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Italian Pages 192 Year 2010
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«Centro Internazionale Insubrico “Carlo Cattaneo” e “Giulio Preti” per la Filosofia, l’Epistemologia, le Scienze cognitive e la Storia della Scienza e delle Tecniche» dell’Università degli Studi dell'Insubria — Varese Via Ravasi n. 2— 21100 - Varese Direttore scientifico: prof. Fabio Minazzi (Università degli Studi dell’Insubria) Comitato scientifico:
Evandro Agazzi (Universitdad Autonoma Metropolitana, Città del Messico). Renzo Dionigi (Università degli Studi dell’ Insubria), Gianmarco Gaspari (Università degli Studi dell'Insubria), Fulvio Papi (Università di Pavia), Jean Petitot (Crea, École Polytechnique, Paris), Ezio Vaccari (Università degli Studi dell’Insubria), Carlo Vinti (Università degli Studi di Perugia)
Studi
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BRIGIDA BONGHI
ILKANT DI MARTINETTI La fiaccola sotto il moggio della metafisica kantiana
Prefazione di
Fabio Minazzi
MIMESIS Centro Internazionale Insubrico
Volume pubblicato con un contributo delle seguenti istituzioni: Centro Internazionale Insubrico “Carlo Cattaneo” e “Giulio Preti” per la Filosofia, l’Epistemologia, le Scienze cognitive e la Storia della Scienza e delle Tecniche
Dipartimento di Informatica e Comunicazione, Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali di Varese dell’ Università degli Studi dell'Insubria Programma di Ricerca cofinanziato del Miur, Cofin, anno 2008, prot. 2008ZX72NK_003, unità dell’ Università degli Studi dell'Insubria
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INDICE
PREFAZIONE di Fabio Minazzi INTRODUZIONE
È
1913: Piero MARTINETTI E I SUOI PROLEGOMENI
IE Genesi e destino dei Prolegomeni: il soccorso martinettiano La costruzione razionale della conoscenza filosofica Lo svolgimento radicale di Martinetti rispetto alla metafisica critica I gradi di oggettività e di realtà La natura delle cose e l’aspirazione alla comunione degli esseri
II.
1913: LA DIFESA DELLA FORMA PURA DELLA MORALITÀ E L'ARMA DELLA METAFISICA SEGRETA DI KANT
1 DI di II.
Le obiezioni allo statuto kantiano della moralità La forma: genesi e manifestazione Il compito infinito della vita morale
Dir
1924-5: IL BICENTENARIO DELLA NASCITA DI KANT E L'ANTOLOGIA KANTIANA
ka I risultati della critica kantiana nella prospettiva
Di
filosofica di Martinetti Umanità e dottrina
2.1
Fedeltàallo scopo e lettura teoretica nell’ Antologia kantiana
2.2 Due schemi martinettiani Determinazione formale e reale assoluto
La giustificazione dell’esuberanza della ragione SODimensione della trascendenza e coscienza della legge
'v'O DD
TV.
LA GRANDE CELEBRAZIONE.
I corsI SU KANT DEGLI ANNI VENTI
p.
1.
p. p.
E2 127 130 2. Trascendente e trascendentale Di 131 2.1 Le forme come simbolo sensibile dell’unità divinap. 132 3. L'’universalità dell’io p. 134 4. La forza razionale della morale kantiana Di 136 5. La sfera religiosa come ampia dimora della moralità p. 142 I corsi di Martinetti su Kant nelle aule della Statale 1.1 La chiave religiosa del pensiero kantiano
CONCLUSIONI Il razionalismo religioso di Martinetti e l'approdo metafisico de La libertà (1928-1936)
p.
145
BIBLIOGRAFIA
DI
161
INDICE DEI NOMI
p.
183
PREFAZIONE
Piero Martinetti non è stato soltanto «uno dei massimi pensatori italiani della prima metà del nostro secolo [il Novecento, ndr.] — gloria e vanto dell’Università di Milano ove insegnò per vari anni, lasciando un’impronta indelebile in larghe schiere di allievi - ma anche una delle più forti personalità dell’antifascismo lombardo-piemontese». Proprio per questa ragione — ha continuato a osservare Ludovico Geymonat (in un suo significativo articolo giornalistico apparso su l’Unità del 22 marzo 1958), «è purtroppo una colpa degli antifascisti che lo ebbero per maestro (e, în particolare, rivolgo proprio a me questo rimprovero) non aver fatto nulla o pressoché nulla, finora, per popolarizzare la sua figura, per diffondere anche tra i non specialisti la conoscenza della grande e complessa eredità morale che egli ci ha lasciato. Mentre non pochi spiritualisti cattolici del periodo post-bellico hanno cercato di presentarlo come un indiretto precursore del loro indirizzo (pur essendo noto a tutti i competenti l’abisso che separava lo spiritualismo di Martinetti da quello dei teologi), noi non abbiamo fatto nulla per ricordare che i giovani più vicini a Martinetti — proprio negli ultimi anni della sua vita — furono essenzialmente degli antifascisti e furono, anzi, per lo meno in gran numero, comunisti». Questa interessante autocritica di Geymonat non lo ha tuttavia poi indotto a ritornare più ampiamente (né in modo critico-sistematico, né, tantomeno, in modo «popolare» o seriamente divulgativo), sulla figura di Martinetti, neppure favorendo lo studio del pensiero martinettiano, la cui opera, come ben recita il titolo di uno studio del 1998 di Amedeo Vigorelli, ha continuato così, per non pochi decenni, a rappresentare un prodotto metafisico «di un filosofo dimenticato». Certamente è ben vero come l’opera e il pensiero di Martinetti, soprattutto presso alcuni specialisti, hanno variamente alimentato, nel corso degli anni, sia la ripubblicazione di alcuni suoi decisivi contributi teoretici, sia l’approfondimento e la disamina di differenti aspetti della sua opera filosofica e civile. Tuttavia, occorre anche rilevare come l’indagine concernente lo studio sistematico del pensiero martinettiano abbia sostanzial-
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Il Kant di Martinetti
mente proceduto in modo complessivamente alterno e alquanto discontinuo, con differente fortuna, registrando, in tal modo, l’apparizione di una serie differenziata di contributi (alcuni dei quali indubbiamente rilevanti) i quali, tuttavia, se hanno positivamente contribuito a mantener vivo, nel corso degli anni, un interesse specifico per il suo pensiero, non hanno tuttavia consentito di ripensare in modo sufficientemente analitico, articolato e
debitamente unitario e compiuto i molteplici, innovativi e complessi aspetti delle movenze più intrinseche e riposte della ricerca filosofica martinettiana più rigorosa ed eminentemente teoretica. Conseguentemente, pur a distanza dei tanti anni che ci separano dalla scomparsa di Martinetti (22 marzo del 1943), lo studio del pensiero di questo filosofo canavesano offre ancor oggi molteplici interrogativi aperti e anche taluni ambiti assai problematici che devono essere ancora considerati col dovuto impegno critico e storiografico, onde essere debitamente scandagliati per poter meglio intendere non solo le sorgenti più vitali della sua originale riflessione, ma anche il preciso significato che può essere attribuito alla sua opera filosofica e alla sua stessa eventuale attualità critico-teoretica, civile e morale. Tale difficoltà storiografica si radica, del resto, nello stesso taglio dichiaratamente ed eminentemente metafisico della riflessione martinettiana, che ha contraddistinto sia tutte le sue opere, sia la sua stessa presenza nel contesto storico in cui Martinetti visse ed operò. In ultima analisi è
proprio questo aspetto dichiaratamente metafisico del pensiero del filosofo canavesano che, de facto, ha sostanzialmente impedito allo stesso Gevmo-
nat, che pure aveva eletto Martinetti, nei primi decenni del Novecento, a suo indiscusso maestro morale e civile, di approfondire seriamente quella prospettiva di studio dell’opera e di popolarizzazione della figura di questo
filosofo che pure l’epistemologo torinese, alla fine degli anni Cinquanta, come si è visto, auspicava come un suo preciso dovere civile e culturale. Ma in quegli anni proprio la sua precedente, sincera e feconda adesione alla pur breve, ma assai felice, stagione del neoilluminismo italiano, con
il suo programmatico, deciso e altrettanto radicale anti-metafisicismo, ha poi impedito a Geymonat, allievo dichiarato di Martinetti sul piano morale e civile, di approfondire lo studio analitico e critico del pensiero metafisico del filosofo canavesano. In questa peculiare prospettiva neoilluminista per Geymonat la filosofia di Martinetti appariva così senza dubbio degna di qualche studio specialistico storico-critico, ma ai suoi occhi teoretici il filosofo canavesano non poteva comunque essere poi presentato come un pensatore veramente attuale e tale, insomma, da collocarsi al cuore di un pensiero critico e filosofico quale quello che un neorazionalista critico come Geymonat, sempre più sensibile alle ragioni dello storicismo scien-
Prefazione di Fabio Minazzi
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tifico, voleva allora promuovere onde combattere apertamente ogni prospettiva metafisica e dogmatica. In tal modo, ancora una volta, la portata dichiaratamente metafisica della riflessione martinettiana hafinito per far dimenticare un pur lodevole proposito come quello geymonatiano, volto a trarre dall’ombra l’opera, il pensiero e la figura di Martinetti, un singolare metafisico neo-plotiniano curiosamente catapultato in un secolo feroce e sanguinario come il Novecento. In tal modo anche la giusta denuncia geymonatiana concernente la mancata “popolarizzazione” della figura di Martinetti non ha avuto alcun seguito concreto, effettivo ed immediato, con la conseguenza che Martinetti, con lo specifico ed indubbio carico metafisico del suo pensiero teoretico e filosofico, è stato nuovamente abbandonato, per lo più, a spiritualisti e metafisici di varia ascendenza teorica, per essere complessivamente relegato dallo stesso Geymonat nella pace discreta dei polverosi scaffali delle biblioteche storiche. Tuttavia, pur in questo clima di sostanziale abbandono dello studio diretto del pensiero teoretico di Martinetti, va però
ricordato come Geymonat non smise mai, comunque, di considerare Martinetti una figura di primaria importanza morale e civile, nonché di fonda-
mentale riferimento per la sua stessa straordinaria biografia filosofica e civile. Il che aiuta a comprendere perché Geymonat contribuì, con solerte favore, a promuovere l’importante edizione, in due volumi, degli Scritti di
metafisica e di filosofia della religione di Martinetti, curati, a metà degli anni Settanta, da un più giovane studioso pavese come Emilio Agazzi che allora collaborava anche con Geymonat. Ma anche in questo caso, malgrado questo interessamento che ha favorito lo studio storico del pensiero di Martinetti, l’epistemologo torinese non si impegnò tuttavia mai in prima persona a promuovere direttamente lo studio e la diffusione di un pensiero teoretico come quello martinettiano che, appunto, gli si configurava come quello di un autore spiritualista non cattolico neo-plotiniano dichiaratamente metafisico, da cui, inevitabilmente, lo allontanavano molteplici istanze critiche e teoriche. In questo quadro va comunque riconosciuto come questa effettiva lontananza teoretica non abbia tuttavia mai impedito a Geymonat di riconoscere sempre e apertamente il suo profondo debito morale, filosofico e civile alla stessa figura di Martinetti che, non a caso, volle emblematicamente richiamare, in modo esplicito e, appunto, programmatico, proprio nella sua sintetica biografia che compare nel risvolto di copertina della sua opera maggiore, più diffusa e di largo respiro. Se infatti ci si riferisce alla fortunata e impegnativa Storia del pensiero filosofico e scientifico di Geymonat, apparsa presso Garzanti in sei volumi, nel corso degli anni 1970-76, si vede chiaramente come l’epistemologo
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Il Kant di Martinetti
torinese non abbia affatto richiamato l’opera di Giuseppe Peano, Federigo Enriques, Guido Fubini, Annibale Pastore, Erminio Juvalta, Moritz Schlick o Friedrich Waismann, con cui pure ha avuto una larga frequentazione durante la sua formazione filosofico-scientifica, ma abbia invece voluto senz'altro richiamare, strategicamente, proprio il «metodo di libere discussioni assimilato dalla lunga dimestichezza con Piero Martinetti». Il che ha costituito, indubbiamente, un omaggio davvero emblematico poiché Geymonat ha così voluto inserire la sua stessa incredibile attività di promozione di un nuovo e agguerrito gruppo di studio di giovani filosofi (specificatamente dediti soprattutto alla disamina della logica matematica, della filosofia della scienza e della storia della scienza), sotto l’egida filosofica esplicita del suo stesso originario imprinting filosofico, assimilato appunto tramite la sua assidua, diretta e feconda frequentazione delle «libere discussioni» socratiche praticate e condivise con un filosofo dichiaratamente metafisico come Martinetti. Il che non può non apparire singolare perché un epistemologo come Geymonat avvertiva il dovere di ricordare come la sua stessa formazione filosofica più significativa si fosse svolta a contatto diretto con un pensatore metafisico come Martinetti che con lui aveva condiviso, negli anni del fascismo trionfante, la pratica delle libere discussioni filosofiche di ascendenza socratica. Ma per scandagliare adeguatamente questo curioso paradosso — appunto quello di un filosofo della scienza dichiaratamente razionalista critico che, a distanza di tanti decenni, ricorda, programmaticamente, come il suo stesso metodo filosofico si sia forgiato alla scuola martinettiana delle “libere discussioni” ispirate dal filosofo canavesano — occorre ora prendere in più diretta considerazione proprio la metafisica di Martinetti. Secondo Martinetti «lo stesso movente che sospinge l’uomo all’acquisizione delle conoscenze singole crea l’irresistibile tendenza di ogni intelletto umano ad organizzare il complesso delle sue conoscenze in un’intuizione propria del mondo, a concepire il complesso dell’esistenza secondo
