa il professore universitario e si comincia ad aver in testa qualche capello grigio capita di esser fatto oggetto di discutibili privilegi: regalo dell’età, non certo dell’autorevolezza raggiunta nel campo degli studi. Uno di questi privilegi è il presiedere le tornate dei convegni o il pronunziarne le prolusioni: che in generale sono delle chiacchierate abbastanza generiche, anche se più o meno auliche, e che si fanno fare ai professori d’una certa età sulla base della convinzione (ohimè troppo sovente veridica) che essi non abbiano più il tempo di studiare, affaccendati come sono in tutt’altre faccende. Altro privilegio è quello di far parte di varie commissioni giudicatrici di pubblici concorsi: ruolo secondo alcuni ambitissimo in quanto demiurgico e intrallazzatorio, mentre a mio avviso - ma io intrallazzatore non sono - è una delle peggiori croci da sopportare. Altro, infine, quello di esser chiamato a partecipare alle più diverse commissioni ministeriali oppure promosse da Enti locali di ogni livello. Ché l’Italia, come tutti sanno, è una Repubblica fondata sulle commissioni. Quando si fa parte di commissioni capita di venir contestati o di dover essere chiamati a far da giurì su contestazioni subite da commissioni precedenti. E qui la follia kafkiana alla quale può giungere un Paese burocratizzato come il nostro tocca livelli assai vicini a quelli che il retore alessandrino per convenzione chiamato lo pseudo-Longino definirebbe il “Sublime”. Le contestazioni avvengono sotto forma di ricorsi o lunghe lettere, e hanno di solito esito mestamente negativo. Ciò non toglie 99

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che sovente, anche se hanno torto nella forma giuridica, abbiano ragioni da buttar via nella sostanza. Che senso ha, ad esempio, in una facoltà universitaria di Lettere e Filosofia, consentire l’accesso a un certo concorso ai laureati in Lettere e negarlo ai laureati in Filosofia? Oppure pubblicare un bando di concorso sulla Gazzetta Ufficiale il 14 agosto, nell’evidente intento che esso sia letto dal minor numero possibile di interessati in modo che il concorso relativo risulti semideserto, popolato soltanto da alcuni candidati “graditi”? A domande di questo tipo, che lo sprovveduto professore membro di commissione fa proprie, l’Alto Funzionario Ministeriale Megagalattico (quello che sostiene Paolo Villaggio, ha poltrone in pelle umana e piante carnivore a decorare l’ufficio) sorride a mezza bocca e con distaccata autorevolezza pronunzia la parola magica. “Disincentivazione”. I posti sono pochi, i candidati molti: elaboriamo spiritose invenzioni atte a sfoltire i loro ranghi senza andar contro la legge. Ottima trovata, che potrebbe utilmente essere applicata in altro campo: perché ad esempio non disincentivare l’uso del fumo o dei grassi, notoriamente malsano, avvelenando sistematicamente il 10 per cento dei pacchetti di sigarette e dei pani di burro in commercio? Un’adeguata campagna d’informazione farebbe il resto: vedreste che calo nei consumi nocivi! Scherzi a parte, la realtà è frustrante. Nel Bel Paese si rinunzia a priori al diritto-dovere di controlli seri, di selezioni severe, di corrette scelte basate sul merito e sulla competitività professionalmente fondata. Nel Bel Paese, l’intrallazzo passa attraverso le porcheriole che non scalfiscono la lettera della legge ma ne tradiscono vergognosamente lo spirito. E tutto questo ha un nome, in burocratichese. Disincentivazione. (27 aprile 1991)

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Baroni e aspiranti-baroni

L’anno accademico è finito: il che è un modo per dire che tra qualche mese, dopo la pausa estiva e la sessione autunnale d’esami, comincerà l’anno accademico successivo. E si sente odor di concorsi a cattedre: il bando è già uscito da parecchio tempo, le commissioni sono state formate con il consueto sistema delle elezioni e dell’estrazione. Sono nate le solite polemiche, sono partiti i soliti ricorsi. Fra un po' comincerà la stagione delle contrattazioni, delle voci di corridoio, delle lunghe telefonate con qualche scena di disperazione isterica e qualche attacco di delirio di persecuzione o d’onnipotenza. Il nostro sistema di cooptazione nella prima fascia dei professori di ruolo non è né il migliore né il peggiore di questo mondo, certo è comunque molto contestabile. Non solo perché talvolta promuove dei poco meritevoli (il che non sarebbe poi un grosso problema: e comunque accade meno frequentemente di quanto non si sussurri); ma perché soprattutto lascia spesso da parte dei meritevoli, e li lascia frustrati, umiliati, svuotati dalla voglia di continuare a far bene il loro mestiere. Ma il punto che personalmente m’interessa di più è un altro. Oggi il personale universitario è distinto in docenti di ruolo (nelle due fasce degli ordinari e degli associati) e in ricercatori. Lasciamo da parte categorie d’altro genere, che pure vi sono, e teniamo da conto anche la discussione su borsisti e “dottorandi di ricerca”. Il fatto è che a queste categorie, in parte semplificate rispetto al passato, non si è appoggiato un mutamento di mentalità apprezzabilmente effettivo. I docenti associati continuano a schiumar dalla voglia di diventar “baroni”, cioè professori ordinari; e i ricercatori continuano a ritenersi un avatar della vecchia - e simpatica - figura dell’assistente e pertanto, al pari di quanto gli assi101

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stenti facevano, ad aspirare al rango di professore. In tutto questo c’è una buona dose di malinteso e di iniquo conservatorismo disancorato dalla realtà effettiva. Anzitutto, non stiamo a prenderci in giro: anche se continueremo per pigrizia a usare quella parola, i “baroni” non ci sono più. Per esser tali non occorreva soltanto un pizzico d’arrivismo, qualche brandello d’arroganza, una manciatina d’opportunismo e magari un po' di voglia di lavorare. Queste cose le abbiamo anche noi. Attorno ai vecchi baroni c’era un’aria non gratuita e quasi mai ingiustificata di auctoritas, di prestigio, di fair play, anche e soprattutto di alta professionalità. Perfino quando facevano i briganti, sapevano farlo alla grande e con signorilità. I Carnelutti, i Volpe, i Dogliotti erano baroni. Dove li vedete, ora? In fondo, non sono più tali nemmeno i grandi universitari-politici, nemmeno le star del nostro firmamento accademico-culturale; nemmeno, dico, i Galasso e gli Eco, tanto per limitarmi a far nomi di Maestri e Colleghi per i quali nutro stima ed affetto. Figurarsi gli altri. Chi è barone, io? Non fatemi ridere. Stando così le cose, tutto finisce con il ridursi a una peraltro rispettabilissima questione di fasce d’anzianità e quindi di stipendio. Sacrosanta, ma che non giustifica troppo né i gradini formali, né le diversità di trattamento economico oltre un certo segno. E allora che cosa aspettiamo ad arrivare al ruolo unico, al pari dei colleghi della scuola secondaria? Per i ricercatori vale un altro discorso. È indubbio che nell’Università una separazione fra insegnamento e ricerca è improponibile: ma è altrettanto indubbio che, ai livelli di complessità e anche d’impegno che il semplice aggiornamento oggi dovrebbe richiedere, non possiamo credibilmente pretendere che ricerca e insegnamento procedano di pari passo nella stessa persona; né v’è alcuna ragione di ritenere che l’insegnamento sia più decoroso e socialmente utile della ricerca. Ne consegue che la vecchia mentalità secondo la quale i ricercatori desiderano diventare professori è un non-senso, ma anche che ingiuste sono le diversità di trat102

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tamento e di rango, che in fondo dipendono da due sole ragioni: la prima, che i quadri mentali dell’Università sono vecchi, la seconda, che la ricerca non si fa con quel rigore con cui si dovrebbe farla. Ne discende una proposta. Due ruoli unici distinti, di insegnate e di ricercatore. Un unico livello d’impegno di lavoro, poniamo un full time di 400 ore annuali scandite in questo modo: per gli insegnanti, un 65 % di insegnamento e un 25 % di ricerca; per i ricercatori un 65 % di ricerca e un 25 % di insegnamento (la complementarità è indispensabile proprio nella misura in cui insegnamento e ricerca nell’Università sono impensabili se non come complementari). Il comune 10 % residuo dovrebbe essere consacrato all’aggiornamento e allo scambio di esperienze, due territori tabù sia nell’Università sia nella scuola italiana odierna. (29 luglio 1989)

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Asini in pillole

Chissà come andrà - lo dico adesso, alla vigilia della rentrée universitaria - quest’anno, con la pantera. Chissà se il felino avrà fatto i cuccioli, durante la pausa estiva. E chissà se i cuccioli ruggiranno. Come si ricorderà, lo “spontaneo” movimento dello scorso anno scoppiò annunziato e previsto da giornali come L’Espresso. Ora, siccome i movimenti spontanei sono facili a nascere e a svilupparsi esattamente come i fenomeni di combustione che in questa estate hanno distrutto tanti ettari dei nostri boschi, c’è da giurare che, dal momento che fino ad oggi nessun politico e nessun giornalista è stato visto aggirarsi nelle aule universitarie con metaforiche lattine di benzina fra le mani, l’incendio panterico non avrà luogo. Ma sovente i piromani agiscono di nascosto. Quindi niente si può ancora dire. Intanto però, ancora prima che comincino le lezioni e con esse le possibili agitazioni, ci aspetta l’inevitabile scadenza degli esami. È una scadenza che, almeno noi docenti delle facoltà umanistiche, paventiamo. Perché a ogni volger d’anno constatiamo quanto cali, sia di quantità di nozioni sia di qualità, la preparazione dei ragazzi che arrivano all’università. Prendiamo, ad esempio, il campo della storia: un paio di decenni fa, con l’inaugurazione della sciagurata lotta al cosiddetto nozionismo, si avviò un processo poi divenuto inarrestabile di progressiva ignoranza dei fatti della storia. Si disse che essi non erano importanti, perché la cosa fondamentale erano le strutture e le interpretazioni. Ma si ha un bell’essere problematici, quando non si dispone di una scorta di materiale su cui esercitare la propria problematicità. 104

