Il libro degli Emblemi
 9788845929670

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», in Reallexikon zur Deutschen Kunstgeschichte, vol. V, fasc. 49-50, Stuttgart, 1959, coll. 85228; M. Praz, Studies in Seventeenth-Century Imagery, cit.; P.M. Daly, Emblem

Theory, Nendeln, 1979, e The Bibliographic Basis for Emblem Studies, in «Emblematica», 8, 1994, pp. 151-75; Sinnbilder Welten: Emblematische Medien in der friihen Neuzeit, a cura di W. Harms, G. Hess, D. Peil,J. Donien, Katalog der Ausstellung in der Bayerischen Staatsbibliothek, Munchen, 1999; Em-

blem Books in Leiden. A Catalogue of the Collections of Leiden University Library, the 'Maatschappij der Nederlandse Letterkunde’ and Biblioteca Thysiana, a cura

di A.S.Q. Visser, Leiden, 1999; « Con parola brieve e con figura». Libri antichi di imprese e emblemi, Introduzione di L. Bolzoni, Lucca, 2004, con indica-

zioni sui siti informatici universitari europei e americani inerenti testi di Emblemi e imprese. Più in generale si vedano i recenti contributi di M. Tung, Alcaiato's Practices of Imitation: a New Approach to Studying his Emblems, in «Emblematica», 19, 2012, pp. 153-257, e di P.M. Daly, The Emblem in

Early Modern Europe: Contributions to the Theory of the Emblem, Fanmham, 201 4.

INTRODUZIONE

xV

stimonianze documentali‘ che ci illuminano circa le tappe di questo composito percorso.

Epigrammi ed Emblemi In una lettera del 9 dicembre 1522,5 indirizzata da Milano all’amico libraio e editore Francesco Calvo,‘® Alciato raccon-

ta: « Durante questi Saturnali,” compiacendo all’illustre Ambrogio Visconti,' ho composto un libretto di epigrammi inti4. Cfr. in B.F. Scholz, The 1531 Augsburg Edition of Alciato’'s «Emblemata » : A Survey of Research, in «Emblematica», 5, 1991, pp. 213-54.

5. Barni, n. 24: «His saturnalibus ut illustri Ambrosio Vicecomiti morem

gererem, libellum composui epigrammaton, cui titulum feci Emblemata: singulis enim epigrammatibus aliquid describo, quod ex hixtoria, vel ex rebus naturalibus aliquid elegans significet, unde pictores, aurifices, fusores, id genus conficere possint, quae scuta appellamus et petasis figimus, vel pro insignibus gestamus, qualis Anchora Aldi, Columba Frobenii et Calvi elephas tam diu parturiens, nihil pariens». La data della lettera è incerta in quanto la carta dell’autografo originale è danneggiata: sono stati proposti anche il 9 dicembre 1521 (così M. Rubensohn nel 1897; per il dibattito in merito: H. Homann,

Studien zur Emblematik des 16. Jahrhun-

derts, Utrecht, 1971, pp. 8 sgg.) e il 9 gennaio 1523: R. Abbondanza, A pro-

posito dell’epistolario dell’Alciato, in «Annali

pp. 467-500.

di storia del diritto»,

1, 1957,

6. L’umanista comasco Francesco Minizio Calvo (nasce alla fine del XV secolo, muore a Roma nel 1548) fu libraio in più luoghi e stampatore ed editore a Roma. Non pare usasse una vera e propria marca tipografica, ma sovente nei frontespizi si trova una corona al cui interno è rappresentata la dea Roma con i simboli del potere, ai suoi piedi la personificazione del Tevere e la dicitura «ROMA» o «SPQR>»; F. Ascarelli, La tipografia cinquecentina italiana, Firenze, 1996, p. 66.

7. Ci si riferisce alle vacanze autunnali dell’anno accademico 1521-1522:

D. Bianchi, L'’opera letteraria e storica di Andrea Alciato, in « Archivio Storico Lombardo», 39, 1913, p. 60. Nell’antichità la durata e il periodo delle fe-

ste annuali in onore di Saturno variò con le modifiche subite nel tempo

dal calendario religioso romano

(Macrobio, Sat., 1, 9-10). La festa era ori-

ginariamente celebrata il solo 17 dicembre, giorni, fino a sette (dal 17 al 23 dicembre) 8. La cui identità purtroppo sfugge; Barni, otto: «molti sono gli Ambrogio Visconti di

mentre poi venne estesa a più in epoca imperiale. p. 46, nota 3, ne conta almeno quell’epoca»; cfr. K. Giehlow,

Die Hieroglyphenkunde des Humanismus in der Allegorie der Renaissance besonders der Ehrenpforte Kaisers Maximilian I, in «Jahrbuch der Kunsthistorischen

Sammlungen des allerhòchsten Kaiserhauses», 32, Wien - Leipzig, 1915, pp. 281-85; H. Miedema, The Term «Emblema » in Alciati, in «Joumrnal of the

Warburg and Courtauld Institutes», 31, 1968, p. 237.

XVI

INTRODUZIONE

tolato Emblemata, in ciascuno dei quali descrivo qualcosa, tale che significhi con eleganza’ un qualche cosa tratto dalla storia e dal mondo

naturale, donde pittori, orefici, fondito-

ri possano realizzare quel genere di oggetti che chiamiamo

scudi [stemmi o distintivi] e attacchiamo ai cappelli o por-

tiamo quali insegne, come l’àncora di Aldo, la colomba di

Froben e l’elefante di Calvo», ovvero le marche tipograficoeditoriali di Aldo Manuzio (àncora con delfino: Fig. 1)' e di

Johannes Froben

(colomba su caduceo: Fig. 2),"' mentre

l’elefante di Calvo è uno scherzoso richiamo alla lentezza dell’amico nello sbrigare gli affari.'

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Questo primo documento ci informa su alcuni elementi

indispensabili alla nostra indagine, cioè che nel 1522 Alciato già aveva realizzato un volumetto intitolato Emblemata,

ispirato da Ambrogio Visconti, e che gli Emblemi erano

9. «Elegans»:

esposizione, eloquio elegante:

Cicerone, De orat., 2, 241, e

Orat., 81 e 134; Quintiliano, Inst., 6, 3, 39; 7, 3. 10. L. Volkmann, Bilder Schriften der Renaissance: Hieroglyphik und Emblematik in ihren Beziehungen und Fortwirkungen, Leipzig, 1923, p. ‘72.

11. Ibid., p. 73; A. Wolkenhauer, Druckerzeichen und Embleme von Alciato bis

Rollenhagen, in Polyvalenz und Multifunktionalitàt der Emblematik, a cura di

W. Harms, D. Peil, Frankfurt am Main, 2002, vol. II, pp. 850-53.

12. K Giehlow, Die Hieroglyphenkunde, Schriften der Renaissance, cit., p. 73.

cit., p. 141; L. Volkmann,

Bilder

INTRODUZIONE

XVII

semplici epigrammi senza illustrazioni, peculiarità quest’ul-

tima confermata da un altro brano'! di Alciato risalente sem-

pre agli anni Venti. Inoltre il paragone con le insegne tipografiche di Aldo Manuzio (che ritroviamo nell’Emblema

XXI) e di Froben chiarisce la tipologia dei signa simbolici e

delle figure allegoriche che devono scaturire dalla « descrizione » o ékphrasis che trama ogni epigramma dell’Emblematum liber, dove i vari componimenti declamano questa o quell’immagine, secondo il noto adagio oraziano «ut pictura poe-

sis» 1‘ tema cardine dell’ideazione emblematica alciatea, di

cui diremo più avanti.

L’aspirazione di Alciato, che i suoi versi stimolino la crea-

tività di pittori, orefici, ecc., per produrre insegne, imagines,

signa, si può interpretare quale invito a rinnovare in certi

ambiti artistici quel linguaggio allusivo e ‘geroglifico’ che sta alla base della medesima

emblematica,'° di cui l’àncora

aldina e il caduceo frobeniano rappresentano esemplarmente la formulazione grafica: essenziale e simbolica. Il richiamo specifico a orefici e fonditori, oltre a quello più

scontato rivolto ai pittori, non è casuale, ma sembra fare ri-

ferimento alle monete, agli anelli e alle medaglie, sui quali, come del resto accade per le marche tipografiche, è comune trovare incise o in rilievo icones symbolicae, motivi e figure di forte impatto allegorico.!'® Basti pensare alla stessa medaglistica rinascimentale, alla tradizione delle antiche gemme incise o alla monetazione romana. A riguardo faccio notare,

e lo dimostrerà adeguatamente il commento, che non pochi

Emblemi alciatei trovano puntuale corrispondenza nell’ico13. Cfr. l’inizio del paragrafo «Emblemi e geroglifici»; in merito si veda il

contributo di H. Miedema, The Term, cit., pp. 234-50; cfr. M.A. De Angelis, Gli emblemi di Andrea Alciato nella edizione Steyner del 1531. Fonti e simbologie, Salerno, 1984, pp. 18-27; J- Kohler, Warum erschien der Emblematum Liber

von Andreas Alciat 1531 in Augsburg?, in The European Emblem: Selected Papers

from the Glasgow Conference 11-14 August, Leiden - New York, 1990, pp. 1-31.

1987, a cura di B.F. Scholz

et al.,

14. Ars, 361. 15. Sì veda più avanti il paragrafo «Emblemi e geroglifici», in particolare l’opinione di Filippo Fasanini sull’impiego artistico dei ‘geroglifici’ horapolliani, che anticipa il convincimento di Alciato in merito. 16. Cfr. E.H. Gombrich, Symbolic Images, London, 1972; trad. it. Immagini simboliche. Studi sull’arte del Rinascimento, Torino, 1978, pp. 177-273; P.M. Daly, Literature in the Light of the Emblem, Toronto, 1998, pp. 30-32.

XVIII

INTRODUZIONE

nografia propria dei conii imperiali romani, delle medaglie e delle preziose gemme intagliate. Non ultimo, si può considerare questa esplicita attenzione di Alciato verso certe arti visive, capaci di recepire il suo talento emblematico, come una sorta di autoproclamazione a maestro di modelli ecfrastici, al cui campionario (i variegati epigrammi/Emblemi)

avrebbero appunto dovuto attingere ispirazione pittori, ore-

fici, ecc. Il desiderio di Alciato, a prescindere dal tenore del-

le sue ambizioni, si realizzerà ampiamente, ben oltre ogni

ottimistica previsione: è sufficiente valutare l’influenza del-

l’iconografia emblematica nelle arti maggiori e minori fino ai tempi recenti." L'’enigma della prima edizione degli «Emblemata »

Ragionare sulla prima edizione degli Emblemata vuol dire toccare una vexata quaestio tra le più problematiche e sulla quale si sono cimentati non pochi autorevoli studiosi per oltre un secolo.!5 A proposito ci limiteremo a esporre i dati salienti nella loro successione e trasferire nelle note l’adeguata bibliografia, dal momento

che, allo stato dei fatti e come

potrà rendersi conto il lettore, si possono proporre soltanto

congetture. Inoltre, come detto nella Prefazione, il nostro obiettivo è principalmente il commento agli Emblemi, indi-

viduandone fonti e significati, sì da avere una approfondita visione d’insieme dei contenuti iconici e delle potenzialità 17. Cfr. Emblems from Alciato to the Tattoo, a cura di P.M. Daly, J. Manning,

M. van Vaeck, Turnhout,

2001, pp. 295-355; P.M. Daly, The Nachleben of the

Emblem. Emblematic Structures in Modern Advertising and Propaganda, in Polyvalenz und Multifunktionalitàt, cit., vol. I, pp. 47-67. 18. H. Green, Andrea Alciati, cit., n. 1, pp. 103-15; H. Miedema,

The Term,

cit., pp. 236-37; H. Homann, Studien zur Emblematik, cit., pp. 25-40; F.W.G. Leeman,

Alciatus’ Emblemata. Denkbeelden en voorbeelden, Groningen,

1984,

pp- 5-30; accurata rassegna della letteratura critica sull’argomento e delle divergenti opinioni in F. Scholz, «Libellum composui epigrammaton, cui titulum feci Emblemata » : Alciatus’s Use of the Term Emblema Once Again, in «Em-

blematica», 1, 1986, pp. 213-26, e The 1531 Augsburg Edition, cit., pp. 22023; V. Sack,

« Glauben » im Zeitalter des Glaubenskampfes: Eine Ode aus dem

StraBburger Humanistenkreis und ihr wahrscheinliches Fortleben in Luthers Reformationslied « Ein feste Burg ist unser Gott». Testanalysen und -interpretationen. Mit einem Beitrag zur Friuhgeschichte des Emblems, Freiburg, 1988, pp. 126-49.

INTRODUZIONE

XIX

comunicative che li contraddistinguono, vale a dire degli aspetti formali e concettuali che tanto incisero sulla loro for-

tuna e influenza.

Di primaria rilevanza cronologica

e bibliografica sono

due affermazioni di Alciato: una è contenuta nella succitata lettera a Calvo, dove dichiara che nel 1522 aveva già composto gli Emblemata, ovvero una raccolta di epigrammi; l’altra

la troviamo in un'’ulteriore lettera, indirizzata dal Nostro al-

l’amico prediletto Bonifacio Amerbach, giureconsulto di Basilea, e spedita da Milano il 10 maggio 1523." In essa Alciato allega due pagine o fogli appena pubblicati di un volumetto di liriche, intitolato Emblemata, per averne un giudi-

zio: l’autore dei versi, si precisa, è Aurelio Albuzi,”° mentre

l’ideatore"! del soggetto è Ambrogio Visconti. Poi aggiunge

che su tale argomento aveva composto lui stesso un altro li-

bretto di carmi: tuttavia non voleva mescolare con quelli altrui i propri componimenti, per cui li avrebbe divulgati a parte insieme ad altri suoi epigrammi. Sembra così che a Milano, all’inizio degli anni Venti del Cinquecento, circo-

lassero più operette con il medesimo titolo Emblemata, che

raccoglievano gli epigrammi di questo o quel letterato o fors’anche di diversi autori, tra i quali pare primeggiare Am-

brogio Visconti, ricordato in entrambe le epistole. Si può ipotizzare una sorta di certamen lirico fra dotti e poeti affidato a limitati esemplari manoscritti e forse a stampa, se non addirittura a singole copie d’autore diffuse tra i pochi che si dedicavano a quest’arte. Un simile contesto letterario con

19. Barni, n. 32: «Eduntur apud nos et Emblemata, quorum duo folia ad te mitto gustus causa; carminis auctor est Albutius, inventionis Am-

brosius Vicecomes ex primariis patritiis. Eius argumenti et ipse libellum carmine composui, sed res meas cum alienis miscere nolui: divulgabitur inter caetera nostra epigrammata». Sul rapporto fra Amerbach e Alciato che lo considera «amico et frati optimo»: D. Bianchi, L'’opera letteraria, cit., pp. 7 sgg.; B.R. Jenny, Andrea Alciato e Bonifacio Amerbach: nasaita, culmine e declino di un’amicizia fra grureconsulti, in Andrea Alciato umanista

europeo,

«Periodico

della Società Storica

Comense»,

61,

1999,

pp-. 83-100. 20. Su questo allievo e amico di Alciato si veda il commento all’Emblema

XXXx 21. Il termine retorico « inventio » significa la capacità di trovare argomen-

ti veri o verosimili capaci di rendere convincente la causa (Ad Her., 1,2,3),

qui con riferimento al processo creativo dell’opera poetica.

Xx

INTRODUZIONE

più artefici di ‘libelli’ poetici recanti lo stesso titolo, Emblemata, impedisce di sapere con certezza chi tra loro, per primo, chiamò in tal modo la propria raccolta di epigrammi. A questo punto, qualunque fossero le circostanze, sappiamo che Alciato nel 1522 aveva ultimato una raccolta di versi denominata

Emblemata,

e un’altra era prevista imminente

nel 1523, dunque un altro lbellus di Emblemata da non con-

fondere con il precedente. Le caratteristiche e le qualità letterarie di questa produzione ci sono tuttavia del tutto ignote, perché di tali 4belli alciatei si è persa ogni traccia, né se ne conosce copia, nonostante tutte le ricerche fatte da stori-

ci, bibliofili e insigni studiosi della vita e delle opere di Al-

ciato da oltre cento anni. Più in generale: una siffatta lacuna suggerisce che i vari Emblemata prodotti da Alciato, Albuzi,

Visconti e altri, non costituissero che un ben modesto insie-

me di volumetti manoscritti, in quanto è difficile credere altrimenti, cioè a delle tirature a stampa, delle quali, benché limitate, avremmo dovuto pur avere qualche notizia attendibile o preciso riscontro, ma così non è. Questo vuoto è il germe di tutta la vexata quaestio, resa ancora più complessa da quanto accadrà circa un decennio dopo. Infatti, nel febbraio del 1531 ad Augsburg in Germania, viene data alla luce da Heinrich Steyner un’edizione vera e propria degli Emblemata, che conoscerà in pochi anni quattro ristampe.*° Questa edizione, la prima conosciuta degli Emblemata e da molti ritenuta l’effettiva editio princeps, offre

però, rispetto alle raccolte del 1522 e del 1523 (ammesso

che questa sia stata veramente realizzata), una novità di non poco conto: è corredata da vignette xilografiche che illustrano gli epigrammi, innovazione non facile da spiegare e che affronteremo appositamente nel prossimo paragrafo. A parte ciò, l’edizione del 1531 pone altri quesiti: soprattutto non conosciamo con certezza come Steyner sia venuto in possesso del testo alciateo da lui stampato, né su quale redazione si sia basato, cosicché, per certi aspetti, quella di Augs-

burg potrebbe considerarsi una sorta di edizione ‘pirata’.

Infatti, essa viene aspramente criticata ed esplicitamente ri-

pudiata da Alciato, che la ritiene guasta, piena di errori e, 22. H. Green, Andrea Alciati, cit., pp. 116-22; G. Duplessis, Les Emblèmes d’Alciat, cit., pp. 9-11.

INTRODUZIONE

XXxI

potendo, avrebbe voluto distruggerla:” atteggiamento che esclude un suo coinvolgimento nell’impresa. Del resto una copia degli Emblemata era sfuggita al ‘controllo’ diretto dell’autore, almeno secondo quanto lascia intendere Alciato in una sua lettera a Pietro Bembo del 25 febbraio 1535. Qui scrive** di non sapere per quale motivo Steyner abbia dato alla luce «corruptissime» il volumetto degli Emblemata «amaissus », termine quest’ultimo che vuol dire « perduto » (Alciato aveva perso le tracce di una copia del suo originale?), ma anche «sfuggito », «lasciato andare lontano da sé » (Alciato ne aveva dato una copia a qualcuno e questa era poi finita nelle mani di Steyner a sua insaputar). Probabilmente accadde in questo modo: l’«amissus» do-

vrebbe essere l’esemplare che Alciato aveva inviato all’uma-

nista, bibliofilo, antiquario e consigliere imperiale Chonrad Peutinger (1465-1547), al quale aveva dedicato gli Emblemata: Augsburg era la patria di quest’ultimo, nonché la città dove Steyner svolgeva la sua attività tipografica. Secondo Lotter,” il biografo di Peutinger, Alciato aveva spedito all’umanista tedesco il manoscritto con la dedica affinché fosse impresso, per cui è verosimile che il testo sia passato dalle mani di Peutinger a quelle di Steyner. Altri* reputano invece che Steyner potesse acquisire il testo del Nostro comprandolo, insieme ad altre opere, da Sigmund Grimm, anch’egli stam23. Sì veda la Prefazione di Wechel alla sua edizione del 1534; Alciato si lamenta in alcune lettere di questa «corrottissima» edizione: Bamni, nn. 80, 93; cfr. H. Miedema, The Term, cit., p. 244; H. Homann, Studien zur Emblematik, cit., p. 38.

24. Barni, n. 93: « nescio quo casu amissum [scil. l’opusculum degli Emblemata] Vindelici edidere corruptissime »; con l’epistola Alciato inviava in

dono al Bembo una copia dell’edizione degli Emblemata del 1534; a sua volta il Bembo non mancò di ringraziarlo del gradito dono in una lettera del 21 marzo: cfr. V. Cian, Lettere inedite di Andrea Alciato a Pietro Bembo. L'’Alciato e Paolo Giovio, in «Archivio Storico Lombardo», 17, 1890, p. 823.

25. J.G. Lotter, Historia vitae atque meritorum Conradi Peutingeni, Edidit F.A. Veith, Augustae Vindelicorum, 1784, p. 65: «Ille [scil. Alciato] enim, quum

Emblematum suorum libellum Augustam ad Peutingerum misisset, ut typis ibi mandaret, (quod et praestitit; excusus enim fuit per Heynricum Stey-

nerum die 28 Febr. An. MLXXXI, uti ex primae huius editionis exemplo, Lotterus noster ab Andrea Buttigio secum communicato, perspexit)»; tra

parentesi le osservazioni di Veith.

26. V. Sack, «Glauben », cit., pp. 140 sgg.; perplesso su questa ipotesi B.F. Scholz, The 1531 Augsburg Edition, cit., pp. 243-49.

XXxII

INTRODUZIONE

patore in Augsburg, il quale nel 1527 fallì e dovette vendere

i suoi beni. Grimm, raffinato editore di testi illustrati, avreb-

be avuto a disposizione la copia degli Emblemata in possesso di Peutinger perché faceva parte del circolo di umanisti di Augsburg che frequentavano il consigliere imperiale.

Comunque sia, la stampa di Steyner non ebbe alcun ‘controllo’ da parte di Alciato, che in una lettera del 3 ottobre

1532° indirizzata all’«amicus optimus» Viglio van Zwichum (giureconsulto e politico amico pure di Erasmo) fa sapere che nel giugno dello stesso anno aveva inviato a Francesco

Rupilio

(anch’esso amico di Alciato e di Erasmo)

una lista

di errata per far correggere il testo di Steyner che, così com’era, gli rovinava la reputazione. Da ciò, con ogni pro-

babilità, scaturì in lui il desiderio e fors’anche la necessità di

curare una nuova e corretta edizione, progetto che si realiz-

zerà nel 1534 con la pubblicazione degli Emblemata presso il

tipografo parigino Chrétien Wechel, alla quale seguiranno

diciassette ristampe, di cui l’ultima nel 1545.°

Rimane ora da affrontare la questione della genesi dell’opera alciatea, ovvero di quando e come venne redatta. Se

è indiscutibile che una prima compilazione, per ammissio-

ne dell’autore, vide luce nel 1522 nella versione preparata

per Ambrogio Visconti (un’altra raccolta di epigrammi era annunciata come prossima nel 1523), la loro progettazione ed elaborazione sembra risalire almeno al decennio prece-

dente. Lo lasciano intendere sia la dedica dell’Emblema I (nell’edizione Wechel del 1534) a Massimiliano Visconti,”

duca di Milano dal 1512 al 1515, sia quella a Peutinger contenuta nella Praefatio” fin dall’edizione del 1531, ma scritta,

come ora vedremo, prima del 1519. Qui si fa l’augurio che « Cesare » conceda allo stesso Peutinger di possedere « preziose monete e insigni codici degli

antichi». Tal «Cesare » altri non può essere che l’impera-

27. Barni, n. 80: «ut impressor tametsi sero emendaret tamen quae magna

cum nominis mei nota peccaverat ... Missi autem ea errata ad ipsum Rupilium hisce litteris, quas mense iunio ad eum dedi».

28. H. Green, Andrea Alciati, cit., pp. 122-42; G. Duplessis, Les Emblèmes d’Alciat, cit., pp. 12-19. 29. Cfr. il commento all’Emblema I. 30. Si veda l’analisi del testo nel paragrafo «Quando furono inserite le illustrazioni?».

INTRODUZIONE

XXIII

tore Massimiliano I d’Asburgo,* con il quale Chonrad visse

stretti rapporti confidenziali come consigliere e diplomatico e dal quale fu grandemente stimato per i suoi interessi culturali e antiquariali: per volere di Massimiliano poté

pubblicare ad Augsburg nel 1505, per i tipi di Erhardus Ra-

told, 1 Romanae vetustatis fragmenta in Augusta Vindelicorum et eius diocesi? importante silloge di antiche iscrizioni lati-

ne. Difficilmente credibile invece l’identificazione dell’imperatore con il successore di Massimiliano, Carlo V, di cui

Peutinger fu pure consigliere imperiale, ma con il quale non ebbe un analogo, caloroso rapporto, tanto che Chon-

rad si lamentò di non avere ricevuto dal suo ‘nuovo’ impe-

ratore lo stipendio dovuto.° Massimiliano

I muore

nel

1519, data che diviene così il termine ante quem Alciato compose la dedica e, si può presumere, gli Emblemata. Tra l’altro, non si dimentichi che la sua vena lirica sbocciò presto e venne da lui sempre coltivata. Ancora adolescente componeva poesie e orazioni che destavano ammirazione per le «concinnae et acutae sententiae » e giochi enigmatici, come commemorerà Agostino Grimaldi nell’orazione funebre in suo onore tenuta nella cattedrale di Pavia il 19 31. Sulla questione e sul rapporto fra Peutinger e Massimiliano: Mignault, pp. 16-17; Thuilius, p. 6; J.G. Lotter, Historia vitae atque meritorum

Conradi Peutingeri, cit., pp. 18-21: «Saepius Peutingero Imperatorem adeundi, atque ipsum reipublicae salutandi nomine, locus fuit. Contigit

ex hac re, ut propius principi adloquio frequentiori cognitus, mox, ingenii atque doctrinae, et antiquitatis maxime historiarumque studii exquisitioris commendatione arctissimo consuetudinis nexu coniunctus fieret ... Certe apud Maximilianum Imperatorem favore maximo valuisse No-

strum»; L. Volkmann, Bilder Schriften der Renaissance, cit., p. 81; H. Homann, Studien zur Emblematik, cit., pp. 28-32; C. Balavoine, Archéologie de

l’emblème littéraire: la dédicace a Conrad Peutinger des «Emblemata » d’André Al-

ciat, in Emblèmes et devises au temps de la Renaissance, direttore della pubblicazione M.T. Jones-Davies, Paris, 1981, pp. 9-13; R. Cummings, Alciatos

«Emblemata» as an Imaginary Museum, in «Emblematica», 10, 1996, pp. 256-67, nota 49 di p. 262; V.W. Callahan, «Andrea Alciati», in Contemporaries of Erasmus: a Biographical Register of the Renaissance and Reformation, a

cura di P.G. Bietenholz, Toronto,

nota 46.

1985, vol. I, pp. 23-26. Si veda, sotto, la

32. Come si legge sul frontespizio: «iussu divi Maximiliani Princi pis» . 33. E. Kònig, Peutingerstudien, in Studien und Darstellungen aus dem Gebiete der Geschichte, 9, Freiburg, 1914, p. 16; C. Balavoine, La manipulation des «images symboliques », cit., p. 11.

XXxIV

gennaio

INTRODUZIONE

1550.%* Infine va rilevata la circostanza, a nostro

avviso di basilare interesse, che l’epigramma dell’Emblema

LXXXII, versione latina di uno greco, è databile intorno al 1508, periodo che dimostra come Alciato inserì negli Emblemata anche carmi giovanili.

In sintesi: l’opera, come si deduce dall’oscillazione delle va-

rie date e dediche citate, ebbe senz’altro una gestazione complessa e diluita nel tempo, di cui però ci sfuggono i precisi contorni cronologici. Del resto è lo stesso Alciato a dirci, nella sua Praefatio, che componeva gli epigrammi/Emblemi nelle ore di festa e per diletto, dunque senza una programmazione rigorosa. Per il sommo giurista si trattava di uno svago, forse

perseguito anche con una certa ambizione ‘poetica’,” dove confluivano curiosità e interessi filologico-antiquariali per il mondo classico. Tale ambito l’aveva appassionato fin da giovane, e aveva dato prova di possederne magistrale conoscenza

nei Monumentorum veterumque, inscriptionum, quae cum Mediola-

ni tum in etus agro adhuc extant collectanea, libri duo, raccolta epi-

grafica, già formata nel 1508 (Alciato aveva 16 anni), che per il notevole commento filologico e storico costituisce «un pun-

to di riferimento dell’erudizione milanese e lombarda, come

ha un posto importante nella storia dell’epigrafia latina » .* Le

sue liriche sposano questo dotto bagaglio culturale (dote che 34. K Giehlow, Die Hieroglyphenkunde, cit., p. 142.

35. Critico il giudizio di D. Bianchi, L'’opera letteraria, cit., pp. 60-61, 72 e 8389; si veda, sotto, la nota 7 a p. Lxxv. 36. R. Abbondanza, «Alciato (Alciati) Andrea», cit., p. 69; di quest’opera a tutt’oggi inedita esistono diversi manoscritti: ibid., p. 76; cfr. D. Bianchi,

L’opera letteraria, cit., pp. 48-57; Andreae Alciati Antiquae inscriptiones veteraque monumenta patriae, ristampa anastatica, con presentazione di G.L. Bar-

ni, Milano, 1973; P. Laurens, F. Vuilleumier, De l’archéologie à l’emblème, la genèése du Liber Alciati, in «Revue de l’Art», 101, 1993, pp. 86-95, e Entre H'istoire el Emblème: le recueil des inscriptions milanaises d'Andre Alciat, in «Re-

vue des Etudes Latines», 72, 1994, pp. 218-37; sull’impegno epigrafico del Nostro importanti i nuovi contributi di A. Ferrua, Andrea Alciato e l’epigrafia

pagana di Roma, in « Archivio della Società Romana di Storia patria», 113,

1990, pp. 209-33, e soprattutto di A. Sartori, L'Alciato e le epigrafi, in Andrea

Alciato umanista europeo,

« Periodico

della Società Storica Comense»,

61,

1999, pp. 52-82; sul contributo di Alciato alla rinascita dell’epigrafia classi-

ca: R. Weiss, The Renaissance Discovery of Classical Antiquity, Oxford, 1969; trad. it. La scoperta dell’antichità classica nel Rinascimento, Padova, 1989, pp.

177-79, 208-209; per le conoscenze della letteratura classica da parte di Al-

ciato: P.E. Viard, André Alciat, cit., pp. 229 sgg., 244 sgg.

INTRODUZIONE

xXxVv.

emerge inequivocabile dalle numerose fonti classiche che in-

fluenzano gli epigrammi/ Emblemi) con l’occasionale piacere

della loro invenzione, secondo tempi e modi non vincolanti. Lo prova anche il fatto che nelle edizioni degli Emblemata, successive a quella del 1531, verranno ancora aggiunti nuovi Emblemi, testimoniando in questo modo una sorta di elaborazione in fieri. Similmente accade per tutti gli epigrammi alciatei

che volgono in latino quelli dell’Antologia Planudea:” prima sono pubblicati, insieme al testo greco e ad altre versioni degli stessi rese da diversi eruditi dell’epoca, nei Selecta epigrammata

del 1529, poi Alciato li ripropone nella sua sola traduzione e

svincolati da questo contesto, includendoli liberamente nel corpus degli Emblemata e attribuendo a ogni epigramma, secondo un suo proprio intendimento, un titolo sui genens, che annuncia e racchiude il soggetto cantato nei versi. Di conseguenza, l’insieme emblematico che ne scaturisce risulta sia im-

preziosito dalla presenza e varietà di quell’antica lirica da lui rivisitata, sia rigenerato concettualmente dal significato inedito che assume grazie alla novella titolatura. Quando furono inserite le illustrazioni?

Altro dilemma, connesso al problema della prima edizione,

è quello delle illustrazioni e del loro inserimento.® Replico e riassumo la questione per maggiore chiarezza: Alciato nel

1522 pubblica gli Emblemata, operetta che contiene solo epigrammi (così nell’altra compilazione del 1523), mentre nell’edizione Steyner del 1531 troviamo che i componimenti poetici sono accompagnati da vignette. Perché questa modifica e integrazione? A chi si deve? Non è possibile dare risposte

37. Cfr. A. Saunders, Alciati and the Greek Anthology, in « Journal of Medieval and Renaissance Studies», 12, 1982, pp. 1-18. Si veda la « Nota al testo, alla traduzione e al commento». 38. L’argomento

era dibattuto

fin dal secolo

di Alciato,

come

dimostra

l’annotazione di Luca Contile (1505-1574) nel Ragionamento sopra la pro-

prietà delle Imprese, Pavia, Girolamo Bartoli, 1574, p. 24r: «Alcuni si trovano

i quali dicono essere stato detto libro [gli Emblemata], primieramente stampato senza le figure, ma dopo alcuno tempo, furono da quel gran iureconsulto [Alciato] giudiziosamente aggionte, più per vaghezza e per bella vista che per più chiaro intelletto di quella mirabile poesia».

XXxVI

INTRODUZIONE

certe alla domanda per la mancanza di testimonianze o documenti a riguardo; si possono tuttavia proporre tre ipotesi: due

attribuiscono ad Alciato la responsabilità di un simile connubio testo/immagine, l’altra al solo Steyner. Prima di prenderle in considerazione sgombriamo il campo da un’opinione in

merito che non condividiamo. Il fatto che in due epigrammi senza immagine dell’edizione del 1531 (si vedano gli Emblemi LXXXVIII e CII) compaiano, a margine dei versi, delle citazioni che rinviano a due precisi passi di Plinio e di Fulgenzio, nei quali si descrive l’argomento degli epigrammi, ha indotto alcuni studiosi” a ritenere ciò un voluto suggerimento di Alciato (in-

dicato appositamente nel manoscritto e poi mantenuto da

Steyner) all’artista che, leggendo per esteso i brani citati, avrebbe potuto meglio raffigurare i soggetti (il camaleonte in LXXXVIII e Bellerofonte che uccide la Chimera in CIlI) non sufficientemente delineati nei versi. Le due citazioni,

concepite come un ‘aiuto’ all’incisore/disegnatore, testimonierebbero l’intento alciateo di far illustrare i suoi epigrammi fin dalla primitiva stesura degli stessi, e sarebbero poi servite all’artista che realizzò le vignette per la stampa

del 1534, dove le citazioni non sono più riportate, essendo state sostituite dalle xilografie che le hanno fedelmente seguite e risolte traducendole graficamente. L’osservazione

non è condivisibile per il semplice motivo che a un attento

riscontro testo/immagine

(per intenderci: fra i brani di Pli-

nio e di Fulgenzio con le rispettive illustrazioni degli Emblemi LXXXVIII e CII del 1534) risulta che soltanto l’ico-

nografia del camaleonte deriva dalla descrizione pliniana e non dai versi di Alciato, mentre non si può dire altrettanto per l’immagine di Bellerofonte e la Chimera, che non concorda minimamente con la descrizione di Fulgenzio.*

L’ineccepibile contraddizione inficia inevitabilmente la con-

gettura. Le due citazioni si possono invece considerare del-

le semplici annotazioni o richiami al testo manoscritto ap-

posti a uso dell’autore, e così riprodotti nella stampa di Steyner. 39. Cfr. H. Homann,

Studien zur Emblematik, cit., p. 36; F.W.G. Leeman, A-

40. Cfr. il commento

ai due Emblemi.

ciatus’ Emblemata, cit., p. 28.

INTRODUZIONE

XXxVII

Tomniamo alle tre ipotesi sviluppandole: 1) La prima suppone che Alciato avesse previsto, dopo le

prime raccolte poetiche del 1522/1523, di inserire delle illustrazioni o quantomeno lo avesse in qualche modo raccomandato, per cui quando Steyner si è trovato il volumetto degli Emblemata

da stampare

nel

1531,

venutone

scenza, ha eseguito la volontà dell’autore.

a cono-

2) La seconda‘ presume che Alciato per Emblemi inten-

desse sempre e soprattutto gli epigrammi, ma che lasciasse poi agli editori il compito di approntare eventualmente

l’apparato iconografico. Infatti, se nel primo paragrafo abbiamo accertato che per Emblema, almeno agli albori dell’invenzione alciatea, doveva intendersi soltanto l’epigram-

ma, non può non colpire il dato tipografico/ editoriale che tale condizione persista pure in alcune importanti edizioni dei secoli XVI e XVII dell’Opera omnia di Alciato, nonostante l’ormai prolifica diffusione degli Emblemata illustra-

ti. Basti ricordare la pubblicazione — ancora vivente Alciato

— dell’Opera omnia del 1548 (Lione), la prima raccolta dei suoi scritti autorizzata, e quelle del 1549 (Basilea), anche questa con il consenso dell’autore e più volte ristampata, e del 1571 (Basilea).“ In simili raccolte, gli Emblemata sono inseriti con il solo testo degli epigrammi senza alcuna immagine, dichiarando in tal modo, implicitamente, l’autosufficienza di quel lavoro poetico, che poi altri semmai,

‘con il beneplacito del Nostro, avrebbero potuto corredare

con vignette.

'

3) La terza ipotesi, che non contrasta con la seconda appena detta, è la più articolata: esaminiamola con ordine, partendo dalla Praefatio di Alciato agli EmbWemata, pubblicata sia da Steyner che nelle edizioni posteriori, ma composta non dopo il 1519.*

41. Opportunamente messa in luce da H. Miedema, The T'erm, cit., pp. 238-39. 42. Cfr. rispettivamente in H. Green, Andrea Alciati, cit., nn. 30, 35, 62, 82; ricordo che anche nell’edizione Steyner troviamo sei epigrammi senza vi-

gnette (cc. E4r-v, E5r, F2vwF37).

43. Si veda, sopra, il paragrafo «Epigrammi ed Emblemi».

Clarissimi viri D. Andreae Alciati in Libellum Emblematum praefatio ad D. Chonradum Peutingerum Augustanum “ Dum pueros iuglans, iuvenes dum tessera fallit,

Detinet et segnes chartula picta viros. Haec nos festivis Emblemata cudimus honis, Artificum illustri signaque facta manu. Vestibus ut torulos, petasis ut figere parmas, FEt valeat tacitis scribere quisque notis.* At tibi supremus pretiosa nomismata Caesar, Et veterum eximias donet habere manus. Ipse dabo vati chartacea munera vates,

Quae Chonrade mei pignus amoris habe.

Prefazione al Libretto degli Emblemi

dell’Illustrissimo Signore Andrea Alciato al Signor Chonrad Peutinger* di Augusta 44. La dedica sia in A. 1531 che in A. 1534 è tipograficamente costruita

con lettere maiuscole nella parte superiore e minuscole in quella inferiore, sì da comporre un technopaegnion triangolare con il vertice in basso. I versi sono stati commentati con interpretazioni non sempre concordi da,

Mignault, pp. 16-19; Thuilius, pp. 1-8; J.G. Lotter, Historia vitae atque meritorum Conradi Peutingeri, cit., p. 655; H. Miedema, The Term, cit., pp. 241-44;

H. Homann,

Studien zur Emblematik, cit., pp. 34-40; C. Balavoine, La mani-

pulation des «images symboliques », cit., pp. 9-18; F.W.G. Leeman, Alciatus’Emblemata, cit.;J. Kohler, Alciato’'s Shadow, cit.

45. Ovidio, Am., 2, 7, 5: «tacitae notae », «segni, cenni segreti». 46. Il patrizio di Augusta Chonrad Peutinger (1465-1547), celebre antiquario e umanista, studiò in gioventù Legge e Belle lettere a Padova, Bo-

logna e Firenze. Fu in speciale confidenza con l’imperatore Massimiliano

I d’Asburgo, per il quale svolse missioni di carattere diplomatico e di natura letteraria e culturale. A lui Bernardino Trebazio dedicò nel 1515 la prima traduzione in latino dei Hieroglyphica di Horapollo. Il tono della dedica alciatea, aulica e amicale insieme, evidenzia l’ammirazione per le co-

noscenze antiquariali di Chonrad, delle quali lo stesso Alciato era raffinato cultore, ed è probabilmente in questo comune sentire che va cercato il motivo più genuino della dedica degli Emblemata, anche se l’ultimo distico ne indica la ragione nelle virtù letterarie di Peutinger: cfr. J.G. Lotter, Htstoria vitae atque meritorum Conradiì Peutingeri, cit., pp. 63-65; si veda, sopra, il paragrafo « Epigrammi ed Emblemi».

INTRODUZIONE

XXIX

Mentre i fanciulli giocano alle noci,‘’ i giovani a dadi

e gli uomini oziosi si intrattengono con le carte da gioco,* 1i0 nelle ore di festa conio* questi Emblemi e figure simboliche” di illustre mano di artisti,

affinché chiunque sia in grado di applicare fregi” alle vesti e scudi*! ai cappelli, o di scrivere muti segni.°

47. Marziale, 4, 14; 5, 30, 8. L’uso ludico delle noci, impiegate per lo più

come palline, era già diffuso presso i fanciulli romani: per le fonti lettera-

rie cfr. S. Pitiscus, Lexicon antiquitatum romanorum, Venetiis, 1'719, vol. IL p.

666. Il senso del gioco e del diletto unito a valenze significanti e didattiche, qui trasferito all’invenzione poetica e visiva degli Emblemi, riprende il motivo umanistico (ma già classico: paradigmatici i versi di Orazio, Ars, 333 sgg.: «Aut prodesse volunt aut delectare poetae / aut simul et iucunda

et idonea dicere vitae ») del «docere» e « delectare » insieme: R.W. Lee, Ut

Pictura Poesis. A Humanistic Theory of Painting, New York, 1967, pp. 55-58; G. Innocenti, L’immagine significante. Studio sull’emblematica cinquecentesca,

Padova, 1981, pp. 15-19, 158-60.

48. Thuilius, p. 4: «Lusus chartarum»; H. Miedema,

The Term, cit., p. 243:

« The usual translation is with “playing cards”; the literal rendering is not “playing cards”, but “small prints”». 49. Il verbo cudere (propriamente «battere, forgiare metalli», ma anche «coniare monete » e «fabbricare anelli») va qui inteso nel senso della cura che Alciato pone nella composizione dei suoi Emblemi, analoga alla particolare precisione che il cesellatore, l’orefice mettono nell’esecuzione delle loro preziose opere. Alciato utilizza il verbo in una lettera del 1520 (Barni, n. 5, p. 12: « De verborum significatione commentario cudo»)

nel

senso di «redigere, preparare, attendere alla messa a punto » dei suoi scritti; cfr. C. Balavoine, La manipulation des «images symboliques», cit., p. 13.

50. Negli Emblemata (cfr. Emblemi VIII, LIX, LXV, LXVII, LXXXII, C, CVII, CVIII, CXII) il lemma signa assume vari significati («simbolo, figura,

insegna» ), tutti inerenti a un’iconografia allegorica. Traduco con « figure simboliche» per meglio esprimere e condensare l’estensione semantica che il vocabolo prende nel vocabolario alciateo.

51. «torulus»: tipo di acconciatura femminile dei capelli (Varrone, Ling., 5,

35), che Alciato per traslato riferisce qui alle vesti.

52. «parma»: piccolo e leggero scudo tondo dipinto o rotella (Varrone,

Ling., 5, 24; Properzio, 4, 10, 21; Servio, In Aen., 9, 548; Isidoro, Etym., 18, 13, 6), da intendersi in questo caso come un ornamento o una decorazio-

ne, sul genere di una medaglia o insegna circolare fissata sul berretto. Si

veda il documentato studio di Y. Hackenbroch, Enseignes. Renaissance Hat Jewels, Firenze, 1996.

53. Le «tacitae notae» sono ì geroglifici, i signa simbolici che appaiono ‘muti’, silenti a chi li guarda senza conoscerne il significato, mentre ‘parlano’ a chi sa comprenderne il senso nascosto: sono ‘muti’ in quanto si tratta di pitture, di immagini che non necessitano di essere ‘pronunciate’ bensì

‘viste’, sono segni senza ‘voce’: Valeriano, cit. sotto, alla nota 111; Pietro Crinito, De honesta disciplina, a cura di C. Angeleri, Roma, 1955, p. 180:

XXXx

INTRODUZIONE

Ma a te il sommo Cesare conceda di possedere preziose monete e insigni codici degli antichi.‘ Io, poeta, darò al poeta solo doni di carta’” che,

o Chonrad, ricevi come pegno del mio affetto.

Da questi versi emergono alcuni dati, in parte già visti e su cui torneremo man mano che si procede: il senso ludico con cui Alciato vive i suoi componimenti; il desiderio che nuovi stemmi, fregi da attaccare su cappelli e vesti, ecc. nascano dai

suoi epigrammi/ Emblemi; la capacità di questi stessi di creare immagini ‘geroglifiche’ (tacitae notae). Oltre a ciò, nel secondo distico, vi è una informazione di rilievo che specifica la doppia natura dell’impegno di Alciato. Si legge infatti che questi ‘conia’ Emblemi e figure simboliche (signa) realizzate da celebri artisti. Tali ‘figure’ non possono essere le vignette

(0 i loro presumibili disegni preparatori) che vanno insieme agli epigrammi nelle stampe degli Emblemata, perché di artisti «hieroglyphicae notae »; Fasanini, in Hori Apollinis Niliaci Hieroglyphica,

hoc est de sacris Aegyptiorum literis libelli II, de Greco in Latinum sermonem

a Phil. Phasaninio nunc primum traslati, Bononiae, Girolamo Benedetti, 1517, c. xLvr: «sacrae notae »; Celio Rodigino, Lectionum antiquarium libri triginta, (Francoforte], eredi André Wechel, Claude de Marne, Johann Aubry, 1599 (editio princeps: Venetiis, eredi di Aldo & Andrea Torresano, 1516), col. 1381: «Ammianus Marcellinus in obelisci mentione: for-

marum (inquit) innumeras notas, hieroglyphicas appellatas». Infatti, la fonte per il binomio notae/geroglifici è Ammiano Marcellino, che parla

delle incisioni geroglifiche sugli obelischi, 17, 4, 8: «Formarum

autem in-

numeras notas, hieroglyphicas appellatas, quas ei undique videmus inci-

sas, initialis sapientiae vetus insignivit auctoritas». In Ovidio (Am., 2, 7, 5)

le «tacitae notae» significano dei segni, dei cenni segreti: anche se questo dovesse essere il senso più conveniente delle parole di Alciato, il riferimento ai geroglifici non cambia, dal momento che agli stessi veniva riconosciuto un valore criptografico (Fasanini, in Hori Apollinis Niliaci Hieroglyphica, cit., c. XLvv: «nam

et illorum usus cum parentum

nostrorum me-

moria frequens fuerit, hac quoque tempestate secretioribus in rebus a plerisque adhibent»). Cfr. Mignault, p. 18; Thuilius, p. 6. 54. Seguo J.G. Lotter, Historia vitae atque mentorum Conradi Peutingenri, cit., p. 65: « facile, putamus, intelliget per “nomismata et veterum manus” significari nummos Caesarum antiquos set priscos historiae patriae Codices, quos versandos explicandoque Maximiliano Conrado obtulit». 55. 1 fogli dell’Emblematum liber con gli epigrammi/Emblemi; Marziale, 13, 3, 5: «pro munere disticha mittas»; cfr. 14, 10 (« Non est munera quod putes pusilla, / cum donat vacuas poeta chartas») e 14, 11.

INTRODUZIONE

XXxXXxI

famosi non sono, né si possono attribuire alla mano di Alciato,

che non risulta affatto fosse dotato di virtù grafiche. Ma anche

e prima di tutto per un altro motivo: quando il Nostro scrive la dedica a Peutinger, prima del 1519, l’Emblematum liber è for-

mato ancora da soli epigrammi, mentre le vignette, per altro di mediocre fattura, come ammette lo stampatore Heinrich Steyner nell’«epistola al lettore», verranno inserite nel testo

solo con la sua edizione del 1531: «Non a torto, sincero letto-

re, rimpiangerai la nostra diligenza nelle vignette che sono

state aggiunte a quest’opera; infatti l’autorità del valentissimo autore e la dignità del libretto meritavano illustrazioni più ele-

ganti, cosa che anche noi ammettiamo » .” Ne consegue che questi signa di celebrati artisti vanno cercati

altrove.

Si

trovano,

infatti,

nei

medesimi

epigram-

mi/Emblemi: sono tutte quelle figure allegoriche, scolpite, incise, dipinte da rinomati artisti dell’antichità, le quali poe-

ticamente vengono ‘fatte vedere’ e rinnovate nell’invenzio-

ne ecfrastica dei versi. Basti ricordare la preziosa gemma dell’Emblema VII, l’Occasio di Lisippo dell’Emblema XYVI, l’effigie di Ocno da antichi dipinti dell’Emblema XVII, l’Er-

cole fra i Pigmei di Filostrato dell’Emblema XX, la Pallade di

Fidia dell’Emblema XLII, la statua di Leena dell’Emblema

LXIII, il dipinto con Eros e Anteros per l’Emblema LXXII, il simulacro della Buona Speranza di Elpidio dell’Emblema LXXVIII, senza considerare quanti epigrammi alciatei dipendano da citazioni classiche e reperti antiquariali. Mi pare pertanto che il distico voglia semplicemente dire che Alciato, nei suoi epigrammi/Emblemi, replica immagini di insigni opere del passato dovute a «illustri mani artistiche», «coniandole» così, liricamente, in nuova forma. Non

a caso nei suoi componimenti poetici canta appunto nume-

rose opere d’arte che trae dalla letteratura artistica greca e

latina: forme e immagini tramandate da Plinio, da Pausania,

da Luciano, dall’Antologia Planudea o dai Filostrati. Sono icone, statue e monumenti di eroi o rinomati personaggi,

resi ancora vividi dagli epigrammi/Emblemi, nei quali Alciato, fedele adepto dell’ut pictuta poesis, mette in luce tutta

la sua predilezione per l’ékphrasis. Basta prendere in esame, per esempio, gli Emblemi

XVI, XXV, LIX, LXVII, LXXVIII

56. Questione esaminata nel paragrafo «Quando strazioni?».

furono inserite le illu-

XXXxII

INTRODUZIONE

e XCVII, nei quali il meccanismo ecfrastico procede attra-

verso la trama dialogata dei versi, in cui la celebre opera d’arte ‘spiega’ se stessa e il senso del suo aspetto dinanzi all’ammirato osservatore che la interroga.

Tali considerazioni trovano ulteriore conferma nell’« epi-

stola al lettore » di Steyner:

Candido Lectori Salutem Plurimam Haud immerito candide lector, nostram desyderabis diligentiam,

in hijs tabellis quae huic operi adiectae sunt, elegantiores nanque picturas, et authonis gravissimi authonritas, et libelli dignitas merebantur, quod quidem nos fatemur, cupiebamusque inventiones has illustriores tibi tradere ita, si eas quam artificiosissime depictas, ante oculos poneremus, nihilque (quod sciam) ad eam rem nobis defuit. Verum cum hoc non tantum magni laboris fuerit, (quem certe non subterfugimus) sed & maximi sumptus, intelligis quicquid huiuscemodi erat, id omne tibi denuo persoluendum fuisse. Utilissimum itaque nobis visum est, si notulis quibusdam obiter, rudioribus, gravissimi authoris inventionem significaremus, quod docti haec per se colligent, hocque ipso tibi gratificari voluimus, si magnas delitias parvo tibi compararemus. Bene vale, nostramque operam boni consule. Al sincero lettore, salute Non

a torto, sincero lettore, rimpiangerai la nostra dili-

genza nelle vignette che sono state aggiunte a quest’opera; infatti l’autorità del valentissimo autore e la dignità del libretto meritavano illustrazioni più eleganti, cosa che anche noi ammettiamo. Desideravamo che queste invenzioni ti fossero presentate più belle, in modo da porle davanti ai tuoi occhi dipinte con quanta più arte possibile, e niente,

per quanto sappia, abbiamo tralasciato a questo riguardo.

Per altro, essendo stato ciò non solo di grande fatica (a cui certo non ci sottraemmo) ma anche di grandissima spesa, comprendi che quanto era di più avresti dovuto pagarlo in-

teramente di nuovo. Perciò la cosa più utile ci è parsa quel-

la di illustrare frattanto, seppure con qualche piccola figu-

ra un po' troppo rozza, l’invenzione del valentissimo au-

tore, nonostante i dotti sappiano trarla da sé. E con questo abbiamo voluto compiacerti, preparandoti con poco

INTRODUZIONE

XXXxIII

grandi delizie. Sta bene, e consulta benevolmente la nostra

opera.

Il tono e la sostanza dell’« epistola» non lasciano dubbi

sul fatto che fu Steyner, di sua iniziativa, a inserire le immagini in un testo costituito soltanto da epigrammi, come doveva esserlo secondo quanto sopra accertato. A questo punto, non disponendo fino a oggi di alcuna sicura prova documentale, diretta o indiretta, sulla genesi dell’edizione Steyner e sulla questione delle vignette, prende corpo la terza

ipotesi.

Steyner ebbe il testo degli Emblemata con gli epigrammi e

la dedica di Alciato a Peutinger, che difatti pubblica, e nella

quale si dichiara che i versi devono servire a creare immagini artistiche («io nelle ore di festa conio questi Emblemi / e figure simboliche di illustre mano di artisti, / affinché chiunque sia in grado di applicare fregi alle vesti / e scudi ai cappelli, o di scrivere muti segni»). Steyner seguì e attuò il

desiderio di Alciato (« Perciò la cosa più utile ci è parsa quel-

la di illustrare frattanto, seppure con qualche piccola figura un po' troppo rozza, l’invenzione del valentissimo autore»), cioè di rappresentare concretamente e artisticamente immagini accompagnando il discorso poetico con le incisioni (infatti si scusa di proporre al lettore xilografie ‘inadegua-

te’, perché altrimenti, se fossero state di notevole fattura artistica, la spesa per lui, editore, sarebbe lievitata con il con-

seguente aumento del costo del libro). Se l’ipotesi è giusta

ne consegue che a Steyner si deve l’idea tipografica degli Emblemi, intesi non più come singoli epigrammi, bensì quale calcolata coniugazione di testo poetico e immagine, soluzione non espressamente prevista da Alciato. A favore di questa seconda eventualità c’è soprattutto la condanna del Nostro per questa edizione: un severo rifiuto che, come osservato, testimonia la sua esclusione dal lavoro

di Steyner

(impensabile

che Alciato avesse collaborato al-

l’edizione per poi rinnegarla a causa delle gravi mende), che evidentemente agì di sua iniziativa, e al quale spetta l’esclusi-

va paternità del lavoro editoriale e dell’innesto delle vignette. Ulteriore conferma di ciò si deve al riscontro oggettivo che alcune incisioni dell’edizione di Steyner vennero icono-

XXXxIV

INTRODUZIONE

graficamente del tutto cambiate in quella successiva del 1534 rivista e approvata da Alciato. Si tratta di modifiche figurative sostanziali: dato che mostra un intervento sulle illustrazioni da parte dell’autore, che evidentemente non condivideva o non riteneva soddisfacessero la proposta ecfrastica dei suoi epigrammi, e che dunque non potevano essere state suggeri-

te da lui stesso per l’edizione del 1531. L’azione censoria di Alciato mette così in risalto, per contrasto, l’intraprendenza e l’autonomia di Steyner nella scelta e nell’inserimento delle sue xilografie accanto agli epigrammi, e pertanto l’originalità di tale soluzione o accorgimento. Se l’ipotesi è legittima, le conseguenze sono di non poco

conto, ovvero si dovrebbe quantomeno ridimensionare il me-

rito di Alciato nel successo dell’Emblematum liber. Infatti, sa-

rebbe la trovata di Steyner (che del resto segue fedelmente l’invito di Alciato a produrre immagini sulla base dei suoi epi-

grammi) e l’immediato boom editoriale (ricordo che Steyner

pubblicò tra il 1531 e il 1534 ben cinque stampe degli Emblemata)” ad avere poi indotto Alciato a correre, per dir così, ai ripari e a produrre la rinnovata edizione del 1534 con lo stampatore parigino Wechel (al quale il Nostro l’aveva com-

missionata prima del gennaio 1533,* dunque avanti che Steyner stampasse la sua quinta e ultima edizione degli Emblema-

ta, verosimilmente per togliergli l’iniziativa e ‘riprendersi’ il

proprio libell'us), includendo altri epigrammi con titoli e nuo-

ve vignette a lui gradite, accogliendo però e facendo sua la soluzione iconico-tipografica elaborata da Steyner. Prendeva forma, forse in questo modo, la tipologia triparti-

ta dell’Emblema che presto diverrà canonica: titolo, immagine e poesia, cioè inscriptio (succinta intestazione ovvero motto

che dichiara il soggetto, tema o concetto dell’Emblema), pic57. H. Green, Andrea Alciati, cit., pp. 116-22; G. Duplessis, Les Emblèmes d 'Alciat, cit., pp. 9-11; A. Adams, S. Rawles, A. Saunders, A _ Bibliography of French Emblem Books of the Sixteenth and Seventeenth Centuries, vol. 1, Genève,

1999, pp. 8 sgg.

58. Alciato conosceva Wechel da tempo: in una lettera del gennaio 1529

(Barni, n. 46) il Nostro gli scrive proponendogli la stampa di un suo opuscolo nel quale ha spiegato in ordine alfabetico i termini del diritto (forse il De verborum significatione); in un’altra, del 1533, sempre indirizzata a We-

chel, si apprende che, a quella data, Alciato gli aveva già commissionato la stampa degli Emblemata: C.F. Buhler, A Letter written by Andrea Alciato to Christian Wechel, in « Library», 5/16, 1961, pp. 201-205.

INTRODUZIONE

XXXxV

tura o res picta (visualizzazione del soggetto) e subscriptio (descrizione in versi del soggetto: un sonetto, un epigramma di varia lunghezza), come codificherà fin dalla metà del XVI secolo la fortunatissima letteratura di concetto post Alciato.” Il termine «Emblema »

La scelta di chiamare «Emblemi» gli «epigrammi » si deve

alla singolare parentela retorica che associa i due termini. Vediamo la questione. Il latino emblema, dal greco éuBArLa, composto delle parole év (en, «in») e B&AXo (ballo, «inserisco, faccio entrare »), significa ciò che si introduce o include per ornamento in un’altra cosa, come accade nell’intarsio,

nel mosaico, nel ricamo delle vesti, oppure nelle forme in rilievo applicate su altra materia, per esempio un tondo d’oro con effigie sbalzata fissato sopra un vaso d’argento. È un lemma tecnico-artistico,” che nel periodo romano indica specialmente l’opera di composizione a tessere minute da inserire con maestria in un più ampio quadro musivo. In Cicerone,®! 59. Sulla struttura programmatica dell’Emblema e la sua correlazione con

quella dell’impresa (il primo a teorizzare le regole e la forma di quest’ultima fu Paolo Giovio nel Dialogo delle imprese militari e amorose, apparso a Roma per la prima volta nel 1555) si veda il moderno dibattito storico-ritico

in P.M. Daly, Literature, cit., pp. 27 sgg., 42 sgg., 132 sgg.; cfr. anche in H.

Miedema,

The Term, cit., pp. 234-35; ragguardevole il contributo di G. In-

nocenti, L'immagine si gnificante, cit., pp. 10 sgg., 20 sgg., 59-61.

60. Varrone, Rust., 3, 2, 4; Cicerone, Verr., 2, 4, 37; 2, 4, 49; 2, 4, 52; Plinio,

Nat. hist., 33, 156; 36, 185

(d’ora in poi solo Plinio); importanti per i nu-

merosi riferimenti i Digesta Iustiniani (10, 4, 7, 2; 33, 6, 3, 1; 34, 2, 17-19; 34, 2, 27, 4; 34, 2, 32, 1), ovviamente noti al giurista Alciato. 61. De or., 3, 171: «Sequitur continuatio verborum, quae duas res maxime,

conlocationem primum, deinde modum quendam formamque desiderat. Conlocationis est componere et struere verba sic, ut neve asper eorum concursus

neve hiulcus sit, sed quodam

modo

coagmentatus

et levis; in

quo lepide soceri mei persona lusit is, qui elegantissime id facere potuit, Lucilius: “Quam lepide lexis compostae! ut tesserulae omnes / arte pavimento atque emblemate vermiculato”»; Or, 149-150: «Atque illud primum videamus quale sit — quod vel maxume desiderat diligentiam — ut fiat quasi structura quaedam nec tamen fiat operose; nam esset cum infinitus tum puerlilis labor; quod apud Lucilium scite exagitat in Albucio Scaevola: “Quam lepide lexis compostae ut tesserulae omnes / Arte pavimento atque emblemate vermiculato!”. Nolo haec tam minuta constructio appareat; sed tamen stilus exercitatus efficiet facile formulam

componendi. Nam

XXXxVI

INTRODUZIONE

che riporta una frase dalle Satire di Gaio Lucilio,‘° e in Quintiliano° il termine assume valenza figurata: come le sottli tessere sono disposte e incastrate ad arte in un pavimento a mosaico, così è opportuno accomodare con grazia e decoro le parole nel discorso, sia orale che scritto, come

vuole la

chiarezza dell’assetto espositivo, del «lucidus ordo» oraziano. Dunque l’ordine e l’ingegnosa distribuzione dei tasselli che compongono l’insieme musivo, opera che grazie a tale arte offre forme piacevoli e belle agli occhi, trovano corrispondenza nella dispositio logica degli argomenti costituenti l’orazione, che analogamente congeniata svolge in modo chiaro ed elegante il pensiero da illustrare, secondo una esposizione che merita di essere ascoltata con plauso. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a immagini discorsive ed efficaci, là date dalla combinazione di minute pietruzze colo-

rate, qui dallo sposalizio di diversi elementi verbali.

Le due accezioni del termine, la propria e la figurata, furono ben conosciute dagli umanisti® e il Nostro le utilizzò enut in legendo oculus sic animus in dicendo prospiciet quid sequatur, ne extremorum verborum cum insequentibus primis concursus aut hiulcas voces efficiat aut asperas. Quamvis enim suaves gravesve sententiae tamen, si inconditis verbis efferuntur,

perbissimum »; cfr. Brut., 274. 62. 2, 84, fr. 56 [Bàhrens].

offendent

auris, quarum

est iudicium

63. Inst., 2, 4, 27: «ut, quotiens esset occasio, extemporales eorum nes his velut emblematis exornarentur».

su-

dictio-

64. Ars, 40-41.

65. Quintiliano, Inst., 7, 1, 1-2.

66. Un’accurata rassegna di questi autori e delle loro citazioni (Francesco

Colonna, Angelo Poliziano, Filippo Beroaldo il Vecchio, Pietro Crinito, Guillaume Budé, Catelliano Cotta, Erasmo, Celio Rodigino, Celio Calcagni-

ni) in D.L. Drysdall, Préhistoire de l’emblème: commentaires et emplois du terme

avant Alciat, in «Nouvelle Revue du Seizième Siècle », 6, 1988, pp. 29-44. Inoltre, E. MacPhail, The Mosaic of Speech: A Classical Topos in Renaissance Aesthetics, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 66,

2003, pp. 24964. Luca Contile, nel Ragionamento sopra la proprietà delle Impre-

se, cit., p. 24r-v, osserva: « La voce emblema è greca, usata per titolo d’un suo libro dal divino Alciato e lo stesso emblema è una interpositione, o vero compositione di più cose, materiali, diversamente colorite et insieme mae-

strevolmente congegnate »; Contile prosegue considerando che il termine

Emblema si può adoperare per la tarsia lignea, per l’ornamento musivo, per

la miniatura, l’incrostatura e la intagliatura marmorea, e precisa inoltre: «Il

Budeo [Guillaume Budé] nelle sue annotationi chiama Emblemi l’opera ver-

miculata con conserto et adattamento di minute tavolette di legnami a pro-

INTRODUZIONE

XXXxVII

trambe per denominare i suoi epigrammi. Da un lato, quello figurato, Alciato considera questi ultimi, similmente agli Em-

blemi lapidei, come un insieme di singole parole il cui ordo lirico ‘dipinge’ immagini: uno studiato concento verbale e retorico da cui scaturiscono infine ‘luoghi’ (tépoi) iconografici e simbolici, in cui è l’ecfrasi poetica a tessere il componimento visivo. Da un altro, quello proprio, Alciato raccomanda che

tale visualizzazione in versi trovi, come detto sopra, una effet-

tiva realizzazione presso pittori, orefici, ecc., che produrranno stemmi, insegne o icones symbolicae, per poi fissarli su vesti,

cappelli o altrove, esattamente come accadeva con l’Emble-

ma classico, che veniva inserito, congiunto a questa o quella forma secondo l’uso e la predisposizione.

II. IL NODO

SAPIENTE:

L’IMMAGINE

PAROLA

Come un ventaglio istoriato si apre e distendendo a pocoa poco la sua superficie semicircolare esibisce chiara la figurazione che lo trama, così il pensiero dispiega e mostra con im-

magini i propri ragionamenti, innanzi raccolti nell’intumo. La

logica ne delinea e guida la sequenza che, altriment, risulte-

rebbe priva di quella interna coniugazione fra le parti e il tutto, che rende possibile e manifesta la dinamica del pensiero stesso, cioè del processo di riflessione che visualizza il concetto.

Così, attraverso queste rappresentazioni mentali, come in uno specchio, l’intelletto vede dipanarsi il senso dei suoi di-

scorsi per poi proporli e comunicarli all’altro da sé. L’imma-

gine dunque e poi la parola, due realtà espressive relazionate tra loro grazie a un nodo sapiente che ne regola l’intreccio, quando vigorose e dilettevoli, con la pittura e la poesia o con altra arte che su verba e imagines sì fonda, ostentano alte congetture o semplici elucubrazioni. Il nesso che le stringe

talmente da renderle intercambiabili e vicarie l’una dell’al-

tra sta nella loro comune origine, ossia nella naturale arte dell’immaginazione — phantasia o imaginatio —° che produce posito et di metalli ... Si piglia ancora l’emblema per una per ciò con mirabil giuditio, l’imortale Alciato di questo le la sua sopranominata Poesia morale e religiosa»; cfr., P B 67. Non si può pensare senza immagini (Aristotele, De

testura di parole ... titolo chiamar volsotto, la nota 122?.

an., 427b sgg.; De

XXXxVIII

e nutre

INTRODUZIONE

l’interiore

andamento

discorsivo,

combinandone

mnemonicamente i vari elementi figurali e verbali. Grazie a questa facoltà dell’anima si crea quel dipinto ventaglio intellettivo su cui vengono tessute storie e fabulae, dove similmente si possono riportare e illustrare speculazioni morali, scien-

tifiche, religiose o filosofiche come se si trattasse, appunto,

di esporle scrivendo, disegnando o acquerellando sulle pagi-

ne di un libro. Ma si noti che l’opera dell’immaginazione

non riguarda né la mimesi né il verosimile, non copia né ri-

produce le realtà sensibili, bensì, proprio perché affrancata da questa servitù esteriore, può creare interiori dimensioni

simboliche utili per ascendere a conoscenze sublimi.® mem., 449b

sgg.; Plotino, 4, 3, 30; Proclo, In Eucl,

121, 6-7); ampia la bi-

bliografia sull’attività immaginativa e i suoi vari aspetti psicologici, medici, mistico-filosofici e artistici, mi limito a segnalare per la tradizione occi-

dentale: E. Moutsopoulos, Le probleme de l’imaginaire chez Plotin, Athènes, 1980; N. Aujoulat, Les avatars de la phantasia dans le «T'raité des songes » de Synésios de Cyrène I-II, in «KOINQNIA», 7/2, 1983, pp. 157-77 e 8/1, 1984, pp-. 33-55; E. Moutsopoulos, Image et imageance, in Parcours de Proclus, Paris,

1993, pp. 35-40; P. Dronke, Imagination in the Late Pagan and Early Christian World, Firenze, 2003, pp. 5-24. In ambito

rinascimentale si veda: D.P. Wal-

ker, Spiritual and Demonic Magic from Ficino to Campanella, London, 1958, pp- 76-82, 136-61; R. Harvey, Tihe Inward Wits. Psycological Theory in the Middle Ages and the Renaissance, London, 1975, pp. 31-61; l’imaginatio come pratica iconico-filosofica: Giordano Bruno, Corpus iconographicum, a cura di M. Gabriele, Milano,

2001, pp. Lxxxv-xcC;

nel Polifilo: M. Gabriele, Festina

tarde: sognare nella temperata luce dell’immaginazione, in Storia della lin gua e storia dell’arte in Italia, a cura di V. Casale e P. D’Achille, Roma, 2004, pp. 16174; diversi e autorevoli contributi in Phantasia-imaginatio, «Atti del V Collo-

quio Internazionale del Lessico Intellettuale Europeo», a cura di M. Fattori e M. Bianchi, Roma, 1988. Sul rapporto phantasia/produzione artistica:

GM. Rispoli, L’artista sapiente. Per una storia della fantasia, Napoli, 1985. Sem-

pre utile e importante per la mole di materiali che raccoglie M.W. Bundy,

The Theory of Imagination in Classical and Mediaeval Thought, Urbana, 1928. 68. Memorabile Cicerone, Or., 8-9: «quod neque oculis neque auribus ne-

que ullo sensu percipi potest, cogitatione tamen et mente complectimur. Itaque et Phidiae simulacris quibus nihil in illo genere perfectius videmus et iis picturis quas nominavi cogitare tamen possumus pulchriora ... ipsius in mente insidebat species pulchritudinis eximia quaedam, quam intuens in eaque defixus ad illius similitudinem artem et manum dirigebat. Ut'igitur in formis et figuris est aliquid perfectum et excellens, cuius ad cogitatam speciem imitando referuntur ... ratione et intellegentia contineri»: qui si stabilisce che possiamo immaginarci (cogitare) cose più belle anche delle sculture di Fidia (che pure nel forgiarle aveva guardato non a un modello esterno, bensì interiore) e comprendere le realtà ideali platoniche

(Tim., 28a); Filostrato, Vit. Ap., 6, 19 (cfr. 2, 22): « L’imitazione può creare

INTRODUZIONE

XXXxXIX

Di questa straordinaria machina visionaria, serissima e giocosa insieme, ci interessa qui, per il ruolo fondante che ha nel-

l’emblematica alciatea, un determinato aspetto, quello della parola che si fa immagine, descrivendo con cura e dettagliatamente qualcosa: un paesaggio, un volto, un oggetto, un sogno

e così via.” Si tratta di una tecnica comunicativa, di un disposi-

tivo retorico chiamato ékphrasis” («descrizione») o endrgeia («evidenza»)” o kypotjposis («abbozzo, schizzo»), ovvero, in latino, descriptio, illustratio, demonstratio, evidentia: tutte modali-

tà” proprie dell’eloquenza classica e non solo, con le quali si indica in sostanza la capacità di rappresentare a parole, in ogni suo particolare, un determinato soggetto e di porlo così, fortemente caratterizzato, all’ascoltatore. Tanta forza descritti-

va accende l’immaginazione di quest’ultimo, stimola la sua attitudine a raffigurarsi nella mente ciò di cui si parla, rendensoltanto ciò che ha visto, ma l’immaginazione crea anche quel che non ha

visto, poiché può formarsene l’idea in riferimento alla realtà. Inoltre l’imi-

tazione è sovente sconvolta dal terrore, ma nulla può turbare l’immaginazione, poiché essa procede impavida verso l’idea che da sé stessa si è fatta», da Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, a cura di D. Del Comrno, Mila-

no, 1978, p. 283.

69. Ermogene, Prog., 10 [Reth., 2, 16, 32 Spengel].

70. « Discorso descrittivo che, in tutta chiarezza, pone l’oggetto dinanzi

agli occhi»: Teone, Prog., 11 [Reth., 2, 118 Spengel]. Sull’ecfrasi nella tradizione classica: P. Friedlander, Johannes von Gaza und Paulus Silentiarius, Berlin, 1912, pp. 1-95; S. Maffei (a cura di), in Luciano di Samosata, Descrizioni di opere d'arte, Torino, 1994, pp. XV-LXxxVI con annessa bibliografia; si veda anche M. Farnetti, Teorie e forme dell’ecfrasi nella letteratura ita-

liana dalle origini al Seicento. Saggio bibliografico, in Ecfrasi. Modelli ed esempi

fra Medioevo e Rinascimento, a cura di G. Venturi e M. Farnetti, Roma, 2004,

vol. II, pp. 537-600, dove sono riuniti vari e significativi contributi sull’argomento; notevole il recente R. Webb, Ekphrasis, Imagination and Persuasion in Ancient Rhetorical Theory and Practice, Famham,

2009.

71. Quintiliano, Inst., 6, 2, 32: «Insequetur endrgeia, quae a Cicerone inlustratio et evidentia nominatur, quae non tam dicere videtur quam ostendere,

et adfectus non aliter quam si rebus ipsis intersimus sequentur»; sul termine

endrgeia:]. Cousin, Etudes sur Quintilien, II, Paris, 1936, p. 74; cfr. anche S. Maffei, in Luciano di Samosata, Descrizioni di opere d'arte, cit., p. XvI.

72. H. Lausberg, Elementi di retorica, Bologna, 1969, pp. 197-98; B. Mortara

Garavelli, Manuale di retorica, Milano, 1988, pp. 234-38; Rhet. Her., 4, 68: « De-

monstratio est, cum ita verbis res exprimitur, ut geri negotium et res ante oculos esse videtur»; Cicerone, De orat, 3, 202; Quintiliano, Inst., 4, 2,

123; 6, 2, 32; 8, 3, 61-62; 9, 2, 40; per altre fonti: Cornifici Retorica ad C. Herennium, a cura di G. Calboli, Bologna, 1969, p. 400, nota 235, e p. 435, nota 309.

XL

INTRODUZIONE

dolo pronto a tradurre le parole in immagini. Per esempio un poeta recita una scena ritraendola in modo sì vivido e immediato che chi ascolta riceve l’impressione di vederla nella sua fantasia, con i propri occhi interiori. Di fatto è una raffinata arte comunicativa che mette in moto l’incontro, in dialettico

coinvolgimento, fra due facoltà immaginative: quella di chi

parla o scrive e quella di chi ascolta o legge. È una mirabile

simbiosi in cui il lettore o ascoltatore, non più mero e inerte fruitore, diviene attivo spettatore. In una simile trasmutazione della forza evocativa e persuasiva della parola nell’attualità della visione, il soggetto narrato si rinnova nella mente di chi lo recepisce e si fa presenza. Lo spettatore, così ‘impressionato’ e

compartecipe della visualizzazione suscitata dall’ecfrasi, può dunque ‘rivedere’ quel soggetto nella libertà del suo stato im-

maginale e, coinvolto, può commuoversi, gioire o provare di-

spiacere, come pure può sentirsi mosso a ‘conoscere’,” a spe-

culare, su un più nobile piano intellettuale, il senso del discor-

so visivo che gli appare dinanzi. Una siffatta composizione immaginativa può pertanto svolgere, con il suo speciale messaggio e la feconda dinamica che interessa i sensi interni e le im-

magini/ parole, anche un ruolo didattico, di ammaestramento e di via alla conoscenza, soddisfacendo l’istanza del delectaree

del docere propria dell’invenzione ecfrastica e più in generale dell’arte come strumento di imitazione, il cui piacere e godimento, secondo Aristotele,* consiste proprio nella conoscen-

za che essa procura, risultando tanto più grande quanto mag-

giore è l’esattezza della rappresentazione. Antiche le origini del paragone fra arte e letteratura: Plutarco” narra che Simonide di Ceo, poeta greco vissuto tra il VI e il V secolo a.C., affermò che «la pittura è poesia muta e 73. Cicerone, Part. Or., 6, 20: « Est enim haec pars orationis quae rem con-

stituat paene ante oculos. Is enim maxime sensus attingitur, sed et ceteri

tamen et maxime mens ipsa moveri potest»; cfr. Quintiliano, Inst., 6, 2, 32; Longino, De sublimate, 15, 1-2; sull’imitazione artistica e la visio mentale: Cicerone, Or., 8-10; Filostrato, Vit. Ap., 2, 22; cfr. G.M. Rispoli, L'artista

sapiente, cit., pp. 74 sgg., 88 sgg.

74. Poet., 4, 1448b; cfr. il Prologo di Filostrato alle Imagines e il libro II del De oratore di Cicerone e, sempre di quest’ultimo, Opt. gen., 3, 5 («Optimus est enim orator, qui dicendo animos audiendum et docet et delectat et

permovet») e 16. 75. Glor. Ath., 346£-347c.

INTRODUZIONE

XLI

la poesia pittura che parla». Aristotele nella Poetica”° fu il

primo a parlare più sistematicamente della questione, acco-

stando le due arti nel comune contesto dell’imitazione della

realtà da parte dell’uomo, mimesi perseguibile secondo mezzi espressivi diversi fra loro. Il procedimento ecfrastico,

che ha il suo archetipo nell’accurata descrizione omerica”

dello scudo di Achille, che ispirò Virgilio” per quello di Enea, conobbe poi la sua celebrazione nel famoso paragone oraziano «ut pictura poesis»” («la poesia è come la pittura»), emistichio che, a dispetto delle intenzioni del poeta (nel testo la frase riguarda semplicemente l’impatto di

un’opera d’arte — poesia o pittura che sia — sul fruitore, sul

critico che può gradirla o meno), assunse valenze semantiche assai più ampie e divenne fortunatissima espressione linguistica che, dal XV al XVIII secolo, fu oggetto di continue e rilevanti riflessioni teoretiche inerenti il rapporto tra arti figurative e letteratura. A un erudito rinascimentale con interessi antiquariali e artistici non erano certo ignoti i numerosi esempi ecfrastici la-

sciati dall’antichità e ripresi dall’Umanesimo. Non soltanto

vanno ricordati Omero e Virgilio per i rispettivi scudi, ma an-

che Petronio,” con la sua esposizione di un quadro con la

morte di Laocoonte, oppure Longo Sofista con le descrizioni di giardini e paesaggi negli Amori pastorali di Dafni e Cloe, 76. Specialmente in 1, 1447a; 1460b; Aristotele, Reth., 141 4a.

2, 1448a;

6, 1450a-1454b;

15,

1454b;

25,

77. Il., 18, 478-617; Luciano, Im., 8, chiama Omero il più eccellente tra i pittori: è la sua phantasia poetica, che ha saputo visualizzare pienamente

uomini, déi, luoghi, azioni, a fare di Omero un maestro di pittura: Pseudo Plutarco, Vit. Hom., 216; Filostrato, Im., 2, 2, 1; 2, 7, 2; Cicerone, Tusc., 5, 114: «Traditum est etiam Homerum caecum fuisse; at eius picturam, non poesin videmus»; Poliziano, Praef. in Homerum, in Opera omnia, Venetiis,

Aldo Manuzio, 1498, f. &9r: «quid si eundem (Homerum) picturae quoque magistrum autoremque vocemus, num opinor mentiamuro Cum praesertim sapientis dictum feratur, poesin esse loquentem picturam sicut e contrario pictura ipsa muta poesis vocatur».

78. Aen., 8, 608-731.

79. Ars, 361, ma anche 6-10 (cfr. Ep., 2, 1, 248-250); cfr. R.W. Lee, Ut Pictura Poesis, cit; W. Trimpi, The Meaning of Horace's Ut Pictura Poesis, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 36, 1973, pp. 1-34; G. Inno-

centi, L'immagine significante, cit., pp. 51 sgg., 79 sgg., 120 sgg. 80. 89-90.

XLII

INTRODUZIONE

nondimeno nel XVI secolo erano noti la Tavola di Cebete"' e 1 dipinti raccontati da Luciano,® o ancor più quelli narrati nelle Immagini di Filostrato e di Filostrato il Giovane,® con le loro gallerie di quadri, come pure la serie di statue di Callistrato. Illustri exempla che vennero sopravanzati dalle minuziosissime e

affabulatorie descriptiones di antichi monumenti nell’ Hypneroto-

machia Poltphili* dove l’ecfrasi raggiunse un esito letterario in-

superato, il più strabiliante e visionario del Rinascimento. Ma la tecnica ecfrastica di Alciato, con cui sono costruiti i suoi epi-

grammi/Emblemi e nei limiti lirici che la distinguono,* pur derivando da questa tradizione letteraria, dalla quale preleva dettami retorici e poetici, assume un nuovo statuto espressivo, grazie allo speciale sincretismo iconico-poetico che la impronta. Infatti, mentre nei citati Omero, Virgilio, Petronio, Lucia-

no, ecc., ma anche nell’Hypnerotomachia, le varie tipologie ec-

frastiche sono incastonate nella narrazione (le medesime /-

magini dei Filostrati fanno parte di un preciso racconto, quello di un viaggio didattico in una teoria di dipinti), dunque co-

stituiscono elementi preziosi e necessari all’ordito compositivo, ma mai argomento principale, in Alciato ogni Emblema con la sua traccia ecfrastica diviene, formalmente

e concet-

tualmente, un’espressione autosufficiente in quanto essenziale in sé. La ragione di ciò, e lo vedremo meglio tra poco, è conseguente al dato tecnico (costantemente perseguito da Alcia-

to nei suoi epigrammi emblematici), secondo cui l’ékphrasis o

81. Cfr. il commento 82. Riuniti

all’Emblema XIV.

in Luciano

di Samosata,

Descrizione di opere d'arte, a cura di S.

Maffei, cit. 83. Questi tre autori, necessari per la comprensione dell’ecfrasi e dei suoi significati, ebbero grande fortuna fin dalla loro prima edizione (Venezia, Aldo Manuzio,

1503) e contribuirono notevolmente

alla formazio-

ne delle teorie umanistiche sulla pittura come al loro successivo sviluppo, la bibliografia in merito è ampia, mi limito a segnalare: Philostratos,

FEikones, a cura di E. Kalinka e O. Schònberger, Munchen, 1968; Le «Immagini» di Filostrato Minore, a cura di F. Ghedini, I. Colpo, M. Novello, con la collaborazione di E. Avezzù, Roma, 2004; Le défi de l’art. Philostrate, Callistrate et l’image sophistique, a cura di M. Costantini, F. Graziani, S. Rolet, Rennes, 2006; Filostrato, Immagini, a cura di A.L. Carbone, con un saggio di M. Cometa, Palermo, 2008; cfr. G.M. Rispoli, L’artista sapiente,

cit., pp. 101-16. 84. M. Ariani, Descriptio in somniis: racconto e ékphrasis nell'« Hypnerotomachia

Poli phili », in Storia della lingua e storia dell’arte in Italia, cit., pp. 153-60.

85. Cfr., sotto, la nota 7 a p. Lxxv.

INTRODUZIONE

XLIII

descriptio devono costituire la base verbale utile alla realizzazio-

ne iconica di un tangibile segno ‘geroglifico’,® di un manufat-

to artistico materialmente dipinto o forgiato in metallo. In questo modo l’ecfrasi alciatea si trasforma da letterario strumento descrittivo a originale congegno creativo. La concretezza di questa scelta e di tale scopo, nello svolgimento verba/imagtines pensato da Alciato, rende la parola veicolo guida di un’immagine, che a sua volta diventerà simbolo autonomo dalla stessa parola che lo descrive e da cui sgorga. Sta in un tale sincretismo, che coniuga eppure separa e distingue i due elementi verbale e iconico per approdare a un nuovo, effettivo

linguaggio ‘geroglifico’, l’idea originale degli Emblemi alciatei che ebbe tanto seguito in Europa. Infatti, componente non

affatto secondaria per tale successo fu quella di trasformare il

binomio parola/immagine in una architettura visiva intensa ed eloquente, capace di riproporre, all’interno del riscoperto

mito dell’antico Egitto, allora in gran voga,” un credibile lessico ‘geroglifico’, enigmatico e arcano, muto eppure fecondo

quanto nessun altro di significati simbolici. Emblemi e geroglifici

Nel commento al De verborum significatione,® opera di Al-

ciato edita soltanto nel 1530 per diversi ritardi editoriali, ma 86. Si veda M. Gabriele,

Visualizzazione mnemonica negli Emblemi di Alciato, in

André Alciat (1492-1550): un humaniste au confluent des savoirs dans l’Europe de la Renaissance, a cura di A. Rolet e S. Rolet, Tumnhout, 2013, pp. 401-409.

87. Cfr., sotto, le note 100-103.

88. Andreae Alciati De verborum significatione, libri quatuor. Eiusdem in tractatum eius argumenti veterum iureconsultorum, commentaria (d’ora in poi De verborum significatione: il testo consiste nel sistematico commento alle 246 leggi

che compongono l’omonimo titolo del Digesto, 50, 16, opera che viene premessa alle osservazioni di Alciato), Lugduni, Sébastien Gryphius, 1530, p. 97 (in Andreae Alciati Opera omnia, Basileae, Michael Isengrin, 1557-1558, vol. I, col. 125); cfr. Accursii Glossa in Digestum Novum, Corpus Glossatorum, IX,

Torino, 1968, p. 558 (f. 280v): «Rubrica de verborum et rerum significatio-

ne ... et cave tibi, quia verba significant active, sed res passive. Nam verba si

gnificant et res significantur. Et est significare demonstrare rem, de qua queritur proprio nomine

ei attributo; sed hic largius sumitur, ut etiam si

non proprium nomen interveniat; sed quocunque modo designet res»; Quintiliano, Inst., 3, 5, 1 (cfr. 1, 5, 71): «Omnis autem oratio constat aut ex

iis quae significantur, aut ex iis quae significant, id est rebus et verbis».

XLIV

INTRODUZIONE

scritta intorno agli anni Venti,® pertanto contemporanea agli altri suoi brani sopra esaminati, si legge: « Verba significant, res significantur. Tametsi et res quandoque significant, ut hieroglyphica apud Horum et Chaeremonem, cuius argumento et nos carmine libellum composuimus cuius titulus est Emblemata» («Le parole significano, le cose sono significate. Tuttavia anche le cose talvolta significano, come i geroglifici di Horo e di Cheremone, argomento sul quale anche noi abbiamo composto un libretto in versi, il cui tito-

lo è Emblemata»).

Qui, oltre alla conferma della pubblicazione degli Emblemata (cì sì riferisce a quella del 1522?), intesa quale raccolta di carmi, sì fa esplicito riferimento ai geroglifici («ut hieroglyphica»), definiti, similmente alle parole («verba significant»), «cose che significano » (« Tametsi et res quandoque significant»), in quanto si credeva allora che il sacro vocabolario degli Egizi, costituito da quei particolari segni/immagini di ‘cose’ naturali (un’ape, un occhio, uno scarabeo, la luna, ecc.),

avesse valore ideografico, cosicché tali ‘cose’/geroglifici esprimevano ‘attivamente’ dei contenuti, ovvero significavano ‘altro’ da sé come si conviene appunto al signum simbolico (che si fa sempre veicolo semantico di qualcos’altro per l’intima struttura allusiva e sibillina che lo informa), al contra-

rio di quanto accade nei linguaggi ordinari dove «le cose sono significate » («res significantur»), viene cioè dato loro un senso attraverso i nomi e le parole che le definiscono. Alciato dichiara in tal modo che l’argomento, il contenuto dei suoi Emblemata, sì ispira ai geroglifici, in particolare alle opere di Horapollo e di Cheremone. Il primo è autore dei Hieroglyphica, testo greco riscoperto dagli umanisti del XV secolo, l’unico trattato sistematico sui geroglifici giuntoci dall’antichità, che Alciato cita in un suo scritto giovanile del 1508.” Del secondo, filosofo stoico e sacro scriba, si sono in-

vece perdute tutte le opere (fra le quali una inerente proprio i geroglifici): rimangono solo frammenti e citazioni sparse in alcuni autori.*! Viene così da chiedersi perché Alciato men-

89. K Giehlow, Die Hieroglyphenkunde, cit., pp. 139-40. 90. Andreae Alciati Antiquae inscriptiones, cit., c. 34v: «cuius rei ratio ab Horo in Hieroglyphicis repetenda est». 91. P.W. van der Horst, Chaeremon. Egyptian Priest and Stoic Philosopher. The Fragments collected and translated with Explanatory Notes, Leiden, 1984 (1987°).

INTRODUZIONE

XLV

zioni Cheremone quale sua fonte letteraria quando in effetti non rimane quasi niente della sua dottrina. La risposta all’apparente incongruenza sta nel fatto che in questo caso il Nostro segue l’opinione di Erasmo che negli Adagia,* opera ben nota ad Alciato,” ascrive a Cheremone i geroglifici di Francesco Colonna, l’autore dell’ Hypnerotomachia Poliphili, pubblicata nel 1499. Perciò è a questo testo, credendo che trasmetta gli scritti di Cheremone, che guarda Alciato.° Ma per

92. IL 1, f. 1137, a proposito del motto «festina lente» e del serpente che si morde la coda come simbolo dell’universo: «Etiamsi Horus Aegyptius,

cuius extant duo super huiusmodi symbolis libri, serpentis scalptura non annum

sed

aevum

repraesentari

tradit. Annum

autem

tum

lsidis,

tum

phoenicis imagine. Scripsit his de rebus et Chaeremon apud Graecos, testimonio Suidae, cuius ex libris excerpta suspicor ea, quae nos nuper conspeximus huius generis monimenta. In quibus etiam haec inerat pictura. Primo loco circulus, deinde anchora quam mediam ut dixi delphinus obtorto corpore circumplectitur. Circulus, ut indicabat interpretamentum adscriptum, quoniam nullo finitur termino sempiternum innuit tempus. Anchora quoniam navim remoratur et alligat, sistitque tarditatem indicat. Delphinus, quod hoc nullum aliud animal celerius, aut impetu perniciore velocitatem exprimit. Quae si scite connectes efficient huiusmodi sententiam: Semper festina lente». Qui Erasmo ricalca puntualmente, come autentici geroglifici di Cheremone, quelli escogitati dal Colonna (vol. I, p. 69; vol. II, pp. 69, 615-16): un circolo e un’àncora con un delfino attorci-

gliato significano «semper festina tarde»

te»); cfr. l’Emblema XXI.

(«affrettati sempre

lentamen-

93. Barni, nn. 37 e 64. Sul rapporto di stima che legò Alciato a Erasmo, il loro scambio epistolare e l’influenza degli Adagia sugli Emblemata: P.E. Viard, André Alciat, cit., pp. 135, 171; G. Cascione, Filosofia e comunicazione

politica nell'Europa di Carlo V: Erasmo, Alciato, l’emblematica, in «Glasgow Emblem Studies», 12, 1977, pp. 93-114; V.W. Callahan, Erasmus's «Adages » - A Pervasive Element in the «Emblems » of Alciato, in «Emblematica», 9, 1995, pp. 241-56; J.-C. Margolin, Alciato, a Champion of Humanism in the Eyes of Eras-

mus, ibid., pp. 369-89.

94. Sulla conoscenza da parte di Alciato del testo del Colonna e sulla sua

amicizia con Grolier: K Giehlow, Die Hieroglphenkunde, cit., p. 143; cfr. A. Le Roux de Lincy, Recherches sur Jean Grolier, sur sa vie et sa bibliothéque, Paris, 1866, pp. 68, 86; A. Hobson, Renaissance Book Collecting. Jean Grolier and Diego Hurtado de Mendoza, their Books and Bindings, Cambridge, 1999, pp. 25, 43, 78. Alciato, raffinato bibliofilo, qualora non avesse posseduto una co-

pia dell’opera avrebbe potuto consultarla o averla in prestito dall’amico Jean Grolier (1479-1565), tesoriere generale di Luigi XII a Milano dal

1510 al 1521, mecenate, protettore dello stesso Alciato e grande collezionista di libri, che aveva tre esemplari dell’ Hypnerotomachia, di cui uno in

pergamena. Alciato menziona Grolier in una lettera a Francesco Calvo del 1520: Barni, n. 3, 105.

XLVI

INTRODUZIONE

quale motivo i geroglifici nelle accezioni di Horapollo e del Colonna (alias Cheremone) costituirono i modelli degli Emblemi alciatei? Investighiamone le ragioni attraverso le vicende storiche e culturali che decretarono la trionfale accoglienza dei ritrovati geroglifici nel Rinascimento. Il geroglifico, dal latino hieroglyphicum, trascrizione della

voce greca composta da \£pòg (hieròs, «sacro ») e yYAvÒdo (gly-

pho, «incido, scolpisco»), fu la solenne e venerata scrittura

degli antichi Egizi. Con lo spengersi della religiosità pagana sotto l’intolleranza del cristianesimo, andò pian piano a perdersi anche la conoscenza dei sacri segni, patrimonio riservato a specialisti nell’ambito dei santuari, e il cui declino si era accentuato già con l’età romana.” L’ultimo baluardo di quel millenario sapere, il complesso religioso dell’isola di File, dovette soccombere intorno al 560 per volere di Giustiniano.° Sui nobili geroglifici caleranno da allora circa dodici secoli di oblio, rimanendone vivo soltanto il mito

e bizzarre, altisonanti incomprensioni,” fino agli inizi del XIX secolo, quando la decifrazione di Jean-Francois Champollion aprirà le porte alla moderna egittologia e alla riscoperta di quella remota grafia e dei suoi significati. Nel XV secolo accadono tuttavia due fatti nuovi, fra loro indipendenti, che desteranno per la prima volta dalla fine del paganesimo uno straordinario e rinnovato interesse per i geroglifici a livello europeo: uno ha luogo a Firenze, l’altro a Venezia.

95. Cfr. Horapollo l’Egiziano, Trattato sui geroglifici, testo, traduzione e commento

a cura di F. Crevatin e G. Tedeschi, Napoli, 2002, pp. 7-12.

96. Procopio, Bell. Pers., 1, 19; cfr. R. Remondon, L’Égypte et la supréme résis-

tance au Chnrstianisme (Ve-VIle siècles), in « Bulletin de l’Institut Frangais

d’Archéologie Orientale », 51, 1952, pp. 63-78; P. Nautin, La conversion du

temple de Philae en église chrétienne, in «Cahiers archéologiques», 17, 1967, pp. 1-43.

97. D. Cameron Allen, Mysteriously Meant. The Rediscovery of Pagan Symbolism and Allegorical Interpretation in the Renaissance, Baltimore, 1970, pp. 107-33; C.

Marrone, /] geroglifici fantastici di Athanasio Kircher, Viterbo, 2002; per un inquadramento storico-culturale del fenomeno kircheriano: G. Cipriani, Gli obelischi egizi. Politica e cultura nella Roma barocca, Firenze, 1993, pp. ‘77-167.

I geroglifici di Horapollo

Nel 1422 il prete e mercante fiorentino Cristoforo de’

Buondelmonti portò nella città toscana dall’isola greca di Andros, dove l’aveva acquistato nel 14]19, un manoscritto cartaceo del XIV secolo contenente, oltre alla Vita di Apollonio di Tiana di Filostrato e agli Elementi di fisica di Proclo, gli Hiero-

glyphica di Horapollo:” si ritenne allora che fosse uno scritto

molto remoto, invece oggi sappiamo che venne composto in

epoca tarda, probabilmente nel V secolo. Voltato in latino da

Giorgio Valla nella metà del Quattrocento, il testo greco fu edito per la prima volta da Aldo Manuzio nel 1505 insieme a

Esopo, Cornuto, Palefato e altri autori,” mentre la prima ver-

sione latina pubblicata fu quella di Bernardino Trebazio, ap-

parsa nel 1515 ad Augusta: traduzione che conobbe una grande diffusione e venne più volte ristampata nel corso del XVI secolo. Una seconda versione latina fu data da Filippo Fasanini a Bologna nel 1517.!” Ancora una traduzione, rimasta

incompiuta, fu iniziata nel 1512 da Willibald Pirckheimer su richiesta dell’imperatore Massimiliano I.'°!

98. Il codice è oggi custodito a Firenze presso la Biblioteca Medicea Laurenziana (Plut. 69, 27); Sbordone, pp. LIlI-LIV.

99. Cfr. Aldo Manuzio Tipografo 1494-1515, Catalogo a cura di L. Bigliazzi, A. Dillon Bussi, G. Savino, P. Scapecchi, Firenze, 1994, n. 95, pp. 139-40.

100. Cit.; Fasanini insegnava a Bologna quando Alciato era studente nella città emiliana; sugli eruditi bolognesi e l’interpretazione e traduzione di Horapollo: K Giehlow, Die Hieroglyphenkunde, cit., pp. 129-38; D. Drysdall,

The Hieroglyphs at Bologna, in «Emblematica», 2, 1987, pp. 225-47, e Hiero-

glyphs, Speaking Pictures, and the Law: The Context of Alciato’s Emblems, in «Glasgow Emblems Studies»,

13, 2013, pp. 1-318.

101. Sulla tradizione manoscritta e a stampa del testo di Horapollo (composto in lingua egizia da Horapollo Niloo e tradotto in greco da Filippo),

come sulla sua fortuna nei secoli XV e XVI: C. Leemans, Horapollinis Niloi Hieroglyphica, Amstelodami, 1835, pp. xxv-xxxVI (il lavoro di Leemans,

superato criticamente dalla superba edizione di Sbordone, rimane tuttavia molto prezioso perché oltre a citare fonti dirette e indirette, pagane e cristiane, fa riferimento anche al testo di Pierio Valeriano); K

Giehlow, Die

Hieroglyphenkunde, cit., pp. 12 sgg., 99 sgg., 129 sgg.; L. Volkmann, Bilder

Schriften der Renaissance, cit., pp. 4 sgg., 79-94; Sbordone, pp. LII-Lvr; P. Castelli, ] geroglifici e il mito dell'E gitto nel Rinascimento, Firenze, 1979; R. Witt-

kower, Allegory and the Migration of Symbols, London, 1977; trad. it. Allegoria e migrazione dei simboli, Torino,

1987, pp. 223-49;

E. Iversen,

The Myth

of

Egypt and its Hieroglyphs in European Tradition, Princeton, 1993, pp. 47 sgg.,

65 sgg.; Horapollo l’Egiziano, Trattato sui geroglifici, cit., pp. 13-30.

XLVIII

INTRODUZIONE

L’entusiastica accoglienza dell’opera horapolliana come

la sua indiscussa autorità,!° che tale rimarrà fino al ’700,! si

deve specialmente alla particolare cognizione che dei geroglifici si aveva nel Rinascimento, ovvero una limitata conoscenza che ne considerava, proprio come in Horapollo,

l’esclusivo valore simbolico ignorandone invece il primitivo, e ormai perduto, senso fonetico e grammaticale. Esemplare

a riguardo Leon Battista Alberti: «Quanto agli Egizi, si servivano di simboli figurati, così: un occhio significava la divinità, un avvoltoio la natura, un’ape il re, un cerchio il tempo,

un bue la pace, e così via; e solevano dire che ogni paese conosceva soltanto il proprio alfabeto, e che un giorno di que-

sto si sarebbe persa nozione del tutto ».' In effetti il testo horapolliano apparve agli umanisti in

perfetta sintonia (da ciò la conferma della sua ragguardevole e vetusta sapienza) con le fonti letterarie che costituivano

il corpus di informazioni giunto al Rinascimento circa la lin-

gua egizia.! Si trattava di rinomati scrittori greci e latini, pa-

gani e cristiani come - per riferime alcuni — Erodoto, Plotino, Plutarco, Diodoro Siculo, Apuleio, Macrobio, Porfirio, Proclo, Giamblico, Tacito, Ammiano Marcellino, Marziano

102. Non mancò qualche valutazione più cauta: Celio Calcagnini reputa «Hori libellus», di cui invia una sintetica traduzione al nipote Tommaso,

non degno di tanta rinomanza (Epistolicarum quaestionum et epistolarum familiarum lib. XVI, 1, 2, n Opera aliquot, Basileae, Hieronymus Froben & Ni-

kolaus Episcopius, 1544, pp. 18-20). Ma si vedano i lusinghieri giudizi di Celio Rodigino, Lectionum antiquanum libri triginta, cit., coll. 1380-81 (cfr. Emblema VI, nota 10), e di Pietro Crinito, De honesta disciplina, cit., p. 180. 103. Cfr. P.E. Jablonski, Pantheon Aegyptiorum,

sive de Duis eorum commenta-

rius cum Prolegomenis de reli gione et theologia Aegyptiorum, Francofurti ad Viadrum, 1750, p. civ. 104. L’'Architettura [De re aedificatoria], testo latino e traduzione a cura di G. Orlandi, Introduzione e note di P. Portoghesi, Milano, 1966, vol. II, pp.

696-97: « Notas litterarum maiores aere inauratas marmoribus affigebant. Aegyptii signis utebantur hunc in modum. Nam oculo deum, vulture naturam, ape regem, ciclo tempus, bove pacem et eiusmodi significabat; dicebantque quibusque suas tantum litteras notas esse, et futurum

olim, ut

earum cognitio penitus pereat». 105. Per gli autori e i testi, ancora fondamentali per l’accurata rassegna: T. Hopfner, Fontes historiae reli gionis Aegyptiacae, Bonnae,

1922, s.v. « hierogly-

phicae litterae »; P. Marestaing, Les écritures égyptiennes et l’antiquité classique, Paris, 1913. Significative le considerazioni svolte da Clemente Alessandri-

no sui geroglifici (Str., 5, 4, 19-21 e 5, 7, 41-43), di cui esalta il valore esoterico: J. Pépin, Mythe et allégorie, Paris, 1976, pp. 266-72.

INTRODUZIONE

XLIX

N

Capella, Eusebio, Clemente Alessandrino, Tzetze, Psello,

Giuseppe Flavio, i quali avevano tramandato, citandoli qua e là nei loro scritti, taluni richiami ai geroglifici, lodandone la sacralità e, soprattutto, il contenuto anagogico ed enigmatico, pertinente a un lessico spirituale, a un occulto lin-

guaggio ideografico che vela e allude ai misteri più alti.'° Analogamente,

ma in modo

sistematico ed esteso, accade

in Horapollo, il cui testo cataloga circa 200 ideogrammi attinenti a cosmologia, teologia, astronomia, liturgia, uomo, na-

tura, ecc., spiegandoli in chiave simbolica. Il procedimento è

semplice: si indica un concetto e se ne dà la valenza iconica o viceversa. Alcuni esempi: «Per rappresentare la forza, [gli

Egizi] disegnano la parte anteriore del leone, perché questa è

la parte più vigorosa del suo corpo» (1, 18); «Quando vogliono indicare l’apertura [gli Egizi] disegnano una lepre, perché questo animale tiene sempre gli occhi aperti» (1, 26);

«Per rappresentare la purezza [gli Egizi] disegnano il fuoco e l’acqua, perché con questi due elementi si compiono tutte le purificazioni» (1, 43); « Per esprimere il tramonto [gli Egi-

zi] disegnano un coccodrillo che si immerge, questo infatti,

quando si curva verso il basso, piega la testa all’ingiù» (1, 69); «Il disegno di un orecchio indica azione imminente » (2, 23).

Gli Hieroglyphica di Horapollo includono talvolta, senza ap-

parente contraddizione, anche signa estranei alla scrittura egizia, prelevandoli dal linguaggio letterario o figurativo del-

l’epoca per il loro valore allegorico, e dunque aderenti e fun-

zionali al tenore della sua argomentazione. Un testo che trasmette di fatto, in maniera indiretta e spesso fantasiosa, la tradizione geroglifica, cogliendone il solo valore simbolico imperniato sul nesso che lega immediatamente, senza bisogno del discorso, il muto segno-iImmagine al concetto-idea e lo

rende di subitanea intelligibilità. Fu proprio questa intrinseca forza iconica e figurale del geroglifico horapolliano, che rifugge

l’elemento dialogico, a colpire e affascinare i dotti dei secoli 106. Nel Corpus Hermeticum, 16, 1-2, si sostiene che un tale linguaggio è in-

traducibile, perché altrimenti perderebbe quel carattere proprio del suono e dell’intonazione che lo qualificano e lo rendono efficace, in quanto certe parole (o signa) hanno in se stesse l’energia, la forza delle cose che

tsprimono. I geroglifici associano così, in quanto espressione di una scienza simbolica, il potere magico del segno con l’ineffabilità del suono: Giam-

blico, Myst., 7, 1-2 e 4-5; cfr. le note 113-15 di A.R. Sodano, in Giamblico,

I misteri egiziani, Milano, 1984, pp. 350-77.

L

INTRODUZIONE

XV e XVI, in particolare quelli sensibili alla filosofia neoplatonica. Si credeva di avere trovato le vestigia di un linguaggio divino, del linguaggio sacro per eccellenza, il cui lessico altro

non è che uno speculum delle migliaia di cose che tramano il mondo, e di ciascuna delle quali il geroglifico manifesta nella sua sintesi pittorica e immaginale la semplicità della coincidenza tra ‘nome/immagine’ e la cosa ‘nominata/ raffigurata’. A una simile lettura concorse, nei primi decenni del XV secolo grazie ad alcuni codici dell’opera portati a Venezia e a Firenze dalla Grecia,!'” la riscoperta delle Enneadi di Ploti-

no, tradotte poi in latino da Ficino' nel 1486 e commenta-

te negli anni successivi: versione ed esegesi stampate unita-

mente nel maggio 1492 a Firenze per i tipi di Antonio Mi-

scomini. I] filosofo di Licopoli afferma'” che nel mondo divino della contemplazione «la vita è sapienza: un genere di sapienza che non si acquista a forza di ragionamenti, ma

che è sempre completa e senza lacune che richiedono una qualche indagine», e poco dopo: «Non bisogna, pertanto,

credere che lassù gli dei e i veri beati vedano delle proposizioni, ma tutte le cose di cui abbiamo parlato in quel mondo 107. R. Sabbadini, Le scoperte dei codici latini e greci ne’ secoli XIV e XV, Firenze, 1905, vol. I, pp. 63-64, 66. 108. Cfr. Marsilio Ficino e il ritorno di Pilatone, Mostra di manoscritti stampe e

documenti 17 maggio - 16 giugno 1984, a cura di G. Gentile, S. Piccoli e P.

Viti, Firenze, 1984, n. 23; notevoli A. Rabassini (Il Plotino di Marsilio Ficino, in «Accademia», 2, 2000, pp. 39-42) e l’Introduzione di S. Toussaint, in Ploti-

ni Opera omnia. Cum latina Marsilii Ficini interpretatione et commentatione (Fac-

similé de l’édition de Bale, Pietro Perna,

1580), Paris, 2005, pp. 1-xxI1.

109. V, 8, 4, 35; V, 8, 5, 15-20; V, 8, 6, 1-10: cito da Plotino, Enneadi, tradu-

zione di R. Radice, Milano, 2002, pp. 1355-1539; per la versione di Ficino:

Plotini Opera omnia, cit., p. 547: «Nemo igitur existimare debet in mundo intelligibili vel deos ipsos, vel habitatores illic alios plusquam felices ibi quasdam propositionum regulas contemplari, sed singola, quae illic esse dicuntur, velut exemplaria quaedam et spectacula pulchra intuentibus se offerre, qualia forsan imaginetur aliquis in animo sapientis existere ... Videntur vero mihi sapientes Aegyptiorum sive consummata quadam sapientia, sive naturali

etiam mentis instinctu, ubi constituerunt sapientiae my-

steria nobis significare, non usi fuisse figuris literarum significaturis sermonis discursiones et propositiones quasdam, et imitaturis voces pronuntiationesque regularum, sed potius describentes imagines rerum singulas singularum, easque dipingentes, in sacris clam rei ipsius discursum significavisse: quod videlicet scientia et sapientia quaedam sit unaquaeque imago sive exemplar, et subjectum illud spectaculum totum una collectum, neque sit excogitatio quaedam, neque consilium».

INTRODUZIONE

LI

equivalgono a belle figure ... e non a figure disegnate, ma veramente esistenti. È con questo si spiega come mai, per gli antichi, anche le Idee sono esseri e sostanze. A mio giudizio, anche i saggi d’Egitto giunsero a queste conclusioni, o per via di una scienza precisa o per via intuitiva. Infatt, quando volevano dare dimostrazione sulla base della sa-

pienza non si servivano dell’incisione di lettere che tengono

dietro alle parole e alle proposizioni e che imitano le voci e

la pronuncia di frasi, ma disegnavano figure e scolpivano

nei templi una singola figura per ciascun oggetto, per dimostrare che lassù il pensiero non ha bisogno di procedimenti, dato che ogni singola figura è scienza e sapienza, e anche il contenuto che sottende; in tal senso è qualcosa di unitario, e non una conoscenza discorsiva e un atto di volontà ». Ficino!! glossava questi passi, notando che i sacerdoti egizi, per comunicare i segreti divini, non impiegavano una scrittura a caratteri minuti, bensì figure intere di erbe, albe-

ri, animali, giacché Dio possiede la cognizione delle cose

non come escogitazione molteplice, ma come forma sempli-

ce e definita della cosa stessa; per Ficino un geroglifico condensa e racchiude figurativamente l’intera dimensione concettuale della cosa espressa. Questa concezione autenticamente iconico-simbolica dei geroglifici conferisce loro lo statuto proprio del mistico silenzio: essi non vanno né letti né pronunciati, ma colti e intesi osservandoli, contemplandoli. Valeriano nei suoi Hieroglyphica'"' è esplicito: si tratta di un linguaggio muto (Alciato nella Praefatio agli Emblemata chiama i geroglifici «tacitae 110. In Opera omnia, Basileae, Heinrich Petri, 1576, vol. II, p. 1768: «Sacerdotes Aegyptij ad significanda divina mysteria, non utebantur minutis literarum

characteribus, sed figuris integris herbarum, arborum, animalium: quoniam

videlicet Deus scientiam rerum habet non tanquam excogitationem de re multiplicem, sed tanquam simplicem firmamque rei formam»; cfr. Pietro Crinito, De honesta disciplina, cit., p. 180: «Nam in obeliscis regum Sesotidis atque Semnosornei, qui ex Aegypto in urbem devecti sunt, per eiusmodi symbola et hieroglyphicas notas rerum naturae interpretatio adnotata est». 111. Gfr. l’Introduzione al Lib. XXVII: «suggerebant enim argumentum tot disiectorum passim aedificiorum moles tam immanes, quae tota gestatione nostra accurrebant, magnamque

dicendi materiam

sumministrabat

arcana illa pingendi caelandique ratio, quae apud eos fuisset, qui mutam quandam orationem per rerum imagines mente concipiendam, non ullo

vocis sono, literarumve complexu enunciandam excogitassent, authoribus

dubio procul Aegypti sacerdotibus».

