Il fondamento teologico del diritto
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Il fondamento teologico del diritto

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JACQUES ELLUL

Il fondamento teologico del diritto Traduzione di Antonio Fontana A cura di Italo Pons Eugenio Stretti

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Prima edizione italiana Titolo originale: Le fondement théologique du droit, Delachaux & Niestlé, Neuchàtel 1946.

© Il Segno dei Gabrielli editori, 2012 Via Cengia, 67 - 37029 San Pietro in Cariano (Verona) tei. 045 7725543 - fax 045 6858595 mail [email protected] www.gabriellieditori.it ISBN 978-88-6099-150-8 Stampa: Il Segno dei Gabrielli editori. San Pietro in Cariano (VR) febbraio 2012

Indice

Nota storica di Antonio Fontana

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IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO di Jacques Ellul

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INTRODUZIONE

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I.

IL

IL DIRITTO NATURALE CONSIDERATO COME FENOMENO 1. Il diritto naturale nella storia 2. Le teorie del diritto naturale 3. L’esistenza del diritto naturale 4. La negazione del diritto naturale IL DIRITTO DIVINO 1. Giustizia 2. Diritto 3. Alleanza

23 23

26 32 37 43 43

51 56

III. DIRITTO NATURALE E DIRITTO DIVINO 1. Il diritto naturale, dottrina cristiana? 2. Diritto naturale e diritto divino 3. Il diritto naturale come fenomeno

67 67 75 78

IV.

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DIRITTO DIVINO E DIRITTI UMANI 1. Gli elementi del Diritto umano 2. Escatologia e Diritto 5

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JACQUES ELLUL ■ IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO

V.

3. Lo scopo del diritto. (1) - L’espressione del diritto 4. Lo scopo del diritto. (2) - Il significato del diritto

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DIRITTO, STATO, CHIESA 1. Il Diritto e lo Stato 2. Il ruolo della Chiesa nell’ambito del Diritto Conclusione

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Postfazione “LA VERITÀ VI FARÀ LIBERI”: FEDE EVANGELICA, ETICA PUBBLICA E SPERANZA ESCATOLOGICA NEL PENSIERO DI JACQUES ELLUL di Italo Pons e Eugenio Stretti

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1. 2. 3. 4.

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Le Scritture e il dubbio della fede evangelica Etica pubblica e tradimento del cristianesimo Azione critica nella società e libertà nell’agape di Cristo Diritto sacro e diritto divino

Indice dei nomi Indice delle citazioni bibliche Curatori

163 165 169

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Nota storica

Chi, come me, sia totalmente digiuno di teologia, non può pretendere di scrivere una “prefazione” o “presentazione” a questo volume, per la prima volta tradotto in italiano, in cui il pensiero è tanto concentrato, quanto ridotto è il numero delle pagine. Mi limito perciò a fornire alcuni dati sull’epoca, e, quindi, sul “clima” in cui ha visto la luce, nella speranza che anch’essi possano essere di qualche utilità. La sua pubblicazione (nei Cahiers théologiques de l’actualité protestante, Neuchatel, Delachaux et Niestlé) risale al 1946: quella del 2008, per i tipi della casa ed. Dalloz di Pa­ rigi, con prefazione di Franck Moderne, non è una seconda edizione, postuma (l’Autore era morto il 19 maggio 1994), ma solo una ristampa. Le devastazioni, non solo materiali, ma anche, e specialmente, morali, dovute alla guerra, avevano indotto un po’ tutti a rimeditare sui rapporti fra legge e giustizia, fra diritto e potere politico. Si è avuto così, negli anni immediatamente successivi, un ampio movimento di pensiero, caratterizzato da due aspetti che, in fondo, erano soltanto le facce di una stessa medaglia. Da un lato, la denuncia dei limiti del positi­ vismo giuridico, secondo il quale, come scrive lo stesso Ellul, “il diritto non è nulla di più di quanto sta scritto nei testi le­ gislativi”: ad esso veniva mossa l’accusa di non aver saputo arginare, anzi, di aver favorito l’avvento dei regimi totalitari. Dall’altro, l’esigenza di ancorare le leggi - cito ancora Ellul - a “valori spirituali indipendenti dall’uomo”, e perciò dal rapido mutare dei tempi: valori che molti identificavano nel diritto naturale.

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JACQUES ELLUL - IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO

Di questo orientamento è facile cogliere le manifestazioni in vari Paesi. Anzitutto in Germania, proprio per reazione alla triste vicenda della dittatura hitleriana. Dando alle stam­ pe, nel 1948, la sua Vorschule der Rechtsphilosophie, Gustav Radbruch scriveva: “...dopo un secolo di positivismo giuri­ dico è potentemente risorta l’idea di un diritto sopralegale (ubergesetzliches), commisurate al quale anche leggi positive possono essere rappresentate come un torto legalizzato (gesetzliches Unrecht) ”.1 Stati d’animo analoghi, per analoghe ragioni, erano diffu­ si in Italia. Basti ricordare che un autorevole studioso, come Giorgio Del Vecchio, riprendendo, nel 1947, la pubblicazio­ ne della “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, da lui stesso fondata prima dell’ascesa al potere di Mussolini, scri­ veva di voler invocare “il ritorno all’idea eterna del diritto naturale”.2 In Francia, poi, già nel 1942 uno scrittore cattolico di gran­ de notorietà, Jacques Maritain, aveva pubblicato Les droits de l’homme et la loì naturelle, in cui ribadiva i principi, a suo dire tuttora validi, già affermati dalla Scolastica in generale e da Tommaso d’Aquino in particolare. Nel 1946 Ellul aveva solo trentaquattro anni. Durante il periodo dell’occupazione nazista aveva partecipato attiva­ mente alla Resistenza, sino ad ospitare ebrei nella cascina in cui si era ritirato a vivere, dopo essere stato rimosso dall’in­ segnamento (nel 1938 aveva conseguito il dottorato in Dirit­ to romano), per i giudizi non certo teneri da lui espressi sul governo collaborazionista di Pétain. Le dure esperienze vis­ sute, e la freschezza delle forze ancora giovanili, sono state le molle che lo hanno spinto a scendere in lizza a sua volta. Ma lo ha fatto procedendo contro corrente, rispetto agli studiosi che sin qui ho ricordato. In una prospettiva tipicamente pro­ testante egli nega, infatti, che l’uomo, interamente corrotto

1 Così a p. 114 della 2" ed., Gottinga, 1959. 2 Premessa alla terza serie, p. 3.

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NOTA STORICA

dal peccato, sia in grado, con la propria ragione, di conosce­ re la giustizia, che “guarda dal cielo”(Sl. 85: 11) mentre lui è in terra. A suo avviso, la contrapposizione non è dunque fra diritto positivo e diritto naturale, bensì fra diritto umano e diritto divino. A sostegno del proprio assunto, egli adduce una lunga serie di citazioni, che rivelano una familiarità con la Bibbia non comune per un giurista, specialmente dell’area continentale. Sugli esiti cui perviene, si potrà discutere, ma credo che nessuno potrà negare la serietà del suo impegno. Un’ultima, rapidissima osservazione. Il libro qui presen­ tato è soltanto la prima opera teologica del Nostro. Nume­ rose altre ne sarebbero seguite, fino a Ce que je crois, (Pari­ gi, Grasset, 1987), che costituisce, come giustamente5 è stato detto, il suo testamento spirituale. Per una curiosa coinci­ denza (ma sarà proprio soltanto una coincidenza?), lo stes­ so titolo (Was ich glaube) ha dato il ben noto cattolico del dissenso Hans Kiing ad un suo recentissimo volume (Piper Verlag GmbH, Mùnchen, 2009), che è stato subito diffuso in Italia da Rizzoli (Ciò che credo, 2010), mentre quello di Ellul, a quanto mi consti, attende ancora di essere tradotto nella nostra lingua. Auguriamoci che non debba più attende­ re molto: si aggiungerebbe così un altro, importante tassello, per la valutazione complessiva di un pensatore che, nono­ stante la sua vasta produzione, non è ancora conosciuto, da noi, come meriterebbe. Antonio Fontana

? Da J.L. Porquett Jacques Ellul, l’uomo che aveva previsto (quasi) tutto, , Jaca Book, Milano 2008, p. 253.

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IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO di Jacques Ellul

“...benché morto, egli parla ancora” (Ebrei 11,4) a Vittorio Subilia (1911-1988) Giorgio Peyrot (1910-2003) Gino Conte (1931-2006) Franco Scopacasa (1927-2008) Grati al Signore Gesù Cristo, per i differenti doni loro accordati

Introduzione

Ci vuole una certa presunzione per scrivere ancora sul di­ ritto naturale e tanto più per tentare di riprenderne la dottri­ na nel suo insieme (in così poche pagine, per giunta), invece di limitarsi ad un punto circoscritto. Da quando il problema è stato sollevato, circa duemilacinquecento anni fa, sembra che una vera soluzione non sia stata mai trovata. Vi è senza dubbio uno sforzo per rendere conto di una realtà vivente innegabile, come questo sentimento del tutto spontaneo di giustizia che ogni uomo prova. Ma d’altra parte una conside­ razione oggettiva, diciamo pure scientifica, delle cose, dimo­ stra che è vano sperare in un accordo sul fondamento, il con­ tenuto, la forza coercitiva di questo diritto legato alla natura. Appena si esce dal generico, diventa impossibile mantenere posizioni ferme, e nell’atteggiamento dei fautori o degli av­ versari del diritto naturale vi è certamente una scelta di fon­ do, una sorta di a priori. Chi crede a valori spirituali indipendenti dall’uomo, Idea, Forma, Esistenza, ecc., è indotto a credere a un diritto na­ turale ideale, che informa il diritto umano. Chi al contrario crede soltanto all’osservazione scientifica dei fatti, alla sola realtà di ciò che si comprende razionalmente, è indotto a ri­ fiutare il diritto naturale come antiscientifico (quale effettiva­ mente è). Così il dibattito sul diritto naturale è in certo qual modo un falso dibattito, perché si rifà, nelle grandi linee, a un dibattito pregiudiziale fra Idealismo e Materialismo, di cui è solo un riflesso. E dunque inutile discuterne sul terreno del diritto. Oggi, comunque, dopo circa un secolo e mezzo di eclis­ se parziale, sembra che si ritorni ad un concetto del diritto naturale. È inutile indugiare nel ricordare che dall’inizio del 15

JACQUES ELLUL - IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO

sec. XIX due scuole si sono divise i favori dei giuristi: quel­ la storica e quella del diritto positivo. Per l’una, il diritto è il prodotto esclusivo della coscienza popolare e dell’evolu­ zione. Per l’altra, il diritto non è nulla di più di quanto sta scritto nei testi legislativi, e solo questa chiara coscienza del diritto può venir presa in considerazione. In entrambi i casi la nozione di diritto naturale è radicalmente esclusa.1 Perfino giuristi che vogliono tener conto di tutta la realtà giuridica, ivi compreso il suo contenuto spirituale, formule­ ranno così la loro posizione: a) il diritto non è in primo luo­ go una norma, bensì il risultato di una situazione sociale; b) il diritto è l’ordinamento di una comunità concreta, e non il prodotto della costrizione di un potere; c) il diritto è il pro­ dotto di una situazione spirituale concreta, e non il prodotto del caso, né il prodotto eterno della natura o dello spirito.2 È dunque assolutamente incontestabile che si sia potuti arrivare ad una nozione del diritto totalmente impregnata di relativismo. In queste condizioni, l’ordine della società, i di­ ritti riconosciuti all’uomo non sono affatto protetti contro l’arbitrio, e non vi è alcuna ragione per non affidare il com­ pito di distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è ad uno Stato onnipotente che stabilirà i criteri da applicare in proposito.3 Di fronte a questa conseguenza di fatto e vissuta ai no­ stri giorni, vi è dunque una rinascita della teoria del diritto naturale. E, per molti, solo questa teoria potrebbe argina­ re le conseguenze disastrose del positivismo. Esporremo più avanti perché noi non lo crediamo. Ma fin dall’inizio convie­ ne mettere in rilievo che questo nuovo diritto naturale deve

1 Sulle diverse scuole giuridiche dall’inizio del sec. XIX cfr. Roubier, Théorie générale du droit, 1946. 2 Per esempio: Wolf, Christentum und Recht (1936). * A questo punto arriva, in modo davvero sorprendente, la Scuola normati­ va, che, per aver voluto fare del diritto una scienza rigorosa, geometrica, fini­ sce per giustificare l’arbitrio dello Stato (Cfr. soprattutto Kelsen, Allgemeine Staatslehre).

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INTRODUZIONE

fronteggiare difficoltà inaudite, a nostro avviso insormonta­ bili. Constatiamo, per esempio, che la concezione tradizio­ nale individualista del diritto privato, che dominava dal sec. XVI, e che ben s’accordava con la nozione di diritto natu­ rale, ha ceduto il posto, ed in modo storicamente decisivo, alla concezione sociale del diritto pubblico che diviene pre­ ponderante in tutti i campi, e che, essendo inerente non più all’uomo, ma allo Stato, sembra molto meno unita a questo diritto assoluto. Parimenti, il diritto appare sempre meno come una norma astratta, se non valida per tutti i tempi, sempre meno fon­ data sulla ragione, e sempre più come un fenomeno storico, espressione di una comunità nazionale, più o meno rappre­ sentata dallo Stato (e questo non attiene ad un piano dottri­ nale, ma solo al piano delle constatazioni di fatto concernenti il diritto nei secc. XIX e XX). Qui ancora si stenta a vedere come l’idea del diritto naturale possa armonizzarsi con que­ sta situazione. Infine, un ultimo punto da notare in questo stesso ordine di idee, è la comparsa di molti nuovi settori del diritto, che pongono una quantità di problemi relativi al di­ ritto naturale, sia perché non si comprende come mai questo diritto naturale non abbia fatto emergere questi settori del diritto prima che le situazioni sociali fossero mature per il loro sviluppo, sia perché non si sa quale posto attribuirgli di fronte a questi fenomeni radicalmente nuovi e dotati di una loro autonomia. E così per la legislazione sociale, il diritto del lavoro, il diritto della responsabilità ecc. Sicché una sem­ plice resurrezione del diritto naturale è ben lungi dal poter risolvere i problemi sollevati dall’assetto giuridico moderno. •k * *

Dal punto di vista cristiano, qualunque sia la concezione del diritto naturale che si prospetti, questa ha un ruolo assai particolare che conviene porre in evidenza. Nella maggior parte dei casi lo si presenta come una necessità da parte della dottrina cristiana, sia inerente alla natura dell’uomo creato da Dio, sia facente parte dell’ordine della creazione, sia for17

JACQUES ELLUL - IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO

mudato nella rivelazione della Legge, sia prodotto dalla ra­ gione capace di una teologia naturale, sia scritto nel cuore o nella coscienza dell’uomo. Si potrebbe formularlo ancora in tanti altri modi. Ma dietro a tutto ciò vi è costantemente una preoccupazione da parte dei teologi, che può esprimersi in termini molto semplici: si tratta di trovare un punto d’incon­ tro fra cristiani e non cristiani, punto d’incontro sia intellet­ tuale, sia spirituale, sia semplicemente materiale. Così si dirà: “Una dottrina del diritto naturale è inevitabile come base di cooperazione fra cristiani e non cristiani”.4 Si trova la preoc­ cupazione di potersi comprendere facilmente, al di là delle separazioni tragiche della rivelazione e della grazia. Ed il problema si comprende facilmente: si riscontra una certa natura, quantomeno fisica, comune a tutti. La grazia non la modifica. Come fare, allora, perché questa natura sia mantenuta senza abbandonare la grazia ed il Soprannatu­ rale? Che qualità dare a questa natura? Il cuore dell’uomo non saprebbe decidersi senz’altro ad una separazione radi­ cale per il fatto della grazia, dal momento che il Dio che fa grazia è un Dio d’amore, che ama tutte le sue creature, vuo­ le salvarle tutte, le invita tutte ad amarsi reciprocamente. Il diritto naturale fa allora parte di questo immenso sforzo di riconciliazione (al di là della grazia), di cui è solo un aspetto: Teologia naturale (e gnosticismo), morale naturale, valore as­ soluto della ragione. Il tutto destinato a permettere all’uomo di sfuggire alla necessità radicale di ricevere la rivelazione per sapere che cos’è il bene e per sapere che cose la verità. E in questo quadro che si colloca ogni concezione “cristia­ na” del diritto naturale. Bisogna permettere all’uomo di sa­ pere con le sue proprie forze che cosa conviene come regola sociale. Bisogna che cristiani e non cristiani trovino un’intesa per formulare una medesima verità sociale e politica, sul fon­ damento di un dato comune a tutti gli uomini. Bisogna che possano agire insieme partendo da questo dato per stabilire

4 W. Horton, Naturai Law and International Order.

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INTRODUZIONE

la migliore città umana. Di conseguenza, Dio si trova posto molto al di fuori di questa sfera. In tutta la teoria del diritto naturale Egli appare più come una premessa che agevola il ragionamento, come ipotesi di partenza necessaria, che come il Dio vivente, unico in tre persone, al tempo stesso creato­ re, salvatore e rivelatore. In queste teorie Dio viene preso in considerazione sempre e soltanto come creatore. Ci si riposa sull’idea dell’identità originaria, mediante la creazione, per stabilire l’unità fra cristiani e non cristiani, proprio come se dopo questo intervento iniziale non ci fosse stato anche il Dio che si fa carne, sconvolgendo tutti i rapporti. D’altra parte, si pone all’origine la creazione ad opera di Dio, poi si ragiona sulla base di un mondo che va avanti da solo, che funziona da sé, che ha in qualche modo la vita in sé stesso, come se l’azione creatrice di Dio non fosse continua, e come se il mondo non avesse la vita solo grazie a Dio, in ogni momento. Queste premesse teologiche, anche se nel­ la maggior parte dei casi restano solo implicite, sono asso­ lutamente inammissibili. Non si possono separare le perso­ ne della Trinità, così come non si può avere una concezione meccanicistica della creazione. Per noi si tratterà dunque di conoscere prima di tutto ciò che è conforme alla rivelazione di Dio, fondandosi sui grandi dati sicuri che questa rivelazio­ ne ci fornisce. Non cercheremo attenuazioni o compromessi, lasciandoci suggestionare da constatazioni di fatto. Tuttavia, non trascureremo queste ultime, ma non le considereremo mai più di quello che sono, cioè, semplici constatazioni di fatto: per noi, dunque, non avranno mai valore normativo. D’altra parte, se restiamo risolutamente “teocentrici”5 in questa interpretazione del diritto, dovremo convenire che si tratta di sapere che cosa sono le istituzioni umane, la giustizia

5 Quest’orientamento teocentrico è del tutto diverso da quelli che si possono chiamare sistemi teocratici. Questi sono relativamente semplici: la legge umana è l’espressione diretta della volontà di Dio. “Essa ha come autori gli Dei”, dice Platone. Questa nozione è radicalmente opposta a quello che Dio ci rivela. Cfr. la critica in M. Del Vecchio, Lezioni difilosofia del diritto, p. 343.

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JACQUES ELLUL - IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO

umana, eco., di fronte a Dio, che senso hanno per Dio, qual è il loro posto nell’opera di Dio dopo la rivelazione, prima di ricercare qual è il loro valore per l’uomo, e quale dev’essere il comportamento dell’uomo nei loro confronti. Questo non può che derivare da quello. I rapporti che esistono fra Dio e le istituzioni del mondo devono dominare i rapporti che esi­ stono fra le istituzioni e l’uomo. Nella scelta di una tale ge­ rarchia di valori dovrà pertanto ricercarsi il primo significato di questa indagine, la quale si svolge di conseguenza su di un piano radicalmente diverso da quello adottato di solito dai cristiani per fondare il diritto naturale. Ma questo atteggiamento non implica affatto che noi cre­ diamo all’esistenza di un diritto cristiano. Come per noi non esiste uno Stato cristiano, poiché lo Stato è dato da Dio in vista di fini diversi da quello di promuovere la fede, così il diritto non può avere un contenuto cristiano. Il diritto infatti è stabilito per tutti, per quelli che credono e per quelli che non credono. I cristiani fanno parte anche di una nazione terrena, e devono sottomettersi al diritto di questa nazione, che non può essere un diritto cristiano, perché cristiano è ciò che deriva dalla fede nella persona di Gesù Cristo, e non si possono imporre queste conseguenze a coloro che non han­ no questa fede. Voler creare un diritto vincolante per tutti partendo dalla legge di Dio, ed ancor più partendo dal Van­ gelo, è incontestabilmente un’eresia, perché ciò presuppone che dei non-cristiani possano accettare la volontà di Dio, e vivere come i cristiani. Non dobbiamo dunque cercare cosa sia un diritto cristiano, ma ciò che il diritto (il diritto così com’è) rappresenta nel regno di Cristo, e qual è la funzio­ ne che Dio ha assegnato al diritto. Ora, ricordiamoci che si tratta del Dio che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti, che fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, e che il problema non può mai essere quello di trasformare in norma, e tanto meno in norma giuridica, il contenuto del Vangelo. Il diritto fa parte del mondo laico - è laico - ma di un mondo dove Gesù Cristo è re. ■*■•*■*■

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INTRODUZIONE

Ma prima di cominciare questo studio faremo due osser­ vazioni che ne preciseranno l’oggetto. A) Non cercheremo di spiegare né il mistero dell’essenza del diritto naturale né il suo contenuto. Per noi non si tratta più di giustificarlo o di demolirlo a vantaggio del diritto po­ sitivo. Questi sono stati finora gli obbiettivi delle ricerche sul diritto naturale. Per noi, cristiani riformati, si tratta di con­ frontare il fatto del diritto naturale con l’insegnamento della Scrittura che è la regola della nostra fede. Questo confronto è necessario perché tutto ciò che esiste, compreso il diritto, si trova nel dominio di Cristo e d’altra parte perché questa signoria, essendo concreta, non è solo una teoria, ma ha atti­ nenza con fatti determinati, che sarebbe sbagliato trascurare col pretesto che non sono ortodossi. B) Abbiamo parlato di fatti. E come tale, soprattutto, sarà considerato qui il diritto naturale. Troppo spesso, invero, si parla del diritto naturale come di una dottrina, di una inter­ pretazione di dati giuridici, di una filosofia del diritto. E sen­ za alcun dubbio esiste una filosofia del diritto naturale. Ma il diritto naturale non è in primo luogo questa filosofia. In primo luogo esso è un fenomeno che esiste non come idea, ma come avvenimento storico concreto. E un fatto che s’im­ pone in un dato momento della storia giuridica, e che non si può rifiutare, come non si può rifiutare il fatto religioso od il fatto-Stato. Dopo viene una teologia che si sviluppa in una forma di gnosticismo. Ancora dopo, viene una dottrina dello Stato, della sovranità, del potere. Ma la religione e lo Stato esistono prima di essere spiegati o giustificati. Accade esattamente lo stesso per il diritto naturale che si presenta come una certa forma di diritto, prima di essere una conce­ zione del diritto. Questa viene solo successivamente, ed è del tutto inutile discutere la teoria senza riferirsi al fatto che ne è l’origine.

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I

Il diritto naturale considerato come fenomeno

1. Il diritto naturale nella storia Le nostre cognizioni di storia del diritto sono limitate ai diritti occidentali. Non sappiamo nulla del diritto azteco, egizio, caldeo, assiro, indù, nella loro evoluzione. Possiamo coglierne solo qualche momento. Cominciamo appena ad in­ travedere l’evoluzione del diritto cinese, senza che se ne pos­ sa ancora trarre qualche conclusione. Conosciamo soltanto l’evoluzione del diritto greco, di quello romano, e di altri paesi europei (Germania, Francia, Inghilterra, Italia, Spagna). E dunque su questo limitato campo di esperienze che possia­ mo ragionare per quanto concerne il diritto naturale. In ogni evoluzione del diritto che conosciamo si possono distinguere tre fasi.1 Alle origini, il diritto è tutto permeato di elementi

1 Non possiamo infatti ammettere l’idea di una evoluzione senza limiti del diritto, che nel corso di essa si affinerebbe continuamente. Questa idea, che gode ancora di grande favore presso i giuristi (Cfr. Roubier, op. cit., che non la mette in dubbio) pretende che, salvo arretramenti accidentali, l’evoluzio­ ne è un progresso, che il concetto attuale di giustizia è più vero di quello di Platone, o del diritto romano, che il nostro diritto è più giusto, più lineare, ecc., di quello dei semiti, ecc. Questa idea è del tutto errata. Essa dipende da tre pregiudizi: che la storia dell’uomo sia la storia di progressi continui, che la giustizia sia creazione dell’uomo, che non vi sia diritto al di fuori del mondo mediterraneo. La storia dimostra che tutto ciò è falso. E quanto alle regressio­ ni “accidentali”, quando durano tre secoli, come le invasioni barbariche, è un po’ diffìcile considerarle soltanto “accidentali”.

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JACQUES ELLUL - IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO

religiosi. Ciò è confermato da quasi tutti i dati sociologici. Il diritto è l’espressione della volontà di un dio, è formula­ to dal sacerdote, la sua osservanza è garantita da sanzioni di carattere religioso. E fornito di un ritualismo magico. E, correlativamente, i precetti religiosi sono presentati in forma giuridica. Le relazioni col dio sono create dall’uomo secondo il modello del contratto. Il sacerdote difende la religione in quanto è lui il depositario del segreto del diritto, Poi, progressivamente, il diritto diventa laico. Si delinea una distinzione fra la regola religiosa e magica da una parte, quella giuridica e morale dall’altra. Le influenze che determi­ nano questo cambiamento sono diverse. Ma vi è, in partico­ lare, la comparsa di un potere dello Stato distinto dal potere religioso. Allora comincia una seconda fase, che si può chia­ mare del diritto naturale. Il diritto si forma mediante le con­ suetudini o la legge, indipendentemente dal potere religioso, e come una creazione spontanea della società, sotto l’influen­ za di fattori economici, politici, morali. Non è racchiuso in un editto, non è formato in ogni suo elemento dallo Stato. Non è imposto dall’esterno, è nato direttamente dalla socie­ tà, dal sentimento e dal volere comuni, non necessariamente coscienti per approdare ad una creazione giuridica, ma cer­ tamente coscienti come abitudine ed ubbidienza. Questo di­ ritto si fonda allora sull’adesione dei suoi destinatari, adesio­ ne che deriva dal fatto che il diritto è semplicemente l’espres­ sione della coscienza e delle condizioni di vita di questi desti­ natari medesimi. Non potrebbe esserci altro che un’adesione al diritto, perché questo si limita ad esprimere i due elementi della vita stessa degli uomini in una società. Allora viene l’elaborazione di questo diritto come teoria del diritto naturale: è il riconoscimento di questo fenomeno e la sua spiegazione alla luce della ragione. Ciò avviene nel quarto secolo a.C. in Grecia, nel primo secolo a.C. a Roma, nel sedicesimo in Italia, nel diciassettesimo in Francia, nel diciottesimo in Inghilterra e Germania. Ma questo momen­ to che si può concepire come l’apogeo del diritto naturale (e che viene sempre considerato come l’intero complesso del 24

I. IL DIRITTO NATURALE CONSIDERATO COME FENOMENO

diritto naturale, perché siamo così portati al concettualismo ed all’astrazione da non poter prendere in esame altro che la teoria) è invece il punto in cui inizia il suo declino. E infat­ ti il momento in cui l’uomo cessa di essere spontaneamente “nel diritto”. Egli se ne pone all’esterno ed esamina il diritto. Questo diventa oggetto di speculazione, d’interpretazione. Il filosofo spiega allora razionalmente che cos’è in realtà il di­ ritto, ma per far ciò si pone al di fuori del diritto, ed infrange in tal modo la spontaneità giuridica. Questo atteggiamento conquista assai rapidamente il giurista che, anche lui, sta cer­ cando di organizzare il diritto razionalmente. Si arriva allora ad una terza fase del diritto. Il diritto diventa creazione dello Stato. Si enunciano prin­ cipi, si determinano gerarchie giuridiche, si coordinano le leggi, si crea una tecnica giuridica, sempre più precisa, sem­ pre più razionale, sempre più lontana da ogni spontaneità. A questo punto, il diritto si irrigidisce, diventa una costruzio­ ne astratta, sempre in ritardo rispetto all’evoluzione sociale e politica e che bisogna sempre aggiornare mediante creazioni arbitrarie che si adattano più o meno bene alla società. Il di­ ritto diventa la specialità dei giuristi, con la sua consacrazio­ ne e la sua autorità nello Stato. Vedremo più tardi le conseguenze che questo comporta dal punto di vista giuridico e sociale. Per ora, notiamo sem­ plicemente che questa trasformazione coincide con la fase di decadenza di ogni società. E impossibile tornare indietro, ri­ trovare sotto la coltre della tecnica giuridica una nuova spon­ taneità del diritto. Un fiore appassito non può essere restitui­ to alla sua freschezza di prima. Ma il roseto che lo ha portato può produrre un nuovo fiore. Così la società, rinvigorita in ogni suo aspetto, dando inizio ad una nuova pagina della sua storia civile, può produrre un diritto nuovo. Questa evolu­ zione del diritto si verifica puntualmente in ogni società che si sviluppa. Può essere arrestata per un evento casuale (come sembra sia accaduto per gli aztechi), può essere accelerata (come sembra sia avvenuto per il diritto caldeo-assiro che ha conosciuto ben poco la fase del diritto naturale per passare 25

JACQUES ELLUL - IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO

molto presto al diritto tecnico). La durata rispettiva delle sin­ gole fasi può variare alquanto (la terza fase molto breve per il diritto greco, perché la Grecia è stata assorbita dall’Impe­ ro romano, molto lunga per il diritto bizantino, che perdura più di quanto ci si potesse ragionevolmente aspettare), ma questo schema ci sembra renda conto abbastanza esattamen­ te dell’evoluzione. Questo ci permette dunque di ravvisare nel diritto naturale un’epoca dell’evoluzione del diritto e di definire in modo più preciso quelle che vengono chiamate le teorie del diritto naturale.

2. Le teorie del diritto naturale Non è il caso di farne un inventario completo. Ci limi­ teremo ad indicare sommariamente le principali direzioni di queste teorie. Ciò ha solo un’importanza molto relativa. Qualunque manuale d’introduzione allo studio del diritto o della filosofia del diritto descrive ampiamente i sistemi. Da essi attingeremo solo ciò che è utile al nostro scopo. Prima, però, faremo un’osservazione. Come abbiamo già detto, queste teorie non sono creazioni arbitrarie e puramen­ te razionali. Il diritto naturale non è un sistema filosofico che tende solo alla conoscenza dell’assoluto e che dipende solo dai mezzi di conoscenza, che può, quindi, essere valido per tutti i tempi e può essere perfezionato grazie ad un progresso dei mezzi della conoscenza. Se così fosse, le teorie del diritto naturale presenterebbero due caratteri. Esse cercherebbero di conoscere il Diritto Assoluto, in abstracto-, sarebbero una produzione costante, per quanto sotto forme diverse, dello spirito umano, come la filosofia. Invece non è così. Quanto al primo elemento, sappiamo bene che alcune teo­ rie hanno preteso di scoprire l’essenza del Diritto. Ma sono teorie di filosofi e di teologi che non hanno grande importan­ za giuridica. Ora, bisogna pur riconoscere che ogni teoria del diritto deve avere una portata giuridica. 26

I. IL DIRITTO NATURALE CONSIDERATO COME FENOMENO

Così gli stoici hanno una teoria astratta del diritto. Ma essa non ha alcun rilievo nel diritto greco (che è già alla sua fase tecnica) e quasi nessuno in quello romano. L’influenza del pensiero stoico sul diritto romano è stata alquanto esagerata, perché la si riscontra in Cicerone. Ma Cicerone, per quanto avvocato, dimostra attraverso i suoi scritti di non essere un giurista. I giuristi dunque riprendono, bensì, alcuni termini propri degli stoici, ma con un significato diverso ed in ogni caso il loro concetto del diritto naturale è totalmente diverso da quello dei filosofi. Il fatto è ancor più evidente per la teoria tomista del diritto naturale. Già la teoria agostiniana era praticamente scompar­ sa per l’effetto congiunto del tecnicismo del diritto romano e delle invasioni dei popoli germanici. Ma per la teoria tomista ci troviamo di fronte ad una teoria prospettata da un dotto­ re della Chiesa in una società che riconosce l’autorità della Chiesa come istanza suprema. Ora, questa teoria non ha alcun peso. L’evoluzione del diritto, la giurisprudenza, la raccolta ed il coordinamento degli usi normativi avvengono totalmente al di fuori di essa. Una teoria matematica non avrebbe avuto meno conseguenze giuridiche. E solo nell’ambito ristretto del diritto canonico che troviamo qualche tentativo di applicarla. Lo stesso, infine, bisogna dire per la teoria del diritto na­ turale di Calvino: mentre la sua teoria dello Stato si è rivelata feconda di conseguenze, la sua teoria del diritto naturale è rimasta lettera morta. Questo perché ci troviamo in presenza di teorie filosofiche le quali nulla hanno a che vedere con il diritto. Non ne sono né una spiegazione, né un’interpretazio­ ne: sono soltanto costruzioni dottrinali. Le teorie del diritto naturale che hanno avuto un senso non hanno preteso di raggiungere il diritto assoluto, bensì una forma del diritto giudicata più valida, od una costante giuridica o infine un modo più preciso di esprimere il diritto. Questi teorici hanno voluto soprattutto spiegare il modo in cui il diritto si formava davanti ai loro occhi, e trarne conse­ guenze giuridiche valide. Si tratta delle sole teorie del diritto naturale che hanno importanza. 27

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E questo ci conduce allora al secondo elemento: le teorie valide del diritto naturale non possono apparire in qualun­ que momento della storia, perché dipendono strettamente dal periodo storico del diritto naturale. Si spiega così che nel corso dei dodici secoli di storia del diritto romano non v’è teoria valida, efficace del diritto naturale che fra il primo secolo avanti Cristo ed il secondo dopo Cristo: fra Cicero­ ne e Papiniano. I giuristi successivi non fanno che ripetere e qualche volta ingarbugliare quanto era già stato detto pri­ ma. Il loro contributo non ha più alcuna importanza giuri­ dica. Parimenti, nei quindici secoli del Diritto occidentale, le teorie vive del diritto naturale sono alquanto localizzate. Abbiamo indicato poc’anzi queste localizzazioni storiche nei diversi paesi. Senza dubbio, i giuristi francesi del sec. XIX, per esempio, saranno seguaci del diritto naturale, ed oggi ancora Ma il loro atteggiamento può essere qualificato come “epifenomeno” giuridico, come sopravvivenza. Essi non si rendono conto della situazione giuridica attuale.2 Le loro teorie non sono più al centro del fenomeno giuridico. Abbiamo così cercato di distinguere le teorie filosofiche del diritto naturale e le teorie giuridiche. Quali sono i loro aspetti principali? Fra i sistemi filosofici ne indicheremo sommariamente due: quello stoico e quello della scolastica. Il diritto naturale degli stoici è essenzialmente un dirit­ to ideale, normativo, che deve servire quale meta e modello per il diritto positivo. Il diritto ideale è eterno, immutabile: è una ragione divina impressa nella natura e non solo in quella umana, ma, dato che questa partecipa della natura cosmi­ ca, anche il diritto è universale. Data l’unità della ragione, la ragione umana può apprendere direttamente questo diritto 2 Questi giuristi, certamente fra i migliori, hanno avuto soprattutto un ruo­ lo critico eminente nei confronti del positivismo giuridico, piuttosto che un ruolo costruttivo per il diritto naturale (cfr. Gény, Science et technique en droit privépositi/ t. II).

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e renderlo concreto. Il diritto positivo dipende dunque da questo apprendimento del diritto naturale da parte dell’uo­ mo. Non può dunque mai essere una creazione dello Stato, bensì una creazione continua degli individui e se tutti gli in­ dividui potessero cogliere in egual misura il diritto naturale, non vi sarebbe alcuna necessità di uno Stato per sanzionarlo. Per la filosofia scolastica, il diritto naturale appartiene alla natura dell’uomo. E impresso nel suo cuore e deriva tutto dal principio che bisogna fare il bene ed evitare il male. E una sorta di criterio che permette di distinguere praticamen­ te ciò che è giusto e ciò che è ingiusto nel diritto vigente. E giusto ciò che è conforme a questo diritto scritto da Dio nel cuore dell’uomo. E ciò si esprime giuridicamente in due principi essenziali: suum cuique tribuere e neminem laedere, che sono i due aspetti della giustizia. Così la giustizia stessa è strettamente collegata alla natura umana. L’uomo è capace di scoprire da sé ciò che è realmente giusto e di applicarlo nel mondo, perché non è corrotto del tutto e quindi gli resta una particella di verità divina. Questa legge naturale nel cuo­ re dell’uomo è il riflesso della legge divina e conduce l’uomo ad accettare spontaneamente come scopo del diritto il bene comune che è determinato normalmente dai governanti. Questi due sistemi ci sembrano tipici perché, con le loro divergenze, presentano una concezione del diritto naturale che sarà, nella sostanza, quella di tutti i sistemi filosofici e teologici, malgrado i loro apparenti contrasti e, soprattutto, la diversità delle forme in cui vengono espressi. Questo di­ ritto naturale si caratterizza in due modi: è un diritto ideale, fondato sulla morale. Se il diritto naturale fosse realizzato in­ teramente avremmo l’età dell’oro. Il diritto positivo non ha nient’altro da fare che riprodurre nel modo più fedele pos­ sibile questo diritto naturale. Dunque non deve preoccupar­ si delle situazioni contingenti, dei dati di fatto economici e sociali. Deve far penetrare nel diritto il valore assoluto del diritto naturale, avvicinandosi ad esso per approssimazioni successive, perché questo è un diritto immutabile per il suo stesso carattere, assoluto, anche se tutta la storia del dirit29

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to si risolverà nella storia dei tentativi di tradurre in pratica questo diritto sempre identico. È un criterio di giustizia-, non v’è distinzione fra giustizia divina e diritto naturale. La giu­ stizia umana è ciò che è conforme al diritto naturale, poiché quest’ultimo è appunto conforme alla giustizia divina. Il di­ ritto naturale servirà dunque a distinguere il giusto dall’in­ giusto. * if ìV

Siamo cosi in grado di scorgere l’enorme distanza che intercorre fra questi sistemi filosofici ed i sistemi giuridici, come porremo in evidenza più avanti. Indicheremo, ugual­ mente in modo sommario, i dati di due sistemi giuridici: quello romano e quello “illuminista”.3 Il diritto naturale dei giureconsulti romani è ciò che è dato in natura, sia che si tratti della natura vivente nel suo comples­ so, sia che si tratti soltanto della natura umana. Nel primo caso (è questa un’interpretazione tardiva, il cui obbiettivo è distin­ guere lo ius naturae dallo ius gentium) il diritto naturale contie­ ne tutto ciò che è comune all’uomo ed agli animali nell’ordine dei rapporti: per esempio rapporti sessuali-matrimonio; ripro­ duzione-famiglia, ecc. Così il diritto naturale sarebbe quella base minima indispensabile affinché la vita possa organizzarsi in forma sociale. Nel secondo caso ritroviamo esattamente la stessa idea, ma più ampia e ricca. Il diritto naturale sarebbe il dato naturale comune a tutti gli uomini. Vi è un certo numero di istituzioni necessarie perché la società possa vivere; queste istituzioni si ritrovano identiche perché sono inerenti all’uo­ mo, e si tratta in definitiva del fondamento stesso del diritto, che si può esprimere in modi diversi, ricevere forme differen­ ti, essere completato da regole transitorie e secondarie, ma che non può essere modificato nella sua natura senza che si verifi­ chino gravi turbamenti. Il diritto positivo è allora l’espressione

3 Senn, De la justice et du droit.

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più coerente, in un determinato momento, di questo diritto naturale. lus est ars aequi et boni, vale a dire l’arte di trovare l’applicazione in quel momento più giusta e più efficace di tale concetto comune a tutti gli uomini. Questo passaggio dal ge­ nerale al particolare si attuerà mediante un ragionamento pre­ ciso e determinato che i giuristi romani chiamano ratio (che non significa: ragione). Questo diritto naturale conterrà dun­ que istituzioni come la famiglia e la proprietà, e regole come il divieto di rubare ed uccidere. Non si tratta della giustizia. Questa si scopre come una sorta di rapporto doppio. Da una parte rapporto fra il diritto naturale e le circostanze di fatto in mezzo alle quali deve prendere forma, dall’altra rapporto fra il diritto positivo e l’azione di un uomo determinato. Per il seco­ lo dei lumi, il diritto naturale è essenzialmente conforme alla ragione. Questa non appare più come un mezzo per scoprire il diritto naturale (come lo considerava la filosofia scolastica), ma come l’espressione stessa di quest’ultimo. Di conseguenza ciò che è conforme alla ragione nell’ambito del diritto, e tutto ciò che è conforme alla ragione, costituisce il diritto naturale. Questo non è un diritto astratto, ideale, è un prodotto della ragione libera da condizionamenti. I principi da cui prendere le mosse possono variare, ma hanno questo in comune, che fanno tutti riferimento a un dato naturale, la ragione, che è comune a tutti gli uomini, e ciò che può servire da pietra di paragone fra i diversi sistemi giuridici proposti, ciò che quali­ ficherà un sistema giuridico, è il suo carattere più o meno ra­ zionale, la parte più o meno grande che concede a presupposti irrazionali. Questa idea si trova già nell’italiano Giambattista Vico nel sec. XVII. La si ritroverà largamente accolta in Fran­ cia, sempre nello stesso secolo, da cui si diffonderà in tutta Eu­ ropa dopo Ugo Grozio, nel sec. XVIII, con Hobbes, Rousseau ecc. Il sistema arriverà al culmine con i diritti dell’uomo, e non a caso la Rivoluzione istituirà il culto della dea Ragione. È lei che stabilisce l’autorità dello Stato, e su di lei sola si fonda il diritto naturale e di conseguenza tutto il sistema giuridico. Le conseguenze giuridiche che se ne trarranno saranno dunque individualiste (perché la ragione è il bene comune cosciente 31

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di tutti gli uomini) ed egualitarie. Ma la ragione non scopre una giustizia astratta: sarà sempre una giustizia incarnata da istituzioni delle quali è parte inseparabile. La ragione e non la giustizia è principio filosofico di fronte al diritto. Così questo diritto naturale presenta due caratteri affatto diversi da quelli indicati dai filosofi. In primo luogo non è un ideale morale, è un dato giuridico. Non è un’età dell’oro verso la quale si debba tendere, è un modello di diritto umano al quale si deve inces­ santemente tornare. Non è un’idea, è una realtà. E così anche per il diritto naturale del secolo dei lumi, malgrado la sua ap­ parenza ideale. In secondo luogo, non è un criterio di giustizia, è un insie­ me di istituzioni e di regole che possono essere indicate con i propri nomi, descritte, circoscritte. Ci si trova così molto più vicini alla possibilità di applicare il diritto, si è più nell’ambi­ to del diritto a spese di un certo assoluto del diritto, che in­ fatti non si trova da nessuna parte. Vi è nelle teorie giuridiche del diritto naturale, per quanto diverse possano essere, una sorta di comune denominatore, che è un riferimento ad una realtà esistente. Di questa realtà cerchiamo adesso di parlare.