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Da qualche anno, con un movimento che le solite cassandre di turno hanno qualificato di “riflusso”, si è tornati ai fatti: ma a un livello di elementarietà tale da far sembrare il vecchio e famosissimo Bignami un egregio strumento di indagine e ricerca. Capita così - e mi limito al campo della storia medievale - di sentirsi pulitamente dichiarare che alla fine della guerra greco-gotica la situazione della penisola italica era così drammatica che Giustiniano emise nel 553 la Drammatica Sanzione (leggasi l’aggettivo come Pragmatica). E allora anch’io mi sono acconciato all’idea che bisognerà fare dei test scritti, “all’americana”, cedendo qualcosa alla prassi della cultura in pillole. Ma vorrei far entrare un elemento di suspense nei miei test. E allora sto elaborando una serie di domande da porre agli studenti di storia medievale, modellate su un venerabile esempio: i quiz di Come farsi una cultura mostruosa di Paolo Villaggio. Si potrebbero fare esperienze culturali egregie. Diamo qui alcuni esempi. 1. Il Rotary Club è un’istituzione longobarda fondata dal re Rotari? 2. L’escatocollo è una parte del documento medievale oppure un famoso salume piccante calabro-lucano? 3. Il catarifrangente fu, com’è noto, un celebre strumento di tortura elaborato dall’ Inquisizione per stritolare gli eretici catari. Lo dice la parola stessa. Descrivete l’ordigno. 4. E infine: la frase “Sao ke kelle terre per kelle fini ke ki kontene - appartengono tutte al marchese di Carabas” è tratta da un documento cassinese del X secolo o da una fiaba di Perrault? E in che rapporti di parentela stava l’imperatore Barbarossa con Barbablù? E con Barbapapà? (13 ottobre 1990)

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7. LIMBO DELL’INFORMAZIONE

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Il di più agli imbecilli

L’attuale offerta d’informazione unita al bisogno-dovere che si ha d’informarsi, sta toccando livelli funzionalmente e forse anche eticamente improponibili. Lasciamo fare le due- tre ore che, per sapere adeguatamente in che mondo viviamo, ciascuno di noi dovrebbe passare leggendo la stampa, ascoltando la radio e guardando i telegiornali. C’è poi l’informazione giudiridica: l’ignoranza della legge non è ammessa, ma ormai la giungla amministrativa e finanziaria è così fitta che dovremmo partecipare tutti a corsi d’aggiornamento quotidiano o girare con il consulente amministrativo accanto e il civilista sul sedile posteriore dell’auto. Infine c’è l’informazione spicciola: non dico certo quella di Novella 2000, ma quella de l’Espresso o di Panorama in fondo, e in linea di principio, sì. Ebbene? È proprio lì che sta il tarlo. Io non posso - e anche se potessi, mi rifiuterei di farlo - immagazzinare settimanalmente quelle tonnellate di notizie, di avvertimenti, di rivelazioni, di scandali conoscendo i quali per altro, e lo so bene, sarei meglio tutelato come cittadino e farei più efficacemente il mio mestiere come storico e come insegnante. Ma confesso che quelle migliaia di nomi italiani e stranieri fra politici, intellettuali, sportivi, attori, ecclesiastici, rivoluzionari, rock stars, free lances, inventori, terroristi (fra pentiti e no), bancarottieri fraudolenti o meno, play boys o play girls (in omaggio all’uguaglianza fra i sessi), non riescono a restarmi in testa; non riesco a decifrare tutte le sigle nazionali e internazionali che dovrei. E allora? Staccare la spina? Bandire la crociata per un’informazione più seria? Non stiamo a prenderci in giro. Ne deriva la necessità di organizzare il samizdat della società dei 109

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consumi. Interrogatevi su quel che vi serve, su quel che ritenete essenziale. Leggete, guardate, ascoltate, ricordate quello: e, per il resto, acquistate il consapevole orgoglio della vostra ignoranza. Non cedete al ricatto di chi vi vorrebbe straricchi di sapere inutile per farvi dimenticar quel che bisogna avere invece sempre di continuo presente. Cercate l’essenziale e regalate il superfluo agli imbecilli.

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(23 Agosto 1988)

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Attenti a chi ci informa

Ve le siete già dimenticate le magiche notti della Guerra del Golfo? Io no: i fanatici saddamisti hanno la memoria lunga. Io ricordo benissimo i poveri volatili che morivano inzuppati del petrolio scaricato in mare dallo Hitler irakeno, e che poi si rivelarono essere volatili baltici (già: Pressappoco, come dice il dotto Onofrio Pirrotta). Ricordo le striscie di luce verde, quasi un sogno; e il caleidoscopio di lampi bianchi e rosati. S’è saputo (ma ce l’hanno detto a mezza bocca) che lì sotto la gente moriva sul serio, e che abbiamo continuato ad ammazzarla anche dopo. Ad ammazzarla con l’embargo. E ve li siete dimenticati i poveri curdi? Finché a farli a pezzettini era Saddam, alla nostra TV erano curdi sei volte al dì; sparisce la necessità di lapidare il truce irakeno e spariscono anche le miserie dei curdi, come se sui loro accampamenti si fosse messa a nevicar la manna. Ora, se voi vi accontentate quando vi dicono che ormai siamo nel villaggio tecnologico dove tutti sanno tutto di tutti e che questo ha finalmente adempito al sacrosanto diritto d’informazione che è uno dei diritti del genere umano, amici come prima e buon pro vi faccia. Ma, se vi state per caso domandando fino a che punto l’iperinformazione selvaggia che ci bombarda sia selezionata e diretta, e chi la selezioni e la diriga, e perché, allora è bene che impariate a guardar dietro al tubo catodico della TV e a leggere fra le righe dei giornali. Questo è l’unico tipo di dietrologia necessaria, che bisogna imparar a fare sistematicamente se non si vuole essere presi per il naso. Attualmente, una delle grandi signore delle nostre notizie è la bella organizzazione dalla testa statunitense e dal corpo disseminato 111

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in tutto il globo che risponde al nome di Cable News Network, in sigla CNN. La sua magia ci ha deliziato ai tempi della gloriosa impresa contro Saddam; e le avventure del suo padre-padrone, Ted Turner, hanno riempito di lacrimosi articoli i giornali della nostra cara Italia da quando si è saputo che il povero mister Turner e la di lui consorte, la splendida e liberal Jane Fonda, non avendo prole si rivolgeranno alla fecondazione “in provetta” nella bella cornice romana offerta loro dal centro “Rapru”. Un tempo guerrigliera indefessa di tutte le cause umanitarie e oggi sacerdotessa dell’aerobica, la bella e famosa Jane è difatti consorte del padrone della CNN. Magari è un caso: ma mi sembra un caso comunque emblematico. Il pensiero iperpacifistico e iperecologistico liberal nato negli Stati Uniti degli Anni Sessanta e del quale Jane Fonda e Joan Baez sono state popolari interpreti è in apparenza quello che più si è opposto al disegno d’egemonia statunitense sul mondo. Eppure - paradosso - questo pensiero si è tradotto in un colossale giro d’affari e di cultura: un business alla radice del quale c’è l’utopia del progresso e del benessere illimitati accompagnati da una rifondazione etica del genere umano e da un rinnovato patto di pace e d’amore nel creato. Di quest’utopia, ormai tradotta nella storiella della “fine della storia” divulgata da Francis Fukuyama, si nutre il messaggio full time, 24 ore su 24, della CNN, che trasmette, che elabora, manipola e ricicla notizie da tutto il mondo. Attraverso la psicanalisi prima, l’ecopacifismo di Jane Fonda poi, mister Turner si è convertito all’irenismo universale e lo propaganda instancabilmente via etere, facendoci anche soldi a palate. La CNN è il pulpito dal quale si predica l’etica dell’amore immanente di tutte le creature e che costituisce la faccia “religiosa” del nuovo ordine mondiale. Sappiatelo. (*)

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Il delitto d’opinione

Non credo ai miei occhi. Eppure il testo di legge è lì, chiaro e inequivocabile: è scritto in un francese abbastanza semplice, e debbo quindi persuadermi di non aver equivocato traducendo. Si tratta di una legge francese, la n. 90-615 del 13 Luglio 1990, che al suo titolo II, relativo a Modifiche della legge del 29 luglio 1881 sulla libertà di stampa, recita testualmente il suo articolo 24 bis: “Saranno puniti con le pene previste dall’articolo 24... coloro che avranno contestato... l’esistenza di uno o più crimini contro l’umanità quali essi sono definiti dall’articolo 6 dello statuto del tribunale militare internazionale ammesso all’accordo di Londra dell’8 Agosto 1945 e che siano stati commessi sia da un’organizzazione dichiarata criminale in applicazione all’articolo 9 del suddetto statuto, sia da una persona riconosciuta colpevole di tali crimini da una giurisdizione francese o internazionale”. Le ragioni prossime o remote di questa legge possono anche esser chiare. La Francia è la patria di una costante tradizione revisionistica in materia di crimini di guerra nazisti: addirittura sono francesi i più drastici tentativi di ridimensionare quei crimini. Basterà qui richiamare l’attività pubblicistica di un Rassinier o di un Faurisson, precipitosamente messe a tacere. A ciò si aggiungano le costanti preoccupazioni per possibili rinascite razziste in connessione con la polemica contro gli immigrati extracomunitari e il fenomeno del Front National di Jean-Marie Le Pen, che per la verità - d’altronde - sembra incarnare più un pujiadismo xenofobo alquanto becero che non un vero e proprio razzismo. Personalmente non ho alcuna simpatia per il signor Le Pen e non credo affatto che egli costituisca un pericolo per la democrazia francese; semmai il suo successo è un sintomo fra i tanti della cri113

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si che oggi sta attraversando l’intero Occidente. La xenofobia va battuta con gli strumenti della cultura e della ragione nonché - si badi- con opportune norme che disciplinino l’afflusso degli immigrati e che tutelino tanto questi quanto i cittadini dei paesi che li ospitano. Impedire a Le Pen di parlare, come si è tentato di fare (arrivando addirittura al non-senso di protestare contro “Le Monde” che, il 18 Settembre scorso, gli ha consentito di esporre le sue ragioni), è una misura liberticida che ripugna agli spiriti liberi e che oltretutto dà a lui una patente di vittima che elettoralmente parlando non potrà non giovargli nelle elezioni regionali del 1992. Ma non è ancora questo il punto. La cosa grave è la legge del luglio 1990: è aberrante fissare per legge un “cànone” storico, è criminale proporre un dettato giuridico che, almeno nella sua forma, mette sullo stesso piano le manipolazioni arbitrarie della realtà e qualunque studio storico che ben potrebbe, un domani, dimostrare che quel che finora è stato ritenuto la realtà era, in effetti sbagliato o falsificato. Non si può proclamare l’intangibilità della storia per decreto legge. Sembra sul serio un brutto sogno esser costretti nel nostro Occidente, fondato sui valori della libertà e della tolleranza, a ricordare - mentre altrove, nel mondo, le tirannie volano in pezzi - che nessuno ha diritto a stabilire la verità per decreto legge. (*)