LII

INTRODUZIONE

notae»),''? da concepirsi con la mente attraverso le rappre-

sentazioni delle cose, non da enunciarsi attraverso il suono della voce o la combinazione delle lettere. In altri termini,

senza scrittura né parola, agisce solo la muta operazione immaginale,

ineffabile, che contempla il concetto delle cose

attraverso la loro forma essenziale.!! Sui geroglifici, come linguaggio consono all’iniziatico silenzio, c’erano a disposizione degli umanisti due testi rinomati e paradigmatici, le Methamorphoses'* di Apuleio e il De nuptis Philologiae et Mercurii'® di Marziano Capella. Nel primo, durante la solenne cerimonia iniziatica di Lucio, il som-

mo sacerdote di Iside trae, dal sacrario del tempio, dei libri in caratteri sconosciuti e alcuni presentano formule liturgiche abbreviate espresse con figure di animali di ogni sorta. Si tratta di «litterae Aegyptiae », commenta l’umanista bolognese Filippo Beroaldo il Vecchio,'" rievocando Tacito, quando negli Annales''’ dichiara: «Per primi gli Egizi rappresentaro112. Si veda, sopra, la nota 53.

113. Sulla crisi del fonocentrismo nella teoria cinquecentesca del geroglifico: M.A. Rigoni, Un dialogo del T'asso: dalla parola al geroglifico, in « Lettere italiane », 24, 1972, pp. 30-44. 114. 11, 22: « Et iniecta dextera senex comissimus ducit me protinus ad ipsas fores aedis amplissimae rituque sollemni apertionis celebrato ministerio ac matutino peracto sacrificio de opertis adyti profert quosdam libros litteris ignorabilibus praenotatos, partim figuris cuiusce modi animalium concepti sermonis compendiosa uerba suggerentes». Îl passo è ricordato, per la funzione sacrale e misterica che vi assolvono i geroglifici, da Filippo Fasanini

nella sua Ex diversis auctoribus declaratio, in Hori Apollinis Niliaci Hieroglyphica, cit., C. XLVIIv: «sacrae Aegyptiorum literae ... sic dictae, quod iis in rebus

sacris mysteria significarent, aenigmaticaeque ac symbolicae scalpturae ». 115. 2, 137: «libri ... erantque quidam sacra nigredine colorati, quorum litterae animantum credebantur effigies, quasque librorum notas Athanasia conspiciens quibusdam eminentibus saxis iussit ascribi atque intra specum per Aegyptiorum adyta collocari, eademque saxa stelas appellans deorum stemmata praecipit continere ». 116. In L. Apulei Opera, cum Philippi Beroaldi in Asinum aureum eruditissimis Commentariis,

Lugduni,

1614, vol. I, pp.

1066-67. Valeriano

nel-

l’Epistola nuncupatoria agli Hieroglyphica rammenta e loda, come suoi pre-

decessori nello studio dei geroglifici, Poliziano e Pietro Crinito a Firenze e Filippo Beroaldo a Bologna. Su Beroaldo (1453-1505) si veda anche la nota 10 dell’Emblema XIV. 117. 11, 14: « Primi per figuras animalium Aegyptii sensus mentis effingebant, ea antiquissima monimenta memoriae humanae nuntur, et litterarum semet inventores perhibent».

impressa saxis cer-

INTRODUZIONE

LIII

no simbolicamente i pensieri della mente attraverso figu-

re di animali, e quegli antichissimi monumenti della memoria umana si vedono ancora oggi incisi su pietra, e considerano se stessi gli inventori delle lettere ». Nel De nuptiis, altro significativo episodio: Filologia, durante i riti iniziatici!"" a cui è sottoposta, ‘vomita’ dei libri scritti con immagini di animali colorate con sacro inchiostro, e Immortalità (Athanasia) dispone che vengano incise su cippi e siano nascoste negli antri dei templi egizi. Un’ultima considerazione sui geroglifici horapolliani e la loro influenza su un tema caro ad Alciato e già ricordato: l’impiego degli epigrammi/Emblemi da parte di pittori, orefici, fonditori, per realizzare stemmi, distintivi, insegne,

ecc. Questa attuazione nelle arti degli Emblemi e del loro linguaggio allegorico può essere stata influenzata da Filippo Fasanini,!" i] traduttore di Horapollo. Infatti, nella Ex diversis auctoribus declaratio sacrarum litterarum' ch’egli pone alla fine della sua versione dei Hieroglyphica, prospetta una applicazione del ‘sintetico’ linguaggio horapolliano («dicta brevia aut notae ») sopra «gladi, anelli, berretti fatti a maglie, baltei, cetre, piccoli letti, triclini, soffitti, coperte e drappi, porte, mense, specchi, camere da letto, zanzariere, vasi di

terra cotta e vasetti d’argento». Insomma, si prevede una sorta di ‘geroglificomania’, a cui concorreranno tutti coloro che, colto il senso di quei segni disvelati grazie al trattato di Horapollo tradotto da Fasanini, potranno permettersi di inciderli, dipingerli e scolpirli sulle molteplici cose che perva118. Studiati specialmente in Martiani Capellae De nuptis Philologiae et Mercurnììi Liber secundus, Introduzione, traduzione e commento

dova, 1975, pp. 14, 23-25, 201.

di L. Lenaz, Pa-

119. Si veda, sopra, la nota 100.

120. In Hori Apollinis Niliaci Hieroglyphica, cit, c. xLvr: «Non deerit iti-

dem

curiosis hominibus

hoc

ex opusculo

atque

annotamentis

nostris,

avium, ferarum, piscium, arborum, herbarum, aliarumque rerum qua-

rumdam natura, et quid per quamquam earum figuram repraesentet vera

cognitio lumemque ad loca plurium scriptorum recte percipienda. Ex eodem,

dicta brevia aut notas quas in gladiis, annulis, reticulis, baltheis, cy-

thara, lectulis, tricliniis, laquearibus, strangulis, foribus, mensa, speculis,

cubiculo, conopeis, fictilibus, argenteisque vasculis affigant, plerique mu-

tuari poterunt, nec non quibus figuris cum pictis tum sculptis secreta animi involucris quibusdam occludere parietesque domesticos oblinere posSint. Et ut cuique commodum erit, argumenta sibi et titulus rebus suis accomodatos hinc abunde arripiet».

LIV

dono

INTRODUZIONE

il quotidiano vivere. Nell’elenco proposto vengono

coinvolti armaioli, gioiellieri, fonditori, sbalzatori, sarti e ricamatrici, tessitori, falegnami e intarsiatori, ebanisti, vasai,

pittori e scultori. Fasanini afferra pienamente l’importanza dei Hieroglyphica per le arti figurative, in quanto novità dall’intenso valore significante e intellettuale, capace perciò di

sostituire degnamente i tradizionali e stantii abbellimenti, addobbi e decorazioni propri del costume dell’epoca. Nella prospettiva ‘geroglifica’ di Fasanini, la molteplice produzio-

ne artistica diviene testimonianza e raffinato veicolo di co-

noscenze ideografico-simboliche: un’arte capace di trasmet-

tere di conseguenza occulte nozioni, evocatrici cerimonie e di segreti pensieri, fino a utilizzare come una sorta di sistema criptografico.'! Non si può non riconoscere nella congerie di gianali e artistici, comuni e preziosi, dell’elenco

di mistiche i geroglifici

oggetti artifasaniniano

un precedente di quello più conciso di cui parla Alciato

(cappelli con stemmi, vesti con fregi, insegne, ecc.): oggetti agghindati con ornamenti, alla cui ideazione dovevano for-

nire lo spunto i suoi Emblemi, i quali a loro volta — si tenga

ancora presente - si ispiravano proprio a Horapollo e Cheremone (alias Colonna). Alciato colse al volo e condivise del tutto il pronostico di Fasanini, ma senza riferirlo ai gero-

glifici horapolliani come quest’ultimo scriveva, bensì ai suoi

epigrammi/Emblemi, che evidentemente ritenne degni quanto i geroglifici di comparire su questo o quell’oggetto. Ci troviamo di fronte a una dilatazione del vocabolario hora-

polliano, di cui gli epigrammi/Emblemi costituiscono, per

il Nostro, il naturale sviluppo che ne rispetta e perpetua, per analogia e similitudine, l’eredità semantica: concezione che,

mutatis mutandis, verrà accolta in pieno da teorici della letteratura di concetto posteriori ad Alciato quali Girolamo Ruscelli, Luca Contile o Cesare Capaccio.!? 121. K Giehlow, Die Hieroglyphenkunde, cit., pp. 136-37. 122. Nell’ordine: G. Ruscelli, Discorso intorno alle invenzioni dell’Imprese, del-

l’Insegne, de’ Motti e delle Livree, Venetia, Giordano Ziletti, 1556, pp. 174-'76: «Emblema è voce tutta greca e usata molto dai Latini ... Questa voce a loro significava tre cose: i Mosaici ... le nostre Tarsie, cioè quei lavori di legnami di più colori contesti insieme ... La terza significatione ... era appresso i latini questa, cioè soleano i nobili usar alcuni lor vasi di terra cotta, come di

porcellana o d’altra sorte di creta di più colori et fatti in diverse guise. Et

INTRODUZIONE

LV

Non dobbiamo stupirci di ciò, perché Alciato, come altri

suoi contemporanei,

può avere trovato riscontro della vali-

dità storica e culturale dell’osservazione di Fasanini leggen-

do l’ Hypnerotomachia del Colonna.

Nell’opera, infatti, oltre

ai geroglifici che corrono sia su monumenti e marmi come

su vessilli svolazzanti, troviamo un caleidoscopio di altre im-

magini e signa simbolici, sorprendent, di mirabile antichità

e strabiliante bellezza. Sono collocati su porte, ricamati su

cortine, disposti con tecniche musive sulle pareti di palazzo

della regina Eleuterillide, scolpiti sull’obelisco trinitario, su

gioielli, su preziosi clipei o vasi, per non parlare dell’allego-

resi del banchetto o dell’arte topiaria dell’isola di Citera.

Un mundus symbolicus la cui autorevolezza veniva garantita dal fatto che di esso facevano parte, appunto, quei geroglifici che Erasmo attribuiva a Cheremone e riteneva che il Colonna avesse soltanto ripreso. Stando così le cose non si può escludere che tale corpus di metafore polifilesche, non geroglifiche dunque ma altrettanto ermetiche, abbia stimo-

lato il medesimo Alciato a immaginare che anche i suoi epi-

a questi soleano fare alcuni cerchi d’intorno al collo, alcuni in mezzo,

e

alcuni al piede, et quei cerchi si faceano apposticci da levare et mettere,

et erano d’argento et d’oro, semplici et lisci o con profili o intagliati et messi a gioie ... Et di questi cerchi e finemente tali noi veggiamo oggi

farsi intorno ai vasi di alabastro, di porcellana, et di cristallo, o di qual-

che vaso antico ... Et penso che l’Alciato con quel suo libro volesse come insegnare o proporre una via et un modo da dipinger sale, camere, logge, e altre cose tali, et così parimente da far quadri in legno, portatili, che si tengono appesi alle pareti sopra le cornici delle sale, et per le camere ... volle insegnare una via con la quale le persone nobili etdi bel giudicio possano adornar le case loro di pitture ne i muri, o di quadri in tele, et in legni che contengano qualche bello et profittevole ammaestramento»; per il passo di Contile si veda, sopra, la nota 66; G.C. Capaccio, Delle imprese, Na-

poli, Giacomo Carlino e Antonio Pace, 1592, vol. I, p. 2v: « Dirò che Andrea Alciato dottissimo huomo e delle humane lettere che di ogni altra qualità di studio abbelliscono, curioso, fu il primo che di questa voce [scil. Emblema] si servisse per esprimere i suoi concetti ... E tanto val questa voce, dice

Budeo [Guillaume Budé], quanto “opera vermiculata ex tassellis insitiis apta et composita”;, propria pittura de’ pavimenti, che così dice Lucilio ... I Francesi la chiamano: entrellassament de pierres pour embellir le pavé ... Ogni cosa poi di vari colori, di varie pietre, di varia testuta di legni, e gli ornamenti

musaichi invention de’ Goti, e le miniature, l’incrostature, gli intagli, le pitture in pareti, in finestre di vetro, in panni di razza, in quadri, in vasi, in

anelli, in vesti che chiamano giornee, in arme, e in ogni altra suppellettile, ritengono questo nome che d’ogni intorno fà loquace l’apparenza gioconda delle cose che all’uso comune appartengono».

LVI

INTRODUZIONE

grammi/Emblemi, epigoni dei geroglifici che facevano parte di quel mundus symbolicus a tutti gli effetti, potessero far mostra di sé, trasmutati dall’arte, su tante cose, dai cappelli

alle vesti, alle insegne, ecc. L’opinione di Erasmo sui geroglifici del Colonna, oltre che da Alciato era condivisa appieno da Fasanini che, nella sua Declaratio,* riesponeva, come esempio, la serie di geroglifici con il «circolo, l’àncora e il delfino attorcigliato » (propri dell’ Hypnerotomachia Poliphili e, Ccome sappiamo, ascritti da Erasmo a Cheremone),! precisando che questa sequenza si trovava su un obelisco romano.'” Ebbene, nessun obelisco li poteva sfoggiare scolpiti sulle sue facce per il semplice motivo che non erano né sono autentici geroglifici, ma fanno parte appunto di quelli inventati e descritti nell’ Hypnerotomachia,'"° incisi sì e distribuiti su marmi e obelischi, ma creati dalla prolifica fantasia del Colonna. Nemmeno Filippo Fasanini pertanto, studioso di prim’ordine di Horapollo, sfugge, per così dire, all’‘equivoco’

Colonna/Cheremone:

ma

le ragioni di

ciò, come stiamo per esaminare, sono più che giustificate.

I geroglifici di Francesco Colonna Nel 1499 Aldo Manuzio pubblica a Venezia l’ Hypnerotoma-

chia Poliphili del frate veneziano Francesco Colonna,!” capolavoro editoriale del Rinascimento e straordinario romanzo filosofico sul viaggio dell’anima tesa a conoscere in sogno il senso dell’Eros umano e cosmico.' I] viaggio onirico si dipana infatti attraverso una serie di tappe metaforiche connotate da paesaggi e panorami sia naturali che artificiali. Sono 123. C. xLvIllII7. 124. Cfr. l’Emblema XXI.

125. Fasanini «visse sempre a Bologna» (F. Caletti, « Fasanini Filippo», in

Dizionario Biografico degli Italiani, cit., vol. XLV, p. 209) e la sua conoscenza degli obelischi e delle antichità romane fu certo indiretta; Roma, quale

prestigiosa sede di imponenti obelischi, era già stata decantata da autori classici come Plinio e Ammiano Marcellino e nelle Descriptiones della città:

le fonti in T. Hopfner, Fontes historiae religionis Aegyptiacae, cit., pp. 195, 197-

99, 375, 532, 547-49.

126. Colonna, vol. I, pp. 38, 129, 243-45.

127. Su tale paternità: Colonna, vol. II, pp. Lx111-xc. 128. Colonna, vol. II, pp. 1x-crx.

INTRODUZIONE

LVII

descritte rovine di monumenti antichi, come pure piramidi,

palazzi, obelischi, fonti, labirinti, templi, anfiteatri, giardini mirabili, trionfi, vasi, cimiteri monumentali, vesti ninfali, mense e banchetti, e altro ancora — tutto di matrice classica —, facendo del volume del Colonna la più ardita, sontuosa, e

fantastica ricostruzione di antichità mai tentata in un testo

letterario, secondo una dinamica ecfrastica di stampo neo-

platonico fondato sul nesso tra imaginatio e verba, dove è l’oculus mentis a creare le immagini oniriche che vede.'!

Il risultato è semplicemente strabiliante per l’ossimoro che continuamente emerge dal ritmo della prosa, perché la meraviglia di tali architetture, monumenti, oggetti immagi-

nali viene narrata attraverso descrizioni così realistiche, mi-

nuziose e diligenti da rendere praticamente discemrnibili e credibili quelle epifanie di sogno, di per sé altrimenti incon-

cepibili, come la piramide di 1400 gradini di inusitata altez-

za.'” L’irrazionalità apparente del portento visionario si concilia così con la tangibile e capillare razionalità delle sue forme, delineate con misure e cifre tanto precise e riferite con

tale acribia dal Colonna!! da far ritenere del tutto plausibile

che il favoloso oggetto o il prodigioso monumento una volta sia veramente esistito, come le «Sette Meraviglie del Mondo». Ecco, è proprio la sicura realtà storica di queste ultime (provata da autori greci e latini),'° come pure quella delle

moli e delle imponent rovine visitabili a Roma e in Grecia, che, agli occhi dei contemporanei di Colonna, garantiscono

la patente di autenticità alle analoghe mirabolanti costruzio-

ni della stessa Hypnerotomachia. La visio in somniis di Polifilo, il personaggio agente e narrante del romanzo, non sembra più soltanto un’allegoria psico-filosofica, ma tramanda anche un vero sapere archeologico e il Colonna si erge come valente architetto e autorevolissimo conoscitore di antichità. Da questo contesto nasce anche il certificato di genuinità delle iscrizioni geroglifiche polifilesche, alcune delle quali, non a caso, verranno aggiunte, come originali e con parita129. M. Ariani, Descriptio in somniis, cit.; M. Gabriele, Festina tarde, cit. 130. Colonna, vol. II, pp. 27-37.

131. Colonna, vol. Il, pp. 25 sgg., 57 sgg., 88 sgg., 183 sgg., 209 sgg., 217

SB8g., 299 sgg., passim. 132. Colonna, vol. I, p. 30; vol. II, p. 577, nota 4.

LVIII

INTRODUZIONE

ria dignità simbolica, ai geroglifici di Horapollo nell’edizione in francese di Jacques RKerver, apparsa a Parigi nel 1543 ,'° oppure inserite nei S$ymbolicarum quaestionum Libn quinque di

Achille Bocchi,'* pubblicati a Bologna nel 1555 e nel 1574,

o ancora nel Champfleury'* di Geofroy Tory, stampato a Parigi nel 1529, mentre altre — oggi perdute — saranno dipinte nelle candelabre del chiostro maggiore di Santa Giustina a Padova!* nei primi decenni del XVI secolo.

L’Hypnerotomachia, tra l’altro, esibisce un felice apparato

illustrativo di eccezionale

livello artistico,'®? che

mostra

al

lettore le fantasmagoriche vicende descritte nel racconto, e lo soccorre visualizzando con le sue xilografie il raffinato coacervo affabulatorio della prosa. Una parte consistente, con grande effetto grafico, di tale teoria iconografica riguardai ‘sacri segni’ egizi che Polifilo incontra lungo il percorso della sua psicomachia amorosa. I geroglifici del Colonna, che abbiamo commentato altrove,'** individuandone

fonti e significati, sono descritti nel testo e rappresentati

con cura in apposite incisioni che lo accompagnano, e di

cui propongo alcuni esempi (Fig. 3, Fig. 4, Fig. 5, Fig. 6):!%

133. I geroglifici del Colonna sono inseriti nelle ultime carte del volume: si tratta di cinque immagini: fuso con filo rotto = morte; lampada accesa =

vita; bucranio = lavoro; volto senza occhi = dèi Mani; due occhi = dèi; cfr.

in Colonna, vol. I, pp. 41, 69, 244, 262 (Figg. 3, 4, 5 e 6); vol. II, pp. 607

sgg.; C.-F. Brunon, Signe, figure, langage: les Hieroglyphica d’Horapollon, in L'’emblème èà la Renaissance, a cura di Y. Giraud, Paris, 1982, pp. 34-49.

134. I Symb. I e CXLV o CXLVII ricalcano la composizione geroglifica di

Colonna, vol. I, p. 41 (Fig. 3); vol. II, pp. 607-14;, sull’influenza dell’ Hypnerotomachia Poliphili sul Bocchi: E.S. Watson, Achille Bocchi and the Emblem

Books as Symbolic Form, Cambridge, 1993, pp. 19-20, 136-37. 135. F. Lx1117.

136. Cfr. in Colonna, vol. Il, p. 627.

137. Le 172 xilografie del Polafilo sono opera di una bottega veneziana che

collabora tra il 1490 ca e il 1500 ca con diversi editori e tipografi della cit-

tà: Colonna, vol. II, pp. xcv-c1Ix. 138. Colonna, vol. II, pp. 607-27. 139. Cfr. Colonna, vol. I, p. 69 (Fig. 3); p. 244 (Fig. 4); p. 262 (Fig. 5); p. 285 (Fig. 6): da notare che in quest’ultimo casoi tre geroglifici (il vaso su cui arde una fiamma, il ramoscello di vinco e la sfera del mondo significano rispettivamente le tre parole che compongono il celebre motto «AMOR VINCIT OMNIA»,

da Virgilio, Ecl, 10, 69; cfr. Colonna, vol. II, p.

624) sono posti sul simbolico stendardo di Eros, applicazione dei ‘sacri segni’ del tutto omologa a quella che ritroviamo con i geroglifici/Emblemi

INTRODUZIONE

LIX

Neldextro alla miauia,uidi nobiliffimihieraglyphi zgypticidi tale expreffo. Vnaantiquania galeacti uno capodi cane criftata Vno nudo capo di boue cu dui ramiarborei ifafciati alle corna di minutefronde,& una uctufta lucerna.Gligli hieraglyphi cxclufi gli ra mi,cheio nonfapea fidabiete,opino,o larice,o iunipero,odi fimiglianti f fufferon,cufi ioliinterpretai. PATIENTIA EST ORNAMENTVM CVSTO DIA ET PROTECTIO VITAE. S© RR —\mfl'

ii

DIVO IVLIO CAESARI SEMP.AVG.TOTI VS ORB. GVBERNAT.OB ANIMI CLEMENT.ET LIBER ALI TATEMAEGY PTIICOMMVNIJA ERE.S.EREXEREeE.

£

SES d

A ; Z

DIIS MANIBVS MORS VITAECONTRARIAET VELO CISSIMA CVNCTA CALCAT.SVPPEDITAT.R APIT CONSVMIT. DISSOLVIT .MELLIFLVE DVOS MVTVO

SE STRICTIM ET ARDENTERAMANTES,HIC EXTIN CTOS CONIV NXIT.

LX

INTRODUZIONE

AMOR VINCIT OMNIA. Il sistema testo/immagine è strutturato tipograficamente nella pagina secondo la seguente successione: prima vi è una descrizione verbale di ciò che Polifilo vede dinanzi ai suoi occhi, cioè i geroglifici (per esempio nella parte superiore della

Fig. 3: « Nel dextro della mia via, vidi nobilisimi hieraglyphi

aegyptiaci di tale espresso. Una antiquaria galea cum uno capo di cane cristata. Uno nudo capo di bove cum dui rami arborei infasciati alle corna di minute fronde, et una venula lu-

cerna» ), segue la xilografia (Fig. 3) che mostrai tre gerogli-

fici scolpit sulla lastra marmorea (l’elmo crestato con la testa canina, il bucranio con i rami alle corna e una antica lucerna),

accompagnati dalla loro trascrizione in caratteri capitali latini: « PATTENTIA EST ORNAMENTUM CUSTODIA ET PROTECTIO VITAE» («La pazienza è ornmamento, salvaguar-

dia e protezione della vita» ). La logica che guida il rapporto immagine/vocabolo in

questa composizione ideografica è la semplice analogia: il

bucranio esprime la patientia, ì rami «infasciati » l’ornamen-

tum, il cane la custodia, l’elmo la protectio e la lucerna la vita.‘° Se ne trae che i geroglifici procedono da sinistra a de-

stra come la scrittura latina, che sono traducibili in latino e,

come dimostra la loro costruzione fraseologica (per esempio in altre combinazioni geroglifiche troviamo che l’imma140. Cfr. Colonna, vol. II, pp. 614-15.

INTRODUZIONE

LXI

gine doppia o ripetuta indica il plurale oppure una stessa

immagine usata più volte mantiene sempre il medesimo si-

gnificato ma esibisce sfumature lessicali proprie della sinonimia), che costituiscono un sistema di segni diretto da regole grammaticali e sintattiche simili a quelle della lingua latina. La conversione delle immagini geroglifiche in diversi elementi del discorso (sostantivo, aggettivo, verbo, avverbio,

ecc.) operata dal Colonna si fonda sull’efficacia analogica e metonimica proprie del simbolo geroglifico e sulla funzione sostitutiva (metaforica) che quest’ultimo può assumersi nei confronti di quegli stessi elementi. Un simile linguaggio è espressivo dei pensieri più elevati e nel contempo risulta co-

stituito da immagini formalmente semplici che rappresentano oggetti, animali, piante, ecc. In ciò si rispetta pienamen-

te l’idea umanistica dei geroglifici quali signa primari, nei

quali si ha il riuscito connubio tra simplex forma ed excogitatio (« concetto»), tra significante e significato, proprio di quella concezione geroglifica neoplatonica ammirata, come si è

visto, da Alberti o da Ficino, da Fasanini, da Alciato o da Va-

leriano. In realtà l’intero vocabolario è composto da figure

simboliche di evidente matrice latina, tratte soprattutto da

testi classici, da antichi rilievi o da monete imperiali, per cui la chiave interpretativa (non solo lessicale e grammaticale ma

anche

storico-culturale)

con cui il Colonna

elabora i suoi

hieroglyphica è sostanzialmente il mondo latino. Nondimeno, la constatazione più rilevante è che nessuno di questi geroglifici dipende da Horapollo,'! cosicché è gioco forza ritenere che il Colonna non ne conoscesse il celebre testo. E infatti difficile credere che un ghiotto appassionato di antichità come lui potesse conoscere un’opera

tanto significativa per poi non utilizzarla nel suo progetto

geroglifico: ma così non è. Questa esclusione di Horapollo

dal lessico geroglifico del Colonna, qualunque ne sia la ra-

gione, fa sì che quest’ultimo, dalla sua uscita dalla tipografia di Aldo Manuzio nel 1499, offra agli umanisti italiani ed europei un altro, autonomo sistema geroglifico, che non contraddice affatto il catalogo degli ideogrammi horapolliani,

141. Anche nei pochi casi in cui dei signa geroglifici ricorrono sia in Horapollo che in Colonna (per esempio la «formica» e l’«elefante»), essi asSumono significati completamente diversi: Colonna, vol. II, pp. 625-26.

LXII

INTRODUZIONE

bensì lo integra. Infatti, non solo arricchisce quest'ultimo

con la consistenza del suo corpus di signa, ma soprattutto, fat-

to semanticamente nuovo e ragguardevole in quanto assen-

te in Horapollo, porge un linguaggio geroglifico decrittabile attraverso le regole della lingua latina, dunque fa intendere che esiste un codice geroglifico in cui convivono del tutto valenze simboliche e struttura grammaticale e sintattica, fusione di cui non vi è traccia, non solo in Horapollo, ma

in nessun’altra opera del passato che tratti l’argomento. Da quale antico testo, da quale autore il Colonna poteva avere ricavato un simile corpus e le sue norme? La risposta a questa domanda, che pare la più verosimile che si posero Erasmo e gli altri eruditi dinanzi ai geroglifici del Colonna, era quasi ovvia: dai Hieroglyphica di Cheremone, l’altro autore, oltre al riscoperto Horapollo, che la tradizione letteraria greca e latina tramandava!‘! quale artefice di un trattato sui geroglifici. Cheremone era il personaggio giusto: egizio, filosofo stoico, precettore di Nerone, sacro scriba che, nell’Adversus IJovinianum'* di Gerolamo,

viene ri-

cordato come «uomo eloquentissimo» che aveva narrato la vita dei sacerdoti egizi. Inoltre due erano gli elementi biografici che lo imponevano come fonte prestigiosa del Colonna: in Suda!'“ risulta che fosse stato a capo della Scuola dei grammatici di Alessandria (ruolo che poteva giustificare gli aspetti ‘grammaticali’ che caratterizzano ì ge-

roglifici del Colonna), mentre dall’Exegesis in Iladem di 142. Erasmo cita a proposito il lessico bizantino Suda (in P.W. van der

Horst, Chaeremon, cit., p. 2, test. 1-4), dove in alcune occasioni si menzionano Cheremone e la sua opera; per altre testimonianze (Tzetze, Porfirio, Gerolamo, Giuseppe Flavio) ancora in P.W. van der Horst, Chaeremon, cit., pp- 3 sgg., e in I. Ramelli, G. Lucchetta, Allegoria, vol. I: L’'età classica, Milano, 2004, pp. 349-59; Celio Rodigino, Lectionum antiquanum libri triginta,

cit., coll. 1380-81: « Caeterum ut ad perdices redeamus, Aegyptiorum literis quae animantium figuris, reliquisque huiusmodi corporibus hac signis constabant, quod Chaeremon docet atque Horapollo». 143. Fr. 11: P.W. van der Horst, Chaeremon, cit., p. 22: «Cheremon

stoicus,

vir eloquentissimus, narrat de vita antiquorum Aegyptii sacerdotum». 144. Il lessico bizantino Suda o Suida, d’autore ignoto

(nel Rinascimento

si identificò nella parola il nome dell’autore), fu edito per la prima volta a Milano nel 1499 da Giovanni Bissoli e Benedetto Dolcibelli per cura di Demetrio

Calcondila; Alciato

Barni, n. 27.

menziona

l’opera in una lettera del 1523:

INTRODUZIONE

LXIII

Tzetze!* sappiamo ch’egli, come insegnavano i più antichi

scribi, spiegava i geroglifici quali allegorie che nascondevano la teoria della natura degli dèi. Esattamente come cre-

devano umanisti e dotti dei secoli XV e XVI. Ancora Tzet-

ze!* ci ha lasciato una breve lista di geroglifici che, «come riferisce lo hierogrammateus Cheremone>»,

sono esposti nei

loro valori simbolici (si legge, per esempio, che gli Egizi

disegnavano una donna che suona i timpani per significare «gioia »; un occhio che piange per significare «sventura»;

una rana per «resurrezione »; un falco per «anima»; un’ape per «re»; un bue per «terra»; un cervo per «anno», e così

via): si tratta di una serie esplicativa omologa a quella alle-

gorica di Horapollo. Nello stesso brano, inerente le annota-

zioni all’Iliade, siìi afferma che Omero era stato educato alla

conoscenza dei geroglifici, per cui molti passaggi dei suoi poemi si potevano interpretare secondo il senso di quei sacri segni: per avvalorare una simile ermeneutica Tzetze ri-

chiama l’autorità di Cheremone.

Tornando ora alla domanda posta all’inizio del paragra-

fo «Emblemi e geroglifici» (per quale motivo i geroglifici

di Horapollo e del Colonna costituirono i modelli degli Emblemi alciatei?), e alla luce di quanto appurato in questa digressione sui geroglifici, credo che la risposta vada cercata negli aspetti fondanti sia i geroglifici di Horapollo

sia quelli di Colonna, che ritroviamo poi alla base degli e-

pigrammi/ Emblemi di Alciato. Innanzi tutto si deve riscontrare che in questi come in quelli (pur nelle dovute accezioni e differenti sfumature) si descrivono per verba simboli e relativi significati. In Horapollo il segno iconico-ideografico è connesso allo scritto che ne spiega il senso nascosto. In Colonna, le sequenze geroglifiche mostrate dalla xilografia sono abbinate alla loro decrittazione verbale, che ne scioglie l’oscuro contenuto. In Alciato, che a loro guarda, gli epigrammi/ Emblemi hanno un titulus seguito da versi: questi illustrano con tecnica ecfrastica l’allegoria e quello ne

145. Fr. 12: P.W. van der Horst, Chaeremon, cit., p. 24; il commento di Tzet-

ze era noto agli umanisti: Pietro Crinito, De honesta disciplina, cit., pp. 174, 286; Valeriano cita «Zezes» in più occasioni, Alciato in-una lettera del 1546: Barni, n. 137.

146. Test. 6, fr. 12: P.W. van der Horst, Chaeremon, cit., pp. 3, 25, 62, note 1-6.

LXIV

INTRODUZIONE

sancisce in breve il contenuto. In sostanza Alciato, ritraendo

a parole ì concetti e proponendone la visualizzazione, ricalca liricamente l’elemento vitale che anima ì geroglifici di Horapollo e di Colonna, ovvero la continua simbiosi fra imagines e verba. Nell’Emblema, tale interrelazione non è solo il frutto

di un gioco letterario, ma anche la conseguenza di una ricerca filosofica e artistica su come rappresentare il pensiero attraverso forme (grafiche, pittoriche, plastiche, ecc.) a esso il più possibile coincidenti, in cui il significante aderisca appieno al significato, di una ricerca dunque che tenta di coniugare il livello immaginale con quello sensibile, ossia la visione con il vedere. L’invenzione noetica si adatta così ai poteri della parola e dell’immagine in cui viene convertita. Ma accade anche viceversa: se da un lato, infatti, l’Emblema nasce come concetto visualizzato, dall’altro, questa visualizzazione invita

a ritornare al concetto stesso, a riflettere sui significati etici e filosofici che lo improntano. Sì sviluppa in tal modo un discorso circolare che ora parla per immagini ora per parole, su diversi piani artistici e intellettuali, concretando idee e suggerendone di nuove, secondo un congegno poetico-figurativo, in cui sussistono piena libertà creativa e intento speculativo. Saranno proprio queste modalità compositive ed espressive a imporre con successo l’Emblema nel mondo letterario europeo e a sancirne il duraturo successo.

III. L'’INTERPRETAZIONE

ALCHEMICA

ALCIATO

DI PIERRE

VICOT:

E OVIDIO

Una lettura alchemica degli Emblemi di Alciato comparve dopo il 1536, in quanto il testo utilizzato per l’occasione fu la traduzione francese dell’opera (Livret des Emblèmes: con versione latina a fronte) apparsa a Parigi per Chrétien Wechel'“

proprio quell’anno e riedita nel 1539 e nel 1542. Sì tratta di

una serie di annotazioni che accompagnano il commento in prosa a Le Grand Olympe ou philosophie poétique attribuée au très 147. Testo latino/francese: H. Green, Andrea Alciati, cit., n. 10, pp. 126-29;

A. Adams, S. Rawles, A. Saunders, A Bibliography of French Emblem Books, cit.,

pp. 12-13.

INTRODUZIONE

LXV

renommé Ovide, traduit du latin en langue francaise' attribuito a Pierre Vitecoq o Vicot,“ uno degli «alchimistes de Flers»,

oema tuttora manoscritto di 2344 versi: di fatto una sorta di arafrasi alchemica in rima delle Metamorfosi di Ovidio.

L’autore delle osservazioni non considera tutti gli Emble-

mi, ma solo quelli, poco più di una ventina, che contengono dei riferimenti mitici o eroici presenti anche nell’opera ovidiana interpretata alchemicamente. Questo semplice accostamento formale fra personaggi e vicende menzionati nei due testi, Le Grand Olympe e gli Emblemata, autorizza il glossatore a una lettura alchemica anche degli epigrammi di Alciato, in parallelo a quella già svolta sui versi di Ovidio. L’esege-

si ‘“ermetica’ è perentoria, prendiamone alcuni esempi:

— Emblema I: lo stemma milanese con il serpe è una sot-

tile allegoria dell’opera alchemica:'” accade come per lo scudo gentilizio dell’Ordre de la Toison d’Or pertinente al mitico Vello d’oro, pelle caprina che «alcuni» hanno rite-

nuto non fosse altro che un libro in pergamena su cui era-

no scritti i «nobili segreti dell’arte » ,'"! mentre «altri» l’han148. Ms. F. Franc.

12299, Bibliothèque

nationale de France,

Parigi: cfr.

ff. 63r sgg., 697, 71r, 74r sgg., 827 sgg., 94r, 112r sgg., 142r, 1577 sgg., 1627 sgg.

149. Sul problema di questa paternità, dell'opera e del personaggio Vitecoq: P. Kuntze, The Grand Olympe, eine alchemistische Deutung von Ovids Metamorphosen, Diss., Halle, 1912; F. Secret, La premieére interpretation alchimique des Emblèmes d'Alciat, in Notes sur quelques alchimistes italiens de la Renaissance, in «Rinascimento», 13, 1973, pp. 206-209; eccellente riesame storico-critico dell'intera questione in D. Kahn, Qui étaient les alchimistes de Flers?, in

«Chrysopoeia», 4, 1990-1991, pp. 147-98, specialmente pp. 148-53, 178-

85, 190-92; D. Kahn, Les manuscrits originaux des alchimistes de Flers, in Alchimig, art, histoire et mythes, « Actes du ler colloque international de la Société d’Etudes de l’Histoire de l’Alchimie>», diretto da D. Kahn e S. Matton, Pa-

ris, 1995, pp. 347-439.

150. Ms. F. Franc. 12299, cit., f. 1157. 151. Ibid., f. 115r; la fonte è in Suda, s.v. èÉpac, dove si spiega che gli an-

tichi poeti cantando la conquista del Vello d’oro sottintesero in realtà lodare un libro scritto su pergamena dove si insegnava a fabbricare

l’oro con l’arte chimica; altrettanto nel De rebus incredibilibus, in Mythographi graeci, vol. III, tomo 11, a cura di N. Festa, Lipsiae, 1902, p. 89 (sulla fortuna del tema: M. Gabriele, Il giardino di Hermes. Massimiliano Palombara alchimista e rosacroce nella Roma del Seicento, Roma, 1986, p. 24; più in generale: A. Faivre, Toison d’Or et alchimie, Milano, 1990); la notizia è riportata anche da Mignault, p. 655, e da Thuilius, p. 809, a pro-

LXVI

INTRODUZIONE

no creduta un riferimento all’Ariete zodiacale, « premier seigneur de cette oeuvre», in quanto è nel periodo primaverile dell’anno che tradizionalmente si avvia la preparazione

dell’opus;'°

— Emblema IV: i due leoni del carro di Antonio significano i «degrées de lions», relativi al ‘leone verde’ e al ‘leone rosso’ dell’alchimia;'5?

— Emblema XV: la pietra e le ali che caratterizzano le mani del personaggio, altro non voglion dire che il detto di Er-

mete: « faire le fixe volatil, et le volatil fixe » ;'54

— Emblemi XVIII e XIX: mostrando il XIX la feconda covata degli alcioni e il XVIII le due cornucopie intrecciate al

caduceo, ecco che con ciò si allude a come dal lapis philoso-

phorum provengano abbondanza e fertilità;!5 — Emblema XXXIII: ì due circoli incrociati indicano in qual modo la scienza alchemica si basi sui quattro elementi; !°°

— Emblema LXXI: le tre dee del Giudizio di Paride corrispondono ai tre gradi e alle tre nature dell’Opus: Giunone è la natura metallica e minerale perché dea di tutti i tesori, Pallas quella vegetale che distrugge e rigenera ì corpi, Venere quella animale per la sua forza vivificatrice; il pomo d’oro simboleggia l’elixir,'”’ — Emblema CX: qui l’accostamento di Ulisse con Diomeposito dell’Emblema LXXXVII

con Frisso sull’aureo montone; Thuilius,

pp. 809-12 svolge una breve disamina storico-critica dell’alchimia fino ai suoi giorni.

152. È sotto il segno dell’Ariete che inizia a lavorare l’alchimista in con-

formità al ciclo naturale delle cose e alla rinascita primaverile: M. Gabriele, Alchimia e iconologia, Udine, 2008, pp. 124-25. 153. Ms. F. Franc. 12299, cit., f. 1427; cfr. sul leo viridis: H.ME.

de Jong, M-

chael Maier’s Atalanta fugiens. Sources of an Alchemical Book of Emblems, Leiden, 1969, pp. 247-50. 154. Ms. F. Franc.

12299, cit., £. 1597; celebre motto in riferimento ai vari

processi di trasformazione della materia, dallo stato solido al gassoso e viceversa. 155. Ibid., £. 142r. 156. Ibid., £. 655r; M. Gabriele, Alchimia e iconologia, cit., pp. 63-66 e 176. 157. Ms. F. Franc. 12299, cit., f. 162v:.«Premièrement sont trois déesses / Junon la meère de richesses / Pallas meurtrière de tout corps / Et Venus en tous bon accord / Lesquelles disputent la pomme / D’or, que nostre elixir on nomme».

INTRODUZIONE

LXVII

de significa che la scienza alchemica progredisce soltanto

grazie all’unità di teoria e pratica.'* Questo procedimento

di elementare

analogia riguarda

tutte le note agli Emblemi di Alciato, nelle quali, con piglio apodittico, si stabilisce che: come le Metamorfosi di Ovidio

«ne fut jamais faict à autres fin, que pour declarer icelle no-

ble Science ancore que très clairement» ,' così gli Emblemi

di Andrea Alciato'® celano i segreti di tale sapienza ermeti-

ca. Una siffatta lettura degli Emblemi si presenta pertanto come una variante o un prolungamento di quella ovidiana,

che ne costituisce di fatto il paradigma e la giustificazione allegorica, cosicché per intendere l’una è necessario spiega-

re il senso dell’altra. La prima consistente citazione di Ovidio quale autore ‘alchemico’ si trova nella Pretiosa marganita novella del medico Pietro Bono da Ferrara, ! composta, secondo quanto dice lo stesso autore, nel 1330. In questo trattato, ricco di argomentazioni aristotelico-scolastiche e nel quale si cerca di legittimare l’arte alchemica quale scienza naturalistica omologa della medicina, in tre occasioni compare il nome di Ovidio insieme a quello di Virgilio. La menzione iniziale'? sottoli158. Ibid., £. 1667: «noster science est de tel prix qu’elle requiert un grand

travail et philosophie, d’autant que sans science et force qui sont theorie

et pratique ensenblement conjointes nul ne peut venir à rien. C’est ce que

les Anciens ont voulu signifier par le tableau d’Ulisse et Diomede » ; sul tema teoria/prassi in alchimia: M. Gabriele, Didattica per figure nel Ms. alchemico Ashb. 1166 della Biblioteca Medicea Laurenziana, in Alchimia e iconologia,

cit., pp. 170-71.

159. Ms. F. Franc. 12299, cit., £. 166r-v. Alcune fabulae di Ovidio e di Virgi-

lio sono reputate ‘alchemiche’ già da Pietro Bono nella sua opera composta a Pola intorno al 1330: Pretiosa margarita novella, in Theatrum chemicum,

Argentorati, 1659-1661, vol. V, pp. 614-16; cfr. F. Secret, Notes sur quelques alchimistes, cit., pp. 197-217; D. Kahn, Les manuscrits, cit., pp. 354-55.

160. Ms. F. Franc. 12299, cit., £. 1627: « Les quels sages se studioient à alle-

gories pour chacher la science, ainsi comme

nous trouvons dans toutes les

allegories, emblesmes et similitudes ... comme nous avons veu mesme de Nostre temps ceux de M. André Alciat».

161. Sull’autore e l’opera: Pietro Bono da Ferrara, Preziosa Margarita Novella, edizione del volgarizzamento, Introduzione e note a cura di C. Criscia-

ni, Firenze, 1976, pp- Ix-L1II.

162.. In J.J. Manget, Bibliotheca chemica curiosa, Genevae, 1702, vol. II, p. 34:

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EMBLEMA IV [1531, c. A3r-v; 1534, p. 8]

Etiam ferocissimos' domari

Romanum postquam eloquium, Cicerone perempto, Perdiderat patriae pestis® acerba suae, Inscendit currus victor iunxitque leones, Computlit et durum colla subire iugum, Magnanimos cessisse suis Antonius armis Ambage hac cupiens significare du ces.

Anche ì più fieri sono domati Dopo aver distrutto l’eloquenza romana uccidendo Cicerone, Antonio, rovinosa peste della sua patria,°

salì sul carro da vincitore, vi attaccò i leoni

e li costrinse a sentire sul collo il duro giogo, bramoso di mostrare con questo gesto simbolico

che anche i magnanimi duci avevano ceduto dinanzi

alle sue armi.

Il filo conduttore dell’Emblema è un passo di Plinio,‘ dove si racconta che Antonio, dopo avere sconfitto Pompeo a Farsalo nel 48 a.C., aggiogò al suo carro due leoni a si-

gnificare che anche i condottieri più nobili, fieri e valorosi potevano essere sgominati e sottomessi al giogo del trionfato-

re. Alciato vira il resoconto pliniano verso una riflessione

morale sulla caducità della gloria e della vita degli uomini

più valenti, facendo riferimento, nel verso di apertura, anche

a Cicerone — altra illustre vittima della cruda violenza di An-

tonio — e alla sua tragica fine. Al sommo retore, chiamato da

Quintiliano’ «Romanae eloquentiae princeps» e «arcem tenens eloquentiae», Antonio volle che, ucciso, venissero tagliate le mani e la testa, per appenderle come ingiuria sui

rostri nella tribuna degli oratori a Roma.® Il leone

come

simbolo di forza, di furore indomito

e di

niagnanimità è un dato comune alla letteratura geroglifica ed emblematica rinascimentale che tiene presente Horapol-

lo,” come pure la tradizione classica e medioevale.® Il giogo, nell’ Hypnerotomachia Poliphili, è signum ‘hieraglypho’ (Fig. 1)° e metafora della sottomissione al vincolo d’amore. Singolare

la freccia impugnata da Antonio, attributo che nell’icono-

grafia trionfale rinascimentale'° compare solitamente nelle

mani di Apollo, di Eros, di Venere o della Luna/ Diana sui

rispettivi carri. Probabilmente vi è qui un riferimento al paragone che nel secondo verso accosta Antonio alla «pestis» :

il dardo può essere infatti simbolo di pestilenza"' in base al noto episodio omerico" in cui le frecce scagliate da Apollo diffondono il morbo nel campo degli Achei. Questo particolare attributo viene sostituito con un bastone o un’asta di

comando nelle successive edizioni (Fig. 2, Fig. 3)."

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IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

EMBLEMAV [1531, cc. A3v-A4r; 1534, p. 9]

Gratiam referendam

Aerio insignis pietate' ciconia nido Investes® pullos pignora grata fovet,° Taliaque expectat sibi munera mutua reddi, Auxilio hoc quoties mater egebit anus. Nec pia spem soboles fallit, sed fessa parentum Corpora fert humeris, praestat et ore cibos.

Dimostrare riconoscenza

Sull’alto nido la cicogna, esempio di pietà, scalda i piccoli implumi, diletti pegni d’amore,

e simili cure aspetta che le siano rese reciprocamente

tutte le volte che, vecchia madre, avrà bisogno d’aiuto.

Né la pia prole delude la speranza, ma porta sulle spalle i corpi stanchi dei genitori e col becco porge loro il cibo. Horapollo,‘* a cui si ispira Alciato, spiega che gli Egizi per simboleggiare chi ama il proprio padre raffigurano una cicogna, la quale una volta allevata dai genitori non li abbandona,

ma rimane vicina a essi e li accudisce fino alla loro

estrema vecchiaia. La cicogna, modello di pietà filiale, è un

luogo comune tra i più popolari:” già in Aristofane,° in Platone,' nella zoologia di Aristotele,® ricorrerà poi in Plutar-

co,° in Plinio" e in Eliano;!! nel Satyricon"? di Petronio la ci-

cogna è detta «pietaticultrix». Altrettanto nella letteratura cristiana:!* in Basilio Magno!* e nei Sacra Parallela'® di Giovanni Damasceno come nelle Etymologiae'® di Isidoro di Siviglia. Il tema è diffuso nell’emblematica e nel simbolismo cinquecenteschi."’ Alciato ripropone il senso etico della pietas dei figli verso i genitori anche nell’Emblema LXIX, con la vicenda di Enea e del vecchio Anchise.

Fin dalla metà del XVI secolo l’immagine dell’Emblema

venne utilizzata come marca tipografica (Fig. 2), con il mot-

to «Pietas homini tutissima virtus», dallo stampatore Marti-

nus Nutius'® di Anversa, come pure dal collega e libraio parigino Sébastien Nivelle,'° attivo dal 1549 al 1603. Le xilografie Va e Vb, essenziali nel loro disegno, conosceranno ulteriori e più elaborate tipologie (Fig. 3, Fig. 4) .®

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EMBLEMI

EMBLEMA VI [1531, c. A4r; 1534, p. 10] Concordia

Cornicum mira inter se concordia vitae est,

Inque vicem nunquam contaminata fides. Hinc volucres haec! sceptra gerunt,® quod scilicet omnes Consensu populi stantque caduntque duces, Quem si de medio tollas, discordia praeceps Advolat, et secum regia fata trahit.

Concordia Mirabile è la concordia di vita fra le cormacchie,

né mai si guasta la reciproca fedeltà.

Perciò questi uccelli sostengono lo scettro, poiché

è con il consenso del popolo che stanno o cadono

tutti i principi. Se questo viene meno, subito sopravviene la discordia e con sé trascina via i destini dei sovrani. La connotazione politica dell’Emblema, conferita dall’ulti-

mo distico, ripropone un argomento caro all’Alciato, quello

della concordia e della discordia nel reggimento dello Stato,

già espressa nell’Emblema II attraverso l’armonia o disarmo-

nia delle alleanze. Alciato nei De verborum significatione® sottolinea, da un punto di vista giuridico, quanto sia il concorde consenso del popolo a dare stabilità al governo del sovrano. Ora il symbolum concordiae viene palesato dalla figura delle cornac-

chie: la fonte è ancora Horapollo,‘ che evidenzia il simbolismo

della concordia e della fedeltà attraverso l’esemplare comportamento «matrimoniale » di questi uccelli, che rimangono fedeli l’uno all’altro fino alla morte. Tale credenza si ritrova in Eliano,° in Plutarco® e nel Physiologus.’ L’Umanesimo recepisce questa tradizione con Poliziano,° Erasmo,° Celio Rodigino,"

Alessandro D’Alessandro!"' e Valeriano." Poliziano,"'* per altro,

riferisce che Lorenzo de’ Medici gli mostrò due monete d’oro di Faustina Augusta, recanti da un lato la scritta «concordia» e una «comnacchia». In realtà si tratta di una moneta aurea di Faustina Minore'‘ dove sul verso corre la scritta «CONCORDIA» con al centro l’immagine di una colomba (Fig. 1), che

Lorenzo e Poliziano, in base ai citati testi di Eliano e di altri,

interpretarono invece come quella di una cornacchia. Con questo Emblema VI nasce anche l’icona del concetto di

‘concordia’, iconografia che verrà ripetuta (Fig. 2) da Joachim Camerarius.'° La scenetta con la cornacchia coronata della xilografia VIa segue il testo («volucres haec sceptra gerunt»), mentre nella VIb si propone una nuova soluzione grafica che perdurerà nelle successive edizioni (Fig. 4, Fig. 5).° In quest’ulti-

ma si esprime più efficacemente l’unanime consenso che sostiene il regno, attraverso la rappresentazione di una sorta di

piedistallo o ara su cui si erge uno scettro, topico simbolo del

EMBLEMA

VI

53

potere sovrano, intorno al quale stanno due cornacchie affrontate in atto di sostenerlo con il becco, mentre alcune vola-

no in alto. Questa variazione iconografica, che dà particolare preminenza a due comrnacchie sulle altre, non è casuale, ma

vuole sottolineare quanto la virtuosa temperanza e la concor-

dia della coppia nuziale siano salda garanzia per la società. L’immagine VIb conobbe immediata fortuna perché ricom-

pare come marca tipografica (Fig. 3) di Joannes Steelsius, tipo-

grafo attivo ad Anversa, che la utilizzò per la prima volta proprio nel settembre del 1534,"” lo stesso anno dell’edizione We-

chel di Alciato. ® Quella dello Steelsius si differenzia per la sfera

armillare al posto delle nubi e per le scritte «IO. STEELS.» e «CONCORDIA>»:

sotto campeggia il motto «Concordia res

parvae crescunt», che proviene dall’ Hypnerotomachia Poliphili."

Steelsius, con tali motto e figura, voleva probabilmente dire che la sua attività editoriale, se svolta in armonia e concordia, si

sarebbe sviluppata, e da « piccola» qual era (nel 1534 pubblica

i primi volumi) sarebbe «cresciuta» e avrebbe prosperato. La notevole coincidenza grafica tra la figura dell’edizione Wechel e la marca di Steelsius, pone comunque il quesito editoriale - bibliografico, allo stato dei fatti non solubile, di questo passaggio o scambio di marca/Emblema fra i due stampatori. Certo è che l’impostazione grafica dell’immagine (sia di VIb che della Fig. 3) rimarrà identica nella marca tipografica di Steelsius e dei suoi successori,”° mentre nelle seguenti edizioni degli Emblemata (Fig. 4, Fig. 5)°! si cerche-

rà un’altra soluzione espressiva, con un piedistallo monu-

mentale e con quattro comrnacchie, non due. Non è da escludere che questa nuova variante, visibile nelle ulteriori stampe alciatee, sia dovuta alla necessità di distinguere la figura emblematica dalla marca.

54

IL LIBRO

DEGLI

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EMBLEMI

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NOTA

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« EMBLEMATA

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Il riferimento alla moneta di Faustina, di cui sopra, ci of-

fre l’Occasione per discutere brevemente su un fenomeno

che ritroveremo più volte nel corso del nostro commento, ossia la dipendenza, certa o presunta, degli Emblemi alciatei, propriamente della loro iconografia, dalla monetazione

56

IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

antica. Questa derivazione infatti è, a un rigoroso vaglio critico, oggettivamente problematica, in quanto una vera e pro-

pria trattatistica numismatica si diffonde solo dalla metà del

’500,* con le opere di Antonio Agustin, Enea Vico, Sebastia-

no Erizzo, Costanzo Landi, Jacopo Strada, Hubert Goltzius e altri antiquari ed eruditi,* cui seguiranno studi sempre

più ampi e sistematici. Così, a parte i pochi casi di cui abbiamo

riscontri sicuri (si veda la suddetta moneta di Faustina

Minore o quella dell’àncora con delfino dell’Emblema XXI), ci troviamo sempre davanti a dei confronti probabili,

seppure assai convincenti. Tuttavia, ciò detto e consapevoli di certi limiti, noi rileveremo comunque possibili connessioni fra i conii e gli Emblemi ogni qual volta si presenterà l’opportunità del raffronto. Ci spinge in questa direzione e ci conforta il dato oggettivo che Alciato fu conoscitore e studioso della monetazione antica e che fra i primi e più autorevoli trattatisti della materia vi furono proprio i suoi allievi nello Studio di Bologna.‘* Una koiné antiquaria dunque che

non possiamo sottovalutare. Il diretto interesse di Alciato per la monetazione classica” è testimoniato sia dai numero-

si riferimenti che, in merito, egli fa nei suoi scritti, sia da un

breve trattato pubblicato solo nel 1750,% nel quale discute

soprattutto dei valori, dei pesi e delle corrispondenze fra i diversi tagli dei vetusti conii. Non si scordi poi che nella stessa Prefazione all’Emblematum liber si augura al dedicatario, Chonrad Peutinger, di « possedere preziose monete» degli antichi. Tra gli allievi di Alciato vanno menzionati due fra i maggiori studiosi di numismatica dell’epoca: Costanzo Lan-

di (1521-1564) e Antonio Agustin (1517-1586). Al primo si deve l’importante In veterum numismatum romanorum miscellanea explicationes (Lione, Sébastien Honorat,

1560), al secon-

do il famoso Didlogos de medallas, inscripciones y otras anti giedades (Tarragona, Felipe Mey, 1587) e volgarizzato alcuni

anni dopo (Dialoghi intorno alle medaglie, inscnittioni et altre an-

tichita tradotti ... da Dionigi Ottauiano Sada & dal medesimo ac-

cresciuti, con diuerse annotationi, && illustrati con disegni di molte medaglie && d’altre figure, Roma, Guglielmo Faciotto, 1592).

Proprio e specialmente da quest’ultima opera, illustrata con

centinaia di monete greche e romane, trarremo le immagini per i nostri confronti. Se è vero che l’opera apparve ben dopo l’Emblematum liber, cronologia che sconsiglierebbe tali

EMBLEMA

VI

57

accostamenti, tuttavia non si deve dimenticare che Agustin” fu allievo prediletto e amico assai vicino al maestro Alciato, con il quale ebbe erudito e cordiale carteggio, per cui pare lecito stimare le sue ricerche e considerazioni monetali — che comunque riflettono la cultura antiquariale del tempo — non certo lontane da quelle dello stesso Alciato. Con il medesimo

intento e negli stessi limiti, inseriamo talvolta, dove lo rite-

niamo necessario per un confronto iconografico, anche riproduzioni di monete

tratte dalla seconda

edizione

(Vine-

gia, Giovanni Varisco, 1568; la princeps è del 1559) del Discorso sopra le medaglie de gli antichi del veneziano Sebastiano Eriz-

zo (1525-1585).®

EMBLEMA VII [1531, c. A4v; 1534, p. 11]

Potentissimus affectus Amor

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Aspice ut invictus' vires auniga leonis Expressus gemma pusio vincat Amor. Utque manu hac scuticam teneat, hac flectat habenas, Utque sit in pueri plurimus ore decor. Dira lues® procul esto, feram qui vincere talem Est potis, a nobis temperet anne manus ?

Amore sentimento potentissimo Guarda come Amore fanciullo, invitto auriga scolpito su gemma, soggioghi le forze del leone, come tenga la frusta con una mano e con l’altra torca le briglie, e sul suo volto ci sia una suprema bellezza.‘ Sta’ lontano crudele flagello! Chi è capace di domare.

una tale fiera, ci risparmierebbe forse violenza»s®

Negli Emblemata più volte si celebra la potenza di Eros e

dei suoi effetti amorosi. In questo caso Alciato riprende un

epigramma di Marco Argentario,° dove si descrive una gemma” su cui è scolpito Eros che conduce un carro trainato da leoni. L’ékphrasis sì riferisce a una diffusa tipologia di gem-

me antiche che ha per protagonista il dio Amore mentre ca-

valca o si fa trasportare da animali a lui assoggettati, come quella in sardonice con Eros che impugna un tirso e guida

un carro trainato da un leone e da un ariete.î Lo stesso epi-

gramma di Argentario servirà al senese Leonardo Agostini (1593-1669), antiquario e commissario per le antichità di Roma e del Lazio sotto Alessandro VII, per spiegare un cammeo con «Amore con la lira sopra il leone» (Fig. 1), da lui riprodotto nelle Gemme antiche figurate.° Îl prezioso intaglio in calcedonio,

risalente

alla fine

dell’Ellenismo

(I secolo

d.C.) e già nelle collezioni medicee, si trova oggi presso il Museo Archeologico di Firenze." Simili figurazioni simboliche esaltano il dominio erotico e generativo del dio fanciullo sulla natura, egemonia irresistibile anche per le più selvagge fiere. Eloquente un passo di Luciano nei Dialogi deorum,"' in cui Amore, dialogando con

Venere, afferma che con lui i leoni sono mansueti, tanto da

portarlo sul dorso, da leccargli le mani e da farsi afferrare

per la criniera. Il modello poetico di Eros ferus e saevus, che

trionfante sul carro tiene prigionieri dietro di sé fanciulli e fanciulle ed è pronto a colpire chiunque, si trova negli Amo-

res'? di Ovidio. Analogamente ora con la vignetta e con l’epi-

gramma si illustra, attraverso l’exemplum delle belve domate, la potenza inarrestabile di Eros, che tutti può soggiogare al-

le pene e alle gioie d’amore, secondo un ininterrotto topos

letterario che ritroviamo nella classicità come nel Medioevo

EMBLEMA VII

61

e nel Rinascimento, e che ebbe nell’ Hypnerotomachia Poli phi-

li la sua più celebre elaborazione formale e concettuale.'

Qui il dio, sul cui vessillo sta il motto «AMOR VINCIT OMNIA»,!" incatena e padroneggia uomini e dèi, e compare sia sul carro del suo trionfo' sia su un altro dove come auriga fu-

stiga le fanciulle renitenti all’amore (Fig. 2).!° Nelle vignette VIlIa e VIIb Eros appare bendato," in riferimento,

come

scrive Platone,'î all’amante

che

ama

«cieca-

mente » l’oggetto amato, per cui non è in grado di giudicare ciò che è giusto, né il bene né il male delle sue azioni. Il motivo del caecus amor godette di grande fortuna letteraria e iconografica,"° caratterizzando, pur con diversi significati morali, la forza irragionevole della libido, della violenta passione che non sa vedere né distinguere e di cui l’innamorato diviene preda. Nelle varie edizioni degli Emblemata sì assiste a una oscillazione iconografica, per cui della stessa xilografia emblematica sono date due differenti versioni: una con Cupido bendato, ossia ‘cieco’, l’altra senza benda. Per esempio nell’Emblema LXXVI (« Potentia amonis ») dell’edizione del 1531

è bendato, mentre non lo è in quella del 1534, fenomeno che

si ripeterà anche in altre occasioni ed Emblemi.” Si tratta di

un gioco che, indipendentemente dal testo, esalta l’ambiguità

e l’arguzia del dio fanciullo. Come si legge più avanti a propo-

sito dell’Emblema XCVII («In statuam Amons »), Eros è un «in-

constans puer» , € Alciato si chiede faceto: «E cieco e porta una

benda, a che serve la benda a un cieco?» .

62

IL LIBRO

DEGLI

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66

IL LIBRO DEGLI EMBLEMI Limine quod caeco! obscura et cali gine®’ monstrum Gnosiacis clausit Daedalus in latebris,

Depictum Romana phalanx in proelia gestat, Semiviroque nitent signa superba bove,® Nosque monent debere ducum secreta latere Consilia, auctori cognita techna nocet.

Non divulgare i consigli Quel mostro che Dedalo chiuse nel recesso cretese, entro una dimora cieca e nella tenebra oscura,

la falange romana porta dipinto in battaglia,

e le insegne gloriose risplendono del toro semiumano. Ci ammoniscono a mantenere nascosti i segreti consigli dei comandanti: divulgare la propria astuzia nuoce a chi l’ha ideata. Il vessillo militare con la scritta «Senatus Populusque Romanus» e la figura del Minotauro, il motto e la congiunta ac-

cezione morale dell’Emblema sono tratti da Festo che, nel

De verborum significatione,' afferma che in guerra i consigli dei comandanti devono rimanere segreti come fu la dimora

del Minotauro a Creta. Nella Graphia aureae urbis Romae,

una cronaca della città di Roma risalente al XII secolo, si de-

scrive uno degli abiti da cerimonia dell’imperatore su cui era posto il labirinto come insegna del silenzio. Sulla veste era effigiato ad arte, con oro e perle, un labirinto al cui cen-

tro stava un Minotauro di smeraldo con un dito sulle labbra, a denotare che come non si poteva indagare il labirinto così non era lecito svelare i propositi del sovrano. Il paragone, pre-

sente anche nell’ Epitoma rei militaris° di Flavio Vegezio (IV-V

secolo), venne ripreso alla metà del Quattrocento da Roberto Valturio nel suo De re militari. In uno splendido codice di quest’opera, sotto le parole «non minus varia et occulta esse

debent consilia ducum, quam fuit domicilium quondam eius

Labyrinthus» 7 è miniato un vessillo con un labirinto circolare e al centro il Minotauro in sembianze taurine (Fig. 1) .? L9

stendardo con il Minotauro, secondo il testo di Valturio,° si-

gnificava che quando l’esercito stava per muoversi verso lu0-

EMBLEMA

VIII

67

ghi ostili era di somma importanza mantenere segreto il percorso e il piano del comandante su quanto si intraprendeva,

comportarsi cioè come il Minotauro, che si teneva celato nella parte più interna e recondita del meandro.

Le fonti classiche" sia letterarie che figurative rappresen-

tano il Minotauro con il corpo umano

e la testa di toro,

mentre nel Medioevo si diffonde, in parallelo a quella anti-

ca, un’altra tipologia simmetricamente contraria, in cui la

parte inferiore del corpo è ferina, mentre il busto e la testa

sono umani. Ne è testimone Isidoro"' che, circa le monstruo-

sità, dice che il Minotauro poteva avere la testa o il corpo di toro: variabilità che di per sé permetteva di rappresentarlo

in un modo o in un altro. A proposito è interessante una raffigurazione del XII/XIII

secolo'? con al centro del labi-

rinto il Minotauro, tratta da un manoscritto del Liber floridus di Lamberto di Saint-Omer (ca 1060-1123). Nel testo sottostante alla figura si legge, parafrasando Ovidio:"® «Pasiphe ... genuit minotaurum semivirum et semibovem ». Il disegno fa

vedere il busto e la testa cornuta con fattezze umane, men-

tre il resto del corpo è taurino, una sorta di ibrido a prima vista confondibile con un Centauro, ma i piedi palesano le

due dita specifiche dei bovini e degli artiodattili in generale. Sì deve proprio a quest’ultima caratteristica anatomica, ri-

spettata anche nell’iconografia umanistica e rinascimentale

(Fig. 2, Fig. 3),* come nel caso del Minotauro di Alciato, la

salvaguardia della natura taurina del mostro. Ciò dovrebbe

sciogliere l’equivoco della coincidenza Minotauro/Centau-

ro, riproposto spesso da non pochi studiosi modemni, per-

ché se così fosse le zampe del Minotauro dovrebbero concludersi con gli zoccoli monodattili di un cavallo." Il tema di questo Emblema VIII viene rinnovato nelle Im-

prese illustri'° di Girolamo Ruscelli con quella di Consalvo Pé-

res, dove al centro del labirinto si trova appunto il Minotau-

ro con l’indice sulla bocca, accompagnato dal motto « In silentio et spe». Il testo ripete il concetto proponendone una lfîggera variante: il Minotauro esprime le qualità dell’uomo di Stato, ovvero la forza con il suo aspetto taurino e l’astuzia con quello umano. Il gesto del silenzio allude, secondo il noto motivo,!’ alla segretezza dei piani dello statista e del ca-

PO militare. Ruscelli rinvia sia a Valturio che ad Alciato. L’iconografia delle vignette VIIIa e VIIIb non subirà tan-

68

gibili 1621 giore XLII

IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

variazioni (Fig. 4)' fino all’edizione di Thuilius del (Fig. 5),° quando il vessillo viene delineato con magattenzione antiquariale e prende preciso spunto dal libro dei Hieroglyphica di Pierio Valeriano dove si parla

dell’accampamento

romano

e di alcuni suoi «ornamenta»,

che vengono mostrati da specifiche incisioni nel testo. Tra questi il signum aquilae, poi riprodotto nell’illustrazione di Thuilius (Fig. 5). Valeriano si basa su quanto afferma Dione Cassio” che descrive l’insegna: una lunga asta, terminante

con una punta aguzza per essere conficcata nel terreno, che

sostiene un tempietto con sopra un’aquila d’oro dalle ali spiegate. Nella Fig. 5 l’immagine minotaurina è posta sulla parete o facciata del piccolo tempio portatile.

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EMBLEMA VIII

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Vincerer, et caussa stet potiore dolus.

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Sulla vittoria nata dall’inganno Io, la Virtù, bagno di lacrime la tomba di Aiace,

ohimè misera, strappandomi le biancheggianti chiome.

Davvero non restava che questo: che fossi vinta dal giudizio di un greco, e la frode stesse dalla parte vincente.

I versi riprendono un epigramma di Asclepiade* e rievo-

cano, da un punto di vista etico più generale, il dramma della sconfitta della Virtù o Valore (apetà) a opera dell’Inganno, ammonendoci con le funeste conseguenze di tanta iniquità. La vicenda riguarda l’assegnazione delle armi di A-

chille cantata da Omero,° da Ovidio® e nell’Epitaphium Atiaci’ di Ausonio: quest’ultimo, dipendendo dal medesimo epigram-

ma di Asclepiade, presenta non poche assonanze con il te-

sto alciateo.

Il soggetto, dal punto di vista figurativo, conobbe nel ’500?

un certo successo. Morto Achille, le sue armi sono contese da

Ulisse e Aiace. Spettavano per unanime consenso a quest’ultimo, il più valoroso di tutto l’esercito greco dopo il Pelide.

Tuttavia Ulisse riuscì a influenzare in suo favore il giudizio

dell’assemblea dei Greci riunita per l’occasione, grazie sia alla sua astuta eloquenza che allo sleale appoggio di Agamenno-

ne, qui chiamato «iudice Graeco» e nel citato Ausonio « pra-

vus Atrides» ,° il malvagio figlio di Atreo. Igino"° scrive che Aga-

mennone e Menelao, a causa dell’ira di Atena,!"' rifiutarono le

armi di Achille ad Aiace e le consegnarono a Ulisse.

La vicenda alla fine del XV secolo ebbe, nell’ambito della

produzione a stampa, due diverse interpretazioni figurative. La prima, di conio medioevale, è illustrata nell’Ovide moralisé, edito a Bruges

nel 1484," con la scena del «giudizio di

Agamennone » situata in un edificio dell’epoca e con i per-

sonaggi abbigliati come allora (Fig. 1): a destra il sovrano seduto e giudicante indica il ‘vincitore’ Ulisse, che a sua volta

addita con la sinistra le armi di Achille sul pavimento e con

la destra se stesso in quanto gli appartengono, mentre lo

sconfitto Aiace, a lui vicino, si apre la veste sul petto e sta per

suicidarsi. La seconda decora l’ Ovidio Metamorphoseos vulgare di Giovanni dei Bonsignori, stampato nel 1497 a Venezia da

Giovanni Rosso per Lucantonio Giunta, dove al folio CIIIIv

EMBLEMA

IX

73

(Fig. 2) ritroviamo, non dissimile ma diversamente imposta-

ta e rappresentata, la scena del giudizio di Agamennone e

del suicidio di Aiace: qui appare evidente il tentativo (nelle

armature, nelle tende, nelle mura, ecc.) di una ricostruzio-

ne che segua il gusto antiquariale umanistico. Senza alcun accenno grafico alla disputa e alla dinamica

del fatto in sé, cui gli ultimi versi alciatei pure fanno riferi-

mento, le xilografie di questo Emblema IX recepiscono puntualmente il valore morale e tragico dell’epigramma di Ascle-

piade, evidenziandone il dramma attraverso l’ossimoro iconico fra l’ineluttabile immobilità della tomba dell’eroe (effetto

del dolus) e lo scomposto e vano moto della Virtus oltraggia-

ta.'® Lo stesso albero sullo sfondo in IXb, curvato dalla violenza del vento,!‘ sembra alludere alla sconfitta della Virtus, ‘pie-

gata’ da ‘forze’ superiori. Nell’editoria la diffusione dei sepolcri all’antica con elementi epigrafici come in questo Emble-

ma (in IXb: «D[#s] M[anibus] AIACIS »; si veda più avanti anche l’Emblema LXXXIJ) 5 ha inizio con le numerose e varie

xilografie (Fig. 5, Fig. 6) del genere che illustrano il «cimite-

ro degli amanti » nell’ Hypnerotomachia Poliphili del 1499.! La

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EMBLEMA X [1531, cc. A5v-A6r7; 1534, p. 14]

Reverentiam in matrimonio requiri



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Cum funit!' in Venerem pelagi se in littore sistit Vipera, et ab stomacho dira venena vomit.

Muraenamque ciens, ingentia sibila tollit,

At subito amplexus appetit illa viri.

Maxima debetur thalamo reverentia,? coniunx

Altermum debet contugi et obsequium.

Nel matrimonio è necessario il rispetto Quando smania d’amore, la vipera si pone

sulla riva del mare e dallo stomaco vomita terribili veleni.

Leva forti sibili chiamando a sé la murena,

che subito brama l’amplesso del maschio.

Al talamo nuziale si deve il massimo rispetto e ogni coniuge deve all’altro reciproca dedizione.

Per la sua lode del matrimonio e del rispetto fra i coniugi che deve caratterizzarlo, Alciato riprende un’opinione del

bestiario classico, moralizzato poi dai Padri della Chiesa. La credenza’ riguarda il preteso accoppiamento della murena con la vipera: il rettile, quando è preso dall’estro erotico, va sulla riva marina e chiama con un sibilo la murena femmina, che fuoriesce dalle acque e si accoppia con il serpe. Tuttavia, prima dell’unione, quest’ultimo, per non intimorire la sua compagna, depone il veleno da una parte. Consumate le nozze la murena rientra tra i flutti e il rettile riassorbe la sostanza venefica. Eliano, riportando la notizia nel De natura animalium* commenta che in tal modo la Natura riesce ad accoppiare anche le creature che abitano lontane le une

dalle altre, suscitando in loro una reciproca frenesia amoro-

sa, aggiungendo inoltre che la vipera, per mostrarsi gentile

come un bravo marito, si libera del veleno. La notazione di

Eliano viene ribadita da Basilio nelle Homiliae in Hexaeme-

ron® e da Ambrogio nell’ Hexaemeron® che ne trasformano il significato moralizzandolo. Ovvero come il maschio della vi-

pera abbandona il suo veleno nell’atto d’amore e la murena

acconsente premurosa al viscido serpente, così il marito, nel

rapporto coniugale, deve privarsi delle passioni e dei vizi ‘velenosi’ e la moglie accoglierlo affettuosa e paziente in re-

ciproco rispetto” Alciato trae molto probabilmente dall’He-

xaemeron di Ambrogio lo spunto per il suo Emblema per l’intento morale che lo distingue, anche se certo non ignorava

Horapollo, che nei Hieroglyphica® riferisce la storiella della

murena e della vipera per designare un uomo che ha rapporti sessuali con persone di altri paesi. La semplice iconografia delle vignette Xa e Xb, con i due animali in parallelo, avrà nelle successive edizioni degli Em-

EMBLEMA

79

X

blemata una leggera modifica più aderente al messaggio del testo, Cioè mos trandoli mentre si vanno incontro desiderosi (Fig. 1, Fig. 2).°

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EMBLEMA XI [1531, c. A6r; 1534, p. 15] In avaros, vel quibus melior conditio ab extraneis offertur

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Delphini insidens vada caerula sulcat Arion, Hocque aures mulcet,' frenat et ora sono.

Quam sit avari hominis, non tam mens dira ferarum est,

Quique viris rapimur, piscibus eripimur.

Sull’avidità o su coloro che dagli estranei ottengono un trattamento migliore Sedendo su un delfino Arione solca le onde cerulee e con il suono della cetra ne carezza le orecchie

e imbriglia la bocca.?

Non è tanto feroce l’indole delle fiere quanto lo è quella

dell’avido, e noi che siamo rapinati dagli uomini

veniamo salvati dai pesci.

Alciato dedica due®’ Emblemi al tema dell’avarizia o avidità: questo e l’Emblema LI. Qui per raffigurare il concetto ricorre al mito di Arione elaborando i suoi versi su due epi-

grammi del grammatico Biancore.‘ La fabula, trasmessa da

numerosi autori, a cominciare da Erodoto,® narra del citare-

do Arione di Metimna, che per la sua eccezionale bravura godeva di grande ammirazione e fama Questi volle recarsi per nave da Corinto in Sicilia e in Magna Grecia: là, grazie

alla sua arte si arricchì non poco, sia in denaro che per ì re-

gali di ogni genere che ricevette. Volendo tornare a Corinto, dopo il viaggio nelle regioni italiane, si affidò con il suo prezioso bagaglio a una nave di marinai corinzi, i quali, in alto mare, progettarono di ucciderlo per impossessarsi dei suoi beni. Il citaredo supplicò i pirati, ma costoro gli ordinarono di gettarsi nelle acque. Allora, presa la lira, cominciò a cantare e si tuffò nelle onde. Sarebbe certo affogato se un delfino non lo avesse accolto sul suo dorso, conducendolo

sano e salvo sulla spiaggia di Tenaro nel Peloponneso. Il mitologema, che nella tradizione classica celebra l’ami-

cizia dei delfini nei confronti dell’uomo e dell’armonia mu-

sicale,° diviene in Alciato paradigma sia dell’avidità sfrenata

che del prodigo aiuto recato da estranei rispetto alla malva-

gità dei vicini. Palese è infatti l’ingordigia dei marinai— uomini come Arione —, che non solo derubano il povero cantore ma lo vogliono pure morto, mentre antitetico risalta l’altruismo del delfino, simbolo della supenor1ta di un’indole amichevole e generosa sugli sp1etat:1 vizi degli uomini. L’iconografia del soggetto è documentata da Erodoto’

che parla di una statua bronzea con Arione sopra il delfino innalzata a Tenaro. Intorno al 1473 Mantegna realizza le

EMBLEMA XI

83

storie di «Arione e i pirati» e di «Arione sul delfino » in due vele della Camera degli Sposi a Mantova. Compare inoltre su una medaglia coniata nella metà del Quattrocento® da Giovanni Boldù per il poeta Filippo Maserano: sul verso, Arione

portato dal delfino e la scritta « Virtuti omnia parent», tratta dal De coniuratione Catilinae° di Sallustio. Il motto esalta la virtù, l’apetn, quale potente strumento per realizzare gloriose e nobili imprese, di cui la portentosa!' immagine di Arione sul delfino esprime l’efficace compendio visivo. Equivalen-

te sintesi è realizzata nella xilografia XIa e, secondo Duplessis,;" anche nella prima tiratura (XIb) dell’edizione Wechel

del 1534, mentre nella successiva la stessa vignetta venne so-

stituita dalla Fig. 1. Quest’ultima è più discorsiva, interpre-

tando e mostrando la successione degli eventi: in primo pia-

no Arione precipita nei flutti dal vascello, sullo sfondo navi-

ga sul dorso del delfino.'? Da notare che analoga immagine torna fin dal 1541 nella marca tipografica (Fig. 4)'® dello stampatore Johannes Oporinus di Basilea, che segue l’Em-

blema alciateo, anche se niente esclude una possibile origi-

ne iconografica comune inerente la monetazione greca o quella romana (Fig. 5).!

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Nititur in pondus palma, et consurgit in arcum, Quo magis et premitur hoc mage tollit onus.

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IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

Fert et odoratas bellania* dulcia glandes,

Queis mensas inter primus habetur honos. I puer, et reptans ramis has collige, mentis Qui constantis erit, praemia di gna feret.

Bisogna restare saldi di fronte alle incalzanti avversità Resiste al peso la palma incurvandosi ad arco, e dove più è pressata tanto più regge il fardello.

Porta anche i datteri odorosi, dolciumi da dessert,

che sulle mense godono del posto d’onore.

Va’, fanciullo, e rampicandoti raccoglili dai rami: chi si manterrà saldo otterrà ben meritati premi. Il premio e la vittoria arrideranno a chi saprà resistere e

contrastare le avversità, anche le prove più dure. Per figurare questa esortazione l’epigramma alciateo riprende uno dei più diffusi simboli, fin dall’antichità, di rinascita e di immortalità, di meritata riuscita e di trionfo: la palma. Erasmo? discute a lungo sul suo significato a proposito del motto «Palmam ferre » e cita per esteso un noto passo di Aulo Gel-

lio.‘

Questi

rievoca,

menzionando

Aristotele®

e Plutarco,®

che se si pongono dei grossi pesi sopra l’albero della palma,

comprimendolo finché non può più sopportarli, questo non solo non si curva né si schianta, ma se si toglie il grave si risolleva e tende all’insù assumendo una forma convessa. Perciò la palma è stata scelta nelle gare come simbolo di vit toria, in quanto è un legno che non cede a chi lo costringe e lo opprime. Le fonti classiche, oltre alle suddette, sono numerose’ e vengono riprese dagli umanisti* in opere dai tenori più diversi. Bartolomeo Platina nel De honesta voluptate,

Leon Battista Alberti nel De re aedificatoria,° Filippo Beroal-

do nei suoi Commentarii ad Apuleio,"' Francesco Colonna'

nel suo romanzo, e il sopraccitato Erasmo negli Adagia. Pierio Valeriano"’ esamina le molte valenze geroglifiche della

palma («annus mensisque, temporis diuturnitas, aequalitas,

iustitia, sol, victoria, Iudaea, iactura, nuptiae, innocentia »),

tra cui quella della vittoria, e scrive come ne siano dimostrazione iconica antiche sculture, pitture e monete.'‘

EMBLEMA

XXIV

155

Nel contesto mistico e funerario pagano, la palma è anche simbolo della continuità della vita post mortem, divenendo Emblema di immonrtalità e di vittoria ultramondana. In merito è Apuleio che trasmette tale significato misteriosofico al Rinascimento attraverso l’XI libro delle Metamorfosi, dove descrive il culto di Iside e i suoi riti, in brani che, come

si accennava sopra, ebbero risonanza nel ’500 anche grazie

ai dotti commentari di Beroaldo. Apuleio'® narra della sta-

tua della Vittoria palmata, dei sandali della dea Iside fatti di

foglie di palma, «ommamento dei vittoriosi», della corona di

foglie di palma sul capo degli iniziati ai misteri isiaci, del dio egizio Anubis (divinità che introduce i morti nell’altro mondo: in ciò simile a Hermes/Mercurio psicopompo),'"° il quale impugna con la sinistra il caduceo e con la destra un ramo di palma. Nell’antico Egitto il ramo di palma, come simbolo della

durata della vita, fu un attributo di Thot, inteso quale nume

lunare e ‘Signore del tempo”, che distingue le stagioni, i mesi, gli anni. Thot, incidendo con tacche il ramo di palma, stabiliva gli anni del regno faraonico."’ Il ramo di palma di

Thot ‘Signore del tempo’ fa riferimento al prolungamento della vita.'® Una singolare credenza,° che accosta” la palma all’im-

mortalità, racconta come la fenice, quando giunge il tempo in cui deve morire e rinascere dalle sue ceneri, scelga la palma per il suo ultimo nido, costruendolo sulla cima dell’albero. Una analoga leggenda, narrata da Plinio,*! vuole addirittura che anche la pianta muoia e risorga spontaneamente insieme al mitico uccello che vi ha nidificato. Dal punto di vista iconografico ci troviamo di fronte, con le vignette XXIVa e XXIVb, a due diverse interpretazioni grafiche dell’epigramma. La prima ne traduce visivamente

l’ultimo distico, la seconda quello iniziale. La XXIVa deriva dalla marca tipografica (Fig. 1, Fig. 2)” dello stampatore di Basilea Johann Bebel, che la utilizzò fin dal 1527; la secon-

da sembra più originale e venne adottata nelle successive

edizioni (Fig. 3, Fig. 4)” degli Emblemata e dal 1545 quale

m.afca (Fig. 5) in alcune stampe veneziane di Bernardino Bindoni e di Comin da Trino,** come pure (Fig. 6) dal libraio-

Stampatore parigino Pierre Hury.® L’iconografia di XXIVb,

dove un giovane si arrampica con fatica lungo i rami della

156

IL LIBRO

DEGLI EMBLEMI

palma per gustarne i dolci frutti (come recitano i versi al-

ciatei), atto che illustra l’impegno e la costanza di chi vuole raggiungere la ‘vittoria’, tiene forse presente un passo di Comnuto.* Qui si parla delle Muse che sono incoronate di

palma perché tale pianta è rigogliosa, sempreviva e con dol-

ci frutti, ma difficile da scalare, coniugando così i motivi dell’ardua ascesa e del soave premio. Il motivo della palma oppressa fu anche impresa del Duca d’Urbino Francesco Maria della Rovere (1490-1538) che la

pose sul verso di una sua medaglia, datata da Hill”” al 1526

circa. Vi si vede una palma la cui metà dei rami è inclinata sotto il peso di una pietra, mentre il cartiglio dice: «INCLI-

NATA RESURGO>». L’impresa (Fig. 7) è riferita anche dal Giovio,’* quando precisa che con essa si alludeva «alla virtù

del Duca, la quale non aveva potuto opprimere la furia del-

la fortuna contraria, benché per alcun tempo fusse abbassata. Piacque molto a Sua Eccellenza, e ordinò che si facesse lo stendardo».

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DEGLI

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EMBLEMA XXV [1531, c. BBv; 1534, p. 29] Tumulus meretricis

Quis tumulus? Cuia urna? Ephyraeae est Laidos, et non Erubuit tantum perdere Parca decus? Nulla fuit tum forma, illam iam carpserat aetas, Tam speculum Veneri cauta dicarat anus. Quid scalptus sibi vult aries, quem parte leaena Unguibus appraensum posteriore tenet? Non aliter captos quod et ipsa teneret amantes, Vir gregis est aries, clune tenetur amans.

Sepolcro della meretrice Che sepolcro è questo? Di chi l’urna? Di Laide efirea.?

E non arrossì la Parca nel corrompere tanta bellezza?

Allora non c’era più bellezza, già l’aveva sfiorita l’età,

già la vecchia, prudente, aveva dedicato lo specchio a Venere. Che significa l’ariete scolpito che la leonessa trattiene con le unghie per la parte posteriore? Non diversamente da come lei stessa teneva gli amanti: è l’ariete il maschio del gregge, e per le chiappe è tenuto l’amante. L’epigramma è un erudito collage fra quattro fonti. Anzi-

tutto

Pausania,?

che

racconta

come

vicino

a Corinto,

nei

pressi del tempio di Afrodite Nera (Melainis), sì trovasse la tomba dell’etera Laide, sulla quale era posta una leonessa in atto di abbrancare con le zampe anteriori un ariete. In effet-

ti si trattava, come

documentano

le monete

romane

di Co-

rinto (Fig. 1),* di una colonna dorica sormontata da una leonessa in atto di ghermire un ariete. La scena della bellissima

Laide che, ormai vecchia, dedica a Venere il suo specchio, è

rievocata in un epigramma di Platone il Giovane ,° imitato da

Ausonio in un suo componimento.‘ Con tale gesto la donna dichiara il proprio dramma: non vuole più specchiarsi per

quella che è, non può più farlo per com’era. « Laide efirea» proviene da Properzio,” che osserva come l’intera Grecia si fosse sdraiata dinanzi alla sua porta, facendo con ciò riferimento all’usanza, praticata nel mondo greco e latino, per cui

l’amante aspettava di fronte alla casa dell’amata, adagiandosi davanti all’ingresso.

L’Emblema è un ammonimento e una riflessione sulla vanitas mundi e sulla caducità della bellezza e dell’erotismo logorati inesorabilmente dal tempo (esemplare il verso: «Nul la fuit tum forma, illam iam carpserat aetas»), motivo che viene

reso nelle due vignette, XXVa

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dal cadavere con-

sunto posto sul sepolcro, secondo la tipologia della scultura funeraria gotica,5 e che ritroveremo in altre stampe degli Emblemata (Fig. 2); Thuilius preferisce esibire il solo sarcofago (Fig. 3).°

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EMBLEMA XXVI [1531, cc. B3v-B4r;, 1534, p. 30]

In parasitos

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Quos tibi donamus fluviales' accipe cancros, Munera conveniunt moribus ista tuis.

His oculi vigiles, et forfice plurimus ordo

Chelarum armatus, maximaque alvus adest. Sic tibi propensus stat pingui abdomine venter,? Pernicesque pedes, spiculaque apta pedi. Cum vagus in trivijs, mensaeque sedilibus erras, Inque alios mordax scommata salsa lacis.

Sui parassiti Accetta questi granchi di fiume che ti doniamo: regali che si adattano ai tuoi costumi.

Hanno occhi vigili, più d’un ordine di pinze

armato di chele e uno stomaco esagerato. Così tu hai una pancia sporgente e un pingue addome, piedi infaticabili e pungiglioni attaccati al piede.

Quando gironzoli per i trivi e passi per i sedili delle mense, contro gli altri scagli mordace sarcasmi pungenti.

Il dileggio di Alciato, nel tratteggiare il parassita e condannarne la condotta sfaccendata, perpetua una nota e co-

spicua tradizione letteraria, basti pensare alla commedia Stichus di Plauto, alle pagine canzonatorie del De parasito di Lu-

ciano, o al De adulatore et amico di Plutarco, o anche ai nu-

merosi passi che Ateneo, nei Deipnosophistae, dedica alle

figure dello scroccone e adulatore.

Se dunque il concetto dell’Emblema rinnova un antico

motivo, singolare emerge il simbolico accostamento del parassita fannullone al granchio di fiume, animale che per altro

nell’Emblema non presenta una puntuale definizione. Infatt, nelle vignette XXVIa e XXVIb è riconoscibile più un’aragosta che un granchio fluviale, così come i pungiglioni, il plu-

rimo ordine di pinze, lo «stomaco esagerato» e la « pancia » rammentano grossi crostacei di mare e non quelli dei corsi

d’acqua. In edizioni posteriori la bestiola viene identificata

con un astice marino e così raffigurata (Fig. 1).° La descrizione grafica, evidentemente,

non vuole essere naturalistica e

‘scientificamente’ fedele al granchio fluviale dei versi, bensì d’effetto e soddisfare appieno, in tal modo, la caricatura che Alciato dà del parassita. Il paragone figurativo tra quest’ultimo e l’animaletto si accorda pertanto con la corrispettiva en-

fasi poetica dell’epigramma, tesa a esibire il grottesco del per-

sonaggio. In ciò Alciato può avere preso spunto dal citato Ateneo, la cui opera venne edita per la prima volta da Aldo a Venezia nel 1514. In essa si parla in più occasioni* del goloso

parassita Callimedonte, detto «Aragosta », perché particolar-

mente ghiotto di questo crostaceo. Diversi epitet simili, sempre a proposito di adulatori e parassiti, ricorrono nelle pagi-

EMBLEMA

XXVI

167

ne” dei Deipnosophistae: troviamo nomignoli quali «Allodola», «Chiozzo»,

«Cruscone»,

«Sgombro»,

«Semola». E di nuo-

vo, per prendere in giro pari soggetti: uno scroccone piccolino è detto «Goccia», quello grasso è «Zuppetta», un tizio che di solito non riesce a sbafare è «Muggine digiuno», e altri ancora, come un certo Cherefone, che per la voracità viene paragonato a un «gabbiano affamato ». Del tutto consono a un tale lessico, non privo di beffardi riferimenti ittici e culinari, appare dunque l’Emblema alciateo con la sua originale descrizione del parassita. In seguito l’immagine delle xilografie XXVIa e XXVIb evolverà in una iconografia più didattica e di minore efficacia simbolica rispetto a quella suggerita dalla semplice ed essenziale figura del granchio. Avremo difatti una scenetta (Fig. 1),° ambientata in un dettagliato contesto urbano, in cui si mostra con cura l’inizio dell’epigramma, con il piatto di granchi o astici portato ironicamente in dono al parassita. In Thuilius (Fig. 2)’ si ripropone erroneamente la stessa vi-

gnetta dell’Emblema XXX (Fig. 2).

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IL LIBRO

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DEGLI

EMBLEMI

EMBLEMA XXVII [1531, c. B4r; 1534, p. 31] Concordia

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In bellum civile duces cum Roma pararet, Viribus et caderet Martia terra' suis. Mos fuit in partes turmis coeuntibus hasdem,? Coniunctas dextras mutua dona dari.? Foederis haec species,' 1d habet concordia signum, U't quos iungit amor, iungat et ipsa manus.

Concordia

Quando a Roma i condottieri si preparavano alla guerra civile, e la terra di Marte rovinava per le violenze intestine,

era costume, riunite le schiere nelle medesime contrade,

di stringersi le destre e scambiarsi dei doni. Questo il tipo di patto, il segno della concordia, affinché coloro che amore affratella anche la stessa mano unisca. Il tema della concordia, già manifestato pur con altri accenti e contenuti negli Emblemi II e VI, viene qui nuovamente espresso ed esaltato dal fraterno gesto della stretta di mano. A proposito, Alciato aveva scritto nel suo In Cornelium Tacitum annotationes® che le mani destre congiunte erano «concordiae signum>», citando lo stesso Tacito che ne aveva parlato negli Annales.° Lo storico romano riporta episodi in cui un oggetto in argento o bronzo raffigurante due destre unite veniva offerto in dono, secondo un’antica tradizione, come sim-

bolo di ospitalità, di accordo e di concordia: per esempio quando le «destre » furono inviate in omaggio dalle legioni della Siria ai pretoriani. Sulla dextrarum iunctio non mancano certo testimonianze negli scrittori latini,” e tutte convergono nel conferire a questo signum un alto valore di amicizia, fedeltà e pace.® Ad Alciato, oltre a certi autori, non doveva sfuggire Horapollo,° i] quale osserva che nei geroglifici egizi «due uomini che si danno la mano destra indicano la concordia». Il simbolo compare sovente nei conii monetali romani

(Fig. 1, Fig. 2)'° unito alle parole «CONCORDIA EXERCI-

TUM>»

(ma anche « FIDES EXERCITUM»

o «CONCORDIA

MILITUM»). A una moneta di questo genere, che ripete il soggetto portando sul verso due principi che si stringono le destre con la scritta «CONCORDIA(E) AUGUSTOR(UM)». potrebbe essersi ispirato l’illustratore dell’Emblema, proponendo due comandanti che appunto uniscono le destre in segno di mutuo patto e di intesa, motivo che rimarrà invariato nelle future edizioni alciatee (Fig. 3, Fig. 4)." Secondo Livio? fu Numa Pompilio a consacrare la mano destra alla dea Fede, per cui suggellando con essa un patto, que-

EMBLEMA

XXVII

171

sto diventava inviolabile in quanto dedicato alla divinità.* Anche Servio!‘ ricorda che la destra è consacrata alla Fede, e Valerio Massimo" scrive: «il venerabile nume della Fides mostra la

sua Mano destra, fermissimo pegno di incolumità». Inoltre la dextrarum iunctio presente nell’iconografia romana e paleocristiana, come

ha evidenziato Reekmans,! non va intesa come

un rituale di matrimonio, bensì quale evocazione della concordia fra gli sposi, ovvero della fides che genera la concordia e ispira la pietas, senso che verrà poi conservato in epoca cristiana.

La raffigurazione della dextrarum iunctio, che ritroviamo pure nella glituica antica e nelle gemme incise,"” avrà fortuna anche nel Medioevo'"ì e nel Rinascimento”" in contesti non sempre aderenti al primitivo intendimento romano. Merito di Alciato, come di altri eruditi antiquari e umanisti,” è questo ac-

curato recupero del suo significato di denso valore politico e militare, che prelude all’unione fraterna e alla pace condivisa, e che costituîì uno dei santi simboli dell’antica Roma.

172

IL LIBRO DEGLI EMBLEMI

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EMBLEMA XXYVIII [1531, c. B4r-v; 1534, p. 32]

Quae supra nos, nihil ad nos

XXVIIIb Caucasia aeternum pendens in rupe' Prometheus Dinripitur sacri praepetis ungue iecur,°

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IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

Et nollet fecisse hominem, figulosque perosus Accensam rapto damnat ab igne facem. Roduntur varijs prudentum pectora curis,

Qui coeli affectant scire deumque vices.

Ciò che sta sopra di noi non ci riguarda Appeso in eterno alla rupe del Caucaso, Prometeo

ha il fegato straziato dall’artiglio del sacro uccello.

Non vorrebbe avere creato l’uomo, odia chi modella

la creta e maledice la fiaccola accesa col fuoco rubato.

Varie inquietudini rodono le menti dei savi

che bramano conoscere le vicende del cielo e degli dèi.

Prometeo, il «preveggente » ,° figlio del Titano Giapeto e dell’Oceanina Climene, imparentato con Zeus (figlio del Titano Crono), è un personaggio della primitiva mitologia gre-

ca, e le sue imprese, poste agli esordi della storia, ne faceva-

no l’artifex per eccellenza, il benefattore dell’umanità, a cui

insegnò le arti e l’uso del fuoco, rubandolo dal carro del Sole. Per questo furto e per un ingannevole sacrificio, ordito con «astuzia» a danno di Zeus, venne da questi incatenato

sul Caucaso e condannato a subire un’aquila, rapace simbo-

lo del sommo dio,‘ che gli divorava il fegato, tormento da cui

lo libererà Ercole. Prometeo personifica l’ingegno umano che sviluppa il progresso superando anche i limiti posti dalle norme divine. « Tutto quello che gli uomini conoscono pro-

viene da Prometeo » afferma lo stesso Titano in Eschilo.?

Il mito apparve nell’epica cosmologica di Esiodo® e poi in

Eschilo, che gli dedicò una trilogia, di cui ci sono giunti

frammenti e il solo Prometeo incatenato. Più tardi, con Esopo’

e Platone,° si incontra la leggenda in cui Prometeo, obbedendo a ordini divini, plasmò gli uomini. Su queste prestigiose e solide radici, numerosi autori antichi° ne ripresero gesta, significati e interpretazioni: tematiche poi rivisitate nel Medioevo!’ e nel Rinascimento,'! secondo una tradizio-

ne che attraversa la millenaria cultura europea,'* facendone

uno dei suoi miti più fecondi e rappresentativi. Alciato si inserisce in questo autorevole contesto ponen-

EMBLEMA

XXVIII

175

do, per primo e con successo,"* la figura di Prometeo nella letteratura di concetto, allo scopo di illustrare emblematicamente la temerarietà intellettuale, la sua rischiosa ambizio-

ne, l’audace sfida al divino e gli inevitabili tormenti e pene che le vanno congiunti, auspicando, per sottesa antilogia, rudenza e umiltà. Il titolo dell’Emblema è un famoso detto socratico. Sì legge nell’ Octavius'* di Minucio Felice: «Comunque, se vi piace filosofare, è Socrate, il principe della sapienza, che ciascuno di voi, se potrà, deve imitare. E famosa la risposta di quest’uomo ogni volta che veniva interrogato su questioni celesti: “Ciò che si trova al di sopra di noi non ci riguarda”». Socrate, con questo responso, ribadiva che la maggiore occupazione della sua filosofia era l’uomo, teso alla vera e virtuo-

sa conoscenza del ‘sapere di non sapere’ e non verso cose e realtà a lui lJontane come i princìpi del cosmo. Erasmo'" riporta la sentenza socratica nei suoi Adagia, ma la intende, citando e seguendo Lattanzio,!"° in senso più re-

strittivo, ossia come un divieto etico-religioso a non indagare «le cose celesti e gli arcani della natura». Alciato, aderendo al tenore del commento di Erasmo (che però non

menziona né Prometeo né altri),” riprende il motto e lo as-

socia autonomamente alla figura del Titano. in

Una simile lettura della sentenza, ovvero una valutazione ‘negativo’ di Prometeo, si rispecchia anche nei versi

dell’epigramma. Qui il Titano si pente amaramente delle sue due principali imprese: il furto e l’uso del fuoco da un

lato e, dall’altro, l’arte di modellare la creta'® e la stessa crea-

zione del genere umano," ch’egli compì grazie alle sue capacità di artifex (a proposito si può ricordare che sui sarco-

fagi romani del II-III secolo d.C. troviamo la figura di Prometeo che, come

uno scultore, crea plasticamente l’uomo,

iconografia che si perpetuerà anche nelle rielaborazioni rinascimentali).” A simili contenuti Alciato unisce, nell’ultimo distico, un riconoscimento al rovello interiore, alle pe-

nose elucubrazioni a cui si sottopone ìl sapiente, ovvero Pro-

meteo teso a conoscere i più alti misteri. Lo elogia, infatti,

chiamandolo prudens («Roduntur varijs prudentum pectora curis »), scelto epiteto che evoca sapienza.°! È Boccaccio” che, derivandolo da Servio,? nomina Prometeo

«vir prudentissi-

Mus», e chiarisce inoltre come l’immagine dell’aquila che

176

IL LIBRO DEGLI EMBLEMI

gli strazia le viscere alluda alle incessanti angustie delle sue sublimi meditazioni, alle preoccupazioni e agli affanni dei

suoi pensieri, che sempre si rinnovano nella ricerca di qual-

che verità.** Boccaccio spiega ancora che l’alta rupe del Cau-

caso significa la «solitudine » in cui Prometeo si era ritirato e alla quale non poteva che rimanere «legato», in quanto

trattenuto dal continuo così la scelta di una vita noscenza. Certi aspetti condizione intellettuale

desiderio di «sapere», collegando solitaria alla ricerca e alla sete di coinerenti la problematica e valorosa di Prometeo trovano in Celio Ago-

stino Curione,* nella metà del ’500, un valido sostenitore,

quando osserva, richiamando il Protagora di Platone, che il fuoco del Titano esprime l’«intelletto agente» aristotelico, cioè la forza e la luce dell’ingegno che inventa e produce ogni arte, come avevano sostenuto anche i teologi egizi. Nel-

la pagina in cui scorrono tali considerazioni vi è una sintomatica vignetta con Prometeo, quasi ‘altro’ Zeus, che impu-

gna con sicurezza il fuoco a forma di folgore.*

La xilografia XXVIIIa, per la stretta analogia grafica,”’ dovrebbe discendere da quella (Fig. 3) del Metamorphoseos Vulgare"® di Giovanni dei Bonsignori, stampato a Venezia nel 1497, dove nell’Ade il Gigante Tizio, similmente a Prometeo, ha il fegato straziato dagli avvoltoi.

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IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

EMBLEMA XXIX [1531, cc. B4v-B5r;, 1534, p. 33] In amatores meretricum

XXIXa

Villosae indutus piscator tegmina caprae, Addidit ut capiti cornua bina suo, Fallit amatorem stans summo in littore sargum, In laqueos simi® quem gregis ardor agnit. Capra refert scortum, similis fit sargus amanti, Qui miser obscoeno captus amore perit.®

Sugli amanti delle meretrici Indossata la pelle di una villosa capra, il pescatore si pose sul capo due corna. Stando sul punto più alto della riva trae in inganno un sargo innamorato, che l’ardente desiderio delle capre camuse sospinge nei lacci.

La capra è simile alla puttana e il sargo all’amante, che misero perisce irretito da un amore osceno.

Per questa sarcastica censura del meretricio e dei suoi

estimatori, Alciato adatta una pratica piscatoria descritta puntualmente da Oppiano negli Halieutica* e da Eliano.® Si credeva che i sarghi (sargus vulgaris) ° provassero un’attrazio-

ne irresistibile per l’odore delle capre, tanto da avvertirlo

sott’acqua. Era dunque sufficiente che una o più capre pa-

scolassero sulla riva e si facessero

sentire con i loro belati,

che subito questi pesci balzavano fuori dalla superficie marina, quasi nel tentativo di toccarle. Tanto impeto d’amore,

sfruttato abilmente dai pescatori che si travestivano da capre, era loro fatale perché venivano da questi subito presi

nelle reti. « Sargo infelice » recita Oppiano’ «la cui mala passione, per l’inganno dei pescatori, conduce dall’amore alla morte». Sono con ogni probabilità questi versi che, per la corrispondenza con quelli di Alciato, hanno ispirato l’amara conclusione dell’Emblema. La capra come immagine o ‘geroglifico’ della meretrice è

menzionata da Valeriano,° che cita a riguardo il poeta comi-

co Macone’

quando

parla dell’etera Nico di Samo

detta

«Capra» (Ai6) perché una volta si era « pappata» un cliente

facoltoso di nome «Ramoscello » (HaAX6g).

Rispetto a XXIXa e XXIXb la vignetta nelle citate edizioni lionesi (Fig. 1) appare più dettagliata nei particolari.

EMBLEMA XXIX

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EMBLEMA XXX [1531, c. B5r-v; 1534, p. 34]

Albucij' ad D. Alciatum suadens, ut de tumultibus Italicis se subducat et in Gallia profiteatur

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XXXb

Quae dedit hos fructus arbor, coelo advena nostro, Venmit ab Eoo Persidis axe prius. Translatu facta est melior, quae noxia quondam In patria, hic nobis dulcia poma*® gent. Fert folium linguae, fert poma simillima cordi,® Alciate hinc vitam degere disce tuam. Tu procul a patria* in pretio es maiore futurus, Multum corde sapis, nec minus ore vales.

Albuzi al Signor Alciato per persuaderlo ad allontanarsi dai tumulti d’Italia e a insegnare in Francia L’albero che diede questi frutti, straniero al nostro cielo, venne un tempo dalla regione orientale di Persia. Trasportato qui è diventato migliore. Prima, in patria, era nocivo, ora ci dona dolci frutti:

porta foglie simili a una lingua e frutti simili a cuori.

Impara, o Alciato, a passare via da qui la tua vita. Lontano dalla patria godrai di maggiore considerazione: sei molto saggio nel cuore e non meno nel parlare. Columella,° da cui dipende Alciato, racconta che il pesco, quando fruttifica nel paese d’origine, la Persia, produce pomi velenosi, mentre ne dona di dolci, succosi e commestibili

se piantato altrove. Plinio‘ invece ritiene falsa la notizia che

le pesche persiane contenessero un veleno che causava atroci dolori e che, una volta introdotte in Egitto dai Faraoni, avessero perso tanta nocività grazie alle proprietà del nuovo terreno. La tossicità reale dei semi’ contenuti nel nocciolo della pesca può essere alla base di questa credenza, a cui

sembra far riferimento anche Dioscoride,®? il quale parlando della persea egizia

(repoaia)°

osserva che questo

albero,

che produceva in Persia frutti venefici e mortali, trasportato

in Egitto diventò buono da mangiare e salutifero. Secoli dopo troveremo ancora questa opinione in Isidoro di Siviglia.'°

Due peculiarità del pesco indicate nell’epigramma," che

porta cioè «foglie simili a una lingua e frutti simili a cuori», sono tratte dal De Iside et Osiride"? di Plutarco, dove designano

le valenze simboliche della persea, albero funerario di Osiride

e sacro a Iside.'$ Ma ora, indipendentemente da quel signifi-

cato, la ‘lingua’ e il ‘cuore’ della pianta divengono, per l’analogia poetica fra il giureconsulto e il pesco, una sorta di ‘geroglifici’ celebrativi dello stesso Alciato, come prova la speculare

corrispondenza del quinto verso con l’ottavo: là ‘lingua’ €

‘cuore’ del benefico pesco, qui le virtù dell’eloquenza e del ‘cuore’ di Alciato, ovvero la sua parola è savia perché procede

da un cuore sapiente, anzi, dalla sua anima. Per ‘cuore’ infatti

si deve intendere l’anima, in quanto presso gli Egizi (è Hora-

EMBLEMA

XXX

185

ollo!'‘ a tramandarlo al Rinascimento) come pure presso auctoritates greche,'" quali Pitagora o gli Stoici, e latine,"$ quali Cicerone o Lucrezio, il « cuore è fisiologicamente involucro dell’anima»: ne è l’aabitus, la sede sapienziale del consiglio, della prudenza e delle facoltà volitive e intellettuali.

Versi sì encomiastici per Alciato e l’esplicito titolo («Albucij

ad D. Alciatum suadens»)

fanno credere, come

sostiene Mi-

gnault,”” che il componimento si debba proprio al giureconsulto, letterato e poeta Aurelio Albuzi,'® allievo e amico

del

medesimo Alciato, il quale evidentemente avrebbe poi deciso di inserirlo fra i suoi Emblemi. Diverso parere quello di Gio-

vio"* che invece lo attribuisce con sicurezza al Nostro. Di fatto l’Emblema fa riferimento a un preciso periodo della sua vita,® che possiamo collocare o intorno al 1518 o al 1527, anni

in cui effettivamente Alciato si trasferì da Milano in Francia.