3. L’esistenza del diritto naturale Il diritto naturale è stato molto criticato. È stato dimostra­ to che era soltanto una creazione dello spirito. E stato dimo­ strato che era inesatto credere ad un principio comune quan­ do non si riusciva a determinare quale fosse questo princi­ pio. Sono state sottolineate le innumerevoli divergenze delle teorie sul diritto naturale. Per rispondere a queste critiche è stata prospettata la teoria del “diritto naturale a contenuto variabile”.4 Il contenuto del diritto naturale non sarebbe es4 Charmont, La renaissance du droit naturel, e soprattutto Stammler, Wirtschaft undRecht\ di cui è stato detto che il diritto naturale era “una botti­ glia vuota che si fregia di una bella etichetta”. A questa idea è stata poi sosti-

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senziale, può variare, ma permangono in esso alcune costanti che possono servire da fondamento al diritto positivo in un dato momento storico. I sociologi hanno voluto dimostrare che non vi era assolu­ tamente alcuna regola comune nelle diverse legislazioni pri­ mitive, e di conseguenza nessuna natura umana alla quale potessero corrispondere. I filosofi hanno messo in luce quan­ to vi era di vago ed indeterminato nell’idea di natura. “L’or­ dine della natura è quello delle leggi della natura? Sarebbe forse quello delle società primitive, supposte conformi al pia­ no del Dio creatore, o quello delle società future chiamate a realizzare l’età dell’oro nell’avvenire, al termine del progres­ so? O si tratterebbe piuttosto delle leggi della natura uma­ na? Ma allora chi definirà i tratti essenziali di questa natura nella confusione e divergenza delle sue aspirazioni, della sue possibilità: la natura è rappresentata dall’istinto... dalla ra­ gione... dalla coscienza ecc.”.5 Infine, i teologi riformati re­ spingono in blocco il diritto naturale, dimostrando che esiste solo un diritto divino, un diritto di Dio, e non un diritto della natura.6 Su questo punto ritorneremo. Malgrado tutte le critiche che conosciamo e di cui ricono­ sciamo la fondatezza, dobbiamo ammettere che in questo di­ battito, in questo problema, restano tre punti fissi indiscutibili. A) Il diritto esiste. Vale a dire che in ogni epoca della sua vita sociale l’uomo è capace di creare una sorta di regola del giuoco, nel rispetto della quale si svolgono i rapporti degli uomini fra loro; questa regola è rafforzata da sanzioni la cui entità oltrepassa il potere del singolo individuo. Nessuna so­ cietà esiste senza diritto, e questo diritto presenta dapper­ tutto caratteri simili, per esempio la sanzione, l’obbedienza volontaria comune, il vincolo organico con i dati fondamen-

tuita quella del “diritto naturale a contenuto progressivo”: Renard, Le droit, l’ordre et la raison. 5 Conord, Sociologie chrétienne, p. 56. 6 Visser’t Hooft, Droit naturel ou droit divin?, in Corresport dance, gennaio 1943, p. 81.

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tali della società, l’organizzazione delle relazioni fra uomini e gruppi. Così l’oggetto del diritto ed i mezzi del diritto sono identici in ogni luogo ed in ogni tempo. Questo è già un fatto che dev’essere considerato con attenzione. L’uomo è dunque capace non solo di organizzare validamente la società nella quale vive, ma è pure capace di dare a questa organizzazione un peso che non saprebbe trovare in sé stesso (nelle società primitive è il carattere religioso del diritto: l’uomo non dà questo carattere al diritto). E infine, in qualunque circostan­ za, l’uomo sembra ubbidire a certe direttive costanti in que­ sta creazione perché si riscontrano tratti identici che non si saprebbe come spiegare diversamente. B) Il contenuto del diritto è in realtà sostanzialmente lo stesso ovunque; mentre l’identità d’oggetto e di mezzi è indi­ scussa, l’identità di contenuto è stata generalmente respinta dalla fine dell’Ottocento fin verso il 1930. Ma è stata respin­ ta dai sociologi e non dagli storici del diritto. D’altra parte, dopo il 1930, i sociologi sono meno rigidi nelle loro afferma­ zioni. In realtà essi si sono lasciati prendere dalla “mania dei primitivi”, e molto spesso hanno basato su eccezioni limitate nello spazio e degenerazioni il loro assunto secondo cui il contenuto del diritto sarebbe irrimediabilmente variabile. In realtà, quando si esce dalla fase del tutto primitiva, la quale non conosce altro diritto che il tabù e l’ordine del capo, non appena la società si organizza e fa la sua comparsa un dirit­ to (compenetrato con la religione) si trova un contenuto che ben può essere originale ma che tende senza sosta ad avvi­ cinarsi ad una sorta di tipo comune. Questo tipo comune si manifesta come esistente quando il diritto diventa laico e si entra nella fase che abbiamo chiamato “del diritto naturale”. Si produce una vera decantazione, le norme aberranti ten­ dono a scomparire, e il diritto tende ad acquistare un conte­ nuto sempre più omogeneo. Si ritroveranno così nella gran­ de generalità dei casi: le norme relative al matrimonio (con pena di morte per l’adulterio), alla patria potestà, alla schia­ vitù, alla proprietà, all’omicidio e al furto, al contratto ed al pegno, in tutte le società. Norme che non sono tecnicamente 34

I. IL DIRITTO NATURALE CONSIDERATO COME FENOMENO

identiche, ma che si riferiscono tutte alla medesima istituzio­ ne, alla medesima realtà giuridica. Così, da quando un di­ ritto in senso proprio esiste, questo diritto ha un contenuto essenzialmente comune a tutti i popoli. Ciò non si spiega né per imitazione, né per fenomeni di osmosi che possano esser­ si verificati fra civiltà diverse. Non si spiega nemmeno pen­ sando alla decisione arbitraria di un governo od al semplice giuoco delle condizioni economiche. Il fenomeno dell’unità sostanziale del contenuto del diritto presso tutti i popoli è in­ contestabilmente un prodotto naturale dell’evoluzione. Più la civiltà si evolve, più l’unificazione diventa possibile. Così quando il diritto è divenuto pura e semplice tecnica in varie nazioni, sarà il diritto tecnicamente più progredito che s’imporrà dappertutto. Tale è stato il caso del diritto ro­ mano. Tale è stato il caso del Codice civile francese che fu ap­ plicato in paesi così differenti come il Giappone e la Turchia. Ma in questo sistema puramente tecnico qualunque criterio può essere adottato per distinguere il diritto dal non-diritto. E giusto ciò che è conforme all’interesse del popolo tedesco, dirà il nazismo. E giusto ciò che è conforme all’interesse del proletariato, dirà il comuniSmo. Questa applicazione di cri­ teri esterni al diritto è possibile solo nel diritto puramente tecnico. Ma ciò rientra fra le conseguenze della negazione del diritto naturale che vedremo più avanti. C) Il terzo punto che resta saldo è che nella formazione del diritto non vi è né creazione arbitraria dello Stato, né creazione automatica da parte dei fattori sociali ed economi­ ci. Se così fosse, non si potrebbe immaginare di ottenere que­ sta unità di metodo, di oggetto e, nella sostanza, di contenuto che abbiamo constatato quando le condizioni economiche e sociali sono radicalmente diverse. A questo proposito, un la­ voro interessante è stato fatto nel secondo secolo d.C., la Collatio legum Mosaicarum et Komanarum, che pone in luce le somiglianze di fondo fra il diritto ebraico del V-IV sec. a.C. e il diritto romano del secondo secolo della nostra era. Nessu­ na identità sociale può spiegarle. L’influenza delle situazioni economiche e politiche è inne35

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gabile. Il diritto si evolve insieme ad esse. Si può anche dire che ne è un prodotto. Ma non ne è un prodotto grezzo. Ne è un prodotto elaborato. E chi provvede alla sua elaborazione è l’uomo. E lui che distingue fra le regole derivate da queste situazioni, è lui che si spinge fino a trasformare certe situa­ zioni a vantaggio del diritto. E lui che costruisce il sistema del diritto in modo spontaneo. Ora egli lo fa secondo principi che all’origine non sono né espliciti né teorici. Lo fa secondo principi che sono indiscutibilmente comuni a tutti gli uomi­ ni, salvo eccezioni, quando comincia l’elaborazione del dirit­ to.7 Questo solo può spiegare le somiglianze notate poc’anzi. Come comprendere, senza una certa nozione comune di giu­ stizia che si ritrova in tutti i diritti primitivi, fenomeni giu­ ridici così complessi come il contratto ed il pegno che sono direttamente fondati su questa idea di comune misura socia­ le, di equivalenza soggettiva delle prestazioni, in cui si può scorgere il primo contenuto del concetto di giustizia? Anche qui abbiamo un’idea che ha potuto essere discussa da socio­ logi che non conoscevano abbastanza né il diritto né la storia del diritto, ma la cui autorità è oggi in declino. Le loro affer­ mazioni recise sono continuamente rimesse in discussione. Questi tre punti che evidentemente non bastano a fondare una dottrina del diritto naturale (in quanto per arrivare ad essa bisognerebbe unirli mediante una estrapolazione pura­ mente dottrinale) devono essere tenuti presenti come gli ele­ menti di base di ogni teoria giuridica.

7 Su questa elaborazione del dato giuridico da parte del senso di giustizia cfr. Roubier, op. cit., pp. 153-84, che ne compie un'approfondita analisi.

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4. La negazione del diritto naturale Abbiamo già visto che in certe epoche della storia del di­ ritto si verifica il fenomeno del rifiuto del diritto naturale. Oggi viviamo sicuramente in uno di questi periodi. Quali sa­ ranno le conseguenze di questa negazione - conseguenze o fatti concomitanti, è difficile distinguerli, in ogni caso fatti collegati alla negazione del diritto naturale? Negazione che può essere, lo abbiamo già detto, sia esplicita (come ai giorni nostri) sia implicita (come alla fine dell’epoca romana). A) Il diritto cessa allora di avere come unità di misura un certo senso ed una certa idea della giustizia e diventa una pura combinazione di regole tecniche. Allora non vi è più alcun fattore normativo nel diritto. Si tratta semplicemen­ te di abilità, di un giuoco matematico. Le leggi non hanno più alcun rapporto con la giustizia, ma sono fatte in consi­ derazione dell’utilità sociale immediata.8 L’applicazione delle leggi da parte dei tribunali diventa una semplice deduzione logica di regole il cui raggio d’azione si fa sempre più va­ sto, che cercano di prevedere tutti i casi, occupando sempre maggiori spazi con una disciplina straripante, e di eliminare sempre più il fattore personale nella creazione giuridica. Già i romani conoscevano bene questo fenomeno, che esprime­ vano col principio summurn ius, summa iniuria, vale a dire, quando il diritto diventa pura tecnica, raggiunge un alto gra­ do di perfezionamento, ingloba tutti i fatti sociali, allora non vi è più posto per la giustizia, e si arriva alla negazione del

8 Questa negazione del diritto naturale che corrisponde alla fase tecnica del diritto è ciò che sembra essere l’ideale del diritto per la Scuola normativa. D’altronde, questa non fa che spingersi alle estreme conseguenze, ma la sua natura è quella stessa della Scuola utilitarista inglese e della Scuola positivista francese. Queste tre concezioni del diritto, che rispondono ad una situazione storicamente determinata in cui il diritto si trova, comportano le conseguenze che indichiamo nel testo, nonostante la loro volontà di fare del diritto un va­ lore universale e indiscutibile.

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JACQUES ELLUL - IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO

diritto stesso (in-ius). Ora questo avviene quando non v’è più posto per un elemento regolatore della tecnica giuridica, per un contrappeso che, in mancanza di meglio, potremmo de­ finire umano e naturale, alla proliferazione sistematica. La tecnica giuridica, da quel momento, come ogni tecnica, è cie­ ca; si spinge più lontano che può; va fin dove può andare il ragionamento stesso; si applica ovunque una qualsiasi utilità abbia bisogno della sua applicazione. E logica ma non è co­ ordinata, è sistematica ma cieca, è adeguata a tutto ciò che è materiale, ma non è adeguata alla giustizia.. B) Da quel momento, la tecnica giuridica è a disposizione di chiunque se ne voglia impadronire. Questa fase tecnica del diritto può durare molto a lungo per una sorta di cri­ stallizzazione sociale, come nell’Impero bizantino. Inversa­ mente, può anche essere utilizzata da un potere qualunque. Da quel momento, a questa tecnica che di per sé è neutra, si attribuisce uno scopo, se ne fa applicazione secondo criteri nuovi ed arbitrari che si sostituiscono all’idea di giustizia e di diritto naturale. E quanto abbiamo già rilevato a proposito del nazismo e del comuniSmo. Ciò diventa possibile perché il diritto naturale è scomparso, e l’idea di giustizia ha ceduto il posto ad una semplice tecnica. A questo momento, un tale sistema non ha più nulla a che fare con il diritto. Si tratta di regole destinate a favorire il potere del più forte, ed il più for­ te legittima la sua posizione dando al sistema giuridico criteri “di diritto” nuovi. Ma questo fenomeno costituisce solo la punta estrema dell’intervento crescente, nell’ambito del di­ ritto, da parte dello Stato. C) Finché il diritto naturale permane, la parte dello Stato nel diritto è limitata. Il diritto si presenta come un prodot­ to spontaneo della società. Lo Stato è il potere che sanziona il diritto, nel duplice senso della parola. E lui, da una parte, che dichiara che cosa, fra le norme prodotte, è diritto e che cosa non lo è, e, dall’altra, che garantisce ciò che è diritto me­ diante una sanzione, ed applica questa sanzione. Se lo Stato tenta di produrre un diritto non necessario, o non conforme al sentimento comune di giustizia, si può star sicuri che la 38

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società reagirà, rifiutando quel diritto. Ma quando il diritto naturale scompare, allora lo Stato ha mano libera. Non ha più limiti ed è lui che diventa uno dei fattori di produzione tecnica, insieme ai giuristi. Ma mentre i giuristi fanno della pura tecnica, lo Stato fa del diritto a suo vantaggio. Fa preva­ lere in tutto l’ambito sociale la ragione di Stato come fattore unico di creazione del diritto e come fondamento unico del valore del diritto. Lo Stato non è più giudicato nella sua azio­ ne dalla legge, è lui stesso che giudica la legge, lui l’ha fatta così come ha voluto. Ed uno dei sintomi sicuri della scom­ parsa del diritto naturale è precisamente questo dibattito. In certe epoche della vita sociale si vede infatti sorgere questo problema: “Il principe è tenuto all’osservanza della legge?”. Quando si pone questo interrogativo, allora si può star sicuri che il diritto naturale è o sarà ben presto rifiutato e che la ra­ gion di Stato si va sostituendo come scopo alla elaborazione del diritto. Insomma, tutto questo ci mostra che nella misura in cui il diritto si forma spontaneamente, non ha uno scopo coscien­ te, non ha ideali al di fuori dell’assetto giuridico che il diritto sarà incaricato di realizzare, ma scaturisce dalla situazione sociale e politica, prendendo forma in un certo concetto di giustizia del quale bisogna pure prendere atto, e che in gran parte determina il diritto. Allorché questo scompare, il dirit­ to si cerca uno scopo al di fuori di sé stesso, e lo troverà sia nella ragion di Stato, sia in un altro criterio del giusto, sia an­ che in una teoria filosofica del diritto naturale, che è un fat­ tore esterno rispetto al diritto. D) Un’altra conseguenza della negazione del diritto natu­ rale è il fatto che progressivamente il diritto cessa di essere osservato e rispettato. Difatti, tutto ciò che l’uomo medio di una società primitiva conosce del diritto è il suo caratte­ re religioso, ed il sentimento religioso di quest’uomo fonda questo diritto perché questo sentimento religioso è comune a tutti, è indiscusso, dà autorità al diritto. Tutto ciò che l’uomo medio di una società evoluta, nella quale il diritto ha un’esistenza propria, conosce del diritto, 39

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è un certo senso della giustizia che quest’uomo possiede.9 Questo sentimento è con larga approssimazione comune a tutti, è indiscusso ed è su di esso che si basa l’autorità del diritto, perché è lo strumento mediante il quale i dati sociali vengono elaborati e trasformati in diritto, e di conseguenza è la molla che spinge l’uomo a dare la propria adesione a que­ sto diritto determinato. Così il diritto possiede una dimen­ sione comune agli uomini, ed un’autorità che si spiega con la sua stessa origine. Quando il diritto diventa tecnica ed espressione della ra­ gion di Stato cosa succede? L’uomo che conserva il suo sen­ so di giustizia non si riconosce più in un diritto di questo genere. Non vi è più una dimensione comune fra l’uomo e il diritto, tranne il fatto che certi uomini si servono del dirit­ to. C’è la ragione che fa del diritto un oggetto ma che non dà un vero adeguamento. E questo fatto che l’uomo medio non si sente più a suo agio nel mondo del diritto, non ha più una partecipazione profondamente sentita a questo diritto, ha come grave conseguenza che l’uomo non vede più perché bisognerebbe ubbidire a questo diritto. Esso diviene un cal­ co modellato su necessità economiche e politiche, ma privo di senso per l’uomo. Da quel momento l’autorità del diritto non si fonderà più che sulla sanzione. E quest’ultima cessa di essere una reazione spontanea e sentita del corpo sociale contro chi ne ha turbato l’ordine; la sanzione non è più che la decisione tecnica di questo fattore tecnico che è lo Stato. Da quel momento essa perde efficacia perché il comune sen­ tire non la riconosce più come una sanzione autentica, non è più che una costrizione esteriore che l’uomo mal sopporta. E questo il motivo per cui ogni volta che il diritto naturale

9 Dicendo ciò, non pregiudichiamo affatto la questione se questo senti­ mento sia “naturale”, inerente alla natura, acquisito attraverso Peducazione, esistente allo stato di convenzione sociale, proveniente dalle condizioni ma­ teriali di vita ecc. Constatiamo semplicemente la sua esistenza. Per lo studio del senso di giustizia si vedano i lavori di Le Fur e E. Lévy, Les fondements du droit.

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vien meno, si estende il sistema poliziesco e si inaspriscono le pene. Ma invano, perché lo Stato non è più in grado di eri­ gere un diritto contro il senso comune della giustizia. Tutt’al più si può far sorgere un nuovo sentimento grazie alla misti­ ca. Ma non si tratta mai di un diritto accettato come giustizia. Allora si forma un altro diritto, d’origine popolare, accanto al diritto dello Stato. In Francia ne abbiamo avuto un esem­ pio assai caratteristico col fenomeno del mercato nero. La sanzione perde il suo peso in modo tale che i giudici rinun­ ciano ad applicarla. Al diritto non si ubbidisce più. Per non aver voluto adottare altra unità di misura che quella dell’effi­ cacia, il diritto diviene radicalmente inefficace. Ma di questa esperienza non si tiene mai conto. E) Infine, faremo un’osservazione: sempre, a questo stadio di evoluzione del diritto, si cerca di far rivivere artificialmen­ te il diritto naturale per ridare una vita al diritto. Fu questo anche l’intento di Giustiniano, oltre che di molti altri. Ma qui l’uomo è del tutto impotente. Il diritto naturale non può rivivere per iniziativa dello Stato. Ciò che è spezzato, in que­ sta vicenda, è il rapporto fra l’uomo e il diritto. Non è con una teoria filosofica o giuridica che lo si può ristabilire. La teoria potrà tutt’al più fare avvertire con maggior evidenza la gravità della questione, ma in realtà non è possibile tornare indietro. Non si può ristabilire dall’esterno una sintonia fra l’uomo e lo Stato. E l’atteggiamento dell’uomo verso il dirit­ to non è più lo stesso. Sarebbe necessario un cambiamento simultaneo, interiore, della mentalità dell’uomo (che condi­ ziona la sua adesione alla società) ed esteriore, dello Stato e del diritto, vale a dire esattamente la fine di una certa forma di civiltà. Oggi siamo approssimativamente a questo punto. Ci sembra quindi del tutto illusorio sia lavorare alla costru­ zione di un nuovo diritto naturale, che non corrisponde né al pensiero comune dell’uomo d’oggi, né alla concezione mo­ derna del diritto, sia discutere sulla necessità o l’esistenza del diritto naturale in quanto teoria. E invece della massima im­ portanza cercare di vedere chiaramente che cos’è il diritto nella Rivelazione e di fronte ad essa, perché la formazione 41

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di una nuova civiltà non potrà avere inizio che dalla volon­ tà di Dio. Importa sapere cos’è il diritto naturale in quanto fenomeno, considerato in questa prospettiva. Importa infi­ ne sapere quali conseguenze giuridiche si possono trarre da queste nozioni. Concludendo queste brevissime note, constateremo dun­ que che in certe epoche nell’evoluzione delle società si arri­ va a un diritto costruito dall’uomo naturale, apparentemen­ te senz’altro strumento che la sua intelligenza, e che corri­ sponde a questi tre dati: a) un certo senso della giustizia, che dev’essere approssimativamente lo stesso in tutti ad un de­ terminato momento, perché da esso traggono origine istitu­ zioni simili nel loro fondamento; b) un certo equilibrio fra la tecnica giuridica indispensabile per l’elaborazione del dirit­ to, e l’ambiente umano e sociale di modo che il diritto non sia una creazione spontanea, irrazionale dell’ambiente, ma nemmeno una creazione puramente razionale, matematica, estranea all’ambiente; c) una certa necessità riconosciuta al tempo stesso dallo Stato che è subordinato al diritto, e dagli individui, la quale fa sì che il diritto sia efficace e ubbidito. Questi tre elementi sono legati gli uni agli altri, e sono carat­ teristici di quello che si può chiamare il diritto naturale come fenomeno.

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II Il diritto divino1

1. Giustizia La Bibbia non conosce la nozione di Diritto nel senso in cui la intendiamo noi oggi. Ogni volta che si parla di dirit­ to, questo è rappresentato semplicemente come l’espressio­ ne della giustizia. Bisogna dunque determinare rapidamente questa nozione di giustizia prima di affrontare il problema del diritto. In ebraico troviamo principalmente due termini per dire giustizia: uno si riallaccia alla radice sch’ph’th ed im­ plica l’idea di giudicare, condurre, con tutti i derivati: diritto, legge, costume, modo di essere, condotta esteriore, apparen­ za, e si riferisce manifestamente alla giustizia nel suo senso umano, esteriore, sociale. L’altro si riallaccia alla radice z'd’k’ ed esprime l’idea di giustificazione, con tutti i derivati che sembrano andare in direzioni opposte: giustizia, equità, ve­ rità, da un lato, grazia, innocenza, giustificazione, dall’altro, e si riferisce manifestamente alla giustizia nel suo significato divino: giustizia di Dio che finisce per esprimersi nella grazia. Ma questa separazione non è così assoluta come le radici e i derivati comporterebbero. In realtà, i due termini sono tal­ volta scambiati. Si può evidentemente sostenere che si trat­ ta solo di un uso linguistico o di un lassismo senza alcuna

1 Riprendiamo questo termine dallo studio già citato di M. Visser’t Hooft. Per questo capitolo dobbiamo molto al suo studio, così come a quello di S. De Diétrich, Le fondement biblique du droit, in “Le Semeur”, maggio 1945, p. 40.

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JACQUES ELLUL - IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO

conseguenza di rilievo. Ma vi è almeno un testo per il quale ciò non si può dire: “Giudicate secondo la giustizia le con­ troversie di ciascuno con suo fratello o con lo straniero. Nei vostri giudizi non avrete affatto riguardo all’apparenza del­ le persone; ascolterete il piccolo come il grande; non avrete paura di alcun uomo, perché è Dio che rende giustizia” (De. 1: 16-17). Quest’ordine è impartito ai giudici e riguarda re­ almente la giustizia umana organizzata, non solo per quanti facciano parte del popolo di Israele, ma anche per lo stranie­ ro, come dice il testo. Dunque “Giudicate secondo la giusti­ zia”: la parola usata è zadak, di conseguenza si tratta di giu­ dicare secondo il metro della giustizia di Dio. “Perché è Dio che rende giustizia...”: la parola usata è mischpath, dunque, nella giustizia dei giudici della terra, è Dio che agisce. Abbia­ mo qui l’unione volontaria dei termini (lo dimostra la loro ripresa nelle due frasi) con applicazione volontaria di ogni termine ad un’altra nozione della giustizia. Questo ci induce ad affermare che negli altri testi si può accettare un tal modo di esprimersi, non come un lassismo, ma come un’indicazio­ ne teologica. Malgrado l’esistenza valida di due termini, non si può dire che vi sia una giustizia di Dio ed una giustizia dell’uomo separate l’una dall’altra, in modo da formare due grandezze semplicemente coesistenti ma indipendenti. In re­ altà, non vi è che una sola giustizia e nella misura in cui la giustizia dell’uomo si modella sulla giustizia di Dio, non si può assolutamente comprendere l’una senza l’altra. E questo vincolo non è casuale. E già stato dimostrato fino a che pun­ to le nozioni giuridiche erano importanti per comprendere l’azione di Dio,2 poiché Dio ha fatto entrare la sua azione nello stampo delle forme umane. E quando Dio stabilisce un tale vincolo, esso è reciproco. Vale a dire, adottando per le sue azioni una forma giuridica, egli dà alla giustizia umana e al diritto il loro vero significato e la loro vera forma. Ne trar­ remo le conseguenze più oltre.

Cfr. Théo Preiss, Le témoignage intérieur du Saint Esprit.

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II. IL DIRITTO DIVINO

Adesso dobbiamo precisare le relazioni fra la giustizia di Dio e la giustizia umana. Senza la pretesa di “analizzare” la giustizia di Dio, una rapida scorsa ai testi permette di affer­ mare: A) La giustizia di Dio è espressione della trascendenza di Dio. Da una parte esige che ogni errore sia punito e che cia­ scuno riceva secondo le sue opere. Esige dunque la riparazio­ ne completa di tutti i peccati dell’umanità, durante l’intero corso della sua storia. Ma nello stesso tempo e d’altra parte la giustizia di Dio è costantemente legata alla grazia ed al per­ dono: SI. 33:5 (parallelo fra giustizia e bontà), SI. 76: 9: Dio è un giudice terribile, giudica per salvare i poveri: “La terra spaventata è rimasta in silenzio quando Dio si è alzato per fare giustizia, per salvare tutti i poveri della terra...”. E que­ sta affermazione è costante: quando Dio giudica non è per la morte ma per la vita. Lo troviamo in forma sistematica in Ez. 33: 11. E non è un fatto casuale, od una concezione partico­ lare della giustizia, che sarebbe una giustizia contro i ricchi e a favore dei poveri, ma è invece una giustizia che è legata alla grazia, che, in una certa misura, è, essa stessa, grazia: per esempio, SI. 33:5: “Egli ama la giustizia, la bontà dell’Eterno riempie la terra”, e si sa che in queste strofe dei Salmi vi è un legame rigoroso fra le idee espresse dai due membri di ogni strofa: la sovrapposizione di giustizia e di bontà è realmente significativa. E gli esempi si potrebbero moltiplicare. Abbia­ mo qui una caratteristica di questa giustizia di Dio. E questo da una parte era già indicato nella parola stessa di zadak che vuol dire, lo abbiamo già fatto notare, giustizia e grazia; d’al­ tra parte in tutti i racconti mitici che descrivono il modo di agire di Dio: ogni volta che Dio pronuncia un giudizio, vi è sempre una grazia che vi è connessa e tuttavia è pur sempre un giudizio, nel senso rigoroso del termine. Così il giudizio su Adamo, che conserva la vita al mondo; il giudizio su Caino che pone il peccatore sotto la protezione di Dio; il giudizio su Ninive (in Giona) che è un appello al pentimento. E qui non parleremo del giudizio su Gesù Cristo. B) Davanti alla giustizia di Dio, ogni giustizia umana è in45

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giusta. Tutto ciò che non è la Sua giustizia è ingiustizia. “Tut­ ta la vostra giustizia è come un abito sudicio” (Is. 64: 5). E questo si comprende facilmente se si ricorda che nella Scrit­ tura è giusto ciò che è conforme alla volontà di Dio. Il giu­ sto è colui che cammina sulla strada che Dio gli ha tracciato. Non vi è alcuna concezione della giustizia indipendente da questa.3 L’uomo con le sue forze non può arrivare a capire cosa sia la giustizia (Pr. 2: 9), e su questo punto dovremo tor­ nare. Tutto, ma proprio tutto, ciò che l’uomo fa con le sue forze è ingiusto. E questo il tema che rende grande il dibatti­ to nel Libro di Giobbe. E tuttavia Dio prende in considerazione la giustizia uma­ na. Non solo questa giustizia che consiste nel fare pienamen­ te la volontà di Dio, giustizia che non esiste davanti a Colui che è tre volte santo, ma anche questa giustizia affatto re­ lativa che consiste nel non fare torto ai deboli, nel non ru­ bare ecc. ed anche nell’organizzare un sistema giudiziario, nell’emettere sentenze giuste (Le. 19: 15, per esempio), nel mantenere l’ordine e la pace. Tutte queste opere senza valore di fronte alla giustizia di Dio, Dio le accetta e le considera va­ lide. Senza dubbio, sarebbe andare contro la volontà di Dio respingere tutta questa giustizia dell’uomo perché è realmen­ te ingiusta di fronte alla giustizia di Dio. C) Infine, un terzo carattere della giustizia di Dio è che essa ci è data costantemente come il segno del giudizio che sarà pronunziato sulla terra alla fine dei tempi. E in ciò che questa giustizia si manifesta nella sua totalità, perché vi è solo Dio che faccia giustizia e la sua giustizia si manifesta in un giudizio espresso su tutta la terra (2 P. 3:15). Questa no­ zione escatologica è ben conosciuta e sarebbe inutile sottoli­ nearla, se non fosse strettamente legata al fatto che, sebbene il giudizio sia riservato per la fine dei tempi, tutti i testi che ne parlano ci fanno sapere che, parimenti, la zedaka è il go­ verno attuale dei popoli da parte di Dio. E facile citare nu-

Schlemmer, Etudes théologiques et réligieuses, gennaio 1944.

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H. IL DIRITTO DIVINO

merosi testi su questo tema, ad esempio SI. 7: 9: “L’Eterno giudica i popoli. Rendimi giustizia, o Eterno!”, oppure SI. 9: 9. “L’Eterno regna per sempre. Ha innalzato il suo trono per il giudizio, Egli giudica il mondo con giustizia, Egli giu­ dica i popoli con rettitudine”. Ed in quest’ultimo testo va messo in evidenza che il verbo “giudicare” è sch’ph’th, vale a dire giudicare proprio con questa giustizia fondata sul di­ ritto, che è anche governo. Infine, nella stessa prospettiva, bisogna considerare che i “Giudici”, che sono, senza alcun dubbio, coloro che devono essere i segni dei giudizi di Dio, si chiamano schephathim. Così questo giudizio escatologico di Dio è anche e nello stesso tempo governo delle nazioni da parte di Dio. In questa giustizia riscontriamo così caratteri radicalmente contraddittori. Ma ci possiamo fermare a questo punto? Ci possiamo arrestare all’analisi (che ci è esposta molto bene nei testi) senza che vi sia una sintesi? E, infatti, non vi è sintesi umana fra queste contraddizioni, ma la sintesi ci è data da Dio stesso in Gesù Cristo. E lui che è fatto giustizia (1 Co. 1: 30). Non si tratta dunque di una dialettica intellettuale, o di una sintesi arbitraria e che avrebbe potuto essere differente. La sintesi sta in questo, che la persona di Gesù Cristo è Giu­ stizia. Gesù Cristo non è soltanto un segno, un testimonio, un elemento, qualcuno che dà soddisfazione alla giustizia di Dio. E lui stesso la totalità di questa giustizia. E colui che ha portato i peccati del popolo, e di conseguenza ha pagato il debito verso la giustizia, nel momento stesso in cui manife­ stava la grazia di Dio. E colui che ha messo in luce l’ingiu­ stizia radicale della giustizia degli uomini (per esempio nel processo davanti a Pilato), ed al tempo stesso ha convalidato questa giustizia sottomettendovisi. E vedremo più avanti che come fonda le autorità civili mediante la sua vittoria sulle po­ tenze del mondo, così fonda il diritto umano in tutto il suo complesso. Egli è colui nel quale il giudizio su tutta la terra è pronunciato, la condanna ed il perdono escatologici già pre­ senti, ed al tempo stesso colui per il quale e da parte del qua­ le la terra da un lato è conservata, dall’altro governata, per47

JACQUES ELLUL - IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO

ché ne è il Signore. Così, senza che vi sia la minima forzatura nell’interpretazione dei testi, ci troviamo, indiscutibilmente, di fronte alla risposta che Dio stesso ha dato all’interrogativo sollevato dal problema della giustizia. Tutti i caratteri della giustizia di Dio sono riuniti e realizzati nella vita, morte e re­ surrezione di Gesù Cristo. Gesù Cristo è fatto giustizia di Dio. Non vi è dunque alcu­ na giustizia di alcun genere, nemmeno relativa, all’infuori di Cristo. A mostrarcelo è proprio questo doppio fatto stupefa­ cente, ossia che colui che rifiuta Gesù Cristo si condanna da sé, perché non vi è più giustizia possibile per lui (Gv. 3: 18). Difatti non può più invocare opere giuste davanti a Dio per­ ché non vi è alcuna giustizia al di fuori di colui che è la Giu­ stizia. Le opere, di qualunque genere, non possono dunque essere indipendenti dalla persona di Gesù Cristo. E, inver­ samente, chi crede è per ciò stesso giustificato, e non viene in giudizio, perché colui che giudica è al tempo stesso colui che giustifica (Gv.3:18 e 5: 24). Questo ci mostra per un’al­ tra via che non potrebbe esserci studio del diritto al di fuori di Gesù Cristo; non può esserci nemmeno un diritto umano, nemmeno un diritto relativo, se non è fondato in Gesù Cri­ sto. Tutto ciò a cui si può arrivare senza di lui è precisamente un “non-diritto”. Ma per il fatto che Gesù Cristo è la giustizia di Dio, egli esercita altresì questa giustizia. Si può quasi dire che la sua vita stessa è l’esercizio di questa giustizia, in forza di una vera delega, come leggiamo in SI. 72: 1-3: “O Dio, dà i tuoi giudi­ zi al re e la tua giustizia al figlio del re. Egli giudicherà il tuo popolo con giustizia ed i tuoi miseri con equità. Le montagne porteranno la pace per il popolo e le colline anche per l’ef­ fetto della tua giustizia. Egli tutelerà il diritto dei miseri del popolo. Egli salverà i bambini del povero, e schiaccerà l’op­ pressore”. E questa profezia non è altro che l’annuncio delle dichiarazioni stesse di Gesù: “U Padre non giudica alcuno, ma ha rimesso ogni giudizio al Figlio. E gli ha dato il potere di giudicare perché è il Figlio dell’Uomo. Io non posso far nulla da me stesso. Come odo, giudico, ed il mio giudizio è 48

n. IL DIRITTO DIVINO

giusto perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato” (Gv. 5: 19-30). In questa dichiarazione possiamo fin d’ora sottolineare due idee: la prima è questa definizione cui già abbiamo ac­ cennato del giusto come colui che fa la volontà del Padre. E per questo che il giudizio di Gesù è giusto, e questa giusti­ zia è non solo la giustizia morale, ma anche quella giuridica. Così, per una nuova via, raggiungiamo la verità già rivelata, ossia che questa giustizia non ha altro esecutore che Gesù Cristo stesso. La seconda idea è che Gesù Cristo ha ricevu­ to il potere di giudicare perché è il Figlio deH’Uomo. E qui troviamo un nuovo punto di contatto con il problema che ci occupa. Senza ricercare tutta la portata teologica di questa ri­ velazione, dobbiamo limitarci a constatare che Gesù Cristo, uomo e Dio, ha ricevuto da Dio il potere di giudicare preci­ samente perché egli è uomo e Dio, vale a dire perché la Giu­ stizia eterna è divenuta, in lui, giustizia temporale, perché lui che compie la Giustizia divina assume nello stesso tempo la giustizia umana, e che così abbiamo la risposta alla difficile domanda: questa giustizia di Dio che cosa può aver dunque a che fare col nostro diritto? Essa vi ha a che fare perché Gesù Cristo, in virtù della sua incarnazione, è il luogo in cui la giu­ stizia di Dio incontra la giustizia dell’uomo. D) Ma questa idea dell’incontro basta ad esprimere un tale fenomeno? Per precisare questa relazione dobbiamo fare ap­ pello ad un ultimo carattere della giustizia di Dio: è una giu­ stizia sostitutiva. Non è né distributiva, né retributiva, come ogni giustizia umana: è sostitutiva, vale a dire che essa con­ siste nel sostituire all’uomo peccatore, che può essere solo condannato a morte senza speranza, il giusto che si fa carico dei peccati del mondo, ma che trascina questi peccati nella sua morte (e di conseguenza toglie i peccati del mondo), e che non può essere trattenuto nei lacci della morte perché è senza peccato. E questa sostituzione decisiva porta con sé in tutta la storia la sostituzione, già presente come speranza ma compiuta alla fine dei tempi, della grazia alla natura, del regno di Dio al regno delle tenebre ecc. Ora questo concetto 49

JACQUES ELLUL - IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO

dev’essere applicato anche al nostro problema della giusti­ zia. Così, in Gesù Cristo, e perché egli esercita il giudizio, la Giustizia di Dio si sostituisce alla giustizia umana, e diventa essa stessa in una certa misura giustizia umana. Nella misura stessa in cui l’uomo è rivestito davanti a Dio della giustizia di Gesù Cristo. Più avanti dovremo esaminare che cosa ciò significhi, ma vediamo che nello studio del problema della giustizia (anche giuridica), la persona di Gesù Cristo è rigo­ rosamente al centro. E verso di lui che convergono questi differenti raggi: - il fondamento del diritto umano si trova in lui - il diritto umano è realizzato da lui - la qualificazione del diritto umano è data da lui. Questo deve distruggere in modo radicale l’atteggiamento che assumiamo generalmente di fronte alla giustizia di Dio, e che consiste (quando non ci limitiamo a negare, tout court, che esista un rapporto fra giustizia dell’uomo e giustizia di Dio4) nel considerare la giustizia di Dio come una specie di Magistratura d’appello in cui si potrebbe sperare, una giusti­ zia infallibile quando l’apparato giudiziario umano si è dimo­ strato manchevole. Col pretesto che a fare giustizia è Dio, noi pensiamo che si tratti di un’ultima Istanza. In realtà, quando Dio fa giustizia, Egli ingloba nel suo atto tutta la giustizia; egli si pone sul piano della perfetta umanità come nell’Incar­ nazione, e non si atteggia a giudice superiore che riesamina un caso deciso in modo errato da un giudice inferiore, ma come il promotore di ogni forma di giustizia, qualunque sia, perché la sua giustizia è sostitutiva. In altri termini, non vi è un rapporto gerarchico fra la giustizia umana e la giustizia divina. O tutta la giustizia è fondata, realizzata, qualificata dal Figlio di Dio, oppure non vi è nulla, e non si potrebbe proporre appello contro alcunché, nemmeno di fronte alla giustizia assoluta di Dio!

4 Come fa M. Brunner, Gerechtigkeit, pp. 15 ss.

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II. IL DIRITTO DIVINO

Qui non abbiamo studiato la nozione teologica di giustizia in tutti i suoi aspetti, ma solo indicato le linee che ci sembra­ no indispensabili per condurre la nostra indagine sul Diritto naturale.

