Il fondamento delle cose sperate teologia della fede cristiana

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Il fondamento delle cose sperate teologia della fede cristiana

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biblioteca di teologia contemporanea 96

Titolo originale The Assurance o f Things H oped for. A Theology o f Christian Faith O xford University Press © 1994 by New York Province, Society of Jesus © 1997 by Editrice Queriniana, Brescia via Ferri, 75 - 25123 Brescia ISBN 88-399-0396-8 Traduzione daH’inglese-americano di G iorgio Volpe Edizione italiana a cura di G iacomo C anobbio Stampato dalla Tipolitografia Queriniana, Brescia

INTRODUZIONE

Si potrebbe dire che la parola «fede» è la parola cristiana. Il cristianesi­ mo merita più di ogni altra religione il nome di «fede». Fra i termini indi­ canti il movimento cristiano, «fede» e derivati ricorrono con notevole fre­ quenza aH’interno della Bibbia. Nel Nuovo Testamento la parola «fede» (pistis) compare 243 volte; lo stesso numero di volte compare «credere» (pistéuo), mentre «fedele» (pistós) compare 67 volte. Per avere un termine di confronto, il sostantivo «speranza» (elpis) compare 53 volte, e il verbo «sperare» (elpizö) 31. «Carità» (agàpè) è usato 116 volte come sostantivo e 143 come verbo (agapäö)1. Nella triade di fede, speranza e carità, la fede sembra dunque superare la speranza e la carità, se non per grandezza (cfr. 1 Cor 13,13), almeno per importanza costitutiva. Essa rappresenta, più di ogni altra cosa, ciò che «fa» il cristiano. Anche se il calcolo delle parole non è decisivo, è sicuramente indicativo. Nell·annuncio e neirinsegnamento cristiano, nel corso dei secoli, l’ac­ cento biblico sulla fede non è venuto meno, si è anzi rafforzato. Fin dagli esordi, la teologia cristiana indicò nella fede l’unica via attraverso cui gli esseri umani possono accedere ad una relazione salvifica con Dio. La Riforma protestante enfatizzò, soprattutto nella variante luterana, la «giu­ stificazione mediante la sola fede». Al concilio di Trento, la chiesa cattoli­ ca vide nella fede «il principio dell’umana salvezza, il fondamento e la ra­ dice di ogni giustificazione, senza cui è impossibile essere graditi a Dio e condividere la condizione di suoi figli» (sessione VI, cap. 8; DS 1532). I teologi hanno riconosciuto nella fede la virtù cristiana fondamentale, il presupposto imprescindibile della speranza, della carità e delle opere buone. Presentando la Scrittura, i sacramenti e i ministeri della chiesa, i

1 Ricavo le statistiche sul Nuovo Testamento greco da K. Aland, Vollständige Konkordanz zum griechischen Neuen Testament, voi. 2: Spezialübersichten, Walter de Gruyter, Berlin 1978.

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Introduzione

teologi hanno cercato di dimostrare come eséi esprimano e alimentino la fede. La diffusione della fede è stata la prima motivazione della missione cristiana. La teologia stessa ruota attorno alla fede. Secondo la classica definizione di sant’Anselmo, che è stata lodata e ripresa da molti altri au­ tori, la teologia è «fede che cerca l’intelligenza». Essa viene spesso de­ scritta come studio di Dio e delle cose divine alla luce della fede. Non avrebbe senso, dunque, dedicarsi alla teologia senza avere una qualche idea della natura della fede. La letteratura sulla fede non a caso è immensa. In quasi tutti i teologi di una qualche importanza si possono trovare molte pagine sull’argomen­ to. Nella prima metà del ventesimo secolo la mole della letteratura au­ mentò in misura impressionante sia in ambito protestante che in ambito cattolico. Attorno alla metà del secolo il sacerdote belga Roger Aubert pubblicò in francese una storia ampia e preziosa, anche se per qualche verso selettiva, della teologia della fede2. La riflessione sistematica cattoli­ ca venne esposta in numerosi manuali, generalmente in lingua latina. Le opere pubblicate attorno alla metà del secolo, elaborate in funzione delle esigenze dell’epoca, non ci appaiono più pienamente soddisfacenti. I manuali per i seminari presupponevano una cultura specialistica di tipo scolastico. Le monografie scritte nell’Europa continentale non tenevano sufficientemente conto della letteratura in lingua inglese. Gli studi catto­ lici pubblicati fino al concilio Vaticano II dedicavano in genere poca at­ tenzione alla Scrittura e ignoravano la letteratura protestante, oppure la trattavano in maniera eccessivamente polemica. Il concilio Vaticano II (1962-1965) rese più urgente, a mio modo di ve­ dere, l’esigenza di un aggiornamento della teologia della fede. Esso non ripudiò la teologia cattolica precedente, ma cercò di integrare e di correg­ gere la scolastica, soprattutto quella moderna, introducendo una teologia della fede maggiormente esperienziale, biblica, storicamente consapevole ed ecumenica. Pur invocando un ricupero dei modelli biblici e patristici precedenti, il Vaticano II tentò di far proprio quanto vi era di valido nel­ l’insegnamento delle altre tradizioni cristiane, compresa la Riforma prote­ stante, per la quale la fede aveva rappresentato una tematica cruciale. Il Vaticano II riconobbe l’esigenza che la teologia della fede prendesse in considerazione le aspirazioni, le attese e le angosce del tempo in cui vivia­ mo.

2 R. A ubert , Le problème de l'acte de foi. Données traditionelles et résultats des controverses récen­ tes, 2a ed. riveduta e corretta, E. Warny, Louvain 1950. La prima edizione era apparsa nel 1945; la terza e la quarta (1958, 1969) sono soltanto ristampe della seconda.

Introduzione

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Come docente di teologia, ho sperimentato la difficoltà di trovare, so­ prattutto in lingua inglese, materiali di studio o di consultazione da asse­ gnare o consigliare agli studenti sul tema della fede. Ho udito altri docen­ ti lamentarsi di tale difficoltà. L'opera presente è stata scritta, in parte, per colmare questa lacuna. Ma la mia speranza è anche che questo libro possa aiutare cristiani di ogni tradizione e percorso di vita a scoprire a che punto è giunta la teologia in questa importante specialità. Essendo convinto che ogni valida evoluzione dottrinale debba ricolle­ garsi alla Scrittura e alla tradizione, ho cercato di tenere costantemente presenti queste fonti. La vicenda della teologia della fede è per me una storia affascinante: un dialogo condotto lungo i secoli da grandi menti applicate ad argomenti aventi per loro (come per me) la massima impor­ tanza. Ammetto che la teologia non può mai essere statica. Non è mai suffi­ ciente limitarsi a ripetere ciò che è stato detto nei secoli passati. Ma l’e­ sperienza sembra dimostrare che i contributi più originali sono opera, in teologia, di pensatori che hanno fatto propria la sapienza del passato. Se­ condo l’assioma medievale, tali pensatori sono riusciti a vedere lontano perché sedevano sulle spalle di giganti. Prima di proporre una propria teoria, è opportuno andare a vedere se essa, o qualcosa di simile ad essa, non sia già stata proposta ed esaminata in precedenza. Le teorie innovati­ ve che non hanno solide radici nella Scrittura e nella tradizione possono attrarre grande attenzione al momento della loro presentazione, ma si ri­ velano spesso, a mente fredda, dei vicoli ciechi. Passando al vaglio i lavori degli altri autori, confido di essere riuscito ad offrire qualche contributo originale, ma le mie intuizioni personali per quel che valgono - costituiscono necessariamente una glossa all’opera altrui. Questo libro conseguirà il suo scopo principale se riuscirà ad aiu­ tare i suoi lettori a farsi un’idea di ciò che i migliori pensatori del passato e del presente hanno avuto da dire sulla fede, fornendo loro gli strumenti per affrontare i propri quesiti e per inserirsi autonomamente nell’intermi­ nabile ricerca mediante cui la fede cerca di comprendere nientedimeno che se stessa. Questo libro non si occupa direttamente di questioni apologetiche. Si potrebbe presentare un elenco quasi infinito di difficoltà per la fede, al­ cune delle quali specifiche del nostro tempo e della nostra cultura. Le dif­ ficoltà più serie sono - credo - perenni. Esse scaturiscono dalla limitata portata dell’intelletto umano nel suo sforzo di raggiungere il divino e dal­ la necessità di assoggettarsi ad una parola che viene dalla grazia di Dio. Gli apologeti fanno benissimo a cercare delle soluzioni alle diverse o-

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Introduzione

biezioni, ma l’apologetica va concepita come una disciplina subordinata, che dipende da una precedente teologia della fede. E necessario, prima di tutto, avere un’idea corretta di ciò che la fede è e pretende di essere: un’impossibilità naturale, un miracolo della grazia, un dono puro e sem­ plice di Dio che l’essere umano può soltanto implorare in ginocchio. La fede non è un atto irrazionale, ma potrebbe apparire tale a coloro che non tengono conto delle iniziative di Dio. La fede non è opera dell’intel­ letto umano che tenti di scalare le vette del divino, ma accoglienza della graziosa manifestazione che Dio ha dato di se stesso. La fede è essa stes­ sa, nelle parole della Scrittura, «fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono» (Eh 11,1). Mi rimangono da ringraziare i molti amici e colleghi che mi hanno aiu­ tato a scrivere questo libro. Fra gli studiosi che ne hanno letto e criticato versioni più o meno avanzate di vari capitoli o sezioni, ricordo Ewert H. Cousins, John R. Donahue, S.J., William V. Dych, S.J., Charles Homer Giblin, S J ., John Greco, René Latourelle, S J ., Joseph T. Lienhard, S J ., Gerald A. McCool, S.J., Louis Monden, S.J., Gerald O ’Collins, S.J., e Vincent T. O ’Keefe, S J . A tutti loro sono grato per l’incoraggiamento ed i suggerimenti. Debbo infine esprimere un particolarissimo debito di gra­ titudine alla mia valida assistente, dott.ssa Anne-Marie Kirmse, O.P., sen­ za la cui costante disponibilità questo lavoro ben difficilmente sarebbe potuto giungere a compimento.

C a p it o l o

p r im o

I FONDAMENTI BIBLICI

È tipico delle religioni bibliche porre uno speciale accento sulla fede quale atteggiamento fondamentale che gli esseri umani devono assumere nel loro rapporto con Dio. Nelle altre religioni la fede, intesa come con­ vinzione basata su una fedeltà personale, ha meno risalto e non assurge al ruolo di termine tecnico del discorso religioso. Fin dall’epoca neotestamentaria, il termine «fede» è stato generalmen­ te riferito, nel contesto della teologia, ad un’accettazione della parola e della promessa di Dio in quanto vere e degne di fede, e all’impegno a vi­ vere conformemente ad esse. Questa nozione di fede è stata costruita sul­ la base di una grande varietà di materiali dell’Antico e del Nuovo Testa­ mento e rappresenta, in qualche misura, il prodotto di un’opera di siste­ matizzazione. E impossibile comprendere la teologia cristiana della fede senza fare costante riferimento ai materiali biblici da cui essa deriva. Per fornire questo necessario inquadramento, nel presente capitolo verrà of­ ferta una rapida panoramica dei più importanti passi dell’Antico e del Nuovo Testamento relativi alla fede1.

1 Una trattazione generale del tema della fede nella Bibbia è rinvenibile in J. A lfaro , Fides in ter­ minologia biblica, in Gregorianum 42 (1961) 463-503, e in H.-J. H ermisson - E. L o hse , Faith, Abingdon, Nashville Tenn. 1981, nonché negli articoli dei dizionari più comuni, come EC. GRANT H.H. ROWLEY (edd.), Hastings' Dictionary o f the Bible, Scribners, New York I9602, 288-290; G. FRIEDRICH - G. B ro m iley (edd.), The Theological Dictionary o f the New Testament, voi. 6, Eerdmans, Grand Rapids Mich. 1968, 174-228; The Interpreters Dictionary o f the Bible, voi. 2, Abingdon, Nashville Tenn. 1962, 222-234; Supplementary Volume dello stesso Interpreter’s Dictionary, Abing­ don, Nashville Tenn. 1988, 329-335; Sacramentum Verbi, vol. 1, Herder and Herder, New York 1970, 243-257; The Anchor Bible Dictionary, voi. 2, Doubleday, New York 1992, 744-760; e J.M. L e e (ed.), Handbook o f Faith, Religious Education Press, Birmingham Ala., 99-122 (C. Stuhlmueller) e 123-141 (J.L. Price, Jr.). [B. M arconcini, Fede, in P. ROSSANO - G . R avasi - A. G irlanda , N uovo Dizionario di teologia biblica, Paoline, Cinisello B. 1988, 536-552; A. W eiser - R. B ultmann , pistéuó, in GLNT, X , 337-488; J. P fammater , La fede secondo la S. Scrittura, in Mysterium Salutis 2, Queriniana, Brescia 1968,377-403].

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Capitolo primo

L’Antico Testamento

Il concetto cristiano di fede nell’Antico Testamento è, come la stessa espressione «Antico Testamento», il frutto di una lettura retrospettiva del­ le Scritture ebraiche effettuata, per così dire, alla luce del «Nuovo» Testa­ mento. In genere, i cristiani elaborano il loro concetto di fede a partire dal Nuovo Testamento e dalla tradizione della chiesa, per poi andare alla ricerca, nell’Antico Testamento, di parole o episodi che possano fungere da fondamento o da esemplificazione della loro concezione della fede2. L’Antico Testamento non contiene alcun termine che corrisponda per­ fettamente al neotestamentario pistis e ai suoi derivati. Il termine he emiri, lo hifil del verbo ’mn, è usato col significato di «credette», «eb­ be fiducia», «si fidò»... Il sostantivo ebraico 'ëmûnâ, che ci si aspettereb­ be indicare credenza, fiducia, o qualcosa di simile, nell’Antico Testamen­ to è usato raramente, per non dire mai, con tale senso (l’eccezione più probabile è Is 26,2: «Aprite le porte: entri il popolo giusto che mantiene la fede»; ma anche in questo caso la parola «fede» non significa necessa­ riamente credenza o fiducia). ’Emûnâ significa invece verità, onestà, lealtà. Si tratta, prima di tutto, di un attributo di Dio, il quale è fedele e manterrà sicuramente le sue promesse: «Riconoscete dunque che il Si­ gnore vostro Dio è Dio, il Dio fedele, che mantiene la sua alleanza e be­ nevolenza per mille generazioni» (Dt 7,9). La fedeltà di Dio verso Israele si manifesta nell’attuazione della rela­ zione di alleanza. La risposta corretta da dare al Dio che istituisce e man­ tiene la sua alleanza comporta due aspetti. E necessario, in primo luogo, accettare la verità della parola o delle promesse divine, e poi aderirvi con vigore e perseveranza. I messaggeri di Dio, i profeti, devono aprirsi alla parola di Dio e metterla fedelmente in pratica, dimostrandosi dunque, in entrambi i sensi, «persone di fede». Il popolo deve essere, a sua volta, do­ cile e tenace per potere avere accesso alle benedizioni dell’alleanza. La fe­ deltà del profeta o del vero israelita sono una replica terrestre dello stesso amore perseverante di Dio. Il termine ebraico ’amen, che è passato in

2 Sulle concezioni della fede nell’Antico Testamento, cfr., oltre ai lavori elencati nella nota prece­ dente, A. JEPSEN, 'aman, in Theological Dictionary of the Old Testament, voi. 1, a cura di G J . BOTTERWECK e H. R in g e n , Eerdmans, Grand Rapids Mich. 1977, 292-323. [H. WlLDBERGER, ’mn stabi­ le, sicuro, in E. J e n n i - C. W est e r m a n n (edd.) Dizionario teologico dell’Antico Testamento, I, Mariet­ ti, Torino 1978, coll. 155-183]. Per la prospettiva di un eminente pensatore ebreo, cfr. M. B u b e r , Due tipi di fede. Fede ebraica e fede cristiana, San Paolo, Cinisello B. 1995.