Infatti nel 1518, per la prima volta, mentre Milano era sotto la

dura tirannide di Lautrec, governatore di Francesco I, si recò

a insegnare ad Avignone: un impegno che lo portò più volte

nella città francese fino al 1522. Tornato a Milano partì di nuovo per Avignone nel 1527: da qui, nel 1529, passò a inse-

gnare all’Università di Bruges, ottenendo grandi soddisfazioni e raggiungendo l’apice della fama. Il momento storico a cui fa riferimento l’epigramma sembra proprio quest’ultimo,

ossia gli eventi che precedono la partenza del 1527. Lo sug-

gerisce l’invito ad «allontanarsi dai tumulti d’Italia » riportato nel titolo, che può in effetti alludere alla guerra franco-spagnola combattuta in Lombardia, che toccherà l’acme con la

battaglia di Pavia del 1525. Alciato — precisa Abbondanza —°

«vive gli anni calamitosi intorno alla battaglia di Pavia, disturbato nel lavoro e con perdite dolorose negli averi e negli af-

fetti». Alle difficoltà di quel periodo milanese sembra pertan-

to rivolgersi il tono generale dell’epigramma che, per l’aulico invito a trovare da altre parti i giusti riconoscimenti negati nel paese natale, evoca, come nota Thuilius,” l’adagio evangelico

«Nemo propheta in patria» .” Le vignette si distinguono per una diversa interpretazione

del testo. La XXXa raffigura semplicemente un pesco, la XXXb ne mostra il trasferimento per essere trapiantato attraverso un personaggio che conduce un cesto con frutti e se-

mi, il quale, nelle stampe posteriori, verrà caratterizzato in vario modo (Fig. 1, Fig. 2) .®

EMBLEMI DEGLI IL LIBRO

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EMBLEMA XXXI

[1531, c. B5v; 1534, p. 35] Parvam culinam duobus ganeonibus non sufficere

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IL LIBRO DEGLI EMBLEMI In modicis nihil est quod quis lucretur, et unum Arbustum geminos non alit erythacos.' ALIUD,? In tenui spes nulla lucni est, unoque residunt Arbusto geminae non bene ficedulae.

Una piccola cucina non basta a due crapuloni Nella scarsità non c’è alcuno che lucri, e un solo

alberello’ non nutre due pettirossi. UNALTRO:

Non c’è alcuna speranza di lucrare nel poco,

due beccafichi non vivono bene su un solo alberello.

Ironizza Alciato sulla non facile spartizione di un bene co-

mune e sulla magra convivenza nelle ristrettezze. Si tratta di

un gioco che ripete lo stesso taglio proverbiale fin dal titolo,

che, con il riferimento ai «crapuloni», sembra costruito apposta per schernire ancor più i due uccellini che si contendono il desco. L’adagio « Unicum arbustum haud alit duos erithakos» traduce una massima greca (Lia A6Xun oÙ tpédel dvo épu6dkovws) tramandata da una notevole tradizione lessi-

cografica e dallo scolio a un passo di Aristofane.‘ È presente anche negli Adagia® di Erasmo, dove se ne attribuisce la paternità a Zenodoto e da dove lo deriva Alciato. Potrebbe dipendere dal testo erasmiano anche il titolo («Parvam culinam duobus ganeonibus non sufficere»), se lo consideriamo

una variante ideata dal Nostro sull’altro motto « Una domus

non alit duos canes» (« Una sola casa non nutre due cani»), che campeggia nella stessa pagina degli Adagia® in cui si trova la sentenza sui pettirossi. Erasmo annota, a proposito di

quest’ultima, che l’erithacus ama la vita solitaria, motivo che

ricorre anche in Valeriano,’ per il quale il pettirosso è sim-

bolo dell’uomo solitario. I beccafichi («ficedulae»), sostituti dei pettirossi nell’ultimo verso, si giustificano probabilmente se intesi come allusione ai crapuloni del titolo, in base a due versi di Marziale” che presentano questi uccellini quali gaudenti e ghiotti divoratori di fichi e di dolce uva.

EMBLEMA

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L’iconografia un po’ elementare di XXXlIa e di XXXIb troverà una più vivida espressione nell’ambientazione di il-

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Aspice ut egregius' puerum lovis alite® pictor® Fecerit Iiacum‘ summa per astra° vehai. Quisne Iovem tactum puerili credat amore? Dic haec Maeonius finxerit unde senex ?° Consilium mens atque Dei cui gaudia praestani, Creditur is summo raptus adesse Iovi.’

Sì deve gioire in Dio Guarda come l’eccellente pittore ha fatto il giovinetto troiano che viene trasportato alle supreme stelle dall’uccello di Giove. Chi crederebbe che Giove sia stato preso d’amore per un fanciullo? D}i’: il vecchio Meonio donde inventò queste cose? A chi la saggezza e la mente di Dio danno gioia,° questi è creduto rapito al cospetto del sommo Giove. Del mito di Ganimede,° giovane di prodigiosa bellezza e onorato da tutti gli immortali — come narra Omero nel primo Inno ad Afrodite —,'° rapito in cielo dall’aquila di Zeus," il quale se ne era invaghito e ne fece il coppiere degli dèi, Alciato coglie e sviluppa un preciso significato. Ganimede, come recitano il titolo e il distico finale dell’epigramma, rappresenta la bellezza spirituale che sola può ambire alle gioie divine. Questa interpretazione del mitologema ha la sua prima attestazione filosofica nel Symposium"’ di Senofonte. Sul finire dell’opera, Socrate, uno dei personaggi del banchetto, in un lungo discorso sull’eros e i suoi diversi aspetti, discutendo in particolare dell’amore fra uomini adulti e giovinetti,'* sostiene che va stimato di più l’amore per l’anima che non il mero godimento del corpo: « Zeus difatti non rese immonrtali tutte le donne mortali della cui bellezza fisica si era innamorato, mentre i giovani sì, come quelli, per esempio Ercole o ì Dioscuri, delle cui anime belle si era infatuato ». Perciò — prosegue il filosofo — Ganimede non venne condotto sull’Olimpo per la sua grazia fisica, ma per le qualità dell’animo: a conferma di ciò espone una arbitraria etimologia'‘ del nome del coppiere divino. Allo scopo cita due emistichi attribuiti a Omero (che però non trovano corrispondenza nei suoi poemi): da uno, «gioisce (yd&vvta1), ascoltando », trae la parola yavésg («gioia, gaudio »), che forma la prima parte del nome Ganimede; dall’altro, «in mente ha saggi pensieri (undga)», ossia «ha saggezza nell’an!mo», ricava la successiva parte del nome. Ne consegue che il nome Ganimede risulterebbe composto dal verbo yàavvna1

(«gioire, rallegrarsi, esultare ») e dal sostantivo unè06 (« pen-

EMBLEMA

XXXII

193

siero»), coniugazione di due elementi

(ydvog + unidea) che

esplicita come il giovane coppiere vada inteso non come « colui che fa gioire per la sua avvenenza fisica», bensì come « colui che fa gioire per la saggezza dei suoi pensieri». La paraetimologia di Ganimede così proposta associa il

rapimento

del fanciullo

con

l’elevazione

dell’anima,

tra-

smutando la voglia pederotica e sensuale che emerge dal mito

(l’amante/Zeus

ghermisce

l’amato/Ganimede

come

un’aquila la preda) nello spirituale godimento dell’intellet-

to che, preso da mistico e contemplativo innamoramento, ascende al mondo divino e alla felicità ultraterrena. Tale ‘etimologia’ viene palesemente riproposta in questo Emblema dove, in XXXIIb come nelle xilografie delle ulteriori stampe,'° la vediamo scolpita nella vignetta («GANYMEDES T'ANHY2OAI

MHAEXZI»)

con il nome

accostato al concetto, in

greco, di gioire o dilettarsi nel pensiero e nella disposizione d’animo: stato interiore inteso quale moto verso il divino, come sancisce il medesimo titolo «In Deo laetandum » . L’esegesi rinascimentale intende la salita uranica di Gani-

mede come simbolo dell’estasi dell’amore platonico, del furor divinus che infiamma l’anima e la rapisce.'$ Specialmente Cristoforo Landino,"” commentando il IX canto del Purgatorio dantesco scrive: «Sia adunque Ganimede l’humana mente, la quale

Iove, idest el sommo

Idio, ama.

Sieno

e suoi

compagni l’altre potentie dell’anima, chome è vegetativa, et sensitiva. Apposta adunque lIove che epsa sia nella selva,'®

idest remota dalle chose mortali, et con l’aquila già decta la inalza al cielo. Onde epsa abbandona e compagni, idest la

vegetativa, et sensitiva, et abstracta, et quasi chome dice Pla-

tone" rimossa dal corpo, et venuta in oblivione delle chose

corporee, è tutta posta nella contemplazione de’ secreti del cielo»; e poco sopra precisa che l’aquila è la «gratia illumi-

nante » che «innalza el nostro intelletto » . Se dunque l’Emblema discende da Senofonte e la rivisitazione alciatea del mito risulta consona a quella dell’umane-

Simo neoplatonico, rimane tuttavia da spiegare il senso dei

Primi due versi dell’epigramma e da identificare l’«egregius

pictor» che raffigurò Ganimede trasportato verso le «supre-

Mme stelle». Innanzi tutto si deve precisare che l’immagine del fanciullo sul dorso dell’aquila, quasi fosse una cavalcatu-

ra ch’egli conduce con aria sicura (come mostra in XXXIIb

194

IL LIBRO DEGLI EMBLEMI

il braccio destro teso verso la meta celeste o, in XXXlIla, lo

stesso braccio alzato), non trova riscontro nella tradizione iconografica del soggetto,”° solitamente rappresentato con Ganimede che viene preso con forza o carpito dall’aquila® e

mai invece raffigurato quale saldo ‘condottiero’ dell’uccello predatore, come appunto nelle vignette dell’Emblema. An-

che nell’incisione (Fig. 1) di Giulio Campagnola realizzata intorno agli inizi del Cinquecento, che a prima vista sembra assomigliare a quelle alciatee ostentando Ganimede a caval-

cioni dell’aquila, non traspare certo una volontà di coman-

do o di guida da parte del giovane, che anzi, quasi timoroso,

si tiene stretto al collo del rapace.

Le iconografie delle vignette, specialmente quella di XXXTIb,

trovano invece un sicuro confronto con una identica figura-

zione affrescata intorno al 1520 nella Sala dello Zodiaco in Palazzo D’Arco a Mantova e ascritta al pittore Giovanni Maria Falconetto (1468-1535).® Niente vieta di ritenere che Alciato

abbia visto personalmente l’affresco, magari durante una sua

visita alla città lombarda, dal momento che tra i]l 1522 e il 1527

viveva stabilmente a Milano, professando l’avvocatura e lavo-

rando a «numerose opere giuridiche e letterarie » .* Si tratta di una immagine (Fig. 2) che fa parte della complessa allegoria del segno zodiacale dell’Acquario: sulla destra si scorge ap-

punto Ganimede che sull’aquila s’invola verso Giove, il quale

si protende dalle nubi e gli porge la mano per accoglierlo. Si noti come le braccia dei due personaggi si offrano reciproca-

mente per l’ambito incontro. L’invenzione pittorica dipende

da una consolidata concezione mito-astrologica, trasmessa da diversi autori classici,» a cominciare da Eratostene,* i quali identificano la canonica personificazione dell’Acquario, cioè il giovane che versa acqua da un otre o da un vaso, con lo stesso Ganimede, assimilazione connessa al ruolo di quest’ultimo: coppiere celeste che mesce nettare agli dèi.” Alla luce di quanto detto si comprende meglio anche il senso del primo distico dell’epigramma su cui prima ci interrogavamo: l’«egregius pictor» è il citato Falconetto, che appunto dipinse il ciclo della Sala dello Zodiaco in Palazzo D’Arco, mentre il «trasporto alle supreme stelle » di Ganimede, dal punto di

vista iconologico, altro non esprime che il catasterismo dek l’Acquario coniugato al filosofico amore platonico che fa a-

scendere l’amato verso l’amante celeste, significato che verost

EMBLEMA

XXXII

195

milmente va riconosciuto in primis anche all’iconografia di

Falconetto, dove lo slancio del giovanetto e l’accoglienza di

Giove sembrano testimoniare quel mistico senso. A partire dalle edizioni lionesi Rouillé/Bonhomme

(ap-

arse in latino, francese, spagnolo e italiano fra il 1548 e il

1566), la tipologia grafica della vignetta assume una nuova soluzione con la Fig. 3,% in parte replicata nella stampa patavina del 1621 (Fig. 4). La Fig. 3, per la contorsione che unisce l’aquila a Ganimede, con il rapace che gli artiglia le

caviglie, e per il cane sottostante che sta abbaiando, testimo-

nia la sua dipendenza dal celeberrimo disegno (Fig. 5)” di Michelangelo donato nel 1532 a Tommaso de’ Cavalieri, do-

ve la scena è similmente rappresentata, con in basso i cani abbandonati da Ganimede,

uno dei quali latra verso il suo

padrone rapito.” La filiazione della Fig. 3 da Michelangelo

pare indiretta: chi la ideò riprese il soggetto probabilmente

da una delle copie del motivo michelangiolesco che vennero fatte nella prima metà del Cinquecento. A riguardo propongo per un raffronto iconografico una anonima incisione

a bulino (Fig. 6),* risalente forse al 1542, nella quale sìi ritrovano elementi grafici comuni alla Fig. 4, quali, oltre al volo di Ganimede, il cane accucciato che abbaia e — sullo sfon-

do — le architetture urbane con il mare solcato da vascelli.

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EMBLEMA XXXIII [1531, c. B6r-v; 1534, p. 37] Inviolabiles telo Cupidinis

XXXIlIlIa

XXXIIIb Ne dirus te vincat amor,' neu foemina mentem Diripiat magicis artibus ulla tuam, Bacchica® avis praesto tibi motacilla paretur, Quam quadriradiam circuli in orbe loces, Ore crucem et cauda, et geminis ut complicet alis, T'ale amuletum carminis omnis erit. Dicitur® hoc Venenris signo Pagasaeus* Tason® Phasiacis® laedi non potuisse dolis.

Inviolabili alla freccia di Cupido Perché non ti vinca amore crudele, né donna alcuna

strazi la tua mente con arti magiche,

ti sia preparata la motacilla bacchica,

che devi disporre come quattro raggi nel giro di un cerchio,

cosicché formi una croce con il becco, la coda e le due ali.

Questo sarà l’amuleto per ogni incantesimo. Si narra che, grazie a questo sigillo di Venere, Giasone Pagaseo non poté subire offesa dagli inganni della Fasiaca.

Questo Emblema XXXIII sembra una risposta all’Emblema VII, il cui epigramma, dopo aver cantato l’irresistibile potenza di Eros, si concludeva con l’inquietante interrogativo

se la violenza del dio avrebbe mai potuto risparmiare alcuno. Alciato propone ora una efficace difesa contro tanto vigore: un talismano da contrapporre ai tormenti dell’incontenibile amore e alle magiche malizie femminili a essi congiunte.

L’amuleto descritto da Alciato e il tenore dei suoi versi ri-

calcano quanto tramanda Pindaro’ a proposito di Afrodite,

che per prima portò agli uomini l’uso di questo talismano e

lo insegnò a Giasone, che così fu in grado di conquistare i favori di Medea. Il termine motacilla traduce qui il greco

{uyÉ, che indica l’uccellino dal piumaggio variegato e cangiante, capace di roteare la testa e dal canto trillante che imita il flauto, di cui parlano Aristotele,® Eliano”’ e Plinio,'° le cui valenze magico-erotiche sono richiamate in Pindaro, in Teocrito" e in Suda,'* e che corrisponde alla iynx torquilla dei Latini e al nostro torcicollo.'* In merito si deve rilevare che, quando scrive Alciato, vi è una certa confusione lessicale. Lo

testimonia pure Valeriano'‘ scrivendo che l’uccello «Iynx»

viene chiamato in latino «fringilla» ma anche « motacilla»,

perché muove sempre la coda, o ancora «torquilla» perché

è in grado di ruotare il collo, oppure «turben ». Lo strumento incantatorio" a cui si fa riferimento consisteva nel fissare o legare la iynx torquilla a una ruota, fermandone le

ali e le zampe ai quattro raggi, dove rimanevano ben distese:

l’amuleto così congegnato veniva poi lanciato in aria e fatto roteare in direzione della persona amata, mentre si recitavano formule

magiche;

l’immagine

di XXXIlla,

priva della

EMBLEMA

XXXIII

201

ruota, viene opportunamente integrata in XXXIIIb, secondo il modello che sarà ripetuto nelle successive edizioni

(Fig. 1, Fig. 2).'° Si credeva che un tale rito avesse la facoltà

di attrarre l’amato, ed era simile a quello praticato con il

rombo (rhombus) ,' sorta di trottola incantatoria dal potente effetto erotico. Il rombo constava di un disco con dei fori al centro dove passava una cordicella: tirandone le estremità il

disco girava veloce producendo un sibilo affine allo stridio dell’uccello. Si può supporre che la scelta della iynx per certe operazioni magiche vada connessa alle prerogative natu-

rali della bestiola, in particolare al moto circolare del collo, che emulerebbe per sympatheia quello del rhombus, e alla sua

voce che ne richiamerebbe il sibilo.

Il mito, trasmesso da Callimaco"® e nel citato Suda, non di-

ce niente di tutto ciò e si limita a raccontare che la maga Iynx, figlia di Eco o di Peitho, adescò Zeus con i suoi sortilegi e lo convinse a giacere con lei (secondo una variante del mito lo fece unire con lIo). Di conseguenza Hera, per vendicarsi del tradimento, trasformò la maga nell’uccello che

porta il suo stesso nome.

Tuttavia pare che la forza magica di questo amuleto (co-

me di quella del rombo, da cui va comunque distinto) fosse

dovuta soprattutto al suo roteare e al conseguente effetto acustico. Lo confermerebbe indirettamente il significato e

l’ufficio che svolgeva lo strumento chiamato anch’esso {uyE

o otpOdaXog presso i maghi caldei e che serviva per evocare dèi e demoni. Psello, commentando gli Oracoli caldaici,° spiega che la iynx (o strophalos) era composta da una sfera d’oro su cui erano scritti mistici caratteri e che conteneva nel mezzo uno zaffiro: la sfera veniva fatta girare rapidamente in modo da emettere suoni come grida indistinte di

animali, che si spandevano per l’aria mentre il teurgo faceva

le invocazioni. Ciò che operava nel rito e lo rendeva efficace — osserva ancora Psello — era la forza del suo vorticoso gira-

re. Si può ipotizzare che il potere magico di questo moto circolare derivasse dal fatto che rifletteva per analogiam quello delle sfere celesti e delle entità cosmiche ad esse legate.?

202

IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

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EMBLEMA XXXIV [1531, c. B6v; 1534, p. 38]

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Innumenis agitur res publica nostra procellis, Et spes venturae sola salutis adest. Non secus ac navis medio circum aequore venti Quam rapiunt, salsis iamque fatiscit aquis. Quod si Helenae adveniant lucentia sidera fratres,' Amaissos animos spes bona restituit.

Speranza assai vicina Il nostro paese è sconvolto da infinite tempeste, _ e di una futura salvezza non rimane che sola speranza.

E come nave rapita dai venti in mezzo al mare,

che per le falle già imbarca acque salate. Ma se sopraggiungono i fratelli di Elena, stelle lucenti, la buona speranza rincuora gli animi scoraggiati.

La violenta apostrofe di Dante nella Commedia— « Ahi ser-

va Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere

in gran

tempesta » —° viene mitigata nel tono e nelle parole di Alcia-

to dalla speranza di una imminente salvezza. A quale preci-

so avvenimento storico si rivolga il Nostro non ci è dato di sapere con certezza, per la genericità dei versi e la complessa, conflittuale situazione politico-militare e religiosa che

vivono l’Italia e l’Europa nella prima metà del XVI secolo.

Tuttavia, considerando il travagliato e luttuoso periodo sofferto da Milano negli anni Venti del Cinquecento, contesa tra la Francia e gli Imperiali, pare ragionevole che l’augurio insito nella spes proxima possa riguardare proprio la città di Alciato’ Mignault‘ vede in Castore e Polluce un’allusio-

ne all’imperatore e al papa, così come motiva l’ottimismo

alciateo nell’incontro, avvenuto a Nizza nel 1538 fra Carlo

V e Francesco I, per trovare una soluzione politica delle contese fra Spagna e Francia, ma, come già chiarito,° tale

interpretazione è cronologicamente errata, dal momento che questo Emblema compare fin dall’edizione del 1531.

La metafora della nave nella tempesta, di per sé simbolo poliedrico e di ampia applicazione iconografica e letteraria,° trova il suo paradigma, nel significato poht1co che qui la caratterizza, in un famoso brano di Platone-’ È nella Res-

publzca infatti, che la nave, il suo capitano e i marinai, la capacità o l’inettitudine a governarla costituiscono l’immagi-

ne esemplare e didatticamente efficace per descrivere il rapporto tra i veri filosofi e la conduzione di uno Stato, 0$ sia di un vascello che può naufragare se non manovrato con la dovuta perizia e autorevole competenza. Tale motivo nautico-politico, che aveva esordito nell’antica lirica greca

con Alceo® e Archiloco,° troverà presso i Latini congrua r1-

EMBLEMA

XXXIV

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sonanza in Cicerone,'° quando invita Quinto Cornificio a sa-

lire con lui sulla ‘barca’ della fazione repubblicana, e a «mettersi a poppa, perché ormai tutte le persone dabbene stanno

sulla stessa barca verso una rotta favorevole », guidata con arte magistrale, qualunque vento spiri, grazie alla virtù che ani-

ma il pilota, ovvero lo stesso Cicerone. Con Quintiliano!!

l’immagine della nave in pericolo nel mare diviene exemplum retorico e allegorico: si cita Orazio («O navis, referent in ma-

re te novi / fluctus. O quid agis? Fortiter occupa / portum »)" e si spiega che nei versi «la nave indica lo Stato, i flutti e le

tempeste le guerre civili, il porto la pace e la concordia».

La speranza, di cui si diceva sopra, è figurata nel distico

finale — che fa eco a Orazio -" attraverso 1l topos mito -astronomico dei Dioscuri:"‘ 1 gemelli Castore e Polluce, figli di Giove e di Leda e fratelli di Elena. Astronomicamente personificano la costellazione dei Gemelli e ne designano le due stelle più brillanti (oggi: a, Castor; B, Pollux), che si tro-

vano sulla testa di ciascun personaggio: costellazione tradi-

zionalmente propizia ai naviganti"” in quanto i due parteci-

parono alla fortunata spedizione degli Argonauti!"® con Giasone ed Ercole. Seneca!’ osserva che quando in mare c’è forte burrasca si vedono di solito delle specie di stelle'® che si posano sulle vele, per cui i naviganti che sono in pericolo credono di essere aiutati da Castore e Polluce. Più articolata l’interpretazione di Plinio,' per il quale, se la stella o fiamma è una soltanto, questa è un indizio funesto e viene identificata con Elena,” la sorella dei Dioscuri, mentre quando

ne compaiono due, sono queste un segno favorevole e an-

nunciano una felice traversata («geminae autem salutare et prosperi cursus nuntiae » ): perciò, conclude Plinio, si attribuisce tale fausto potere a Castore e Polluce ed è usanza invocarli quando si è per mare. L’iconografia della nave nel fortunale, nelle sue disparate

valenze (per esempio quale allegoria della vita umana trava-

gliata dalle alterne vicende della sorte, oppure del pellegrinaggio dell’anima che, vessata dai vizi mondani, spera di raggiungere il porto della quiete e della salvezza trascen-

dente) godette di grande fortuna nell’ambito della lettera-

tura emblematica come di quella delle imprese.“ Nella specifica accezione alciatea, la ritroviamo nell’ Hecatongraphie di Gilles Corrozet, edita a Parigi nel 1544, dove all’immagine

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IL LIBRO

DEGLI

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del naviglio (Fig. 1)* corrisponde il titolo «La chose publique» e versi quanto mai espliciti: Comme en le nef ciascun s’applique Faire l’office, ou il est mis: Tout ainsi en la republique, Par degré plusieurs sont commis. Il connubio concettuale e iconico fra la nave nei pericoli del mare e la protezione accordata dai Dioscuri ai mari-

nai (idea guida di questo Emblema XXXIV, illustrata essenzialmente nella xilografia XXXIVa e in modo più curato nella XXXIVb con il dettaglio delle due stelle/ Dioscuri in alto a destra),°° ha un singolare precedente antiquario.

Infatti, su alcuni conii monetali romani di epoca repubbli-

cana (Fig. 4)* sono rappresentati da un lato i volti di Castore e Polluce accompagnati da due stelle, mentre sul ver-

so una galea in navigazione ne riceve il propizio patroci-

nio. Tale monetazione era probabilmente nota ad Alciato,

perché di essa discute dottamente il suo allievo e amico Costanzo

Landi, autore delle In veterum numismatum roma-

norum miscellanea explicationes."®

EMBLEMA XXXIV

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EMBLEMA XXXV [1531, c. B7r; 1534, p. 39]

Non tibi sed religioni

Isidis effigiem tardus gestabat asellus,' Pando verenda dorso habens mysteria. Obvius ergo Deam quisquis reverenter adorat, Piasque genibus concipit flexis preces.? Ast asinus tantum praestari credit honorem Sibi, et intumescit admodum superbiens,

Donec eum flagris compescens dixit agaso,

Non es Deus tu aselle, sed Deum vehais.

Non a te ma alla religione Uno sciocco asinello portava una statua di Iside, e aveva sul dorso ricurvo i venerandi misteri.

Così qualsiasi passante adorava riverente la dea,

pronunziando in ginocchio le pie preghiere, ma l’asino credeva che tanto onore fosse rivolto

a lui stesso, gonfiandosi ben pieno di superbia,

finché lo stalliere frenandolo a colpi di sferza disse: « Non sei tu il dio, asinello, ma il dio che porti».

Per beffeggiare la vanagloria degli imbecilli Alciato ripete una favola di Esopo,° la cui morale, come chiarisce lo stesso

Esopo, insegna che chi si vanta dei meriti altrui ci guadagna il dileggio e le risate di coloro che lo conoscono. Il detto

«far l’asino ai misteri» è proverbiale in Aristofane* per indi-

care colui che fatica e pena mentre gli altri celebrano festosi 1 misteri eleusini. «Asinus portans mysteria» è negli Adagia di Erasmo” che, citando il medesimo Aristofane, sottolinea il contraddittorio accostamento dell’asino con i misteri: è come se — ironizza Erasmo — un «ignarus litterarum » svol-

gesse il compito di «bibliothecae praefectus». Mignault® coglie nell’Emblema una sottesa critica di Alciato a quei sacerdoti e prelati che con ostentazione si attribuiscono magnificenza e potere, senza ricordarsi con umiltà

che, come ‘l’asino portatore di misteri’, non sono altro che

fragili strumenti e veicoli della volontà divina. Condividiamo questa interpretazione, anzi, ci pare che il Nostro pro-

ponga un’allegoria ancora più tagliente verso la religiosità

vanesia. Infatti, l’immagine dell’asinello con la statua di Isi-

de è una precisazione che non troviamo né in Esopo né in Babrio, nei quali si parla genericamente di un asino con la

statua di un dio. Si tratta di una aggiunta di Alciato presa dalle Metamorfosi di Apuleio, che risultano così la seconda

fonte dell’invenzione emblematica. I vocaboli «asellus» € «effigies Isidis» dell’epigramma ricorrono nel romanzo apuleiano: con il primo”’ si nomina l’asino in cui è stato trasformato il povero Lucio, con i secondi® la statua della dea Iside

portata in processione dai sacerdoti egizi, che la tenevano

appoggiata sul loro grembo sostenendola con le mani. Al-

EMBLEMA

XXXV

211

ciato preleva questi dati da passi diversi delle Metamorfosi e li coniuga, adattandoli liberamente alla sua vena poetica, con

un noto episodio dell’VIII libro della medesima opera.° Qui si racconta l’acquisto dell’asino/ Lucio da parte di una banda di rozzi debosciati, seguaci della dea Siria, i quali, dopo avere abbigliato vistosamente e imbellettato il viso del povero animale, caricano sul suo dorso la statua della dea per portarla in giro, fra musiche e danze frenetiche, allo scopo

di ricevere offerte in denaro e in natura da parte della gente che incontrano (Fig. 1).'° La feroce e sferzante ironia, con cui Apuleio tratteggia i personaggi e l’intera vicenda, come

pure la caricatura che fa dell’asino con la dea Siria suggeri-

scono una ripresa non casuale della scena da parte di Alcia-

to, il cui Emblema, sposando la fabula esopica con la storiel-

la apuleiana, viene pertanto a rimarcare con aspro tono polemico la boria di una religiosità fasulla.

Ci si può chiedere perché Alciato non abbia rispettato nell’epigramma il testo apuleiano, sostituendo l’effigie della dea Siria (portata dall’asino Lucio: dunque pienamente aderente al soggetto emblematico) con quella di Iside (por-

tata a braccio dai sacerdoti: dunque non corrispondente al

medesimo soggetto). Verosimilmente la scelta di Iside è dovuta alla sua notorietà, anche iconografica, in ambito umanistico e rinascimentale,'' mentre altrettanto non si può dire della dea Siria.!° Una scelta dunque, se la nostra ipotesi è giusta, funzionale alla visibilità didattico -figurativa dell’Emblema e del suo messaggio didascalico. A proposito si noti

che mentre della dea egizia troviamo ampi riferimenti nelle

Genealogie deorum gentilium di Boccaccio,"® in Beroaldo il Vecchio,'‘ nel citato De rebus aegyptiacis Commentarium di Calca-

gnini, come pure nei non meno eruditi lavori di Giraldi'5 e di Alessandro D’Alessandro,'® oppure di Rodigino” e di Va-

leriano!'® (per non dire del ciclo osiriaco affrescato tra il

1492 e il 1494 dal Pinturicchio nell’Appartamento Borgia in

Vaticano e ispirato da Annio da Viterbo),"° così non è per la dea Siria. Di questa non troviamo menzioni degne di nota

negli autori suddetti, a parte cenni in Giraldi” e nel comMmento di Beroaldo ad Apuleio,* che si basano, in entrambi

ì casi, su un’operetta di Luciano, il De dea Syria, stampata la Prima volta, insieme alle altre sue opere, a Firenze nel 1493

Per 1i tipi di Lorenzo d’Alopa.

212

IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

La scenetta delle incisioni XXXVa

e XXXVb

verrà in se-

guito perfezionata e arricchita nell’ambientazione (Fig. 2) mentre in Thuilius (ricordo che questa edizione degli Em-

blemata fu stampata da Pietro Paolo Tozzi a Padova nel

1621) si configurerà ulteriormente il simulacro della dea Iside, con un copricapo piumato, con la destra che sostiene il

Navigium lIsidis e con la sinistra che impugna un ramo di

abrotano (Fig. 3), iconografia che rispecchia quella delle Imagini de gli dei de gli antichi (Fig. 4)* di Vincenzo Cartari già apparsa a Padova nel 1615, sempre per i tipi di Tozzi.

213 XXXV EMBLEMA

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IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

EMBLEMA XXXVI

[1531, c. B7v; 1534, p. 40] In illaudata laudantes

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Ingentes Galatum semermi milite turmas, Spem praeter trepidus fuderat Antiochus.

Lucarum cum saeva boum! vis, ira, proboscis,

Tum primum hostiles cormmipuisset equos.

XXXVIb

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IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

Ergo trophaea locans elephantis imagine pinxit Insuper et socijs occideramus ait, Bellua servasset ni nos foedissima barrus, At superasse iuvat, sic superasse pudet. Su chi loda ciò che non

lo merita

Il timoroso Antioco, contro ogni speranza, aveva sbaragliato ingenti schiere di Galati con soldati poco armati, avendo

dapprima sorpreso la cavalleria nemica col feroce impeto, la proboscide e il furore dei buoi lucani.

Perciò, innalzando i trofei, vi dipinse sopra l’immagine di un elefante, e agli alleati disse: «Eravamo perduti

se non ci avesse salvato la terrifica belva che barrisce: ma come fa piacere avere vinto, spiace aver vinto così». La storia di Antioco I Soter che vince il ben più forte e ag-

guerrito esercito dei Galati grazie all’uso tattico degli ele-

fanti è trasmessa da un racconto di Luciano.® In esso lo scrit-

tore e retore greco si sente offeso dall’attenzione che gli ammiratori rivolgono soprattutto ai modi espositivi dei suoi dialoghi, che sembrano loro innovativi e audaci, invece di apprezzamrne la grazia, la ricercatezza, la perfezione dello sti-

le. Proprio — prosegue Luciano — come accadde a Zeusi o ad

Antioco. Il primo, «eccellentissimo fra i pittori», esponen-

do un mirabile dipinto con un Ippocentauro, rimase sde-

gnato che venisse lodato solo per la stranezza e l’innovazione del soggetto e non per la straordinaria abilità della sua

arte pittorica, del disegno e dei colori. Il secondo, similmente, vinse la drammatica battaglia contro i Galati, assai più numerosi, preparati e forti del suo raccogliticcio eserci-

to, solo per la novità dell’impiego di sedici pachidermi.

Questi, infatti, non essendo mai stati visti prima dall’agguerrito esercito nemico, lo sbaragliarono con terrore dando la vittoria ad Antioco e ai suoi. Da qui la frase conclusiva del

condottiero («fa piacere avere vinto, spiace aver vinto co-

sì»), con la quale da un lato si lodavano i pachidermi e lo

stratagemma del loro spettacolare uso bellico, che aveva tra-

volto gli avversari, dall’altro si esprimeva il rammarico per

EMBLEMA

XXXVI

217

un successo in tal modo conseguito, senza cioè un vero riconoscimento delle armi e del valore dei soldati, che comun-

que lo meritavano. Perciò Antioco volle che sul trofeo eretto venisse scolpita (« dipinta» in Alciato) la statua di un elefante. Il Nostro fa sue queste riflessioni, coniando un epigramma su coloro che lodano le cose che non meritano di essere magnificate, quindi una esplicita accusa alla superficialità della critica che non si sofferma sui valori fondamentali di un’opera ma su quelli contingenti, sull’occasionale apparenza e non sulla indispensabile sostanza. Non sono chiari né si possono escludere eventuali riferimenti a qualche vicenda che Alciato vuole qui biasimare, come non si può non cogliere, nelle parole e nell’atteggiamento di Antioco, anche un monito a saper valutare i meriti propri e altrui nella

giusta proporzione.

La vignetta, che raffigura il trofeo di Antioco, ricompare dal 1540 come marca tipografica (Fig. 1) del libraio parigino Pierre Regnault.' Una grafica più ricercata si avrà con le edizioni Rouillé/Bonhomme

(Fig. 2).®

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EMBLEMI DEGLI IL LIBRO

218

EMBLEMA XXXVII [1531, cc. B7v-87; 1534, p. 41] Tusta vindicta

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Dum residet Cyclops sinuosi in faucibus antri, Haec secum teneras concinit inter oves,

Pascite vos herbas, socijs ego pascar Achivis,

220

IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

Postremumque Utin viscera nostra ferent.

Audijt haec Ithacus, Cyclopaque lumine cassum?

Reddidit, en poenas ut suus author habet. Giusto castigo

Mentre sta seduto sull’adito del tortuoso antro,

fra le tenere pecorelle, il ciclope tra sé canta così:

« Pascetevi voi delle erbe, io mangerò i compagni Achei, e ultimo le mie viscere ingoieranno Nessuno».

Questo udì l’Itacese, e ricambiò il ciclope accecandolo: ecco come porta la pena chi ne è la causa.

Il famoso episodio omerico® di Ulisse e Polifemo godette di non poco successo grafico e pittorico nel ’500, quando

venne rappresentato in incisioni e affreschi‘ Con Alciato

l’accecamento del ciclope assurge a metafora morale della giustizia che punisce l’arroganza travalicante ogni legge, che castiga con altrettanto male chi ha tramato il male altrui, in una sorta di nemesi proverbiale che rievoca motti tipo «l’inganno ricade sull’ingannatore »° o «rimanere presi

nei lacci che abbiamo teso »® o il popolare «chi è causa del

suo mal pianga se stesso». Alciato nella Oratio in laudem lIuris Civilis’ vede in Ulisse la sapienza che supera ogni mostruosa

avversità e nel ciclope l’«empietà ». Già in Omero® Polifemo non teme né rispetta gli dèi.

Una simile interpretazione del mitologema ha i suoi pre-

cedenti più autorevoli nei commenti trasmessi da Fulgenzio e da Boccaccio. Il primo, nella Expositio virgilianae continentiae,° spiega che il ciclope rappresenta l’insensata arroganza

dell’età infantile, e il solo occhio testimonia la sua incapacità di avere una visione completa e razionale, per cui è inevitabile che il «sapientissimo Ulisse » lo renda cieco, ossia la savia ragione ottenebri la superbia: «il fuoco dell’intelletto »

sentenzia Fulgenzio «acceca la vanagloria» («igne ingenii vana gloria caecatur»). Il secondo, nelle Genealogie,”° offre una lettura politica della vicenda identificando in Polifemo, per la sua imponente mole, la figura del tiranno e nel gregge quella del popolo sottomesso. Boccaccio osserva che si-

EMBLEMA

XXXVII

221

mili despoti non hanno alcuna cura della comunità, ma si

preoccupano solo dei loro patrimoni, non hanno alcun timore di Dio e tormentano e straziano gli uomini innocenti. Si acquietano soltanto con il vino e le blandizie di personaggi astuti, che li accecano, ossia li spogliano del potere, delle sostanze

e del dominio

(«Hi tamen

vino, id est blanditiis

astutorum hominum sopiuntur, et oculo obcecantur, dum nudantur substantiis et dominio»). Le xilografie che illustrano le due edizioni sono assai diverse fra loro. La XXXVIlIa è un’immagine didascalica che

mette in risalto l’aspetto ferino del ciclope!! (anche Cicero-

ne, nelle Tusculanae disputationes,'? lo definisce un essere selvaggio e crudele) e il suo ruolo di pastore, e mostra il palo

conficcato nell’occhio, simbolo della giusta pena inflittagli.

La XXXVIIb si configura come più ricercata: Polifemo è se-

duto dinanzi alla spelonca, ma lo strumento per il suo accecamento non è il canonico palo appuntito per l’occasione,

come vuole Omero, ” ma una freccia scagliata da Ulisse posto su una collina distante. L’iconografia intende così collegare la vicenda del ciclope con quella della strage dei pretendenti di Penelope descritta nei libri XXI e XXII del-

l’Odissea, quando Ulisse riesce nella prova dell’arco, tirando

la freccia nel bersaglio, e poi trafigge Antinoo e i suoi compagni. Per traslato dunque Ulisse colpisce Polifemo così come farà in seguito con i Proci, ergendosi a eroe che giustizia

e punisce l’iniquità e la malvagità propria di quello e di que-

sti. La corona regale sulla testa del ciclope può avere due

letture: da un lato porre in risalto il primato di Polifemo su-

gli altri ciclopi, da un altro contrassegnamrne il ruolo di iniquo sovrano/tiranno di cui parla il citato Boccaccio. Le vignette delle edizioni seguenti (Fig. 1, Fig. 2)!‘ adotteranno invece una iconografia più fedele al racconto omerico. Non escluderei, per quanto riguarda il disegno di XXXVIIa,

specialmente per l’enorme bastone impugnato dal ciclope e

per le sue fattezze brutali di homo silvaticus, che l’incisore sia stato influenzato dalla marca editoriale (Fig. 3) del libraio e stampatore parigino Regnault Chaudière, attivo dal 1509,!5 che comunque dipende dalla diffusa rappresentazione dell’uomo selvaggio medioevale.'®

IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

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EMBLEMA XXXVIII [1531, c. B8r-v; 1534, p. 42] Tandem tandem iustitia' obtinet

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XXXVIIIa

Aeacidae® Hectoreo perfusum sanguine scutum, Quod Graecorum Ithaco® concio iniqua dedit. Tustior ampuit Neptunus in aequora iactum Naufragio, ut dominum posset adire suum. Littoreo Aiacis tumulo namque intulit unda, Quae boat, et tali voce sepulchra ferit. Vicisti Telamoniade, tu dignior armis,

A ffectus fas est cedere iustitiae.

Alla fine prevale la giustizia Lo scudo dell’Eacide, cosparso del sangue di Ettore,

che l’iniqua assemblea dei Greci assegnò all’Itacese,

quando cadde in mare per naufragio venne ripreso dal più giusto Nettuno, affinché potesse raggiungere il suo vero padrone.

Infatti alla tomba d’Aiace lo spinse l’onda

che risuona e con tale voce parlò al sepolcro: « Hai vinto tu, o Telamonide, il più degno delle armi: è fatale che la cupidigia ceda alla giustizia» . In questo Emblema si prosegue e si risolve positivamente

la dolorosa vicenda delle armi di Achille rappresentata in precedenza nell’Emblema IX, dove una fraudolenta assegnazione delle stesse a Ulisse e non ad Aiace aveva indotto

al suicidio quest’ultimo. Ma il giusto destino e la ‘fausta’ sorte ricompongono quella tragica frattura e «alla fine prevale

la giustizia ».

Il titolo riprende un verso di Esiodo,‘ discusso quale pro-

verbio da Erasmo,° mentre i distici sono una rivisitazione del

portentoso trasporto dello scudo di Achille presso il tumulo del Telamonio, tramandato da alcune fonti greche: due anonimi epigrammi della Planudea,° un passo di Filostrato,’ uno di Pausania® e uno di Tolomeo Efestione.’ Si raccontava

che dopo il naufragio di Odisseo" le armi del Pelide fossero

state condotte dalle onde al sepolcro di Aiace sull’isola di Salamina, di fronte a Eleusi: qui vi era anche un tempio del-

l’eroe greco con una sua statua in ebano. Con il tempo -

precisa Pausania — il mare aveva inondato la tomba renden-

do così facile l’accesso al sepolcro e possibile la vista delle sue gigantesche ossa.

Il mito presenta anche una dinamica colpa/redenzione che forse non sfugge ad Alciato, il quale, come si è visto, de-

dica alla vicenda due Emblemi: il drammatico sopruso iniziale, causato dall’audace astuzia di Ulisse, e la legittima riparazione del medesimo dovuta al prodigio marino. Da un lato una vicenda umana,

dall’altro un intervento divino, stretta-

mente interdipendenti affinché la fabula, agli occhi di un erudito rinascimentale, possa considerarsi un efficace ammae-

EMBLEMA

XXXVIII

22'

stramento morale, da leggersi quasi come una allegoria cristiana sul peccato e sulla conseguente redenzione. In Omero,!! Ulisse, incontrando l’anima di Aiace nell’Ade, esclama

che mai avrebbe voluto vincere la gara per le armi d’Achille e chiede perdono all’eroe suicida. In Filostrato, più detta-

gliatamente, si narra che dinanzi al cadavere di Aiace, dopo

l’elogio funebre, si presentò Ulisse, afflitto e piangente per quanto era accaduto, per un suicidio che non avrebbe mai

immaginato, disposto a restituire le armi di Achille affinché fossero poste nella tomba del Telamonio. Ma Teucro, fratello di Aiace, pur ringraziandolo del cordoglio, rifiutò l’offer-

ta dicendo che sarebbe stato un oltraggio seppellire insieme

al morto la causa della sua stessa fine. Ulisse conservò le armi portandosele dietro in tutto il suo peregrinare, finché

con l’ultimo naufragio anch’esse si persero nei flutti. A que-

sto punto il miracolo: il mare che ricongiunge le armi all’arca del loro legittimo erede. Al saggio Ulisse, causa di tanto

danno ma pronto a riparare, il giusto fato consente che sìi

realizzi il desiderio del pentimento e ad Aiace che sia concesso il meritato premio.

Le due incisioni, XXXVIIIa e XXXVIIIb, fra loro assai si-

mili a parte la scritta « AIACIS » sul sepolcro della seconda,

appaiono essenziali e didattiche, ma in seguito diverranno più articolate ed espressive (Fig. 1, Fig. 2)."

228

IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

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‘.' i modelli per le biografie dei grandi uomini non solo del passato, come pure divennero exempla morali delle loro azioni

e condotte,

virtuosamente

lodevoli

o viziosamente

condannabili. Alciato coniuga così l’elogio dell’opera letteraria e dei prodi glorificati inventando una sorta di ‘gero-

glifico’ verbale e iconico della fama che ovunque ne sparge

notizia.$ L’Emblema è di per sé semplice, come si convien©e

EMBLEMA

XLI

239

appunto a un ‘geroglifico’, unendo due imagines agentes, cioè retoricamente e mnemonicamente d’effetto: Tritone che suona la tuba e l’ouroboros che lo circonda. Le vignette

XLIa e XLIb lasciano entrambe a desiderare, in quanto la prima combina graficamente i due soggetti in un confuso

Tritone/ ouroboros, tale da mortificare il pregnante contenuto dell’immagine resa dall’epigramma, mentre la seconda

ignora lo strumento sonoro di Tritone e non scandisce la geometrica circolarità del serpe che si morde la coda, rigorosa forma rotonda propria, come spieghiamo più avanti, della sua identità iconologica. Bisognerà attendere illustrazioni posteriori (Fig. 1, Fig. 2)° per vedere espressa appieno

la potenzialità simbolica dei versi del Nostro. Il gioco deli significati, come accennavo sopra, è sintetico: Tritone personifica la fama, l’ouroboros l’immortalità.

A Tritone, dio biforme,° dal corpo metà umano e metà

mostro marino, si attribuisce l’invenzione della bucina, cor-

no o tromba marina,'° cioè di avere scavato una conchiglia

ritorta a spirali e con essa, soffiandovi, di avere emesso suo-

ni e rimbombi sì terribili da terrorizzare i Giganti che insidiavano

Zeus,!!

ma

usata anche,

su comando

di Nettuno,

per scatenare o sedare per ogni dove la furia delle onde del mare e dei fiumi.'? Un simile dominio sui moti delle acque

attraverso il suo «corno fragoroso» è trattato pure da Boccaccio"$ che menziona Ovidio.!‘ Ma la fonte più sicura di Al-

ciato sono i Saturnalia® di Macrobio, dove si racconta che a

Roma erano state poste delle figure di Tritoni con trombe («cum bucinis») sul frontone del tempio di Saturno, per significare che dai tempi di questo dio a oggi la storia è «chiara e quasi parlante», mentre prima di lui essa era muta, oscura e ignota, come dimostrano le code di pesce, immer-

se e nascoste, degli stessi Tritoni. Il passo viene menzionato

da Valeriano'$ per spiegare il geroglifico della «celebritas», della Fama, effigiata appunto dai Tritoni ‘trombettieri’ che così annunciano e diffondono ovunque rinomanza di imprese e di eventi storici. Un simile ‘geroglifico’, che Pierio Va-

leriano e Alciato scorgono nel brano di Macrobio, appare

indicativo di una scelta precisa che rivela il loro vivo e specifico interesse per i ‘sacri segni’ egizi. Difatti entrambi po-

tevano tenere presenti, per i loro fini simbolici ed emblematici, rappresentazioni della Fama più note e calzanti di

240

IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

quella di Macrobio, meno evidente dal punto di vista iconico. Mi riferisco a personificazioni celebri come, per esempio, quelle descritte da Virgilio'’ o da Petrarca nei Triumphi.'® Circa l’ouroboros o serpente avvolto in cerchio che si mangia la coda, Alciato può tenere conto di Horapollo,' che

spiega come con esso si indichi l’universo: le sue squame alludono agli astri e come ogni anno il serpente cambia pelle e si spoglia della sua vecchiaia così si rinnova il ciclo annuale del cosmo. Il fatto che si cibi del proprio corpo vuol dire che

nell’universo tutte le cose generate dalla divina provvidenza tornano a risolversi in se stesse.” Ma anche su altri autori può

contare il Nostro: specialmente su Macrobio” e Claudiano.®

Questi canta il drago ouroboros dalle scaglie sempre verdeggianti che cinge e custodisce la caverna del Tempo, consumando ogni cosa lentamente, mentre con silente movimento serpentino ripercorre di nuovo il suo cominciamento. Quello ricorda che tale serpe è simbolo del mondo che si alimenta della propria sostanza e ruota su se stesso. In sintesi un simile dragone denota, pur nelle diverse sfu-

mature concettuali, il cosmo e il suo perpetuo rinnovarsi

secondo le leggi del tempo infinito. Da qui la valenza di immortalità che ne definisce il simbolismo,*® la sua funzione

di attributo del dio Tempo*! e la forma rotonda (e non irregolarmente mossa come in XLIb)® che è esatta in sé in quanto riflette il circolare moto perfetto della machina uni-

versale.* La singolare rappresentazione dell’ouroboros di XLIb dipende probabilmente dalla volontà dell’artista di conno-

tare il moto sinuoso del serpente con una immagine naturalistica: sinuosus è comune attributo di anguis e di serpens (cfr. per esempio

Germanico,

Arat., 1, 49, Stazio,

562; Virgilio, Georg., 1, 244; Aen., 11, ‘755).

Theb., 1,

La composizione con l’ouroboros che circonda Tritone non ha precedenti come tale, e pare un’idea di Alciato mo-

dellata sul rilievo di un sarcofago (con iscrizione greca dedicata all’usurpatore Aureolus) da lui descritto e disegnato in gioventù: su una faccia laterale dell’arca è raffigurato un ouroboros che circonda un ippopotamo (Fig. 3).”” Analogo elemento grafico in una xilografia (Fig. 4) nell’ Hyjmerotomachm Poliphili, ® dove il serpe che si mangia la coda circoscrive il Sì mulacro di Serapide tricipite.

NOTA

SULLE E GLI

ANTICHE

GEMME

« EMBLEMATA

INCISE

»

Infine una riflessione iconologica — di carattere più genera-

le — a proposito della specifica tipologia grafica dell’ouroboros

che cinge un dato soggetto, mitologico, magico o emblematico che sia. Vi è infatti una rilevante tradizione figurativa, di antica genesi egizia e greco-egizia,”” che trasmette un tale mo-

dello iconico al mondo rinascimentale. Si tratta delle nume-

rose gemme magiche e gnostiche (Fig. 5, Fig. 6)” dove l’im-

magine è composta da un determinato soggetto centrale (una

scritta magica, charakteres o figure di divinità) con intorno ap-

punto l’ouroboros® delimitante, secondo una caratterizzazione

compositiva del tutto simile a quella del Colonna o di Alciato.

Difficile dire se costoro ne fossero a conoscenza (si veda l’ana-

loga questione posta nella « Nota sulle monete antiche e gli

Emblemata » in fine all’Emblema VI), perché, allo stato dei fat-

ti, non abbiamo riscontri documentali, tanto più che simili gemme incise conobbero le prime catalogazioni attraverso studi e pubblicazioni solo verso la seconda metà del XVI secolo, con i lavori di Pirro Ligorio (1513-1583) e di Jean L’Heureux

(1550 ca-1614), e gli inizi del XVII, soprattutto con la

Dactyliotheca di Abraham Gorlaeus del 1601.% Fatta questa doverosa precisazione critico-cronologica, che escluderebbe la conoscenza di tali reperti archeologici da parte del Colonna e

di Alciato, non possiamo nello stesso tempo dimenticare che il

collezionismo di certe gemme

era diffuso presso eruditi e

principi italiani fin dal XV secolo,* sì da non potere trascura-

re, viceversa, l’ipotesi che personaggi colti e appassionati di

antiquaria quali i Nostri ne avessero avuto puntuale notizia.

Nell’ambito delle medaglie rinascimentali ricordo che l’ouroboros accompagnato dalla scrita «AETERNITAS» appare sul verso di quella del legato pontificio Tommaso Campeggi, datata 1525 e nella quale il serpe è rappresentato come un dragone alato (Fig. 7).* L’autorità di Alciato circa le gemme antiche è sancita da Fortunio Liceti, che nei Hierogljphica sive antiqua schemata gemmarum anularium (Padova, 1653), dotta e

‘importante opera sulle gemme e i loro significati, menziona Più volte (pp. 11, 37, 45, 109, 213, 237, 244, 281, 290, 340, 347) gli epigrammi degli Emblemata (citando dall’edizione di

Thuilius del 1621) a sostegno nel suo commento esplicativo.

Liceti conferisce ad Alciato l’appellativo di eruditissimus.

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IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

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IL LIBRO

DEGLI EMBLEMI

EMBLEMA XLII [1531, c. C2r; 1534, p. 46]

Custodiendas virgines

Vera haec effigies innu ptiae est Palladis, eius Hic draco, qui dominae constitit ante pedes.

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DEGLI

EMBLEMI

Cur divae comes hoc animal? Custodia rerum Huic data, sic lucos sacraque templa colit,* Innuptas opus est cura asservare puellas Pervigili, laqueos undique tendit Amor.®

Bisogna proteggere le vergini Questa è la vera immagine della vergine Pallade, questo è il suo drago, che sta ai piedi della padrona. Perché una simile bestia accompagna la dea? Ad essa è affidata la custodia delle cose, così dimora nei boschi sacri e nei

venerati templi. È necessario proteggere le fanciulle vergini con cura sempre vigile, ché dappertutto Amore tendei suoi lacci. Volutamente duplice il gioco verbale e poetico con cui AH

ciato propone il tema della verginità/ sapienza e della sua sal-

vaguardia e custodia. Doppio è difatti il registro dei significati che emerge dai versi: da un lato si fa esplicito riferimento, nel distico finale, alla concreta questione della verginità delle fanciulle, dall’altro alla metafisica castità della Sofia per eccellenza, ossia di Pallade Atena. L’importanza sociale ed etica di quella non esclude l’egemonia di questa, anzi, la prima

viene ulteriormente nobilitata dall’accostamento alla secon-

da. In effetti Alciato desidera sottolineare quanto sia importante proteggere e vigilare sulla purezza e rettitudine sia fisica che intellettuale, quindi rifuggire la corruzione che può

violare l’una e l’altra. Un elogio alla pudicizia, virtù grande-

mente stimata dai Romani, come documentano i racconti di Valerio Massimo che appunto, nei Facta et dicta memorabilia,

dedica un intero libro, il sesto, alla pudicitia. Condizione Virtuosa che preme ad Alciato, il quale non a caso, nell’ultimo verso, rivolge un esplicito richiamo alle giovinette, affinché temano e si guardmo da quell’Eros «violento e crudele » di cui in più occasioni ha denunciato l’inarrestabile energia:

basti ricordare l’Emblema VII.

L’immagine eloquente che può rappresentare in modo adeguato un simile nodo di concetti è una delle statue più

EMBLEMA

XLII

247

famose dell’antichità, l’Athena Parthénos di Fidia, opera crisoelefantina, la cui descrizione e mirabile bellezza sono sta-

te tramandate da diverse testimonianze.‘ La statua della dea

è eretta, con una tunica che arriva ai piedi, la testa di Medu-

sa sul petto, sostiene con la mano destra il simulacro della Vittoria, con l’altra impugna la lancia. Sulla cresta dell’elmo una Sfinge con ai lati due grifoni, ai suoi piedi un serpentee lo scudo, sulla parte convessa del quale Fidia fece a rilievo la battaglia delle Amazzoni e nella concava una Gigantomachia, mentre nei calzari le lotte dei Lapiti e dei Centauri.

Le vignette XLlIla e XLIIb, che dovrebbero riproporre

graficamente un tale capolavoro, sono fra loro diverse e ben poco rispettano i passi di Plinio, di Pausania o degli altri autori che descrissero il monumento. Se in XLlIIa una maggio-

re adesione al modello originale, da cui rimane pur sempre

ben lontana, è conferita dalla lunga veste e dalla lancia, in XLIIb ci troviamo di fronte a una autonoma e singolare rivisitazione dello stesso: in questa sembrano congiungersì, secondo una nuova iconografia, il tema della verginità e quel-

lo della sapienza. Infatti la canna al posto della lancia, un abbigliamento severo e il capo velato, quasi monacale, non

solo non hanno niente di guerresco, ma anzi mostrano un aspetto di virginale pudicizia, in sintonia con il contenuto

dell’epigramma alciateo, mentre l’inserimento dell’albero

di olivo, pianta sacra ad Atena,° e di un insolito volume o libro moderno” sotto il braccio destro (non menzionati nei

distici) richiamano le valenze sapienziali della personifica-

zione. Entrambe le xilografie pongono però in primo piano il drago, concordanza che in questo caso rispetta il tenore dei versi che in effetti mettono in risalto proprio la funzione

del sacro animale quale custode della verginità/sapienza. A

riguardo Alciato si rifà a Plutarco’ quando a proposito del

drago di Atena spiega che Fidia lo pose ai piedi della dea per notificare che le fanciulle hanno bisogno di sorveglianza. Sotteso a questo compito più terreno è l’altro: la salva-

guardia della purezza ‘intellettuale’ nel senso più alto del

termine. Infatti, Atena, come spiegano Eraclito nelle QuaeStiones Homericae” Comnuto nel Theologiae Graecae Compen-

dium,'° Fulgenzio!" e Marziano Capella (quest’ultimo in maniera memorabile), è vergine perché la Sapienza in quanto tale non è contaminabile né corrompibile, non può

248

IL LIBRO DEGLI EMBLEMI

dunque soggiacere ai limiti della contingenza e dell’impurità, né il vizio della stoltezza può scalfire una simile dea, nata dalla testa di Zeus e simulacro della suprema intelligenza.'s Nel Mythographus Vaticanus Tertius'* sì ricorda che Atena difende con le armi la sua verginità come ogni uomo sapiente, per conservare la purezza dei propri costumi, combatte con le virtà dell’animo contro l’insania. E compito del serpe provvedere alla custodia di tanto bene: il drago è tradizionale simbolo di vigilanza e di annessa custodia per l’acutezza della sua vista,° come tramandano

famosi mitologemi dove è guardiano, nelle sue varie forme più o meno terrifiche, del Vello d’oro nella Colchide, dei

pomi d’oro nel Giardino delle Esperidi o della Fonte Castalia, come pure lo ritroviamo nella favolistica: è sufficiente ricordare Fedro: «nei profondi recessi della spelonca un drago custodiva tesori nascosti ».'° Macrobio" scrive che il serpente assomiglia al Sole dal momento che ha una vista estremamente acuta e vigile come questo astro, e perciò ai serpenti è affidata la custodia degli edifici pubblici, dei santuari, degli oracoli e delle ricchezze. Il dragone cui sì riferisce Alciato, al quale dedica il distico

centrale dell’epigramma, è un’effigie mitica che rappresenta tradizionalmente la veneranda custodia di templi e luci, ov-

vero dei sacri boschi degli antichi,'"' dove arcana è la presen-

za del divino: il rettile che li abita facendone la propria dimora ne è il genius protettore.'’ Tale tutela serpentiforme as-

sume così, nel nuovo contesto emblematico, non soltanto la

funzione simbolica dell’attenzione intelligente, che sorveglia da ogni insulto il corpo e la mente, ma anche quella di preservare da ogni profanazione l’integrità misterica del sacro.

EMBLEMA



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Bina pericla unis effugi sedulus armis, Cum premererque solo, cum premererque salo. Incolumem ex acie clypeus me praestitit, idem Navifragum’ apprensus littora adusque tulit.

L’aiuto che non viene mai meno

Grazie a una sola arma e alla prontezza sono scampato a due pericoli: quando ero incalzato per terra, quando per mare. Dal combattimento mi trasse in salvo lo scudo, lo stesso, aggrappatomi, fino alle spiagge mi portò naufrago. I quattro versi, già pubblicati da Alciato,’ interpretano un epigramma di Leonida,° in cui un certo Mirtilo loda il suo scudo che lo salvò nelle battaglie sia di terra che sul mare. Il Nostro vuole così rilanciare la pregnante valenza simbolica del clipeo, inteso quale provvidenziale e sapiente strumento di salvezza dai pericoli, anche mortali, che attraversano la vi-

ta, la sorte e le vicende di ognuno. Non è un caso che egli in una sua orazione* ricordiì come gli studi di giurisprudenza avessero costituito il suo metaforico scudo e «auxilium». A ispirare l’Emblema, oltre al succitato epigramma greco,

potevano concorrere non pochi esempi che nel passato ave-

vano utilizzato l’immagine dello scudo quale metonimia morale, religiosa o intellettuale.° Mi limito a ricordare che

nei Proverbi‘ Dio è scudo per chi ricorre a Lui, e che Cicero-

ne’ esorta a rimanere saldi e dominare se stessi dinanzi al dolore e mai gettare lo scudo, come può accadere ai soldati in battaglia, se si vuole rimanere fisicamente e moralmente illesi e risultare infine vincitori. Boezio' ammonisce chi è sa-

vio e sereno, eppure schiacciato dalle avversità del destino, a

non privarsi mai dello scudo della propria sicurezza e della padronanza di sé, per non cadere «aggiogato in catene». Rilevante è quanto dicono Marziano Capella e i suoi commentatori’ intorno allo scudo di Atena.!" E attributo di Pallade poiché questa, la Sapienza, governa il mondo e perché le battaglie della sua intelligenza contro la volgarità dei vizi e dell’imbecillità devono seguire le strategie della ragione. La forma del clipeo è circolare in quanto tale rotondità allude all’orbe cosmico retto appunto dalla Sapienza: sferica perfezione che riflette quella della stessa dea, « culmine della ragione e sacra mente degli dèi e degli uomini » .'' Mirabile uso di questi significati dello scudo di Pallade compare nel Trionfo della virtù (1500/1502) di Andrea Mantegna, rea-

EMBLEMA

XLIII

253

lizzato per lo Studiolo di Isabella d’Este e oggi al Musée du Louvre.'° Nel dipinto è con il clipeo al braccio sinistro proteso che la dea incede a cacciare i vizi dal giardino della Virtù. Le vignette manifestano due diverse concezioni iconografiche: in XLIIlIa il guerriero con lo scudo traduce visivamente il soggetto narrante dell’epigramma, in piedi con le sue armi a rammentare le fortunate gesta, in XLIIIb invece

l’illustratore ha voluto porre in evidenza l’avventura marina

del naufrago portato in salvo, motivo che tornerà anche in

seguito (Fig. 1, Fig. 2).'®

254

IL LIBRO

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DEGLI

EMBLEMI

EMBLEMA XLIV [1531, c. C3r, 1534, p. 48]

Amor filiorum

XLIVa

XLIVb Ante diem vernam boreali cana palumbes Frigore nidificat, praecoqua et ova fovet.

256

IL LIBRO DEGLI EMBLEMI Mollius et pulli ut iaceant sibi vellicat alas, Queis nuda hyberno deficit ipsa gelu.

Ecquid Colchi' pudet, vel te Procne improba, mortem?

Cum volucnis propriae prolis amore subit?

Amore per i figli Prima della stagione primaverile, nel gelo boreale,

la bianca colomba nidifica e cova le uova precoci.

E affinché i1 piccoli giacciano più sofficemente si spenna

le ali,

e nuda di queste soccombe al gelo invernale. Che forse non ti vergogni o Colchide, o tu Procne scellerata,

quando un uccello va incontro alla morte per amore

della propria prole?

Il rapporto genitori/figli quale luogo esistenziale e di virtù

etiche in cui si esercita la pietà filiale o l’oblativo amore del

padre e della madre per la prole, se necessario fino all’estre-

mo dono di sé, è un motivo prescelto da Alciato, che attra-

verso alcune varianti lo ripropone negli Emblemi V e LXIX.

Qui si fornisce una versione,’ non troppo letterale, di un eptigramma di Alfeo di Mitilene,‘ dove il sacrificio è di una gallina domestica (t16ac) o chioccia e non della bianca colomba («palumbes» ) della traduzione alciatea. L’enfasi del distico finale è studiata per esaltare l’amor filiorum dell’Emblema, grazie alla retorica domanda

per antitesi a Medea

(Colchis),

che sgozzò i propri figli,5 e a Progne® che uccise il figlio Iti, ne bollì il corpo e lo dette in pasto al padre Tereo: due delle più efferate tragedie tramandate dalle fabulae antiche.

La tipologia grafica delle vignette XLIVa e XLIVb, con la

colomba

che

cova nel nido

sull’albero,

anche nelle altre stampe (Fig. 1, Fig. 2).’

rimarrà

inalterata

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EMBLEMA XLV [1531, c. C3v; 1534, p. 49]

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Praeconem lituo' perflantem classica victrix Captivum in tetro carcere turma tenet.

Queis ille excusat, quod nec sit strenuus armis,

Ullius aut saevo laesent ense latus. Huic? illi, quin ipse magis timidissime peccas, Qui clangore® alios aeris in arma cies.

LVb

Il delinquente e l’istigatore sono ugualmente colpevoli La schiera vittoriosa tiene prigioniero nel tetro carcere

l’araldo che col lituo fa risuonare lontano il segnale

di guerra.

Sì discolpa con loro dicendo che non è valoroso con le armi e che non ha ferito il fianco di alcuno con la spada

funesta.

A ciò, quelli: « Tu piuttosto, codardo, sei maggiormente

colpevole,

che chiami alle armi gli altri con il suono del bronzo».

L’epigramma prende le mosse da una favola di Esopo‘* dove

la figura del trombettiere che incita gli altri alla battaglia divie-

ne metafora del perverso rapporto fra esecutore e mandante, in cui è quest'ultimo il maggiore responsabile.’ Esopo rivolge la morale contro quei consiglieri dei principi che ne istigano e indirizzano la condotta verso azioni inique e riprovevoli. Le vignette illustrano sinteticamente il trombettiere men-

tre viene portato al carcere. In stampe ulteriori l’araldo porta l’insegna imperiale (Fig. 1, Fig. 2).$

307 LV EMBLEMA

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EMBLEMA LVI [1531, c. C8r-v; 1534, p. 60]

Firmissima convelli non posse

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LVIb Oceanus quamvis fluctus pater' excitet omnes, Danubiumque omnem barbare Turca bibas:

310

IL LIBRO DEGLI EMBLEMI

Non tamen® irrumpes perfracto limite, Caesar Dum Charolus populis bellica signa dabit. Sic sacrae quercus firmis radicibus adstant, Sicca licet® venti concutiant folia.

Le cose più salde non si possono sradicare Per quanto il padre Oceano ecciti tutti i flutti,

e tu, barbaro Turco, beva l’intero Danubio, tuttavia, sfondato il confine, non irromperai finché

il Cesare Carlo darà ai popoli gli ordini di guerra. Così le sacre querce stanno salde su vigorose radici, sia pure che i venti scuotano le foglie secche.

In un breve epigramma greco di Crinagora di Mitilene,'‘ vissuto a Roma al tempo di Augusto e cantore di personaggi

in vista dell’epoca, si omaggia l’imperatore. Ora Alciato,

nella sua versione latina, al terzo e quarto rigo, lo aggiorna cronologicamente aggiungendo al termine «Cesare» del-

l’originale il nome Charolus, ossia dell’imperatore Carlo V.

Allo stesso modo sostituisce «la Germania e il Reno» (dunque i confini europei più perigliosi per l’Impero Romano) del secondo verso di Crinagora con «i Turchi e il Danu-

bio». Il tema diviene così quello della conquista dei Balcani

e progressiva avanzata verso l’Europa occidentale da parte degli eserciti turchi guidati da Solimano il Magnifico,° che nel 1521 sottomettono Belgrado con la Serbia e nel 1526, dopo la battaglia di Mohacs, la maggior parte dell’Ungheria: città e regioni attraversate dal Danubio, da cui il verso «Danubiumque omnem barbare Turca bibas» . L’assedio di Vienna del

1529,

dove

verranno

respinti,

segnerà

il punto

di

massima espansione degli Ottomani: a questo successo e al suo Cesare si rivolge Alciato con l’encomiastico Emblema.

La sacralità e la solida fermezza della quercia, qui metafore

delle corrispettive virtù proprie dell’imperatore, trovarono nelle pagine di Valeriano‘ ampio e documentato catalogo

simbolico, dove spiccano i significati ‘geroglifici’ di «virtus»,

di «fortitudo» e di «imperium firmum », del tutto consoni al-

EMBLEMA le valenze

dell’epigramma

LVI

alciateo,

311 dove

tanta, autorevole

stabilità viene ancor più sottolineata dalla contrapposizione, di fronte alla violenza del vento, tra le fragili foglie sbattute e la resistenza del fusto e delle radici. Anche Erasmo” ricorda la particolare ‘saldezza’ della quercia che, grazie alle sue pro-

fonde e forti radici, non è trapiantabile altrove. Albero sacro

a Zeus per eccellenza secondo una cospicua tradizione letteraria,° dovuta soprattutto alla fortuna della poesia di Ovidio? e di Virgilio.! In Callimaco!' un paesaggio di querce cave e vetuste accoglie la nascita di Zeus partorito da Rea sui monti boscosi della Parrasia. Presso il sacro bosco di querce al santua-

rio di Zeus a Dodona si praticava l’incubazione:!’ tecnica oracolare e rituale che consisteva nell’addormentarsi purificati

in un determinato spazio e in sogno ricevere la teofania del nume che dava responsi ai consigli e agli aiuti richiesti. La

stretta correlazione quercia/ Zeus è esplicita nel penultimo

verso di Crinagora, dove è detto che «anche le querce di Zeus si innalzano su salde radici». La connessione è invece espun-

ta e resa implicita nella versione di Alciato, probabilmente per privare il tono del nuovo epigramma di quell’aura di an-

tichità che contraddistingue l’originale, e dunque, come di-

cevamo sopra, per renderlo più aderente alle modemne e tra-

vagliate vicende europee della prima metà del XVI secolo. L’essenziale grafica delle vignette, con i venti disposti ai

lati e con la quercia al centro, non subirà alterazioni (Fig. 1,

Fig. 2)."

312

IL LIBRO DEGLI EMBLEMI

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EMBLEMA LVII [1531, c. C8v; 1534, p. 61] Cum larvis non luctandum!

Aeacidae moriens percussu cus:bidis Hector, Qui toties hosteis vicerat? ante suos, Comprimere haud potuit vocem insultantibus illis, Dum curru et pedibus nectere vincla parant.

Distrahite ut libitum est, sic cassi luce® leonis

Convellunt barbam vel timidi lepores.

Non

si deve lottare con i fantasmi*

Morente per il colpo di lancia dell’Eacide, Ettore che prima tante volte aveva vinto i suoi nemici, non poté tacere ai loro insulti mentre

si preparavano a legare i lacci al carro e ai suoi piedi: «Straziatemi quanto vi piace, così anche le pavide lepri possono strappare la criniera al leone morto».

La vigliaccheria di chi infierisce su chi non può più reagi-

re né difendersi viene stigmatizzata da Alciato in un eptigramma che trae spunto da un distico anonimo della Planu-

dea dove l’autore invita a gettare via il suo cadavere perché «persino le lepri si accaniscono sulle spoglie del leone morto». Il Nostro nobilita e trasferisce l’incisivo apologo sul pia-

no mito-eroico aggiungendo nei suoi versi, rispetto al distico greco, la vicenda omerica® della morte di Ettore e lo stra-

zio del suo corpo: legato da Achille al cocchio per i piedi e trascinato nella polvere intorno alle mura di Troia. La doppia analogia leone/ Ettore e lepri/Achei, concepita da Alcia-

to, dispiega con forza e con grave biasimo il delitto di codardia e il vile sopruso. La contrapposizione fra l’aristocratica dignità di Ettore e la vigliaccheria dei Greci deriva dalla rilettura medioevale, di notevole fortuna europea letteraria e iconografica, che esaltava le imprese e le virtù dei Troiani a discapito delle gesta degli Achei (per esempio Ettore veniva

ucciso da Achille mentre l’eroe troiano si trovava indifeso con lo scudo dietro le spalle), rivisitazione dovuta soprattut-

to a Benoît de Sainte-Maure e a Guido delle Colonne, che ri-

presero nei loro poemi il De excidio Troiae di Darete Frigio e la Ephemeris belli troiani di Ditti Cretese, opere latine risalenti al IV/V secolo d.C.-’

Il titolo « Cum larvis non luctandum » rinnova per l’occasione una battuta spiritosa di Planco, rinomato retore dell’età

di Augusto, riportata da Plinio.° L’episodio è il seguente: si diceva che Asinio Pollione avesse preparato dei discorsi da

pubblicare dopo la morte di Planco affinché questi non po-

tesse rispondere; venutone a conoscenza, Planco sentenziò: « Solo i fantasmi (larvae) lottano con i morti».

La tematica, moralmente censurabile, trova spazio in Era-

EMBLEMA

LVII

315

smo” che ne dibatte a proposito dei proverbi «Cum larvis luctari» (tratto dal menzionato Plinio) e «iugulare mortuos».

L’iconografia delle vignette, abbastanza elementare in LVIIa e LVIIb, troverà una espressività più naturalistica e drammatica nelle edizioni successive (Fig. 1, Fig. 2).'

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EMBLEMA LVIII [1531, c. D1r; 1534, p. 62]

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Aliquid mali propter vicinum malum

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Raptabat torrens ollas, quarum una metallo, Altera erat figuli terrea facta manu. Hanc igitur rogat illa velit sibi proxima ferri, TIuncta ut praecipites utraque sistat aquas.

Cui lutea, haud nobis tua sunt commercia'! curae,

Ne mihi proximitas haec mala multa ferat.

Nam seu te nobis, seu nos tibi conferat unda,

Ipsa ego te fragilis sospite sola terar.

Un cattivo vicino può causare del danno Un torrente trascinava delle olle: una era di metallo

e l’altra di terracotta, foggiata dalla mano del vasaio.

Ebbene, quella chiede a questa se vuole avvicinarsi per contrastare insieme l’impeto delle acque. E questa di coccio a quella: « Le tue faccende non mi preoccupano, a condizione che questa vicinanza non mi procuri danni irreparabili.

Se infatti la corrente accosta te ame o me a

te,

io sola, fragile, verrò infranta mentre tu rimarrai intatta». L’esempio della pignatta di terracotta che, nel pericolo

dei flutti, teme di urtarne un’altra di metallo a lei prossima, con inevitabili, disastrose conseguenze, è vicenda proverbia-

le’ per sottolineare l’accortezza di stare alla larga da vicini più forti e pericolosi. Un energico quanto semplice invito alla prudenza da seguire nei casi della vita più turbinosi e confusi (il torrente impetuoso) ,° dove è facile che il piccolo e debole (il vaso di coccio) venga annichilito dal grande e pos-

sente vicino (il vaso di metallo). Una riflessione sulla previdenza che rende capaci di tenere a distanza l’imminente pericolo. Considerando i diversi Emblemi che Alciato dedica alla sua città e alle tormentate vicende politico-militari dell’epoca, non si può escludere che si voglia qui alludere in particolare a quelle che coinvolsero per lunghi anni il ducato di Milano, certo in questo caso un

‘vaso di coccio’, vittima delle

mire e prepotenze dei potenti vicini francesi e imperiali, ov-

vero di veri e propri ‘vasi di ferro’. La metafora delle due olle o pentole diviene didatticamente istruttiva grazie alla forza dell’ossimoro che la caratterizza: da un lato la diversità, anzi l’antitesi, fra il ‘coccio’ e il ‘metallo’, dall’altro l’identità di

‘cose’ uguali o simili, cioè le due pignatte. Una sorta di di-

scordia concors‘ emblematica, in cui proprio il concorso di elementi contrapposti ma speculari conferisce singolare armonia espressiva e concettuale all’immagine e ai versi alciatei. La fonte letteraria dell’epigramma è la favola sui due orci

EMBLEMA

LVIII

319

di Esopo” che troviamo anche nelle Fabulae di Aviano,‘ mentre il titolo riprende una battuta proverbiale’ di Lisistrato nel Mercator® di Plauto: Nunc ego verum illud verbum esse experior vetus: aliquid mali esse propter vicinum malum. (« Ora so per esperienza quanto sia vero quell’antico pro-

verbio: / un cattivo vicino può causare del danno»).

Il tenore delle scenette di LVIIla e LVIIIb non subirà

modifiche di rilievo (Fig. 1, Fig. 2).°

320

IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

EMBLEMA LIX [1531, c. D1r-v; 1534, p. 63]

In senatum boni principis

Effigies manibus truncae ante altaria divum Hic resident, quarum lumine capta prior. Signa potestatis summae sanctique senatus Thebanis fuerant ista reperta viris. Cur resident? Quia mente graves decet esse quieta' Turidicos, animo nec variare levi.

Cur sine sunt manibus? Capiant ne xenia, nec se Pollicitis flecti muneribusve sinant. Caecus at est princeps, quod solis auribus absque Affectu, constans iussa senatus agit.

Sul senato del buon principe Qui, dinanzi agli altari degli dèéi, stanno sedute statue

prive di mani, la principale delle quali è priva di occhi.

Queste figurazioni della somma autorità e del venerabile

erano state inventate dai cittadini tebani.

senato

Perché seduti? Perché conviene che i giudici autorevoli siano

d’indole salda e non volubili per leggerezza d’animo. Perché senza mani? Per non prendere regali e non permettere di esser influenzati dalla promessa di doni.

Il principe invece è cieco perché con il solo udito e senza passioni, saldo nel carattere, adempie le leggi del senato.

Un ammonimento e un invito a principi, giudici o sena-

tori che siano, affinché la loro cura precipua sia il buon go-

verno: esemplarmente onesto e giusto. Il messaggio etico e

politico dell’Emblema trae spunto dal De Iside et Osiride® di Plutarco, laddove il filosofo di Cheronea ricorda che in Te-

be erano innalzate statue di giudici senza mani, e quella del

supremo magistrato aveva gli occhi chiusi, a dimostrare che la giustizia deve essere incorruttibile, immune dunque da doni e da intercessioni. Niente vieta di credere che Alciato

abbia considerato anche un analogo passo su tali statue tebane di Diodoro

Siculo,! autore a lui noto‘ come

lo stesso

Plutarco.î Questo esempio di severa e incorrotta giustizia era stato ricordato dal Nostro nella sua Oratio in laudem Iuris CivilisS a riprova di antica e stimata pratica di certi fondamentali principi. La struttura djalogica dell’epigramma distribuisce in maniera didattica il significato dei simboli, i quali sono di ele-

mentare presa: le mani non ci sono perché niente devono

ricevere; gli occhi sono chiusi o bendati (Fig. 1, Fig. 2)’ perché l’animo del giudice non deve, per alcun motivo, rimanere turbato alla vista di coloro che devono essere giudicati.

Cecità metaforica di una forte saldezza interiore, qualità sot-

tolineata dalla fermezza della sua postura: lo ‘stare seduto’,

EMBLEMA

LIX

323

condizione in cui il soggetto dimostra la sua sapienza,? il sovrano distacco dal contingente moto delle cose, qui da quello dei sentimenti o delle passioni che non devono turbare il giudice. A proposito, Alciato può avere tenuto conto di alcuni considerevoli

modelli

della letteratura

latina, in

particolare del giudice infero Minosse che, come canta Properzio,° « giustamente siede », oppure del console romano, quando seduto, imperturbabile e sereno, pronuncia la sacra formula del giuramento al principe che, in piedi, gli sta di fronte, come si legge nel Panegyricus Traiano" di Plinio il Giovane. Il trono, il seggio o la cattedra quali architetture simboli-

che del potere che giudica sono fin dall’antichità il riflesso del soglio cosmologico divino.!

EMBLEMI DEGLI IL LIBRO

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EMBLEMA LX [1531, cc. D1 v-D27; 1534, p. 64]

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LXb Tam dudum quacunque fugis te persequor, at nunc Cassibus in nostris denique captus® ades. Amplius haud poteris vires eludere nostras, Ficulno anguillam strinximus in foltio.

Su chi è preso Già da un pezzo ti inseguo ovunque tu fugga, ma ora

cadi infine preso nelle mie reti.

Non potrai certo più a lungo sottrarti ai nostri sforzi:

con una foglia di fico abbiamo preso un’anguilla.

Se risaputa è la scivolosità dell’anguilla che la rende inafferrabile,° non meno lo è il proverbio «folio ficulno anguillam», commentato da Erasmo nei suoi Adagia* e con cuìi si

conclude l’epigramma. Il senso dell’Emblema, seguendo Valeriano,°® è quello di mostrare la speranza di conseguire, di ‘afferrare’ qualcosa

che invece sfugge per la sua stessa, ambigua natura. Quest’ultima è simboleggiata dalla scivolosità dell’anguilla, mentre la

riuscita dell’impresa, quell’acciuffiare la cosa desiderata, dal-

la ruvida foglia di fico che mantiene stretta la presa. Un significato che può avere sfumature più ampie, se inteso come la lotta per il raggiungimento di una meta che sembra inarrivabile. Tutto sommato un Emblema che incoraggia la volontà e l’ingegno di chi, posto in condizioni simili al pescatore di anguille, sa trovare comunque la strada per ottenere ciò che credeva impossibile realizzare. Un’assonanza meramente grafica si trova tra la tipologia delle vignette LXa e LXb$ e un geroglifico (Fig. 3) del Co-

lonna,’ dove un soldato tiene in mano un serpe per esprimere la prudenza militare: significati diversi per un’iconografia simile.

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EMBLEMA LXXXIII [1531, c. E2v; 1534, p. 88)

Qui alta contemplantur cadere

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LXXXIIIb

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IL LIBRO DEGLI EMBLEMI Dum turdos visco, pedica dum fallit alaudas, Et iacta altivolam fi git harundo gruem, Dipsada! non prudens auceps pede perculit, ultrix Illa mali, emissum virus ab ore iacit.

Sic obit extento qui sidera respicit arcu, Securus fati quod iacet® ante pedes.

Quelli che contemplano le cose alte cadono Mentre inganna i tordi con il vischio e le allodole con la trappola, e scoccata la freccia trafigge la gru che vola alto, l’uccellatore imprudente urta con il piede una dipsade: quella, per vendicarsi dell’offesa, spruzza veleno dalla bocca. Muore così chi con l’arco teso si volge a guardare le stelle, incurante del destino che gli sta davanti ai piedi. Metafora dell’imprudenza e della distrazione fatale, monito caustico e crudele a coloro che presuntuosi e pronti a far danno altrui, presi come sono dal proprio egoistico interesse, non si avvedono del vicino pericolo e ne divengono vittime. Beffardo gioco delle parti, evidenziato dall’‘alta’ impresa dell’uccellatore e la ‘bassa’ vendetta della terrigna serpe. Dicotomia in cui il cacciatore diviene a sua volta preda, secondo un cliché morale che, pur in altre ottiche favolistiche, abbiamo visto negli Emblemi

XX, LIV e LXXIV. Thui-

lius® scorge nell’Emblema una allusione agli astrologi, capaci di leggere le stelle ma di ignorare quanto accade nelle

umane

vicende.

Il modello, ora voltato in latino, è un epti-

gramma di Antipatro Sidonio.‘ L’iconografia delle illustrazioni replica semplicemente il testo.®

437 LXXXIII EMBLEMA

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EMBLEMA LXXXIV [1531, c. E8r; 1534, p. 89] Impossibile

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Abluis Aethiopem quid frustra? Ah desine, noctis Illustrare nigrae nemo potest tenebras.

Impossibile Ché lavi invano un Etiope? Smetti: nessuno può schiarire le tenebre della nera notte.

Fortunatissimo paradosso che attraversa la tradizione proverbiale occidentale, dai paremiografi greci' ai tempi più recenti, perfino nelle illustrazioni pubblicitarie.’ Le fonti sono molteplici e l’assurdità dell’operazione di lavare un negro perché divenga bianco si presta a diverse interpretazioni e ammaestramenti morali. In Esopo® un tale compra uno schiavo etiope dalla scura pelle e, convinto che tale colore sia dovuto alla sporcizia, lo lava fino a farlo ammalare: si in-

segna così che le «condizioni naturali si conservano sempre

quali erano originariamente». In Luciano di Samosata‘ «la-

vare il nero di un Etiope» esemplifica quanto sia inutile

consigliare le buone letture a un ignorante. Nel Libro di Geremia” della Vulgata tale nonsenso diviene iperbole e con-

danna degli iniqui incapaci di migliorare se stessi: che forse — si chiede il profeta — cambia un Etiope la sua pelle o il leo-

pardo il suo manto screziato? Che forse voi, abituati a fare il

male, potreste mai far del bene?

Un distico attribuito allo stesso Luciano,® e che costituisce 1l testo di riferimento dell’Emblema, dichiara che è inutile

tentare di schiarire il corpo di un Indiano:’ è come cercare di far splendere il sole di notte. Erasmo’ menziona e commenta brevemente gli adagi «Aethiopem

lavas», «aethio-

pem dealbas» e «Aethiops non albescit», inserendoli fra

quelli come «scrivere sull’acqua» o «seminare sulle pietre», Oovvero tra massime che sanciscono per antinomia la vanità

dell’impossibile.

La grafica delle xilografie LXXXIVa e LXXXIVb è legger-

mente diversa, con il moro sdraiato in una e seduto nell’al-

tra: sarà quest’ultima a diventare usuale (Fig. 1, Fig. 2).° In

LXXXIVa la carnagione dell’Etiope è chiara, probabilmente per i limiti grafici dell’incisore incapace di eseguire un

fitto tratteggio (come in LXXXIVb), tale da scurire il corpo

senza perdemne la fisionomia.

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EMBLEMA LXXXV [1531, c. E3r-v; 1534, p. 90]

Aere quandoque salutem redimendam

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Et pedibus segnis, tumida et propendulus alvo Hac tamen insidias effugit arte fiber.' Mordicus ipse sibi medicata virilia vellit Atque abijcit sese gnarus ob illa peti, Huius ab exemplo disces non parcere rebus, Et vitam ut redimas, hostibus aera dare.

Talvolta col denaro sìi deve riscattare la salvezza

Lento nel passo, col ventre grosso e sporgente, il castoro sfugge tuttavia le insidie con questo sistema: a morsi si strappa i genitali medicamentosi, e li getta lontano da sé, sapendo che lo cercano causa loro. Dal suo esempio impara a non risparmiare i beni, e, per riscattarti la vita, a offrire denaro ai nemici.

Si legge nel volgarizzamento del De materia medica di Dio-

scoride* di Pietro Andrea Mattioli, edito nel 1568, a proposi-

to del castoro e delle sue proprietà curative: «Hanno i suoi testicoli virtù contra i veleni dei serpenti: fanno starnutare et usansi in diverse cose universalmente. Bevuti con pulegio al peso di due dramme, provocano i mestrui, et cacciano le secondine, et le creature dal corpo. Beonsi con aceto alle ventosità, a dolori di corpo, al singhiozzo, a mortiferi veleni, et

all’ixia. Svegliano messi nei cristeri lethargici gli addormentati, et gli sopiti per qual si voglia causa. Dissoluti con aceto

et olio rosato, et odorati, ovvero fattone fumento

fanno

il

medesimo. Bevuti et applicati in forma di linimento giovano a gli spasimati, et a i tremori delle membra, et a tutti i difetti de nervi. Hanno universalmente virtù di scaldare ... È vera-

mente falso quello, che si dice, che seguitato questo animale da i cacciatori, si stacchi i testicoli nel fuggire con i denti, im-

perocché non se li può pigliare per esser ritratti, come sono

quelli del porco. E necessario nel torli fuora dividendo la

pelle, conservare quel liquore simile al mele con la vescica,

dove sta dentro, et poi quando è secco, riporlo » .? Tante capacità medicinali dei testicoli del castoro, secon-

do una credenza che durerà dall’antichità fino al XIX secolo, quando si riteneva che curassero l’isteria e l’ipocondria,' non devono avere lasciato molto scampo all’animale nel corso dei secoli, per cui la leggenda del suo sacrificio per salvare la pelle appare più che giustificata. Favola smentita

da Dioscoride, ma di vulgatissima tradizione,° fa la sua appa-

rizione nel tardo Ellenismo. La moralizzazione della vicen-

da viene offerta da Esopo,° che spiega come similmente ac-

cada fra gli uomini: sono saggi quelli che, sentendosi m!-

nacciati per le loro ricchezze, le trascurano per non rischia-

EMBLEMA

LXXXV

445

re la vita. Alciato, per il suo Emblema, si conforma al testo e alla morale esopica. Le vignette LXXXVa e LXXXVb mostrano la bestiola in fuga dalla muta dei cani mentre compie la sua salvifica mutilazione, in altre compaiono anche i cac-

ciatori (Fig. 1, Fig. 2).’

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EMBLEMA LXXXVI [1531, c. E3v; 1534, p. 91]

Captivus ob gulam

LXXXVIa

Regnator penus, et mensae corrosor herilis' Ostrea mus summis vidit hiulca labris.

Queis® teneram apponens barbam, falsa ossa momordit,

Illa recluserunt tacta repente domum.

Depraensum et tetro tenuerunt carcere furem,

Semet in obscurum qui dederat tumulum.

Preso per la gola Sovrano delle cibarie e roditore della mensa del padrone, un sorcio vide le ostriche aperte con le grandi valve.

Accostandovi i teneri baffi morse le false ossa, e quelle, toccate, richiusero d’un tratto il guscio. Presolo, trattennero nel tetro carcere il ladro,

che da sé si era consegnato nell’oscura tomba.

Ancora una versione latina di un epigramma della Planu-

dea.? Sì tratta di un componimento di Antifilo di Bisanzio dove il ghiottone che non sa frenarsi diviene vittima della

propria ingordigia. Canzonatoria metafora della bramosia che acceca la ragione, dimostrata con esemplare efficacia dal topo che finisce nelle valve dell’ostrica.' Ma un’altra lettura, meno faceta, si potrebbe adombrare dietro questi ver-

si, se consideriamo un noto passo del Fedro” platonico, in cui

si parla del corpo sepolcro dell’anima, nel quale si è imprigionati «come dentro un’ostrica». Il mollusco bivalve divie-

ne così simbolo del carcere corporeo in cui vive la psiche,

secondo una cospicua tradizione filosofica tramandata da

neoplatonici e Padri della Chiesa.° Una simile esegesi è av-

valorata sia dal fatto che nell’ultimo distico alciateo si rimarca, più che nell’originale di Antifilo, la nozione di «tetro carcere»

e «oscura

tomba»

con

riferimento

all’ostrica, sia

da un passo di Valeriano’ che, citando Platone, coglie nel

mollusco il geroglifico dell’‘’oscura’ e ‘tenebrosa’ prigione

del corpo. Tuttavia un aspetto di questa interpretazione del

binomio ostrica/topo e della sua dinamica simbolica lascia

perplessi, ossia che in tal caso il topolino dovrebbe essere una imago animae: corrispondenza che, a quanto mi risulta,

non trova alcun riscontro. Ben altri significati, infatti, si rile-

vano nei testi più noti e autorevoli del Rinascimento che parlano del roditore e delle sue valenze allegoriche: da Ho-

rapollo? al Ricciardi,° dal Colonna'° a Valeriano," agli Adagia

di Erasmo.'? Nonostante questa obiezione, la lettura proposta può apparire comunque valida se consideriamo che il to-

polino non svolga le veci dell’anima in quanto tale, bensì ne

raffiguri soltanto la brama viziosa e concupiscente che talvolta la induce in mortali errori. Palese la differenza fra le due vignette: la LXXXVIa mostra

EMBLEMA

LXXXVI

449

una comune trappola per topi fraintendendo il testo, mentre la LXXXVIb menda la svista e lo illustra correttamente come del resto avverrà anche in seguito (Fig. 1, Fig. 2)."

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EMBLEMA LXXXVII [1531, c. E47; 1534, p. 92] Dives indoctus

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Tranat aquas' residens precioso in vellere Phrixus, Et flavam impavidus per mare scandit ovem. Ecquid id est? Vir sensu hebeti, sed divite gaza, Coniugis aut servi quem regit arbitrium.

Ricco ignorante Solca le acque Frisso stando sul vello prezioso, e impavido attraversa il mare cavalcando l’aureo montone. Che vuol dire? Un uomo ottuso, ma con un ricco tesoro,

manipolato dall’arbitrio della moglie o del servo.

Alciato intreccia qui il mito di Frisso e del Vello d’oro? con una sferzante critica al ricco, stupido e ignorante, che non si rende conto delle proprie dovizie e cade preda dei

maneggi altrui. Il ricorso all’avventura di Frisso sull’ariete

aureo quale exemplum di simile stoltezza può apparire assai singolare, dal momento che il mitologema e il suo protagonista non presentano affatto certe connotazioni moral-

mente riprovevoli evidenziate nell’epigramma. Difatti si tratta di un’iniziativa di Alciato, che sovrappone libera-

mente la leggenda a un famoso apoftegma di Diogene di Sinope riferito nelle Vite dei filosofi* di Diogene Laerzio: «Del ricco ignorante soleva dire che era una pecora dal

vello d’oro». Il motto tagliente, ripreso anche da Erasmo*

negli Adagia e in Valeriano,° grazie alla forza evocatrice del mito con cui viene ora accoppiato, assurge a Emblema ideografico ed etico. Si narrava che Frisso, il quale doveva essere sacrificato a Zeus, per sfuggire a quella morte sicura salî sul dorso di un montone dal vello d’oro che lo condusse felicemente nella

Colchide attraversando il mare; nell’impresa il giovane por-

tò con sé la sorella Elle, che però cadde dalla cavalcatura perdendosi tra i flutti del sottostante mare, che da lei pre-

se il nome di Ellesponto. Chi concepì l’iconografia delle

vignette LXXXVIIa e LXXXVIIb (si vedano anche la Fig. 1

e la Fig. 2)° rispettò fedelmente i versi alciatei, specialmente i primi due, che dipingono con forza («Tranat acquas ...

per mare scandit ovem») montone,

la traversata marina di Frisso Su!

caratterizzando

la scena come se si trattasse di

un celere naviglio che solca le acque. Il Nostro dimostra in tal modo di aderire alla versione della fabula, tramandata al Rinascimento specialmente da Palefato,’ da Apuleio® € da Ovidio,° mentre un’altra tradizione mitografica, riportata soprattutto da Apollodoro e da Filostrato,!° racconta

EMBLEMA

LXXXVII

453

che Frisso sull’aureo montone volò al di sopra della distesa marina e attraverso il cielo raggiunse la Colchide.



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EMBLEMA LXXXVIII [1531, c. E4r- v; 1534, p. 93] In adulatores

Semper hiat,' semper tenuem qua vescitur auram Reciprocat chamaeleon,

Et mutat faciem, varios sumitque colores,?

Praeter rubrum vel candidum. Sic et adulator populani vescitur aura,' Hiansque cuncta devorat, Et solum mores imitatur principis atros, Albi et pudici nescius.

Sugli adulatori Il camaleonte respira sempre a bocca aperta e sempre l’aria leggera, di cui si nutre. E muta aspetto e assume vari colori, tranne il rosso e il bianco. Così anche l’adulatore si nutre del vento popolare, e a bocca spalancata divora tutto.

456

IL LIBRO DEGLI EMBLEMI E del principe imita solo i foschi costumi,

mentre ignora quelli candidi e virtuosi.

Nell’edizione Steyner del 1531 troviamo solo l’epigramma

senza vignetta e, prima dei versi, si legge: «De Chameleonte vide Plin. natur. histor. libro VIII. Cap. XXXIII ». L’annotazione riguarda Plinio’ quando descrive la natura del camaleonte, ma

l’autore a cui dobbiamo ricondurci è Plutarco® che in un passo del Come distinguere l’adulatore dall’amico paragona la metamorfosi cromatica della bestiola all’infida mutevolezza dell’adulatore.’ Alciato riespone il concetto ponendo in risalto il negativo valore etico e politico di un simile atteggiamento,

condannato pure nei Rerum patriae libn III° Anche la credenza che il camaleonte si nutrisse di sola aria° viene utilizzata dal Nostro per meglio visualizzare e dare corpo all’analo-

go atteggiamento del politico lusingatore, del vanesio seduttore di folle, insomma di chi, capace di attrarre con le chiac-

chiere il plauso popolare e di cogliere quel momentaneo

‘vento’ favorevole, si fa innalzare su fasulli e tristi allori. In

quest’ottica la condanna è inappellabile: i discorsi ‘vuoti come l’aria’ riempiono bocche e orecchi, ma conducono alla rovina sia chi li pronuncia sia chi li ascolta.

In LXXXVIIIb l’incisione interpreta sommariamente la descrizione pliniana del camaleonte citata in A. 1531: «grosso come una lucertola, ma con zampe più dritte e alte con

unghie adunche, ha un muso simile a quello del porco e i

fianchi che si uniscono al ventre come nei pesci, la lunga co-

da finisce attorcigliandosi a spirale ». La corporatura del rettile, così rappresentata (altrettanto nelle edizioni di Lione:

Fig. 1),"° verrà modificata nell’edizione di Leida del 1591 (Fig. 2)" e in Thuilius (Fig. 3)'° attraverso una iconografia

meno bizzarra e più zoologicamente consona alla vera fisionomia dell’animale.

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IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

EMBLEMA LXXXIX [1531, cc. E4v- E57; 1534, pp. 94-95]

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Matre procul licta, paulum secesserat infans Lydius, hunc dirae sed rapuistis apes.

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IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

Venerat hic ad vos placidas ratus esse volucres, Cum nec ita immitis vipera saeva foret. Quae datis ah dulci stimulos pro munere mellis: Proh dolor, heu sine te gratia nulla datur.

Le cose dolci talvolta divengono amare Lasciata la madre in disparte, il fanciullo Lidio si era

un po' allontanato, ma voi, o api crudeli, lo uccideste. Vi si era avvicinato credendo che foste innocue,

quando non sarebbe stata così crudele la spietata vipera.

Offrite punture, ahime, in cambio del dono di dolce miele:

ah! dolore, ohimè, senza te non è concessa alcuna grazia.

L’epigramma è il risultato di un rimaneggiamento di due

componimenti della Planudea: ne traduce uno del gramma-

tico Bianore! e al tempo stesso contiene alcuni elementi, as-

senti in Bianore, che trovano invece una certa corrispondenza in un altro epigramma, con lo stesso soggetto, dovuto ad Antipatro di Tessalonica.’ Inoltre, mentre in Bianore e in

Antipatro il fanciullo, la vittima delle api, è un bambino di nome Ermonatte, in Alciato assume le sembianze dell’infans

Lydius® cioè di Amore. Il risultato di tali adattamenti e ri-

scritture poetiche produce un Emblema

singolare, dove

Eros non viene più soltanto punito come accade nel LXXII,

ma addirittura fatto perire per ‘mano’ o ‘pungiglione’ delle

api che producono il dolce miele. La morale è semplice ed enunciata nel titolo: Le cose dolci talvolta divengono amare. Îl senso è generico e pare una massima di carattere universale, anche se la dolente metafora che coinvolge Cupido non

esclude una sottesa evocazione del motivo dell’amore «dolce/amaro »,* considerato nella tragica ambiguità delle gioie

erotiche presto convertite in mortali pene, come vuole il t0

pos letterario dell’aegritudo amoris.5 In tal modo Eros, divinità cosmica che certo non può morire e di cui Alciato ha di-

chiarato altrove® i supremi poteri, viene preso a modello come

iperbole

simbolica di tanta crudele

metamorfosi

de!

‘dolce’ in ‘amaro”, e fatto perire proprio da coloro verso cu!

EMBLEMA

LXXXIX

461

aveva rivolto le sue attenzioni e da cui si aspettava grata ‘dulcedo”’.

Ma esiste anche un’altra ipotesi di lettura, più convincen-

te e che spiegherebbe meglio la sostituzione del fanciullo Ermonatte con la figura di Amore. Difatti lo spietato ‘omici-

dio’ erotico perpetrato dalle api trova ragione nel simboli-

smo di queste ultime, di cui scrive anche Valeriano:’ gli operosi insetti alludono alla castità sia fisica che spirituale e sono avversi alle passioni veneree e agli eccessi erotici. Lo ricorda Plutarco? e soprattutto un noto luogo di Virgilio’ dove si celebra il costume delle api che non indulgono negli accoppiamenti né sfiniscono il corpo impigrendolo nei piaceri di Venere. Credenza con evidenti valenze etiche che deriva dalla diffusa opinione zoologica degli antichi per la quale la riproduzione delle api avviene senza accoppiamento, e la

prole nasce dai fiori. In questa raffigurare la Castità/virtù (api) te l’erotismo vizioso o pandemio pur con altri toni, nell’Emblema

ottica l’Emblema dovrebbe che punisce irreparabilmen(Cupido), tema affrontato, LXXII.

Le incisioni LXXXIXa e LXXXIXb rappresentano Amore che inseguito dalle api fugge dalla madre Venere, riconosci-

bile dall’attributo del pomo d’oro, suo peculiare premio per

il Giudizio di Paride: l’aureo pomo come la mela sono simboli erotici e doni preferiti tra innamorati.!! La dea appare meno identificabile in altre illustrazioni (Fig. 1, Fig. 2)."

DEGLI

EMBLEMI

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IL LIBRO

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EMBLEMA XC [1531, c. E57; 1534, pp. 94-95] Fere simile ex Theocnrito'

Alveolis dum mella legu, percussit Amorem Furacem mala apes, et summis spicula liquit In digitis, tumido gemit at puer anxius® ungue, Et quatit errabundus humum, Venerique dolorem Indicat, et graviter quentur quod apicula parvum Ipsa inferre animal tam noxia vulnera possit. Cui ridens Venus, hanc imitaris tu quoque dixit Nate feram, qui das tot noxia vulnera parvus.

Quasi uguale, da Teocrito Amore, mentre raccoglieva come un ladro il miele dagli alveari,

venne punto da un’ape cattiva, che lasciò il pungiglione in cima al dito. Ebbene, geme il fanciullo in ansia per l’unghia gonfia, € andando qua e là pesta i piedi mostrando il suo dolore

a Venere,

464

IL LIBRO DEGLI EMBLEMI

e si lamenta con forza che una minuscola ape, un’inezia d’animale, possa da sola produrre ferite così dolorose.

E Venere, ridendo, gli disse: «Anche tu la imiti,

figlio mio, che pur piccolo procuri tante dannose ferite ». Variante dell’Emblema precedente, più scherzosa e sen-

za la ferale conclusione di quello. I versi traducono l’idillio XIX di Teocrito. I versi di Alciato sono tutti esametri, pertanto allineati a sinistra come riportiamo e compare nelle

edizioni 1531 e 1534.

EMBLEMA XCI [1531, c. E5v; 1534, p. 96] In eum qui sibi ipsi damnum apparat

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Capra lupum non sponte meo nunc ubere lacto, Quod male pastoris prouida cura' iubet. Creverit ille simul, mea me post ubera pascet, Improbitas nullo flectitur obsequio.

Su chi si danneggia da sé Capra, allatto ora controvoglia un lupo con la mia mammella, come m’impone l’improvvida sollecitudine del pastore.

Appena sarà cresciuto, dopo il mio latte si papperà anche me: la malvagità non è placata da alcuna riconoscenza.

Erasmo? dedica una breve disamina al proverbio «Ale lu-

porum catulos» («Nutri i cuccioli dei lupi»), concludendo

che nessuna fiera è tanto ingrata quanto l’uomo. L’apologo alciateo, che riprende un anonimo epigramma della Planu-

dea,° ribadisce la sconfortante sentenza, unendo la ferina ir-

riconoscenza espressa nei versi a un titolo («In eum qui sib ipsi damnum apparat ») che ammonisce e denuncia l’incapa-

cità da parte della vittima non solo di impedire il funesto esito, ma di esserne anche la sciagurata complice. Come recita il titolo è essa stessa la causa del suo male. Meglio elaborate graficamente, rispetto a XCla e XCIb, successive incisioni (Fig. 1, Fig. 2).

467



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EMBLEMA XCI

EMBLEMA XCII [1531, cc. E5v- E67; 1534, p. 97] Remedia in arduo, mala in prono esse

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XCIIb Aetherijs postquam deiecit sedibus Aten Tuppiter, heu vexat quam mala noxa viros. Evolat haec pedibus celer et pernicibus alis, Intactumque nihil casibus esse sinit. Ergo Litae proles Iovis hanc comitantur euntem, Sarcturae quicquid fecerit illa mali. Sed quia segnipedes strabae lassaeque senecta, Nil? nisi post longo tempore restituunt.

I rimediì sono in salita e i malanni in discesa

Dopo che Giove scacciò Ate dalle sedi celesti, ahime, quanti malvagi danni tormentano gli uomini. Vola costei con piedi rapidi e veloci ali, e negli accidenti? non tollera che qualcosa rimanga incolume. Pertanto le Lite, figlie di Giove, l’accompagnano nel suo

per riparare qualunque male abbia fatto.

percorso,

Ma poiché sono lente nei passi, strabiche e stanche per

la vecchiaia,

non rimediano niente se non dopo molto tempo.

Il componimento risulta un mosaico tramato su alcuni versi dell’ Iliade* omerica, ripensati e riscritti in autonomia. Si narra il mito di Ate, figlia maggiore di Zeus e personificazione della rovina e dell’inganno, della fatale cecità della colpa che induce al peccato di tracotanza, perennemente inseguita dalle Lite o Litai (Avtai), le Preghiere, le Suppli-.

che che a rilento si occupano di rimediare i danni da quella causati e si prendono cura di coloro che l’hanno subita. Se della figura di Ate non è giunta al Rinascimento alcuna

descrizione o raffigurazione, tant’è che nei repertori® più eru-

diti dell’epoca si fa della dea solo fuggevole menzione, citando soprattutto Omero, per le Litai non è così. Di esse ci sono pervenute due spiegazioni ecfrastiche, una nelle Questioni omeniche® di Eraclito e un’altra in Anneo Comnuto.- In entrambi i testi,5 editi nel 1505,° sicommentano i versi omerici sulle

Lite «zoppe, rugose e dallo sguardo losco » .'° Eraclito osserva

che così le ha dipinte Omero perché in esse si ritrae l’atteggiamento e la fisionomia di coloro che supplicano. Infatti, in chi ha commesso una colpa la presa di coscien-

za del peccato è lenta e, per la vergogna, il supplice si avvicina al supphcato con fatica e stento: il suo sguardo non è siìcuro né guarda avanti, ma indietro. Lo stato d’animo— pro-

segue Eraclito — «pallido e triste »!" dei supplicanti si riflette

nei loro volti suscitando pietà. In Cornuto si chiarisce ulteriormente che le Suppliche, figlie di Zeus, sono zoppe per-

ché quanti si inginocchiano cadono, appunto, in ginocchio;

EMBLEMA

XCII

471

grinzose perché sono deboli come i vecchi e, infine, guarda-

no di traverso, in quanto chi « guarda storto » qualcuno, pro-

va poi la necessità di supplicarlo. Il mito narra che Ate, la quale posa i piedi leggeri sulle te-

ste degli inconsapevoli mortali, venne precipitata sulla terra

dalla sede degli dèi perché ingannò il padre: questi, cacciandola, le negò per sempre il soggiorno sull’Olimpo, perciò è infelice e diventò perenne eredità degli umani. Celio

Rodigino"! ne paragona la caduta a quella biblica di Lucife-

ro, e Giraldi"* ci dà le fonti di questa lettura diabolica della figura di Ate, menzionando

Giustino'"' e Suda.'* Alciato, co-

me denota il titolo, ricorre al mito omerico per configurare

l’alternarsi delle vicende umane, delle soventi ingiustizie e

sventure che colpiscono gli uomini e del lento riparo o ri-

scatto che talvolta viene loro concesso.

Se l’iconografia di XCIIb, con le claudicanti Litai che cer-

cano invano di raggiungere la volante Ate, è didascalica e ta-

le rimarrà in sostanza anche in seguito (Fig. 1, Fig. 2),'°

quella di XCIlIa è un po’ rudimentale e risolve il ruolo dei due personaggi agenti della favola, Ate e le Lite, nella elementare contrapposizione grafica fra uno zoppo, simbolo di queste, e un serpe alato, personificazione di quella. Quest’ultima immagine aderisce simbolicamente alla moralizzazione cristiana della dea quale serpente/ Lucifero del pecca-

to biblico di cui si è detto.

472

IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

EMBLEMA XCIII [1531, c. E67- v; 1534, p. 98]

Eloquentia fortitudine praestantior

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Arcum laeva tenet, ri gidam fert dextera clavam, Contegit et Nemees corpora nuda leo. Herculis haec igitur facies? Non convenit illud Quod vetus et senio tempora cana gentt.

Quid quod lingua illi levibus traiecta cathenis, Queis' fissa facili allicit aure viros? Anne quod Alciden lingua, non robore Galli Praestantem populis iura dedisse ferunt? Cedunt arma togae ? et quamvis durissima corda® Eloquio pollens ad sua vota trahit.

L’eloquenza è più efficace della forza La mano sinistra tiene l’arco, la destra porta la dura clava e copre il nudo corpo il leone di Nemea.

È dunque questo l’aspetto di Ercole? Non gli si addice,

in quanto è vecchio e della vecchiaia porta le tempie

canute.

E poi, perché la sua lingua è forata da leggere catene, e con queste attrae a sé, per le loro facili orecchie, gli uomini? Non è forse ché i Galli narrano che l’Alcide eccellendo nella parola, e non nella forza, dette le leggi alle genti2‘

Cedono le armi alla toga, e chi ha possente eloquenza

attira dietro ai propri desideri anche i cuori più duri.