2. Diritto Abbiamo detto più sopra che la Scrittura non si occupa di Diritto nel senso proprio del termine. Difatti non accen­ na mai a un diritto che abbia in sé la propria ragion d’essere, una giustizia eterna e indipendente. Sia principio o sistema, razionale o mistico, il diritto in sé, autonomo, non esiste per la Bibbia. Nella rivelazione non vi è spazio alcuno per una nozione giuridica, un’idea, una Legge, da cui dipendano tut­ te le leggi umane, che valga come unità di misura per tutto il diritto. E diritto, nella Scrittura (e ciò è fatto palese già dall’etimo­ logia) ciò che è conforme, ciò che segue la via tracciata. In realtà, nel senso giuridico, è diritto ciò che è conforme alla giustizia.5 Ma alla giustizia intesa così come abbiamo cerca­ to di definirla nel paragrafo precedente. Dobbiamo quindi precisare questa nozione. Difatti, essa non va intesa nel sen­ so che, se non esiste un diritto, esiste almeno una Giustizia in sé. Quanti teologi, invero, hanno preteso in qualche modo che la giustizia esista di per sé, o che abbia un contenuto, o ancora che sia un attributo di Dio! Dal punto di vista biblico questi sono altrettanti errori. Non v’è giustizia indipendente­ mente da Dio, come se potesse esservi una regola alla volontà

5 Di conseguenza, la giustizia, dal punto di vista umano è il contenuto essenziale e la qualità inseparabile del diritto: siamo dunque in opposizione aperta con le Scuole del diritto puro, secondo le quali il diritto non ha bisogno di fare riferimento alla giustizia (p. es., Durkheim). Ma anche con chi ritiene che la giustizia è solo un contenuto contingente del diritto, mentre l’essenziale è la sicurezza (cfr. Roubier, già cit., pp. 269 ss.)

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JACQUES ELLUL - IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO

di Dio, come se potesse esservi un motivo, che esista prima di lui. Non vi è alcun contenuto della giustizia perché, lo ve­ dremo fra poco, la giustizia si esprime nel giudizio. Non vi è alcun attributo di Dio, perché Dio è giustizia. Ciò significa in realtà che l’unico metro della giustizia è la volontà di Dio. È giusto ciò che è conforme alla volontà di Dio. E diritto ciò che si trova in sintonia con questa giustizia. Ma qui bisogna evitare le confusioni: non è la stessa cosa dire “Giustizia che esiste eternamente di per sé” e dire “Volontà di Dio che è giustizia”. Infatti, il primo termine è essenzialmente statico, e così appunto lo concepiva il sistema greco. Il secondo ter­ mine è essenzialmente dinamico. Benché eterna, infatti, la volontà di Dio non è per questo immobile; al contrario, tutto ciò che la Scrittura ci rivela a questo riguardo è che noi non possiamo conoscere la volontà di Dio al di fuori della Rivelazione, vale a dire al di fuori dell’atto di Dio, e di conseguenza hic et nunc. Così la volontà di Dio in quanto giustizia non è una sorta di quadro immutabile, nel quale possiamo sistema­ re i nostri concetti. Non è neppure una sorta di principio, dal quale poter dedurre un sistema. È sempre atto. E questo è rigorosamente conforme a quanto la Bibbia ci insegna della giustizia di Dio: la si trova solo nell’atto del giudicare. Non ne possiamo conoscere né l’essenza né la forma al di fuori dell’atto presente, attuale di Dio, che è il giudizio. In altri termini, non vi è giustizia se non vi è giudizio. E, come corol­ lario, è nel giudizio che noi cogliamo la Giustizia. È la volontà personale di Dio che rende giustizia (De. 1: 17), e, di conseguenza, che pronunzia un giudizio, che dà tut­ ta la misura di questa giustizia. Così il diritto appare in ogni modo come un atto di Dio. Lo preciseremo con riferimento alla nozione di diritto naturale. Ma non bisogna dimentica­ re che tutto ciò che abbiamo appena detto s’inquadra nella prospettiva della Redenzione, vale a dire, la Giustizia di Dio che si manifesta nel giudizio è costantemente quella che sta nella morte di Gesù Cristo. È sulla croce che il mondo viene giudicato in modo definitivo. È sulla croce che l’atto di Dio è rivelato nella sua pienezza, ed è proprio questo giudizio che 52

H. IL DIRITTO DIVINO

è la manifestazione di tutta la Giustizia di Dio. Non si può dunque comprendere il diritto se non si pone al centro di tutto la croce di Gesù Cristo. Così siamo indotti a precisare meglio il concetto. Perché Dio giudica? In altre parole: perché Cristo è stato crocifisso? Domanda da catechismo! Perché l’uomo ha peccato, perché a causa del peccato è separato da Dio, soggetto al potere di Satana, ed infine condannato a morte. Perché Dio nel suo amore non può tollerare questa situazione, perché Egli rista­ bilisce il rapporto con l’uomo, lo strappa a Satana “O morte, dov’è la tua vittoria?”. Dunque l’atto supremo di giustizia di Dio manifesta la sua volontà di ristabilire il rapporto con l’uomo. E questo con­ cetto è della massima importanza per comprendere cos’è la giustizia. Quando Dio giudica, è sempre per ristabilire quel­ lo che è stato alterato, falsato: relazioni fra Dio e l’uomo o relazioni degli uomini fra loro. Beninteso, non vogliamo dire che l’uomo attualmente è reintegrato in quella che era la po­ sizione di Adamo di fronte a Dio, ma lo è nella prospettiva della speranza, e la Santa Cena è il segno che gli è dato della certezza di questa reintegrazione. Parimenti, il giudizio che Dio pronunzia hic et nunc, come la Bibbia ci insegna, non è la restaurazione di tutta la giustizia sulla terra. Ma il se­ gno che questa giustizia è effettivamente ristabilita da Dio e dipende solo da Lui. Soltanto se vediamo abbastanza chia­ ro, per una lunga consuetudine con la teologia, ciò che si­ gnifica questo ristabilimento in Gesù Cristo, avvertiamo la difficoltà di concepire cosa sia questo ristabilimento in ciò che potrebbe dirsi “l’ordine giuridico”. Qui dobbiamo rife­ rirci alla Scrittura, e vediamo che in realtà una vera differen­ za non esiste. Come in Gesù Cristo abbiamo il ristabilimento dell’uomo nella sua vera situazione di creatura, così sul piano giuridico il giudizio di Dio si esercita per ristabilire l’uomo nei suoi diritti, nella sua vera situazione umana (e dunque di creatura). Vedremo più avanti cosa bisogna intendere allor­ ché si parla di questi diritti dell’uomo. Per ora atteniamoci a questa nozione e consideriamo che quando Dio giudica l’uo53

JACQUES ELLUL - IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO

mo, quando interviene con la sua giustizia, è secondo il diritto dell’uomo che giudica. “Rendimi giustizia, o Eterno, secondo il mio diritto” (SI. 7: 9). Ed in questo salmo non si tratta solo della giustizia eter­ na, o del diritto davanti a Dio, ma prima di tutto della giusti­ zia di fronte ai malvagi, di fronte ai nemici. Dio è chiamato costantemente nella Scrittura come il garante del diritto di un uomo di fronte a coloro che usurpano questo suo diritto. Mediante il suo giudizio egli ristabilisce una situazione giu­ ridica turbata dalla violenza (e, beninteso, questo giudizio non potrebbe essere compreso altrimenti che come profezia e segno di quello manifestato in Gesù Cristo). Dio si mette così sullo stesso piano dell’uomo. Lo si vede con particolare chiarezza nel Salmo 50, versetti 16 e seguenti: “E Dio dice al malvagio: Come! tu elenchi le mie leggi e parli della mia alleanza! Proprio tu che odii i miei comandamenti e ti butti le mie parole dietro le spalle! Se vedi un ladro, ti diletti del­ la sua compagnia, e frequenti gli adulteri. Abbandoni la tua bocca alla maldicenza, e la tua lingua trama inganni. Ti siedi e parli contro tuo fratello”. Dio esprime la sua giustizia te­ nendo conto della situazione di ciascuno, qui sta il significato di questo riferimento costante al giudizio: “Molti cercano il favore del potente, ma è l’Eterno che fa giustizia ad ognu­ no” (Pr. 29: 26). Non v’è dunque una giustizia astratta che si applichi in globo, c’è solo la considerazione della situazione personale di ciascuno al quale si applica la volontà di Dio, volontà che tiene conto per l’appunto del diritto di ciascuno. Ed è ancora questa idea che Gesù Cristo esprime, quan­ do dice: “Come odo, giudico” (Gv. 5: 30), oppure quan­ do conclude la parabola dei talenti con la risposta terribile al servitore negligente: “Dalle tue stesse parole ti giudico, cattivo servitore: tu sapevi che io sono un uomo duro, che prende ciò che non ha depositato e miete quello che non ha seminato”. In tutti questi testi non si parla affatto di un diritto ob­ biettivo, come se fosse questo il metro con cui valutare la si­ tuazione di ciascuno. Si parla, al contrario, di una situazione 54

n. IL DIRITTO DIVINO

concreta, nella quale la volontà di Dio prende in considera­ zione il diritto di ciascuno ed interviene per ristabilire questo diritto. Ora, questi diritti Tuomo non li ha per sua natura, non è affatto ovvio e scontato che ne sia titolare, come se po­ tesse contrapporsi a Dio. Dovremo vedere come li acquista. Ma qui, per completare quello che stiamo dicendo del Dirit­ to, bisogna ricordare almeno questa verità costante: “Il mio diritto è presso l’Eterno” (Is. 49: 4). L’uomo non ha altro di­ ritto che quello che è presso l’Eterno e che l’Eterno gli dà. Ed è per ciò che nei testi si parla costantemente di fare giu­ stizia ai miseri, alla vedova, allo straniero, ecc. Sono costoro ad avere autentici diritti, precisamente perché i loro diritti vengono dall’Eterno, e solo da Lui. Il ricco, il potente, non è ingiusto perché è ricco e potente, ma non ha diritti perché pretende di fondare il proprio diritto sulla sua ricchezza o la sua potenza. Di conseguenza, Dio non interviene per lui, precisamente perché il diritto che si crea il potente non è un diritto. Basta ricordare i numerosi testi profetici in cui Dio chiama l’uomo in giudizio, dove lo convoca a perorare la propria causa: l’argomento si riassume sempre in questi ter­ mini: “Vieni ad esporre il tuo diritto. Vieni a farti difendere dai tuoi idoli, dalla tua potenza, dalla tua saggezza”. E non si potrebbe pensare ad un successo da parte dell’uomo proprio perché egli si è messo in una situazione antigiuridica, una si­ tuazione nella quale non può esporre il proprio diritto, per­ ché non ne ha alcuno. Ma tale è la situazione di qualunque uomo davanti a Dio. Ed è questa la ragione per cui in tutto Israele non c’è che un povero solo: Gesù Cristo. Soltanto lui ha un diritto davanti a Dio, ed è soltanto in lui che gli uomini ricevono un diritto davanti a Dio. Questa concezione distrugge quindi radicalmente l’idea di un diritto oggettivo, di giustizia eterna, ecc. Il Diritto non è costituito che dai giudizi di Dio, e questi giudizi sono for­ mulati in funzione dei diritti dell’uomo. Il diritto profano non esiste: tutto ciò che l’uomo costruisce sotto il nome di diritto è esattamente la negazione del diritto, esattamente la situazione antigiuridica alla quale alludevamo più sopra. Il 55

JACQUES ELLUL - IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO

problema è allora di sapere se questa negazione del diritto umano è l’ultima spiaggia, se bisogna fermarsi qui e conclu­ dere: “Il diritto della città terrestre è un nulla, aspettiamo il diritto di Dio”. Dire questo, significa negare l’Incarnazio­ ne. La Rivelazione stessa ci incita ad andare oltre. Ma prima dobbiamo fare un’osservazione: già quello che abbiamo det­ to comporta gravi conseguenze per il diritto terreno. Infat­ ti, tutto questo quadro giuridico che Dio sceglie fra le cose umane per farci comprendere la sua azione non è la sostanza ma la forma di questa azione, ma il fatto che Dio scelga pro­ prio questa forma per esprimersi dà a tutto questo sistema giuridico il suo orientamento: difatti vi è da un lato la scel­ ta di questa forma da parte di Dio, che in definitiva ha solo uno scopo pedagogico; ma dall’altro vi è il significato che al sistema giuridico umano è attribuito dal compimento di que­ sta scelta. Dio ha manifestato la sua azione nelle forme del diritto: di questo fatto ormai bisogna tener conto. Il diritto non può più essere considerato indipendentemente da que­ sta scelta compiuta da Dio, la quale porta con sé come conse­ guenza che il diritto dev’essere così come Dio lo ha usato. In altre parole la sequenza: Giudizio - Giustizia - Diritto ha va­ lore normativo perché è una similitudine dell’azione di Dio.

3. Alleanza Ma con ciò non abbiamo affatto completato il nostro di­ scorso. Dobbiamo ancora occuparci, infatti, da un lato della situazione del diritto umano, dall’altro dell’origine dei diritti dell’uomo. E l’alleanza che ci dà la risposta. Che cos’è l’alleanza? È prima di tutto una grazia. Questo ce lo indica già l’etimologia: berith, alleanza, ha la medesima radice di barah, che vuol dire: scegliere, eleggere. L’alleanza è in primo luogo l’atto mediante il quale Dio elegge, sceglie un collaboratore. E di conseguenza è essenzialmente un atto 56

IL IL DIRITTO DIVINO

della grazia. Dio fa alleanza con chi vuole e quando vuole. Prima, non ha alcun vincolo; a contrarre l’alleanza è spinto solo dalla sua propria volontà e dalla sua natura che è amore. E l’alleanza, in ogni suo aspetto, reca l’impronta di questo atto di Dio. E bensì un contratto, come vedremo, ma resta pur sempre una faccenda di Dio. E lui che ne fìssa i limiti, i caratteri, le condizioni, il sigillo. Prendendo a prestito un termine moderno si potrebbe quasi dire che qui abbiamo un contratto per adesione, vale a dire un contratto di cui una delle parti fìssa tutte le clausole ed al quale l’altra parte si limita ad aderire. Tutto ciò che Dio domanda qui all’uomo non è che un’accettazione di quanto Egli stesso ha deciso. Tutte le alleanze che ci sono rivelate nella Scrittura sono di questo tipo: alleanza con Adamo, Noè, Abramo, Mosè. Ed in questa alleanza Dio si rivela. Anche in ciò essa è un segno della grazia e dell’elezione. Si rivela appunto non come il Dio onnipotente, trascendente, tre volte santo, ma come il Dio che si accosta all’uomo e che si affianca a lui come Emmanuele. E questa alleanza nel suo contenuto stesso ben mani­ festa che cos’è il Dio rivelato. ■k k k

A prima vista, l’alleanza è un contratto. Ma se ci fermiamo a questo punto, non potremo averne che una visione del tut­ to insufficiente. Vincolo stabilito fra Dio e l’uomo mediante lo scambio di formule contrattuali, certamente sì, ma quanto più ricca ci si rivela l’alleanza se si studiano i testi in modo dettagliato. Il primo aspetto che colpisce nell’alleanza è in­ fatti il giudizio: Dio giudica e manifesta la sua giustizia, poi fa grazia e concede la sua alleanza. Così con Adamo (Ge. 3): Dio lo giudica, ed infatti per la sua disubbidienza Adamo è condannato a morte. Ma Dio gli fa grazia e gli conserva la vita ponendo le sue condizioni, e stabilisce la situazione nuo­ va che risulta da questo fatto: con il peccato, Adamo ha in­ franto le sue relazioni con Dio, ma quest’ultimo, per grazia, mantiene le sue relazioni con Adamo. Così con Noè (Ge. 9): 57

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Dio giudica tutta la terra, e la condanna. Manda il diluvio e compie la sua giustizia, ma fa grazia a Noè, lo salva, e dopo averlo salvato, dopo avergli fatto vivere l’esperienza del giu­ dizio, conclude la sua alleanza con tutto il genere umano, rappresentato da Noè. Così con Abramo: tutto il complesso trattato d’alleanza che l’Eterno stipula con Abramo (Ge. da 14 a 17) è collegato a questo giudizio pronunziato al tempo stesso sul popolo d’Israele e sui suoi oppressori e che è ri­ velato ad Abramo da una parte nell’atto profetico che egli compie combattendo contro i re, dall’altro nel sogno: “Sappi che i tuoi discendenti saranno stranieri in un Paese che non sarà affatto il loro; saranno resi schiavi ed oppressi per quat­ trocento anni. Ma io giudicherò la nazione alla quale saran­ no asserviti” (Ge. 15: 13). Ed è solo dopo questi giudizi che Dio rivela la sua alleanza ad Abramo. Infine, è appena il caso di ricordare l’alleanza con Mosè! Essa è preceduta nel pri­ mo caso (Es. 24) da un doppio giudizio: il giudizio contro il popolo egiziano che è duramente colpito ed il giudizio con­ tro il popolo di Israele dopo le sue lagnanze nel deserto ed i suoi tentativi di rivolta. E questo è davvero caratteristico: il giudizio di Dio si esercita contro il mondo e contro il popolo eletto, parallelamente. Nel secondo caso (Es. 34), essa è pre­ ceduta dal terribile giudizio contro il popolo d’Israele che si è forgiato il vitello d’oro. Così, in tutti gli esempi, l’alleanza sopravviene dopo un giudizio. Perché? Il giudizio pronunziato da Dio è sempre una condanna dell’uomo che si è separato da Lui, ed una condanna a morte, perché la morte è proprio lo stato in cui, inevitabilmente, viene a trovarsi l’uomo quando si separa da Dio. Ma a questo punto interviene l’idea di grazia contenuta, come abbiamo visto, nell’alleanza. Dio fa grazia a quest’uo­ mo condannato a morte. Ma non è una grazia astratta (il semplice fatto, ad esempio, che Dio lo mantenga in vita) o incondizionata (un atto di bontà). E una grazia nella quale Dio si rivela come Dio, e come un Dio che ha una volontà ben precisa nei confronti dell’uomo. Come nell’alleanza con Adamo, così in tutte le altre, per prima cosa Dio ristabilisce 58

D. IL DIRITTO DIVINO

sempre i rapporti interrotti dal comportamento dell’uomo. Li ristabilisce annunciando la sua volontà, ma una volontà che non è dispotica, arbitraria, bensì una volontà che è per l’uomo. Ecco perché Dio parla sempre della “mia alleanza”, due termini che sembrano in contrasto, i quali esprimono tuttavia che l’alleanza appartiene bensì a Dio, ma che è fatta da lui non nella forma di un decreto astratto, esteriore, da­ vanti al quale l’uomo può solo inchinarsi, ma nella forma di un contratto. In altri termini, ritroviamo qui la nozione che abbiamo con­ siderato essenziale per comprendere il diritto secondo Dio: la nozione di ricostruzione. Infatti Dio mediante quest’atto ristabilisce la situazione normale dell’uomo, che consiste, sì, nell’essere creatura, ma creatura libera. Questo è proprio e soltanto l’altro aspetto della spiegazione data sopra dei ter­ mini “la mia alleanza”. Mediante quest’atto, Dio ristabilisce infatti l’uomo nella sua vera situazione di creatura, e ciò si manifesta in due modi: nell’alleanza lo mantiene in vita ed al tempo stesso afferma il suo potere su di lui. Lo mantiene in vita, e ciò si manifesta nei termini stessi di tutte le allean­ ze: con Adamo, Dio fissa le condizioni per la perpetuazione della vita (“io aumenterò le sofferenze della tua gravidanza” dice ad Èva) e subito dopo l’alleanza “Adamo diede a sua moglie il nome di Èva, perché è lei la madre di tutti i viventi” (Ge. 3: 20); con Noè “siate fecondi, moltiplicatevi e riempi­ te la terra” (Ge. 9: 1); con Abramo “tu diventerai padre di una moltitudine di nazioni” (Ge.17: 4); con Mosè abbiamo l’affermazione esplicita che il popolo d’Israele non può vi­ vere che grazie all’alleanza fatta con Dio, affermazione che ritorna continuamente. E nello stesso tempo, in questo atto, Dio stabilisce che quest’uomo che vive grazie a lui, gli appar­ tiene. Questo concetto è espresso in modo assai vigoroso da Ezechiele (16: 8): “Io stesi su di te il lembo della mia veste, coprii la tua nudità, ti giurai fedeltà, feci alleanza con te, dice il Signore, l’Eterno, e tu fosti mio”. Così nell’alleanza l’uomo è rimesso al suo posto di creatura. Ma di creatura libera, o, in altri termini, che si trova “faccia a faccia” col Signore. 59

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E questa idea è contenuta nella nozione stessa dell’allean­ za stipulata in forma di contratto. Già con la scelta di questa forma Dio dimostra che l’uomo per lui non è un oggetto, un robot privo di ogni indipendenza, ma, al contrario, un essere capace di contrattare con Dio, un essere che Dio rende libe­ ro, che, per quanto creatura, vive di fronte a Dio. Questi non gli impone le sue condizioni come ad uno schiavo, ma come ad un uomo libero al quale le condizioni sono proposte e che è invitato ad accettarle. Questa idea di alleanza ha dunque implicita in sé quella di una dignità dell’uomo e ciò che lo mette in piena luce è l’impiego delle stesse formule, sia per le alleanze negoziate fra gli uomini, sia per quella fra Dio e l’uomo. È ancora il verbo, che ricorre con tanta frequenza, “trattare un’alleanza”. Vi sono proposte e controproposte, vi sono trattative, come in un contratto, nel quale le due parti sono uguali. Ma, in realtà, qui le parti non sono uguali, e ab­ biamo visto che si tratta, nella sostanza, di un contratto per adesione. Questo si rivela in due fatti, tra loro connessi, e che appaiono fondamentali: Dio detta le condizioni della sua alleanza; e Dio ne fa una condizione di vita. Questa alleanza permane se l’uomo osserva le condizioni dettate da Dio; in caso contrario essa è infranta, e si ha profanazione: “Il Paese è profanato dai suoi abitanti, perché essi trasgredivano le mie leggi. Essi infrangevano l’alleanza eterna” (Is. 24: 5). E l’uo­ mo è vincolato da questa alleanza, pena la morte: ciò dimo­ stra che egli resta sempre e solo una creatura. Dio dà la vita (lo abbiamo visto) e pone le sue condizioni. Se l’uomo non accetta questa alleanza, se l’uomo rompe questa alleanza, per lui c’è la morte. Così, mediante quest’atto, Dio pone liberamente le sue condizioni che s’impongono all’uomo, nell’alleanza, vale a dire nell’elezione e nella grazia, perché l’accettazione dell’uomo non è il risultato di una sua scelta, ma, al contra­ rio, dell’elezione dell’uomo da parte di Dio. * * *

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IX. IL DIRITTO DIVINO

Ma quali sono queste condizioni? Come si presentano? Sono la legge di Dio. Il rapporto fra l’alleanza e la legge è costante. Di fronte ad Adamo, Dio pone la legge del parto, della subordinazione della donna all’uomo, della fatica nel lavoro, della morte (Ge. 3: 16-19). Di fronte a Noè, Dio pone la legge del dominio dell’uo­ mo sulla creazione, il divieto di omicidio, e senza dubbio an­ che quello del ricorso alla magia (Ge. 9: 1-7). Di fronte ad Abramo, Dio stabilisce la legge della separazione del popolo eletto dagli altri, che sarà completata da tutto il complesso di norme dettate a Mosè. E questo legame fra l’alleanza e la legge si trova costantemente ripetuto: “Giosuè fece in quel giorno un’alleanza col popolo e gli diede delle leggi e delle prescrizioni”, per esempio (Gs. 24: 25); o, ancora: “L’allean­ za che Egli ha fatto con Abramo l’ha confermata per Giacob­ be come uno statuto” (SI. 105: 10). Che significa ciò? Prima di tutto, che Dio stabilisce anche un diritto, il suo diritto, di fronte all’uomo. Le condizioni che Dio pone sono il risul­ tato del suo giudizio e l’espressione della sua giustizia, e di conseguenza esse rispondono esattamente a questa idea del diritto che abbiamo messo in evidenza. Questo diritto è la condizione nella quale può mantenersi la situazione che Dio ha ristabilito nell’alleanza. E perciò a questo punto preciso che l’uomo può avere una certa idea di che cosa sia il diritto, attraverso la rivelazione. Ma questo diritto non è un sistema d’organizzazione della società, è una condizione di vita im­ posta all’uomo. La situazione dell’uomo è tale che egli non può vivere in un modo qualsiasi. Gli sono imposte determi­ nate condizioni, fisiche, morali, giuridiche. L’uomo non può vivere senza mangiare, e tanto meno può vivere senza atte­ nersi a questa legge: “L’Eterno ci ha comandato di mettere in pratica tutte queste leggi affinché egli ci conservasse in vita” (De. 6: 24); “Tu seguirai puntualmente la giustizia, affinché tu viva” (De. 16: 20), ecc. E questo è normale dopo quanto abbiamo detto circa il rapporto fra l’alleanza e la vita. Ma di­ mostra che non è il diritto ciò che qui viene dato. In secondo luogo, in questo atto Dio riconosce all’uomo 61

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alcuni diritti. L’alleanza fa sì che l’uomo, il quale si è posto contro Dio, cessi di essere letteralmente un fuori legge. E questa è anche la conseguenza del ristabilimento della sua situazione. L’uomo riceve da Dio un certo numero di diritti che gli appartengono: il diritto di dominare sul creato, il di­ ritto di essere vendicato se viene ucciso (e di conseguenza il diritto alla vendetta), il diritto di uccidere per nutrirsi, ecc., per attenerci alla formulazione letterale di quanto è scritto. Ma bisogna comprendere che questi diritti dell’uomo in rea­ ltà sono più estesi per il semplice fatto che l’uomo, in quan­ to “soggetto di diritto”, è chiamato a contrattare con Dio. In realtà questa nozione di diritto dell’uomo dipende, per il momento, dalla situazione in cui Dio lo ha posto, di essere la sua controparte. In altri termini, Dio dà all’uomo dei diritti, gli crea una situazione giuridica, affinché la sua alleanza sia davvero un’alleanza. Infine, in questo atto, Dio convalida l’esistenza di un dirit­ to umano, del quale vedremo più avanti la natura, accettan­ done gli schemi ed il linguaggio. Già il concetto di alleanza è un concetto umano, ed il contratto viene infatti accettato da Dio come il veicolo attraverso cui manifestare la propria azione; persino le formule ed i rituali dell’alleanza sono ri­ presi dal diritto umano allora vigente (per esempio, il sacri­ ficio offerto da Abramo durante il quale Dio passa in mezzo agli animali divisi: Ge. 15: 17) ed i pegni dell’alleanza dati da Dio corrispondono alle concezioni del diritto osservato in quel dato momento storico (per esempio, l’arcobaleno consi­ derato come un pegno, che è simbolo di un vincolo fra terra e cielo, come per l’appunto il pegno che si davano le parti del contratto per manifestare in forma solenne la loro intenzione di vincolarsi: Ge. 9: 16). Ecco, ai nostri occhi, ciò che scatu­ risce da questa nozione di alleanza. k k k

Ma tutto ciò che abbiamo appena detto sarebbe incom­ pleto se non esaminassimo il rapporto fra l’alleanza e Gesù 62

II. IL DIRITTO DIVINO

Cristo. Tutto ciò infatti ha valore solo in quanto Gesù Cristo porta a compimento l’alleanza, cioè viene a contrarre un’al­ leanza nuova e definitiva che dà un senso ed un significato a tutte le alleanze precedenti, senza eccezioni, sicché tutte le alleanze esistono solo come prefigurazioni e tipi dell’allean­ za in Gesù Cristo. Ma se Gesù Cristo compie, non per que­ sto modifica, sicché tutto ciò che abbiamo detto resta fermo: solo, trova la sua ragione profonda ed il suo chiarimento. Quindi ci basterà indicarne rapidamente le conseguenze. La nuova alleanza è infatti quella in cui il giudizio è espres­ so in modo radicale e non può più essere modificato, quella in cui l’appartenenza della creatura a Dio è manifestata per­ ché Dio si è acquistato l’uomo con il sangue di Gesù Cristo. Quella in cui si effettua il ristabilimento, come abbiamo già visto. Infine, è l’alleanza in cui Dio manifesta la sua giustizia. Ma bisogna precisare alcuni concetti. Anzitutto, in questa alleanza ha luogo la fondazione dei diritti dell’uomo. Abbia­ mo visto che da ogni alleanza scaturiscono diritti per l’uomo. Questa li fonda in modo assoluto. Nello stesso tempo in cui Gesù Cristo annienta radicalmente la giustizia umana, nello stesso tempo in cui egli spoglia l’uomo di tutte la sue conqui­ ste, di tutti i suoi poteri, di tutti i suoi diritti, nello stesso tem­ po egli fonda i suoi nuovi diritti. Perché è lui, Gesù Cristo, che acquista diritti per l’uomo. Nella nuova alleanza, Gesù Cristo è non solo la vittima nel cui sangue l’alleanza è stipulata, è anche l’uomo che stipula con Dio in rappresentanza di tutti gli uomini. Egli è il solo uomo che Dio gradisce, colui attraverso il quale Dio considera l’umanità intera. E il miracolo della sosti­ tuzione, ed è per mezzo di essa che Gesù Cristo afferma i diritti dell’uomo. D’ora in poi l’uomo può dire che non è senza diritti, perché può appellarsi a Gesù Cristo. E qua­ lunque uomo può dirlo, perché Gesù Cristo è morto per tutti. Dunque non vi sono diritti soltanto per i cristiani, con esclusione degli altri: tutti sono fratelli di Gesù Cristo ed in lui tutti ricevono i medesimi diritti. Ed il primo di questi diritti, davanti a Dio, è proprio quello di potersi appellare a 63

JACQUES ELLUL - IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO

Gesù Cristo. A causa di Gesù Cristo, la persona umana non è più abbandonata al caso degli avvenimenti nella storia, e non è neppure abbandonata al caso dei dispotismi che si ammantano di una veste giuridica. A causa di Gesù Cristo vi sono adesso per l’uomo diritti che non si possono rimet­ tere in discussione, né da parte di Dio che li ha fondati per l’eternità, né da parte degli uomini che non possono can­ cellare dalla storia questo fatto, che Gesù Cristo è morto ed è risorto. E questo fatto che fonda obbiettivamente i diritti dell’uomo nell’alleanza. D’altra parte, Gesù Cristo ha preso su di sé l’umanità in­ tera, nel suo peccato e nella totalità della sua vita. Nessun aspetto della vita umana è infatti estraneo a Gesù Cristo, e nella misura stessa in cui il diritto elaborato dall’uomo, le norme giuridiche, sono contaminate dal peccato, o, addi­ rittura, si potrebbe dire che ne sono un’espressione, Gesù Cristo le ha assunte ugualmente. Egli dimostra in modo as­ sai chiaro che le ha prese su di sé, quando accetta la giuri­ sdizione e tutto il sistema giuridico che si prepara a con­ dannarlo. Da questo punto di vista vi è un parallelismo che colpisce fra la scena del battesimo e quella della condan­ na. Il Figlio di Dio che si sottomette al battesimo lo fa per “adempiere ogni giustizia” (Mt. 3: 15), ed in verità è perché il battesimo viene amministrato a Gesù Cristo che esso di­ venta valido, completo. Nello stesso modo il Figlio di Dio si sottomette volontariamente alla giustizia umana. Bisogna che le Scritture si adempiano (Mt. 26: 54), ed esse si adem­ piono mediante l’applicazione della legge a Gesù Cristo. “I giudei risposero: noi abbiamo una legge, ed in base alla nostra legge egli deve morire” (Gv. 19: 7). Così Gesù Cri­ sto prende su di sé l’ingiustizia di questo diritto, l’accetta, perché in una certa qual misura questo diritto è espressio­ ne, anch’esso, della volontà di Dio (“Tu non avresti alcun potere se non ti fosse stato dato dall’alto” Gv. 19: 11). Egli accetta la sentenza (ingiusta) di colui che rappresenta il di­ ritto. E fa di questo diritto uno strumento della giustifica­ zione dell’uomo. Si sottomette e per ciò stesso fonda questo 64

II. IL DIRITTO DIVINO

diritto e gli dà infine un significato che il diritto non ha mai di per sè.6 Questo diritto, notiamolo bene, non è il diritto di Dio, ma un diritto umano, fra altri diritti umani. Così questo diritto non diviene giusto in sé, ma è accettato da Dio, assunto in Gesù Cristo, e vedremo più avanti cosa ciò significhi esatta­ mente sul piano giuridico. Vr tV "k

L’alleanza ci si presenta dunque con gli stessi caratteri del­ la giustizia di Dio. E ciò non deve sorprendere perché in de­ finitiva è solo un’espressione di questa giustizia. Ma allora era proprio necessario includerla in questa analisi? Non po­ tevamo accontentarci di ciò che avevamo detto della giusti­ zia di Dio? Il riferimento all’alleanza ci permette tuttavia di progredire sotto un triplice punto di vista. A) In primo luogo fa intervenire un elemento nuovo: l’uo­ mo. Fin qui avevamo potuto considerare la giustizia di Dio nella rivelazione, come Dio ce la fa conoscere, ma al di fuori di qualsiasi rapporto organico con l’uomo: quest’ultimo non era altro che un oggetto. La giustizia di Dio era veramente astratta, mentre nell’alleanza appare concreta. L’uomo ades­ so interviene come elemento del diritto, cessa di essere sol­ tanto un oggetto e mediante l’alleanza riceve la sua qualità di “soggetto di diritto”. Di conseguenza, abbiamo qui il punto d’incontro fra questa giustizia di Dio e l’uomo. B) Attraverso l’alleanza diventa chiaro quanto dicevamo: che il diritto è atto di Dio. L’atto di Dio che stabilisce il di­ ritto è precisamente l’alleanza. Questa è insomma la giustizia di Dio in movimento, il rapporto di ciò che appariva come assolutamente privo di contatti con il diritto umano, come una norma stabilita nel cielo, come un avvenimento pura­ mente mistico; tutto ciò adesso entra in relazione con la si-

6 Cfr. K. Barth, Rechtfertigung und Rechi.

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JACQUES ELLUL ■ IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO

tuazione dell’uomo. L’alleanza getta una sorta di ponte fra questa giustizia di Dio e la terra, è uno dei legami (più avanti incontreremo l’altro) fra il diritto divino e il diritto umano. E al tempo stesso è il punto in cui tutto il nocciolo del diritto umano si concretizza, si intravede, senza però che si possa far questione di un diritto naturale, perché si tratta, al contrario, di un diritto rigorosamente “soprannaturale”. C) L’alleanza, infine, arreca un ultimo elemento: mette in luce che il diritto è una grazia. Se il diritto umano in diverse accettazioni che ne vengono fatte da parte di Dio è fondato, come abbiamo visto, sull’alleanza, non è per un valore intrin­ seco del diritto, non è per necessità, naturale o d’altro gene­ re, è esclusivamente per libera scelta divina: è perché Dio fa grazia. Il diritto, in realtà, riceve un fondamento perché Dio fa grazia ad Adamo, così come fa grazia a Noè. E questa non è una parola vaga, in cui si possa includere tutto, senza spie­ gare nulla. Non ci si può limitare a dire “il diritto è una gra­ zia” in abstracto. Abbiamo visto in che cosa l’alleanza è gra­ zia, ed in che cosa Dio fa grazia. E tutto così concreto quanto la grazia che viene concessa ad un condannato a morte. Per lui questa parola ha davvero un senso. E in questo senso che dobbiamo comprendere la grazia che ci è fatta da Dio di ave­ re un diritto, che è tutt’altra cosa da un insieme di leggi uma­ ne, o da un modello astratto che in sé non avrebbe nulla a che fare con l’uomo, o, infine, da una natura, della quale non si vede perché dovrebbe essere più rispettabile di una qua­ lunque invenzione dell’uomo. E così siamo ricondotti al diritto naturale.

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Ili Diritto naturale e Diritto divino

1. Il diritto naturale, dottrina cristiana? Tradizionalmente si ritiene che i cristiani siano sosteni­ tori del diritto naturale.1 Calvino stesso non ha forse dife­ so questa tesi?2 In realtà, ci sembra che tutti gli argomenti sviluppati partendo dalla rivelazione per fondare un diritto naturale, identificato con un diritto giusto, derivino da tre concezioni: una concezione dell’uomo, una concezione della giustizia, una concezione della legge. A) Una concezione dell’uomo: in realtà, si affaccia sem­ pre, com maggiore o minor evidenza, l’idea che la caduta non abbia separato totalmente l’uomo da Dio. Secondo al­ cuni l’uomo conserverebbe un certo libero arbitrio, secon­ do altri, un certo senso di giustizia, una certa capacità di concepire e di fare il bene. Qui non è il caso di riprendere il tema della caduta. Consideriamo soltanto che l’uomo, con la caduta, si è separato da Dio completamente, che perciò egli è completamente morto nello spirito, e che se Dio lo mantiene in vita, questa non è una buona ragione per crede­ re che gli mantenga altresì qualche cosa di quelli che erano 1 È così che il concetto di “bene comune” elaborato dalla filosofia scolasti­ ca viene ricondotto ad una forma di diritto naturale. Ed in Tommaso d’Aquino la distinzione fra le tre leggi, lex aeterna, lex naturalis, lex humana, si può comprendere solo ravvisando nella lex naturalis il cardine del sistema. 2 Si veda ad es. Brunner, op. cit., p. 43.