certi principii e ad orientare su di essi la propria vita». Così scrive Piero Martinetti nella sua opera prima del 1904, l’impegnativa, preclara e concettualmente densa Introduzione alla metafisica il cui primo volume (l’unico apparso) è consacrato alla teoria della conoscenza. Martinetti, sposando assai creativamente e peraltro in modo altrettanto libero, talune considerazioni largamente presenti e circolanti nella riflessione di diffe-
renti filosofi (come, per esempio, Friedrich Paulsen, Joseph-Ernst Renan, Wilhelm Maximilian Wundt e Wilhelm Windelband), sostiene apertamente che «gli uomini [...] sono più metafisici di quello che pensino: soltanto sono tali senza saperlo». Pertanto, sempre secondo Martinetti, effettiva-
Prefazione di Fabio Minazzi
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mente «ogni individuo ha la sua filosofia», anche se nella maggioranza degli uomini questa concezione filosofica del mondo e della vita «rimane una produzione spontanea, quasi inconscia, in balìa del caso e delle circostanze esteriori». Di contro solo nel filosofo la consapevolezza critica del pensiero si trasforma, più o sistematicamente, a seconda dei differenti casi filosofici, in una «produzione riflessa, approfondita, rigorosamente unificata». Meglio ancora: per Martinetti, come ancora si legge sempre nell’Introduzione alla metafisica, quando «il pensiero imprime all’insieme delle conoscenze individuali un’unità rigorosa e logica sottoponendo a severo controllo i dati della sua esperienza e coordinandoli in un sistema di proposizioni astratte, allora abbiamo una filosofia nello stretto senso della parola, ossia una metafisica». Conseguentemente in Martinetti la difesa della filosofia coincide sempre con la difesa della metafisica, proprio perché a suo avviso filosofia e metafisica, in realtà, coincidono e formano un tutt'uno. Di fronte alle diverse tendenze filosofiche della fine dell’Ottocento e del primo Novecento — vuoi di ascendenza positivista, vuoi di ispirazione criticista, volte, complessivamente, a contestare, più o meno radicalmente,
le ragioni della possibilità teoretica della metafisica — Martinetti si trova pertanto in una posizione affatto singolare e assai impervia: appunto quella di chi difende a spada tratta le ragioni, le funzioni e la vitalità intrinseca del pensiero metafisico. In questa prospettiva se poi il Novecento ha voluto essere decisamente anti-metafisico — perlomeno in alcune sue eminenti correnti di pensiero (come, per esempio, il neopositivismo di ascendenza empirista e un certo esistenzialismo ateo) —, allora Martinetti si configura senz'altro come un filosofo affatto contrario al Geistzeit programmaticamente anti-metafisico del suo tempo, appunto come un pensatore metafisico coscientemente inattuale e, comunque, del tutto estraneo alle differenti, e assai volubili, mode del giorno. Ma proprio in questa sua scelta, dichiaratamente metafisica, si radica anche (per uno di quei curiosi paradossi che, in verità, fecondano spesso e volentieri la non lineare storia del pensiero umano) la posizione più agevole e felice non solo per praticare una sincera apertura di pensiero, ma anche per scorgere le più sottili e riposte inquietudini metafisiche che, spesso e volentieri, sfuggono ai più. Su questi due differenti piani di analisi
occorre pertanto soffermare ora, preliminarmente, la nostra attenzione. Non a caso, con riferimento al primo livello di analisi, Martinetti soleva ripetere ai suoi interlocutori, che per ogni pensatore la propria filosofia era associabile alla propria «fidanzata» che, tendenzialmente, nessuno è disposto a condividere con altri 0 a cedere ad altri. Orbene, quest’assolutezza del rapporto con la propria filosofia costituisce in Martinetti la pre-
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Il Kant di Martinetti
messa per il miglior ascolto dell’altrui punto di vista: ciascuno possiede la propria filosofia è allora inutile cercare di fagocitare al nostro punto di vista le diverse e conflittuali prospettive difese dai vari interlocutori. Semmai occorre invece incrementare un diverso abito culturale di ascolto, di accoglienza, di tolleranza e di apertura critica tra i più differenti e possibili approcci teorici. Niente di più alieno alla posizione filosofica martinettiana di quello stile filosofico, oggi purtroppo così diffuso e fagocitante (soprattutto presso i filosofi alla moda che oggi dominano i vari “festival” della filosofia), per il quale ilfilosofo si pensa e si presenta come la stessa Filosofia che parla. Come già avvertiva Immanuel Kant nella sua Prefazione ai Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza, «ben considerato, questo richiamo al buon senso non è
che un appello al giudizio della folla: il cui plauso fa arrossire il filosofo, gonfia e insuperbisce il ciarlatano». Non a caso spesso e volentieri questi filosofi alla moda sono quasi tutti tendenzialmente autoreferenziali: non sanno quasi mai ascoltare l’altrui pensiero e presentano, invariabilmente, i propri nobili parti come se fosse la stessa Filosofia, per antonomasia, a parlare per loro tramite. Conseguentemente questi filosofi alla moda,
pensandosi, con estrema modestia, come la Filosofia che parla, sono tendenzialmente intolleranti dell’altrui punto di vista ed evitano, sistematica-
mente, ogni possibile libero confronto critico. Al contrario di Martinetti il quale, invece, non ritenendosi mai il depositario della verità filosofica, nel
corso di tutta la sua vita ha sempre amato circondarsi soprattutto di vari e differenti collaboratori che approfondivano, assai liberamente, differenti programmi di ricerca e varie prospettive teoretiche. Come del resto ben documentano ancor oggi le differenti annate della «Rivista di filosofia» da lui diretta ed ispirata negli anni bui del «nefasto e sciagurato ventennio» (Umberto Terracini) della dittatura fascista. Non è così affatto un caso che nel 1931 il fascismo trovò proprio in Piero Martinetti l’unico filosofo universitario che ebbe la capacità di opporsi, senza alcun vile compromesso, al giuramento di fedeltà alla dittatura imposto ai docenti universitari. Dato da non mai trascurare, poiché Martinetti si oppose a questo giuramento praticando la virtù della resistenza ritrovandosi in una compagnia assai esigua: con altri undici colleghi, appartenenti ad altre discipline, a fronte di circa mille e duecento professori allora in servizio in tutti gli atenei italiani che si piegarono, invece, alla volontà fascista. Ma se non si rimuovono tutte le numerose infamie com-
piute dal fascismo anche contro la migliore intellettualità italiana, non si deve neppure dimenticare che nel 1926 la polizia fascista giunse addirittura ad interrompere, con la forza, a Milano, i lavori del Congresso Nazio-
Prefazione di Fabio Minazzi
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nale di Filosofia, allora presieduto ed organizzato da Martinetti. In questa occasione Martinetti fu sottoposto ai più insolenti e ingiuriosi attacchi, anche da parte di pensatori fascisti eminenti come, per esempio, Giovanni Gentile, attacchi che, tuttavia, non piegarono affatto la tempra morale e civile del filosofo canavesano il quale, non a caso, dedicò poi i successivi anni del suo insegnamento universitario proprio all’aperta e sistematica difesa ed approfondimento del tema della libertà, intrecciandolo con lo studio del pensiero di Kant, il che lo indusse, infine, a pubblicare, nel 1928, la sua preclara e limpida monografia, espressamente consacrata ad una originale disamina metafisica sistematica de La libertà. Non per nulla fu del resto sempre Martinetti, nel preciso contesto del simposio milanese del 1926 e della sua violenta soppressione, auspicata e voluta da fascisti e cattolici, a rivendicare apertamente, sempre in nome della libertà, di non voler farsi «esecutore» di alcun «decreto di scomunica», essendo lui stesso
un «filosofo», ovvero un «cittadino di un mondo nel quale non vi sono né persecuzioni né scomuniche». . Da questi due soli episodi è allora agevole poter constatare come proprio un pensatore metafisico come Martinetti, che pure col suo pensiero si proiettava sistematicamente in una dimensione programmaticamente atemporale e sovra-storica, abbia poi saputo muoversi nel miglior modo filosofico e civile entro il contesto del suo preciso tempo storico. Se i filosofi contemporanei di Martinetti costituivano turbe di storicisti, più 0 meno dichiarati, o di spiritualisti ed idealisti che volentieri discettavano 0 sproloquiavano di storia e di apertura alla storia, è allora singolare dover registrare il curioso dato storico che solo un filosofo metafisico come il pensatore canavesano sia stato poi in grado di cogliere il preciso Kairòs della propria epoca storica, testimoniando, in modo universale, le ragioni della stessa filosofia. Con la conseguenza che Martinetti è stato, appunto, l’unico filosofo accademico a saper difendere, in quel preciso contesto storico degli anni Trenta, le ragioni e la vitalità teoretiche e civili della stessa filosofia. Insomma: il «filosofo con la pistola» in quel preciso e arduo contesto storico è stato anche, filosoficamente parlando, l’unico autentico filosofo che, come Socrate, ha saputo ergersi sopra le contingenze del tem-
po per richiamare e tutelare i più alti doveri del pensiero e della stessa libertà critica e filosofica. Gli innumerevoli tomi che nel corso degli anni successivi sono stati variamente scritti e pubblicati per giustificare, con dovizia di distinguo (più o meno gesuitici e più o meno capziosi, secondo il tipico nicodemismo della miglior tradizione italica retorica e controriformista) il tradimento della ragione filosofica da parte di tutti gli altri filosofi accademici non possono ancor oggi nascondere lo scandalo dei filosofi
Il Kant di Martinetti
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alla moda che, piegandosi supinamente alla dittatura, non hanno saputo difendere, in ultima analisi, la filosofia e le sue ragioni più intrinseche e storiche, come la difesa socratica del pensiero critico e della libertà della riflessione critica. Martinetti, invece, ha avuto questa capacità filosofica e per questo si erge come l’unico filosofo accademico degno, in quel preciso contesto, del nome di filosofo.
Con riferimento, invece, al secondo livello di analisi precedentemente accennato, occorre aggiungere come, ancora una volta, la posizione dichiaratamente metafisica di Martinetti gli abbia consentito di scorgere,
anche in questo caso con grande acutezza ed estrema perspicacia, la presenza della stessa metafisica proprio là dove risultava, invece, del tutto celata agli occhi dei maggiori difensori della razionalità scientifica. Secondo Martinetti lo stesso pensiero scientifico riposa infatti sempre su precisi e fondamentali presupposti metafisici. Martinetti riconosce assai volentieri che «certo l’ignoranza voluta del maggior numero degli scienziati circa i fondamenti metafisici del loro pensiero poco o nulla detrae alla loro opera scientifica». Proprio perché è sempre «possibile seguire con la maggior finezza una serie di nessi causali senza avere nessuna nozione precisa di
ciò che si intende per causa: è possibile divinare genialmente le leggi più recondite senza nemmeno sospettare il grave problema del rapporto tra i fatti e le leggi. Ma ciò che assolutamente si richiede — prosegue Martinetti sempre nell’Introduzione alla metafisica — è l’attribuzione d’un valore qualsiasi a questi concetti nel loro rapporto con la realtà; tolto il quale, è tolto alla ricerca scientifica ogni significato ed ogni interesse. Gli scien-
ziati antimetafisici sono perciò in una grande illusione quando credono di essere assolutamente puri da ogni metafisica: essi respingono semplicemente la metafisica riflessa per rimanere nell’imprecisione della metafisica volgare. Onde infine questo pretendere di sottrarre questi concetti all’indagine filosofica, questo continuare ad assumere nel loro valore tradizionale come assolutamente certi e reali dei rapporti che non sono se non elementi esplicativi ipotetici, con cui l'intelletto volgare comprende l’esperienza, viene ad essere opera altamente antiscientifica: il vero rigore scientifico è in questo caso non dalla parte dello scienziato, ma del metafisico». Con il che siamo allora nuovamente di fronte perlomeno ad un duplice ed assai singolare paradosso storico. Infatti, in primo luogo, proprio un autore dichiaratamente metafisico come Martinetti, che ha sempre affermato di disinteressarsi ampiamente e sistematicamente della storia e dei suoi molteplici, vari e contingenti condizionamenti, è stato però l’unico filosofo effettivamente in grado in inserirsi, con decisione e in modo assai limpido,
nel suo preciso contesto storico, appunto quello del giuramento imposto
Prefazione di Fabio Minazzi
IS
dal fascismo ai docenti universitari. E in questo preciso contesto storico Martinetti è stato così l’unico filosofo universitario ad avere avuto la capacità critica, morale e culturale non solo di opporsi al diktat fascista, ma anche di rivendicare, claris verbis, le prerogative più vitali e profonde della stessa pratica filosofica: appunto quella della libertà, sempre insofferente di ogni vincolo, tanto più di quelli imposti dalla dittatura alla libera ricerca intellettuale. In secondo luogo, il che non è poi meno paradossale, spetta proprio ad un metafisico spiritualista non cattolico plotiniano come Martinetti aver saputo cogliere e scorgere i molteplici condizionamenti metafisici impliciti, presenti ed operanti entro le pieghe dello stesso pensiero scientifico. Con la curiosa conseguenza che, allora, anche sul piano specifico
della stessa disamina epistemologica del pensiero scientifico, come scrive Martinetti, il «vero rigore scientifico», non si colloca certamente nella casa dello scienziato, ma, appunto, proprio in quella del metafisico... Il metafisico sa insomma scorgere nelle pieghe del discorso scientifico quello che, invece, sfugge, sistematicamente,
allo scienziato militante.