Luciano di Samosata, ormai anziano, prepara il prologo a una sua esibizione oratoria, e per suscitare l’attenzione del pubblico e attrarne la simpatia inizia ricordando una immagine di Ercole che aveva visto in Gallia anni prima. Così co-

mincia a raccontare di quel suo viaggio e della bizzarra statua erculea. I Celti in lingua loro — racconta Luciano — chiamano Ercole col nome di Ogmio, e dipingono la figura di questo dio in modo assai strano. Per loro è un vecchione

con la fronte calva e tutto canuto nei capelli che gli riman-

gono, la pelle rugosa e arsa, nera come quella dei vecchi marinai. Nonostante quest’aspetto che non assomiglia a quello

di Ercole, ne porta le insegne: vestito con la pelle di leone,

nella destra la clava, la faretra appesa a tracolla e nella sini-

stra mostra l’arco teso. Inoltre Luciano descrive con stupore un altro aspetto straordinario di quel vecchio Ercole, cioè che è effigiato mentre tira una gran moltitudine di uomini,

tutti legati per le orecchie: i legami sono catenelle sottili fatte di oro e di ambra, simili alle più belle collane. Costoro, benché siano condotti con sì deboli mezzi, né pensano di

fuggire, pur potendolo con facilità, né assolutamente Op-

pongono resistenza o puntano i piedi, ma seguono lieti €

gioiosi plaudendo

l’eroe che li guida.

Luciano

prosegué

rammentando che la cosa che più lo aveva colpito per stravaganza era che il pittore, non avendo altro posto dove at

taccare gli altri capi delle catenelle, perché Ercole impugna-

EMBLEMA

XCIII

475

va nella destra la clava e nella sinistra l’arco, gli aveva forato la punta della lingua, facendo così in modo che gli uomini fossero tirati da questa, mentre l’eroe volgeva loro la faccia e sorrideva. Luciano, meravigliato, stava ammirando lo strano soggetto del quadro, quando un Celta, che gli era vicino, gli spiegò il senso dell’enigmatico dipinto, ovvero che i Celti non credono che sia Ermete il dio della parola, bensì Ercole e lo rappresentano vecchio perché solo nella vecchiezza la parola mostra la sua piena maturità e forza. Le catene che uniscono la lingua alle orecchie vogliono significare lo stretto legame che c’è tra queste e quelle, mentre la lingua dell’eroe è stata traforata non per ingiuriarlo ma per lodarlo, in quanto è credenza dei Celti che questo Ercole abbia compiuto ogni impresa servendosi della parola e, essendo un sapiente, abbia ottenuto le sue vittorie con la forza della persuasione. Le sue frecce — osserva il Celta concludendo - rappresentano le parole, acute, infallibili, veloci e capaci di col-

pire le anime: infatti, anche i Greci dicono che le parole sono alate.® Da questo ‘prologo’ o ‘preambolo’ di Luciano,‘ con l’ecfrastica metafora dell’Ercole Gallico e l’annessa spiegazione, Alciato estrae l’idea per il suo Emblema.’ Un elogio dei poteri della parola eloquente che vincono quelli della forza bruta grazie all’arte retorica. Il racconto è una sorta di celebrazione autobiografica dello stesso Luciano che, rinomato oratore ma ormai attempato, sa tuttavia di essere ancora in grado, proprio come il canuto Ercole gallico, di strappare il plauso agli ascoltatori e con la parola suadente incatenarli ai suoi ragionamenti e condurli seco. Probabilmente Alciato, sentendosi ora il novello Ercole Gallico

(non dimentichia-

mo i suoi laudatissimi insegnamenti universitari ad Avignore e Bruges) ,? vuole con questo epigramma porre se stesso e la sua « possente eloquenza» a modello ‘emblematico’ del-

l’ars loquendi. Il titolo dunt arma cetto che ceroniana «Cedano

«Eloquentia fortitudine praestantior» e la frase «Cetogae» del penultimo verso, come lo stesso conguida l’Emblema, imitano la famosa sentenza cti«Cedant arma togae, concedat laurea linguae»: le armi alla toga, gli allori alla lingua», ossia i

trionfi militari si sottomettano,

arretrino di fronte all’arte

476

IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

dell’eloquenza civile: transito — non solo simbolico — dal potere delle armi a quello della pace e del diritto delle leggi. L’iconografia dell’Ercole Gallico, che le xilografie XCIIlIa

e XCIIIb come quelle di altre edizioni (Fig. 1, Fig. 2)° disegnano in maniera chiara e semplice, ha due influenti ed ele-

ganti precedenti: uno lo vediamo sul frontespizio (Fig. 3)

del Pomponio Mela stampato a Basilea nel 1522 da Andreas

Cratander,! l’altro nel Champfleury (Fig. 4)" di Geofroy To-

ry, edito a Parigi nel 1529.

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478

IL LIBRO DEGLI EMBLEMI

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EMBLEMA XCIV [1531, c. E6v; 1534, p. 99]

In receptatores sicariorum'

Latronum furumque®? manus tibi scaeva per urbem Ît comes, et diris cincta cohors gladijs. Atque ita te mentis generosum prodige censes, Quod tua complureis allicit olla malos. En novus Actaeon, qui postquam cormnua sumpsit, In praedam canibus se dedit ipse suiîs.

Sui ricettatori di criminali

Una schiera di ladri e di furfanti, o Sceva,' t’accompagna per la città: una turba munita di lame spietate. E così, o prodigo, ti ritieni generoso d’animo, perché la tua pentola alletta molti malvagi. Ecco il nuovo Atteone, che dopo essersi messo le corna, dette se stesso in preda ai suoi cani.

Mignault5 indica quale fonte ispiratrice di questo Emble-

ma un passo di Favorino® riportato in Stobeo,’ dove si para-

gona la figura di Atteone, il mitico cacciatore sbranato infine dai cani che aveva allevato, a quella di coloro che ven-

gono rovinati dai parassiti e adulatori che hanno accolto e nutrito. Il testo di Favorino e il ‘rifacimento”’ lirico di Alciato in effetti perseguono lo stesso monito morale, prelevando dalla complessa fabula di Atteone® soltanto la sua tragica

fine per farne lo sciagurato exemplum di tutti quelli che ‘alle-

vano’ e si accompagnano a personaggi triviali e violenti sì da rimanemne infine vittime. Le illustrazioni degli Emblemata rendono in maniera diversa la metamorfosi di Atteone: il cacciatore che venne punito dagli dèi e, trasformato in cervo, fatto dilaniare dai suoi

stessi cani per l’insolenza dimostrata nei confronti del divino, per avere cioè violato l’intimità di Artemide, osservan-

dola di nascosto mentre si bagnava nuda. In XCIVa si adertisce alla lettera al penultimo verso dell’epigramma con At-

teone che ha «messo le corna» ma non ha ancora alterato il resto del corpo. In XCIVb invece le membra sono mutate in quelle dell’animale mentre il volto è umano, anche se qui la

resa grafica lascia molto a desiderare, visto che la bestia sembra più un capro che un cervo. Altre soluzioni propongono la metamorfosi cervina della sola testa (Fig. 1, Fig. 2).° Queste iconografie rispettano dunque il testo alciateo, senza se-

guire quella più nota e corrente nel Rinascimento, che vuole Atteone

sbranato

quando

è completamente

tramutato

nel quadrupede, come narrano la favola di Ovidio" o l’ec-

frasi di Apuleio,"' laddove descrive le statue marmoree

del-

l’atrio del palazzo di Birrena con Diana, i cani e, appunto,

Atteone/cervo.

In merito basti ricordare la xilografia (Fig-

EMBLEMA

XCIV

481

3) che orna l’episodio nell’Ovidio Metamorphoseos vulgare di Giovanni dei Bonsignori,'* oppure lo straordinario affresco di Parmigianino nella Stanza di Diana e Atteone della Rocca Sanvitale di Fontanellato, realizzato nel 1524.!3

482

IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

EMBLEMA XCV [1531, cc. E6v- E77; 1534, p. 100]

Fidei symbolum

Stet depictus Honor tyrio velatus amictu,' Eiusque iungat nuda dextram° Ventas.*® Sitque Amor in medio castus, cui tempora circum Rosa it, Diones* pulchrior Cupidine. Constituunt haec signa fidem, reverentia Honoris Quam fovet, alit Amor, partunique Veritas.

Simbolo della Fedeltà Stia dipinto l’Onore, velato da un manto purpureo, e la nuda Verità stringa la sua destra. Sia in mezzo l’Amore casto, con una corona di rose

in testa: più bello del Cupido di Dione. Questi simboli formano la Fedeltà: la sostiene il rispetto dell’Onore, la nutre Amore e la partorisce Verità. Ancora

il tema

della Fedeltà,

figurato

in altro

modo

nell’Emblema LXI. Alciato ora ne mette in luce ecfrastica-

mente l’iconografia come se fosse un dipinto, ritraendo tre personificazioni tra loro congiunte: l’Onore e la Verità si stringono la mano destra come nella dextrarum iunctio del-

l’Emblema XXVII, mentre al centro si trova l’Amore pudico. L’Onore indossa una veste di porpora, attributo sacrale di somma dignità principesca e imperiale,° la Verità è «nu-

da» perché non ha niente da nascondere,® mentre Cuptido virtuoso porta una corona di fiori come nell’Emblema LXXXI. La posizione intermedia del dio ne sottolinea la funzione di connexio rerum, di legame vitale (nutritivo: «alit Amor» dell’ultimo verso) che coniuga e unisce saldamente tutte le cose, di cui nell’Emblema LXXVI.

Secondo Mignault’ questo Fidei symbolum deriva da un an-

tico simulacro

marmoreo

della Fedeltà

(Fidei simulachrum:

Fig. 1), dove erano scolpiti tre personaggi. In primo piano un uomo e una donna che si stringono la destra, accompagnati rispettivamente dalle scritte «HONOR>» e «VERITAS»,

al centro, ma dietro i due, un fanciullo a sua volta indicato

come «AMOR>». Tre personificazioni dunque del tutto corrispondenti a quelle dell’Emblema. Il reperto poteva essere

noto ad Alciato perché era stato pubblicato dall’antiquario

e stampatore Giacomo Mazzocchi (Jacobus Mazochius) che lo riprodusse negli Epigrammata Antiquae Urbis (Fig. 1),° rac-

colta di epigrafi e iscrizioni romane edita nel 1521 a Roma.

Di questo simulacro parla dettagliatamente anche il Giral-

di.° La convincente proposta di Mignault ebbe concreto se-

guito nell’edizione di Padova del 1621 (Fig. 2),'° dove la vr gnetta riprese direttamente il monumento, mentre fino ad

allora l’illustrazione era affidata semplicemente alle indica-

EMBLEMA XCV

485

zioni dell’epigramma, come in XCVa, in XCVb o nelle edizioni lionesi Rouillé/Bonhomme

(Fig. 3)." In queste ultime

incisioni, specialmente in XCVa e in XCVb, si nota inoltre che l’Onore è raffigurato con sembianze all’apparenza femminili, come suggerisce la veste. In realtà si tratta di pessima resa grafica, dal momento che l’Onore è un dio, come ben

si sapeva anche nel XVI secolo.!* Semmai si può ritenere che

tale ambiguità espressiva sia dovuta alla lettura che del suo

abito davano gli antiquari al tempo dell’Alciato, quando ne

interpretavano l’immagine posta sulle monete romane. Rimanevano colpiti soprattutto dagli sbuffi e dai rigonfiamenti della sua veste: particolari che, in effetti, potevano deter-

minare l’apparente ‘femminilità’ del dio quando, così abbi-

gliato, veniva disegnato nelle ridotte dimensioni di una vignetta xilografica (si veda in XCVa). Esemplare in merito quanto scrive Agustin nei Dialoghi:" «A. In alcune medaglie di Marco Aurelio si trova un giovane vestito con la toga ... e con certi seni del vestito più onorato

che

si usava a Roma,

e tutti i vestiti sono

molto

gonfi e trasparenti, come sono le cose dell’onore piene di vento ... «B. Che sono eglino i seni, quali V. S. disse, che portava nella veste questa figura? «A. Quintiliano dice che i seni sono quelli che si veggono in alcune statue, de’ quali portavano due sopra le toghe, che congiungevano la toga con la tonica, che erano come quelli

che a Venezia chiamano becche, et in Spagna beccas, et in molti luoghi le portano

i consoli, o Decurioni, o di seta o

d’altra materia rossa, et in esse frappongono certi giri, et in altri tempi servivano per copnrirsi la testa, et in alcune bande

le chiamano cappucci [confrontare l’Onore con la testa coperta in XCVb]». Anche le figure dell’Onore riprodotte nelle due monete romane (Fig. 4) che accompagnano questo dialogo, sia per

il loro abbigliamento che per le piccole dimensioni dell’in-

cisione, possono a prima vista lasciare perplessi sulla natura mascolina o femminina del personaggio.

486

IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

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EMBLEMA

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487

EMBLEMA XCVI [1531, c. E7r-v; 1534, p. 101]

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In vitam humanam!

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Plus solito humanae nunc defle incommoda*" vitae Heraclite, scatet pluribus illa malis. Tu rursus, si quando alias® extolle cachinnum* Democnite, illa magis ludicra facta fuit. Interea haec cernens meditor, qua denique tecum Fine fleam, aut tecum quomodo splene® iocer.

Sulla vita umana

Ora più che mai compiangi le disgrazie della vita umana, o Eraclito: essa è piena di un gran numero di mali.

Tu al contrario, se mai, scoppi in sghignazzi,

o Democrito: essa si è fatta molto più divertente. Frattanto, riflettendo su queste cose, penso allora a qual fine 1i0 pianga con te o, con che milza,‘° scherzi con te.

Per comporre un Emblema sulla vita umana, considerata nella sua proverbiale bipartizione di gioie e dolori, Alciato

rivisita degli anonimi versi della Planudea, dove i filosofi

Eraclito di Efeso e Democrito di Abdera rappresentano tale duplice e antitetica condizione del vivere quotidiano, contrastata fra il ‘pianto’ e il ‘riso’. La conclusione è una sorta

di angosciosa aporia esistenziale e metafisica insieme, in cui l’uomo in fondo non capisce perché, nel suo cammino ter-

reno, debba accompagnarsi necessariamente a questo o a quello stato d’animo. La scelta dei due filosofi non è casuale, in quanto sia l’uno che l’altro esprimono una singolare aforistica contrapposi-

zione. Si raccontava che Eraclito, ogni volta che usciva di casa, provasse dolente pena verso le miserie umane e le stoltezze del mondo. Era solito piangere quando incontrava chi, in-

consapevole, era felice e contento: lacrime che esprimevano

compassione e sdegno per l’ignoranza e la volgarità degli uomini. Al contrario, si tramandava che Democrito non fosse

mai comparso in pubblico senza scoppiare a ridere, in una specie di sberleffo per le vanità mondane e per l’inconsisten-

za delle preoccupazioni umane, futili e prive di ogni serietà:

scherno da cui era immune solo la filosofia, l’unica occupa-

zione che meritava rispetto.

La fortuna del tema è costante fin dall’antichità, e lo sarà nel Medioevo come nel Rinascimento. Oltre al citato epi-

gramma greco, sono soprattutto Seneca,î Giovenale’ e Lu-

ciano" a parlarne, mentre cenni, rivolti in particolare al ‘Ti-

so’ fragoroso di Democrito, si hanno in Cicerone!' e Orazio.!° Gustosa la prosa di Luciano, che nella sua ironica vendita all’incanto dei filosofi, asta voluta dallo stesso Giove,

immagina che Democrito ed Eraclito siano ceduti insieme,

EMBLEMA

XCVI

491

eppure nessuno li compra. Il primo, cui viene chiesta spiegazione del suo riso, risponde perché gli sembrano ridicole le imprese degli uomini e loro stessi; il secondo, ugualmen-

te interrogato, risponde che giudica le opere degli uomini

deplorabili, lacrimevoli e tutte soggette a fine, perciò prova pietà degli umani e li piange. Ancora nel V secolo Stobeo,'"' riportando una citazione del dossografo alessandrino Sozione, menziona l’antinomia

fra i due, e Sidonio Apollinare,!‘ descrivendo

i ritratti dei

filosofi nel ginnasio dell’Areopago, ricorda che Eraclito era

ritratto con gli occhi chiusi per il pianto, mentre Democrito con le labbra aperte per il riso.

La fortuna iconografica del soggetto si intreccia a quella letteraria. 1 due filosofi vengono raffigurati nel trecentesco

Fulgentius metaforalis di Ridewall"® con intento edificante: qui

Eraclito, piangente per deplorare la vanità e i vizi del mondo (comportamento che lo avvicinava al modo di vivere del Cristo), diviene immagine virtuosa della Prudenza, mentre Democrito con il suo riso appare esempio da condannare,

perché « beati son detti coloro che piangono» e non quelli

che ridono, e le «indecenti risate » non sono opportune per

il fedele, atteso dal «terribile tribunale di Cristo». Nella sa-

tira della Stultifera Navis di Sebastian Brant

(1427-1521),

stampata a Basilea nel 1497 con la versione latina di Jakob

Locher, dove in versi e immagini si ridicolizzano i vizi e i difetti umani, troviamo una curiosa xilografia.'$ Qui, ai lati del globo terrestre, appaiono un Democrito ridente e un Diogene triste facente le veci di Eraclito, in base a una equiva-

lenza tipologica fra i due filosofi: entrambi irriverenti, provocatori e capaci di gesti folli e inusitati.!’ Diversamente con l’Umanesimo: Marsilio Ficino"? fece dipingere su una parete del suo studio il globo terrestre con Democrito sorridente

da una parte e, dall’altra, Eraclito piangente. Si voleva sottolineare l’importanza di praticare l’euthymia democritea, ossia quello stato d’animo di ‘benessere’ che dona al filosofo

la serenità e la superiorità per fronteggiare le cose del mondo. Donato Bramante intorno al 1487 affrescherà Eraclito e Democrito

(Fig. 2)” in conversazione intorno a un tavolo.

La fisionomia dei due filosofi, con le sue implicazioni con-

cettuali ed etiche, verrà più volte rappresentata sia nel XVI secolo che nel XVII, in particolare in ambito fiammingo.”

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IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

Le vignette XCVIa e XCVIb colgono i filosofi in discussio-

ne sulle loro contrapposte concezioni: si tratta di una grafica elementare e un po' grossolana che ritroviamo anche in

Thuilius (Fig. 3),*! mentre in altre (Fig. 4) l’abbigliamento dei personaggi e l’ambientazione sfoggiano ricercatezza e

gusto antiquariale.

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IL LIBRO

DEGLI

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IL LIBRO

DEGLI

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Quis sit Amor, plures olim cecinere poetae, Fius qui vario nomine gesta ferunt. Conventit hoc, quod veste caret, quod corpore parvus,

T'ela alasque ferens, lumina nulla tenet.'

Haec ora hic habitusque dei est, sed dicere tantos Si licet in vates, falsa subesse reor.

Eccur nudus agat? Divo quasi pallia desint, Qui cunctas domiti possidet orbis opes.

Aut qui quaeso nives boreamque evadere nudus

Alpinum potuit, strictaque prata gelu?

Si puer est, puerum ne vocas qui Nestora® vincit?* An nosti Ascraei® carmina docta senis? Inconstans puer, hic pervicax, pectora quae iam Trans adijt, numquam linquere® sponte potest. At pharetras et tela gerit, quid inutile pondus? An curvare infans cornua dura valet?

Alas curve tenet, quas nescit in aethera ferre? Inscius in volucrum flectere tela lecur.

Serpit humi semperque virum mortalia corda Laedit, et haud alas saxeus inde movet.

Si caecus vittamque' genit, quid taenia caeco

Utilis est? Ideo num minus ille videt?

Quis ne sagittiferum credat qui lumine captus?? H certa, ast caeci spicula vana movent.? Igneus est aiunt, versatque in pectore flammas.

Cur age vivit adhuc? Omnia flamma vorat.

Quin etiam tumidis cur non extinguitur undis,

Naiadum!'° quoties mollia corda subit?

At tu ne tantis capiare erroribus audi, Verus quid sit Amor carmina nostra ferent,

Tucundus labor" est, lasciva per ocia, signum

Illius est, nigro punica glans clypeo. \

Sulla statua d’Amore

Chi sia Amore lo hanno cantato un tempo molti poeti, che ne narrano le gesta sotto vari nomi."

Questo gli conviene: senza veste,'* corpo minuto,'*

porta frecce" e ali,'° ed è privo di occhi."”

EMBLEMA

XCVII

407

Questo il volto e l’aspetto del dio, ma se è lecito

contraddire sì tanti poeti, io credo che non dicano

il vero.

Perché dovrebbe andare in giro nudo? Come se i palli'®

manchino al dio che possiede del mondo vinto tutte le ricchezze. Ovvero, chiedo, chi nudo poté scampare alle nevi e a Borea

alpino e ai prati congelati dal ghiaccio?

Se è un fanciullo, tu chiami fanciullo chi vince Nestore?

Forse non hai conosciuto i dotti poemi del vecchio Ascreo?

Questo fanciullo incostante, pervicace, non può mai abbandonare spontaneamente un cuore che ha già trafitto. Ma porta faretra e dardi, a che l’inutile peso? Forse un bambino è capace di piegare un duro arco? A che possiede le ali, se non sa muoverle per l’aria? Non sa scagliare frecce nel fegato degli uccelli, Striscia per terra, sempre ferisce i mortali cuori

_ degli uomini e, come un sasso, non muove mai le ali da Îì.

E cieco e porta una benda, a che serve la benda a un cieco? Che forse per questo vede meno?

Uno che non ci vede chi lo crederebbe arciere?

Lui coglie nel segno mentre i dardi del cieco vanno

a vuoto.

Dicono che sia di fuoco" e volga e rivolga fiamme nel petto.

Suvvia, perché vive ancora? La fiamma divora tutto.

Anzi, perché non viene spento dalle onde rigonfie, tutte le volte che penetra nei teneri cuori delle Naiadis”° Ma tu, per non lasciarti ingannare da tanti errori, ascolta,

lo diranno i nostri versi quale sia il vero Amore: è dolce fatica attraverso ozi smodati, la sua insegna è la ghianda di melograno su scudo nero.

Mignault,* seguito da Thuilius® e dai più recenti com-

mentatori,”* fa notare come il lungo componimento alciateo

abbia congrui precedenti in due carmi di poeti umanisti:

uno di Michele Marullo (1453-1500),?** dove, attraverso un gioco di domande e risposte simile a quello dell’Emblema,

si descrive Eros con i suoi attributi; l’altro di Girolamo An-

498

IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

geriano (1470-1535) sullo stesso soggetto e con analoga trama lirica. A questi antecedenti Thuilius aggiungerà sia l’idillio Amor fugitivus di Mosco, poeta siracusano del II secolo a.C., sia quanto scrive Cornuto” del dio fanciullo soffermandosi sulle sue doti e sui suoi significati. In realtà un attento confronto formale e contenutistico fra le poesie di Marullo, di Angariano o di Mosco e quella di Alciato dimostra l’auto-

nomia di quest’ultima (che tale risulta anche dalla prosa di

Comnuto); semmai si può riconoscere che tutti costoro ri-

percorrono un genere vulgatissimo, quello dell’epigrammatica mitologica, in auge nell’antichità come presso i poeti

del Rinascimento, tra i quali spicca certo per finezza ed erudizione il menzionato Marullo. Alciato ha comunque altri scopi, l’intera sua poesia desi-

dera manifestare, contrariamente agli altri poeti (esplicito il terzo distico: «... sed dicere tantos / Sì licet in vates, falsa subesse

reor»), l’ingannevole ambiguità del dio fanciullo attraverso

la disputa che scaturisce fra le domande e la logica contrad-

dizione delle risposte. Il suo intento è quello di configurare, rispetto a tanta doppiezza, il vero ‘geroglifico’ di Eros (indicato nell’ultimo distico), di coniare pertanto il signum che ne costituisca l’effettiva insegna. In ciò attua il suo progetto — di cui si è discusso ampiamente nell’Introduzione - di rendere gli epigrammi emblematici dei veri e propri strumenti ecfrastici, capaci con le parole di ottenere una visualizzazione simbolica, la quale svolga, nella sua efficace sintesi iconi-

ca, la funzione di imago ‘geroglifica’, cioè rievochi in sé le ar-

cane valenze del concetto che mostra. In tal modo non pare un caso che questa «Statua d’Amore» compaia solo in fon-

do alla sequenza degli Emblemi (VII, LXV, LXXII, LXXIII, LXXVI, LXXXI, LXXXIX, XC) che hanno per soggetto

Eros/ Amore/ Cupido, nel corso dei quali il Nostro ha già distribuito qua e là tutti gli epiteti e gli attributi del dio (fan-

ciullezza, nudità, cecità, forza ignea, le frecce, l’arco, ecc.)

che ritroviamo ora. Siamo infatti di fronte a una specie di

riepilogo o compendio conclusivo della concezione alciatea

del mito e della realtà di Eros. Ma qui, rispetto ai precedenti epigrammi, le qualità del dio sono messe enfaticamente in dubbio come fossero ingannevoli facezie, viene fatta emer-

gere la loro contraddittoria improbabilità. Ma perché — dob-

biamo chiederci — una siffatta architettura poetica è esplici-

EMBLEMA

XCVII

499

tamente tesa a smantellare la figura di Amore e la sua sfaccettata allegoresi, affermata invece nei numerosi Emblemi

precedenti? Il motivo è meramente retorico e prepara il terreno ai due distici finali, ovvero alla concezione alciatea di

Amore, la quale spazza via tutte le altre. Difatti, l’ironica ripetizione dell’aporia che percorre l’intero componimento,

la ribadita dubitatio o ‘incertezza’ che lo caratterizza, approdano a un chiaro invito verso il lettore: «Ma tu, per non la-

sciarti ingannare da tanti errori, ascolta, / lo diranno i nostri versi quale sia il vero Amore: / è dolce fatica attraverso

ozi smodati, la sua insegna / è la ghianda di melograno su scudo nero». Vediamo il senso di questa terminologia. I binomi «Iucundus labor» e «lascivum ocium» uniscono lemmi contrastanti o quantomeno contraddittori: labor significa fatica, sforzo, affanno, lavoro, mentre iucundus vuol dire lieto, dolce, piacevole, gradito (Tibullo, 64, 161: «tibi iu-

cundo famularer serva labore»: «ti avrei servito come una

schiava, con piacevole fatica»); altrettanto dicasi per ocium

(otium), cioè tranquillità, quiete, riposo, e lascivum, ossia gai0, petulante, sfrenato, insolente, libidinoso (in Livio* l’ozio

rende insolente e aggressiva la plebe; in Tacito” l’inattività dell’ozio genera indisciplina sfrenata, senza controllo). Questa sorta di ossimori, che per loro natura uniscono termini

antitetici, sicché i due componenti si contemperano a vicenda in un equilibrio dell’assurdo, in una aurea medietas o aurea

mediocritas (basti pensare a motti famosi come concordia di-

scors o festina lente"), genera in questo caso un’idea dell’ero-

tismo vissuto in ragionevole proporzione fra duro affanno e

gioia, fra quieta serenità e smodata libidine. Il contenimento

che ciascuno dei due stati d’animo esercita sull’altro, in una

sorta di festina tarde afrodisiaco, trova compimento figurativo nel ‘geroglifico’ o insegna che il Nostro attribuisce ad Amo-

re. Qui l’antilogia iconologica è data dall’accostamento fra la

glans punica e il nigrus clypeus. Quest’ultimo, il colore nero, è simbolo di mestizia, tristezza e afflizione, come spiega lo stes-

so Alciato nell’Emblema «/In colores» che comparirà per la

prima volta nella stampa aldina degli Emblemata del 1546:” 1l colore nero è segno di maestitia, tutti ce ne vestiamo durante

le esequie funebri. Al cupo e malinconico colore si oppone

la glans punica in un sottile trastullo verbale. La punica è infatti il rubicondo melograno,” che fa mostra di sé nelle vi-

500

IL LIBRO DEGLI EMBLEMI

gnette XCVIlIa e XCVIIb come in seguito (Fig. 1, Fig. 2) :*! attributo di Venere secondo il mito e il culto, venne piantato

per la prima volta nell’isola di Cipro dalla dea, talvolta ritratta con il frutto o il fiore della pianta.* Strano tuttavia, a pri-

ma vista, il lemma glans, letteralmente ghianda, accostato a un frutto che tale non è: la glans è infatti propria degli alberi glandiferi come la quercia” e non certo del melograno. Ma se intendiamo oscenamente il vocabolo, come in Marziale,%

ovvero nel significato di glande del membro maschile, la glans punica appare malizioso e provocante simbolo di sessualità lasciva, connesso all’antica sacralità di Afrodite. Il ‘geroglifico’/insegna concepito da Alciato risulta dunque composto da due estreme valenze amorose: una, il colore nero dello scudo, evocatrice di un erotismo mesto e funereo, di

una sessualità soggetta alle caduche leggi della vanitas mundi, l’altra, il purpureo melograno, che onora l’esuberanza della vigoria e della prorompente forza erotica. Le due modalità, compensandosi,

illustrano in qual modo

Alciato in-

tenda Amore: contenuta euforia e pudica oscenità. Oltre a questa interpretazione se ne può avanzare un’altra, più elementare, che però non mi pare molto probabile né pertinente dato il considerevole contesto erotico- simbolico dell’Emblema. Con glans punica sì potrebbe intendere un semplice e letterale riferimento al «frutto» (glans) « melograno» (punica) in quanto tale. Infatti, il lemma glans nel generico significato di fructus è presente in Ulpiano,” e Alciato riporta e annota il passo nel suo commento al De verborum significatione.* In questo caso l’ultimo verso andrebbe tradotto: «è il frutto di melograno su scudo nero». Naturalmente il significato dell’insegna andrebbe comunque ricondotto a Venere, di cui il melograno, come sìi è detto, è attri-

buto.

EMBLEMA

501

XCVII

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EMBLEMA XCVIII [1531, c. E8v; 1534, p. 104]

Ei qui semel sua prodegerit aliena credi non oportere

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Colchidos' in gremio nidum quid congeris? Eheu, Nescia cur pullos tam male credis avis ?? Dira parens, Medaea suos saevissima natos Perdidit, et speras parcat ut illa tuis?

Non

conviene affidare i beni altrui

a chi ha già dissipato i suoi

A che costruisci il nido in grembo alla Colchide? Ahimeè, perché ignara affidi i pulcini a tanto male? Orrenda madre, la crudelissima Medea uccise

i suoi figli: e tu confidi che possa proteggere i tuoi?

Il tema è simile a quello dell’Emblema XLIV sull’amore per la prole. Ora i versi dipendono da un epigramma” di

Leonida d’Alessandria, in cui il poeta invita una rondine a non nidificare su una statua di Medea, dal momento che un

simile, tragico personaggio, che massacrò i figli,* non offre

certo alcuna garanzia di protezione per i piccoli implumi. La morale alciatea è data dal titolo: non si devono affidare le proprie cose a chi ha già rovinato le sue.

Se in XCVIIIa la vignetta rappresenta genericamente l’infanticidio di Medea, in XCVIIIb come in altre stampe (Fig.

1, Fig. 2)° si aderisce più convenientemente al testo, facendo vedere la statua e il volatile che vi si reca per costruirvi il nido.

XCVIII

505

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EMBLEMA XCIX [1531, cc. E8v-Flr; 1534, p. 105]

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non esclude, anzi sollecita, un concreto riferimento a certi

colleghi dello stesso Alciato, i quali avrebbero tentato di

nuocergli, o attraverso un vero e proprio abuso edilizio perpetrato ai suoi danni, oppure (se intendiamo in senso tra-

slato l’«obstruere lumen»') cercando di oscurarne la celebrità

EMBLEMA

CI

517

e la ‘luminosa’ carriera: maldestro tentativo reso vano dalle sue salde virtù morali. La vicenda viene trasformata in exemplum emblematico

per mezzo di una dinamica comparativa che, come accade

in altri Emblemi, trasferisce nel mito i soggetti storici della

vicissitudine. La favola scelta da Alciato è quella di Fineo, se-

condo la vulgata mitica.!! Sì narrava che il re d’Arcadia Fi-

neo, reso cieco per la sua empia avarizia,'* vizio che rende appunto ‘ciechi’ (Servio dice altrimenti, ovvero che tale ce-

cità era la punizione inflittagli dagli dèi per lo scellerato delitto da lui commesso,

avere cioè accecato i figli), era tor-

mentato dalle Arpie, creature mostruose con viso di donna e corpo d’uccello, che gli sottraevano il cibo impedendogli di mangiare. Ma Fineo, avendo ospitato e prestato soccorso agli Argonauti che stavano recandosi nella Colchide, chiese

loro di liberarlo dal tormento, e due di essi, i gemelli Calais

e Zete provvisti di ali,° si alzarono in volo e si scagliarono contro quegli uccellacci mostruosi cacciandoli via. Fulgen-

zio spiega che i due rappresentano la ricerca del bene da parte dell’animo umano: rettitudine e bontà non contaminate dalle cose carnali e terrene che possono così sconfigge-

re la malvagità delle rapine e delle ruberie. Nell’epigramma si utilizzano solo alcuni elementi della leggenda, quelli utili a meglio visualizzare il discorso etico

dell’Emblema.

Fineo/Alciato

è

il perseguitato

dalle

Ar-

pie/Mario e Subbardo, che gli negano la ‘luce’ e vogliono

confinarlo altrove, mentre i figli alati di Borea, Calais e Zete,

personificazioni della sua limpida e virtuosa coscienza, lo salvano.

Le vignette si differenziano palesemente: in Cla addirittu-

ra si equivoca la dinamica dell’evento facendo fuggire Calais

e Zete dinanzi alle Arpie (espresse da una sola di esse per sineddoche iconica) e non viceversa come dovuto; in CIb la

svista viene corretta lasciando però a piedi i due gemelli alati, mentre soltanto in stampe posteriori (Fig. 1, Fig. 2) ' l’iconografia offrirà una efficace figurazione della scena descritta nel testo. Le spade che compaiono in CIb e poi nella Fig. 1 e nella Fig. 2, delle quali non vi è cenno nei versi, provengono dal citato passo di Servio," dove si precisa che Calais e Zete

per la loro impresa si armarono di un gladio ciascuno.

DEGLI

EMBLEMI

!

IL LIBRO

pesiiti

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EMBLEMA CII [1531, c. F2v; 1534, p. 108)'

Consilio et virtute Chimeram superari, id est,

fortiores et deceptores

Bellerophon? ut fortis eques superare Chimeram, Et Licij potuit stermnere monstra® soli. Sic tu Pegaseis vectus petis aethera pennis,* Consilioque animi° monstra superba domas.

Con saggezza e virtù si vince la Chimera, cioè i più forti e ingannatori Come Bellerofonte, prode cavaliere, poté sconfiggere la Chimera e abbattere i mostri della terra di Licia,

così tu, portato dalle ali di Pegaso, solchi il cielo, e con la saggezza dell’animo domi i mostri superbi.

520

IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

Nell’edizione Steyner, sul margine sinistro del primo ver-

so dell’epigramma vi è esplicito riferimento alla fonte: «Vide Fulgen. in Mithologijs lib. 3 in princ.». Si rinvia così alle Mitolo-

giae di Fulgenzio, ossia alla fabulaI del terzo libro dedicata a Bellerofonte. Come nel caso dell’Emblema precedente, an-

ch’esso dipendente da Fulgenzio, Alciato fa sua di nuovo la

moralizzazione del mito che propone il tardo mitografo e vescovo cristiano. Tuttavia, della complessa trama mitica

che cojnvolge Bellerofonte® e la sua storia, il Nostro trae sol-

tanto la valenza etico-eroica del personaggio, adattandola con cura alle sue esigenze emblematiche. Difatti, mentre

nell’interpretazione di Fulgenzio’ il duello tra Bellerofonte

e la Chimera con la sconfitta di quest’ultima simboleggia la

sapienza che combatte, debella il peccato e i veleni del-

l’amore libidinoso,® in Alciato la vittoria del giovane mostro esprime la psicomachia della saggia virtà contro il chimerico inganno che induce all’errore, «monstra superba » , ovvero l’arroganza e la superbia viano dalla retta via.

eroe sul d’animo contro i che tra-

Al secondo verso si asserisce che Bellerofonte, oltre alla Chimera, liberò da altri ‘mostri’ il suolo della Licia, teatro

dell’evento mitico, in quanto proprio in quella regione compiva le sue scorrerie la leggendaria bestia triforme, che aveva una testa di leone, il petto di capra e la coda di drago

o serpente, mentre dalla bocca vomitava fuoco.° Di queste successive imprese non vi sono riscontri mitografici: Bellerofonte sgominò

sì i bellicosi Solimi e le loro alleate, le

Amazzoni,!° ma non risulta che abbia avuto a che fare dopo

la Chimera con altri esseri mostruosi o favolosi. Ritengo che

si tratti di una aggiunta di Alciato studiata per creare il pa-

rallelismo mito-poetico con l’ultimo verso: come Bellerofonte sopraffece la Chimera e i vari ‘mostri’ della Licia, cosi la ‘saggezza d’animo”’ ha il sopravvento sugli altrettanti ‘mo-

stri’ viziosi della psiche. Nella composizione di CIIb si ritrae l’eroe che, come vuole la tradizione, abbatte la Chimera colpendola dall’alto mentre

vola sul cavallo alato Pegaso. Chi ideò questa raffigurazione pare tuttavia digiuno dell’episodio nei suoi particolari, perché risultano del tutto impropri sia la stravagante arma usata, cioè una sorta di lungo bastone o palo, sia la bestia triforme ridotta alle sole sembianze leonine. Nelle stampe po-

EMBLEMA

CII

521

steriori (Fig. 1, Fig. 2)!! si provvide a correggere tali sviste: la Chimera è connotata più fedelmente nelle sue forme ferine,'° e l’arma diviene una appuntita lancia che sta per essere conficcata nelle fauci della fiera. Quest’ultimo dettaglio lascia supporre che l’iconografia sia suggerita da Tzetze," il

quale narra che Bellerofonte munì la sua asta di una punta di piombo che, infilata nella bocca della Chimera, si fuse per l’ardente calore delle fiammate che da essa si sprigiona-

vano e, sciogliendosi, colò nella gola del mostro uccidendo-

lo. A proposito risulta pertinente l’iconografia in Thuilius

(Fig. 2), dove si scorge la parte offensiva della lancia avvolta dalle fiamme che fuoriescono dalle fauci aperte. Altri auto-

ri, quali Pindaro!‘' e Apollodoro,'* raccontano invece che l’e-

roe trafisse a morte la Chimera con le frecce. La scena con Bellerofonte, che cavalcando Pegaso sovrasta la Chimera e sta per infilzarla con la lancia, ricorre in gemme delle collezioni medicee (Fig. 3)"° e in conii antichi riportati sia in Agustin (Fig. 4),'’ il quale rammenta anche la

storia della punta di piombo che si liquefece in bocca alla

belva, che in Erizzo (Fig. 5).'$ Quest’ultimo cita anche l’epi-

gramma del presente Emblema CII e commenta: « Mostran-

doci [Alciato] in detti versi, che col consiglio et la virtù si su-

pera la chimera, cioè i superbi mostri dei vitij » .'

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IL LIBRO DEGLI EMBLEMI

EMBLEMA

CII

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EMBLEMA CIII [1531, c. F37; 1534, p. 111)]

Tumulus Ioannis Galeacij Vicecomitis primi Ducis Mediolanensis

Pro tumulo pone Italiam, pone arma ducesque, Et mare, quod geminos mugit' adusque sinus.? Adde his barbariem conantem irrumpere frustra, Ft mercede emptas in fera bella manus.? Anguiger ast‘ summo sistens® in culmine dicat, Quis parvis magnum me super imposuit?

Sepolcro di Giovanni Galeazzo Visconti primo Duca di Milano Per sepolcro poni l’Italia, poni le armi e i duci, e il mare che muggisce sino all’uno e all’altro golfo.

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IL LIBRO DEGLI EMBLEMI

A questo aggiungi i barbari che invano si accingono

a irrompere

e le bande comprate coiì soldi per guerre feroci. E l’Anguigero,® fermo sulla più alta cima, annunzi:

«Chi ha coperto la mia grandezza con così poco?».

A Gian Galeazzo Visconti (1351-1402), al quale si deve la

nascita del Ducato di Milano, di cui fu il primo Signore, per-

sonaggio politico e uomo d’armi che fece costruire la Certosa di Pavia e dette inizio ai lavori per il Duomo milanese, Alciato dedica questo epigramma. È un encomio, che celebra la

‘grandezza’ di quel condottiero descrivendone come simboli-

ca arca sepolcrale l’intera Italia, in un amaro confronto fra la gloria di quelle imprese passate e le tristi condizioni politiche

e militari dell’Italia nei primi decenni del Cinquecento.’

Il distico iniziale descrive l’Italia attraverso i suoi due golfi estremi, quelli di Genova e di Venezia, mentre la geografia

della vignetta CIIIb® mostra il centro del paese fra Ravenna

e Roma, tra l’Adriatico e il Tirreno. Nell’edizione del 1531 il

quarto verso è un altro e vi si nominano esplicitamente, qua-

li barbari e mercenari pronti all’invasione, i Francesi, i Te-

deschi e gli Spagnoli.

Lo spunto per la lode al Visconti e la sua rammaricata, no-

stalgica constatazione dei tempi ormai mutati («Quis parvis

magnum me super imposutit ?») è offerto ad Alciato da un epigramma assegnato a Tullio Gemino’ dedicato a Temistocle

(530/520 a.C. - dopo il 471 a.C.). In esso lo statista e strate-

ga ateniese pretende per sé una tomba degna delle sue gesta, sulla quale risaltino le emblematiche immagini delle sue

imprese e vittorie: non deve essere affatto modesta e si chie-

de infine il trionfatore di Salamina con tono enfatico e autocelebrativo: «Volete forse rinchiudere un grande in un

angusto recinto?». Domanda tradotta dal Nostro nell’ultimo verso e che nell’originale greco (Tl. ueg ouucpoig TOv MÉ-

yav ÈévtiBete)

corre nel cartiglio che si innalza dalla carta

geografica nella xilografia CIIIb e nella Fig. 1. In Thuilius

(Fig.

2), diversamente

da queste

ultime

vi-

gnette a carattere geografico si raffigura il medesimo Vîsconti che impugna la propria insegna sul tumulo/sepolcro, con un sottostante e non troppo chiaro riquadro con tré

EMBILEMA

CIII

27

scenette, nelle quali si scorgono degli armati (i barbari?), la

penisola (sic!) e un’altra incomprensibile immaginetta.



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EMBLEMA CIV [1531, c. F3r; 1534, p. 110]

Optimus civis

Dum iustis patriam Thrasybulus vindicat! armis,? Dumque simultates ponere® quemque iubet. Concors ordo omnis magni instar muneris, illi Palladiae sertum frondis habere dedit.' Cinge comam Thrasybule, geras hunc solus honorem, In magna nemo est aemulus urbe tibi. Ottimo cittadino

Mentre con legittime armi Trasibulo rivendica la libertà della patria, e mentre ordina che ognuno metta da parte il rancore, tutto il popolo concorde, in segno di grande ricompensa, gli offre da portare la corona di fronde di Pallade. Cingi la chioma, o Trasibulo, porta questo onore tu solo: nella grande città nessuno può emularti.

530

IL LIBRO DEGLI EMBLEMI

In questi pochi versi si rivisita e sintetizza la storia dell’ate-

niese Trasibulo (455 a.C. ca - 388 a.C.), campione di virtù, di lealtà, di amore patrio e di grandezza d’animo, colui che liberò la sua città dalla tirannide, così come tramanda Cornelio

Nepote,° l’autore a cui si rifà Alciato. Questi lo prende a mo-

dello di moralità ed exemplum di optimus civis, ricordando che

per i suoi meriti i concittadini l’onorarono con il dono della corona d’olivo:‘ pianta sacra alla sofianica Atena’ e simbolo,

in questo caso, della vittoria e della pace raggiunta grazie alla saggia condotta di Trasibulo. Nell’ultimo verso emerge la nostalgia e il rammarico di Alciato per la mancanza di un analogo personaggio sulla scena politica e militare di Milano, ricordata qui quale magna urbs e, più esplicitamente, come no-

stra urbs nell’edizione del 1531.°

Il tenore grafico delle illustrazioni che ornano l’Emblema

cambia secondo l’edizione: se in CIVb abbiamo il corteo di

cittadini che vanno incontro a Trasibulo per incoronarlo, nelle immagini successive (Fig. 1, Fig. 2)° si preferisce porre in risalto il solenne gesto dell’incoronazione.

EMBLEMA

CIV

531

EMBLEMA CV [1534, p. 111]'

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Effuso cernens fugientes® agmine turmas,° Quis mea nunc inflat comua?* Faunus att.

Sul terrore improvviso Vedendo le schiere fuggire in branco disordinato, Fauno si chiede: «Chi suona ora i miei comni?». Secondo la leggenda, Pan fu il primo a terrorizzare i ne-

mici incutendo loro quello che si chiama rtavicòv, il panico

repentino che sconvolge l’animo. Infatti il dio, durante lo

scontro fra Zeus e i Titani che ne assaltavano la sede celeste,

534

IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

atterrì questi ultimi suonando una conchiglia e con quel rumore inaudito li mise in fuga. Il mito trasmesso da Igino,° che lo riprende da Eratoste-

ne,° ebbe fortuna nel Rinascimento, quando il tema dell’im-

provviso spavento che rende impotente ogni razionale difesa o reazione fu oggetto di erudita disamina da parte di Po-

liziano e di Erasmo. Il primo, nella Miscellanea,$ riporta un

nutrito catalogo di autori greci e latini nei quali ricorre il

motivo; il secondo ne fa oggetto del proverbio «Panicus casus», citando anch’egli la letteratura antica a proposito, che riconosce in quel particolare stato di caos cerebrale la divi-

na autorità di Pan. Tra i vari autori spicca Cicerone,’ perché

pone tale ‘terrore’ in una prospettiva etica e filosofica: scri-

ve infatti che una volta si lasciava prendere dal ‘panico’, ma

ora non più grazie alle «difese di cui l’ha dotato la filosofia ». Probabilmente a guidare il concetto emblematico di Alciato è proprio un simile confronto tra il pauroso scon-

certo e la ratio filosofica, tra il potente effetto di quello e la distaccata riflessione di questa che sa comprendere la dirompente paura senza rimanemrne vittima, in quanto ne co-

glie anche l’intrinseca caducità. Difatti, se da un lato la com-

ponente essenziale del disorientamento panico è la rottura momentanea della continuità temporale, l’imporsi di un

evento che disordina la linearità psicologica e dialogica delle cose, da un altro la natura stessa di tanto sbigottimento lo

vuole, affinché maggiore sia la sorpresa, repentino al più alto grado, istantaneo, brevissimo nel tempo e, dunque, inevitabilmente effimero e impermanente. Chi pertanto è consapevole di tale meccanica recepisce la transitorietà e vacuità di un simile portento, apparentemente indomabile. Il ‘pani-

co’ quindi può risultare non così terribile quale sembra se

‘controllato’ dalla savia logica del filosofo, come avverte Cicerone. Alciato pare sottendere e notificare tutto ciò nell’Emblema, dal momento che pone in bocca allo stesso Pan

il senso di fugacità del ‘panico’ da lui causato, quando, una

volta suonato il corno del terrore, il dio si chiede, quasi stupito, chi possa suonarlo di nuovo ora che ha avuto il suo effetto. Infatti, se ripetuto, quel suono non può più avere il medesimo esito, in quanto la sua reiterazione smorza e inevitabilmente annulla il potere della sorprendente, fulminea

imprevedibilità che lo determina e lo rende ‘unico’.

EMBLEMA

CV

535

L’iconografia di Pan in CVb è impostata sulla comune tipo-

logia classica, sia letteraria' che figurativa,'' delle sue sembianze di Satiro o Fauno dionisiaco, riproposte anche nel Rinascimento (Fig. 1).? La conchiglia suonata da Pan per far fuggire

i Giganti, convenientemente dipinta da Correggio (Fig. 2), diviene nelle varie vignette (Fig. 3, Fig. 4) ® degli Emblemata

un’improbabile tromba coclide o un lungo corno.

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IL LIBRO

DEGLI

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EMBLEMA CVI [1531, c. F2v; 1534, p. 112]' In adulari nescientem

Scire cupis dominos toties cur Thessalis ora Mutet, et ut varios quaerat habere duces.

Nescit adulari, cuiquamuve obtrudere palpum, Regia quem morem principis omnis habet.

Sed veluti ingenuus sonipes, dorso excutit omnem,

Qui moderari ipsum nesciat hippocomon.?

Nec saevire tamen domino fas, ultio sola est,

Dura ferum ut iubeat ferre lupata magîs. Su colui che non sa adulare

Brami sapere perché tante volte la Tessaglia cambi padroni e cerchi di avere duci diversi:

non sa adulare, né coprire alcuno di carezze, costume osservato in ogni reggia principesca. Come quando un destriero libero disarciona tutti i palafrenieri incapaci di domarlo, non è

540

IL LIBRO DEGLI

EMBLEMI

opportuno che il padrone incrudelisca, basta una sol punizione:

ordinare che all’indomita bestia siano messi morsi più

duri.

L’epigramma è una sottile metafora sulle difficili condi-

zioni di Milano sotto i vari governi che dovette subire tra la

fine del XV secolo e i primi decenni del Cinquecento, argomento su cui Alciato fa cenno in più occasioni negli Emble-

mi. La questione riguarda l’atteggiamento di un popolo indomito dinanzi a una autorità oppressiva, di cittadini che rinunciano dignitosamente a lusingare ipocritamente il Signore di turno. Si auspica tuttavia, dinanzi a questa insoffe-

renza che ‘disarciona’ i vari luogotenenti (i ‘palafrenieri’)

inviati dal re o dall’imperatore ad amministrare lo Stato, u-

na politica più accorta da parte degli stessi ‘sovrani’, un’arte del governo che sappia ‘imbrigliare’ e non punire crudelmente le rimostranze dei sudditi. Che il sotteso messaggio dell’Emblema sia questo emerge

proprio dalle modifiche apportate dal Nostro allo stesso te-

sto. Mentre nella seconda versione del 1534 cì si riferisce ai Tessali, nella primitiva del 15315 la storia concerne gli Insu-

bri, ossia le popolazioni della Gallia Cisalpina, ai quali l’antica tradizione* attribuisce la fondazione di Milano. Pertanto il soggetto di tale prima versione sono gli abitanti della

città padana con le loro vicissitudini politiche. Probabil-

mente per ragioni di convenienza, di cui ignoriamo i puntuali contorni, Alciato decise la sostituzione degli Insubri con i Tessali, collocando cronologicamente nel passato della Tessaglia un dramma ch’egli riviveva parallelo ai suoi giorni, mascherando così la sua invettiva politica. Dei Tessali, della loro indole inquieta e di difficile gover-

nabilità, dei diversi sovrani stranieri a cui fu sottomessa la lo-

ro terra, dai Macedoni ai Romani, parlano in più occasioni

Livio° e Diodoro Siculo.5 L’avvicendamento dei Tessali al posto degli Insubri spiega, inoltre, perché nell’edizione del

1534 venne aggiunto l’ultimo distico con il riferimento 3!

cavallo ribelle e al morso più duro per domarlo. Si tratta di una inclusione strettamente connessa proprio alle tradizioni tessaliche e non era ovwiamente proponibile nella versio-

EMBLEMA

CVI

541

ne primitiva del 1531 con gli Insubri come materia dell’epi-

gramma. Il ‘morso tessalo’ era infatti famoso, perché secondo la leggenda il cavallo apparve per la prima volta in Tessaglia, balzando fuori da rocce percosse da Poseidone, e il primo a domarlo, mettendogli morso e briglie, fu un Lapita,’

antichissima popolazione tessalica che viveva intorno al monte Olimpo.® L’iconografia di CVIb e quelle seguenti (Fig. 1, Fig. 2)° illustrano il distico conclusivo e le riflessioni appena svolte sui cavallerizzi tessali, raffigurando un cavaliere che sta con stcurezza ammaestrando ad arte il destriero, ossia il capace sovrano che sa contenere con giuste leggi e accorta politica l’animo indocile dei sudditi.

542

IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

EMBLEMA CVII [1534, p. 113]

IN N

Insignia poetarum

CVIIb Gentiles cddypeos sunt qui in lovis alite!' gestant, Sunt quibus aut serbens aut leo, signa ferunt. Dira sed haec vatum fugiant animalia ceras,? Doctaque sustineat stemmata pulcher olor. Hic Phoebo sacer, et nostrae regionis alumnus,° Rex olim, veteres servat adhuc titulos.

Insegne dei poeti Ci sono quelli che a insegna del casato pongono l’aquila di Giove,

altri portano i simboli di un serpente o di un leone.

Ma questi animali feroci rifuggano le pagine dei poeti, e un magnifico cigno campeggi sui loro dotti stemmi: sacro a Febo, delle nostre regioni figlio, una volta re,‘ ancora conserva gli antichi titoli.5

544

IL LIBRO DEGLI EMBLEMI

Secondo una vetusta tradizione,® durante la guerra che combatteva contro i Giganti, dopo avere offerto un sacrificio a Cielo (Urano), Giove vide un’aquila volare verso di lui quale favorevole augurio di vittoria. Conseguito il successo grazie a questo presagio fece porre un’aquila d’oro sulle sue insegne di guerra e per tal motivo, spiega Fulgenzio, essa ven-

ne poi adottata dai soldati Romani. Ma non solo l’aquila fu nobilissima e antica insegna: una testa di leone era raffigurata sullo scudo di Agamennone,’

mentre un serpe/ dragone

su quello di Menelao,° per ricordare il prodigio interpretato da Calcante sulla durata della guerra di Troia, di cui si è detto nell’Emblema XXIII. Rispetto a tanta prestigiosa ascendenza dei tre signa animali (aquila, serpente e leone)° posti

sui blasoni e rammentati nei primi versi dell’epigramma,

non sfigura certo quello del cigno la cui origine è addirittura eliaca. Difatti, Alciato lo pone sullo scudo dei poeti in base

alla stretta correlazione fra l’animale e Apollo!° Musagete,'! il

dio guida delle Muse, ispiratore della musica, del vaticinio e della poesia, proprio come i candidi cigni a lui sacri: «dinanzi al carro di Apollo Delio » narra Marziano Capella'* «si fermarono i cigni, uccelli augurali, affinché, se voleva, potesse salirvi e farsi portare. Il dio, infatti, molte volte era solito, per presagire il futuro, farlo attraverso essi ... mentre Febo saliva, la compagnia delle Muse, che lo seguiva da vicino, era tra-

sportata da un uccello candido e melodioso». In Eliano si ricorda che presso gli Iperborei,'* favoloso popolo abitante ai confini del mondo, a nord oltre le zone dove soffia Borea, si

riveriva particolarmente Apollo e che durante la cerimonia in onore del dio moltitudini di cigni dopo avere volato intorno al tempio a lui dedicato, quasi per purificarlo, scendeva-

no nel grandioso recinto e innalzavano canti soavi, pieni di armonia per tutta la giornata. L’ispirazione apollinea alla poesia lirica!* e al bel canto, modulato e pieno di grazia, fanno del cigno il perfetto ‘geroglifico’ della poesia,'° che nella xilografia CVIIb viene posto su un blasone appeso a un albero, secondo la tipologia

grafica di cui in fine al commento dell’Emblema I, la quale

rimarrà invariata nelle edizioni posteriori (Fig. 1, Fig. 2).'°

EMBLEMA

CVII

545

EMBLEMA CVIII [1534, p. 114] Musicam Dijs curae esse

Locrensis posuit tili Delphice' Phoebe cicadam Eunomus hanc, palmae signa decora suae.

Certabat plectro Sparthyn commissus in hostem, Ft percussa sonum pollice fila dabant.

Trita fides rauco coepit cum stridere bombo,

Legitimum harmontes et vitiare melos. Tum citharae argutans suavis sese intulit ales, Quae fractam impleret voce cicada fidem. Quaeque allecta, soni ad legem descendit ab altis Saltibus, ut nobis garrula ferret opem.

Ergo tuae ut firmus stet honos, o sancte, cicadae,

Pro cithara hic fidicen aeneus ipsa sedet.

La musica è cura degli dèi A te, o Apollo Delfico, Eunomo di Locri ha dedicato

questa cicala, splendido simbolo della sua palma.? Cominciava a gareggiare col plettro contro un rivale di Sparta, e le corde percosse dal pollice risuonavano,

548

IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

quando una corda logora cominciò a stridere con rauco ronzio,

e a rovinare il canto perfetto e l’armonia. Allora una amabile cicala melodiosa si posò sulla cetra,* a supplire con la sua voce la corda rotta. Attratta dall’armonia dei suoni, discese dalle alte

selve per portarci, garrula, aiuto.

Così, o beato,‘ perché permanga durevole l’onore della tua cicala, essa sta qui, bronzeo menestrello sulla stessa lira. La storiella del citaredo Eunomo locrese e della cicala è raccontata in un epigramma di Paolo Silenziarlo,° ora tradotto da Alciato. Altri Emblemi,

come

il II e l’XI, testimo-

niano quanto alta fosse la considerazione per la musica da parte del Nostro, che qui non esita a dichiararne nel titolo

la valenza divina. La cicala di bronzo, sacra ad Apollo cui

viene offerta in voto, assurge così a ‘geroglifico’ della musica, come pure accade in Valeriano.®

Fin dalla più antica lirica greca’ la cicala fu considerata l’animale canoro per eccellenza, da cui il proverbio « più in-

tonato di una cicala» ,° tradotto da Erasmo” «Cicada vocalior». Autorevole fonte, che conferisce all’animaletto canoro

una sorta di sposalizio inestinguibile con il canto e la poesia, è Socrate, che nel Fedro" platonico racconta il celebre mito delle cicale. Queste un tempo lontano erano degli uomini, che talmente presi e innamorati del canto si dimenticavano

di mangiare e di bere, consumandosi così, senza accorgerse-

ne, fino alla morte, storditi e perduti in quel piacere. Da costoro nacque la specie delle cicale, che dalle Muse ottennero

il privilegio di potersi dedicare fin dalla nascita, senza marn-

giare né bere, all’esclusiva felicità del canto, avendo però il compito di informare personalmente le nove Muse degli omaggi che a loro porgono gli uomini. Così queste riferisco-

no loro circa la danza, la poesia, la musica, la tragedia, la

commedia e le altre arti praticate dai popoli. | L’iconografia delle vignette oscilla tra la raffigurazione di una lira (CVIIIb e Fig. 1) ! e quella di un liuto (Fig. 2),* na-

turalmente, in ogni caso, con sopra la cicala. Lo strumento»

EMBLEMA

CVIII

549

in quanto offerta votiva al dio di Delfi, è posto sopra un ba-

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EMBLEMA CIX [1534, p. 115] In oblivionem patriae

Tam dudum missa patna, oblitusque tuorum,

Quos tibi seu sanguis, sive paravit amor.

Romam habitas, nec cura domum subit ulla reverti,

Aeternae' tantum te capit urbis honos.

Sic Ithacum praemissa manus dulcedine loti? Liquerat et patriam, liquerat atque ducem.

Sull’oblio della patria Già da tempo, lasciata la patria e dimenticati i tuoi, verso i quali ti dispose o il sangue o l’amore, vivi a Roma, né ti preoccupi più di ritornare a casa,

tanto ti ha preso la bellezza della città eterna.

Così la schiera itacese mandata in perlustrazione aveva abbandonato patria e duce per la dolcezza del loto.

552

IL LIBRO DEGLI EMBLEMI

Il tono dell’epigramma non esclude che Alciato con que-

sto Emblema intenda rivolgersi a qualcuno di preciso, un

amico o parente, che recatosi a Roma e rapito dalla bellezza

della città abbia dimenticato gli affetti e la casa nativa. Nel distico finale il richiamo a tornare in ‘patria’ viene trasposto nel ben noto episodio di Ulisse e i Lotofagi, raccontato da Omero.' Questa è l’avventura: le navi con l’Itacese e i compagni, sospinte da venti violenti, approdano alla terra dei Mangiatori di loto, popolazione mite e ospitale. Sbarcati, Ulisse invia due compagni più un araldo in ricognizione, ma costoro, mangiato il «dolcissimo frutto del loto», non

vogliono più tornare indietro e desiderano rimanere per sempre là, avendo completamente perso memoria del loro

ritorno a Itaca, cosicché Ulisse è costretto a trascinarli con la

forza alle navi e legarli perché non fuggano più.

Se difficile è identificare botanicamente questo ‘loto’,‘ il ‘cibo floreale’ odisseico, dal punto di vista simbolico sono le Questioni omenche® di Eraclito Pontico a fornircene una spie-

gazione consona all’andamento dell’epigramma. Eraclito, il cui testo poteva essere noto al Nostro perché edito da Aldo Manuzio a Venezia nel 1505 insieme a Horapollo, Esopo,

Comnuto, Palefato e altri autori,° interpreta il mito per cui il paese dei Lotofagi è allegoria del piacere (7 1i8ov), di un in-

tenso «godimento esotico», al quale si oppone la «tempe-

ranza» del saggio Ulisse che sa così sfuggire all’oblio. L’implicito invito all’ignoto personaggio dell’epigramma affinché torni in ‘patria’ è in sostanza quello che faccia come il sovrano greco e non come i suoi compagni perduti. Pertanto un concetto

emblematico

che vuole essere un monito

morale,

con il quale si sollecita il perseguimento della virtù della temperanza, e si condanna lo smarrimento nei piaceri smodati.

Il parallelismo fra l’estrema dolcezza del mitico fiore, intesa come voluttà che meraviglia fino a stordire, e la bellez-

za di Roma,

che può altrettanto, non è affatto casuale, dal

momento che non pochi scrittori antichi’ descrivono lo stato di sconcerto e di disorientamento di coloro che si recava-

no per la prima volta a Roma, rimanendo folgorati dal suo fastoso splendore, dall’inumano incanto. Esemplare la visita

di Costanzo Augusto descritta da Ammiano Marcellino,® nek

la quale le meraviglie artistiche della città, dagli edifici profani ai templi, ai teatri e alle innumerevoli statue e monu-

EMBLEMA

CIX

553

menti sbalordiscono il Principe a tal punto che, interrogato

sulle sue impressioni, risponde: «Sono contento solo di una

cosa, di avere imparato che anche in questa città gli uomini muoiono come altrove». Rutilio Namaziano nel poemetto

De reditu, scritto tornando da Roma nella sua patria narbo-

nense così apostrofa con nostalgia la città: «Ascolta, o regi-

na bellissima del tuo mondo, o Roma, accolta negli astri dell’Universo, ascolta, madre degli uomini e madre degli dèi,

tu che grazie ai tuoi templi ci avvicini al cielo. Te cantiamo e

sempre canteremo finché il destino lo permetterà. Nessuno

può restare muto al tuo ricordo» .? La vignetta CIXb come altre (Fig. 1, Fig. 2)'° propongono

un’iconografia in cui, sotto l’albero di loto, sono raffigurati i compagni di Ulisse intenti all’infausto banchetto. Singolare

è la raffigurazione della pianta come antropomorfa (in CIXb e Fig. 1) dalle fattezze femminee, di cui non vi è traccia nei versi. L’immagine può spiegarsi, alla luce di quanto commenta Eraclito circa il loto metafora della voluttà e del pia-

cere, quale riferimento a un erotismo femmineo che disto-

glie e fa dimenticare completamente all’uomo i suoi valori

virtuosi, come dichiarato per altri versi nell’Emblema LXXI.

Erasmo!! nell’adagio « Lotum gustavit» considera, fra l’altro,

una analoga lettura morale del loto e dell’oblio che procura,

riferendola a coloro che presi dalla turpe e disonesta voluttà si dimenticano e non fanno ritorno ai primitivi studi. Altra lettura plausibile e più convincente di questa curiosa

iconografia dell’albero di loto è quella che vi identifica la me-

tamorfosi della ninfa Lotis mentre sta trasformandosi nell’al-

bero

«comunemente

detto fava di Siria», come

tramanda

Servio,'' oppure nell’«acquatico loto », come dice Ovidio." E

nelle xilografie (Fig. 3) ' che ornano le edizioni delle Meta-

morfosi di Ovidio, stampate a Venezia tra la fine del XV seco-

lo e l’inizio del XVI, che l’illustratore di CIXb ha trovato lo

spunto e il soggetto per caratterizzare qui l’albero emblema-

tico, ossia la naiade Lotis divenuta loto, secondo una tipologia grafica che, nelle medesime stampe, ritroviamo anche

nel caso del giovinetto Ciparisso mutato in cipresso (Fig. 4).

554

IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

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Laertae genitum, genitum quoque Tydeos una Hoac cera expressit Zenalis apta manus. Viribus hic praestat, hic pollet acumine mentis, Nec tamen alterius non eget alter ope. Cum duo coniuncti veniunt, victoria certa est, Solum mens hominem, dextrave destituit.

Nulla può un uomo solo, due moltissimo Il figlio di Laerte* e il figlio di Tideo? l’abile mano di Zenale disegnò su un’unica tavoletta di cera: questo eccelle per la forza, quello primeggia per l’acuto ingegno, e tuttavia uno ha bisogno dell’aiuto dell’altro.

558

IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

Quando i due si muovono uniti la vittoria è certa, la sola intelligenza o soltanto la forza portano l’uomo al fallimento.

La menzione di un’opera con Diomede e Ulisse di Ber-

nardo Zenale (1450 ca-1526) dovrebbe riferirsi a una con-

creta realizzazione dell’artista (sulla quale però non abbia-

mo trovato altri riscontri), in quanto Alciato lo conosceva bene. Lo Zenale, pittore e architetto italiano‘ che viveva a Milano (nel 1522 divenne architetto della fabbrica del Duomo e curò la realizzazione del grande modello ligneo anco-

ra conservato nel Museo della Cattedrale), era amico di Al-

ciato e lo aiutò nelle sue ricerche epigrafiche e archeologiche; il Nostro lo definisce «Summus pictor tum architecto-

nices peritissimus» .° L’Emblema è un ulteriore, pregevole rimando al concet-

to di prudenza, presentato secondo diverse accezioni negli Emblemi XV, XXI e LII. Infatti, l’idea di conseguire la sicu-

ra vittoria grazie all’unione di due elementi contigui eppure

contrapposti, quali la ‘forza’ e il ‘consiglio’, l’azione e la riflessione, rispecchia il tenore del motto augusteo (otreùò£€ BpadÉux) di cui si è detto soprattutto nel commento all’Emblema XXI. La medesima conclusione dei versi («Solum

mens hominem dextrave destituit») condanna l’incapacità di

non sapere congiungere le due condizioni antitetiche, limi-

te che conduce inevitabilmente all’insuccesso.® Esplicite te-

stimonianze letterarie a proposito sono Orazio’ («la forza

separata dalla riflessione crolla per il suo stesso peso / men-

tre gli dèi innalzano alla maggiore altezza la forza tempera-

ta dalla ragione») e ancor più Apuleio® che osserva: «quando, in una situazione critica e disperata, bisogna scegliere degli esploratori che nel cuore della notte penetrino nel

campo nemico, la scelta non cade forse su Ulisse e Diomede, quali idea e azione d’appoggio, mente e braccio, pen.Sie‘

ro e spadas». Apuleio si riferisce appunto al famoso episodio omerico,° ora argomento dell’Emblema, in cui il sagg!0

Nestore consiglia una ricognizione notturna da parte deg!l

Achei presso il campo dei Troiani per spiarne le intenzion!,

missione temeraria per la quale fa i nomi di Diomede e Ulis-

se, unione di coraggio e di intelligenza. Proprio da un verso

EMBLEMA

CX

559

di Omero" di questo episodio e dal discorso di Diomede in risposta a quello di Nestore che invita all’impresa sono tratte le parole che nella xilografia CXb corrono sul cartiglio

impugnato — non a caso - dallo stesso Diomede: ZYN TE AY EPXOMENO

(«due che marciano insieme»).

Ulisse e Diomede con le loro peculiari doti divengono, attraverso la trasposizione concettuale operata da Alciato, la

duplice personificazione emblematica di un’unica effigie simbolica, quella che esalta l’unità delle facoltà intellettuali con quelle fisiche in una armonica sinergia di sicura efficacia.

La medesima immagine CXb come altre successive (Fig. 1, Fig. 2)!! mostrano i due personaggi affrontati in dialettica convergenza iconica: a sinistra Ulisse e a destra Diomede,

disposizione che segue l’ordine del verso iniziale dell’epi-

gramma (prima «il deo »), secondo una come il testo latino: rore grafico in CXb

figlio di Laerte», poi «il figlio di Tivisualizzazione della scena che procede da sinistra a destra.!? ] due (a parte l’erdi cui diciamo sotto) sono connotati co-

me vuole il diverso ruolo: Ulisse, il vecchio savio, l’intelletto

prudente, è disarmato e paludato come un filosofo o dotto; inoltre, per meglio puntualizzare la sua attitudine speculati-

va, porta un libro (Fig. 1) o un rotolo scritturale (Fig. 2), attributi sapienziali,'® presumibilmente allusivi ai versi dell’Odissea con la vicenda della spedizione notturna dei due

eroi, se non all’opera intera. Diomede invece ha l’aspetto del fiero guerriero, del combattente giovane e ben armato,

ossia esprime il vigore pronto ad agire. Circa la xilografia CXb si deve rilevare un palese errore grafico, per cui i ruoli dei due Achei sono invertiti: la lunga

barba, il copricapo orientaleggiante e un abbigliamento dottorale conferiscono a Diomede

(indicato dal suo nome

scritto in basso sul bordo della veste) la parte del saggio, quella spettante a Ulisse, mentre a Ulisse (anch’esso denotato dal nome che corre in alto sulla corazza), armato di tutto punto, quella del forte condottiero pertinente invece a

Diomede. L’abbaglio verrà presto corretto nelle edizioni

cinquecentesche posteriori (Fig. 1, Fig. 2). In Thuilius (Fig.

3) ' anche Ulisse porta l’armatura, sì che i due riprendono

le loro originali, omeriche, sembianze guerresche. Da notare infine che nelle Immagini' di Filostrato Minore

si illustra un dipinto con l’episodio di Achille a Sciro, dove è

560

IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

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ritratto un gruppo di Greci fra i quali sono effigiati anche i due eroi, secondo quelle modalità espressive che ne sottolineano il duplice profilo finora considerato: Ulisse pensoso, con lo sguardo rivolto a terra per il suo continuo riflettere sulle cose, Diomede con piglio risoluto e ardito.

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EMBLEMA CXI [1534, p. 117] In aulicos

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Vana palatinos quos educat aula' clientes Dicitur auratis nectere compedibus.?

Sui cortigiani Sì dice che la frivola corte allevi i clienti del palazzo incatenandoli con ceppi dorati. Per ironizzare sulla condizione dei cortigiani, ‘costretti’ a vivere presso il palazzo del principe, con tutti ì fastosi vantaggi del caso ma anche con altrettanti vincoli servili e clientelari, Alciato conia il suo distico emblematico sull’adagio

564

IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

«Aurae compedes » , ovvero «ceppi» o «catene d’oro», mente commentato da Erasmo*” a proposito della vita dell’uomo di corte. Le vignette (CXIb e seguenti: Fig. 2)* si adeguano con essenzialità grafica al soggetto, particolari variazioni.

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EMBLEMA CXII [1534, p. 118] In mortem praeproperam

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CXIIb

Qui teneras forma allicuit torsitque puellas' Pulchrior et tota nobilis urbe puer Occidit ante diem, nulli mage flendus Aresti, Quam tibi, cui casto iunctus amore fuit. Ergo illi tumulum tanti monumenta doloris Adstruis, et querulis vocibus astra feris: Moe sine abis dilecte? Neque amplius ibimus una? Nec mecum in studijs otia grata teres? Sed te terra teget, sed fati Gorgonis ora, Delphinesque tui signa? dolenda dabunt.

Sulla morte prematura Un giovinetto, che con la bellezza attraeva e avvinghiava le dolci fanciulle, più bello e nobile in tutta la città, è morto anzi tempo, e nessuno lo può piangere più di te, o Arestio, a cui fu unito da un casto amore.

Perciò gli innalzi il sepolcro, monumento di tanto dolore, e con querula voce percuoti le stelle:

566

IL LIBRO DEGLI EMBLEMI

«Senza me te ne vai, o diletto? Non cammineremo mai più

insieme?

Non trascorrerai più con me i piacevoli ozi degli studi?

Ora ti coprirà la terra e ti assegnerà il destino, segni di compianto, il volto della Gorgone e i delfini».

In Thuilius’ si legge che il nome «Arestio » alluderebbe a]

«sommo

poeta» Ludovico Ariosto (1474-1533)

del quale e-

ra noto l’amore per il giovane Flaminio Maleguccio, il cui monumento funebre si trovava a Padova nel cimitero della chiesa di Sant’Antonio. La notizia pare frutto di un malinteso, dal momento che la lapide di «Flaminio, figlio di Annibale Maleguccio ... erudito nelle lingue greca e latina sopra la sua età e studioso di diritto civile » esiste tutt’oggi, ma vi si

legge che morì a qu1nd1c1 anni, nell’aprile del 1552,* data

che non concorda né con quelle della vita di Ariosto né con il periodo in cui venne composto questo Emblema, risalente

ovviamente a prima del 1534.

L’epigramma scandisce lo strazio dell’amante per la precoce perdita dell’amato, secondo una trama di dolente rim-

pianto, che riecheggia, pur nella sua invenzione e autono-

mia poetica, gli stilemi funebri comuni alle epigrafi del ‘cimitero degli amanti’ dell’ Hypnerotomachia Poliphili? Qui si rt petono parole simili a quelle che Arestio rivolge al giovane scomparso, si raccontano vicende analoghe, con fanciulli e fanciulle prematuramente rapiti all’amore, con nostalgiche

e tristi commemorazioni di ciò che non potrà più essere.

È l’ultimo verso a dettare l’iconografia dell’Emblema: i

delfini e la testa della Gorgone come simboli di compianto

posti sul sepulcrum dove campeggia la ricorrente dedica funeraria «agli dèi Mani» — D[iis] M[anibus ] —, ossia alle anime dei morti, i manes.®

Alciato riprende la valenza luttuosa dei due simboli dalla

sua diretta conoscenza antiquariale, come dimostra il disegno di un cippo funebre (Fig. 1)’ da lui studiato con i due delfini contrapposti e il sottostante Gorgéneion, composizione

ben simile a quella di CXIIb e che ritroviamo, per quanto rt

guardai delfini, anche nelle xilografie sepolcrah (Fig. 2, Fig.

3)$ del menzionato ‘cimitero degli amanti’ dell’ Hypnerotom&

chia Poliphili. Sia i delfini che la testa della Gorgone sono co-

EMBLEMA

CXII

567

munque un motivo assai diffuso nell’iconografia funeraria romana.° Circa i cetacei, una tradizione trasmessa soprattut-

to da Eliano,!° ma ricordata anche da Aristotele!! e Plinio,!

vuole che abbiano memoria dei loro morti e non li dimenti-

chino mai: si caricano sul dorso il cadavere del parente e lo portano a riva confidando che gli uomini, amanti della giu-

stizia e della musica, lo seppelliscano.'® Nella psicanodia o

viaggio celeste dell’anima il delfino, per il suo amore verso

gli uomini e la musica, simboleggia la ‘propizia navigazione’ del defunto nell’aldilà, ‘ mentre il Gorgoneion pare assolvere una funzione apotropaica e di profilassi del sepolcro,® - un apotropaion che paralizza la stessa morte. Graficamente di migliore riuscita, rispetto al disegno poco

elegante di CXIIb, le vignette delle edizioni Rouillé/Bon-

homme (Fig. 4),'° più singolare l’interpretazione in Thuilius

(Fig. 5)'’ con il teschio sulla tomba e sotto i delfini affrontati

con al centro la testa di Medusa.

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568

IL LIBRO

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DEGLI

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EMBLEMA CXIII [1534, p. 119] Eyx0pav aduwpa dòpa. In dona hostium

Bellorum coepisse ferunt monumenta vicissim Scutiferum Aiacem Hectoraque Iliacum,

Balthea Prnamides, rigidum Telamonius ensem,

Instrumenta suae coepit uterque necis. Ensis emim Aiacem confecit, at Hectora functum Traxere Aemonijs' cingula nexa rotis. Sic titulo obsequij quae mittunt hostibus hostes Munera, venturi praescia fata° ferunt. «]I doni dei nemici non sono doni». Sui doni dei nemici

Si narra che Aiace armato di scudo e Ettore d’Ilio si scambiarono a vicenda ricordi di guerra. Il Priamide ebbe il balteo, Telamonio la rigida spada: ciascuno dei due prese lo strumento della propria morte.

572

IL LIBRO

DEGLI

EMBLEMI

Infatti Aiace si uccise con la spada, e la cintura legata dell’Emonio trascinò il cadavere di Ettore.

alle ruote

Così quei doni che in segno di ossequio i nemici

mandano ai nemici portano il presagito fato che verrà.

L’archetipo, che nell’immaginario letterario e mitico occi-

dentale ha condannato come nefasto l’accettare il dono di

un nemico, è il celeberrimo cavallo di Troia,’ offerto dai Gre-

ci agli dèi per propiziarsi il ritorno in patria e da cui ha origine la terribile fine della città che l’aveva accolto. Omaggio obliquo e infido, intrinsecamente saldato a un destino ineludibile: la caduta di Ilio. Un predestinato dono non dono, come

annuncia ora 1l titolo‘ dell’Emblema

che, benché

ri-

volto ad altro contesto (lo scambio di regali fra Ettore e Aiace), sviluppa lo stesso significato etico e metafisico di quello

del cavallo di legno. Infatti, un’offerta di questo tipo è infausta in quanto ‘impura’ in sé, ‘contaminata’ com’è nella sua stessa innaturale origine: quella di provenire da un nemico («credete che i doni dei Danai sian privi di dannir»

grida inascoltato Laocoonte ai Troiani, a proposito del ca-

vallo lasciato dinanzi alle mura

della città, e ancora:

«Ho

paura dei Danai anche se portano doni»).° L’omaggio reca-

to da un avversario configura un gioco paradossale e improprio, perché inverte la logica delle cose, capovolgimento

contenuto nell’atto in quanto tale, cioè nel fatto che il gesto del nemico sia assurdamente amichevole. Un simile avvenimento, nel suo scardinare il consueto ordine delle relazioni,

annuncia qualcosa di fuori del comune e trasforma un pur semplice scambio di doni in un signum imperscrutabile nelle sue conseguenze. Si evoca così l’enigma dell’insolito, che appare oscuro quanto i disegni divini e il destino che sembrano improntarlo e sempre sfuggono ai pen31er1 degli uo-

mini.° L'’Emblema CXIII ripropone la storia esemplare del-

lo scambio di omaggi tra i nemici Ettore e Aiace Telamonio narrata da Omero.’ I due eroi, dopo un lungo duello © quando è ormai sopraggiunta la notte, decidono di porger31

un reciproco atto di ossequio: Ettore onora Aiace della sua spada, questo contraccambia con il suo balteo, la fascia pur”

purea. Sono oggetti che preannunciano le rispettive morti,

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Z d ». Le sette

corde sono già in Omero, Hymn. Merc., 51 (cfr. Igino, Astr., 2, 7, 2).

22. Cfr. A. 1550, p. 16 (Fig. 1); Thuilius, p. 60 (Fig. 2). 23. Index, Embl. 10. 24. Etym., 3, 22, 2-4.

25. Su questi temi: K. Meyer-Baer, Music of the Spheres and the Dance

of Death, New York, 1984, pp. 87-216; J.B. Friedman, Orpheus in the Middle Age, Cambridge (Mass.), 1970. Sulla cithara e la lyra nel mondo antico: R. Volkmann, in Plutarchi De musica, Lipsiae, 1856,

pp. 153-59; nel Rinascimento, per le connessioni della cithara con

la citola, la lira da braccio e la viola, cfr. Thuilius, pp. 61-62: «Ci-

thara est musicum instrumentum in triquetram figuram compositum, plus viginti chordis aptum, vulgo harpa»; H.M. Brown,J. Lascelle, Musical Iconography: a Manual for Cataloguing Musical Subjects

in Western Art before 1800, Cambridge (Mass.), 1972, pp. 70-77; D-

pingere la musica. Strumenti in posa nell’arte del Cinque e Seicento, a cura di S. Ferino-Pagden, Milano, 2000, pp. 23 sgg., 106 sgg.; E. Win-

ternitz, Musical Instruments and their Symbolism in Western Art, New York, 1967; trad. it. Gli strumenti musicali e il loro simbolismo nell’arte

occidentale, Torino, 1982, pp. 38 sgg., 263 sgg.; cospicua e accurata la scelta bibliografia in S. Toussaint, Quasi Lyra, cit., pp. 11 7-32.

26. Cfr. H. Green, Andrea Alciati, cit., p. 164, n. 41; Index, Embl. 185.

27. Thuilius, p. 773. 28. Fig. 1: A. 1550, p. 16; Fig. 2: Thuilius, p. 60; Index, Embl. 185. 29. Emblemata, Antuerpiae, Christophe Plantin, 1566, p. 52.

30. Ultraiecti, 1613, Embl. 70. 31. Anticlaudianus, 3, 386 sgg. 32. Anticlaudianus, 3, 410: « Insigni vestita toga»; la toga, ornamen-

to propriamente maschile, viene qui attribuita alla Musica perché questa personificazione femminile, come già accade per l’Aritmetica (3, 335 sgg.), deve essere maschile nell’animo, uomo per intelligenza e donna per sesso («vir sensu, femina sexu: / ... sic vir, siCc mulier, animo non illa sed ille est»).

33. C. 1r del ms. B 42 inf. (Commento di Giovanni d’Andrea alle Decretali), secolo XIV (1354), Biblioteca Ambrosiana, Milano.

34. Cfr. L. Donati, Le fonti iconografiche di alcuni manoscritti urbinati della Biblioteca Vaticana. Osservazioni intorno ai cosiddetti « Tarocchi del

Mantegna », in «La Bibliofilia», 60, 1958, pp. 48-129, propriamente

NOTE

583

pp. 97-104; si veda ora Ludovico Lazzarelli, De gentilium deorum imaginibus, a cura di C. Corfiati, Messina, 2006, pp. x- xx, 70-71, 180.

EMBLEMA

III

1. A. 1531: «Stulticiae». 2. Giovenale, 1, 160: « Digito compesce labellum ». 3. A. 1531: «Harpociatem» . 4. Egizio: dall’isoletta di Pharos di fronte ad Alessandria d’Egitto dove si innalzava il celebre faro. Pharus: metonimia per Egitto in Stazio (Silv., 3, 2, 102) e Lucano

(8, 443).

5. Epigrammata, p. 118 (Anth. Gr., 10, 98).

6. Carm., 102, 1-4 (cfr. 74, 4): «Sì quicquam tacito commissum est fido ab amico, / cuius sit penitus nota fides animi, / meque esse invenies illorum iure sacratum, / Corneli, et factum me esse puta

Arpocratem>». Celio Calcagnini, Opera aliquot, cit., pp. 491 -94, attribuisce al liberto Gaio Mecenate Melisso (cfr. Plinio, 28, 62; Svetonio, Gramm., 21) il detto: « persino uno sciocco, se avrà taciuto,

sarà reputato saggio». 7. In Opera omnia, cit., cap. LxxxilII, ff. H7v-H8r: «De Harpocrate». 8. IV, 1, 38, f. 2417. 9. Cfr. A. Chastel, Signum harpocraticum, in Studi in onore di Giulio Carlo Argan I, Roma, 1984, pp. 147 -60.

10. Ling., 5, 57: «Hi dei idem qui Aegypti Serapis et Isis, etsi Arpo-

crates, digito significat, ut taceam » (in Agostino, De civ. De, 18, 5);

cfr. Ovidio, Met., 9, 692: «Quique premit vocem digitoque silentia suadet». 11. 68, 378c; cfr. Plutarco, De Iside et Osiride, a cura di J.G. Griffiths, Cambridge, 1970, p. 535.

12. 1, 20; ma anche 7, meraviglia di un raggio sce a illuminare quello 13. Il modello didattico

‘729: qui il silenzio è imposto dinanzi alla di luce che dal capo di Aritmetica fuoriedi Giove. è pitagorico. Così tramanda Giamblico nel-

la Vita pitagorica, ‘72-'76, 94, 226: dopo

cinque anni di silenzio, per

imparare la padronanza di sé e il saper tacere come insegnano i fondatori dei misteri, i discepoli di Pitagora che apparivano degni di essere iniziati alle dottrine diventavano «esoterici» (é0W0tep.iKoiù): solo a loro era concesso di ascoltarlo e vederlo dentro la ten-

da degli insegnamenti, mentre gli altri, gli «essoterici», ne rimanevano fuori. Era infatti vietato comunicare i precetti divini e sapienziali a coloro che non erano in grado di comprenderli; cfr. O. Ca-

584

NOTE

sel, De philosophorum Graecorum silentio mystico, Giessen, 1919, pp. 30-35; A. Delatte, La vie de Pythagore de Diogene Laerce, Bruxelles,

1922, pp. 111, 169-70; CJ. De Vogel, Pythagoras and Early Pythagorean-

ism, Assen, 1966, pp. 188 sgg., 238 sgg.; sul rapporto tra silenzio ed

esoterismo: cfr. M. Gabriele, Tracce di silenzio, in Forme e correnti del l’esoterismo occidentale, a cura di A. Grossato, Milano, 2008, pp. 31 -38, 14. 13, 2 (cfr. Giamblico, Myst., 8, 3): W.C. Grese, Corpus Hermeticum

XIII and Early Christian Literature, Leiden, 1979, pp. 116-18 e 158;

G. Sfameni Gasparro, La gnosi ermetica come iniziazione e mistero, in Gnostica et Hermetica, Roma, 1982, pp. 309-30. Cfr. Marsilio Ficino,

In Mercurium Trismegistum, in Opera ommnia, cit., vol. II, pp. 1854 sgg. 15. Ancora eccellente per le testimonianze greche e latine, riunite e discusse: O. Casel, De philosophorum Graecorum silentio, cit., pp. 28 sgg., 52 sgg., 90 (Arpocrate) e 114 sgg. (i filosofi neoplatonici); ma anche G. Mensching, Das Heilige Schweigen, Giessen, 1926, pp. 86, 114 sgg., 134 sgg. (nella mistica dionisiana); nel culto e nella religiosità romana: G. Appel, De Romanorum precationibus, Gissae, 1909, pp. 187 sgg.; l’esercizio del silenzio della mente, che distaccata dalle sensazioni corporee apriva al filosofo l’accesso ai tesori della vera gnosi, era praticato dai Pitagorici come dai Neoplatonici: O. Casel, De philosophorum Graecorum silentio, cit., pp. 98 sgg. 16. Dial., 7, 26, 7; cfr. Cicerone, Div., 1, 102; Orazio, Carm., 3, 1, 2; sulle fonti e sul significato cultuale di questa formula: G. Appel, De Romanorum precationibus, cit., pp. 187-89; M.T. Ciceronis De divinatione, a cura di A.S. Pease, Darmstadt,

1963, pp. 282-83.

17. Oltre ai menzionati Poliziano ed Erasmo, si veda Alessandro D’Alessandro, Genialium dierum libri sex, Lugduni Batavorum, 1673 (editio princeps: Roma, 1522), vol. I, pp. 434, 437-38; Giraldi, vol. I,

pp- 55-56 e 191-92; vol. II, p. 493: «Linguam coercitio, Deum imi-

tans»; Valeriano, Lib. XXXVI.:

«silentium»;

cfr. Thuilius,

pp. 68-

71; E. Wind, Misteri pagani, cit., pp. 15-16; R.S. Waddington, The

Iconography of Silence and Chapman's Hercules, in «Journal of the

Warburg and Courtauld Institutes», 33, 1970, pp. 248-63.

18. In Opera aliquot, cit., pp. 491-94; si veda: E. Wind, Misten pagani, cit., pp. 14-16; F. Vuilleumier Laurens, La raison, cit., pp. 99-

105.

19. Lib. 3, 2: C. Agrippa, De occulta philosophia libri tres, a cura di ‘{ Perrone Compagni, Leiden, 1992, pp. 403-406; l’editio princeps €

del 1533.

20. Fig. 1: A. 1550, p. 7; Fig. 2: Thuilius, p. 65; Index, Embl. 11. 21. Cfr. W. Liebenwein, Studiolo, Berlin, 1977; trad. it. Studiolo. Storia e tipologia di uno spazio culturale, Modena, 1992; per una rassegna figurativa del tema nel Rinascimento: U. Rozzo, Lo studiolo nel la silografia italiana (1479-1558), Udine, 1998.

NOTE

585

22. Venetia, Giovanni Ragazzo per Lucantonio Giunta, 1490, f. a5v; cfr. La Bibbia a stampa da Gutenberg a Bodoni, a cura di I. Zatelli, iconologia a cura di M. Gabriele, Firenze, 1991, nn. 31, 33, 38-39; La Bibbia: edizioni del XVI secolo, a cura di A. Lumini, Firenze, 2000, nn.

65 sgg. 23. Circa l’apparato iconografico e documentale: U. Rozzo, Lo stu-

diolo, cit.

24. Cfr. in P. Heitz, Basler Buchermarken bis zum Anfang des 17. Jahrhunderts, Strassburg, 1895, p. 13, n. 13. La marca è contornata da

alcune frasi che ricordano il gesto di Arpocrate (in alto: « Digito compesce

labellum»,

da Giovenale,

Sat., 1, 160)

e sanciscono

il

primato sofianico del silenzio e dell’ascolto (ai lati: «Multa quidam audienda, pauca vero dicenda» e « Dixisse, aliquando poenituit, tacuisse nunquam>»,

cfr. in A. Henkel, A. Schone, Emblemata.

Handbuch zur Sinnbildkunst des XVI. und XVII. Jahrhunderts, Stutt-

gart, 1996, coll. 1336 e 1823). 25. 2, 1, 1-3.

26. 174e sgg.; 220c-d; cfr. A.J. Festugière, Contemplation et vie con-

templative selon Platon, Paris, 1975, pp. 69-73. 27. Fig. 5 e Fig. 6: A.F. Gori, Museum Florentinum ... Gemmae anti-

quae ex thesauro Mediceo et privatorum dactyliothecis, Florentiae, 1731 1732, vol. I, tav. LVIII, 4-5. Per i numerosi esempi, riguardanti la statuaria, la glittica, la monetazione: Tran Tam Tinh, B. Jaeger, S. Poulin, «Harpokrates», in LIMC, vol. IV, tomo 1, pp. 415-45; vol. IV, tomo II, pp. 242-51; Silloge gemmarum gnosticarum, a cura di A.

Mastrocinque, Roma, 2003, pp. 148-75. La prima erudita raccolta iconografica, testuale e antiquariale inerente il dio egizio si deve a G. Cuperus (Gijsbert Kuiper), Harpocrates, sive explicatio imagunculae argenteae perantiquae, quae in figuram Harpocratis formata representat solem, Trajecti ad Rhenum, 1687.

28. Cit., dall’edizione del 1574: la Fig. 7 riproduce il Symb. LXIV

con Arpocrate mistagogo, che conduce alla conoscenza di se stessi con la mente pura e lontana dalle passioni; il motto dice: «Silentio Deum cola» («Adora Dio in silenzio»); nel Symb. CXLIII è rappresentato Mercurio quale divinus amator, che contempla in silenzio i misteri divini; il motto dice: «Fert tacitus, vivit, vincit divinus amator» («Il divino amante soffre in silenzio, vive, vince»). Si veda E.S. Watson, Achille Bocchi, cit., pp. 140-43.

29. Alla p. 225: qui il motto «Stultitiam celare difficile» e l’immagine (a sinistra Apollo, a destra Arpocrate su un piedistallo e al centro lo stultus) insegnano quanto sia arduo nascon dere la pazzia anche tacendo. 30. Index, Embl.

11.

EMBLEMA

IV

1. Sallustio, Jug., 98, 6: « duces feroces quia non fugerant pro victoribus agere»; cfr. Virgilio, Aen., 10, 610: «animusque ferox patiensque pericli ». 2. Cicerone, Epist. ad fam., 12, 25, 5: «Antonii reditus a Brundisio

pestis patriae fuisset». A. 1531, v. 2: « patria». 3. Loc. cit.; Cicerone, Sest., 14, 33; cfr. Thuilius, pp. 170-71.

4. 8, 55: «Iugo subdidit eos [scil. leoni) primusque Romae ad cur-

rum iunxit M. Antonius, et quidem civili bello, cum dimicatum es-

set in Pharsaliis campis, non sine ostento quodam temporum, generosos spiritus iugum subire illo prodigio significante ». 5. Inst., 8, 6, 30 e 12, 11, 28; alte lodi in Plinio, 7, 117: «Salve primus omnium parens patriae appellate, primus in toga triumphum linguaeque lauream merite et facundiae Latiarumque litterarum

parens».

6. Plutarco, Cic., 48-49, e Ant., 19-20.

7. 1, 17 e 18; Sbordone, pp. 49-51; C. Leemans, Horapollinis Niloi

Hieroglyphica, cit., pp. 215-19;

cfr. Valeriano,

con peculiare riferimento ad Antonio:

Lib. I: «de leone»,

«Homo

qui vel suam vel

alienam ferocitatem edomuerit»; A. Henkel, A. Schòne, Emblemata, cit., coll. 370-96; sul geroglifico dell’imperatore Massimiliano,

realizzato da Durer nel 1515, dove il leone allude alla sua « magnanimità, potenza e coraggio»: L. Volkmann, B:ilder Schriften, cit., pp. 86-92; E. Panofsky, La vita e le opere di A. Diirer, Milano, 1967, pp. 230-31; ma ora si veda il nuovo e fondamentale catalogo di G.M. Fara, Albrecht Direr. Originali, copie, derivazioni (Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi. Inventario generale delle stampe, I), Firenze, 2007, pp. 369-72 e 438-45. Altre osservazioni sui leoni di questo Emblema in Thuilius, pp. 443 -45. 8. Per le fonti e le oscillazioni di significato sul tema leonino, oltre al citato Valeriano e al Ricciardi (vol. II, ff. 341 v- 346r): S. Bochart,

Hierozoicon, Lipsiae, 1793-1796, vol. II, pp. 18-91 (con speciale attenzione alle Scritture); H.M. Jackson, The Lion Becomes Man. The

Gnostic Leontomorphic Creator and the Platonic Tradition, Atlanta (Geor-

gia), 1985 (per la tradizione gnostica, platonica e neoplatonica); il leone è attributo della «ymago fortitudinis» nella moralizzazione cristiana medioevale: H. Liebeschùutz, Fulgentius Metaforalis. Ein Ber-

trag zur Geschichte der antiken Mythologie im Mittelalter, Leipzig, 1926,

p. 53. 9. Il segno è l’ultimo in basso a destra: Colonna, vol. II, p. 624; altri significati in Valeriano, Lib. XLVIII: «de iugo ». 10. Cfr. G. Carandente, ] trionfi nel primo Rinascimento, Torino, 1963,

NOTE

587

pp-. 62, 92, tav. XXV; T. De Marinis, Le nozze di Costanzo Sforza e Ca-

milla d'Aragona celebrate a Pesaro nel maggio 14 75, Firenze, 1946, pp. 38

sgg., figg. 23 e 26; D. Blume, Regenten des Himmels. Astrologische Bilder in Mittelalter und Renaissance, Berlin, 2000, pp. 481, 483.

11. Tale simbolismo, discusso da Macrobio, Sat., 1, 17, 16 e 23, ver-

rà ripreso nel Cinquecento anche da Valeriano, Lib. XLII: « pestilentia», e in Ricciardi, vol. II, f. 178v; cfr. in Thuilius, pp. 170-71. I dardi come immagini dei raggi solari sono comunque attributi precipui di Apollo/Febo/Sole; si tratta di un topos letterario e figurativo, basti Ovidio, Met., 1, 441 sgg.: «deus arquitenens» (si veda in P. Ovidius Naso, Metamorphosen, commento di F. Bomer, Heidelberg, 1969, 3 voll., pp. 139-40); Macrobio, Sat., 1, 17, 11 sgg. («per

sagittas [Apollinis] intelligatur vis emissa radiorum>»; «Apollinis simulacra manu dextera Gratias gestant, arcum cum sagittis sinistra»); Myth. Vat. III, 8, 1-7 [Bode], pp. 200-203, in particolare 8, 4, p. 201, 35: « Dicitur et auricomus a splendore aureo; itemque sagittarius a radiorum iaculis, quibus omnem penetrat mundum>»; cfr. Giraldi, vol. I, pp. 219 sgg. 12. IL, 1, 42 sgg.; cfr. Macrobio, Sat., 1, 17, 13-17: Apollo «iactu radiorum non numquam pestiferum virus immittit». 13. Fig. 2: A. 1550, p. 36; Fig. 3: Thuilius, p. 167; Index, Embl. 29.

EMBLEMA

V

]. Epiteto di Enea in Virgilio, Aen., 6, 403:

Thuilius, pp. 173-74. 2. Nonio

Marcello, 45

[Lindsay]:

« Pietate insigni»; cfr.

«Investes dicuntur

impuberes,

quibus propter teneram aetatem nulla pars corporis pilat ... sed melius intellegi potest investes appellatos quasi in Vesta, id est in pudicitia et in castitate ». 3. Cicerone, Nat. deor., 2, 124 e 129: «iam gallinae avesque reliquie ... e quibus pullos cum excuderunt ita tuentur utet pinnis foveant ne

frigore laedantur»; Ovidio, Fast., 3, 218: «Inque sinu natos, pignora cara, tenent».

4. 2, 58; Sbordone, pp. 171-72; C. Leemans, Horapollinis Niloi Hieroglyphica, cit., pp. 350-51; lo stesso significato, ma riferito all’upupa, in 1, 55; Sbordone, pp. 114-16. Quest’ultimo motivo è presente anche nel Physiologus, 8, a cura di F. Sbordone, Mediolani, 1936,

pp. 28-30.

5. Per la documentazione a riguardo: D.W. Thompson, A Glossary of Greek Birds, Oxford, 1936, p. 223.

6. Av., 1353-1357.

588

NOTE

7. Alc. I, 135e. 8. Hist. an., 615b.

9. Alcib., 153e. 10. 10, 63. 11. Nat. an., 3, 23; 10, 16.

12.55,6; cfr. M. Salanitro, L'’uccello pio. Petronio, 55, 6, v. 4, in «Rivista

di Filologia e di Istruzione Classica», 124, 1996, pp. 300-305, dove si

discute anche delle testurmonianze numismatiche sulla pietas della cicogna, in particolare delle monete di Adriano con la scritta « PIETAS

AUGUSTA» e l’immagine della cicogna sul verso come attributo del-

la dea Pietas. La cicogna è simbolo della Pietas anche nella monetazione repubblicana; cfr. A. Agustin, Dialoghi intorno alle medaglie, in-

scrittioni et altre antichita tradotti ... da Dionigi Ottauiano Sada €& dal me-

desimo accresciuti, Roma, Guglielmo Faciotto, 1592, pp. 32-33 (Fig. 1): «Per l’altra Pietà, con la quale amiamo il padre e l’altre persone Quinto Metello Pio pose nelle sue medaglie una cicogna appresso al viso di una donna»; sul rapporto fra la monetazione classica e gli Emblemi alciatei si veda la Nota sulle monete alle pp. 55 sgg. 13. Cfr. S. Bochart, Hierozoicon, cit., vol. III, pp. 85-87. 14. Hom. in Hex., 8, 5.

15. In Migne, PG, 95, col. 1577. 16. 12, 7, 17. 17. Valeriano, Lib. XVII: «pietas »; Ricciardi, £. 1537; A. Henkel, A. Schéòne, Emblemata, cit., col. 827; G. Arbizzoni, La pietas erga parentes negli emblemi (e dintorni), in Pietas e allattamento filiale. La vicenda,

l’exemplum, l’iconografia, a cura di R. Raffaelli, R.M. Danese, S. Lanciotti, Urbino, 1997, pp. 247 -69. 18. F. Vandeweghe,

B. Op de Beeck, Drukkersmerken uit de 15 de en

de l6de eeuw binnen de grenzen van het huidige Belgiè / Marques typo-

graphiques employées aux XVe et XVIe siècles dans les limites géographiques de la Belgique actuelle, Nieuwkoop,

1993, pp. 169-72.

19. In Ph. Renouard, Les margues typographiques parisiennes des XVe et XVIe siècles, Paris, 1926, pp. 264-67, n. 831 (Joannis Chrysostomi Homiliae, 1550). 20. Fig. 3: A. 1550, p. 37; Fig. 4: Thuilius, p. 172; cfr. l’edizione di Lione, 1556 (Stockamer), p. 14.

EMBLEMA

VI

1. «Has» in A. 1531 e A. 1534, ma corretto in «Haec» in A. 1550. 2. Seneca, Thyes., 229: «reges sceptra Tantalici regunt».

NOTE

589

3. In Opera omnia, cit., vol. I, col. 146: «Principio rerum non divina

iussione, sed ex populi consensu reges assumpti sunt».

4. 1, 8-9; Sbordone, pp. 16-19; C. Leemans, Horapollinis Niloi Hie-

roglyphica, cit., pp. 154-61.

5. Nat. an., 3, 9. 6. Bruta anim., 989a.

7. 27, ed. Sbordone, cit., p. 91. 8. Miscellanea, in Opera omnia, cit., cap. LxVII, f. G5v: «Cornicem vi-

deri apud veteres concordiae symbolum>». 9. I, 273, ff. 40v-417. 10. Lectionum antiquarium libri triginta, cit., col. 1368. L’opera di Rodigino (pseudonimo di Ludovico Maria Ricchieri: 1469-1525), molto diffusa e considerata fin dal suo apparire, consiste in un vasto compendio del sapere umanistico, che tratta di filologia, di storia, di antiquaria, di filosofia naturale, ecc.: M. Marangoni, L’armo-

nia del sapere: è « Lectionum antiquarum libri » di Celio Rodigino, Vene-

zia, 1997.

11. Genialium dierum libri sex, cit., vol. I, p. 265. 12. Lib. XX: «concordia». 13. Miscellanea, in Opera omnia, cit., cap. LxVII, f. G5u: «Cornicem

videri apud veteres concordiae symbolum ... In nomismatis aureis duobus, Faustinae Augustae manifestam prorsus imagunculam, nuper mihi Laurentius Medices ostendit cum titulo ipso concordiae ». 14. H. Mattingly et al., Coins of the Roman Empire in the British Museum, London,

1923-1962, vol. IV, tav. 23, n. 11, p. 165.

15. Symbolorum et Emblematum ex volatilibus et insectis desumptorum

centuria tertia collecta, Norimbergae, Paulus Kaufmann,

57: «Concordes vivite ». 16. Index, Embl. 38. 17. Latini sermonis observationis eloquentia fortitudine tuerpiae, Joannes Steelsius, 1534: sul frontespizio neunt Antuerpiae in aedibus Ioannis Steelsii»; sul carta: « Typis Ilan. Graphaei », sul verso compare la ca (Fig. 3). Sul recto del frontespizio la data: « 1534 tembris».

Cfr. F. Vandeweghe,

B. Op

1596, Embl.

praestantior, Ansi legge: « Vaerecto dell’ultima marca tipografipridie Idis Sep-

de Beeck, Drukkersmerhken,

cit., p. 68 (Nijhoff - Kronenberg 1015; KB LP 5973A).

18. H. Green, Andrea Alciati, cit., pp. 122-24; M. Praz, Studies in Seventeenth - Century Imagery, cit., p. 249; A. Adams, S. Rawles, A. Saun-

ders, A Bibliograph»y, cit., pp. 8-11.

19. Colonna, vol. I, p. 244; vol. II, pp. 255 e 620.

20. F. Vandeweghe, B. Op de Beeck, Drukkersmerken, cit., pp. 68

Sgg., 223-28.

590

NOTE

21. Fig. 4: A. 1550, p. 45; Fig. 5: Thuilius, p. 207; Index, Embl. 38.

22. Le Illustrium imagines di Andrea Fulvio, stampate a Roma nel 1517, non si possono considerare un'’opera di specifico carattere numismatico, in quanto si limitano a raccogliere delle brevi biografie di importanti personaggi dell’antichità (soprattutto imperatori romani e loro familiari), accompagnandole con medaglioni dove compaiono i loro ritratti di profilo alla maniera delle monete

romane.

23. Cfr. J.A. Fabricius, Bibliographia antiquaria, Hamburgi et Lipsiae, 1716, p. 545; S. Pitiscus, Lexicon, cit., vol. II, pp. 658-59;J. Cunnally,

Images of the Illustrious. The Numismatic Presence in the Renaissance, Princeton, 1999, pp. 185-214; significativa l’influenza delle monete in Valeriano: S. Rolet, D 'étranger objects hiérogiyphiques. Les monnaies antiques dans les Hieroglyphica de Pierio Valeniano (1556), in Polyvalenz und Multifunktionalitàt, cit., vol. II, pp. 813-44. 24.J. Cunnally, Images of the Illustrious, cit., pp. 186 e 198. 25. Su questo aspetto: ibid., pp. 105-106, 115-16, 198-99; nelle

opere di Alciato: Parerga, 5, 14, in Opera omnia, cit., vol. II, col. 321

(noctua nelle monete ateniesi come signum della città); De verborum

significatione, ibid., vol. I, coll. 326, 425, 428; Ad titulum si certum pe-

tatur, ibid., vol. III, col. 774; In Cornelium Tacitum annotationes, ibid., vol. II, col. 555 (valore delle antiche monete d’argento). 26. De re nummaria antiquorum, in F. Argelati, De monetis Italiae, Me-

diolani, 1750, vol. III, App., pp. 23-28. 27. P.É. Viard, André Alciat, cit., pp. 97, 99, 102, 173-74, 265, 270, 273;J. Cunnally, Images of the Mustrious, cit., pp. 131-41, 186-87.

28. Ibid., p. 120: «Sebastiano Erizzo’s 1559 Discorso sopra le medaglie follows an Alciati-like ‘“emblematic’ structure with its wooodcut il-

lustrations of 450 reverses of Roman coins, each accompanied by a paragraph or two explaining the significance of the inscriptions and images». EMBLEMA

VII

1. A. 1531: «invictas» . 2. Ovidio, Met., 7, 523 e 15, 626: « Dira lues». 3. Properzio, 2, 12, 9: «hamatis manus est armata sagittis»; 2,_12: 12: «nec quisquam ex illo vulnere sanus abit»; 3, 22, 22: «victrices

temperat ira manus». In A. 1531 «manus» senza interrogativo. 4. La bellezza è precipua qualità di Eros in quanto principio cosmogonico: «il più bello degli dèi immortali » (Esiodo, Theog., 120;

Platone,

Symp.,

195a-b; Aristotele, Met., 984b

29); cfr. S. Fasce,

NOTE

591

Eros. La figura e il culto, Genova, 1977, pp. 165-73. Si vedano gli Emblemi

LXXIII,

LXXVI,

XCVII

e relativi commenti.

Nell’epi-

gramma del sofista e poeta Meleagro (Anth. Gr., 12, 56) si canta la statua di Eros, «il più bello dei numi», scolpita da Prassitele. Su Eros cosmogonico: G.F. Schoemann, De Cupidine cosmogonico, in Opuscula academica, Berolini, 1857, vol. II, pp. 60-92, e l’eccellente

studio, anche per l’accurata bibliografia, di C. Cupane, Eros basileus. La figura di Eros nel romanzo bizantino d'amore, in «Atti della Accademia di Scienze Lettere ed Arti di Palermo», 33/2 fasc. 2, 1974,

pp. 243-97.

5. La passione amorosa è un eccesso irrefrenabile che può sconvolgere chiunque tocchi: basti ricordare il proverbiale «res immo-

derata cupido est» di Ovidio (Pont., 4, 15, 31) o, per il Medioevo, la

definizione nel De amore, l, 1, di Andrea Capellano: «Amor est passio ... procedens ex visione et immoderata cogitatione» [Trojel]. 6. Epfigrammata, p. 62 (Anth. Gr., 9, 221); cfr. Mignault, pp. 368-71. 7. Sulla dipendenza, diretta e indiretta, degli Emblemi alciatei da gemme incise si veda più avanti in fine al commento dell’Emble-

ma XLI.

8. N. Blanc, F. Gury, «Eros/Amor,

Cupido», in LIMC, vol. IIl, to-

mo I, pp. 995 -98; vol. III, tomo II, p. 659, n. 879; cfr. pp. 701 sgg.

9. Roma, 1669, tav. 55. Sotto l’immagine corre la scritta in greco con il nome dell’artista, Plutarco, che la realizzò.

10. A.F. Goriì, Museum Florentinum, cit., vol. II, tav. I, 1; L. Tondo,

F.M. Vanni, Le gemme dei Medici e dei Lorena nel Museo Archeologico di

Firenze, Firenze, 1990, n. 34, p. 63; cfr. Amore che cavalca un leone a faccia umana, ametista del II secolo: iid., n. 18, pp. 166 e 183;

Afrodite seduta su un leone tirato a guinzaglio da Eros: in U. Pannuti, Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Catalogo della collezione gluittica, Roma,

1983, vol. IL n. 111, p. 145.