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molte lingue moderne, esprime allo stesso tempo un’accettazione passiva dell’affidabilità della parola di Dio e una disposizione attiva ad aderirvi. Il grande prototipo veterotestamentario della fede è Abramo, il quale ascoltò ed eseguì fedelmente tutti i comandi divini. Quando Dio lo fece uscire dalla sua terra natale - Ur dei Caldei - e lo inviò come un nomade nel deserto, egli obbedì senza esitazione (Gen 12,1-3). La sua fiducia nel­ la promessa di Dio di fare dei suoi discendenti una grande nazione fu messa a dura prova dalla sterilità della moglie Sara, eppure egli credette. Quando Dio ripetè le sue promesse in termini più specifici ed Abramo credette al Signore, quest’ultimo, secondo l’autore, «glielo accreditò co­ me giustizia» (Gen 15,6). Ciò significa, quanto meno, che Abramo fece bene a credere alla promessa di Dio. La fiducia di Abramo che nessuna cosa poteva essere impossibile a Dio è in netto contrasto con l’incredulità di Sara, che ride all’idea di potere ancora essere resa gravida (Gen 18,12). Dopo la nascita del figlio Isacco, la fede di Abramo è messa ancora una volta alla prova dal comando divino di offrire il suo unico figlio in sacrifi­ cio sul monte Moria, ma egli supera la prova e viene ricompensato (Gen 22,1-19). Le qualità di Abramo quale prototipo di tutti i credenti vengono esal­ tate dalla tradizione successiva: «Abramo fu grande antenato di molti po­ poli, nessuno fu simile a lui nella gloria. Egli custodì la legge dell’Altissi­ mo, con lui entrò in alleanza. Stabilì questa alleanza nella propria carne e nella prova fu trovato fedele» {Sir 44,19-20). Nel Nuovo Testamento, au­ tori diversi traggono lezioni differenti dai racconti a lui dedicati. Per Pao­ lo, Abramo mostra come sia possibile essere giustificati in virtù della fede senza la circoncisione e senza l’osservanza della legge {Gal 3,6-14; Rm 4,3-25). La Lettera agli Ebrei presenta Abramo come colui che, a causa della fede, ebbe tanta fiducia nelle promesse di Dio da essere pronto ad offrire in sacrificio il suo unico figlio {Eh 11,4-12.17-19). La Lettera di Giacomo, diversamente da Paolo, usa l’esempio di Abramo per mostrare che la giustificazione non si consegue con la sola fede, ma con le opere che la completano, cioè, nel caso specifico, con l’offerta di Isacco sull’al­ tare {Gc 2,20-24). Teologi cristiani come Soren Kierkegaard useranno l’e­ sempio di Abramo sul monte Moria per dare un fondamento biblico alla loro visione del rapporto fra ragione e fede, fra etica e religione3. Il racconto dell’Esodo illustra la lotta fra la forza della fede e quella dell’incredulità, che si contendono il dominio su Mosè, sugli egiziani e

3 Cfr. S. KIERKEGAARD, Timore e tremore, BUR, Milano 1985, 60.

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Capitolo primo

sul popolo di Israele. Quando il Signore incarica Mosè di chiedere la li­ berazione degli israeliti, questi ribatte che il popolo non gli crederà. Dio risponde promettendogli di convincerli attraverso segni e prodigi (Es 4,19). Inseguiti dalle potenti armate del faraone, gli israeliti perdono tempo­ raneamente la loro fiducia in Jahvé e in Mosè, ma quest’ultima è ripristi­ nata dal miracoloso salvataggio del mar Rosso (Es 14,31). In questi testi la fede è intesa sia come credenza nel messaggio divino affidato ai rappre­ sentanti di Dio che come fiducia personale nel Signore, in virtù dei segni e dei prodigi che egli opera in favore dei suoi messaggeri. Un’altra fonte importante per la teologia veterotestamentaria della fe­ de è costituita dagli scritti profetici. I profeti richiamano Israele alla sua originaria fiducia in Jahvé e ribadiscono la necessità di obbedire ai comandamenti di Dio. Il concetto di fede è notevolmente arricchito da Isaia, che è stato giustamente detto il «profeta della fede». In una situazio­ ne di grave crisi, in cui la sopravvivenza della monarchia davidica era in serio pericolo, Isaia dichiarò al re Acaz: «se non crederete, non avrete sta­ bilità» (Is 7,9). Il fatto che in questa frase ricorra, in due forme differenti, il medesimo verbo (’mrì) sta ad indicare lo strettissimo legame che la teo­ logia di Isaia istituisce fra fede e sicurezza. La fede non dà sicurezza sol­ tanto perché Dio ricompensa coloro che credono, e nemmeno soltanto perché è motivo di rassicurazione psicologica, ma perché fonda resisten­ za di ciascuno nella sua vera origine. L’accento cade qui sull’esigenza di riporre la propria fiducia esclusivamente nella potenza di Jahvé, venendo così affrancati dal timore di ogni avversario umano. Un’analoga lezione è impartita ai capitoli 28-31, dove Isaia mette in guardia i capi di Israele dal riporre la loro fiducia nei carri degli egiziani anziché in Jahvé solo. Is 28,16 (che Paolo cita, applicandolo a Gesù, in Rm 9,33 e 10,11, nonché in vari altri luoghi del Nuovo Testamento) ri­ chiama il popolo alla fiducia nel fatto che Dio sta stabilendo il suo popo­ lo fedele come «una pietra in Sion». In tutti questi testi di Isaia, la fede è fondamento di decisioni politiche, ma soltanto nel senso che dissuade i credenti dall’affidarsi alla prudenza umana o alle forze create, inculcando in loro una paziente fiducia nel fatto che Dio darà compimento agli in­ tenti che ha preannunciato. I capitoli successivi del libro di Isaia, attribuiti solitamente al DeuteroIsaia e ai suoi seguaci, inculcano un’analoga dottrina della fede in circo­ stanze radicalmente mutate. Il profeta rassicura il popolo scoraggiato esi­ liato a Babilonia: «quanti sperano nel Signore riacquistano forza» (Is 40,31). Ci si può fidare che colui che, solo, è Dio agirà per la salvezza del suo popolo. L’azione salvifica di Dio non è subordinata, in questi passi,

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alla fede di Israele; essa è invece il fondamento su cui tale fede può essere eretta. Scrivendo poco prima dell'esilio babilonese, il profeta Abacuc afferma che «il giusto vivrà per la sua fede» {Ab 2,4), frase che Paolo intende nel senso che la fede, come fiducia o confidenza, è fonte di giustificazione (Rm 1,17; G al3,11). E tuttavia perfettamente possibile che il testo signifi­ chi semplicemente che i «giusti» sono coloro che vivono fedelmente nel­ l'attesa che Dio li difenda. Questa seconda interpretazione si adatta me­ glio all'applicazione che del testo viene fatta in Eh 10,36-38, ove si parla della costanza necessaria per affrontare le persecuzioni, «perché dopo aver fatto la volontà di Dio possiate raggiungere la promessa». Nel Libro dei Salmi la fede è definita principalmente mediante il riferi­ mento all'ingrediente della fiducia. Il salmista esalta il Signore in quanto pastore la cui bontà e misericordia sconfiggono ogni paura {Sai 23,4-6). Alcuni salmi storici narrano la storia delle azioni salvifiche di Dio, che perdona i peccati del popolo e non lo distrugge neppure quando non ha fiducia nella sua potenza salvifica {Sai 78,22.38). Abbastanza spesso la fe­ deltà e la fiducia sono menzionate congiuntamente quale giusta risposta dell'umanità alle continue grazie di Dio {Sai 26,1-3). In generale, la letteratura sapienzale dell'Antico Testamento non attri­ buisce alla fede un'importanza paragonabile a quella che le attribuiscono il Pentateuco o i profeti. La sapienza è vista come un dono di Dio, ma an­ che come il frutto di una riflessione sull'esperienza comune a tutta l'uma­ nità. La sapienza ebraica, diversamente da quella ellenistica, è in massima parte di carattere pratico e mondano, più che speculativo e teoretico. Di­ versi scrittori sapienziali sottolineano l'incapacità dell'intelletto umano di rinvenire un significato nella storia o di acquisire una conoscenza della vi­ ta futura. Il Libro di Giobbe racconta la storia di un uomo la cui fede è messa a durissima prova da una sofferenza immeritata: egli ha pensieri di ribellione nei confronti Dio ed è infine riconciliato dall'esperienza del mistero irresistibile del divino. Nel giudaismo postesilico la fede viene intesa (in parte anche a motivo del valore attribuito al Pentateuco) sempre più come fedeltà alla legge e sempre meno come relazione personale con un Dio che si rivela nella sto­ ria. La speranza non è più rivolta al futuro storico del popolo, ma con­ templa eventi escatologici collocati al di là della storia. La salvezza non è vista come destino della nazione, ma come ricompensa dei devoti che hanno osservato fedelmente i precetti della legge. L'elemento della fidu­ cia continua però a sopravvivere: «Chi crede alla legge è attento ai comandamenti, chi confida nel Signore non resterà deluso» {Sir 32,24).

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Capitolo primo

Col Nuovo Testamento entriamo in un universo di pensiero assai diffe­ rente, che comporta un mutamento del significato del termine «fede». Forse anche per ¡’influsso della tradizione retorica greca, alcuni autori neotestamentari concepiscono la fede soprattutto come materia di per­ suasione e di convinzione. Il termine greco pistis, che non svolge un ruolo di particolare spicco nelle versioni greche dell’Antico Testamento, assu­ me una posizione centrale in molti autori neotestamentari. Ciononostan­ te, tali autori parlano della fede in modi molto diversi, gettando così le premesse delle dispute teologiche sulla fede che costelleranno la storia della chiesa. Quasi tutti gli aspetti della fede nel Nuovo Testamento sono stati oggetto di studi di grande valore4. In questa sede sarà dunque suffi­ ciente presentare un riassunto schematico in cui verranno sottolineate le specificità di alcuni libri ed autori.

I vangeli sinottici

Sebbene nei vangeli sinottici risuonino gli echi della predicazione della chiesa primitiva, queste opere permettono di ricostruire, in qualche misu­ ra, la visione della fede tipica di Gesù e della comunità pre-pasquale5. Nei sinottici la fede compare il più delle volte in connessione con raccon­ ti di guarigioni o di altri eventi miracolosi. Essa non è vista però soltanto come risultato dei miracoli, ma anche, e forse in maniera predominante, come forza che li produce. In molte occasioni Gesù dichiara: «La tua fe­ de ti ha salvato» {Me 5,34par.; Me 10,52par.; Le 7,50par.; 17,19). Vicever­ sa, la mancanza di fede incontrata da Gesù in certe circostanze - per esempio a Nazaret - gli impedisce di compiere miracoli {Me 6,5; Mt 13,58; cfr. 17,20).

4 Fra gli studi generali sulle concezioni neotestamentarie della fede cfr., oltre alla letteratura citata alla nota 1: L.E. Keck , The New Testament Experience o f Faith, Bethany Press, St. Louis 1976; J.L . KlNNEAVY, Greek Rhetorical Origins o f Christian Faith: An Inquiry, Oxford University Press, New York 1987; O. MICHEL, Faith, in The New International Dictionary o f the New Testament, voi. 1, a cura di C. B r o w n , Zondervan, Grand Rapids Mich. 1986,393-606. 5 Sulle concezioni della fede presenti nei vangeli sinottici, cfr. P. BENOIT, La fede nei Vangeli Sinot­ tici, in Esegesi e teologia, Paoline, Roma 1964, 139-162; G. E b e l i n g , Gesù e fede, in Farola e fede, Bompiani, Milano 1974, 77-126; E.J. O ’CONNOR, Faith in the Synoptic Gospels, University of Notre Dame Press, Notre Dame Ind. 1961.

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La fede è dunque in relazione con concrete situazioni di bisogno: ma­ lattia, pericolo e morte delle persone amate. In quanto attesa speranzosa, essa è diretta ad un benessere futuro. Lidea di una salvezza in una vita al di là della morte appare raramente, per lo meno in forma esplicita. Il termine «fede» viene spesso usato assolutamente, senza la menzione di alcun oggetto. Loggetto implicito è Dio. Poiché egli è onnipotente, nulla è impossibile alla fede, che è, per così dire, una partecipazione alla sua onnipotenza. Una fede grande come un granellino di senapa è in gra­ do di smuovere le montagne {Me 9,23; 11,22; Mt 17,20). Paura e dubbio sono il contrario della fede, ma questa coesiste talvolta con il suo opposto, come nel caso del padre angosciato del ragazzo epi­ lettico, il quale urla: «Credo, aiutami nella mia incredulità» {Me 9,24). I discepoli, che pur seguono Gesù nella fede, vengono spesso da lui rim­ proverati per la loro mancanza di fede (Me 4,40par.) o per essere «uomini di poca fede» (Mt 14,31; 16,8; 17,20). Nei sinottici Gesù appare come colui che fa nascere o che fa da cataliz­ zatore alla fede. Anche se è possibile vedere in Gesù una persona che vi­ ve per fede, quest'ultima non gli viene mai attribuita. Ad eccezione di Mt 18,6, passo indubbiamente secondario, i detti sinottici (diversamente da quelli giovannei) non presentano mai Gesù nell'atto di richiedere esplici­ tamente di avere fede nella sua persona. Ciononostante, la sua pressante chiamata al discepolato fu implicitamente una richiesta di fede nella sua persona, così come la richiesta di riconoscerlo davanti al mondo {Mt 10,32-33). Il modo peculiare in cui Gesù adopera il termine «amen» a ga­ ranzia dei suoi detti implica inoltre la rivendicazione di un'autorità senza precedenti nell'uso giudaico. Sembra dunque che Gesù, nel suo ministe­ ro pubblico, abbia gettato le fondamenta di quella fede esplicita nella sua persona in quanto Signore, fede che sarebbe stata richiesta dal kerygma della chiesa primitiva. I credenti sono coloro che riconoscono la presenza di Dio nella persona e nel ministero di Gesù e che accettano la buona novella del Regno inaugu­ rato in Gesù e per mezzo di Gesù. Come è indicato fin dal primo versetto {Me 1,1), il vangelo di Marco ruota attorno all’identità personale di Gesù in quanto Figlio di Dio, titolo assegnatogli nella confessione di fede del centu­ rione nell’istante culminante della morte di Gesù6. Il potere di riconoscere

6 Un autore recente così riassume la concezione marciana della fede: «La fede è confidenza cre­ dente in Gesù in quanto egli incarna concretamente l’azione salvifica di Dio. Nel racconto di Marco Gesù è, direttamente o indirettamente, l’unico mediatore del tipo di fede reso necessario dal Regno

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Capìtolo primo

in Gesù il Messia o il Figlio di Dio è attribuito alla grazia del Padre. Gesù rende grazie al Padre per i «piccoli» che hanno ricevuto il dono della fede .(.Mt 11,25par.). La confessione di fede di Pietro suscita la seguente risposta di Gesù: «Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te Thanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli» (Mt 16,17). Gesù pre­ ga per Pietro affinché «non venga meno la tua fede» (Le 22,31).

La comunità post-pasquale; gli A tti degli a p o sto li

Siccome i vangeli sinottici furono composti da cristiani ad uso della chiesa primitiva, è più che naturale che contengano risonanze della pro­ clamazione post-pasquale. Perciò non è sempre facile isolare ciò che pro­ viene letteralmente dalla bocca di Gesù, il quale si esprime, talora, in ter­ mini che ricordano assai da vicino il kerygma della chiesa. All’inaugura­ zione del suo ministero, Gesù ci viene presentato mentre si rivolge alla gente in generale: «Convertitevi e credete al vangelo» (Me 1,14). L’uso della parola «vangelo» sembra appartenere, in questa frase, al vocabola­ rio specificamente marciano. L’appendice di Marco parla a nome della chiesa primitiva quando mette in bocca al Signore risorto la seguente di­ chiarazione: «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato» (Me 16,16). I principali suscitatori della fede sono, nel contesto post-pasquale, gli apostoli, i testimoni divinamente incaricati di predicare la buona novella del Cristo risorto. I loro miracoli sono segni divini che ne accreditano l’annuncio. In molti casi, gli ascoltatori accettano il loro annuncio pro­ prio sulla base di tali miracoli (At 9,42; 13,12; 14,9). La fede comincia ad acquisire un contenuto più spiccatamente dottrinale che non nell’annun­ cio di Gesù: il suo principale contenuto è il messaggio apostolico su Gesù come Messia e Signore risorto (At 2,26). Nel Libro degli Atti, il termine «fede» viene spesso utilizzato in senso oggettivo, per designare il conte­ nuto del kerygma (At 6,1 \13,8; 14,22; 16,5).

nascente [...]. L’oggetto della fede è, in un certo senso, del tutto specifico: è la presenza della potenza escatologica di Dio nella persona di Gesù». Cfr. C.D. MARSHALL, Faith as a Theme in Mark's Narrati­ ve (Society of New Testament Monograph Series, 65), Cambridge University Press, Cambridge Eng. 1989, 231-232. Così come è, questa affermazione non rende forse giustizia alla preoccupazione mar­ ciana per la questione dell’identità personale di Gesù come Figlio di Dio.