Quest'ultimo
aborre dichiaratamente dalla metafisica, ma poi, nel suo lavoro quotidiano, finisce proprio per esserne, inconsapevolmente, schiavo. Con l’aggravante che proprio perché lo scienziato non si cura affatto del pensiero metafisico riflesso, finisce, spesso e volentieri, per essere succube acritico di una pessima metafisica irriflessa, accettata del tutto dogmaticamente entro la struttura del suo stesso discorso scientifico più rigoroso. Il che ci permette inoltre di accostare questo perspicace rilievo martinettiano ad un analogo ed altrettanto acuto rilievo che, in pieno Otto-
cento, un pensatore come Friedrich Engels svolgeva nella sua incompiuta e postuma Dialettica della natura, /à dove l’amico sodale di Karl Marx
rileva con precisione che «gli scienziati credono di liberarsi dalla filosofia ignorandola o insultandola. Ma poiché senza pensiero non vanno avanti e per pensare hanno bisogno di determinazioni di pensiero e accolgono però queste categorie, senza accorgersene, dal senso comune delle cosi dette persone colte dominato dai residui di una filosofia da gran tempo tramontata, 0 da quel po’di filosofia che hanno ascoltato obbligatoriamente all’Università (che è non solo frammentaria, ma un miscuglio delle concezioni di persone appartenenti alle più diverse, e spesso peggiori, scuole), 0 dalla lettura acritica e asistematica di scritti filosofici di ogni specie, non sono affatto meno schiavi della filosofia, ma lo sono il più delle volte purtroppo della peggiore; e quelli che insultano di più la filosofia sono schiavi proprio dei peggiori residui volgarizzati della peggiore filosofia. ..». Certamente con questo rilievo Engels bollava criticamente tutte le intemperanze dogmatiche, dichiaratamente e programmaticamente anti-filosofiche, di un
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Il Kant di Martinetti
positivismo radicale, rozzamente antimetafisico, ma è parimenti indubbio come i rilievi di Engels e di Martinetti riescano a scorgere la presenza di presupposti metafisici acritici presenti ed operanti entro il discorso scientifico. La scienza, lungi dal presentarsi come il dominio incontrastato del rigore critico più radicale, può così trasformarsi nell’ultimo rifugio di una metafisica irriflessa che opera entro il tessuto connettivo dell’impresa scientifica condizionando gli scienziati inconsapevoli della sua presenza e del suo stesso ruolo. Il che apre, di necessità, lo scenario ad una ben diversa analisi critica dello stesso discorso scientifico. Questa singolare e invero curiosa sintonia tra il rilievo martinettiano e quello engelsiano merita del resto di essere segnalata anche in riferimento allo stesso complessivo disinteresse analitico di Geymonat per lo studio della filosofia metafisica di Martinetti precedentemente ricordato. In verità, come si evince proprio da questo rilievo, lo studio del pensiero di Martinetti avrebbe invece potuto presentare spunti non meno interessanti e fecondi anche per avviare, in modo la più Ma corre
decisamente innovativo, un’originale disamina critica concernente sofisticata riflessione epistemologica. per tornare ora più specificatamente al pensiero martinettiano, 0crilevare come la sua riflessione squisitamente metafisica si sia sem-
pre alimentata alla luce del suo confronto diretto, continuo e assai singolare con l’analisi del pensiero filosofico di un classico del pensiero come Immanuel Kant. Nel 1968 Mario Dal Pra, nel ripresentare la sua nuova e assai preziosa riedizione della celebre monografia martinettiana espressamente consacrata al pensatore di Kònigsberg (originariamente scaturita dai corsi universitari milanesi degli anni accademici 1924-25, 1925-26 e 1926-27), ebbe modo di sottolineare la configurazione affatto specifica che può essere attribuita alla lettura di Kant delineata da Martinetti nel quadro della più ampia storiografia kantiana. Ricordando il ruolo svolto dall’interpretazione dell’opera di Kant a suo tempo delineata da Paul-
sen nel 1898 (nella sua monografia Immanuel Kant: sein Leben und seine Lehre), Dal Pra avverte come anche «l’interpretazione martinettiana di Kant accentua il significato metafisico della filosofia critica kantiana ed, in particolare, il significato religioso della stessa prospettiva metafisica; ciò in conformità con l’indirizzo d’una metafisica platonica d’ispirazione religiosa che costituisce ilfondo del pensiero di Martinetti». Pertanto anche
nella lettura di Martinetti la Dialettica trascendentale, lungi dall’apparire come la mera negazione critica della possibilità del pensiero metafisico, si configura, invece, come la critica della tradizionale metafisica scolastica che apre, al contempo, la prospettiva di una rinnovata concezione metafisica. Per Martinetti, come appunto si legge nel suo Kant, «la dialettica
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per Kant non è solo la sofistica della ragione, ma anche quella parte della critica nella quale si mette in luce il carattere sofistico dei procedimenti della ragione, quando essa devia dal suo compito dietro il miraggio di un vano sapere. La Dialettica trascendentale è /a parte più lunga della Critica (382 pagine sopra 769 complessive), la più chiara, la più geniale, la più interessante per i profondi problemi che ne sono l’oggetto». Certamente anche per Martinetti, come per molti altri interpreti che hanno sviluppato un ben differente approccio critico all’opera kantiana, occorre saper superare le molteplici sclerosi del sistema kantiano, nonché l’ordine sistematico della cattedrale kantiana che, spesso e volentieri, finisce, sistematicamente, per fagocitare o oscurare nella loro vera luce i problemi più autentici sviluppati da Kant. Ma per Martinetti occorre saper superare le sclerosi del sistema kantiano proprio per riuscire a recuperare quella profonda religiosità filosofica che, a suo avviso, costituisce il cuore più vero ed intimo della riflessione kantiana. Kant allora sarebbe un metafisico? Si, certamente, risponde con decisione Martinetti, purché si parli di un «metafisico trascendentale». Se la prospettiva neokantiana (dalla scuola di Marburg a Cassirer) ha sempre cercato di liberare il kantismo dai suoi stessi contenuti metafisici, onde accentuare la funzione apriorica formale delle forme costitutive di ogni esperienza possibile, al contrario la lettura martinettiana rimette invece al centro del criticismo kantiano proprio una metafisica critica tale da segnare l’avvento, conscio e definitivo, di una religiosità filosofica radicata nella ragione quale simbolo dell’assoluto. In questa specifica prospettiva ermeneutica, si legge ancora nel Kant di Martinetti, «le categorie non sono solo strumento dell’esperienza; sono in sé espressioni puramente formali dell’intellegibile, che ci indirizzano verso di esso, ma non ce lo fanno conoscere che attraverso una veste empirica. Nello stesso tempo costruiscono l’esperienza, rendono possibile un mondo oggettivo, che è anch’esso strumento dell’unità dello spirito». In questa peculiare chiave interpretativa la Dialettica trascendentale non può allora più essere letta in chiave eminentemente negativa, appunto quale drastica negazione assoluta della possibilità stessa della metafisica, perché occorre semmai ribaltare il nostro punto di vista per inoltrarsi nel campo di una nuova e positiva metafisica critica in grado intendere la stessa Ding an sich, i! noumeno, non già come un concetto meramente negativo, bensì come la delineazione di simboli che risultano essere correlativi e funzionali all’intrinseca nostra debolezza ontologica. Pertanto, sempre in questa specifica chiave ermeneutica, il noumeno può essere considerato un presentimento dell’assoluto correlativo alla nostra condizione umana. Per il Kant di Martinetti «non
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si può invero dire che il concetto del noumeno sia puramente negativo: una pura negazione sarebbe l’ignorare questo concetto e il porre esplicitamente 0 non, il mondo fenomenico come solo esistente. Non è dunque una pura negazione l’atto per cui apprendiamo; non è un atto che elimini da sé ogni traccia d'una qualche affermazione positiva: è un atto che negando il carattere assoluto della realtà sensibile pone qualche cosa d’altro, il noumeno. La forma negativa dell’espressione cela un contenuto positivo». Proprio questo contenuto positivo dell’assoluto diventa il filo rosso della lettura kantiana dipanata da Martinetti, alla luce del quale le stesse forme categoriali del criticismo kantiano si configurano come elementi formali che sospingono verso la dimensione noumenale. Lungi dall’essere meri principi formali che ci confinano nell’ambito della realtà fenomenica, le categorie formali si trasformano in un simbolo adeguato alla nostra debolezza umana per il cui tramite la realtà fenomenica manifesta l’assoluto. Anche per Martinetti è naturalmente bandita ogni pretesa di poter “umanizzare” l’assoluto, tuttavia a suo avviso, si legge ancora nel Kant, «questo medesimo principio formale è quello che ci sospinge verso l’unità noumenica. Ma noi dobbiamo andare verso di essa, non come verso la causa delle rappresentazioni (grossolana figurazione della relatività del mondo empirico), ma perché questo è un sistema di rapporti secondo principî che ne esigono l’unità assoluta. Quindi sono ancora le categorie che, come Kant mostra benissimo nella Dialettica, ci spingono verso l’unità intelligibile e ce la fanno in un certo modo conoscere. La conoscenza è anche qui la conoscenza di un'unità formale; e cioè simbolica ed impropria. Ma con questo di più, che le categorie qui perdono il loro senso. Esse sono unità tra i fenomeni, e sono inadeguate ad esprimere l’unità dei fenomeni, per es., il concetto della causa assoluta. Perciò qui la conoscenza simbolica non ha più alcun corrispondente oggettivo; in questo senso si può dire che la categoria qui non ha più alcun valore. Ma essa conserva il suo valore come designazione simbolica dell’intelligibile, non in quanto ci dia una conoscenza vera e propria nel senso del conoscere oggettivo, ma nel senso che è per noi la direzione verso cui deve progredire, l’aspetto soggettivo rivolto a noi d’una realtà che in sé non è tale, ma che da noi può e deve
essere così concepita. Nel che senza dubbio si rivela l’esigenza pratica (in senso lato) del conoscere, da Kant accentuata». Sulla base di questa im-
postazione Martinetti rettifica pertanto la tradizionale lettura meramente negativa della Dialettica trascendentale kantiana e rileva come
le cate-
gorie nel loro uso immanente svolgono senza dubbio una funzione quali strumenti della conoscenza oggettiva, rendendo possibile la delineazione non solo della realtà oggettiva, ma anche della vita morale, mentre nel loro
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uso trascendente «perdono questo compito oggettivo, ma conservano, anzi accentuano, la funzione metafisica pur essendo sempre solo unità formali. [...] Il noumeno è quindi una realtà positiva ed è possibile una certa conoscenza (simbolica) dello stesso».