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JACQUES ELLUL - IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO

gli attributi originari di Adamo. Noi crediamo che a cau­ sa del suo peccato l’uomo è radicalmente corrotto e quindi non possiamo ammettere l’idea che il fondamento del dirit­ to naturale sia costituito dall’imago Dei, che l’uomo avreb­ be conservato. Il fatto che l’uomo sia creato ad immagine di Dio non implica affatto che questa imago Dei possa bastare dopo la caduta per dare all’uomo una nozione della giusti­ zia e del diritto. Calvino, a ben vedere, su questo punto non s’impegna, anzi, quando affronta il tema del diritto, dice che l’imago Dei è senz’altro distrutta. Manet adhuc aliquid residuum. Questo “residuo”, però, non è precisato da Calvi­ no, e c’è invero da chiedersi come potrebbe esserlo, perché se l’uomo, in quanto creatura, sa che cos’è giusto, perché non è capace con le sue sole forze naturali di fare ciò che è bene? E se è capace di conoscere e di fare ciò che è bene, quale necessità v’era di Gesù Cristo? E se gli effetti della caduta vengono riferiti alla volontà dell’uomo, che sarebbe in tal modo capace di conoscere il bene, ma non di farlo, al­ lora annientiamo dal punto di vista giuridico tutto ciò che abbiamo creduto di guadagnare, perché se l’uomo non è ca­ pace di realizzare quello che è giusto, il diritto umano non avrà mai il benché minimo valore. Pretendere di identificare la legge naturale con Ximago Dei significa o ammettere che l’uomo non è decaduto del tutto, oppure privare d’ogni va­ lore la legge umana. Non si può uscire da questo dilemma, proprio perché qui si tratta di giustizia, e non di un’opera qualunque dell 'homo faber. Molti allora cercano di tirarsene fuori facendo appello ad un’idea assai diffusa: senza dubbio, l’uomo è decadu­ to del tutto, ma dopo la caduta Dio scrive la propria legge nel cuore dell’uomo. E generalmente si richiama il testo di Ro. 2:14 (“Infatti quando gli stranieri, che non hanno leg­ ge, adempiono per natura le cose richieste dalla legge, essi, che non hanno legge, sono legge a sé stessi”). Esamineremo questo testo più avanti. Comunque sia, notiamo che vi si parla di “natura”. Bisognerebbe dunque credere che la leg­ ge di Dio scritta nel cuore diventa legge naturale,E incom68

III. DIRITTO NATURALE E DIRITTO DIVINO

prensibile dire: non è legge naturale perché è legge di Dio.3 Oppure è rivelata (nel qual caso non è scritta nel cuore dei pagani), oppure è divenuta naturale nella misura stessa in cui Dio la inserisce nella natura. Ma se Dio crea così al pagano una natura in cui è scritta la sua legge, allora andiamo a scontrarci contro tutti gli argo­ menti addotti contro il diritto naturale e che appaiono dav­ vero catastrofici.4 E ciò che appare molto più grave è prima di tutto il fatto che a fondamento di una teoria di così vasta portata si ponga, praticamente, un unico testo. Inoltre, va osservato che tutto ciò non ha nulla a che vede­ re né con Gesù Cristo, Signore della creazione, né con la Re­ denzione. In altri termini, ci troviamo in presenza di una vera gnosi, destinata a soddisfare la nostra intelligenza e la nostra curiosità, ma che non s’inserisce affatto nel “piano di Dio”, nell’azione di Dio che ci è ben descritta come unica, dall’ini­ zio alla fine, per la salvezza del mondo. Pertanto, se non vi è un legame necessario fra questa legge e Gesù Cristo, come si può ancora dire che si tratta della legge di Dio, quando il vin­ colo fra questa legge di Dio, rivelata nella Scrittura, e Gesù Cristo, è sottolineato in modo così energico? Anche se ci si limita al solo vincolo esterno: la legge destinata a far risaltare l’impotenza dell’uomo, questo ci pone di fronte a difficoltà enormi. In primo luogo, questo ruolo puramente negativo della legge non potrebbe essere di utilità alcuna per il diritto. Non è un diritto naturale. In secondo luogo, perché potesse adempiere questa fun­ zione, bisognerebbe che l’uomo riconoscesse che questa legge è di Dio: ma allora si tratterebbe di una legge rivelata. Altrimenti, se si tratta solo della sua coscienza, non ha alcu­ na ragione di vedersi condannato perché non ha ubbidito a qualcosa che faceva parte della sua natura! Ecco in qua­ li imbrogli si cade seguendo questa idea della legge scritta

3 Ancora recentemente, W. Horton, Naturai Law and International order. 4 Cfr. Conord, op.cit.

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nel cuore dell’uomo. E gli esempi potrebbero continuare a lungo. B) Questa dottrina del diritto naturale si basa poi su una determinata concezione della giustizia. Esiste - si dice - una giustizia eterna, i cui precetti sono dotati di validità universa­ le, una giustizia che ha il suo valore in sé stessa e che costitui­ sce il metro con cui valutare ogni azione.5 Questa è sempre stata la tentazione dell’uomo. Ciò che riconosce come giusto con la sua ragione gli appare come la giustizia in sé. Non si può dire che si tratti della giustizia divina; in verità, si tratta di una creazione dell’uomo destinata a sostituirsi alla giusti­ zia divina. E vi si sostituisce nella misura stessa in cui si vuol far coincidere questa giustizia dell’uomo con la giustizia di Dio. D’altronde, l’uomo pretende sempre di giudicare l’azio­ ne di Dio secondo questa norma di giustizia: sentimento co­ mune che si manifesta nel dire che Dio è ingiusto quando ci fa soffrire, ma anche atteggiamento filosofico che si manife­ sta nel porre la falsa alternativa: o Dio è giusto e allora non è onnipotente, oppure Dio è onnipotente ed allora non è giu­ sto. Questo atteggiamento si ricollega sempre ad un concetto di giustizia in sé, con la convinzione che l’uomo possa rico­ noscere da sé, con le sue sole forze naturali, questa giustizia che esiste per natura, e che, fondamento del diritto naturale, è al tempo stesso misura e criterio dell’azione dell’uomo e dell’azione di Dio. Tentazione che è di tutte le epoche ed alla quale Ezechiele risponde: “ I figli del tuo popolo dicono: la via del Signore non è giusta. È la loro via che non è giusta”. E ancora: “Voi dite: la via del Signore non è diritta. Io vi giu­ dicherò ciascuno secondo le vostre vie, o casa d’Israele” (Ez. 33: .17,20). Questo atteggiamento dell’uomo è in realtà collegato a due posizioni fondamentali: la prima è che la giustizia si basa in definitiva su di un elemento comune a tutti gli uomini ed alla creazione, vale a dire sull’elemento razionale. Il fatto che la

5 Werner, Conseil oecuménique, 1943.

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III. DIRITTO NATURALE E DIRITTO DIVINO

creazione può essere, almeno parzialmente, conosciuta tra­ mite la ragione, il fatto che tutti gli uomini sono, più o meno, dotati di questo mezzo, porta con sé l’idea che tutto ciò che è ragionevole è anche universale, e siccome l’esperienza ci insegna che tutti gli uomini si danno pensiero della giusti­ zia, bisogna pur riallacciare questa giustizia a questo solo ele­ mento universale naturale di cui saremmo in possesso, che è la ragione. Così la giustizia appare formata da giudizi di va­ lore e da principi stabiliti secondo ragione. Ma allora opera sempre il meccanismo che a giusto titolo Feuerbach aveva denunciato per la religione: partendo da questa elaborazio­ ne umana si costruisce un assoluto. L’uomo rende oggettivo ciò che è creazione soggettiva. L’uomo trasforma in assoluto ciò che ha constatato nella sua relatività, l’uomo proietta nel cielo ciò che ha trovato sulla terra, e s’inchina davanti a que­ sto assoluto, questa obbiettività, questo riflesso celeste per adorarlo. Così specialmente per il diritto naturale. Lo si vede con grande chiarezza negli stoici ed in Tommaso d’Aquino. Questo diritto naturale non è nulla più che la trasposizio­ ne nel cielo della giustizia relativa e terrena. In altri termini, l’illusione consiste nel credere che il nostro diritto terreno dipenda dal diritto naturale, mentre quest’ultimo è soltanto l’assolutizzazione del nostro diritto terreno. Ed è evidente­ mente ciò che porta con sé la condanna di cui parla Eze­ chiele nel testo citato poc’anzi. Veramente, il diritto naturale non è altro che una via umana; quella di Dio non può essere giudicata in base ad essa, non può esserle assimilata. Ma al­ lora si apre un problema molto grave per un cristiano: come ammettere, in questo caso, il diritto naturale di fronte a Dio? Infatti, se lo si pone come valore indipendente, il Diritto na­ turale non ha valore precettivo di per sé. Se lo si può con­ trapporre a Dio, non è d’alcun aiuto all’uomo, al contrario. Ora, se è indipendente, è necessariamente in opposizione a Dio. Oppure, rientra nel piano di Dio, ma allora incontria­ mo una doppia difficoltà: 1) Questo diritto naturale fa par­ te della rivelazione? Approfondiremo questo problema più avanti. 2) Questo Diritto naturale è creato da Dio sin dalle 71

JACQUES ELLUL - IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO

origini, e, come l’uomo, ha un’esistenza autonoma, è divenu­ to naturale, vale a dire, Dio lo ha creato come facente parte della natura, ed è un elemento della creazione. A noi sembra che questa idea costituisca un errore molto grave. In primo luogo, è in contrasto radicale con tutto quello che ci è detto nella rivelazione sulla giustizia e il diritto. In secondo luogo è una supposizione gratuita sul contenuto della creazione: quello che Dio ha creato, ce l’ha rivelato. Il contenuto della creazione, nella misura in cui ci riguarda, ci è chiaramente indicato da Dio. Ora, nella rivelazione, non si fa mai parola di questo diritto. Eppure esso ci riguarda eccome! Infine si basa su di una concezione della creazione che non ci sem­ bra conforme alla rivelazione: secondo questa concezione, la creazione è soltanto la creazione ex nihilo dell’inizio. Dio sta­ bilisce all’origine la sua creazione con le sue leggi e poi l’ab­ bandona, per così dire, al suo destino (ci avviciniamo all’idea del grande orologiaio!). Per quanto concerne il diritto, Dio ne pone i principi, o ancora i valori di giustizia, che forme­ rebbero il diritto naturale. Non credo che sia questo il con­ cetto esatto di creazione. Dio crea continuamente. Il mondo è senza sosta creato da lui. Esso esiste solo perché Dio agisce. Le leggi della creazione sono leggi solo perché Dio, che è un “Dio dell’ordine”, le applica. Non esiste un principio stabi­ lito da cui le cose derivino in modo del tutto naturale, vi è incessantemente attribuzione della vita, da parte di Dio, a ciò che di per sé non è altro che il nulla. Non potrebbe esserci dunque alcun principio giuridico originario, perché la creazione non è mai compiuta una volta per tutte: solo Dio è principio e causa. E, in materia di giu­ stizia, parimenti, non vi è alcuna regola del giuoco, perché la giustizia altro non è che la conformità alla volontà attuale ed eterna di Dio. E questo in realtà che vuol dire il secondo testo di Ezechiele citato più sopra: in opposizione a questa specie di riferimento che l’uomo fa alla giustizia, Dio pone come fondamento del diritto il proprio atto: “Io vi giudiche­ rò”. Torniamo dunque alla nozione di diritto divino, oppo­ sto a quella di diritto naturale. Quest’ultimo, quando si ha 72

HI. DIRITTO NATURALE E DIRITTO DIVINO

un’idea esatta della creazione, non può in alcun modo esse­ re una specie di germe di giustizia posto da Dio, come non può essere una specie di quadro ideale che il diritto umano dovrebbe imitare. Né l’una né l’altra di queste concezioni è conforme a quanto Dio ci rivela della sua attività creatrice. In realtà sono conformi solo all’idea che della creazione hanno i filosofi. E questa nozione “cristiana” del diritto naturale si presenta sempre come una contaminazione di quanto Dio ci dice con quanto scopre la ragione umana: vale a dire che ac­ canto alla rivelazione si pone, sia la dottrina aristotelica come in Tommaso d’Aquino e, più di recente, in Brunner, sia quel­ la stoica come, parzialmente, in Calvino, e, soprattutto, nei calvinisti del Settecento. C) Infine, l’idea “cristiana” del diritto naturale si fonda su una certa concezione della legge di Dio. L’espressione più semplice di questa concezione consiste nel dire: nell’Antico Testamento Dio ci rivela qual è il vero diritto. Ne conoscia­ mo dunque, al tempo stesso, sia il fondamento, sia il conte­ nuto; basta applicarlo.6 Beninteso, ciò conduce ad una con­ trapposizione radicale tra Vangelo e Legge, contrapposizio­ ne che è ancora ammessa, in questo campo, anche in tempi recenti, da molti teologi." Ed è formulata in modi assai di­ versi, sia che ci si attenga al formalismo della legge, sia che si voglia procedere per simboli, sia che la si voglia mantenere come legge rivelata da Dio, che la Chiesa deve insegnare al mondo, sia che si voglia trovare un accordo fra questa legge e ciò che sta nel cuore umano, perché Dio ha fatto sia l’una che l’altro.8 Tutte queste posizioni ci sembrano erronee. Tutte, più o meno, tendono ad individuare un diritto naturale in cui

6 Tale atteggiamento è in fondo quello di tutti i giuristi teocratici, tutti più o meno influenzati dal platonismo. 7 In particolare, si veda Ehrenstroem, Conseil oecuménique, 1943, che a nostro avviso non precisa abbastanza la distinzione che traccia fra Legge e Vangelo, e che in tal modo sembra quasi separare due regni del Cristo. 8 Tale era la mia opinione nel 1936, Foi chrétienne et Università, articolo uDroit”, che oggi ritengo inesatta.

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la legge, data da Dio al popolo d’Israele, è estesa al mondo intero mediante la morte di Gesù Cristo. Ora, è esatto che questa legge ha qualcosa da insegnarci sul diritto e sul pro­ blema sociale. Ma in sé stessa non è né un diritto, né un principio giu­ ridico, né un contenuto dell’ordinamento giuridico. Non è un diritto perché non è un sistema di norme, è davvero una rivelazione. Non è un principio giuridico perché è l’espres­ sione della volontà attuale ed eterna di Dio: è un’espressione della giustizia di Dio. Non fornisce un contenuto dell’ordi­ namento giuridico, perché il suo contenuto è legato necessa­ riamente all’epoca storica in cui è stata redatta ed alle relative condizioni socio-economiche del popolo d’Israele. In real­ tà essa è all’interno della nozione di diritto divino del quale permette di precisare il senso e l’attualità nella storia, e può essere compresa solo attraverso l’idea di giustizia che abbia­ mo cercato di delineare. Questa legge non può essere né se­ parata dal Vangelo, come se fosse un altro campo dell’azione di Dio, né individuata in sé, al di fuori dell’azione giusta di Dio nel suo insieme, o assimilata puramente e semplicemen­ te a questa azione giusta di Dio. E perché è così? Semplicemente perché questa legge non vai nulla in sé e per sé (ed infatti Gesù Cristo lo ha detto in Mt. 5), ma ha un senso sol­ tanto se è un annuncio di Gesù Cristo, Redentore e Signore del mondo. Così questa legge non può mai essere considerata in sé stessa come un diritto; non ha alcun valore per il diritto se non è in primo luogo questo annuncio della giustizia di Dio compiuta in Gesù Cristo. Essa non ci potrebbe dunque for­ nire il fondamento di un diritto naturale, così come non po­ trebbe coincidere con questo diritto naturale. Veramente, fra l’una e l’altro non vi è alcun comune denominatore. Ma, al contrario, questa legge, se collocata e compresa all’interno del diritto divino acquista un valore considerevole per la so­ luzione di problemi giuridici particolari. Noi dunque non ce ne serviremo in questo studio sul diritto in generale e sul problema del Diritto naturale. Questo utilizzo della legge

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III. DIRITTO NATURALE E DIRITTO DIVINO

nell’ambito del diritto presuppone che siano stati ugualmen­ te risolti numerosi problemi d’interpretazione della Scrittu­ ra: quello dell’analogia della fede, quello della permanenza della legge mediante il suo compimento in Gesù Cristo, quel­ lo dei rapporti fra Chiesa e nazione in Israele, quello dei rap­ porti fra Israele ed il mondo, ecc. Problemi che si pongono necessariamente se si vuol fare della legge un diritto genera­ le, applicabile in tutto il mondo, o un modello di diritto, ma che abitualmente sono passati sotto silenzio. Infatti non si possono risolvere se non quando la legge è veramente al suo posto, vale a dire se non è più una legge astratta e considerata in sé stessa, come abbiamo detto. Così, dopo esserci scontrati con una certa concezione del Diritto naturale che si potrebbe qualificare cattolica, ci sia­ mo scontrati pure con una concezione che si potrebbe quali­ ficare protestante, perché la prima riserva un posto, inesatto, crediamo, alla ragione, mentre la seconda riserva un posto, ugualmente inesatto, crediamo, alla rivelazione.

2. Diritto naturale e diritto divino Dopo quanto abbiamo detto, la contrapposizione fra il di­ ritto naturale e quanto ci è rivelato a proposito del diritto nella Scrittura, ossia quello che, in mancanza di un termine piu preciso, abbiamo chiamato Diritto divino, appare evi­ dente. La dottrina del diritto naturale non sarebbe dunque af­ fatto una dottrina cristiana. Ma conviene, crediamo, fornire un quadro schematico dei punti di contrasto, riassumendo, in parole semplici, le considerazioni che abbiamo sviluppato sin qui, soprattutto per precisare le idee. Le antitesi princi­ pali sembrano dunque la seguenti: A) Il diritto non è una realtà autonoma e indipendente, ma solo una parte della realtà umana e dell’universo, considerati nel loro rapporto con Dio. Invece, quando si parla di diritto • V

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JACQUES ELLUL ■ IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO

naturale, ricompare sempre l’idea di un diritto indipendente e considerato in sé e per sé. B) Non esiste diritto inerente alla natura dell’uomo perché Dio solo crea il diritto. Questo dev’essere dunque un diritto rivelato e non un diritto naturale. C) Il diritto non è un prodotto della ragione umana, ma soltanto dell’azione di Dio nel mondo. La ragione si limita ad organizzare ed a mettere ordine, non è una fonte né una unità di misura della giustizia o del diritto. D) Il diritto non è statico, ma semplicemente forma del­ la volontà eterna ed attuale di Dio; dev’essere riferito non a principi, ma ad un atto di Dio, la cui volontà è al tempo stes­ so attuale ed eterna. E) Il valore del diritto positivo non dipende dall’esisten­ za del diritto naturale ma dal fatto che Dio se ne serve, come mezzo per compiere la propria opera che è la salvezza dell’umanità attraverso la morte e la resurrezione di Gesù Cristo. F) L’uomo non ha alcuna conoscenza naturale della giu­ stizia, perché questa è solo conformità alla volontà di Dio, e questa volontà si compie nella redenzione in Gesù Cristo. G) La giustizia è conosciuta dall’uomo soltanto grazie alla rivelazione che Dio gliene fa nell’alleanza. Il fondamento del diritto è l’alleanza e non un diritto che si pretenda ideale o superiore. H) L’alleanza dà origine non a principi giuridici, ma ad un’etica di cui il diritto costituisce solo una parte, valida, se­ condo modalità da determinare, per tutti gli uomini o per i soli cristiani, in considerazione della loro fede. I) Di conseguenza, il diritto non può essere considerato solo nei suoi rapporti con l’opera compiuta da Dio alle ori­ gini della creazione, bensì con l’opera continua di Dio, che dura dall’inizio alla fine del mondo. Mentre il Diritto natu­ rale si riferisce solo all’atto della creazione, il Diritto divino è ancorato al tempo stesso alla dottrina della creazione ed a quella dell’escatologia. L) Tutto il diritto, nel suo complesso, è cristocentrico. 76

III. DIRITTO NATURALE E DIRITTO DIVINO

Questo è il motivo per cui non possiamo ammettere la dot­ trina tomista del diritto naturale che stabilisce un rapporto formale fra la lex aeterna e la lex naturalis. La lex aeterna governa il mondo ma non può essere conosciuta: rientra nel campo della fede. La lex naturalis è quanto gli uomini, me­ diante la ragione, possono cogliere della lex aeterna. Ciò che caratterizza questa relazione è che la lex aeterna, in entrambi i casi, è oggetto, oggetto della fede o della ragione, mentre per noi la volontà di Dio è soggetto; e, d’altra parte, questa relazione tra lex naturalis e lex aeterna si stabilisce senza vin­ colo di necessità con la Signoria di Gesù Cristo, cioè non ne costituisce un effetto. M) Ciò che è alla base del diritto obbiettivo è il diritto sog­ gettivo riconosciuto all’uomo da Dio, mentre le dottrine del diritto naturale si dividono in due correnti: per gli uni il di­ ritto naturale preesiste oggettivamente a qualunque azione o volontà dell’uomo, per gli altri l’individuo è titolare di diritti per la sua natura di essere umano. N) Il diritto naturale non può essere in alcun modo un terreno d’incontro fra cristiani e non cristiani, perché nella misura stessa in cui si presenta come creazione razionale, è soggetto alle divergenze ed alle fluttuazioni della ragione nelle sue applicazioni pratiche. Il solo terreno d’incontro fra gli uomini si trova al di fuori di loro stessi, nella preesi­ stenza della misericordia di Dio verso tutti. Orbene, il dirit­ to divino è precisamente una delle manifestazioni di questa misericordia. Questo elenco, evidentemente, non è completo, ma ai fini del nostro studio ci basta aver messo in evidenza l’incompa­ tibilità radicale fra queste due concezioni.

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JACQUES ELLUL - IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO

3. Il diritto naturale come fenomeno Ma in tutto questo non abbiamo incontrato quella forma particolare del diritto naturale sulla quale ci eravamo soffer­ mati nel primo capitolo e la cui esistenza non è una conce­ zione dottrinale, bensì un dato fenomenico. Il problema che dobbiamo affrontare adesso è perciò quello di sapere quale sia la posizione di questo fenomeno rispetto al diritto divi­ no. Prima tuttavia dobbiamo sgombrare il campo da una do­ manda: la dottrina del diritto naturale non potrebbe fondarsi sul fenomeno del diritto naturale? In altre parole, constatan­ do lealmente l’esistenza di questo dato giuridico, non giusti­ fichiamo forse una certa forma del diritto naturale? In realtà, fra l’una e l’altro vi è un abisso. Invero, quando si ravvisa questo diritto come un dato di fatto, non si può per questo dire che sia buono. Non è necessariamente migliore del diritto inglobato nella religione, o di quello interamente laicizzato o positivo. Non è sulla base di un confronto con questo diritto che si possono giudicare gli altri diritti. Non è facendo riferimento a un dato periodo del diritto roma­ no o del diritto francese che dev’essere misurato il pregio di tutti i sistemi giuridici creati dall’uomo. Dire che è naturale equivale a dire che esprime un certo equilibrio di natura, che è anche conforme a certe esigenze naturali (ma temporali e temporanee) dell’uomo o della società. Ma riconoscere così il suo carattere naturale significa riconoscere al tempo stes­ so che non può essere normativo. Invero, il fatto che possa essere conforme alla natura non vuol dire che sia anche giu­ sto. Qui, in questa confusione, ritroviamo un antico ricordo dell’eccellenza della natura, sia essa intesa come natura naturans, sia come stato primitivo dell’uomo. Ora, questo va proprio contro l’insegnamento cristiano. La natura dell’uo­ mo è cattiva perché l’uomo è peccatore per natura. Ciò che è conforme alla sua natura non può dunque essere giusto. Non riusciremo a comprendere come si possa dire che l’uomo, il quale è cattivo, sia capace di creare un’opera che sia buona, che l’uomo, il quale è ingiusto, sia capace di creare un diritto 78

III. DIRITTO NATURALE E DIRITTO DIVINO

giusto. E, d’altra parte, la natura extraumana è stata anch’essa trascinata nella caduta. Le conseguenze del peccato sono di dimensioni cosmiche. Basta ricordare il capitolo 8 della Lettera ai Romani: “La creazione attende la manifestazione dei figli di Dio. Perché la creazione è stata sottoposta alla vanità, non di sua propria volontà, ma a motivo di colui che ve l’ha sottoposta”. Nulla dunque permette di dire che, in quanto è naturale, il diritto è giusto: perché proprio in quan­ to naturale esso è invece “soggetto alla vanità”; e ciò è pro­ prio il contrario di quanto abbiamo visto riassumendo l’inse­ gnamento biblico sulla giustizia. Così, poiché la natura in sé non è buona, ciò che è conforme alla natura non può essere normativo quando si tratta di distinguere il giusto dall’ingiu­ sto. E perciò stesso noi ristabiliamo la linea di confine tra il fatto e la norma. Ora, dall’esistenza di fatto, dall’esistenza storica del diritto naturale come fenomeno, non si può asso­ lutamente argomentare a favore dell’esistenza di un diritto naturale, giusto in sé, che vale come unità di misura di tutte le altre forme giuridiche, e dal quale tutti i diritti ricevono autorità. Qual è allora la situazione di questo diritto naturale? Noi gli abbiamo riconosciuto tre caratteri. A) Il diritto esiste ed ha autorità: ma è impossibile spie­ gare il perché di questa esistenza e di questa autorità. E noi sappiamo che appunto in ciò consiste la differenza tra questo diritto e il diritto puramente tecnico, dato che per quest’ulti­ mo l’autorità viene dalla sanzione che lo Stato attribuisce alla norma giuridica. Bisogna dunque ammettere che vi è una ragion d’essere per il diritto, la quale si trova al di fuori di esso, e che da que­ sta ragione esso trae la propria autorità perché quando lo si priva di questa ragione, questo diritto, come abbiamo visto, cessa di essere un vero diritto per ridursi ad un semplice si­ stema tecnico. B) Il diritto possiede un contenuto sostanzialmente uni­ forme: anche qui, il fenomeno è del tutto inspiegabile se ci si attiene a posizioni razionali. Perché non ci si può fondare 79

JACQUES ELLUL - IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO

né sull’unità della natura umana, né sull’unità della ragione, considerate le notevoli divergenze che esistono fra le varie civiltà che la storia ci fa conoscere. Per esempio, le civiltà dei Semiti sono radicalmente opposte a quella dei romani: tut­ tavia, i diritti di questi popoli sono simili. Dunque resisten­ za di questo diritto naturale comune presuppone un valore esterno a questo diritto, che gli conferisce la sua fondamen­ tale unità. C) Il diritto è un prodotto di situazioni sociali ed economi­ che elaborate dall’uomo. Ma come può l’uomo approdare ad una giustizia che manifestamente oltrepassa le sue capacità personali di intendere la giustizia, e come può mettere ordi­ ne secondo questa giustizia in tutto l’insieme delle necessità materiali della società? Di fronte a questo doppio fenome­ no ancora siamo costretti a riconoscere l’insufficienza delle spiegazioni tradizionali, e la necessità di far intervenire una grandezza diversa dall’uomo. Ognuno di questi punti potrebbe essere sviluppato all’infi­ nito, bisognerebbe riprendere tutte le spiegazioni della Scuo­ la del diritto positivo e porre in luce la vanità delle soluzioni razionaliste e matèrialiste; ma non ne abbiamo né lo spazio né il desiderio. Ci basta ricordare che queste soluzioni coincido­ no sempre con i periodi di diritto tecnico e precedono quel­ li di decadenza del diritto. Cosa significa allora esattamente questo diritto naturale dopo quanto abbiamo appena detto? E il diritto che pone all’uomo la vera questione del diritto. Il diritto sacro non solleva alcun problema precisamente perché è tutto permeato di elementi religiosi: in questo caso il problema del diritto non esiste. Esiste solo quello della re­ ligiosità dell’uomo. Nemmeno il diritto tecnico solleva problemi, precisamen­ te perché è ridotto ad una forza coercitiva e sviluppa senza posa questa forza via via che perde efficacia. Per il diritto tecnico la spiegazione razionalista è valida, e come corollario si può dire che la spiegazione materialista sviluppa un diritto tecnico. Ma determina anche immancabilmente il fallimento del diritto. 80

HI. DIRITTO NATURALE E DIRITTO DIVINO

Il diritto naturale appare come un periodo di equilibrio giuridico, e pone il problema del diritto in quanto è inespli­ cabile, in quanto contiene un elemento misterioso, ma anche in quanto è un diritto efficace che riesce a mantenere un or­ dine nell’organizzazione della società. Per noi, esso è la pro­ va umana che esiste una certa relazione fra questa giustizia di Dio, questo diritto divino di cui abbiamo parlato, e il diritto delle società umane. Perché è questo in realtà il problema che incontriamo: da un lato, constatiamo l’esistenza di un diritto che è opera dell’uomo; dall’altro, abbiamo visto che cos’è il diritto divino; ma, fuorché sul piano mistico, non riu­ sciamo a scorgere alcun legame fra di essi. Le teorie cristiane del diritto naturale che avrebbero potuto stabilire questo le­ game si sono dimostrate inconsistenti ed inesatte. La situa­ zione sembra allora disperata perché il diritto divino è vera­ mente solo di Dio, e quindi dev’essere trascendente. Orbene, proprio il fenomeno del diritto naturale ci dimostra che esi­ ste un rapporto, che non ci si può arrestare davanti a questa frattura. Se il diritto fosse soltanto sacro o soltanto tecnico, allora sì che saremmo obbligati a fermarci a questo punto, e a riconoscere che il diritto è in definitiva uno strumento di Satana, perché è radicalmente separato da Dio, ed in contra­ sto col diritto divino. Ma il fatto del diritto naturale (che non implica per nulla l’esistenza di un diritto ideale o di un dirit­ to più giusto, col quale dovremmo confrontarci) ci obbliga a riconoscere una certa interferenza col diritto divino, come vedremo più avanti. E questo è della maggior importanza per il diritto nel suo insieme: perché non si può contrapporre in modo radicale questo diritto naturale e gli altri aspetti del di­ ritto. Tutti ne sono altrettanti momenti. Perciò se in questo fenomeno del diritto naturale riconosciamo un rapporto col diritto divino (rapporto che è supposto, dal punto di vista ra­ zionale, per la mancanza di una soluzione possibile e di una relazione che l’uomo naturale non sarebbe in grado, in alcun modo, di stabilire con le sue proprie forze) siamo obbligati a collegare tutto il diritto nei suoi diversi aspetti con questo di­ ritto divino. In realtà, come vedremo, non vi è spazio per una 81

JACQUES ELLUL - IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO

distinzione fra un “buon” diritto ed un “cattivo” diritto, in base ad un criterio a priori. Non possiamo da noi, ed in anti­ cipo, separare l’uno dall’altro. Dunque se abbiamo la certez­ za del vincolo che unisce una forma del diritto alla giustizia di Dio, in realtà ad essere così vincolato è tutto il diritto per­ ché, come abbiamo già notato, le altre forme di diritto sono neutre. Ecco qual è il significato di questo fenomeno del di­ ritto naturale, ed esso ci conduce direttamente al problema di questo rapporto, che ora dobbiamo studiare.

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IV Diritto divino e diritti umani

1. Gli elementi del Diritto umano Ogni diritto è un sistema. Se cerchiamo di analizzarlo par­ tendo dall’esperienza giuridica, secondo un metodo che è già stato più volte adottato, possiamo stare sicuri che non per­ verremo ad alcun risultato certo. Per conoscere gli elemen­ ti del diritto bisogna invece partire da quanto Dio ci rivela nella sua creazione e nella sua alleanza. Ma prima faremo due osservazioni: la maggior parte dei teologi che si sono oc­ cupati del problema del diritto sono sempre incorsi in gravi confusioni: confusioni fra diritto e giustizia, organizzazione giudiziaria e giustizia, diritto e Stato, diritto soggettivo e di­ ritto oggettivo, ecc. L’analisi che tentiamo qui ha lo scopo di dimostrare in primo luogo che la Scrittura non fa queste confusioni, poi che senza queste distinzioni non si può ar­ rivare a risolvere il problema dei rapporti fra diritto divino e diritto umano. La seconda osservazione: se procediamo a questa analisi partendo dalla creazione e dall’alleanza, non è per dire che in esse cogliamo il diritto nella sua totalità. Dobbiamo infatti ricordare sempre che il diritto non è sta­ tico. Abbiamo visto che è sempre atto di Dio, ossia vivente, in movimento, orientato in qualche direzione. D’altro lato constatiamo nella storia la continua evoluzione del diritto; è dunque in relazione a questo “divenire” (di cui misureremo la portata più avanti) che questa analisi dev’essere condotta. Secondo la Scrittura, troviamo nel diritto tre elementi: le istituzioni, i diritti dell’uomo, la giustizia. Questi tre elementi 83

JACQUES ELLUL - IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO

li ritroviamo anche nel diritto degli uomini, ma se consideria­ mo soltanto questo, non possiamo dire che non ve ne siano altri (per esempio, non vi sono forse le opinioni dei giuristi? I doveri dell’uomo? I diritti della società, ecc.?), né che sia­ no elementi costitutivi del diritto, ossia elementi senza i quali il diritto non potrebbe esistere. La Rivelazione di Dio ce li presenta invece soli ed essenziali. Dunque li prenderemo in esame. A) Le istituzioni.1 Si chiama normalmente istituzione un insieme organico di norme giuridiche orientato verso uno scopo comune che forma un tutto duraturo e indipendente dalla volontà dell’uomo, e che gli s’impone in determinate circostanze. Malgrado tutte le ricerche fatte, nella maggior parte dei casi non si può attribuire ad un’istituzione né una data d’inizio precisa né un’origine razionale. Il matrimonio, per esempio, è un’istituzione. È impossibile sapere esatta­ mente come il matrimonio sia comparso nella storia e per quali ragioni. In altri termini, malgrado tutti gli interventi dei sociologi e degli psicanalisti, non si sa perché si sia andati oltre l’atto sessuale, considerato nella sua materialità. Questo semplice atto, che non si può nemmeno porre in rapporto immediato e diretto con la nascita che avviene a distanza di nove mesi, come ha dato origine ad un ordine sociale, ad un fenomeno giuridico? Tra l’uno e l’altro vi è una differenza che non è solo di comprensione, di sentimento, di ragione, d’organizzazione od ancora di quantità (frequenza che di­ venta abitudine, costume che fonda il diritto), ma è anche di qualità. Cos’è che fa da ponte fra i due fenomeni? In realtà, 1 II significato di questo termine non è chiaro, nonostante tutti gli studi recentemente compiuti in argomento. Ma tutti i giuristi riconoscono che l’isti­ tuzione è in ogni caso un corpo che esiste organicamente ed obbiettivamente, e che di conseguenza non dipende direttamente dalla volontà dell'uomo. Non è il giurista che la crea. Ma l’istituzione non è nemmeno un puro e semplice prodotto dei fatti. Infine è senza alcun dubbio orientata verso un certo scopo, che l’uomo non è in grado di circoscrivere in anticipo; lo studio scientifico dell’istituzione porta dunque a concludere che è impossibile per l’uomo fon­ darla nella sua interezza.

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IV. DIRITTO DIVINO E DIRITTI UMANI

non ne sappiamo nulla, e per quanto indietro si risalga nel tempo, si trova l’istituzione del matrimonio, qualunque ne sia la forma. Infatti che vi sia endogamia od esogamia, poli­ gamia o monogamia, poligamia o poliandria, in ogni modo constatiamo: unione stabilizzata a carattere sociale e regola­ ta dal diritto (vale a dire sanzionata: è stato dimostrato per esempio che l’adulterio è punito assai più gravemente nelle società poligamiche ), e non lo si può spiegare partendo dalla semplice unione sessuale. La sola teoria in accordo con que­ sto fondamento del matrimonio sarebbe quella della promi­ scuità primitiva: ma nessuno (e l’insuccesso di Meyer è pa­ lese) ha potuto dimostrare come da ciò possa trarre origine il matrimonio, e questa teoria, in realtà, è sempre più messa in dubbio. Ora, ciò che abbiamo appena detto del matrimonio, il quale non può essere fondato su di un semplice dato ma­ teriale, lo possiamo dire anche di molte altre istituzioni: lo Stato, la nazione (in origine, clan o tribù), la proprie­ tà, lo scambio. Malgrado tutte le spiegazioni che se ne vo­ glia dare, queste istituzioni sono misteriose nella loro ori­ gine, necessità, permanenza, universalità. Fino ad oggi nessuna teoria ha potuto renderne veramente conto. Ora, per un certo numero di quelle che noi chiamiamo isti­ tuzioni, la Bibbia ci rivela che sono state create da Dio. Ma qui bisogna intendersi bene: esse non sono create in modo astratto come potrebbe esserlo un diritto naturale, e nemmeno provengono da “tendenze” che Dio avrebbe mes­ so nell’uomo, né sono create come condizioni di vita nor­ male. In realtà, sembrano costituire una parte fondamentale della creazione. Sono creazioni di Dio come gli alberi e la luce, come l’uomo, come gli angeli. Lo Stato ed il matrimo­ nio, per esempio, sono entità volute da Dio, modi di essere per l’uomo, di fronte ai quali l’uomo non è libero di accet­ tare o rifiutare. Sono del tutto indipendenti dalla volontà, dall’adesione o dalle concezioni dell’uomo. S’impongono a lui in modo così concreto come il fatto di avere un cor­ po. Senza alcun dubbio, l’uomo può abbellire o insudicia85

JACQUES ELLUL ■ IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO

re il suo corpo, può usarne o distruggerlo (ma così facendo distrugge la propria vita), e del pari l’uomo può pervertire queste istituzioni, aderirvi o distruggerle (ma così facendo distrugge anche la propria vita). Ma ad ogni modo non è l’uomo che crea queste istituzioni. Non può far sì che l’at­ to sessuale divenga matrimonio. Ora questa creazione delle istituzioni implica un carattere che ne porterà a compimen­ to i contorni: “Perché in lui [Gesù Cristo] sono state create tutte le cose che sono nei cieli e sulla terra, le visibili e le in­ visibili, troni, signorie, principati, autorità” (Cl. 1: 16). E di questa creazione in Gesù Cristo che si tratta quando diciamo che queste istituzioni sono create da Dio. Ciò significa che le nostre istituzioni non hanno valore al di fuori del fatto dell’incarnazione e della redenzione, che esse esistono solo per queste ed a causa di queste, che hanno una sostanza solo nella misura in cui partecipano a quest’opera di Gesù Cristo. Non è né per il piacere dell’uomo, né per la sua comodità che sono state create, è perché possa compiersi l’opera della sal­ vezza. Ma bisogna precisare ancora. Esse non sono soltanto legate a quest’opera come se ne fossero condizioni necessa­ rie, vale a dire, in una certa misura, esteriori. Sono organicamente legate a Gesù Cristo. Non vi è una scelta arbitraria di Dio rispetto a queste istituzioni che avrebbero potuto essere anche altre per la vita dell’uomo. Vi è una scelta necessaria delle istituzioni a causa della Signoria di Gesù Cristo. Non per nulla l’unione di Cristo e della Chiesa è paragonata al matrimonio, Dio è chiamato Padre, la Chiesa è chiamata un popolo, lo Stato è una potenza (in greco: exousìa). Potrem­ mo moltiplicare gli esempi ed analizzarli nei particolari. Ciò che importa capire è che questa creazione delle istituzioni non ne fa oggetti di cui l’uomo possa disporre, un qualcosa che avrebbe potuto anche essere diverso. Il loro legame ne­ cessario con la morte e la Signoria di Gesù Cristo fa sì che esse abbiano una vita indipendente da tutti i cattivi usi che l’uomo può farne, ed una necessità che è esterna perfino alla conservazione dell’uomo. In altre parole, anche se l’uomo riuscisse a vivere senza il sostegno di queste istituzioni, esse 86

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conserverebbero la loro verità. Abbiamo così tutto un insieme d’istituzioni, la cui spiega­ zione è impossibile, la cui origine non è chiara, la cui perver­ sione porta con sé la decadenza della società e che formano una componente del diritto; queste istituzioni nella loro es­ senza sono una creazione di Dio. La loro forma può variare, ed è qui che si manifesterà allora l’azione dell’uomo, ma la loro realtà resta identica. Questo non ha nulla a che vede­ re con un diritto naturale qualunque: l’uomo non deve sco­ prirle, o forgiarle: esse esistono. L’uomo non deve far altro che utilizzarle. Non deve prenderle per modello: di esse vive-, deve solo adattarle alla situazione presente. Lo studio di que­ ste istituzioni nelle Scritture potrebbe costituire, evidente­ mente, un ampio campo d’indagine.2 * * *

B) I diritti dell’uomo. Abbiamo visto com’essi siano fonda­ ti nell’alleanza e da questi resi necessari. E un errore credere che l’idea dei diritti dell’uomo sia recente. Recente è la con­ vinzione che esistano diritti in capo all’individuo: non è la stessa cosa. L’antichità ha perfettamente riconosciuto i diritti dell’uomo. A questa affermazione ovviamente si opporrà che allora esisteva la schiavitù. Tuttavia non bisogna dimentica­ re che lo schiavo è in origine il prigioniero di guerra, e che il trattamento normale riservato ad un prigioniero è la condan­ na a morte. Il fatto stesso di essere un prigioniero ne fa un morto, e lasciandolo vivere materialmente non cambia nulla alla sua condizione giuridica di morto. In seguito, col diritto di vendere lo schiavo, si è avuto un decadimento di questa concezione, e l’idea dei diritti dell’uomo si è appannata, ma è ricomparsa ben presto nei sistemi giuridici o filosofici, per esempio in quello degli stoici. Del resto, che sia stata nega-

2 Cfr. il mio saggio Communautés naturelles, nella collezione Vocations, n. 3, Communauté.

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ta all’uomo la possibilità di avere diritti non cambia assolu­ tamente nulla al fatto oggettivo che Dio gli riconosce diritti mediante l’alleanza. Ciò che conferma questa attribuzione di diritti all’uomo è l’esistenza nella Scrittura di tutta la legisla­ zione che concede speciali diritti a determinati individui o a talune categorie di individui. E talvolta è nettamente sottoli­ neato il carattere, al tempo stesso personale e voluto da Dio, di questi diritti; ad esempio in De. 16: 19 ss.: “Non viole­ rai alcun diritto, non avrai alcun riguardo all’apparenza del­ le persone, e non accetterai regali, perché i regali rendono ciechi gli occhi dei saggi e corrompono le parole dei giusti. Seguirai scrupolosamente la giustizia, affinché tu viva e pos­ sieda il Paese che l’Eterno, il tuo Dio, ti dà”. Il fatto di non violare i diritti dell’uomo è una condizione posta da Dio per la conservazione della vita. Veramente, così si esprime l’idea che questi diritti sono voluti da Dio e rivelati come necessa­ ri. La Bibbia ci insegna ancora, a proposito di questi diritti, ch’essi sono attribuiti all’uomo non in quanto individuo, ma in quanto uomo, creatura di Dio, nella situazione in cui Dio lo colloca: è ciò che appare già nel fatto dell’alleanza. Tutti coloro con cui Dio conclude alleanza sono più che perso­ ne singole. Sono rappresentanti di una collettività di uomini: Noè dell’umanità, Abramo del popolo eletto. In ogni caso, si tratta di un uomo fra gli uomini, legato agli altri uomini, scel­ to ma non separato; al contrario, scelto per essere, in mezzo agli altri, colui che arreca la grazia di Dio. Proprio per questo si può dire che si tratta di un mito. Ma questo mito dell’allea­ nza ci mostra esattamente a chi sono affidati i diritti, ad un uomo inserito nell’umanità, e non ad un uomo contrapposto all’umanità. Non vi è antitesi fra individuo e società, perché l’uomo non è concepibile al di fuori della società, e viceversa. E l’uo­ mo può avere diritti solo nella società e quest’ultima è stabi­ le solo se l’uomo è titolare di diritti. Chi ha diritti è dunque l’uomo collegato, unito strettamente alla sua famiglia, alla sua nazione, alla sua comunità di lavoro, alla sua comunità spirituale. Questi diritti non ineriscono a lui in quanto essere 88

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vivente, ma alla sua situazione di uomo responsabile. E re­ sponsabile non solo di coloro che stanno intorno a lui, ma al­ tresì dei suoi discendenti, perché l’uomo è inserito non solo in una comunità orizzontale, ma anche nella comunità verti­ cale dei suoi ascendenti e dei suoi discendenti. E quest’uo­ mo, in questa sua posizione, ed in nessun’altra, che riceve diritti da Dio. Per questa ragione, isolare l’uomo da questo ambiente, come è stato fatto per l’individuo, significa al tem­ po stesso privarlo dei suoi diritti. E da tale momento, la leg­ ge umana può ben riconoscergli tutti i diritti possibili: questi non saranno rispettati. Sta qui tutto il problema dei diritti dell’uomo nell’Ottocento. Poiché questi diritti possono es­ sere misconosciuti in due modi: o da una legge umana che rifiuta all’uomo i diritti che Dio gli dà, o da una situazione, in cui l’uomo viene a trovarsi, tale che egli non può esercitare questi diritti, quand’anche, sulla carta, gli vengano ricono­ sciuti. Vi è dunque un rapporto strettissimo fra la situazio­ ne dell’uomo nel mondo e i diritti dell’uomo che non sono affatto imprescrittibili o incisi nella sua natura, ma attribuiti affinché egli possa svolgere esattamente il ruolo, mantenere esattamente il posto al quale Dio lo ha destinato. Ma, allora, dobbiamo per forza domandarci: quali sono questi diritti dell’uomo? Dio non ce ne dà alcun elenco. Non sono un numero chiuso. Nella rivelazione non c’è una carta dei diritti dell’uomo. E questo ben si comprende se si ricor­ da quanto abbiamo detto del diritto naturale. Dio non ha stabilito in anticipo una codificazione, alla quale basti fare riferimento. Il contenuto di questi diritti dell’uomo è del tut­ to contingente e variabile. Esso dipende infatti dalle situa­ zioni storiche nelle quali l’uomo viene a trovarsi. Non tutte le società hanno le medesime esigenze. La mentalità dell’uo­ mo cambia. Le sue concezioni economiche e politiche anche. Dunque i diritti della persona umana devono variare. Qui non siamo di fronte ad una “creazione” assolutamente im­ mutabile, come accade per le istituzioni. I diritti dell’uomo non sono definiti in anticipo. Ma abbiamo il modo di deter­ minarli. A tal fine, disponiamo infatti di due elementi: da un 89