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Del complotto universale e di altre divertenti stupidaggini

“Si trova sempre un coglione in Italia che dice: qui c’è di mezzo Gelli”. Caro, bravo, insolente, insostituibile Montanelli: se non ci fossi tu a cantargliela in fucecchiese, a questi bischeracci, chi lo farebbe? È vero, nelle recenti polemiche a proposito dell’Irpinia- gate e di quella maldestra uscita in Parlamento di quel tizio del quale adesso non ricordo il nome a proposito di Gelli e della P2, si poteva essere anche più cortesi. Lo è stato da gran signore come sua abitudine, l’amico Massimo Teodori: “La P2, come unica responsabile di complotti e di misfatti, è invocata quando con menzogna si vuole coprire il marcio”. Che poi rappresenta la perfetta teorizzazione della metodologia della disinformazione: a chi ci accusa di una cosa vera, si risponde accusandolo a nostra volta di cose che magari sono false, e che oltretutto non c’entrano nulla. Sarebbe come se uno mi desse del ladro, e io gli rispondessi “zitto tu che tua moglie ti fa le corna”: che, anche se fosse vero, non avrebbe a che fare con la questione della mia onestà. Anche perché, fino a prova contraria, esser ladri è reato, esser becchi no. Eppure la questione non va sottovalutata. A qualche settimana di distanza dall’accaduto, continuo a ritenere che nella manovra ci fosse molto di seriamente premeditato. E che essa fosse maldestra sì - e per fortuna!... - ma ingenua no davvero. Ad esempio, tutti hanno notato che l’Espresso - e quel che succede su quelle pagine, di solito, ha un significato preciso - nel numero del 18 dicembre 1988 prendeva a solennissimi pesci in faccia gli autori della tentata manovra diversiva sull’Irpinia-gate: ma pochi si sono ricordati che due settimane prima, il 4, quello stesso settimanale, in un articolo firmato da Roberto Chiodi e dal 115

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significativo titolo Rieccoli!, aveva dato man forte all’allora appena sfornata teoria del complotto tesa a screditare gli accusatori di tutta l’Avellino-story. Precipitosa marcia indietro o ritirata tattica, la faccenda ha una sua logica. E la dice lunga su un certo costume nell’informazione. Del resto, la tattica è vecchia; e riposa su un’antichissima e sempre ricorrente arte che consiste nel far girare “a volo radente” le più impensate e impensabili panzane del mondo, accusando sempre e non provando mai, finché divengano patrimonio collettivo. Le storielle che i soldati si bevevano al fronte durante la prima guerra mondiale, ad esempio, furono indagate addirittura da Marc Bloch e da padre Agostino Gemelli. Nel suo saggio Le voci che corrono (Longanesi), Jean-Michel Kapferer ha fatto collezione delle balle più enormi che, a forza di circolare senza essere verificate, divengono per la gente realtà indiscutibile; e Jan Harold Brunvand, nell’esilarante Leggende metropolitane (Costa e Noland), ha riportato altre dicerie incredibili e immediatamente, inconcussibilmente credute. Tutte “nate per caso”? Le varie teorie del Complotto nascono di lì. Dallo stesso sottosuolo emergono le calunnie che - come la goccia che scava la pietra - poco a poco minano intere società. Come le infamie sparse alla vigilia della rivoluzione francese sulla famiglia regnante (Maria Antonietta non ha mai detto “che mangino brioches” dei poveri affamati: è una storiella già raccontata da Rousseau nel VI libro delle Confessions); come le vergogne raccontate sugli infanticidi rituali perpetrati dagli ebrei, o sulle “congiure gesuitiche”, o sui massoni ai cui riti avrebbe presenziato il diavolo in persona. Lo stesso pavimento delle rivoluzioni è tappezzato di balle del genere. Ma le cose hanno una loro perentorietà. Ai primi del III secolo la martire cartaginese Perpetua diceva al padre pagano, venuto a trovarla in cella per convincerla a rinnegare la fede: “Vedi quella brocca? È una brocca e nient’altro. Allo stesso modo, io sono una cristiana e non posso essere nient’altro”. 116

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Appunto: contro qualsiasi “slittamento di senso”, una brocca è una brocca, un cristiano un cristiano. E un ladro è un ladro: e non c’è Gelli né P2 che tengano.

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8. LIMBO DELLE IDEOLOGIE

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E io grido viva Stalin

Ormai non ne posso più. Striscio appiattito ai muri, mi faccio piccolo piccolo, finirò col travestirmi e con l’uscire soltanto di notte. Qualunque cosa sopporterei, ma non questo. I don’t stand it, come dice Charlie Brown. Ho passato l’adolescenza e parte della prima giovinezza a sfuggire gli amici comunisti o intellettuali di sinistra (quelli che oggi si definirebbero liberal) i quali non perdevano occasione per catechizzarmi sui misfatti della Chiesa cattolica che, notoriamente, ha voluto le crociate e ha bruciato le streghe. I sullodati amici passarono poi a redarguire il mio filogermanesimo storico-culturale rinfacciandomi i crimini nazisti (cosa questa d’una logica pari a quella di chi ti volesse convincere a non mangiar più funghi perché ce ne sono delle specie velenose), e completarono l’opera rimproverandomi perché mi ostinavo a ritenere che non tutto nella storia dell’Occidente fosse vergogna e orrore. Per soprammercato, di recente mi sono preso anche del torturatore di povere bestioline indifese perché una volta ho osato sostenere che la corrida ha i suoi valori culturali e che per Pasqua non è poi così criminale mangiare un po’ d’agnello. Ho sopportato tutto ciò con stoica dignità. Ora però debbo nascondermi perché i miei amici comunisti e soprattutto liberal m’inseguono per rendermi edotto delle ultime scoperte circa gli efferati crimini di Stalin. E lo fanno con durezza, con violenza, con una sorta di risentimento personale come se fosse colpa mia. Eppure mi ricordo bene di quando anni fa a me che raccontavo cose molto meno cruente replicavano sprezzanti che era tutta propaganda fascista. Bene: non ci sto. E per almeno due buone ragioni. 121

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Primo. Stalin non era certo solo a commettere i suoi crimini. La storia della sua mostruosa crudeltà è in effetti una riedizione furbastra del culto delle personalità: sbatti il tiranno georgiano in prima pagina, le mani lorde di sangue come nei manifesti di Boccasile, e farai dimenticare tutti quelli che per fanatismo, per viltà, per tornaconto, gli andarono dietro e magari nel suo nome fecero cose ancor peggiori di quanto egli non avesse voluto. Ma i Kruscev e un quarto di secolo dopo i Gorbacev che tanto duramente ne hanno attaccato la memoria non sono forse stati a suo tempo creature sue o del sistema che egli aveva creato? Togliete dal sistema sovietico Stalin e che cosa ne rimane? Secondo. Alcuni comunisti e molti liberal, in abituale combutta, con la scusa dell’antistalinismo stanno legittimando l’idea, già radicata in taluni paesi occidentali, che stalinismo e comunismo siano due cose diverse, anzi magari addirittura antitetiche e che quindi i comunisti siano stati per anni non già i seguaci e gli esecutori materiali, bensì le vittime di Stalin. Non a caso stiamo ormai abituandoci a un’equazione infame e cretina, che tende a porre sullo stesso piano i kulaki, ammazzati come bestie perché avevano un orticello e qualche maialino, oppure i deportati a centinaia di migliaia da una parte, e le vittime delle “purghe” dall’altra: dimenticando che da un lato si è dinanzi a vittime innocenti della tirannide, dall’altra ad avversari politici che avevano perso la corsa al potere nell’implacabile gioco alla selezione su cui poggiava il ricambio della classe dirigente bolscevica. E che talora non erano migliori di Stalin. In questo modo comunisti e liberal continuano ad assicurare al comunismo un occhio di riguardo. Qua in Occidente la libertà non ci basta mai, e non esitiamo a vedere la repressione dietro ogni carabiniere che ci chiede i documenti; ma, quando giudichiamo l’URSS, l’immagine televisiva di una manifestazione di trenta studenti con due cartellucci e una chitarra che manifestano circondati da miliziani basta a mandarci in sollucchero e a farci gridare alla glasnost, alla perestroika, al di122

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sgelo. Eppure, di tutta questa glasnost, fin’ora non ci sono arrivate che chiacchere e promesse: insieme con concrete richieste di aiuti economici. Intanto, nell’Accademia che vanta tanti estimatori del nuovo corso, ogni tanto arrivano ospiti dei colleghi sovietici. Non riescono sempre a giungere in Occidente: capita che il loro illuminato governo rifiuti loro il passaporto. Quando ci vengono, questi rappresentanti dell’alta cultura della prima potenza militare del mondo (e si tratta spesso di persone davvero di prim’ordine) non hanno neppure di che mantenersi onorevolmente all’estero, e noi ci dobbiamo tassare a vicenda per offrir loro i pasti. Sarebbe questa la perestroika, la “riforma”? Viva Stalin, allora, affeddiddio! Lui si che sapeva trattarvi come vi meritate, riformisti della malora! (10 Dicembre 1988)

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Io son fatto così...