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La fede è tuttavia qualcosa di più di un assenso intellettuale al messag­ gio cristiano. Essere «credenti» significa, nel Libro degli Atti, avere aderi­ to alla comunità cristiana (At 4,32; 11,21). Gli apostoli, quando annun­ ciano il kerygma, vi aggiungono costantemente un’esortazione al penti­ mento e al battesimo. Così Pietro, al termine del suo discorso di penteco­ ste, ammonisce gli ascoltatori: «Pentitevi e ciascuno di voi si faccia bat­ tezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati» (At 2,38). La fede è praticamente equiparata al battesimo e viene concepita come capace di rimettere i peccati (At 4,12; 26,18). Credere in Gesù Cri­ sto è condizione necessaria per la salvezza (At 4,12; 16,31). Negli Atti grande attenzione viene riservata al ruolo dello Spirito Santo, che confe­ risce potenza alla predicazione apostolica e predispone gli ascoltatori a credere nel messaggio evangelico.

Paolo

In Paolo «fede» indica generalmente, come nel Libro degli Atti, una ri­ sposta al messaggio su Gesù, il Signore risorto7. «Credenti» è praticamen­ te sinonimo di «cristiani» (Rm 3,22; 1 Cor 1,21). Riecheggiando la formu­ la di un’antica professione di fede, Paolo scrive, in Rm 10,9: «Se confes­ serai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo». La fede, in quanto pre­ condizione della salvezza, è qualcosa che «dipende dalla predicazione» (Rm 10,17), e «la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo» (ibid.). Il vero contenuto della fede è la buona novella dell’azione salvifica di Dio in Gesù Cristo, «il quale è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione» (Rm 4,25). Questo messaggio evangelico deve essere puntigliosamente difeso contro qualsia­ si falsificazione (Gal 1,6-9).

7 Sul concetto di fede paolino, cfr. H. BINDER, Der Glaube bei Paulus, Evangelische Verlagsanstalt, Berlin 1968; M.-E. BoiSMARD, La foi selon Saint Paul, in Lumière et Vie 22 (1955) 489-514; V.P. FUR­ NISH, Theology and Ethics in Paul, Abingdon, Nashville Tenn. 1968, specialmente 181-206; L.E. K e c k , Paul and His Letters, Fortress, Philadelphia 1979, specialmente 49-55; 80-94; O. Kuss, Ausle­ gung und Verkündigung, vol. 1, Pustet, Regensburg 1963, 187-212; e H. R id d e r b o s , Paul, Eerdmans, Grand Rapids Mich. 1975, specialmente 231-249. [R. PENNA, La giustificazione in Paolo e in Giaco­ mo, in Rivista biblica 30 (1982) 337-362].

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Capitolo primo

L’assenso intellettuale al vangelo non è un’avventura cieca o puramen­ te emotiva. Esso è solidamente sorretto da segni e prodigi (1 Ir 1,5), dalla dimostrazione della potenza dello Spirito (1 Cor 2,4), e soprattutto dalle testimonianze delle apparizioni del Cristo risorto (1 Cor 15,1-8), che sono parte dell’insegnamento comune di tutti gli apostoli (1 Cor 15,11). Non­ dimeno, la fede non può essere conseguita che mediante l’aiuto della gra­ zia. Siccome l’uomo «naturale» non è in grado di discernere le cose dello Spirito (1 Cor 2,12-15), la fede presuppone una vocazione interiore che procede dalla libera elezione divina {Rm 5,15; 8,30; E f 2,8; 2 Ts 2,13). La fede ammette diversi gradi, secondo la misura che a Dio piace con­ cedere a ciascun individuo {Rm 12,3). La fede che «trasporta le monta­ gne» (1 Cor 13,2) è uno speciale carisma liberamente concesso a taluni dallo Spirito Santo, e non è essenziale alla salvezza. Distruggendo le orgo­ gliose pretese della sapienza mondana, la fede dà luce ad una sapienza che non è di questo mondo: una sapienza fondata su Cristo, che Dio ha costituito nostra sapienza (1 Cor 1,30). Paolo si aspetta che i suoi conver­ titi crescano in conoscenza e discernimento, «perché i loro cuori vengano consolati e così, strettamente congiunti nell’amore, essi acquistino in tut­ ta la sua ricchezza la piena intelligenza, e giungano a penetrare nella per­ fetta conoscenza del mistero di Dio, cioè Cristo, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza» {Col 2,2-3). Siccome Cristo di­ mora nei loro cuori mediante la fede, i credenti sono in grado di acquisire una conoscenza più profonda dell’amore di Cristo, «che sorpassa ogni conoscenza» {E f 3,19). Ciononostante, finché rimarranno sulla terra, essi dovranno continuare a camminare «nella fede e non ancora in visione» (2 Cor 5,7): ora infatti «vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora [nella vita futura] vedremo a faccia a faccia» (2 Cor 13,12). La fede è tuttavia molto di più di un atto puramente intellettuale: Pao­ lo istituisce un nesso assai stretto con la fiducia e l’obbedienza. Per fede ci apriamo a Dio rivelatore e mettiamo nelle sue mani il nostro futuro {Rm 4,5). Come Abramo, il quale «ebbe fede sperando contro ogni spe­ ranza» {Rm 4,18), i cristiani attendono fiduciosamente il futuro, nella certezza di essere un giorno risuscitati assieme a Gesù (2 Cor 4,14). In molti testi paolini, pistis e derivati possono essere tradotti con «fiducia» almeno altrettanto accuratamente che con «fede». Credere in Cristo è ri­ porre in lui la propria fiducia {Rm 10,11; G al 2,16; FU 1,29). Pur comportando le virtù passive dell’accettazione e della fiducia, la fede esige anche una risposta attiva. Credere conduce alla confessione {Rm 10,9-10; 2 Cor 4,13). Più generalmente, la fede fa sì che la vita del credente sia dominata da Cristo. Paolo può perciò parlare dell’«obbe-

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dienza della fede» {Rm 1,5) e attribuire alla fede i medesimi predicati che attribuisce all’obbedienza {Rm 1,8 e 16,19). Nulla è più peculiarmente paolino della dottrina della giustificazione mediante la fede. In Rom ani e Galati Paolo insiste sul fatto che siamo giustificati liberamente per la fede, e non per le opere della legge {Rm 1,17; 3,28; G a l2,16). In senso stretto, questi passi si riferiscono alle opere della legge giudaica e non alle opere buone in generale. Ma rimane vero che per Paolo la fede è donata liberamente mediante la grazia di Dio e non può essere meritata o realizzata da alcuna attività puramente umana. Non è facile dire se Paolo consideri la fede sufficiente per la salvezza. Quando parla di giustificazione mediante la fede in Rom ani e in Galati egli sembra suggerire che la fede sia salvifica in quanto tale. Ma nella Pri­ ma ai Corinzi parla dei doni della fede, della speranza e dell'amore come se fossero necessari tutti e tre. La fede senza amore, egli dice, non è nulla {1 Cor 13,3). Il dono più grande e importante è l'amore {1 Cor 13,13). Per armonizzare questi testi, si può ipotizzare che la fede che giustifica e che porta alla salvezza sia una fede viva, operante, quella che Paolo de­ scrive, altrove, come una «fede che opera per mezzo della carità» {Gal 5,6). Le opere che procedono dalla fede e dall'amore non sono prive di significato per la salvezza, poiché Dio renderà infine a ciascuno «secondo le sue opere» {Rm 2,6; cfr. 2 Cor 5,10). A un livello più profondo la fede è, per Paolo, una nuova modalità di esistenza. E una nuova amicizia con Cristo nello Spirito. Di questa nuova vita Paolo può scrivere che noi riceviamo «la promessa dello Spirito me­ diante la fede» {Gal 3,14). La fede rende possibile vivere o camminare nello Spirito {Rm 8,4; G al 5,25). Lo Spirito di Cristo realizza un'unione interpersonale fra il credente e Cristo nell'atto stesso della fede. Paolo può dunque scrivere di se stesso che, siccome egli vive per la fede nel Fi­ glio di Dio, «non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» {Gal 2,20). Quando Paolo parla della vita della fede in Cristo usando espressioni co­ me ptstis eis Christón e ptstis lèsti Chris tu, egli afferma qualcosa di più del semplice fatto che Cristo è l'oggetto della fede: nell'atto in virtù del quale i cristiani credono in lui, egli è all'opera come soggetto. Il Cristo-mistici­ smo paolino è l’esatto contrario di quella specie di dottrina della giustifi­ cazione giuridica o estrinseca mediante la fede che gli è stata talora attri­ buita8.

,

8 Greer M. Taylor sostiene in un interessante articolo che la ptstis Christù è l’azione fedele in virtù della quale Cristo, nella sua veste di fiduciario dell’eredità, dispone della proprietà in modo tale che

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Capitolo primo

Giovanni

Accanto a Paolo l’altro grande teologo neotestamentario della fede è Giovanni9. Diversamente dagli scrittori sinottici, Giovanni (o forse, più correttamente, la scuola giovannea) non collega la fede a specifiche situa­ zioni passeggere di bisogno, ma ad una decisione globale che conduce al­ la vita eterna. La teologia della fede giovannea si distacca in maniera si­ gnificativa anche da quella di Paolo. Mentre quest’ultimo si concentra sulla fede in Gesù come Signore crocifisso e risorto, Giovanni si ferma a contemplare la fede così come essa sorge dagli incontri col Gesù terreno che torna al Padre e che diventa, per gli altri, la Via. Giovanni non con­ trappone la sua teologia della fede alla giustizia giudaica delle opere, ma la elabora in polemica con l’orgogliosa autosufficienza dell’umanità. E possibile che egli si opponga deliberatamente all’intellettualismo gnosti­ co. Nel quarto vangelo e nelle epistole giovannee il verbo «credere» (pistéuein) ricorre 107 volte (contro le 54 di Paolo, incluse le sei delle epi­ stole pastorali). Ma il sostantivo «fede» (pistis), che compare 142 volte in Paolo, non è mai usato nel vangelo di Giovanni e compare soltanto una volta nelle sue epistole (1 Gv 5,4). Questo fatto indica che Giovanni è in­ teressato alla fede più come processo dinamico che come stato. Egli mo­ stra attraverso molti racconti come la fede dei discepoli superi le tenta­ zioni e i fraintendimenti fino a divenire salda e serena. I commentatori di­ stinguono quattro costruzioni caratteristiche di Giovanni. In primo luo­ go, egli usa frequentemente, come Paolo, il verbo seguito da «in» (eis) e l’accusativo - costruzione, questa, peculiare del Nuovo Testamento, che

gli estranei possano ereditarla dopo la sua morte. Cfr. il suo The function o f Π ίσ η ς Χριστού in Ga­ latians, in Journal o f Biblical Literature 85 (1966) 5 8-76. Questa interpretazione, basata sul diritto ro­ mano, mette in luce il ruolo di Gesù come soggetto e non contraddice necessariamente l’identificazione mistica dei cristiani con Cristo sottolineata da altri autori. 9 Sul concetto di fede giovanneo, cfr. J. GAFFNEY, Believing and Knowing in the Fourth Gospel, in Theological Studies 26 (1965) 215-241; P. GRELOT, Le problème de la foi dans le quatrième Évangile, in Bible et Vie chrétienne 52 (1963 ) 61-71; F. H a h n , Sehen und Glauben im Johannesevangelium, in Neues Testament und Geschichte. Oscar Cullmann zum 70. Geburtstag, a cura di H . B altensw eiler e B. Re ic k e , Mohr, Tübingen 1972, 125-141; R. Schnackenburg , Il credere giovanneo, Excursus VII, in II vangelo di Giovanni, parte I, Paideia, Brescia 1973, 697-719; A. VÀNHOYE, Notre Foi, oeuvre di­ vine, d'après le quatrième évangile, in Nouvelle revue théologique 86 (1964) 337-354. [I. D e L a P ot TERIE, Oída et ghignôshô. Les deux modes de la connaissance dans le quatrième Évangile, in Biblica 40 (1959)709-725].

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suggerisce come la fede introduca il credente in un’unione vitale con Dio e con Gesù. In secondo luogo, il verbo viene usato talvolta assolutamen­ te, senza alcun oggetto espresso, ma generalmente con qualche asserzione di Gesù quale oggetto implicito. In terzo luogo, Giovanni, unico fra gli autori neotestamentari, adopera il verbo pistéuein nel senso di «credere» con un complemento indiretto. Il testimone (o la testimonianza) cui si aderisce è citato al dativo. Da ultimo, «credere» può essere seguito da una frase introdotta dal «che» {boti). In questo caso, la fede è accettazione di una formula cristologica che afferma che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, o qualche altro titolo simile. Da queste costruzioni appare evidente che Giovanni ha un profondo interesse per l’analisi dell’unione personale con Gesù implicita nella fede, come pure per l’esigenza di recettività nei confronti della parola di Cristo o della testimonianza cristiana. La fede si traduce spesso, nel quarto van­ gelo, in asserzioni confessionali pronunciate da persone come Natanaele, Pietro, il cieco nato, Marta e Tommaso. Negli scritti giovannei, come in Atti e in Paolo, la fede è intimamente connessa con la giustificazione e con la salvezza. Essa impedisce di mori­ re in stato di peccato (Gv 8,24), libera dal giudizio e dalla condanna (Gv 3,18; 5,24), e conferisce la vita eterna (Gv 3,15-16.36). Mentre Paolo at­ tende la salvezza in una vita oltre la morte, Giovanni insegna che la vita eterna è qualcosa che è già stato dato {Gv 5,24; 6,47), anche se è destina­ ta ad essere compiuta nell’ultimo giorno, allorché i morti saranno risusci­ tati alla vita eterna {Gv 5,29; 6,39-40). Giovanni insiste, concordemente con altri autori neotestamentari, sul fatto che la fede è una grazia. Noi non possiamo compiere il passaggio dalla morte alla vita con le nostre proprie forze. Per credere bisogna esse­ re attirati dal Padre {Gv 6,44.65), ed è proprio rispondendo a questa at­ trazione che si consegue l’autentica libertà {Gv 8,32). Molti testi di Gio­ vanni sottolineano il carattere preveniente della grazia, fino quasi a sug­ gerire una forma di predestinazione. I credenti sono coloro che Gesù ha ricevuto dal Padre, il suo gregge, coloro che ascoltano la sua voce {Gv 6,37; 8,47; 10,27; 18,37). Se molti non credono, ciò è dovuto al fatto che non sono «di Dio» {Gv 8,47). Ciononostante, essi sono colpevoli, perché la loro incredulità è anche il risultato di deficienze morali {Gv 3,19-20; 5,44; 9,41), così come lo è, analogamente, l’incapacità dei credenti di confessare la loro fede {Gv 12,42-43). Giovanni scorge, come Paolo, una connessione strettissima fra credere e conoscere, termini che egli usa talora pressoché come sinonimi {Gv 6,69). Parlando di conoscenza, Giovanni non intende, evidentemente, u-

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na comprensione puramente teoretica e di tipo oggettivo, ma un'intima relazione personale, come l’unione familiare esistente fra Gesù ed il Pa­ dre (Gv 10,14-15). La fede conduce alla conoscenza (Gv 4,39-42; 10,38), ma, inversamente, anche la conoscenza conduce alla fede (Gv 16,30; 17,8; 1 Gv 4,16). Quest’ultima può anzi essere considerata una nuova modalità di conoscenza. La fede è sorretta dai miracoli, da cui spesso ha origine (Gv 2,11.23; 4,53; 5,36-38; 10,38). E tuttavia una fede che si appoggi ai miracoli ha ca­ rattere soltanto preliminare e inadeguato (Gv 4,48; 6,26), inferiore a quello della fede che si basa soltanto sulla parola di Gesù (Gv 2,22; 14,10-11). La dialettica fra vedere e credere richiama quella fra conoscere e credere. Vedere può essere un’occasione per credere (Gv 20,8), ma la fede di Tommaso, che crede a motivo di ciò che ha visto, è meno perfetta di quella di coloro che credono senza avere visto (Gv 20,29). Sebbene la fede sorpassi la visione fisica, essa reca con sé una sorta di visione spiri­ tuale (Gv 1,14; 11,40; 14,8-9). Durante la vita terrena di Gesù, gli apostoli ne fraintendono spesso le parole e aderiscono a lui senza comprendere la verità che lo riguarda. E soltanto dopo la risurrezione che i discepoli comprendono veramente il messaggio di Gesù (Gv 2,22; 12,16). In questo essi sono assistiti dal Paradito, lo Spirito di verità, che è stato mandato per aiutarli a ricordare ciò che Gesù ha detto loro e a penetrare il significato di tali parole, per con­ fermare la loro testimonianza, e per chiarire, nel corso del tempo, quel che Gesù non poté comunicare nel corso del suo ministero (Gv 14,26; 15,26; 16,12-15). Se Paolo tende a contrapporre la fede alle opere, Giovanni tende a sot­ tolinearne l’unità. Quelli che fanno il male odiano la luce, mentre quelli che operano la verità vengono alla luce (Gv 3,20-21). La fede si esprime in opere di amore. Coloro che rimangono in Gesù ne osservano i coman­ damenti, soprattutto il grande comandamento dell’amore, e attraverso il loro amore reciproco divengono segno «perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21; cfr. 13,35; 15,8). Le opere buone conducono dunque alla fede e la fede, inversamente, è gravida di opere buone. Le opere buone senza la fede non avrebbero, in ultima analisi, alcun valore, poiché l’opera che Dio esige al di sopra di ogni altra cosa è di credere in Gesù quale suo inviato (Gv 6,29). Il grande comandamento comporta al­ lo stesso tempo fede ed amore: «Questo è il suo comandamento: che cre­ diamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri» (1 Gv 3,23). L’amore di Dio è l’oggetto stesso della fede: «Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi» (1 Gv 4,16). Rinvi-

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gorita dall’amore di Dio, la fede è in grado di sconfiggere il mondo che giace sotto il potere del maligno (1 Gv 5,4-5.19).