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lato, i diritti sono dati all’uomo da Dio con uno scopo preci­ so, per raggiungere un obbiettivo. Non assicurano all’uomo soltanto una posizione di vantaggio, esistono perché l’uomo possa fare qualcosa. Ritorneremo più avanti e a lungo su que­ sta idea, che delimita il diritto nella sua totalità. D’altro lato, questi diritti sono riconosciuti dall’interessato medesimo. L’uomo non è capace di riconoscere obbiettivamente il Dirit­ to, o ancora i diritti dell’umanità, ma è perfettamente capace di avvertire la necessità dei diritti suoi personali, di cui ha bisogno per vivere. Li conosce grazie alla situazione stessa in cui si trova, senza che operi un senso obbiettivo di giustizia, ma piuttosto un vero e proprio istinto di conservazione. Ba­ sta ricordare gli innumerevoli testi in cui è proclamato: “Io affermerò il mio diritto”, nei Salmi e nel libro di Giobbe, e la consapevolezza del proprio diritto che possiede il Salmista di fronte ai suoi nemici. Perciò le rivendicazioni (che, s’inten­ de, hanno un certo sapore demoniaco) devono essere prese in considerazione, specialmente quelle dei poveri e dei debo­ li, ossia, come abbiamo visto, di coloro che hanno un diritto davanti a Dio (si tenga presente, ad esempio, accanto a nu­ merosi passi dell’Antico Testamento, quello di Giacomo, 5:4 “Ecco, il salario da voi frodato agli operai che hanno mietuto i vostri campi grida: e le grida di quelli che hanno mietuto sono giunte agli orecchi del Signore degli eserciti”). Quando si lamenta l’uomo esprime, più o meno bene, con maggiore o minor chiarezza e precisione, il suo diritto. Ed è partendo da questa rivendicazione dell’uomo che i diritti dell’uomo pos­ sono esser riconosciuti da parte della legge umana. Ecco la seconda determinazione di questi diritti. Senza alcun dubbio questo spazio lasciato alla rivendica­ zione è dannosa, e tuttavia Gesù Cristo stesso lo concede: e, per non dire della donna cananea, bisogna soffermare l’at­ tenzione almeno sulla parabola del giudice iniquo (Lu. 18: 2-8). Il giudice fa giustizia per l’insistenza della donna. La vedova sa che il diritto è dalla sua parte. Rivendica la giu­ stizia, la rivendica di fronte al potere arbitrario che può pri­ varla del suo diritto. Bisogna notare infatti che questo giu90

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dice non agisce meccanicamente come i tribunali nostri di oggi, ma sembra detenere un potere arbitrario (come in real­ tà lo detengono lo Stato o la società di fronte all’uomo). Può ascoltarla, ma può anche respingerla. Ed è inoltre un giudice iniquo, non ha per nulla fede in Dio e non ha riguardo per alcuno: ciò vuol dire che non ha alcun motivo che lo spinga a fare giustizia. Non crede al suo giudizio, né al diritto; non sa distinguere fra bene e male. Non è dunque da lui che ci si può attendere un giudizio giusto, giusto perché egli cono­ sca la giustizia. Ma tuttavia egli pronunzia un giudizio giusto per l’insistenza della donna, perché lei afferma il suo diritto. E questa affermazione che determina il convincimento del giudice. Beninteso, non sta in ciò il significato della parabo­ la. “Gesù propose loro una parabola per mostrare che biso­ gna pregare sempre .”. Ma se Gesù ricorre a questa parabola, questo ci insegna, come abbiamo già riscontrato, che non vi è una differenza fondamentale fra questo atto, e la preghiera rivolta a Dio da chi domanda giustizia. Perché, secondo la parabola, si tratta di una preghiera che domanda giustizia. E un’affermazione del suo diritto che l’uomo formula nella sua preghiera. Questo può sembrare irritante. Ma è ciò che spiega la conclusione della parabola (v. 8): “Quando il Figlio dell’Uomo verrà, troverà la fede sulla terra?”. La giustizia che gli eletti reclamano, il loro diritto che affermano, è la sola giustizia che abbiano: quella che viene loro da Gesù Cristo mediante la fede. La rivendicazione del loro diritto è nella loro preghiera l’affermazione che Gesù Cristo li salva; più ancora, è l’esigenza del ritorno di Gesù Cristo. Maranathà-. così si esprime questa rivendicazione. Basta allora ricordare il rapporto fra il diritto e la giustizia di Dio per capire quale portata abbia questa parabola per il diritto, e che, in effetti, essa giustifica pienamente l’atteggia­ mento dell’uomo che rivendica il proprio diritto. Ma d’altro lato essa ci porta ad una conclusione ulteriore: una domanda sorge infatti, necessariamente. Va benissimo rivendicare! Ma a chi spetta dunque il compito di ricono­ scere il diritto altrui? Per questo riconoscimento non possia91

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mo contare sulla bontà della giustizia umana in generale. Ma Gesù Cristo ci dà la risposta. Non è per bontà che il giudice iniquo rende giustizia: è per interesse, “affinché questa don­ na non venga continuamente a rompermi la testa”. E dob­ biamo ricondurre questo comportamento alla regola: “Tutto ciò che volete che gli uomini facciano per voi, fatelo anche voi a loro” (Mt. 7: 12). Qui non si tratta di bontà, ma di re­ ciprocità. L’uomo è chiamato a riconoscere il diritto degli altri, perché chiede agli altri di riconoscere il suo. E proprio l’atteggiamento che quest’uomo avrà nei confronti degli al­ tri sarà l’unità di misura nei suoi confronti. E quanto l’uomo attende per sé, ch’egli è chiamato a fare per gli altri. Non è l’atteggiamento dell’amore, è l’atteggiamento della legge. L’amore viene per l’appunto ad infrangere questo rapporto di reciprocità, di equivalenza: ecco il senso del contesto in cui la medesima parola è inserita nel Vangelo di Luca (Lu. 6: 31-36): l’atteggiamento del peccatore, del pagano, dell’uomo naturale è proprio quello della reciprocità, ed è questa che lo induce ad accettare che i suoi diritti vengano limitati, ed è perciò che questo atteggiamento, giuridicamente corretto, non è quello della fede: “I peccatori amano quelli che li ama­ no”; “I peccatori prestano ai peccatori, allo scopo di ricevere altrettanto”; “Ma amate i vostri nemici”; qui vediamo cos’è che spinge l’uomo a riconoscere i diritti di colui che li riven­ dica. Ma il fatto di questa rivendicazione non vuol dire, una vol­ ta di più, che l’uomo abbia in sé il proprio diritto. Un testo singolare di Abacuc (1: 5-11) mostra pecisamente che cos’è un popolo che fonda su sé stesso il proprio diritto, che crede di essere il padrone e che pone insomma il diritto nell’uomo-, qui si tratta dei Caldei, “popolo crudele ed impetuoso”. “Da lui solo vengono il suo diritto e la sua grandezza”. Questa è infatti la pretesa dell’uomo, di fondare su sé stesso il proprio diritto e di assicurarselo. Ma in definitiva ecco qual è la sua situazione: “Tutto questo popolo viene per abbandonarsi al saccheggio .Prosegue la sua marcia e si rende colpevole”. L’af­ fermazione del suo diritto è dunque in realtà il tentativo di 92

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giustificare l’oppressione degli altri, e questo diritto in nome del quale agisce non lo preserva dalla colpa. In definitiva, su che cosa è fondato il suo diritto? “La sua stessa forza, ecco il suo Dio”. Orbene, è proprio quello che constatiamo lungo tutto il corso della storia: allora non vi è più distinzione fra diritto e giustizia. Ogni volta che l’uomo ha preteso di fondare il suo diritto su sé stesso, di avere in sé il proprio diritto, è sulla violenza che il diritto si è basato. Allora non vi è più distinzione tra violenza e giustizia. È il più forte ad aver ragione. Orbene, questo è proprio il contra­ rio di quanto abbiamo visto: è il debole che riceve un dirit­ to da Dio e che può farlo valere davanti a Lui e davanti agli uomini. Ma allora bisogna fare una distinzione. E la faremo secondo i criteri che abbiamo indicato più sopra. k k k

C) Infine, il terzo elemento del diritto è la giustizia. Ed è senza dubbio quello che presenta il maggior numero di dif­ ficoltà, in primo luogo per la sua imprecisione e per la man­ canza di un rapporto evidente con la giustizia di Dio. Il pen­ siero tradizionale vuole che l’uomo abbia in sé un certo senso di giustizia, una certa conoscenza del bene e del male, e che perciò sia capace di valutare ciò che è giusto e di creare un diritto giusto. Soltanto, già sul piano delle constatazioni di fatto, questa posizione incontra gravi difficoltà: è la quasiimpossibilità di stabilire dal punto di vista umano che cos’è la giustizia. E a tutti nota l’osservazione di Pascal,3 il quale non fa che riprodurre quella di S. Agostino nelle sue Confes-

5 Più ancora del passo classico sui Pirenei, questo è chiaro: “ È pericoloso dire al popolo che le leggi non sono giuste, perché egli vi ubbidisce solo per­ ché le crede giuste. Ecco perché bisogna dirgli nello stesso tempo che bisogna ubbidirvi perché sono leggi, come bisogna ubbidire ai superiori, non perché sono giusti, ma perché sono superiori. Se si può far comprendere questo, il pericolo di ogni rivolta è scongiurato. Ecco a che cosa si riduce, propriamen­ te, la definizione di giustizia” (Pascal, Pensées, Sez. V, p. 326).

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sioni.* Così lo scetticismo nei confronti della giustizia appa­ re, tanto quanto il diritto naturale un atteggiamento tradizio­ nalmente cristiano. Ed in questo stesso senso, rappresentan­ do anche il cristianesimo, M. Huber,5 recentemente, faceva l’osservazione che segue: “La giustizia non si lascia definire. L’Uguaglianza, il suum cuique tribuere, ecc., non sono norme materiali di giustizia, ma solo principi critici. Sappiamo bene che cosa è ingiusto, il nostro sentimento ce lo dice. Ma non si può stabilire cosa sia la giustizia. E tuttavia è significativo che l’idea di giustizia sia incessantemente il principio critico del diritto”. Questa impossibilità di cogliere cosa sia la giustizia, e questa variabilità del suo contenuto secondo le epoche ed i luoghi, questo fatto che l’uomo può tutt’al più trovare qual­ che principio formale esterno, devono far riflettere, ma non sono sufficienti per respingere l’idea che l’uomo abbia in sé un concetto della giustizia.6

4 “

Tale è l’errore di coloro i quali non possono tollerare che sia stato per­ messo ai giusti dei tempi antichi ciò che non è permesso ai giusti di oggi; e che Dio abbia rivolto agli uni ed agli altri comandamenti diversi per ragioni tem­ porali, mentre tutti restano necessariamente servi della giustizia eterna... Ciò che è lecito adesso non lo sarà più fra un’ora; ciò che è permesso od ordinato là è qui giustamente proibito e punito; vuol dire che la giustizia è differente e mutevole? No, ma i tempi che essa governa cambiano nella loro rapida suc­ cessione, perché sono i tempi” (S. Agostino, Confessioni, III, par. 7). 5 Max Huber, Das Recht und der christliche Glaube. 6 Malgrado gli studi recenti, resta ancora una straordinaria imprecisione a proposito di questo concetto di giustizia! Per rendersene conto basta con­ sultare il libro di M. Roubier. Infatti, accanto alle dottrine che ne diffidano e cercano di separarne il diritto, troviamo tutte quelle che cercano invece di definirla: la giustizia è un sentimento della comunità per M. Duguit; il senti­ mento dell’individuo per Rousseau, una credenza sociale per M.E. Lévy, un senso spirituale per M. Le Fur, un’intuizione, un istinto, ecc., ed ogni defini­ zione ha le sue conseguenze specifiche, non si tratta di una semplice questio­ ne di parole (Roubier, op. cit., pp. 128-144). Per M. Roubier è il risultato di un progresso costante, un affinamento compiuto dai tecnici del diritto, opera dei giuristi, in vista di un ordine superiore che deve regnare nel mondo e che assicurerà il trionfo degli interessi più degni di rispetto. Ma questo si esprime solo in norme precise che assicurano il trionfo del giusto sull’ingiustizia, nor­ me che hanno un valore universale e suscettibile d’applicazione in ogni tempo

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Cosa ci dice la Scrittura a questo proposito? Il suo inse­ gnamento è costante e solenne: l’uomo non conosce affatto né la giustizia né il bene. Non entreremo nella polemica rela­ tiva alla conoscenza del bene e del male da parte dell’uomo, ci limiteremo ad un’affermazione che si riferisce al nostro problema della giustizia: l’uomo si è impadronito del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, dunque - si dice - conosce il bene ed il male, e se non fa il bene, è sem­ plicemente per un vizio della sua volontà. Posto in questi ter­ mini, crediamo che il problema sia posto assai male. Infatti, quando l’uomo prende il frutto dell’albero, si separa da Dio, così la sua conoscenza del bene e del male è una conoscenza nella separazione da Dio, nel peccato e nella morte. Egli non conosce il bene altrimenti che nel peccato, né altrimenti che statico e separato dall’amore di Dio: vale a dire, non ha nem­ meno la più pallida idea di che cosa sia veramente il bene, ed essendo separato da Dio non ha nemmeno la più pallida idea della giustizia (perché questa è la conformità al volere di Dio). Ed è proprio questo che la Bibbia ci insegna sen­ za alcun cedimento. Di per sé, naturalmente, l’uomo ignora cosa sia la giustizia. Tutto infatti dev’essere visto alla luce di questa affermazione di Paolo (Ro. 9:30-31): “I peccatori che non cercavano la giustizia hanno ottenuto la giustizia, quella che viene dalla fede. Mentre Israele, che cercava una legge di giustizia, non è giunto a questa legge”. L’uomo non può, con le sue forze, arrivare a concepire una legge di giustizia, nep­ pure quando si tratta di Israele. Non è esatto dire che que­ sto testo si riferisce solo alla giustificazione, perché appunto condanna il fatto che l’uomo voglia ottenere la giustificazio­ ne realizzando una giustizia nelle sue relazioni con Dio e con gli uomini, perché è impossibile all’uomo pervenire ad una

ed in ogni luogo. Vi è dunque un ideale che il giurista perfeziona ed esprime grazie alla ragione. In realtà, però, così ci si limita ad allontanare la difficol­ tà: in base a quale criterio è determinato l’ordine superiore? Chi decide quali sono gli interessi più degni di rispetto? Qui si resta nell’oscurità e nel campo di applicazione di principi formali esterni.

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legge di giustizia. I due elementi sono rigorosamente collega­ ti. La Giustizia non risiede in alcun modo sulla terra, non è né nel cuore dell’uomo, né nella natura: “La Giustizia guarda dall’alto dei cieli” (SI. 85:12). Essa è sempre un dono di Dio, una grazia. Là dove l’uomo non è condotto dalla volontà di Dio, regna il disordine e l’ingiustizia (Is. 24:5). Quando dunque l’uomo scorge la giustizia? Quando si trova in presenza del giudizio di Dio: “Quando i tuoi giudizi si compiono sulla terra, gli abitanti del mondo imparano la giustizia. Se si fa grazia al malvagio, egli non impara la giu­ stizia” (Is. 26: 9-10). E, inversamente, quando la giustizia si manifesta, è in realtà un giudizio dì Dio che essa manifesta (su questo punto dovremo tornare): “Il re fu rispettato, per­ ché si vide che la saggezza di Dio era in lui per guidarlo nei suoi giudizi” (1 R. 3: 28). Solo, questa fonte esclusiva della conoscenza della giusti­ zia non è completa: infatti, ogni volta che Dio giudica, nello stesso tempo fa grazia. Ed è precisamente questa la ragione per cui ci viene sempre ricordato che la giustizia conosciuta dall’uomo nel giudizio di Dio è per lui una grazia, un dono; in realtà l’uomo può riconoscere la giustizia solo in virtù del­ la saggezza che Dio gli dà. Ricordiamo la preghiera di Saiomone (1 R. 3: 11), alla quale Dio risponde: “Poiché tu do­ mandi la saggezza per amministrare la giustizia, ecco, io agi­ rò secondo la tua parola...”. E veramente da Dio che dipende il dono della saggezza ed è solo per mezzo di questa saggezza che l’uomo può riconoscere la giustizia. In nessun altro passo della Bibbia questo concetto è espresso più chiaramente che nel libro dei Proverbi (2: 6-22), dove la Saggezza stessa parla e fa dipendere la Giustizia dalla Saggezza: “Poiché l’Eterno dà la saggezza... allora tu comprenderai la giustizia, l’equità, la rettitudine... E tu camminerai così per la via dei buoni e ti manterrai nel sentiero dei giusti”. E questo ci insegna che non si può fare alcuna distinzione tra la conoscenza della giu­ stizia e la sua attuazione: tanto l’una quanto l’altra dipendo­ no da questa saggezza: tu comprenderai e camminerai. Sono le due facce di una stessa medaglia, nella saggezza di Dio. Ed 96

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in questo passo dei Proverbi è importante sottolineare che le parole tradotte con giustizia ed equità sono parole ebraiche: zadak e mischpath, ossia precisamente i due sensi di giustizia che abbiamo incontrato, divino e umano. Così la giustizia umana, anche lei, non può essere in realtà compresa e seguita che grazie alla Saggezza di Dio. Che se adesso si parla dei testi nei quali è detto che la leg­ ge di Dio si trova nel cuore dell’uomo, in realtà la maggior parte di essi non fanno che confermare quanto abbiamo ap­ pena detto: è per grazia che Dio incide la sua legge nel cuore dell’uomo, e qui grazia è intesa proprio nel senso preciso di grazia salvifica. Ce lo mostra nel modo più chiaro il passo in cui Geremia dichiara che Dio sostituirà l’alleanza fatta con Mosè con un’altra, nella quale la legge sarà scritta nel cuo­ re dell’uomo... e “tutti mi conosceranno, dice l’Eterno” (Gr. 31:31-34). È inutile citare molti testi: ogni volta che si trat­ ta di questa legge nel cuore, è perché Dio ha scelto, ha fatto grazia, e perché l’uomo ha riconosciuto che il Dio della Ri­ velazione, di Gesù Cristo, è Dio. Così siamo esattamente agli antipodi della giustizia scritta nella natura stessa dell’uomo. Esiste tuttavia un testo che bisogna esaminare con speciale attenzione, pur senza illudersi di risolverne tutte le difficoltà. È il testo sul quale si basano tutti i fautori della legge natu­ rale, che si vorrebbe scritta nel cuore dell’uomo: Ro. 2:14: “Quando i pagani che non hanno legge fanno per impulso naturale ciò che prescrive la legge, essi, che non hanno legge, sono legge a sé stessi; essi dimostrano che l’opera della legge è scritta nei loro cuori, perché anche la loro coscienza ne ren­ de testimonianza ed i loro pensieri si accusano e si scusano di volta in volta”. Su questo testo abbiamo parecchie osservazioni da fare, pur senza pretendere di spiegarlo interamente: secondo im­ pulsi naturali, secondo natura (in greco, fùsei), è manifesta­ mente contrapposto alla legge (in greco: to àrgon tou nòmou). Si tratta dell’opera che è compiuta in conformità alla legge, è quest’opera che è in relazione con il cuore. Il testo non vuole affatto dire che la legge è scritta nel cuo97

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re, come, arbitrariamente, si cerca di fargli dire. Si tratta uni­ camente dell’azione del pagano. Il pagano agisce, dopo un contrasto interiore al quale partecipano la sua coscienza ed i suoi pensieri, i quali rivelano un travaglio per quanto con­ cerne la scelta dell’azione. Operando può (ma in ciò non vi è nulla di obbligatorio: quando il pagano...) compiere un’azio­ ne conforme alla volontà di Dio, un’azione giusta; in questo momento (nell’azione) il pagano dimostra di essere legge a sé stesso: vale a dire, egli ha davvero compiuto un’opera del­ la legge, e quest’opera viene dal suo cuore, secondo quanto dice Gesù Cristo: “Dall’abbondanza del cuore la bocca par­ la”. Difatti in questo testo non si tratta mai della legge in sé stessa, bensì dell’azione conforme alla legge. E questa azione è appunto tutto ciò di cui il pagano è capace: può agire, even­ tualmente, secondo la volontà di Dio, senza aver appreso, né conosciuto, né discusso questa volontà in quanto legge. E, sulla sfondo, piaccia o no, è il problema della fede che viene dibattuto, perché bisogna reinserire questo testo nel senso complessivo del discorso: esso ci annunzia che solo per mez­ zo della fede vi è giustificazione, vi sia o non vi sia la legge. Ma se si può, senza la legge, arrivare a comportarsi come chi ha fede, si ritorna alla legge di Mosè. Lo sviluppo di questo accenno ci porterebbe troppo lontano. Il nostro testo, però, ci ha indotto a sottolineare un con­ cetto assai importante per l’argomento di cui ci occupiamo: quello dell’azione. L’uomo naturale è chiamato da Dio ad agire, e può anche darsi che la sua azione sia giusta. Prendia­ mo per esempio Adamo: Dio non gli dà alcuna forza parti­ colare, alcuna virtù, alcuna potenza; gli dà il modo di guada­ gnarsi la vita, di trasmettere la vita ecc. E Yhomo faber. Egli riceve semplicemente i mezzi, gli strumenti che gli servono per agire: una certa intelligenza, mani, occhi, ecc. E precisamente quanto occorre per conservare la vita e diffonderla. E l’uomo non è nulla di più. Ciò si vede ancor meglio in Caino: sono Caino ed i suoi discendenti che danno inizio a tutte le arti e che traggono profitto dalla protezione che Dio, a que­ sto scopo, assicura loro. Nel campo del diritto, dell’organiz98

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zazione dei rapporti sociali, l’uomo non sa cosa sia la giusti­ zia. Ma sa che deve agire, organizzare, giudicare, ecc. A ciò si riduce la situazione che gli è riservata, il suo ruolo. Così in quest’ambito come negli altri, è l'homo faber. è do­ tato di ragione, e questa gli permette di elaborare un certo criterio di giustizia, del tutto relativo, condizionato dal mo­ mento in cui opera, transitorio. E giudica secondo questo criterio. La sua ragione gli permette inoltre di svilupparlo in una tecnica amministrativa o giuridica, perché deve man­ tenere un certo ordine. Ma come può commettere errori di calcolo, come può fallire nella sua opera, così ciò che egli ritiene “giusto” non è necessariamente giusto, ciò che consi­ dera “diritto” non è infallibilmente diritto. Ed ecco perché, secondo la Scrittura, ciò che è giusto non è affatto ciò che è conforme al senso umano di giustizia od alla ragione che or­ ganizza la vita sociale. Quando l’uomo costruisce un sistema giuridico, non cerca di riprodurre una norma assoluta di giu­ stizia, ma di soddisfare un’esigenza primaria di organizzazio­ ne. L’organizzazione giudiziaria, amministrativa, e le regole che vi presiedono hanno lo scopo di permettere la conserva­ zione della vita, e l’uomo si dà da fare a questo scopo: cerca dunque di riuscire ed è questo infatti il criterio cui si attiene nella sua creazione del diritto. L’uomo non si ispira ad un ideale: quello che ha di mira è un risultato pratico. Compie l’opera, che può anche essere giusta agli occhi di Dio, ma che può essere anche ingiusta. Questa ricerca ha in realtà come obbiettivo la conservazione del mondo e l’uomo agisce con le sue regole di giustizia per conservare il mondo, in quanto è homo faber, ed è questa conservazione, per l’appunto, uno degli scopi assegnati da Dio al diritto, che è un elemento del­ la pazienza di Dio nei confronti del mondo. Si potrà dunque adottare come criterio di questa giustizia, il fatto che una legge od una disposizione giuridica è parte organica della pazienza di Dio. Così una legge che è disastro­ sa per la società, che porta con sé il disordine e la morte, che conduce alla disgregazione, è una legge ingiusta. Ma è ugual­ mente ingiusta la legge che, pur mantenendo un ordine for99

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male, con l’oppressione e la rigidità rende impossibile la vita spirituale dell’uomo e dei gruppi, perché questa sterilizzazio­ ne spirituale perpetrata mediante la legge conduce anch’essa molto rapidamente alla decadenza della società. Infine non è giusta una legge che non sia parte organica della pazienza di Dio, vale a dire che cerchi di porsi al di fuori del dilem­ ma Vita o Morte della società e dell’uomo. Di fronte ad esso, ogni legge si deve impegnare, e può essere solo l’espressione della conservazione più o meno bene assicurata dell’uomo. E con riferimento ad essa che sul piano umano si può decidere che cosa sia giusto. Ma questa giustizia puramente pragma­ tica che l’uomo stabilisce nel proprio interesse che cos’ha in comune con la giustizia di Dio? A prima vista, nulla. Ed è esatto che se si prende la giustizia divina come punto di par­ tenza, non vi è nulla di comune. Ma non dimentichiamo che anche questa è azione, vale a dire costante ed anche punto finale. Nel suo lavoro organizzativo, l’uomo è pur obbligato a te­ ner conto di fattori che s’impongono a lui e che non pensa nemmeno di mettere in discussione quanto alla loro origine perché costituiscono altrettanti dati insopprimibili. E talvol­ ta quando li mette in discussione imbocca una via che con­ duce alla morte per tutta la società. Sono in primo luogo le istituzioni: le riconosce non perché abbia lumi soprannatu­ rali o un senso che gli fa avvertire la giustizia di Dio, od una veduta esatta di ciò che è necessario per vivere; le riconosce perché sono create ed esistono, come riconosce l’esistenza del cielo e dell’acqua, come riconosce l’esistenza di potenze magiche. Da quel momento le include nel diritto che va co­ struendo, perché non potrebbe fare diversamente. Si limita ad esplicitarle, e quando fa del diritto, dà loro una forma at­ tuale. Dopo, l’uomo incontra anche i diritti dell’uomo, e pure di questi deve tener conto quando formula il diritto di una so­ cietà, perché, se trascura queste esigenze, il diritto non avrà più senso alcuno, non sarà più considerato come diritto. Chi s’impegna a rispettare il diritto lo fa perché domanda una 100

IV. DIRITTO DIVINO E DIRITTI UMANI

tutela del proprio diritto. È un mezzo di cui si serve per far rispettare la sua propria giustizia. Per questo il punto di par­ tenza materiale del diritto nei sistemi primitivi è quasi sem­ pre un sistema di sanzioni. La formulazione della sanzione esiste nella maggior parte dei casi prima della formulazio­ ne del diritto. Da quel momento, il diritto trova sempre il suo punto d’appoggio nella rivendicazione dell’uomo, il cui buon fondamento è riconosciuto dalla società nel suo insie­ me. Ma molto presto si giunge a stabilire le condizioni di questo riconoscimento, ovvero, ciò che è lo stesso, le con­ dizioni in presenza delle quali la sanzione sarà applicata a sostegno di una rivendicazione. La determinazione di queste condizioni è insomma l’elaborazione delle regole secondo le quali il giudice deve giudicare. Così nei due casi vediamo che il ruolo dell’uomo concerne la forma: egli dà una forma a questo diritto che esiste, come alle istituzioni. Questa forma, egli la modifica via via a seconda delle situazioni sociali, economiche ecc., e potrà, s’in­ tende, spingersi anche oltre, potrà negare all’uomo ciò che è un diritto, o, inversamente, gli potrà attribuire ciò che un di­ ritto non è. Potrà distruggere un’istituzione, e tutto nel corso di questo lavorio di formulazione, in base a ciò che l’uomo chiama la giustizia, ma che è solo una certa conformità a cri­ teri di utilità, pragmatici, che l’uomo pone per organizzare l’ambiente in cui vive, e nulla di più. Ed è per questo che è impossibile dare un contenuto alla giustizia umana. Non bi­ sogna credere che la giustizia sia la conformità alle istituzioni ed ai diritti dell’uomo. Essa ha un altro ruolo, che consiste nel dare una forma attuale a queste istituzioni ed a questi di­ ritti, nel formularli in modo coerente con i dati sociali, eco­ nomici, tecnici, nel coordinarli fra loro, in modo che i diritti di ciascuno siano rispettati (qui sta appunto il suum cuique tribuere) e che questi diritti si trovino in sintonia con le isti­ tuzioni. Soltanto non bisogna pensare che questa giustizia sia invariabile, eterna: essa non è nient’altro che un criterio pra­ tico la cui determinazione è variabile. Quanto al rapporto di questa giustizia con Dio, esso non 101

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si può stabilire partendo da questa giustizia, la cui funzione è quella di organizzare la società. Questa giustizia non permet­ te mai di risalire alla giustizia di Dio: si parte dalla giustizia di Dio, e si discende verso questa giustizia organizzatrice, come vedremo più avanti. k k k

Abbiamo cercato di individuare le componenti del diritto umano. Questo non ci dà né il senso né il valore del diritto. Ma è purtuttavia il punto di partenza necessario che, d’al­ tronde, può essere interpretato solo in rapporto alla nozione di alleanza ed alla nozione di parusia, fra le quali il diritto umano è inserito. Ma grazie a questa analisi sappiamo che la costruzione giuridica non deriva da principi, ma da scelte compiute in situazioni concrete, da un giudizio (più o meno giusto secondo la giustizia di Dio) su fatti storici, e da re­ lazioni umane che coinvolgono diritti umani ed istituzioni date all’uomo da Dio. Questo fenomeno, qualificato come “diritto oggettivo” è dunque tipicamente relativo, ma non è soltanto relativo, perché Dio gli conferisce una dignità, come adesso vedremo.

2. Escatologia e Diritto La nozione di alleanza non esaurisce quella di giustizia. E questo proprio perché la giustizia di Dio è avviata verso una fine che è il giudizio del mondo ed il ritorno del Cristo. Così il diritto che ha la sua fonte nell’alleanza non può essere rav­ visato soltanto partendo da questa alleanza, partendo dalla sua origine, ma, nella misura stessa in cui dipende strettamente dalla giustizia di Dio, va ravvisato anche in relazione all’“ultimo giudizio”, all’escatologia: insomma, alla sua fine ed alla sua conclusione. Tutto ciò che abbiamo detto sinora partendo dall’alleanza si può infatti comprendere veramen102

IV. DIRITTO DIVINO E DIRITTI UMANI

te solo nella prospettiva di questa fine, che già a più riprese abbiamo dovuto far intervenire come elemento di determi­ nazione del diritto. Più esattamente peraltro dobbiamo dire che il diritto dev’essere concepito come compreso fra l’alleanza ed il giu­ dizio finale; è una grandezza intermedia che ricopre la giusti­ zia di Dio con l’alleanza ed il giudizio. E non è esatto dire che siccome il diritto è questa grandezza intermedia, in qualche modo contingente (come abbiamo visto essere la giustizia umana), scompare puramente e semplicemente nella nuo­ va creazione. Senza ricordare il testo apocalittico sulla glo­ ria delle nazioni confluite nella nuova Gerusalemme (Ap. 21: 24-26), né il testo sulla permanenza delle opere dell’uomo at­ traverso il giudizio (1 Co. 3:13), dobbiamo insistere almeno su questa parola di Gesù Cristo: “Sarete giudicati come ave­ te giudicato” (Mt. 7:2). Beninteso, questo testo ha prima di tutto un senso “spirituale”, che è assai noto, ma non è certo indifferente al diritto e dev’essere posto in relazione con altri due che lo chiariscono: nella parabola dei talenti, il signore riprende a suo vantaggio il giudizio che il servo negligente ha espresso su di lui: “Dalle tue parole io ti giudico. Tu sapevi che sono un uomo duro...ecc.” (Lu. 19:22), e, inoltre, in Ro. 2: 12-16: “Tutti coloro che hanno peccato senza la legge, pe­ riranno pure senza la legge - e tutti coloro che hanno pec­ cato avendo la legge, saranno giudicati in base alla legge... Quando i pagani, che non hanno la legge, adempiono per natura ciò che prescrive la legge, essi, che non hanno la leg­ ge, sono legge a sé stessi”. Tutto questo dimostra che la giu­ stizia di Dio non è l’applicazione di una norma inflessibile, immutabile, ma, al contrario, che essa è, prima di tutto, come abbiamo detto, constatazione di fatto e giudizio individuale. Orbene, ciò che è vero per tutto il corso della storia è vero altresì per l’ultimo giudizio. Non vi è una legge che giudica, ma il Dio vivente di fronte agli uomini morti. E sappiamo che Dio giudica secondo il diritto dell’uomo. È ancora vero qui: per giudicare un uomo Dio adotta non la giustizia come valo­ re assoluto, ma la giustizia di quest’uomo. Lo giudica in base 103

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ai suoi propri criteri, in base alle sue parole, in base alle sue norme di vita o di diritto, in base ai suoi giudizi. E l’uomo si vede già condannato non dall’assoluta santità di Dio, davanti alla quale è ridotto a nulla, e che appare solo nel momento in cui Dio perdona, ma prima di tutto dalla sua propria giusti­ zia: è questo il senso dei processi di cui Dio accetta lo svolgi­ mento nei confronti degli uomini, nel corso dei quali Egli si abbassa al livello della loro giustizia, ma ricordando al tem­ po stesso la sua giustizia, come nel libro di Giobbe: “Ti farò delle domande e tu insegnami - dice l’Eterno - vuoi proprio annullare il mio giudizio?2 (Gb. 40: 7-8). Qui si coglie anche uno dei significati della crocifissione, in cui l’uomo è condan­ nato dal suo stesso giudizio: l’uomo ha espresso questo giu­ dizio di morte sul Figlio di Dio, e questo giudizio, e nessun altro, condanna irrevocabilmente l’uomo in modo tale che non resta più alcun valore umano, perché in definitiva è la giustizia stessa dell’uomo che è annientata con l’uomo stesso quando Dio applica tale giustizia. Dobbiamo dunque avere ben chiaro questo concetto, che Dio ci giudica applicando i nostri medesimi criteri di giu­ dizio. Questo diritto di cui abbiamo visto il lato pragmati­ co e contingente, Dio l’assume e se ne serve nei confronti dell’uomo. Ecco allora la terribile gravità di questo diritto. Non possiamo prenderlo alla leggera e lasciarlo in balia delle passioni umane quando sappiamo che, facendo parte di una famiglia, di una categoria professionale, di una nazione, ed avendo dei superiori, che sono i nostri capi, siamo misurati da Dio con le medesime norme che sono applicate in questi ambienti o da questi capi. Osserviamo di sfuggita, a scanso di equivoci, che questi non sono evidentemente i soli criteri secondo i quali Dio giu­ dica, e che non si tratta dell’unità di misura assoluta dei no­ stri peccati. Ma fanno parte del giudizio di Dio. Così tutto il diritto, questa immensa costruzione eretta dall’uomo nel corso della sua storia, tutto il diritto con i suoi errori, le sue deviazioni, perfino le sue ingiustizie, si trova in definitiva as­ sunto da Dio, mediante un atto di cui Gesù ci ha già dato 104

IV. DIRITTO DIVINO E DIRITTI UMANI

l’immagine ed il senso, sottomettendosi al diritto di Pilato e al diritto degli Ebrei, alla legge dei pagani ed alla legge del popolo eletto. Ma questo fatto ha due significati che convie­ ne distinguere: da un lato nella misura stessa in cui il diritto è legato al peccato dell’uomo, in cui può esserne una mani­ festazione (e per esempio ne è una manifestazione il diritto puramente tecnico che sfocia nella summa iniuria), è assunto da Dio alla maniera del peccato dell’uomo stesso, non è dif­ ferenziato da questo peccato benché serva per la sua misura­ zione; e si può anche dire che proprio perché questo diritto deve esprimere la giustizia di Dio e l’alleanza di Dio, quando è diventato un “non-diritto”, quando è peccato, è la misura stessa del peccato; infatti è in questo momento che l’uomo vuole giustificare il suo peccato e vuole giudicare la giustizia di Dio secondo il proprio metro. E se riprendiamo la para­ bola dei talenti vediamo per l’appunto che la regola di con­ dotta che il servo si è data implica un giudizio sul padrone, e che la norma di diritto con la quale si giustifica costituisce la misura stessa del suo peccato. Allora questo diritto che Dio assume e secondo il quale giudica non è da lui conserva­ to. D’altra parte, nella misura stessa in cui il diritto è legato all’alleanza, in cui ne è derivato, questo diritto, come altre opere dell’uomo, è conservato da Dio nella Gerusalemme ce­ leste, fra l’onore e la gloria delle nazioni, ed anche in tal caso è assunto da Dio perché in questo momento fa parte della Signoria di Gesù Cristo quando ha correttamente compiuto la missione cui Dio lo aveva destinato. Abbiamo così i due aspetti di questa vera accettazione da parte di Dio di quell’opera umana in cui consiste il diritto. Due aspetti che sono già contenuti nell’atteggiamento che Dio assume di fronte alla richiesta degli Israeliti che doman­ dano un re (1 S. 8). Comportandosi in tal modo, è Dio stesso che essi rifiutano come re, e perciò sono radicalmente infede­ li e disubbidienti. Ma Dio accetta malgrado tutto la loro vo­ lontà e stabilisce la legge della monarchia, vale a dire, prende su di sé questa disubbidienza, pur facendone la misura della condanna del popolo. E questa condanna si manifesterà con 105

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particolare evidenza in Saul. Ma d’altra parte Dio capovolge in qualche modo la situazione con Davide, che è la prefigu­ razione della regalità di Gesù Cristo. In questo momento, gli Israeliti che hanno rifiutato Dio per avere un re, si trovano sottomessi alla regalità di Dio, perché Dio prende su di sé questa regalità, eleva la regalità umana sino a farne un segno di quella Regalità che stabilisce per sempre in Gesù Cristo. E pur restando rigorosamente sul medesimo piano, l’atto degli Israeliti diventa un atto di benedizione e di salvezza. Accade lo stesso col diritto. Dio capovolge la situazione del diritto umano nel momento stesso in cui ne fa uno stru­ mento di condanna per l’uomo. In questo momento, accet­ tandolo, Dio fa di questo diritto molto più che l’insieme del­ le norme giuridiche stabilite dall’uomo. Egli ne fa un segno della sua propria giustizia. Così il diritto riceve una dignità eccezionale, perché, in definitiva, è preso in mano da Dio. E noi vediamo allora questo fatto essenziale: il diritto è valido per noi non a motivo della sua origine o della sua relazione con l’alleanza - poiché questo non potrebbe mai dimostrare altro che l’ingiustizia del nostro diritto rispetto alla giustizia di Dio, questo non potrebbe essere che la misura del suo di­ svalore, e di conseguenza non potrebbe comportare per noi che l’inosservanza di queste regole umane che sono soltan­ to la tradizione condannata da Isaia e da Gesù Cristo e nul­ la più, e l’espressione della volontà dell’uomo contrapposta a quella di Dio (bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini) - ma è valido perché in definitiva Dio lo prende in carico. Alla fine della sua storia, Dio ratifica questo diritto, e lo fa in qualche modo entrare nel regno della sua giustizia. Alla fine dei tempi, infatti, non vi è più alcuna distinzione fra la zedakah e la mischpath. E il regno della giustizia che è an­ nunziato, della sola ed unica giustizia che ha inglobato ogni giustizia, e perciò è vano cercare a quale giustizia si riferisce la promessa fatta a coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché questa promessa è escatologica. Essa è rivolta a tutti coloro che hanno cercato una giustizia, qualunque essa sia, giustizia interiore, sociale, giuridica, ecc., perché ogni giusti106

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zia autentica entra alla fine nella giustizia di Dio, ne è inse­ parabile, non a causa della sua origine, ma a causa della gra­ zia che Dio fa, con giudizio inappellabile, a questa giustizia, di unirla alla Sua giustizia, grazia che noi conosciamo bene, perché è quella che adempie ogni giustizia in Gesù Cristo. * * it

Abbiamo appena parlato di giustizia autentica. Infatti, già ciò che abbiamo detto del doppio carattere dell’azione di Dio nei confronti del diritto dimostra che vi è un giudizio di Dio su questo diritto. Queste due facce del nostro diritto, Dio le distingue, e separa nel diritto ciò che è “onore e glo­ ria” delle nazioni da tutto il resto, come fa passare tutte le opere umane attraverso il fuoco. Non tutto il nostro diritto è dunque accettato da Dio. Ma è proprio tutto il nostro diritto che durante il corso della storia umana riceve la sua validità dal fatto che un giorno Dio lo assumerà. Infatti, solo Dio è capace di fare questa distinzione. Lui solo è capace di separa­ re queste due facce del diritto che per noi sono unite proprio perché non disponiamo di un criterio di giustizia assoluto e al di fuori del nostro peccato. In definitiva, non sappiamo che cosa Dio conserverà del nostro diritto. Ci sarà facile am­ mettere questa nostra ignoranza, se ricordiamo che non sia­ mo in grado di sapere nemmeno ciò che la storia conserverà del nostro diritto e delle nostre istituzioni attuali. Incapaci di prevedere la distinzione che farà la storia, la quale è purtuttavia opera umana, come potremmo prevedere la distinzione che farà Dio? Non possiamo quindi metterci al posto di Dio. Ed è questa impossibilità che, di fronte al diritto, determina la nostra posizione, come vedremo più avanti. Ci resta adesso da considerare le relazioni che intercorro­ no fra il punto di partenza, l’allanza, e questo punto d’arrivo, il giudizio. In realtà questa relazione, che siamo obbligati a concepire come lineare perché la nostra intelligenza si muo­ ve nella dimensione del tempo, è eterna e risiede già nella giustizia stessa. Il giudizio finale di Dio e l’alleanza sono la 107

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stessa cosa, ma il primo si pone al tempo stesso come l’ultimo avvenimento della storia e come l’inizio dell’epoca nuova, mentre la seconda è un’istituzione di Dio presente nel corso della storia, e di conseguenza un’espressione relativa e velata. Nell’avvento dell’epoca nuova ritroviamo in sostanza gli stessi elementi che già abbiamo trovato nell’alleanza, ossia il giudizio, la grazia, il ristabilimento e la Signoria di Dio in Gesù Cristo. Soltanto si tratta di un giudizio che non può essere misconosciuto né respinto, di una grazia che fa venire tutto alla luce, senza che nulla resti nascosto, di un ristabili­ mento radicale, generale ed universale, di una Signoria che s’impone senza che nulla le sfugga, nemmeno in apparen­ za. Pertanto abbiamo qui l’ultima alleanza, conclusa in Gesù Cristo, che si manifesta ed è completa. Ed è ben questa la re­ lazione fra le alleanze e l’avvento dell’epoca nuova: quest’ul­ timo è il compimento totale e definitivo delle alleanze, che oggi hanno per noi una realtà presente, valida nella speranza a motivo del loro compimento in Gesù Cristo. Sarebbe interessante, evidentemente, sviluppare questo punto, ma ne abbiamo detto abbastanza per il nostro argo­ mento: adesso comprendiamo che il ruolo del diritto è pre­ cisamente la realizzazione umana, parziale e contingente, di un’alleanza che giunge a compimento solo alla fine dei tem­ pi. Di conseguenza tutto ciò che sta all’origine del diritto ha il suo vero valore solo in questo compimento e il diritto stesso ha un legame di necessità con questo compimento, a causa del suo legame d’origine con l’alleanza. Il diritto si trova dunque rigorosamente fondato in Gesù Cristo e ben delimitato per quanto concerne il suo valore e la sua sfera d’azione.