Di fronte a questa interpretazione dispiegata nel Kant di Martinetti possono naturalmente porsi alcune domande: ma come è mai possibile conoscere l’assoluto? Come può una realtà finita, contingente, empirica, come l’uomo, necessariamente circoscritta all’ambito delle esperienza possibile, rispondere all’esigenza dell’assoluto che pure alberga in seno al suo animo? «Qui — risponde sempre Martinetti nel suo Kant — sta la radice di tutte le contraddizioni teoretiche e pratiche che ci sospingono oltre, attraverso la critica, verso una verità più profonda. Riconosciamo allora, dice Kant, che questo assoluto è, almeno potenzialmente, in noi; e che ogni realtà finita e concreta, in cui volta per volta lo incarniamo, non è che un compromesso, un grado di un’ascensione senza fine. Ciascuna di queste realtà porta in sé, nelle sue leggi formali, il segno dell’assoluto; esse esprimono in certo modo il suo dover essere e ne mettono perciò anche, nello
stesso tempo, in luce l’insufficienza». In tal modo persino nel conoscere finito e circoscritto dell’uomo si riverberebbe sempre l’assoluto. L’errore, semmai, consiste nel voler trasformare le molteplici realtà umane, sempre finite, relative e circoscritte, in espressioni dirette dell’assoluto, in manifestazioni in grado di fissare, una volta per tutte, l'assoluto. Qui si radica per Martinetti l'autentica contraddizione, perché, al contrario, queste realtà finite costituiscono, invece, un presentimento che ci sospinge continuamente oltre il loro stesso limite. Ma se la finitudine non può mai contenere l’universalità dell’assoluto, è anche vero che in noi stessi alberga l’assoluto sotto forma dell’aspirazione a quell’universalità delle leggi universali che non provengono mai dall’esterno, ma scaturiscono, appunto, da un assoluto che è in noi stessi. Per questa ragione Martinetti può concludere che a suo avviso nella riflessione di Immanuel Kant «la critica segna l’avvento definitivo e conscio della religiosità filosofica, che allontana da sé definitivamente l’illusione di umanizzare l’assoluto, o almeno riconosce questi tentativi per ciò che sono: come simboli necessari alla debolezza nostra. Noi abbiamo dunque sgombrata la via, tolte le illusioni; adesso ci resta la domanda: come dobbiamo pensare questo assoluto? Esso è in noi come presentimento di una realtà che ci trascende; come dobbiamo pensarlo? Qui comincia la metafisica critica. È la ragione stessa, nella sua forma più alta, che ci rivela l’assoluto e che deve essere per noi il simbolo dell’assoluto; soprattutto la ragione, dice Kant, in quanto nella legge mo-
rale ci rivela veramente qualche cosa che è, per noi, almeno praticamente,
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un assoluto. Una metafisica, quindi, puramente umana e simbolica, ma che assolve al suo vero compito: che è di guidarci con sicurezza verso i nostri più veri e più alti destini». Questo il preciso orizzonte prospettico metafisico entro il quale si situa l'originale lettura metafisica di Kant delineata da Martinetti non solo nella sua monografia espressamente consacrata a Kant, ma anche in tutti gli altri suoi scritti kantiani, che, in differenti contesti, hanno variamente accompagnato la sua attività di studioso e di filosofo. Certamente se guardiamo complessivamente agli sviluppi analitici dell’esegesi kantiana del Novecento occorre riconoscere che la proposta neo-kantiana ha indubbiamente conseguito un maggior successo e più ampia penetrazione nella generale discussione filosofica, inducendo così a porre al centro nevralgico della lezione kantiana non tanto la Dialettica trascendentale della Critica
della ragion pura, bensì
Analitica trascendentale. Tuttavia, occorre anche
rilevare come in questa prospettiva egemone dell’esegesi kantiana abbia finito per imporsi, al contempo, anche una visione sostanzialmente “statica” del pensiero filosofico (non solo di quello kantiano, ma, appunto, delle stesse forme della pensabilità filosofica). Tant'è vero che anche quando si è cercato di riaprire una diversa riflessione critica concernente la metafisica kantiana è stata proprio quest'impostazione “statica” che si è riproposta come egemonica, esercitando un dominio pressoché incontrastato (forse anche percepito come “incontestabile”'). In conflitto aperto con questa prospettiva ermeneutica “statica”, la proposta martinettiana si contraddistingue,
invece, proprio per aver anche
difeso una riflessione problematica essenzialmente “dinamica”, mostrandosi alquanto propensa ad aprirsi, consapevolmente, ad un problematicismo critico e trascendente. Del resto la stessa riflessione “trascendente” di Martinetti lo induceva in modo del tutto naturale e fisiologico a sposare costantemente una prospettiva problematica e dinamica che, appunto, contraddistingue la sua interpretazione metafisica di Kant come anche il suo stesso autonomo pensiero metafisico. Mario Dal Pra, presentando, sempre nel 1968, la monografia martinettiana su Kant, ha giustamente osservato che «non vi è dubbio che questa interpretazione “metafisica” o
religiosa (di una religiosità laica) del pensiero kantiano, la quale in Italia ha avuto in Martinetti il suo geniale assertore, occupa un posto preciso e rilevante nella storia dell’esegesi kantiana; il suo significato è sostanzialmente costituito dalla utilizzazione del criticismo ai fini da un lato di una comprensione problematica e sospensiva (quindi contestuale ed evolutiva) dei vari aspetti e momenti finiti della realtà e della cultura, dall’altro al fine di una ferma fiducia nel senso positivo e non scettico di tale ricerca
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razionale dell’unità». Il che poi risulta essere in profonda e sostanziale sintonia anche con la specifica proposta filosofica martinettiana che, non a caso, ha scorto nell’ascesi continua del pensiero, uno dei motivi dominanti della sua stessa spiritualità metafisica e religiosa. Né andrebbe peraltro dimenticato come, sul piano strettamente storiografico, questa singolare lettura del criticismo kantiano si ricolleghi e trovi un suo autorevole e prezioso antecedente storico e teorico nell’opera del matematico e filosofo kantiano Johann Schultz. Come è noto con le sue Erlàuterungen iber des Herrn Professor Kant Kritik, der reinen Vernunft (1784) Schultz ha indubbiamente contribuito alla diffusione del criticismo, mostrando i vantaggi della nuova filosofia kantiana che, lungi dall’aver distrutto la metafisica, a suo avviso aveva invece delineato la felice possibilità di costruire una nuova metafisica critica radicata nella riflessione morale, secondo una prospettiva che implicava vantaggi non trascurabili anche per l’affermazione della stessa religione (da non dimenticare che Schultz, oltre che ordinario
di matematica, era stato anche pastore a Lòwenhagen, nei pressi di Kònigsberg, per poi diventare, più tardi, Predicatore di Corte). Questa in-
terpretazione trovò poi un suo coronamento finale, significativamente apprezzato dallo stesso Kant, nella Prifung der kantischen Kritich der reinen
Vernunft di Schultz (apparsa sempre a Kònigsberg nel 1789-92) in cui la nuova metafisica fondata su idee morali delineata da Kant è illustrata sia confrontandosi analiticamente con l’Einleitung alla Critica della ragion pura kantiana, sia discutendo dettagliatamente
l’Estetica trascendentale,
contrastando apertamente l’interpretazione delineata da Johann August Eberhard che, come è noto, sostenne poi una celebre polemica diretta con
Kant. Se secondo Eberhard il criticismo kantiano rappresentava senz'altro
«un documento assai curioso per la storia delle aberrazioni dello spirito umano», di contro per Schultz la novità della metafisica critica inaugurata dal criticismo kantiano apriva, invece, una nuova e felice epoca metafisicamente costruttiva, sia per la metafisica, sia per la religione. Questa lettura della Critica fu apertamente approvata ed elogiata da Kant che già nella sua lettera del 26 agosto 1783 indirizzata a Schultz scrive come per lui costituisca «un piacere straordinario vedere che un uomo così acuto come Vs. Sig. Rev. ma ha posto mano alla mia opera; ma specialmente piacere mi fanno l’università sinottica con cui Ella ha saputo estrarre da ogni parte l’aspetto più importane ed utile nonché l’esattezza con cui ha saputo cogliere il mio pensiero. Cosa, quest’ultima, che mi conforta in modo speciale, dopo aver patito l'umiliazione di non essere stato capito
quasi da nessuno, e che allontana in me il timore di possedere pochissimo il dono di farmi capire, forse di non possederlo affatto quando si tratta di
DI
Il Kant di Martinetti
un argomento così difficile, e di aver fatto tutto questo lavoro invano. Si è trovato ora un uomo di grande merito, il quale dimostra che io posso essere capito e dà un esempio di come i miei studi non siano del tutto indegni di essere meditati allo scopo di comprenderli; solo così si potrà giudicare il loro valore o disvalore. Spero pertanto nella realizzazione del mio voto: che il problema della metafisica, da lungo tempo negletto, sia preso in esame daccapo e risolto». Kant mostrò dunque di approvare e concordare proprio con l’esegesi della sua filosofia critica delineata da Schultz, avallando, in tal modo, una prospettiva ermeneutica che non ha invece suscitato molto gran
credito entro la storia complessiva e successiva dell’esegesi del criticismo. Martinetti si ricollega invece proprio a questa lettura che pone al centro del criticismo una metafisica critica in grado di rinnovare la possibilità di un discorso squisitamente metafisico e religioso. Muovendosi dichiaratamente nell’ambito peculiare di questa specifica e pur minoritaria esegesi “metafisica” e “religiosa” del criticismo kantiano l’opera di Brigida Bonghi che qui si presenta ha, in primo luogo, il merito di sottolineare e rivendicare, con ampia forza analitica, alla lettura della
filosofia di Kant delineata da Martinetti il posto che le spetta nel quadro complessivo della storia europea ed internazionale del kantismo e della sua diffusione filosofica. Il merito precipuo della disamina posta in essere da Brigida Bonghi può essere ravvisato, in prima istanza, nell’analiticità rigorosa con cui la presenza specifica del kantismo nell’opera martinettiana viene da lei indagata, nelle sue stesse fonti storiografiche originali, in tutti i suoi aspetti più rilevanti, qualificanti e anche in quelli più reconditi e meno immediati. In questo modo il Kant di Martinetti emerge veramente in tutta la sua originalità e in tutta la sua specificità esegetica, come una del-
le più significative interpretazioni religiose e metafisiche del pensiero del filosofo di Konigsberg. L'indagine della Bonghi considera in primo luogo
l’edizione martinettiana dei Prolegomeni kantiani (apparsi nel 1913) per poi approfondire, in particolare, la difesa martinettiana della forma pura della moralità quale «arma della metafisica segreta di Kant». La considerazione della celebre Antologia kantiana predisposta da Martinetti in occasione del bicentenario della nascita di Kant e la considerazione dei grandi corsi milanesi consacrati dal filosofo canavesano alla vita e al pensiero di Kant, concludono una disamina critica che in tal modo riesce a ricostruire le precise movenze del razionalismo religioso martinettiano. Entro questo ampio e prospettico disegno sistematico è conseguentemente
attribuito e rivendicato dalla Bonghi a Martinetti il posto specifico che, sicuramente, gli spetta nel contesto dell’esegesi kantiana internazionale. Dopo questo scavo analitico posto in essere dalla Bonghi non sarà infatti
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più lecito ignorare Martinetti quale eminente ed originale interprete metafisico di Kant. Inoltre, in secondo luogo, questo scandaglio critico minuzioso e paziente del sistematico confronto posto in essere da Martinetti con l’opera e il pensiero di Kant, consente anche di delineare una nuova e feconda chiave interpretativa per meglio intendere lo stesso autonomo percorso filosofico e metafisico di Martinetti. Studiando il Kant di Martinetti, infatti, si consegue al contempo una chiave preziosa e privilegiata per meglio introdursi nello stesso percorso metafisico costruttivo che il pensatore canavesano ha variamente dipanato nel corso della sua autonoma ricerca filosofica. Certamente questo secondo motivo rimane necessariamente più sullo sfondo della principale disamina della Bonghi, volta appunto ad indagare sistematicamente tutte le movenze più riposte ed esplicite del confronto con il pensiero di Kant posto in essere da Martinetti nel corso della sua attività. Tuttavia, al lettore più avvertito non sfuggirà neppure come il filo rosso del kantismo martinettiano delineato analiticamente dalla Bonghi offra anche la possibilità di meglio comprendere la stessa autonoma riflessione filosofica delineata, in proprio, da Martinetti. Secondo la Bonghi tre aspetti qualificano, del resto, tutti i contributi kantiani di Martinetti: «l’origine ex principiis della filosofia», «la radicalizzazione della metafisica critica kantiana, in una concezione che estende il trascendentale al trascendente» e, last but not least, «la ragione, come
ponte tra il trascendentalismo e il trascendente, e ciò nella sua valenza religiosa, interiore o storica che sia». Nel motivare questa sua lettura della metafisica critica kantiana valorizzata da Martinetti, la Bonghi ha inoltre avuto la capacità di cogliere come l’approccio martinettiano finisca anche per valorizzare pienamente l’apriorismo di ascendenza leibniziana. Il che, sia detto per inciso, finirà per rappresentare anche una caratteristica peculiare di pressoché tutto il razionalismo critico che si svilupperà nella scuola di Milano a partire dalla lezione di Antonio Banfi fino a quella di un pensatore originale come Giulio Preti. Questa sorta di ascendenza leibniziana è appunto forgiata da Martinetti, cui non sfugge affatto come in Kant alla ragione venga attribuita una funzione di conversione e integrazione qualitativa del reale empirico che si salda poi con la possibilità di interpretare l’apriori stesso quale virtualità critica che non possiede mai nel suo seno la possibilità della conoscenza oggettiva. Per conseguire tale oggettività della conoscenza la virtualità dell’apriori deve infatti sempre integrarsi criticamente con la dimensione empirica, sapendo appunto trasvalutarla criticamente su di un piano di superiore oggettività che ne subisce, tuttavia, tutti i vincoli sperimentali.