Direi che vi interesso, cari amici del Sabato. Ricevo un sacco di lettere a ogni “Terzapagina”. Cerco di rispondere a tutte, magari solo due righe ma sempre e comunque: salvo naturalmente agli anonimi e ai provocatori sciocchi (per i provocatori intelligenti, invece, ho sempre avuto un debole). Quando l’interlocutore tocca grossi problemi, rispondo pubblicamente su queste righe. Ma non direi che vi piaccio. Mi arrivano, sì, missive piene d’elogi e di congratulazioni: la massima parte, però, sono di dissenso o di protesta. Per alcuni sono un maledetto reazionario e per altri uno sporco filocomunista: chi mi accusa di essere “integralista” e chi mi rimprovera il mio patologico “laicismo”; qualcuno mi ha anche dato del corsaro ideologico, del terrorista intellettuale. Grazie a Dio, quasi tutti dicono di distinguere fra lo storico, che è un bravo professionista, e il pubblicista, che è un carognone. Tra queste contumelie, alcune mi fanno un po’ rabbia, altre mi divertono, altre ancora - ebbene sì - mi lusingano, alcune infine mi fanno pensare. Come quelle di un professore di un liceo lombardo che non desidera esser nominato (gli risponderò più a lungo privatamente), ma che mi scopre qualche altarino. “Insomma” mi dice “trovo insensato che un giornale di cattolici le dia tanto spazio. I suoi maîtres-à-penser, come lei stesso riconosce, sono Hobbes, De Maistre, Schmitt: e lei legge questi pensatori reazionari in una chiave nichilista che mi preoccupa. Non a caso, ogni tanto fra le sue righe rispunta Heidegger. Insomma, lei è intellettualmente cattolico e spiritualmente ateo: perfino il suo Francesco d’Assisi è come lei, un po’ Bakunin e un po’ von Salomon. Dica la verità: a lei interessa la cristianità, del cristianesimo non gliene importa niente”. 124

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Caro amico, lei è uomo colto: ma soprattutto intelligente. Direi che in quel che dice vi è molto di vero. Ma lei mi sfida a percentualizzare la mia fede, a declinarne gli ingredienti come si fa con i prodotti farmaceutici. E, un po’ per gioco un po’ no, la servo subito. C’è anzi tutto un 20 per cento di paura - del futuro, dell’ignoto, del nulla (rieccolo Heidegger!)... - e, insieme, di speranza: “Fede è sustanza di cose sperate”. La seconda a far d’antidoto esistenziale alla prima. Poi un bel 20 per cento di tradizione, di consuetudine: il bel cristianesimo pulito di mia nonna, gregoriano e preconciliare, forse poco “sociale” ma tanto caritatevole. Inoltre, un 20 per cento di estetica. Eh sì, che vuol che le dica, la cristianità è bella, forte, vigorosa; rutila di colori come le insegne dei paladini della Chanson de Roland e le vetrate di Chartres. E io l’amo. Un altro 20 per cento va assegnato - in questo mondo che si sta desacralizzando - alla voglia di scandalizzare. Esser cattolici in quanto bastiancontrari, gente che va controcorrente. Che vuole, noi toscani siam fatti così. Forse, al tempo dell’Inquisizione sarei stato eretico (o libertino: adoro il marchese De Sade). E vogliamo darlo un 19 per cento alla scommessa, al richiamo dei cieli e degli abbissi, al mistero, alla tenebra scintillante dalla quale escono i miracoli e gli orrori? Rimane, mio caro amico, un piccolo, spaurito 1 per cento. E quello è il mio tesoro, la gemma della mia camera segreta. Non amo esibirlo e non ne parlo quasi mai. Spero soltanto che quello sia il granello di senape, il seme che fa muovere le montagne. (13 Gennaio 1990)

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Lettera a un amico comunista

Carissimo, lascia anzitutto che ti esprima tutta la mia simpatia e la mia solidarietà: sai che sono sincere e assolutamente prive d’ironia. Tu appartieni - e lo riconosco volentieri, al di là dei nostri personali rapporti di amicizia - alla categoria più simpatica fra quelli che aderiscono alle tue idee politiche e che militano nel più grande fra i partiti italiani che le professano. Non rientri nella (chissà quanto davvero sparuta) schiera dei fanatici che ritengono - anche se di questi tempi non osano confessarlo a voce alta - che il trionfo dell’idea possa passar sopra a cumuli di cadaveri. Non sei di quelli che si sono pianti addosso sventolando le loro patetiche buone intenzioni (l’uggia del “dove abbiamo sbagliato”), né entri nel nòvero delle professoresse che si sono trincerate dietro i giochi di bussolotti lessicali dichiarando - ad esempio - che il governo comunista cinese, quello degli assassini della Tienanmen, è in realtà un governo di “fascisti”, per cui i veri comunisti dei tragici fatti di Pechino sono tutti e soltanto dalla parte delle vittime. Infine - ed è questa la cosa che più gradisco - tu non hai nulla a che fare col branco dei topolini che saltano dalla nave che affonda: al contrario, ti assumi coraggiosamente le tue responsabilità mentre assisti al naufragio di tutti gli esperimenti di “socialismo reale” e, pur non chiudendo gli occhi dinanzi a quel naufragio, rivendichi nonostante tutto con orgoglio quella qualifica di comunista che per anni hai portato in buona fede, onestamente, dignitosamente. Per la tua cultura e la tua intelligenza avresti potuto ricavare molti vantaggi politici e professionali dalla tua militanza, quando ciò era possibile (lo è stato a lungo, e lo è ancora): non lo hai fatto e per questo ti rendo onore. 126

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Lascia però che ti inviti a riflettere bene su quel che oggi sta avvenendo un po’ in tutta Europa e soprattutto in Italia, ormai l’unico paese nell’intero Occidente in cui ancora esista un forte partito comunista. Tu sei indignato di fronte all’ipotesi di cambiar nome a quel partito, di ammainare una bandiera che ritieni gloriosa. Se fossi comunista, la penserei esattamente come te. Tu pensi che il naufragio storico-politico di esperienze delle quali tu non ti senti responsabile e delle quali sei sempre stato (e posso testimoniarlo) spettatore critico e scontento, talora allarmato alludo a vari comunismi “reali”, con la loro disastrosa economia, i loro regimi polizieschi e militaristi, le stragi delle quali si sono resi responsabili -, non possa direttamente e immediatamente venir ascritto al comunismo come idea, come tensione politica e morale, come ansia di giustizia e di riscatto dei socialmente deboli. In fondo - rifletti - non erano comunisti gli stessi studenti della piazza Tienanmen, che si sono fatti massacrare agitando bandiere rosse e cantando l’ “Internazionale”? Non chiedevano forse non già di uscire dal sistema socialista, bensì di eliminarne le contraddizioni, prima fra tutte quella corruzione esito almeno in gran parte della liberalizzazione economica e dell’introduzione sia pur condizionata In Cina dell’economia di mercato (espedienti comunque resi necessari proprio dal fallimento del comunismo)? Sarebbe probabilmente facile risponderti che, dopo decenni di regime comunista e con l’esperienza delle violenze della Rivoluzione Culturale alle spalle, dev’essere molto difficile in Cina, specie per un giovane, concepire in maniera articolata un mondo differente da quello comunista; e comunque impossibile al momento far ricorso a tesi alternative. Se gli studenti pechinesi sono stati massacrati pur protestando la loro fedeltà agli ideali comunisti (anche se c’era quel particolare della statua della libertà...), ti immagini cosa sarebbe accaduto se si fossero proclamati oppositori del regime? Ma il punto non è questo. Il fatto è che il mondo comunista uf127

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ficiale, in tutti i paesi nei quali un regime comunista è al potere (e non solo nell’ormai squallida Cuba castrista, ma anche nell’Unione Sovietica pur piena di fermenti e di buone intenzioni: o almeno così sembra), ha reagito alla tragedia con il solito plumbeo paludamento, o parlando ipocritamente di “questioni interne cinesi” (a questo punto, perché non definire le repressioni di Pinochet una “questione interna cilena”) oppure calunniando come “teppisti” gli studenti ammazzati. E il partito, nel quale tu militi ancora, poco di credibile ha fatto per prendere le distanze da questi orrori e da queste ipocrisie. Tu osservi che nell’attuale scatenarsi di molteplici forme di anticomunismo, e nel tentativo di considerare tutti coloro che comunisti si dichiarano corresponsabili delle infamie cinesi e del fallimento sovietico, vi è molto di strumentale e di “sciacallesco”. Siamo d’accordo: ma, in questo senso il tuo partito ha fatto pluridecennale scuola. Non era forse strumentale e sciacallesco accusare in blocco le forze cosiddette “borghesi” di tutti i crimini commessi dagli americani in Vietnam e dai gorilas in America Latina? Non era forse strumentale e sciacallesco far carico in blocco all’Occidente e alle democrazie parlamentari della tragedia dei palestinesi? O prendersela con la Chiesa per tutte le sue (effettive) incertezze e compromissioni? Non era forse strumentale e sciacallesco guidare l’emarginazione, nelle scuole, di tutti i ragazzi di destra (e talora anche il loro linciaggio, non sempre soltanto morale) facendoli sulla base delle loro posizioni politiche immediatamente corresponsabili di Auschwitz, anche se erano nati ventanni dopo la scomparsa del nazismo? Ecco: infondo io faccio carico al tuo partito di non saper “incassare”. Per anni ha sostenuto, non senza arroganza, il ruolo dell’accusatore e del moralizzatore. Adesso si scandalizza se le sue contraddizioni e i suoi torti vengono evidenziati, non più di quanto del resto non si faccia con tutte le altre forze politiche. Ma a te, che conosci bene la storia, domando: era proprio necessario che i nodi venissero così drammaticamente al pettine per lasciarsi assalire all’ultim’ ora da dubbi e da turbamenti? I crimini di Stalin, i 128