Altri autori neotestamentari

Secondo soltanto a Paolo e a Giovanni come teologo della fede è l’au­ tore anonimo della Lettera agli Ebrei, che situa la considerazione della fe­ de nella prospettiva di una storia dinamica del popolo di Dio pellegrino verso la meta promessa del riposo eterno10. In Ebrei, la fede ha spesso la connotazione della saldezza nella propria fiducia (Eb 3,14), della perseve­ ranza, e della costanza (Eb 10,36-39). La fiducia dei credenti - afferma l’autore - avrà una grande ricompensa, a condizione che essi rimangano nella compagnia di coloro che sono «uomini di fede per la salvezza della nostra anima» (Eb 10,39). Il capitolo successivo è interamente dedicato a un encomio degli eroi della fede dell’Antico Testamento, i quali «non conseguirono la promessa», non essendo destinati ad ottenere la perfe­ zione se non attraverso la nuova alleanza (Eb 11,39-40; cfr. 9,15). Dopo aver completato il lungo catalogo dei santi, al cap. 12 l’autore esorta i let­ tori a fissare il loro sguardo su «Gesù, autore e perfezionatore della fede» (Eb 12,2)11. Il punto importante non è che Gesù è stato egli stesso un cre­ dente - anche se questo è probabilmente implicito in ciò che viene detto - , ma che il suo esempio deve ispirare e sostenere la fede dei cristiani, in quanto egli, incurante della vergogna, non si è sottratto alla croce e per questo è stato innalzato alla destra di Dio. Parecchi testi di Ebrei sono divenuti luoghi classici della successiva di­ scussione teologica. Eb 11,1 propone quella che è stata spesso considera­ ta come una definizione: «La fede è fondamento (hypostasis) delle cose che si sperano e prova (élenchos) di quelle che non si vedono». All’inter­ no del suo contesto, questa frase significa probabilmente che la fede è al­ lo stesso tempo garanzia del fatto che i beni promessi da Dio saranno

10 Sulla teologia della fede di Ebrei, cfr. E. G r ä SSER, Oer Glaube im Hebräerbrief, Eiwert, Marburg 1965. 11 [L’A. osserva che «la parola “nostra”, che compare nella Revised Standard Version, sembra esse­ re un’interpolazione non giustificata dai migliori testi greci. La New American Bible rende l’espres­ sione con “capo e perfezionatore della fede”». La versione della Bibbia di Gerusalemme utilizzata nella traduzione italiana omette anch’essa, come si vede, il possessivo (NdT)].

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posseduti nel futuro e prova del fatto che questa garanzia ha un fonda­ mento affidabile nell'azione salvifica di Gesù Cristo. In 11,3 Fautore pro­ segue: «Per fede noi sappiamo che i mondi furono formati dalla parola di Dio, sì che da cose non visibili ha preso origine quello che si vede». Que­ sto versetto pare riflettere una visione della fede più spiccatamente elleni­ stica e filosofica di quella contenuta nel resto del capitolo, ed è stato ado­ perato talvolta a sostegno dell'opinione secondo cui la fede sarebbe, per Fautore, un assenso intellettuale, più che una questione di fiducia o con­ fidenza. Eb 11,6a («Senza la fede però è impossibile essergli graditi») è il testo biblico più spesso citato per dimostrare la necessità della fede per la sal­ vezza, dottrina questa che, come abbiamo visto, pervade il Nuovo Testa­ mento. Eb 11,6b offre una ragione: «Chi infatti s'accosta a Dio deve cre­ dere che egli esiste e che egli ricompensa coloro che lo cercano». Nella visione dell'autore, questi due elementi sono probabilmente inscindibili: non è immaginabile credere in un Dio disinteressato alla condotta uma­ na. Molti teologi cristiani hanno scorto in questo passo il contenuto mini­ mo della fede salvifica, richiesto anche a coloro che non hanno accesso alla rivelazione biblica. Di grande importanza nella storia della teologia controversistica è la Lettera di Giacomo. Il secondo capitolo contiene, ai w. 14-26, una diatri­ ba contro il concetto di giustificazione mediante la sola fede, senza le opere. Come è già stato menzionato, Giacomo vede in Abramo un esem­ pio della necessità di congiungere le opere alla fede. «Come il corpo sen­ za lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta» (Gc 2,26). Questo è forse l'unico passo neotestamentario in cui la fede viene concepita come assenso intellettuale piuttosto che come adesione totale implicante fiducia, comunione con Gesù e fedeltà. Intendendo la fede in questo senso ristretto (che non è certamente quello paolino), è logico che Giacomo rifiuti il valore salvifico della sola fede, «senza le opere». Que­ sto passo costituì una grossa provocazione per Martin Lutero, poiché pa­ reva contrario alla sua idea della giustificazione mediante la «sola fede». Indipendentemente dal fatto che l'insegnamento di Giacomo sia o meno compatibile con la dottrina della giustificazione di Lutero, sarebbe assai difficile dimostrare che Giacomo rifiuta l’autentica dottrina di Paolo. Egli indirizza probabilmente la sua critica contro certi discepoli di Paolo che semplificavano eccessivamente il pensiero del maestro. Nei libri del Nuovo Testamento cui la maggior parte degli studiosi as­ segna una datazione relativamente tarda, come Giuda, VApocalisse e le lettere pastorali, il termine «fede» è usato spesso per indicare il contenu-

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to dottrinale delPinsegnamento della chiesa. L’autore di Giuda esorta i suoi lettori «a combattere per la fede, che fu trasmessa ai credenti una volta per tutte» (Gd 3), e a edificare se stessi «sopra la vostra santissima fede» (Gd 20). L’autore dell 'Apocalisse invoca «la costanza dei santi, che osservano i comandamenti di Dio e la fede in Gesù» (Ap 14,12; cfr. 2,13). Nelle due lettere a Timoteo la fede è descritta come un deposito fiducia­ rio da conservare e difendere (1 Tm 6,20; 2 Tm 1,14). Paolo viene pre­ sentato nell’atto di esprimere la sua soddisfazione per avere «conservato la fede» (2 Tm 4,7). Molti avvertimenti mettono in guardia contro i falsi maestri che «hanno fatto naufragio nella fede» (1 Tm 1,19). Il rimedio consiste nell’attenersi fedelemente alla dottrina della chiesa, «colonna e sostegno della verità» (1 Tm 3,15). Anche se l’accento non è più lo stesso dei vangeli o delle grandi lettere paoline, il mutamento si giustifica, alme­ no in parte, in quanto adattamento ai bisogni di una nuova generazione.

Conclusione

Il concetto di fede è, nell’Antico come nel Nuovo Testamento, un con­ cetto complesso. Esso comprende elementi come la fiducia personale, l’assenso alla verità divinamente rivelata, la fedeltà e l’obbedienza. Nell’Antico Testamento la fede è descritta come la risposta da dare alla fedeltà di Dio alle sue promesse di alleanza. Sebbene l’elemento della credenza sia presente in maniera implicita, l’accento cade sulla fiducia o confidenza in Dio in quanto Signore. La fede è provata dall’obbedienza e dalla fedeltà. Il suo frutto è la sicurezza contro le potenze ostili. Nel Nuovo Testamento l’elemento cognitivo appare più pronunciato, in parte perché si ritiene che le speranze di Israele siano state più che rea­ lizzate in Cristo. La salvezza è connessa con la memoria di ciò che Dio ha fatto per il suo popolo nella morte e nella risurrezione di Gesù. L’elemen­ to della fiducia continua però ad essere centrale, soprattutto, probabil­ mente, nelle lettere paoline. Nella Tetterà agli Ebrei gli antichi eroi della fede sono esaltati per la loro incrollabile fiducia nelle promesse di Dio. Nei vangeli sinottici «fede» significa fiducia personale in Gesù in quanto portatore del Regno. In Giovanni l’accento cade invece sull’unione con­ templativa con Gesù. La Tetterà di Giacomo insiste sull’esigenza che la fe­ de provi se stessa nelle opere buone. Negli Atti e in molte delle lettere del Nuovo Testamento la fede è in-

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terpretata come accettazione dell'annuncio apostolico. L'intellettualizza­ zione della fede è ancora più radicale nelle lettere pastorali, che mostrano la preoccupazione di trasmettere il messaggio cristiano in quanto conte­ nuto oggettivo di fede. La fiducia continua tuttavia a rappresentare un te­ ma importante, perché i cristiani non devono mai cessare di attendere una consumazione futura in cui verrà data la pienezza della salvezza. Considerati i molti aspetti che la fede assume nell'Antico e nel Nuovo Testamento, appare scontato concludere che il concetto di fede della teo­ logia cristiana sarà ricco, dinamico e controverso. Verranno avanzate nu­ merose opinioni, e quasi tutte si richiameranno a certi testi della Scrittu­ ra.

C a p it o l o

seco n d o

SVILUPPI PATRISTICI E MEDIEVALI

I padri pre-niceni

Per offrire una panoramica del periodo patristico, il metodo migliore sembra essere quello di scegliere un certo numero di autori che hanno apportato un contributo significativo alla teologia della fede e le cui ope­ re continuano a costituire dei preziosi punti di riferimento1. Chi deside­ rasse approfondire particolari momenti della storia potrà consultare gli studi specializzati. I padri apostolici non dimostrano alcun interesse per la formulazione di precise definizioni della fede o per l’elaborazione di teorie speculative in materia. La loro preoccupazione è piuttosto quella di motivare i loro lettori a perseverare e a crescere nella vita di fede. Clemente di Roma mette in evidenza, nella sua Prima Lettera ai Corinzi2, che Raab fu salvata per la fede, e che la cordicella scarlatta da lei appesa alla finestra indica profeticamente che tutti coloro che credono e sperano in Cristo saranno redenti dal suo sangue (n. 16; cfr. Gs 2,18). Successivamente, Clemente propone Abramo e Isacco come modelli di fede manifestata nella condot­ ta (n. 31). Sebbene la giustificazione sia data per la fede e non per le ope­ re, i credenti sono tenuti a tradurre la loro fede in azione: «con zelo ed ardore sforziamoci di compiere ogni opera buona» (n. 33).

1 Sul!epoca patristica sono disponibili le seguenti panoramiche: I. E scribano -A lberca , Glaube und Gotteserkenntnis in der Schrift und Fatristik (Handbuch der Dogmengeschichte I/2a), Herder, Freiburg 1974; D. LÜHRMANN, Glaube, in Reallexikon für Antike und Christentum, voi. 11, Hiersemann, Stuttgart 1979, 48-122. Una bibliografia aggiornata è rinvenibile in S.G. HALL, Glaube. IV. Al­ te Kirche, in Theologische Realenzyklopädie, vol. 13, Walter de Gruyter, Berlin 1984,305-308. 2 Frima di Clemente ai Corinti, in I padri apostolici, a cura di A. QUACQUARELLI, Città Nuova, Ro­ ma 1976,49-92.

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Capitolo secondo

Ignazio di Antiochia collega costantemente, nelle sette lettere a lui at­ tribuite, fede ed amore3. La fede - egli dice - è l’inizio della vita, mentre l’amore è la fine. «E quando queste due cose sono congiunte in unità, lì c’è Dio» {Efesini 14). A produrre la salvezza non è la mera professione di fede, ma il perseverare fino alla fine nell’azione fedele {ibid). Nel tentativo di mettere in rapporto la fede cristiana con la filosofia greca, gli apologisti del II secolo fecero un uso ingegnoso della dottrina giovannea di Cristo come Logos incarnato. Secondo Giustino, l’intelligi­ bilità della creazione è dovuta al Lògos eterno, «la Parola di cui è parteci­ pe tutto il genere umano» (2 Apoi. 46; cfr. 2 Apoi. 8-10)4. Da ciò discende l’impossibilità di una divergenza fra fede e ragione, fra religione e filoso­ fia. La sapienza di Socrate era simile, quanto alla sua origine, a quella dei profeti. Alla fine del II secolo, Ireneo traduce la teologia del Logos dei suoi pre­ decessori in una teologia della storia della salvezza5. Abramo è per lui il padre dei credenti, poiché fu il primo a seguire la chiamata della parola di Dio {Adv. haer. IV.5.3). «Abramo - dice Ireneo - seguì spontaneamen­ te e senza catene per la generosità della sua fede, e per questo divenne “l’amico di Dio”» {Adv. haer. IV.13.4). Dio manifestò se stesso ad Àbra­ mo «per opera del Verbo, rivelandosi come in virtù di un raggio» {De­ monstratio 24). La fede è per noi il fondamento della salvezza; è la fonte della retta comprensione delle cose che veramente sono. Dio non nega la sua luce a coloro che cercano la verità {Adv. haer. IIL3.1). Polemizzando con gli gnostici, Ireneo si preoccupa soprattutto di di­ fendere la fede in senso oggettivo, quale eredità ricevuta dagli apostoli {Adv. haer. 1.10.1), i cui scritti sono «fondamento e colonna» della nostra fede {Adv. haer. III. 1.1). Quest’ultima è la medesima in tutta la chiesa, la quale crede come avesse una mente e un cuore solo {Adv. haer. 1.10.2). Mediante la fede, i patriarchi ed i profeti ebbero preveggenza di Cristo e della chiesa. Nel cristianesimo trova compimento l’Antica Alleanza: la

3 I gnazio di A ntio ch ia , Lettere, Centro Editoriale S. Lorenzo, Reggio Emilia 1990. 4 Apologie, a cura di G. G irg en ti , Rusconi, Milano 1995, la citazione è a pag. 125. 5 Sulla teologia della fede di Ireneo, cfr. H.U. VON B althasar , Gloria. Una estetica teologica, voi. 2: Stili ecclesiastici, Jaca Book, Milano 1985, 1 9 -7 7 .1 riferimenti alle opere di Ireneo sono all’edizione delle Sources chrétiennes. Il Libro I di Adversus haereses compare nel voi. 263 (Cerf, Paris 1979); il Libro II nei voli. 293-294 (Cerf, Paris 1982); il Libro III nel voi. 210 (Cerf, Paris 1974); il Libro IV nel voi. 100 (Cerf, Paris 1965), e il Libro V nel voi. 152 (Cerf, Paris 1969) [trad. it. in Contro le eresie e gli altri scritti, a cura di E. BELLINI, Jaca Book, Milano 1979, 45-483]. La Demonstratio praedicatio­ nis evangelicae compare nel voi. 62 (Cerf, Paris 1959) [trad, it., Esposizione della predicazione aposto­ lica in Contro le eresie e gli altri scritti, cit., 485-528].