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Ma proprio entro questa peculiare chiave prospettica di ascendenza leibniziana, ricorda ancora la Bonghi, la «lettura martinettiana di Kant si fonda appunto sull’idea di una conoscenza trascendentale del trascendente e sulla metafisica oscuramente pensata o tacitamente riposta dal filosofo di Kònigsberg, che troverà in Martinetti un tentativo di svolgimento radicalizzato in una sorta di misticismo della ragione». In questa prospettiva ermeneutica la Bonghi ricorda pertanto come sia naturale per Martinetti — muovendosi a volte anche contro il linguaggio stesso di Kant che viene pertanto accusato dal filosofo canavesano di evidente “trascuratezza” linguistica — intendere le stesse categorie di “spazio” e di “tempo” non già come vuoti contenitori formali bensì come autentiche «virtualità dello spirito» che preesistono nell’individuo, pur non essendo mai realmente scindibili dall’esperienza sensibile concreta ed effettiva. Prendendo lo spunto da questo approccio critico la Bonghi illustra inoltre come Martinetti possa costruire la sua originale lettura del pensiero di Kant proprio quale «metafisica oscuramente pensata», secondo una curvatura ermeneutica che risulta essere in profonda sintonia non solo con l’accennata metafisica critica religiosa kantiana, ma con la stessa impostazione metafisica di Martinetti delineata fin dalla sua già ricordata opera prima, l’Introduzione alla metafisica. In quest’ultima si legge infatti — nelle righe finali del secondo capitolo, consacrato all’ascensione progressiva della conoscenza verso l’unità — che «è facile vedere che questo carattere [fenomenico, ndr.] della conoscenza nulla detrae al suo valore progressivo. Poiché essa non è una
pura parvenza che celi agli occhi nostri la realtà noumenica, ma è la realtà noumenica stessa in un’imperfetta manifestazione: essa non soltanto vela
agli occhi nostri la Realtà suprema, ma ne è nel tempo stesso l’espressione più alta che sia a noi accessibile, ed il progresso suo d’unità in unità ne è una rivelazione sempre meno adeguata. Se pertanto il suo termine ideale trascende la conoscenza stessa, ciò significa smplicemente che la conoscenza non è ilfine supremo dell’uomo, ma è strumento di questo fine.
Come infatti ogni conoscenza particolare ha la sua ragione non nel conoscere per se stesso, ma nella vita, nella natura che essa realizza in noi per l’immedesimazione nell’essere nostro dell’essere di ciò che è conosciuto,
così l’attività conoscitiva dell’uomo nel suo complesso non è che lo strumento della sua perfezione, il mezzo per cui egli progressivamente realizza il suo fine trascendente: l’uomo non vive per conoscere, ma conosce per elevarsi mediante la conoscenza alla vera vita; all’esistenza perfetta che
esclude la conoscenza, perché esclude l’imperfezione». L’idealismo trascendente martinettiano attribuisce pertanto un preciso ruolo alla ragione entro questa progressiva ascesa, mediante la quale l’uo-
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mo supera l’imperfezione della conoscenza, per elevarsi alla vera vita e all’esistenza perfetta. Come giustamente ricorda la Bonghi «nella filosofia martinettiana la vita stessa provoca il pensiero, piegando la riflessione dall’ambito dell’esistenza a quello della verità. È in questo processo della vita che si attua la funzione della ragione: essa supera, gradualmente, l’insistenza del molteplice e la sua determinazione finita, e le riconduce ad unità. Attraverso questa forma di neoplatonismo è la vita stessa a trascendersi per mezzo della ragione. Essa opera, in altri termini, una perenne sintesi del molteplice, attraversando lo spessore dei diversi gradi di conoscenza. Si tratta di un processo filosofico aperto e anche di un esercizio religioso. In questo senso la filosofia è essa stessa religione». In questa prospetti-
va teorica lo stesso netto e palese sbilanciamento dell’Antologia kantiana di Martinetti a favore della sezione morale-religiosa si ricollega sia alla particolare esegesi kantiana di Martinetti, sia alla stessa interpretazione metafisica del reale che Martinetti ha sempre condiviso e difeso. Sempre per questo motivo, osserva ancora in modo persuasivo la Bonghi, «si comprende come, secondo il filosofo di Castellamonte, la morale di Kant coincida con la religione ed il merito assegnato da Piero Martinetti ad Immanuel Kant si può individuare nell’idea di aver posto il centro di gravità della morale nel trascendente, senza consegnarsi ad inattendibili speculazioni trascendenti». Del resto in questo senso preciso nella monografia su Kant di Martinetti si afferma che per Kant «la morale è una metafisica oscuramente pensata» proprio perché l’attività morale possiede «un senso immanente e cioè quello di dare una forma razionale, coerente alla nostra vita: ma ha anche un altro compito che è quello di introdurci in una realtà superiore alla quale partecipiamo, pur senza essere in grado di determinarla più precisamente». Per questa ragione di fondo secondo la Bonghi «la questione se la religione corrisponda alla conoscenza oppure all'attività morale non sussiste, perlomeno secondo Martinetti, nella sua stessa ragion d’essere. La religione congiungerebbe semmai in sé tutto questo, poiché potenzierebbe nel suo cuore tutti i gradi inferiori e tutti i molteplici aspetti della vita». Questa innovativa e coerente lettura metafisica del Kant di Martinetti delineata cogentemente dalla Bonghi consente allora di comprendere, rileva persuasivamente e motivatamente l’Autrice, come la posizione del filosofo canavesano rimandi necessariamente «alla coscienza della natura trascendentale della ragione, al valore religioso dell’esistenza, conforme all’inesauribilità del rigore etico e alla forza di una estrema libertà spirituale». Il che ci riporta, nuovamente, al ruolo e alla funzione della stessa coscienza morale quale fu concepita, vissuta e praticata, nel suo preciso contesto storico, da un uomo e da un autentico filosofo come Martinetti.
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In questa prospettiva più complessiva il confronto decisivo che Martinetti ha sempre intrattenuto con l’opera kantiana ci offre anche l’opportunità per meglio intendere come Martinetti, nel suo stesso sforzo finalizzato ad approfondire con rigore storico-critico lo studio della filosofia, finisse per misurare, nel confronto analitico e sincero col pensiero altrui — in questo caso col pensiero di Kant — il suo stesso autonomo pensiero. Meglio ancora: dalle ricostruzioni dello studio del pensiero kantiano variamente delineate da Martinetti nel corso della sua vita — indagini e studi che la Bonghi in questa sua opera considera avendo sempre la capacità di far parlare, con rigore filologico e concettuale, i differenti testi martinettiani e le sue fonti, onde tracciare, poi, con altrettanta precisione i limiti e il valore specifico intrinseco della disamina posta in essere dal pensatore canavesano — si può meglio intendere il senso teoretico complessivo (e anche storico) di una autonoma proposta filosofica come quella di Martinetti. Anzi, perlomeno a mio avviso, proprio l’approfondimento critico dell’approccio metafisico e religioso martinettiano allo studio dell’opera di Kant
ci consente anche di meglio intendere tutto lo spessore della specifica forza morale e teoretica di questo singolare filosofo canavesano che, non a caso, nel preciso contesto storico della sua vita, è infine riuscito a trascendere tutte le molteplici contingenze storiche che hanno invece variamente “ingaglioffato” la riflessione dei suoi contemporanei, per farlo infine ergere come una delle più forti personalità morali e filosofiche dell’Italia dei
primi decenni del Novecento. Il che ci aiuta a meglio intendere e spiegare anche il paradosso storico da cui siamo precedentemente partiti: quello
in virtù del quale un autore metafisico come Martinetti sia stato infine in grado di additare implicitamente a tutta la nostra nazione civile i limiti intrinseci della nostra stessa tradizionale storia nazionale.
Per questo profondo motivo Martinetti, proprio grazie alla sua filosofia metafisica e religiosa — sempre nutrita, ben inteso, di una religiosità rigorosamente laica — rappresenta, ancor oggi, un filosofo socratico che ci aiuta a meglio orientarci, criticamente, nel nostro tempo presente. In questa precisa chiave ermeneutica Martinetti non solo appartiene, a pieno titolo, alla storia, peraltro poco nota e ancor meno indagata, del razionalismo critico europeo che, non a caso, ha poi trovato proprio nella città di
Milano, soprattutto nel corso del Novecento, un suo punto di riferimento filosofico particolarmente significativo (soprattutto con la scuola di Milano nata attorno alla lezione banfiana e a quella dei suoi grandi allievi degli anni Trenta), ma si ricollega anche, proprio in virtù della sua statura etica, religiosa e metafisica, ad una più ampia e assai complessa storia concettuale sotterranea e carsica (certamente non alla moda) che ci ricor-
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da costantemente i doveri teoretici e civili della stessa riflessione filosofica contemporanea che, socraticamente, non può mai rinunciare a stimolare, criticamente, le proprie transeunti e storiche società civili. Per questo motivo la figura morale, irta ed incorrotta, di Martinetti costituisce il nostro
più valido alleato per praticare una filosofia del dialogo e dell’apertura critica, avendo, al contempo, anche la capacità e la forza critica di opporsi ad ogni barbarie e ad ogni tirannide, in nome di quella stessa flebile e claudicante ragione umana che, non a caso, Kant ha posto al centro di un processo emancipativo tricotomico-critico entro il quale il sapere e il dovere trovano nell’escatologia utopica il proprio più vero ed immanente motore critico. Mi sembra che la Bonghi colga in modo estremamente felice e profondo proprio il senso complessivo — ad un tempo teoretico e storico — della complessa lezione martinettiana rilevando, con perspicacia, come «nell’estendere l’ambito metafisico dell’omnitudo realitatis presente nella prospettiva di Martinetti, e nel leggere il senso dell’aspirazione alla comunione di tutti gli esseri nella chiave rivoluzionaria dell’illuminismo,
il senso della razionalità kantiana riesce ad assumere una portata inarrestabile, mai tramontata».
Portata
inarrestabile
e mai tramontata
pongono dunque anche per noi, all’ordine del nostro di un nuovo illuminismo critico che, paradossalmente, anche nella religiosità laica martinettiana un prezioso approfondire ed incrementare, nel mondo odierno, una glia filosofica, culturale e civile. Università degli Studi dell’Insubria Varese, ottobre 2010
che
giorno, l’esigenza può forse trovare stimolo critico per coraggiosa batta-
Fabio Minazzi
Piero Martinetti con gli studenti giunti a Castellamonte per il Convegno dell’ Associazione Università Canavesana Tuic Un (19 settembre 1926).
DO
INTRODUZIONE
La ricognizione martinettiana dello sviluppo metafisico della lezione di Kant Pur non paragonandoti agli dèi, io e questi fanciulli sediamo supplici al tuo focolare, perché ti giudichiamo il primo tra gli uomini nei casi della vita e nelle vicende volute dagli dèi. Sofocle, Edipo re Ben lungi dal venire coinvolto nel pensiero kantiano, è il pensiero di Martinetti a coinvolgere il pensiero kantiano. Martinetti non è kantiano e quel Kant è tutto martinettiano!.
| In questo modo, così incisivo e vigoroso, Franco Alessio delinea la peculiarità che, a suo avviso, riveste l’interpretazione martinettiana di Kant. Né può tacersi che Alessio delinea questa sua immagine di Martinetti nel momento stesso in cui riconduce ad uno specifico cuore teoretico la riflessione martinettiana e riporta il suo stesso nucleo alle diverse auctoritas che, in maggiore o minore misura, hanno alimentato il suo pensiero. Un Kant segreto, un Kant dalla metafisica oscuramente pensata: un Kant, infine, la cui autenticità viene rintracciata da Martinetti in una opinione privata—privata e metafisica—,cherendelasosta presso il filosofo di K6nigsberg tanto necessaria quanto necessario diviene il superamento del labirintico suo sistema, al fine di giungere, per abitarla, ad una ben più ampia dimora. Da questo punto di vista l’ Introduzione alla metafisica del 1904 assume una posizione definitiva rispetto alla teoria della conoscenza kantiana. Su questa linea appare già chiara una provvisorietà metafisica e un mancato appagamento teoretico che realizzano uno spartiacque costante fra l’impianto del filosofo tedesco e quello martinettiano. La realtà viene intesa da Martinetti come organismo spirituale e la sua ricostruzione si profila come un progresso ideale verso un adeguamento il più possibile perfetto alla Realtà, la quale costituisce la verità e la vitalità del reale?. l 2.