11. Dial. deor., 12, 2.

12. 1, 2, 25 sgg. 13. Per le fonti antiche e medioevali del tema: Colonna, vol. I, pp. 283 sgg., 326 sgg.; vol. II, pp. 792-808, 950 sgg., 1032, 1121. 14. Ibid., vol. I, p. 285; vol. II, p. 624. 15. Ibid., vol. I, p. 346. 16. Ibid., vol. I, p. 400.

17. Non in altre: Fig. 3 da A. 1550, p. 115; Fig. 4 da Thuilius, p. 441. 18. Leg., 731e; Teocrito, 10, 19-20. 19. Cfr. il saggio su Cupido cieco di E. Panofsky, in Studies in Iconology, New York, 1967; trad. it. Studi di iconologia, Torino,

1975, pp.

135-83; C.D. Gilbert, Blind Cupid, in «Journal of the Warburg and

592

NOTE

Courtauld Institutes», 33, 1970, pp. 304-305; Giraldi (vol. I, pp. 393. 95) dedica alcune pagine al tema degli attributi di Cupido e alla sua ‘cecità’. Sul motivo iconografico rinascimentale del trionfo d’Amore sul carro: G. Carandente, /] trionfi, cit., pp. 40 sgg.

20. Cfr. Emblemi LXXIII, LXXVI, XCVII.

2]. Sulla doppiezza di Cupido bendato: E. Panofsky, Studi di icono-

logia, cit., pp. 172-73.

EMBLEMA

VIII

1. Stazio, Theb., 2, 26-27: «Illos ut caeco recubans in limine sensit / Cerberus»; Seneca, Phaedr., 120 e 649: «caeca domo».

2. Pseudo Virgilio, Aet., 334 e 609: «obscura caligine ». 3. Ovidio, Ars, 2, 23-24: « Dedalus, ut clausit conceptum crimine matris / semibovemque virum semivirumque bovem»; cfr., sotto, la nota 13.

4. Alla p. 135 [Lindsay]: «Minotauri effigies inter signa militaria est, quod non minus occulta esse debet consilia ducum, quam fuit do-

micilium eius labyrinthus». Anche Plinio,

10, 16, menziona il Mi-

notauro tra le varie insegne zoologiche delle legioni romane,; cfr.

Mignault, pp. 68-70; Thuilius, pp. 72-74. Il motto e il soggetto so-

no ripresi in Valeriano, Lib. III: «occultum consilium ». 5. In Codice topografico della città di Roma, a cura di R. Valentini e G. Zucchetti, Roma, 1946, pp. 77-110; p. 104: « Habeat et in diarhodino laberinthum fabrefactum ex auro et margaritis, in quo sit Minotaurus digitum ad os tenens, ex smaragdo factus, quia, sicut non valet quis laberinthum scrutare, ita non debet consilium dominatoris propalare ».

6. 3, 6, 8-10: «Sed cautelae caput est, ut, ad quae loca vel quibus iti-

neribus sit profecturus exercitus, ignoretur; tutissimum namque in expeditionibus creditur facienda nesciri. Ob hoc veteres Minotauri signum in legionibus habuerunt, ut, quemadmodum ille in intimo et secretissimo labyrintho abditus perhibetur, ita ducis consilium sempre esset occultum. Securum iter agitur quod agendum hostes minime suspicantur». 7. Da Paolo-Festo, si veda, sopra, la nota 4.

8. Seconda metà del XV secolo, dedicato a Sigismondo Pandolfo

Malatesta: Bayerische Staatsbibliothek, Monaco di Baviera, cod. lat.

23467, f. 158v; cfr. H. Kern, Labyrinthe, Munchen,

1981; trad. it.

Labirinti, Milano, 1981, p. 232.

9. 3,6,9.

10. Diodoro Siculo, 4, 77; Apollodoro, 3, 1, 4; Igino, Fab., 40; cfr. S.

NOTE

593

Woodford, «Minotauros», in LIMC, vol. VI, tomo 1, pp. 574-81; vol. VI, tomo II, pp. 312-25. ll. Etym., 11, 3, 9: «taurinum caput aut corpus, ut ex Pasiphae me-

morant genitum Minotaurum».

12. Da H. Rern, Labirinti, cit., p. 143 (Cod. Guelf. 1 Gudianus latinus 2°, f. 19v, Herzog-August-Bibliothek, Wolfenbuttel); cfr. anche le pp. 137-44, 152, 154, 157. 13. Ars, 2, 24, citato sopra, alla nota 3; passo ripreso in Isidoro, Etym., 11, 3, 38.

14. Ad esempio si ricorda la raffinata miniatura nelle Vitae di Plu-

tarco

(Firenze,

Biblioteca Medicea

Laurenziana,

Pluteo 65.26, c.

27; ms. del 1463 ca), la xilografia (Fig. 2) dell’incipit della Vita di Teseo (in Plutarco,

Vitae virorum illustrium, Venetiis, Giovanni Ra-

gazzo, 1496, vol. I, f. 17) e una gemma italiana (Fig. 3) del Cinquecento (dal secondo volume delle Gemme antiche figurate di Leonardo Agostini, cit., tav. 131). 15. Nel mito antico si narra di Centauri cornuti ma senza alcun nesso con il Minotauro: si tratta dei Cerasti descritti da Ovidio

(Met., 10, 222-237) e da Nonno di Panopoli (14, 193-202): erano una popolazione di Cipro, particolarmente violenta e truce, di stirpe umana,

ma fornita di corna sulla fronte, venne

mutata

in buoi da Afrodite perché fosse punita dei sacrifici umani cui era dedita.

16. Venetia, Francesco de Franceschi, 1584, pp. 383-87. 17. Cfr. l’Emblema IIlI. 18. Fig. 4: A. 1550, p. 18.

19. Fig. 5: Thuilius, p. 71.

20. 40, 18, 1-3. L’'«Aquila» era lo stendardo più importante della

legione romana: Plinio, 10, 16.

EMBLEMA

IX

1. Da questa vignetta del 1534 in poi compare sul sepolcro l’epi-

grafe funeraria «D [iis] M [anibus)] AIACIS» ; cfr. Emblema LXXXII e Index, Embl. 48 e 33. Sulla dedica D M: Emblema CXII, nota 6.

2. A. 1531: «Aiacis tumulum ego perluo virtus». Al v. 4 «caussa» per «causa» (A. 1531). 3. Cfr. Ovidio, Met., 13, 534: «albentes lacerata comas»; Ausonio, Epit. Aiaci, XII, 3, 3 [Green]: «incomptas lacerata comas», con ri-

ferimento alla Virtus che si strappa i capelli sul sepolcro di Aiace. 4. Epigrammata, p. 279 (Anth. Gr., 7, 145).

594

NOTE

5. Od., 11, 541-567; il motivo venne drammaticamente rappresentato nell’Aiace (442-446 e 933-936) di Sofocle, dove l’eroe impazzisce e si suicida. Îl tema fu svolto anche nel perduto dramma /I giudizio delle armi di Eschilo; per altre fonti cfr. Ch. Vellay, Les lé-

gendes du cycle troyen, Monaco, 1957, pp. 272-'75.

6. Met., 13, 1-398; cfr. Apollodoro, Epit., 5, 6-7; Igino, Fab., 107:

«Armorum

iudicium».

Sulle leggende dell’episodio: Ch. Vellay,

Les légendes, cit., pp. 272-"75.

7. XII, 3 [Green]: «Aiacis tumulo pariter tegor obruta Virtus, / inla-

crimans bustis funeris ipsa mei, / incomptas lacerata comas, quod

pravus Atrides / cedere me instructis compulit insidiis. / Tam dabo

purpureum claro de sanguine florem, / testantem gemitu crimina

indicii».

8. Si pensi agli affreschi (ca 1550) del Primaticcio nella Galleria di Ulissea Fontainebleau, oppure a quelli (1555) di Giovanni Battista Castello detto il Bergamasco, già nella villa Lanzi di Gorlago a Bergamo e oggi nella Sala del Palazzo della Prefettura. Cfr. M. Rolandi, Il mito di Ulisse nella pittura a fresco del Cinquecento italiano, Milano,

1995, pp. 267-79; R.M. Brown, The Art of Suicide, London, 2001, pp. 25-31.

9. Epit., 12, 3, 3-4 [(Green]: «quod pravus Atrides / cedere me in-

structis compulit insidiis». 10. Fab., 107. 11. Omero, Od., 11, 559-560.

12. De houtsneden van Mansion’'s Quide Moralisé, Bruges 1484, a cura di M.D. Henkel, Amsterdam, 1922, tav. XV, p. 38.

13. Una donna che si strazia i capelli con forte caratterizzazione drammatica compare in un’incisione di M. Raimondi: cfr. The Ill'ustrated Bartsch, vol. XXVII, tomo II, New York, 1978, n. 437 (329). 14. Particolare che non ricorrerà successivamente: Fig. 3 (A. 1550, p. 56), Fig. 4 (Thuilius, p. 239); Index, Embl. 48.

15. Sul rapporto tra gli Emblemi alciatei e l’antiquaria, cfr. l’Introduzione, nota 36 e l’Emblema LXXXII. Sui disegni di sepolcri e cippi funerari nel ’400: B. Degenhart, A. Schmitt, Corpus der Italienischen Zeichnungen 1300- 1450. Jacopo Bellini, Berlin, 1990, vol. II,

tomo v, pp. 192-213; vol. II, tomo vI, pp. 320-22. 16. Colonna, vol. I, pp. 243-71. EMBLEMA

Xx

1. Seguo qui A. 1531, in A. 1534: «fuit»; Index, Embl. 192. 2. Giovenale, 14, 47: «Maxima debetur puero reverentia».

NOTE

595

3. La leggenda dell’accoppiamento della murena con i rettili sem-

bra sia stata divulgata da Archelao (schol. Nic. Ther., 823a; cfr. Nicandro, Ther., 822-827) e confutata dal medico Andrea (schol. Nic.

Ther., 823a; Ateneo, 7, 312e). Plinio (9, 76 e 32, 14: «vulgus putat») la riporta come opinione del popolino. Documentazione in C. Leemans, Horapollinis Niloi Hieroglyphica, cit., p. 396; Sbordone, pp.

210-11. Pure Isidoro, Etym., 12, 6, 43, ne dà notizia, e scrive che i

pescatori catturano la murena richiamandola con un sibilo che imita quello del serpente con cui si accoppia. Cfr. Celio Rodigino,

Lectionum antiquarium libri triginta, cit., coll. 251 -52; Ricciardi, vol.

I, £. 50v. 4. 1, 55 e 9, 66. 5. 7, 2. 6.5,7.

7. Su questo tema ed esempi paralleli: Thuilius, pp. 818-21. 8. 2, 111; Sbordone, pp. 210-11.

9. Fig. 1: A. 1550, p. 206; Fig. 2: Thuilius, p. 817; Index, Embl. 192.

EMBLEMA

XI

1. Plinio, 9, 24: «Delphinus non homini tantum amicum animal, verum et musicae arti, mulcetur symphoniae cantu, et praecipue hydrauli sono»;

Solino,

12, 3: «Delphini

... mulcentur

musica,

gaudent cantibus tibiarum, ubicumque symphonia est gregibus adventat». In A. 1531, v. 2: «unda cerula».

2. Ne frena l’ardire e la velocità come se siì trattasse di un cavallo

(Mignault, p. 324: «Frenat et ora sono: ab equis translatio in verbo,

frenat, pro eo quod est, retinet, sistit, regit»). Nella tradizione zoo-

logica classica e medioevale i delfini erano considerati i più veloci

degli animali: Aristotele, Hist. an., 631a-b; Eliano, Nat. an., 12, 12; Plinio, 9, 20: «Velocissimum omnium animalium, non solum marinorum, est delphinus»; Solino, 12, 3; Isidoro, Etym., 12,6, 11.

3. Ma arriveranno a sei con le successive edizioni: elenco in Mignault, p. 816. 4. Epigrammata, p. 83 (Anth. Gr., 9, 308 e 16, 276). 5. Erodoto, 1, 23-24; Plutarco, Sept. sap. conv., 18, 161a-162b; Pausania, 1, 44, 8 e 3, 25, 7; Eliano, Nat. an., 2, 6 e 12, 45; Cicerone, Tusc., 2, 67; Virgilio, Ecl., 8, 56 (e Servio ad loc.); Ovidio, Fast., 2, 82 -84; Plinio, 9, 28; Aulo Gellio, 16, 19; Igino, Astr., 2, 17, e Fab., 194. 6. Plutarco, Sept. sap. conv., 19, 162e-f; Plinio, 9, 24 e 28; Marziano

596 Capella,

NOTE 906-908;

e soprattutto

Eliano,

Nat.

an.,

12, 45, dove

il

delfino viene glorificato in quanto « amante del canto e della musica», e per esso Arione scrive un inno di ringraziamento a Poseidone. 7. 1, 24, 8; cfr. Anth. Gr., 16, 276; Filostrato, Im., 1, 19.

8. G.F. Hill, A Corpus of Italian medals of the Renaissance before Cellini, London, 1930, n. 417. 9. 2: «Quae homines arant, navigant,

aedificant, virtuti omnia pa-

rent ... Verum enim vero is demum mihi vivere atque frui anima videtur, qui aliquo negotio intentus praeclari facinoris aut artis bonae famam quaerit». 10. Aulo Gellio, 16, 19, 15: «Sed novum et mirum et pium facinus

contigit. Delphinum repente inter undas adnavisse fluitantique sese homini subdidisse » . 11. Les Emblemes d 'Alciat, cit., pp. 12-13. 12. Fig. 2: A. 1550, p. 97; Fig. 3: Thuilius, p. 385; Index, Embl. 90. 13. In P. Heitz, Basler Buchermarken, cit., p. 93, nn. 182 sgg. 14. H.A. Cahn, «Arion», in LIMC, vol. II, tomo 1, pp. 602-603; vol.

II, tomo II, pp. 434-35, nn. 2 e 7, cfr. anche A. Agustin, Dialoghi in-

torno alle medaglie, cit., pp. 146-47.

EMBLEMA

XII

1. Seguo qui A. 1531, in A. 1534: «arentum» ; Index, Embl. 160. 2. Ovidio, Her., 15, 143-144:

«invenio silvam, quae saepe cubilia

nobis / praebuit et multa texit opaca coma». 3. Al tema dell’amicizia Erasmo

(I, 1, f. 5r-v) dedica una lunga ri-

flessione, ricca di citazioni classiche e nella quale pone l’accento sui valori di comunione e condivisione connessi all’adagio «ami-

corum communia omnia». 4. Anth. Gr., 9, 231.

5.2, 16, 41: «ulmus amat vitem, vitis non deserit ulmum>»; cfr. Met.,

10, 100: « pampineae vites et amictae vitibus ulmi».

6. Carm., 62, 49 -58. 7. Inst., 8, 3, 8.

8. 1, 1-2: «Quid faciat laetas segetes, quo sidere terram / vertere,

Maecenas, ulmisque adiungere vitis / conveniat»; cfr. anche 2, 221: « laetis intexet vitibus ulmos». 9. Aen., 6, 282-284; su questo particolare della catabasi di Enea: Publius Virgilius Maro, varietate lectionis et perpetua adnotatione illustratus a C.G. Heyne, Ed. quarta. Curavit G.Ph.E. Wagner, Lipsiae -

NOTE

597

Londini, 1830 -1832, vol. IV, pp. 893-94; E. Norden, P. Vergilius Ma-

ro Aeneis Buch VI, Leipzig - Berlin, 1916, pp. 218-19. 10. In Aen., 6, 283-284:

« ULMUS

OPACA,

INGENS

distinguenda

sunt ista propter duo epitheta. Et quidam tradunt ideo in ulmo somnia inducta, quod vino gravati vana somnient et ulmus apta sit viti ». Sugli aspetti mito-simbolici dell’olmo:J. Murr, Die Pflanzenwelt in der Griechischen Mythologie, Innsbruck, 1890, pp. 26-27. 11. 2, 111: «hic pampinus induit ulmos».

12. Fig. 1: A. 1550, p. 172; Fig. 2: Thuilius, p. 676. EMBLEMA

XIII

1. Ovidio, Tnst., 5, 6, 26: « dixisse in Pyladen improba verba putas?».

2. Su personalità, culto e immagini della dea: O. Rossbach, « Nemesis», in W.H. Roscher, Lexikon der Gnechischen und Ròomischen Mythologie, Leipzig, 1884-1937, vol. III, tomo I, coll. 118-62; P. Karanastassi, F. Rausa, «Nemesis», in LIMC, vol. VI, tomo I, pp. 733-

73; vol. VI, tomo 11, pp. 431-50; nel ’500 degna di nota la silloge di testimonianze già in Giraldi (vol. I, pp. 446-51), come pure in Era-

smo all’adagio «Adrastia Nemesis. Rhamnusia Nemesis»

(II, 539,

f. 160r-v); cfr. anche Mignault, pp. 128-32; Thuilius, pp. 157-61.

3. Epigrammata, p. 365 (Anth. Gr., 16, 223, cfr. 16, 224: citati in Erasmo, II, 539, f. 1607).

4. Il richiamo etico di «neve improba verba loquaris » sembra echeg-

giare Platone (Leg., 717a-e), quando scrive di Nemesis, messagge-

ra della giustizia e guardiana di chi manca proprio nelle parole, usandole vanamente. 5. In merito a questa traduzione e al significato di «cubitus», sì veda Valeriano, Lib. XXXVI: «cubitus » e «temperantia». Sul «cubitus » quale unità di misura scrive Alciato nel De verborum si gnificatione, in Opera omnia, cit., vol. I, col. 321: «cubitus sesquipedalis est».

6. Fig. 1: Thuilius, p. 157; cfr. Fig. 2: A. 1550, p. 34; Index, Embl. 27; J- Manning, A Bibliographical Approach to the Illustrations in SixteenthCentury Editions of Alciato’s Emblemata, in Andrea Alciato and the Em-

blem Tradition. Essays in Honour of Virginia Woods Callahan, a cura di P.M. Daly, New York, 1988, pp. 144-46. 7. 14, 11, 25-26: «Haec et huius modi quaedam innumerabilia ul-

trix facinorum impiorum bonorumque praemiatrix aliquotiens operatur Adrastia ... ius quoddam sublime numinis efficacis ... Haec ut regina causarum, et arbitra rerum ac disceptatrix, urnam sortium temperat, accidentium vices alternans voluntatumque nostrarum exorsa interdum alio quam quo contendebant exitu termi-

598

NOTE

nans multiplices actus permutando convolvit. Fademque necessi-

tatis insolubili retinaculo mortalitatis vinciens fastus, tumentes in

cassum, et incrementorum detrimentorumque momenta versabi-

lis librans, ut novit, nunc erectas eminentium cervices opprimit et enervat, nunc bonos ab imo suscitans ad bene vivendum extollit.

Pinnasautem ideo illi fabulosa vetustas aptavit, ut adesse velocitate volucri cunctis existimetur, et praetendere gubernaculum dedit, eique subdidit rotam, ut universitatem regere per elementa discurrens omnia ignoretur». 8. Cfr. P. Karanastassi, F. Rausa, «Nemesis», cit. 9. Pausania, 1, 33, 3; per luoghi paralleli: ].G. Frazer, Pausania s Description of Greece, London, 1913, vol. II, pp. 455 -58.

10. Su questa raffinata incisione a bulino e le sue fonti letterarie si veda il catalogo di G.M. Fara, Albrecht Direr, cit., pp. 133-35. 11. L.-C. Silvestre, Marques typographiques, Paris, 1867, nn. 599, 740742, 821; pp. 328-29, 412-15, 466-67. 12. V. 13: P.C. van der Horst, Les vers d’or pythagoriciens, Leiden, 1932, p. 11; J-C. Thom, The Pythagorean Golden Verses. With Introduction and Commentary, Leiden, 1995, pp. 95, 132-38; Giraldi, vol II, pp. 465-503. 13. Ammiano Marcellino, 14, 11, 25-26: «Iustitiae filiam ... regina causarum et arbitra rerum»; cfr. in W.H. Roscher, Lexikon, cit., e

in LIMC. 14. Pythagorae Philosophi Aurea verba, in Opera omnia, cit., vol. II, pp.

1978-79 (la sentenza in questione viene tradotta: «Iustitiam exer-

ce, verbo simul et opere»); per la tradizione manoscritta: Marsilio Ficino e il ritorno di Platone, cit., nn. 22, 32, 35, 37. Cfr. Giraldi, vol. II, pp. 501 -503, dove si riportano le opinioni di Plutarco in merito.

EMBLEMA

XIV

1. Ovidio, Trist., 3, 3, 62: «Samii sunt rata dicta senis»; Met., 15,60: «Vir Samius». 2. Quintiliano, Decl. maior., 15, 9, 26: «cotidie poscit ultro rationem in dies dimensus». 3. Vit. Pyth., 82-86; cfr. Giamblico, Protr., 21; Porfirio, Vit. Pyth., 41 42; Diogene Laerzio, 8, 16-18 e 34-35 (si vedano le delucidazioni di A. Delatte, La vie de Pythagore, cit., pp. 117-21, 129-33, 186-87,

237-39); Ateneo, 10, 452d-e; Suda, s.v. T1uBay6pag; sugli acusmi e i simboli pitagorici: Pitagorici. Testimonianze e frammenti, a cura di M. Timpanaro Cardini, Firenze, 1958-1964, vol. III, pp. 240-71; A.

Delatte, Etudes sur la litterature pythagoricienne, Paris, 1915, pp. 269-

NOTE

599

312; W. Burkert, Lore and Science, cit., pp. 166-217; cfr. anche J.C. Thom, The Pythagorean Golden Verses, cit., pp. 59-92. Certi precetti erano ben presenti presso i Romani: Plutarco, Num., 14; Quaest. conv., 72'7c; Quaest. Rom., 28l1a, 290e. 4. 8, 18. 5. Una choenix (misura attica) corrispondeva a un ottavo del modius (una capacità di circa 9 litri), la principale misura romana di aridi:

Eliano, Var. hist., 1, 26; Suda, s.v. TIuB8ayo6pas; Isidoro, Etym., 16, 26, 6.

I dati sono raccolti da Celio Rodigino nelle sue Lectionum antiquarum libri triginta, cit., coll. 744-46 (Lib. XVI, cap. xvII); ma anche

coll. 891 -93 (Lib. XIX, cap. vII).

6. Symbola Pythagorae Philosophi, in Opera omnia, cit., vol. II, p. 1979: la sentenza in questione, per probabile equivalenza proverbiale fra chenice e moggio, viene tradotta: «Super modium ne sedeas»; cfr. Thuilius, p. xLv1l11.

7. In De hominis dignitate. Heptaplus. De ente et uno, a cura di E. Ga-

rin, Firenze, 1942, p. 126: «Consulamus et Pythagoram sapientissi-

mum, ob id praecipue sapientem, quod sapientis se dignum nomine numquam existimavit. Praecipiet primo ne super modium sedeamus, idest rationalem partem, qua anima omnia metitur, iudicat et examinat, ociosa desidia ne remittentes amittamus, sed dia-

lectica exercitatione ac regula et dirigamus assidue et excitemus». 8. Lectionum antiquarum libri triginta, cit. 9. Alle pp. 5v-6r: «Choenici ne insideas». Erasmo vi vede un monito a non perseguire oziosamente il cibo altrui ma a procurarselo attraverso l’impegno delle proprie facoltà. 10. In Symbola Pythagorae moraliter esplicata, Bononiae, Benedetto di Ettore, 1503, cc. C6v-C87,

chenice non sedendum>»

Beroaldo

traduce il motto con «super

(c. C6v), spiegandolo come un invito ad

avere cura del futuro. Su Beroaldo, l’ambiente bolognese e la sua

influenza su Alciato (che si recò a Bologna per studiare giurispru-

denza alla scuola di Carlo Ruino, vi pubblicò nel 1513 le sue Anno-

tationes sugli ultimi tre libri del codice di Giustiniano e dove venne proclamato dottore nel 1514): O. Giardini, Nuove indagini, cit., pp.

296-97; P.E. Viard, André Alciat, cit., pp. 39-41; K Giehlow, Die Hie-

roglyphenkunde, cit., pp. 129-59. 11. Vol. II, pp. 465-503: Symbolorum Pythagorae philosophi interpreta-

tio; pp. 470-71: «In choenicem non sedendum>»,

dove si ripercor-

rono le varie opinioni antiche e umanistiche sulla massima. 12. L’iconografia dell’accidioso seduto e apatico si trova già in una illustrazione (Fig. 1) del Quadniregio di Federico Frezzi, stampato a Firenze nel 1508 da Piero Pacini: la xilografia è al f. L5v. In edizioni posteriori degli Emblemata (Fig. 2: A. 1550, p. 89; Fig. 3: Thui-

600

NOTE

lius, p. 360) compaiono due personaggi seduti, di cui uno, l’apatico, ha il capo chino, mentre l’altro pare consolarlo o richiamarlo ai suoi doveri. 13. 15-18 [Praechter]; D. Pesce, La Tavola di Cebete, Brescia, 1989

pp. 65-70. La Tabula, dopo la prima edizione del 1494, venne più volte edita in greco e in versione latina, godendo di una crescente fortuna: R. Joly, Le Tableau de Cébès et la philosophie religieuse, Bruxelles - Berchem,

1963; R. Schleier, Tabula Cebetis oder « Spiegel des

menschlichen Lebens / darin Tugent und untugent abgemalet ist». Stu-

dien zur Rezeption einer antiken Bildbeschreibung im 16. u. 17. Jh., Berlin,

1973; S. Benedetti, Itinerari di Cebete. Tradizione e ricezione della tabula in Italia dal XV al XVII secolo, Roma,

280 -320, figg. 1-7.

2001, in particolare le pp.

14. Sulla tradizione figurativa medioevale dell’immagine di un personaggio che viene preso per mano e aiutato dall’alto (da una figura celeste o virtuosa) mentre sale lungo la scala o il monte della virtù: Ch. Heck, L’échelle céleste dans l’art du Moyen Age, Paris, 1997,

pp-. 19-225, figg. 7, 8, 13, 20 sgg.; L’arte della memoria per figure con il

fac-simile dell’Ars memorandi notabilis per figuras evangelistarum (1470),

a cura di M. Gabriele, Postfazione di U. Rozzo, Trento, 2006, pp.

33-34, figg. 7 e 8.

15. La pietra o piedistallo quadrato o parallelepipedo (ma anche un soglio, una cattedra o trono di forma quadrangolare) è «sedes Sapientiae» o «sedes Virtutis», dunque immobile e saldo basa-

mento sapienziale e cosmico (Suda, s.v. Epuòv; Macrobio, Sat., 1, 19, 14-15; Cornuto, Theol. gr. comp., 23). Il motivo è ben noto nel

Rinascimento, tanto che compare nella xilografia che accompagna l’incipit del Liber de sapiente di Charles de Bouvelles, pubblicato a Parigi nel 1510 (la Sapienza è seduta sulla «sedes virtutis quadrata»), e in due altre incisioni (Symb. XI e CXXVII) delle Symbolicarum quaestionum Libri V di Achille Bocchi, cit.; cfr. M. Gabriele,

Cabbala

cristiana e miti pagani della Sala degli Elementi a Palazzo Vecchio, in L’art

de la Renaissance entre science et magie, Actes du Colloque organisé

par le Centre d’histoire de l’art de la Renaissance par Ph. Morel

(Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne), Paris, 2006, pp. 334-36. Alciato nell’ Oratio Ferrariae habita del 1543 (in Opera omnia, cit., VO!-

II, p. 548) scrive: «At Mercurium studiosorum numen cum des!gnabant, basem quadratam seu undique quatuor angulis nitentem tesseram efficiebant: hoc modo firmitatem studiorum repraesentantes, quae nullo fortunae impetu possint concuti».

16. Si vedano tutte le riproduzioni in R. Schleier, Tabula Cebetis,

cit., pp. 32-54, ‘77-108; ill. 1-9; qui ci limitiamo a una scelta signt

ficativa: Fig. 4 (Cracovia, 1519); Fig. 5 (Basilea, 1522).

17. In A. Henkel, A. Schòne, Emblemata, cit., coll. 983-87.

NOTE

601

18. Cfr. la nota 25 all’Emblema I. 19. Ch. Heck, L'échelle céleste, cit., figg. 90, 91, 100; M. Caciorgna, Il

naufragio felice, cit., pp. 196-99.

EMBLEMA

XV

1. Calpurnio Siculo, Ecl, 4, 156: «invida paupertas».

2. Cfr. Mignault, pp. 433-35; Thuilius, pp. 520 -22. Sull’immagine alciatea: L. Galactéros de Boissier, Images emblématiques de la fortune: élements d’une typologie, in L'Emblème à la Renaissance, cit., pp. 94 e 114; K Hoffmann, Alciato and the Historical Situation, in Andrea Aciato and the Emblem Tradition, cit., p. 14.

3. 7, 53 sgg.; per i luoghi paralleli: E. Courtney, A Commentary on the Satires of Juvenal, London, 1980, pp. 348 -80.

4. Colonna, vol. I, p. 133; vol. II, p. 616; K Giehlow, Die Hieroglyphenkunde, cit., p. 156; sulle valenze del motto festina tarde: Colon-

na, vol. II, pp. 615-16, 763; E. Wind, Misteri pagani, cit., pp. 122 sgg.,

133,

prossimi granchio scimento: Symbolism,

136; M. Gabriele, Festina tarde, cit.; si vedano

anche

i

Emblemi XXI e LII. Sulle diverse iconografie (tipo il e la farfalla) espressive della ‘divisa’ festina lente nel RinaW. Deonna, Tihe Crab and the Butterfly: a Study in Animal in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes »,

17, 1958, pp. 47-86, riferimenti ad Alciato alle pp. 47-48.

5. Colonna, vol. I, p. 134. 6. Per le fonti testuali e figurative in merito: Colonna, vol. II, p. 616. 7. Eutr., 1, 352, ma cfr. Babrio, 115 [Crusius]; Esopo, 351

bry].

[Cham-

8. Cfr. il commento all’Emblema XXI.

9. Phaedr., 246a-d. 10. Fig. 2: A. 1550, p. 132; cfr. Fig. 3: Thuilius, p. 520; Index, Embl.

121. 11. 18, 57 sgg.: N.M. Hàring, Alan of Lille, «De Planctu naturae », in «Studi medioevali», 19, 1978, pp. 875-79, p. 878 (18, 139-140): «Tunc Genius post vulgaris vestimenti depositionem sacerdotalis

indumenti

ornamentis

celebrioribus

honestius

infulatus»;

D.N.

Baker, The Priesthood of Genius: a Study of the Medieval Tradition, in «Speculum», 51, 1976, pp. 277-91.

12. 16255 sgg., 19304 sgg., 19411 sgg., 19435 -439 [Lecoy]; cfr. J.V. Fleming, The Roman de la Rose. A Study in Allegory and Iconograph)y,

Princeton, 1969, pp. 192 sgg., 206 sgg., figg. 36, 39;J. Chance Nitzsche, The genius Figure in Antiquity and the Middle Ages, New York -

602

NOTE

London, 1975, pp. 42-136; M. Modersohn, Natura als Gòttin im Mit-

telalter. Ikonographische Studien zu Darstellungen der personifizierten Na-

tur, Berlin, 1997, pp. 77 sgg., 86 sgg., in particolare pp. 91-125. $i

veda anche Alano di Lilla, De Planctu naturae, 18, 57-68

[Hàaring].

13. Rassegna in M. Modersohn, Natura als Gòttin, cit., ill. 28 sgg. 14. Cfr. Ch. Dempsey, Inventing the Renaissance Putto, Chapel Hill,

2001, pp.

1-14, 40-41; V. Conticelli,

«Un guardaroba...»,

cit., pp.

147 -49. Per le fonti note nel XV e nel XVI secolo: Angelo Polizia-

no, Commento inedito alle Selve di Stazio, a cura di L. Cesarini Martinelli, Firenze, 1978, pp. 143-46; Alessandro D’Alessandro, Genia-

lium dierum libri sex, cit., vol. II, pp. 437-38; Giraldi, vol. I, pp. 41922. Sulle valenze teurgiche e magiche del genio tutelare: M.].B. Allen, Ficino and the Tutelary Spirit, in Il neoplatonismo nel Rinascimento,

«Atti del Convegno Internazionale (Firenze - Roma, 1990) », a cura di P. Prini, Firenze, 1993, pp. 173-84. 15. Roma, eredi di Giovanni Gigliotti, 1593, p. 102.

16. Sulle sue diverse concezioni come sulla relazione ai concetti di ‘demone’ e di ‘angelo’ rimando ad alcuni studi fondamentali: G.

Soury, La démonologie de Plutarque, Paris, 1942; R. Schilling, s.v. «Genius», in Reallexikon fiir Antike und Christentum, Stuttgart, 1978, vol. X, pp- 52-83;J. Chance Nitzsche, Tihe genius Figure, cit.; C.S. Lewis,

Tihe Allegory of Love. A Study in Medieval Tradition, Oxford, 1951, pp.

213-20, 361-66

(Appendice

I); M. Modersohn,

Natura als Gottin,

cit., passim; sempre autorevole, anche per i testi raccolti e confrontati fra la tradizione giudaico-cristiana e quella pagana: J. Ode, Commentarius de angelis, Trajecti ad Rhenum, 1739, pp. 794-

800, 868-911.

17. Ricordo soprattutto Varrone per cui «il genio è l’anima razio-

nale di ciascuno » (trasmesso da Agostino, De civ. Dei, 7, 13: «Quid

est Genius? Deus, inquit, qui praepositus est ac vim habet omnium rerum gignendarum ... Et cum alio loco Genium dicit esse uniuscuiusque animum rationalem et ideo esse singulos singulorum, talem autem mundi animum Deum esse: ad hoc idem utique revocat, ut tamquam universalis genius ipse mundi animus esse credatur») e Marziano Capella, quando ribadisce la sua funzione di «fidatissimo tutore» che, accompagnatosi all’uomo fin dalla sua

nascita, ne custodisce l’animo e la mente,

e può essere chiamato

anche Angelo, perché ne annunzia i segreti pensieri alle potenze superiori (152-154: «ideoque dicitur Genius, quoniam, cum quis hominum genitus fuerit, mox eidem copulatur. Hic tutelator fidissimusque germanus animos omnium mentesque custodit: et quoniam cogitationum arcana superae annuntiat potestati, etiam Angelus poterit nuncupari»); cfr. Martiani Capellae De nuptiis Philolo-

giae et Mercuriìi Liber secundus, cit., pp. 83-85; I. Ramelli, in Marzia-

NOTE

603

no Capella, Le nozze di Filologia e Mercurio, Milano, 2001, pp. 804806; si veda la nota precedente. 18. 16, 156: «Hic, quem dico, privus custos, singularis praefectus,

domesticus speculator, proprius curator, intimus cognitor, adsi-

duus observator, individuus arbiter, inseparabilis testis, malorum inprobator, bonorum probator, si rite animadvertatur, sedulo cognoscatur, religiose colatur, ita ut a Socrate iustitia et innocentia

cultus est, in rebus incertis prospector, dubiis praemonitor, periculosis tutator, egenis opitulator, qui tibi queat tum insomniis,

tum signis, tum etiam fortasse coram, cum usus postulat, mala avverruncare, bona prosperare, humilia sublimare, nutantia fulcire, obscura clarare, secunda regere, adversa corrigere»; Orazio, Epist.,

2, 2, 187-189: «scit Genius, natale comes qui temperat astrum /

naturae deus humanae».

19. 3, 1-6: «Genius est deus, cuius in tutela, ut quisque natus est, vi-

vit. Hic sive quod ut genamur curat, sive quod una genitur nobiscum, sive etiam quod nos genitos suscipit ac tutatur, certe a genendo Genius appellatur ... Genius autem ita nobis adsiduus observator adpositus est, ut ne puncto quidem temporis longius abscedat, sed ab utero matris acceptos ad extremum vitae diem comitetur ... nam cum ex te tuaque amicitia honorem dignitatem decus adque praesidium, cuncta denique vitae praemia recipiam, nefas arbitror, si diem tuum, qui te mihi in hanc lucem edidit, meo illo proprio neclegentius celebravero: ille enim mihi vitam, hic vitae fructum adque orna-

mentum pepererunt». Cfr. Censorini De die natali liber ad Q. Caerel lium, a cura di C.A. Rapisarda, Bologna, 1991, pp. 118-23. 20. Dalla versione di B.M. Cagli, in Apuleio, Il demone di Socrate, Venezia, 1992, p. 55. 2]. Menzionato p. 143.

anche da Angelo Poliziano,

Commento inedito, cit.,

22. L’editio princeps non ha luogo né data [Venezia, Bernardino Vitali, 1497], la seconda edizione apparve a Bologna ancora nel 1497. 23. In Ph. Renouard, Les margques typographiques, cit., pp. 98-99, n.

324.

EMBLEMA

XVI

1. A. 1531: «rector»; Seneca, Ag., 72: «Fortuna rotat». 2. Terenzio, Haut., 1, 550.

3. A. 1531: «crine deinde capi » . 4. Alciato traduce con «pergula aperta» il termine greco npoBupov

(l’atrio, il portico adiacente alla casa) e nel De verborum significatio-

604

NOTE

ne (in Opera omnia, cit., vol. I, col. 458) osserva: «statuariorum per-

gula, in qua publice ante ianuam spectanda opera proponebantur». Si tratta della stanza espositiva di un artista, di un loggiato aperto in cui si mostravano al pubblico le opere finite, anche per ascoltare critiche e pareri dei passanti: «Apelli ... perfecta opera proponebat in pergula transeuntibus, atque ipse post tabulam latens, vitia quae notarentur auscultabat» lio in Lattanzio, De fal. rel., ], 22.

(Plinio, 35, 84); cfr. Luci-

5. Alla p. 375.

6. Anth. Gr., 16, 275; per nuovi documenti

sulla trasmissione del-

l’epigramma di Posidippo: F. Maltomini, Due testimonianze trascura-

te dell’epigramma di Posidippo sul Kairos (Plan 275; Posidippus 142 A. B.; XIX G. -P.), in «Rivista di filologia e di istruzione classica», 133,

2005, pp. 283-306.

7. Esiodo, Op., 694: «osserva le regole della natura, Kairos è fra tut-

te le cose il più bello»; sulle valenze del lemma Ka:iròs nella letteratura greca antica: R.B. Onians, Tihe Orngins of European Thought, Cambridge, 1988; trad. it. Le origini del pensiero europeo, Milano, 1998,

pp. 419-25; A. Zaccaria Ruggiu, Le forme del tempo. Aion Chronos Kairos, Padova, 2006, pp. 58 sgg.

8. Plinio, 34, 40-41, 51 e 61-67.

9. Altri due autori greci parlano della scultura lisippea: il retore Imerio (Or., 13, 1) e il bizantino Tzetze (Epist., ‘70; 95; Chil., 8, 427; 10, 264), i quali difficilmente potevano essere noti all’Alciato quando componeva il suo Emblema, perché le edizioni delle loro opere compaiono più tardi: Imerio nel XVIII secolo e Tzetze per la prima volta a Basilea nel 1546; a proposito di quest’ultima stampa, Alciato, proprio nello stesso anno, ne chiede una copia in una lettera

indirizzata a Bonifacio

Amerbach

(Bamrni, n. 137); per le

fonti citate all’epoca a proposito dell’Occasio cfr. Giraldi, vol. I, pp. 34-35; per la storia critico-archeologica della statua lisippea:

A. Zaccaria Ruggiu, Le forme del tempo, cit., pp. 74-118. 10.6, 1-4.

11. Si vedano i contributi di P. Moreno e S. Ensoli, in Lisippo. L’ar-

te e la fortuna, a cura di P. Moreno, S. Ensoli, M.E. Fittoni, F. Pirani, Milano, 1995, pp. 190-95 e 395-97; P. Moreno, « Kairos», in LIMC, vol. V, tomo I, pp. 920-26; vol. V, tomo II, pp. 597-98. 12. Poliziano, Miscellanea, in Opera omnia, cit., cap. XLIX, f. Flr-v, cita Posidippo, Callistrato e Ausonio; Erasmo, I, 670, f. 8] v: « Nosce tempus», si rifà alle considerazioni dello stesso Poliziano, e de-

scrive la statua di Lisippo.

13. 5, 8: «Cursu volucri, pendens

in novacula,

/ calvus, comosa

fronte, nudo corpore, / (quem si occuparis, teneas, elapsum se-

NOTE

605

mel / non ipse possit Iuppiter reprehendere), / occasionem rerum significat brevem. / Effectus impediret ne segnis mora, / finxere antiqui talem effigiem Temporis». 14. Epigr., XIII, 12 [Green]): « Cuius opus? Phidiae, qui signum Pallados, eius, / quique Iovem fecit, tertia palma ego sum. / Sum dea quae rara et paucis Occasio nota. / Quid rotulae insistis? Stare loco nequeo. / Quid talaria habes? Volucris sum. Mercurius quae /

et Fortuna solet, tardo ego, cum volui. / Crine tegis faciem? Cognosci nolo. Sed heus tu / occipiti calvo es? Ne tenear fugiens. / Quae tibi iuncta comes? Dicat tibi. Dic rogo quae sis. / Sum dea, cui nomen nec Cicero ipse dedit; / sum dea, quae facti non factique exigo poenas, / nempe ut paeniteat: sic Metanoea vocor. / Tu modo dic, quid agat tecum. Quandoque volavi, / haec manet: hanc retinent quos ego praeterii. / Tu quoque dum rogitas, dum percontando moraris, / elapsam dices me tibi de manibus». 15. Sulla questione della dipendenza di Ausonio da Posidippo: G.B. D’Alessio, Apollo Delio, i Cabiri Milesii e le cavalle di Tracia. Osservazioni su Callimaco frr. 114-115 Pf., in « Zeitschrift fùr Papyrologie und Epigraphik», 106, 1995, pp. 5-21, specialmente pp. 9-10. 16. Al testo di Ausonio si ispira l’affresco monocromo L’Occasione perduta della scuola di Mantegna (fine del XV secolo; Palazzo Ducale, Mantova), studiato da R. Wittkower, Allegona, cit., pp. 198-99.

Sulla fortuna del soggetto nel XVI secolo (ma dopo la pubblicazione degli Emblemi alciatei): S. Pierguidi, L’Occasione e la Penitenza di Girolamo da Carpi e la «Stanza della penitenza » di Ercole II d'Este, in «Schede umanistiche», 2, 2001, pp. 103-20.

17. Come i succitati Poliziano ed Erasmo o il medico tedesco Johann Haynpol (Ianus Cornarius), cfr. in Epigrammata, pp. 372-"75. Giraldi, vol. I, p. 34: «Occasionem Latini deam fecere, sicut Grae-

ci deum Kairon ». 18. In merito,

per le fonti antiche,

medioevali

e rinascimentali,

per le contaminazioni concettuali e figurative tra Kairos-Tempus e Occasio-Fortuna, come per la relativa bibliografia si veda: F. Kiefer, The Conflation of Fortuna and Occasio in Renaissance Thought and

Iconography, in « Journal of Mediaeval and Renaissance Studies», 9,

1979, pp. 1-27; R. Wittkower, Allegoria, cit., pp. 188-207; Colonna,

vol. II, pp. 559-63; P. Moreno, 19. Cicerone, Inv., 1, 39-40

«Kairos», cit.

(cfr. Off., 1, 142): «Occasio autem est

pars temporis habens in se alicuius rei idoneam faciendi aut non faciendi opportunitatem »; Paolo-Festo, p. 188 [Lindsay]: «Occasio opportunitas temporis casu quodam provenientis est». 20. Sulla fortuna del tema: G.E. Matzke,

Origine della locuzione « te-

ner la fortuna pel ciuffo » (To Tahke Time by the Forelock) con riferimento al

606

NOTE

Libro II, canti VII-IX dell’Orlando Innamorato del Boiardo, Bologna, 1897.

2]1. Cfr. Mignault, p. 438: « navacula: culter rasorius, quo etiam acu-

tissimum momentum temporis exprimitur»; Thuilius, p. 526.

22. Colonna, vol. I, pp. 24-25; vol. II, pp. 559-63. 23. Cfr. F. Kiefer, The Conflation, cit. 24. Epod., 13, 3 sgg.; cfr. R. Tosi, Dizionario delle sentenze greche e lati-

ne, Milano, 1991, n. 576.

25.2, 26; cfr. R. Tosi, Dizionario delle sentenze, cit.

26. I, 301, f. 43v. 27. I, 670, ff. 8l v-827. 28. P. Courcelle, La consolation de Philosophie dans la tradition litté.raire, Paris, 1976, pp. 101 sgg., 127-34, 141-58; H.R. Patch, The Goddess Fortuna in Mediaeval Literature, Cambridge (Mass.), 1927,

pp. 115 sgg.; G. De Tervarent, Attributs et symboles, cit., pp. 378-79.

29. Fig. 1: A. 1550, p. 133 (la ruota); Fig. 2: Thuilius, p. 523 (il globo); Index, Embl.

122.

30. In P. Heitz, Basler Buchermarken, cit., pp. 60-65; Fig. 3: p. 65, n.

98; Fig. 4: p. 65, n. 100.

EMBLEMA

XVII

1. Seneca, Ep., 6, 55, 5 (cfr. 14, 92, 10): «iners animal ».

2. I, 405, ff. 52v-53r, al proverbio « Contorquet piger funiculum ». 3. Ihid.: «Idem argumentum marmore coelatum Romae duobus visitari locis, nempe in Capitolio et in hortis vaticanis, Hermolaus Barbarus testis est». 4. 35, 30: in Hermolai Barbari Castigationes Plinianae et in Pomponium Melam, a cura di G. Pozzi, Padova, 1973-1979, vol. III, p. 1138. Sulle testimonianze e i reperti di Ocno pervenutici, comprese le scoperte avvenute a Roma nella prima metà dell’Ottocento, pregevole rassegna in J.G. Frazer, Pausania’s Description, cit., vol. V,

pp. 376-78; J.J- Bachofen, Versuch iiber die Grabersymbolik der Alten, Basel, 1954; trad. it. I7l simbolismo funerario degli antichi, a cura di M. Pezzella, presentazione di A. Momigliano, Napoli, 1989, pp. 511-

37, tavv. 1 e 2: dal colombario di via Latina e dal colombario di Villa Pamphili); Bachofen commenta la figura di Ocno che intreccia la corda come un’immagine sepolcrale. 5. 35, 137: «piger, qui appellatur Ocnos, spartum torques, quod asellus adrodit». Il dipinto di Socrate menzionato da Plinio è cita-

NOTE

607

to anche da Poliziano, Maiscellanea, in Opera omnia, cit., Cap. LXXXI,

f. H7r-v. 6. Trangqg. An., 473c.

7. 10, 29, 1-2.

8. Fig. 1: A. 1550, p. 99; Fig. 2: Thuilius, p. 393; Index, Embl. 92. EMBLEMA

XVIII

1. Stazio, Theb., 5, 67 -68: «implicitis ... anguibus». 2. Sì veda per esempio Cicerone (Tusc., 2, 11; 3, 49; 4, 34 e 38; 5, 15, 22, 48 e 72; proverbiale: Epist. ad fam., 10, 3: «Virtute duce, co-

mite fortuna») e Seneca (Prov., 4, 2-12; Ep., 5, 51, 8; 7, 66, 23; 8, 71, 8: «eadem enim virtute et mala fortuna vincitur et ordinatur bona»; 8, 71, 28-32: «Sapiens quidam vincit virtute fortunam>»).

3.In Opere volgari, a cura di C. Grayson, Bari, 1960, vol. I, pp. 3-12. 4. In P.O. Kristeller, Supplementum ficinianum, Florentiae, 1937, vol. II, pp. 169-72; cfr. Marsilio Ficino. Fonti, Testi, Fortuna, a cura di S. Gentile e S. Toussaint, Roma, 2006, p. 186.

5. Sulla paternità e trasmissione di questi motti, come sulla loro presenza in alcune medaglie del ’400 e del ’500: R. Tosi, Dizionario delle sentenze, cit., n. 851; A. Warburg, Die Erneuerung der heidnischen Antike,

Leipzig - Berlin, 1932; trad. it. La ninascita del paganesimo antico, Fi-

renze, 1966, pp. 230-39; R. Wittkower, Allegonia, cit., pp. 188-207 (Occasio, Tempus, Virtus); E. Wind, Misteri pagani, cit., p. 126, nota 16;

M.A. De Angelis, Gli emblemi di Andrea Alciato, cit., pp. 114-17.

6. Cfr. in A. Henkel, A. Schòne, Emblemata, cit., coll. 130, 626, 1780; J-M. Diaz de Bustamante, Instrumentum emblematicum, Hildesheim -

Zurich - New York, 1992, vol. I, pp. 527-28; vol. II, pp. 1471 -74.

7. 1, 144, f. 26r. 8.2,11. 9, Ann., 233.

10. 10, 284. 11.2, ‘782. 12. Ars., 1, 606. 13. 34, 37, 4. 14.Fig. 1: A. 1550, p. 130; Fig. 2: Thuilius, p. 507; Index, Embl. 119.

15. Vol II, pp. 224-27; si veda nell’Introduzione il paragrafo «Em-

blemi e geroglifici».

16. Per le fonti: Colonna, vol. II, pp. 560-61; inventario di valori

simbolici nel XVI secolo: Valeriano, Lib. LVI: «de cornu copiae»; Ricciardi, vol. I, f. 1717-v.

608

NOTE

17. Sat., 1, 19, 16-18. 18. Presso gli autori classici le interpretazioni sullo scettro mercuriale non sempre sono concordi: Varrone in Nonio Marcello, 848 [Lindsay]; Livio, 8, 20; Aulo Gellio, 10, 27; Plinio, 29, 54; Cornelio Nepote, Hann., 11, 1; Igino, Astr., 2, 7, 2; Cornuto, Theol. gr. comp., 23-24; Servio, In Aen., 4, 242; Isidoro, Etym., 8, 11, 48; Valeriano, Lib.

XV: «de caduceo»; P. Raingeard, Hermès psychagogue, Paris, 1935, pp. 402-18. Degna di nota la spiegazione di Macrobio (Sat., 1, 19, 1618) che ne collega il significato alla procreazione dell’uomo: i due serpi sono il sole (genitore e custode della vita umana, spirito divino del neonato) e la luna (preposta al corpo e ai suoi mutamenti), le loro spire alludono al percorso sinuoso dei due astri, il nodo rappresenta la Necessità, il bacio l’Amore e le ali la «velocità della mente » di Mercurio/Sole (« Mercurius quasi ipsa natura solis ornatus»): «sol mundi mens est, summa est autem velocitas mentis».

19. Sull’iconografia emblematica cinquecentesca di Mercurio/eloquenza: M. Gabriele, Juan de Valdeés, Francesco Alunno e una enigmatica immagine: l’insegna di Marcantonio Magno, in Suave mari magno ... Studi offerti dai colleghi udinesi a Ernesto Berti, a cura di C. Griggio e F. Vendruscolo, Udine, 2008, pp. 117-39. 20. Cfr. L. Lenaz, in Martiani Capellae De nuptiis Philologiae et Mer-

curii Liber secundus, cit., pp. 7 (nota 14) e 101-20; I. Hadot, Arts li-

béraux et philosophie dans la pensée antique, Paris, 1984 (2005%), pp.

137-39. Le testimonianze sono numerose e la tradizione ininterrotta fin dall’antichità, si veda almeno: Platone, Crat., 407e -408a-

b (cfr. G. Fowden, The Egyptian Hermes, Cambridge, 1986, pp. 201202); Eraclito, All. Hom., 55; Cornuto, Theol. gr. comp., 20 -22; Myth. Vat. I, 2, 17 [Zorzetti-Berlioz]; Myth. Vat. II, 9, 1 [Bode]; Isidoro,

Etym., 8, 11, 45-47; Boccaccio, Genealogie deorum gentilium, 12, 62 [Zaccaria]

(d’ora in poi Gen.); The Commentary on Martianus Capel-

la’s «De nuptiis Philologiae et Mercurii » attributed to Bernardus Silvestris,

a cura di H.J. Westra, Toronto, 1986, pp. 43-44, 47; più in genera-

le sulla mitografia medioevale di Mercurio/eloquenza:J. Chance, Medieval Mythography. 1. From Roman North Africa to the School of Chartres A.D. 433-1177, Gainesville, 1994, pp. 291, 410, 429, 446-

47, 571, nota 48. Per un inventario dei significati nel ’500: Valeriano, Lib. XV: «de caduceo>»; Ricciardi, vol. I, f. 123r-v.

21. P. Giovio, Dialogo dell’imprese militari e amorose, a cura di M.L. Do-

glio, Roma, 1978, pp. 40-41; H. Green, Andrea Alciati, cit., pp. v- V!I.

Si veda S. Rolet, La genèse complexe de l’emblème d’'Alciat Virtuti fortuna comes: de la devise au caducée de Ludovic Sforza à la médaille de Jean Sécond en passant par quelques dessins de Léonard, in André Alciat (1 4921550), cit., pp. 321-65.

22. Sat., 1, 19, 16-18.

NOTE

609

23. VoL I, p. 244; vol. II, p. 620.

24. Molto comune: H. Mattingly et al., Coins, cit., vol. I, tav. 26, n. 11;

vol. II, tav. 43, nn. 5, 6, 7 (Vespasiano); vol. IV, tav. 11, n.6; tav. 22, n. 10; tav. 33, n. 1; tav. 109, nn. 4 (Antonino Pio), 10 (Commodo).

25. Dialoghi intorno alle medaglie, cit., p. 61: moneta di Commodo. 26. Discorso sopra le medaglie, cit., pp. 41 sgg.: moneta di Tito; preci-

sa Erizzo: «I corni di dovizia sono segni di abondantia, et il cadu-

ceo della Pace, cose attribuite a questo principe, per onore del quale fu battuta questa medaglia». 2'7. Cfr. in F. Vandeweghe, B. Op de Beeck, Drukkersmerken, cit., p. 91. EMBLEMA

XIX

1. A. 1531: «arcu». 2. Livio, 10, 47, 6: «laetus annus». 3. Aristotele, Hist. an., 542b; Teocrito, 7, 573; Mosco, 3, 40; Anth. Gr., 9,

271; Luciano, Hatc., 2; Apollodoro, 1, 7, 4; Plutarco, Fort. Rom., 321cd; Varrone, Ling., 7, 88; Plinio, 2, 125 e 10, 89-92; Columella, 11,2,

22; Ovidio, Met., 11, 410 sgg., 710-748; Aulo Gellio, 3, 10, 5; Servio,

In Georg., 1, 399; Myth.

Vat. I, 1, 2 [Zorzetti-Berlioz]; Isidoro, Etym,.,

12, 7, 25; Ambrogio, Hex., 5, 51. Cfr. D.W. Thompson, A Glossary, cit., pp. 46-51; M.A. De Angelis, Gli emblemi di Andrea Alcato, cit., p. 120.

4. Lib. XXV:

«de alcedone ».

5. Terenzio, Eun., 732: «Sine Cerere et Libero friget Venus», e Cicerone (Nat. deor., 2, 60), riprendendo il verso, ricorda: «cum fru-

ges Cerere appellamus, vinum autem Liberum>»; cfr. Fulgenzio, Mait., 2, 1. Il motivo torna più volte nell’ Hypnerotomachia Poliphili: Colonna, vol. II, pp. 644-45. 6. 321c-d.

7. Fig. 1: A. 1550, p. 192; Fig. 2: Thuilius, p. 742; Index, Embl. 179. In

XIXDb la xilografia, sul margine destro, era la scritta «ALCYON», che non Ssi ritrova nelle altre edizioni.

8. Dialogo, cit., pp. 94-95. 9. V. Cian, Lettere inedite, cit., pp. 828-44; D. Bianchi, L'’opera lettera-

ria, cit., pp. 20 sgg., 48 sgg.; P.E. Viard, André Alciat, cit., pp. 169-70;

Barni, nn. 5, 8, 24, 29, 35, 39, ‘71; Giovio possedeva un ritratto di Alciato: P. Giovio, Elogi degli uomini illustri, a cura di F. Minonzio, traduzione di A. Guasparri e F. Minonzio, Torino, 2006, p. 390, nota 10.

EMBLEMA

XXx

1. Apuleio, Met., 5, 1: «Psiche ... recreata somno».

2. La tradizione greca e latina, poetica e mitografica, ricorda Eracle Alcide, dal nome del suo avo Alceo: cfr. W.H. Roscher, «Alkaios», in Lexikon, cit., vol. I, tomo I, col. 231; Giraldi, vol. I, p. 314.

3. Im., 2, 22; per le fonti e i luoghi paralleli come per le scarse te-

stimonianze iconografiche del soggetto: Philostratos, Die Bilder, a cura di E. Kalinka, traduzione e commento di O. Schòonberger, Munchen, 1968, pp. 240 - 42 e 448-50; Filostrato, Immagini, Introduzione di F. Fanizza, traduzione e note di G. Schilardi, Lecce,

1997, pp. 186 -89 e 274-75.

4. 22, 12, 4: «obtrectatores desides et maligni ... multumque agitantes, frustra virum circumlatrabant immobilem

occultis iniuriis,

ut Pygmaei ... Herculem». 5. Epistularum liber V, in Angeli Politiani Opera omnia, cit., f. 8v: «Vincere autem non magis te potui, quam Herculem ridiculi apud Philostratum Pigmaei, quos ille omnes correptos leonis pelle involvit».

6. IV, 76, f. 243r.

7. S.v. ‘'AxpoBivia. 8. In Opera omnia, cit., vol. III, col. 511: «Agite igitur et factiium

hunc Herculem aggredimini, non tamquam Pygmaei, quorum ille quamplurimos apud - Philostratum tergo leonis involuti, sed tanquam athletae illi qui adversus duos in olympicis decertare audentem superaverunt, unde factum proverbium. Ne Hercules quidam adversus duos, quanto minus Alciatus adversus plures?». 9. C.J. van Hasselt-von Ronnen, Hercules en de Pygmeéen brij Alciati, Dosso en Cranach, in «Simiolus: Netherlands Quarterly for the History of Art», 1, 1970, pp. 13-18. 10. Le vite de’ più eccellenti pittori scultori ed architetti, con nuove annotazioni e commenti di G. Milanesi, Firenze,

1906, vol. V, p. 441.

11. 2, 32, 6; cfr. J.B. Friedman, The Monstrous Races in Medieval Art and Thought, Cambridge (Mass.), 1981, pp. 18, 214, nota 21. 12. Fig. 1: A. 1550, p. 66; Fig. 2: Thuilius, p. 270; Index, Embl. 58.

EMBLEMA

XXxI

]. Lucano, 8, 173 e Stazio, Theb., 3, 323: «miseros nautas».

2. Properzio, 3, 24, 16: «anchora iacta mihi est»; Ovidio, Ars, 1, 7/72. 3. I venti, figli del Titano Astreo e di Aurora: Esiodo, Theog., 375-

380; Virgilio, Aen., 1, 132 e Servio, ad loc.: «Astreus enim unus de

NOTE

611

Titanibus, qui contra deos arma sumpserunt, cum Aurora concubuit, unde nati sunt venti secundum

Hesiodum ».

4. Si veda qui il paragrafo «Quando furono inserite le illustrazioni?».

5. Fig. 1: A. 1550, p. 156; Fig. 2: Thuilius, p. 615; Index, Embl. 144. 6. II, 1, ff. 112r-1]14v: cfr. la nota 92 dell’Introduzione; concetto

fra i più diffusi del Rinascimento: cfr. le note 4 e 6 dell’Emblema XV, in particolare Wind, Misteri pagani, cit., pp. 122-24; A. Henkel, A. Schòne, Emblemata, cit., coll. 615-16; J-M. Diaz de Bustamante, Instrumentum emblematicum, cit., vol. I, p. 499.

7. I1, 1, £. 113r-v: «Nomismatis character erat huiusmodiìi, ut alte-

ra ex parte facies Titi Vespasiani cum inscriptione praeferant, ex altera ancoram, cuius medium ceu temonem delphin obvolutus complectitur. Id autem symboli nihil aliud sibi velle quam illud Augusti Caesaris dictum onredòde Bpadéax, indicio sunt monimenta literarum hieroglyphicarum. Sic enim vocantur aenigmaticae scalpturae, quarum priscis seculis multus fuit usus, potissimum apud Aegyptos vates ac theologos ... Scripsit his de rebus et Chaeremon apud Graecos ... cuius ex libris excerpta suspicior ea quae nos nuper conspeximus huius generis monimenta. In quibus etiam haec inerat pictura. Primo loco circulus, deinde ancora quam mediam ut dixi delphinus obtorto corpore circumplectitur circulus, ut indicabat interpretamentum adscriptum ... Quae si scite connectes efficient huiusmodi sententiam dei orevde Bpadéux, semper festina lente ... Itaque dictum hoc onevde BpadÉwsg, ex ipsis usque priscae philosophiae mysteriis profectum apparet, unde ascitum est a duobus omnium laudatissimis imperatoribus». 8. Aulo Gellio, 10, 11: «divos Augustus duobus Graecis verbis ele-

gantissime exprimebat. Nam et dicere in sermonibus et scribere in epistulis solitum esse aiunt: orevòde Bpadéws, per quod monebat, ut ad rem agendam simul adhiberetur et industriae celeritas et diligentiae tarditas, ex quibus duobus contrariis fit maturitas»; Svetonio, Aug., 2, 25, 4: «Nihil autem minus perfecto duci quam festi-

nationem temeritatemque convenire arbitrabatur. Crebro itaque illa iactabat: oredde BpadÉwg Aodaltig ydp tot’ dueivov 1) Bpacbg otpatnidtns. Et: “Sat celeriter fieri quidquid fiat satis bene”. Proelium quidem aut bellum suscipiendum omnino negabat, nisi cum maior emolumenti spes quam damni metus ostenderetur»; cfr. Macrobio, Sat., 6, 8, 8-13.

9. Il signum orna sia un denanrius che un aureus: H. Mattingly et al.,

Coins, cit., vol. II, p. 45, nn. 19-20; lo stesso su un denario di Domiziano: ibid., vol. IL tav. 45, nn. 19-20; tav. 59, nn. 3, 14; cfr. A.

612

NOTE

Agustin, Dialoghi intorno alle medaglie, cit., p. 25 (Fig. 3a); S. Erizzo, Discorso sopra le medaglie, cit., p. 262. 10. Rispettivamente, ad esempio, Ovidio, Trist., 5, 2, 42: «ancoram iam nostram ... non tenet»; Silio Italico, 7, 23-24; Paolo, Heb., 6, 19: «sicut ancoram ... tutam ac firmam». 11. Aristotele, Hist. an., 631a; Eliano, Nat. an., 12, 12; Plinio, 9, 20;

Solino, 12, 3; Isidoro, Etym., 12, 7, 11; cfr. Emblema XI, nota 2.

12. Fig. 4: L. Donati, L'ancora aldina, in «La Bibliofilia», 50, 1948,

pp. 179-82; Aldo Manuzio tipografo 1494-1515, Catalogo a cura di L. Bigliazzi, A. Dillon Bussi, G. Savino, P. Scapecchi, Firenze, 1994,

pp- 103-104. Così sul verso della medaglia di Aldo Manuzio, del primo quarto del XVI secolo, dove si legge anche il motto ortevòe Bpadéws (cfr. P. Voltolina, La storia di Venezia attraverso le medaglie, Milano, 1988, vol. I, p. 291). A proposito di questa medaglia P.A. Gaetani (Museum Mazzucchellianum, Venetiis, 1761 -1763, vol. I, p. 166) riporta che, come reputava Erasmo, essa significava «non dover affrettarsi alla erudizione senza una grave prudenza». 13. Erasmo, IL, 1, f. 112v. Il riferimento alla giovane età di Bembo

(nato a Venezia nel 1470) lascia supporre che l’invio della moneta

avvenne fra il 1490, anno della venuta a Venezia di Aldo, e pochi an-

ni dopo (nel 1496 Aldo pubblica il De Aetna di Bembo), quando il patrizio veneziano si trovava a Messina (1492-1494) o a Padova (1494-1495) o al più tardi (ma è troppo in là cronologicamente) a Ferrara (1497-1499). Improponibile che la spedisse da Roma nel 1502 come scrive M. Calvesi (La «Pugna d 'amore in sogno » di Francesco Colonna romano, Roma, 1996, p. 146): a quella data Bembo aveva trentadue anni e non era certo iuvenis; cfr. C. Dionisotti, «Bembo Pietro», in Dizionario Biografico degli Italiani, cit., vol. VIII, pp. 133-59. 14. Il delfino è attributo del dio del mare: Igino, Astr., 2, 17: «qui

Neptuno simulacra faciunt, delphinum aut in manu, aut sub pede eius constituere videmus; quod Neptuno gratissimum esse arbitrantur»; cfr. Plinio, 36, 26; Nettuno, trasformatosi in delfino, sedusse Melanto, figlia di Deucalione: Ovidio, Met., 6, 120. Diffusa in monete, in mosaici, in bassorilievi e nella glittica è l’immagine di Poseido-

ne/Nettuno che impugna con una mano il tridente e con l’altra tiene un piccolo delfino: E. Simon, I. Krauskopf, «Poseidon», in LIMC, vol. VII, tomo 1, pp. 455 sgg., 485-500; vol. VII, tomo II, pp-

358-93, nn. ‘73, 74, 97, 21, 22, 34, 43 sgg., 56 sgg., 91, 125 sgg.

15. H. Mattingly et al., Coins, cit., vol II, p. Lxx111, tav. 45, nn. 19-20. 16. Cfr. in Ph. Bruneau,J. Ducat, Guide de Délos, Paris, 1983, p. 255.

17. In U. Pannuti, Museo Archeologico, cit., vol. I, nn. 291, 291a, p. 157. 18. Per altri dati: Colonna, vol. II, p. 616.

NOTE

613

19. Qui, nella Fig. 3: «TR P IX IMP XV COS VIII P P» («tribunicia potestate IX imperator XV consul VIII pater patriae »): «investito dei poteri di tribuno per la nona volta, acclamato imperatore per la quindicesima volta, console per l’ottava volta, padre della patria». Per le varie monete di Vespasiano, di Tito e di Domiziano, sul verso delle quali si vede l’àncora con il delfino contornati dalle

dovute abbreviature:

H. Mattingly et al., Coins, cit., vol. II, pp. 65,

234, 235, 297, 300, 302, 304, 349.

20. Un falso va considerata la moneta in oro di Domiziano riprodotta da Enea Vico e Antonio Zantani (Le imagini con tutti i riversi trovati et le vite de gli imperatori tratte dalle medaglie e dalle historie de gli antichi, [Venezia], Enea Vico Parm. F., 1548, c. [57v])

col delfino

e l’àncora e l’abbreviazione « FESTA LENTV>», in quanto tale aureus è noto ma in vero porta sul bordo la scritta «TR P COS VII DES VIII P P» (G. Mazzini, Monete imperiali romane, Milano, 1957, p. 262, tav. XCVI, n. 567; cfr., sopra, la nota 19) e non certo quan-

to inventa Enea Vico, probabilmente suggestionato dal successo di questo motto/simbolo ripreso anche nella medaglia di Aldo (si veda, sopra, la nota 12).

2]. Vol. I, p. 69: « Uno circolo, una ancora sopra la stangula dilla quale se revolveva uno delphino. Et questi optimamente cusì li interpretai: AEI ZITEYAE BPAAEQX semper festina tarde»; vol. II, pp. 615-16. Il proverbio festina lente e l’annesso commento si riscontrano soltanto nella seconda edizione veneziana (Aldo Manuzio, 1508) degli Adagia, mentre non compaiono nella princeps parigina del 1500, dunque nove anni dopo che era stata stampata l’ Hypnerotomachia. Anche nell’Emblema XV Alciato si rifà al Colonna per illustrare, ma in altra veste, la tematica del festina tarde. Valeriano (Lib. XXVII: « maturitas») crede che l’invenzione del motto e del signum con l’àncora e il delfino siano da attribuirsi allo stesso imperatore Augusto: «Sunt qui hieroglyphici inventum Augusto tribuant, quod et adagium et signum huiusmodìi solitus sit identidem repetere ». 22. Colonna, vol. I, p. 69.

23. Colonna, vol. I, pp. 1 sgg.; vol. II, pp. xx1- xxx; M. Gabriele, Festina tarde, cit.; nell’Hypnerotomachia Poliphili il concetto di festina tardeo lente assume un senso molto diverso dall’interpretazione datane da Erasmo

altamente equilibrio compiersi gio agente

e da Alciato. In Colonna,

infatti, concerne valori

psicologici, alludendo alla moderazione, al prudente che l’immaginazione deve mantenere affinché possa il viaggio onirico e gnoseologico di Polifilo, il personage narrante del romanzo. Qui il ruolo dell’imaginatio,

che il Colonna deriva dal De insomniis di Sinesio, è fondamentale. Questa facoltà dell’anima, intermediaria fra i sensi e l’intelletto,

614

NOTE

fra il peso del corpo e il volo della psiche, permette a Polifilo la chiara visione immaginale. La stretta correlazione del proverbio con le varie e cruciali tappe dell’iter polifilesco dimostrano che il motto/geroglifico vuole esprimere (concretare simbolicamente attraverso le molteplici rappresentazioni icastiche che assume nel racconto) la sapiente medietas noetica propria dell’imaginatio, che sola può guidare l’anima temperando il suo oscillare tra ‘sensi’ e ‘intelletto’.

24. Sì veda nell’Introduzione il paragrafo «1I geroglifici di France-

sco Colonna».

25. Colonna, vol. II, pp. 607-27. 26. Si veda nell’Introduzione il paragrafo «I geroglifici di Francesco Colonna». 27. Eth. Nic., 1106b-1107a,

1142b; cfr. P. Aubenque,

chez Aristote, Paris, 1997, pp. 33 sgg. EMBLEMA

La prudence

XXxII

1. Ovidio, Fast., 6, 204: «]lumine captus erat».

2. Epigrammata, p. 7 (Anth. Gr., 9, 11-13 e 13bis). 3. Alle pp. 4-7. 4. Mignault, pp. 556-57; Thuilius, pp. 680-83. 5. Fig. 1: A. 1550, p. 173; Fig. 2: Thuilius, p. 680; Index, Embl. 161.

EMBLEMA

1. «Saevus» è comune

XXIII

attributo di «draco»; per esempio:

Ovidio,

Met., 4, ‘715-716; Valerio Flacco, 8, 438; Apuleio, Met., 6, 14. 2. Il., 2, 305-329.

3. Met., 12, 11-23: «Hic patrio de more Iovi cum sacra parassent, /

ut vetus accensis incanduit ignibus ara, / serpere caeruleum Danai videre draconem / in platanum, coeptis quae stabat proxima sacris. / Nidus erat volucrum bis quattuor arbore summa: / quas simul et matrem circum sua damna volantem / corripuit serpens avidoque recondidit ore. / Obstipuere omnes, at veri providus augur / Thestorides “Vincemus,” ait “gaudete, Pelasgi! / Troia cadet, sed erit nostri mora longa laboris” / atque novem volucres in belli digerit annos. / Ille, ut erat virides amplexus in arbore ramos,

/ fit lapis et signat serpentis imagine saxum ». La scena venne rappresentata in una xilografia (Fig. 1) del Metamorphoseos vulgare di

NOTE

615

Giovanni dei Bonsignori, Venetia, Giovanni Rosso per Lucantonio Giunta, 1497, f. LxxxxvIlIlII”. 4. Narrat., 12, 1-2: «Agamemnon Atrei et Aeropes filius, dux Achivorum, cum in Aulide Iovis sacra ministraret, conspexit draconem

in arbore, quae inpen debat arae, lapsum ad nidum volucris; cuius octo pullis consumptis ab eodem serpente, novissime circumvolante matre aquila, ipse conversus in saxum est. Quo prodigio Calchas, Thestoris filius, augur respondit, per novem annos in Troadem dimicaturos, decimo autem eos Ilio potituros». 5. Div., 2, 63: Cicerone traduce in 29 versi latini i 32 di Omero, 2, 299-330.

/[L,

6. Socr., 160-161. 7. Per le fonti cfr. in M. Tulli Ciceronis De divinatione, a cura di A.S.

Pease, cit., pp. 454-55.

8. Lib. XX: «de passere »; Valeriano menzionai succitati Omero, Ovidio e Eschilo (Agam., 145). Cfr. Ricciardi, vol. II, f. 1217 s.v. « passer».

9. Cfr. E. Panofsky, Studi di iconologia, cit., pp. 94-134; sull’ouroboros, il serpente che si morde la coda, simbolo del perenne rinno-

varsi del cosmo, si veda il commento

all’Emblema XLI.

10. Fig. 2: A. 1550, p. 143; Fig. 3: Thuilius, p. 564; Index, Embl. 132. 11. A.F. Gori, Museum Florentinum, cit., vol. II, tav. XXIV, 3. 12. Ennio, Ann., 502; Cicerone, Div., 1, 108; Livio, 1, 7, 1; Svetonio, Aug., 95, 2. 13. 17, 15.

14. Cfr. P. Courcelle, Histoire litteraire des grandes invasions germaniques, Paris, 1964, pp. 32 sgg. EMBLEMA

XXIV

1. Aulo Gellio, 3, 6: «palma ... adversus pondus resurgit et sursum nititur recurvaturque ». 2. Aulo Gellio, 13, 11: «Neque non de secundis quoque mensis, cuiusmodìi esse eas oporteat, praecipit. His enim verbis utitur: “Bellaria” inquit “ea maxime sunt mellita, quae mellita non sunt” ... Quod

Varro hoc in loco dixit “bellaria”, ne quis forte in ista voce haereat,

significat id vocabulum omne mensae secundae genus. Nam quae néuuata Graeci aut 1paynuoato dixerunt, ea veteres nostri “bellaria” appellaverunt». Accurata descrizione dei vari tipi di bellaria, con citazione delle relative fonti greche e latine, in Alessandro D’Ales-

sandro, Genialium dierum libri sex, cit., vol. II, pp. 279-80. 1 bellaria comprendevano dolci, noci, frutta, ma anche cibi piccanti, la cui

616

NOTE

degustazione veniva accompagnata da copiose libagioni (specialmente di vini dolci) e aveva luogo nella secunda mensa, corrispondente al nostro dessert. 3. I, 201, f. 327. 4. 3, 6: «Per hercle rem mirandam Aristoteles in septimo problema-

torum et Plutarchus in octavo symposiacorum dicit. “Sì super palmae” inquiunt “arboris lignum magna pondera inponas ac tam graviter urgeas oneresque, ut magnitudo oneris sustineri non queat, non deorsum

palma cedit nec intra flectitur, sed adversus

pondus resurgit et sursum nititur recurvaturque”; “propterea” inquit Plutarchus “in certaminibus palmam signum esse placuit victoriae, quoniam ingenium ligni eiusmodi est, ut urgentibus oppri-

mentibusque non cedat”»; Livio, 10, 47, narra che l’usanza di offrire rami di palma ai vincitori venisse dalla Grecia; cfr. Isidoro,

Etym., 18, 2, 4-5. 5. Probl., fr. 229 [Rose]. 6. Quaest. conv., 8, 4, 5, 724e-f.

7. Teofrasto, Hist. plant., 5, 6, 1; Strabone, 15, 3; Pausania, 8, 48, 12; Plinio, 16, 222-223; Apuleio, Met., 2, 4; cfr.J. Murr, Die Pflanzen-

welt, cit., pp. 48-50. 8. Su questo Emblema come «a good example ofa humanistic doc-

ument»: V. Woods Callahan, Andrea Alciato’s Palm Tree Emblem: A Humanist Document, in «Emblematica», 6, 1992, pp. 219 -35.

9. Venetiae, Lorenzo d’Aquila, 1475, c. 18r: ne parla a proposito dei datteri e scrive: «ut ait Gellius...». 10. Cit., vol. I, p. 125: Alberti riporta meravigliato la credenza sulle virtù del legno della palma («Mirum, quod de palma asseverant: contra superimpositum pon dus reniti et in diversum curvari»). 11. Cfr. in L. Apulei Opera, cit., vol. I, pp. 132 e 1000. Su Beroaldo

si veda la nota 10 all’Emblema XIV; cfr. anche Celio Rodigino, Lec-

tionum antiquarium libri triginta, cit., col. 205. 12. VoL I, p. 21; vol. II, pp. 26 e 546-47: nell’ Hypnerotomachia Poliphili la palma annuncia l’esito felice e vittorioso della psicomachia. 13. Lib. L: «victoria».

14. Per le numerose testimonianze archeologiche della palma, at-

tributo della Vittoria: P.P. Bober, R.O. Rubinstein, Renaissance Artists and Antique Sculture, London, 1986, pp. 194-97, nn. 160, 164, 169; R. Vollkommer, « Victoria», in LIMC, vol. VIII, tomo I, pp-

237 -69; vol. VIII, tomo II, pp. 167-94; cfr. nelle monete riprodotte da A. Agustin, Dialoghi intorno alle medaglie, cit., pp. 24, 50, 75. 15. Met., 11, 4; 11, 10-11; 11, 24; Apuleius of Madaura,

The Isis - book

(Metamorphoses, Book XI), Introduzione, traduzione e commento 4

cura di J.G. Griffiths, Leiden, 1975, pp. 135 sgg., 198 sgg., 314-16;

NOTE

617

cfr. KH.E. de Jong, De Apuleio isiacorum mysteriorum teste, Lug duni Batavorum,

1900; F. Cumont, Recherches sur le symbolisme funéraire

des Romains, Paris, 1942, pp. 219-39, 469 sgg. 16. Si veda l’esposizione di J.G. Griffiths in Apuleius of Madaura, The Isis- book, cit., pp. 203 sgg.; e soprattutto W. Drexler, «Herma-

nubis», in W.H.

Roscher, Lexikon, cit., vol. I, tomo

II, coll. 2300-

14. La corrispondenza fra Hermes e Anubi era conosciuta nel ’400

e nel ’500 (oltre a Beroaldo, Symbola Pythagorae, cit., pp. 1034-35, si veda Giraldi, vol I, p. 297) anche grazie al testo di Servio, In Aen., 8, 698 (cfr. Myth. Vat. II, 54 (Kulcsaàar]). Testimonianze iconogra-

fiche dell’immagine di Anubi con caduceo e palma si ripetono nelle antiche gemme magiche, il cui collezionismo era già attivo nel XV secolo: A. Mastrocinque, in Silloge gemmarum gnosticarum,

cit., pp. 188-90; S. Michel, Die Magischen Gemmen im Bnitischen Museum, London, 2001, vol. I, p. 39; vol. II, tav. 9, nn. 59-60. Sulle co-

noscenze di Alciato in merito si veda in fine al commento

l’Emblema XLI; cfr. anche l’Emblema LXXVII.

del-

17. Cfr. P. Boylan, Thoth. The Hermes of Egypt, London, 1922, pp. 83-87. 18.J. Wallert, Die Palmen im Alten Agypten, Berlin, 1962, pp. 101 sgg. 19. Cfr. Ovidio, Met., 15, 395-407; Plinio, 13, 42; Firmiano Lattan-

zio, Phoen., 69-70; Isidoro, Etym., 17, 7, 1; si veda, anche per altre fonti bibliche e patristiche, in R. van den Broek, The Myth of the Phoenix, according to Classical and Early Christian Traditions, Leiden,

1971, pp. 53 sgg.

20. Tale relazione si fonda probabilmente sull’omonimia, in greco, fra la palma (do1iv1E) e la fenice (doiv18): ibid., pp. 51 e 53-54. 21. 13, 42; cfr. R. van den Broek, The Myth of the Phoenix, cit., pp.

54-55.

22. In P. Heitz, Basler Buchermarken, cit., pp. 72-73, nn. 114-115. La marca fu poi anche dell’altro tipografo basilese Michael Isengrin,

cfr. ibid., pp. 84-87.

23. Fig. 3: A. 1550, p. 43; Fig. 4: Thuilius, p. 198; Index, Embl. 36. 24. Con il motto «Digna feret premia constans animus» (cfr. in Bernardo Giustiniano, Historia dell’origine di Vinegia ... tradotta da

M. L. Domenichi, Venetia, Bernardino Bindoni,

1545): E. Vaccaro,

Le marche dei tipografi ed editori italiani del secolo XVI nella biblioteca

Angelica di Roma, Firenze, 1983, pp. 258-59. 25. Con

il motto

«Tendit sursum»:

in Ph. Renouard,

Les marques

typographiques, cit., p. 144, n. 467; per altre derivazioni: A. Henkel,

A. Schòone, Emblemata, cit., coll. 196 -98; V. Woods Callahan, Andrea

Alciato’s Palm T'ree, cit., pp. 232-35.

26. Theol. gr. comp., 18. Lo scritto di Cornuto fu pubblicato per la pri-

ma volta da Aldo a Venezia nel 1505. A una lettera del 1546, indiriz-

618

NOTE

zata a Bonifacio Amerbach (Barni, n. 137), allega un elenco di opere a lui note e di cui reclama l’acquisto, tra le quali quelle di Plutarco (Moralia), di Arnobio (Adversus gentes) e di Cornuto. 27. G.F. Hill, A Corpus of Italian medals, cit., n. 320; J.G. Pollard, Me-

daglie italiane del Rinascimento nel Museo Nazionale del Bargello. Vol. I: 1400- 1530. Italian Renaissance Medals in the Museo Nazionale of Bargello, Firenze, 1984, n. 84a.

28. Dialogo, cit., p. 89. EMBLEMA

XXV

1. Properzio: 2, 6, 1: «Ephyraeae Laidos aedes». 2. Efira è il toponimo mitico di Corinto, dalla sua fondatrice, la ninfa Efire figlia di Oceano: Pausania, 2, 1, 1; Igino, Fab., 275. 3. 2, 2, 4-5. Pausania parla anche di un’altra Laide: l’identificazio-

ne della cortigiana è comunque problematica, cfr. K. Holzinger, Krnitisch-exegetischer Kommentar zu Aristophanes’ Plutos, Wien - Leipzig,

1940, pp. 50-62.

4. Cfr. in Pausania, Guida alla Grecia. Libro II. La Corinzia e l'Argolide, a cura di D. Musti e M. Torelli, Milano, 1986, p. 217; J.G. Frazer, Pausania’s Description, cit., vol. III, p. 19, fig. 7.

5. Anth. Gr., 6, 1. 6. Epigr., XIII, 60 [Green]. 7. 2, 6, 1-2: «Non

ita complebant

Ephyraeae

Laidos aedes, / ad

cuius iacuit Graecia tota fores». Laide di Corinto è più volte menzionata da Ateneo, 12, 544b-d; 13, 570b-e, 582c, 585d, 587d-f, 589a-c. Anche Valeriano (Lib. I: «meretrix») collega Laide e il monumento della leonessa sulla sua tomba all’immagine proverbiale della prostituta. 8. Sull’argomento cfr. E. Castelli, Il simbolismo del tempo ultimo, in Il

simbolismo del tempo. Studi di filosofia dell’arte, Padova, 1973, pp. 2224; E. Panofsky, La sculpture funéraire de l’ancienne Egypte au Bernin,

Paris, 1995, pp. 47-112; P. Binski, Medieval Death. Ritual and Repre-

sentation, London, 1996, pp. 123-52; cfr. il disegno di Jacopo Bellini, Tomba di un professore, Louvre, Paris, Inv. R. F. 1475-1556, f. 13;

da B. Degenhart, A. Schmitt, Corpus, cit., vol. II, tomo VvI, pp. 320-

22; vol. II, tomo vIi, tav. 9). Si veda anche l’Emblema LXVI.

9. Fig. 2: A. 1550, p. 82; Fig. 3: Thuilius, p. 329; Index, Embl. 74.

EMBLEMA

XXVI

1. A. 1531: «fluviatiles», da Plinio, 32, 53-103: « Cancri fluviatiles». 2. Giovenale, 4, 107: «venter adest abdomine tardus».

3. Fig. 1: A. 1550, p. 100; Index, Embl. 93; a proposito dei granchi

marini: Plinio, 9, 97. 4. 3, 100c-d; 104c-d; 6, 242d; 8, 338e; 339e; 340a-e; 14, 614d.

5. 6, 234b-248c; in particolare, per i numerosi epiteti: 238d -242f.

6. Fig. 1: A. 1550, p. 100. 7. Fig. 2: Thuilius, p. 396. EMBLEMA

1. «Martia Roma»,

in Marziale, 5, 19, 5; Ovidio,

Pont., 1, 8, 24.

‘2. Per «easdem»:

XXxXVII

Tnist., 3, 7, 52 e

TLL, vol. VIII, tomo I, col. 180, 49 sgg.

3. A. 1531: «dare». 4. Cicerone, Balb., 39, 9: «speciem foederis ... duxerunt».

5. In Opera omnia, cit., vol. II, col. 557. 6. 2, 58,

1: «cupere

renovari dextras»; cfr. anche in Hist., 1, 54

(«Miserat civitas Lingonum vetere instituto dona legionibus dextras, hospitii insigne») e 2, 8 («Centurionemque Sisennam dextras, concordiae insignia, Syriaci exercitus nomine ad praetorianos ferentem variis artibus adgressus est»). 7. Cicerone, Deiot., 8; Cesare, Gall., 2, 13, 2; Virgilio, Aen., 1, 409 (Servio, ad loc.); 3, 610-611 (Servio, ad loc.); 6, 697; 8, 164; Ovidio, Her., 2, 31: «iura fidesque ubi nunc, commissaque dextera dextrae »; Plinio, 11, 250; Valerio Massimo, 6, 4, 3; Isidoro, Etym., 11, 1, 67.

8. Cfr. P. Boyancé, La main de «Fides », in Études sur la religion romaine, Rome,

1972, pp.

121-33;

sulla dextrarum

iunctio o dexiosis nei

culti orientali e nel mitraismo: M. Le Gray, La dexiosis dans les mystères de Mithra, in Etudes Mithriaques, Acta Iranica, IV, Leiden, 1978,

pp. 279-307.

9. 2, 11; cfr. C. Leemans, Horapollinis Niloi Hieroglyphica, cit., p. 308 per i numerosi riferimenti bibliografici di iconografia numismatica e di glittica. 10. Molto comune: H. Mattingly et al., Coins, cit., vol. I, tav. 20, n. 2, p. 40; tav. 60, n. 16, p. 368; tav. 61, nn. 19-20, p. 386; tav. 62, nn. 3 e 5; vol. II, tav. 1, nn. 2-5, 14-15, ecc.; altri dati in U. Pannuti, Museo Archeologico, cit., vol. I, p. 173. Cfr. C. Landi, In veterum numismatum romanorum miscellanea explicationes, cit., pp. 64-65; A. Agus-

620

NOTE

tin, Dialoghi intorno alle medaglie, cit., pp. 7, 30, 38, 39 (Fig. 1), 40 (Fig. 2); S. Erizzo, Discorso sopra le medaglie, cit., p. 297: «Medaglia

di Nerva ... ha per riverso due mani insieme giunte, nel mezo del-

le quali vedesi una insegna militare sopra un rostro di nave, et vi sono lettere intorno tali CONCORDIA EXERCITUM, et SC. Le

due mani ... dimostrano concordia, et quelle insegne militari si ri-

feriscono agli eserciti». 11. Fig. 3: A. 1550, p. 46; Fig. 4: Thuilius, p. 210. 12. 1, 21: «Et Fidei sollemne instituit. Ad id sacrarium flamines bigis curru arcuato vehi iussit manuque ad digitos usque involuta rem divinam facere, significantes fidem tutandam sedemque eius etiam in dexteris sacratam esse »; cfr. M. Le Gray, La dextiosis, cit.,

pp. 290 -96.

13. P. Boyancé, «Fides romana » et la vie internationale, in Études sur la re-

ligion romaine, Rome, 1972, pp. 105-19 sgg.; e La main de «Fides », cit. 14. In Aen., 3, 607. 15. 6, 6: « Cuius imagine ante oculos posita venerabile fidei numen

dexteram

suam,

certissimum

salutis

humanae

pignus,

ostentat.

Quam semper in nostra civitate viguisse et omnes gentes senserunt et nos paucis exemplis recognoscamus»; Apuleio, Met., 3, 26: « Pro Iuppiter hospitalis et Fidei secreta numina!». 16. L. Reekmans, La dextrarum iunctio dans l’iconographie romaine et paléochretienne, in «Bulletin de l’Institut Historique Belge de Ro-

me», 31, 1958, pp. 23-95.

17. In U. Pannuti, Museo Archeologico, cit., vol. I, nn. 334, 334a, 335,

335a, pp. 173-74; vol. II, nn. 258-259 (Tessera foederis), pp. 291-

93; Silloge gemmarum gnosticarum, cit., p. 369, n. 330; p. 370, n. 332.

18. Come segno mnemonico nella devozione medioevale, in riferimento all’unione matrimoniale di Mt., 19, 17-19: L’arte della memo-

ria per figure, cit., pp. 106-107.

19. Per l’iconografia rinascimentale, con riferimento anche a mar-

che tipografiche: G. De Tervarent, Attributs et symboles, cit., pp. 306308; per le medaglie: G.F. Hill, A Corpus of Italian medals, cit., n. 627, con la scritta «PROMISSA

PERPETUITATI

DATA FIDES ».

20. Alessandro D’Alessandro, Genialium dierum libri sex, cit., vol. I.. pp. 429-30; vol. II, p. 34; Celio Rodigino, Lectionum antiquarium ibri triginta, cit., col. 419; Valeriano, Lib. XXXV: «foedus», «fides». EMBLEMA

XXVIII

1. Properzio, 2, 1, 71: «Caucasia solvet de rupe Prometei / bracchia».

NOTE

621

2. A. 1531: «iecus».

3. Comune paraetimologia di Prometeo, «colui che pensa prima»:

Eschilo, Prom. vinct., 85 -87; cfr. Eraclito, AZlL, 26, 14; Cornuto, Theol. gr. comp., 32-33; Fulgenzio, Mit., 2, 6; Plutarco, De fat., 3, giudica

Prometeo l’allegoria del «raziocinio».

4. L’attribuzione dell’aquila a Zeus è topica: Omero, IL, 8, 247; 24, 292; Euripide, Jon., 156-157; Callimaco, Hymn., 1, 68; Eliano, Nat. an., 9, 10, ecc.; leggende e miti in D.W. Thompson, A Glossary, cit.,

pp- 2-16; Plinio, 10, 6-15: « Ex his quas novimus aquilae maxumus

honos, maxumus et vis ... ideo armigeram lIovis consuetudo iudica-

vit» («Tra gli uccelli che conosciamo l’aquila è tenuta in massimo onore e la sua forza è la più grande ... perciò la tradizione l’ha proclamata l’armigera di Giove »). 5. Prom. vinct., 505-506. 6. Theog., 507-616. 7. 322 [Chambry]. 8. Protag., 319c-322a; 2003, pp. 11 -29.

cfr. A. De Pretis, Prometeo, un mito, Firenze,

9. Si veda in particolare: Apollodoro (1,2, 3;1,3, 6;1, 7, 1; 2, 5, 11), Pausania (10, 4, 4) e Luciano (Prom.; Prom. es.); presso i Latini: Ovidio (Met., 1, 78-88), Fedro (4, 15-16; App. 5), Igino (Fab., 141 e 144; Astr., 2, 15, 4-5; 2, 42, 1), Servio (In Ecl., 6, 42), Claudiano (Paneg. de IV cons. Hon., 228-235), Fulgenzio (Mit., 2, 6), Myth. Vat. III (10, 9-10 [Bode]). Altre informazioni e testimonianze, pure iconografiche: R. Turcan, Note sur les sarcophages «au Pro-

méthée», in «Latomus», 27, 1968, pp. 630-34; F. Bomer, in P. Ovidius Naso, Metamorphosen, cit., vol. I, pp. 42-47 (Ovidio, Met., I, 7888); D.J. Conacher,

Prometheus as a Founder of the Arts, in «Greek,

Roman and Byzantine Studies», 18, 1977, pp. 189-206; J.-R. Gisler, «Prometheus», in LIMC, vol. VII, tomo I, pp. 531-53; vol. VII,

tomo II, pp. 422 -30.

10. Isidoro, Etym., 8, 11,8; 16,6, 1; Pietro Comestore, Hist. schol, in Migne, PL, 198, col. 1124; Vincenzo di Beauvais, Spec. Haist., 1, 116; Boccaccio, Gen., 4, 44-45. Per le esegesi e moralizzazioni del mito

presso gli autori medioevali: J. Chance, Medieval Mythograph»y, cit., vol. I, pp. 4, 181-83, 323-28; J. Chance, Medieval Mythography. 1l.

From the School of Chartres to the Court at Avignon, 1177-1350, Gainesville, 2000, pp. 61, 68, 244-45, 282-91.

11. Giraldi, vol. I, pp. 399-401, 464, 551. Si veda, sotto, la nota 19.

Per la storia e la sopravvivenza della fabula come dei suoi complessi significati, anche figurativi: O. Raggio, The Myth of Prometheus. Îts Survival and Metamorphoses up to the Eighteenth Century, n «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 21, 1958, pp. 44-62; R.

622

NOTE

Trousson, Le thèéme de Promethée dans la littérature européenne, Genève, 1964; A. De Pretis, Prometeo, cit. 12. Basti menzionare Goethe, con il suo Prometheus, o Shelley con il Prometheus Unbound; cfr. È. Mandruzzato, Introduzione a Eschilo, Prometeo incatenato; con i frammenti della trilogia, Milano, 2004, pp. 7-

37; R. Trousson, Le thèéme de Prométhée, cit., pp. 135 sgg.

13. A. Henkel, A. Schone, Emblemata, cit., coll. 1657-58.

14. 13, 1: «Quamquam si philosophandi libido est, Socraten, sapientiae principem, quisque vestrum tantus est, si potuerit, imitetur. Eius viri, quotiens de caelestibus rogabatur, nota responsio est: “quod supra nos, nihil ad nos”»; cfr. Cicerone, Acad. post., 1, 4,

14-17.

15. I, 569, £. 7]1 v: «Quae supra nos nihil ad nos. Dictum socraticum

deterrens a curiosa vestigatione rerum coelestium, et arcanorum naturae. Refertur proverbii vice a Lactantio libro tertio capite vigesimo. Torqueri potest et in illos, qui de negociis principum aut theologiae mysteriis temere loquuntur». 16. Div. inst., 3, 20.

17. Erasmo (I, 31, f. 12r) parla del mito di Prometeo e di Epimeteo nell’adagio « Malo accepto stultus sapit ». 18. Su «Prometheus

figulus»: Giovenale, 4, 133-134; Fedro, App.

5, 1; cfr. O. Raggio, The Myth of Prometheus, cit., p. 47. 19. Quest’ultima ebbe nel ’500 una singolarissima interpretazione ‘teologica’ grazie alla raffinata erudizione di Cosimo Bartoli, personaggio di primo piano alla corte di Cosimo I de’ Medici. Infatti, Bartoli ideò un Prometeo che crea dal fango l’uomo e poi gli insuffla la vita, inteso quale sincretica rappresentazione di due Sephirot cabbalistiche, e lo fece così dipingere nell’allegoria di Saturno mutila il cielo, realizzata dal Vasari sul soffitto della Sala degli

Elementi in Palazzo Vecchio

a Firenze

Cabbala cristiana, cit., pp. 329-31.

20. Cfr. M. Gabriele,

nel 1555: cfr. M. Gabriele,

Cabbala cristiana, loc. cit.; Pomponius

Gauri-

cus, De sculptura (1504), a cura di A. Chastel e R. Klein, Genève -

Paris, 1969, p. 249.

2]1. Cfr. Alciato, Oratio in laudem lIuris Civilis, in Opera omnta, cit.,

vol. II, p. 539: «Prometheus providentiae dono volturi iecur depa-

scendum tradit, quod sapientiae praescientiae symbolum id animae repraesentet».

22. Gen., 4, 44, 16-18-20; Prometeo per Boccaccio simboleggia

l’eroe del progresso scientifico, il riformatore dell’umanità e del suo ordinamento ‘civile’: cfr. il capitolo «Prometeo in Boccaccio » in A. De Pretis, Prometeo, cit., pp. 83-111; V. Conticelli,

daroba...», cit., pp. 131-38.

« Un guar-

NOTE

623

23. Servio, In Ecl., 6, 42; cfr. Myth. Vat. IIl, 10, 9-10 (Bode]. 24. Gen., 4, 44, 18: «Prometheus ... inpulsus in Caucasum, id est in

solitudinem, quantuncunque secundum hystoriam in Caucasum secesserit, et ibi religatus in rupe id est a propria voluntate detentus. Ibi illi precordia aiunt ab aquila lacerari, id est a meditationibus sublimibus anxiari, que longo exhausta meditationis labore, tunc restaurantur, quando per ambages varias exquisita alicuius rei veritas reperitur». 25. Eruditissimi viri hieroglyphicorum commentariorum liber prior[-secun-

dus], in varie edizioni dei Hieroglyphica di Valeriano (cfr. P. Pelle-

grini, Pierio Valeriano e la tipografia del Cinquecento, Udine, 2002, pp.

158-60): «Prometheus ... Ex qua narratione colligimus per Prometheus facem accensam, quae ignis furtum significet, tenentem, ingenii vim in inveniendis artibus, artiumve inventionem et ipsum inventorem denotari: fax enim animae illa vis est, quam Aristoteles intellectum agentem vocat quam Plato et Aegyptiorum Theologia coelestem igniculum lumenve extrinsecus adveniens appellarent, cuius proprium munus est artium inventio ». Si veda, sopra, la nota 11. 26. Non diversamente Marsilio Ficino, che guardava a Prometeo come «anima razionale», potenza ordinatrice che guida l’uomo alla saggezza delle arti: A. Chastel, Marsil Ficin et l’art, Genève,

1975, pp. 173-76.

27. Similmente anche in seguito, Fig. 1: A. 1550, p. 112; Fig. 2:

Thuilius, p. 426; Index, Embl. 103.

28. Cit., f. xxx17 (cfr. Met., 4, 457 -458). EMBLEMA

XXIX

1. Pseudo Virgilio, Moret., 22: «cinctus villosae tegmine caprae». 2. Virgilio, Ecl, 10, 7: «tenera attondent simae virgulta capellae ». 3. Ovidio, Fast., 2, 762: «caeco raptus amore furit».

4. 4, 308-373. 5. Hist. an., 1, 23.

6. Paolo-Festo, pp. 430-31 [(Lindsay]: «Sargus, piscis genus, qui in Aegyptio mari fere nascitur».

7. Halieutica, 4, 345 -347.

8. Lib. X: « meretrix »; Ricciardi, vol. I, f. 136r. 9, In Ateneo, 13, 582e-f.

10. Fig. 1: A. 1550, p. 83; cfr. Fig. 2: Thuilius, p. 333.

EMBLEMA

XXXx

1. A. 1531: «Albutii» . 2. Orazio, Sat., 2, 5, 12 e Tibullo, 1, 5, 31: «dulcia poma».

3. Il verso traduce Plutarco che scrive della persea egizia, Is. et Os., 68, 378c: 6T1 cxapdèia uv ò Kapròg avtig, yYAGTTN $È TÒ QUAROY Éo1Kev. La persea egizia (Mimusops schimperi) non corrisponde al Malum persicum, il pesco: sulle questioni inerenti tali terminologie botaniche nel mondo antico (presenti in Teofrasto come in Plinio, ecc.) si veda S. Amigues, in Théophraste, Recherches sur les plantes, vol. IL libri III -IV, Paris, 1989, pp. 205-206, nota 6;J. André,

Les

noms de plantes dans la Rome antique, Paris, 1985, pp. 147 e 193; cfr.

J-G. Griffiths, in Plutarco, De Iside et Osiride, cit., pp. 536-37. Sulla

identificazione della persea con il Mimusops schimperi: L. Keimer, Interpretation de quelques passages d'Horapollon, Le Caire, 1947, pp. 35-46, con accurata documentazione archeologica e botanica.

4. Da Virgilio, Ecl, 10, 46.

5. 10, 404-410: «Armeniisque et cereolis prunisque Damasci / Stipantur calathi et pomis, quae barbara Persis / Miserat, ut fama est, patriis armata venenis. / At nunc expositi parvo discrimine leti / Ambrosios praebent sucos, oblita nocendi. / Quin etiam eiusdem gentis de nomine dicta / Exiguo properant mitescere Persica malo».

6. 15, 44-46.

7. Questi sono ricchi di amigdalina (presente in gran quantità nei semi delle mandorle amare), un glucoside cianogenetico, ovvero capace di liberare acido cianidrico. 8. 1, 129; cfr. Galeno, XII, pp. 569-70

[Kùuhn].

9. Si veda, sopra, la nota 3.

10. Etym., 17, 7, 7. 11. In realtà si attribuiscono al pesco qualità della persea egizia: cfr. la nota 3.

12. 68, 378c.

13. Oltre a J.G. Griffiths, citato alla nota2, cfr. T. Hopfner, Plutarch, tiber Isis und Osiris, Prag, 1940-1941, vol. II, pp. 256-58;J. Hani, La

religion égyptienne dans la pensée de Plutarque, Paris, 1976, pp. 310-11. 14. 1, 7; Sbordone, pp. 14-16; per altri significativi riscontri del pensiero egizio con fonti greche e latine: C. Leemans, Horapollinis Niloi Hieroglyphica, cit., pp. 151-54.

15. Cfr. A. Delatte, La vie de Pythagore, cit., pp. 128-29, 222-23; M.

Pohlenz, Die Stoa, Gòttingen,

1959, trad. it. La Stoa. Storia di un mo-

vimento spirituale, Firenze, 1967, vol. I, pp. 170-73. 16. Cicerone,

Tusc., 1, 9, 18: «Aliis cor ipsum animus videtur »; Te-

NOTE renzio, Phorm., 321; Lucrezio, 4, 44; Marziale, 6, 64, 16; cfr. A.M. Negri, Gli psiconimi in Virgillo, Roma, 1984, pp. 194-201.

17. Alle pp. 508-509: « Albutii, cuius hoc epigramma est, Aurelii giu-

reconsulti meminit Alciatus»; su Albuzi e la controversa paternità

dell’epigramma: Thuilius, pp. xxx11- xxx11I e 612-13; P.E. Viard, André Alciat, cit., p. 179, nota 2. 18. Su Albuzi: D. Bianchi, L'’opera letteraria, cit., pp. 23 sgg.; P.É. Viard, André Alciat, cit., pp. 67, 170; Barni, nn. 5, 32, 48-53, 56, 63; R. Abbondanza, «Alciato (Alciati) Andrea», cit., pp. 72-73; H. Miedema, The Term, cit., p. 237, nota 16; accurata disamina del

rapporto fra Alciato e Albuzi in J. Kòohler, Alciatos Shadow: Aurelio Albucio, in «Emblematica», 9, 1995, pp. 343-67. 19. Dialogo, cit., p. 144.

20. R. Abbondanza, «Alciato (Alciati) Andrea», cit., pp. 70-71.

21. Ibid., p. ‘71; ma cfr. O. Giardini, Nuove indagini, cit., pp. 297 sgg. 22. Alla p. 614. 23. Mt., 13, 57; Lc., 4, 24; Gvu., 4, 44. 24. Fig. 1: A. 1550, p. 155; Fig. 2: Thuilius, p. 611; Index, Embl. 143. EMBLEMA

XXXI

1. A. 1534: «eirythacos» . 2. Manca in A. 1531; «Aliud» distingue in due Emblemi del tutto simili quello che nella versione del 1531 appariva, in maniera non troppo perspicua, un unico epigramma composto dal medesimo concetto ripetuto. Si tratta di un aggiustamento di Alciato per la stampa del 1534. Index, Embl. 94.

3. Isidoro, Etym., 17, 6, 2, intende con tale vocabolo un albero novello ancora tenero e adatto a un possibile innesto («Arbusta, arbor novella et tenera, in qua insertio fieri potest»). 4. Vesp., 297; cfr. in R. Tosi, Dizionario delle sentenze, cit., n. 1178. 5. II, 121, f. 126r7. 6. II, 123, f. 1267. 7. Lib. XXV, « de erythaco solitudinarius». 8. 13, 49: «Cum me ficus alat, cum pascar dulcibus uvis, / cur potius nomen non dedit uva mihi?».

9. Fig. 1: A. 1550, p. 101; Fig. 2: Thuilius, p. 399; Index, Embl. 94.

EMBLEMA

XXXII

1. A. 1531: «egregium» . 2. Cicerone, Arat., 34, 294: «summi lIovis ales»; Ovidio, Met., 6, 517: «Iovis ales»; Marziale, 1, 6, 1: «Aetherias aquila puerum portante per auras»; Colonna, vol. I, p. 323: «ALES MAGNA DICATA

OPTIM. IOVI» («il grande uccello consacrato a Giove Ottimo»); vol. IL p. 1013. L’aquila è topico attributo di Giove: Omero, [IL, 8, 247; 24, 292; Euripide, Ion., 156-157; Callimaco, Hymn., 1, 68; Arato, Phaen.,

522-523;

Eliano,

Nat.

an., 9, 10; D.W.

Thompson,

A

Glossary, cit., pp. 3-4. 3. Alciato cita un dipinto di cui proponiamo nel commento l’identificazione, tuttavia non si può escludere che l’ispirazione ecfrastica gli derivi dalla scultura con Ganimede rapito dall’aquila di Leocare, opera famosa ricordata da Plinio, 34, 79; Marziale, 1, 7; Anth. Gr., 12, 221; Taziano, Contr. Graec., 56.

4. Ganimede, « Puer iliacus»: Ovidio, Trist., 2, 1, 406; Marziale, 3, 39, 1; Giovenale, 13, 43. Ganimede appartiene alla stirpe reale di

Ilio: è figlio di Omero, I, 20, 5. Marziale, 9, (calzante con i

Troo, re dei Troiani (la prima testimonianza in 231-232; cefr. 5, 265-267). 54, 10: «propre summa rapax milvus astra volat» versi alciatei 1, 6, 1: «Aetherias aquila puerum»).

6. Ovidio, Ars, 2, 4: «Maeonioque

seni»; Orazio,

Carm., 4,9, 5-6:

«Maeonius Homerus»; nella poesia Omero è chiamato spesso Meo-

nide, sia perché, secondo una delle tante tradizioni, fu originario di

Smirne in Meonia, sia in quanto figlio o discendente del mitico

Meone. Omero canta il rapimento di Ganimede in /, 20, 230-235. 7. A. 1531: «Iovis».

8. Ovvero: chi prova gioia e beatitudine nella vicinanza di Dio e della sua saggezza, costui, come Ganimede, viene ‘rapito’ al subli-

me cospetto.

9. Dell’ampia bibliografia mi limito a segnalare, con particolare riferimento alla tradizione figurativa e plastica del mito: G. Kempter, Ganymed: Studien zur Typologie, Ikonographie und Iconologie,

Kòln-Wien, 1980, pp. 62-70 e 85 sgg.; Il mito di Ganimede prima e dopo Michelangelo, a cura di M. Marongiu, Firenze, 2002, pp. 9 sgg:. (sull’Emblema alciateo: pp. 64-65 e 104-105); H. Sichtermann,

«Ganymedes»,

in LIMC, vol. IV, tomo I, pp. 154-69; vol. IV, tomo

II, pp. 75-97; Mignault, pp. 33-38, offre un excursus sui significati

del mito.

10. Hymn., 5, 202-212. 11. Si veda Emblema XXYVIII, nota 4. 12. 8, 23 e 28-30.

NOTE

627

13. Sul tema nell’antica lirica greca: Alceo, Anth. Gr., 12, 64; cfr. le

poesie pederotiche di Teognide, 1335-1350, e di Stratone di Sardi:

Anth. Gr., 12, 194, 220 e 254; anche Platone, Phaedr., 255b-c; Leg., 636c-d, cita il mito in simili contesti omoerotici. Per la sua tradizio-

ne letteraria e figurativa nel Rinascimento cfr. Kempter, Ganymed,

cit., e Il mito di Ganimede, cit.; G. Poirier, L’homosexualité dans l’imaginaire de la Renaissance, Paris, 1996, pp. 11-13, 40, 116, 134-37. 14. 8, 30. 15. Index, Embl. 4. 16. A. Chastel, MarsilFicin, cit., pp. 129-33; E. Panofsky, Studi, cit.,

pp. 295 -303; G. Kempter, Ganymed, cit., pp. 85 sgg.

17. Comento sopra la Commedia, a cura di P. Procacciali, Roma, 2001,

vol. III (Purg., IX, 13-27), pp. 1183-84.