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fede è data nella sua pienezza. La fede di coloro che aderiscono ferma­ mente alla tradizione apostolica rimane sempre fresca e giovane. Cristo, infatti, «venendo, ha adempiuto tutto e adempie ancora nella chiesa, fino alla consumazione, la nuova alleanza preannunciata dalla legge» (Adv. haer. IV.24.2). Tertulliano si preoccupa, come Ireneo, di difendere la fede in quanto corpo di credenze fondato sulla testimonianza degli apostoli e conservato dalla chiesa nella sua integrità6. La «regola della fede») è per lui un rias­ sunto di ciò che è stato predicato da Cristo ed insegnato dagli apostoli (De praescriptione haereticorum 6 e 13; sulla «regola della verità», cfr. Apologeticus 47). Tertulliano insiste sul fatto che la regola della fede è suffi­ ciente a se stessa: essa non ha bisogno di puntelli o integrazioni di carat­ tere filosofico. «Noi non abbiamo bisogno di ricerche dopo Gesù Cristo, né di indagine dopo il vangelo»7. Tertulliano mette in ridicolo gli intellet­ tuali che sono costantemente in cerca e che non arrivano mai a credere in nulla. Coloro che non hanno fede - egli dice - dovrebbero cercarla, e, una volta trovatala, credere. Una volta entrati in possesso della fede, non è più necessario continuare a cercare (Praescr. 10). Nonostante tutto, Ter­ tulliano non fu però totalmente avverso alla filosofia. Nei suoi scritti controversistici egli fece uso di argomenti filosofici a sostegno delTinsegnamento della fede attorno all’esistenza di Dio, alla creazione del mondo e alla natura dell’anima. Ma, in quanto cristiano, Tertulliano non volle fare affidamento su tali argomenti, né raccomandò agli altri credenti di conta­ re su di essi. Con il Libro II degli Stromata, Clemente di Alessandria (140/50-c. 216) produsse quello che potrebbe essere definito il primo trattato cri­ stiano di teologia della fede8. Basando la sua argomentazione su una quantità di testi biblici citati secondo la versione dei Settanta (LXX), Cle­ mente rifiuta come inadeguata l’idea ch ela fede sia un’opinione pura e semplice implicante un certo rischio di errore. Persino Aristotele - rileva

6 Su Tertulliano, cfr. H.A. WOLFSON, The Philosophy o f the Church Fathers, vol. 1, Harvard Uni­ versity Press, Cambridge Mass. 19703, 102-106 [trad, it., La filosofia dei padri della chiesa, vol. 1, Paideia, Brescia 1978, 99-102]; ESCRIBANO-Alberca, Glaube und Gotteserkenntnis, cit., 39-45. 7 T ertullian o , La prescrizione contro gli eretici, a cura di C. T ib il et t i , Boria, Roma 1991, 94. 8 Su Clemente di Alessandria, cfr. T. CAMELOT, Foi et gnose: Introduction à Γétude de la connais­ sance mystique chez Clément d’Alexandrie, Vrin, Paris 1945; R. MORTLEY, Connaissance religieuse et herméneutique chez Clément d’Alexandrie, Brill, Leiden 1973; WOLFSON, The Philosophy o f the Church Fathers, cit., vol. 1, 120-127 [trad, it., 113-120]; E scribano -A lber ca , Glaube und Gotte­ serkenntnis, cit., 50-63. I riferimenti al Libro II degli Stromata sono all’edizione delle Sources chré­ tiennes, vol. 38, Cerf, Paris 1954 [trad, it., Stromati, a cura di G. P in i , Paoline, Milano 1985].

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Capitolo secondo

Clemente - riteneva che il giudizio che consegue alla conoscenza di una cosa e con il quale affermiamo la verità della nostra conoscenza fosse un tipo di fede {Stromata II, cap. 4, sez. 15, n. 5)9. Per elevarsi al di sopra delle cose sensibili e conoscere il Dio invisibile, bisogna affidarsi alla pa­ rola stessa di Dio e rendersi docili al Lògos {Stromata II, cap. 4, sez. 16, n. 2). Se i discepoli di Pitagora si sentivano giustificati ad accordare il loro assenso sulla base della parola del maestro, i cristiani hanno ragioni mol­ to più solide per prestare il loro ossequio al maestro che è Dio {Stromata II, cap. 5, sez. 24, n. 3). I filosofi confermano, a questo proposito, l’insegnamento della Scrittura: non ti pare che anch’egli [Eraclito] biasimi chi non crede? «Il mio giusto vivrà di fe­ de», ha scritto il profeta [Ab 2,4 ]. E un altro profeta: «Se non crederete, nemmeno capirete» [Is 7,9 L X X ]. [...] La fede, che certi greci calunniano giudicandola vuota e barbara, è una volontaria «prolessi», un assenso religioso, «sostanza di cose sperate, argomento di cose che non si vedono» [Eh 11,1]. [...] Altri definirono la fede un as­ senso che ci unisce a una realtà invisibile, proprio come la dimostrazione vale l’as­ senso dato con chiarezza razionale a una realtà che si ignorava. [...] Quindi colui che crede nelle Scritture divine rende saldo il suo giudizio e ne ricava come prova incon­ futabile la voce di Colui che ci ha dato le Scritture, di Dio: così la fede non diventa più una posizione corroborata per mezzo di dimostrazione. Dunque «beati coloro che non hanno visto e hanno creduto» [Gv 20,29] (,Stromata II, cap. 2, da sez. 8, n. 4 a sez. 9, n. 6).

Uidea di una «prolessi» volontaria è coscientemente presa a prestito da Epicuro. Si tratta di una sorta di presentimento che sorge spontaneamen­ te, senza applicazione o deliberazione {Stromata II, cap. 4, sez. 16, n. 3). Per fede il credente acconsente, in virtù di una grazia liberamente dona­ ta, al mistero del Dio nascosto e raggiunge l’unione con l’invisibile {Stro­ mata II, cap. 2, sez. 9, n. 1). In opposizione agli eretici gnostici, Clemente ribadisce che la fede è ricevuta liberamente e che può essere rifiutata. In quanto orientamento dinamico dello spirito umano alla verità, essa è con­ nessa con l’attività morale {Stromata II, cap. 2, sez. 9, n. 2). La «prolessi» tende a tradursi in un tipo di conoscenza {gnosis) che trova il suo fonda­ mento e la sua norma nella parola di Dio {Stromata II, cap. 2, sez. 9, nn. 3-4). Tale conoscenza non si emancipa dalla fede ma, in quanto ap­ profondimento del suo contenuto, poggia sulla parola di Dio e ad essa si rimette {Stromata II, cap. 4, sez. 16, n. 2). «Saldo nella fede è dunque lo “gnostico”» {Stromata II, cap. 11, sez. 51, n. 3). «La conoscenza diventa

9 W o lfso n , The Philosophy o f the Church Fathers, cit., vol. 1, 121 [trad, it., 114].

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dunque materia di fede, e la fede materia di conoscenza: accordo e corri­ spondenza reciproca davvero divina!» {Stromata II, cap. 4, sez. 16, n. 2). La fede è il seme, la gnosi il frutto. Contro i credenti rozzi, Clemente difende la legittimità della riflessione filosofica, ritenendo che essa possa risultare utile per difendere la fede dagli attacchi dei nemici {Stromata I, cap. 9, sez. 43, nn. 1-2). Contro gli gnostici egli sostiene, d’altra parte, che la fede semplice è per la salvezza una via più diretta e non meno sicura della fede razionalizzata {Stromata VII, cap. 10, sez. 55)10. Esistono pertanto due tipi di fede, dotati di pari valore agli occhi di Dio11. Nell’eloquente appello ai pagani del Protreptico, Clemente mostra co­ me la vera gnosi possa essere conseguita da coloro che, dopo essere stati iniziati ai venerabili misteri del Logos, si dedicano completamente al di­ scepolato. Nel Pedagogo egli mostra come il Lògos, dopo avere convertito i discepoli alla fede, li istruisca nei sentieri della sapienza. Origene (c. 185-c. 254), che succedette a Clemente nel ruolo di grande catechista di Alessandria, elaborò una teologia della fede sostanzialmente in linea con quella del suo predecessore12. Il suo insegnamento è contenu­ to in molti lavori differenti, fra i quali si possono ricordare il trattato Sui principi, gli otto libri Contro Celso, e i numerosi commentari biblici. Col termine pistis Origene indica solitamente un assenso basato sulla fiducia, anche se, occasionalmente, applica tale termine alla fiducia in quanto tale. Riponendo la propria fiducia in Dio, si presta necessaria­ mente il proprio assenso anche alla sua parola. Cristo, il Verbo di Dio, parla nella Sacra Scrittura. La sua voce non si ode soltanto nel Nuovo Te­ stamento, ma anche nell’Antico, poiché entrambi sono forme della parola di Dio. Critici come Celso non hanno diritto di obiettare che è irragione­ vole credere alla parola di Dio, poiché gli stessi filosofi percepiscono il bisogno di sottomettersi ai maestri a scopo di apprendimento. Se è ragio­ nevole credere ai fondatori delle sette filosofiche, è assai più ragionevole credere a Dio e a coloro che ne hanno predicato il messaggio andando in­ contro a gravi rischi per la propria persona. Per i più, che non hanno il tempo e il talento per intraprendere un’investigazione filosofica, la sem-

10 C l e m e n t e di A lessan dria , The Stromata, or Miscellanies, in Ante-Nicene Fathers, 10 voll., Christian Literature Publishing Co., Buffalo 1885-1896, voi. 2 ,5 3 9 . 11 Cfr. WOLFSON, The Philosophy o f the Church Fathers, cit., vol. 1, 125s. [trad, it., 115-116]. 12 Su Origene, cfr. H. C r o u zel , Origene et la «Connaissance mystique», Desclée de Brouwer, Bru­ ges 1961; I d em , Origene, Borla, Roma 1986; E scribano -A lberca , Glaube und Gotteserkenntnis, cit., 63-84.

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plice fede è una benedizione. Tale fede non è una conquista puramente umana, perché soltanto la grazia dello Spirito Santo può disporre il cuore umano ad accogliere l’annuncio cristiano. L’anima dei credenti è illumi­ nata da Cristo, vera luce. Come Clemente, Origene si preoccupò della relazione fra la semplice fede e la «fede dotta» (pistéuein egnòkénai), cioè la fede fondata sulla ra­ gione o sull’esperienza. In quanto «pistico», il cristiano crede, inizialmen­ te, nel nome di Cristo, affidandosi alla testimonianza verbale o a segni mi­ racolosi. Ma nei credenti che hanno raggiunto uno stadio più avanzato la fede è sostenuta da una percezione interiore immediata ottenuta con Γ au­ silio dei sensi spirituali. L’anima percepisce dentro di sé la presenza del Verbo e del Padre. In termini più moderni, potremmo dire che l’espe­ rienza spirituale personale perfeziona e soppianta le forme di fede pura­ mente proposizionali e «per sentito dire». L’appropriazione interiore della fede non esclude mai, nella teologia di Origene, l’esigenza di fare affidamento sulla parola della rivelazione. Co­ me spiega Hans Urs von Balthasar, per Origene «lo gnostico non cresce al di là dell’annuncio della chiesa, ma trova nel kerygma il lògos che si ri­ vela, che illumina in maniera sempre più chiara, nel senso più ampio, il credente, anzi, lo attira sempre più strettamente* come Giovanni, al suo petto e lo unisce interiormente a sé» {Job. Comm. 32 , 20/ 21 ) 13. Il passag­ gio dalla fede alla conoscenza non si realizza mai completamente nella vi­ ta presente. L’essere «spirituale» (pneumatikós) o «perfetto» (téleios) è un concetto-limite, indicante una direzione più che uno stato. Anche se tutti sono chiamati ad essere perfetti, su questa terra nessuno raggiunge la per­ fezione, se non in uno specchio, in maniera confusa (cfr. 1 Cor 13, 12). In tema di giustificazione, Origene ritiene che «all’uomo la fede viene ascritta a giustizia, anche se non ha ancora compiuto opere di giustizia», ma aggiunge che è rovinata dai peccati commessi dopo la giustificazione. Le opere buone fatte prima della fede, anche se appaiono corrette, non giustificano, «perché non dalle opere cresce la radice della giustizia»14.

13 H.U. VON B althasar, Gloria. Una estetica teologica, voi. 1: La percezione della forma, a cura di G. Ruggieri, Jaca Book, Milano 1975, 123. 14 ORIGENE, Spirito e Fuoco, a cura di H.U. VON BALTHASAR, in Origene: Il mondo, Cristo e la Chie­ sa, Jaca Book, Milano 1972, n. 67, 136s.; Commento alla Lettera ai Romani, a cura di F. COCCHINI, 2 voli., Marietti, Genova 1985-86, voi. 1, 181.

Sviluppi patristici e m edievali

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I padri post-niceni greci

Durante l’età aurea della teologia patristica greca, i padri cappadoci Basilio Magno (330-379), Gregorio di Nazianzo (c. 329-390) e Gregorio di Nissa (c. 335-c. 394) - si mossero, in polemica con il razionalismo di Eunomio e di altri tardi ariani, in direzione di una teologia mistica e fi­ deistica della fede. Tutti e tre insistono vigorosamente sui limiti della ra­ gione umana e sulla necessità di affidarsi alla parola di Dio. Basilio defini­ sce la fede un «consenso scevro da esitazioni dato a ciò che si è udito, con piena certezza della verità di ciò che per la grazia di Dio viene an­ nunciato»15. La ragione - afferma Basilio - conduce alla conoscenza delFesistenza di Dio; tale conoscenza ci mette però in grado di fare affida­ mento sulla parola di Dio nella fede, e così di pervenire ad ulteriori cono­ scenze. Nella vita presente la nostra conoscenza delle cose divine è co­ munque incompleta e frammentaria16. Gregorio di Nazianzo, intimo amico di Basilio e vescovo di Costanti­ nopoli durante parte del concilio del 381, espose le sue opinioni su fede e ragione nei Cinque discorsi teologici (Discorsi nn. 27-31) pronunciati poco prima del concilio. In essi egli sostenne che la ragione, debitamente adde­ strata, è in grado di percepire i propri limiti e il bisogno di essere guidata dalla fede (Discorso 28,28)17. In un passo eloquente egli spiega come la fe­ de, lungi dall’annientare la ragione, sia necessaria per portarla a perfezio­ ne: Quando, infatti, ci facciamo forti dell’efficacia del nostro parlare e lasciamo da parte la nostra fede e distruggiamo con le nostre ricerche l’autorità dello Spirito e poi il nostro ragionamento viene superato dalla grandezza delle cose - e verrà superato senza dubbio, poiché esso prende le mosse da un debole strumento, cioè dalla no­ stra intelligenza - che cosa avviene? Avviene che la debolezza del nostro ragiona­ mento sembra una debolezza del mistero cristiano, e così la bravura del discorso di­ venta «l’annientamento della croce», come sembra anche a Paolo. Ché la fede è il completamento della nostra ragione (Discorso 2 9 ,2 1)18.

15 La fed e, in Opere ascetiche, a cura di U. N e r i , UTET, Torino 1980, 86-97, qui 88. 16 BASILIO di C esarea , Letter 235 to Amphilochius, in Nicene and Post-Nicene Fathers, voi. 8, Chri­ stian Literature Co., New York 1895, 374s. 17 GREGORIO di N azianzo , Cinque discorsi teologici, a cura di C. M oreschini, Città Nuova, Roma 1986. 18 G regorio di N azianzo , Cinque discorsi teologici, cit., 126-127.

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Polemizzando con gli eunomiani, Gregorio di Nissa, fratello minore di Basilio, sostenne analogamente che Dio, essendo essenzialmente incom­ prensibile, non può essere avvicinato che attraverso Io strumento della fe­ de. Neppure a Mosè, che pure fu vicinissimo a Dio, venne concesso di contemplare il volto divino19. I misteri della fede non possono essere do­ minati da alcuna gnosi umana. La fede deve perciò iniziare come sempli­ ce sottomissione all·annuncio del vangelo. Gregorio porta ad esempio il caso di Abramo, che fu ritenuto giusto perché abbandonò ogni falsa cu­ riosità e credette alla parola di Dio20. Non è la gnosi, ma la semplice fede, a condurre alla giustificazione. La fede è per Gregorio il presupposto dell’ascesa mistica dell’anima a Dio. Nel Commentario sul cantico di Salomone, Gregorio descrive la fede come un principio dinamico, una freccia che indirizza la sposa ad un in­ contro non concettuale con Dio21. Nella Vita di Mosè, Gregorio scrive an­ cora che «nella tenebra che impediva di vedere, ti sarai avvicinato a Dio con la fede»22. Nella spiritualità dinamica di Gregorio di Nissa la fede è intimamente connessa con la speranza. Il Nisseno parla delle «considerazioni nate dal­ la fede che rinsaldano la speranza dei beni che ci attendono» (Vita di Mo­ sè, 219). La meta sperata è presente provvisoriamente nella stessa fede in quanto «fondamento delle cose che si sperano». Il vescovo e teologo antiocheno Teodoreto di Ciro (c. 393-c. 458) de­ dicò alla fede il capitolo iniziale della sua somma apologetica intitolata Guarigione delle malattie greche, o la verità evangelica provata partendo dalla filosofia greca23. Lanalisi è ampiamente debitrice di Clemente di Alessandria, dal quale Teodoreto ricava la concezione della fede come as­ senso volontario mediante il quale la mente contempla le realtà invisibili (1.91; SC p. 128; cfr. Clemente, Stromata, Libro II, cap. 2, sez. 9, n. 1). Teodoreto insiste, come Clemente, sul fatto che chiunque voglia appren-

19 GREGORIO DI N issa, La vita di Mosè, nn. 232-233, a cura di M. SlMONETTi, Fondazione Lorenzo Valla - Mondadori, Milano 1984. 20 GREGORIO DI N issa, Contra Eunomium II, nn. 92-93; in Gregorii Nysseni opera, a cura di W. JAEGER, voi. 1, Brill, Leiden 1960, 253s. [trad, it., Contro Eunomio, in Teologia trinitaria, Rusconi, Milano 1984]. 21 G regorio di N issa, In Canticum, canticorum, Oratio VI, a cura di W. J a eg e r , voi. 6, Brill, Lei­ den 1960, 233s. [trad. it. in Omelie sul Cantico dei Cantici, a cura di C. M oreschini , Città Nuova, Roma 1988, 151-168]. 22 G regorio di N issa , Vita di Mosè II cit., n. 315,249. 23 TEODORETO di C iro , Thérapeutique des maladies helléniques, a cura e di P. CANIVET (Sources chrétiennes, 57), Cerf, Paris 1958.