Franco Alessio, Introduzione a Piero Martinetti, Spinoza, a cura di F. Alessio, Bibliopolis, Napoli 1987, p. 12. P. Martinetti, Scritti di metafisica e di filosofia della religione, a cura di Emilio Agazzi, Edizioni di Comunità, Torino 1976, 2 voll., vol. I, p. 30: «[...] questa
ricostruzione della realtà, considerata come un vasto organismo spirituale [...]».
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In secondo luogo: la dottrina della conoscenza non consiste in altro che nella ricerca critica di ciò che occorre riconoscere come reale, lasciando in secondo piano l’esame della sua natura, delle sue forme, delle sue funzioni
e dei suoi limiti?. Per questo ordine di motivi, Martinetti designa la filosofia kantiana come realismo trascendentale, pronunciato esso dall’assoluta eterogeneità della cosa in sé rispetto alla coscienza. [La conoscenza] non è una pura parvenza che celi agli occhi nostri la realtà
noumenica, ma è la realtà noumenica stessa in un’imperfetta manifestazione: essa non soltanto vela agli occhi nostri la Realtà suprema, ma ne è al tempo stesso l’espressione più alta che sia a noi accessibile, ed il progresso suo d’unità in unità ne è una rivelazione sempre meno inadeguata. Se pertanto il suo termine ideale trascende la conoscenza stessa, ciò significa semplicemente che la conoscenza non è il fine supremo dell’uomo, ma è strumento di questo fine. [...] L’uomo non vive per conoscere, ma conosce per elevarsi mediante la conoscenza alla vera vita, all’esistenza perfetta che esclude la conoscenza perché esclude l’imperfezione*.
Con ciò non è detta tanto la totale insufficienza della ragione kantiana,
quanto la sua sterilità teoretica— nell’orizzonte di Kant—: azione e conoscenza si uniscono, di contro, per Martinetti, in un connubio che nel fatto morale ricostruisce non certo definitivamente, ma già teoreticamente, la Realtà. Friedrich Paulsen rappresenta, sia per le sezioni dell’Introduzione alla metafisica dedicate a Kant, sia per la globalità complessiva dell’itinerario 3.
Cfr. «La critica della conoscenza è così l’esame critico non del conoscere in astratto, ma delle nostre conoscenze in generale: essa abbraccia, come la meta-
fisica di cui è parte, la realtà intiera, ma col solo intento di eliminare determinate interpretazioni metafisiche dimostratesi insufficienti, affermando virtualmente nel tempo stesso un punto di vista metafisico superiore. È naturale quindi che essa non si estenda ai problemi ed alle applicazioni particolari, ma consideri le varie concezioni nella loro intuizione fondamentale, nel loro concetto definitivo ed universale della realtà» (P. Martinetti, Introduzione alla metafisica, Marietti, Genova 1987, pp. 42-3). Nelle pagine della Introduzione alla metafisica si nota come «[...] Martinetti sia ben lontano dal concetto kantiano di critica della conoscenza [...]: una delle questioni fondamentali del criticismo, se sia possibile la conoscenza del reale, è risolta subito in principio in modo affermativo e in un certo senso anticritico [...]. In tutto ciò è data non pure la condanna del kantismo come distinzione di un reale conoscibile da un reale non conoscibile, ma è anche data la stessa soluzione metafisica, a cui la gnoseologia dovrebbe aprire la strada» (cfr. Giovanni
4
Vidari, recensione a P. Martinetti, Introduzione alla metafisica, Clausen, Torino 1904, «Rivista filosofica», VII, 1, 1905, p. 114). P. Martinetti, Introduzione alla metafisica, op. cit., pp. 139-40, corsivo mio.
Introduzione
Sil:
martinettiano di disamina e sviluppo del pensiero metafisico kantiano, la fonte privilegiata di Martinetti?. Il Kant di Paulsen® riposa sul presupposto primo del suo idealismo metafisico, per il quale il conoscere e l’agire non ristagnano nel microcosmo dell’umanità, ma si dilatano nella grande realtà, in una necessità razionale che non lascia alcuno spazio al misticismo e al sogno. Anche per Paulsen l’idealismo metafisico non si può assolutamente passar sotto silenzio in una esposizione completa della filosofia kantiana. 7ra il regno della vera e propria conoscenza scientifica e il regno della fede pratica c’è un regno intermedio: quello del pensiero necessario razionale!
È la fede nella ragione ad animare la lettura martinettiana di Kant: non certo in una ragione logica, ma, piuttosto, in una ragione che estende il suo significato dalle più umili testimonianze dell’esistente ai vertici più profondi dell’interiorità. In questo senso il percorso del mio lavoro intende ricostruire, assecon-
dando lo sviluppo cronologico degli studi che Martinetti consacra a Kant, la ricognizione critica della metafisica del peculiare kantismo martinettiano e il suo svolgimento intrinseco entro l’orizzonte teoretico del filosofo piemontese. Svolgimento che culmina, in ultimo, nella parte d’eredità dello spirito kantiano che Martinetti abbraccia pienamente: il razionalismo e l’illuminismo, portati alle estreme conseguenze nell’ambito che costituisce
il coronamento della sua visione metafisica: la religione. Il cosiddetto ritorno a Kant di Martinetti, che si sarebbe attuato in seguito alla pubblicazione della Introduzione alla metafisica, presenta, in realtà,
un rinnovamento ed una dedizione teoretica propria.
S
Cfr. Stefano Poggi, Martinetti e i suoi «autori» tedeschi, «Rivista di filosofia», LXXXIV, n. 3, 1993, pp. 395-426, ed in particolare il confronto critico di Martinetti con gli autori tedeschi del ritorno a Kant, da cui il pensatore si stacca per l'esigenza della radicalità dell’inchiesta filosofica, a differenza dell’ideale di reimpostazione dell'indagine filosofica a partire dai risultati ottenuti nei molteplici settori disciplinari, a cui il neokantismo tedesco s'’ispira. Friedrich Paulsen, Kan, trad. it. di Bernardo Attilio Sesta, Sandron, Napoli 1904. F. Paulsen, Kant, op. cit., pp. III-IV, corsivo nel testo. QI Cfr.: «La panoramica storica disposta nell’esposizione attorno alla dottrina ha in Schopenhauer il suo vero punto d’osservazione. Posto a conclusione del ciclo del pensiero critico e posto al centro di quella panoramica come un che di metastorico, Schopenhauer sta alla base di quella visione. È il suo fondamento storico ed è insieme il suo fondamento metafisico» (F. Alessio, Introduzione a P. Martinetti, Spinoza, op. cit., p.21).
32
Il Kant di Martinetti
Il 1913 registra infatti un duplice apporto: la traduzione e l'ampio commento ai Prolegomeni kantiani ed il saggio Su/ formalismo della morale kantiana. Nel primo contributo viene puntualmente ricostruita e affrontata la teoria della conoscenza kantiana che nella Introduzione alla metafisica aveva certo assistito alla sua problematizzazione, seppure in un discorso dilatato nella vastità dell’interesse gnoseologico nell’abito della storia della filosofia. L'apporto fornito dal filosofo piemontese nel lavoro sull’opera kantiana del 1783 si propone lo scopo di rendere agevole uno scandaglio nitido e puntuale, seppure solo iniziale, del kantismo, che nei Prolegomeni troverebbe la migliore via d’accesso all’intera filosofia kantiana. A mio avviso tre punti, in particolare, caratterizzano il contributo martinettiano. In primo luogo: l’origine ex principiis della filosofia, l'autenticità del filosofare, solo secondariamente inserito nella tradizione speculativa. In secondo luogo: la radicalizzazione della metafisica critica kantiana, in una concezione che estende il trascendentale al trascendente, rintracciando
nella formalità la raffigurazione stessa dell’intellegibile. In ultimo: la ragione, come ponte tra il trascendentalismo e il trascendente, e ciò nella sua valenza religiosa, interiore o storica che sia. Tali conclusioni s’irradiano sui successivi interventi su Kant. Perciò, il
saggio del 1913 Su/ formalismo della morale alla difesa della purezza della forma, con lo teplici contraddizioni, l’intrico che non vede ragione teoretica e il sentimento del bisogno —
kantiana svilupperà, in seno scioglimento delle sue molchiaramente il nesso fra la morale e religioso — ch’essa
stessa suscita. Martinetti partecipa alla celebrazione del bicentenario della nascita di Kant attraverso uno studio ad esso titolato? e con la pubblicazione dell’ Antologia kantiana che, pur conciliandosi al suo scopo scolastico, tuttavia fornisce, in aggiunta, l’esplicitazione della prospettiva del filosofo piemontese.
Lo squilibrio fra la sezione consacrata alla morale e alla religione rispetto a quella dedicata alla teoria della conoscenza stabilisce una progressione valoriale che rappresenta la progressione raffigurata nel singolare Schema grafico della vita, che ripropongo nel terzo capitolo di questo mio lavoro. Progressione ed anche ascensione: accompagnata, su rutti i livelli, dalla presenza della ragione, culminante nella Ragione, che non necessita del conoscere, segno tangibile d’imperfezione. Le lezioni degli anni venti su Kant, cui è consacrato il quarto capitolo, stabiliscono d’acchito il valore genuinamente vivo e pulsante del pensiero
9
P.Martinetti, E. Kant nel secondo centenario della nascita, «Vita internazionale», XXVII, 1924, pp. 121-31.
Introduzione
(0)DI
kantiano nella sua direzione razionalistico-religiosa, cui lo stesso filosofo piemontese indirizza la globalità della sua ricerca. L'accordo concesso da Kant alla dignità del trascendente consente a Martinetti di incrementare il ruolo del soggetto trascendentale, destinandolo alle conseguenze più estreme. La formalità trascendentale kantiana e l’imperativo trascendente martinettiano s’incontrano nel tentativo di giungere all’Uno, trovando il loro terreno comune nella ragione unificatrice, della quale è nutrita la moralità, ospitata, a sua volta, dalla religiosità. È sulla superiorità della religione, quale coronamento di tutto il sistema dei fini, che si gioca il superamento martinettiano del kantismo. Con quest’ultimo l'orizzonte metafisico del filosofo piemontese si accorda, perlomeno a mio avviso, per la coscienza critica della natura trascen-
dentale della ragione filosofica, per il senso religioso della vita, corrispondente ad un inesauribile rigore etico e ad una estrema libertà spirituale. Tali principî confluiscono nell’opera del 1928, La libertà, e negli studi sul cristianesimo e sui Vangeli, il Gesù Cristo e il Cristianesimo, del 1934, e Il Vangelo, del 1936. La conciliazione fra il kantismo ed il kantismo martinettiano riposa, per l’appunto, sulla prorompenza dell’illuminismo kantiano e sul suo Sapere aude! completato da Martinetti attraverso il carattere teoretico della religione. In appendice a questo mio lavoro, concluso nel giugno del 2008, era stato inserito un saggio martinettiano, inedito fino ad allora. Lo scritto Sulla teoria della conoscenza in Kant!° è apparso poi, nel dicembre successivo, a cura di Luca Natali, sulla «Rivista di storia della filosofia», e si è ritenuto
pertanto superfluo riproporlo ora, nonostante il disegno originario del presente contributo. Il saggio svolge, in maniera particolarmente approfondita, le tematiche affrontate da Kant nella sezione della Dottrina trascendentale degli elementi consacrata all’ Estetica trascendentale, distinguendo, in prima istan-
za, le funzioni del senso e quelle dell’intelletto, quali fattori necessariamente abbinati perché abbia luogo la conoscenza umana. Martinetti definiva il senso «l’ambiente nel quale esso [l'uomo] deve ricevere il suo svolgimento», e l’intelletto «spontaneità creatrice». Il filo-
10
P. Martinetti, Sua teoria della conoscenza in Kant, a cura di Luca Natali, «Rivi-
11
P. Martinetti, Sulla teoria della conoscenza in Kant, op. cit., p. 748. Ibidem per le due cit. immediatamente successive.
sta di storia della filosofia», LXII, n. 4, 2008, pp. 731-69.