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IV. DIRITTO DIVINO E DIRITTI UMANI

3. Lo scopo del diritto. (1) - L’espressione del Diritto Quale sarà perciò la nostra condizione di uomini davanti al diritto? Dopo quanto abbiamo detto non dobbiamo affat­ to cercare di distinguere fra ciò che è eternamente valido da ciò che invece dev’essere rifiutato, perché il momento di fare questa distinzione non è ancora venuto. Esso verrà solo col giudizio. Prima dobbiamo dunque accettare il diritto nella sua totalità, così com’è, perché questo diritto è chiamato da Dio a servire; il diritto nella sua totalità, che dev’essere accet­ tato non perché sia giusto, ma perché Dio lo assume. Ma al tempo stesso non possiamo affidarci a lui ciecamente, senza riserve. Non possiamo accettare come conforme alla giusti­ zia ciò che esiste giuridicamente, sappiamo benissimo che ciò può essere il contrario del diritto e che, di conseguenza, una condanna pende su questo diritto oggi in vigore al quale siamo assoggettati. Parimenti, è questo diritto nella sua to­ talità che è rimesso in questione. Non è possibile alcun con­ formismo perché sappiamo che sarà questo diritto nella sua totalità che passerà attraverso il fuoco del giudizio. Siamo stretti fra queste due situazioni, che sembrano contraddit­ torie, ma non lo sono. Da un lato, infatti, si tratta per noi di evitare l’anarchia e la sopraffazione della violenza sul diritto, di evitare la distorsione del diritto per interessi personali, di evitare parzialità nei confronti di persone o di classi sociali. D’altro lato, si tratta per noi di avere esigenze sempre più rigorose nei confronti del diritto, perché formuli meglio e con maggior precisione, per il momento in cui viviamo, isti­ tuzioni e diritti dell’uomo, in un certo quadro di giustizia, come abbiamo visto. Non possiamo dunque in alcun modo accettare come normativo il diritto vigente od il sistema di rapporti che ne deriva. Ed il ruolo specifico del cristiano, proprio perché si trova in questa situazione a doppia faccia, è quello di riconoscere quanto c’è di valido nelle esigenze dell’uomo naturale, allorché reclama i suoi diritti, e di far sì che vengano recepite dall’ordinamento giuridico, senza che ciò avvenga sotto la spinta della costrizione e delle rivendi• V

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JACQUES ELLUL ■ IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO

cazioni, affinché il diritto non sia il semplice prodotto della forza, ed affinché ciò che è giusto e sano nelle rivendicazioni dell’uomo non divenga satanico. Ma è possibile precisare ul­ teriormente questa situazione, o, più esattamente, il movente dell’azione del cristiano nel campo del diritto. La prospettiva escatologica che abbiamo cercato di trac­ ciare a proposito del diritto ci conduce altresì a comprendere che questa situazione del diritto si inserisce in una dimensio­ ne umana: il fatto è che il diritto, benché non si arresti con la storia, fa parte di questa storia. Ma siccome non si arresta con essa, ubbidisce ad un certo scopo. Ha un orientamen­ to. Non è abbandonato al caso del suo libero sviluppo, dalle sue origini in poi. Ciò che è vero sul piano dell’alleanza e del giudizio è vero anche sul piano della storia umana. Il diritto, sulla terra, ha una finalità precisa. Ecco il secondo elemento di determinazione al quale il cristiano deve riferirsi nel pro­ prio agire. Dunque si tratta non di realizzare un modello, ma di raggiungere uno scopo, e di compiere una funzione, alla quale il diritto è preordinato fin dalla sua origine. Beninteso, scartiamo subito l’idea che il diritto sia un mezzo per far ve­ nire il regno di Dio sulla terra; senza approfondire la questio­ ne, la scarteremo semplicemente dicendo che noi crediamo che il regno verrà grazie all’azione di Dio che si manifesterà attraverso un cambiamento completo di tutta la creazione. Il diritto non potrebbe, né punto né poco, preparare, innescare l’avvento dell’epoca nuova. Ma ha tuttavia un ruolo che non è trascurabile, un ruolo che è determinato dalla sua portata escatologica. E questa finalità del diritto che esamineremo sotto due aspetti: l’espressione del diritto ed il significato del diritto7. Ve -k -k

7 La finalità del diritto è d’altronde riconosciuta nel suo ordine umano da un gran numero di giuristi. A loro avviso si esprime nello scopo che il diritto deve raggiungere per Porganizzazione sociale, e l’equilibrio che bisogna man­ tenere fra i diversi interessi.

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IV. DIRITTO DIVINO E DIRITTI UMANI

Non possiamo accontentarci di dire semplicemente: Dio dà un diritto per far regnare l’ordine, la giustizia ecc. Nella rivelazione nulla ci garantisce che sia proprio così. E coloro che in questo campo hanno vissuto l’esperienza di fondarsi su principi ritenuti cristiani hanno dimostrato, con la diver­ sità delle loro idee, che quando si fa ricorso alla ragione, an­ ziché alla Rivelazione scritta, si può applicare l’etichetta di questo diritto a tutto ciò che si vuole. Fin qui, abbiamo trovato uno scopo assegnato da Dio ai diritti dell’uomo: Egli riconosce all’uomo questi diritti affin­ ché l’uomo possa contrarre con lui un’alleanza, in altri ter­ mini perché egli possa essere in una certa misura l’interlocu­ tore di Dio. E glieli riconosce in modo assai concreto, come abbiamo visto. E esatto che l’uomo non può in alcun modo essere questo interlocutore se è spogliato dei diritti che gli assicurano la vita, ed una vita tale che egli possa rispondere alla Parola che Dio gli rivolge, quando Dio contrae alleanza con lui. Sarebbe da idealisti pretendere il contrario, e la Bib­ bia non è idealista! Abbiamo qui il primo aspetto di questa finalità: il diritto umano dev’essere concepito in modo tale che l’uomo che vi è inserito goda di tutti i diritti necessari perché possa com­ prendere la parola di alleanza che Dio gli rivolge e che vi possa rispondere. Se il diritto pone l’uomo in una situazione tale da rendere vana la predicazione dell’alleanza, allora an­ nienta i diritti che Dio riconosce all’uomo, e, per ciò stesso, si annulla: non ha più alcun vero contenuto quando nega questi diritti che sono il suo primo contenuto. Evidente­ mente questo implica il riconoscimento, all’uomo, non solo di diritti astratti ma, al contrario, in modo assai concreto di libertà precise, e di libertà concernenti l’uomo nella sua to­ talità, e non solo la sua vita interiore, come la libertà di co­ scienza. Perché l’alleanza non è solo un’alleanza di salvezza con Abramo, ma anche un’alleanza di conservazione con­ clusa con Adamo e con Noè. Entrambe realizzate in Gesù Cristo, “mediante il quale, nel quale e per il quale sono tutte le cose” (ICo. 8: 6). Queste tre qualificazioni bastano a ren­ ili

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dere manifesto cos’è davvero l’alleanza. Ed è per causa sua che il diritto non può fare a meno di questa finalità, perché l’alleanza non è soltanto un punto di partenza ma, si direbbe con un termine giuridico, un contratto di durata, vale a dire che non si esaurisce con un solo atto di adempimento, ma i cui effetti si prolungano, e si prolungano nella dimensione escatologica. Così questi diritti, che è necessario riconosce­ re all’uomo perché l’uomo risponda a Dio, non si riferisco­ no soltanto alla situazione dell’uomo al quale è annunciato il Vangelo, ma prima di tutto alla situazione dell’uomo che è chiamato da Dio a vivere, puramente e semplicemente. E non dobbiamo fare altro che riferirci a questa esigenza, ogni volta ripetuta, della vita, nelle alleanze. Contrarre un’allean­ za con Dio è prima di tutto poter vivere, e poi impegnarsi a conservare la vita. Ne è stata dedotta l’idea generale della conservazione del mondo. Ed è parzialmente esatto, lo ve­ dremo, ma tale alleanza riguarda, prima del mondo, l’uomo. Perciò porre l’uomo in una situazione tale che la vita gli sia impossibile significa andare incontro alla fine del diritto. Il diritto dev’essere tale che l’uomo al quale è posta la doman­ da: “Vuoi vivere? E vuoi far vivere?” possa rispondere di sì. Questo non vuol dire che risponderà senz’altro di sì (perché il peccato spinge l’uomo verso la morte) né che saprà vive­ re (perché non saprebbe farlo senza la grazia). Ma sempli­ cemente che le condizioni di esistenza sociali, economiche, politiche, create dal diritto, siano tali che l’uomo non sia costretto a morire. Abbiamo scritto “create dal diritto”. E questo mette in luce il carattere parzialmente indipendente del diritto rispet­ to al fattore economico ed a quello sociale: il diritto non ne è una semplice espressione nella misura stessa in cui dev’essere normativo per dare forma a queste condizioni d’esistenza, e talvolta reprimere ciò che esiste sul piano economico e socia­ le, se quanto esiste è mortale per l’uomo. Il diritto, per la sua finalità, è superiore all’economia. Così sappiamo già in quale direzione dobbiamo agire quando vediamo il diritto spingere l’uomo alla disperazione, 112

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alla ribellione, al rifiuto della vita e della sua trasmissione, a causa della situazione che gli è riservata. Soltanto questi diritti dell’uomo, dai quali è facile trarre le conseguenze, hanno come scopo il contratto che è destinato a conservare il mondo. In altri termini - l’abbiamo visto Dio conserva il mondo se l’uomo rispetta le clausole del con­ tratto. E, beninteso, non è l’azione dell’uomo che conserva il mondo, è la grazia di Dio senza che l’uomo abbia fatto nul­ la per meritarla, ma che l’uomo deve esprimere realizzando queste condizioni. Dunque il diritto divino ha senza dubbio la missione non solo di permettere la vita all’uomo, ma di or­ ganizzare la società in modo tale che essa sia conservata da Dio. E allora troviamo qui il pendant di quanto abbiamo già detto: come i diritti sono dati all’uomo per l’alleanza, così il mondo è conservato per il giudizio. “Dalla medesima paro­ la (la parola che opera sia nella creazione sia nell’alleanza) i cieli e la terra attuali sono conservati e riservati al fuoco, per il giorno del giudizio e della rovina degli empi” (2 P. 3: 7); e qui abbiamo la seconda determinazione del diritto nella sua missione di conservazione del mondo: anch’essa una finalità. Ma cosa vuol dire: conservare il mondo per il Giudizio? Non bisogna affatto pensare a un Dio crudele che fa durare il mondo nella sofferenza solo per condannarlo meglio. In rea­ ltà, il giudizio è acquisito mediante la predicazione della Pa­ rola in seno a questo mondo, ed è soltanto la Parola che di­ vide, come una spada tagliente: ossia che giudica (Eb. 4:12). Così il mondo è in realtà conservato affinché la Parola vi sia predicata, affinché la salvezza in Gesù Cristo vi sia annunzia­ ta. Dio gli lascia questa opportunità il più a lungo possibile. Tutto questo è ben noto. Ma cerchiamo di pensare cosa rappresenta dal punto di vista del diritto che è dunque, come abbiamo visto, incari­ cato di esprimere l’alleanza sulla terra e di conseguenza di organizzare questo mondo per la sua conservazione in vista del Giudizio. Questo scopo del diritto implica prima di tutto che il diritto si concepisca lui stesso come relativo e sottopo­ sto lui stesso al giudizio. Infatti, è rigorosamente esatto che 113

JACQUES ELLUL - IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO

ogni decadenza del diritto comincia con la sua assolutizzazione, vale a dire quando il diritto si considera di per sé un fine, e cerca di assicurare di per sé la salvezza di tutto l’uomo e l’organizzazione chiusa della società. Concepire una socie­ tà senza scopo, o con uno scopo diverso dal giudizio di Dio realizzato hic et nunc mediante la predicazione del Vangelo, è la tentazione diabolica del diritto. Ora, dobbiamo ripete­ re qui la stessa osservazione già fatta in precedenza: quando il diritto organizza la società per la felicità dell’uomo, o per la produzione, o per la potenza, o per la gloria, o per la ric­ chezza (ossia, in funzione esclusiva di questi obbiettivi) e non per il giudizio, il diritto cessa di conservare il mondo. Perché giustamente Dio lo conserva solo per il giudizio, e quando il diritto non compie questa missione, diventa nella società un fattore di disordine, di anarchia e di morte. Ma dire che il diritto esiste affinché il Giudizio sia eserci­ tato mediante la predicazione della Parola, equivale a dire che questo diritto non può avere un contenuto morale, né, tanto meno, religioso. E un fattore d’organizzazione e di giu­ dizio (e ritroviamo il suo carattere pragmatico rispetto alla sua finalità) e non un elemento di direzione spirituale o inte­ riore. L’uomo non deve comportarsi secondo le norme giu­ ridiche nelle questioni che riguardano la salvezza. Il diritto è dunque necessariamente laico, perché esiste solo allo scopo di fornire una cornice aU’awenimento spirituale che si pro­ duce quando Dio parla, e non per tradurre questa parola e cristallizzarla in formule giuridiche. Soltanto questa laicità garantisce che il corpo sociale Organizzato dal diritto abbia una struttura aperta: un ambiente nel quale il giudizio può materialmente e spiritualmente esercitarsi. È questo tutto ciò che si può esigere dal diritto: non si può domandare né che abbia conoscenza della Parola, né che prepari condizioni fa­ vorevoli alla sua predicazione, ma solo che si orienti sempre nel senso del mantenimento di una società aperta: vale a dire, che ne renda possibile lo sviluppo ed il cambiamento. Un le­ gislatore che regoli con un codice ogni aspetto della società e dica: “Adesso il diritto si ferma”, come hanno fatto Giusti 114

IV. DIRITTO DIVINO E DIRITTI UMANI

niano e Napoleone, non è solo ingenuo, è l’opposto del vero legislatore. Parimenti un legislatore che dice: “Io creo un’età dell’oro, un mondo in cui l’uomo non ha più alcun bisogno ed alcuna esigenza”, è anche un mistificatore, fosse pur vero che la sua legislazione è perfetta: soprattutto se la sua legisla­ zione è davvero perfetta! Ve ■sV

È difficile immaginare il diritto senza pensare nello stesso tempo all’ordine, qualunque sia l’espressione verbale con cui lo si evoca: ordine pubblico, sicurezza, polizia. Tutti abbia­ mo, più o meno, la convinzione che diritto ed ordine siano concetti fra loro collegati, e ciò è parzialmente esatto. Par­ zialmente, perché con ciò noi intendiamo che sia il diritto a creare l’ordine. L’ordine esiste, secondo la concezione più elementare, quando la polizia blocca la strada ed impedisce le sommosse, quando l’edificio sociale non muta (per quanti l’ordine è sinonimo di conservazione!); secondo una menta­ lità più evoluta, quando il diritto arriva a formulare un certo equilibrio fra le esigenze, le passioni, le necessità dell’uomo, e la stabilità, la sicurezza, l’organizzazione della società, o an­ cora fra i mezzi di produzione ed i modi di distribuzione del­ la ricchezza. In qualche modo concepiamo dunque il diritto come creatore dell’ordine, e dotato di una certa forza per far rispettare quest’ordine che crea. Così, l’ordine realizzato dal diritto romano, o dalla codificazione, ispirata agli ideali bor­ ghesi, di Napoleone, non sono nient’altro che l’espressione di una certa supremazia che si manifesta in un sistema giuri­ dico, il quale edifica un ordine. Se l’ordine è soltanto questo, hanno ragione i marxisti. Nessun idealismo ci permette di af­ fermare che quest’ordine abbia un fondamento diverso dagli interessi della classe dominante, che si serve del diritto come strumento di fossilizzazione di una situazione sociale vantag­ giosa, che si chiama ordine. Da un punto di vista umano, la storia del diritto non può assolutamente spiegarsi ih altro modo. Perciò l’ordine, di per sé, non può essere un valore, 115

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così come il diritto non giustifica l’ordine, proprio perché il diritto è sempre un freno: noi consideriamo l’ordine, appun­ to, come statico, e non potremmo affermare, senza malafede, che quest’ordine è la verità. Come diceva Mounier, questo non è l’ordine, è “il disordine codificato”. In realtà, l’ordine non è una creazione del diritto: è vero l’inverso. L’ordine esiste e il diritto ne dà una formulazio­ ne. Ma qui dobbiamo guardarci da innumerevoli confusioni. Qual è l’ordine che ci è rivelato da Dio? Non ve n’è altro che quello fondato sulle istituzioni create da Dio. Non possiamo né cercare un ordine nella natura o nella ragione, né fare di quest’ordine la caratteristica stessa del diritto (abbiamo visto che il centro del diritto è la giustizia), né supplire alle lacune della Rivelazione mediante estrapolazioni razionali o costru­ zioni teologiche. Dio ha creato un ordine in cui l’uomo si tro­ va affinché la vita gli sia possibile. Le componenti di qust’ordine non sono giuridiche (pensiamo, per esempio, alle leggi fisiche), ma sono tutte della medesima natura davanti a Dio: elementi della creazione al servizio della creatura. Nell’ambi­ to giuridico esistono le istituzioni, di cui più sopra abbiamo indicato i caratteri e che sono create da Dio. Non v’è altro ordine che questo. In altre parole, non possiamo mettere sul­ lo stesso piano ciò che esiste e ciò che inventiamo noi. Fra le istituzioni create da Dio e le altre forme giuridiche (da noi chiamate, anch’esse, istituzioni) vi è la stessa differenza che intercorre fra le leggi e le ipotesi in campo scientifico. Ma quale caratteristica troveremo in quest’ordine? Anzi­ tutto, è frammentario: le istituzioni create da Dio e rivelate da lui come tali non bastano a formare un sistema giuridico. Vi è dunque un margine considerevole d’invenzione e di ap­ plicazione per il lavoro dell’uomo in quanto giurista. Queste istituzioni sono soltanto punti fissi, con riferimento ai quali bisogna elaborare l’ordine di una società. In secondo luogo, quest’ordine è “essenziale”. Dio non ci dà forme giuridiche che basti applicare ad una società, e nemmeno un modello al quale ci si debba avvicinare. Ci rivela elementi permanen­ ti di un ordine, inseriti nel suo proprio ordine (e non per il 116

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nostro), ossia, esattamente preordinati a quest’opera che Dio persegue: la salvezza dell’uomo. Beninteso, nella Scrittura ce li rivela sotto una certa for­ ma, si tratta di scorgere la realtà che è - lo abbiamo detto più sopra - cristocentrica, sotto questa forma. Ed è la realtà che conviene conservare come istituzione necessaria a qualunque ordine giuridico. Il diritto umano sarà un diritto soltanto se osserva quest’ordine. Il suo ruolo sarà allora su questo terre­ no di dare a queste istituzioni una forma adeguata ai tempi e di riempire il vuoto fra le istituzioni volute da Dio, vuoto che si manifesta in una società storicamente determinata. Per esempio che la proprietà sia lo schema stabilito da Dio dei rapporti fra l’uomo e le cose, che questa proprietà abbia un significato cristocentrico, che sia segno di una grazia e che mediante questa sia legata alla trasmissione per via ereditaria: ecco un’istituzione. Ma non ci è detto proprio nulla quanto alla forma di questa proprietà, se sia personale, familiare, col­ lettiva, od alle sue modalità, in una società determinata, ad esempio quanto alla sua rappresentanza in giudizio o il suo passaggio da una persona ad un’altra. Ma il fatto che la pro­ prietà sia un’istituzione creata da Dio implica che essa abbia dei limiti, nell’uso, nell’estensione, nella durata, nel diritto di escluderne i non-proprietari. In altre parole, la forma della proprietà sarà, perché l’ordine sia mantenuto, condizionata da due elementi: il fatto che è creazione di Dio, e l’esistenza di una data situazione politica, sociale, economica. Infine, queste istituzioni hanno valore di organi per il di­ ritto: il diritto non adempie la sua funzione se lascia queste istituzioni ai margini o se le riduce a nulla dando loro una forma inadeguata: e in questo momento il diritto crea real­ mente disordine, sempre per la medesima ragione: non ub­ bidisce più al suo scopo, sia che pretenda di essere lui il cre­ atore dell’ordine, sia che voglia rendere quest’ordine immo­ bile, sia che confonda la forma giuridica con l’ordine stesso. Senza queste istituzioni create da Dio, il diritto manca dei suoi organi principali, e non è più in grado di rispondere alle necessità sociali. 117

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Questa concezione dell’ordine vuol dunque dire che una certa stabilità nell’organizzazione del mondo è necessaria, sta­ bilità voluta da Dio nella creazione, ma pure che l’ordine non può mai essere statico, ma, al contrario, dev’essere in evoluzio­ ne continua per rispondere alle esigenze della creatura. Ciò appare più chiaramente ancora se concepiamo quest’ordine in rapporto alla sua fine: queste istituzioni sono infatti un elemento di durata che va dalla creazione alla parusia. La creazione è avvenuta secondo un ordine che è stato di­ strutto, come abbiamo detto, radicalmente, in modo tale che l’unica conclusione avrebbe dovuto essere la morte. Queste istituzioni facevano parte dell’ordine della creazione ed il loro carattere cristocentrico lo dimostra. Dio ha conservato ad Adamo la vita, e ciò che era necessario a questa vita, che non ha più un comune denominatore con quanto era la vita e l’ordine prima della caduta. Pure, la vita resta una compo­ nente della creazione ed ha un valore che ci viene ricordato continuamente. Le condizioni di questa vita hanno aneh 'esse questo valore. Le istituzioni che fanno parte di quest’ordine mantenuto da Dio per la vita esistono come un segno di que­ sta continuità e come esistevano al momento della creazione (ma noi non ne conosciamo la forma decisiva) così si ritrova­ no nella Gerusalemme celeste (ma noi non sappiamo come) almeno nella realtà, di cui sono per noi solo altrettanti indici. Se questo è esatto, si comprende dunque che l’ordine di cui sono gli elementi essenziali su questa terra è qualcosa che persiste e tuttavia si modifica senza sosta: persistenza perché esistono per manifestare questa permanenza; modificazione perché tendono verso la parusia, verso il momento in cui il ritorno del Cristo renderà necessaria la manifestazione del significato di cui la sua incarnazione e la sua morte hanno caricato queste istituzioni che, a causa di Lui, sono molto di più che semplici condizioni materiali di vita.8 8 Di conseguenza, quest’ordine è molto diverso da ciò che i giuristi inten­ dono quando parlano di sicurezza, e che alcuni considerano come un elemen­ to primordiale del diritto. Questi giuristi sono per la maggior parte convinti

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Ci resta però un ultimo problema: i diritti dell’uomo sono continuamente misconosciuti. Le istituzioni sono continuamente deformate e corrotte. Il diritto non è mai sufficien­ te da solo, e talvolta è proprio il diritto che rende stabile il disordine. Esiste dunque necessariamente un dibattito che investe i diritti dell’uomo e le istituzioni; un dibattito che si concluderà con un giudizio. Questo termine non dev’essere preso qui nel suo significato giudiziario. Non è di un giudi­ zio pronunziato da un tribunale che intendiamo parlare. E il giudizio che risulterà dal dibattito cui si riferisce il passo del­ la Lettera ai Romani (2:4) che abbiamo già incontrato. L’uo­ mo giudicherà circa la forma attuale che l’istituzione deve prendere, circa il riconoscimento o la negazione di un dato diritto dell’uomo, ma anche circa il rispetto che si deve avere per le forme presenti del diritto, e del buon diritto di una de­ terminata persona in una controversia. Questo giudizio sarà dunque in via principale sull’accertamento di un diritto ed anche sull’instaurazione od il ristabilimento dell’ordine. Non diciamo affatto che qui si abbia esercizio della giustizia in sé, bensì di quella forma pragmatica di giustizia che abbiamo incontrato. E questo giudizio appare come la messa in opera di ciò che Dio ha dato come elementi del diritto. E il lavoro particolare dell’uomo, che egli svolge, s’intende, senza sape­ re che si tratta di una funzione che Dio gli ha affidato, ma che non può fare a meno di svolgere perché vi è indotto dalla sua stessa esistenza. Questa messa in opera ha dunque il suo punto di partenza nel fatto che l’uomo non è isolato, perché Dio lo ha mante­ nuto in una certa rete di rapporti sociali. In questa attività, puramente utilitaristica, l’uomo ubbidisce a Dio esattamente come quando lavora. Deve lavorare per mangiare e deve ansostenitori della dottrina dell’onnipotenza dello Stato nel diritto. Essi consi­ derano perciò la sicurezza come una situazione realizzata dallo Stato: è l’ordi­ ne formale al quale noi contrapponiamo quello istituzionale.

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che esercitare questo giudizio che conduce all’elaborazione del diritto affinché le relazioni con gli altri uomini non siano improntate solo alla violenza. L’uomo esercita questo giudi­ zio partendo da una condizione in cui Dio lo ha posto: par­ tendo dal segno che Dio mette su Caino per proteggerlo con­ tro coloro che vorrebbero ucciderlo: Caino è protetto perché chi lo uccidesse sarebbe punito sette volte più di lui (Ge. 4:15). Allora Caino e gli altri uomini che vengono a contatto con Caino giudicheranno le loro relazioni partendo da que­ sta protezione accordata da Dio, che non è affatto un diritto, che non è nemmeno una immunità assoluta, la quale permet­ ta a Caino di fare tutto quello che vuole; ma che è uno dei dati di fatto delle relazioni fra gli uomini, perché implica un giudizio da parte loro. Accade esattamente lo stesso per l’al­ leanza con Noè: gli uomini sono protetti gli uni nei confron­ ti degli altri da questa clausola dell’alleanza, che chi versa il sangue di un uomo dovrà renderne conto. Questo supera di gran lunga la nozione di giustizia immanente che si estende­ rebbe al di fuori della volontà dell’uomo, od ancora la giusti­ ficazione della pena di morte, perché, evidentemente, dev’es­ sere compreso nella stessa prospettiva escatologica propria di tutti gli altri elementi del diritto. Ciò che vi troviamo è la necessità per l’uomo di esprimere un giudizio sulle situazioni concrete che scaturiscono dalle sue relazioni con gli altri uo­ mini, e di ristabilire un ordine quando quest’ordine è turbato da un uomo (fosse anche soltanto con la sua inerzia!). Questo giudizio presenta due aspetti: in primo luogo, im­ pegna l’uomo che lo esprime nel dibattito sul diritto, la so­ cietà e l’ordine. Non può essere in alcun modo un giudizio astratto ed impersonale. Chi lo esprime vi impegna sé stesso, cessa di essere indifferente alla situazione giuridica dell’uo­ mo, prende partito a favore o contro l’istituzione, a favore o contro il diritto dell’uomo, e in definitiva a favore o contro Dio. Beninteso, non potrebbe essere altro che il giudizio di un uomo peccatore, e di conseguenza quando coglie nel se­ gno questo non significa punto che l’uomo abbia conoscen­ za della giustizia di Dio, o che sia salvato, ma soltanto che 120

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quest’uomo partecipa all’opera di conservazione del mondo, e che fa con ciò tutto quello che un uomo peccatore è in gra­ do di fare. Qui non c’è alcun valore salvifico, tuttavia c’è pur sempre un qualche valore, come ci insegna ancora Ro. 2:14. Orbene, abbiamo visto più sopra che l’uomo non può fare a meno di esprimere questo giudizio. Dunque, in pratica, non vi è uomo che non prenda posizione a favore o contro Dio, perché non vi è uomo che non partecipi a questo giudizio sulle relazioni fra gli uomini e non vi s’impegni in un senso o nell’altro, con maggiore o minor energia. Così questo giudizio che elabora il diritto umano (esatta­ mente come il giudizio di Dio che è il punto di partenza della giustizia di Dio), giudizio al quale tutti partecipano perché si esprime in forme prodigiosamente diverse: consuetudini, sentenze pronunziate dai magistrati, azioni sindacali, rivolu­ zioni, stampa, elezioni ecc., mette in discussione assai più di questa o quella forma politica o giuridica, mette in questione l’atteggiamento che l’uomo assume di fronte all’ordine volu­ to dalla giustizia divina. Il secondo aspetto è che il giudizio dell’uomo è un vero giudizio soltanto se si riferisce a quest’ordine, se adempie a questa funzione di elaborazione del diritto. Ciò vuol dire che non può dipendere da un interesse personale, da un atteg­ giamento di favore verso qualcuno, da una passione. In tal caso il giudizio (che può essere espresso, è ovvio!) aumenta il disordine e distrugge il diritto. In questo momento, infatti, il giudizio nega qualche diritto dell’uomo o rende vana qual­ che istituzione. La risposta si trova nei testi sui doveri dei giudici, come i seguenti: “Non avrai riguardo alla persona del povero e non favorirai la persona del potente, ma giudi­ cherai il tuo prossimo secondo giustizia” (Le. 19: 15); “Non avrete riguardo all’apparenza delle persone nei vostri giudi­ zi” (De. 1:17). Assai degno di nota è che il secondo testo si rivolge esclu­ sivamente ai giudici, ma il primo a tutto il popolo. E ancora: “Non è bene avere riguardi personali per l’empio, per far torto al giusto nel giudizio” (Pr. 18: 5). Beninteso, questi te121

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sti, ed altri, vogliono dire prima di tutto che il giudice deve rendere giustizia secondo la legge, senza favoritismi. Ma non possono venir compresi isolatamente, e di conseguenza biso­ gna inquadrarli nel contesto generale dell’insegnamento bi­ blico sulla giustizia e il diritto. Vogliono dire allora che nel­ la situazione dell’uomo dal punto di vista giuridico si deve considerare non la sua forza o la sua debolezza in qualche attitudine individuale, ma il suo diritto. Il suo diritto che gli è attribuito da Dio, il quale fa sì che abbia ragione in una de­ terminata situazione concreta. Il suo diritto, che è il contra­ rio della sua apparenza. Ed a questa interpretazione siamo condotti da Gesù Cristo in persona, quando, riprendendo il passo di De. 1:17, che nella sua formulazione testuale si ri­ ferisce, abbiamo detto, al dovere giuridico dei magistrati, ne opera una trasposizione (Gv. 7:24) applicandolo a sé stesso: “Non giudicate secondo l’apparenza, ma secondo giustizia”. E queste parole fanno parte di tutta la serie dei testi relativi al diritto di Gesù Cristo, che si possono riassumere tutti nel suo insegnamento sul sabato: “Il sabato è stato fatto per l’uomo, e non l’uomo per il sabato; perciò il Figlio dell’Uomo è pa­ drone anche del sabato” (Mt. 2:27). Esiste quindi un ordine vero che l’uomo è chiamato a riconoscere nel suo giudizio al di là dell’ordine apparente, e soltanto quando lo riconosce il suo giudizio è fondato.9 Ora, questo giudizio ha la più grande importanza perché è da lui che dipende la forma attuale del diritto, ma, ancor più,

9 Non dobbiamo studiare qui i mezzi di cui l’uomo si servirà per formulare il suo giudizio pragmatico. Si tratta del compito specifico del giurista, e noi dobbiamo solo ricordare che questi mezzi sono alquanto diversi: uso della ra­ gione, deiresperienza, di osservazioni sociologiche o storiche, ma anche tec­ nica giuridica. Il vocabolario giuridico e le categorie giuridiche, in particolare, sono strumenti assai sicuri. Infine, bisogna comprendere in questi strumenti i principi formali di giustizia: quelli che caratterizzano la giustizia commuta­ tiva, la giustizia distributiva, il bene comune ecc. Ecco dunque il ruolo che questi principi hanno per noi: non forniscono il concetto assoluto di giustizia, sono soltanto strumenti, da utilizzare nel concreto per esprimere un giudizio che serva a formulare il diritto.

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perché è su di lui che si esercita, nell’ambito del diritto, la tensione escatologica. Questa tensione ci è manifestata nella Scrittura dalle parole: “Se qualcuno uccide con la spada, sarà ucciso con la spada”. Esse si trovano due volte, in Mt. 26: 52 ed in Ap. 13: 10 (il che è per noi garanzia del loro significato escatologico). E fra l’una e l’altra vi è una perfetta corrispon­ denza. La prima volta, Gesù Cristo rifiuta l’intervento del­ la spada che potrebbe salvarlo dall’arresto. Perché? “Come dunque si adempirebbero le Scritture, secondo le quali biso­ gna che così avvenga?”. Gesù Cristo si manifesta qui come colui che adempie la parola, perché le Scritture non sono per lui una Thorà morta, ma la volontà stessa di Dio. E abbiamo visto che la giustizia è per l’appunto il compimento di que­ sta volontà. Ciò che Gesù Cristo condanna qui è l’uso del­ la spada che ostacola la giustizia. Quando pronuncia queste parole, Gesù Cristo formula precisamente il tipo del giudizio giusto. Ed assolutamente giusto perché è di Gesù Cristo, ed il motivo per cui quest’uso della spada è condannato consiste dunque in ciò, che esso va contro questo giudizio assolutamente giusto. Quanto all’altro testo, esso si riferisce alla bestia dell’abis­ so, la potenza assolutamente ingiusta, che bestemmia Dio, che muove guerra ai santi, che ha autorità su questo mondo, che pretende l’adorazione che non le è dovuta: che commet­ te quindi l’ingiustizia in tutte le sue forme, e che si serve del­ la spada per questa ingiustizia. E la bestia non formula alcun giudizio, si limita ad esercitare il suo potere. Essa sostituisce la bestemmia al giudizio ed è la sua volontà arbitraria che decide quanto all’uso della spada. Il contrario del giudizio è infatti la sete di potere che rappresenta, in ambito politico e giuridico, la bestia dell’abisso. Soltanto, quest’uso della spada non è condannato in sé e per sé. Basta ricordare Ro. 13: 4: "... Perché il magistrato è un ministro di Dio per il tuo bene: ma se fai il male, temi, perché egli non porta la spada invano; infatti, è un ministro di Dio per infliggere una giusta punizione a chi fa il male”. Quest’uso è sottoposto a questa condanna eventuale: “...sarà 123

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ucciso con la spada”, minaccia di cui è detto che rivela la perseveranza e la fede dei santi (Ap. 13: 10), vale a dire che essa è indissolubilmente legata alla speranza certa in Gesù Cristo, nella parusia e nel ristabilimento di tutte le cose. Così sull’uso della spada è sospesa questa minacciosa valutazio­ ne negativa, che però diventerà realtà soltanto se la spada è lo strumento per raggiungere gli scopi che i nostri due te­ sti indicano: ostacolare la giustizia o dare sfogo alla volon­ tà di potenza. E questa prospettiva escatologica ci permette di dare al giudizio che l’uomo è chiamato ad esprimere nel campo del diritto tutto il suo valore: è a causa di questo giu­ dizio che l’uso della spada non sarà condannato. Qualunque uso diverso della spada va contro la volontà di conservazione del mondo, e perciò vi è solo la morte che possa sanzionare quest’uso. Ma è proprio questo che dà al diritto il suo peso ed il suo valore: l’uso della forza di per sé stesso è condan­ nato a morte, è il diritto che permette davanti a Dio l’uso di questa forza: e questo giudizio per trasformare così la forza non ha bisogno di essere giusto della giustizia di Dio. Sap­ piamo che cos’è questo giudizio, conosciamo il suo carattere relativo, contingente, pratico, e sappiamo che può essere er­ roneo; tuttavia è sufficiente perché è il contrario dell’arbitrio e della volontà di potenza, perché, sia pure ingiusto, sia pure erroneo, testimonia la volontà, da parte dell’uomo, di assog­ gettarsi ad una norma, di accettare dei limiti, di non consi­ derare sé stesso come l’inizio e la fine del diritto. E questo giudizio è allora valido perché con tutto il diritto è assunto da Dio alla fine dei tempi.10 10 Ciò che abbiamo chiamato la finalità del diritto è dunque radicalmente diverso da ciò che con questa espressione intendono i giuristi. Per loro, si tratta in realtà di sapere chi finirà per prevalere come scopo del diritto: se sarà l’in­ dividuo oppure la società. Nella disciplina del rapporto fra l’uno e l’altra sta *Tobbiettivo ultimo delle norme giuridiche “ (Roubjer, op. cit., p. 230; su questa nozione di finalità del diritto cfr. pp. 184-242). Questa dialettica fra elemento individuale ed elemento sociale sarebbe il nodo di tutti i problemi giuridici. In realtà si tratta di una constatazione di fatto relativa al diritto occidentale dopo il sec. XVIII. Non è affatto lo scopo ultimo delle norme di diritto. Accetteremmo

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4. Lo scopo del diritto. (2) - Il significato del diritto La finalità del diritto (lo scopo attribuito al diritto da Dio) non si esaurisce in ciò che abbiamo detto sull’espressione giuridica. Il diritto comporta ancora un significato: esiste per significare qualcosa. La fondazione del diritto, il fatto di esprimere un giudizio, sono prima di tutto avvertimenti che l’uomo riceve. E una domanda rivolta all’uomo. E la domanda stessa della giusti­ zia. L’uomo che prende sul serio il suo ruolo sul piano giuri­ dico non può evitare questa domanda, ed al tempo stesso non può rispondervi. Questo vuoto, che l’uomo non sa colmare, è già una testimonianza resa a Dio. L’uomo non può assolutamente accontentarsi di risposte umane, perché nel diritto vi è l’azione di Dio, che non può essere ridotta, e questo avverti­ mento vale per tutti i giudici dopo la venuta di Gesù Cristo: “Badate bene a quello che fate, poiché non è per gli uomini che voi amministrate la giustizia; è per l’Eterno, il quale sarà con voi quando giudicherete” (2 Cr. 19:6). Questo non vuol dire che sia Dio ad ispirare ogni giudizio. Al contrario, l’inte­ ra responsabilità ne è lasciata all’uomo: “badate bene...”. Ma questo vuol dire per prima cosa che Dio è presente al com­ pimento di ogni atto di giustizia, a tutto quanto concerne il diritto, e poi che ogni atto di giustizia non esaurisce il suo va­ lore ed i suoi effetti sul piano del diritto, ma ha una portata teologica. Questo pone il diritto in una luce ben diversa da quella abituale, perché adesso è orientato verso Dio. Il diritto è così destinato a ricordare senza sosta all’uomo la sua responsabilità davanti a Dio quando fa uso di questo stesso diritto. Responsabilità perché mette in funzione una

più volentieri l’idea del diritto transpersonale (Gukvitch, Le temps présent et l’idée du droit social), che assegna come scopo al diritto l’idea di una vita civile. Questo è infatti un concetto aperto che permette al tempo stesso di concepire l’evoluzione del diritto verso una finalità che non è inclusa nel diritto stesso né nel suo oggetto. Il passaggio ad un fine trascendente del diritto diventa allora possibile, benché non ravvisato dai sostenitori di questa teoria.