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dere un commercio o una professione o acquisire competenza nella filo­ sofia o nella religione, deve iniziare col credere agli insegnanti di lui più esperti. Per comprendere le cose divine,, dobbiamo iniziare col credere che Dio «esiste e che egli ricompensa coloro che lo cercano» (Eh 11,6). Come Tocchio ha bisogno della luce per vedere le cose corporee, così la mente ha bisogno della fede per percepire le cose divine (1.79; SC p. 124). La semplice fede è resa perfetta dall’aggiunta della conoscenza (1.116; SC p. 134). Nel VI secolo la teologia patristica greca imboccò una direzione forte­ mente mistica, contrassegnata dalla teologia negativa neoplatonica. Dio­ nigi lo Pseudoareopagita (c. 500), pur usando raramente il termine pistis, attribuisce evidentemente grande importanza alla fede come fondamento della teologia mistica. La fede - egli scrive - è «il fondamento unico dei credenti che li pone nella verità e la verità in essi in una identità che non può cambiare, in quanto coloro che credono posseggono la pura cono­ scenza della verità. Infatti, se la conoscenza unisce insieme coloro che co­ noscono e le cose conosciute e l’ignoranza è causa per l’ignorante di un continuo cambiamento e di divisione con se stesso, secondo la Sacra Scrittura nulla allontanerà colui che crede nella verità dal fondamento della vera fede [cfr. E/4,13], nella quale avrà la permanenza di una iden­ tità immobile e immutabile»24. La fama di Dionigi si deve soprattutto alla sua dottrina mistica dell’ascesa a Dio mediante un’esperienza estatica o connaturalità (patheia o sympàtheid). Tale esperienza, dono dalla grazia, informa il credente dei misteri che non si possono insegnare per mezzo di un’unione misteriosa, di carattere più passivo che attivo25. Massimo il Confessore (c. 580-662) inserì la teologia mistica dello Pseudoareopagita ancora più saldamente nella tradizione del platonismo alessandrino. Per Massimo la fede è un’unione immediata dello spirito con Dio26. E l’atto supremo in virtù del quale lo spirito entra in quella che Dionigi aveva descritto come la «luminosa oscurità» di Dio. Contra­ riamente a quei teologi che vedono nella fede esclusivamente il punto di partenza di un percorso che conduce alla vera conoscenza (gnosis), Mas-

24 D ionigi lo P seudoareopagita, De divinis nominibus, cap. 7, η. 4 (PG 3, 872C-D) [trad, it., I nomi divini, in Tutte le opere, a cura di E. B ellini, Rusconi, Milano 1981, 243-397, qui 353-356]. 25 D ionigi lo P seudoareopagita , De divinis nominibus, cap. 2, η. 9 (PG 3, 648B). Questi passi di Dionigi sono discussi da R. ROQUES, LUnivers dionysien: Structure hiérarchique du monde selon le Pseudo-Denys, Aubier, Paris 1954, 129s. 26 MASSIMO IL C o n fesso re , Quaestiones ad Thalassium, η. 34 (Corpus Christianorum, series graeca, voi. 7, Brepols, Turnhout 1980, 237; PG 90,377B).

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Capitolo secondo

simo ritiene che la gnosi sia resa perfetta dalla fede. Egli scrive perciò: «Le nozioni degli esseri possiedono per natura congiunti i propri principi in vista della loro dimostrazione e da essi ricevono per natura la loro deli­ mitazione; resistenza di Dio invece viene creduta soltanto attraverso i principi che si trovano negli esseri ed egli, in modo più evidente di ogni dimostrazione, offre ai più la capacità di credere e confessare la sua reale esistenza. Infatti la fede è una conoscenza vera [gnosis] che possiede principi indimostrabili, essendo come sostanza [hypostasis] di cose supe­ riori alla mente ed alla ragione»27. La fede non è dunque, per Massimo, un tipo inferiore di conoscenza. Superando la conoscenza naturale, essa si situa al livello massimo della conoscenza umana ottenibile in questa vita. Come lo Pseudoareopagita, Massimo vede nella solidità della fede l’effetto di un’unione spirituale con Dio raggiunta attraverso l’abbandono alla vocazione della grazia28.

I padri latini post-niceni

Gli autori latini del IV secolo - Ilario, Mario Vittorino ed Ambrogio si occupano della fede in maniera incidentale, in connessione con i loro lavori polemici contro l’arianesimo dell’epoca. Essi sottolineano, come Tertulliano, il valore della fede come semplice sottomissione alla parola di Dio nella forma in cui ci perviene attraverso la Scrittura e la tradizione apostolica. Diffidenti nei confronti della filosofia, costoro vedono nella fede l’unico sentiero affidabile per ottenere la vera conoscenza di Dio. Fra i padri occidentali, Agqgitiajd’I ^ (354-430) occupa una posi­ zione unica per il particolare successo conseguito nel sintetizzare le con­ cezioni di Paolo e di Giovanni, nonché quelle di Tertulliano e dei teologi

27 M assimo IL C o nfessore , Capita ducenta ad theologiam... spectantia 1,9 {PG 90,1083) [trad, it., Il Dio-uomo. Duecento pensieri sulla conoscenza di Dio e sull’incarnazione di Cristo, a cura di A. C e r e SA-Gastaldo , Jaca Book, Milano 1980,31-32]. 28 In termini che ricordano lo Pseudoareopagita, Massimo può scrivere: «E perfetta la mente che per mezzo della vera fede in suprema ignoranza supremamente conosce Colui che è supremamente inconoscibile»: Centuria de cantate 3,99 (PG 90,1048) [trad, it., Capitoli sulla carità, a cura di A. C e RESA-Gastaldo , Studium, Roma 1963, 191]. Il rapporto fra i due autori è menzionato da H.U. VON BALTHASAR, Kosmische Liturgie: Das Weltbild Maximus des Bekenners, Johannes Verlag, Einsiedeln 19612, 339 [trad, it., Liturgia cosmica. ILimmagine dell’universo in Massimo il Confessore, AVE, Roma 1976].

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alessandrini e cappadoci, con la sua personale esperienza religiosa, che fu profonda e complessa29. La sua teologia della fede ha impresso un’im­ pronta profonda e duratura sul cristianesimo occidentale, sia cattolico che protestante. In rapporto al tema della conoscenza religiosa si possono distinguere, schematicamente, tre diversi periodi all’interno del pensiero agostinia­ no30. Nei primi scritti, influenzati dai neoplatonici, Agostino ritiene che l’intelletto umano veda ostacolata la sua conoscenza di Dio dall’essere immerso nel regno della materia e delle apparenze sensibili. Agostino prega col salmista: «Crea in me, o Dio, un cuore puro» {Sai 51,12) e ri­ cerca nell’ascetismo tale purificazione. Dopo l’ordinazione al sacerdozio, in opere come le Confessioni, Agostino vede nell’orgoglio, più che nella sensualità, l’ostacolo maggiore alla conoscenza di Dio. Per conoscere Dio l’anima deve umiliarsi mediante l’obbedienza della fede. Durante questo periodo, Agostino è impressionato dall’asserzione di Pietro secondo cui Dio ha purificato i cuori dei pagani convertiti «con la fede» {At 15,9). Negli scritti tardivi, come il Commento a Giovanni e la Città di Dio, il ve­ scovo Agostino descrive la fede soprattutto come una decisione del Dio che amorevolmente discende nelle tenebre del mondo per salvare quanti sono bisognosi di redenzione. Lasciare che l’amore di Dio si impadroni­ sca dei nostri cuori, muovendoli al dono e al servizio, è il modo migliore per sconfiggere i falsi amori mondani che ci impediscono di conoscerlo veramente. La dottrina della fede di Agostino viene dunque arricchita e integrata, nei lavori più maturi, da un più forte accento sulla carità. Egli non ripudia però la sua precedente dottrina dell’umiltà e dell’obbedien­ za. Per Agostino la fede è allo stesso tempo possibile e necessaria perché la luce della verità divina risplende nelle tenebre del mondo. Queste ulti­ me ci impediscono di afferrare la luce altrimenti che attraverso coloro che le recano testimonianza. Per accogliere tali testimoni come «inviati da Dio» {Gv 1,6) dobbiamo avere fede {De Trin. 13.1.2). Credere è assen­ tire alla verità di ciò che è detto {De spiritu et litt. 21.4).

29 Sulla dottrina della fede di Agostino, cfr. R.E. CUSHMAN, Faith and Reason in the Thought of Augustine, in Church History 19 (1950) 271-294; M. LÖHRER, Der Glauhensbegriff des heiligen Augu­ stinus in seiner ersten Schriften bis zu den Confessiones, Benziger, Einsiedeln 1955; R. A ubert , Le pro­ blème de l’acte de foi, E. Warny, Louvain 19502, 21-30; E. PORTALIÉ, A Guide to the Thought of St. Augustine, Regnery, Chicago 1960, 114-124; WOLFSON, The Philosophy o f the Church Fathers, cit., voi. 1, 127-140 [trad, it., 120-130]; ESCRIBANO-A lber ca , Glaube und Gotteserkenntnis, cit., 116-125. 30 Cfr. J. R atzinger , Der Weg der religiösen Erkenntnis nach dem heiligen Augustinus, in Kyriakon: Festschrift Johannes Quasten, Aschendorff, Münster 1970,553-564.

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Capitolo secondo

Secondo un’altra definizione di Agostino, credere è «pensare assenten­ do» («cum assensione cogitare», De praedest. sanctorum 2 5 ) e implica ne­ cessariamente un esercizio del pensiero o della ragione. Prima di avere fe­ de, noi facciamo uso del nostro intelletto per afferrare il significato del­ l’annuncio e per soppesare la validità delle ragioni che spingono ad as­ sentirvi in quanto vero. «Nessuno certo crede alcunché se prima non ha pensato di doverlo credere» (ibid.). Le persone sono indotte a credere da prove o da segni, ma ciò che muove una persona può non avere effetto su un’altra (De div. quaest. ad Simpl libri 2). Quando Agostino cerca di of­ frire, secondo il precetto di 1 Pt 3,15, le ragioni che gli appaiono più per­ suasive, menziona solitamente i miracoli della Scrittura, ma si sofferma di preferenza sulla meravigliosa espansione ed unità cattolica della chiesa (De fide rerum q. non vid. 7.10). Per Agostino l’approccio razionale alla fede è insufficiente. Siccome questa è un assentire, nessuno crede alcunché senza volerlo. La volontà è diretta dall’amore: «Con l’amore si domanda, con l’amore si cerca, con l’amore si aderisce alla rivelazione, con l’amore infine si rimane in quello che è stato rivelato» (De moribus ecclesiae, Libro I, cap. 17, η. 31). La fe­ de che giustifica, diversamente dalla fede dei demoni (Gc2,19), non con­ siste soltanto nel piegarsi a prove evidenti: essa è una sottomissione amo­ rosa a Cristo Signore (credere Christo) e un movimento dell’anima che ri­ cerca l’unione con Cristo (credere in Christum). Commentando il testo di Gv 6,29 («Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha manda­ to»), Agostino si chiede: «Che significa dunque credere in lui? Credendo amarlo e diventare suoi amici, credendo entrare nella sua intimità e esse­ re incorporati alle sue membra» (In Joan. Evang. 29.6). Specialmente negli scritti tardivi, rivolti contro i pelagiani, Agostino in­ siste con forza sul fatto che la fede è puro dono, liberamente concesso da Dio. Per credere in Cristo dobbiamo essere attirati a lui, e questa attra­ zione è opera del Padre (Gv 6,44; In Joan. Evang. 26.7). Agostino cita fre­ quentemente, a questo proposito, il testo paolino di 2 Cor 3,5: «Non però che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio» (cfr. De praedest. sanct. 2 5 ). Sic­ come non si può credere senza pensare - argomenta Agostino - il credere non può venire esclusivamente da noi stessi. Con le opere di apostolato, gli esseri umani possono piantare e innaffiare, ma i loro sforzi risultano inutili, se non è «Dio che fa crescere» (1 Cor 3,7; In Joan. Evang. 26,7). Il rumore delle parole umane che giungono alle nostre orecchie non servi­ rebbe a nulla se Dio, il maestro interiore, non si fosse posto egli stesso si­ lenziosamente all’opera (ibid).

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La fede è necessaria per la giustificazione perché il giusto vive per la fede {Ab 2,4; In Psalm. 109.8). La giustificazione non si consegue «me­ diante la legge delle opere, ma la legge della fede, non mediante la lettera, ma mediante lo Spirito, non per i meriti delle azioni, ma per libera gra­ zia» {De spiritu et litt. 22). Dalla fede «hanno origine i meriti di- ogni spe­ cie» e inversamente, come dice l’Apostolo, «tutto ciò che non deriva dal­ la fede è peccato» {Rm 14,23; Ep. 194.3.9). La fede che giustifica è sempre, per Agostino, fede che scaturisce dal­ l’ascolto e, più specificamente, dall’ascolto di Cristo unico Mediatore: «tutti i giusti, cioè tutti i veri adoratori di Dio esistiti sia prima che dopo l’incarnazione di Cristo, non hanno avuto né hanno la vita soprannatura­ le se non in grazia della fede nell’incarnazione di Cristo (in cui risiede la pienezza della grazia)» {Ep. 190.8). «Se [Cornelio] avesse potuto essere salvo senza la fede in Cristo, non sarebbe stato inviato come architetto della sua edificazione l’apostolo Pietro» {De praedest. sanctorum 7.12). Il rapporto fra fede e intelletto è reciproco. Prima di avere la fede, noi dobbiamo avere una qualche comprensione, per giudicare se e che cosa credere. Ma vi sono molte cose che non possiamo comprendere se non avendole prima credute; altrimenti il profeta non avrebbe detto: «se non crederete, non comprenderete» {Is 7,9 LX X ; In Psalm. 118; Serm. 18.3; cfr. Ep. 70.1.3-4). La fede ha i suoi occhi, mediante i quali percepisce, in qualche modo, la verità di ciò che non è ancora stato visto. Quando cre­ diamo, noi ricerchiamo con un occhio alla comprensione, e comprendia­ mo per cercare ancora di più {De Trin. 9.1.1). La fede ci prepara alla visione di ciò che non vediamo. Il suo merito consiste nel credere ciò che rimane nascosto, e la sua ricompensa è la vi­ sione di ciò che è creduto senza essere visto {In Psalm. 109.8; Serm. 43.1.1). Grazie alla fede possiamo amare fin da ora il Dio in cui crediamo {De Trin. 8.4.6). Osservando i comandamenti per amore, ci prepariamo a vedere. Con la fede purifichiamo i nostri cuori {At 15,9), cosa assolutamente necessaria, poiché sono i puri di cuore che vedranno Dio (Mt 5,8; In Psalm. 109.8). La fede, pur avendo luogo nel tempo, ha pertanto un oggetto eterno, e conduce il credente all’eternità {De Trin. 14.1.3). In epoca post-agostiniana, il pelagianesimo continuò a svilupparsi nella Gallia meridionale in una forma moderata che avrebbe poi ricevuto il no­ me di semipelagianesimo. Nella seconda metà del V secolo Fausto di Riez, un monaco di Lerins, sostenne, contro un predestinazionismo ec­ cessivo, che la natura umana ha conservato anche dopo la caduta il pote­ re di compiere un atto di fiduciosa adesione {credulitatis affectus) il quale, fortificato dalla grazia divina, può svilupparsi in una compiuta vita di fe-

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Capitolo secondo

de. Gli agostiniani ritennero che questa posizione facesse troppo credito alla natura decaduta. Qualche tempo dopo la morte di Fausto, la sua dot­ trina dell’«inizio della fede» fu condannata dal secondo concilio di Oran­ ge (529 d.C.), una piccola assemblea di vescovi capeggiati da Cesario di Arles, egli stesso un agostiniano moderato. Questo concilio insegnò al ca­ none 5 (OS 375) che r«inizio della fede» (initium fidei) o la «volontà di credere» {credulitatis affectus) mediante cui entriamo inizialmente in co­ munione con Dio non sono il prodotto dei nostri poteri naturali, ma un dono dello Spirito Santo operante nei nostri cuori31. Al canone 7 il mede­ simo concilio insegnò che è impossibile assentire al messaggio salvifico del vangelo «senza l’illuminazione e l’ispirazione dello Spirito Santo, che dà a tutti [i credenti] la soavità nel consentire e nel credere alla verità» {OS ò li). Gli atti del concilio di Orange andarono perduti nel Medioevo, ma, quando furono ricuperati nel XV I secolo32, vennero accettati dai cattolici e dalla maggior parte dei protestanti come validi e decisivi. Come vedremo, sia il Vaticano I che il Vaticano II citano il secondo concilio di Orange quanto alla necessità della grazia dello Spirito Santo per ogni atto salvifi­ co di fede. Anche se Orange usa probabilmente il termine «fede» in sen­ so lato, in un’accezione più ampia di quella consueta nella teologia mo­ derna, la sua dottrina si applica certamente alla fede nel senso più ristret­ to di risposta credente alla rivelazione.