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gulag, le repressioni, erano cose ben note: eppure fino all’ultimo gli esponenti del tuo partito hanno continuato a negarle, a visitare la capitale della tirannide, a chiamare “compagni” i membri della sua classe dirigente. E a chiamar provocatore chi denunziava il loro atteggiamento. Non ti pare un po’ comodo prendere solo ora le distanze da tutto ciò, e a parole per giunta? Ma ove poi quelle distanze fossero prese anche in modo più concreto e più duro, lasciami dire che non ne sarei ancora soddisfatto. I dirigenti comunisti sembrano aver scoperto ormai il pensiero “borghese-illuminato”. Arrivano buoni ultimi, in Occidente, a tale scoperta; e qualcuno di loro non sta più nella pelle dalla voglia di barattare con essa l’intero bagaglio dell’esperienza comunista. E allora io mi chiedo se valeva davvero la pena di tante lacrime, tanto sangue, tante sofferenze per giungere a questo; e mi domando che razza di comunisti siano mai questi figuri che barattano la primogenitura dei loro ideali e delle loro illusioni col piatto di lenticchie dell’economia di mercato e di un posticino riconosciuto nell’arco della “sinistra europea”. È per approdare a questa tardiva apologia dei consumi e delle discutibili realizzazioni dell’Occidente ammalato di un materialismo più grave e grossolano di quello comunista, che tanti tuoi compagni sono così ansiosi di gettare alle ortiche il mito dell’Uomo Nuovo? Ora che tutto sembra finito, io mi sorprendo a riflettere che quell’impossibile Uomo Nuovo comunista - vincitore degli egoismi, delle invidie individuali, dello spirito di sopraffazione economica - era senza dubbio improponibile come realizzazione di un sistema che volesse imporlo a colpi di stalinismo, di burocrazia e di campi di concentramento: ma era pur sempre un’utopia stranamente simile al progetto cristiano. Ora che, da Mosca a Pechino, quell’illusione va naufragando, sulle sue ceneri canta forte il gallo della spocchia liberista, dell’arroganza efficentistica e affaristica, dello yuppismo internazionale dove tutto è benessere, successo, corsa al denaro, e dove la povertà e le sofferenze non hanno più voce. No, questo mondo non è il mio: e io, reazionario e insospettabile di simpatie 129

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rosse, preferisco sentirmi “vinto” insieme con quelli come te piuttosto che vincitore insieme con quanti hanno finora odiato il comunismo “reale” non per i suoi crimini contro l’umanità, ma semplicemente perché non riusciva a riempire le vetrine dei negozi e ad assicurare ai suoi sudditi la quindicesima mensilità e le vacanze alle Mauritius.

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(22 Luglio 1989)

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La guerra dei pacifisti

Com’è noto, io non sono un pacifista: anzi, mi vanto di non aver mai partecipato in vita mia ad una marcia della pace e di essermi al contrario dedicato allo studio della cultura della guerra. E non sono pacifista perché so bene che il pacifismo è una trappola ideologica per ingenui che non ha nulla a che vedere con la pace alla quale anelano gli uomini di buona volontà. Poiché, beninteso, mi sforzo di essere un uomo pacifico e spero profondamente nella pace. Ma sono ben convinto che essa può essere un valore primario finché si vuole, ma non deve mai essere assoluto. Anche perché c’è pace e pace: e non tutte sono buone. Una pace senza giustizia non è pace. Una pace che nasca dall’arroganza di alcuni e dalla debolezza di altri non è buona. Una pace intesa come mancanza di guerra guerreggiata e di violenza esercitata ma che riposi sulla paura e sull’ipocrisia non è buona. Io continuo a credere con Agostino che la pace si possa definire tranquillitas ordinis e che possano darsi delle guerre giuste (nel senso di guerre legittime); e continuo a ritenere saggia l’endiadi romana iustitia et pax, dove i due termini del discorso vanno posti in quest’ordine d’importanza. Insomma credo con Raymond Aron che si debba “pensare la guerra”, che sia assurdo e criminale non farlo e che il farlo ci ponga al riparo da brutte sorprese. E credo perfino che le armi servano alla tutela della pace e a dissuadere i malintenzionati dalle aggressioni. Con queste idee ovvie, banali, di comune buon senso, mi sono trovato per lunghi anni gettato nell’inferno degli imperialisti e dei guerrafondai da una legione di petulanti intellettuali cattolici e 131

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laici i quali sgranavano il loro rosario pacifista. Anche buona parte della Chiesa postconciliare stava con loro e ripeteva i loro insopportabili luoghi comuni. Fin qui, d’accordo. Il fatto è - mi ripetevo con Stenterello, la maschera fiorentina - che bisognerebbe mettere la tassa sulle bischerate, per far star zitta certa gente. Ma ora è troppo. Qui mi si scavalca a destra. E io non sopporto di essere scavalcato a destra nemmeno da Massimo Fini (il quale ha scritto un Elogio della guerra). Dichiaro inammissibile, dopo anni di petulante e belante catto-pacifismo, che sua eccellenza il vescovo di Lione si metta ora a parlare di onore e di giustizia, e che Gianni Baget Bozzo gli tenga bordone su Repubblica affermando a proposito della crisi del Golfo (eccoci al punto!) che “se questa occasione di affermare il legittimo uso della forza andrà perduta, non rimarrà nel Vicino Oriente altro che la via della guerra totale e illegittima, della violenza contro la violenza”. Ohé, Tartarini scopritori d’acqua calda, dove eravate quando i carri armati sovietici schiacciavano la libertà ungherese, dove vi eravate cacciati quando gli elicotteri dell’Armata Rossa massacravano gli eroici montanari afghani, dove vi eravate rintanati a spaccare il capello in quattro mentre dalla Palestina all’America Latina il mondo grondava violenza e ingiustizia? E vi risvegliate adesso, ai venti di guerra che soffiano dalla Casa Bianca? Dov’era il vostro vigile e bellicoso senso di giustizia quando dal Libano si alzavano voci disperate - ora messe per sempre a tacere, e sappiamo in che modo - dinanzi alle quali l’Occidente restava sordo? Prima distinguevate paci buone e paci cattive seguendo le veline del Cremlino e delle Botteghe Oscure; e ora, Tartarini voltabandiera, giù a pecoroni davanti all’ “armiamoci e partite” del malinconico Bush? Eh no, monsignor vescovo di Lione. Se la faccia da solo, la sua guerra pelosa in difesa del petrolio saudita e texano. (1 Dicembre 1990)

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La mia prima volta col Pds

Sei matto. Non hai un filo di coerenza. Sei un provocatore. Questi sono i frutti - taluni anche telefonici ed epistolari - per aver commesso a breve distanza di tempo due delitti che la maggioranza (purtroppo non più silenziosa) del nostro felice Paese giudica eguali e contrari, ed entrambi abietti. Difatti, nel giro di pochi giorni, ho per ben due volte scandalizzato il popolo di Tivulandia: prima spandendo notizie false e tendenziose sui cristiani che in Israele starebbero diminuendo (mentre, assicura da Tg2-Pegaso, il dotto Onofrio Pirrotta, sono magicamente aumentati, dal ‘48 ad oggi, del 400 per cento), quindi firmando a ruota due manifesti, quello di Montanelli e soci di solidarietà ai nostri soldati nel Golfo e quindi quello di un gruppo di docenti di storia fiorentini, quasi tutti Pci (leggasi Pds) e pacifisti, contro la guerra. Mi pare fosse Papini a dire che la coerenza è la virtù degli imbecilli; ad ogni modo, ho avuto difficoltà a spiegare ad alcuni miei inviperiti interlocutori che un conto è solidarizzare con i connazionali che fanno il loro dovere in quanto eseguono ordini legittimamente impartiti e così facendo rischiano la pelle per tutti, un conto è essere d’accordo con chi a rischiar la pelle li ha spediti. E io solidarizzo toto corde con i primi, li ammiro e vorrei essere con loro; ma la guerra che combattono non mi piace e non mi va che la combattano. Mi pare che i maestri dell’antifascismo più serio e cosciente ci abbiano insegnato proprio questo fra ‘40 e ‘43, alla faccia di alcuni cialtroni che da comodi rifugi giocavano ai fuoriusciti e invocavano i bombardamenti a tappeto sul loro Paese e sulla loro gente. Così, ho firmato un manifesto con i comunisti e i pacifisti della 133

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mia città, e mi sono preso dell’utile idiota e del voltagabbana. Non sono affatto la seconda cosa e non me ne frega nulla di essere la prima. Io aderisco a una buffa setta religiosa fondata un paio di millenni fa da un ebreo eretico e che ha avuto un certo successo fino a un paio di secoli fa, ma che oggi è in via di liquidazione. Oltre a insegnare assurdità come la transubstanziazione, la resurrezione dei corpi e la verginità d’una ragazzina di Nazareth (terra come tutti sanno di pericolosi terroristi palestinesi), quella setta obbliga i suoi per altro pavidi adepti a dire “sì-sì, no-no” senza guardare in faccia a nessuno. E così, dicendo con alcuni amici e colleghi comunisti e pacifisti io, noto guerrafondaio - che la guerra nel Golfo è un’avventura senza ritorno, che è una cosa sporca, che bisogna farla smettere subito senza tante storie, io faccio il gioco del Pds, di padre Balducci o addirittura - che Dio mi perdoni - di Marco Boato? Bene: sia pure. Ma il fatto è che anzitutto faccio il gioco di quel che penso e di quel che in perfetta buona fede credo sia la verità. Quel tipo di gioco sarei disposto a farlo anche con Woody Allen, con Pino Rauti, con i fratelli Marx e con i fratelli Engels. E ricatti del tipo fai-questo-allora-sei-quest’altro, mi dispiace ma non ne accetto. Del resto, io non sono nelle acque peggiori. Molto più cupe e agitate delle mie sono quelle della decina di ardimentosi colleghi (e colleghe) fiorentini, gente di specchiata e collaudata fede di sinistra, che s’è trovata a firmare un manifesto con me e che quindi è stata accusata di aver accettato una “compagnia inquinante”. Perché io sarei un inquinatore al pari di Saddam che notoriamente riversa petrolio nelle limpide acque del Golfo. E che sia stato Saddam è evidente, anche se non ce ne sono prove e se anzi qualche indizio suggerirebbe il contrario. Ma c’è lì pronto il sillogismo a dimostrarlo: chi versa il petrolio in acqua è un criminale, Saddam è un criminale quindi il petrolio l’ha versato lui. Tommaso d’Aquino e Cartesio troverebbero che il sillogismo in questione è difettoso. 134

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Ma il generale Schwarzkopf richiesto di parere su Tommaso e Cartesio, senza dubbio obbietterebbe che trattasi di noti e pericolosi sovversivi.