18. I boschi sul monte Ida nella Troade dove, secondo la leggenda, fu rapito Ganimede. Qui la «selva», spiega ancora Landino

(Comento, cit., p. 1182), è metafora di luogo isolato «a denotare la

vita contemplativa, che è solitaria». 19. Phaed., 67b-68b, 81a; Phaedr., 24'7c-d. 20. Cfr. il corpus illustrativo presente nei testi citati sopra, alla nota 9; F. Saxl, H. Meier, Catalogue of Astrological and Mythological Wumi-

nated Manuscripts of the Latin Middle Ages, London, 1953, vol. IIl, tomo I, pp. 115, 181, 303, 396; vol. III, tomo 1Il, tav. VII, 20. Plinio, 34, 79, descrive la celebre statua del ratto di Ganimede (si veda, so-

pra, la nota 3) dello scultore ateniese Leocare (attivo nel IV secolo a.C.), dove l’aquila, afferrando e portando il giovinetto, consapevole dell’importanza della preda, sta attenta a non ferirlo con gli artigli. La narrazione di Plinio ricompare in Colonna, vol. I, pp. 50-

51; vol. II, pp. 66-67 e 643-44.

2]1. Cfr. l’apparato figurativo in I7 mito di Ganimede, cit. 22. Per i riferimenti bibliografici, si veda la scheda n. 11 ibtd., pp.

60-61.

23. Sugli affreschi della Sala, il loro significato e le questioni attributive: G. Schweikhart, Un artista veronese di fronte all’antico. Gli affreschi zodiacali del Falconetto a Mantova, in Roma e l’antico nell’arte e nella cultura del Cinquecento, Roma, 1985, pp. 461-88; R. Signorini, Lo zodiaco di Palazzo D’Arco in Mantova, Mantova, 1989; L. Capodie-

ci, C. Ilari, ] segni del tempo. Prime considerazioni sullo Zodiaco di Palazzo D’Arco, in «Storia dell’Arte», 87, 1996, pp. 141-67; M. Bornoroni, Linguaggi astrologici tra scienza e mito dal Medioevo al Rinascimento, in L'’art de la Renaissance, cit., pp. 44- 48.

24. R. Abbondanza, «Alciato (Alciati) Andrea», cit., p. 71. 25. Igino, Astr., 2, 16: «Hunc [scil Acquario] complures Ganymedem esse finxerunt»: cfr. W. Drexler, «Ganymedes», in W.H. Ro-

628

NOTE

scher, Lexikon, cit., vol. I, tomo II, coll. 1596-98; A. Le Boeuffle, Les

noms latins d’astres et de costellations, Paris, 1977, pp. 218-19.

26. Cat., 26, pp. 144-45 [Robert]; l’Acquario/Ganimede è chiamato « Puer Idaeus» (Ovidio, Fast., 2, 145; Avieno, Ph., 980); «Troiade

puer» (Anth. lat., 619, 6); « Troicus ephebus» (Avieno, Ph., 550); «Phrygius ephebus» (:ibnd., 438; 838); «Lamedontiades ephebus»

(ibid., 647).

27. Ovidio, Fast., 2, 145-146: «Iam puer Idaeus media tenus eminet

alvo / et liquidas mixto nectare fundit aquas»; cfr. P. Ovidii Nasonis Fastorum libni sex, a cura di J.G. Frazer, London, 1929, vol. II, pp.

315-16.

28. Fig. 3: A. 1550, p. 10; Fig. 4: Thuilius, p. 26; Index, Embl. 4; cfr. Il mito di Ganimede, cit., pp. 104-105. 29. Carboncino, 1532: Cambridge (Mass.), Fogg Art Museum,

Harvard University Art Museum, inv. 1955-1975; cfr. Il mito di Ga-

nimede, cit., pp. 66 sgg., schede nn. 18 e 33. 30. Il modello poetico è Virgilio (Aen., 5, 252-255), che descrive il ratto di Ganimede ricamato su una clamide dorata e purpurea: sul corto mantello era raffigurato il giovane troiano mentre stava cacciando cervi sul monte Ida e quando poi veniva preso dall’aquila: sotto di lui, così innalzato, rimanevano i suoi accompagnatori, che smarriti levavano le mani al cielo, e i cani che si mettevano a latrare.

31. In Il mito di Ganimede, cit., pp. 90-91, scheda n. 26. EMBLEMA

XXXIII

]. Seneca, Ag., 590: «dirus amor».

2. L’epiteto «bacchica», considerata la funzione magico-erotica della motacilla cuì sì riferisce, ne rafforza il potere erotico, in quanto

Bacco incita con l’ebbrezza del vino la foga amorosa; cfr. la nota 5 dell’Emblema XIX. Non risulta che la motacilla sia attributo di Bac-

co; cfr. Mignault, pp. 291-92. 3. Pindaro, Pyth., 4, 213-221.

4. A. 1531: «Pegaseus». 5. Ovidio, Fast., 1, 491: « Pagaseus Iason» (cfr. Her., 19, 175; 16, 347;

Met., 8, 349): da Pàgase, porto all’estremità della Baia Pagasea, dove secondo il mito Giasone costruì la nave Argo. 6.

Medea,

detta

Phasiaca

o Phasida

dal

fiume

Phasis

(odierno

Rion) nella Colchide dove nacque: Ovidio, Ars, 3, 33; Fast., 2, 42; Her., 16, 347 e 19, 176; Rem., 261; Seneca, Herc. Oet., 950; Ag-, 121. 7. Pyth., 4, 213-220. 8. Hist. an., 504a.

NOTE

629

9, Hist. an., 6, 19.

10. 11, 256. 11. Idyll., 2, 17 sgg. (schol. Theocr., ad. loc.); cfr. Callimaco, fr. 685 [(Pfeiffer].

12. Cit., s.v. tuyE. Per ulteriori testimonianze: Glossary, cit., pp. 125 -26. 13. Ibid., pp. 124-25; S.S. Ingallina, Orazio e 1974, pp. 158-59. 14. Lib. XXV, «de iynge » e «incantatio ». Cfr. trahor » in Erasmo, Adagiorum opus, in Opera

hannes

Froben,

1540, vol. II, Chil. 1v, Cent.

D.W. Thompson, A la magia, Palermo, il proverbio «Iynge omnia, Basileae, Jo-

6, 10: « Quidam

gem vertunt moracillam, quod caudam assidue moveat».

Iyn-

15. Cfr. Pindaro, Pyth., 4, 213-220; A.-M. Tupet, La magie dans la poésie latine, Paris, 1976, pp. 50-55, 227 -29; V. Pirenne- Delforge,

L'’Iynge dans le discours mythique et les procedures magiques, in «Kernos», 6, 1993, pp. 277-89; C.A. Faraone, Ancient Greehk love magic, Cambridge (Mass.), 1999, pp. 55 sgg.; S.S. Ingallina, Orazio, cit.,

pp. 157-73.

16. Fig. 1: A. 1550, p. 86; Fig. 2: Thuilius, p. 343; Index, Embl. 78. 17. S.S. Ingallina, Orazio, cit., pp. 159-60; cfr. D.W. Thompson, A Glossary, cit., pp. 126-28; A.-M. Tupet, La magne, cit. 18. Fr. 685 [Pfeiffer]. 19. In Migne, PG, 122, col. 1133; Commentaire de « Oracles chaldaiques », in Oracles chaldaiques, a cura di É. Des Places, Paris, 1971,

pp. 170-71.

20. Sul problematico argomento si rinvia alfondamentale H. Lewy, Chaldaean Oracles and Theurtgy, nuova edizione a cura di M. Tardieu, Paris, 1978, pp. 249-52; C. van Liefferinge, La Théurgie. Des Oracles chaldaiques à Proclus, Liège, 1999, pp. 134-35, 149-50. EMBLEMA

XXXxIV

1. Orazio, Carm., 1, 3, 2: «Fratres Helenae, lucida sidera»; Igino, Astr., 2, 22, e Fab., 224, 1; Colonna, vol. I, p. 163: « due spectatis-

sime stelle ». 2. Purg., 6, 76-77 (cfr. Conv., 4, 5, 8: « pace universale era per tutto, che mai più, non fu né fia, la nave de l’umana compagnia dirittamente per dolce cammino a debito porto correa»). 3. Sulla questione: P.M. Daly, Alciato’s «Spes Proxima » Emblem: Gener-

al Allegory or Local Specificity ?, in «Emblematica», 9, 1995, pp. 257-67. 4. Alle pp. 187-88; cfr. Thuilius, pp. 224-26.

630

NOTE

5. A. Henkel, A. Schòne, Emblemata, cit., col. 1462.

6. Basti pensare ai numerosi componimenti d’intento etico-filosofico, sia nell’Anth. Gr. (9, 106-107 e 172; 10, 65 e 102) che in Orazio

(Carm., 1, 1, 13-15; 3, 29, 55-64; soprattutto

1, 14); in ge-

nerale cfr. A. Pulega, Da Argo alla nave d’amore: contributo alla storia di una metafora, Firenze, 1989; 48 sono i significati simbolici della nave in Ricciardi, vol. II, ff. 54v-55v; Valeriano dedica al soggetto

l’intero Lib. XLV: « de navi». 7. Resp., 488a-489a

(cfr. Jon, 540b; Leg., 758a, 945c); Plotino (3, 4,

6, 45-60) paragona la discesa dell’anima nella vita all’imbarco su un vascello con le turbolenze che in tale viaggio marino vanno congiunte. Apuleio, Met., 11, 15 e 25: «quin mari terraque protegas homines et depulsis vitae procellis salutarem porrigas dexteram ». 8. Frr. 6; 34; 73; 119; 326 [Liberman]. 9, Frr. 1; 2; 12; 103 [Laserre - Bonnard]. 10. Epist. ad fam., 12, 25, 5: «quam ob rem, mi Quinte, conscende

nobiscum et quidem ad puppim. Una navis est iam bonorum omnium, quam quidem nos damus operam ut rectam teneamus, utinam prospero cursu! Sed quicumque venti erunt, ars nostra certe non aberit. Quid enim praestare aliud virtus potest?». 11. Inst., 8, 6, 44: «Allegoria, quam inversionem interpretantur, aut aliud verbis, aliud sensu ostendit, aut etiam interim contra-

rium. Prius fit genus plerumque

continuatis tralationibus, ut “O

navis, referent in mare te novi / fluctus. O quid agis? Fortiter occu-

pa / portum”, totusque ille Horati locus, quo navem pro re publica, fluctus et tempestates pro bellis civilibus, portum pro pace atque concordia dicit». 12. Carm., 1, 14, 1-3. 13. Si veda, sopra, la nota 1. 14. Cfr. A. Le Boeuffle, Les noms latins, cit., pp. 208-21. 15. Già in Alceo, fr. 34; memorabile

Orazio

(Carm., 1, 12, 25-32:

« Dicam et Alciden puerosque Ledae, / hunc equis, illum superare pugnis / nobilem; quorum simul alba nautis / stella refulsit, / de-

fluit saxis agitatus umor, / concidunt venti fugiuntque nubes /

et minax, quod sic voluere, ponto / unda recumbit»); cfr. Catullo, 4, 25-27 sgg.; Ovidio, Fast., 5, ‘720; Plinio, 2, 101; Seneca, Nat., 1, 1, 13; Igino, Astr., 2, 22; per le varie fonti in merito: A. Le Boeuffle,

Les noms latins, cit., pp. 209-10; si veda anche l’esaustivo apparato di D. Vottero, in L. Anneo Seneca, Questioni naturali, Torino, 1989, p. 226, nota 13.

16. Pindaro, Pyth., 4, 173; cfr. il «Catalogus Argonautarum>», in C. Valerii Flacci Argonauticon libri octo, curante P. Burmanno, Leidae,

NOTE

631

1724, c. [41r-v]; O. Jessen, Prolegomeni in catalogum Argonautarum, Diss., Berolini, 1889, pp. 10, 12, 26-30.

17. Nat., 1, 1, 13: «In magna tempestate apparere quasi stellae solent velo insidentes; adiuvari se tunc periclitantes aestimant Pollucis et Castoris numine. Causa autem melioris spei est quod iam apparet frangi tempestatem et desinere ventos; alioquin ferrentur ignes, non sederent». 18. Si tratta di «quelle fiammelle, identificate coi Dioscuri e chiamate dai nostri marinai “fuochi di Sant’Elmo”, le quali appaiono talvolta in vari punti di una nave al cessare della tempesta, causate

da un fenomeno di elettrizzazione dell’atmosfera» (D. Vottero, in L. Anneo Seneca, Questioni naturali, cit.).

19.2, 101. 20. «Da cui deriverebbe, attraverso successivi passaggi, il nome attuale di Sant’Elmo» (D. Vottero, in L. Anneo Seneca, Questioni naturali, cit.); particolarmente

2, 101.

significativo in merito

Plinio,

2]1. Cfr. in A. Henkel, A. Schone, Emblemata, cit., coll. 1453-69;J.

Gelli, Divise- motti e imprese di famiglie e personaggi italiani, Milano, 1928, nn. 551, 676, 1722; M.A. De Angelis, Gli emblemi di Andrea Alciato, cit., pp. 161-62. 22. G. Corrozet, L’Hecatongraphie (1544), a cura di A. Adams,

nève, 1997, H. 70. 23. Cfr. Fig. 2: A. 1550, p. 50; Fig. 3: Thuilius, p. 224.

Ge-

24. A. Agustin, Dialoghi intorno alle medaglie, cit., p. 140; S. Erizzo, Di-

scorso sopra le medaglie, cit., pp. 678-82, in particolare p. 681: «Ma noi vediamo ancora nelle antiche monete in argento le teste di Castore et di Polluce l’una sopra l’altra con le due stelle di sopra ... infra le quali [monete]) vedesi la moneta in argento, che ha da una parte esse due teste di Castore et Polluce, sopra le quali si veggono le due stelle loro, et di sotto poi un’altra stella. Ha per riverso una nave rostrata con le sue figure dentro, et col suo ordine de remi con tale iscrizione MN FONTEI, cioè Manius Fonteius. La quale nave ci dimostra che queste stelle dei Castori furono da gli antichi tenute le protettrici dei naviganti, i quali essi nelle tempestose onde del mare invocavano per aiuto. Et io ancora ho veduto una medaglia di rame, greca, c’haveva per riverso una prua di nave, con li dui pilei dei Castori sopra di quella, sopra li quali si scorgevano le loro due stelle ».

25. Cit., pp. 102-10.

EMBLEMA

XXXxXV

1. Apuleio, Met., 9, 39: «iners asellus»; Virgilio, Georg., 1, 273: «Saepe oleo tardi costas agitator aselli»; Columella, 7, 3, 1. 2. Ovidio, Met., 14, 365: «Concipit illa preces»; Am., 3, 7, 44; Fast., 1, 182; Tnst., 3, 13, 18; Seneca, 77., 1101. 3. 266 [Chambry]; cfr. Corpus Fabularum Aesopicarum (Hunger], vol. I, tomo I1, fab. 193, p. 16. Sull’influenza delle favole esopiane

nell’emblematica alciatea: M. Tung, A Senal List of Aesopic Fables in Alciati’s «Emblemata », Whitneys «A Choice of Emblemes », and Peacham’s «Minerva Britanna », in «Emblematica», 2/4, 1989, pp. 315-29.

4. Ran., 159. 5. II, 103, £. 1257.

6. Alle pp. 48-49; cfr. J.M. Steadman, Una and the Clergy: the Ass Symbol in « TheFaerie Queene », in « Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 21, 1958, pp. 134-37. 7. Met., 6, 26; 8, 29; 9, 39. 8. Met., 11, 11 e 17. 9, Met., 8, 24-29. Erasmo,

II, 103, f. 1257: «Huc

allusisse videtur

Apuleius, cum se fingit asinum Cererem deam circumferentem». 10. Xilografia che orna il testo apuleiano con la processione della dea Siria in Apuleius cum commento Beroaldi. Et figuris noviter additis, Venetiis, Filippo Pincio, 1520, c. CCxxr.

11. Cfr.J. Baltrusaitis, La Quete d Isis, Paris, 1985; trad. it. La ricerca

di Iside, Milano, 1985, pp. 59 sgg.; D. Cameron Allen, Mysteriously Meant, cit., pp. 77, 117-18, 123-28; P. Castelli, «Iside venerata » nel labirinto del sapere tra Medioevo e Rinascimento, con Appendice documentaria, in Iside. Il mito il mistero la magia, a cura di E.A. Arslan, Mi-

lano, 1997, pp. 598-617.

12. Atagartis: R. Fleischer, « Dea Syria», in LIMC, vol. III, tomo

pp. 355-58; vol. III, tomo 11, pp. 263-66.

I,

13. 2, 4; 2, 19; 4, 46; 7, 22; 14, 46. 14. In L. Apulei Opera, cit., vol. I, pp. 999, 1009, 1024, 1045.

15. Vol I, pp. 368-70.

16. Genialium dierum libri sex, cit., vol. I, pp. 219, 697, 705; vol. II,

pp- 438, 510-12, 1026.

17. Lectionum antiquarium libri triginta, cit., coll. 217-19. 18. Lib. XIII: «luna»; Lib. XXXVIII: «literae aegyptiacae », «insti-

tutio »; Lib. XXXIX:

«de Iside».

19. P. Mattiangeli, Annio da Viterbo ispiratore di cicli pittoriai, in Annio

da Viterbo. Documenti e ricerche, a cura di G. Bonucci Caporali, Roma, 1981, pp. 255-303; F. Saxl, The Appartamento Borgia, in Lectures, Lon-

NOTE

633

don, 1957; trad. it. L'’appartamento Borgia, in La storia delle immagini, Bari, 1965, pp. 85-104.

20. Vol. I, p. 376. 21. Opera, cit., vol. I, pp. 713-14. 22. Fig. 2: A. 1550, p. 13. 23. Fig. 3: Thuilius, p. 46; sul 11 e 16-17 (cfr. J.G. Griffiths, cit., pp. 259-60); T. Tibiletti, Il mito..., cit., pp. 658-59; per

Navigium Isidis: Apuleio, Met., 11, 8in Apuleius of Madaura, The Isis- book, La festa del «Navigium Isidis », in Iside. l’abrotano: Plinio, 21, 60 e 160.

24. Alla p. 67: da Giraldi, vol. I, p. 369: «Isis ... Sunt qui naviculam in sinistra illi imponant, eamque coronatam abrotano dicant; alii in manu abrotanum ipsum statuunt». EMBLEMA

XXXVI

1. Gli elefanti, spiega Plinio, 8, 16, furono chiamati « Boves Lucas »

(« buoi lucani») dai Romani che li videro per la prima volta in Lu-

cania durante la guerra contro Pirro,; cfr. Varrone, Ling., 7, 39: « Luca bos elephans», dove si cita anche Nevio; Isidoro, Etym., 12, 2, 15.

L’immagine dell’elefante compare sul verso di monete greche, cartaginesi e romane: tra queste vi sono alcune di Antioco I Soter, a cui si riferisce l’Emblema, nelle quali è raffigurato sia un singolo pachiderma che una quadriga di elefanti trainante il carro della Vittoria. Scene trionfali simili a quest’ultima ricorrono in un sesterzio di Tiberio, dove quattro elefanti conducono il carro di Augusto divinizzato, come in medaglioni aurei di Diocleziano e Massimiano; cfr. H.H. Scullard, The Elephant in the Greek and Roman World, London,

1974, pp. 120 sgg., 255-56, tavv. XV e XXIV.

2. Nome

dato all’elefante per il suono che emette:

Orazio, Epod.,

12, 1; cfr. Paolo-Festo, p. 27 [Lindsay]: «Barrire elephanti dicun-

tur, sicut oves dicimus balare, utique a sono ipso vocis»; Isidoro, Etym., 12, 2, 14: «Elephas ... apud Indos autem a voce barro vocatur, unde et vox eius barritus et dentes ebur». 3. Xeus., 8-12.

4. Ph. Renouard, Les margques typographiques, cit., pp. 306-307, nn.

953 -954.

5. Fig. 2: A. 1550, p. 135; Fig. 3: Thuilius, p. 532. EMBLEMA

XXXVII

1. Silio Italico, Pun., 6, 174: «e faucibus antri». 2. In Virgilio (Aen., 2, 85: «nunc cassum lumine lugent») (Theb., 2, 15) in riferimento a chi è morto.

e Stazio

634

NOTE

3. 0d., 9, 105 sgg. 4. M. Lorandi, Il mito di Ulisse nella pittura a fresco del Cinquecento italiano, Milano, 1996, pp. 475-551; il tema era noto agli artisti rinascimentali anche attraverso modelli plastici antichi: P.P. Bober, R.O. Rubinstein, Renaissance Artists, cit., p. 157. 5. In Luciano, Dial. mort., 8, 359; cfr. R. Tosi, Dizionario delle senten-

ze, cit., pp. 122-28.

6. In Ovidio, Ars, 1, 646; Tibullo, 1, 6, 10. 7. In Opera omnia, cit., vol. II, p. 539: « Ulisses comite Minerva, om-

nia mostra superat»; «Cyclops impietatis ». 8. 0d., 9, 272-276 e 352; per Eraclito ( Quaest. Hom., 70) Polifemo personifica l’animo irrazionale. Sulla figura ‘mostruosa’ di Polifemo antitetica a quella di Ulisse: R. Clare, Representing Monstrosity: Polyphemus in the «Odyssey », in Monsters and Monstrosity in Greek and Roman Culture, a cura di C. Atherton, Bari, 1998, pp. 1-17.

9. 151

[Muncker].

10. 10, 14.

11. R. Clare, Representing Monstrosity, cit., pp. 10-14. 12. 5, 39, 115: «At vero Polyphemum Homerus cum inmanem ferumque finxisset».

13. Od., 375 sgg.

14. Fig. 1: A. 1550, p. 185; Fig. 2: Thuilius, p. 718; Index, Embl. 172; nell’edizione Wechel, Parigi, 1545, p. 41, si vede Ulisse che sta ac-

cecando Polifemo aiutato da un compagno. 15. Ph. Renouard, Les marques typographiques, cit., pp. 42-43; la marca, per esempio, compare nella Naturalis historia di Plinio del 1516 e nel De honesta disciplina di Pietro Crinito del 1518. 16. Cfr. il ricco apparato documentale e figurativo in T. Husband, Tihe Wild Man: Medieval Myth and Symbolism, Catalogue of an exhi-

bition

held

at the Cloisters,

Metropolitan

York, 1980, pp. 24 sgg., 118 sgg., 131 sgg.

EMBLEMA

Museum

of Art, New

XXXVIII

1. A. 1531: «Iusticia »; altrettanto nell’ultimo verso. 2. Achille, nipote di Eaco: Virgilio, Aen., 1, 99: «ubi Aeacidae telo iacet Hector»; Ovidio, Met., 12, 82: «Hactenus Aeacides». 3. Ulisse, così chiamato da Itaca, la sua patria: Ovidio, Met., 13, 98; Virgilio, Aen., 2, 104; Properzio, 1, 15, 9; Marziale, 11, 104, 15; Gio-

venale, 10, 257. 4. Op., 217: dixn 8 vnép VBpiog loxel g tÉA 06 EEeABovoa.

NOTE 5. 6. 7. 8. 9.

635

1, 31, f. 127. Epigrammata, pp. 42-43 (Anth. Gr., 9, 115 e 116). Her., 35, 10-15. 1, 35, 4-5. Nov. Hist., 5, in Mythographi Graeci, p. 192 [Westermann].

10. Omero, Od., 12, 405 sgg.

11. Ibid., 11, 541-564.

12. Fig. 1: A. 1550, p. 35; Fig. 2: Thuilius, p. 162; Index, Embl. 28.

EMBLEMA

XXXIX

1. «In foecunditatem»: A. 1550, p. 207; Index, Embl. 193.

2. 152 [Chambry]. 3. Assegnato ad Antipatro di Tessalonica o a Platone il Giovane

(Anth. Gr., 9, 3).

4. A. Moss, Ovid in Renaissance France. A Survey of the Latin editions of Ovid, London, 1982, pp. 56-57, 66 sgg., 81. 5. VoL II, f. 94v. 6. Fig. 1: A. 1550, p. 207; Fig. 2: Thuilius, p. 822; Index, Embl.

193.

7. Cfr. E. Wind, Platonic «fustice» Designed by Raphael, in « Journal of the Warburg Institute», 1, 1937, pp. 69-70; S.J. Delaney, The Iconography of Giovanni Bellini’s Sacred Allegory, in «Art Bulletin», 59,

1977, pp. 331-35. 8. 1 Cor., 13, 4-7.

EMBLEMA

XL

1. Gli scrittori romani descrissero la battaglia di Filippi (Macedo-

nia) del 42 a.C., che vide Bruto e Cassio contro Antonio e Ottavia-

no, come combattuta sullo stesso terreno di quella di Farsalo (Tessaglia) fra Cesare e Pompeo nel 48 a.C., similitudine dovuta al fatto che a Filippi si ripeté la tragedia fratricida dello scontro di Farsalo: Virgilio, Georg., 1, 489; Ovidio, Met., 15, 824-825: « Pharsalia

sentiet illum, / Emathiaque iterum madefient caede Philippi »; cfr. Lucano, 7, 853; Giovenale, 8, 242. 2. «Infelix virtus»: Seneca Senior, Contr., 4, 7, 1, 15; Manilio, 4, 94;

Stazio, Theb., 10, 238. 3. Orazio,

Carm.,

nam aequoris». 4. Brut., 52.

1, 35, 1-6: «O

diva [sal. Fortuna]

... / te domi-

636

NOTE

5. 47, 48 -49, 2.

6. Simile e di grande effetto grafico la Fig. 1: A. 1550, p. 131; cfr. Fig. 2: Thuilius, p. 512.

7. Cfr.in Trag. Graec. Fragm., p. 910 [Nauck].

8. 47, 49, 2: è tTAMuov aper, Abyog àp’ Nio@’ [GAAwG], éyb $É ce / a Épyov \oxcxovuv: ov È àp’ EÈdovAeveEGg TUAN. 9. R. Guerrini, Bruto Minore, in M. Caciorgna, R. Guerrini, La virtù

figurata. Eroi ed eroine dell’antichità nell’arte senese tra Medioevo e Rinascimento, Siena, 2003, pp. 69-72. EMBLEMA

1. Boccaccio,

XLI

Gen., 13, 22, 2: «a Tritone Neptuni tubicina».

2. Ovidio, Fast., 5, 512: «aequoreus deus». 3. De orat., 3, 16, 60-61:

«cuius ingenium variosque sermones im-

mortalitati scriptis suis Plato tradidit, cum ipse litteram Socrates nullam reliquisset»; Ph:l, 2, 13, 33.

4. Epist. ad fam., 13, 16, 4: «Doctum igitur hominem cognonvi et studiis optimis deditum, idque a puero. Nam domi meae cum Diodoto Stoico, homine meo iudicio eruditissimo, multum a puero fuit.

Nuncautem incensus studio rerum tuarum eas litteris Graecis mandare cupiebat. Posse arbitror; valet ingenio, habet usum, iam pridem in eo genere studi litterarumque versatur, satis facere immortalitati laudum tuarum mirabiliter cupit». 5. Si deve a Roberto Guerrini e ai suoi allievi il merito di avere affrontato e discusso in questi ultimi anni, con autorevole rigore storico-scientifico e iconologico, le tematiche riguardanti l’influenza di Plutarco e di Valerio Massimo nelle arti figurative e plastiche, sia in ambito medioevale che rinascimentale; mi limito a segnalare dei recenti lavori, dove si troverà l’adeguata bibliografia di riferi-

mento: Biografia dipinta. Plutarco e l’arte del Rinascimento 1400-1550,

a cura di R. Guerrini, con scritti di M. Caciorgna, C. Filippini, R. Guerrini, La Spezia, 2002; Ritratto e biografia. Arte e cultura dal Rinascimento al Barocco, a cura di R. Guerrini, M. Sanfilippo, P. Torriti, La Spezia, 2004; M. Caciorgna, R. Guerrini, La virtù fi gurata, cit.

6. Cfr. Thuilius, pp. 570-71.

7. Su queste particolari immagini si veda soprattutto Rhet. Her., 3,

35-37; Cicerone, De orat., 2, 358; Quintiliano, Inst., 8, 3, 75; 11, 2, 22. Per la bibliografia cfr. in M. Gabriele, a cura di, L’arte della me-

moria per figure, cit., pp. ‘7-16.

8. Fig. 1: A. 1550, p. 144; Fig. 2: Thuilius, p. 568; Index, Embl. 133. 9. Esiodo, Theog., 930-933; Cicerone, Nat. deor., 1, '78; Cornuto, The-

NOTE

637

ol. gr. comp., 43; ma si veda, anche per l’iconografia, E. Feherle, in

W.H. Roscher, Lexikon, cit., vol. V, coll. 1150-207; N. Icard-Gianolio, «Triton», in LI MC, vol. VIII, tomo 1, pp. 68-73; vol. VIII, tomo

II, pp. 42 -46.

10. Igino, Astr., 2, 23, 3: «Huius similis est historia de bucina Trito-

nis. Nam is quoque fertur, cum concham inventam excavasset, secum ad Gigantas tulisse et ibi sonitum quemdam inauditum per concham misisse. Hostes autem veritos ne qua esset inmanis fera ab adversariis adducta, cuius esset ille mugitus, fugae se mandasse,

et ita victos in hostium potestatem pervenisse ». 11. Sulle fonti antiche e la rivisitazione in ambito medioevale e ri-

nascimentale della Gigantomachia: Colonna, vol. II, pp. 574-75. 12. Ovidio, Met., 1, 333-347; cfr. Cicerone, Nat. deor., 2, 89. 13. Gen., 7, 7, 1-3. 14. Met., 1, 330-335.

15. Sat., 1, 8, 4: «Illud non omiserim, Tritonas cum bucinis fastigio

Saturni aedis superpositos, quoniam ab eius commemoratione ad nostram aetatem historia clara et quasi vocalis est, ante vero muta et oscura et incognita, quod testantur caudae Tritonum humi mersae et absconditae». A questo monumento e all’inizio della ‘storia’ ai tempi di Saturno Alciato fa riferimento nella lettera a Galeazzo Visconti del 1517, in Opera omnia, cit., vol. II, p. 533; cfr. in Barni, n. 154, p. 222.

16. Lib. XLVII: «de tuba». 17. Aen., 4, 1'73-188: velocissima, alata, infaticabile, dal corpo pieno di piume e altrettanti vigili occhi, lingue, bocche e orecchie

protese; cfr. Ovidio, Met., 12, 39 sgg.; Silio Italico, 4, 1 sgg.; Anth. Lat., 312 e 313; Claudiano, Bell. Get., 201.

18. In G. Carandente, / trionfi, cit., pp. 9 sgg., 98 sgg.; si veda l’ac-

curata esegesi di M. Ariani, in Francesco Petrarca, no, 1988, pp. 279-348.

Triumphi, Mila-

19. 1, 2; Sbordone, p. 4; C. Leemans, Horapollinis Niloi Hieroglyphica, cit., p. 125; cfr. Horapollo l’Egiziano, Trattato sui geroglifici, cit.,

pp. 84-85. 20. Certi significati dell’ouroboros, correlati alla naturale trasforma-

zione di tutte le cose, assunsero presso l’ermetismo e l’alchimia, fin

dall’epoca greco-egizia, la valenza ontologica dell’unità del tutto nel proprio necessario fluire senza fine; concezione che ritroviamo nei trattati alchemici fino ai tempi moderni: H.J. Sheppard, The Quroboros and the Unity of the Matter in Alchemy: A Study in Ori-

gins, in «Ambix»,

10, 1962, pp. 83-96;J. Lindsay, The Ongins of Al-

chemy in Graeco- Roman Egypt, London, 1970, pp. 260-77, 305 sgg.; M. Gabriele, Alchimia e iconologia, cit., pp. 27-28.

038

NOTE

2]1. Sat., 1, 9, 12: «Phoenices in sacris imaginem

eius exprimentes

draconem finxerunt in orbem redactum caudamque suam devorantem, ut apparet mundum et ex se ipso ali et in se revolvi»; cfr. Servio,

In Aen., 5, 46 e 85; Giovanni Lido, Mens., 3, 4, p. 39 [Wuensch].

22. De laud. Stil., 3, 424 sgg. 23. Valeriano, Lib. XIV:

«mundi

machina»

e «tempus»;

cfr. W.

Deonna, Le symbolisme de l’acrobatie antique, Bruxelles, 1953, pp. 13035, con copiosa e specifica bibliografia sul tema. 24. Myth. Vat. II, 1, 6, p. 155 [Bode]; W. Deonna, Le symbolisme, cit.;

E. Panofsky, Stud:, cit., pp. 94-134. 25. Ma nelle successive stampe degli Emblemata il serpe avrà sempre la dovuta sagoma a circolo; Fig. 1: A. 1550, p. 144; Fig. 2: Thuilius, p. 568.

26. Giovanni Lido, Mens., 3, 4, p. 39 [Wuensch], riferendosi alle sa-

cre dottrine degli Egizi, collega il circolo ouroborico alla figura geometrica del cerchio quale immagine dell’anno che in se stesso ha inizio e fine.

2'7. In Andreae Alciati Antiquae inscriptiones, cit., cc. 34v-35r; P. Laurens, F. Vuilleumier, De l’archéologie à l’emblème, cit., p. 89. Il No-

stro, nella nota che accompagna il disegno, osserva che l’ippopo-

tamo, animale feroce e terribile, designa il tiranno Aureolus, ag-

giungendo che la «ragione di ciò si troverà nei Hieroglyphica di Horapollo» (cfr. 1, 56; Sbordone, pp. 117-18). 28. Per significati e fonti: Colonna, vol. I, p. 345; vol. II, pp. 1040 -42.

29. C. Bonner, Studies in Magical Amulets, Ann Arbor, 1950, pp. 19, 158, 250, nn. 133, 136, 139-141 sgg.; W. Deonna, The Crab, cit.; M.G.

Lancellotti, Il serpente ouroboros nelle gemme magiche, in Gemme gnostiche e cultura ellenistica, « Atti dell’incontro di studio Verona 22-23 ottobre

1999», a cura di A. Mastrocinque, Bologna, 2002, pp. 72-78.

30. La gemma della Fig. 5 è tratta da A. Gorlaeus, Dactyliotheca, cum explicationibus Jacobi Gronovii, Lugduni Batavorum, 1695 (prima edizione,

1601), vol. IL n. 391, cfr. nn. 410, 414, 554; la

gemma della Fig. 6 è tratta daJ. Macarius, Abraxas seu Apistopistus quae est antiquaria de gemmis basilidianis disquisitio. Accedit Abraxas Proteus. Exhibita & Commentario illustrata à Ioanne Chifletio, Antuerpiae, 1657, n. 98, cfr. nn. 49, 66, 98. Quest’opera, pubblicata da Jean Chiflet, riprende gli studi, lasciati manoscritti, del sacer-

dote Jean L’Heureux (Macarius), che studiò e raccolse antichità a Roma nella seconda metà del XVI secolo; cdfr. in A. Mastrocinque, a cura di, Gemme gnostiche, cit., pp. 127-33, 422-42. Su tale icono-

grafia si veda anche: H. Philipp, Mira et Magica: Gemmen im Agyptischen Museum der staatlichen Museen. Preussischer Kulturbesitz BerlinCharlottenburg, Mainz am Rhein, 1986, pp. 32, 68, 78, 82-84, 93,

NOTE 110-13,

639

118-20; S. Michel, Die Magischen Gemmen, cit., pp. 58-59,

140, 364, 369, 382, 384, 440 -41. 31. M.G. Lancellotti, Il serpente ouroboros, cit., pp. 71-85; p. 77: «Il

serpente ouroboros appare allora una delle tipiche immagini che accompagnano o si identificano con l’Aion stesso, nella sua duplice qualità di estensione spaziale e temporale la cui infinitezza va interpretata come ciclicità che da se stessa si origina e in se stessa si risolve. Nelle gemme sembra prevalere un’interpretazione dell’ ouroboros in senso cosmologico, inteso sia come rappresentazione della vis caeli maxima o anima mundi, sia come

cosmo ed extracosmo».

estremo limite tra

32. Sull’argomento: P. Zazoff, Die Antiken Gemmen, Munchen,

1983,

pp- 1-23; A. Mastrocinque, a cura di, Gemme gnostiche, cit., pp. 127-33. 33. Un esempio di questo collezionismo sono le gemme medicee, la cui raccolta di cammei e intagli fu iniziata da Cosimo il Vecchio e poi incrementata da Lorenzo come dai successori: Îl tesoro di Lorenzo il Magnifico. 1. Le gemme, a cura di N. Dacos, A. Giuliano, U. Pannuti, Firenze, 1973, pp. 3-32; Le gemme dei Medici al Museo degli

Argenti, coordinamento di O. Casazza, Firenze, 2007, pp. 21-71. 34. G.F. Hill, A Corpus of Italian medals, cit., n. 520.

EMBLEMA

XLII

1. Stazio, Theb., 2, 251-252: «Innuptam limine adibant / Pallada».

2. Pseudo Virgilio, Culex, 87: « colit lucos». 3. Sui «laquei Amoris»: perzio, 2, 34, 48.

Ovidio, Rem., 501-502, e Ars, 1, 284; Pro-

4. Platone, Hipp. Ma., 290b; Plinio, 36, 15-19; Valerio Massimo, 8, 14, 6; Plutarco, Per., 31, 2-5; Is. et Os., ‘75, 381e; Pausania, 1, 24, 5-

7; luoghi paralleli in J.G. Frazer, Pausania’s Description of Greece, cit.,

vol. IL pp. 312-13; cfr. A. Corso, R. Mugellesi, in Plinio, Storia naturale, vol. V, Torino, 1988, pp. 541-45 e relative note.

5. Similmente Fig. 1: A. 1550, p. 28; cfr. Fig. 2: Thuilius, p. 122.

6. Suo attributo eccellente: simbolo di sapienza celeste, di pace e di immortalità che a essa vanno congiunte, di vittoria come pure di verginità e purezza, perché l’olio non si contamina con altri liquidi (Cornuto, Theol. gr. comp., 38-39), è inoltre pianta di significati mistici ed esoterici: J. Murr, Die Pflanzenwelt, cit., pp. 40-48; F. Cumont, Lux perpetua, Paris, 1949, pp. 34-35; S. Mayassis, Architecture Religion Symbolisme. Le bois, Athènes, 1964, pp. 194-97; Colonna, vol. II, p. 611; Valeriano, Lib. LIII: «de olea: pax, aeternitas, victoria, etc.». Si veda la nota 1 dell’Emblema L.

640

NOTE

7. L’accostamento è ovviamente rinascimentale, non antico, e pro-

cede per elementare analogia libro/sapienza: un volume chiuso o aperto diventerà attributo canonico della Sapienza nell’ Iconologia di Cesare Ripa, cit., pp. 440-42 (ed. 1603). 8. Is. et Os., 75, 381e; cfr. l’Emblema C. 9, 19, 9. 10. 20, 36. 11. Mit., 2, 1: «Minerva denique et Athene Graece dicitur quasi athanate parthene, id est inmortalis virgo, quia sapientia nec mori poterit nec corrumpi»; Boccaccio,

Gen., 2, 3, 6, sottolinea che con

la verginità di Minerva si deve intendere che la sapienza non può

essere contagiata da cose mortali, ma rimane pura, luminosa, inte-

gra e perfetta («semper pura, semper lucida, semper integra et perfecta est»); Giraldi, vol. I, pp. 328-29. 12. 6, 567-574: «Virgo armata, decens rerum sapientia, Pallas, / aethereius fomes, mens et sollertia fati / ingenium mundi, prudentia

sacra

Tonantis

/ ardor

doctificus

nostraeque

industria

sortis, / quae facis arbitrium sapientis praevia curae / ac rationis apex divumque hominumque sacer nus» («Nobile vergine armata, sapienza del mondo, Pallade, alimento etereo, mente e accor-

tezza del fato, ingegno dell’universo, sacra saggezza del Tonante, ardore che rende dotti, principio operoso della nostra sorte, che previdente nella sollecitudine plasmi la decisione del sapiente, sei l’apice della ragione e sacra mente degli dèi e degli uomini»). 13. Si veda la nota 14 dell’Emblema I.

14. Myth. Vat. II, 10, 3 [Bode]: «Illa [scil. Pallade] vero armis virgi-

nitatem defendit, quia omnis sapiens ad integritatem morum defendendam

contra furiam virtute animi dimicat».

15. Cfr. in Valeriano, Lib. XV: «rex tutelaris».

16. 4, 21, 1-4: «Vulpes ... / pervenit ad draconis speluncam ultimam, / custodiebat qui thesauros abditos»; cfr. Marziale, 12, 53, 4-5. 17. Sat., 1, 20, 3: «Nam

ferunt hunc serpentem acie acutissima et

pervigili naturam sideris huius [scil. Sole] imitari, atque ideo aedium adytorum oraculorum thesaurorum custodiam draconibus adsignari»; cfr. Paolo-Festo, p. 59 [Lindsay]: «Clarissimam enim dicuntur

habere oculorum aciem: qua ex causa incubantes eos thesauris custodiae causa finxerunt antiqui ». 18. Lucus è un bosco consacrato, distinto da nemus e da silva; Servio, In Aen., 1, 310: «Jlucus enim est arborum multitudo cum reli-

gione, nemus vero composita multitudo arborum, silva diffusa et

inculta»; cfr. G. Stara-Tedde, / boschi sacri dell’antica Roma, in « Bul-

NOTE

641

lettino della Commissione archeologica comunale», 2, 1905, pp. 189-232; M.W. De Visser, De graecorum diis, cit., pp. 135 sgg. 19. Virgilio, Aen., 5, 84-96; Servio, In Aen., 5, 85.

EMBLEMA

XLIII

1. Letteralmente: «che infrange le navi», «che fa fare naufragio»:

Virgilio, Aen., 3, 553; in A. 1531: «naufragum» .

2. Epigrammata, p. 96. 3. Anth. Gr., 9, 42, cfr. anche 9, 40 e 41. 4. Oratio Ferrariae habita, in Opera omnia, cit., vol. II, p. 551.

5. Per i vari significati nel Rinascimento: Valeriano, Lib. XX: «de scutis»; Ricciardi, vol. II, f. 1937.

6. 30, 5. 7. Tusc., 2, 54. 8. Cons. Philos., 1, 4, 17; cfr.J. Gruber, Kommentar zu Boethius De con-

solatione philosophiae, Berlin, 1978, pp. 112-13.

9. 6, 569: «hinc tibi dant clipeum, sapientia quod regat orbem, / vel rationis opem quod spumea proelia poscant, / ... et scutum circulus ambit»; cfr. Remigii Autissiodorensis Commentum in Martianum Capellam, a cura di C.E. Lutz, Leiden, 1965, vol. II, pp. 122-23.

10. Su questa divinità si vedano gli Emblemi I e XLII e relative annotazioni. 11. Marziano Capella, 6, 567: «rationis apex dirumque hominumque sacer nus»

(si veda Emblema

XLII, nota 12); Alexander Nec-

kam, Commentum super Martianum, a cura di Ch.J. McDonough, Firenze, 2006, pp. 75-76: «Matrem non habet [scil. Pallade], quia sine principio et fine est, quemadmodum Sophia»; l’argomento è

connesso

all’autorevolezza e alla fortuna di Platone,

il quale,

ri-

prendendo una tematica già presente nei Presocratici e nei Pitagorici, spiegò nel Timeo (33b; cfr. A.E. Taylor, A Commentary on Plato’s Timaeus, Oxford,

1928, pp. 101-102, 358-81; M.-P. Lerner, Le

monde des spheres, Paris, 1997; trad. it. Il mondo delle sfere, Milano, 2000, pp. 2-26) che la sfera è la più bella e perfetta di tutte le forme: con essa il Demiurgo modellò il cosmo, e sferici sono i corpi degli astri divini. La forma sferica contiene in sé tutte le altre forme, dunque anche le cinque che rappresentano gli elementi cosmologici (Tim., 53b-56a). Il simbolismo della sfera/mondo o sfera/tutto percorrerà l’intera tradizione cosmologica e astronomica occidentale: H.G. Gundel, Zodiakos. Tierkreisbilder im Altertum, Mainz

am Rhein, 1992, pp. 40 sgg., 74 sgg.; SK Heninger, The Cosmographical Glass, Renaissance Diagrams

of the Universe,

San

Marino

(Cali-

642

NOTE

fornia), 1977, pp. 14 sgg., 34-36, 46-47; B. Obrist, La cosmologie médiévale. Textes et imagines. 1. Les fondaments antiques, Firenze, 2004,

pp. 20-21, 37-46, passim.

12. Mantegna, 1431-1506 / Musée du Louvre, a cura di G. Agosti e D. Thiébaut, Paris, 2008, pp. 345 -47. 13. Fig. 1: A. 1550, p. 174; Fig. 2: Thuilius, p. 682; Index, Embl. 162.

EMBLEMA

XLIV

1. «Colchis»: vulgatissimo epiteto di Medea, figlia di Eete, re della

Colchide; cfr. I1.B. Carter, Epitheta deorum quae apud poetas latinos le-

guntur, in W.H. Roscher, Lexikon, cit., Suppl., vol. II, pp. 66-67. 2. A. 1531: «mortem?»; Thuilius, p. 825: «improba? mortem » . 3. Epigrammata, p. 138. 4, Anth. Gr., 9, 95. 5. Euripide, Med., 1204 sgg.; Ovidio, Met., 7, 394-397; Seneca, Med., 817 e 920 sgg.; Igino, Fab., 25; Boccaccio, Seneca; cfr. l’Emblema XCVIII.

Gen., 13, 26, 5, cita

6. Poi trasformata in rondine; Ovidio, Met., 6, 619-655 (cfr. Am., 2, 6, 7 sgg.; Ars, 2, 381-383; Rem., 61-62); Apollodoro, 3, 14, 8; Igino,

Fab., 45; Servio, In Ecl,, 6, 78; Myth. Vat. I, 1, 4 [Zorzetti-Berlioz];

Boccaccio, Gen., 9, 8, 1-2; Colonna, vol. II, pp. 1000-1001; cfr. Emblema XCIX, nota 3. 7. Fig. 1: A. 1550, p. 208; Fig. 2: Thuilius, p. 824; Index, Embl. 194.

EMBLEMA

XLV

1. Livio, 1, 13, 6: «Ex bello tam tristi laeta repente pax». 2. Livio,

1, 19, 3; Svetonio, Aug., 22, 1, 3; Tacito,

«Parta pace».

Hist., 5, 10, 9:

3. A. 1531: «melle». 4, A. 1531: «tamen ». 5. Sallustio, Jug., 20, 5,6; Tacito, Hist., 5, 25, 16: «bellum sumere ».

6. A. 1531: «Quum». 7. Fast., 1, 696 -704: « Bella diu tenuere viros: erat aptior ensis / vo-

mere, cedebat taurus arator equo; / sarcula cessabant, versique in pila ligones, / factaque de rastri pondere cassis erat. / Gratia dis

domuique tuae, religata catenis / iampridem vestro sub pede bella iacent. / Sub iuga bos veniat, sub terras semen aratas. / Pax Cererem nutrit, Pacis alumna Ceres».

NOTE

643

8. Georg., 1, 505-508: «tot bella per orbem ... / et curvae rigidum falces conflantur in ensem>»; cfr. Claudiano, Get., 463 -466. 9. 14, 34: «Pax me certa ducis placidos curvavit in usus. / Agricolae nunc sum, militis ante fuit». 10. Arma a forma di falcione, con l’estremità superiore molto ricurva, detta anche «ensis falcatus» o «hamatus»: Cicerone, Mil., 9]1; Cesare, Gall., 3, 14; Ovidio, Met., 1, 718 e 4, ‘727.

11.1, 124, 2. 12. Cfr. in R. Tosì, Dizionanio delle sentenze, cit., n. 1204. 13. 6, 18, 7; cfr. Cicerone, De off., 1, 23; Orazio, Sat., 2, 2, 110-111. 14. 3, prol., 8. 15. Cit. sopra, alla nota 1. 16. 1, 62; Sbordone, pp. 125-27; C. Leemans, Horapollinis Niloi Hie-

rogljphica, cit., pp. 291-92,

distingue

altre interpretazioni gero-

glifiche; in Valeriano, Lib. XXVI, l’ape è, tra l’altro, geroglifico di

« populus regi suo obsequens», di «rex», di «regnum>», di « poeticae amoenitas» e di «diuturnae valetudinis prosperitas».

17. Fig. 1: A. 1550, p. 191; Fig. 2: Thuilius, p. 737. EMBLEMA

1. Cfr. Ausonio,

XLVI

Griph. tern. num., 38-41

[Green]:

«Illa etiam tha-

lamos per trina aenigmata quaerens, / qui bipes et quadrupes foret

et tripes, omnia solus, / terruit Aoniam, volucris leo, virgo, trifor-

mis / Sphinx, volucris pinnis, pedibus fera, fronte puella». Sull’aspetto della Sfinge (volto di donna, corpo di leone e ali di uccello): Apollodoro, 3, 5, 8; altre fonti alla nota 9.

2. A. 1531: «causa». 3. A. 1531: «Delphici» . 4. A. 1531: «litera »; Ovidio, Ars, 2, 498 -500: « Duc, age, discipulos

ad mea templa tuos, / Est ubi diversum fama celebrata per orbem / Littera, cognosci quae sibi quemque iubet».

5. Ovidio, Met., 7, ‘760-761: « praecipitata [scil. Sfinge] iacebat /

immemor ambagum vates obscura suarum»; cfr. Apollodoro, 3, 5,

8; Mignault, p. 651; Thuilius, pp. 797 -98.

6. Il lauro, sacro ad Apollo, è simbolo di vittoria (Ovidio, Met., , 557-564) e di vaticinio (Tibullo, 2,5, 81-84); cfr. Pitiscus, Lexicon,

cit., vol. II, pp. 397-98; sugli usi e il simbolismo:J. Murr, Die Pflanzenvwelt, cit., pp. 92-98; D.C. Hesseling, De usu coronarum apud Graecos, Lugduni Batavorum, 1886, pp. 21-24, 41 sgg.; Valeriano, Lib. L: «de lauro»; Ricciardi, vol. II, ff. 339v-340v.

644

NOTE

7. Sull’intera questione, sulla sua tradizione, sui riferimenti storicocritici, letterari e filosofici si rinvia al fondamentale lavoro di P. Courcelle, Connais-toi toi- méme. De Socrate à Saint Bernard, Paris,

1974-1975 (trad. it. Conosci te stesso. Da Socrate a san Bernardo, a cura di F. Filippi, Milano, 2001); sulla fortuna del proverbio cfr. anche in R. Tosi, Dizionanio delle sentenze, n. 347. 8. I, 595, f. 74r-v; la sentenza è esaminata da Giraldi, vol. I, p. 222. 9. Cfr. J. Ilberg, «Sphinx», in W.H. Roscher, Lexikon, cit., vol. IV, coll. 1298 -408; N. Kourou et al., «Sphinx», in LIMC, vol. VIII, to-

mo I, pp. 1149-74; vol. VIII, tomo 11, coll. 794-817;J. Fontenrose, Python. A Study of Delphic Myth and Its Orngins, Berkeley, 1980, pp. 310-15. Sulla Sfinge e il suo enigma: Esiodo, Theog., 326 sgg.; Sofo-

cle, Oed. Tyr., 391 sgg.; Euripide, Phoen., 45 sgg., 806, 1019 sgg., 1042; Apollodoro, 3, 5, 8; Diodoro Siculo, 4, 64, 3 sgg.; Pausania, 9, 26, 2-4; Seneca, Oed., 92 sgg.; Igino, Fab., 67; altre testimonianze in Apollodoro, B:iblioteca, con il commento di J.G. Frazer, edizione italiana a cura di G. Guidorizzi, Milano, 1995, p. 303. 10. 3-4; Dione Crisostomo, 10, 31-32, che probabilmente deriva dalla stessa Tabula: R. Joly, Le Tableau de Cebes, cit., pp. 53-55; D. Pesce, La Tavola di Cebete, cit., pp. 44-45; sì veda la nota 13 dell’Emblema XIV.

11. Per riferimenti anche iconografici e per il duplice significato simbolico della Sfinge nel Rinascimento, sia ‘custode di arcani segreti e di misteri’ sia imago dell’‘ignoranza colpevole’: A. Chastel, Note sur le Sphinx à la Renaissance, in Umanesimo e simbolismo, IV Con-

vegno Internazionale di Studi Umanistici, Padova, 1958, pp. 17982, dove si cita anche questo Emblema di Alciato. 12. Nat. deor., 3, 38: «Qualem autem deum intellegere nos possumus nulla virtute praeditum? Quid enim, prudentiamne deo tribuemus, quae constat ex scientia rerum bonarum et malarum et nec bonarum nec malarum? Cui mali nihil est nec esse potest, quid huic opus est dilectu bonorum et malorum, quid autem ratione quid intellegentia: quibus utimur ad eam rem ut apertis obscura adsequamur; at opscurum deo nihil potest esse »; cfr. ancora Cice-

rone, Fin., 1, 46-53 e Inv., 2, 160; luoghi paralleli nell’edizione A.S. Pease del De natura deorum, cit., vol. II, pp. 1035 -40.

13. 38 -41: si veda, sopra, la nota 1; il Griphus è un gioco letterario e aritmologico, una sorta di indovinello in cui ricorrono diverse variazioni sull’impiego e il significato del numero tre. Il testo del Griphus è discusso da Alciato a proposito dei tre modi di acquistare la libertà: Parergon iunis libri XII, in Opera omnia, cit., vol. II, coll.

446 -47. 14. Fig. 1: A. 1550, p. 202.

15. A. Agustin, Dialoghi intorno alle medaglie, cit., p. 155.

NOTE

645

16. A.F. Goriì, Museum Florentinum, cit., II, tav. LXXXXIV:.L. do, F.M. Vanni, Le gemme, cit., p. 165, n. 11.

Ton-

17. Cfr., sopra, la nota 9; Thuilius, p. 796; G. De Tervarent, Attributs et symboles, cit., pp. 421-23;

H. Demisch, Die Sphinx.

ihrer Darstellung von dem Anfangen

Geschichte

bis zum Gegenwart, Stuttgart,

1979, pp. 132-57 (nell’arte romanicae gotica), pp. 167-74 (nel Ri-

nascimento).

18. Su questa tarsia e i suoi significati: M. Gabriele, Hermes christianus nel Duomo

di Siena, in Alchimia e iconologia, cit., pp.

107-20, e

Elementi egizi nella tarsia di Ermete nel Duomo di Siena, in Studi interdiscieplinari sul Pavimento del Duomo di Siena, a cura di M. Caciorgna,

R. Guerrini, M. Lorenzoni, Siena, 2005, pp. 57-68; R. Guerrini, Er-

mete e le Sibille. Il primo riquadro della navata centrale e le tarsie delle navate laterali, in Il Pavimento del Duomo di Siena. L'’arte della tarsia mar-

morea dal XIV al XIX secolo. Fonti e simbologia, a cura di M. Caciorgna

e R. Guerrini, Siena, 2004, pp. 13-51.

19. Colonna, vol. I, p. 129; vol. II, pp. 754-56; cfr.J. Baltrusaitis, La ricerca di Iside, cit., tav. VIII; P. Giovio, Dialogo, cit., p. 142. 20. A. Fulvio, Ilustrium imagines, Romae, Ilacopo Mazzocchi,

1517,

CC. XI7, XVU, XVII7, XXIV7, XXV7, ecc. 2]1. Thuilius, p. 796 (Fig. 2). 22. Cfr. J.B. Friedman, The Monstrous Races, cit., pp. 26 sgg., 178 sgg.; C. Lecouteux, Les monstres dans la pensée méediévale européenne,

Paris, 1993 (1999°), pp. 59-81.

23.Cfr. R. Bernheimer,

Wild Men in the Middle Ages, Cambridge,

1952, pp. 21 sgg., 85 sgg., 179-80, figg. 11 sgg., 24, 47-48; docu-

mentazione iconografica in T. Husband, The Wild Man, cit., pp. 24 sgg., 132 sgg. EMBLEMA

XLVII

1. Marziale, 4, 73, 2: « per Stygias esset iturus aquas». Lo Stige è

uno dei fiumi degli Inferi: O. Waser, «Styx», in W.H. Roscher, Lexikon, cit., vol. IV, coll. 1566-79; sulle acque dello Stige: J.G. Frazer, Pausania’s Description, cit., vol. V, pp. 248-52; per i suoi si-

gnificati demonologici: F. Cumont, Lux perpetua, cit., pp. 370-71.

2. Cicerone, Div., 1, 23: «Quattuor tali iacti casu Venerium efficiunt»; 2, 121: «Quid est tam incertum quam talorum iactus? ». 3. A. 1534: «ndabat » . 4. Cicerone, Epist. ad fam., 1, 1, 2: «nec precibus nostris nec admo-

nitionibus relinquit lJocum ». 5. Mignault, p. 465: « Tecto: tegula».

646

NOTE

6. Traduce la congiunzione ast (che a sua volta rende la particella greca dÉ) con senso continuativo e rafforzativo dell’idea precedente. 7. Per la traduzione di questo verso si veda in fine al commento. 8. Epigrammata, p. 49 (Anth. Gr., 9, 158). 9, Cnem. et Damn., 8.

10. 26, 6, 12. 11. 122, 174; cfr. in R. Tosi, Dizionanrio delle sentenze, cit., n. 1609. 12. Svetonio, Caes., 32: «Iacta alea esto » («Si getti il dado »); cfr. R. Tosi, Dizionario delle sentenze, cit., n. 1609.

13. 7, 25, 10. 14. Sui diversi aspetti e momenti di questo tipo di divinazione: schol. Plat. Lys., 4560; schol. Pind. Pyth., 4, 338; Plauto, Asin., 903905; Cicerone, Div., 1, 23 (cfr. 2, 48 e 2, 121): «Quattuor tali iacti

casu Venerium efficiunt? »; Ovidio, Trist., 2, 473-477; Properzio, 4, 8, 45-46; Marziale, 14, 14-16; Svetonio, Aug., 71 e Tib., 14; Pausania, 7, 25, 10 (importanti le osservazioni di J.G. Frazer, Pausania’s

Description, cit., vol. IV, pp. 172-73); altre citazioni e referenze: S. Pitiscus, Lexicon, cit., vol. III, s.v. «talus», pp. 541-42; sulle partico-

larità tecniche dell’astragalomanzia: T. Hopfner, « Astragalomanteia», in Pauly-Wissowa, Realencyclopàdie der Classischen Altertumswissenschaft, Supplementa, Pease, in M.T. Ciceronis the Dice for an Answer, in ra di S.I. Johnston, P.T.

vol. IV, Munchen, 1924, pp. 51-56; A.S. De divinatione, cit., p. 122; F. Graf, Rolling Mantiké. Studies in Ancient Divination, a cuStruck, Leiden - Boston, 2005, pp. 60-66.

15. Fig. 2: A. 1550, p. 148; Fig. 3: Thuilius, p. 557; Index, Embl. 130. 16. Barni, n. 11.

17. Genialium dierum libri sex, cit., vol. I, pp. 789-91. Analisi dei termini tesserae talus anche in Thuilius, p. 3. 18. Cit., coll. 955 -56. 19. Cfr. l’ultimo verso dell’Emblema VII.

20. Aug., 71: «quas manus remisi » («tutte le poste che ho condonato»): il brano ricorda Augusto che si dilettava con gli amici a giocare agli astragali («talis enim iactatis») a soldi. Osserva Pieter Burmann nel suo commento a questo passo di Svetonio: «Proprie tamen manus est iactus ipse: nam in alea singuli iactus sic dicuntur manus » (C. Svetonius Tranquillus, cum notis integris Jo. Bapt. Egna-

tii ... et selectis aliorum, curante P. Burmanno, Amstelaedami, vol. I, p. 387); cfr. Quintiliano, Inst., 9, 1, 20; 5, 13, 54. 21. Barni, nn. 89 e 153.

1736,

22. Cfr. M. De Nardi, Gli astragali: contributo alla conoscenza di un

NOTE

647

aspetto della vita quotidiana, in « Quaderni friulani di archeologia», 1, 1991, pp. 75-88.

EMBLEMA

XLVIII

1. Nel teatro romano il coràgo (dal greco Xopny6c: termine con cui si designava sia il conduttore del coro sia il magistrato preposto agli spettacoli drammatici e alle relative spese) era colui che provvedeva all’allestimento della scena e della rappresentazione, svolgendo una attività simile a quella del nostro coreografo: Plauto, Pers., 159-160;

Curc., 464 sgg.; Trin., 858: «ipse ornamenta a cho-

rago haec sumpsi suo periculo».

2. Cfr. in R. Tosi, Dizionario delle sentenze, cit., nn. 215-220, 420.

3. 43 [Chambry]. 4. 1, 7: «Personam tragicam forte vulpes viderat: / “O quanta species” inquit “cerebrum non habet!” / Hoc illis dictum est, qui-

bus honorem

et gloriam

/ Fortuna tribuit, sensum

communem

abstulit». 5. M. Pugliarello, Le origini della favolistica classica, Brescia, 1973, pp. 31-47; per una rassegna sui significati dell’animale: S. Bochart, Hierozoicon, cit., vol. II, pp. 190-206; Valeriano, Lib. XIII: «de vulpe»,

ne indica i seguenti valori geroglifici: «calliditas dolosa, mala cogitatio, magnum conatus cum dolo, ratiocinatio, munimentum».

6. 3, 43.

7. Che in seguito non avranno significative modifiche grafiche:

Fig. 1: A. 1550, p. 203; Fig. 2: Thuilius, p. 803; Index, Embl.

189.

8. S.n., fab. XXXVI, dfr. Aesopus. Vita et fabulae latine et italice per Franc.

De Tuppo 1485, a cura di C. De Fede, Napoli, 1968, pp. 274-78.

9. C. elr, fab. XXXVI; cfr. G. Mardersteig, Îl tipografo veneziano Manfredo Bonello e le sue illustrazioni per l’Esopo del 1491, in Esopo, Favole, Introduzione di G. Manganelli, traduzione di E. Ceva Valla,

Milano, 1976, pp. 30-33.

EMBLEMA

XLIX

1. A. 1531 e A. 1534: «deciscentes»; corretto in «desciscentes» nelle edizioni successive, come in A. 1550, p. 90; Index, Embl. 83. 2. Plinio, 32, 5: «limaci magnae similem esse dicunt»; si veda, sotto, la nota 8.

3. Thuilius, p. 364: «una causa sunt controversiae aut litis movendae tricae et quasi tendiculae, altera est amor meretricius et amasiarum illecebrae».

648

NOTE

4. Sul simbolismo della barca o naviglio: Valeriano, Lib. XLV: «de navi»; Ricciardi, vol. I, ff. 54v-55v; A. Pulega, Da Argo alla nave

d’amore, cit., pp. 35 sgg.; si veda l’Emblema XXXIV. 5. Lib. XXX: «de remora. Nam ea de causa impedimentum et obiectam tardationem per eam significari prodiderunt, quod pisciculus is, non maioris fere quam pedalis magnitudinis, limacis magnae similis, navigia stare cogat, nullo suo labore, non retinendo, neque alio modo quam adhaerendo»; cfr. Ricciardi, vol. II, f. 168r. 6. 9, 79: «Est parvus admodum piscis adsuetus petris, echeneis appellatus. Hoc carinis adhaerente naves tardius ire creduntur, inde

nomine inposito »; il nome echeneis dal greco éXevnic: «che trattiene o ritarda le navi».

7. 32, 2-5.

8. 32, 4-5: «Tenuit et nostra memoria Gai principis ab Astura Antium renavigantis — ut res est, etiam auspicalis pisciculus, siquidem novissime tum in urbem reversus ille imperator suis telis confossus

est —, nec longa fuit illius morae admiratio, statim causa intellecta,

cum e tota classe quinqueremis sola non proficeret, exilientibus protinus qui quaererent circa navem. Invenere adhaerentem gubernaculo ostenderuntque Gaio indignanti hoc fuisse, quod se revocaret quadringentorumque remigum obsequio contra se intercederet. Constabat peculiariter miratum, quomodo adhaerens tenuisset nec idem polleret in navigium receptus. Qui tunc posteaque videre eum, limaci magnae similem esse dicunt». 9. Fig. 1:A. 1550, p. 90; Fig. 2: Thuilius, p. 363; Index, Embl. 83. 10. Aristotele, Hist. an., 505b; Oppiano,

Hal,

1, 212 sgg.; Eliano,

Nat. an., 1, 36 e 2, 17; Ovidio, Hal., 99; Lucrezio, 6, 674; Isidoro,

Etym., 12, 6, 34.

EMBLEMA

L

1. Olivo « arbor Palladis»: Ovidio, Ars, 2, 518, e Met., 6, 335; Pseu-

do Ovidio, Nux, 28: « Palladis arbor»; Marziale, 1, 76, 7; Silio Itali-

co, 1, 238; Virgilio, Georg., 1, 18-19: «oleaeque Minerva / inventrix »;

Cornuto, Theol. gr. comp., 38 -39; sull’olivo sacro a Pallade si veda la nota 6 dell’Emblema XLII; Thuilius, p. 136. 2. Bacco: Plauto, Men., 835: «Bacche Bromie! »; Ovidio, Met., 4, 9-

11: «matresque nurusque / ... Bacchumque vocant Bromiumque»;

Petronio, 41, 6; Stazio, Silv., 2, 2, 4 e 2, 3, 38, e Theb., 7, 651 e 9, 428;

Marziale, 4, 45, 8; epiteto e altro nome tra i più frequenti del dio del vino (cfr. in C.F.H. Bruchmann, Epitheta deorum quae apud poe-

tas graecos leguntur, in W.H. Roscher, Lexikon, cit., Suppl., vol. I, pp. 81-82; I.B. Carter, Epitheta, cit., p. 59): Dioniso Bromios (Bponutog,

NOTE

649

da Bpénosc: «fragore, strepito »), così detto per la frenesia delle sue liturgie con danze e canti a carattere orgiastico; cfr. H. Jeanmaire,

Dionsysos, Paris, 1951; trad. it. Dioniso, Torino, 1972, pp. 61, 81-83, 111, 146, 238-42, 262. Il nome e il suo significato sono conosciuti a Giraldi, vol. I, p. 275, che richiama Orfeo e Cornuto.

3. Anth. Gr., 9, 130. 4. Sulla dea e il significato della sua incorruttibilità virginale si veda l’Emblema XLII. 5. Cfr., sopra, la nota 1. 6. Sulla vite sacra a Bacco/Dioniso: J. Murr, Die Pflanzenwelt, cit.,

pp. 130-41; H. Jeanmaire, Dioniso, cit., pp. 20 sgg.

7. Cfr. Mignault, pp. 112-13.

8. 14, 88 -89. 9. Am., 1, 6, 59: «Amor vinumque nihil moderabile suadent». 10. 2, 33b, 33: «vino forma perit, vino corrumpitur aetas». 11. Lib. LIII: «de olea» e «de vite ». 12. Fig. 1: A. 1550, p. 30; Fig. 2: Thuilius, p. 135; Index, Embl. 24.

EMBLEMA

LI

1. Thuilius, p. 374: «Nomen fictum ab Alciato ».

2. Plauto, Aul, 724-'725: «egomet me defraudavi / animumque

meum

geniumque

dans genium».

meum>»;

lT'erenzio, Phorm., 44: «suum

3. Ovidio, Met., 3, 466: «quod cupio, mecum pia fecit».

est: inopem

defru-

me co-

4. Nelle edizioni successive «pretiosa»: Index, Embl. 86. 5. Così in Emblemi di Andrea Alciato huomo chiarissimo. Dal latino nel vulgare Italiano ridotti, Padova, Pietro Paolo Tozzi, 1626, p. 122.

6. Letteralmente: «ingannare il proprio genio tutelare», ovvero privare se stesso del necessario, negarsi il godimento della vita;

cfr., sopra, la nota 2.

7. Mignault, pp. 312-14; Thuilius, p. 374. 8. Anth. Gr., 11, 397. 9. 8, 469b. Plutarco dedica un opuscolo dei suoi Moralia, il De cupiditate divitiarum, al tema dell’avarizia.

10. Molto apprezzato nell’antichità: Anth. Gr., 11, 34 e 44; Orazio,

Carm., 3, 19, 5, e Sat., 1, 10, 26; Plinio, 14, 73 e 96-97.

11. Fig. 1: A. 1550, p. 93; Fig. 2: Thuilius, p. 373; Index, Embl. 86.

12. Sulla continuità e le variazioni del motivo: G. Cames, Allégories et

650

NOTE

symboles dans l’« Hortus deliciarum », Leiden, 1971, pp. 61-67; S. Bl6cker, Studien zur Ikonographie des Sieben Todsunden in der niederlàndischen und deutschen Maleret von 1450-1560, Munster - Hamburg, 1993, pp. 107-15; C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali. Sto-

ria dei peccati nel Medioevo, Torino, 2000, pp. 96-123; F. Rigon, I1 be-

stiario dei vizi, in « Bollettino del Museo Civico di Bassano del Grap-

pa», 25, 2004, pp. 185-202. Erasmo inserirà diversi proverbi sull’avarizia negli Adagia, ricorrendo per il suo commento alla patristica, ai classici e a passi biblici, denotando quanto tale vizio fosse radicato nella società del tempo: D. Ménager, Philosophie et théologie de l’avarice chez Erasme, in « Seizième Siècle», 4, 2008, pp. 35 -45.

13. Ef., 5, 5; Col., 3, 5. 14. Roma, 1603, pp. 29-35. EMBLEMA

LII

1. A. 1531: «echneide». 2. Gli spicula sono frecce che si lanciano con le mani o corte lance, e sono così dette perché hanno la forma di una spiga (spica): Isi-

doro, Etym., 18, 8, 2.

3. Ovidio, Pont., 1, 3, 60: «Sarmatica spicula missa manu».

4. Sarà questo il modello grafico per le altre edizioni: A. 1550, p. 26 (Fig. 1); Thuilius, p. 116 (Fig. 2); Index, Embl. 20.

5. Lib. XLII: «arcus et sagittae ». 6. Lib. XXX: «de remora». 7. 10, 11: «Verbum “mature” quid significet quaeque vocis eius ratio sit; et quod eo verbo volgus hominum inproprie utatur; atque inibi, quod “praecox” declinatum “praecocis” faciat, non “praecoquis”. “Mature” nunc significat “propere” et “cito” contra ipsius verbi sententiam; aliud enim est “mature”, quam dicitur. Propterea P. Nigidius, homo in omnium bonarum artium disciplinis egregius: “mature” inquit “est quod neque citius est neque serius, sed medium quiddam et temperatum est”. Bene atque proprie Nigidius. Nam et in frugibus et in pomis “matura” dicuntur, quae neque cruda et inmitia sunt neque caduca et decocta, sed tempore suo adulta maturataque. Quoniam autem id, quod non segniter fiebat, “mature” fieri dicebatur, progressa plurimum verbi significatio est et non iam, quod non segnius, sed quod festinantius fit, id fieri “mature” dicitur, quando ea, quae praeter sui temporis modum properata sunt, “inmatura” verius dicantur. Illud vero Nigidianum rei atque verbi temperamentum divos Augustus duobus Graecis verbis elegantissime exprimebat. Nam et dicere in sermonibus et scribere in epistulis solitum esse aiunt:

orevòde

Bpadéws,

NOTE

651

per quod monebat, ut ad rem agendam simul adhiberetur et industriae celeritas et diligentiae tarditas, ex quibus duobus contrariis fit maturitas. Vergilius quoque, si quis animum adtendat, duo ista verba “properare” et “maturare” tamquam plane contraria scitissime separavit in hisce versibus: frigidus agricolam si quando continet imber, multa, forent quae mox caelo properanda sereno, maturare datur. [ Georg., 1, 259-261]

Elegantissime duo verba ista divisit; namque in praeparatu rei rusticae per tempestates pluvias, quoniam otium est, “maturari” potest, per serenas, quoniam tempus instat, “properari” necessum est. Cum significandum autem est, coactius quid factum et festinantius,

tum rectius “praemature” factum id dicitur quam “mature”».

8. A. Swoboda, P. Nigidii Figuli Operum reliquiae, Wien, 1889, p. 78;

sull’autore e l’opera: L. Ferrero, Stornia del pitagorismo nel mondo romano, Torino, 1955, pp. 287-310; A. Della Casa, Nigidio Figulo, Ro-

ma, 1962; N. D’Anna, Publio Nigidio Figulo. Un pitagorico a Roma nel 1° secolo a.C., Milano, 2008, pp. 13 sgg. 9, Si veda Emblema XXI, nota 8.

10. 11, 21: «Quae cuncta nos quoque observabili patientia sustinere censebat, quippe cum aviditati contumaciaeque summe cavere et utramque culpam vitare ac neque vocatus morari nec non iussus

festinare deberem».

|

11. Si veda Emblema XXI, nota 27. 12. Cicerone, Tusc., 4, 20, 46: «In omnibus fere rebus mediocritatem esse optumam »; Orazio, Epist., 1, 18, 9: « Virtus est medium vitiorum et utrimque reductum>»; dfr. in R. Tosi, Dizionario delle sen-

tenze, cit., n. 1758.

13. Orazio, Carm., 2, 10, 5; si veda in R. Tosi, Dizionanio delle senten-

ze, cit., n. 1759.

14. Met., 2, 137; cfr. i geroglifici in Colonna, vol. I, p. 134; vol. II, p. 617.

EMBLEMA

1. Columella,

LIII

11, 1, 4: «nihil recte sine exemplo docetur»; cfr. Mi-

gnault, p. 364: « Publius Mimus: “Ex vitio alterius sapiens emendat

suum”»; Thuilius, p. 434.

2. In Opera omnia, cit., vol. II, p. 533.

3. Epigrammata, p. 333 (Anth. Gr., 16, 107 e 108). Nel De mirabilibus

auscultationibus, 81, attribuito ad Aristotele in età antica, si narra

652

NOTE

che Dedalo realizzò due statue, una di bronzo e una di stagno, per

commemorare il figlio e se stesso.

4. In Thuilius, p. 433 (cfr. M.A. De Angelis, Gli emblemi di Andrea Al-

ciato, cit., p. 208) si intende che l’immagine di Icaro non sia una

statua bensì una pittura ad encausto, ma i versi di Giuliano non lasciano dubbi che si tratti di una scultura bronzea.

5. Sui vari aspetti del mitologema e le testimonianze iconografiche

antiche: J.E. Nyenhuis,

« Daidalos et Ikaros», in LIMC, vol. IIlI, to-

mo I, pp. 313-21; vol. III, tomo 11, pp. 237 -42.

6. Notevole in Ovidio il richiamo alla equilibrata ‘moderazione’ con cui Dedalo istruisce il figlio a volare a mezza altezza e a man-

tenersi fra l’alto e il basso: Met., 8, 203-205: «Instruit et natum “medio” que “ut limite curras, / Icare,” ait “moneo, ne, si demissior ibis, / unda gravet pennas, si celsior, ignis adurat. / Inter

utrumque vola”». 7. Peculiare Ovidio, Ars, 2, 75-84: «Iamque novum

delectat iter

positoque timore / Icarus audaci fortius arte volat / ... cum puer,

incautis nimium temerarius annis, / altius egit iter deseruitque pa-

trem»; Servio, Ad Aen., 6, 14: « Icarus altiora petens, dum cupit coeli portionem conoscere, pennis solis calore resolutis, mari in

quod cecidit nomen Icarium inposuit»; Virgilio, Aen., 6, 14-33;

Apollodoro, 2, 6, 3, e Epit., 12-13; Igino, Fab., 40. 8. In Opera ommnia, cit., vol. I, col. 133.

9. Cfr. T. Hegedus, Early Christianity and Ancient Astrology, New York, 2007; sulla condanna del 1277: E. Grant, Planets, Stars, and Orbs. Tihe Medieval Cosmos, 1200-1687, Cambridge, 1996, pp. 50-58, 155-56, 528-35.

10. L. Desanti, Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas. Indovini

e sanzioni nel diritto romano, Milano, 1990, pp. 17 sgg., 49 sgg., 107

sgg., 133 sgg., 150 sgg.; ancora fondamentale: F.H. Cramer, Astrology in Roman Law and Politics, Philadelphia, 1954, pp. 232-83. 11. Cfr. Mignault, p. 363. 12. G. Pico della Mirandola, Disputationes adversus astrologiam divinatricem, a cura di E. Garin, Firenze, 1946, vol. I, pp. 47 sgg.; S.A.

Farmer, Syncretism in the West: Pico's 900 Theses (1486): The Evolution

of Traditional, Religious, and Philosophical Systems: with Text, Transla-

tion, and Commentary, Tempe, 1998, pp. tiastrologica nel Rinascimento mi limito Spiritual and Demonic Magic from Ficino 1958, pp. 199 sgg., 214 sgg.; P. Zambelli,

137-51; sulla disputa ana segnalare: D.P. Walker, to Campanella, London, L’ambigua natura della ma-

gia, Venezia, 2000, pp. 76-118; S. Vanden Broecke, Tihe Limits of In-

fluence: Pico, Louvain, and the Crisis of Renaissance Astrology, Leiden, 2003, pp. 55-81; per il mondo pagano: F.H. Cramer, Astrology, cit.

NOTE

653

13. Fig. 1: A. 1550, p. 113; Fig. 2: Thuilius, p. 432; Index, Embl.

188.

EMBLEMA

LIV

1. Marziale, 9, 54, 10: « propre summa rapax milvus astra volat». 2. A. 1531: «Quaque».

3. Thuilius, p. 710: «Iniuria et damnum». 4. A. 1531: «ulctus».

5. 4 [(Chambry]. 6. I, 913, f. 103r-v:

«Scarabeus aquilam

quaerit»; cfr. Erasmo

da

Rotterdam, Adagia. Sei saggi politici in forma di proverbi, a cura di S.

Seidel Menchi,

Torino,

1980, pp. 120-95.

Erasmo

ricorda alcuni

esempi e varianti del proverbio già in Aristofane, Lys., 694 sgg.; Pax, 129-134. 7. Is. et Os., 10, 355a; sull’uso di questo simbolo religioso/ militare: T. Hopfner, Plutarch, cit., vol. II, pp. 93-95; G. Griffiths, in Plutarco, De Iside et Osiride, cit., p. 289. 8. Nat. an., 10, 15.

9. Similmente in Horapollo, 1, 10 (Sbordone, pp. 19-25), lo scarabeo è maschio unigenito perché nasce da se stesso. 10. Lib. VIII: « de scarabeo »; cfr. Ricciardi, vol II, f. 1907- v.

11. Fig. 1: A. 1550, p. 182; Fig. 2: Thuilius, p. 725; Index, Embl. 169. EMBLEMA

LV

1. Trombetta di ottone simile a una buccina o corno; Paolo-Festo, p.

103 [Lindsay]: « Est enim genus bucine incurvae, quo qui cecinerit,

dicitur liticen. Ennius

[Ann., 530): “Inde loci lituus sonitus affudit

acutos”»; Ovidio, Fast., 3, 216: «iam lituus pugnae signa daturus erat».

2. A. 1531: «Hinc». 3. Virgilio, Aen., 2, 313: «clangorque tubarum» e 8, 526: «tubae mugire per aethera clangor».

4. 325 [Chambry].

5. In Thuilius, pp. 726-28, vari esempi a riguardo, derivati sia dalla letteratura classica greca e latina che cristiana. 6. Fig. 1: A. 1550, p. 187; Fig. 2: Thuilius, p. 725; Index, Embl. 174.

EMBLEMA

]. «Pater Oceanus»: 349; 16, 37.

Virgilio,

LVI

Ciris, 392;

Silio Italico, 5, 395;

14,

2. A. 1531: «tu». 3. A. 1531: «licent». 4. Ehgrammata, p. 10 (Anth. Gr., 9, 291).

5. Figurato nell’epigramma dall’immenso ‘padre Oceano’ per la

grande moltitudine degli eserciti di Solimano e la celerità delle sue conquiste: Mignault, p. 186; Thuilius, p. 221; M.A. De Angelis, Gli emblemi di Andrea Alciato, cit., pp. 214-16. 6. Lib. LI: «de quercu>»; cfr. Ricciardi, vol. II, ff. 160v-161 r. 7. I, 356, f. 49v: «Annosam

arborem trasplantare»; cfr. anche I, f.

92r: « Fx quercubus ac saxis nati».

8. Cfr. A.B. Cook, Jupiter and the Oak, in «Classical Review», 17, 1903, pp. 174-86, 268 -78, 403-21; 18, 1904, pp. 75-89;J. Murr, Die

Pflanzenwelt, cit., pp. 4-12; S. Mayassis, Architecture Religion Symbolisme. Le bois, cit., pp. 192-94.

9. Met., 1, 106; 7, 623: «sacra Iovi quercus»; Am., 3, 10, 9. 10. Aen., 3, 466; 6, ‘771-772; Georg., 1, 149; Ecl, 1, 17; si veda Servio ai rispettivi passi. 11. Aymn.,

1, 22.

12. Omero, Il, 16, 235; Callimaco, Hymn., 4, 286; sull’uso di tale pratica presso i popoli italici: Cicerone, Div., 1, 96; Ovidio, Fast., 4, 649 -662; Virgilio, Aen., 7, 86-90; cfr. L. Deubner, De incubatione ca-

pita quattuor, Leipzig, 1900; P. Amandry, La mantique apollinienne à

Delphes, Paris, 1950, pp. 37 sgg.

13. Fig. 1: A. 1550, p. 49; Fig. 2: Thuilius, p. 219; Index, Embl. 42.

EMBLEMA

LVII

1. Plinio, praef., 31; sì veda, sotto, la nota 6.

2. Ovidio, Ars, 1, 13: «totiens exterruit hostes»; cfr. Livio, 6, 15, 7. 3. Virgilio, Aen., 2, 85: «nunc cassum lumine lugent»; Stazio, T'heb., 2, 15-16: «iam lumine cassi / defuit». 4. La larva, nella credenza religiosa romana, è lo spettro, il fanta-

sma, il cattivo spirito di un trapassato che per i delitti commessi, la

vita scellerata, o per non avere ricevuto una sepoltura rituale, non

ha pace e vagola di notte tormentando i vivi: S. Pitiscus, Lexicon,

cit., vol. II, p. 392; G. Wissowa,

«Larvae», in W.H.

Roscher,

Lexi-

NOTE

655

kon, cit., vol. II, tomo 11, coll. 1901-902; S.S. Ingallina, Orazio, cit.,

pp. 150-52.

5. Epigrammata, p. 9 (Anth. Gr., 16, 4).

6. I, 22, 355 sgg. 7. H. Buchthal, Historia Troiana. Studies in the History of Mediaeval

Secular Illustration, London, 1971; B. Degenhart, A. Schmitt, Corpus, cit., vol. I, tomo 1, pp. 131-32; vol. II, tomo I, pp. 91-114; vol.

II, tomo I1l, pp. 374-78; M. Gabriele, Il mito degli Argonauti e la Guerra di Troia nell’affresco tardomedievale della villa di Bellagio: inda-

gini iconologiche, in «Critica d’Arte»,

5, 1996, pp. 26-42;

ancora

prezioso per le analisi dei vari poemi e prose sulla «storia tro jana»: E Gorra, Testi inediti di storia trojana, Torino, 1887; le fonti latine sono raccolte e commentate in Dictys Cretensis et Dares Phygius De bello trojano ex editione S. Artopoei cum notis et interpretatione — accedunt Josephi Iscani De bello trojano libri sex, Londini, 1825. 8. Praef., 31: «Nec Plancus inlepide, cum diceretur Asinius Pollio orationes in eum parare, quae ab ipso aut libertis post mortem Planci ederentur, ne respondere posset: “cum mortuis non nisi larvas luctari”»; cfr. Aulo Gellio, 15, 31, 4. Sulla letteratura in me-

rito: A. Stramaglia, Res inauditae, incredulae. Storie di fantasmi nel mondo greco- romano, Bari, 1999.

9. I, 152, f. 27r. 10. Fig. 1: Mignault, p. 539; Fig. 2: Thuilius, p. 654; Index, Embl.

154.

EMBLEMA

LVIII

1. A. 1531: «comercia» . 2. Cfr. R. Tosi, Dizionario delle sentenze, cit., n. 1588.

3. Mignault, p. 572; cfr. Emblema LXXV, nota 2. 4. Su questo motto di origine oraziana

(Ep., 1, 12, 19): E. Wind,

Maisteri pagani, cit., pp. 106 sgg., 241 sgg., 329 sgg.; R. Tosi, Dizionario delle sentenze, cit., n. 1201. 5. 354 [Chambry].

6. 11 [Gaide]. 7. Cfr. R. Tosi, Dizionanio delle sentenze, cit., n. 1374. La sentenza è discussa da Erasmo (I, 32, f. 12v) che ne ricorda l’antichità menzionando Esiodo (Opera et dies, 346), dove appunto si afferma che il cattivo vicino è una rovina, mentre il buono un grande aiuto.

8. 771-772. 9. Fig. 1: A. 1550, p. 179; Fig. 2: Thuilius, p. 698; Index, Embl. 166.

EMBLEMA

1. Cicerone, Div., 2, 150: Italico, 6, 616-617.

LIX

«liceat quieta mente

2. 10, 355a; cfr. Valeriano, Lib. XXXV:

consistere»;

Silio

«iudex».

3. 1, 48, 6.

4. Barni, n. 154; P.É. Viard, André Alciat, cit., p. 253.

5. Barni, nn. 62, 65, 67, 68, 137; P.É. Viard, AndréAlciat, cit., p. 253. 6. In Opera omnia, cit., vol. II, p. 539.

7. Così in A. 1550, p. 157 (Fig. 1) e in Thuilius, p. 618 (Fig. 2); In-

dex, Embl. 145. Sui diversi aspetti della cecità simbolica: Valeriano, Lib. XXXIII: « caecitas»; W. Deonna, Le symbolisme de l’oeil, Paris,

1965, pp. 159 sgg., 233-44. 8. Cfr. la nota 15 dell’Emblema XIV; Mignault, pp. 515-16.

9, 3, 19, 27: «non tamen immerito Minos sedet arbiter Orci».

10. 64, 2-3: «seditque consul principe ante se stante et sedit intur-

batus, interritus, et tamquam

ita fieri solerent».

11. H.P. L’Orange, Studies on the Iconography of Cosmic Kingship in the Ancient

World,

Oslo,

1953,

pp.

37-89,

124-38;

Architecture Religion Symbolisme. La pierre, Athènes, sgg., 354, 460 -62

p. 331.

S. Mayassis,

1966, pp. 78

(il culto del trono); R.B. Onians, Le origini, cit.,

EMBLEMA

LX

1. A. 1531: «In deprensum». 2. Ovidio, Ars, 23, 2: « decidit in casses praeda petita meos».

3. Cfr. la sentenza «Anguillast: elabitur» (« È un’anguilla: sguscia via») dallo Pseudolus, ‘747, di Plauto; a proposito: R. Tosi, Dizionario delle sentenze, cit., n. 236; sulla tecnica per catturare l’anguilla con l’intestino di agnello e una canna: Eliano, Nat. an., 14, 8. 4. I, 418, f. 53v; sìi veda anche Thuilius, p. 121.

5. Lib. XXIX: «de anguilla ... Spes certa re super ambigua. Quod si certam esse spem de ambigua re quapiam ostendere voluissent, obvolutam eam ficulneo folio pinxissent, quod scabritie sua prensanti sit adminiculo nequaquam irrito». 6. Come nelle successive: Fig. 1: A. 1550, p. 27; Fig. 2: Thuilius, p.

120; Index, Embl. 21.

7. VoL I, p. 245; vol. II, p. 621.

EMBLEMA

LXI

1. In A. 1531: «sedet?»; cfr. Mignault, p. 656; Thuilius, p. 813; In-

dex, Embl. 191.

2. Lucrezio, 4, 1215-1216: «semina cum Veneris stimulis excita per artus / obvia conflixit conspirans mutuus ardor». 3. A. 1531: «echeneida »; secondo il mito (in particolare Igino, Fabò.,

173, 185 e 244) epiteto di Atalanta figlia di Scheneo

(cfr. in I.B.

Carter, Epitheta, cit., p. 16: «schoeneia», «schoeneis»); «schoenei-

da» in Ovidio, Am., 1, 7, 13, e Her., 16, 265. 4. Si veda la nota 16 dell’Emblema XXVII.

5. Cfr. la nota 15 dell’Emblema XIV e le note 8, 9, 10 dell’Emblema LIX.

6. Il cane come simbolo della fedeltà è un topos (si veda M. Puglia-

rello, Le origini della favolistica, cit., pp. 67-70); per la fortuna del

soggetto nell’iconografia emblematica si veda in Valeriano, Lib. V: «custodia», «fides», «amicitia»; numerosi e diversi i valori simbolici in Ricciardi, vol. I, ff. 132r-134v; cfr. in A. Henkel, A. Schòone, Emblemata, cit., coll. 558 sgg.; G. De Tervarent, Attributs et symboles,

cit., p. 123. Ulteriori confronti in Thuilius, pp. 813-14. 7. Donare una mela corrispondeva di fatto a una dichiarazione d’amore, era un gesto di corteggiamento, un pegno amoroso:

Teocrito, 3, 10; 2, 120; 5, 88; 6, 6; Virgilio, Ecl, 3, 64; Properzio, l,

3, 24: «nunc furtiva cavis poma dabat manibus»; Pausania rammenta una statua in oro e avorio di Afrodite che teneva in mano

una mela (ufjiAov): 2, 10, 5 (cfr. J.G. Frazer, Pausanias Description, cit., vol. III, p. 67); significativa l’ecfrasi di Filostrato, Im., 1, 6, in

cui gli Amorini raccolgono le mele nel frutteto; Valeriano, Lib. LIV: «de malo»; J. Murr, Die Pflanzenwelt, cit., pp. 57 sgg.; G. De

Tervarent, Attributs et symboles, cit., pp. 363-64; A. Agustin, in Dialo-

ghi intorno alle medaglie, cit., p. 166 (Fig. 1), osserva che il «pomo di Venere si vede in molte medaglie in mano alla dea, et è così piccolo, che non si può dire che fusse melacotogna». Sul tema cfr. A.R. Littlewood, The Symbolism of the Apple in Greek and Roman Literature, in « Harvard Studies in Classical Philology», 72, 1968, pp. 147-81. 8. Ferecide, FGrHist, 3 F 16 a; Eratostene, Cat., 3, pp. 60-62 ert]; Apollodoro, B:bL, 2, 5, 11; Igino, Astr., 2, 3.

[Rob-

9. Ovidio, Met., 10, 560-704. Sul mito e la sua fortuna nel Rinasci-

mento, dove venne più volte rappresentato: V. Conticelli, guardaroba...», cit., pp. 194-97. 10. Secondo Virgilio, Ecl., 6, 61, questi pomi

« Un

erano quelli delle

Esperidi, invece per Ovidio, Met., 10, 640-648, provenivano da un giardino dell’isola di Citera.

658

NOTE

11. 3, 64-65: «Malo me Galatea petit, lasciva puella, / et fugit ad salices, et se cupit ante videri». 12. Thuilius, p. 814: « malo petere, id est, ad Venerem solicitare ».

13. In Andreae Alciati Antiquae inscriptiones, cit., cc. 107 (Fig. 2),

80r (Fig. 3), 977 (Fig. 4); P. Laurens, F. Vuilleumier, De l’archéologie à l'emblème, cit., pp. 88, 91-93; A. Sartori, L’Alciato e le epigrafi, cit.

14. A. 1550, p. 205; Index, Embl. 191. 15. Alla p. 812. EMBLEMA

LXII

1. A. 1531: «nostri». La variante lascia supporre che la prima versione del 1531 — ma ignoriamo la precisa data di composizione dell’epigramma — fosse rivolta a qualche personaggio tirannico in particolare. L’identificazione è difficile per le travagliate vicende belliche che investirono Milano nei primi decenni del XVI secolo, dove vi furono non pochi soprusi (Alciato dà notizia della grave situazione in città in una lettera del 12 agosto 1526: Barni, n. 38). La correzione edita nel 1534 vuole evidentemente andare oltre il dato personale e storico della primitiva stesura per connotare l’emblema in un senso morale di carattere universale. Conferma quest'ultima osservazione la scelta dell’aggettivo cupidus, termine colto per definire un famelico tiranno o qualsiasi analoga figura (cfr. Cicerone, De leg., 3, 30, 8; De off., 1, 64, 3; Tacito, Ann., 3, 52; 13, 12).

2.10, 16: «Sola est, in qua merito culpetur, pecuniae cupiditas ... Creditur etiam procuratorum rapacissimum quemque ad ampliora officia ex industria solitus promovere, quo locupletiores mox condemnaret; quibus quidem vulgo pro spongeis dicebatur uti, quod quasi et siccos madefaceret et exprimeret humentis ... Sunt contra qui opinentur ad manubias et rapinas necessitate compulsum summa aerarii fiscique inopia, de qua testificatus sit initio statim principatus, professus quadringenties milies opus esse, ut res p. stare posset». 3. II, c. xvr, qu. 7, c. 8: «Quia decimae non redduntur, indictio fisci accessit. Item Augustinus. [lib. L. homiliarum, hom. 48] Maiores no-

stri ideo copiis omnibus habundabant, quia Deo decimas dabant, et Cesari censum reddebant. Modo autem, quia discessit devocio Dei,

accessit indictio fisci. Nolumus cum Deo partiri decimas, modo autem tollitur totum. Hoc tollit fiscus, quod non accipit Christus». Sull’argomento e sulla ripresa del motto in Alciato: E.H. Kantorowicz,

An Absolutist Concept and Its Late Mediaeval Origins, in «The Harvard

Theological Review », 48, 1955, pp. 65-91, soprattutto pp. 83-86. 4. Fig. 1: A. 1550, p. 158; Fig. 2: Thuilius, p. 630; Index, Embl.

148.

EMBLEMA

LXIII

1. A. 1531: «fuit?». 2. A. 1531: «fuit». 3. Così nelle edizioni del ’500: C. Plinii Secundi Histona mundi, Ba-

sileae, Hieronymus Froben, 1530, p. 602: « Iphicratis leaena laudatur». 4, Sì tratta di un inciso, letteralmente: « La leonessa che vedi scolpita sulla rocca Cecropia, / non lo sai straniero? fu l’amica di Armodio». 5. Fidicula è una fine corda musicale, mentre al plurale, fidiculae, in-

dica un congegno di tortura formato da un certo numero di corde

sottili (Svetonio, Cal., 33; Valerio Massimo, 3, 3, ext. 5; catalogo, fonti antiquarie e umanistiche in S. Pitiscus, Lexicon, cit., vol. II, pp. 155-56); Celio Rodigino, Lectionum antiquarium libni triginta, cit.,

coll. 440 -41: « Fidiculas accipiunt pro tormento quo ab tortore fontes funibus, alligatis manibus a tergo, torquentur vulgo». 6. Amphikrates, bronzista lodato per la realizzazione della statua

leonina di Leena: Plinio, 34, 72; cfr. J.G. Frazer, Pausania s Descri{»

tion, cit., vol. II, pp. 273-74.

7. 7, 87 e 34, 72. 8. Garr., 8. 9. 1, 23, 1-2. 10. Cfr. Filargirio, ad Vergil Ecdlog., 2, 63; Polieno, 8, 45.

11. In Celio Calcagnini, Opera aliquot, cit., pp. 492-93, l’eroico silenzio di Leena riscattò la sua vita dissoluta; in Valeriano (Lib. I: «de leone ») si riporta la vicenda, e l’immagine di Leena/leonessa diviene ‘geroglifico’ di «taciturnitas». 12. A. 1550, p. 19.

13. Thuilius, p. 76; Index, Embl. 13. 14. Cfr. il commento all’Emblema XLII; sulla civetta sacra a Palla-

de: D.W.

Thompson,

A Glossary, cit., pp. 77-80; Valeriano, Lib.

XX: «de noctua», la considera simbolo di Minerva, della Sapientia e della Victonria.

EMBLEMA

LXIV

1. Il distico iniziale è tratto da Ovidio, Met., 2, 327: «hic situs est

Phaéthon, currus auriga paterni» (cfr. 2, 153-155: «Interea volucres Pyrois et Eous et Aethon, / Solis equi, quartusque Phlegon, hinnitibus auras / flammiferis inplent pedibusque repagula pulsant»).

660

NOTE

2. Fetonte è per Alciato simbolo di «temerarietà»: Oratio in Laudem Iuris Civilis, in Opera omnia, cit., vol. II, p. 539.

3. Se la ruota con il suo moto instabile è classico attributo della dea Fortuna (cfr. Emblema XVI, nota 28), la diffusione dell’im-

magine della ruota con avvinti, lungo la circonferenza, personaggi che stanno salendo o precipitando (concetto già in Seneca, Ag., 2, 71-72, e in Ammiano Marcellino, 26, 8, 13; 31, 1, 1) si deve

a Boezio (Cons. Philos., 2, 2, 27 -29) e al successo della Consolatio illustrata: P. Courcelle, La Consolation, cit.; H.R. Patch, The Goddess Fortuna, cit.

4. Sia Mignault, pp. 225-28, che Thuilius, pp. 266-67, riportano

vari esempi di principi che trascinati dalle loro ambizioni non seppero mai trovare equilibrio e giusta misura nelle loro imprese. 5. Fr. 387 [Merkelbach - West]. La storia di Fetonte fu il tema di due tragedie perdute, le Eliadi di Eschilo e il Fetonte di Euripide. 6. 3, 115.

7. Tim., 22c-d. 8. 1, 750-779 e 2, 1-408; cfr. Palefato, 52; Lucrezio, 5, 380-405;

Apollonio Rodio, 4, 595 -629; Igino, Fab., 154.

9. 7, 41, 1: «Pheton filius Solis egyptii et Clymenis, ut carmine patet Ovidii...». 10. Su quest’aspetto della caduta e le sue valenze mitiche, storiche e archeologiche: A. Mastrocinque, L’ambra e l’Eridano (Stud:i sulla letteratura e sul commercio dell’ambra in età preromana), Este, 1991.

11. Queste sono raccolte ed esaminate da R Turcan, Les exégèses al-

légoriques des sarcophages «au Phaéthon », in Etudes d’archéologie sépulcrale, Paris, 2003, 8, pp. 131-44; ora, anche in riferimento all’ico-

nografia e alla tradizione letteraria: M. Marongiu, Currus auriga paterni. Il mito di Fetonte nel Rinascimento, Lugano, 2008, pp. 9 sgg., 135 sgg. 12. Tim., 22c-d. Un’accurata lettura naturalisuico -astronomica del mito è riproposta, su testimonianze antiche, da Boccaccio, Gen., 7, 41]1, 3-14. 13. 5, 411 sgg.

14. 1, 729 sgg.; 4, 834 sgg. 15. Sì veda, sotto, la nota 20. 16. 4, 154, p. 169 [Wuensch].

17. Proclo, In Tim., 1, 113-114. 18. 5, 10-11; Seneca per le sue considerazioni dolo, da Ovidio, Met., 2, 63 sgg.

trae spunto, citan-

19. Sull’interpretazione stoica del mito: F. Cumont, Recherches, cit.,

pp- 16 sgg.; R. Turcan, Les exégeéses allégoriques, cit.; M. Marongiu,

NOTE

661

Currus auriga paterni, cit., pp. 9 sgg.; per le conoscenze antiquariali

in merito nel Rinascimento:

P.P. Bober, R.O. Rubinstein, Renais-

sance Artists, cit., pp. 69-70, nn. 27-27d.

20. Im., 1, 11: la descrizione ecfrastica dell’avvenimento propone

un complesso scenario, con il carro e Fetonte che precipitano mentre numerosi soggetti assistono al dramma: le tre Eliadi, i cigni, le Ore, la Terra, l’Eridano. Scene simili sono scolpite sui sarcofagi romani, dove compaiono anche Fosforo, Mercurio e Febo:

lo scopo di tale composito panorama è quello di porre in risalto il senso cosmico della tragedia che si sta consumando; cfr. R. Tur-

can, Les exégèses allégonques, cit., pp. 132-33. 21. Cfr. M. Marongiu, Currus auriga patemni, cit., pp. 49-171; V. Conticelli, « Un guardaroba... », cit., pp. 220 -23.

22. Si veda anche in A. 1550, p. 65 (Fig. 1); Thuilius, p. 264 (Fig. 2). 23. Numerosi esempi in D. Blume, Regenten des Himmels, cit., pp. 11

sgg., 66 sgg., 355 sgg., 477 sgg.

24. Cfr. C. Corfiati, in Ludovico Lazzarelli, De gentilium deorum imaginibus, cit., pp. 30-32, 140-41, tavv. 4 e 5: le miniature dell’opera

di Lazzarelli, tra le quali quella con la caduta di Fetonte, imitano i cosiddetti « Tarocchi del Mantegna» (SOL XXXXIIII): Fig. 3 (M.

Marongiu, Currus auriga paterni, cit., pp. 56-57).

25. Cfr. Metamorphoseos vulgare di Giovanni dei Bonsignori, cit., f. xI7.

EMBLEMA

LXV

1. Su Cupido cieco si veda il commento all’Emblema VII. 2. Forma di catacresi o abusione: figura retorica per cui una parola (o una locuzione) è usata in senso lontano dal proprio ovvero con significato improprio. 3. Si veda Emblema LII, nota 2.

4. A. 1531: «Defficio » . 5. Cfr. Ovidio, Met., 2, 127; Virgilio, Aen., 9, 656; Marziale, 14, 118,

2; Tibullo, 1, 4, 83.

6. Fiume infero nominato nell’Odissea (10, 513), che le anime, tra-

ghettate da Caronte, devono attraversare per raggiungere il mondo dei morti: H.W. Stoll, «Acheron», cit., vol. I, coll. 9-11.

in W.H.

Roscher,

Lexikon,

7. Per il Medioevo e il Rinascimento: G. Cocchiara, Il mondo alla ro-

vescia, Torino, 1963, pp. 105 sgg.; documentazione iconografica in

F. Tristan, Le monde dà l’envers, Paris, 1980.

8. Due sono le frecce: quella d’oro che induce all’Amore e l’altra di piombo che lo respinge: Ovidio, Met., 1, 468-471: «eque sagitti-

662

NOTE

fera prompsit duo tela pharetra / diversorum operum: fugat hoc, facit illud amorem; / quod facit, auratum est et cuspide fulget acuta, / quod fugat, obtusum est et habet sub harundine plumbum>»; Servio, In Aen.,

retratus

ideo

quia

1, 663; Myth.

sicut sagittae

Vat. II, 46

corpus

[Kulcsar]:

ita mentem

« Pha-

vulnerat

amor»; Isidoro, Etym., 8, 80: «Sagittam et facem tenere fingitur. Sagittam, quia amor cor vulnerat»; Boccaccio (Gen., 9, 4, 10)

spiega che la saetta d’oro è tale perché allude al diletto d’Amore che è lucente e prezioso come l’oro, mentre quella di piombo, metallo vile e pesante, vuole significare l’odio. Cfr. Colonna, vol. I, p. 339; vol. II, p. 1025.

9. E. Panofsky, Studi di iconologia, cit., p. 174. 10. Cfr. ibid., pp. 170-82; M. Tung, More on the Woodcuts of Alciato’s

Death Emblems, in «Emblematica», 8, 1994, pp. 35-36, nota 9.

11. Cfr. Thuilius, p. 6558; M. Tung, More on the Woodcuts, cit., p. 35,

nota 7. 12. Studi di iconologia, cit., p. 174, nota 82. 13. Opere, pubblicate nell’edizione fiorentina di Filippo Giunta del 1516 e in quella veneziana del 1544 per Bartholomeo detto l’Imperador. 14. J.G. Fucilla, De Morte et Amore, in « Philological Quarterly», 1935, pp. 97-104.

14,

15. Pubblicata da G. Pesenti, Poesie latine di Pietro Bembo, in «Giornale storico della letteratura italiana», 65, 1915, p. 354. Sul tema

‘Amore e Morte’ nell’ambiente letterario di Ferrara (città dove Alciato si addottorò nel 1516 per poi tornarvi come docente): R. Alhaique Pettinelli, Lo scambio delle armi tra Amore e Morte. Un tema ferrarese tra Quattro e Cinquecento, in Forme e percorsi dei romanzi di cavalleria, Roma, 2004, pp. 113-25.

16. W. Deonna, Le symbolisme de l’oeil, cit., pp. 233 sgg. 17. Fig. 1: da A. 1550, p. 167; Fig. 2: da Thuilius, p. 657; Index, Embl. 155. Per la cronologia editoriale e le differenze grafiche di queste incisioni come di quelle inerenti il prossimo Emblema LXV: A. Adams,

Tihe Woodcuts of Alciati’s Death Emblems, in «Emble-

matica», 6, 1992, pp. 392-97; M. Tung, More on the Woodcuts, cit., pp. 29-41. 18. Storico e letterato, nipote di Francesco. 19. Cito dall’edizione di Venezia, stampata dagli eredi di lacomo

Simbeni, 1588, p. 146.

20. Padova, per Pietro Paolo Tozzi, p. 229; H. Green, Andrea Alcia-

ti, cit., n. 155, pp. 256-57.

EMBLEMA

LXVI

1. Assente in A. 1531.

2. In questo secondo verso il punto interrogativo è assente nelle

versioni di A. 1531, A. 1534, A. 1550, ecc., mentre ricorre in quelle di Lione del 1556, p. 112, e di Thuilius, p. 661, dove però

scompare il punto interrogativo del primo verso; nell’edizione di Leida del 1591, p. 186, un punto interrogativo conclude entrambi i versi. Nella traduzione seguo quest’ultima per chiarezza espositiva. 3. Fig. 1: in A. 1550, p. 168 (nell’edizione 1548, p. 124); cfr. Mignault, p. 544; Index, Embl. 156. Su queste incisioni e le loro dissomiglianze anche dal punto di vista editoriale: Emblema LXV, nota ]4. 4. Analoga l’incisione in Thuilius, p. 661: Fig. 2.

EMBLEMA

LXVII

1. «Bacchus pater» (Orazio, Carm., 1, 18, 6), «Bacche pater» (Orazio, Carm., 3, 3, 13; Tibullo, 2, 3, 69; Properzio, 3, 17, 1-2; Ovidio, Met., 13, 669): epiteto comune del dio Libero, il Dioniso italico (Cicerone, Nat. deor., 2, 62; Macrobio, Sat., 1, 18, 16; cfr. A.

Bruhl, Liber Pater. Origine et exposition du culte dionysiaque à Rome et dans le monde romain, Paris, 1953, pp. 22 sgg.; H. Jeanmaire, Dioniso, cit., pp. 55 sgg.). 2. Celebre scultore ateniese vissuto fra il 400 e il 326 a.C.; di lui Pli-

nio (34, 69: « Praxiteles quoque marmore felicior, ideo et clarior fuit, fecit tamen et ex aere pulcherrima opera: Proserpinae raptum, item catagusam et Liberum patrem») menziona una bellissima statua bronzea di « Libero Padre», forse la stessa delle Descrf»tiones, 8, di Callistrato.

3. Lo specifico epiteto «Gnosida» per indicare Arianna di Cnosso

(altrimenti «Cnosiaca, Gnosia»: cfr. in I.B. Carter, Epitheta, cit., p. 15) non è casuale: infatti, compare in Ovidio (Her., 15, 25: «Gno-

sida Bacco amavit ») e in Stazio (Silv., 1, 2, 134) a proposito del suo abbandono da parte di Teseo nell’isola di Nasso e il successivo incontro con Dioniso che, preso dalla bellezza della fanciulla, la con-

dusse con sé. Per la documentazione del motivo

nota nel Rinascimento:

archeologico-iconografica

P.P. Bober,

R.O.

Rubinstein,

Renaissance Artists, cit., pp. 113-18. 4. Non risulta che Prassitele abbia mai dipinto l’incontro fra Dioniso e Arianna, probabilmente Alciato trae libero spunto da un lun-

go passo di Pausania,

1, 20, 1-3, dove all’inizio si parla dei bronzi

664

NOTE

dello scultore e, alla fine, ma senza alcuna attribuzione, si riferisce

di un quadro con «Arianna che dorme, Teseo che salpa e Dioniso che viene a rapirla», posto nel più antico santuario ateniese di Dioniso; cfr. J.G. Frazer, Pausania's Description, cit., vol. II, pp. 218-19.

Altra possibilità è che Alciato si ispiri al quadro con Arianna, Teseo e Dioniso descritto da Filostrato, Im., 1, 15, benché

iconografica-

mente diverso da quello proposto dai versi dell’Emblema. 5. Marziale, 2, 61, 1: «Cum

tibi vernarent dubia lanugine malae ».