34
Il Kant di Martinetti
sofo chiariva, tuttavia, come «questa spontaneità non può manifestarsi in noi, creature finite, che come elaborazione spirituale d’un dato: e non vi è dato senza senso». Nello scritto in questione Martinetti delineava brevemente l’opposizione kantiana al peso preponderante riservato da Leibniz alla semplice maggiore chiarezza dell’intelletto rispetto al senso, e accompagnava la critica a Leibniz con la critica all’empirismo lockiano. Era proprio in questo ambito che il testo di Martinetti offriva un punto di capitale interesse rispetto al peculiare orizzonte teoretico sul quale si agita la riflessione del filosofo piemontese in rapporto a Kant: Per Kant invece la natura sensibile dell’uomo è radicalmente diversa dall’intelletto: la differenza tra senso e intelletto non è logica ma trascendentale, non
procede da un gesto maggiore o minore di chiarezza, ma da una struttura interiore propria, per cui l'oggetto sensibile è nella sua intima natura radicalmente altro: vi è in breve, anche qui, non solo una degradazione di errore in errore che vi accentua la distanza dall’intelligenza assoluta, ma una “caduta” nel senso, un vero “male radicale” anche nel campo della conoscenza.
La prospettiva martinettiana non viene affatto soddisfatta dalla necessità kantiana di coordinazione di senso ed intelletto, che rappresenta il presupposto primo della possibilità del conoscere umano. Nello Schema grafico della vita'? si vedrà innanzitutto il particolare giudizio di Martinetti sui differenti gradi inferiori della conoscenza. Essi non vengono sottratti alla sfera della teoreticità, poiché rappresentano, certamente, un grado del conoscere, nel quale la raffinatezza della sintesi non si è realizzata nei suoi più degni livelli. In secondo luogo, perciò — e con questo si spiega la radicalità delle espressioni utilizzate da Martinetti nella pagina precedentemente citata (caduta e male radicale) —, l'aspirazione all’intelligenza assoluta, all’Unità, a Dio, al Bene, non viene riservata ai gradi superiori della conoscenza,
ma ad ogni livello dell’attività della ragione, che Martinetti pone quale motore di ogni livello d’esistenza e determinazione. In ciò davvero la distinzione kantiana di senso ed intelletto si manifesterebbe in tutta la sua radicale malvagità, individuando in un niente (seppure necessario e alquanto contraddittorio) la funzione del senso!5. 12. 13
Cfîr.il capitolo III, 2.2 del presente lavoro. Un caso differente rappresenta la dignità che Kant attribuisce all’intuizione sensibile, la quale, scrive Martinetti «sebbene ci apparisca come assolutamente data. ci rivela un tessuto connettivo formale con cui un'arte secreta dello spirito, celata nella profondità più oscura dell’essere nostro[,] collega il mondo materiale offer-
Introduzione
(99)(9)
La riflessione su ciò che si presenta a Martinetti come un male radicale costituiva nei suoi vari risvolti e negli sviluppi del pensiero kantiano il vero filo rosso di quel documento poi pubblicato da Natali. L'esposizione accademica dei contenuti kantiani e il tentativo di chiarire tentennamenti e ambiguità terminologiche del filosofo di K6nigsberg trovavano il loro compimento nell’essere trascinati nella dimensione metafisica martinettiana. Così Martinetti includeva nell’ambito stesso dello svolgimento circa l'ordinamento spaziale e temporale elementi di natura più propriamente morale, disegnando, dunque, un continuum teoretico, il quale non viene
arrestato e non incontra abissi di vuoto nel percorso di ascensione all’intelligenza assoluta: Questo vuol dire che per il senso è data una molteplicità da noi non prodotta, su cui la coscienza può soltanto esercitare un’azione unificatrice. Ora ciò vale anche dei sentimenti, delle volontà, etc. che, in quanto tali rappresentano dati, imposti alla coscienza nella stessa maniera dei dati della sensazione cosiddetta esterna e costituiscono in analogo modo un molteplice che la coscienza apprende ed unifica teoreticamente, ma non crea!*.
La creazione riposa nello stesso processo, la quale è sintesi gradualmente più raffinata, che non aspira alla compiutezza del conoscere, ma alla dimensione che, nella sua assoluta perfezione, non contempla necessità di conoscenza. Allo stesso modo, in merito alle molto discusse “forme” dello spazio
e del tempo kantiane, Martinetti riconduceva in via parallela la questione della purezza della legge morale, strenuamente difesa nel saggio del 1913 Sul formalismo della morale kantiana: Si tratta qui di un problema parallelo a quello della universalità e necessità della legge morale. Il fatto che nessuna legge morale concreta incarni la legge assoluta e che le istituzioni morali siano soggette a variare non implica punto che esse siano soltanto formazioni accidentali della coscienza unica: per questo nei nostri ideali morali ci possono essere elementi accidentali e materiali, ciò
che lo costituisce come legge è un dover essere assoluto di cui il nostro ideale di domani non sarà che un’incarnazione più pura e più perfetta.
toci dai sensi» (P. Martinetti, Sulla teoria della conoscenza in Kant, op. cit., p.
749). Nulla varia, in realtà, nella prospettiva martinettiana, nella quale l’elaborazione intellettiva non sfugge ai gradi più poveri del conoscere. 14
P. Martinetti, Su//a teoria della conoscenza in Kant, op. cit., p.753. La cit. imme-
diatamente successiva nel testo è tratta da p. 765.
36
Il Kant di Martinetti
La conclusione del saggio rispondeva pienamente all’orizzonte che, nello specificare la prospettiva martinettiana, supera, inglobandolo, il sistema kantiano. Prospettiva martinettiana che proprio su questo punto troverà la
più profonda obiezione, a livello di storicità e concretezza del vivere, in molti dei suoi critici: Kant ha omesso l’osservazione che ogni sistemazione formale dell’esperienza si degradi in una contraddizione di fronte ad una forma superiore: la cui presenza potenziale è l’incitamento a superarle!°.
Per diversi interpreti di Martinetti quest’ultimo presupposto rappresenta l’inammissibilità ed il tallone d’Achille di tale dimensione metafisica,
sospettata di astoricità, astrattezza e mancata rispondenza alle esigenze dell’aiuola che ci rende feroci. In questo senso, l’attualità del kantismo martinettiano — se anche fosse lecita tale domanda — riposerebbe in una dottrina vivente, la cui risposta si radica nell’eredità morale abbracciata dal discepoli di Martinetti — diretti o indiretti —, specchiata negli esiti esistenziali, più che negli strumenti teoretici utilizzati. Fra tutti si citi solo Ludovico Geymonat, combattente e disobbediente all’immoralità del regime — e non solo —, che, pensando a Martinetti, ne / sentimenti, anno 1945, scrisse:
Il maestro, anche se morto, è una persona viva nel nostro animo; perché soltanto una persona viva può comprendere e giudicare un’altra persona. Lo può in base a un complesso d’intuizioni morali, non raggruppabili in alcuno schema fisso, intuizioni varie e molteplici pur nella loro fondamentale unità,
ricche di innumerevoli sfumature e perciò capaci di cogliere la vita umana nella sua concreta realtà. Il maestro è una persona che, col suo esempio e la sua parola, riuscì a scuoterci dalle nostre illusioni, a richiamarci a ciò che vi è di più profondo in noi, a creare nel nostro animo una coscienza autonoma, al cui giudizio nessuno dei nostri atti può sfuggire. Con la devozione al maestro, l’animo dell’individuo sperimenta la maestà sublime di questa coscienza; tende a completare sé stesso
immedesimandosi in una individualità superiore che fu quella reale e concreta del maestro ma è, insieme, la parte più alta e più degna della propria attuale individualità!”.
15. 16
Cfr. Remo Cantoni, Motivi platonici e pessimistici nella filosofia di Piero Martinetti, «Studi filosofici», VII, n. 1, 1946, p.9. P. Martinetti, Sulla teoria della conoscenza in Kant, op. cit., p.769.
17.
Ludovico Geymonat, / sentimenti, Rusconi, Milano 1989, p. 90.
37
16
1913: PIERO MARTINETTI E I SUOI PROLEGOMENI Per chi non riesce, per sua posizione, a lottare; per chi non è capace di sacrificarsi abbastanza devotamente a un compito;
per chi non sa formulare, davanti al proprio destino, una propria preghiera, saranno eternamente ammonitrici queste parole, che dicono un destino e una preghiera: “Noi siamo soli. Soli, come il beduino nel deserto. Bisogna che ci copriamo il viso, che ci stringiamo nei mantelli e che ci gettiamo a testa bassa nell’uragano. E sempre, incessantemente — fino alla nostra ultima goccia d’acqua, fino all’ultimo battito del nostro cuore. Quando moriremo, avremo questa consolazione: di aver fatto della strada e di aver navigato nel Grande”. Antonia Pozzi, Flaubert
1. Genesi e destino dei Prolegomeni: il soccorso martinettiano
Simile al novizio oramai sveglio, che dopo segreta e solitaria orazione notturna, al sorgere dell’alba e al fragore incessante della campanella, viene invitato alla preghiera mattutina. Simile al novizio oramai pronto a riunirsi alla comunità per la preghiera corale, Piero Martinetti, anno 1913, dopo lungo e meditato silenzio sulla lettera kantiana, dà alle stampe, per i Fratelli Bocca, la traduzione e il vasto commento ai Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza, l’opera “riparatrice”, datata 1783, del filosofo di K6nigsberg, seguita alla prima edizione della Critica della ragion pura e di poco
precedente la Fondazione della metafisica dei costumi, del 1786. Coordinate, queste, non prive di significato dal punto di vista di Martinetti, convinto assertore dell’influenza resa dalle problematiche di ambito morale sul rifacimento della seconda edizione della Critica, il cui preludio può essere ravvisato in modo specifico nei Prolegomeni. Tuttavia «questi Prolegomeni sono scritti non per i novizi, ma per i futuri maestri»!: l'incipit dell’opera del 1783, infatti, secondo l’ispirata tradu1
Immanuel
Kant, Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi
come scienza, Introduzione, traduzione e note di Piero Martinetti, parole chiave e
Il Kant di Martinetti
38
zione adottata da Martinetti, coinvolge appieno la personalità e il percorso filosofico del pensatore piemontese. In verità, il “noviziato” di Martinetti in altro non consiste che in una lenta ripresa di Kant all’indomani della pubblicazione dell’/ntroduzione alla metafisica — l’opera del 1904 di fedele ascendenza schopenhaueriana — noncurante dei giochi già fatti nell’ambito delle traduzioni di scuola gentiliana delle tre Critiche kantiane?. Uno scandaglio delle ultime pagine dell’Introduzione alla metafisica dedicate a Kant si annuncia come l’interruzione di un discorso, rimandato per
la necessità di riesaminare più direttamente e profondamente una tematica dominante nella filosofia martinettiana, e riguardo alla quale Kant riveste un ruolo fondamentale: l’unità dell’esperienza per mezzo di sintesi sempre più raffinate).
di adottare la più recente riedizione della traduzione di Martinetti, sensibilmente differente dal punto di vista dell’impostazione tipografica, rispetto alla prima edizione, ma corredata, in aggiunta, del testo tedesco a fronte, oltre che del saggio di 2.
Roncoroni Martinetti storico della filosofia e interprete di Kant (pp. 381-93). Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, a cura di Giovanni Gentile e Giovanni Lombardo-Radice, Laterza, Bari 1909; Id., Critica della ragion pratica, a cura di
Francesco Capra, Laterza, Bari 1909; Id., Critica del giudizio, a cura di Antonio Gargiulo, Laterza, Bari 1906.
3
Cfr.: «Una sola è quindi la legge secondo cui si svolge la coscienza dalle più oscu-
re funzioni psicologiche alle creazioni più alte dell’arte e della filosofia: la legge dell'unità. La molteplicità degli elementi dell'esperienza crea disparità e contraddizioni, che il pensiero domina e riduce in una forma d’unità: e quest'attività del pensiero esige essa medesima l'estensione dell’esperienza a nuovi elementi, in modo che dalla loro sintesi complessiva sorgono forme d’unità sempre più alte» (P. Martinetti, Introduzione alla metafisica, op. cit., p. 133). O ancora, anche
nell’ambito più proprio della psicologia medica e della sintomatologia psicotica: «L’io umano è un’organizzazione estremamente complessa di dati psichici, una
sintesi variabile di sistemi psichici d’un ordine inferiore. L’unità che collega gli elementi nei sistemi elementari come unità di coesistenza e di successione si rivela in forme sempre più perfette: le leggi psicologiche e logiche non sono che
altrettante forme aprioristiche in fieri, modi di riduzione all’unità. [...] Quanto
più la sintesi complessiva è instabile, tanto più viene alla luce la tendenza dei singoli elementi a costituire delle serie autonome, delle sistemazioni diversamente orientate che possono avere la vita effimera di un istante ma possono in dati casi anche sovrapporsi stabilmente all’unità preesistente. [...] Così è possibile notare nell’uomo l’esistenza di più intelligenze, di più volontà che vengono talora in conflitto: che è realmente la coesistenza di più sistemi psichici non totalmente
armonizzati nell’unità complessiva della coscienza» (Id., Scritti di metafisica e di filosofia della religione, op. cit., vol. I, p. 176, corsivo nel testo).