Ualto Medioevo

In Occidente la teologia della fede rimase per alcuni secoli sotto l’egi­ da di sant’Agostino. Pascasio Radberto (c. 790-c. 859) è un esempio tipi­ co dell’agostinismo del Rinascimento carolingio. Il suo trattato Sulla fede,

31 Nella teologia moderna questo canone è stato interpretato nel senso che è impossibile preparar­ si alla fede e alla giustificazione senza la grazia di Dio. Nel contesto del quinto e del sesto secolo, tut­ tavia, l’espressione initium fidei non significava probabilmente un movimento verso la fede, ma il pri­ mo atto di fede, e il credulitatis affectus non era la volontà di credere, ma una risposta amorosa della fede in movimento verso l’amore della carità {affectus caritatis). Cfr. J. C h ÉNÉ, Que signifiaient «Ini­ tium fidei» et «affectus credulitatis» pour les Semipélagiens?, in Recherches de science religieuse 35 (1948)566-588. 32 Sulla perdita e il ritrovamento degli atti del concilio, cfr. H. B o uillard , Conversion et grâce chez S. Thomas d’Aquin, Aubier, Paris 1944, 92-122.

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la speranza e la carità (PL 120,1387-140) segue le linee generali delle Con­ fessioni e del De Trinitate di Agostino33. Come molti padri, Pascasio cita Is 7,9 nella versione dei LX X: «Se non crederete, non comprenderete». Come molti teologi antichi, egli considera Eb 11,1 una definizione rivela­ ta della fede. Egli descrive la fede come una sorta di alleanza con Dio che richiede fiducia e fedeltà (PL 120,1391). Egli è convinto che la fede «che opera mediante l’amore» sia un privilegio dei cristiani, e che essa sola conduca alla giustificazione (PL 120,1402 e 1417-1421). Giovanni Scoto Eriugena (c. 810-c. 877) elaborò con impressionante erudizione un sistema originale influenzato, da un lato, da Ambrogio ed Agostino e, dall’altro, dallo Pseudoareopagita e da Massimo il Confesso­ re34. Negando che fede e ragione potessero mai entrare in conflitto fra lo­ ro, egli applicò audacemente il ragionamento dialettico all’eredità patri­ stica. Egli non fu però un razionalista nell’accezione moderna del termi­ ne. Riconoscendo che la ragione umana si trova, dopo il peccato origina­ le, in uno stato bisognoso di guarigione, egli vide nella fede un necessario ausilio della ragione nella sua ricerca della verità. La fede accende il lume della speculazione e addita la via della comprensione filosofica. Anseimo di Canterbury (1033-1109) proseguì l’indagine delle relazioni fra fede e ragione. Nel sottotitolo originario del Proslogion egli espresse il leitmotiv della sua teologia: «Fede che cerca l’intelligenza»35. Con le sue diverse meditazioni teologiche, Anseimo offre un classico esempio di ra­ gione contemplativa in cammino dalla semplice fede alla visione celeste cui aspira. Credere non è, per Anseimo, una faccenda del solo intelletto: la mente è inclinata a credere da un cuore che ama. Credendo, la persona entra nella sfera del divino in quanto questa la attira a sé (Monologion 75). La fede costituisce, nell’accezione anselmiana, una semplice sottomis­ sione alla parola di Dio presentata dalle testimonianze della Scrittura e

33 Su Pascasio, cfr. E . GÖSSMANN, Glaube und Gotteserkenntnis im Mittelalter (Handbuch der Dogmengeschichte, I/2b), Herder, Freiburg 1971, 3-7. 34 Su Giovanni Scoto Eriugena, cfr. E. GiLSON, La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del X IV secolo, La Nuova Italia, Firenze 1973, 240-267; J. PELIKAN, The Christian Tradition, voi. 3: The Growth o f Medieval Theology (600-1300), University of Chicago Press, Chicago, 93-105; GÖSSMANN, Glaube und Gotteserkenntnis, cit., 7-9. 35 Su Anseimo, cfr. A. D u l l e s , A History o f Apologetics, Corpus, New York 1971, 76-81; J. H o p k in s , A Companion to the Study o f St. Anselm, University of Minnesota Press, Minneapolis 1972, 38-66; K . KiENZLER, Glauben und Denken bei Anselm von Canterbury, Herder, Freiburg 1981; B a lt h a sa r , Gloria, cit., vol. 2, 189-234; GÖSSMANN, Glaube und Gotteserkenntnis, cit., 10-14.

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della tradizione. Essa è una precondizione della comprensione. Anseimo si ritiene tenuto ad accettare questa posizione poiché sta scritto nella Bib­ bia che senza credere è impossibile comprendere (Proslogion 1; cfr. Is 7,9 LXX). Altrove egli presenta una motivazione: «Colui che non crede, in­ fatti, non può sperimentare, e colui che non ha sperimentato non può co­ noscere». Come l’esperienza supera Fascolto, così la conoscenza per esperienza supera la conoscenza per «sentito dire» (.Epist. de Ine. Verbi 1). Lo sforzo anselmiano di sistematizzare la fede attraverso un uso rigo­ roso della dialettica anticipa la scolastica medievale. A causa di certe am­ biguità presenti nella sua opera, Anseimo è stato variamente interpretato come un fideista o come un razionalista. Il modo migliore per compren­ derlo è di attribuirgli la ricerca di una via mediana. Pur negando che i mi­ steri della fede possano essere padroneggiati dalla mente umana, egli ha fiducia che possano essere sostenuti da «ragioni necessarie». La tensione fra l’incipiente scolastica delFxi secolo e la teologia mona­ stica precedente è esemplificata dal conflitto fra Pietro Abelardo e Ber­ nardo di Chiaravalle. Anche se si porta dietro una certa nomea razionali­ stica, Abelardo (1079-1142) riconobbe sempre resistenza di misteri che «devono essere creduti ma non possono essere spiegati» (Theologia Chri­ stiana III; PL 178,1226)36. Egli sostenne, tuttavia, che i cristiani devono mostrare, contro chiunque attacchi la loro fede, che non è possibile pro­ vare la falsità delle loro credenze (ibid., c. 1227). Sostenendo contro Ber­ nardo che la «fede cieca» di Abramo fu una grazia speciale che non può essere normativa per i cristiani, Abelardo mise in guardia contro una fede avventata citando YEcclesiastico: «Chi si fida con troppa facilità è di ani­ mo leggero» (Sir 19,4). Abelardo riteneva che la ragione potesse conseguire, senza la grazia, un inizio di fede («primordia fidei»: Introductio ad theologiam, Libro II, sez. 4; PL 178,1051). Pur ammettendo che questo risultato della ragione non è meritorio, egli sostenne che contribuisce alla fede soprannaturale che sorge sotto Fazione della grazia e della carità. La ragione ha sempre, per Abelardo, una qualche parte nell'assenso di fede. Il credente deve, quanto meno, farne uso per decidere quale auto­ rità, fra le molte in competizione, deve accettare. La ragione deve essere usata, inoltre, per comprendere il contenuto della predicazione e dell’in-

36 Su Abelardo, cfr. H. LlGEARD, Le Rationalisme de Pierre Abélard, in Revue des sciences religieu­ ses 2 (1911) 383-395; L. G rane, Peter Abelard, Harcourt, Brace & World, New York 1970; GÖSSMANN, Glaube und Gotteserkenntnis, cit., 14-19; D u ll es , A History o f Apologetics, cit., 82-84.

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segnamento, e ancora nel senso che la fede è essa stessa un atto dell’intelligenza (intellectus). L’intelligenza della fede non arriva, comunque, alla conoscenza {cognitio) propria dei beati in paradiso. Come altri teologi del tempo, Abelardo tentò di sostenere la sua con­ cezione della fede facendo ricorso a Eb 11, 1, e specialmente alla seconda parte del versetto, che recita, nella Vulgata, «argumentum non apparen­ tium». Abelardo lesse in queste parole una sorta di analisi intellettuale, che chiamò existimatio o probatio. In un importante testo egli scrisse: «La fede è chiamata prova (existimatio) delle cose che non appaiono, mentre conoscere è sperimentare le cose stesse attraverso la loro presenza» (In­ troductio ad theologiam, Libro II, sez. 3; PL 178,1051). Existimatio sem­ bra significare, per Abelardo, un tipo di conoscenza provvisorio e insuffi­ ciente che non arriva all’esperienza della visione. Bernardo di Chiaravalle (c. 1091-1152) riflette la visione teologica del­ la tradizione monastica37. Nei suoi sermoni egli elaborò una teologia trini­ taria di carattere profondamente devozionale, in cui le tre virtù teologali sono connesse con le tre persone divine e con le tre facoltà della memo­ ria, della ragione e della volontà. La fede - riteneva Bernardo - illumina la ragione, la speranza solleva la memoria, e la carità purifica la volontà. Si devono distinguere tre specie di fede. Attraverso la fede nei segni, noi crediamo nell’onnipotenza divina; attraverso la fede nelle promesse, con­ fidiamo che Dio compia tutto ciò che ha promesso; e attraverso la fede nei precetti amiamo il Dio in cui crediamo e speriamo. La fede senza le opere è morta (Sermone 45; PL 183,667-669). Nel De Consideratione, l’ultimo e il più lungo dei suoi trattati, scritto dietro richiesta di papa Eugenio III, Bernardo operò una distinzione fra intelligenza, fede e opinione. L’intelligenza si basa sulla ragione, la fede sull’autorità, e l’opinione sulla somiglianza. L’opinione manca di certezza, la fede ha una certezza velata, e l’intelligenza ha una certezza manifesta (PL 182,790). La fede è definita «anticipazione volontaria e certa della verità non ancora manifesta» (fides est voluntaria quaedam et certa praeli-

37 Su Bernardo di Chiaravalle, cfr. E. GlLSON, La teologia mistica di san Bernardo, Jaca Book, Mila­ no 1987; E. KLEINEIDAM, Wissen, Wissenschaft, Theologie bei Bernhard von Clairvaux, in Bernhard von Clairvaux, Mönch und Mystiker, a cura di J. L o r t z , F. Steiner, Wiesbaden 1955, 128-167; E. GÖSSMANN, Zur Auseinandersetzung zwischen Abaelard und Bernhard von Clairvaux um die Gott­ eserkenntnis im Glauben, in Petrus Abaelardus (1079-1142), a cura di R. THOMAS (Trierer theologi­ sche Studien, 38), Paulinus-Verlag, Trier 1980, 233-242. Sulle caratteristiche della teologia monasti­ ca, cfr. J. L e c l e r q , Cultura umanistica e desiderio di Dio. Studio sulla letteratura monastica del Medio Evo, Sansoni, Firenze 1965, 247-301.

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Capitolo secondo

batió necdum propalatae veritatis). Una fede che manchi di certezza non è vera fede, ma opinione. Ciò che già conosciamo oscuramente sotto il velo della fede ci renderà beati quando lo conosceremo mediante la visione (ibid., 791). Sebbene le divergenze fra Abelardo e Bernardo fossero reali e non pu­ ramente verbali, la comunicazione era ostacolata, fra i due, da difficoltà terminologiche. Mentre Abelardo riteneva che abbiamo Xintellectus in questa vita e la cognitio nella vita futura, Bernardo pensava che abbiamo già la cognitio, ma che dobbiamo attendere la beatitudine futura per ave­ re Xintellectus. Bernardo interpretava Xexistimatio di Abelardo come se equivalesse a una pura aestimatio od opinio, e dunque ad un assenso mera­ mente probabile, e perciò gli ritorceva che secondo Eb 11,1 la fede è «fondamento delle cose che si sperano». Il termine «fondamento» - rile­ vava Bernardo - indica qualcosa di «fisso e certo» (Lettera 190 a Inno­ cenzo II, Tractatus de Erroribus Abelardi, PL 182,1062). La teologia della fede di impronta affettiva e volontaristica difesa da Bernardo era largamente diffusa nel monacheSimo dell’xi secolo. G u­ glielmo di Saint-Thierry (1080/85-1148/49) sottolinea, prendendo le par­ ti di Bernardo contro Abelardo, la dimensione affettiva dell’esperienza di fede, e si avvicina a una specie di gnosi mistica38. La volontà - egli insiste - deve spingere la ragione a prestare il proprio assenso alla parola di Dio e aggiunge che senza la grazia essa è impotente. La fede fa affidamento sull·autorità di Dio, attestata da numerosi ed eminenti testimoni umani. Una volta che si sia creduto, la vera fede reca con sé una certa esperienza o anticipazione delle cose in cui, secondo Eb 11, 1, speriamo (Expositio in Epist. ad Romanos^ PL 180,655). Un altro teologo monastico, Ugo di S. Vittore (1098-1141), presenta, nella decima parte del Libro I della sua opera sui Sacramenti della fede cristiana, un piccolo trattato sulla fede che si occupa di gran parte delle questioni ormai usuali39. Commentando Eb 11,1, egli afferma che è giusto definire la fede «fondamento» delle cose sperate, perché essa fa sì che le

38 Su Guglielmo di Saint-Thierry, cfr. G. E n g l h a r d t , Die Entwicklung der dogmatischen Glaubens­ psychologie in der mittelalterlichen Scholastik vom Ahaelardstreit (um 1140) bis zu Philipp dem Kanz­ ler (gest. 1236) (Beiträge zur Geschichte der Philosophie und Theologie des Mittelalters, 30/4-6), Aschendorff, Münster 1933, 10-17; G ö SSMANN, Glaube und Gotteserkenntnis, cit., 23-27. 39 UGO d i S. V it t o r e , De sacramentis christianae fidei, Libro I, Parte 10 (PL 176,327-331). Su Ugo di S. Vittore, cfr. ENGLHARDT, Die Entwicklung, cit., 17-22; GöSSMANN, Glaube und Gotteserkenntnis, cit., 28-35.

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benedizioni future in cui speriamo siano già presenti in noi, «e la fede è la loro sussistenza in noi» (cap. 2, c. 328D). L’elemento formale o sostanza della fede consiste, per Ugo, nell’affetto (o affezione: affectus), ma il suo elemento materiale è di tipo conoscitivo, poiché non possiamo credere se il contenuto della fede non è reso manifesto al nostro intelletto (cap. 3, c. 331B). La fede è superiore all’opinione o alla congettura ma è inferiore, in quanto conoscenza, alla scienza (.scientia), che tuttavia sorpassa quanto a merito (cap. 2, cc. 330D e 331 A). La fede può crescere in relazione al­ l’affetto o alla cognizione. Avanzando nell’affetto, possiamo ricevere più grandi visitazioni della grazia, e così avere una certa anticipazione delle benedizioni verso cui ci affrettiamo (cap. 4, c. 333C). Pietro Lombardo (c. 1095-1160), educato alla scuola di San Vittore, elabora la sua concezione della fede soprattutto nel Libro III delle sue Sentenze1*°. Nello stile scolastico consono a un manuale di questo tipo, egli tratta la fede, più che come un’affezione o un moto dell’anima, come una virtù da analizzare secondo le categorie della psicologia filosofica. Analizzando le relazioni intercorrenti fra le tre virtù teologali, Pietro sostie­ ne che la fede è il presupposto della speranza e della carità. Essa è detta «fondamento delle cose che si sperano» perché le fa sussistere nell’anima (Libro III, Dist. 23, n. 9; c. 807). La fede offre la base della speranza: non possiamo sperare ciò in cui non crediamo. Allo stesso modo, non possia­ mo amare ciò in cui non crediamo. La fede precede la carità, ma la fede senza la carità non è una virtù, perché la carità, come insegna Ambrogio, è la madre di tutte le virtù (Dist. 23, n. 3; c. 805). La carità non è, secon­ do Pietro, un dono puramente creato: è il dono di sé dello Spirito Santo effuso nei nostri cuori (Dist. 17, n. 6; c. 566; cfr. Km 5,5). In quanto virtù, la fede ha il proprio fondamento nello Spirito Santo e in Cristo, che vive nei nostri cuori mediante di essa. E questa fede vivente che giustifica il peccatore e inserisce il credente nel corpo di Cristo (Dist. 23, n. 4; c. 805). Un approccio più intellettualistico, o più dialettico, è rinvenibile in Gilberto de la Porrée e in Alano di Lilla, i quali riflettono sulle relazioni fra opinione, fede e conoscenza scientifica. Essi convengono con Ugo di San Vittore che la fede è un fermo assenso che supera la mera opinione e che, non fondandosi sull’esperienza diretta o su argomenti stringenti, non raggiunge la conoscenza scientifica.