La tenera peluria sul volto di Libero/Bacco allude, come spiegano i versi successivi, alla sua capacità di mantenersi sempre giovane grazie a un moderato, dunque benefico, uso del vino. 6. Il Nestore omerico, vecchio savio e sapiente consigliere: Apule-

io, Deo Socr., 17, 22: «Nempe Pylius orator, eloquio comis, experimentis catus, senecta venerabilis, cui omnes sciebant corpus annis

hebere, animum prudentia vigere, verba dulcedine adfluere » (cfr.

18, 11: «duo illa sapientiae Graiae summa cacumina, Ithacensis et Pylius»); Pseudo Virgilio, El. in Maec., 1, 137: «Et Pylium flevere sui ter Nestora canum>», e Catal., 9, 16: «Pylium ... senem».

7. Sull’origine di questo tamburello sacro, ornato talvolta di campanelli e sonagli, battuto con le dita dai seguaci di Bacco/ Dioniso: Euripide, Bacch., 124 (cfr. il commento di E.R. Dodds in Euripi-

des, Bacchae, Oxford, 1960, pp. 83-84); Plutarchi De musica, a cura di R. Volkmann, Lipsiae, 1856, p. 140; per riscontri letterari e antiquariali: S. Pitiscus, Lexicon, cit., vol. III, p. 666. 8. Canonico attributo taurino di Bacco/Dioniso (Ovidio, Her., 13, 33 e 15, 24: « Accedant capiti cornua: Bacchus eris»; cfr. Ovidio, Ars, 3, 348, e Fast., 3, 499-500 e 789; J.G. Frazer, in P. Ovidii Nasonis Fastorum libri sex, cit., vol. III, pp. 108-109; Tibullo, 2, 1, 3; Orazio, Carm., 2, 19, 30; Ateneo, 11, 476a; Filostrato, Im., 1, 15);

Cornuto, Theol. gr. comp., 59, spiega che le fattezze femminee del dio e le corna significano rispettivamente che se da un lato gli ubriachi perdono ogni vigore, dall’altro possono essere spinti da una forza impulsiva e irrefrenabile. Dioniso cornigero, il dio-toro, era simbolo di fecondità: Euripide, Bacch., 920 sgg.; Plutarco, Is. et Os., 35, 364f; cfr. H. Jeanmaire, Dioniso, cit., pp. 43-44, 25051. Nell’Umanesimo e durante il Rinascimento le conoscenze su Bacco/Dioniso/Libero e il suo culto sono rilevanti, lo testimonia

Giraldi (vol. I, pp. 258-84), che dedica all’argomento l’intero «Syntagma VIII (Bacchus, Dionysius, alii)» della sua Historia deorum, nel quale ricorre la maggior parte degli autori classici citati in queste note.

9, Ovidio, Ars, 1, 239.

10. Il sistro, sorta di sonaglio metallico composto da più bacchette sottili inserite e distribuite all’interno di un piccolo telaio ovale, ve-

NOTE

665

niva impugnato e scosso nelle cerimonie religiose egizie in quanto attributo della dea Iside. La descrizione dello strumento è in Apu-

leio (Met., 11, 4) che lo chiama « crepitaculum »: identificato con il

sistro da Beroaldo (In Asinum aureum eruditissimis Commentariis, in L. Apulei Opera, cit., vol. I, pp. 998-99; cfr. Alessandro D’Alessan-

dro, Genialium dierum libri sex, cit., vol. II, p. 510: «sistrum: hoc est

aeneum crepitaculum, quod non spiritu, sed motu concussum personat»), che ne spiega il simbolismo musicale inerente il concentus mundi e il tintinnio astrale dell’armonia celeste connessi alla dea. La sua funzione, forma e significato erano noti nel Rinascimento grazie soprattutto a Plutarco (Is. et Os., 63, 376c sgg.) e all’XI libro delle Metamorfosi di Apuleio commentato dal citato Beroaldo. L’associazione del sistro a Dioniso va ricondotta alla contaminazione del dio del vino con Osiride (sposo e fratello di Iside e anch’egli inventore della bevanda inebriante: Tibullo, 1, 7, 33-36), di cui parla Plutarco (1s. et Os., 28, 362b; 35-37, 364e-

365f) ; si veda Giraldi, vol. I, pp. 270-71. Sulla assimilazione e asso-

ciazione di Dioniso con le divinità egizie: A. Bruhl, Liber Pater, cit.,

pp. 250-52; H. Jeanmaire, Dioniso, cit., pp. 359 sgg., 445-47, 462-

64. Cfr. anche J.G. Griffiths, in Apuleius of Madaura, Tihe Isis- book,

cit., pp. 132 sgg., 159, 193. 11. Il colore rubeo del dio è dovuto sia al vino, che è energia simile al fuoco, sia alla sua nascita ignea. Il mito vuole che Zeus sottraesse il feto di Dioniso dal grembo in fiamme della madre Semele da lui folgorata, per cucirlo dentro la sua coscia sì da portarne a compimento lo sviluppo e la nascita (Euripide, Bacch., 88-98; Erodoto, 2, 145-146; Ovidio, Met., 4, 12; Filostrato, Im., 1, 14; Igino,

Fab., 167 e 179; Cornuto, Theol. gr. comp., 58; Giovanni Lido, Mens., 4, 160, p. 177 [Wuensch]; Myth. Vat. I, 2, 18: «Fabula Semele et filii eius Liberi patris»

[Zorzetti-Berlioz]; Anth.

Gr., 9, 331). Il prodi-

gioso evento e la duplicità vino/fuoco di Dioniso vengono espressi da Alciato in questo verso come nei successivi. 12. A. 1531: «hinc». 13. Così in A. 1531 e A. 1534; A. 1550: «prendere» .

14. Il quadrans come misura per liquidi corrispondeva a un quarto

del sextarius, ossia a tre cyathi (ciato, tazza a forma di ramaiolo usa-

ta per riempire i bicchieri di un commensale), dunque una parte di vino e tre d’acqua: Celso (3, 15, 2: «deinde post febrem modicum cibum sumere, vini quadrantem») raccomanda questa proporzione

come

salutare e curativa; Marziale,

9, 93, 1-2: «Addere

quid cessas, puer, immortale Falemum? / Quadrantem duplica de seniore cado».

Erasmo,

II, 223, f. 134v, disquisisce

sulle propor-

zioni acqua/vino nell’adagio «Aut quinque bibe, aut treis aut ne quatuor» («Bevine o cinque o tre, comunque non quattro») che

666

NOTE

trae da Ateneo, 10, 436d, il quale lo riferisce come proverbio e co-

sì lo spiega: si deve bere con un rapporto di due parti di vino e cinque di acqua, o di una a tre; Plutarco, Quaest. conv., 3, 9, 12, 657b-

c, intende diversamente lo stesso proverbio: con «cinque» il rapporto vino/acqua è di 2 a 3 parti, con «tre» il rapporto è di l a2e con «quattro» di 1] a 3. 15. A. 1531: «falerni » .

16. Hemina è una misura di capacità pari a metà sextarius (Paolo-

Festo, p. 89 [Lindsay]), circa 0,44 di litro.

17. Nel senso che diviene audace e spudorato, benché la sua normale natura non sia tale: è il vino che dispone l’animo alla passio-

ne amorosa, al vigore taurino; cfr. Ovidio, Ars, 1, 237-239:

«Vina

parant animos faciuntque caloribis aptos: / cura fugit multo diluiturque mero. / Tunc veniunt risus, tum pauper cornua sumit». Si

veda, sopra, la nota 8.

18. Descrizione che non ignora l’anonimo Inno a Dioniso della Pla-

nudea (Anth. Gr., 9, 524) o l’analogo Inno a Bacco di Michele Marullo (1453-1500): Michaelis Marulli Carmina, a cura di A. Perosa, Turici, 1961, Hymn., I, 6, pp. 115-16.

19. L’opera venne più volte stampata fra il 1474 e il 1499, e altre edizioni apparvero nel XVI secolo: B. Platina, Il piacere onesto e la buona salute, a cura di E. Faccioli, Torino,

1985, pp. XXXII - XXXIII.

20. Fig. 1: A. 1550, p. 31; Fig. 2: da Thuilius, p. 138; Index, Embl. 25. 21. Ovidio, Fast., 6, 483:

«Bacche,

racemiferos

hedera

redimite

capillos»; Filostrato, Im., 1, 15: per coloro che vogliono dipingere o scolpire Dioniso è sufficiente attribuirgli una corona intrecciata con bacche d’edera; sulla tradizione greca e latina di que-

ste corone: D.C. Hesseling, De usu coronarum, cit., pp. 8-9, 16, 19

-21, 30-31.

22. Colonna, vol. I, telli: cfr. ibid., vol. I, 23. Così nella Fig. 1 mata di Francoforte

p. 175; qui le corna sono date da due serpenpp. 174-75; vol. II, p. 809. e nella Fig. 2 come nelle edizioni degli Emble(1567, p. 101) e di Leida (1591, p. 31).

24. P.P. Bober, R.O. Rubinstein, Renaissance Artists, cit., pp. 11-125; Cornuto (Theol. gr. comp., 60; cit. da Giraldi, vol. I, p. 260, che lo

chiama anche « puer imberbis et cornutus») osserva che Dioniso può rappresentarsi sia giovane che vecchio in quanto il vino si addice a ogni età. 25. Hymn. Bacch., VII, 3-4; cfr. Euripide, Bacch., 235 e 453 sgg.

26. Met., 4, 16-17: «Liber ... Tibi enim inconsumpta iuventa est, / tu puer aeternus»; Seneca, Phaedr., ‘753-'754: «Liber ... / intonsa iuvenis perpetuum coma». Nel contesto della teologia solare di

Macrobio

(Sat., 1, 18, 5-24), dove si espone il significato dell’iden-

NOTE

667

tità fra Dioniso/Libero e il Sole, si spiega che vi sono differenti statue di Libero, raffigurato ora come fanciullo, ora come giovane e ora vecchio con la barba, perché con tali distinzioni di età si vuole

rappresentare il Sole e il suo corso annuale: fanciullo è l’astro nel primo periodo dell’anno, al solstizio d’inverno, quando si trova appunto agli inizi del suo ciclo; giovane all’equinozio di primavera, quando si sono allungati i giorni; anziano e barbuto al momen-

to della sua massima ‘maturità’ astronomica, cioè durante il solsti-

zio estivo; cfr. A. Bruhl, Liber Pater, cit., pp. 262-67. EMBLEMA

LXVIII

1. Marziale, 12, 50, 1: «aerios pityonas ».

2. 2, 14 (a cura di C. Angeleri, cit., pp. 98-99): « Disputatio de republica habita ac de imperio Venetum, et apologus elegans de pinu et cucurbita ... forte incidit mentio de veterum institutis, de regenda civitate, ac de Venetum clarissimo atque summo imperio. Qua in re ... ibidem senex ... : “Volo — inquit — vobis de Venetum imperio perelegantem referre apologum, quem a Francisco olim Barbaro audivi ... Is enim, cum de statu atque dignitate Philippi ducis Mediolanensis et republica Veneta ageretur, in hunc modum locutus est: “Scio ego quantum momenti positum sit in fortunae viribus, quantum ponderis in ratione et diligentia hominum. Nam quo maiora sunt imperia, eo saeviores quandoque casus atque calamitates habent. Sed apologum audiatis. Sata est olim (inquit) cucurbita iuxta arborem pinum, quae grandis admodum et ramis patulis extabat. Cucurbita vero, cum multis pluvis atque caeli temperamento crevisset, lascivire incipit et ramulos audacius porrigere. I[am serpebat in pinum, iam surgere, iam ramos et frondes involvere audebat, ampliora folia, candentes flores, praegran-

dia poma et virescentia ostentans. Itaque tanto fastu atque insolentia intumuit, ut pinum arborem ausa sit aggredi. “Et vides — inquit — ut te supero, ut amplius foliis, ut virore praesto, et iamiam ad cacumen prosurgo”. Tum pinus, quae senili prudentia et robo-

re pollebat, nihil mirata est cucurbitae insolentis audaciam, sed ita ad eam respondit: “Ego hic multas hiemes, calores, aestus varias-

que calamitates pervici, et adhuc integra consisto; tu ad primos ri-

gores minus audaciae habebis, cum et folia concident et viror om-

nis aberit”. Sic et in Italia — inquit Barbarus — permultae quidem sunt cucurbitae, quae pinum aggredi magnopere conantur, sed habent tamen plus animi quam roboris, quocirca brevi exarescunt aut decidunt. Pinus autem vexari atque turbari potest extirpari autem aut sicari, nisi lJongissimo tempore, nequi». 3. Il simbolismo della parabola viene menzionato anche in Ric-

668

NOTE

ciardi, vol. I, f. 179, che cita questo Emblema di Alciato e lo stesso Crinito.

4. Plutarco, Quaest. conv., 5, 3, 676e-677b; Pausania, 2, 2, 7 (J.G.

Frazer, Pausanias Description, cit., vol. III, p. 22); cfr. J. Murr, Die Pflanzenwelt, cit., pp. 113-15. 5. Orazio, Carm., 3, 22. 6. Properzio,

1, 18, 20: «Arcadio pinus amica deo»; Lucrezio, 5,

586 -587; cfr.J. Murr, Die Pflanzenwelt, cit., pp. 115-16. 7. Fedro, 3, 17, 4; Ovidio, Met., 10, 103; Servio, In Aen., 9, 84: «nam

pinus in tutela est matris deum>»; Servio, In Aen., 9, 115; Lattanzio Placido, Comm. in Stat. Theb., 10, 175, p. 435 [Jahnke]: «Arbor pinus, quae colitur in sacris Matris deum, sub qua iacuit Attis, Matris deum dilectus»; cfr.J. Murr, Die Pflanzenwelt, cit., pp. 117-18; F. Cumont, Les religions orientales dans le paganisme romain, Paris, 1929,

pp-. 52 sgg.

8. Met., 10, 103-105: « et succincta comas hirsutaque vertice pinus, /

grata deum matri, siquidem Cybeleius Attis / exuit hac hominem truncoque induruit illo»; cfr.J. Murr, Die Pflanzenwelt, cit., pp. 11719; si veda in P. Ovidius Naso, Metamorphosen, a cura di F. Bomer,

cit., libri X-XI, pp. 46-47.

9. 16, 107: «In maxima tamen admiratione pinus est: habet fructum maturescentem, habet proximo anno ad maturitatem venturum ac deinde tertio. Nec ulla arborum avidius se promittit». 10. Ecl., 7, 63: «Frassinus in silvis pulcherrima, pinus in hortis»; cfr. P. Grimal, Les jardins romains, Paris, 1984, App. II, p. 463. 11. Lib. LVIII: «de cucurbita». 12. La fortuna del motivo in R. Tosi, Dizionario delle sentenze, cit., n. 416. 13. Met., 1, 15; cfr. Petronio, 39; Giovenale, 14, 57-58: «vacuumque

cerebro / iam pridem caput hoc ventosa cucurbita quaerat?».

14. Fig. 1: A. 1550, p. 136; Fig. 2: Thuilius, p. 538; Index, Embl. 125.

EMBLEMA

LXIX

1. Ovidio, Fast., 2, '760: «deque viri collo dulce pependit onus».

2. Epigrammata, pp. 137-38 (Anth. Gr., 9, 163). 3. Aen., 2, ‘707-711

(per l’intero episodio: 701- 748); Ovidio, Met.,

13, 623 sgg.; Igino, Fab., 254; ma anche Quinto Smirneo, Posthom., 13, 315-353.

Senofonte,

Cyneg.,

1, 15;

4. Dalla traduzione di L. Canali in Virgilio, Eneide, a cura di E. Pa-

ratore, Milano, 1978, vol. I, pp. 107-109. 5. Fab., 254.

NOTE

669

6. Aen., 1, 544-545: « Rex erat Aeneas nobis, quo iustior alter / nec

pietate fuit nec bello maior et armis».

7. 3, 37: «Vicit Aeneas patrem, ipse eius infantia leve tutum-

que gestamen, gravem senio per media hostium agmina et per cadentis circa se urbis ruinas ferens, cum conplexus sacra ac penates deos religiosus senex non simplici vadentem sarcina premeret; tulit illum per ignes et (quid non pietas potest>) pertulit colendumque inter conditores Romani imperii posuit».

8. Gen., 6, 51, 3 e 6, 53, 1 sgg.

9. Fig. 1: A. 1550, p. 209; Fig. 2: Thuilius, p. 828; Index, Embl. 195. 10. LIMC, vol. I, tomo I, pp. 390-91; vol. I, tomo Il, pp. 300 -306.

11. S. Erizzo, Discorso sopra le medaghlie, cit., p. 441: «medaglia di Antonino Pio» che celebra, con l’impresa di Ulisse salvatore di Anchise e Ascanio, la Pietà (la scritta « PIETAS » corre sul «suo riverso») dello stesso Antonino: nel suo commento

menziona anche questo Emblema LXIX.

EMBLEMA

alla moneta, Erizzo

LXX

1. Plauto, Most., 11'78: «Quid gravaris? quasi non cras iam commeream aliam noxiam ». 2. Orazio, Epod., 6, 15: «atro dente me petiverit»; Seneca, Phaedr.,

493: «livor dente degeneri petit». 3. Resp., 469d-e.

4. Trag., 38-39: «Nam canis, quando est percussa lapide, non tam illum adpetit, Qui sese icit, quam illum eumpse lapidem, qui ipsa icta est, petit».

5. IV, 2, 108, f. 244v. 6. Fig. 1: A. 1550, p. 188; Fig. 2: Thuilius, p. 728; Index, Embl. 175.

EMBLEMA

LXXI

1. Mignault, p. 379: «Libellio: dicebatur a veteribus, quem nos tabellionem vocamus». 2. Ovidio, Met., 6, 424: «Treicius Tereus». 3. Paride, come 59 [Green].

iudex in Apuleio, Met., 10, 32, e in Ausonio, Efsgr.,

4. A. 1531: «oyprim»; Kunpis, Cypris: ricorrente epiteto di Venere nata nell’isola di Cipro (C.F.H. Bruchmann, Epitheta, cit., pp. 6164; I1.B. Carter, Epitheta, cit., p. 100).

670

NOTE

5. Uso poetico per satis; A. 1531: «stat». 6. Il « principe tracio » è Tereo, la «rivale » è Filomela, la «sorella » di quest’ultima è Progne: cfr., sotto, la nota 9.

7. Cit., p. 87. 8. Potrebbe trattarsi, ma non ho riscontri certi, dell’agostiniano

«doctor patavinus et Episcopus Argolicensis» De Sanctis (Padova-

nus) Hieronymus, uomo di grande erudizione, scrittore di orazioni e sermoni, che visse nella prima metà del XVI secolo: J.F. Ossin-

ger, Bibliotheca Augustiniana, Ingolstadii-Augustae, 1776, p. 790;

D.A. Perini, Bibliographia Augustiniana, Firenze, 1929-1937, vol. II,

p. 31; vol. III, p. 76.

9. Met., 6, 424 sgg.; si veda Emblema XLIV, nota 6. 10. Omero

(/IL, 24, 28-30)

accenna alla vicenda

(narrazione

più

dettagliata in Ovidio, Her., 16, 59 sgg.; Igino, Fab., 92; Apuleio, Met., 10, 30 sgg.; Colluto, Rapt. Hel., 70 sgg.), che avrà una ininter-

rotta fortuna letteraria e figurativa, anche nel Medioevo e nel Ri-

nascimento, per l’inusitata dinamica proposta dal soggetto e dall’allegoria sottesa. Dopo

che Eris, la Discordia, aveva lanciato un

‘pomo d’oro’ in mezzo agli dèi, chiedendo che venisse accordato

alla più bella fra Atena, Hera e Afrodite, Zeus decise che fosse il giovane Paride, figlio del re troiano Priamo, a stabilire quale di loro

meritasse il premio. Fece così accompagnare le dee da Hermes sul monte Ida, dove si trovava il giovane. Questi ritenne Afrodite la più bella, consegnan dole l’ambîto premio. Un giudizio che, in una prospettiva filosofica e teologica, coinvolge le facoltà, l’arbitrio e i limiti dell’uomo di fronte al cosmo e all’oscura volontà divina. Sul-

l’argomento, le sue fonti e la tradizione: Igino, Miti, a cura di G. Guidorizzi, Milano, 2000, pp. 342-43, nota 479; A. Kossatz- Deiss-

mann, «Paridis Iudicium», in LIMC, vol. VII, tomo I, pp. 176-88; vol. VII, tomo II, pp. 105-27; la mela d’oro simboleggia il mondo, come spiega l’esegesi del neoplatonico Sallustio (De Diis et Mundo,

4, 4-5; Sallustius, Concerning the Gods and the Universe, a cura di A.D. Nock, Cambridge, 1926, p. xLIX); Boccaccio (Gen., 6, 22, 8), che

segue Fulgenzio (M:t., 2, 1), osserva che il mito significa che la vita dell’uomo si divide in tre parti: teoretica (Minerva), pratica (Giunone) e voluttuaria (Venere), ossia contemplativa, attiva e voluttuosa; per le esegesi medioevali e successive: J. Chance, Medieval

Mythograph»y, vol. I, cit., pp. 195-96, 403-408, 425 -26, 457-58; vol. IL cit., pp. 312-13, 374-75; E. Wind, Misteri pagani, cit., pp. 329 -30.

l1. Omero, IlL, 8, 47; Ovidio, Fast., 4, 249; Orazio, Carm., 3, 20, 1516; Apuleio, Met., 10, 30. In Colonna, vol. I, p. 165: «lepidissimo

fonte ».

12. A. Kossatz- Deissmann, «Paridis Iudicium>», cit.; P.P. Bober, R.O. Rubinstein, Renaissance Artists, cit., pp. 148-50, ill. 119-21.

NOTE

671

13. Exc. Tr., 7: «Nam sibi in Ida sylva cum venatum abisset, in somnis Mercurium adduxisse Junonem, Venerem, Minervam, ut inter

eas de specie judicaret».

14. Si veda la nota 7 dell’Emblema LVII. 15. Madrid, Biblioteca Nacional, Ms. 17805, XIV secolo, f. 38; cfr.

in H. Buchthal, Historia Troiana, cit., pp. 37 sgg., 50, tavv. 34a e 34b. 16. Fig. 1: in Late Gothic Engravings of Germany and the Netherlands,

682 incisioni dal « Kritischer Katalog » di Max Lehrs, con un nuovo saggio di A. Hayatt Mayor, New York, 1969, n. 330; cfr. E. Panof-

sky, Hercules am Scheidewege, cit., pp. 8 sgg., tav. 40.

17. Fab., 92: «Cui [scil. Paride] Iuno, si secundum se iudicasset, pol-

licita est in omrnibus terris eum regnaturum, divitem praeter cete-

ros praestaturum; Minerva, si inde victrix discederet, formosissimum inter mortales futurum, et omni artificio scium; Venus autem Helenam, Tyndarei filiam, formosissimam omnium mulierum,

se in coniugium dare promisit»; cfr. Ovidio, Her., 16, 77 -88. 18. Sull’antica tradizione di questo simbolo: H.P. L’Orange, Studies on the Iconography, cit., pp. 154 sgg.; come geroglifico: Plutarco, Is. et Os., 10, 354f-355a; Valeriano, Lib. XLI: « de sceptro».

19. Theb., 10, 51. 20. I.B. Carter, Epitheta, cit., p p. 49-50. 2]. Fulgenzio, Mit., 2, 1: «Iunonem vero activae praeposuerunt vitae; Iuno enim quasi a iuvando dicta est. Ideo et regnis praeesse dicitur, quod haec vita divitiis tantum studeat; ideo ettlam cum sceptro pingitur, quod divitiae regnis sint proximae »; Fulgentius Metaforalis, cit., p. 89: «Pingitur [scil. Giunone] enim cum sceptro regio. Unde et a poetis dicitur Iuno regnorum dea». Cfr. Myth. Vat. III 4, 5 [Bode]; Albricus, Allegoriae poeticae, (Paris], Iohannes de Marnef,

1520, f. viltv: «sceptrigera»; Georgius Pictorius, Apotheoseos tam ex-

terarum gentium quam Romanorum deorum libri tres, Basileae, Nikolaus

Brylinger, 1558, p. 17: «Iuno ... dextra sceptrum tenens». 29. Cfr. Emblema I, nota 14 ed Emblema XLII.

23. Mit., 2, 1: «De Minerva. Primam vitam theoreticam, quam nos

in contemplandae sapientiae honore dicimus». 24. Per il libro (o rotolo o papiro o tavoletta di cera) espressione di saggezza in monumenti antichi ed epigrafi: F. Cumont, Recherches, cit., pp. 26-27, 290, 300, 306, tav. XXXIII, 2; sul libro connes-

so alla sofia misterica e alle iniziazioni, alla gnosi noetica: Proclo, Hymn., 3, 4 (i libri eccitano e risvegliano la mente, l’intelletto: Pro-

clus’ Hymns, a cura di R.M. van den Berg, Leiden, 2001, pp. 208-12; cfr. L. Lenaz, in Martiani Capellae De nuptiis Philologiae et Mercurii Liber secundus, cit., p. 25, nota 61; sugli aspetti magici: F. Dornseiff, Das Alphabet in Mystik und Magie, Berlin, 1925, pp. 11 sgg.); sulle

672

NOTE

varie personificazioni di facoltà e virtù con libro: G. De Tervarent, Attributs et symboles, cit., pp. 295 -99; sulla storia del ‘libro come sim-

bolo’ si veda l’eccellente E.R. Curtius, Europdàische Literatur und lateinisches Mittelalter, Bern, 1948; trad. it. Letteratura europea e Medio Evo latino, a cura di R. Antonelli, Firenze, 1992, pp. 335-85; cfr. le

Figg. 1 e 2 dell’Emblema CX.

25. Cons. Philos., 1, 1, 1: «Et dextra quidem eius libellus, sceptre vero sinistra gestabat»; cfr.J. Gruber, Kommentar, cit., pp. 65-66, dove si elencano varie fonti antiche, archeologiche e letterarie, del-

l’immagine; per una ragionata rassegna delle stesse e per l’icono-

grafia del tema anche: P. Courcelle, La Consolation, cit., pp. 77 sgg., 185 sgg., 380 sgg.

26. Cfr. E. Carrara, Mitologia antica in un trattato didattico- allegorico

della fine del Medioevo: l’«Epistre d’Othéa » di Christian de Pizan, in « Pro-

spettiva», 66, 1992, pp. 73-77; sul cuore come perno simbolico

della fisiologia erotica, memorabile Lucrezio, 4, 1057-1059: «Haec Venus est nobis; hinc autemst nomen amoris, / hinc illaec primum Veneris dulcedinis in cor»; importante il Cantico dei Cantici,

8, 6 («Pone me ut signaculum super cor tuum ») per la fortuna medioevale (sia nella mistica religiosa che nella letteratura cortese) della metafora della persona amata dipinta nel cuore; cfr. M.

Ciavolella, La «malattia d’amore»

dall’Antichità al Medioevo, Roma,

1976, pp. 15 sgg.; F. Mancini, La figura nel cuore fra cortesia e mistica. Da siciliani allo Stilnuovo, Perugia, 1988, pp. 18 sgg.; Colonna, vol.

II, pp. 436 e 1135-36.

27. Fig. 2: A. 1550, p. 118; Fig. 3: Thuilius, p. 453; Index, Embl. 109. 28. Cfr. Emblema I, nota 25.

EMBLEMA

LXXII

1. Virgilio, Aen., 1, 663: «Ergo his aligerum dictis adfatur Amo-

rem»; Servio, ad loc.: «alatus autem ideo est, quia amantibus nec levius aliquid nec mutabilius invenitur »; Myth. Vat. II, 46 (Kulcsar]; Isidoro, Etym., 8, 80. Per Cornuto, Theol. gr. comp., 47, Eros è alato

in quanto rende le menti leggere oppure perché assale gli uomini come un uccello. Nella concezione erotica di Platone (Phaedr., 249c sgg.) le ali simboleggiano l’aspirazione, la tensione ascensiva verso la Bellezza ideale. 2. Secondo B.I. Knott, An Emendation in Alciati’s Emblem 111, in «Emblematica», 7, 1993, pp. 383-85, Alciato avrebbe tradotto

l’originale greco yevoduevoc BelÉwv con «gustans tela », corretto poi in «gestans tela » dall’editore degli Epigramma, p. 367, dove il testo alciateo comparve per la prima volta.

NOTE

673

3. Ovidio, Ar7s, 1, 244, e Met., 2, 281.

4. Sul rapporto Eros/fuoco si veda il prossimo Emblema.

5. Alle pp. 367-68 (Anth. Gr., 16, 251). 6. Alciato dedica ad «Anteros, Amor virtutis» l’Emblema LXXXI.

7. Per i rimandi a opere e autori (Celio Calcagnini, Mario Equico-

la, Agostino Nifio, Battista Fregoso, Bartolomeo Sacchi, Lilio Gregorio Giraldi, ecc.): R.V. Merrill, Eros und Anteros, in «Speculum>»,

19, 1944, pp. 265 -84, specialmente pp. 273-81; M. Ciavolella, Trois traités du XVe siècle italien sur Anteros: « Contra Amores » de Bartolomeo Sacchi, «Anterotica » de Pietro Edo et « Anteros » de Battista Fregoso, in

Anteros, « Actes du colloque de Madison (Wisconsin) », diretto da U. Langer e J. Miernowski, Orléans, 1994, pp. 61-73; A. Comboni,

Eros e Anteros nella poesia italiana del Rinascimento. Appunti per una ricerca, in «Italique», 3, 2000, pp. 7-21; in Alciato con rassegna degli Emblemi sul tema: P.M. Simonds, Alciati’s two Venuses as Letter and Spirit of the Law, in Andrea Alciato and the Emblem Tradition, cit.,

pp. 95 -125.

8. Or., 24, 8. 9. R.V. Merrill, Eros und Anteros, cit., pp. 272-73. 10. Libro de natura d’amore, Vinegia, Gioanniantonio Sabbio, 1526, cc. 63v-647.

& fratelli de

11. 180c-181d, 210a-212a; Phaedr., 265e-266b. 12. 8, 9-10. 13. Platone, Simposio, a cura di G. Reale, Milano, 2001, pp. xxx1v-

XLII, LXIV- LxXII, 176-79. Simili considerazioni sono discusse all’interno della tematica pederastica e omoerotica del tempo, con l’elogio della natura maschile che conduce al virtuoso Eros Uranio o Celeste, mentre

chi ama

l’Eros Pandemio o Volgare.

le donne,

oltre ai giovani,

segue

14. 3, 5 (50); Plotin, Traité 50 III, 5, a cura di P. Hadot, Paris, 1990,

pp. 25-81, 149 sgg. 15. Ibid., pp. 51 sgg., 118 sgg. 16. In Opera ommia, cit., vol. II, pp. 1324-55; cfr. il saggio di M.-C. Leitgeb, Amore e magia. La nascita di Eros e il «De amore» di Ficino, Preambolo di S. Toussaint, Prefazione di C. Vasoli, in «Cahiers d’Accademia», 5, Lucca, 2006.

17. In De hominis dignitate. Heptaplus. De ente et uno, cit., pp. 498-

500, 521 sgg., 536 sgg., 560-61.

18. Servio, In Aen., 4, 520: « Avtépwta invocat, contrarium Cupidini, qui amores resolvit, aut certe cui curae est iniquus amor, scili-

cet ut inplicet non amantem». 19. Cicerone, Nat. deor., 3, 59.

674

NOTE

20. R.V. Merrill, Eros und Anteros, cit.; M. Tulli Ciceronis De natura

deorum, a cura di A.S. Pease, cit., vol. II, pp. 1127-28; S. Settis, XEASOQNE. Saggio sull’Afrodite Urania di Fidia, Pisa, 1966, pp. 97-159; per il Rinascimento e l’interpretazione neoplatonica del mito di Eros e Anteros: Celio Calcagnini, Anteros, sive de mutuo amore, in Opera aliquot, cit., pp. 436 -40; Giraldi, vol. I, pp. 394-95; cfr. E. Pa-

nofsky, Studi, cit., pp. 177-78; su Eros geminus che comprende la doppia natura celeste e volgare del dio: Colonna, vol. II, p. 953. 2]1. 1, 30,

MéAntoc.

1; la tragica storia è raccontata

22. Aen., 4, 520-521:

anche

in Suda,

s.v.

«tum, si quod non aequo foedere amantis /

curae numen habet iustumque memorque, precatur». 23. In Aen., 4, 520.

24. Met., 14, 750: «iam deus ultor agebat»; Am., 3, 8, 65: «O si ne-

clecti quisquam deus ultor amantis»; « ultor» è propriamente epi-

teto di Marte, dio della guerra (anche in Ovidio, Fast., 5, 553; cfr. in I.B. Carter, Epitheta, cit., p. 66), ma i contesti dei due versi ovi-

diani ora citati sono tali da evocare la figura e la funzione di Anteros. Nel primo (Met., 14, 698-‘764) si canta la storia della giovane e nobile Anassàrete, che sprezza crudelmente l’amore di Ifi, il quale disperato s’impicca e viene vendicato da ‘un dio”’: infatti la spietata

fanciulla è trasformata in una statua di sale; il secondo

(Am., 3, 8)

riguarda il desiderio di vendetta del povero amante trascurato dalla propria donna che ha scelto un altro per le sue ricchezze. 25. Si veda l’Emblema XIII. 26. Tibullo,

1, 2, 97-98:

«Hunc

puer, hunc iuvenis turba ... / de-

27. Tibullo,

1, 2, 56: «ter cane, ter dictis despue carminibus»; ma

spuit in molles et sibi quisque sinus»; Giovenale, 7, 111-113.

soprattutto: Virgilio, Ecl, 8, 73-75: «Terna tibi haec primum tripli-

ci diversa colore

/ licia circumdo,

terque

haec

altaria circum

/

effigiem duco; numero Deus impare gaudet»; Ciris, 369-373; Petronio, 131, 6: «illa de sinu licium protulit varii coloris filis intor-

tum cervicemque vinxit meam. Mox turbatum sputo pulverem medio sustulit digito frontemque repugnantis signavit ... Hoc peracto carmine ter me iussit expuere terque lapillos conicere in sinum, quos ipsa praecantatos purpura involverat, admotisque manibus temptare coepit inguinum Vires». 28. Teofrasto, Char., 16, 14; Teocrito, Id., 6, 39; Tibullo, 1,2, 97-100.

29. Plinio, 28, 36: «Veniam quoque a deis spei alicuius audacioris petimus in sinum spuendo »; cfr. Petronio, 74. 30. Plinio, 7, 15 e 28, 35-36; cfr. E. Tavenner, Studies in Magic from Latin Literature, New York, 1916, pp. 40-41, 58, ‘71, 108. 31. «Numero Deus impare gaudet»: Virgilio, Ecl, 8, 75 (Ciris, 373;

NOTE

675

Servio, In Aen., 3, 305 e 5, ‘78); cfr. C. Pease Clark, Numerical Phraseo-

logy in Vergil, Princeton, 1913, pp. 22-27 e 53-56; per i luoghi paral-

leli: E. Tavenner, Studies in Magr, cit., p. 119, nota 283; H. Usener,

Dreheit, Bonn, 1903; trad. it. Triade. Saggio di numerologia mitologica, Napoli, 1993, pp. 49 sgg., 114-15, 152 sgg.; A.-M. Tupet, La magre, cit., pp. 6-8. 32. C. Pease Clark, Numerical Phraseology, cit., pp. 55 -56. 33. A.-M. Tupet, La magnre, cit., pp. 14 sgg., 131 sgg., 252 sgg., 33541; H. Usener,

7Triade, cit., pp. 100-103; S. Iles Johnston, Hekate So-

teira, Atlanta, 1990, pp. 16-18, 54-57, 128-29, 157-58.

34. Apuleio, Plat., 1, 11: «Deorum trinas nuncupat species, quarum

est prima unus et solus summus

ille, ultramundanus, incorporeus,

quem patrem et architectum huius divini orbis superius ostendimus; aliud genus est quale astra habent ceteraque numina, quos

caelicolas nominamus;

tertium habent, quos medioximos Romani

veteres appellant, quod [est] sui ratione, sed loco et potestate diis summis sunt minores, natura hominum profecto maiores».

35. Cfr. Epigrammata, pp. 54-60, 359-62, 367-68 (Anth. Gr., 16, 195199).

36. XIX, 7-9 [Green]: «Hanc ego imaginem specie et argumento miratus sum. Denique mirandi stuporem transtuli ad ineptiam

poetandi». La pittura è menzionata anche da Boccaccio, Gen., 9,

4, 4.

37. A.F. Gori, Museum Florentinum, cit., vol. I, tav. LXXIX, 4-5; cfr. G. Sena Chiesa, Gemme del Museo Nazionale di Aquileia, Aquileia,

1966, p. 165, n. 274.

38. Così in miniature della metà del XV secolo che ornano i Triumphi: G. Carandente, /] trionfi, cit., p. 49, ill. 46. Sovente le immagini che ornano l’opera petrarchesca raffigurano Cupido prigioniero e ‘spennacchiato’, preda illustre sul carro di Castità (ibid., pp. 40 sgg.), come vuole la conclusione della psicomachia con Eros sconfitto e soggiogato dalla Pudicizia (ma in Ovidio, Am., 1, 2, 3132, erano Mens Bona — la saggezza, il sano intelletto — e Pudor a essere aggiogati «manibus post terga retortis» al carro trionfale di Cupido);

cdfr. Francesco

Petrarca,

Triumphi,

a cura di M. Ariani,

cit., 91 sgg., pp. 197-201 e 212 sgg.: nel Triumphus Pudicitie, 120-

124, Cupido è legato a una colonna di diaspro con catene indistruttibili: «D’un bel diaspro er’ivi una colonna / a la qual d’una in mezzo Lete infusa / catena di diamante e di topazio, / che l’usò

fra le donne, oggi non s’usa, / legarlo vidi e farne quello strazio / che bastò bene a mille altre vendette ». 39. Fig. 3: A. 1550, p. 120; Fig. 4: Thuilius, p. 461; Index, Embl. 111;

per confronti tra le vignette di Alciato e l’arte del periodo: L. Mendelsohn, Emblemi, epigrammi e statue: l’immagine di Eros nella pit-

676

NOTE

tura del Cinquecento e la diffusione della cultura greca nell’Italia del

Nord, in Storia della lingua e storia dell’arte in Italia, cit., pp. 175-97.

Sulla fortuna e le varianti, anche iconografiche, del tema «Amor profano e amor sacro» nell’emblematica dei secoli XVI-XYVIII, rilevante il contributo di M. Praz, Studies, cit., pp. 83-168. 40. 2, 28. 41. Da Petrarca, Triumphus Pudicitie, cit., 123-135. 42. Ch. Augé, P. Linant de Bellefonds, « La lutte des Erotes (Eros et Antéros)», in LIMC, vol. III, tomo 1, pp. 882-83; vol. III, tomo II, nn. 388-395. 43. G. De Tervarent, Eros and Anteros or Reciprocal Love in Ancient

and Renaissance Art, in «Journal of the Warburg and Courtauld In-

stitutes», 28, 1965, pp. 205-208; Giraldi, vol. I, p. 394.

44. 6, 23, 5.

EMBLEMA

LXXIII

1. Si veda Emblema LXXII, nota 1. 2. Per i vari aspetti del tema: A.S. Pease, in M.T. Ciceronis De divinatione, cit., pp. 98-99, 425-27, 431, 470; per il Rinascimento: Valeriano, Lib. XLIII: « de fulmine»; Ricciardi, vol II, f. 24]r-v.

3. Apuleio, Met., 5, 23; cfr. Euripide, Hipp., 525 sgg.; Sofocle, Ant., 785-86; Cicerone, Nat. deor., 2, Ovidio, Am., 1, 2, 37 sgg.; Virgilio, Aen., 6, 722-732; Plutarco, Amat., ‘764b-c; Myth. Vat. II, 46 [Kulcsar]; Isidoro, Etym., 8, 11, 80: « puer [scil. Cupido]

... Sagittam et fa-

cem tenere fingitur ... facem, quia inflammat»; per altre testimonianze, e per l’importanza di Eros igneo e cosmogonico nell’ Hypnerotomachia Poliphili: Colonna, vol. II, pp. 792-95; 937 -38; 950-51;

Giraldi, vol. I, pp. 393 -94. 4. Phaedr., 33]-339.

5. Virgilio, Cir., 133 sgg.; Ovidio, Am., 1, 2, 27 sgg., e Met., 5, 369;

Seneca, Phaedr., 186-187; Luciano, Deor. dial., 2 e 19. Sul trionfo di Amore su Giove: Petrarca, 77. Cup., 1, 158-160; Boccaccio, Am. Vis.,

16, 53 sgg.; Colonna, vol. I, p. 160; vol. II, p. 797. 6. Suldominio di Eros che si estende sugli uomini e sugli dèi: Sofo-

cle, Antig., 782 sgg.; Platone, Symp., 1 78a sgg.; Ovidio, Her., 4, 11-12:

«Quidquid Amor iussit, non est contemnere tutum: / regnat et in dominos ius habet ille deos»; per il mondo classico G.F. Schoe-

mann, De Cupidine, cit.; Cupido assoluto sovrano dell’universo e misterico iniziatore in Colonna, vol. II, pp. 158 sgg., 282 sgg. e note. 7. Epigrammata, p. 368 (Anth. Gr., 16, 250). 8. 36, 28.

NOTE

677

9. Alc., 16. 10. 13, 534e. 11. Fig. 1: A. 1550, p. 117; Fig. 2: Thuilius, p. 450; Index, Embl. 108. EMBLEMA

LXXIV

1. Epigrammata, pp. 44-45 (Anth. Gr., 9, 339). 2. S. Bochart, Hzerozoicon, cit., vol. II, pp. 538-56; L. Aurigemma,

Il segno zodiacale dello Scorpione nelle tradizioni occidentali, Torino,

1976, pp. 89 sgg.

3. Astr., 2, 26; Eratostene, Cat., 7, pp. 72-74 [Robert]; Ovidio, Fast.,

5, 537-544; L. Aurigemma, I1 segno zodiacale dello Scorpione, cit., pp. 13 sgg.

4. 2, 35; Sbordone, pp. 157-58; C. Leemans, Horapollinis Niloi Hie-

roglyphica, cit., pp. 331-33; per Valeriano, Lib. XVI: «de scorpio», l’aracnide è «doli fallaciaeque signum». 5. 2, 25; Sbordone,

p. 150; C. Leemans,

Horapollinis Niloi Hierogly-

phica, cit., pp. 321-22; cfr. Valeriano, Lib. XXIII: «de corvo».

6. Plutarco, Cic., 47, 8-9. 7. Sui miti, le leggende e i significati simbolici del corvo: S. Bochart, Hierozoicon, cit., vol. II, pp. 787-810; D.W. Thompson, A Glossary, cit., pp. 159-64; Animali simbolici. Alle origini del bestiario cristiano I, a cura

di M.P. Ciccarese, Bologna, 2002, pp. 357-77.

8. Cfr. il « giusto castigo » dell’Emblema XXXVII. 9. 167 [Chambry]. 10. IV, 1, 65, f. 242v («corvus serpentem »); cfr. I, 58, f. 15v («cor-

nix scorpium»).

11. Fig. 1: A. 1550, p. 186; Fig. 2: Thuilius, p. 718; Index, Embl. 173. EMBLEMA

LXXV

1. 9, 20-28; cfr. Valeriano, Lib. XXVII: «imperium mari»; Emblema XI ed Emblema LXXVI, nota 14; Colonna, vol. II, p. 848. 2. «Procellae vitae »: Apuleio, Met, 11, 15 e 25; cfr. Emblema XIX

ed Emblema XXXIV, note 6 e 7.

3. Thuilius, pp. 703-704, scorge nella figura del delfino rigettato

un’allusione al tema dei personaggi pubblici e uomini di governo che, benché si siano adoperati per il bene dello Stato e dei cittadini, vengono ripagati con ingiuste accuse, cacciati se non messi a morte.

4. Epigrammata, p. 283 (Anth. Gr., 7, 216).

5. Fig. 1: A. 1550, p. 180; Fig. 2: Thuilius, p. 701; Index, Embl. 167.

EMBLEMA

LXXVI

1. A. 1531: «et». 2. A. 1531: «dat». 3. Ovidio, Am., 1, 10, 14-15: «Et puer est et nudus Amor; sine sordibus annos / et nullas vestes, ut sit apertus, habet»; ben altra considerazione in Myth. Vat. II, 46 [Kulcsàr]): « Nudus, quia amoris tur-

pitudo semper manifesta est, et nusquam occulta». 4. Symp., 187 sgg. e 196a-197c; Esiodo, Theog., 120-122; Plotino, 3, 5, 3; cfr. Sofocle, Ant., 781 sgg.; Euripide, Hipp., 449 sgg., 540 sgg.,

1265 sgg.

5. Anth. Gr., 16, 207.

6. Georg., 3, 242 sgg.: «Omne adeò genus in terris hominumque ferarumque / et genus aequoreum, pecudes pictaeque volucres, / in furias ignemque ruunt: amor omnibus idem». 7. A. Motte, Prairies et Jardins de la Grèce Antique, Bruxelles, 1971, pp. 121 sgg., 130-36; S. Fasce, Eros, cit., pp. 99 sgg., 122-24; Plauto, As., 803-804: «coronas serta unguenta iusserit / ancillam ferre

Veneri aut Cupido».

8. Platone, Symp., 203b.

9. Ibid., 196a. 10. A. Furtwangler, «Eros», in W.H. Roscher, Lexikon, cit., vol. I, tomo I, col. 1350; A. Hermary, H. Cassimatis, R. Vollkommer, «Eros», in LIMC, vol. III, tomo 1, pp. 864-66; vol. III, tomo II, pp. 615-16.

11. 77-79: «ipse Amor, puer Dionae, rure natus dicitur. / Hunc ager cum parturiret, ipsa suscepit sinu; / ipsa florum delicatis educavit osculis».

12. Altrettanto

in A.

1550,

(Fig. 2); Index, Embl. 107.

p. 116

(Fig.

1), e in Thuilius,

13. A. Hermary, H. Cassimatis, R. Vollkommer,

p. 447

«Eros», in LIMC,

vol. III, tomo 1, pp. 867-70; vol. III, tomo 11, pp. 617-19.

14. Plutarco, Sept. sap. conv., 19, 162f-163a; Luciano, Dial. deor. mar., 5, 1; Ateneo, 13, 606d; Plinio, 9, 24 e 28; Aulo Gellio, 6, 8, racconta la storia di un delfino amante di un fanciullo e da lui riamato; si veda anche l’Emblema XI con la vicenda di Arione.

EMBLEMA

LXXVII

1. 54e; cfr. Cicerone, Fin., 3, 73. 2. E. Panofsky, Hercules am Scheidewege, cit.; W. Harms, Homo Viator

NOTE

679

in Bivio: Studien zur Bildlichkeit des Weges, Munchen, 1970; M. Caciorgna, Il naufragio felice, cit.; si veda Emblema I, nota 25. 3. Fig. 1: A. 1550, p. 14; cfr. Fig. 2: Thuilius, p. 52; Index, Embl. 8;

sulla fortuna di questo Emblema e le sue varianti grafiche: B.C. Bowen, Mercury at the Crossroads in Renaissance Emblems, in «Journal

of the Warburg and Courtauld Institutes», 48, 1985, pp. 222-29. 4. In Stobeo, 2, 49, 12; C. Moreschini,

Studi sul «De dogmate Plato-

nis» di Apuleio, Pisa, 1966, p. 97. 5. 3, 22, 73: «Quaeque sunt vetera praecepta sapientium, qui iubent tempori parere et sequi deum et se noscere et nihil nimis»; cfr. Orazio, Carm., 3,25, 19.

6. Apuleio, Plat., 2, 23: «Sapientem quippe pedisequum et imitatorem dei dicimus et sequi arbitramur deum,; id est enim énov Beò ».

Il motivo è in Platone, Phaedr., 248a (cfr. Albino, Did., 27, 3), a pro-

posito delle anime che ‘seguendo dio”’, assimilandosi a lui, raggiungono la « Pianura della Verità». 7. Superst., 169e; Ser. num. vind., 550d. 8. 48 [Crusius]. 9. III, 956, f. 236v; cfr. anche l’adagio « Mercuriale », in B.C. Bowen,

Mercury at the Crossroads, cit., p. 223.

10. S.v. Tpiwkédadhosg; cfr. Giraldi, vol. I, p. 291; P. Raingeard,

méès, cit., pp. 106-107, 376-77.

Her-

11. S.v. épuatiov. 12. Theol. gr. comp., 23-24.

13. Vol. I, pp. 290-91.

14. Latte e miele selvatico di quercia per Mercurio: Anth. Gr., 9, ‘72. 15. In riferimento anche alle erme e agli idoli aniconici lapidei: S. Mayassis, Architecture Religion Symbolisme. La pierre, cit., pp. 272 sgg.,

285-91 (Hermes), 419-21; P. Raingeard, Herméès, cit., pp. 443-51; cfr. G. Siebert, «Hermes», in LIMC, vol. V, tomo 1, pp. 303- 306 e

386 -87; vol. V, tomo II, pp. 204 sgg.; sulla venerazione e unzione delle sacre pietre-divinità nella Grecia antica: M.W. De Visser, De graecorum diis, cit., pp. 58-85. 16. Var. hist., 2, 41.

17. Note 17-19.

18. Diogene Laerzio, 8, 4 e 31 (Ermete è Accompagnatore delle anime in quanto le conduce via dai loro corpi, sia dalla terra che dal mare: le anime pure sono condotte in luogo altissimo, le impure sono legate alle Erinni da vincoli indissolubili); Theol. gr. comp., 16, 22 (la verga è impugnata da Ermete perché psicopompo); memorabile Virgilio, Aen., 4, 242-243: «Tum virgam capit;

hac animas ille evocat Orco / pallentis alis sub Tartara tristia mit-

680

NOTE

tis» (notevole commento di Servio, ad loc.); cfr. P. Raingeard, Her-

mès, cit., pp. 402-18; F. Cumont, Lux perpetua, cit., pp. 214, 297, 300-

301; cfr. G. Siebert, «Hermes»,

in LIMC, vol. V, tomo

1, pp. 306-

307; vol. V, tomo 11, pp. 248 sgg.; si veda Emblema XXIV, nota 15.

EMBLEMA

LXXVIII

1. In A. 1531 la vignetta viene ripetuta e unita sia all’epigramma dell’Emblema XIII (cc. A6v-A71) che a questo dell’Emblema LXXVIII, perché in entrambi i casi si parla della Speranza e di Nemesi. In A.

1534 tale Emblema

prossimo, conservandone l’iconografia.

XIII diventerà il LXXIX,

il distico di testo ma

cioè il

modificandone

2. Plauto, Rud., 231-232: «Spes bona, obsecro, subventa mihi, exime ex hoc miseram metu»; Ovidio, Her., 11, 61: «Spes bona det vi-

res».

3. Traduce il «vaso» (pithos) del racconto sul mito di Pandora di Esiodo,

Op., 98; l’uso di doliolum, diminutivo di dolium, non è ca-

suale ma vuole specificare le ridotte dimensioni del recipiente, in quanto dolium indica un contenitore di più grande mole (dolio,

barile, botte), di solito in terra cotta, a bocca larga e rotonda e ven-

tre gonfio, adatto ad accogliere vino, olio o altri prodotti agricoli (Varrone, Rust., 3, 15, 2; Columella,

12, 4, 5 e 6, 1). La traduzione

«botticella» che diamo di doliolum tiene conto dell’iconografia di LXXVIIIb, che verrà mantenuta anche in seguito: Fig. 3, da Thui-

lius, p. 227; Index, Embl. 44. Per l’interpretazione del v. 8: Mignault, p. 193; Thuilius, p. 230; M.A. De Angelis, Gli emblemi di An-

drea Alciato, cit., pp. 264-65.

4. Varrone, Rust., 1, 22, 4: «habere lis».

oportet ... dolia cum

opercu-

5. La Speranza che rimane sola nella dimora mentre i mali si diffondono tra gli uomini imita Esiodo, Op., 96-99. 6. Esiodo, così detto da Ascra sul monte

Elicona, sua residenza

pastorale, dove le Muse lo ispirarono a cantare gli dèi (Theog., 22-34); Virgilio, Ecl., 6, 69-71:

«Hos tibi dant calamos, en acci-

pe, Musae, / Ascraeo quos ante seni, quibus ille solebat / cantando rigidas deducere montibus ornos» (Servio, ad loc.: «Hesiodo, qui Ascraeus fuerat de vico Boeotiae, quem dicuntur mu-

sae pascentem pecus, raptum de monte Parnaso poetam fecisse

munere calamorum. Cui etiam bis pueritiam de senectute prae-

stitisse dicuntur, ideo ait “quos ante seni”»; Servio, In Georg., 2,

176:

«ascraeum

Hesiodicum:

nam

Hesiodus

de civitate Ascra

NOTE

681

fuit»); Stazio, Silv., 5, 3, 51: «qantumque pios ditarit agrestes / Ascraeus». 7. Gli àuguri chiamano «oscines» gli uccelli che con la bocca (0s)

fanno presagi: Varrone, Ling., 6, 76; Cicerone, Div., 1, 121

(cfr. 1,

12); Paolo-Festo, pp. 214-15 [Lindsay]: «oscinum tripudium est, quod oris cantu significat quid portendi; cum cecinit corvus, cornix»; «oscinum augurium a cantu avium». 8. Svetonio, Dom., 23: «Nuper Tarpeio quae sedit culmine comrnix / Est bene non potuit dicere, dixit: erit».

9. Quintiliano, Inst., 6, 2, 30: «inter otia animorum

et velut somnia quaedam vigilantium».

et spes inanes

10. Ausonio, Epist., XXVII, 24, 44 [Green]: «vindex Rhamnusia»; comune epiteto di Nemesi (1.B. Carter, Epitheta, cit., p. 75), perché il suo santuario si trovava nella città di Ramnunte, non distante da Maratona (Pausania, 1, 33, 2). 11. Esiodo,

Op., 96; Giraldi, vol. I, pp. 399-400; per la tradizione

medioevale e rinascimentale del mito, con disamina di questo Emblema alciateo: D. e E. Panofsky, Pandora’s box, Princeton,

trad. it. II vaso di Pandora, Torino, 1992, pp. 3 sgg., 29-37.

1978;

12. Circa la fonte di Alciato, Mignault, p. 191, e Thuilius, pp. 228-

29, rinviano a un epigramma, in cui si parla anche di Speranza e

Nemesi, di Michele

Marullo. Tuttavia il confronto tra i due com-

ponimenti non ci pare proponibile perché marginali risultano i contatti formali e concettuali. 13. Cc. 30v-317; Thuilius, p. 499; Index, Embl. 118.

14. Sul simbolismo del colore verde: F.M. Morato, Del significato de’ colori e de mazzolli, Vinegia, Bartholomeo

detto l’Imperador,

1544,

cc. Bl r-B2v; L. Dolce, Dialogo nel quale si ragiona della qualità, diver-

sità e proprietà dei colori, Venetia, Giovan Battista Sessa, 1565, cc. 167 sgg.; Ricciardi, vol. I, £. 163v; M. de Combarieu du Gres, Les cou-

leurs dans le cycle du Lancelot- Graal, in Les couleurs au Moyen Age. Senefiance n. 24, Aix-en-Provence, 1988, pp. 545, 557 sgg.; M. Salvat, Le Traité des couleurs de Barthélé l’Anglais (XIIlIe siècle), in Les couleurs au Moyen Age, cit., p. 379. Più in generale: G. Lanoé-Villène, Le livre des symboles, Co- Cy, Paris, 1933, pp. 101-45.

15. Si veda la «Nota sulle monete antiche e gli Emblemata » in fine all’Emblema VI.

16. Cit., pp. 44-45.

17. Teocrito, 4, 42; Seneca, Ep., 70, 6: «Omnia ... homini, dum vivit, speranda sunt»; cfr. l’adagio «Aegroto dum anima est, spes

est», in Erasmo (II, 315, f. 143v), dove si cita Teocrito; per altre occorrenze: R. Tosi, Dizionario delle sentenze, cit., n. 860.

18. Le molteplici fonti: D.W. Thompson, A Glossary, cit., pp. 171-

682

NOTE

'72; in M.T. Ciceronis De divinatione, a cura di A.S. Pease, cit., 1, 12

e 1, 121, pp. 74-75; 312-13. La Coronomanzia era una pratica or-

nitomantica dedita all’interpretazione della cornacchia, uccello profetico al servizio di Apollo: i presagi erano tratti dal modo con cui volava o svolazzava e dal suo gracchiare: A. Bouché-Leclercq,

Histoire de la divination dans l’antiquité, 4 voll., Paris, 1879, vol. I, pp. 133 sgg.; D.W. Thompson, A Glossar), cit., pp. 168-72.

19. Dom., 23: «Ante paucos quam occideretur menses cornix in Capitolio elocuta est: Éota1 ndàvta KkaAdés, nec defuit qui ostentum sic interpretaretur: “nuper Tarpeio quae sedit culmine cornix / ‘est

bene’ non potuit dicere, dixit: ‘erit’”».

20. Nel senso che il gracchiare dell’uccello evoca nel suono la parola latina cras, che vuol dire «domani», da intendersi in questo caso: «domani andrà bene». 2]. Primitiva divinità romana

delle messi

(Varrone, Rust., 1, 1, 6:

«Precor ... Bonum Eventum>» ), in seguito della buona riuscita e del successo (Apuleio, Met., 4, 2: «invocato hilaro atque prospero

Eventu cursu »; cfr. Servio, In Aen., 12, 176); a Roma, sul Campido-

glio, vi era una statua del Buon Evento scolpita da Prassitete (Plinio, 36, 23.e 34, ‘77: «simulacrum Boni Eventus, dextra pateram, sinistra spicam ac papavera tenens»; ripreso da Alessandro D’Ales-

sandro, Genialium dierum libri sex, cit., vol. I, p. 1028 e da Giraldi, vol. I, p. 51); Cicerone, Phil, 14, 2, 5 (cfr. Inv., 1, 107): «sed spei

fructum rei convenit et evento reservari» («per cogliere il frutto della speranza bisogna attendere il felice esito dell’azione »). 22. Sì veda l’Emblema XIII. 23. Vitruvio, 4, 9, 1; particolare che non troviamo né in LXXVIIIa

né in altre stampe: Fig. 2: A. 1550, p. 51; Fig. 3: Thuilius, p. 227; Index, Embl. 44.

24. Cfr., sopra, la nota 21. EMBLEMA

LXXIX

1. Epigrammata, p. 50 (Anth. Gr., 9, 146). 2. In A. 1531 (cc. A6v-A77) questo Emblema corrisponde al tredicesimo della serie. Si veda la nota 1 dell’Emblema LXXYVIII. 3. Fig. 1: A. 1550, p. 54; Thuilius, p. 235; Index, Embl. 46. EMBLEMA LXXX 1. Plinio, 8, 22: «Elephantes ... turriti». 2. Cfr. Emblema XXXYVI, nota 2.

NOTE

683

3. Orazio, Ars, 1, 402; Ovidio, Fast., 3, 232; Stazio, Theb., 1, 97. 4. Sulla sensibilità e intelligenza dell’elefante: Plinio, 8, 1-3. 5. Anth. Gr., 9, 285.

6. 8, 1 sgg.: «Maximum est elephans proximumque humanis sensibus, quippe intellectus illis sermonis patrii et imperiorum obedientia, officiorum quae didicere memoria, amoris et gloriae voluptas, immo vero, quae etiam in homine rara, probitas, prudentia, aequitas, religio quoque siderum solisque ac lunae veneratio». 7. Lib. II: l’immagine elefantina significa l’Africa, l’Oriente, la munificenza, la temperanza, l’equità, la fretas, la mansuetudine; sui molteplici valori simbolici dell’elefante: Ricciardi, vol. I, ff. 216v-

2]790.

8. Caes., 37: «Gallici triumphi die Velabrum praetervehens paene CUITU excussus est, axe diffracto, ascenditque Capitolium ad lumina quadraginta elephantis dextra sinistraque lychnuchos gestantibus». 9. Îl termine

tecnico usato da Svetonio è lychnuchus, traslitterazio-

ne dal greco per indicare una lampada o lume portatile come un candeliere ovvero un lume sospeso al soffitto: S. Pitiscus, Lexicon, cit., vol. II, p. 506; A. Martindale, « The Triumphs of Caesar » by Andrea Mantegna, London, 1979; trad. it. Andrea Mantegna. 1 Trionfi di Cesare nella collezione della Regina d'Inghilterra ad Hampton Court, Milano, 1980, pp. 144-45.

10. Fig. 1: incisione da Mantegna, :ibid., ill. 59. 11. Fig.2: A. 1550, p. 190; Fig. 3: Thuilius, p. 734; Index, Embl. 177. 12. Per confronti iconografici in ambito emblematico: S. Appuhn-

Radtke, Darstellungen des Friedens in der Emblematik, in Pax. Beuràge

zu ÎIdee und Darstellung des Friedens, a cura di W. Augustyn, Mùunchen, 2003, pp. 341-60.

13. Si veda l’Emblema XXX.

EMBLEMA

LXXXI

1. A. 1531: «quis». 2. Epiteto di Venere, Ven., 2.

«dea di Cipro»:

Omero,

[IL, 5, 330; Hymn.

3. Ovidio, Met., 15, 147 -148 (cfr. 5, 875): «iuvat ire per alta astra». 4. Epigrammata, p. 361 5. Sugli LXXVI.

attributi

di

(Anth. Gr., 16, 201). Cupido:

Emblemi

6. Cfr. Emblema LXXVI, note 6-9.

LXV,

LXXII,

LXXIII

e

684

NOTE

7. Cfr. l’Emblema LXXII. 8. Ibid., note 42 -43.

9. «Cum Platonem audimus Palladem et amorem philosophos deos vocantem, ita intelligamus, ut amor sit philosophus ratione viae, Pallas ratione termini» (Conclusiones secundum propriam opinionem

numero LXII, in doctrina Platonis, 14, in Syncretism in the West: Pico’s

900 Theses (1486), a cura di S.A. Farmer, Tempe, 1998, p. 441). 10. Resp., 427b sgg., 434d, 441c sgg.; seguire la virtù per raggiungere l’ideale filosofico e assimilarsi a un dio: Theaet., 176a-b. 11. Ind., 428a-b sgg. 12. 1, 2, 1-7; cfr. Plòotino, Sulle virtù 1 2 [19], a cura di G. Catalano, Prefazione di J.M. Rist, Pisa, 2006, pp. 1-49, 58-61.

13. Sui gradi di virtù e la loro classificazione nel Neoplatonismo greco: Marinus, Proclus ou Sur le bonheur, a cura di H.D. Saffrey e A.Ph. Segonds, con C. Luna,

Paris, 2001, pp. LxIx-c.

14. Fig. 1: A. 1550, p. 119; Fig. 2: Thuilius, p. 457; Index, Embl. 110.

EMBLEMA

LXXXII

1. Saturnius è epiteto di Giove, figlio di Saturno: Cicerone, Div., 2, 30, 63, e Tusc., 2, 10, 23; Ovidio, Met., 1, 163; 8, 703; 9, 242 -243;

Virgilio, Aen., 4, 372. Sull’aquila sacra a Giove si veda Emblema XXVIII, nota 4.

2. Epigrammata, p. 250 (Anth. Gr., 7, 161). 3.4,6, 3 sgg., 14 sgg., 18 sgg., 21 sgg. 4. Omero, Il, 21, 492 e 22, 139-140 (il rapido falco insegue la tremante colomba); Virgilio, Ecl., 9, 12; Ovidio, Ars, 1, 118: « Ut fugiunt aquilas, timidissima turba, columbae»; Ovidio, Met., 1, 506; Marziale, 10, 65, 13.

5. Fig. 1: A. 1550, p. 40; Fig. 2: Thuilius, p. 183; Index, Embl. 33. 6. In Andreae Alciati Antiquae inscriptiones, cit., cc. 69v-707; P. Laurens, F. Vuilleumier, De l’archéologie à l’emblème, cit., p. 90.

7. Andreae Alciati Antiquae inscriptiones, cit., c. 69v: a proposito dell’aquila posta sul monumento di Marcus Caecilius Plinius (Fig.

2): «Nam et eius nobilitatem indicat sculpta tumulo aquila, cum

moris fuisse apud veteres Artemidorus ... scribat, ut insignes viros mortuos, et immortalitate adeptos depingeret ab aquila vehi; et ideo magnis viris conspectum id in somnis animal mortem protendere. Sed aliam rationem, quae mihi magis arridet, affert Antipater graecus poeta quodam epigrammate lib III. Id nos hunc

NOTE

685

in modum ... transtulimus [segue la traduzione gramma che troviamo nel presente Emblema]». 8. 2, 20. EMBLEMA

latina dell’epi-

LXXXIII

1. Dal greco èvydsc: piccolo viperide il cui morso velenoso produce

un’ardente sete; Nicandro, Plinio, 23, 152.

2. 3. 4. 5.

Ther., 334 sgg.; Eliano, Nat. an., 6, 51;

A. 1531: «iacit» . Alle pp. 440 -42. Epigrammata, p. 283 (Anth. Gr., 7, 172). Cfr. anche A. 1550, p. 114 (Fig. 1); Thuilius, p. 438 (Fig. 2); In-

dex, Embl. 105.

EMBLEMA

LXXXIV

1. R. Tosi, Dizionario delle sentenze, cit., n. 443.

2. J-M. Massing, From Greek Proverb to Soap Advert: Washing the Ethio-

pian, in «Journal of the Warburg 1995, pp. 180-201.

and Courtauld

Institutes», 58,

3. 11 [Chambry]. 4., Adv. ind., 28.

5. 13, 23: «Si mutare potest Aethiops pellem suam, aut pardus va-

rietates suas, et vos poteritis benefacere, cum didiceritis malum». 6. Epigrammata, p. 144 (Anth. Gr., 11, 428).

7. La pagina degli Epigrammata appena citata riporta quattro tra-

duzioni

del distico di Luciano,

dovute ad Alciato, a Coronario, a

Sleidano e a Luscinio: i primi tre volgono il greco Ivòèicòg («In-

diano ») nel latino Aethiops (lemma che significa anche «uomo nero, negro»), Luscinio invece in Indus.

8. I, 372, f. 509v; III, 973, f. 237. 9. Fig. 1: A. 1550, p. 67; Fig. 2: Thuilius, p. 273; Index, Embl. 59. EMBLEMA

LXXXV

1. Fedro, App. 30, 1: «Canes effugere cum iam non possit fiber ».

2.2,24, 2.

3. Di P.A. Mattioli 1 discorsi nelli set Libri di Pedacio Dioscoride Anazar-

686

NOTE

beo della materia Medicinale, 352.

Venetia,

Vincenzo

Valgrisi,

4. P.H. Nysten, E. Littré, Dictionnaire de médecine, Paris,

1568,

p.

1859, s.v.

« Castor».

5. Eliano, Nat. an., 6, 34; Cicerone, Scaur., 2, 8; Fedro, App., 30; PIlinio, 8, 109 e 32, 26; Apuleio, Met., 1, 9; Giovenale, 12, 34; Servio, In Georg-, 1, 58; Horapollo, 2, 65: geroglifico dell’uomo che nuoce

a se stesso mutilandosi (altre fonti in Sbordone, pp. 178-79); Soli-

no, 13, 2; Isidoro, Etym., 12, 2, 21; per la moralizzazione cristiana: Physiologus, 23, a cura di F. Sbordone, cit., pp. 82-85.

6. 153 [Chambry]. 7. Fig. 1: A. 1550, p. 165; Fig. 2: Thuilius, p. 651; Index, Embl.

EMBLEMA

153.

LXXXVI

1. Virgilio, Aen., 7, 490: «mensaeque adsuetus herili».

2. A. 1531: «Quis».

3. Epigrammata, pp. 69- 70 (Anth. Gr., 9, 86).

4. L’immagine, per ovvie ragioni cronologiche (Antifilo vive in epoca augustea o neroniana) e simboliche, è ben lontana dalle truci rappresentazioni cristiane medioevali e rinascimentali della gola, vizio capitale di concupiscenza, nelle quali è il cinghiale l’attributo canonico della perversione: S. Blòcker, Studien zur Ikonographtie, cit.; C. Casagrande e S. Vecchio, 1 sette vizi capitali, cit., pp. 124- 46; F. Rigon, Il bestiario dei vizi, cit.

5. 250c.; sul corpo/‘tomba’ Crat., 400c.

dell’anima in Platone:

Gorg., 493a;

6. In merito: P. Courcelle, Conosci te stesso, cit., pp. 292- 98 e relative note.

7. Lib. XXVIII: «de ostreis: divinus Plato humanum genus ostreorum simile esse dixit ... Ostrea indicium esse dixit animi in corporis carcerem et tenebras coniecti. Ita enim Deus corpori animam adglutinavit, ut necessarium sit hominem corporis affectibus tangi». 8. 1,50. 9. II, 50v-51r7. 10. Vol. II, p. 652, nota 5. 11. Lib.

XIII:

«de mure»;

vol. II, pp. 429- 35.

12. III, 393, f. 210v:

« Mus picem gustans».

cfr. anche

«Decipula

S. Bochart,

murem

cepit»;

Hierozoicon, cit., II, 272, f. 140r:

13. Fig. 1: A. 1550, p. 102; Fig. 2: Thuilius, p. 401; Index, Embl. 95.

EMBLEMA

LXXXVII

1. Ovidio, Ars, 1, 181: «tranantur aquae». 2. Per il mondo antico: G. Tùurk, « Phrixos» in W.H. Roscher, Lexikon, cit., vol. III, tomo I11, coll. 2458- 67 (cfr. Zenobio, Cent., 4, 38; schol. Aristoph. Nub., 257; Tzetze, schol. Lyc., 22; Diodoro Siculo, 4, 47; Apollodoro, 1, 9, 1; Filostrato, Im., 2, 15; si vedano, sotto, le note 8 e 9); per il Medioevo: Ovide moralisé en prose, a cura di C. de Boer,

Amsterdam, 1954, pp. 148-50 (qui Frisso simboleggia «l’Esprit, c’est à dire l’ame de nostre dit Sauveur Jhesucrist»); Boccaccio, Gen., 13, 68; cfr. J. Chance, Medieval Mythograph»y, vol. I, cit., pp. 336-

37, e Medieval Mythography, vol. II, cit., p. 122; per il Rinascimento:

Celio Rodigino, Lectionum antiquanum libn triginta, cit., col. 1424; Natale Conti, Myth., 6, 8; sui significati alchemici del Vello d’oro si veda l’Introduzione, nota 151.

3. 6, 47. 4. III, 97, f. 196v: «ovium mores».

5. A proposito del Vello d’oro, Pierio osserva che rappresenta la stultitia, ossia un ignorante splendidamente vestito (Lib. X: «de ove: stultitia ... appellavit Diogenes virum quendam indoctum, sed splendide vestitum »).

6. Fig. 1: A. 1550, p. 204; Thuilius, p. 806; Index, Embl. 190. 7. 30: la traversata per mare durò tre o quattro giorni e, per Palefato, è incredibile che un ariete possa avanzare fra le onde «più speditamente di una nave e lo faccia portando su di sé non solo due persone [Frisso ed Elle] ma anche i viveri e le bevande necessarie al viaggio ». 8. Met., 6, 29: «et iam credemus ... Phrixum arieti supernatasse ». 9. Fast., 3, 867 - 868: «aries nitidissimus auro ... / ... ille vehit per freta longa duos»; cfr. Igino, Astr., 2, 20, e Fab., 2 e 3: «et aries eos in pelagus detulissett»; Lattanzio Placido, Comm. in Achill., 28:

«Phrixus et Helle per mare Hellespontum transiret»; Myth. Vat. I,

23 [Zorzetti- Berlioz]; Myth. Vat. II, 157 [Kulcsàr]: «aries in pelago detulit»; Myth. Vat. II, 15 [(Bode]. 10. Rispettivamente:

1,9, 1, e Im., 2, 15.

EMBLEMA

LXXXVIII

1. Plinio, 8, 122: «chamaeleon ... hianti semper ore ».

2. Il mutamento di colore nel camaleonte si ha quando si gonfia d’aria: Aristotele, Hist. an., 2, 11; Teofrasto, fr. 172; Plinio, 8, 122. 3. Plinio, 8, 122: « praeter rubrum candidumque».

688

NOTE

4. Virgilio, Aen., 6, 816:

«gaudens

popularibus

auris»;

Orazio,

Carm., 3, 2, 20: « arbitrio popolari aurae »; Quintiliano, Inst., 11, 1,

45: « Quis vero nesciat quanto aliud dicendi genus poscat gravitas senatoria, aliud aura popularis, cum etiam singulis iudicantibus non idem apud gravis viros quod leviores, non idem apud eruditum quod militarem ac rusticum deceat, sitque nonnumquam summitten da et contrahenda oratio, ne iudex eam vel intellegere vel capere non possit?». 5. 8, 120 sgg.; 28, 112 sgg.; cfr. Aristotele, Hist. an., 503a- b; Eliano, Haist. an., 2, 14; Isidoro, Etym., 12, 2, 18; Erasmo, III, 335, f. 208r: «Chamaleonte mutabilior».

6. Adulat., 9, 53d. 7. Altrettanto in Valeriano, Lib. XXVII: «de chamaeleonte».

8. Mediolani, 1625, pp. 207-208: «Adulatores principibus perni-

ciosi». 9. Plinio, 1, 122; Ovidio, Met., 15, 409. 10. A. 1550, p. 61.

11. D. Russel, IMustration, Hieroglyph, Icon. The Status of the Emblem

Picture, in Polywalenz und Multifunktionalitàt, cit., vol. I, pp. 84- 86.

12. Alla p. 255.

EMBLEMA

LXXXIX

1. Epigrammata, pp. 73- 74 (Anth. Gr., 9, 548). 2. Anth. Gr., 9, 302; cfr. Mignault, pp. 389-90; Thuilius, pp. 46667; M.A. De Angelis, Gli emblemi di Andrea Alciato, cit., p. 286.

3. Perifrasi di Cupido, con riferimento ai lascivi costumi dei Lidi « populi sunt in regione minoris Asiae, omni mollitie et voluptate depravati» (Mignault, p. 391; Thuilius, p. 467); sulla insolente e

proverbiale lussuria dei Lidi: Erodoto,

516e.

1, 6-94; Ateneo,

12, 515d-

4. L’ossimoro « dolce/amaro» rivolto a Eros ha la sua origine filo-

sofica nella formulazione platonica di Amore come unione di contrari, fondata sulla teoria della mescolanza di dolore e piacere (Symp., 202b sgg.; Phil., 47d sgg.; Phaed., 59a); sulla nozione del dulce amarum e la sua fortuna nel Rinascimento:

E. Wind,

Misteni

rono a circolare con le edizioni del 1554, 1556,

1660, ecc., dopo

pagani, cit., pp. 197 sgg.; Colonna, vol. II, p. 805; non mancano detti proverbiali: «Amor et melle et felle fecundissimus»: R. Tosi, Dizionanrio delle sentenze, cit., nn. 1416 e 1774. La «dolcezza amara» di Eros è in Saffo, le cui liriche e frammenti però cominciala morte di Alciato.

NOTE

689

5. Cfr. M. Ciavolella, La «malattia d’amore», cit.; Colonna, pp. 517, 591, 805.

vol. II,

6. Cfr. Emblemi VII, LXXIII, LXXVI. 7. Lib. XXVI: «de ape: castitas. Incorruptam adhaec virginitatem, et castum animi propositum, per apem significari id argumento est, quod ipsae homines a coitu olidos acriter oderunt». 8. Coniug. Praec., 44, 144d.

9. Georg., 4, 197-199: «Illum adeo placuisse apibus mirabere morem, / quod neque concubitu indulgent, nec corpora segnis / in

Venerem solvunt aut fetus nixibus edunt»; Servio, ad loc.: «in libi-

dinem non resolvuntur». 10. Aristotele, Hist. an., 553a sgg., ‘759a sgg.; Plinio, 11, 46 sgg. 11. Cfr. Emblema LXI, nota 7, ed Emblema LXXI. 12. Fig. 1: A. 1550, p. 121; Fig. 2: Thuilius, p. 466. Sulle variazioni figurative del tema: M. Bath, Honey and Gall or: Cupid and the Bees. A Case of Iconographic Slippage, in Andrea Alciato and the Emblem Tra-

dition, cit., pp. 59-94.

EMBLEMA

XC

1. In A. 1531: «Ad idem ». Sì fa sempre riferimento all’Emblema

precedente.

2. Manca in A. 1531.

EMBLEMA

XCI

1. Ovidio, Fast., 2, 60: « provida cura ducis». 2. II, LXXVII, f. 1237.

3. Epigrammata, pp. 65- 66 (Anth. Gr., 9, 47): qui, tra le altre versioni latine dell’epigramma, viene data anche quella di Erasmo. 4. Fig. 1: A. 1550, p. 72; Fig. 2: Thuilius, p. 289; quest’ultimo nel suo commento, pp. 290-91, si sofferma sul concetto di ingratitudine, svolgendo una rassegna di significativi esempi storici. EMBLEMA

XCII

1. Virgilio, Aen., 4, 179-180: «sororem / progenuit pedibus celerem et pernicibus alis». 2. A. 1531: «Nihil» . 3. Interpreto casibus (traducendo casus con «evento», «vicenda»,

690

NOTE

«accidente»,

ecc.)

come

dativo d’interesse, letteralmente:

«e agli

accidenti...» o «e per gli accidenti...», che rendo in «e negli accidenti...» per migliore chiarezza. Altra soluzione intende casibus (traducendo

casus con « disgrazia», «sventura», ecc.) come ablativo di

complemento di causa efficiente, da cui: «non tollera che qualcosa rimanga non toccato dalle sventure »; tuttavia il concetto di ‘sventura’ mi pare ben implicito nell’azione di Ate che non lascia niente di ‘intatto’, per cui casibus svolgerebbe una mera funzione rafforzativa del senso drammatico che non mi pare necessaria.

4. 9, 502 -514; 19, 91-133; luoghi paralleli in L. von Sybel, «Ate », in W.H. Roscher, Lexikon, cit., vol. I, tomo I, coll. 668-69, e in Ch. Vellay, Les légendes, cit., p. 32. 5. Giraldi, vol. I, p. 59; Natale Conti, Myth., 1, 18; Vincenzo Carta-

ri, Imagini de gli dei de gli antichi, cit., s.v. «Ate». 6. 37, 1-4.

7. Theol. gr. comp., 12. 8. La stretta corrispondenza tra i due va probabilmente ricondotta a una comune ascendenza apollodorea: cfr. in Anneo Cormnuto,

Compendio di teologia, a cura di I. Ramelli, cit., p. 322.

9, Cfr. la nota 99 dell’Introduzione XXIV

e la nota 26 dell’Emblema

10. IL, 9, 503. 11. Cfr. il commento in Héraclite, Allégories d’Homère, a cura di F. Buffière, Paris, 1962, p. 110. 12. Cit., coll. 51-52; cfr. F. Buffière, Les mythes d’Homéère, cit., p. 165.

13. VoL I, p. 59. 14. Cohort. ad Gr., 28, 65- 72; Pseudo- Iustinus, Cohortatio ad Graecos. De monarchia. Oratio ad Graecos, a cura di M. Marcovich, Berlin New York, 1990, p. 64. Ricciardi, vol. I, f. 947- v, accoglie piena-

mente l’opinione patristica di Ate/serpente/ Lucifero, proponendone dieci diverse valenze simboliche.

15. S.v. 'Atn. 16. A. 1550, p. 142.

EMBLEMA

XCIII

1. A. 1531: «Quis». 2. Proverbiale in Cicerone

(De consul.,, frr. 16, 17, 21 [Morel]; Off.,

1, 77, 3; Phil, 2, 20, 4; Pis., ‘72, 9): «Cedant arma togae »; Quinti-

liano, Inst., 11, 1, 24.

NOTE

691

3. Pomponio Porfirione, Hor. carm., 1, 3, 9-10: «dicitque eum du-

rissimo corde ac pectore fuisse ».

4. Ercole è benefattore e civilizzatore dell’umanità secondo una antica e ininterrotta tradizione mitografica: cfr. A.S. Pease, in M. Tulli Ciceronis De natura deorum, cit., vol. II, pp. 701-702 e 1053-

54 (3, 42: «Hercules ... quem

aiunt Phrygias litteras conscripsis-

aux portes du soir, Besancon,

1989, pp. 301 sgg.; Ercole per gli

se»; cfr. Boccaccio,

Gen., 7, 32); C. Jourdain - Annequin,

Stoici è un saggio filosofo (Seneca,

Héraclès

Const., 2, 2, 1); la sua deifica-

zione è concessa per i meriti acquisiti verso gli uomini ne, Off., 3, 25).

(Cicero-

5. Cfr. in Luciano, Dialoghi, a cura di V. Longo, Torino, 1993, vol. IIl,

pp. 282- 85. 6. Herc., 1-6.

7. Inoltre Alciato non poteva ignorare che in Horapollo (1, 27; Sbordone, pp. 71-72) la figura di una ‘lingua’ è geroglifico del

‘parlare’; cfr. Valeriano, Lib. XXXIII: «de lingua». 8. Cfr. l’Emblema XXX. 9. Fig. 1: A. 1550, p. 194; Fig. 2: Thuilius, p. 751; sulla tradizione dell’Ercole gallico e della sua fortuna figurativa: W.A. Bulst, Hercules Gallicus, der Gott der Beredsamkeit. Lukians Ekphrasis als kinstlerische Aufgabe des 16. Jahrhunderts in Deutschland, Frankrewch und Italien, in Visuelle Topoi: Erfindung und tradiertes Wissen in den Kiinsten der italienischen Renaissance, a cura di U. Pfisterer, M. Seidel, Munchen-Berlin, 2003, pp. 61-121.

10. Cfr. P. Heitz, Basler Buchermarken, cit., pp. 62- 63; sull’ Hercules

Gallicus typus eloquentiae inciso da Hans Franck nel 1519 per Cratander: W.A. Bulst, Hercules Gallicus, cit., pp. 75- 77. 11. F. 1117.

EMBLEMA

XCIV

1. A. 1531: «siccariorum » . 2. Livio, 3, 58, 3 e 38, 59, 10: «inter fures nocturnos ac latrones».

3. Ovidio, Trist., 4, 9, 27: «cornua sumpsi». 4. Nome

fittizio da scaeva o scaevus: « sinistro, disgraziato, crudele,

funesto»: Mignault, p. 215; Thuilius, p. 253. 5. Alla p. 214.

6. Fr. 102 [105 Marres], in Favorino di Arelate, Opere, Intro duzione, testo critico e commento di A. Barigazzi, Firenze, 1966, pp. 528-

29: «Qotnep è Actaiwv LIÒ TMV TPEGOLÉVWY U’ AavtoD Kuv@v aréBavev, OVTWG Ol KOAAKEG TOUG TPÉDOVTAG KAtTEGBLOLOLV» .

692

NOTE

7. Flor., 4, 12. 8. Sulle differenti versioni del mito: H.W. Roscher, Lexikon, cit., vol. I, tomo I, coll. Igino, Maiti, cit., pp. 461-62; L. Guimond, I, tomo I, pp. 454- 69; vol. I, tomo II, pp.

Stoll, «Aktaios», in W.H. 214-17; G. Guidorizzi, in «Aktaion», in LIMC, vol. 346- 63.

9. Fig. 1: A. 1550, p. 60; Fig. 2: Thuilius, p. 251; Index, Embl. 52. 10. Met., 3, 194-197:

« dat sparso capiti vivacis cornua cervi, / dat

spatium collo summasque cacuminat aures / cum pedibusque ma-

nus, cum longis bracchia mutat / cruribus et velat maculoso vellere corpus». 11. Met., 2, 4: « Actaeon ... proiectus iam in cervum ferinus»; a proposito Beroaldo il Vecchio, in L. Apulei Opera, cit., vol. I, p. 137:

«Actaeon, quasi ferinam cervinamque effigiem transfiguratus». 12. Cit., f. xx1r (Fig. 3): a sinistra Atteone con Diana e le ninfe nel bagno, a destra la tragica fine dell’imprudente cacciatore. 13. Per la bibliografia rinvio a: M. Di Giampaolo, E. Fadda, Parmigianino. Catalogo completo dei dipinti, Santarcangelo di Romagna, 2003, pp. 52- 56, n. 14. EMBLEMA

XCV

1. Ovidio, Ars, 2, 297: «Tyrios laudabis amictus»; Stazio, Silv., 3, 4, 55. 2. Sulla dextrarum iunctio si veda l’Emblema XXVII. 3. «Nuda Veritas»: Apuleio, Met., 10, 12, 14; Orazio, Carm., 1, 24, 7; Quintiliano, Decl., 388, 27; Pomponio Porfirione, Hor. carm., 1, 24, 8:

«Nudaque Veritas. Bonum &7niBetov Veritatis nuda ideo, quia nihil

occultet ac celet»; cfr. Valeriano, Lib. XLIIII: «veritas».

4. Comune

appellativo di Venere

(C.F.H. Bruchmann,

cit., p. 56; I.B. Carter, Epitheta, cit., p. 101), da sua madre

Epitheta, Dione,

che secondo una versione del mito la generò unendosi a Zeus: Ci-

cerone, Nat. deor., 3, 59 (cfr. A.S. Pease, in M. Tulli Ciceronis De na-

tura deorum, cit., vol. II, p. 1127). 5. Molti gli esempi, dimostrativi Ovidio (Pont., 4, 4, 25: « purpura Pompeium summi velabit honoris») e Marziale (8, 8, 4: « purpura

te felix, te colat omnis honos »); cfir. S. Pitiscus, Lexicon, cit., vol. IIl,

pp-. 217-19; L. Poverini, Il cielo « di porpora » nella letteratura greca arcaica e il linguaggio delle vesti, in La porpora. Realtà e immaginario di un colore simbolico, a cura di O. Longo, Venezia, 1998, pp. 111-24; L. Bessone, La porpora a Roma, ibid., pp. 149- 202; D. Davanzo Poli,

La porpora presso Bizantini, Copti e Cristiani, ibid., pp. 407 -12. 6. Si veda, sopra, la nota 3.

7. Alle pp. 55-56; Thuilius, p. 57.

NOTE

693

8. F. cxx11v (Fig. 1). 9. Vol. I, p. 83. 10. Thuilius, p. 56.

11. Fig. 3: A. 1550, p. 15; Index, Embl. 9. 12. Cfr. Cicerone, Nat. deor., 2, 61 e 3, 47 (cfr. A.S. Pease, in M. Tul-

li Ciceronis De natura deorum, cit., vol. II, pp. 694- 95); Boccaccio, Gen., 3, 11; Giraldi, vol. II, p. 33; Vincenzo Cartari, Imagini de gli dei de gli antichi, cit., s.v. «Honore». 13. Cit., pp. 80-81; il riferimento a Quintiliano concerne /Inst., 11,

3, 140 sgg.; il sinus è una piega semicircolare in una comoda veste messa sopra le altre, ottenuta prendendo una delle cocche e gettandola sulla spalla opposta. EMBLEMA

XCVI

1. A. 1531: «humanum».

2. A. 1531: «incomoda » . 3. «Si quando alias »: Plinio il Giovane, Ep., 4, 13, 1 e 8, 4, 5; Sveto-

nio, Aug., 75, 1.

4. Apuleio, Met., 6, 9: «cachinnum extollit». 5. Persio, 1, 12: «sum petulanti splene cachinno». 6. Si intenda: «... o, ridendo, scherzi con te»; la milza è la sede del riso: Persio, 1, 12; Servio, In Aen., 6, 596: «risus in splene»; 8, 219:

«ut splene ridemus».

7. Epigrammata, p. 20 (Anth. Gr., 9, 148). 8. Ira, 2, 10, 5: «Heraclitus quotiens prodierat et tantum circa se male viventium, immo male pereuntium viderat, flebat, mise-

rebatur omnium qui sibi laeti felicesque occurrebant, miti animo, sed nimis inbecillo: et ipse inter deplorandos erat. Democritum contra aiunt numquam sine risu in publico fuisse; adeo nihil illi videbatur serium eorum quae serio gerebantur. Ubi istic irae locus est? Aut ridenda omnia aut flenda sunt»; Seneca, Tranq., 15, 2.

9. 10, 28- 53. 10. Vit. auct., 13-14. 11. De orat., 2, 235. 12. Epist., 2, 1, 194. 13. Flor., 20, 53.

14. Epist., 9, 89, 14; ripreso da Pietro Crinito, De honesta disciplina, cit., p. 74: «Heraclitus fletu oculis clausis, Democritus risu labris apertis».

694

NOTE

15. In H. Liebeschùtz, Fulgentius Metaforalis, cit., pp. 76- 77. 16. Fig.

125v.

1: dall’edizione

di Parigi,

Goffredo

de Marnef,

1498,

f.

17. Cfr. C. Balavoine, La manipulation des «images symboliques» à la Renaissance: Démocrite entre rire et folie, in Florilegio de estudios de emblematica = À Florilegium of Studies on Emblematics, a cura di L. Poza, Ma-

drid, 2004, pp. 168- 71.

18. In Opera omnia, cit., vol. I, pp. 636- 37; A. della Torre, Storia dell’Accademia Platonica di Firenze, Firenze, 1902, pp. 639- 40; P.O. Rristeller, Supplementum ficinianum, cit., vol. I, pp. 83- 84; E. Wind, The Christian Democritus, in «Journal of the Warburg Institute», 1, 1937,

pp. 180-82, e Misteri pagani, cit., pp. 61-62. 19. Cfr. Pinacoteca di Brera. Scuola lombarda e piemontese 1300 -1535, direzione scientifica di F. Zeri, Milano, 1988, pp. 121-130, n. 94a.

20. Cfr. W. Weisbach, Der «sogenannte» Geograph von Velasquez und die Darstellungen des Demokrit und Heraklit, in «Jahrbuch der Preussischen Kunstsammlungen », 49, 1928, pp. 141-58.

2]. Alla p. 646. 22. A. 1550, p. 164; Index, Embl. 152. EMBLEMA

XCVII

1. Myth. Vat. II, 46 [Kulcsar]: «Qui [scil. Cupido] pharetratus, nudus, cum face, pennatus, puer depingitur». Sugli aspetti di Cupido noti nel Rinascimento, rassegna in Giraldìi, vol. I, pp. 389-95. 2. Ovidio, Ars, 3, 114: «et domiti magnas possidet orbis opes». 3. Apollo concesse a Nestore, figlio di Neleo e Cloride, di vivere oltre il tempo di tre generazioni, facendone il paradigma di estrema longevità: Omero, Il, 1, 250 sgg.; Orazio, Carm., 2, 9, 13-15; Ovidio, Met., 8, 313 e 365- 368; 12, 169 sgg.; Properzio, 2, 13, 46; Tibullo, 4, 1, 50; Igino, Fab., 10; Boccaccio, Gen., 10, 36.

4. Interrogativa assente in A. 1531 e A. 1534, ma non nelle successive edizioni; cfr. Index, Embl. 114; Mignault, p. 396. 5. Esiodo: Emblema LXXVIII, nota 6.

6. A. 1531: «linquere » per l’errato «liquere » . 7. «Vitamque» in A. 1531 e A. 1534; in A. 1550: «vittamque ». 8. Punto interrogativo assente in A. 1531 e in A. 1534; corretto in

A. 1550.

9, A. 1531: «movent»; in A. 1534: «movet». 10. Da Seneca, Phaedr., 336- 338: «spicula cuius sentit in imis / cae-

NOTE

695

rulus undis grex Nereidum / flammamque nequit relevare mari»; si veda Emblema LXXIII, nota 4. 11. Tibullo, 64, 161: «iucundo labore»; Cicerone, Fin., 2, 32, 105: «Tucundi acti labores».

12. Sulle diverse personificazioni e nomi di Eros: A.S. Pease, in M.

Tulli Ciceronis De natura deorum, cit., vol. II, pp. 1131-32; Cornuto,

Theol. comp., 47 sgg.

13. Cfr. Emblema LXXYVI, nota 3.

14. La perenne fanciullezza di Amore denota l’irrazionalità e l’imprudenza a cui sono soggetti la passione e lo slancio amoroso, stati d’animo propri dell’istintualità e dell’immaturità infantile: Ser-

vio, In Aen.,

1, 663:

«nam

quia

turpitudinis

est stulta cupiditas,

puer pingitur»; Cornuto, Theol. gr. comp., 47; Myth. Vat. II, 46 [Kulcsar): «Puer etiam fingitur quia sicut pueris per imperitiam facundia sic quoque nimium amantibus per voluptatem deficit»; Isidoro, Etym., 8, 80: « Puer pingitur, quia stultus est et inrationabilis

amor».

15. Cfr. Emblema LXV, nota 8. 16. Cfr. Emblema LXXII, nota 1.

17. Cfr. Emblema VII, note 17-20. 18. Il pallium era un’ampia sopravveste dalla forma quadrata o bislunga, un comodo mantello di lana fermato intorno al collo o sul-

le spalle con una fibbia: S. Pitiscus, Lexicon, cit., vol. III, pp. 14-16. 19. Cfr. Emblema LXXIII, note 3 e 4.

20. Sì veda, sopra, la nota 10. Le Naiadi sono le divinità di acque dolci, fonti e sorgenti, ninfe che fin dall’antichità designano per allegoria o metonimia l’acqua: Porfirio, L’antro delle Ninfe, a cura di L. Simonini, Milano, 1986, p. 112, nota 28.

21. Alle pp. 396- 404. 22. Alle pp. 474- 83. 23. A. Henkel, A. Schòne, Emblemata, cit., col. 1761; M.A. De Angelis, Gli emblemi di Andrea Alciato, cit., pp. 305- 308. 24. «De amore»,

in Michaelis Marulli

Carmina, cit., Epigr., 1, 59,

pp. 25-26. Il componimento di Marullo, insieme a un altro carme di Enea Silvio Piccolomini sullo stesso soggetto e dal medesimo tenore, venne riprodotto da Georg Pictorius per la sua «Imago Cupidinis et declaratio» nella Theologia mythologica, Antuerpiae, Michael Hillenius, 1532, cc. 26v- 277.

25. Theol. gr. comp., 47 - 48.

26. 2, 28, 6: «otio lascivie plebem ». 2'7. Agr., 16, 5, 1: «cum ret».

adsuetus expeditionibus miles otio lascivi-

696

NOTE

28. Su questo motto si veda il commento all’Emblema XXI. 29. C. 30v: «Index moestitiae est pullus color, utimur omnes / Hoc habitu tumulis cum damus inferias»; Mignault, pp. 418-20; Thuilius, pp. 499- 501. 30. Columella, 10, 242- 243; Plinio, 13, 112; 17, 67 e 95;J. André, Les noms de plantes, cit., p. 211; Ovidio, Am., 2, 6, 22: «tincta gerens rubro punica rostra croco», e Pont., 4, 15, 8: «Punica sub lento

cortice grana rubent». 31. Fig. 1: A. 1550, p. 123; Fig. 2: Thuilius, p. 473.

32. Ateneo, 3, 84c; cfr. J. Murr, Die Pflanzenuwelt, cit., p. 51; U. Pestalozza, Religione mediterranea, Milano, 1951, pp. 24- 26; I. Chirassi,

Elementi di culture precereali nei miti e riti greci, Roma, 1968, p. 87. Un «arbuscolo di mali punici » è simbolico Emblema dell’amore e delle sue virtù nell’ Hypnerotomachia Poliphili: Colonna, vol. I, pp. 11315; vol. II, p. ‘717. 33. Virgilio, Georg., 305; rassegna sui diversi tipi di ghiande in Plinio, 16, 15 sgg.; cfr. inJ. André, Les noms de plantes, cit., p. 111; Pli-

nio, 15, 112, distingue chiaramente la ghianda dal melograno in base al loro rivestimento: «crusta teguntur glandes ... corio et membrana Punica». 34. 12,'75, 3: « pastas glande natis habet Secundus»; cfr. J.N. Adams, Tihe Latin Sexual Vocabulary, London, 1982; trad. it. Il vocabolario del sesso a Roma, Lecce, 1996, pp. 91, 181. 35. Dig., 50, 16, 236,

1; cfr. Vocabolarium Iurisprudentiae Romanae,

Berolini, 1933, col. 993: «“Glandis” appellatione omnis fructus continetur».

36. In Opera omnia, cit., vol. I, coll. 433- 34.

EMBLEMA

XCVIII

1. Epiteto di Medea, si veda Emblema XLIV, nota 1; Marziale, 10, 35, 5: « Colchidos adserit furorem>».

2. In A. 1531 e A. 1534 senza punto interrogativo, che compare in-

vece nelle edizioni successive, cfr. Index, Embl. 54; Mignault, p. 220.

3. Anth. Gr., 9, 346. L’epigramma godette di una certa fortuna e

venne tradotto da altri umanisti: Mignault, pp. 220-21, e Thuilius,

p. 259.

4. Si veda Emblema XLIV, nota 5.

5. Fig. 1: A. 1550, p. 62; Fig. 2: Thuilius, p. 258.

EMBLEMA

XCIX

1. Nel senso che sia la rondine che la cicala sono stagionali, quindi ospiti dei luoghi che frequentano soltanto per un determinato periodo dell’anno. 2. Rispetto il senso letterale, che ricorre anche in Eveno, mentre

nella traduzione data in Index, Embl. 180 si preferisce sciogliere l’allusione: « poetical (musicus) souls (pectus)». 3. Si veda Emblema XLIV, nota 6; sulla tradizione di Progne/ron-

dine sinonimo di infelicità e tragedia: Varrone, Ling., 5, ‘76: « Pro-

gne in luctu facta avis»; Orazio, Carm., 4, 12, 6: «infelix avis»; Ovidio, Trist., 5, 1, 60: «hoc querulam Procnen ... facit»; luoghi paral-

leli in S. Bochart, Hierozoicon, cit., vol. II, pp. 607- 609. 4. Nat. an., 8, 6; cfr. Plutarco, Quaest. conv., 8, 7, 72'7e-f; sulle opinioni degli antichi circa la rondine, la sua migrazione, le abitudini

alimentari, la garrulità, miti e proverbi: D.W. Thompson, A Glossar), cit., pp. 314-25. La rondine è ‘geroglifico’ della « garrulitas» e della « peregrinatio » in Valeriano, Lib. XXII: « de hirundine ».

5. 1, 26. 6. 713-714. 7. Epigrammata, p. 103r- v (Anth. Gr., 9, 122). 8. Si veda il commento all’Emblema II.

9. Fig. 1: A. 1550, p. 193; Fig. 2: Thuilius, p. ‘747. EMBLEMA

C

]. Epiteto comune alla dea (cfr. in I.B. Carter, Epitheta, cit., p. 100);

Paolo-Festo, p. 6 [Lindsay]: «Alma sancta sive pulchra, vel alens, ab alendo scilicet». 2. Heracl., 476 - 477; cfr. Sofocle, Aiax, 293: «il decoro delle donne è il silenzio», proverbiale in Erasmo, ornat silentium».

IV, 83, f. 243v:

«Mulierem

3. Coniug. Praec., 32, 142d; Is. et Os., ‘75, 381e-f; cfr. Pausania, 6, 25, 1; sulla discrezione, la sobrietà e il silenzio imposti da Numa alle donne romane: Plutarco, Lyc.- Num., 25 (3) 10. 4. Coniug. Praec., 23- 25, 141b-d.

5. Lib. XXVIII: « de testudine: virginum custodia». 6. Theologia mythologica, cit., c. 18v; nella successiva e rivista edizione dell’opera (Apotheoseos, cit., p. 55) il testo è accompagnato da una vignetta (Fig. 1) con il carro di Venere, sul quale la dea trionfante appoggia entrambi i piedi sulla tartaruga.

698

NOTE

7. Cfr. J.G. Frazer, Pausania’s Description, cit., vol. IV, p. 105; J.G. Griffiths, in Plutarch’s De Jside et Osiride, cit., p. 560; specialmente

S. Settis (XEAQNE, cit., pp. 3-8, 173 sgg., 192 sgg.) dedica all’argomento un’ampia analisi, documentando la complessità del pro-

blema; Mignault, pp. 672- ‘73 (lo stesso in Thuilius, p. 884) non ne

spiega il senso, si limita a dire (da Varrone, Ling., 5, ‘79) che la te-

studo è così detta perché protetta da una testa (il guscio corneo) e si porta il ‘tetto’ o la ‘casa’ addosso («domiportam appellant»). Cita poi da Cicerone (Div., 2, 133) un passo dell’Antiopa di Pacuvio,

in cui si elencano gli attributi dell’animaletto (in Ateneo, 2, 63b si

parla similmente di una chiocciola); sulla questione: M. Tulli Ci-

ceronis De divinatione, a cura di A.S. Pease, cit., pp. 560- 62; S. Set-

tis, XEAQNE, cit., pp. 192- 93.

8.6,25,1.

9, Nat. an., 15,19.

10. Si veda l’Emblema LXXII.

11. XEAQNE, cit., pp. 173 sgg. 12. Sì veda il commento all’Emblema II.

13. Cfr. Emblemi LXI, nota 7, LXXI e LXXXIX.

14. Topos letterario e figurativo, la colomba è sacra ad Afrodite perché pura, benevola, augurale e ‘àma molto’ (Cornuto, Tiheol. gr.

comp., 46; Apollodoro, in Schol. Apoll. Rod. Arg., 3, 541; Servio, In Aen., 6, 190): D.W. Thompson, A Glossary, cit., pp. 244- 46.

15. Fig. 2: A. 1550, p. 210. 16. Fig. 3: Thuilius, p. 832; Index, Embl. 196. EMBLEMA

CI

1. Ben provvisto di denaro, facoltoso, ricco: Cicerone, Leg. agr., 2,

59, e Epist. ad fam., 7, 16, 3; Orazio, Epist., 1, 6, 38.

2. A. 1531: «sattaguntque»; Plauto, Asin., 440: «nunc satagit: adducit domum etiam ultro et scribit nummos». 3. Servio, In Aen., 3, 209: «Sane apud inferos furiae dicuntur et canes, apud superos dirae et aves, ut ipse in XII [Virgilio, Aen., 12,

845: «geminae Dirae »] ostendit, in medio vero harpyiae dicuntur: unde duplex in his effigies invenitur». 4, A. 1531: «restant » .

5. Fedro, 3, ep. 30: «sed difficulter continetur spiritus, / integritatis qui sincerae conscius». 6. A. 1531: «vestra» .

7. Vocabolarium Iurisprudentiae Romanae, cit., col. 379. Erasmo nel-

NOTE l’adagio « Officiere luminibus»

699

(IV, 6, 8) considera la formula, ol-

tre che dal punto di vista giuridico, anche come allusiva di chi vuole oscurare la gloria di un altro; cfr. le osservazioni di Mignault, pp. 149-50; Thuilius, pp. 180-81; M.A. De Angelis, Gli emblemi di Andrea Alciato, cit., pp. 318-19; V.W. Callahan, An Interpretation of Four of Alciato’s Latin Emblema, in «Emblematica»,

5, 1991, pp. 259- 63.

8. In Opera ommnia, cit., vol. I, p. 139.

9. Op., 346; riproposto da Erasmo (I, 32, f. 12v: «Aliquid mali esse propter vicinum malum »); si veda Emblema LVIII, nota 7. 10. Per lumen quale « eccellenza di doti», « primato di pensiero» e di «virtù intellettuali» o lumen animi, Cicerone: Brut., 17; Catil., 3,

10; De orat., 2, 27 e 86; Somn. Scip., 12; Marziale, 1, 68, 6. 11. Apollonio Rodio, Argon., 2, 176 sgg.; Apollodoro, 1,9, 21; Va-

lerio Flacco, 4, 425 sgg.; Igino, Fab., 19; Servio, In Aen., 3, 209; Ful-

genzio, Mit., 3, 11: «Sed has [scil. Arpie)] a conspectu eius Zetus et Calais fugant; Grece enim zeton calon inquirens bonum dicimus. Ideo volatici quia omnis inquisitio boni numquam terrenis rebus miscetur; ideo Aquilonis venti filii, quia bona inquisitio spiritalis est, non carnalis. Ergo veniente bonitate omnis rapina fugatur » (ripreso e ampliato in Boccaccio, Gen., 4, 59); Myth. Vat. I, 1, 262'7 [Zorzetti- Berlioz]; Myth. Vat. II, 165 [Kulcsaàr]; cfr. F. Keseling,

De Mythographi Vaticani Secundi fontibus, Halix Saxonum, 1908, pp. 29- 30; Myth. Vat. II, 5, 5-6 [Bode].

12. Anche per Alciato Fineo indica l’avarizia: Oratio in laudem ITuris Civilis, in Opera ommnia, cit., vol. II, p. 539.

13. Per le fonti sui due prodìi, la loro genealogia e gli aspetti mitopoetici: «Catalogus Argonautarum>», in C. Valerii Flacci Argonauticon libri octo, cit., cc. [29v- 30r; 46v- 470). 14. Fig. 1: A. 1550, p. 39; Fig. 2: Thuilius, p. 179; Index, Embl. 32. 15. In Aen., 3, 209: «ad pellendas harpyias miserunt: quas cum strictis gladiis persequerentur pulsas de Arcadia». EMBLEMA

1. Questo

e i successivi Emblemi

CII

CIII, CV e CVI

corrispondono

agli ultimi quattro epigrammi non illustrati dell’edizione Steyner. Si veda l’Introduzione. 2. A. 1531: «Bellorophon » . 3. Manilio, nis».

5, 191:

«sternere

litoreis monstrorum

corpora

hare-

4. Espressione virgiliana: Aen., 11, 272: « petierunt aethera pennis»; Georg., 1, 406 e 409; Ciris, 650; 538; 541.

700

NOTE

5. Valerio Massimo, 7, 3, 6: «robore atque animi consilio ... expertus»; Cicerone, Epist. ad fam., 5, 7, 3, e Off., 1, 80; Pseudo Cicerone,

Reth. ad Her., 3, 10.

6. Cfr. A. Rapp, « Bellerophon», in W.H. Roscher, Lexikon, cit., vol.

I, tomo I, coll. 758- 74; per l’Umanesimo: Celio Rodigino, Lectionum antiquarium libri triginta, cit., coll. 583- 84.

7. Mit., 3, 1: «Bellerofonta posuerunt quasi buleforunta, quod nos Latine sapientiae consultatorem dicimus ... id est: bona cogitantem, sapientissimum consiliarium. Spernit libidinem ... id est contrarius Christo ... unde et Cymeram occidit.; Cymera enim quasi cymeron, id est fluctuatio amoris ... Ideo etiam triceps Cymera pingitur, quia amoris tres modi sunt ... amor noviter venit, ut leo feraliter invadit ... At vero capra quae in medio pingitur perfectio libidinis est ... Ideo et Satyri cum caprinis cornibus depingitur, quia noverunt saturari libidinem. At vero quod dicitur: “postemus draco”, illa ratione ponitur, quia post perfectionem vulnus det penitentiae venenumque peccati»; cfr. Myth. Vat. II, 154 [(Kulcsàr]); Myth. Vat. IIl, 14, 4 (Bode].

8. La Chimera è ‘geroglifico’ della libudo in Valeriano, Lib. X: «de

capra».

9. Omero,

3,1.

[IL., 6, 180-184; Esiodo,

Theog., 319- 322; Apollodoro, 2,

10. Omero, IL, 6, 184-186; Apollodoro, 2, 3, 2.

11. Fig. 1: A. 1550, p. 20; Fig. 2: Thuilius, p. 81. 12. La coda è serpentiforme, ma manca ancora la testa caprina sul dorso (Fig. 1), che comparirà nell’edizione di Thuilius (Fig. 2). 13. Schol. ad Lyc., 17, 15. 14. Olymp., 13, 84 sgg. 15. 2, 3, 2. 16. A.F. Gori, Museum Filorentinum, cit., vol. II, tav. XXXIV, Tondo, F.M. Vanni, Le gemme, cit., p. 166, n. 20.

1; L.

17. Dialoghi intorno alle medaglie, cit., p. 150. 18. Discorso sopra le medaglie, cit., p. 511.

19. Ibid., p. 513.

EMBLEMA

CIII

1. Ovidio, Met., 15, 508-510: «cum mare surrexit cumulusque inmanis aquarum / in montis ... et dare mugitus»; Orazio, Epist., 2, ]1, 202; Stazio, Theb., 7, 65. 2. Plinio, 5, 26: « sinus dividitur in geminos».