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(16 Febbraio 1991)

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9. LIMBO DELLA CULTURA

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I tartufi della cultura

Proviamoci un po’ a riorganizzare le idee. Se ne sente proprio il bisogno. Avete presente le Ares, l’editrice del saggio L’eskimo in redazione? Ha colpito ancora, con uno scritto di Franco Palmieri dedicato a Il pensiero militante che riapre la questione della “dittatura comunista” sulla cultura italiana dagli anni Cinquanta in poi. Siccome di tale dittatura oggi tutti o quasi - anche quelli che le debbono seggi in Parlamento e cattedre all’università - tendono a dichiararsi vittime, salvo le poche anime elette che se ne chiamano invece estranee, io amo al contrario sbandierar con orgoglio il fatto di esserne stato complice. Eh, sissignore: sono stato un collaborazionista, un utile idiota, un “compagno di strada”. E vi dirò tra un istante come. Ma, prima, i fatti. La polemica sulla “dittatura culturale” della sinistra in genere, del Pci in particolare, si avviò due anni fa con un memorabile elzeviro di Nicola Matteucci sul Giornale del 25 marzo 1990. A rincarar la dose citando date, fatti, personaggi e titoli piombò il solito rullo compressore di Ernesto Galli della Loggia con i suoi implacabili schedari. Intanto uno studioso di formazione marxista molto aperta, Gabriele Turi, pubblicava per Il Mulino di Bologna il saggio Casa Einaudi. Libri uomini idee oltre il fascismo. Turi è uno studioso schivo e molto serio: vicino all’ex Pci ha continuato serenamente a studiare e a discutere senza conversioni e senza crisi isteriche. Il suo libro viene citato da Norberto Bobbio - autorevole consulente einaudiano - per rintuzzare le accuse del Galli della Loggia e dimostrare invece l’indipendenza di giudizio e di “linea” dei collaboratori del Principe degli editori italiani. Giulio Einaudi. Ma è peggio che andar di notte, perché il Turi ha, in effetti, rincarato la dose rispetto al Galli della Loggia parlando con 139

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obiettività e dati alla mano addirittura del diritto di censura togliattiano su certi libri (ad esempio quelli di Gramsci). Entrano nell’arengo, uno dopo l’altro, anche Alessandro Violo, Carlo Bo, Sebastiano Maffettone, Leone Piccioni, tutti uniti nel testimoniare che la dittatura c’era: e Beniamino Placido, su Repubblica, li strapazza tutti allegramente chiedendosi se davvero era stato Einaudi a ridurli per tanti anni al silenzio. D’altra parte sul grande Giulio piovono le critiche: avrebbe pubblicato solo autori marxisti o comunque appartenenti alla galassia della sinistra, avrebbe fatto tagliuzzare scritti di personaggi come Adorno per farli rientrare negli schemi cultural- comunisti e via delinquendo. Il Sole 24 ore lo battezza “lo Zdanov delle patrie lettere”. Adolescente e giovanissimo emarginato alla ricerca di un ubi consistam culturale, fra gli anni Cinquanta e i Sessanta ero affamato di conoscere. Per questo, senza riceverne tornaconto, sono stato un utile idiota dell’Einaudi. E me ne vanto, e me ne compiaccio. Quelle letture distorte, quei testi compromessi, mi hanno aiutato ad affacciarmi sul mondo della cultura vera; mi hanno aiutato a scegliere. Se non altro perché, per un certo periodo, il Principe Giulio si è fatto consigliare anche da gente come Cesare Pavese. Mi chiedo cosa stessero facendo, allora, tanti di quelli che oggi strillano come galline denunziando la comunistizzazione della cultura. Vorrei ad esempio che gli storici della Democrazia Cristiana m’indicassero i termini dell’impegno culturale di quel partito, che fra gli anni Cinquanta e Settanta egemonizzava ancora la scuola. Che cosa facevate, che cosa leggevate, dov’eravate in un dibattito così importante? Notte e nebbia: vero, Tartufi? (11 Aprile 1992)

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Sfida all’ultimo fanatismo

Sono ancora e nonostante tutto tanto ingenuo da stupirmi, e un po’ anche da scandalizzarmi, dinanzi alla semplice considerazione di quanto oggi tutto il nostro mondo sia contro Khomeini e di quanto poco si sappia di lui, dei suoi poteri effettivi, della sua pratica di governo, della sua stessa fede. Oggi, nonostante se ne parli di continuo (o proprio per questo) l’Islam continua ad essere per il superinformato occidentale del XX secolo “fanatismo”, esattamente come per Voltaire. La differenza tra sunniti e sciiti resta ignota e viene ritenuta dai più del tutto irrilevante; i mass-media continuano perfino - ancora! - a usare come sinonimi i termini “arabo” e “musulmano”, certo ignorando olimpicamente che esistono arabi non musulmani e musulmani non arabi; e la parola “fondamentalista” è usata tout court come un insulto. L’antikhomeinismo conformistico, irriflesso, aproblematico, non mi piace. Non solo perché non mi sembra sia frutto di una scelta responsabile, ma anche perché temo che essa serva da cavallo di Troia per veicolare un anti-islamismo funzionale alle cause peggiori, da quelle degli oltranzisti israeliani nostalgici del terroristico irghun a quella della teppaglia ignorante dei razzisti francesi che votano per Le Pen. L’anti-islamismo potrebbe addirittura, oggi, divenire - come lo fu l’anti-ebraismo negli Anni Trenta - il catalizzatore di una nuova ondata razzistica. E non è detto nemmeno che l’unico obiettivo di questa indiscriminata onda anti-islamica sia l’Islam. Una volta dichiarato di voler colpire qualunque “fondamentalismo”, si fa presto a qualificare con tale ormai infamante parola qualunque atteggiamento religioso ispirato a fermezza e a consapevole difesa della propria identità. L’Espresso del 26 febbraio 1989 intitolava in modo eloquen141

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te l’intervista al romanziere Salman Rushdie: “Premiata ditta Allah e Wojtyla”. Non facciamoci illusioni e non lasciamoci fregare. Queste dolenti dichiarazioni, che sembrano ispirate al sincero rammarico di vedere le proprie profferte di tolleranza respinte da una torva schiera di fanatici, sono ben altro da quello che sembrano. Esse stesse rappresentano in realtà un attacco, una prevaricazione: la volontà che il sentimento religioso sia una volta per tutte sradicato e abbattuto. Col progresso e col sorriso, naturalmente: e maleducato chi protesta. Nel libro di Rushdie, I versi satanici, la figura dell’imam (che sembra direttamente ispirata a Khomeini) è responsabile di questa dichiarazione: “La Storia è ciò che ubriaca, è la creatura e il territorio del diavolo, del grande Shaitan, è la più grande delle menzogne - progresso, scienza, diritti...”. Sembra una denunzia, ed è invece - a sua volta - una latente dichiarazione d’intolleranza. L’occidente laico è ammalato di spocchia etnocentrista: esso rifiuta che si possa pensare diversamente da come pensa lui, chiama fanatismo qualunque pensiero che si basi su presupposti diversi dai suoi. L’Occidente laico non concepisce il diverso-da-sé, a meno di non considerarlo in viaggio verso la sua perfezione. Per questo i nostri codici penali conoscono ancora i reati di “apologia” e di “vilipendio”. Ma, per il pensiero laicista, “fanatici” e “intolleranti” sono sempre gli altri. Il laico che rifiuta di dialogare, di perdonare, non definisce mai il suo atteggiamento “fanatismo”. Questa è roba altrui. Il suo, lo chiama “rigore”. (18 Marzo 1989)

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Improbabili incontri

Conobbi Domenico Starnone anni fa, dalle pagine del Manifesto. Si chiedeva come mai, lui che andava alle marce della pace, si lasciasse poi affascinare dalle pagine di un mio libro, quell’antica festa crudele, che era a suo dire (e aveva ragione) un’apologia, se non della guerra, quanto meno dei guerrieri e della condizione militare. Avrei potuto dire di lui e di tanti altri come lui esattamente il reciproco. Perché mai io, guerrafondaio e collaboratore di Montanelli, leggo tanto spesso e con piacere - anche senza necessariamente andarci d’accordo - giornali come il Manifesto? M’imbattei di persona con Starnone qualche tempo dopo quell’articolo: ci trovammo a San Gimignano, durante un convegno. Era il non più vicinissimo ‘83. Poi non l’ho più rivisto: e me ne dispiace molto. Leggo però i suoi libri. E debbo dire che mi sorprendo continuamente, seguendo quanto Starnone scrive, a chiedermi che cosa possa legare tanto profondamente due persone che del resto sono estranee e che in apparenza sono quanto mai lontane. A parte le nostre date di nascita, che cosa lega la sua sinistra patetica a la mia destra apocalittica? Ora che Feltrinelli si è impadronito di Ex cattedra (già edito dalla cooperativa Rossoscuola: mai etichetta fu più datata) me lo rileggo tutto d’un fiato, cercando di paragonare le vicende di Starnone professore alle medie superiori con le mie, professore d’università ma con qualche esperienza, a mia volta, di scuola media. Ex cattedra: impertinente volgarizzamento di un’espressione “alta” e anche un po’ tronfia, ma al tempo stesso drammatica - e certo non involontariamente - confessione di resa non tragica (e, auguriamocelo, non incondizionata) a una realtà che non c’è più. Ex 143

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cattedra, ex in cattedra, cattedra degli ex: il Sessantotto è passato, le barbe si sono ingrigite, gli eskimo li abbiamo perduti o dimenticati in soffitta, eppure ci sorprendiamo un po’ tutti a domandarci se davvero quegli anni furono vani, se davvero di quelle illusioni non è rimasto nulla a parte qualche melanconico ras della contestazione che adesso si è travestito da yuppy. Ma chi di noi, per un breve o lungo momento, ha creduto che sul serio si potesse cambiare la scuola, e attraverso di essa la società e la vita, ora si accorge che comunque credevamo nell’impegno dell’insegnare e dello studiare come una trincea da difendere con le unghie e con i denti. Il resto - le frustrazioni d’una vita fra scolari asini, colleghi inaciditi o rincorbelliti, funzionari arroganti o menefreghisti...- è cronaca di tutti i giorni. Fallimento? Naufragio? Forse. Ma, in Salto con le aste, Starnone spiega “che cosa ha significato per chi aveva 15 o 20 anni a metà degli anni Sessanta l’acculturazione di massa”. “Venendo da una fascia sociale bassa, era il salto da un mondo semialfabetizzato a uno in cui la parola, la scrittura erano una bacchetta magica per aprire le porte del paradiso”. Per questo tutti noi, guevaristi immaginari, credevamo sinceramente che la cultura avrebbe fatto la rivoluzione e imposte la verità e la giustizia. Poveri illusi, certo. Ma lì l’utopia di sinistra di Starnone e la mia Apocalisse di destra s’incontravano: lì, in quell’assurda speranzapretesa di arrestare in qualche modo la mercificazione della vita. Sbagliavamo: eravamo degli illusi, dei falliti. Qua la mano, Domenico, vecchio compagno. Ci hanno fottuti tutti e due. (3 Febbraio 1990)