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potenza che appartiene a Dio (la giustizia), perché assume un ruolo che è di Dio (quello del giudice), perché compie un atto che è proprio di Dio (il giudizio), e tutto questo può farlo, in verità, solo grazie alla saggezza ed allo spirito di Dio (1 R. 3:28), facendo riferimento al diritto di Dio che è supe­ riore ad ogni altro diritto (De. 4:8) e che dev’essere ricono­ sciuto come tale dai popoli della terra (Ed. 7:25). Ma questa resta solo una domanda rivolta all’uomo. Questi non può far altro che riconoscerla, ed è solo la rivelazione di Gesù Cristo che dà una risposta mediante la luce del compimento della giustizia di Dio. Tuttavia questa missione del diritto è già di grande importanza, perché ci insegna che il diritto non può in alcun modo essere un sistema chiuso, che abbia in sé stes­ so il suo fondamento, i suoi principi e la sua finalità. Al con­ trario, il diritto dev’essere aperto quanto alle sue origini ed al suo scopo, compreso in questa parentesi, che fa di lui un testimone di Dio nella società degli uomini. V? * *

Ma bisogna andare oltre. Il diritto significa ancor più di questa presenza di Dio. Il diritto umano è anche una profe­ zia della giustizia di Dio (Is. 56:1). Per quanto possa essere imperfetto, il diritto esiste per ricordare tre verità essenziali sulla giustizia di Dio. La prima è che questa giustizia regna. Ogni giudizio giu­ sto che viene pronunziato è un segnale dato al mondo, che in esso interviene la giustizia assoluta, la giustizia di Dio. Esat­ tamente come ogni guarigione che si verifica segnala che il perdono interviene nella creazione. Beninteso, è un segnale solo per chi ha occhi per vedere e orecchi per ascoltare; non basta a convertire, né a far risplendere la potenza di Dio. Ma è la dimostrazione che quest’uomo, il quale di per sé è capace solo di corruzione e di peccato, non è abbandonato a sé stes­ so, che Dio lo guida e gli permette di vivere, che Gesù Cristo ha vinto realmente le potenze diaboliche perché la giustizia può talvolta esprimersi sulla terra già mediante il giudizio di 126

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un uomo. Così ogni legge giusta, ogni sentenza giusta è in realtà l’annuncio della vittoria di Gesù Cristo. Ma questa vit­ toria è ancora velata, manifestata solo timidamente e spora­ dicamente da fatti come il diritto; un giorno sarà splendente. E qui ancora il diritto è dato all’uomo come segno di que­ sta vittoria. Abbiamo visto il posto di rilievo che nel diritto occupa il giudizio. Sappiamo anche che quando la Scrittura parla del “giudizio ultimo” intende la fine, la consumazione di tutti i giudizi. Ma la via non è a senso unico. Non sono soltanto tutti i giu­ dizi degli uomini che si avviano verso questo giudizio di Dio. E anche il valore e la potenza di questo giudizio di Dio che si riflette nei giudizi degli uomini. In altre parole, ogni giudizio annuncia la venuta, la presenza di questo giudizio assoluto di Dio. Ogni sentenza, ogni scelta, ogni distinzione giuridica altro non è che il cartello indicatore di questo giudizio verso il quale tutta la creazione è spinta. E sta qui la grandezza del giudice uomo. Il magistrato, quando pronunzia il suo giudi­ zio, è profeta. Profetizza la presenza attuale della giustizia di Dio e la venuta del giudizio di Dio. Sta qui anche la sua responsabilità. Perché spesso è profeta come Caifa quando annunciava il senso della morte di Gesù Cristo. Infine la terza verità annunciata dal diritto, riguardo alla giustizia di Dio, è che questa giustizia è obbiettiva. I testi bi­ blici ricordano spesso, infatti, i doveri dei giudici. Ed abbia­ mo già incontrato alcuni di questi testi. Questi doveri sono molto semplici e non vanno oltre le regole della giustizia or­ dinaria. Solo, come abbiamo visto, si limitano tutti a consi­ derare il diritto dell’uomo; e, d’altra parte, non dobbiamo dimenticare che sono rivelati da Dio e si riferiscono a Gesù Cristo. In realtà, tutti questi testi ricordano l’obbiettività del giudice. Ora questa obbiettività, perché è ricordata da Dio, è molto più importante di quella che esigono i nostri codici: essa esiste in realtà per annunziarci in modo concreto l’obbiettività del giudizio di Dio. Ma come dev’essere intesa que­ sta obbiettività? Che Dio giudicherà senza partecipazione emotiva? No di certo! Ma che Dio, per giudicare l’uomo, 127

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non considera il bene o il male di quest’uomo, considera il suo diritto. Ma il diritto dell’uomo dov’è? L’uomo, di per sé, non ha diritto alcuno, il suo diritto lo riceve da colui che gli ha acquistato una giustizia e un diritto: lo riceve da Gesù Cristo. Il diritto dell’uomo davanti a Dio è Gesù Cristo che “è stato fatto per noi saggezza, giustizia, santificazione e re­ denzione” (1 Co. 1:30). L’obbiettività della giustizia di Dio consiste nel considerare Gesù Cristo in questo giudizio e non l’uomo. Ed ogni volta che un giudice si riferisce seriamente così al diritto dell’uomo, e giudica così obbiettivamente, è questa buona novella dell’obbiettività del giudizio di Dio che egli annuncia. ■fc -k ic

Ma i sacri testi ci conducono ancora a considerare un’al­ tra funzione del diritto. “Amministrate la giustizia fin dal mattino, e liberate l’oppresso dalle mani dell’oppressore” (Gr. 21: 12); “Rendete giustizia al debole e all’orfano, tute­ late il diritto dell’infelice e del povero” (SI. 82:3); “Rende­ te giustizia veramente e abbiate bontà e misericordia l’uno verso l’altro. Non opprimete la vedova e l’orfano, lo stra­ niero ed il povero, e nei vostri cuori non meditate il male l’uno contro l’altro” (Za. 7:9-10). Questi vari testi, ai quali potremmo aggiungerne molti altri, dimostrano che il dirit­ to degli uomini esiste come un’espressione della giustizia di Dio, e come questa è un riconoscimento del diritto del po­ vero. La giustizia è la liberazione del povero dall’oppressio­ ne, è la sua reintegrazione nella sua condizione umana. La giustizia, pur nella sua obbiettività, non potrebbe dunque essere un meccanismo rigoroso, una combinazione di nor­ me giuridiche, una tecnica più o meno raffinata a servizio dell’ordine e dell’uniformità; il diritto non può essere sepa­ rato dalla misericordia; è lui stesso una grazia di Dio ed è chiamato a manifestare questa grazia di Dio. Vi è una prote­ zione del debole ed una salvezza del miserabile che fa parte integrante del diritto, senza la quale il diritto non ha senso. 128

IV. DIRITTO DIVINO E DIRITTI UMANI

In esso si trova anche l’annuncio di questa salvezza in Gesù Cristo che è la vera giustizia. Ma in ambito giuridico questo legame, di cui la rivelazione ci mostra la necessità, fra la giustizia e la misericordia, ha un altro senso: è un’indicazione straordinariamente utile che ci è data per il giudizio che l’uomo è in ogni tempo chiamato a pronunciare in quest’ambito; abbiamo già visto che questo giudizio sta agli antipodi dell’“apparenza”. E qui troviamo il corollario di questa idea: questo giudizio dev’essere ispi­ rato dalla misericordia. Nell’elaborazione del diritto non ci si può limitare alla constatazione superficiale dei fatti, alla loro apparenza, e nemmeno alla combinazione di principi o di norme giuridiche. La proliferazione di norme che si fan­ no derivare da principi giuridici, o ancora l’applicazione co­ stante del diritto alle questioni accessorie, secondarie, della società, sono manifestazioni di falsi giudizi; ora, il falso giu­ dizio rende il diritto inefficace. E necessario che il giudizio sia ispirato alla misericordia. Questo non vuol dire affatto che si debba procedere disordinatamente lasciandosi trasci­ nare dai sentimenti, né che si debbano trascurare certi criteri concreti di giustizia, né ancora che si debba perdonare il col­ pevole: non è questa la missione del diritto. Ma ciò significa, prima di tutto, che bisogna veramente prendere gli uomini così come sono, e considerarli nella loro vera situazione: non dimenticare che sono miserabili, non erigere un sistema giu­ ridico che approfitta della debolezza dell’infelice, del debole, o che semplicemente lo ignora, negando praticamente la sua esistenza (come ha fatto il Codice napoleonico!). In secondo luogo, questo significa che bisogna individuare i veri proble­ mi di cui il diritto è chiamato ad occuparsi, in tutta la loro ampiezza e nella loro gravità: qui la misericordia è la ricerca di una soluzione vera, autentica, dei problemi posti in un de­ terminato momento storico dai rapporti umani. Il modello di un diritto falso è quello che ha regolato i rapporti fra datori di lavoro ed operai nell’Ottocento, e questo diritto falso por­ ta con sé per reazione un altro diritto falso: quello che si va elaborando attualmente per regolare questi stessi rapporti. 129

JACQUES ELLUL - IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO

Perché non si è voluto considerarli per quello che veramente sono. Così il diritto è chiamato da questa qualità del giudizio a prendere in esame sempre di nuovo le questioni decisive, e non i dettagli, e nelle questioni decisive il diritto dà una ri­ sposta che non elude il problema. E questa la manifestazio­ ne della misericordia nell’elaborazione del diritto. Abbiamo così uno degli elementi che possono dirigere l’uomo nella scelta e nel giudizio che compie. L’altro elemento è il concet­ to di efficacia o di utilità che studieremo più avanti. * Vf

Infine questa vocazione del diritto presuppone la sua uni­ versalità. Perché non si può dimenticare la domanda: “Que­ sto diritto come potrebbe essere quello degli uomini, consi­ derato che dipende così strettamente dal diritto divino, e che questo diritto divino è rivelato, dunque è conosciuto solo da coloro ai quali Dio stesso si è rivelato?”. In questa domanda vi sono in realtà due aspetti: il diritto degli uomini è un diritto applicato agli uomini e conosciuto da loro, come abbiamo cercato di dimostrare. Non può sor­ gere problema nella misura in cui questo diritto è in larga parte un’organizzazione dell’uomo stesso. Sappiamo come questo diritto riceva un valore ed un’autorità e pure che que­ sto diritto è valido davanti a Dio, che non è una semplice, trascurabile, invenzione umana: questo ci è detto con chia­ rezza da Ezechiele (5:6 ss.), dove Gerusalemme è condan­ nata: “Essa si è resa più colpevole delle nazioni e dei Paesi che la circondano, perché ha disprezzato le mie leggi, e non ha seguito le mie prescrizioni. Perciò così parla il Signore, l’Eterno: siccome siete stati più ribelli delle nazioni che vi circondano, siccome non avete seguito le mie prescrizioni né messo in pratica le mie leggi, e non avete agito secondo le leg­ gi delle nazioni che vi circondano... io sono irritato con te ed eseguirò in mezzo a te i miei giudizi...”. Così, Gerusalemme è condannata non solo per aver trascurato la legge di Dio, ma ancora per non essere stata capace nemmeno di attenersi alla 130

IV. DIRITTO DIVINO E DIRITTI UMANI

legge delle altre nazioni, che, per quanto inferiore a quella di Dio, è comunque una legge valida, alla quale Gerusalem­ me avrebbe dovuto sottomettersi. Questo punto è particolar­ mente degno di nota se ricordiamo tutti i testi in cui si ordina a Gerusalemme di non imitare le altre nazioni. Così il diritto dell’uomo è valido, ma questa profezia di Ezechiele ci inse­ gna pure che il diritto di Dio è universale: esso implica infatti che le nazioni sono in realtà sottomesse a questo diritto di­ vino. Ed ecco il secondo aspetto della questione. In realtà il diritto di Dio si applica a tutti i popoli perché è Dio che giu­ dica tutti i popoli.11 Il giudizio che rende valido il diritto de­ gli uomini, rende universale il diritto di Dio, perché è in virtù di questo diritto che il giudizio viene espresso; tutti i popoli sono giudicati già adesso, in virtù di questo diritto, perché il giudizio è già in atto. E ancora questo che ci dice Isaia quan­ do, parlando del giudizio pronunciato su Tiro (cap. 23) e su Babilonia (cap. 24), mette in evidenza che questo giudizio si manifesta attraverso un profondo disordine giuridico (che coinvolge ugualmente il padrone e il servitore, il venditore e il compratore, il mutuante e il mutuatario, il creditore e il debitore), il quale deriva da ciò, che questi popoli non hanno rispettato il diritto divino stesso: “Il Paese era profanato dai suoi abitanti, perché trasgredivano le leggi e violavano le pre­ scrizioni, infrangevano l’alleanza eterna” (v. 5). Ora, i termini del testo originale ebraico implicano che si tratta della legge di Dio. E, beninteso, si tratta di questo diritto divino nelle sue relazioni col diritto umano, ma rivelato in Gesù Cristo, come lo sarà in modo completo, senza più limitazioni, quan­ do Gesù Cristo ritornerà per giudicare le nazioni e far regna­ re la giustizia. Allora il diritto divino sarà riconosciuto come tale da tutte le nazioni, e cesserà l’elaborazione del diritto umano, perché questo sarà allora al tempo stesso giudicato ed assunto da Dio.

11 Visser’t Hooft, op. cit., p. 83.

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V Diritto, Stato, Chiesa

1. Il Diritto e lo Stato Arriviamo ad una domanda che non è meno antica di quella concernente il diritto naturale: il diritto è superiore allo Stato, oppure è lo Stato la fonte del diritto?.1 Discussio­ ne interminabile nella filosofia scolastica che si chiude con le distinzioni sottili di Suarez nel De legibus, disputa dei giuri­ sti sul Diritto romano, problema che ai giorni nostri sembra risolto di fatto per l’onnipotenza dello Stato che modella e rimodella il diritto come vuole e nel quale non esiste più al­ cuna nozione di giustizia.2 Ma quello che ci sembra più serio è che questo atteggiamento dello Stato pare quasi giustifica­ to da Karl Barth, se non in forma esplicita, per il fatto che lo Stato è da lui raffigurato come la misura stessa della giustizia e l’ordinatore del diritto. Ora, l’insegnamento biblico è fermissimo su questo punto: lo Stato è subordinato al diritto. Lo è sotto due aspetti: in pri­ mo luogo perché lo Stato non è il creatore del diritto. Questo esiste indipendentemente dallo Stato e nella relazione diretta

1 Roubier, op. cit., p.42-62. 2 Questo atteggiamento è interamente giustificato da Kelsen, AUgemeine Staatslehre: la coercizione che proviene dallo Stato, qualunque sia la sua ragione ed il suo scopo, è, per l’appunto, il diritto. Siamo agli antipodi della Rivelazione! Notiamo che questa è pure la concezione fascista: “Lo Stato, in quanto volontà etica universale, è il creatore del diritto” (Mussolini, Enciclo­ pedia italiana, art. Fascismo).

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JACQUES ELLUL - IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO

con la giustizia di Dio. Il diritto umano non è assolutamen­ te un prodotto razionale a misura d’uomo, che riceva la sua autorità dallo Stato. Ora bisognerebbe che il diritto fosse un prodotto puramente razionale perché lo Stato gli fosse supe­ riore. Ed è proprio questa, infatti, la concezione moderna: lo Stato, poiché ubbidisce alla ragione, può fare il diritto che vuole poiché anche questo dipende dalla ragione. Se il dirit­ to dipende da un’altra fonte, se ubbidisce ad un’altra rego­ la, allora lo Stato perde il suo potere su di lui. Il diritto non riceve nulla dallo Stato: riceve la sua autorità da Dio, come pure lo Stato, e non vi è alcun motivo di superiorità dell’uno sull’altro. Ma inoltre il diritto umano è segno di una giustizia di Dio, come lo Stato è segno (e non segno solamente) delle autorità spirituali. Anche qui vi è un certo parallelismo fra lo Stato e il diritto che sarebbe interessante approfondire, cosa che non possiamo fare adesso perché richiederebbe uno stu­ dio dettagliato sullo Stato. Dunque, in questo campo non vi è alcuna superiorità dello Stato. Ma la Scrittura ci insegna al contrario che è lo Stato ad es­ sere subordinato al diritto, o, più esattamente, che esso esiste in funzione del diritto: infatti, la Stato è creato per il diritto. Così Salomone è re perché governa secondo il diritto e la giu­ stizia (2 Cr. 9:8). Lo scopo che Dio persegue nel dare il pote­ re a Salomone è, in realtà, il regno del diritto e della giustizia. Lo Stato esiste dunque solo perché vi è un diritto. Perché vi è una giustizia di Dio, vi sono delle “autorità”; ed è precisamente quello che dice Paolo (Ro. 13:4): il magistrato, l’au­ torità, è al servizio di Dio per il bene. Perciò non è lo Stato che determina cos’è il bene o il diritto, è, al contrario, questo bene e questo diritto che determinano l’azione dello Stato. Ed è ciò che vogliono dire tutti i profeti quando accusano i re d’Israele o i capi delle nazioni di pervertire il diritto: essi sono condannati perché si sono posti al di sopra del diritto, perché hanno preteso sia di fare a meno del diritto, sia di giu­ dicarlo. Non è dunque lo Stato a stabilire che cosa sia bene: è il diritto. Indiscutibilmente il testo di Ro. 13:4, che parla del “bene”, intende con ciò un’obbedienza a un diritto giusto, e 134

V. DIRITTO, STATO, CHIESA

non un bene morale o spirituale: in realtà, è il bene che l’uo­ mo può fare se ubbidisce alla legge, e che non è da sottovalu­ tare perché partecipa alla conservazione del mondo. Ciò che lo conferma è proprio il seguito del testo, nel quale si parla appunto di ubbidienza, non solo per timore della punizio­ ne, ma anche per motivo di coscienza. Ma questa ubbidienza non è in primo luogo agli ordini dello Stato, è in primo luogo al diritto che è il criterio del bene nella vita civile. E ad ogni modo non è compito dello Stato punire il male morale, il peccato. Il male di cui si tratta è la disubbidienza alla legge. Così il diritto dà un senso, una ragion d’essere, uno scopo allo Stato. Questo non ne è il padrone, ne è il servitore. Ma come? Qual è esattamente il ruolo dello Stato? k k k

Incontriamo un primo ruolo che la Rivelazione non ci pre­ senta come necessario, ma che nella nostra epoca ha acqui­ stato un tale rilievo, da non poterlo passare sotto silenzio: lo Stato esprime il diritto. Ai nostri giorni ci si comporta come se lo Stato creasse il diritto. Ed anche se non si arriva a di­ chiararlo apertamente, in sede teorica, ciò trova riscontro nella situazione di fatto. Ma abbiamo visto che in realtà que­ sto ruolo non compete allo Stato. Esso può avere, ma non necessariamente, il compito di esprimere il diritto, vale a dire che, davanti a un diritto, le cui componenti già esistono, può essere chiamato a formularlo. Ed incontriamo due ipotesi. Nella prima, lo Stato ha, in fondo, solo una funzione di ac­ certamento: è quanto avviene, ad esempio, di fronte a un di­ ritto consuetudinario. La comunità ha le sue usanze, che ven­ gono osservate come diritto. Il popolo costruisce lentamente il suo corpo di regole e lo Stato si limita a constatare che que­ ste costumanze hanno davvero un rilievo giuridico, che que­ sto diritto è davvero un diritto. Non vi aggiunge gran che, a rigore potrebbe anche fare a meno di svolgere questa attività. E il caso della separazione più netta fra diritto e Stato. 135

JACQUES ELLUL - IL FONDAMENTO TEOLOGICO DEL DIRITTO

Nell’altra ipotesi, il ruolo dello Stato consiste nell’esprimere un giudizio. Vale a dire che il singolo, o la collettività, si dimostrano incapaci di manifestare da sé i giudizi necessari affinché la sistemazione del diritto abbia luogo. Perciò si ri­ mettono, in certo senso, a qualcun altro. Ed allora sarà nor­ malmente lo Stato a formulare i giudizi di cui abbiamo visto la funzione. Questi giudizi devono allora essere espressi nelle due forme possibili: decisioni giudiziarie che costituiscono il diritto partendo dai casi di specie - e allora lo Stato eserci­ ta la funzione giudiziaria (che non è necessariamente legata allo Stato) - e giudizi di portata generale che organizzano il diritto a sistema, partendo dal riconoscimento dei diritti dell’uomo e delle istituzioni: è questa la funzione legislativa che non può, assolutamente, essere creatrice del diritto, ma solo espressiva di questi giudizi.3 E dunque molto impor­ tante sottolineare che questo ruolo dello Stato, oggi ritenuto essenziale, costituisce in realtà una funzione contingente ri­ spetto ai concetti biblici del diritto e dell’autorità. Al contrario, gli altri due compiti dello Stato ci si presen­ tano come inevitabili, formano la vera relazione fra Stato e diritto: lo Stato sanziona e custodisce il diritto. Lo Stato sanziona il diritto: si tratta sempre di un potere esecutivo. Ha ricevuto la spada e sappiamo come se ne giu­ stifica l’uso da parte sua. Lo Stato ha dunque l’incarico di rendere il diritto efficace, di conferirgli la forza. Ora, il dirit­ to è assolutamente inconcepibile senza la sanzione. E proprio questo che distingue sostanzialmente il diritto dalla morale: il diritto è munito di una sanzione che gli viene da un’autori­ tà esteriore. Finché il diritto esiste solo allo stadio di norma tacita, o di imperativo morale, o di semplice rivendicazione

3 Questa concezione si avvicina a quella dei giuristi della Scuola detta del diritto libero, rappresentata principalmente da F. Gény (Méthodes d’interprétation et sources en droit positi’f) e poi da M. Gurvitch. Per questi giuristi, infatti, il diritto è il prodotto di forze sociali, ha la sua origine nelle consuetu­ dini e nelle contrattazioni dei privati. Solo quando è ormai formato, lo Stato è chiamato a dargli la sua “approvazione”.

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V. DIRITTO, STATO, CHIESA

di diritti individuali, non è ancora un diritto. Lo diventa solo dal momento in cui lo Stato gli conferisce una sanzione. E si sono visti anche interi sistemi giuridici costruiti unicamente sulla base di un certo tipo di sanzione (come il sistema pre­ torio nel diritto romano). Vi è dunque fra il diritto e lo Stato un doppio movimento: da una parte lo Stato non esiste che per il diritto, ma dall’altra il diritto non esiste che quando lo Stato gli dà la sua forza. Bisogna peraltro notare bene che questa sanzione non dev’essere confusa con l’autorità del diritto, come sovente accade, soprattutto ai giorni nostri. Non è perché lo Stato mette la spada al servizio di un diritto che questo avrà auto­ rità sugli uomini. Questa autorità gli viene dal fatto che esso dipende dal diritto divino. Ed è per questo che gli uomini lo accettano, appunto, come diritto. La spada punisce la viola­ zione di ciò che gli uomini avvertono quale diritto. La spada non può assolutamente costringere gli uomini a riconoscere come diritto ciò che essi non riconoscono come tale. Non può trasformare un diritto ingiusto in un diritto giusto, e non può far sì che quanto non è diritto lo diventi, che quanto è privo di autorità l’acquisti, nella coscienza degli uomini. Esi­ ste semplicemente per “punire chi fa il male” (Ro. 13:4). Infine, il suo ultimo ruolo, non meno necessario, è quello di essere custode del diritto.'1' Per prima cosa deve dare al suo popolo l’esempio del rispetto del diritto e della giustizia. Per­ ciò proprio l’ingiustizia commessa dallo Stato è la più grave di tutte, data la sua “autorità”. Bisogna ricordare a questo proposito gli interventi dei profeti di fronte ai re che violano il diritto (Nathan e Davide, Elia ed Achab, ecc.). Lo Stato ha una potenza tale che, laddove viola il diritto, si può dire che lo annulla: non vi è più alcun diritto quando lo Stato preten­ de di essere lui stesso l’unità di misura del diritto e confonde la sua volontà con la giustizia (Ez. 28:2, per esempio). Ma, in termini positivi, lo Stato è custode del diritto nella misura

4 S. De Diétrich, op. cit., p. 51.

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in cui lo deve conservare. Non solo con la spada e la sanzio­ ne, ma anche mantenendo la coesione della società. Lo Stato infatti è responsabile della vita della società umana, e deve adoperarsi per migliorarne, fin dove possibile, le condizioni: abbiamo visto l’importanza del diritto in questo campo, e la ritroveremo, di conseguenza lo Stato deve conservare al di­ ritto il suo vero carattere di diritto affinché questo assolva il suo vero compito. In particolare, lo Stato deve vegliare sulla necessità che il diritto si evolva, pur mantenendo i suoi ca­ ratteri fondamentali. Ed è perciò che chi è a capo dello Stato è provvisto di saggezza: la saggezza concessa a Salomone gli permette appunto di essere un vero custode del diritto. Jc * *

Questi sviluppi sullo Stato ci conducono a due questio­ ni nuove: l’efficacia del diritto (che è legata alla sanzione), e l’importanza del diritto nella nazione (che è legata alla custo­ dia del diritto). L’efficacia del diritto è un problema, anch’esso, molto at­ tuale! L’Ottocento si era avventurato a sostenere che il dirit­ to, per essere efficace, dev’essere realista. Attualmente con­ statiamo che nella nostra società il diritto è del tutto ineffi­ cace. E s’incontrano molto spesso idealisti che dicono: poco importa in fin dei conti che il diritto sia efficace, purché sia giusto. Orbene, dopo tutto quello che abbiamo detto fin qui, ri­ sulta evidente che il diritto dev’essere efficace. Ossia, deve far regnare sulla terra un certo ordine, deve far sì che tutti riconoscano determinati diritti dell’uomo, deve far rispettare una certa autorità. Se il diritto non risponde allo scopo cui Dio lo ha destinato, non è più un diritto. E non vi risponde se non è efficace. Quando vi sia divorzio fra il popolo, la na­ zione e il diritto, si può dire che quest’ultimo, davanti a Dio, non conta più, nemmeno se soddisfa tutte le condizioni di giustizia legale o filosofica, nemmeno se soddisfa tutte le esi­ genze dello Stato. L’efficacia del diritto è per Dio una delle 138

V. DIRITTO, STATO, CHIESA

ragioni che ne giustificano l’esistenza. Cosa penseremmo di un rimedio che rispondesse a tutte le esigenze delle teorie chimiche o biologiche, ma fosse inefficace? La situazione di un tale diritto è la stessa. Si può dire, dunque, che un diritto inefficace è certamente un diritto ingiusto (nel senso che ab­ biamo attribuito alla giustizia). Ma bisogna allora fare atten­ zione, perché il contrario non è esatto. Non si può dire: un diritto è giusto perché è efficace. Non vi è identità fra effica­ cia e giustizia. Un diritto efficace non è necessariamente giu­ sto. In particolare, esso può implicare il rischio di un potere eccessivo da parte dello Stato: questo può tentare di sostitui­ re all’autorità del diritto la sua propria autorità, e di mante­ nere in vita il diritto grazie alla sola sanzione. Per un certo tempo il diritto può continuare ad esistere così ed essere ri­ spettato per timore delle pene comminate, ma ciò non toglie che ci troveremo di fronte a un diritto ingiusto, malgrado la sua temporanea efficacia. E non si potrà dunque prendere, in alcun modo, la riuscita di un diritto, sul piano politico o sociale, come una prova della sua giustizia. Abbiamo perciò qui solo un criterio negativo, ma, nei suoi limiti, sicurissimo. Come spiegare questa importanza dell’efficacia? In realtà, un diritto può essere inefficace per due ragioni. In primo luogo, perché si limita ad essere l’espressione fossilizzata, unilaterale, di certe verità giuste. È il pericolo in agguato per ogni sistema fondato sul Diritto naturale. Si assumono come criteri ispiratori la ragione, la natura, o “i principi immutabili della giustizia”, ecc.: il risultato sarà un sistema giuridico che non tiene conto della situazione socia­ le, che tende ad imporsi ad essa dall’esterno e a regolarla sul­ la base di idee astratte. Questo diritto, avulso dai fatti, cessa alquanto rapidamente di imporsi. E abbiamo visto che que­ sto è proprio l’opposto del concetto di diritto, imperniato sulla giustizia di Dio, che abbiamo trovato nella Rivelazione. L’altra causa d’inefficacia è il contrario della precedente: si tiene conto solo della situazione economica o sociale. Si di­ chiara che il diritto non dev’essere nulla di più che l’espres­ sione di questa realtà, che si deve sviluppare con essa e se139

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guirla in ogni sua tendenza (si tratta, malgrado il realismo di questo atteggiamento, di un’altra manifestazione dell’idea del diritto naturale!). Da questo momento, il diritto cessa completamente di essere normativo. Si limita a ratificare gli sviluppi tecnici che si succedono via via, senza pretendere di dirigerli né di contrastarli quando sono ingiusti. Poiché ci si è accorti che il diritto non è in grado di nascondere com­ pletamente i fatti, si è concluso che, per essere efficace, deve seguire l’andamento di questi fatti. Ma questo è solo un altro genere d’inefficacia, perché a che cosa serve un diritto che si limiti a rispecchiare una situazione sociale, senza orientarla? Avremo allora un insieme di leggi incoerenti, estremamen­ te variabili e che lasciano indifferente la società. Questo di­ ritto sarà indotto a trascurare gli elementi costitutivi del di­ ritto che abbiamo posto in evidenza: le istituzioni e i diritti dell’uomo, e l’attività giudiziaria si eserciterà a vuoto perché non avrà più alcun punto di riferimento. Da allora cesserà anch’esso di essere un diritto. Questa sommaria analisi ci mostra come l’efficacia può es­ sere un criterio giuridico, senza però essere l’unico. E questo ci aiuta a comprendere l’errore dei realisti: quando dicono che è importante che il diritto sia efficace, intendono con ciò che qualunque politica è buona, tutti i mezzi sono buoni per rendere il diritto efficace. Ma questo non è esatto. Non tutti i mezzi sono buoni. Poiché il diritto umano dipende strettamente dal diritto divino, dato che letteralmente non esiste al di fuori della giustizia di Dio, può essere efficace soltanto se le relazioni normali fra questo diritto divino e questo diritto umano sono conservate, se la concezione del diritto umano è tale che queste relazioni esistano. Così un diritto ingiusto davanti a Dio sarà un diritto senza autorità. Un diritto che trascura i diritti dell’uomo sarà un diritto inutilizzabile, un diritto che trascura le istituzioni create sarà un diritto incoe­ rente. Senza dubbio il potere politico potrà mantenerlo in vigore per qualche tempo ricorrendo alla costrizione, ma, in definitiva, questo diritto si dimostrerà inefficace e sarà so­ stituito, se questo potere politico dura, dal puro e semplice 140

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arbitrio dello Stato. Così il diritto inefficace nelle condizioni che abbiamo appena visto conduce sia all’anarchia, quando lo stesso potere politico s’indebolisce, sia, nel caso opposto, all’arbitrio che si sostituisce alla giustizia. * * ic

Il diritto è una garanzia di vita per la nazione. Non può esistere nazione senza diritto poiché, secondo quanto Dio ci rivela del mondo delle nazioni, questo si conserva solo grazie al diritto. “La giustizia innalza una nazione, ma il peccato è la vergogna dei popoli” (Pr. 14:34), ed è specialmente allo Stato che è affidato il compito di far vivere la nazione grazie alla giustizia: “Un re rende stabile il Paese mediante la giustizia” (Pr. 29:4). Ed insieme al Paese, lo Stato rende stabile il suo potere con il diritto: “E con la giustizia che il trono è reso sta­ bile” (Pr. 16:12). Ora, questa giustizia la esercita precisamen­ te attraverso il giudizio. Ritroviamo dunque il ruolo partico­ lare dello Stato che è sottolineato energicamente con queste parole: “Togliete l’empio dalla presenza del re, perché il suo trono è reso stabile dalla giustizia” (Pr. 25:5). I due elementi sono collegati fra loro, il giudizio che lo Stato deve formula­ re contro l’empio, ed il consolidamento del trono grazie alla giustizia manifestata attraverso un tale giudizio. Così lo Stato, nel suo ruolo di custode del diritto, è re­ sponsabile della conservazione della nazione, perché solo grazie al diritto la nazione può vivere. Ma se lo Stato distor­ ce il diritto, allora la nazione è condannata a morte: tocca allo Stato insegnare la giustizia al popolo. “Ascoltate, capi di Giacobbe, principi della casa d’Israele. Non spetta forse a voi conoscere la giustizia?” (Mi. 3:1). E la loro responsabili­ tà è così grande che quando fanno il male trascinano con sé tutto il popolo. Vi è solidarietà fra i capi, lo Stato ed il popo­ lo. “Perciò, per causa vostra, Sion sarà arata come un campo, Gerusalemme diventerà un mucchio di pietre” (Mi. 3:12). Ed uno dei fattori di questa solidarietà, che non possiamo analizzare completamente, è proprio il problema del diritto: 141

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perché la nazione può vivere solo grazie al diritto, e perché lo Stato è il custode del diritto, quando lo Stato corrompe il diritto la nazione è trascinata nell’ingiustizia e allora è con­ dannata a morte: è qui tutto il senso della profezia di Michea, contenuta nei due testi citati poc’anzi: “Ascoltate, principi della casa d’Israele, voi che avete orrore della giustizia e per­ vertite il diritto, voi che costruite Sion con il sangue e Ge­ rusalemme con l’iniquità. I suoi capi giudicano per ottenere regali... ed osano appoggiarsi all’Eterno, e dicono: l’Eterno non è forse in mezzo a noi?” (Mi. 3:9-11). Ed il capitolo primo di Abacuc corrisponde esattamente a Michea: anche lui annuncia la distruzione del Paese a causa dell’ingiustizia che vi regna: “La legge non ha vita, la giustizia non ha forza, perché il malvagio trionfa sul giusto, e vengono resi giudizi iniqui” (Ac. 1:4). Tutto il messaggio dei profeti è unanime e coerente a proposito di questa unione fra la vita delle nazioni e l’esistenza del diritto, o la pratica della giusti­ zia. Beninteso, dobbiamo tener presente che non può trattar­ si di una relazione formale, o di natura solo politica. Vale a dire che qui non abbiamo (come siamo sempre tentati di rav­ visarvi) una constatazione di fatto: un diritto ben modellato è la condizione di una vita prospera per una nazione, e, in definitiva, la violenza non paga. Abbiamo qui tutto il contra­ rio di una massima di saggezza popolare, abbiamo una verità normativa che esprime la volontà di Dio. La nazione senza diritto non cade da sé, cade perché Dio la condanna. Se Dio non è giudice delle nazioni, allora la violenza ed il realismo sono le politiche migliori, perché il diritto divino non esiste, e di conseguenza il diritto umano non ha più ragion d’essere. Poiché, e qui sta il corollario del carattere normativo di queste profezie, quando la nazione è condannata a morte per la sua mancanza di diritto, ciò non significa che il diritto ab­ bia un valore di per sé, che sia di per sé elemento di vita, ma è perché esso costituisce un’espressione del diritto di­ vino, e perché il popolo che non ha un diritto umano, viola per ciò stesso la giustizia divina, perché il popolo, che non ha una giustizia umana, manifesta per ciò stesso di avere in142

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franto l’alleanza con Dio. Abbiamo già citato il testo di Isaia: “Essi trasgredivano le leggi... infrangevano il patto eterno” (Is. 24:5). Così dobbiamo comprendere in particolare i testi del Libro dei Proverbi citati più sopra nel loro senso ovvio, ma anche reinserirli nel loro contesto biblico, senza vedervi, perciò, l’espressione di un naturalismo politico ovvero, il che è lo stesso, senza privarli del loro significato cristologico.