NOTE

701

3. Qui si sostituisce completamente il verso di A. 1531: «Gallus uti, et Teuton alpe et Hyberus aquis» . 4. A. 1531: «aiunt». 5. Tacito, Hist., 3, ‘77: «cohortis expeditas summis montium iugis super caput hostium sistit». 6. Portatore del serpente, vale a dire dell’insegna viscontea: cfr. il commento all’Emblema I.

7. Cfr. il commento all’Emblema XXX.

8. Cfr. Fig. 1: A. 1550, p. 145; Fig. 2: Thuilius, p. 572. 9. Alciato aveva già presentato negli Epigrammata, p. 154 (Anth. Gr.,

7, '73), la propria versione latina del testo greco, sottolineando che

la sua non

era una traduzione fedele, bensì una «imitatio» e un

adattamento in onore di Gian Galeazzo.

EMBLEMA

CIV

1. Cornelio Nepote, Thras., 8, 1, 3: « Thrasybulus ... e servitute in libertatem vindicaret».

2. «Tustis armis»: Livio, 38, 22, 5; Ovidio, Met., 7, 458; Tacito, Ann., 14, 32, 2.

3. Cornelio Nepote,

Thras., 8, 2, 6 e 3, 3; Svetonio, Caes., 73, 1: «si-

4. Cornelio Nepote,

Thras., 8, 4, 1: «Huic pro tantis meritis hono-

multates contra nullas tam graves excepit unquam, ut non occasione oblata libens deponeret».

ris causa corona a populo data est, facta duabus virgulis oleaginis».

5. Thras., 8, 1, 4. 6. I suoi attributi sono la corona e lo scettro: R. Guerrini, Trasibulo,

in M. Caciorgna, R. Guerrini, La virtù figurata, cit., pp. 351-52. 7. Cfr. Emblema XLII, nota 6 ed Emblema L, nota 1.

8. Cfr. Thuilius, pp. 578-‘79.

9. Fig. 1: A. 1550, p. 146; Fig. 2: Thuilius, p. 576. EMBLEMA

CV

1. Secondo dei nove Emblemi aggiunti nell’edizione Wechel rispetto a quella precedente di Steyner del 1531, gli altri sono:

LXVI, CVII, CVIII, CIX, CX, CXI, CXII, CXIII.

2. Il ‘terror panico”, il delirio che travolge le schiere per l’inter-

vento del dio Pan viene descritto mirabilmente in Valerio Flacco

702

NOTE

(3, 43- 73, 48 sgg.: «Pan nemorum bellique potens / ... Vox omnes super una tubas, qua conus et enses / qua trepidis auriga rotis nocturnaque muris / claustra cadunt»): è superiore alla paura orribile che possono incutere Marte, le Furie o la stessa Gorgone; cfr. Polieno,

1, 2e 4, 3, 26.

3. Termine tecnico che in origine designava uno squadrone di cavalleria, composto da trenta soldati e tre ufficiali (decuriones): Varrone, Ling., 5, 91; Paolo-Festo, pp. 484- 85 [Lindsay].

4. L’interrogativa diretta non è presente in A. 1534, bensì nelle edizioni successive, cfr. A. 1550, p. 134; Index, Embl. 123.

5. Astr., 2, 28: «Hic etiam dicitur, cum Iuppiter Titanas obpugnaret, primus obiecisse hostibus timorem qui rtavuicòog appellatur, ut

ait Eratosthenes»; Germanico, Arat., 554- 556.

6. Cat., 27; per i paralleli Scholia in Arato e in Germanico: Erathosthenis

Catasterismorum

reliquiae,

a cura

di

C.

Robert,

Berolini,

1963, pp. 148-49; cfr. Commentariorum in Aratum reliquiae, a cura di E. Maas, Berolini, 1958, pp. 237, 397. 7. I, 940, £. 1067; cfr. Giraldi, vol. I, p. 437.

8. Cit., cap. xxviIll, ff. D8r- D9r: « Panici terrores qui vocetur, eos-

que locuplentissimi citati testes».

9. Epist. ad fam., 16, 23, 2: «Atticus noster, quia quondam me com-

moveri tavucòsg intellexit, idem semper putat nec videt quibus praesidiis philosophiae saeptus sim». 10. Descrizione simbolica delle fattezze umane e ferine di Pan rap-

presentanti il cosmo: Cornuto, Theol. gr. comp., 49-51; Servio, In Ecl., 2, 31; Giunio Filargirio, In Ecl, 2, 32; cfr. M. Gabriele, Alchimia

e iconologia, cit., pp. 184- 88.

11. P.P. Bober, R.O. Rubinstein, Renaissance Artists, cit., pp. 115- 24.

12. Fig. 1: Colonna, vol. I, p. 191; Fig. 2: Pan dipinto a monocromo da Correggio nella Camera di San Paolo a Parma: cdfr. Il Correggio e la Camera di San Paolo, a cura di F. Barocelli, Parma,

1988, pp.

169

sgg.; il volume riunisce i maggiori contributi a riguardo: il Ragionamento del Padre Ireneo Affò (1794) e gli studi di R. Longhi e E. Panofsky. 13. Fig. 3: A. 1550, p. 134; Fig. 4: Thuilius, p. 529.

EMBLEMA

CVI

1. Il testo di A. 1534 mostra dei ripensamenti rispetto alla originale versione di A. 1531: nel primo verso si sostituisce «Insubris »

con «Thessalis » , il secondo in A. 1531 suonava diversamente

(«Mu-

NOTE

703

tet et ut regi serviat utque duci?»), viene infine aggiunto l’ultimo

distico. Il v. 6 in fine ricalca Plauto, Pseud., 945.

2. A. 1531: «hypocomum» . 3. Cfr., sopra, la nota 1. 4. Livio, 5, 34; Plinio, 3, 124. 5. 33, 34, 6-7; 34, 24- 25; 34,51, 3-6 («Demetriadem inde profici-

scitur deductoque praesidio, prosequentibus cunctis sicut Corinthi et Chalcide, pergit ire in Thessaliam, ubi non liberandae modo

civitates erant sed ex omni conluvione et confusione tolerabilem formam redigendae. Nec enim temporum ac violentia et licentia regia turbati erant sed inquieto nio gentis nec comitia nec conventum nec concilium per seditionem ac tumultum iam inde a principio

in aliquam modo vitiis etiam ingeullum non ad nostram

usque aetatem traducentis »); 36, 9; 42, 5, 7-12. Mignault, pp. 159-

60 (cfr. Thuilius, pp. 193-94) cita come fonte dell’Emblema un passo di Ulpiano. 6. 16, 14 (Filippo il Macedone libera le città tessale dai tiranni Ale-

vadi e mostra grande benevolenza verso i Tessali) e 35- 38; 17, 4.

7. Lucano, 6, 396- 399: « primus ab aequorea percussis cuspide saxis / Thessalicus sonipes, bellis feralibus omen, / exiluit, primus

chalybem frenosque momordit / spumavitque novis Lapithae domitoris habenis»; cfr. Virgilio, Georg., 3, 115; Valerio Flacco, 1, 424 (« Thessalico ... freno»); Valerio Massimo, 7, 605; Lattanzio Placido,

Comm. in Stat. Theb., 12, 632; Igino, Fab., 274.

8. Plinio, 7, 202.

9. Fig. 1: A. 1550, p. 42; Fig. 2: Thuilius, p. 193. EMBLEMA

CVII

1. Cfr. Emblema XXXII, nota 2.

2. Presso i Romani comune tavoletta cerata per scriverci con lo stilus e poi eventualmente cancellare, analoga alle piccole lavagne

per bambini che possono essere cancellate e riscritte; Quintiliano, Inst., 10, 3, 31: «Scribi optime ceris, in quibus facillima est ratio delendi»; cfir. in S. Pitiscus, Lexicon, cit., vol. I, pp. 402 - 403. 3. Cicerone,

Verr., 2, 5, 169: «Italia alumnum suum ... videret».

4. Cicno, re dei Liguri, piangendo la morte di Fetonte (si veda l’Emblema LXIV) suo amico e parente, si trasforma in cigno: Virgilio, Aen., 10, 189-193; Ovidio, Met., 2, 367 - 380; 12, 581; Igino, Faò., 154. 5. Titoli d’onore, di nobiltà. 6. Già attestata in Anacreonte

di Teo, fr. 189, poeta greco

della

metà del VI secolo a.C., e in Aglaostene autore dei Naxica secondo

704

NOTE

quanto scrive Igino (Astr., 2, 16), venne trasmessa al Medioevo e al

Rinascimento dallo stesso Igino e da Fulgenzio (Mit., 1, 20: « Iuppiter enim, ut Anacreon [fr. 189] antiquissimus auctor scripsit, dum adversus Titans ... bellum adsumeret et sacrificium caelo fecisset, in victoriae auspicium aquilae sibi adesse prosperum vidit volatum. Pro quo tam felici omine, praesertim quia et victoria consecuta est, et signis bellicis sibi aquilam auream fecit tutelaeque suae virtuti dedicavit, unde et apud Romanos huiuscemodi signa tracta sunt»), da cui dipendono il Myth. Vat. II, 226 Myth. Vat. II, 3, 5 (Bode]; Isidoro, Etym., 12, 18-19.

[Kulcsaàr]

e

7. Pausania, 5, 19, 4. 8. Pausania, 10, 26, 3.

9. Rammento che il serpente fu anche nello stemma dei Visconti (cfr. l’Emblema I), come il leone in quello degli Sforza di Milano (leone d’oro rampante che regge un ramo di cotogno). Non è da escludere che Alciato sottintenda proprio queste casate milanesi. 10. Omero, Hymn. Ap., 21, 1-2; Callimaco, Hymn. Ap., 5, e Hymn.

Del., 249 - 254; Plutarco, Orac., 1, 409e; Apuleio, Socr., prol. 4, 25; Macrobio, Comm. Somn. Scip., 2, 3, 3; per altre fonti: D.W. Thomp-

son, A Glossary, cit., pp. 180- 84. 11. Cfr. F. Cumont, Recherches, cit., pp. 253 sgg.; P. Boyancé, Le culte des Muses chez les philosophes grecs, Paris, 1936, pp. 101 sgg.; il tema nel Rinascimento: Celio Rodigino, Lectionum antiquarium libri triginta, cit., col. 272; Giraldi, vol. I, p. 339; S.K Heninger,

Touches of

Sweet Harmony. Pythagorean Cosmology and Renaissance Poetics, San Marino (California), 1974, pp. 180-83. Su Apollo musico e la cosmica armonia delle sfere di origine pitagorica si veda il commento all’Emblema III e relative note. 12. 1, 26: «Augurales vero alites ante currum Delio constiterunt, uti quis vellet vectus ascenderet; nam futura plerumque conformans his presagire consueverat ... Sed scandente Phoebo Musarum pedisecus adhaerensque comitatus candenti canoraque alite

vehebatur»; Cicerone, Tusc., 1, ‘73: «Itaque commemorat, ut cygni

[Platone, Phaed., 84e- 85a], qui non sine causa Apollini dicati sint, sed quod ab eo divinationem habere videantur, qua providentes

quid in morte boni sit, cum cantu et voluptate moriantur, sic omnibus bonis et doctis esse faciendum»; Cornuto, Theol. gr. comp., 68 (cfr. I. Ramelli, in Anneo Cornuto, Compendio di teologia, cit.; p. 408,

nota 279).

13. Erodoto, 4, 13 e 32 sgg.; Plinio, 4, 88-91.

14. Marziale, 1, 89, 3- 4: «Carmina quod scribis Musi set Apolline nullo / laudari debes»; Ovidio, Rem., ‘767; Fedro, 3, prol., 56- 57. 15. Cfr. Valeriano, Lib. XXIII: « poeta: nam veluti cygni senio con-

NOTE

705

fecti argutioribus, ob gutturis exilitatem organis affectis suaviorem simul, et vocaliorem

emittunt vocem,

ita etiam boni poetae,

quo

per aetatem magis protecerunt, scribere itidem solent elegantius et sapientius»; in Horapollo (2, 39; Sbordone, pp. 160- 61) il cigno è ‘geroglifico’ del musico anziano, giacché quando il sacro volatile è vecchio canta la sua più dolce melodia; il simbolismo si fonda sulla diffusa credenza che il canto del cigno ne annunci la vicina morte (famoso a proposito il luogo di Platone, Phaed., 84e - 85a).

16. Fig. 1: A. 1550, p. 197; Fig. 2: Thuilius, p. 767; Index, Embl. 184. EMBLEMA

CVIII

1. Comune epiteto di Apollo (I.B. Carter, Epitheta, cit., pp. 12-13),

riferito a Delfi, la sua sede oracolare:J. Fontenrose,

Tihe Delphic O-

racle. Its Responses and Operations with a Catalogue of Responses, Berkeley, 1978, pp. 12 sgg., 88 sgg., 112 sgg., passim. 2. Sul nesso palma/vittoria si veda l’Emblema XXIV. 3. Sul termine cithara cfr. il commento

all’Emblema II.

4. Traduce pacap Antéàe dell’epigramma di Silenziarlo (Anth. Gr., 6, 54, 11): il beato di Latona, cioè Apollo; Varrone, Ling., 7, 17: «O sancte Apollo »; lo stesso in Cicerone, Div., 2, 115.

5. Anth. Gr., 6, 54; la vicenda è riportata anche in Strabone, 6, 1, 9; cfr. Clemente Alessandrino, Protr., 1, 1, 1; la riprende Valeriano, Lib. XXVI: «de cicada: musica». 6. Loc. cit.; in Artemidoro,

Onir., 3, 49, le cicale significano gli uo-

mini portati verso la musica.

7. Omero, Il, 3, 151; Esiodo, Op., 582, e Sc., 393; cfr. Eliano, Nat. an., 1, 20; 6, 19; 10, 44; 11, 26. 8. Da Apostolio, 16, 37; Teocrito, 1, 148; cfr. R. Tosi, Dizionario del-

le sentenze, cit., n. 172. 9. IV, 2, f. 248r7. 10. 258e- 259d.

11. Fig. 1: Thuilius, p. 773. 12. Fig. 2: A. 1550, p. 198. EMBLEMA

CIX

1. Livio, 4, 4, 4: «Quis dubitat quin in aeternum urbe condita, in immensum crescente nova imperia...?». Dal IV secolo d.C. Urbs Aeterna

è denominazione ufficiale della città: G. Lugli, «Roma Aeterna» e il suo culto sulla Velia, Accademia Nazionale dei Lincei, Problemi At-

706

NOTE

tuali di Scienza e di Cultura, Quaderno n. 11, Roma, 1949, p. 3. 2. Omero, suavitatem

Od., 9, 94; Igino, Fab., 125: «idque cibi genus tantam praestabat»; Pseudo Virgilio, Culex, 125-126: «socios

Ithaci ... dulcedine captos». 3. 0d., 9, 82-104. 4. I. Chirassi, Elementi di culture precereali, cit., pp. 47- 49: «Può essere il loto libico che Teofrasto ricorda come alimento sfruttato dall’esercito di Ofella in marcia da Cirene verso l’Egitto (H.P., IV, 32)

o il cosiddetto loto indiano, il nelumbum nucifer di cui Erodoto ci descrive la bella fioritura o il loto egiziano nelumbum speciosum che dà utili semi dai quali si ricava persino una farina atta a fare il pane (Herod., II, 92). Questo loto egizio assomiglia molto alle ... fave egizie descritte da Strabone (XV, 626c) e da Dioscoride (II, 106) ... Il valore del loto come antica pianta utile si rispecchia anche nella sua leggenda metamorfica traman data da una fonte tarda: la ninfa Lotis, l’esser divino

del fior di loto, sarebbe stata trasformata in

“arbore quae vulgo faba siria dictur” (Servio, ad. Verg. Georg., Il, 84). L’equazione loto- fava fa pensare immediatamente all’antico uso alimentare della pianta floreale per cui i mangiatori di loto della leggenda omerica potrebbero essere il ricordo di un’antica popolazione mediterranea, ignara della cerealicoltura, che traeva la sua alimentazione quotidiana da una pianta diversa ormai scaduta di prestigio ». 5. ‘70; cfr. F. Buffière, Les mythes d’Homeère, cit., p. 378. 6. Cfr. Aldo Manuzio Tipografo 1494-1515, cit., n. 95, pp. 139- 40. 7. Cfr. in G. Lugli, «Roma Aeterna», cit., pp. 2 sgg.: «Basta consultare i Cataloghi delle quattordici regioni, redatti al tempo di Costantino; essi ci danno 856 bagni, fra grandi e piccoli; 200 magaz-

zini annonari; 254 forni; 1352 fontane monumentali; a questi van-

no aggiunti circa 230 templi, senza contare le are e i sacelli minori; una cinquantina di portici pubblici, una ventina di basiliche, 8 grandi biblioteche e 11 acquedotti, in merito ai quali Plinio, Frontino ed altri, scrivono che nessuna città al mondo poté vantare opera più grande e più meravigliosa».

8. 16, 10.

9. 1, 47- 66: «Exaudi, regina tui pulcherrima mundi,

/ inter side-

reos, Roma, recepta polos; / exaudi, genetrix hominum genetrixque deorum: / Non procul a caelo per tua templa sumus. / Te canimus semperque, sinent dum fata, canemus: / Sospes nemo potest immemor esse tui». 10. Fig. 1: A. 1550, p. 125; Fig. 2: Thuilius, p. 484. 11. II, 662, f. 168r: «Lotum gustasti, de his dicebatur qui diutius in

peregrinis regionibus haererent velut obliti reditus. Neque inconcinne dixeris in eos qui simul atque semel voluptatem inhonestam

NOTE

707

degustarint, ad pristina studia revocari non queunt». 12. In Georg., 2, 84: « Lotos nympha quaedam fuit, quam cum amatam Priapus persequeretur, illa deorum miseratione in arborem versa est, quae vulgo faba Syriaca dicitur»; cfir. Myth. Vat. I, 2, 24 [Zorzetti- Berlioz]; Myth. Vat. II, 206 [(Kulcsàr].

13. Met., 9, 340- 348: «florebat aquatica lotos / ... / Scilicet, ut re-

ferunt tardi nunc denique

agrestes, / Lotis in hanc nymphe, fu-

giens obscena Priapi, / contulerat versos, servato nomine, vultus»;

Fast., ]1, 415 sgg. 14. Fig. 3 (Priapo e Lotis): OQvidio Metamorphoseos vulgare di Giovanni dei Bonsignori, cit., f. LxxviIlIv; Fig. 4 (Apollo e Ciparisso): ibid.,

f. Lxxxvv; cfr. B. Guthmuller, Mito, poesia, arte. Saggi sulla tradizione

ovidiana nel Rinascimento, Roma, 1997, pp. 248- 49, 267, ill. 32, 37- 39. EMBLEMA

CX

1. Seneca, Epist., 76, 12. 2. «Laertius»:

comune

patronimico

di Ulisse

(cfr. in I.B. Carter,

Epitheta, cit., p. 100), figlio di Laerte e di Anticlea, proverbiale la sua astuzia e acuta intelligenza: Ch. Vellay, Les légendes, cit., s.v. in

Index; per l’iconografia nel Rinascimento: M. Lorandi, Il mito di Ulisse, cit.

3. Consueto patronimico di Diomede (cfr. in 1.B. Carter, Epitheta, cit., pp. 32, 99), figlio di Tideo e di Deipile, trai più forti e vigorosi combattenti sotto le mura di Troia; sulle imprese e la fortuna del personaggio: cfr. L. von Sybel, «Diomedes», in W.H. Roscher,

Lexikon, cit., vol. I, tomo 1, coll. 1022-27; Ch. Vellay, Les légendes, cit., s.v. « Diomeède » in Index; nel Medioevo: M. Gabriele, Il mito de-

gli Argonauti, cit. 4. La bibliografia sull’artista è oggi estesa, mi limito ai più recenti

contributi: J. Shell, Documenti per Zenale, in Zenale e Leonardo: tradizione e rinnovamento della pittura lombarda, a cura di F. Porzio, Catalogo Mostra Museo Poldi Pezzoli, Milano, 1982, pp. 265- 88; S. Buganza, Bernardo Zenale, in Pittura a Milano. Rinascimento e Mantierismo, a cura di M. Gregori, Milano, 1988; S. Buganza, Bernardo Zena-

le: un’aggiunta al catalogo e una nuova prospettiva sugli anni tardi, in

« Nuovi studi: rivista di arte antica e moderna»,

12, 2007, pp. 55- 70.

5. Ne dà notizia lo stesso Alciato a proposito del monumento del suddiacono Valperto: D. Bianchi, L'’opera letteraria, cit., p. 54; P. Laurens, F. Vuilleumier, De l’archéologie à l’emblème, cit., pp. 87 e 95, nota 36; R. Cummings, Alciatos Emblem 41: «Unum nihil, duos plurimum posse», in «Emblematica»,

10, 1996, pp. 408-10.

6. Condizione riflessa, più in generale, nel proverbio «Unus vir,

708 nullus vir»

NOTE (Erasmo,

I, 441, f. 56v, spiega che il senso di questo

adagio è che un uomo da solo, privo di qualsiasi aiuto, non può fare niente di dignitoso) trasmesso dalla paremiografia greca (R.

Tosi, Dizionario delle sentenze, cit., n. 1057): un uomo solo non può

contare molto né avere peso in una dinamica sociale e umana che si fonda naturalmente e necessariamente sull’interrelazione e la collaborazione fra gli individui. 7. Carm., 3, 4, 65- 67: «Vis consili expers mole ruit sua, / vim temperatam di quoque provehunt / in maius». 8.18, 159: «Itidem cum rebus creperis et adflictis speculatores deligendi sunt, qui nocte intempesta castra hostium penetrent, nonne Ulixes cum Diomede deliguntur veluti consilium et auxilium, mens et manus, animus et gladius?».

9. 0d., 10, 203 sgg. 10. Od., 10, 224. 11. Fig. 1: A. 1550, p. 48; Fig. 2: A. 1556, p. 182. 12. Su questa correlazione eloquente

glifiche’: Colonna, vol. II, pp. 624- 25.

tra verba e imagines ‘gero-

13. Cfr. il commento all’Emblema LXXI, nota 24.

14. Alla p. 216. 15. 1, 1; cfr. Le Immagini di Filostrato Minore. La prospettiva dello storico dell’arte, a cura di F. Ghedini, I. Colpo, M. Novello, con la colla-

borazione di E. Avezzù, Roma, 2004, pp. 17- 26. L’editio princeps ap-

parve a Venezia per Aldo nel 1510, poi ristampata nel 1522. EMBLEMA

CXI

1. Virgilio, Georg., 1, 90: «melior vacua sine regnet in aula».

2.I ceppi o catene che legavano i piedi degli schiavi: Plauto, Capt., 5, 1, 24; Catone, Agr., 56; Seneca,

Tranq., 10, 1.

3. II, 329, £. 144v: « Aurea compedes, proverbiali methaphora dicit

servitus splendida et amabilis, qualis est aulicorum vita»; altri rife-

rimenti sul concetto in Thuilius, pp. 377- 79. 4. Fig. 1: A. 1550, p. 94; Fig. 2: Thuilius, p. 377. EMBLEMA

CXII

1. «Tenerae puellae»: Tibullo, £EL, 1, 3, 63 e 1, 120, 64; Marziale, 1, 109, 16 e 3, 65, 1. 2. Cicerone, De orat., 2, 190: «signa doloris ... ostenderis».

NOTE

709

3. Alla p. 664: «Aresti. Alluditur ad cognomen Ludovici Areosti, poetae summi, quem fama est, Flaminium Malegucium peramasse, captum specie ingenij et morum elegantissimorum»; « Hoc de Flaminio Malegucio Regiensi intelligi sunt qui arbitrentur, cuius monumentum et aerea effigies visuntur Patavij in coemeterio Ecclesiae D. Antonij». 4., V. Caramella, Guida inedita della Basilica del Santo, Padova, 1996, p. 768: «VIXIT AN. XV. MEN. II DIES VI. OBIIT ANN. A NATA. CHRISTI M.D.LII V. ID. APRILIS ».

5. Colonna, vol. I, pp. 252 sgg.; vol. II, pp. 261 sgg. e relative note. 6.J- Marquardt, Le culte chez les Romains, vol. I, Paris, 1889, pp. 369-

74; H. Steuding, «Manes», in W.H. Roscher, Lexikon, cit., vol. II, tomo II, coll. 2316- 23; esaustiva rassegna critica sul termine «ma-

nes» in A.M. Negri, Gli psiconimi, cit., pp. 85-119; per la conoscen-

za del tema nel Rinascimento: Alessandro D’Alessandro, Genialium

dierum libri sex, cit., vol. I, p. 817; Giraldi, vol. I, pp. 205- 206.

7. Andreae Alciati Antiquae inscriptiones, cit., c. 65r. Si veda la nota 29 dell’Introduzione. Cfr., per la stessa combinazione delfini/ Gorgéneion, in F. Cumont, Recherches, cit., p. 155, tav. X.

8. Colonna, vol. I, pp. 256- 57.

9. V. Macchioro, Il simbolismo nelle figurazioni sepolcrali romane. Studi di ermeneutica, in « Memoria R. Acc. di Napoli», 1, 1908, pp. 15 sgg., 19 sgg., 36 sgg.; F. Cumont, Recherches, cit., pp. 154 sgg., 183- 84,

228, 339; B. Haarlav, The Half- Open Door. A Common Symbolic Motif within Roman Sepulchral Scul pture, Odense, 1977, pp. 18 sgg., 49- 50, 112 sgg., 132 sgg.; R. Turcan, Messages d’outre- tombe. L’iconographie des sarcophages romains, Paris, 1999, pp. 102 sgg., 110 sgg. 10. Nat. an., 12, 6. 11. Hist. an, 631a.

12. 9, 33. 13. Sui delfini e la musica cfr. il commento all’Emblema XI. 14. F. Cumont,

Recherches, cit., pp. 83 e 155; R. Turcan,

d’outre- tombe, cit., pp. 110-19.

Messages

15. B. Haarlav, The Half- Open Door, cit., pp. 49- 50; R. Turcan, Messages d'’outre-tombe, cit., p. 102; cfr. la scheda 12 (altare funerario romano del I secolo d.C. con testa di Medusa al centro) di B. Arbeid in Medusa. Il mito, l’antico e è Medici, a cura di V. Conticelli, Fi-

renze, 2008, pp. 72-73; sul simbolismo terrifico del Gorgéneion e le sue fonti classiche e medioevali: Colonna, vol. II, pp. 566- 69.

16. A. 1550, p. 169. 17. Alla p. 663.

EMBLEMA

CXIII

1. Da «Haemonia», antico nome della Tessaglia (Plinio, 4, 28), patria di Achille, perciò suo epiteto: Ovidio, Met., 12, 81: «ab Haemonio ... Achille», e Fast., 5, 400: « Haemonius puer»; Properzio, 3, 1, 26: «Haemonio ... viro». 2. Virgilio, Aen., 6, 66: « praescia venturi»; Seneca, Ag., 322: «fato-

rum praescia». 3. Per le numerose fonti sia greche che latine e per le diverse tradizioni a riguardo: Ch. Vellay, Les légendes, cit., pp. 289- 301. 4. Dipende da Sofocle, Aiax, 665. 5. Virgilio, Aen., 2, ce, / et procul “O tos hostis aut ulla Ulixes? / ... timeo

41-50: miseri, putatis Danaos

«Laocoon ardens summa decurrit ab arquae tanta insania, cives? / creditis avec/ dona carere dolis Danaum? sic notus et dona ferentis”».

6. Sull’argomento e la sua complessità, con specifico riferimento a Omero: A. Magris, L'idea di destino nel pensiero antico, Udine,

1984,

vol. I, pp. 44 sgg., 62, 64 sgg., 162 sgg., 245 sgg., passim. 7. IL, 7, 299 sgg.; Servio, In Aen., 4, 496; Boccaccio, Gen., 12, 48. 8. Cfr. l’Emblema IX. 9. Cfr. l’Emblema LVII.

10. Epigrammata, pp. 279- 80 (Anth. Gr., 7, 152). 11. Fig. 1: A. 1550, p. 181; Fig. 2: Thuilius, p. 705; Index, Embl. 168.

INDICI

INDICE DEI MOTTI*

A minimis quoque timendum, LIV, 301 Ad illustrissimum Maximilianum ducem Mediolanensem, I, 21

Aere quandoque salutem redimendam, LXXXV, 443 Albucij ad D. Alciatum suadens, ut de tumultibus Italicis se subducat et in Gallia profiteatur, XXX, 183

Aliquid mali propter vicinum malum, LVIII, 317 Alius peccat, alius plectitur, LXX, 373 Amicitia etiam post mortem durans, XII, 87

Amor filiorum, XLIV, 255

Avrtépaosg Amor virtutis, alium Cupidinem superans, LXXII, 385

Avtépax, id est, amor virtutis, LXXXI, 427

Auxilium nunquam deficiens, XLIII, 251

Bonis a divitibus nihil timendum, CI, 515

Captivus ob gulam, LXXXVI, 447

Concordia, Concordia, Consilio et 519 Cum larvis

VI, 51 XXVII, 169 virtute Chimeram superari, id est, fortiores et deceptores, CII, non luctandum, LVII, 313

Custodiendas virgines, XLII, 245

De Morte et Amore, LXV, 349

Desidiam abijciendam, XIV, 97 * AI motto seguono il numero dell’Emblema e quello della pagina.

714

INDICE

Dives indoctus, LXXXVII, 451 Doctos doctis obloqui nefas esse, XCIX, 507

Dulcia quandoque amara fieri, LXXXIX, 459

Fi qui semel sua prodegerit aliena credi non oportere, XCVIII, 503 Eloquentia fortitudine praestantior, XCIII, 473 Etiam ferocissimos domari, IV, 43

Ex arduis perpetuum nomen, XXIII, 147 Ex bello pax, XLN, 259

Ex literarum studijs immortalitatem acquiri, XLI, 237 Ex pace ubertas, XIX, 127 Fere simile ex Theocrito, XC, 463

fidei symbolum, XCV, 483

firmissima convelli non posse, LVI, 309 Foedera, II, 29 Fortuna virtutem superans, XL, 233

Gratiam referendam, V, 47 Illicitum non sperandum, LXXIX, Impossibile, LXXXIV, 439 In adulari nescientem, CVI, 539 In adulatores, LXXXVIII, 455

419

In amatores meretricum, XXIX, 179 In astrologos, LIII, 297 In In In In

aulicos, CXI, 563 avaros, LI, 289 avaros, vel quibus melior conditio ab extraneis offertur, XI, 81 Deo laetandum, XXXII, 191

In In In In

dona hostium, CXIII, 571 eos qui supra vires quicquam audent, XX, 131 eum qui sibi ipsi damnum apparat, XCI, 465 eum qui truculentia suorum perierit, LXXV, 401

In depraehensum, LX, 325

In facile a virtute desciscentes, XLIX, 281

In fertilitatem sibi ipsi damnosam, XXXIX, 229 In fidem uxoriam, LXI, 329

In formosam fato praereptam, LXVI, 355

In illaudata laudantes, XXXVI, 215 In momentaneam felicitatem, LXVIII, 365

In mortem praeproperam, CXII, 565

In oblivionem patriae, CIX, 551 In Occasionem, XVI, 111 In parasitos, XXVI, 165

INDICE DEI MOTTI

715

In receptatores sicariorum, XCIV, 479

In In In In In

senatum boni principis, LIX, 321 silentium, II, 35 simulacrum Spei, LXXVIII, 413 statuam Amonis, XCVII, 495 statuam Bacchi, LXVII, 359

In studiosum captum Amore, LXXI, 377 In subitum terrorem, CV, 533 In temerarios, LXIV, 343

In victoriam dolo partam, IX, 71

In vitam humanam, XCVI, 489 Insignia Ducatus Mediolanensis, I, 21

Insignia poetarum, CVII, 543

Inviolabiles telo Cupidinis, XXXIII, 199

Tusta ultio, LXXIV, 397

Tusta vindicta, XXXVII, 219 Maturandum, LII, 293

Mentem non formam plus pollere, XLVIII, 277

Mulieris famam non formam vulgatam esse oportere, C, 511 Musicam Dijs curae esse, CVIII, 547 Mutuum auxilium, XXII, 143

Nec quaestioni quidem cedendum, LXIII, 339

Nec verbo nec facto quenquam laedendum, XIII, 91 Non tibi sed religioni, XXXV, 209 Non vulganda consilia, VIII, 65

Obdurandum adversus urgentia, XXIV, 153

Ocni effpies, de his qui meretricibus donant, quod in bonos usus verti debeat, XVII, 117

Optimus civis, CIV, 529

Parem delinquentis et suasoris culpbam esse, LV, 305 Parvam culinam duobus ganeonibus non sufficere, XXXI, 187 Paupertatem summis ingenijs obesse ne provehantur, XV, 103 Pax, LXXX, 423

Pietas filiorum in parentes, LXIX, 369

Potentia Amons, LXXVI, 405 Potentissimus affectus Amor, VII, 59

Princeps subditorum incolumitatem procurans, XXI, 135 Prudentes vino abstinent, L, 285

Qua Dij vocant eundum, LXXVII, 409

Quae supra nos, nihil ad nos, XXVIII, 173

716

INDICE

Qui alta contem:iplantur cadere, LXXXIII, 435 Quod non capit Christus rapit fiscus, LXII, 335 Remedia in arduo, mala in prono esse, XCII, 469

Reverentiam in matrimonio requiri, X, 77

Semper praesto esse infortunia, XLVII, 269

Signa fortium, LXXXII, 431 Spes proxima, XXXIV, 203 Submovendam ignorantiam, XLVI, 263

Tandem tandem iustitia obtinet, XXXVIII, 225 Tumulus Ioannis Galeacij Vicecomitis primi, CIII, 525 Tumulus meretricis, XXV,

161

Unum nihil, duos plurimum posse, CX, 557 Villosae indutus piscatur tegmina caprae, XXIX, 179 Virtuti fortuna comes, XVIII, 121 Vis Amoris, LXXIII, 393

INDICE DEGLI INCIPIT DEGLI EPIGRAMMI*

Abluis Aethiopem quid frustra? Ah desine, noctis, LXXXIV, 439 Aeacidae H ectoreo perfusum sanguine scutum, XXXVIII, 225 Aeacidae moriens percussu cuspidis Hector, LVII, 313 Aeriam propter crevisse cucurbita pinum, LXVIII, 365

Aerio insignis pietate ciconia nido, V, 47 Aetherijs postquam deiecit sedibus Aten, XCII, 469

Aiacis tumulum lacrymis ego perluo Virtus, IX, 71 Aligerum ali geroque inimicum pinxit Amori, LXXII, 385 Aligerum fulmen fregit Deus aliger, igne, LXXIII, 393 Alma Venus quaenam haec facies, quid denotat illa, C, 512 Alveolis dum mella legit, percussit Amorem, XC, 463 Anguibus implicitis geminis caduceus alis, XVIII, 122 Ante diem vernam boreali cana palumbes, XLIV, 255

Arcum laeva tenet, rigidam fert dextera clavam, XCIII, 473 Arentem senio, nudam quoque frondibus ulmum, XII, 87 Amrripit ut lapidem catulus morsuque fatigat, LXX, 373 Aspice ut egregius puerum lIovis alite pictor, XXXII, 191 Aspice ut invictus vires auriga leonis, VII, 59

Aspicis aurigam currus Phaetonta paterni, LXIV, 343

Assequitur, Nemesisque virum vestigia servat, XIII, 92 Bacche pater quis te mortali lumine novit, LXVII, 359 Bella gerit scarabaeus, et hostem provocat ultro, LIV, 301 Bellerophon ut fortis eques superare Chimeram, CII, 519 Bellorum coepisse ferunt monumenta vicissim, CXIII, 571

Bina penricla unis effugi sedulus armis, XLIII, 251

* Al verso seguono il numero dell’Emblema e quello della pagina.

718

INDICE

Caesareo postquam superatus milite vidit, XL, 233

Capra lupum non sponte meo nunc ubere lacto, XCI, 465 Caucasia aeternum pendens in rupe Prometheus, XXVIII, 173

Cecropia effictam quam cernis in arce leaenam, LXIII, 339 Colchidos in gremio nidum quid congeris? Eheu, XCVIII, 503 Cormicum mira inter se concordia vitae est, VI, 51

Crediderat platani ramis sua pignora passer, XXIII, 147

Cum furit in Venerem pelagi se in littore sistit, X, 77

Cum tacet haud quicquam differt sapientibus amens, III, 35 Cur puerum Mors ausa dolis es carpere Amorem?, LXVI, 355 Delphinem invitum me in littora compulit aestus, LXXV, 401 Delphini insidens vada caerula sulcat Anion, XI, 81 Dextra tenet lapidem, manus altera sustinet alas, XV , 103

Dic ubi sunt incurvi arcus? Ubi tela, Cupido?, LXXXI, 427 Dum dormit, dulci recreat dum corpora somno, XX, 131

Dum iustis patriam Thrasybulus vindicat armis, CIV, 529 Dum residet Cyclops sinuosi in faucibus antri, XXXVII, 219

Dum turdos visco, pedica dum fallit alaudas, LXXXIII, 436

Ecce puella viro quae dextra iungitur, ecce, LXI, 329 Effigies manibus truncae ante altaria divum, LIX, 321 Effuso cernens fugientes agmine turmas, CV, 533 En galea intrepidus quam miles gesserat, et quae, XLV, 259 Errabat socio Mors iuncta Cupidine, secum, LXV, 349

Et pedibus segmis, tumida et propendulus alvo, LXXXV, 443 Exiliens infans sinuosi e faucibus anguis, I, 21

Exprimit humentes quas iam madefecerat ante, LXII, 336 Gentiles clypeos sunt qui in Iovis alite gestant, CVII, 543 Grandibus ex spicis tenues contexe corollas, XIX, 127

Hanc citharam a lembi quae forma halieutica fertur, II, 29 Tam dudum missa patria, oblitusque tuorum, CIX, 551

Tam dudum quacunque fugis te persequor, at nunc, LX, 325 Icare per superos qui raptus et aera, donec, LIII, 298 Immersus studijs dicendo et iure peritus, LXXI, 377 Impiger haud cessat funem contexere sparto, XVII, 117 In bellum civile duces cum Roma pararet, XXVII, 169

In eum qui sibi ipsi damnum apparat, XCI, 465

In modicis nihil est quod quis lucretur, et unum, XXXI,

188

In trivio mons est lapidum, supereminet illi, LXXVII, 409 Ingentes Galatum semermi milite turmas, XXXVI, 215

Ingressa vulpes in choragi pergulam, XLVIII, 277

INDICE DEGLI

INCIPIT

Innumeris agitur res publica nostra procellis, XXXIV, 203 Isidis effigiem tardus gestabat asellus, XXXV, 209 Tunctus contiguo Marius mihi pariete, nec non, CI, 515

Laertae genitum, genitum quoque Tydeos una, CX, 557 Latronum furumque manus tibi scaeva per urbem, XCIV, 479 Limine quod caeco obscura et calìgine monstrum, VIII, 66

Locrensis posuit tibi Delphice Phoebe cicadam, CVIII, 547

Loripedem sublatum humeris fert lumine captus, XXII, 143

Ludebant parili tres olim aetate puellae, XLVII, 269

Ludibrium pueris lapides iacentibus, hoc me, XXXIX, 229 Lysippi hoc opus est, Sycion cui patria. Tu quis?, XVI, 111 Matre procul licta, paulum secesserat infans, LXXXIX, 459 Maturare iubent propere et cunctarier omnes, LII, 293

Ne dirus te vincat amor, neu foemina mentem, XXXIII, 199

Neptuni tubicen, cuius pars ultima cetum, XLI, 237

Nititur in pondus palma, et consurgit in arcum, XXIV, 153

Nudus Amor viden ut ridet placidumque tuetur?, LKXXVI, 405

Oceanus quamvis fluctus pater excitet omnes, LVI, 309 Parva velut limax remora spreto impete venti, XLIX, 281 Per medios hosteis patriae cum ferret ab igne, LXIX, 370

Plus solito humanae nunc defle incommoda vitae, XCVI, 489

Praeconem lituo perflantem classica victrix, LV, 305

Pro tumulo pone Italiam, pone arma ducesque, CIII, 525 Quae Dea tam laeto suspectans sidera vultu?, LXXVIII, 414

Quae dedit hos fructus arbor, coelo advena nostro, XXX, 183 Quae te causa movet volucris Saturnia, magni, LXXXII, 432 Qui teneras forma allicuit torsitque puellas, CXII, 565 Quid me vexatis rami? Sum Palladis arbor, L, 286

Quid rapis heu Quis sit Amor, Quis tumulus? Quisquis iners

Progne vocalem saeva cicadam, XCIX, 508 plures olim cecinere poetae, XCVII, 496 Cuia urna? Ephyraeae est Laidos, et non, XXV, 161 abeat, in choenice figere sedem, XIV, 98

Quod monstrum id? Sphinx est, cur candida virginis ora, XLVI, 263

Quos tibi donamus fluviales accipe cancros, XXVI, 165

Raptabat torrens ollas, quarum una metallo, LVIII, 317

Raptabat volucres captum pede corvus in auras, LXXV, 397 Regnator penus, et mensae corrosor herilis, LXXXVI, 447 Romanum postquam eloquium, Cicerone perempto, IV, 43

719

720

INDICE

Scire cupis dominos toties cur Thessalis ora, CVI, 549

Semper hiat, semper tenuem qua vescitur auram, LXXXVIII, 455

Septitius populos inter ditissimus omnes, LI, 289

Spes simulet Nemesis nostris altaribus adsunt, LXXIX, 419 Stet depictus Honor tyrio velatus amictu, XCV, 483

Titanij quoties conturbant aequora fratres, XXI, 135 Tranat aquas residens precioso in vellere Phrixus, LXXXVII, 451 Turrigeris humenris, dentis quoque barrus eburni, LXXX, 423 Vana palatinos quos educat aula clientes, CXI, 563 Vera haec effigies innuptae est Palladis, eius, XLII, 245

INDICE DEI SOGGETTI*

abbondanza, Embl. XVIII abrotano, 212 accidia, Embl. XIV adulatore, Embl. LXXXVIII, CVI aiuto, Embl. XXII, XLIII alchimia, LXIV-LXXII alcione, Embl. XIX ali, Embl. XV, XVI, XCVII alleanza, Embl. II allodola, Embl. LXXXIII alloro, Embl. XLVI amicizia, Embl. XII, XXIII amore, EmbIl. II, VII, X, XXXII, XXXIII, XLII, LXV, LXVI, LXXI, LXXII, LXXIII, LXXVI, LXXXI, LXXXIX, XC, XCV, XCVII

amore per i figli, Embl. Vv,

XIX, XLIV amuleto, Embl. XXxXXIII ancora, Embl. XXI

anguilla, Embl. LX

ape, Embl. LXXXIX, XC aquila, Embl. XXVIII, XXXII, LIV, LXXXII, CVII

ariete, Embl. XXV armonia, Embl. II, CVIII asino, Embl. XVII, XXXV, LI

astragalo, Embl. XLVII astrologo, Embl. LIII astuzia, Embl. LIV, CX

auguri, 149

avarizia, Embl. XI, LI avidità, Embl. XI, LXII avversità, Embl. XXIII, XXIV avvoltoio, 149

balteo, Embl. CXIII beccafico, Embl. XXXI benda, 61; Embl. LXXII, LXXIII, XCVII bivio, si veda Ercole al bivio briglie, 541; Embl. VII, XIII caduceo, Embl. XVIII cagnolino, Embl. LXI, LXX calzari, Embl. XVI camaleonte, Embl. LXXXVIII cani, Embl. XCIV

capelli, Embl. XVI

capra, Embl. XXIX,

XCI

* Si indicano le pagine dove la voce ricorre singolarmente e gli Emblemi

dove è trattata.

722

INDICE

castigo giusto, Embl. XXXVII

castoro, Embl. LXXXV catasterismo, 194 catene, Embl. XCIII cavallo, Embl. CVI centauro, Embl. VII

ceppi, Embl. CXI

cetra, Embl. XI, CVIII chenice, Embl. XIV cicala, Embl. XCIX, CVIII ciclope, Embl. XXXVII cicogna, Embl. V cieco, Embl. XXII, LIX, XCVII cigno, Embl. CVII cithara, 31 clava, Embl. XX, XCIII codardo, Embl. LV colomba, 52; Embl. XLIV, LXXXII conchiglia, 535 concordia, EmbIl. II, VI, XxXVII consiglio, Embl. VIII

contemplazione, L-LI, 36, 1'7576, 193, 387

coraggio, 428

coràgo, Embl. XLVIII corda, Embl. XVII corna di Bacco/Dioniso, 359 cornacchia, Embl. VI, LXXVIII cornucopia, Embl. XVIII corona serpentina, 104 corona vegetale, 362; Embl. LXV, LXXXI, XCV, CIV cortigiano, Embl. CXI crapulone, Embl. XXXI criminali, Embl. XCIV cubito, Embl. XIII

cuore, 378, 380-81; Embl. XXX cupidigia, Embl. XXXVIII custodia, Embl. XLII

dadi, Embl. XLVII dardo, si veda freccia dattero, Embl. XXIV

delfino, Embl. XI, XXI, LXXV, CXII delinquente, Embl. LV demente, Embl. III dextrarum iunctio, Embl. XXVII, XCV diffamazione, Embl. XCIX dio, déi, Embl. XXXII, LXXYVII, CVIII discordia, Embl. VI disgrazia, Embl. XLVII dissipazione, Embl. XVII dono, Embl. XXVII, CXIII drago, Embl. XXIII, XLII ecfrasi, XXXVIII-XLIII effigies Isidis, 210 elefante, Embl. XXXVI, LXXX elmo, Embl. XLV eloquenza, Embl. IV, XXX, XCIII emblema, XV-XxXVIII, XXXVXLIII Ercole al bivio, 25, 100, 381, 410 eroismo, Embl. LXIII etiope, Embl. LXXXIV fama, 239; Embl. XXIII fantasmi, Embl. LVII fecondità, Embl. XXXIX fedeltà, Embl. VI, LXI, LXIII, XCV felicità, Embl. LXVIII fenice, 155 festina tarde, xLIv, 499; Embl. XV, XXI, LII fierezza, Embl. IV

fiori, 407; Embl. LXXVI

fisco, Embl. LXII fortezza, Embl. XXIV, LXXXII fortuna, Embl. XVI, XVIII, XL, LXIV freccia, 44; EmbIl. LII, LXV,

INDICE

DEI SOGGETTI

LXVI, LXXII, LXXVIII, LXXXIII, XCVII

freccia/parola, 475

freno, Embl. XIII frode, Embl. IX frusta, Embl. VII fuoco d’amore, Embl. LXXII, LXXIII, XCVII gemme incise, XVII, 61, 113, 139, 171, 241, 266, 389, 521 genio, 105-108

geroglifici, xLIII-LXIV, 137-39

gioco d’azzardo, Embl. XLVII

giogo, Embl. IV

gioia, XL, LXIII; Embl. XXXII giudice, Embl. LIX giudizio, Embl. IX giudizio di Paride, Embl. LXXI giustizia, 428; Embl. XXXYVIII, LIX gola, Embl. XXVI, LXXXVI

gorgòoneion, 24, 566-67

granchio, Embl. XXVI guerra, Embl. XXVII, XLV, LXXX homo silvaticus, 221 ignoranza, 490; Embl. XLVI, LXXXVII illecito, Embl. LXXIX imagines agentes, 239 immaginazione, XXXVIIXXXVIII immortalità, Embl. XLI impossibilità, Embl. LXXXIV impostura, Embl. LIII imprudenza, Embl. LXXXIII incolumità, Embl. XX incubazione, 311 indigenza, Embl. XV inganno, Embl. IX, XXIX

ingegno, Embl. XV

723

insegna, Embl. I, VIII, XCVII, CVII invidia, Embl. XV irriconoscenza, Embl. XCI istigatore, Embl. LV iymx, 200 kairòs, 113 labirinto, Embl. VIII latte, Embl. XCI leone, Embl. IV, VII, XXV, LVII, LXIII, CVII leontèé, Embl. XX lepre, Embl. LVII lingua, Embl. LXIII, XCIII lira, 31, 548 lituo, Embl. LV liuto, Embl. II loto, Embl. CIX lotofagi, Embl. CIX lupo, Embl. XCI lyra e kosmos, 31 magia, Embl. XXXIII malanno, Embl. XCII mani, Embl. LIX marche tipografiche, xvI, 38, 48, 53, 83, 93, 108, 115, 124, 137, 155, 217, 221, 230 mare, 24; Embl. XI, XIX, XXI, XXXVIII, LXXV, LXXVI, XXXIV marosi, si veda mare maschera umana, Embl. XLVIII matrimonio, Embl. X maturare, Embl. LII mediocritas, 295 mela, 330; Embl. LXI melograno, Embl. XCVII meretrice, si veda prostituta merito, Embl. XXXVI miele, Embl. XLV, LXXXIX, XC misura, Embl. XIII

724

INDICE

moglie, Embl. LXI

monete antiche, XVII, XXII,

XXX, LXI, 55-57, 83, 124,

137-38, 162, 170, 206, 266, 371, 415, 485 morso, 541; Embil. XIII morte, Embl. XII, LXV, LXVI motacilla, Embl. XXXIII murena, Embl. X musica, Embl. CVIII nave, Embl. XXXIV, XLIX, LXXV

navigium Isidis, 212

nemico, Embl. LXX, LXXXV, CXIII noce, Embl. XXXIX nuca calva, Embl. XVI oblio, Embl. CIX occasione, Embl. XVI occhi bendati, si veda benda olivo, 286 olla, Embl. LVIII olmo, Embl. XII

onestà, Embl. CI

onore, Embl. XCV orcio, siì veda olla orecchio, Embl. XCIII ostrica, Embl. LXXXVI ouroboros, Embl. XLI

penitenza, 113 pesce, Embl. LXXVI pesco, Embl. XXX peso, Embl. XV petaso, Embl. XVIII pettirosso, Embl. XXXI

pietà filiale, Embl. V, LXIX

pietra, Embl. XV pigmeo, Embl. XX pigrizia, Embl. XVII pino, Embl. LXVIII platano, Embl. XXIII plettro, Embl. CVIII pomo d’oro, LXxVII, 461, 573 porto, 205 presunzione, Embl. XX principe, EmbIl. II, VI, XIX,

XXI, LV, LIX, LXII, LXIV, LXXXVIII, CVI

prostituta, Embl. XVII, XXV,

XXIX, XLIX, LXIII

prudenza, 37, 104-105, 123,

136, 175, 265, 285-87, 295, 326

psicopompo, 155, 411 pudicizia, 246 quercia, Embl. LVI re, si veda principe

religione, Embl. XXXV, LXXVII remora, Embl. XLIX, LII

reputazione, Embl. C

LXXX

patria, Embl. XXX, CIV,

ne

pianto, Embl. XCVI piedi alati, Embl. XVI

rasoio, Embl. XVI

pace, Embl. XVIII, XLV,

paideia, 99 palma, Embl. XXIV parassita, Embl. XXVI passero, Embl. XXIII

phantasia, si veda immaginazio-

ricettatore, Embl. XCIV riconoscenza, Embl. V rimedio, Embl. XCII riso, Embl. XCVI CIX

rispetto, Embl. X rombo (rhombus), 201

rondine, Embl. XCVIII, XCIX ruota, Embl. XVI saggezza, 139, 265, 286, 428; EmbIl. III, XXXII, CII saldezza, Embl. XXIV, LVI

INDICE DEI SOGGETTI sargo, Embl. XXIX savio, Embil. L scarabeo, Embl. LIV scettro, Embl. VI scorpione, Embl. LXXIV scudo, Embl. XXXVIII, XLIII segretezza, Embl. VIII sepolcro, si veda tomba serpente, Embl. I, XVIII, XIX serpente che si morde la coda, Embl. XLI sfera, Embl. XVI silenzio, Embli. III sorte infausta, Embl. XLVII spada, Embl. XL, CXIII speranza, Embl. XXXIV, LXXVIII, LXXIX

spugna, Embl. LXII sputare tre volte, 388-89

stoltezza, Embl. III, LXIV, LXXXIV storpio, Embl. XXII superbia, Embl. XXXV, XLVI

suppliche, 470

Tabula Cebetis, 99-102 tartaruga, 104; Embl. C temerarietà, Embl. XX, LXIV

temperanza, 53, 428, 552

tempesta marina, Embl. XXXIV terrore panico, Embl. CV tomba, Embl. IX, XxXV, XXXVIII, LXXXII, CIII, CXII topo, Embl. LXXXVI

725

tordo, Embl. LXXXIII tortura, Embl. LXIII tranquillità, Embl. XIX trionfo, Embl. LXXX trivio, Embl. LXXVII trofeo, Embl. XXXVI tromba, 239, 306 ubriachezza, Embl. LXVII vanitas, 162, 356, 440, 500 vaso di coccio, Embl. LVIII vaso di metallo, Embl. LVIII veleno, Embl. X, LXXIV vello d’oro, Embl. LXXXVII vendetta, Embl. LIV, LXXIV, LXXVIII, LXXIX verde, Embl. LXXVIII verginità, Embl. XLII, L verità, 99; Embl. XCV vicino dannoso, Embl. LVIII vigilanza, Embl. XLII vigliacco, Embl. LVII vino, Embl. L, LXVII vipera, Embl. X, LXXXIX virtù, 99-100, 295; Embl. XVIII, XL, XLIX, LXXXI, CII virtù cardinali, 234 vischio, Embl. LXXXIII vita umana, Embl. XCVI vite, 286-87; Embl. XII, XIX, L vittoria, 155; Embl. IX volpe, Embl. XLVIII zucca, Embl. LXVIII

INDICE DEI NOMI*

Abbondanza, R., xIII1, XV, xxIV,

185, 579, 625, 627

Acheronte, 349-52

Achille, xL1, 72, 226-27, 559, 573, 634, 710

314,

Adams, A., XxXXIV, LXIV, LXXIV,

589, 631, 662

Adams, J.N., 696 Adrastia, si veda Nemesis

485, 521, 588, 612, 616, 619, 631, 644, 657 Aiace, 72-73, 226-27, 571-73, 593 Alano di Lilla, 32, 105-106, 581,

602

Alarico, 149 Alberti, L.B., xLvilI,

Afrodite, Venere, LXVI-LXVII, 44,

60, 77, 123, 128, 161-62, 192, 200, 329-31, 378-82, 38687, 407, 429, 46061, 463-64, 500, 512-13, 591, 593, 644-45, 65658, 669-70, 677, 683, 689, 692, 696-98 Agamennone, 72, 73, 544

Alceo, 204, 627, 630 Alcione, 128

Alessandro VII, 60 essandro

Magno,

238, 577-79 Alexandros, 273

Alhaique Pettinelli, R., 662

Agosti, G., 642

Agostino di Duccio, 32

Amerbach,

Agostini, L., 60, 593 Agostino, 31, 32, 583, 602

A.,

56-57,

124,

23, 112-13,

îìfeo di Mitilene, 256 Allen, M.J.B., 602 Amaltea, 122 Amandry, P., 654

Aglaia, 273

Agustin,

154,

Albuzi, A., xIX-xx, 184-85, 625

Affò, Padre Ireneo, 702

Agrippa, Cornelio, 37, 584

122,

616

Ambrogio, 78, 609

415,

618

B., xIx, LxXxv,

604,

Amigues, S., 624

* Sono esclusi i nomi degli autori citati nelle Abbreviazioni. I numeri in

corsivo rinviano alle note.

728

INDICE

Ammiano Marcellino, Xxx, LXI, 93, 132, 270, 552, 598, 660 Amore, si veda Eros

Anassagora, LXVIII Anassarete, 674

Anchise, 48, 370, 669 André,J., 624, 696 Andrea Briosco, detto Il Riccio, 24

Andrea Capellano, 591

Anficrate, 340

Angeleri, C., 667 Angeriano, G., 497-98

Annio da Viterbo, 211 Anteros, 386-88, 390, 671- 74

428-29,

Anticlea, 707 Antioco I Soter, 215-17, 633

Antipatro di Tessalonica, 88, 402, 460, 635 Antipatro Sidonio, 432-33, 436 Antonio del Pollaiolo, 266

Anubi/Anubis, 155, 617

Apollo, Febo, Sole, 31-32, 44, 174, 248, 264, 343-44, 543-44, 547-48, 579, 585, 587, 6068, 640, 643, 661, 667, 682, 694, 704-705 Apollodoro, 452, 521, 592, 594, 609, 621, 641-44, 652, 657, 687, 698-99 Apollonio Rodio, 660, 699

Apostolio, 705

Appel, G., 584 Appuhn-Radtke, S., 683

Apuleio, rII, 37, 106, 148, 154 55, 210-11, 294, 367, 410, 452, 480, 558, 603, 610, 614, 616, 620, 630-33, 66465, 669 70, 675-79, 682, 686, 692-93, 704 Aquilano, S., 351 Arato, 626, 702 Arbizzoni, G., 588 Archelao, 595 Archia di Mitilene, 398

DEI NOMI Archiloco, 204

Ares, Marte, 24, 170, 387, 424,

674, 702 Argelati, F., 590 Argentario, Marco, 60

Argonauti, 205, 517 Ariani, M., XLII, LVII, 637, 675

Arianna, 663 Ariete, segno zodiacale, LXVI Arione di Metimna, 82-83, 596, 678 Ariosto, L., 566 Aristide Quintiliano, 30, 581 Aristofane, 48, 188, 210, 653

Aristogitone, 340

Aristomene, 432-33 Aristotele, XxxVII, XL, LXVIII, 48, 105, 139, 154, 200, 295, 567, 590, 595, 612, 616, 623, 648, 651, 88 Armodio, 339-40 Arnobio, 618 Arpocrate, 35-38, 582-85 Arpocrazione, Valerio, 410 Arslan, E.A., 632

XxLI, 176, 609, 68 7-

Artemide, Dîana;Luna, 44, 367, 398, 480, 692 Artemidoro, 290, 433)

Asclepiade, 72-73

705

Ascreo, si veda Esiodo

Asinio Pollione, 314

Atalanta, 330-31, 657 Ate, 469-71, 690 Atena, Pallade, Minerva,

xXxxI,

LXVI, 2]1-25, 72, 24548, 252,

286, 340, 377-78, 380-81, 389, 428, 529-30, 604, 634, 640-41, 648,659, 670-71, 684 Ateneo, 166, 395, 595, 598, 618, 623, 664-66, 678, 688, 696, 698 Atherton, C., 634

Atreo, 72

Atteone, 480, 692 Attis, 367, 668

INDICE Aubenque, P., 614

Augé, Ch., 676

Aujoulat, N., XxXVIII

Aulo Gellio, 38, 154, 294, 59596, 608-609, 611, 615, 655, 678 Aureolus, 240, 638 Aurigemma, L., 677

Ausonio, 72, 113, 162, 266, 389, 577, 593, 604605, 643, 669, 681 Avezzù, E., 708

Aviano, 319

Avieno, 628 Baboo, F., 13-14 Babrio, 210, 410, 601 Bacco, si veda Dioniso Bachofen, J.J., 606 Badel, P.-Y., Lxx Bagnetti, G.P., 578 Baker, D.N., 601 Balavoine, C., XxXxIII, XXVIII, XxIX, 694 Baltrusaitis, J., 6232, 645 Barbaro, E., 118, 606 Barbaro, F., 366, 667 Barkan, L., LxIX Barocelli, F., 702 Bartoli, C., 622 Bartolomeo de Valdezoccho, 93 Bascapè, G.C., 578

Basilio di Cesarea, 48, 78

Bath, M., 689 Beauvais, V. di, LxviI1II, 621 Bebel,J., Lxxv, 155 Bellerofonte, xxvI, 519-21, 700 Bellerus, P., 124 Bellini, J., 618

Bembo, P., xx1, 137, 351, 612 Benedetti, M., LXIX

Benivieni, G., 387

Bernheimer, R., 645 Beroaldo, F., xxxva, LII, 98, 154-

DEI NOMI

729

55, 211, 599, 617, 631, 665, 692 Bianchi, D., XV, XIX, XXIV, LXXV, 609, 625, 707 Bianchi, M., XxXVIII Biancore, 82 Bianore, 460 Bietenholz, P.C., xx1IlII Biffi, G., 578 Bigliazzi, L., 612 Bindoni, B., 155, 617 Binski, P., 618 Bissoli, G., LxII Blado, A., 24 Blanc, N., 591 Blécker, S., 650, 686 Blume, D., 587, 661 Bober, P.P., 616, 634, 661, 663, 666, 670, 702

Boccaccio, G., 175-76, 211, 220-

21, 239, 344, 370, 608, 621-22, 636, 640, 642, 660-62, 670, 675-76, 687, 691, 693-94, 699, 710 Bocchi, A., LvIII, 38, 600 Bochart, S., 586, 588, 647, 677, 686, 697 Boer, C. de, 687 Boezio, S., 252, 381, 660 Boldù, G., 83 Bolzoni, L., xIv Bomer, F., 587, 621, 668

Bonello, M., 279

Bonhomme, M., LXXxIV-LXXV, 195, 217, 340, 485, 567 Bonner, C., 638 Bono, P., LxVvII

Bonsignori, G. dei, 72, 176, 481,

615, 661, 707 Bonucci Caporali, G., 632 Bonvesin de la Riva, 22, 578

Borea, 497, 517, 544

Borel, P., Lxx Bornoroni, M., 627 Bouché-Leclercq, A., 682

730

INDICE

Bouvelles, C. de, 600 Bowen, B.C., 580, 679 Boyancé, P., 619, 704 Boylan, P., 617 Braccesco, G., LxIX Bramante, D., 491 Brant, S., 491 Brown, D.A., 579 Brown, H.M., 582 Brown, R.M., 594 Bruchmann, C.F.H., 648, 669, 692 Bruhl, A., 663, 66567 Bruneau, Ph., 612 Bruno, G., XXXxVIII Brunon, C.-F., LvIII Bruto, Marco Giunio, 234, 635 Buchthal, H., 655, 671 Budé, G., XXXVI, LV Buffière, F., 578, 690, 706 Buganza, S., 707 Buhler, C.F., xxxIV Bulst, W.A., 691 Bundy, M.W., XxxVIII Buondelmonti, C. de’, xLVII Burkert, W., 581, 599 Burmann, P., 630, 646 Caciorgna, M., 579, 601, 645, 679, 701 Cadamosto, P.E., 352 Cagli, B.M., 603 Cahn, H.A., 596 Calais, 515-17, 699 Calboli, G., XxXXxXIX

636,

Calcagnini, C., xLv111, 37, 211,

583, 659, 673-74 Calcante, 148, 544 Calcondila, D., LxII Caletti, F., LVI

Caligola, 282

Callahan, V.W., xxr111, xLv, 61617, 699 Callimaco, 201, 311, 621, 626, 629, 654, 704

DEI NOMI Callistrato, xLII, 112, 604, 663

Calpumnio Siculo, 601

Calvesi, M., 612 Calvo, F., XV-xXVI, XIX, XLV Camerarius, ]., 52 Cameron Allen, D., xLvI, 632 Cames, G., 649

Campagnola, G., 194 Campeggi, T., 241

Cantiuncula, C., 115 Capaccio, G.C., LIV, LV Capodieci, L., 627 Capuane, C., 591 Caramella, V., 709 Carandente, G., 586, 592, 637, 675 Carlo V, xx1II, 204, 310 Carrara, E., 672 Cartari, V., 212, 690, 693 Carter, I.B., 642, 648, 657, 663, 669, 671, 674, 681, 692, 697, 705, 707 Casagrande, C., 650, 686 Casale, V., XxXVIII Casazza, O., 639 Cascione, Ga _ xXLV Casel, O., 584 Cassimatis, H., 678 Cassio, 635 /

Cassola, F., 580 Castelli, E.,; 618

Castelli, P., xLvIr, 632

Castello, G.B., 594 Castore, 204-206, 631

Catalano, G., 684 Catone, 105, 114, 708

Catullo, 36, 88, 630

Cavalieri, T. de’, 195 Cebete, xLII Ceice, 128

Censorino, 106-107, 149, 603 Cerere, 127-28, 609, 632, 642 Cesare, xxII, xxx, 137, 234, 238, 271, 310, 424-25, 619, 635, 643, 658

INDICE Cesarini Martinelli, L., 602 Champollion, J.-F., XxLvI Chance Nitzsche, J.;, 601-602, 608, 621, 670, 687 Charlet, J.-L., Lxxv Chastel, A., 583, 622-23, 627, 644

Cherefone, 167 Cheremone,

XxXLIV-XLVI, LIV-LVI,

LXII-LXIII, 137-38

Chiflet, J., 638 Chimera, xxvI, 519-21, 700 Chirassi, I., 696, 706 Cian, V., xx1I, 609 Ciavolella, M., 672-73, 689

Cibele, 367

Ciccarese, M.P., 677 Cicerone, XVI, XXXV, XXXxVIIF xLI, 30, 43-44, 123, 148, 185, 205, 221, 238, 252, 26465, 294, 398, 410, 490, 534, 576& 79, 582, 584, 586-87, 595, 605, 607, 609, 615, 619, 622, 624 25, 636-37, 64346, 651, 654, 656, 658, 663, 673, 676, 678, 681-86, 690-95, 698 700, 703708 Cielo, si veda Urano Ciminelli, S., 351 Ciparisso, 553, 707 Cipriani, G., XLVI Clare, R., 634 Claudiano, 88, 104, 240, 621, 637, 643 Clemente Alessandrino, xXLVIII, 705 Climene, 174, 344 Cloe, 508 Cloride, 694 Cocchiara, G., 661 Colluto, 670 Colonne, G. delle, 314, 380 Colpo, I., xL11, 708 Columella, 184, 609, 632, 651, 680, 696 Comboni, A., 673

DEI

NOMI

731

Cometa, M., xLII Conacher, D.J., 621 Conti, N., 687, 690 Conticelli, V., LxIXx, 602, 622, 657, 661, 709 Contile, L., XXV, XXXVI, LIV, LV Cook, A.B., 579, 654 Corfiati, C., 583, 660 Cornelio Nepote, 530, 608, 701 Cornificio, xxxIx, 205

Cornuto, xLvII, 156, 247, 411,

470, 498, 552, 578, 600, 608, 617, 621, 636, 639, 648-49, 664-66, 672, 690, 695, 698, 702, 704 Coronario, 685

Correggio, 535, 702

Corrozet, G., 205, 631 Corso, A., 639 Costantini, M., XLII Costantino, 706 Costanzo, 552 Cotta, C., XXXxVI Courcelle, P., 606, 615, 660, 672, 686 Courtney, E., 601 Cousin, J., XXXIX Cramer, F.H., 652

644,

Cratander, A., 115, 476, 691 Crevatin, F., XLVI

Crinagora di Mitilene, 310-11

Crinito, P., XXIX, XXXVI, XLVIII, LI-LII, LxIII, 366, 634, 668, 693 Crisciani, C., LxVII

Crono, 174

Cummings, R., xx111, 707 Cumont, F., 617, 639, 645, 660, 668, 671, 680, 704, 709 Cunnally, J., 590 Cupane, C., 591

Cupido, si veda Eros Curione, C.A., 176 Curtius, E.R., 672

732

INDICE

D’Achille, P., xxxvII1I

D’Alessandro, A., 52, 211, 272, 584, 602, 615, 620, 665, 682, 709 D’Alessio, G.B., 605 D’Anna, N., 651 Dafni, 508 Daly, P.M., XIV, XVIFXVIII, XXXYV, 597, 629 Danese, R.M., 588 Dante, 204

Darete Frigio, 314, 379

Davanzo Poli, D., 692 Davies, H.W., 579 De Angelis, M.A., xv11, 579, 607, 609, 631, 652, 654, 680, 688, 695, 699 De Fede, C., 647 De Jong, H.M.E., LxVI, LxX De Jong, K.H.E., 617 De Marinis, T., 587 De Nardi, M., 646 De Petris, A., 621-22 De Tervarent, G., 579, 606, 62021, 645, 657, 672, 676 De Visser, M.W., 578, 641, 679 De Vogel, C.J., 584 Dedalo, xLvIlII, 66, 298-99, 652 Degenhart, B., 594, 618, 655

Deipile, 707

Del Corno, D., XxxIX

Del Tuppo, F., 279

Delaney, S.J., 635 Delatte, A., 581, 584, 598, 624 Della Casa, A., 651 Democrito, LxVIII, 489-91, 693 Demostene, 410

Dempsey, Ch., 602

Deonna, W., 601, 638, 656, 662 Des Places, E., 629 Desanti, L., 652 Deubner, L., 654 Deucalione, LxIx, 612 Di Giampaolo, M., 692 Diana, si veda Artemide

DEI NOMI

Diaz de Bustamante, J.M., 607,

611 Didone, 24, 388 Dillon Bussi, A., xLv1z1, 612 Diocleziano, 633 Diodoro Siculo, xLviIII, 322, 540, 592, 644, 687 Diodoto, 238, 636

Diogene, 491 Diogene di Sinope, 452

Diogene Laerzio, 98, 452, 598, 679 Diomede, LxvII, 558-60, 707 Dione, 483-84, 691 Dione Cassio, 68, 234 Dione Crisostomo, 644 Dioniso, Bacco, Libero, 128, 286, 360-62, 367, 609, 628, 64 7-49, 66366 Dionisott, C., 612 Dioscoride, 184, 444, 706 Dioscuri, 192, 205-206, 631 Ditti Cretese, 314, 380 Dodds, E.R., 664 Dolce, L., 681 Dolcibelli, B., Lx11

Domiziano, 137, 139, 416, 61 1-

13 Donati, L., 582, 612 Donien, J., xIV Dossi, D., 132 Drexler, W., 617, 627 Dronke, P., XxxvVIII Drysdall, D.L., XxXxVI, XLVII Ducat, J., 612 Duplessis, G., XIV, XXx, XXII, XXXIV, LXXIV-LXXV, 83 Durer, A., 93, 586 Eaco, 634 Ecate, 389 Eco, 201 Edipo, 265-66 Eete, 642 Efire, 618

INDICE Elena, 105, 204-205, 381 Eleuterillide, Lv Eliano, 13, 48, 52, 78, 180, 200, 302, 411, 508, 513, 544, 567, 595, 599, 612, 621, 626, 648, 656, 685-88, 705

Eliodora, 378-79

NOMI

414, 416, 516, 578, 610, 636, 644, 655, 81, 694, 700, 705 Esopo, xLvII, 174, 278, 302, 306, 319, 444 , 552, 601, 647

733 590, 604, 678, 680210, 230, 399, 440,

Este, Isabella d’, 253

Elle, 452, 687 Elpidio, 414-15

Enea, LxvIII, 48, 238, 370, 388,

587, 596 . Enenkel, KA.E., 578 Ennio, 123, 615 Ensoli, S., 604 Eolo, 128 Epimeteo, 622 Equicola, M., 386, 673 Eracle, Ercole, 25, 100, 131-32, 174, 192, 205, 410, 473-76, 610, 691 Eraclito, 489-91

DEI

Ettore, 226, 313-14, 571-73 Eunomo di Locri, 547-48 Euripide, 234, 512, 621, 626, 642, 644, 660, 664 67, 676-77 Eusebio, xLIX Eveno, 508, 697

105, 381,

Eraclito Pontico, 247, 470, 55253, 608, 621, 634

Eratostene, 194, 534, 657, 677,

702 Ercole, si veda Eracle Eridano, 345

Erizzo, S., 56-57, 124, 521, 590,

609, 612, 620, 631, 669 Ermete Trismegisto, LXVI, LXVIII, 37, 266, 475, 679 Ermogene, XXXxIX Ermonatte, 460-61 Erodoto, xLvIlII, 82, 132, 344, 578, 595, 665, 688, 704-706 Eros, Amore, Cupido, XXXxI, LVI, LvVIII, 32, 44, 60-461, 200, 246, 349-52, 355-56, 361, 377-78, 386-90, 394-95, 406407, 414, 416-17, 427-28, 460-61, 463, 484, 495-500, 590-92, 661-62, 672-78, 683, 688, 695 Eschilo, 174, 594, 615, 621-22, 660 Esiodo, 1xIx, 174, 226, 344,

Fabre, J.P., Lxx Fabricius, J.A., 590 Faccioli, E., 666 Fadda, E., 692 Faivre, A., Lxv Falconetto, G.M., 194-95 Fanizza, F., 610 Fara, G.M., 586 Faraone, C.A., 629 Farmer, S.A., 652, 684 Farnetti, M., XxXIX Fasanini, F., XVII, XXX, XLVII, LII, LIII-LVI, LXI Fasce, S., 590, 678 Faustina Minore, 52, 55-56 Favorino di Arelate, 480, 691 Febo, si veda Apollo

Fede, 170-71

Fedro, 113, 248, 278, 621-22, 668, 685-86, 698, 704 Ferino-Pag den, S., 582 Ferrero, L., 651 Ferrua, A., xxIv Festa, N., Lxv Festo, 66, 592, 605, 623, 633, 640, 653, 666, 681, 697, 702 Festugière, A.J., 585 Fetonte, 344-45, 660 Ficino, M., L-LI, LxI, 31, 93, 98, 122, 387, 491, 581, 584, 623

734

INDICE

Fidia, xxxr1, xxxvilII, 247, 512-13 Filargirio, 659, 702 File, M., 508

93,

113,

Filippini, C., 6236 Filippo di Tessalonica, 144, 42425

Filippo il Macedone, 703 Filomela, 378-79, 670

Filostrato, XXXI, XxXVIII, XLl, XLI-XLII, XLVII, 112, 132, 22627, 345, 452, 596, 610, 657, 664-66, 687 Filostrato il Giovane, xLII, 559

Fineo, 516-17, 699

Fischer, K.-D., LxIX Fittoni, M.E., 604 Fleming, J.V., 601 Fontenrose, J., 644 Fosforo, 661 Foucher, J., 108 Fowden, G., 608 Francesco I de’ Medici, LxIX Francesco I di Francia, 185, 204 Francesco Maria della Rovere, 156 Franck, H., 691 Frazer, J.G., 598, 606, 618, 628, 639, 64446, 657, 659, 664, 668, 698 Fregoso, B., 389, 673 Frezzi, F., 599 Friedlander, P., XxxXIX Friedman, J.B., 582, 610, 645 Frisso, LXVI, LXXII, 452-53, 687 Froben, J., XVI-xvVII, 629, 659 Fucilla, J.G., 662

Fulgenzio, xxvI, 220, 247, 380,

517, 520, 544, 580, 609, 621, 670-71, 699, 704 Fulvio, A., 266, 590, 645 Furtwangler, A., 677

Gabriele, M., XxXXxVIII, XLII, LVII, LXVI-LXVII, 581, 58485, 600-

DEI

NOMI

601, 608, 613, 622, 636-37, 645, 655, 702, 707 Gaetani, P.A., 612 Galactéros de Boissier, L., 601 Galatea, 329-31, 658 Galeno, 624 Galilei, G., 264 Galli, E., 578 Ganimede, 192-95, 626-28 Garin, E., 599, 652 Gea, 330 Geber, LXIX Gelli,J., 6321 Gemino, 526 Gentile, G., L Gentile, S., 607 Germanico, 702 Ghedini, F., xL11, 708 Giamblico, XLVIIFxXLIX, 98, 58384, 598

Giapeto, 174

Giardini, O., xr111, 579, 599, 625 Giasone, LxVIII, 200, 205, 628 Giehlow, K, xXvV, XVI, XxIV, XLIVXLV, XLVII, LIV, 579, 599, 601 Gilbert, C.D., 591 Giovanni d’Andrea, 582 Giovanni Damasceno, 48 Giovanni Lido, 345, 638, 665 Giove, sì veda Zeus

Giovenale,

104, 264, 490, 577,

583, 585, 594, 619, 622, 626, 634, 668, 674, 686 Giovio, P., xxxv, 129, 156, 185, 608-609, 645 Giraud, Y., LVIII Girolamo, LXII

Girolamo Padovano, 378-79, 381

Giuliano, 652 Giuliano, imperatore, 132, 264 Giuliano, A., 639 Giuliano Egizio, 298, 583 Giunone, si veda Hera Giunta, F., Lxxv, 662

Giunta, L., 72, 585, 615

INDICE

Giuseppe Flavio, XLIX, LXII

Giustiniano, B., 617 Giustiniano I di Bisanzio, xLVI, 599

Giustino, 471

Goethe, J.W. von, 622 Gohory, J., Lxx Goltzius, H., 56 Gombrich, E.H., xv11 Gorgone, LXVIII-LXIX, 24, 56667, 702 Gori, A.F., 585, 591, 615, 645, 675, 700 Gorlaeus, A., 241, 638 Gorra, E., 655 Graf, F., 646 Grant, E., 652 Grayson, C., 607 Graziani, F., XLII Green, H., XIV, XVIII, XX, XXII, XXVII, XXXIV, LXV, LXXIVLXXV, 577-79, 582, 589, 593 94, 605, 608, 618, 643, 662, 669, 675, 681 Grese, W.C., 584 Griffiths, J.G., 583, 616-17, 624, 633, 653, 665, 698 Grimal, P., 668 Grimaldi, A., xxIII Grimm, S., XxI Grolier, J., XLV Gruber,J., 641, 672 Guerrini, R., 636, 645, 701

Guicciardini, L., 351-52, 378 Guidorizzi, G., 644, 670, 692 Guimond, L., 692 Gundel, H.G., 641 Gury, F., 591 Guthmuller, B., 707

Haarlav, B., 709 Hackenbroch, Y., xxIXx Hadot, I., 608, 673 Hani, J., 624 Haring, N.M., 601

735

DEI NOMI Harms, W., xIv, xv1I, 678 Harvey, R., XxXxVIII Hasselt-von Ronnen, C.j. 610

van,

Haynpol, J., 605

Heck, Ch., 600 Heckscher, W.S., xIV Hegedus, T., 6252 Heitz, P., 585, 596, 606, 617, 691 Heninger, S.K., 641, 704 Henkel, A., 585-86, 588, 600, 607, 611, 617, 622, 630-31, 657, 695 Henkel, M.D., 594 Hera, Giunone, LxVvI, 201, 330, 380, 670-71 Hermary, A., 678 Hermes, Mercurio, 32, 124, 155, 379-81, 409-11, 513, 580, 585, 605, 608, 617, 659, 670, 679 Hess, G., xIV Hesserling, D.C., 643, 666

Hileaira, 273

Hill, G.F., 156, 596, 618, 620, 639 Hobson, A., xLV Hoffmann, K, 601 Holbein, H., il Giovane, 230 Holzinger, K., 618 Homann, H., xV, XVIII, XxI, XXIIFXXVI, XXVIII Hopfner, T., xLvIII, LvI, 624, 646, 653 Horapollo, XV11I, XLIV, XLVI-LVI,

LXI-LXIV,

30, 37, 44, 48, 52,

78, 170, 240, 260, 398, 448, 552, 637-38, 686, 691, 705 Humfrey, P., 579 Husband, T., 634, 645 Icard-Gianolio, N., 637 Icaro, 298-300, 652 lerocle, 93 Ifi, 674

7836

INDICE

Ificrate, 339-40 Igino, 72, 370, 380, 398, 534, 577, 582, 592, 594-95, 608, 612, 618, 621, 627, 62930, 637, 642, 644, 652, 657, 660, 665, 668& 70, 687, 692, 694, 699, 704, 706 Ilari, C., 627 Ilberg, J., 644 Iles Johnston, S., 675 Imerio, 604 Ingallina, S.S., 629, 655 Innocenti, G., XXIX, XXXV, XLI Io, 201

Ippocrate, LXVIII Ippomene, 329-30

Iside, LII, 155, 184, 210-12, 665 Isidoro di Siviglia, xxIx, 48, 67, 144, 184, 580, 595, 599, 608&609, 612, 17, 619, 621, 625, 633, 650, 662, 672, 676, 686, 695, 704 Iti, 256, 508

Iulo, 370

Iversen, È., XLVII Jablonski, P.E., xLv111 Jackson, H.M., 586 Jaeger, B., 585 Jan, K von, 581 Jeanmaire, H., 649, 662365 Jenny, B.R., xIx Jessen, O., 621 Johnston, S.I., 646

Jollat, J.M., LxxIv

Joly, R., 600, 644 Jones-Davies, M.T., XxI1I Jourdain-Annequin, C., 691 Kahn, D., LxV, LxVII Kairos, 112-14, 604605 Kalid, LxVvIII Kalinka, E., xLrr, 610

632, 31, 593, 616648, 688,

DEI NOMI Kantorowicz, E.H., 658 Karanastassi, P., 59798 Keener, C.S., 579 Keimer, L., 624 Kempter, G., 627

Kern, H., 592-93

Kerver, ]., LVIII Kiefer, F., 605606

Klein, R., 622

Kobhler, J., xv11, 625 Konig, E., xxIII Kossatz-Deissmann, A., 670 Krauskopf, I., 612 Kristeller, P.O., 607, 694 Kuntze, P., Lxv L’Heureux,J., 241, 638 L’Orange, H.P., 656, 671

Laerte, 557, 559, 707

Laide, 161-62, 618 Lancellotti, M.G., 63839 Lanciotti, S., 588 Landi, C., 56, 206, 619 Landino, C., 193, 627 Landriani, M., 23 Lanoé-Villène, G., 681

Laocoonte, xLI, 572, 710 Lascelle, J., 582 Latona, 398, 705

Lattanzio, 175, 604, 617

Lattanzio Placido, 148, 668, 687, 703 Laurens, P., xxIv, 638, 658, 684, 707 Lausberg, H., XxXxIX Lautrec, Odet de Foix, 185 Lazzarelli, L., 5823, 661 Lazzi, G., 581 Le Boeuffle, A., 628, 630 Le Gray, M., 619 Le Roux de Lincy, M., XxLv Lecouteux, C., 645 Leda, 205, 630 Lee, R.W., XXVIX, XLI

INDICE Leeman, F.W.G., xvIIr, xxVrXXVIII Leemans, C., xLv11, 580, 58687, 589, 595, 619, 624, 637, 643, 677 Leena, xxxI, 340, 659 Lefèvre d’Étables,_]., LXX Lehrs, M., 671 Leitgeb, M.-C., 673 Lemaire de Belges, J., 350 Lenaz, L., LIl, 608, 671 Leocare, 626-27 Leone X, 24 Leonida d’Alessandria, 144, 252, 504 Lerner, M.-P., 641

Leto, 273

Levy, I., 579 Lewis, C.S., 602 Lewy, H., 629 Libero, si veda Dioniso Liceti, F., 241 Liebenwein, W., 584 Liebeschutz, H., 586, 694 Ligorio, P., 241 Linant de Bellefonds, P., 676 Lindsay, J., 637 Lisippo di Sicione, xxx1, 11214, 604 Lisistrato, 319 Littlewood, A.R., 657

Littré, E., 686

Livio, 123, 170, 260, 499, 60&609, 615, 642, 654, 701, 703, 705 Locher, J., 491 Lombardi, N., 581 Longino, xL Longo, O., 692 Longo, V., 691 Longo Sofista, xLI, 508 Lorandi, M., 634, 707 Lorenzoni, M., 645 Lotis, 553, 706-707

540, 691,

DEI NOMI

737

Lotter, J.G., XXI, XXIII, XXVIII, XXX Lotto, L., 24

Lucano, 577, 583, 610, 635, 703

Lucchetta, G., LxII, LXIX Lucco, M., 579 Luciano, XXXI, XXXIX, XLI-XLII, 60, 112, 166, 211, 216, 270, 290, 440, 474-75, 490, 578, 609, 621, 634, 676, 678, 685, 691 Lucilio, xxxVvI, 604 Lucrezio, 185, 345, 625, 648, 657, 660, 668, 672 Lugli, G., 705 706 Luigi XII, xLv Luna, si veda Artemide Luna, C., 682 Luscinio, O., Lxxv Lutz, C.E., 641 Maas, E., 702 Macarius, J., 638 Macchioro, V., 709 Machiavelli, N., 122 Macone, 180 Macrobio, xv, xLVIII, 124, 239, 240, 248, 264, 587, 600, 608, 611, 663, 666, 704 Maffei, S., XXXIX, XLII Magris, A., 710 Maier, M., Lxx Maino, G. del, 124 Malatesta, S.P., 592 Maleguccio, A., 566 Maleguccio, F., 566 Malerbi o Malermi, N., 38 Maltomini, F., 604 Mancini, F., 672 Mandosio, J.-M., LXxX Man druzzato, E., 622 Manganelli, G., 647 Manget, J.J., LXVII Manilio, 345, 635, 699 Manning,J., XVI1II, LxXv, 597

738

INDICE

Mantegna, A., 32, 82, 252, 424, 605, 661, 683 Manuzio, A., XVI-XVII, XxLI,

XLVII, LVI, LXI, 93, 112, 137,

166, 410, 552, 612-13, 617 Marangoni, M., 589 Marco Antonio, 44, 282, 586, 635 Marco Aurelio, 485 Marco Polo, 238 Marcovich, M., 690 Marestaing, P., XLVIII Margolin, J.-C., xLv Mariano Scolastico, 428-29 Marongiu, M., 626, 660-61 Marquale, G., 31 Marquardt, J., 709 Marrone, C., XLVI Marte, si veda Ares Martin dale, A., 683 Marullo, M., 497-98, 666, 681, 695 Marziale, xxI1X-xxx, 188, 260, 278, 500, 577, 619, 6.25-26, 634, 640, 64546, 648, 653, 661, 66467, 684, 692, 696, 699, 704, 708 Marziano Capella, XLIX, LII, 36, 124, 247, 252, 544, 579, 595, 602, 608, 641 Maserano, F., 83 Massimiano, 633 Massimiliano I d’Asburgo, xxIIXXIII, XXVIII, XLVII, 586 Massing, J.M., 685 Mastrocinque, A., 585, 617, 63839, 660 Mattiangeli, P., 632 Mattingly, H., 589, 609, 611-13, 619 Mattioli, P.A., 444, 685 Matton, S., LXV, LXVIII Matzke, G.E., 605 Mayassis, S., 639, 654, 656, 679 Mazzini, G., 613 McDonough, Ch.j., 641

DEI NOMI Mecenate Melisso, 583 Medea, 200, 256, 504, 628, 642, 696 Medici: Cosimo I, 622; Cosimo il Vecchio, 639; Francesco I, LXxIX; Lorenzo, 52, 639

Medusa, 247 , 567, 709

Meier, H., 627 Meleagro, 591 Melete, 388 Meénager, D., 650 Mendelsohn, L., 675

Menelao, 72, 544

Mensching, G., 584 Mercurio, si veda Hermes Merrill, R.V., 67374 Meung,J. de, 106 Meyer-Baer, K., 582 Michel, S., 617, 639 Michelangelo, 195 Miedema, H., xvV-xVIII, XXVII-XXIX, XXXV, 625 Migne, J.P., 588, 621, 629 Minerva, si veda Atena Minosse, 299, 323

XxI,

Minotauro, 66-67, 299, 592-93 Minucio Felice, 175

Mirtilo, 252 Miscomini, A., L Modersohn, M., 602 Morato, F.M., 681 Moreno, P., 604605 Moreschini, C., 679 Morieno, LXVIII Mosco, 498, 609 Moss, A., 635 Motte, A., 678 Moutsopoulos, E., xxxv111, 580 Mugellesi, R., 639 Murr, J., 597, 616, 639, 643, 649, 654, 657, 668, 696 Musti, D., 618 Namaziano, Rutilio, 553 Nautin, P., XLVI

INDICE Nazianzeno, Gregorio, 115 Neckam, A., 641 Negri, A.M., 625, 709 Neleo, 694 Nemesis/Nemesi, Ramnusia, Adrastia, 92-93, 386, 388, 41617, 420, 597, 680-81 Nestore, 496, 497, 558-59, 664, 694 Nettuno, si veda Poseidone Nevio, 633 Nicandro, 595, 685 Niccolò da Bologna, 32 Nifo, A., 673

Nigidio Figulo, 294

Nike, 93

Niobe, 273

Nivelle, $., 48 Nock, A.D., 670 Nonio Marcello, 587, 608 Nonno di Panopoli, 593 Norden, E., 597 Novello, M., xL11, 708

Numa Pompilio, 129, 170, 286,

739

DEI NOMI Oppiano, 180, 648 Orazio, xxIx, 114,

Osiride, 184, 665

Ossinger, J.F., 670 Ottavia, 395 Ottaviano, 635 Ovidio, XXVIII, XXX,

Obrist, B., 642

Palefato,

Onians, R.B., 604, 656 Op de Beeck, B., 58&89, 609

LXIV-LXV,

LXVII-LXXII, 13, 60, 67, 72, 88, 123, 148, 239, 260, 264, 286, 311, 344-45, 362, 367, 388, 452, 480, 553, 583, 587, 590-93, 595-98, 609-12, 614, 617-19, 621, 623, 626, 628, 630, 632, 634-37, 639, 642-43, 646, 648-50, 651-54, 656-61, 663-66, 668-78, 680, 68384, 68789, 691-92, 694, 696-97, 701-704, 707, 710

Pachel, L., 389 Pacini, P., 599

Oceano, 309-10, 618, 654 Ocno, xxxI, 117-19, 606 Ode, J., 602 Odisseo, Ulisse, LxvI, 72, 22021, 226-27, 552-53, 558-60, 634, 669, 707 Omero, XLI-XLII, LXVIII-LXIX, LXXI, 72, 148, 192, 220-21, 227, 362, 470, 552, 559, 572, 578, 582, 594, 615, 621, 626, 635, 654, 670, 68384, 694, 700, 704-706, 710

490,

Orione, 398 Orlandi, G., XxLVIII

697 Nutius, M., 48 Nyenhuis, J.E., 652 Nysten, P.H., 686

Occasione, 112-14, 605

205,

558, 584, 603, 624, 626, 629 30, 633, 635, 643, 649, 651, 66364, 668-70, 679, 683, 688, 692, 694, 697-98, 700 Orfeo, LXxIX, LxxI, 31-32, 37, 649

Pacuvio, 374, 698

xLvVII, 452,

687 Pallada, 36, 406

552,

660,

Pallade, si veda Atena

Pan, 367, 533-35, 701-702 Pandora, 415-16, 680 Pannuti, U., 591, 612,

639

Panofsky, D., 681

Panofsky, E., 351, 579, 92, 614, 618, 626, 669, 672, 677, 680, Paride, LxvI, 379-81, 571, 66970 Parmigianino, 481 Partenide, 579

619-20,

586, 591637, 661, 701 461, 513,

740

INDICE

Pascal, C., LxIX

Patch, H.R., 606, 660 Paterlini, M., 581

Pauly, A., 646 Pausania,

xxxI,

118-19,

162,

226, 247, 271, 340, 386, 388, 390, 432, 513, 595, 598, 616, 618, 621, 639, 644-46, 657, 663, 668, 681, 697, 704

Pausia, 118

Pease, A.S., 579, 584, 615, 644, 646, 674-76, 682, 691-93, 695, 698 Pease Clark, C., 675 Pegaso, 519-21, 628 Peil, D., XIV, XVI Peitho, 201 Pellegrini, P., 623

Penelope, 221

Pépin, J., XLVIII, LXIX

Péres, C., 67

Perini, D.A., 670 Perittione, 579

Pernety, A.-J., LXxI

Persio, 693 Pesce, D., 600, 644 Pesenti, G., 662 Petrarca, F., 240, 389, 637, 6 75

76 Petronio, XLI-XLII, 48, 270, 648, 668, 674 Peutinger, C., XXI-XXIII, XXVIII,

XXXI, XxXIII, 5, 17-18, 56

Pfisterer, U., 691

Philipp, H., 638 Phoibe, 273

Piccoli, S., L Piccolomini, E.S., 695 Pico della Mirandola,

299, 387, 428, 652

G.,

Pictorius, G., 512, 671, 695 Pierguidi, S., 605 Pierozzi, L., LxX Pietro Comestore, 621 Pindaro, 200, 521, 628-30

98,

DEI NOMI Pinturicchio, 211 Pirani, F., 604 Pirckheimer, W., XLVII Pirenne-Delforge, V., 629 Pirra, LxIX Pirro, 633

Pitagora, LxvilI, 37, 185, 410, 579, 583

94,

98,

Pitiscus, S., xxIx, 580, 590, 643,

646, 654, 659, 664, 683, 692, 695, 703

Pizia, 264 Pizzani, U., 580 Planco, 314, 655

Platina, B., 154, 361, 666 Platone, LxvIII, 37-38, 48, 61, 122, 144, 174, 176, 193, 204, 238, 264, 344-45 , 374, 386-87, 406, 428-29, 448, 579, 581, 590, 597, 608, 627, 639, 641, 67.2-73, 676, 678-79, 684, 686, 704 Platone il Giovane, 144, 162, 635 Plauto, 166, 319, 646-49, 656, 669, 678, 680, 698, 708 Plinio, XxXVI, XXXI,

XXXV,

LVI,

44, 48, 118, 155, 184, 200, 205, 247, 282, 286, 314-15, 340, 367, 395, 402, 417, 424, 456, 567, 580, 586, 592-95, 604, 606, 608-609, 612, 61617, 619-21, 624, 626-27, 63031, 633, 634, 639, 647, 649, 654, 659, 663, 674, 678, 682 83, 685-89, 696, 700, 703704, 706, 710

Plinio il Giovane, 323, 693 Plotino, xXxVIII, XLVIII, L, 37,

264, 387, 429, 582, 684 Plutarco, xL, xLvIII, 48, 52, 118, 128-29, 184, 234, 238, 247, 322, 340, 395, 410,

630, 678,

23, 36-37, 154, 166, 290, 302, 456, 461,

INDICE

512, 58283, 586, 591, 593, 595, 598-99, 609, 618, 621, 624, 636, 639, 649, 653, 664 65, 666, 668, 671, 676-78, 697, 704

Pohlenz, M., 624 Poirier, G., 627

Polieno, 659, 702 Polifemo, 220-21, 634 Polifilo, LvII-LVIII, Lx, 104, 613

Polignoto, 119

Poliziano, Angelo,

LII, 36, 52, 132, 584, 602607

XXXVI,

389,

xLI,

534,

Pollard, J.G., 618 Polluce, 204-206, 631 Pompeo, 44, 635

741

DEI NOMI

Prometeo, 174-76, 621-23

Properzio, xx1x, 162, 286, 323,

590, 610, 618, 620, 634, 639, 646, 657, 663, 668, 694, 710 Proserpina, 278, 663

Psello, Pseudo Pseudo Pseudo Pseudo Pseudo

xLIX, 201 Cicerone, 700 Iustinus, 690 Ovidio, 648 Plutarco, xLI Virgilio, 592, 623, 639,

664, 706

Psiche, 389, 610

Pugliarello, M., 647, 657 Pulega, A., 630, 648

Pomponio Mela, 115, 476 Porfirio, xLVIII, LxII, 37, 589, 695

Quintiliano, XVI, XXXVI, XXXIXxL, xLIII, 44, 88, 205, 485,

Portoghesi, P., XLVI1II

581, 690, Quinto Quinto

Posidippo di Pella, 112-14, 604

Raasveld, P.P., 580 Rabassini, A., L, 581 Raffaelli, R., 588

Porfirione Pomponio, 691-92

Poseidone, Nettuno, 138, 226, 238-39, 401-402, 541, 596, 612 605

Raingeard, P., 608, 679 395,

663, 682

591,

Praz, M., XIV, LXxXIV-LXXvV, 589,

676 Priamo, 148, 379, 670 Priapo, 707

Primaticcio, 594 Prini, P., 602 Proclo,

xxXxVIII,

Raggio, O., 621-22

Raimondi, M., 594

Poulin, S., 585 Poverini, L., 692 Pozzi, G., 606 Prassitele, 359-60,

Procacciali, P., 627

598, 636, 646, 681, 688, 692-93, 703 Metello, 588 Smirneo, 668

XLVII-XLVIII,

660, 671 Procne/Progne, 256, 379, 508, 670, 697 Procopio, xLvI Progne, si veda Procne

Ramelli, I., LxII, LxIX, 578, 602, 690, 704 Ramnusia, si veda Nemesis Rapisarda, C.A., 603

Rapp, A., 700

Rasis, LxXVIII Rausa, F., 59798 Rawles, S., XXXIV, LXXxIV, 589 Rea, 311

LXIV, LXXII,

Reekmans, L., 171, 620 Regio, R., LxIX

Regnault, P., 217 Regnault Chaudière, R., 221 Reinach, T., 581

Remo, 24, 579

742 Remondon, R., xLvVI Renouard, Ph., 588,

633-34 Richel, W., 93

INDICE

603,

617,

Ridewall,J., 491 Rigon, F., 650, 686 Rigoni, M.A., LII

Ripa, C., 106, 291, 640

Rispoli, G.M., XxXVIII, XL, XLII

Rist, J.-M., 684

Robert, C., 700 Rodigino, C., XXXx, XXXVI, XLVIII,

LxII, 52, 98, 211, 272, 471, 589, 595, 599, 616, 620, 659, 687, 700, 704

Rolandi, M., 594 Rolet, A., xLII Rolet, S., xL1I1, 590, 608

Romolo, 24, 149, 286, 579

Roscher, W.H., 597-98, 610, 617,

637, 642, 64445, 648, 654, 661, 678, 687, 690, 692, 700, 707, 709

Rossbach, O., 597 Rossi, B. de’, 24-25

Rosso, G., 72, 615

Rozzo, U., 58485, 600

Rubinstein, R.O., 616, 634, 661, 663, 666, 670, 702 Rucellai, G., 122 Ruino, C., 599 Rupilio, F., XxII

Ruscelli, G., LIv, 67

Rusconi, G. de, 351 Ruska, J., LXVIII Russell, D., 578 Sabbadini, R., L Sacchi, B., 673 Sack, V., xVIII, XXI Saffrey, H.D., 684

Saint-Omer, L. di, 67

Sainte-Maure, B. de, 314, 380 Salanitro, M., 588 Sallustio, 83, 586, 642, 670

DEI NOMI Salvat, M., 681 Sambucus, J., 32, 38 San Paolo, 231, 611 Sanctius, C.F., 578 Sanfilippo, M., 636 Sartori, A., xxIV, 658 Saturno, 148, 239, 622, 637, 684 Saunders, A., XXV, XXXxIV, LXIV, LxXXxIV, 589 Savino, G., xLvIr, 612 Saxl, F., 627, 632 Scala, B., 132 Scapecchi, P., xLv11, 612 Schilardi, G., 610 Schleier, R., 600 Schmekel, A., LxX Schmitt, A., 594, 618, 655 Schoeffer, P., 24 Schoemann, G.F., 591, 676 Scholz, B.F., XV, XVIFXVIII, XXI Schonberger, O., xLI1, 610 Schòéne, A., 585-86, 588, 600, 607, 611, 617, 622, 630-31, 657, 695 Schweikhart, G., 627 Scopa, 395 Scorpione, segno zodiacale, 398 Scullard, H.H., 633 Secret, F., LXV, LXVII Segonds, P.H., 684 Seidel Menchi, S., 653 Semele, 360, 665 Sena Chiesa, G., 675

Seneca, LXIX, 37, 205, 345, 370,

394, 490, 588, 592, 603, 606607, 628, 630-31, 635, 642, 644, 660, 666, 669, 676, 681, 691, 693-94, 707-708, 710 Senocrate di Calcedone, 411 Senofonte, 192-93, 386, 668 Serapide, 240, 583 Servio, xxIx, 88, 171, 175, 388, 517, 553, 577, 595, 608 10, 617, 619, 621, 623, 638, 64042, 652, 654, 662, 668, 672 73,

INDICE 675, 680, 682, 686, 689, 693, 695, 698-99, 702, 706, 710 Settis, S., 513, 674, 698 Sfameni Gasparro, G., 584 Sfinge, 247, 264-66, 64344

Sforza,

704 Francesco, 23; Lu-

dovico il Moro, liano, 22-23 Shell, J., 707

23; Massimi-

IOGUI-XXXIV, LXXIII-LXXV, 424,

456, 520, 699, 701 Stobeo, 480, 491, 679 Stoll, H.W., 661, 692

Strabone, 616, 705-706 Strada, J., 56 | Stramaglia, A., 655 Stratone di Sardi, 627 Susanetti, D., 581

Sheppard, H.J., 637

Svetonio, 273, 336, 416, 424, 583, 611, 615, 642, 646, 659, 681, 683, 693, 701

Sichtermann, H., 626

Sidonio Apollinare, 491

Siebert, G., 679 Signorini, R., 627 Silenziarlo, P., 548, 705 Silio Italico, 38, 612, 633, 648, 654, 656 Silvestre, L.-C., 598 Simon, E., 612 Simonds, P.M., 673 Simonide, xL Sinesio, 31, 581, 613 Sinone, 105 Siria, dea, 211, 632 Sleidano, 685

LxvIII,

743

NOMI

Struck, P.T., 646

Shelley, P.B., 622

Socrate,

DEI

38,

107,

Swoboda, A., 651 Sybel, L. von, 690, 707 637,

118,

175, 192, 238, 386, 410, 548, 603, 606, 622, 636 Socrate il Giovane, 118 Sodano, A.R., XxLIX

Sole, si veda Apollo

Solimano, 310 Solino, 595, 612, 686 Soury, G., 602 Sozione, 491 Spitzer, L., 581 Stara-Tedde, G., 640 Stazio, 240, 380, 580, 607, 610, 633, 635, 654, 663, 681, 683, Steadman, J.M., 632 Steelsius, J., 53, 589 Steuding, H., 709 Steyner, H., XX-XX1II,

Tacito,

xLvIII,

XXV-XXVII,

170,

499,

Teognide, 627

Teone, XxXxIX Terenzio, 603, 609, 649 Tereo, 256, 378-79, 508, 640 Tersite, 105 Teseo, 299, 663

Teucro, 227

583, 592, 639, 648, 692, 700

LII,

642, 658, 699, 701 Tardieu, M., 629 Tavenner, E., 674 Taylor, A.E., 641 Taziano, 626 Tedeschi, G., xLVI Temistio, 386 Temistocle, 526 Teocrito, 200, 46364, 591, 609, 657, 674, 681, 705 Teofrasto, 616, 624, 674, 687, 706

Thiébaut, D., 642 Thom, J.C., 598 Thompson, D.W., 587, 609, 621, 626, 629, 659, 677, 681, 69798 Thot, 155 Tibiletti, T., 633 Tibullo, 499, 624, 634, 643, 661, 663-65, 674, 694, 708

744

INDICE

Tideo, 557, 559, 707 Timagora, 388 Timpanaro Cardini, M., 598 Titani, 135-36, 533, 611, 702 Tito, 137-39, 609, 611

Tizio, 176

Tolomeo Efestione, LxvIII, 226 Tondo, L., 591, 645, 700 Torelli, M., 618 Torriti, P., 636

Tory, G., LvIII, 476

Tosi, R., 606-607, 625, 634, 64344, 646-47, 651, 655-56, 668, 681, 685, 688, 705, 708 Toussaint, S., L, 581-82, 607, 673 Tran Tam Tinh, 585 Trasibulo, 529-30 Trebazio, xXVIII, XLVII Trimpi, W., xLI Tritone, 237-40, 636-37 Troo, 626 Trousson, R., 622 Tucidide, 260 Tung, M., xIv, 632, 662 Tupet, A.-M., 629, 675 Turcan, R., 621, 66061, 709 Turk, G., 687 Turno, 105 Tzetze, XLIX, LXII, LXIII, 521, 604, 687 Ulisse, si veda Odisseo Ulpiano, 410, 500, 703 Urano, Cielo, 544 Usener, H., 675 Vaccaro, E., 617 Vaeck, M. van, xVIII Valentini, R., 592

Valerio Flacco, 614, 699, 701, 703 Valerio Massimo, 171, 238, 246, 619, 636, 639, 659, 700, 703

Valla, G., xXLVII

DEI

NOMI

Valperto, 707 Valturio, R., 66-67 Van den Broek, R., 617

Van den Horst, P.C., 598 Van den Horst, P.W., xLIV, LxIF LXIII Van Liefferinge, C., 629 Vanden Broecke, $., 652 Vandeweghe, F., 588&89, 609 Vanni, F.M., 591, 645, 700 Varrone, xxIX, XxxV, 36, 149, 602, 608-609, 633, 680-82, 697-98, 702, 705 Varrone Atacino, 581 Vasari, G., 132, 622 Vecchio, S., 650, 686 Vegezio, 66, 260 Vellay, Ch., 594, 690, 707, 710 Venere, si veda Afrodite Venturi, G., XxXXIX Vespasiano, 336, 609, 613 Vettio, 149 Viard, P.E., xIII, XXxIV, XxLV, 579, 590, 599, 609, 625, 656 Viarre, S., LXIX-LXX Vico, E., 56, 613 Vicot o Vitecog, P., LxIV-LXV, LXX-LXXI Virgilio, XLI-XLII, LVIII, LXVII, LXVIII-LXIX, LXXI, 37, 88, 123, 238, 240, 260, 311, 331, 367, 370, 388, 406, 461, 580, 58687, 595, 610, 619, 623, 628, 63234, 641, 648, 65254, 657, 661, 668, 672, 674, 676, 679 80, 68486, 688-89, 696, 698, 703, 708, 710 Visconti, 22, 578, 704; Ambrogio, XV-XVI, XIX, XX, XXII;

Desiderio, 578, Filippo Maria, 366; Gian Galeazzo, 298,

525-26,

‘701;

Massimiliano,

xxII, 22-23; Ottone, 22-23 Visser, A.S.Q., xIv, 578 Viti, P., L

INDICE Vitruvio, 682 Volkmann, L., XVI, XXIII, XLVII, 582, 586, 664 Vollkommer, R., 616, 678 Voltaire, 264 Voltolina, P., 612 Vottero, D., 630 Vriendt, F. de, 132 Vuilleumier Laurens, F., xxIv, 578, 584, 638, 658, 684, 707 Waddington, R.S., 584 Wagner, G.Ph.E., 596 Walker, D.P., xxxviI111, 652 Wallert, J., 617 Warburg, A., 607 Waser, O., 645 Watson, E.S., Lvrrr, 585 Weisbach, W., 694 Weiss, R., XxxIV West, M.L., 581 Wind, E., 581, 584, 601, 607, 611, 635, 655, 670, 688, 694 Winternitz, E., 582 Wirth, K-A., xIv

DEI

NOMI

745

Wissowa, G., 646, 654 Wittkower, R., xLvrr, 605, 607 Wolfe, R., 230-31 Wolkenhauer, A., xvI Woodford, S., 593

Zaccaria Ruggiu, A., 604 Zambelli, P., 652 Zarlino, G., 580 Zazoff, P., 639

Zenale, B., 557-58 Zenobio, 687 Zenodoto, 188

Zete, 515-17

Zeus, Giove, 21-23, 36, 113, 128, 148, 174, 176, 192-95, 201, 205, 240, 248, 311, 330, 345, 361, 389, 394, 398, 407, 452, 470, 490, 533, 543-44, 578-79, 583, 621, 626, 665, 670, 676, 684, 692 Zeusi, 216 Zucchetti, G., 592 Zwichum, V. van, xxII

INDICE

Prefazione Tavola delle abbreviazioni

Ix XxI

INTRODUZIONE

XIII

I.

XIII

Alciato e l’origine dell’emblematica Epigrammi ed Emblemi L’enigma della prima edizione degli Emblemata Quando furono inserite le illustrazioni? Il termine «Emblema »

II. Il nodo sapiente: l’immagine parola Emblemi e geroglifici I geroglifici di Horapollo I geroglifici di Francesco Colonna

xV xXVIII XXxV XXXxXV XXxVII XLIII XLVI LVI

III. L’interpretazione alchemica di Pierre Vicot: Alciato e Ovidio

Nota al testo, alla traduzione e al commento

Fac- simile di alcune pagine iniziali

LXIV LXXIII LXXIX

EMBLEMATUM LIBER IL LIBRO DEGLI EMBLEMI Note Indice dei motti

575 713

Indice degli incipit degli epigrammi Indice dei soggetti Indice dei nomi

717 721 727

Il libro degli Emblemi (1531) di Andrea Alciato, galleria di situazioni umane trasfigurate in metafore, doveva trasmettere — similmente agli Adagia di Erasmo da Rotterdam, suo cor-

rispondente — un patrimonio di saggezza e moralità facendo ricorso anche all’efficacia del mezzo iconografico. Divenne invece l’archetipo di un genere di letteratura che non solo conobbe uno straordinario successo in Europa ma esercitò

un influsso sbalorditivo, tanto da costituire la chiave che dà

accesso a molta parte dell’arte e della letteratura successive.

In copertina: Illustrazione tratta dall’edizione Steyner (1531)

aL/ LIIT).

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EO

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ISBN 978-88-459-2967-0

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9788845929670

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