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A scuola con Tolkien

La malvagia abitudine di far cultura per scadenze centenarie ha, fra l’altro, questo svantaggio: che i centenari si celebrano solo se e quando fanno comodo. Ci avevano appena rotte le tasche con l’Ottantanove, ed ecco subito a ruota il Novantadue di Cristoforo Colombo con tutte le polemiche del caso. Ed è un vero peccato che, obnubilato dal cinquecentenario della scoperta dell’America, rischi di passar sotto silenzio - se di centenari s’ha a parlare la scadenza di un secolo dalla nascita di Jhon Ronald Reuel Tolkien. Forse parecchi ventenni d’oggi, di quelli nati nel ‘70, si chiederanno: e chi è? Non preoccupatevi, giovani amici: nessuno per cui la beata scuola che oggi frequentate ritenga che valga la pena di perder tempo a parlare. È semplicemente uno dei più grandi scrittori che il mondo abbia mai avuto, uno della risma dei Dante, dei Milton, dei Goethe, dei Borges, dei Bulgakov. Praticamente nessuno, rispetto a Michael Jackson e Madonna. Un pover’uomo, che a differenza dei Kennedy non violentava nemmeno le segretarie. Ma per i pochi secchioni superstiziosi che credono ancora nella cultura e che magari sono alla ricerca di una cultura cattolica, qualcosa su Tolkien forse andrà detta. Anche perché in significativa concomitanza con il centenario della nascita, la Rusconi ha or ora pubblicato il suo epistolario, La realtà in trasparenza. Tolkien divenne famoso e discusso anche nel nostro Paese, quando si pubblicò il suo “romanzo epico” Il signore degli anelli che nell’America degli anni Sessanta era diventato la bibbia degli hippie. E un vero e proprio culto tolkieniano esiste ancora, specie in Inghilterra e negli Stati Uniti. Medievista di gran razza, compagno di Lewis e di Eliot, cattolico inglese con tutto lo scomodo che ciò comportava, Tolkien insegnò a lungo a Oxford e ha lasciato una trac145

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cia idelebile negli studi di filologia celtica e germanica. Ma belli sono soprattutto i suoi cicli poetici in prosa (non solo il capolavoro, ma anche l’Hobbit e il Silmarillion), nei quali egli ha saputo fondere un’ispirazione cosmologica proveniente dalla Bibbia con miti di origine celtica e germanica per costruire non solo uno splendido edificio di eroic fantasy, ma anche una profonda meditazione analogica e allegorica sui giorni nostri, sui guasti prodotti dal consumismo e dal materialismo occidentale, sulle conseguenze della desacralizzazione della vita. Sono temi che tornano puntuali nelle sue lettere, nelle quali si insiste sul fatto che la potenza della scienza e della tecnologia non subordinata a un senso morale e religioso della vita (e questo tipo di potenza egli, nel suo grande romanzo, aveva simboleggiato con l’Anello) non può mai essere indirizzata al bene neppure quando la si vuole usare per nobili fini. “Non puoi combattere il Nemico con il suo Anello senza trasformarti tu stesso in Nemico”, profetizzava Tolkien pochi mesi prima del criminale bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, per propria sciagura faustiana messa in moto nell’illusione di schiacciare così il Male, identificato - allora - nel Giappone imperiale (è noto che gli statunitensi amano identificare il male in tutti i sistemi politici diversi da loro). E aggiungeva ironicamente ma con preoccupazione, prevedendo i guasti futuri: “quando avremo introdotto il sistema sanitario americano, la morale, il femminismo e la produzione di massa all’Est, nel Medio Oriente, nel Lontano Oriente... a Lhasa... come saremo tutti felici...”; e invece, secondo lui, i guai seri cominceranno proprio allora. Al pari di Lewis, Tolkien è sembrato a lungo un autore reazionario, un profeta di sventure. Chissà: forse era un profeta e basta. (11 Gennaio 1992)

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La mappa dell’ignoranza

Credo di esserci finalmente arrivato. E non è un traguardo da poco. Si fa presto a dire che ce lo hanno insegnato fin dal liceo, con quella massima socratica del “sapere-di-non-sapere”. Ma, tanto per cominciare, a me Socrate è stato sempre abbastanza antipatico, lui con quella sua storia di chiedere a tutti se le scarpe le fanno meglio i calzolai o i pescivendoli. A me sono sempre sembrati più affascinanti e più intelligenti i sofisti; e mi pare che sotto sotto pensasse così anche Platone. Quella storia del “sapere-di-non-sapere” però, devo ammetterlo, è una cannonata. La scoperta dell’acqua calda, dell’uovo di Colombo: tutto quel che volete. Ma c’è gente che, per scoprire quell’acqua calda lì, ci mette tutta la vita; e gente che non ci arriva mai. Io ho avuto per anni il sospetto di esserci arrivato, e ormai credo proprio di esserci. Per lungo tempo, specie quelli di noi che hanno la bislacca idea di continuare a studiare anche dopo le scuole medie e l’università, e magari pretendendo di guadagnarsi la vita studiando, s’illudono di farcela. A ogni libro letto in più, a ogni nuovo orizzonte intravisto dietro l’ultima duna della nostra ignoranza, ci s’immagina di essere arrivati ai limiti invalicabili del sapere. Noi stiamo al centro del mondo, e attorno a noi c’è una immota landa da conquistare: ogni giorno che Dio mette in terra allarghiamo trionfalmente la macchia d’olio della nostra cultura, aggiungiamo un tassello allo splendido mosaico della nostra sapienza, piantiamo una nuova bandierina sulla mappa della conoscenza. Quale onore superare l’esame di maturità con la media dell’8, quando gli aoristi bisognava saperli tutti e sul serio, irregolari compresi! Che vanto un 30 e lode a Storia della filosofia firmato da Eugenio Garin, 147

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nell’anno del Signore 1964, quando i voti eran voti e già un 28 con Gianfranco Contini ti faceva cadere ai piedi tutte le ragazze della Facoltà! Oggi mi capita spesso, specie in qualche salotto della buona borghesia intellettuale o professionista, di parlare “di cultura”. C’è gente che ama tanto parlare di cultura, discettare di filosofia, discutere di storia e di letteratura: ormai (colpa di Umberto Eco...) perfino di semiologia. Riconosco di non riuscir a reagire sempre sportivamente dinanzi a situazioni del genere. Sarà per il fatto che, per quelli che fanno il mio mestiere, la cultura è un po’ come la cucina per i cuochi: a lungo andare si è presi da inappetenza, e magari dalla nausea. Mi disturba comunque, soprattutto, il constatare con quanta superficialità e con quanta arroganza gente che ha letto l’ultima biografia formato pocket parli di storia; con quanta improntitudine persone anche molto serie (che si inalbererebbero se si trattasse allo stesso modo la loro specialità professionale) s’imbancano a discettare di delicate questioni esegetiche e magari perfino teologiche. E rifletto che, davvero, la loro maturazione si è arrestata in questo ai banchi del liceo; a quando si pensava che la storia era quella cosa scritta nel manuale scolastico e che non c’era sapere al mondo che non si potesse ridurre a consommé e pigiare nelle paginette del Bignami. Da parte mia, ormai non pianto più trionfali bandierine sulla mappa del sapere da conquistare. Il mondo mi sembra invece una intricata foresta di segreti e di misteri: non perché essi siano tali in sé per sé, ma perché io personalmente - per quanto mi sforzi - non arriverò mai a comprendere se non un’infinitesima particella di essi. Nell’infinita galassia del sapere, l’isola di cultura che ho saputo fabbricarmi in lunghi decenni è un povero, desolato asteroide. Vi sono discipline intere rispetto alle quali sono soltanto un analfabeta; vi sono campi fondamentali dello scibile umano rispetto ai quali ignoro assolutamente tutto o quasi. E sì che - a differenza della maggior parte delle persone - vivo di continuo tra libri, convegni e uomini di cultura. 148

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Nella foresta della mia ignoranza, mi sono quindi da tempo rassegnato a ricavare con fatica, disboscando alacremente, qualche ristretta radura di sapere. Vado disegnando con umile rassegnazione, ma senza stancarmi (o almeno, così mi pare), la mappa della mia ignoranza. Non ho molto di cui gloriarmi: se non, forse, questa volontà di continuare a combattere, a far arretrare di poche spanne - finché potrò farlo - la giungla delle cose che ignoro. Non arriverò a quasi nulla, ma la mia dignità di uomo vuole che continui in questo lavoro improbo. È poco? Non lo so. A volte, questa compresenza della coscienza profonda che non giungeremo mai alla verità per quanto possiamo affannarci e che nello stesso tempo si debba continuare a farlo senza arrenderci, mi sembra moltissimo. Non è questo forse - divino Ulisse, tu sì che avevi capito tutto! - l’essere uomini? (27 Maggio 1989)

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10. LIMBO DELLA POLITICA

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La sindrome di Churchill

Il concetto d’impoliticità, è ovvio, lo rubo a Thomas Mann. D’altra parte credo sia legittimo essere impolitici e magari anche antipolitici, nella misura in cui la politica, da scienza e arte della civile convivenza, è diventata la babilonia che è da noi. Non so ancora - mentre sto scrivendo - che piega prenderà la situazione postelettorale: e sarà presto per vederlo prima che passino alcuni mesi. Forse ha ragione il cardinal Ruini a invocare “la sindrome di Churchill” per spiegare almeno in parte le cose: cioè quell’atteggiamento di protesta contro i governanti che caratterizza ogni tipo di “dopoguerra”. Vale a dire ogni momento in cui le cose stiano profondamente cambiando o sia diffusa l’idea che esse debbano profondamente cambiare. Da noi, se non è finita la guerra, è certamente finito il dopoguerra. E sono finite o sono tragicamente alle corde tutte quelle cose, quelle strutture, quelle istituzioni, quelle forme d’abuso, quelle disfunzioni che derivano dal complesso fenomeno che va sotto il nome di “partitismo”. Ma, al di là della corruzione e della lottizzazione che, insieme al diffondersi di un professionalismo della politica che ha prodotto il diffuso fenomeno dell’incompetenza generalizzata al potere, sono i tratti tipici del sistema morente, va segnalato che la crisi italiana s’impianta in realtà su una crisi mondiale. Troppo presto e non innocentemente gabellata sul nascere come crisi del comunismo. È vero: negli ultimi mesi il comunismo è caduto, ma non già in quanto ha dovuto soccombere dinanzi alla superiorità del sistema capitalistico. La verità è semmai che, nel sistema capitalistico mondialmente imposto e ohimè per ora “vincente”, il comunismo ha 153