2. Il ruolo della Chiesa nell’ambito del Diritto In queste poche righe non ci occuperemo di questioni di diritto ecclesiastico o canonico, ma solo della missione della Chiesa nel mondo, su questo terreno del diritto, in quanto la Chiesa si trova in una nazione e di fronte ad uno Stato di cui è in gran parte responsabile davanti a Dio. Il primo fatto relativo alla Chiesa è che essa può presentarsi, nello Stato, come titolare di diritti. E un corpo che ha diritti propri, e che è legittimata ad ottenerne il riconoscimento da parte del potere politico. Il rapporto visibile che esiste fra la Chiesa e lo Stato è prima di tutto un rapporto giuridico. E pertanto è giusto, considerato il ruolo dello Stato nel diritto così come lo abbiamo definito, che sia lo Stato ad esprimere questo rap­ porto giuridico, ma che lo esprima tenendo conto dei diritti della Chiesa, diritti che sono determinati come tutti gli altri dall’origine della Chiesa e dal suo scopo. Così la Chiesa deve per prima cosa essere riconosciuta come soggetto di diritto. Non può accontentarsi di essere ignorata dallo Stato: lo statuto giuridico della Chiesa fa par­ te del diritto stabilito dallo Stato (e vedremo che ne è una chiave di volta), come il riconoscimento dei diritti di qualun­ que altro soggetto di diritti.5 Non cercheremo di elencare i diritti della Chiesa. Ma uno di essi ci interessa direttamente:

5 Scholten, Das Rechi und der christliche Glaube.

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la Chiesa è fondata dalla Parola e per la Parola. Questo è in relazione diretta con il ruolo “giuridico” della Chiesa. Deve dunque avere un diritto fondamentale: la libertà di annun­ ciare la Parola di Dio. E inviata da Dio prima di tutto per questo. E lo Stato diventa ingiusto dal momento in cui le to­ glie la possibilità di annunciare il Vangelo. Ciò è stato detto molto spesso. Ma annunciare il Vangelo non è solo annuncia­ re la buona novella del perdono dei peccati. E anche annun­ ciare tutte le conseguenze concrete di questa buona novella. E anche annunciare il fatto che Gesù Cristo è Signore della creazione, con le implicazioni che ciò comporta. Così non è vero che la predicazione e la fede siano “affari privati”. La predicazione e la fede sono e devono essere un’azione che impegna la vita tutta intera. E quando la Chiesa assume una posizione politica, od esprime un giudizio concernente il di­ ritto, non fa altro che predicare il Vangelo, se la sua posizio­ ne politica non è espressione di un interesse particolare o di un moralismo. Tutta l’azione della Chiesa nel campo del diritto dipende da questa libertà di parola che può esigere. Ed il suo ruolo, qui, è prima di tutto quello di dimostrare che esiste un’altra giustizia, diversa da quella giuridica. “La Chiesa è chiamata allo stesso tempo ad annunciare ed a manifestare questa giu­ stizia (la giustizia di Cristo che opera in noi). A) Ad annunciarla, perché sa, che mediante la sua eleva­ zione alla destra di Dio Padre, il Cristo risorto è stato stabi­ lito Signore della creazione intera e che ritornerà per giudi­ care la terra; questo significa che, sin d’ora, è giudice non solo della Chiesa che lo riconosce, ma anche del mondo che lo ignora. B) A manifestarla, perché, in quanto corpo di Cristo, so­ cietà dei credenti, la Chiesa deve lasciarsi governare da quel­ la giustizia, e non dalle norme del mondo. Da queste due constatazioni mi sembrano derivare conseguenze precise. 1°) La Chiesa non può riconoscere un diritto autonomo che non abbia in Dio il suo fondamento ed il suo scopo... Deve dunque predicare la giustizia di Dio e ricordare ai legislatori 144

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come ai magistrati, ai magistrati come a tutti coloro che ri­ coprono cariche nello Stato, che Egli è un sovrano Signore, davanti al quale dovranno rendere conto del modo in cui avranno promulgato, applicato, fatto regnare il suo diritto. 2°) La Chiesa sa che solo la giustizia divina rivelata in Gesù Cristo è efficace ed operante, perché lei sola rende giusti: tut­ to ciò che la giustizia umana può fare, è limitare il male che gli uomini si fanno a vicenda, ricorrendo a misure coercitive. Ma questa giustizia umana riflette, o almeno può riflettere, qualcosa della giustizia divina... La Chiesa deve dunque il­ luminare coloro che sono incaricati di stabilire e di applica­ re il diritto su ciò che Dio le rivela nella sua parola quanto alla missione dell’uomo sulla terra, ai rapporti che, nella sua Provvidenza, egli ha voluto fra gli uomini, all’ordine sociale ecc. 3°) La Chiesa deve infine e soprattutto manifestare nel suo seno, in quanto essa stessa è un corpo organizzato di cui Gesù Cristo è il capo, un diritto conforme alla volontà di Dio, così come ci è rivelata in Cristo...”6. Questa lunga citazione di De Diétrich indica chiaramen­ te il ruolo della Chiesa come testimone della giustizia di Dio di fronte allo Stato: lei, e lei sola, sa qual è il vero valore del diritto umano, quale ne è il fondamento e lo scopo, qual è il suo rapporto con la giustizia di Dio, e lo deve insegnare agli uomini investiti di responsabilità nello Stato ed alle nazio­ ni. Però deve insegnarlo non come una legge, come un’etica indipendente, ma precisamente come una predicazione del Vangelo, perché Cristo è re. Non può separare la predica­ zione della croce e la profezia della parusia, e, di conseguen­ za, non può impartire un insegnamento sul diritto senza che questo sia incluso nella testimonianza (con la parola e con la vita) della giustizia di Dio realizzata in Gesù Cristo. k k k

6 S. De Diétrich, op. cit., pp. 46 ss.

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La Chiesa ha dunque un ruolo suo proprio verso il diritto della città umana, che nessun altro può adempiere, perché lei sola può dare al diritto il suo significato ed il suo fondamen­ to. Una volta di più vediamo come sia indissolubile l’unione fra l’uomo e la rivelazione, il mondo e la Chiesa. Non vi sono due settori, due sfere separate: non vi è che un solo ambiente di vita per l’uomo, costituito da questa unione inseparabile della Chiesa e del mondo. Ma il ruolo profetico della Chiesa nel settore del diritto non si esaurisce in questo. La Chiesa è normalmente all’avanguardia, avverte il popolo, è la sen­ tinella: Ez. 33. (Che ironia se consideriamo cos’è la nostra Chiesa!). E ciò ha conseguenze assai concrete nel mondo del diritto. Abbiamo visto l’importanza del diritto di ogni uomo come elemento costitutivo dell’ordinamento giuridico. Ab­ biamo visto che questo diritto si esprime anzitutto attraver­ so una rivendicazione. Ma qui interviene un’azione decisiva della Chiesa. Noi siamo troppo abituati ad una Chiesa che “fa” la carità, e non abbastanza ad una Chiesa che è carità. Siamo troppo abituati ad una Chiesa che parla ma non testi­ monia (testimone significa martire!), ad una Chiesa che cer­ ca il proprio benessere invece di “completare nel suo corpo le sofferenze di Cristo” (la Chiesa, corpo di Cristo, soffre le stesse sofferenze di Cristo per gli uomini: Cl. 1:24), ad una Chiesa che non condivide più la situazione degli altri (soffri­ re insieme...), ad una Chiesa, in definitiva, che non è capace di farsi carico della condizione degli uomini. Ora, proprio nel diritto, la Chiesa tradisce quando lascia l’uomo solo davanti al compito di riconoscere i suoi diritti ed al peso di reclamarne il riconoscimento. L’uomo può sba­ gliarsi su ciò che desidera. Può non riconoscere i suoi veri diritti. Non è infallibile né quando segue la sua ragione, né quando segue il suo interesse. Ma abbiamo visto il rapporto che intercorre fra il diritto dell’uomo e la sua miseria. E pro­ prio perché la Chiesa esiste per rendere testimonianza della carità di Gesù Cristo verso tutti gli uomini, perché esiste per soffrire con e per gli uomini, deve necessariamente conosce­ re i veri diritti di quest’uomo. Su di essi non si sbaglierà, in 146

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quanto a lei sola è stata rivelata la vera natura dell’uomo, la sua vera condizione davanti a Dio e la sua vera miseria. Così la Chiesa, nel corso della storia del mondo, in ogni situazione concreta, deve dire (e questo fa parte della sua predicazio­ ne): ecco il diritto dell’uomo, hic et nunct, ecco che cosa può esigere, ecco da che cosa bisogna proteggerlo. E nel far ciò si rivolge alla società ed allo Stato. Essa presenta dunque le istanze degli uomini. E, di regola, non dovrebbe lasciare alla rivolta la cura di affermare questo diritto, dovrebbe lei stessa esigerne il rispetto prima che l’uomo arrivi alla disperazione. La Chiesa ha saputo farlo, nel corso della storia. Ma da tre secoli tace. Se svolge questo ruolo, appare come ispiratrice del diritto e come fattore di evoluzione continua. Se non lo svolge, nessun altro può compiere questa missione, e il dirit­ to è allora votato a tutte le rivoluzioni, a tutte le incoerenze, secondo gli influssi del momento. Ma per agire così, la Chie­ sa è obbligata senza sosta a valutare l’organizzazione giuridi­ ca di una società. La sua affermazione del diritto dell’uomo implica un giudizio sul sistema in cui questo diritto soggetti­ vo si deve esercitare. Di fronte al sistema del diritto oggetti­ vo, la Chiesa è chiamata ad esaminare e a criticare, secondo i criteri di cui lei sola è depositaria, il fondamento e la finalità del diritto. Per essere precisi, deve anzitutto affermare i limiti del di­ ritto. E notiamo una volta di più che non si tratta per nulla di stabilire questi limiti in abstracto e per l’eternità. E nel con­ creto che la Chiesa trova l’applicazione della sua fede. Que­ sta applicazione non è mai un sistema teorico, ma sempre un “esame” (lTe. 5:21: esaminate ogni cosa e ritenete il bene). È dunque con riferimento a un diritto obbiettivo determinato che la Chiesa affermerà che non può oltrepassare un certo li­ mite. La Chiesa deve poi giudicare il sistema giuridico: e que­ sto farà evidentemente in base al maggiore o minor rispet­ to che questo sistema dimostra verso i diritti dell’uomo e le istituzioni create da Dio; e ben s’intende che la Chiesa deve ricordare al giurista la necessità degli uni e delle altre, il loro valore ed il loro significato per il diritto. 147

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La Chiesa deve infine, se necessario, correggere il diritto, e forse entrare in conflitto aperto con lui. Sia fondando la sua propria giustizia ed il suo proprio diritto che si oppongono al sistema decadente o aberrante (come nel sec. IV della nostra era), sia schierandosi dalla parte delle forze di rinnovamento del diritto, che possono manifestarsi in giudizi eventualmen­ te giusti del popolo. La Chiesa, poiché vive ogni giorno della giustizia di Dio e lo sa, si trova così pienamente immersa nel dibattito giuri­ dico, che comprende il conflitto sociale e le lotte politiche. Infine la Chiesa ha un ultimo compito: deve, per quanto attiene al diritto, insegnare che “è dunque necessario essere sottomessi non solo per timore della punizione ma anche per motivo di coscienza” (Ro. 13:5). In altre parole, la Chiesa ha una missione d’insegnamento nei confronti dei cristiani. Tut­ to ciò che abbiamo detto fin qui della Chiesa va infatti rife­ rito ai cristiani che, riuniti, formano la Chiesa. È dunque in primo luogo la comunità dei cristiani che si deve pronuncia­ re e deve prendere posizione seguendo la direttiva tracciata più sopra, e non qualche organismo amministrativo che teo­ ricamente rappresenti la Chiesa. Solo per questo i cristiani devono essere istruiti all’interno della Chiesa stessa. E come è necessario insegnare loro che cos’è lo Stato e perché gli devono ubbidire, così è necessario insegnare loro il fonda­ mento e lo scopo del diritto, formare in loro una coscienza giuridica. Solo quando i cristiani conosceranno veramente il loro ruolo e la loro responsabilità nella società verso il dirit­ to, quando avranno preso coscienza della potenza che è loro infusa mediante lo Spirito Santo, la Chiesa stessa potrà par­ lare ed agire come le è richiesto. Bisogna che ogni cristiano arrivi a comprendere perché deve ubbidire e perché deve disubbidire. Quando deve esigere e quando deve rinuncia­ re, cosa può rivendicare e cosa deve tralasciare. E quando la Chiesa accetta di essere fedele, Dio se ne serve per il mondo. •k k k

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Ma da quanto abbiamo appena detto, bisogna trarre una conseguenza importante. Quando la Chiesa svolge il suo ruolo in modo completo, in quest’ambito, e quando lo Stato riconosce alla Chiesa il diritto di svolgere questo ruolo, al­ lora vediamo che il diritto non è più monopolio dello Stato. Lo Stato non può più pretendere in alcun modo di essere la fonte del diritto, superiore alla legge, arbitro della giustizia. Lo Stato è realmente servitore. Non servitore della Chiesa (questo è stato l’errore del Papato nel Medioevo), ma ser­ vitore di Dio per il diritto. Poiché, in quest’ambito, lo Stato non è più solo a decidere, ma ha di fronte a sé una Chiesa che annuncia la rivelazione di Dio, il diritto è davvero indipendente sia dallo Stato, sia dalla Chiesa, sia, in definitiva, dall’uomo. Non è più la risultante diretta o indiretta di qual­ che attività umana: è proprio questo potere autonomo, come Dio lo vuole; abbiamo già incontrato la stessa idea quando abbiamo detto che è un potere parallelo allo Stato, e adesso comprendiamo la sua realtà grazie alla Chiesa. Ma questo concetto di diritto in quanto potere autonomo permette di cogliere l’errore nel quale cadono tutti i sostenitori del dirit­ to naturale: “Siccome è autonomo, dunque è naturale”. Per evitare questa confusione basta precisare rispetto a che cosa è autonomo: rispetto ad ogni forza umana (e dunque anche della natura) per dipendere solo dalla giustizia di Dio. E la reazione “naturale” del diritto si spiega: quando cessa di es­ sere autonomo rispetto ad una potenza umana, si corrompe ben presto e cessa di essere un diritto.

Conclusione Non trarremo alcuna conclusione, perché tutto ciò che ab­ biamo scritto sin qui è solo un’introduzione. Infatti, il pro­ gramma che ci eravamo tracciato implicava solo uno studio teologico, che si spingesse fino ai limiti del concreto, e a tal punto rimanesse aperto. Non abbiamo dunque potuto rica149

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varne le conseguenze giuridiche dirette, né sul terreno dei principi giuridici, né su quello del diritto positivo moderno. Non volevamo, in alcun modo, presentare un sistema giuri­ dico che sarebbe stato solo ideologico. Partendo dai dati teo­ logici il lavoro efficace si può fare solo scendendo nei detta­ gli; si tratta di una presa di coscienza, di un inventario, di una critica di problemi specifici e di leggi esistenti. Ma, prima di dedicarsi a questo lavoro, vi è un altro stu­ dio teologico preliminare che dev’essere il seguito di questo: è il problema del contenuto del diritto divino, vale a dire la ricerca teologica dei diritti che Dio riconosce alla persona umana affinché questa compia la missione cui Dio la chiama, e delle istituzioni che Dio ha creato per l’uomo. Ma questa ri­ cerca non potrebbe essere puramente teologica perché deve partire dalla Rivelazione, scritta nel corso del tempo e rice­ vuta, compresa oggi da uomini che vivono anch’essi nel tem­ po. Dunque, non possiamo mai arrivare a cogliere l’essenza dei diritti riconosciuti all’uomo, né l’essenza delle istituzioni. Non possiamo mai comprenderle fino in fondo. Possiamo soltanto coglierne una forma nella Rivelazione ed esprimerne una forma nel nostro tempo. Qui dunque il lavoro teologico non potrebbe essere separato dai problemi giuridici attuali. Così siamo rimasti al limite dell’utile, cercando solo di of­ frire un punto di partenza e di abbozzare un metodo. k -k -k

“Così parla l’Eterno: osservate ciò che è di diritto umano e adempite ciò che è di diritto divino, perché la mia salvez­ za non tarderà a venire e la mia giustizia a manifestarsi “ (Is. 56: 1). Questo testo di Isaia riassume in fondo tutto ciò che abbiamo detto. E per tutti un avvertimento. Perché la salvez­ za è annunciata, perché Gesù Cristo è venuto, è necessario edificare un sistema giuridico ed ubbidirgli. Perché Gesù ha compiuto tutto, l’uomo è chiamato a vivere nella giustizia. Ma poiché Dio lascia ancora all’uomo un tempo per vive­ re, perché tutto ciò che è detto è detto al futuro (un futuro 150

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- ricordiamolo - qual è quello della lingua ebraica, il quale presuppone che l’azione sia già cominciata), l’uomo deve ap­ profittare di questo tempo della pazienza sia per organizza­ re la propria vita sia per riconoscere la salvezza (ciò che gli è possibile grazie alla morte, resurrezione ed ascensione di Gesù Cristo). Ed infine perché Dio dice: “Non tarderò...”, dobbiamo sapere che siamo negli “ultimi tempi”, che abbia­ mo compiti urgenti da eseguire, che l’elaborazione del diritto è un compito urgente, e questa elaborazione si trova in rap­ porto diretto con questa fine di tempi. E a motivo della giu­ stizia di Dio, la quale verrà presto, che dobbiamo costruire, già oggi, il nostro diritto. Shemà, Israel! Chiesa, ascolta!

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“La verità vi farà liberi ”: fede evangelica etica pubblica e speranza escatologica nel pensiero di Jacques Ellul di Italo Pons e Eugenio Stretti

L’opera del giurista, storico delle istituzioni, teologo e so­ ciologo Jacques Ellul1 è segnata profondamente dalla fede evangelica riformata.2 Convertito all’Evangelo da Gesù Cri-

1 Jacques Ellul (da ora in poi E.) nacque a Bordeaux nel 1912. Nel 1936 ottenne il dottorato di diritto. Dal 1937-38 ebbe un incarico universitario a Montpellier, poi a Strasburgo e Clermont-Ferrand (1938-49). Dal 1940 fu ag­ gregato alla Facoltà di Bordeaux dove insegnò Diritto romano e Storia del diritto fino al suo pensionamento nel 1980. Fu eletto consigliere municipale a Bordeaux, (1944-46), esperienza dalla quale si allontanò molto presto; di­ venne membro del Sinodo nazionale della Chiesa riformata di Francia (1947) e successivamente del Consiglio nazionale dove rimase fino al 1970. Fu fon­ datore e presidente del Club di prevenzione al disadattamento dei giovani di Pessac in Gironda (1958-77). Direttore della rivista MFoi e Vie” (1969-86). Dottore h.c. delle Università di Amsterdam (1970) e Aberdeen (1980). Morì a Pessac il 19 maggio 1994. Questo contributo non prende in esame, se non per un breve cenno, gli aspetti sociologici della sua vasta produzione che lo hanno reso famoso e studiato, in modo particolare negli Stati uniti, per i suoi lavori sulla tecnica. 2 E. ha sempre mantenuto un certo pudore sul modo con il quale, in ma­ niera abbastanza brutale, avvertì la presenza di Dio nella sua vita. L’episodio è raccolto nella lunga intervista concessa a Patrick Chastenet, Entretiens avec Jacques Ellul, La Table ronde, Paris 1994, (vedi cap. IV pp. 86 s.). Per un ulte­ riore approfondimento sui diversi aspetti della testimonianza di E. come cre-

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sto (Giovanni 6,36) all’età di 17 anni, professore di Diritto romano a 29 anni, in tutte le sue opere (58) per circa 13.500 pagine ha avuto come unico criterio ermeneutico le Sacre Scritture: “Il criterio del mio pensiero è la rivelazione bibli­ ca; il contenuto del mio pensiero è la rivelazione biblica; il punto di partenza delle mie opere mi è fornito dalla rivela­ zione biblica3”. Alla luce di questa impostazione rigorosa­ mente biblica, rispondente al “Sola Scriptum” della Riforma protestante, possiamo individuare tre momenti intimamente collegati nel pensiero elluliano: 1°) il rapporto tra le Scrittu­ re e il dubbio della fede evangelica; 2°) la relazione tra l’etica pubblica e il tradimento del Cristianesimo; 3°) l’azione criti­ ca nella società e la libertà della agape di Cristo.

dente (non ultimo quello ecumenico, in particolare gli incontri organizzati dal gesuita Enrico Castelli a Roma). [Le relazioni sono pubblicate nell’Archivio di Filosofia]. Per tutta la vita si dedicò con grande costanza a mantenere con­ tatti epistolari, alcuni di questi con ecclesiastici e vescovi. Non trascurò mai di essere parte attiva della sua parrocchia riformata di Pessac, dove dopo il culto domenicale cercò di sollecitare delle reazioni alla predicazione, sempre attento nel coinvolgere la comunità, alla quale apparteneva, in decisioni che, in qualche modo, lo concernevano nei suoi interventi pubblici. Sull’impegno di E. nella chiesa riformata di Francia, soprattutto a livello nazionale, rimandiamo a A. Maillot, “L’homme et l’Eglise", Le Siécle de Jac­ ques Ellul, in “Foi et vie”, n. 5-6, 1994. Alphonse Maillot, teologo e biblista riformato, è stato una figura di riferimento, in campo esegetico negli studi di E. Sul tema vedi Etienne Dravasa, Jacques Ellul, Témoin de Dieu, Historien de l’Homme in P. Chastenet, Jacques Ellul, Penseur sans frontiéres, Esprit de Temps, 2005, pp. 49-58. Un aspetto non secondario di E. credente concerne il rapporto con Israele, sia come popolo che come Stato, del quale si trova traccia nel fecondo dialo­ go che ebbe, tra gli altri, con André Choraqui. Cfr. J. Ellul, Un chrétien pour Israel, in Le dèfit et le nouveau. Oeuvre thèologique, 1948-1991, Table ronde, Paris 2007. Vedi anche A. Chouraqui, Le destin d’Israel, Edition Parole et Silence, Paris, 2007 [tr.it. Il destino d’Israele, Ed. Paoline, Milano 2009]. sullo stesso tema rimandiamo al bilancio tracciato da Michel Leplay, in El­ lul et Israel, in “Foi et Vie”, n. 5, 1995. ? J. Ellul Le vouloir et le faire, Labor et Fides, 1964, p. 7.

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1. Le Scritture e il dubbio della fede evangelica “La fede può essere debole, esitante, continuamente com­ battuta: la fede è forse mai risparmiata dalla prova? Ma dev’essere la fede: una conoscenza personale della grazia e del peccato, del pentimento e della nuova nascita, un atteg­ giamento di preghiera e di supplica personale a Dio per mez­ zo di Gesù Cristo”.4 Queste parole del pastore evangelico svizzero Eduard Thurneysen,5 amico e discepolo del giovane Karl Barth, de­ scrivono bene l’atteggiamento cristologico del nostro autore. Sulle orme di Soren Kierkegaard, Jacques Ellul ha ben chiara la differenza tra “rivelazione biblica” e “religione umana”.6 La religione umana sorge dal nostro io, dal suo bisogno di esse­ re continuamente rassicurato; la rivelazione biblica ci pone in cammino come Abramo (Genesi 12), con una unica assicura­ zione, le nostre vite corte, lunghe, felici o travagliate hanno il loro unico significato nella persona e nell’opera di Gesù Cri-

4 E. Thurneysen. Doctrine de la cure d’ame, Delachaux et Niestlé, Neuchatel, 1958, p. 247. 5 Eduard Thurneysen (1888-1974) pastore della cattedrale di Basilea dal 1927-1950, dal 1940 insegnerà la Teologia pratica in quell’università. Oltre al classico manuale di teologia pratica: Die Lehre von der Seelsorge, che ha se­ gnato un’intera generazione pastorale, ricordiamo Dostoevskij, Doxa, Roma 1929. 6 Le fonti alle quali si ispira Ellul (Kierkegaard, Marx, Barth) sono am­ piamente analizzate nel volume curato da Fredèric Rognon, ad oggi, tra le più complete del suo pensiero in lingua francese. Rognon coglie le numerose incidenze che il danese ebbe sull’opera di Ellul. Se il parallelo esistenziale po­ trebbe apparire diametralmente opposto, le affinità intellettuali di entrambi si incontrano e, pur in una libera interpretazione, segnano, senza ombra di dubbio, tutta l’opera di Ellul. Cfr. F. Rognon, Jacques Ellul, Urte pensée en dialogue, Labor e Fides, Genève, 2007, in part. pp. 169- 208. Cfr. G. Manzone, La libertà cristiana e le sue meditazioni sociali nel pensiero di Jacques Ellul, Glosse, Milano 1993. Si tratta di una dissertazione discussa alla Facoltà Te­ ologica dell’Italia Settentrionale di Milano. La prova, se ve ne fosse bisogno, dell’interesse in ambito cattolico per il pensiero di E., interesse maggiore di quello mostrato fino ad oggi per il Protestantesimo in Italia.

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sto: “Io sono l’alfa e l’omega, dice il Signore Dio, colui che è, che era e che viene, l’onnipotente” (Apocalisse 1,8). La Bibbia non è dunque un comodo viatico per credenti letteralisti e un po’ ingenui.7 L’insegnamento del Nuovo e dell’Antico Testamento si può riassumere nella domanda di Gesù ai discepoli: “E voi chi dite che io sia?” (Me. 8,29; Mt. 16,15; Le. 9,20) e nel­ la conseguente affermazione: “Ama il tuo prossimo come te stesso”. (Me. 12, 31-33; Mt. 22, 34-40; Le. 10, 25-37). L’esegesi di Jacques Ellul che ha scritto commentari sui li­ bri della Genesi, dell’Eccelesiaste, di Giona, i Vangeli del­ la passione e l’Apocalisse8, si caratterizza dunque per una interazione con il testo biblico. Ognuna e ognuno di noi rispondendo con convinzione di fede alla chiamata del Si­ gnore, rivive, in contesti diversi, la prospettiva biblica uni­ taria della salvezza. La fede evangelica autentica non è mai calco dell’esperienza biblica, piuttosto è un atto inedito di Dio creato dalla sua Parola vivente.

2. Etica pubblica e tradimento del cristianesimo Jacques Ellul ha applicato il disegno originale divino tra­ ducendolo in una etica valida per l’uomo d’oggi. Come è possibile affermare la libertà in Cristo di ogni donna e di ogni uomo di fronte alla prepotenza dell’innovazione tecno­ logica e delle sue conseguenze sul piano ecologico? Per vi­ vere la libertà in Cristo è necessario anche nel nostro tempo, restare lucidi, coscienti che il progresso tecnologico non va idolatrato. Se pensiamo a quale prezzo in termini di salute e vite umane, molti paesi oggi del Sud del mondo conseguo­ no di anno in anno strabilianti records di ricchezza prodot7J. Ellul, La foi au prix du doute, La Table Ronde, 19802, Paris 2006. 8 Raccolte nel volume: J. Ellul, Le défi et le nouveau. Oeuvres théologiquesy op.cit.

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ta (P.I.L.), l’analisi elluliana appare di straordinaria attualità. Per parte nostra, ci ricorda l’autore, dobbiamo denuncia­ re la venerazione di un profitto ingannevole agli occhi del Signore. Ma come possiamo fare questo se le Chiese han­ no tradito il Cristianesimo? Come un camaleonte la Chiesa, sottolinea Ellul nella sua opera più polemica e senza dubbio più originale: La subversion du Christianisme,9 è stata co­ stantiniana sotto Costantino, monarchica sotto la monarchia, repubblicana sotto la repubblica, ha abbracciato le diverse dittature del ‘900 e si è trasformata addirittura in uno stato (Vaticano). E una tesi radicale ma vera, che ricorda l’espe­ rienza degli Ebrei nel deserto narrata dal libro dell’Esodo e ripresa nell’Epistola agli Ebrei. Una etica pubblica delle Chiese, credibile agli occhi delle donne e degli uomini del nostro tempo, richiede scelte radicali di fede e di contesta­ zione pubblica. Non ce ne vogliano le nostre sorelle e i no­ stri fratelli evangelici e cattolici se osiamo paragonare questo libro “scandaloso” di Jacques Ellul al “ministero petrino” breve, ma significativo di Albino Luciani (Giovanni Paolo I). In un contesto teologico differente entrambi hanno avvertito l’ammonimento biblico: se le Chiese non scelgono di essere povere e di vivere con i poveri, difficilmente entreranno nel Regno dei cieli (Marco 10,17-31).

3. Azione critica nella società e libertà nell’agape di Cristo. Il pensiero politico di Jacques Ellul, come è già stato sot­ tolineato, si muove nell’ambito di una concezione radica­ le dell’azione umana; questa lo porta progressivamente dall’analisi marxiana della società capitalistica ad una visio­ ne egualitaria anarchica dell’azione politica. La sua indipen-

9 J. Ellul La subversion du Christianisme, Ed. du Seuil, Paris 1984. Ri­ stampato: La Table Ronde/la petite vermillon, 2001.

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denza politica, al pari di quella teologica ed ecclesiastica, ne costituiscono un “unicum” nel protestantesimo francese. Infatti, non bisogna dimenticare che l’impostazione teore­ tica elluliana va compresa nell’articolazione dialettica pro­ posta da Karl Barth tra libertà divina e libertà umana. E la prima che fonda la determinazione di ogni agire umano. La libertà in Cristo è il punto di riferimento di ogni azione po­ litica. A differenza di Barth maturo, Jacques Ellul sarà cri­ tico nei confronti della Chiesa, della sua Chiesa Riformata di Francia;10 non condividerà l’impegno politico di teologi europei e nordamericani a sostegno di regimi marxisti o altri falsamente socialisti. In questo quadro non seguirà il mae­ stro Karl Barth11 nell’analisi dei regimi comunisti della Ger­ mania Est, Romania e Ungheria. Avrà presente le sofferenze dei luterani nella Repubblica Democratica Tedesca e la per­ secuzione strisciante dei riformati in Ungheria e soprattutto Romania durante il regime dispotico di Ceausescu. Dal falli­ mento della struttura statale liberal-capitalistica e dei regimi comunisti, nasce l’interesse in Ellul per il movimento anar­ chico. L’anarchia è ovviamente respinta nei suoi aspetti vio­ lenti, ma accolta in una prospettiva escatologica di governo universale dei popoli da parte del Signore della storia. Nella sua opera Anarchia e Cristianesimo. Jacques Ellul si congeda

10 Per una panoramica di questo dibattito rinviamo a due testi che, a nostro giudizio, sono indicatori del livello dello scontro. Si veda la parte che riguarda la lettura materialista del Vangelo di Fernando Belo (tr. it. Una lettura politi­ ca del Vangelo, introd. di Federico Torriani, edizione italiana a cura di IdocInternazionale, Roma, Claudiana, Torino 1975). Altrettanto acceso fu il suo intervento nei confronti del teologo riformato Georges Casalis con Les idées justes ne tombentpas du del, Cerf 1977 (tr. it. Le idee giuste non cadono dal cielo, saggio di teologia induttiva, Claudiana, Torino 1975). Cfr. J. Ellul, Fausse prèsence au monde moderne, Librairie Protestan­ te, Paris, 1963; Lidéologie marxiste chrétienne, Que fait-on de VEvangile?, Le Centurion, Paris 1979. 11 Sull’influenza di Barth in E. Cfr. Aimez-vous Barth?, in “Réforme” del 10 maggio 1968 (Ripubblicato nel numero speciale interamente dedicato ad E., Actualité d’un briseur d’idoles, dicembre 2004).

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dal mondo confessando la vittoria su tutti i poteri del Cristo crocifisso e risorto: “Nel pensiero cristiano, la crocifissione di Cristo è la sua vera vittoria su tutte le potenze, celesti o infernali (non mi pronuncio sulla loro esistenza, ma mi rife­ risco alle certezze dell’epoca) poiché lui solo è stato perfet­ tamente ubbidiente alla volontà di Dio, accettando persino la condanna a morte a suo proprio scandalo (Gesù non com­ prende più nulla di ciò che gli succede: mio Dio perché mi hai abbandonato?). Egli dubita della propria comprensione, dubita della sua missione, ma non dubita della volontà di Dio ed ubbidisce pienamente.12

4. Diritto sacro e diritto divino L’origine sacra del diritto romano (sacramentum) ripresa da Giustiniano, con conseguenze tragiche sul piano della li­ bertà di religione e di opinione è stata ribadita dalla rivista della Compagnia di Gesù, “La Civiltà cattolica”, nel 1932 in un articolo dal titolo programmatico: Il Diritto naturale e la sua immutabilità e assolutezza.13 Negli stessi anni, in Italia, il principale esponente del giu­ snaturalismo fu Giorgio Del Vecchio,14 fondatore nel 1921

12 Elèuthera, Milano 1999, p. 109. 13 “La Civiltà Cattolica” n. IV, 1932, pp. 417-431. 14 Bologna 1878- Genova 1970. Studioso di livello internazionale con una vastissima produzione accademica. Egli aveva iniziato l’insegnamento di Filo­ sofia del diritto prima a Ferrara, successivamente a Sassari, Messina, Bologna e infine a Roma dove ricoprì la carica di Rettore (1925). Accolse il fascismo con un certo entusiasmo (iscrizione nel 21), ma con le leggi razziali venne so­ speso dal servizio per le sue origini ebraiche. Seguì la conversione al cattolice­ simo, scelta, quest’ultima, non dettata da opportunismo ma da un cammino che egli aveva maturato attraverso i suoi studi. Alla liberazione di Roma ven­ ne reintegrato nella cattedra. Egli trascorse nell’isolamento gli ultimi anni di vita. Cfr. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 1990, voi. 38, pp. 91-95.

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della “Rivista internazionale del Diritto", interrotta negli anni della guerra e poi ripresa nel 1947 con il proposito del “ritorno all’idea eterna del diritto naturale”. Partito da po­ sizioni filosofiche kantiane, criticate dai gesuiti nell’articolo del 1932, Del Vecchio si avvicinò al giusnaturalismo cattoli­ co-tomista. Ed è questo tipo di giusnaturalismo che si è af­ fermato in Italia, soprattutto sulle orme di Jacques Maritain (1882-1973). Al filosofo francese dobbiamo la nozione di “bene comune” che tanta fortuna ha ancora oggi nella teologia e nel diritto di matrice cattolico-romana. Con una serie di volumi, a partire dal 1936 Humanisme integrai,15 al 1942 Le droits de Ìhommeìb et la loi naturelle, per finire con La personne et le bien com­ muni del 1947, il filosofo neotomista francese sviluppa l’idea della realizzazione, secondo un diritto sacro naturale, del bene comune. La dignità della persona umana si realizza naturaliter nella condivisione di una etica economica e giuridica cristiana. Il potere sovrano non è dunque laico, ma di origine divina. Da esso discendono i “beni comuni”, esempi concreti di un dirit­ to del lavoro confessionale. Analoghi pensieri sostenne in sede di “Assemblea Costituente (1946-47)” il cattolico Giorgio La Pira (1904-1977), noto studioso di diritto romano che propose durante i lavori della costituente di citare Dio nel preambolo della Costituzione18. A questa visione del diritto rivolta “erga omnes”, si con­ trappone la posizione evangelica riformata di un diritto di­ vino avente carattere limitato “uti singoli”, posto tra la crea­ zione e la parusia del Signore Gesù Cristo. Tali tesi sono state

15 Humanisme intégral. Problèmes temporels et spirituels d’une nouvelle chrétienté; (espagnol 1935), Paris (Fernand Aubier), 1936 (1947). 16 Les Droits de l’Homme et la Loi naturelle, New York 1942 (Paris 1947), (Trad. it. I diritti delluomo e la legge naturale, Vita e pensiero, Milano 19912). 17 La personne et le bien commun, Paris 1947, (La persona e il bene comune, Morcelliana, Brescia 1998). 18 Assemblea Costituente: Commissione per la costituzione, Prima sottocom­ missione, Resoconto sommario della seduta di lunedì 9 settembre 1946, p.13 ss.

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POSTFAZIONE

sostenute in Francia dal nostro Autore e in Italia dal giurista valdese Giorgio Peyrot (1910-2005).19 Le argomentazioni giuridiche si intrecciano con l’esegesi biblica che pone in Dio il fondamento del Diritto e quin­ di della giustizia che deve essere alla base dell’agire umano. Tra i numerosi passi biblici, ne possiamo citare in particolare due: il Salmo 99 nei versetti 3 e 4 e il profeta Amos 5,14-15. Nel Salmo 9920 il concetto di diritto (ebraico mispat) è stret­ tamente collegato alla rettitudine (mesarim) e quindi fonte di giustizia (sedaqah). Il giudizio di Dio sul suo popolo nasce dunque dalla mancanza di rettitudine e quindi di giustizia. Il rimprovero contenuto in Amos cap. 521 rivolto origina­ riamente al re di Israele Geroboamo II (786-746 a.C.) la cui azione era improntata ad un ottimismo politico non dissimi­ le dall’arroganza di certi politici cristiani del nostro tempo, ricorda la necessità di comportamenti retti nelle relazioni di governo e sociali. La mancanza di giustizia rappresentata oggi nel nostro paese dalla lunghezza dei processi e da leggi “ad personam" attualizzano il richiamo al Diritto divino dei giuristi evangelici riformati Jacques Ellul e Giorgio Peyrot.22

19 Rinviamo alla relazione di Eugenio Stretti: “Il Diritto canonico, genesi e le­ gittimazione ecclesiastica: una valutazione confessionale” svolta nel Convegno: Il giurista delle minoranze religiose, Genova, Palazzo Ducale, 8-9 Aprile 2011”, di prossima pubblicazione a cura di Giovanni Battista Varnier e Italo Pons 20 « Lodino essi il tuo nome grande e tremendo. Egli è santo. Lodino la for­ za del Re che ama la giustizia; sei tu che hai stabilito il diritto, che hai eserci­ tato in Giacobbe il giudizio e la giustizia. Esaltate il SIGNORE, il nostro Dio, e prostratevi davanti allo sgabello dei suoi piedi. Egli è santo”. (Le citazioni bibliche sono tratte dalla Nuova Riveduta]. Sul Salmo 99 vedi G. Ravasi, 1 Sal­ mi, Bologna 1991; M.L. James, Salmi, Claudiana, Torino 2010), 21 « Cercate il bene e non il male, affinché viviate, e il SIGNORE, Dio degli eserciti, sia con voi, come dite. Odiate il male, amate il bene e, nei tribunali, stabilite saldamente il diritto. Forse il SIGNORE, Dio degli eserciti, avrà pie­ tà del resto di Giuseppe”. Per un approfondimento sul tema Cfr. G. Tourn, Amos profeta della Giustizia, Claudiana, Torino 1972, p. 136. 22 Avvocato e Docente di diritto ecclesiastico alla Facoltà valdese di Teo­ logia di Roma e all’Università di Perugia, studioso dell’ordinamento valdese; consulente dell’Ufficio legale della Tavola valdese; fece parte della delegazio-

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Tale concezione del diritto per quanto minoritaria e quin­ di modesta (uti singoli) riveste un carattere di urgenza per quanti hanno a cuore l’eticità del diritto, un diritto sostan­ ziale, non solo formale. Riprendiamo le sue parole: “È grave costatare l’inquietudine della chiesa allorché si attraversa un periodo politicamente turbolento, e la sua quiete quando regna la fortuna. [...] la chiesa deve prendere l’iniziativa del dialogo, non attendere che gli avvenimenti la costringano a parlare, perché allora parlerà a caso. [...] Il cristiano è chia­ mato a riconoscere il senso degli avvenimenti che l’uomo vive in superficie, senso che è ad un tempo politico e spi­ rituale. Beninteso, il cristiano assume un rischio, non sarà quello del ridicolo Giona che ha annunciato la caduta di Ninive, e niente è accaduto. [...] la chiesa compie un com­ pito che nessuno può adempiere nel mondo politico non di scelta ma di chiarimento: essa deve essere il ‘significante’ nel gioco dei segni, il ‘rilevatore’ nell’ombra delle immagine”.23 Genova, 2 giugno 2011, Festa dell’Ascensione e della Repubblica Italiana

ne che, in rappresentanza delle chiese metodiste e valdesi insieme con quel­ la governativa approntò il progetto delle Intese firmate dalla Tavola valdese. 23 Aa.Vv., Les Chrétiens et l’États, Maison Marne, 1967 (trad. it. I Cristiani e lo Stato, Ed. Ave, Roma 1967); J. Ellul, Richiami e riflessioni su una teologia dello Stato, p. 176 s.

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Indice dei nomi

Agostino (Sant’) 94 Barth 65, 155,158, Belo, 158 Brunner 50,67 Casalis, 158 Castelli, 154 Chastenet, 153, 154 Charmont, 32 Ceausescu, 158 Choraqui, 154 Conord, 33,69 Costantino, 157 De Diétrich, 43,137, 145 Del Vecchio, 8, 19,159,160 Dostoevskij, 155 Duguit, 94 Durkheim, 51 Dravasa, 154 Ellul, 7, 8, 153, 154, 155, 156, 157,158, 161,162 Ehrenstroem, 73 Gény, 28,136 Geroboamo II, 161 Gurvitch, 125, 136 Horton, 18, 69 James , 161 Kelsen, 16, 133 Kierkegaard, 155 Kung , 9 La Pira, 160 Le Fur, 40, 94 Leplay, 154

Lèvy, 40, 94 Luciani (Giovanni Paolo D, 157 Manzoni, 155 Maillot, 154 Maritain, 8, 160 Marx, 155 Moderne, 7 Mussolini, 8, 133 Pascal, 93 Pétain, 8 Peyrot, 161 Preiss, 44 Radbruch, 8 Ravasi, 161 Renard, 33 Rognon, 155 Roubier, 16, 23, 36, 51, 94, 124, 133 Rousseau, 94 Senn, 30 Schlemmer, 46 Scholten, 143 Stammler, 32 Stretti, 161 Tommaso d’Aquino (Sani 8, 67 Tor riani, 158 Tourn, 161 Thurneysen, 155 Varnier, 161 Visser’t Hooft, 33, 43, 131 Werner, 70 Wolf, 16

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Indice delle citazioni bibliche

ANTICO TESTAMENTO Genesi 3 3:16-19 3:20 4:15 9 9:1 9:1-7 9:14-17 12, 15:13 15:17 17:4

p.57 p. 61 p. 59 p. 120 p.57 p. 59 p. 61 p. 58 p. 155 p. 58 p. 62 p. 59

Esodo 24 34

p. 58 p. 58

Levitico 19:15

p. 121

Proverbi 2:6-22 2:9 14:34 16:12 18:5 25:5 29:4 29:26

p. p. p. p. p. p. p. p.

96 46 141 141 121 141 141 54

Zaccaria 7:9-10

p. 128

Deutoronomio 1:16-17 1:17 4:8 6:24

p. 44 pp. 52,121,122 p. 126 p. 61

16:19 ss 16:20

p. 88 p. 61

Giosuè

24:25

p. 61

1 Samuele 8

p. 105

1 Re 3:11 3:28

p. 96 pp. 96, 126

Isaia 23 p. 131 24 p. 131 24:5 26:9-10 49:4 56:1 64:5

pp. 60, 96, 143 p. 96 P- 55 pp. 126,150 p. 46

2 Cronache 9:8 19:6

p. 134 p. 125

Esdra 7:25

p. 126

Giobbe 40:7-8

p. 104

Salmi 7:9 9:9 33:5 50:16 ss 72:1-3 76:9 82:3 85:12

pp. 47, 54 p. 47 p. 45 p. 54 p. 48 p. 45 p. 128 p. 96

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99: 3-4 105:10

p. 161 p. 61

Geremia 21:12 31:31-34

p. 128 p. 97

Ezechiele 5:6 16:8 28:2 33 33:11 33:17,20

p. Pp. p. p. p.

Michea 3:1 3:9-11 3:12

p. 141 p. 142 p. 141

130 59 137 146 45 70

Amos 5: 14-15 Ahacuc 1:4 1:5-11

p. 142 p. 92

NUOVO TESTAMENTO Matteo 2:27 3:15 5 7:2 7:12 16: 15 22: 34- 40 26:52 26:54

p. p. p. p. p. p. p. p. p.

122 64 74 103 92 156 156 123 64

Romani 2:4 2:12-16 2:14 8 9:30-31 13:4 13:4 13:5

p. 119 p. 103 pp. 68, 97, 121 p. 79 p. 95 p. 123 pp. 134, 137 p. 148

Luca 6:31-36 9: 20 10: 25-37 18:2-8 19:15 19:22

p. 92 p. 156 pp. 25-37 p. 90 p. 46 p. 103

Marco 8: 29 10: 17-31 12:31-33

p. 156 p. 157 p. 156

Giovanni 3:18 5:19-30 5:24 5:30 7:24 19:7 19:11

p. p. p. p. p. p. p.

48 49 48 54 122 64 64

Prima Corinzi 1:30 pp. 47, 128 3:13 p. 103 8:6 p. Ili Prima Tessalonicesi 5:21 p. 147 Giacomo 5:4

166

p. 90

INDICE DELLE CITAZIONI BIBLICHE

Colossesi 1:16 1:24

p. 86 p. 146

Seconda Pietro 3:7 p. 113 p. 46 3:15 Ebrei 4:12

p. 113

Apocalisse 1: 8 13:10 21:24-26

p. 156 pp. 123,124 p. 103

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epuratori ANTONIO FONTANA, laureato in giurisprudenza a Genova nel 1962, in Magistratura dal 1964, l’ha lasciata nel 1971 per dedicarsi interamente all’in­ segnamento presso la Facoltà di Scienze politiche di Genova, concludendo la sua carriera come professore associato il 31 ottobre 2009. Si occupa prevalen­ temente di diritto del lavoro e della previdenza sociale. Autore di numerose pubblicazioni (monografìe, articoli, voci d’enciclopedia ecc.) è stato relatore in vari convegni in Italia e all’estero, e collabora a riviste specializzate nel set­ tore. Ha pure curato alcune traduzioni, specialmente dal tedesco.

ITALO PONS, pastore valdese a Genova, ha esercitato il ministero pastorale in Sicilia e in Molise. Attualmente è presidente della Commissione Esecuti­ va Distrettuale (II Distretto). Ha studiato le fonti dell’ordinamento valdese; si è occupato di archivi e di storia delle chiese locali. Ha pubblicato la storia dell’Ospedale Evangelico Internazionale di Genova.

EUGENIO STRETTI, pastore valdese a Genova. Ha svolto il ministero pa­ storale in diverse località: Puglia, Veneto, Piemonte e Toscana. Si occupa di storia contemporanea e di sociologia religiosa. Ha pubblicato, presso l’edi­ trice Claudiana: II Movimento pentecostale Le Assemblee di Dio in Italia; con Enzo Paci, Il pluralismo delle fedi: i nuovi movimenti religiosi, e due storie lo­ cali Presenza evangelica nel Salento e La chiesa evangelica battista; metodista e valdese a Venezia.

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