1913: Piero Martinetti e i suoi Prolegomeni
39
Nelle pagine menzionate, Martinetti sottrae Kant alla critica di aver avanzato empiricamente nella ricerca delle forme della conoscenza, adducendo a suo merito l'adozione del metodo analitico a svantaggio di una ricostruzione
sintetica. Nel caso fosse possibile, infatti, essa dovrebbe
innalzarsi al di sopra di una mera teoria della conoscenza e penetrare a fondo nella vicenda reale dell’esistente «ché volere ricostruire la storia concreta della coscienza col puro sussidio dell’analisi gnoseologica sarebbe come un voler ricostruire la storia concreta dell’evoluzione morale per via della semplice analisi degli “strati” della coscienza morale individuale»*. Nella sfera di tale presa di posizione teoretica, dunque, i Prolegomeni recano in sorte, pur nelle “oscillazioni” peculiari dell’incedere kantiano, il metodo analitico, applicando alla metafisica i risultati ottenuti partendo dal sapere a priori della matematica e della fisica, alla ricerca dei princìpi che lo rendono possibile e delle regole del loro uso legittimo. Lungi dal rafforzare oltremisura una possibile corda di risonanza che “giustifichi” teoreticamente l’approccio di Martinetti ai Prolegomeni — in aggiunta al pretesto dell’affidamento di traduzione e commento da parte dell’editore Bocca — resta indiscutibile il fatto di una piena e matura dedizione critica al testo kantiano (anche sul versante filologico, per una chiarificazione quanto più possibile rigorosa delle sue oscurità)?. Uno sguardo esigente, dunque, ma che non si altera mai — parafrasando Gramsci — in quello de/ pedante che crede si possa spiegare senza comprendere e sentire?. Martinetti accoglie così, a distanza di più di un secolo, l’appello che nella Prefazione alla prima edizione della Crizica Kant aveva mosso al suo eventuale lettore: «[...] io m’aspetto la pazienza e l’imparzialità di un giudice, [...] la benevolenza e l’assistenza di un collaboratore»”. Il soccorso prestato dal filosofo piemontese si prefigge lo scopo di rendere accessibile uno scandaglio nitido e puntuale, seppure solo iniziale,
4 5.
P. Martinetti, Introduzione alla metafisica, op. cit.,p.331. Hanno scritto sui Prolegomeni di Martinetti Massimo Ferrari, L’interpretazione martinettiana di Kant e di Hegel, «Rivista di filosofia», LKXXIV, n. 3, dicembre
1993, pp. 442-3, e Amedeo Vigorelli, Piero Martinetti. La metafisica civile di un filosofo dimenticato, Mondadori, Milano 1998, pp. 149-53. 6
Cfr. Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 2001, 4 voll., vol. I, quaderno IV, 31, p. 450.
7.
I. Kant, Critica della ragion pura, Introduzione, traduzione, note e apparati di Costantino Esposito, Bompiani, Milano 2004, p. 21.
Il Kant di Martinetti
40
del kantismo*, persuaso dall’idea che i Prolegomeni costituiscano la via
d’accesso meno perigliosa all’intera filosofia kantiana. Stima invero non condivisa dalla generalità dei lettori, che si aspettava-
no dall’opera del 1783 l’apertura del libro dei sette sigilli, quale risultava la Critica del 1781. Lo stesso Johann Schulze, amico e collega di Kant, deluso dai risultati dei Prolegomeni, e anch’egli in attesa di luce per uscire dai labirinti della Critica, pubblicò le sue Erlduterungen iiber des Herrn Professor Kant Critik der reinen Vernunf@, che Martinetti cita a dimostrazione dei tentativi di
commentare i luoghi più angusti della prima opera, la cui faticosa accessibilità perdurava ancora in quella successiva. Un’impresa non agevole dunque anche la lettura dei Pro/egomeni, a tal punto da indurre Schulze a scrivere: «Ja es scheint beynahe, dass man vor den Prolegomena fast nicht weniger zuriickbebt, als vor der Critik»!°. Martinetti tenta di delineare la genesi del progetto di stesura dei Prolegomeni, muovendo da due differenti ipotesi: l’una, documentata dalle
lettere di Johann Georg Hamann, ne farebbe risalire l'origine alla pianificazione di un estratto popolare della Critica indicato per i profani. 8
9
10
Cfr. «Il commento che accompagna la presente traduzione ha per scopo di eliminare anche queste difficoltà e di rendere piana, il più che sia possibile, alla generalità dei lettori una comprensione iniziale, ma chiara ed esatta del pensiero kantiano» (P. Martinetti, Introduzione a I. Kant, Prolegomeni, op. cit., p. 5). Johann Schulze, Er/iuterungen iiber des Herrn Professor Kant Critik der reinen Vernunft, Nachdr. der Ausg. KOnigsberg 1791, Culture et Civilisation, Bruxelles 1968. La cit. che segue si trova a p. 6. I Prolegomeni in realtà contribuirono in modo determinante alla diffusione del criticismo kantiano. Martinetti cita solo alcune delle recensioni apparse negli anni successivi alla loro pubblicazione: Johann Christian Lossius, Prolegomena zu einer jeden Kiinftigen Metaphysik die als Wissenschaft wird auftreten kònnen, von Immanuel Kant. 222 S. Gr. 8. Riga bey Hartknoch. 1783, «Uebersicht der neuesten
philosophischen Litteratur»,1, 1, 1784, pp. 1-4, ora in Rezensionen zur kantischen
Philosophie. 1781-1787, hrsg. von Albert Landau, Albert Landau Verlag, Bebra 1990, pp.276-7; Hermann Andreas Pistorius, Prolegomena zu einer jeden Kiinftigen
Metaphysik die als Wissenschaft wird auftreten kònnen. Von Immanuel Kant. Riga bey Hartknoch.1783.8.222 Seiten, «Allgemeine deutsche Bibliothek», LIX,2, pp. 322-56, ora in Rezensionen zur kantischen Philosophie. 1781-1787,0p.cit.,pp.85-
108. Vennero pubblicati inoltre diversi estratti. Fra quelli richiamati da Martinetti vedi
Johann G. Kiesewetter, Gedringter Auszug aus Kants Prolegomena zu einer jeden Kiinftigen Metaphysik die als Wissenschaft wird auftreten kònnen, Nachdr.
der Ausg. Berlin 1796, Culture et Civilisation, Berlin 1974, e Bernard Stéger, H. I. Kants Prolegomena zu einer jeden kiinftigen Metaphysik die als Wissenschaft wird auftreten kònnen, in einem kurzen Auszuge, nebst Stitzen aus Logik, Metaphysik und Anthropologie, gedruckt und verlegt bey Franz Xav. Duyle, Salzburg 1794.
1913: Piero Martinetti e i suoi Prolegomeni
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Il filosofo piemontese fa particolare riferimento a due lettere di Hamann, risalenti, rispettivamente, al 5 e 11 agosto 1781. Nella prima, indirizzata all’amico Johann Gottfried Herder, egli scrive: «Kant ist willens einen populairen Auszug seiner Kritik auch fiir die Layen auszugeben»!. E nella successiva, all’editore e libraio di Riga, Friedrich Hartcknoch, ribadisce:
«Kant redt von einem Auszuge seiner Kritik im populairen Geschmack, die er fiir die Layen herauszugeben verspricht». La seconda ipotesi, sostenuta anche da Benno Erdmann nelle sue Historische Untersuchungen iiber Kants Prolegomena e nell’introduzione all’edizione dei Prolegomeni curata nel 1878!°, riferisce, al contrario, di
una rinuncia al programma di un’esposizione popolare, a favore di un estratto di contenuto e natura maggiormente elevati, a scopo più esplicativo che divulgativo. Quel che è certo è che proprio l’editore Harteknoch, già il 19 novembre 1781, chiedeva a Kant di inviare allo stampatore Grunert, quell’«Auszug der Kritik»!* del quale egli aveva annunciato l’elaborazione, e la cui redazione doveva essere, per quella data, già compiuta. Tuttavia, l’editore
11
Johann Georg Hamann, Briefwechsel, hrsg. von Walther Ziesemer und Arthur Henkel, Insel Verlag, Frankfurt a. M. 1955-79, 7 voll., vol. IV, p. 319, il corsivo
è mio, come nella cit. che segue e che si trova a pagina 323. Per le altre lettere inerenti ai Prolegomeni, cfr.: an Friedrich Harteknoch (14. September 1781), pp. 331-4; an Johann Gottfried Herder (15. September 1781) pp. 334-7; an Friedrich
Harteknoch (23. Oktober 1781) pp. 341-4: an Friedrich Harteknoch (23. November 1781) pp. 344; an Friedrich Harteknoch (8/9. Dezember 1781) p. 346-52; an Friedrich Harteknoch (11. Januar 1781) pp. 363; an Friedrich Hartcknoch (8. Februar 1781) pp. 365; an Johann Gottfried Herder und Caroline Herder (20/22. April 1781) pp. 372-7; an Johann Gottfried Herder (11/12. August 1782) pp. 412-5; an Johann Gottfried Herder (25. August 1782) pp. 417-9; an Johann Friedrich Reichardt (27. August 1782) p. 423; an Friedrich Harteknoch (16. September 1782) p. 424; an Friedrich Harteknoch (8. Dezember
1782) p. 464; an Friedrich
Harteknoch (27. Dezember 1782) p. 471. Quanto alla traduzione italiana dell’epistolario hamanniano cfr. Lettere, pubblicate, in tre volumi, da Vita e Pensiero di Milano: vol. I, traduzione e note a cura di Ilsemarie Brandmair Dallera, 1989; vol.
12.
13.
II, traduzione di Maria Franca Frola, note di Angelo Pupi, 1996; vol. III, traduzione e note di Maria Silva, 1999. Cfr. Benno Erdmann, Historische Untersuchungen iber Kants Prolegomena, Max Niemayer, Halle a. S. 1904, p.24 e ss.,e I. Kant, Prolegomena zu einer jeden kiinftigen Metaphvysik, die als Wissenschaft wird auftreten kònnen, hrsg. und historische Erklért von Benno Erdmann, Verlag von Leopold Voss., Leipzig 1878, p. IX-X. I. Kant, Briefwechsel, in Schriften, hrsg. von der K6niglich Preussischen Akademie der Wissenschaften, Walter de Gruyter & Co. — Georg Reimer, Berlin und Leipzig 1910-1983, 29 voll., vol. X, Walter de Gruyter & Co., Berlin und Leipzig 1922, p. 279: «Wenn nunmehr der Auszug der Kritik, wie ich nicht zweifle fertig
Il Kant di Martinetti
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non precisa, in tale richiesta, la natura, il livello teoretico, i destinatari
dell’estratto. Martinetti ipotizza che, fosse l'elaborato un’esposizione popolare o elevata, l'evento di una dura recensione alla Critica potrebbe aver modificato
in modo percettibile il lavoro ormai in fieri. In effetti il numero del 19 gennaio 1782 del «Zugabe zu den Géttingischen Anzeigen von gelehrten Sachen» ospitava uno scritto piuttosto critico e dai toni altamente aspri riguardante l’opera dell’81. Alle spalle del recensore, rimasto anonimo, si nascondevano i dardi del
filosofo eclettico Christian Garve, al quale il direttore della rivista, Heinrich Feder!*, aveva affidato la recensione, senza esimersi dall’omettere, tuttavia, tagli e modifiche al testo in fase di stampa”.
Il giudizio di Garve tacciava di inadeguatezza e mancanza di originalità lo scritto kantiano, riconducendolo ad un idealismo berckleyano privo di novità, e aggiungendo: «Il modo infine in cui l'A. vuole per mezzo dei conseyn sollte, so bitte inn an den Buchdrucker Grunert in Halle, der das groBe Werk gedruckt, zu schicken».
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15.
Feder fu dichiarato (e in seguito pentito) nemico di Kant. Alla risposta di Kant seguita alla recensione di Gottinga (cfr. nota successiva), Feder reagì — invero con estrema calma nel 1787 — con il suo Veber Raum und Caussalitéit zur Priifung der kantischen Philosophie, Nachdr. der Ausg. Gòttingen 1787, Culture et Civilisation, Bruxelles 1968. E molto avanti negli anni dedicò a queste vicende il capitolo Geschichte meiner Streitigkeiten liber kantische Philosophie della sua autobiografia Leben, Natur und Grundsdtze, Nachdr. der Ausg. Leipzig 1825, Culture et Civilisation, Bruxelles 1970, pp. 115-29. Christian Garve, Riga. Critik der reinen Vernunft. Von Imman. Kant. 1781. 856 S. Octav., «