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ceduto perché non ce l’ha fatta ad adeguarsi. È successo come quando scoppia un’epidemia: i primi ad ammalarsi sono gli organismi debilitati, ma poi il bacillo arriva a tutti. Allo stesso modo, il primo a cedere è stato il comunismo: ma la crisi avanza e minaccia lo stesso Impero, che è anche il paese - gli Usa - più indebitato del mondo. E da noi prende forma di crisi della sicurezza, di crollo delle certezze. Finché più o meno “tiene” il sistema del benessere, ancorché fondato sull’inflazione e sull’indebitamento pubblico e privato, si tira a campare. Ma fate che ceda anche quello e ve ne accorgerete. E, sia chiaro, non è possibile che non ceda. Per questo non si può prestar orecchio alle interessate sirene pseudocompetenti che blaterano di governi dei tecnici e d’una austerità richiesta - ora - dai padroni del vapore, da quelli che da anni spingono l’Italia sulla via della bancarotta asservendola fra l’altro a una politica d’industrializzazione automobilistica selvaggia in omaggio alla quale abbiamo riempito il paese di autostrade che crollano, abbiamo quasi smantellato la nostra rete ferroviaria e abbiamo vuotato le casse per acquistar materie prime e petrolio e fabbricar macchine che all’estero nessuno ha mai voluto comprare. Ora il malanno è combinato. Non siamo stati ascoltati, piagnucolano ora i vescovi italiani; i cattolici non hanno votato compatti per la Democrazia Cristiana. Reverendi padri, preoccupatevi del fatto che i cattolici non vi ascoltano quando raccomandate loro di andare a messa, di non abortire e più semplicemente di non rubare: il voto non è mai stato materia di fede. Ora bisogna rimboccarsi le maniche, altro che chiacchere. Io non voglio rimpasti né mezzucci. Voglio che le vere forze popolari italiane, che ancora ci sono, si assumano le loro responsabilità di governo. (30 Maggio 1992)

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Piovre e allocchi

Viva l’Italia. L’Italia delle mani pulite, l’Italia che lavora, quella dei lenzuoli bianchi per Farouk. Si sembra tutti d’accordo, ora. E nel paese, ci dicono i giornali, “c’è voglia di giustizia”. Tutti indignati dopo l’ondata di scandali, quella di Tangentopoli; tutti uniti contro la piovra, per farla finita con i corrotti, i prepotenti, i racket. Che volete che vi dica? Mi dispiace, mi trovo a disagio in mezzo alle fiamme sacrosante di cotanto sdegno e di cotanto entusiasmo: ma io non sono d’accordo. Conservo nel mio piccolo personale Museo degli Orrori l’adesivo per auto che L’Europeo ha regalato ai suoi lettori. Un rettangolo di plastica bianca e la scritta rossa “Forza Di Pietro - per una politica pulita”. Se comandassi io (il che per il bene della democrazia - non avverrà mai: tranquillizzatevi) ordinerei un’immediata inchiesta civile, penale e fiscale su chiunque inalberi quell’adesivo. E, sia chiaro, non ce l’ho affatto con L’Europeo, al quale di quando in quando addirittura collaboro. Solo che vorrei vedere in faccia chi si definisce pulito. E allora? Beh, che i politici italiani siano un ceto nel quale non allignano soltanto - accanto a tante brave persone, non dimentichiamolo - gli incapaci e i furbastri, ma anche i disonesti, i funzionari manutengoli del sistema tangenziale, i malavitosi e i loro gurka stipendiati, lo sapevamo anche prima dell’ondata Di Pietro; e non è che non ce ne fossero prove. Che il sistema del finanziamento pubblico ai partiti (stranamente pensato anche per far cessare o perlomeno per calmierare illiceità e ruberie) fosse una rovina era noto. E dei maneggi di gente come il ragionier Goria si parlava da molto tempo. Adesso, qualcuno tira un sospiro di sollievo e dice che i nodi sono arrivati al pettine e che si sta facendo piaz155

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za pulita. Quel qualcuno mi consenta di farmi una bella sganasciata di risa. Italiani, piantatela di raccontarvi frottole. Sappiamo tutti benissimo che la nostra classe politica non è affatto né migliore né peggiore della nostra classe dirigente e, in generale, della società civile italiana. Le cose sono evidenti, e il signor di Mandeville - col suo dotto apologo delle api - ve ne aveva già spiegato il perché. Solo che, ormai, non siamo più ai vizi privati pubbliche virtù. Ora il vizio dilaga, nel pubblico come nel privato. Gli imprenditori hanno poco da offendersi quando si ricorda loro: se i politici prendono le tangenti (non importa se per passarle al partito o per intascarsele), ciò dipende dal fatto che qualcuno gliele offre per fare affari che poi scendono per li rami a ingrassare buona parte del nostro mondo di affaristi rampanti e di arraffatori palesi o sommersi. Meno gli onesti e/o sprovveduti, beninteso. Ma, direte voi, e i santi crociati della magistratura? Via, o non lo sapete che nella nostra magistratura i casi di collusione e di coinvolgimento col potere e con la lottizzazione partitica sono stati e rimangono all’ordine del giorno? E allora, dinanzi all’ondata di arresti, chiediamoci seriamente: siamo al redde rationem o alla guerra per bande? Perché il male non sta nei molti politici corrotti, ormai comodo capro espiatorio. Il male è la nostra società civile fatta di grandi e piccoli mestatori, di corrotti di quinto o di sesto ordine che non pagano le tasse, che ingannano il fisco, che vivono di mini-mazzette quali piccoli quotidiani favori, invisibili quotidiani “strappi alle regole”, regalucci fatti e ricevuti nel nome dell’italiana arte d’arrangiarsi. Se non vinciamo questo costume, se non restauriamo un diverso senso dello stato, siamo tutti colpevoli. E non c’è Di Pietro che tenga. (25 Luglio 1992)

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Sacco in spalla

Giorni fa, a Milano, c’è stato un raduno organizzato dalla “Lega Lombarda” durante il quale m’è capitato di partecipare ad una delle tante tavole rotonde. Il clima era simpatico ma anche ribollente; e non mi sono saputo trattenere da dar un’ennesima prova del mio caratteraccio. Ma non è questo il punto. A quel dibattito c’era anche Gianfranco Miglio, che come al solito ha volato alto ma l’ha fatto col suo bel linguaggio immediato: parlava di cose difficili, ma tutti l’hanno capito. Tuttavia, a un certo punto ha detto una cosa che purtroppo stimo verissima: e che appunto per questo mi ha fatto sobbalzare. Ha affermato: “andiamo verso tempi meravigliosi”. Ne sono convinto anch’io: basta intendersi sul senso di quell’aggettivo e l’uso che se ne fa. Miglio è uno studioso e uno storico. La gente che fa il suo mestiere (che poi è anche il mio) usa gli aggettivi “meraviglioso” e “interessante” esattamente come i medici. Avete presente che cosa vuol dire il dottore quando annunzia di aver per le mani un caso “interessante”? Come storico, mi piacciono i momenti interessanti e ancor più quelli “meravigliosi”. Ma, come cittadino e come padre di famiglia, non augurerei neppure al mio peggior nemico di viverne uno. E noialtri europei, negli ultimi quarant’anni abbiamo vissuto tempi poco interessanti: ma tanto comodi. Per questo abbiamo fatto i soldi (parlo delle società, se non dei singoli) ci siamo potuti permetter di prender sonori granchi ideologici, abbiamo giocato ai pacifisti e ai progressisti. Ma vi sono momenti, magari lunghi, in cui la storia sembra addormentata; e momenti in cui essa si mette a correr come un tre157

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no. Ecco, quel che intendeva dire Miglio: è quel che ritengo anch’io. La storia si è rimessa in moto, e ci prepara tempi “meravigliosi”. Ma il Meraviglioso che essa usa ammannire non è mai né comodo né piacevole. Per decenni ci siamo cullati nella beata certezza di stare in un’isola felice al riparo di tutto. Le guerre nel sud-est asiatico, nel mondo arabo, in America Latina, erano roba che riguardavano altri lontani popoli. La fame in India e in Africa era materia per molta accademia umanitaria. Gli altri si scannavano, crepavano e noi giocavamo alla finta rivoluzione come nel ‘68 e dintorni. Ora però i carri armati sferragliano a pochi chilometri a nord-est della nostra isola felice e intanto, al suo interno, vi sono regioni intere dove vige la legge della giungla, e nelle nostre grandi città vi sono quartieri dove si vive come se non vi fosse stato. Ci preoccupiamo dei diritti civili in Sudafrica, ma il fatto che a pochi chilometri o a pochi metri da casa nostra vi siano gente sequestrata, gente ammazzata, gente in galera per nulla o quasi e gente invece in libertà a dispetto della giustizia e dei santi sembra non riguardarci. La gente ormai non ha più fiducia nelle istituzioni e tanto meno nei partiti, le connessioni fra politica e affarismo e criminalità e politica strangolano la cosa pubblica, non ci si può più fidare neppure della magistratura, gli elementari servizi sono in crisi. Ma siccome nonostante ciò si continua a viver bene e a spender, quelli che nel villaggio tecnologico mondiale abitavano nelle bidonvilles hanno visto alla TV - che hanno anche lì - che noi abbiamo condomini con piscine e si sono buttati all’arrembaggio. Dietro i polacchi gli albanesi, dietro gli arabi i senegalesi; e ora verranno fra poco i profughi dell’ex impero sovietico. Quanto credete che questa corda si possa tirare ancor prima che si strappi? Sacco in spalla, ragazzi. Ci aspettano tempi meravigliosi. Avete stirato la tuta mimetica? (*)

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Finito di stampare: agosto 1994 presso tipolito La Pieve - Villa Verucchio

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