40 P ie t r o L o m b a r d o , Sententiarum Libri Quattuor, Lib. Ill, Dist. 23-25 (PL 192,805-811). Su Pie­ tro Lombardo, cfr. GÖSSMANN, Glaube und Gotteserkenntnis, cit., 38-42.

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Capitolo secondo

L’età aurea della scolastica

Nell’alta scolastica del X III secolo, il fondamento filosofico della fede divenne oggetto di un’indagine più spiccatamente sistematica alla luce della psicologia e dell’etica aristotelica, rese disponibili dalla progressiva riscoperta dei testi dello Stagirita. I teologi discussero se la fede «infor­ me» (cioè non ravvivata dalla carità) fosse una virtù, e se la virtù della fe­ de affondasse le sue radici nell’intelletto, nella volontà, o in ambedue. Grande attenzione venne riservata alla questione del motivo intrinseco, od oggetto formale, della fede. Divenne opinione comune che la fede non ricavasse la sua certezza dagli argomenti razionali di credibilità, ma da Dio solo, che ne è il motivo. Molti teologi riconobbero e affrontarono il problema di come la fermezza dell’assenso possa essere proporzionata non alla forza dell’evidenza, che è limitata, ma a Dio, la cui parola non può contenere errore. Nella Summa aurea composta attorno al 1225, Guglielmo di Auxerre trattò gli articoli della fede come evidenti a coloro che fanno uso della lu­ ce della fede. Guglielmo di Auvergne, che scrisse il suo Magisterium divi­ nale attorno al 1228, aggiunse che soltanto coloro che sono pronti ad ac­ cettare, sulla base dell’autorità di Dio che è Signore dell’intelletto umano, ciò che appare loro improbabile, potranno ricevere la luce soprannatura­ le. Parecchi anni più tardi, Filippo il Cancelliere sostenne nella Summa de bono che la fede può essere detta «prova delle cose che non si vedono», perché nella luce di Dio, «verità prima», essa fa apparire la verità nella misura permessa in questa vita alla condizione umana41. A partire da Alessandro di Hales, i primi francescani attribuirono grande importanza all’elemento affettivo della fede. San Bonaventura (1221-1274), che rappresenta il culmine della teologia francescana, de­ scrisse l’oggetto della fede come «verità salutare» o «verità secondo pietà» {«veritas secundum pietatem», In III Sent., Dist. 23, art. 1, q. 1, ad 2)42. Egli affermò, citando Bernardo, che la fede non è soltanto una virtù, ma l’«auriga» di tutte le virtù {«auriga omnium virtutum», Dist. 23, art. 1, q. 1). Pur ammettendo che la fede, in quanto qualità stabile {habitus), è

41 Sui tre teologi testé menzionati, cfr. la densa esposizione di E n g l h a r d t , Die Entwicklung, cit., 161-398; più sintenticamente, G ö SSMANN, Glaube und Gotteserkenntnis, cit., 53-64. 42 Una buona trattazione della teologia della fede di Bonaventura è G .H . T avard , Transiency and Permanence: The Nature o f Theology According to St. Bonaventure, Franciscan Institute, St. Bonaventure N.Y. 1954. Cfr. anche BALTHASAR, Gloria, cit., voi. 2,235-325, specialmente 254-257.

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legata in qualche modo all’intelletto speculativo, Bonaventura la collegò soprattutto all’intelletto pratico e alle affezioni. In quanto virtù e princi­ pio di merito, la fede ha come soggetto il libero arbitrio («liberum arbi­ trium», Dist. 23, art. 1, q. 2). Essa non può essere che infallibile, in quan­ to giudica secondo l’illuminazione della conoscenza stessa di Dio (Dist. 24, a. 1, q. 1). Pur venendo dopo la conoscenza scientifica quanto a cer­ tezza speculativa (quoad certitudinem speculationis), la fede la supera quanto a certezza di adesione (quoad certitudinem adhaesionis), che è una certezza che dipende dall’amore (Dist. 23, a. 1, q. 4). E poiché la verità del primo Principio è infinitamente maggiore di ogni verità creata e più luminosa di ogni luce del nostro intelletto, ne segue che, perché il nostro intel­ letto sia rettamente disposto rispetto alle verità che si devono credere, è necessario che creda alla Verità somma più che a se stesso e si sottometta all’obbedienza a Cri­ sto. Per cui, è necessario che creda non soltanto ciò che è conforme alla ragione, ma anche ciò che eccede la ragione e va contro l’esperienza dei sensi. Se vi si rifiuta, non rende alla somma Verità l’omaggio che è ad essa dovuto, mentre preferisce il giudi­ zio della propria operosità all’insegnamento dell’eterna luce, ciò che non può avve­ nire se non ad opera di una gonfia superbia e di un riprovevole orgoglio43.

Per essere salde, le affermazioni della fede devono essere sostenute da testimonianze autorevoli. «E poiché l’autorità si trova principalmente nella Sacra Scrittura, che è stata composta interamente dallo Spirito San­ to per indirizzare la fede cattolica, ne segue che la vera fede non discorda dalla Scrittura, ma dà ad essa il proprio assenso vero» {Breviloquium n. 5). La luce della fede, in quanto presenza di Dio nell’anima, è un’irradia­ zione della luce dello Spirito Santo. Essa dà alla rivelazione cristiana una completa certezza, consentendo al credente di riconoscere la testimo­ nianza di Dio nelle Scritture ispirate. La grazia interiore della fede è la lampada che deve guidare il lettore della Sacra Scrittura; è la porta che dà accesso al vero significato della parola di Dio (Prologo a Breviloquium, n.

2 ). Ogni fede è, per Bonaventura, indirizzata a Cristo. I patriarchi, i profe­ ti dell’Antico Testamento, ed anche certi filosofi pagani ebbero implicita­ mente fede in lui, poiché «dopo la caduta di Adamo nessuno poteva esse­ re salvato senza la fede nel Mediatore» {In III Sent., Dist. 25, a. 1, q. 2 resp.). Mediante la fede Cristo dimora nel cuore dei credenti. La pienezza

43 Breviloquium V, cap. 7, n. 4 [trad, it., Breviloquio, in Itinerario dell’anima a Dio, Breviloquio, Ri­ conduzione delle arti alla teologia, a cura di L. Mauro, Rusconi, Milano 1985, 99-344, qui 256].

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della grazia e della verità, concentrata in Cristo-capo, fluisce verso le membra del corpo, congiungendole le une con le altre e con lui nella fede comune (.Breviloquium IV, cap. 5, nn. 5-6). Il dono della fede orienta l'a­ nima al Verbo di Dio, Verità suprema (Breviloquium V, cap. 4, n. 4). L'iti­ nerario della fede è un'ascesa progressiva a Dio, che nella vita presen­ te può arrivare fino al culmine dell'estasi mistica. Attraverso uno straor­ dinario privilegio della grazia, a san Francesco d'Assisi fu donata un'u­ nione trasformatrice che trascendeva ogni conoscenza e operazione intel­ lettuale44. Pur essendo un domenicano e un aristotelico, Alberto Magno (12001280) non si distaccò, nella sua teologia della fede, dalle tradizioni mona­ stica e scolastica a lui precedenti45. Egli vide nella fede un atto d ell'in tel­ letto affettivo» che fornisce il suo consenso in virtù del moto della vo­ lontà (In III Sent., Dist. 23, a. 2)46. Rispetto ai suoi predecessori, Alberto prestò maggiore attenzione ai segni di credibilità che preparano la strada alla fede, gettando in qualche misura le premesse di quella teologia che sarebbe stata poi denominata «fondamentale»47. Tommaso d'Aquino (1225-1274), brillante allievo di Alberto, assunse posizioni generalmente tradizionali nel suo commentario giovanile alle Sentenze di Pietro Lombardo e nel successivo De veritate, ma giunse gra­ dualmente, con la maturità, ad una sintesi di carattere più spiccatamente aristotelico48. Le prime sedici questioni della Summa theologiae, parte II-

44 Itinerarium mentis in Deum, cap. 7, η. 3. 43 Cfr. C. F ec k es , Wissen, Glauben und Glaubenswissenschaft nach Albert der Grossen, in Zeit­ schrift für Katholische Theologie {1930) 1-39; GÖSSMANN, Glaube und Gotteserkenntnis, cit., 88-95. 46 A lberto M ag n o , Opera omnia, 38 voll., Vivès, Paris 1890-1899, voi. 28, il luogo cit. 407. 47 Su questo tema, cfr. A. L a n g , Oie Entfaltung des apologetischen Problems in der Scholastik des Mittelalters, Herder, Freiburg 1962, specialmente 76-114, nonché la letteratura ivi citata. 48 II trattato sulla fede della Summa theologiae è disponibile in molte edizioni. Prezioso per le note e le appendici è il testo latino-inglese dell’edizione domenicana; cfr. voi. 31: Faith, II-II, qq. 1-7, a cu­ ra di T.C. O ’BRIEN, Eyre & Spottiswoode, London 1974, e voi. 31: Consequences o f Faith, II-II, qq. 8-16, a cura di T. GiLBY, Eyre & Spottiswoode, London 1974. Un’altra traduzione è On Faith: Sum­ ma theologiae II-II, qq. 1-16, trad. ingl. di M.D. JORDAN, University of Notre Dame, Notre Dame Ind. 1990. Esiste un’edizione tedesca con commento di H.M. CHRISTMANN: Summa theologica, vol. 15; Glaube als Tugend, II-II, qq. 1-16, Pustet, Graz 1950. Una traduzione francese con commento di R. BERNARD è disponibile nelle éditions de la Revue des Jeunes: La foi, 2 voll., Desclée, Paris 1950 [trad, it., La fede, in La somma teologica, traduzione e commento a cura dei domenicani italiani, voi. 14, Salani, Firenze 1966, 5-311], Un testo molto importante, le questioni 1-4 del commentario di Tommaso al De Trinitate di Boezio, è tradotto in inglese con introduzione e note a cura di A. M aurer col titolo Faith, Reason and Theology, Institute of Medieval Studies, Toronto 1987. La trattazione più approfondita che Tommaso dedicò al tema della fede, e cioè la questione 14 del De peritate, è dispo-

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II, possono essere considerate rappresentative della sua posizione defini­ tiva. Una peculiarità della trattazione di Tommaso è il forte accento sulla causalità finale e sul carattere intellettuale della fede. Come molti altri teologi medievali, san Tommaso vede in Eh 11,1 una definizione autoritativa della fede. Il «fondamento delle cose che si spera­ no» rappresenta, nella sua interpretazione, un vero inizio della vita eter­ na, un’anticipazione della visione beatifica. La «prova delle cose che non si vedono» indica per lui la base della convinzione intellettuale. Nel caso della fede, l’autorità dell’intelletto divino prende il posto della dimostra­ zione razionale, che produce convinzione nelle materie che possono esse­ re rese evidenti. Riformulando il testo biblico sotto forma di rigorosa de­ finizione scolastica, san Tommaso scrive che «la fede è un abito intelletti­ vo, nel quale si inizia in noi la vita eterna, facendo aderire l’intelletto a cose inevidenti» (11-11,4.1). L’oggetto formale o motivo inerente della fede è, secondo san Tomma­ so, Dio in quanto «prima verità», colui in cui intelletto ed essere coinci­ dono perfettamente. La fede divina si indirizza, come la fede umana, pri­ ma di tutto a colui che parla e soltanto secondariamente a ciò che viene detto (11-11,1.1). La fede è, in altri termini, credenza in Dio in quanto te­ stimone (credere Deo). Siccome si attua in conformità alle condizioni del­ la vita presente, essa dipende dall’ascolto della parola di Dio. In epoca biblica i profeti e gli apostoli ebbero il privilegio di udire la parola di Dio direttamente, attraverso la grazia della profezia o l’accesso alla persona di Gesù. Nella comunità cristiana la parola di Dio è mediata dai predicatori, che sono rivestiti di autorità divina (11-11,6.1). L’oggetto formale della fe­ de è dunque, per i cristiani, qualcosa di complesso: «L’oggetto formale della fede è la prima verità in quanto si rivela nelle Sacre Scritture e nel­ l’insegnamento della chiesa» (11-11,5.3). Garantita dalla veracità divina, la fede supera, quanto a certezza ogget­ tiva, qualsiasi altra forma di conoscenza umana, ed è perciò superiore alla dimostrazione scientifica. Dal punto di vista soggettivo, essa è però meno perfetta della conoscenza scientifica, poiché l’oggetto creduto non è evi­ dente. Commentando la definizione agostiniana del credere come «pen­ sare assentendo» (cum assensione cogitare), san Tommaso rileva che il ter­ mine «pensare» implica una sorta di insoddisfazione o inquietudine men­ tale che scaturisce dal fatto che l’intelletto non è in possesso di evidenza

nibile nella trad. ingl. di J.V. M c G l y n n , Truth, voi. 2, Regnery, Chicago 1953, 207-266 [trad, it., in Le Questioni disputate, 2: La verità, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1992, 430-547].

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dimostrativa. La fede è dunque essenzialmente imperfetta: essa tende a una visione che la elimina in quanto fede. San Tommaso elabora una raffinatissima analisi psicologica della fede, che in questa sede è possibile presentare soltanto in termini assai somma­ ri. Egli non vuole insinuare, come sembra fare Abelardo, che la fede manchi di certezza, ma allo stesso tempo cerca di salvaguardarne il carat­ tere intellettuale, che Ugo di S. Vittore, i francescani e persino Alberto, con la loro insistenza sul ruolo della volontà e delle affezioni, paiono compromettere. In quanto aristotelico, san Tommaso sostiene che la fede è un atto dell'intelletto speculativo: il suo oggetto è la verità increata, non un qualche effetto pratico prodotto dall’attività umana (11-11,4.2, ad 3). La fermezza della fede è dovuta all’autorità di Dio resa presente dalla grazia divina. La grazia inclina la mente all’assenso, ma non rendendo evidente l’oggetto della fede, bensì muovendo la volontà, che a sua volta comanda l’assenso dell’intelletto. Formalmente la fede è pertanto, per Tommaso, un atto dell’intelletto, ma un atto nel quale l’intelletto è in­ fluenzato dalla volontà e questa, a sua volta, dalla grazia divina. Credere «è un atto dell’intelletto che aderisce alla verità divina sotto il comando della volontà mossa da Dio mediante la grazia» (11-11,2.9). Il moto della volontà attratta dalla prospettiva della vita eterna è anteriore all’assenso dell’intelletto; ma la priorità è, in un certo senso, reciproca, perché la vo­ lontà non potrebbe essere attratta se l’intelletto non le presentasse questa prospettiva come raggiungibile. Nel trattato sulla fede, san Tommaso pre­ suppone la dottrina delle relazioni fra intelletto e volontà esposta prece­ dentemente nella Summa theologiae (per es. 1,82.4 e 1-11,9.1). La grazia di Dio, pur attraendo la volontà, non la costringe (11-11,2.9; cfr. 1,82.2). Come altri atti liberi, l’atto di fede è soggetto alla regola della moralità, che richiede che la cosa fatta sia appresa come buona. Per spie­ gare come una persona possa scegliere responsabilmente di credere qual­ cosa la cui verità non è evidente, san Tommaso ricorre alla categoria del­ l’istinto. Gli animali hanno un’inclinazione spontanea, conferita dal crea­ tore, a fare ciò che è bene per loro e per la loro specie, e ad evitare ciò che è dannoso (1,78.4). Parlando per analogia, la grazia introduce nel cuore umano un dinamismo spontaneo verso la visione eterna di Dio. Ta­ le dinamismo comporta un’inclinazione ad abbracciare quelle cose che sono utili alla nostra beatitudine eterna. Alla luce di questo istinto so­ prannaturale, noi percepiamo che credere alla testimonianza della verità prima è a noi confacente (11-11,1.4, ad 3). Questo istinto soprannaturale svolge un ruolo cruciale sia nel sorgere della fede che nello stesso assenso di fede. A tale istinto interno san Tom-

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maso assegna una rilevanza primaria fra i fattori che conducono all'atto di fede. «Chi crede ha motivo sufficiente che l'invita a credere: infatti vie­ ne indotto dall’autorità della rivelazione di Dio confermata dai miracoli; e più ancora dall’ispirazione interna di Dio che lo invita. E quindi non crede con leggerezza» (11-11,2.9, ad 3). Nel commento a Gv 4,42, san Tommaso istituisce una chiara distinzione fra i motivi che conducono alla fede e il motivo della fede in quanto tale: La fede è retta, pertanto, quando si aderisce alla verità per se stessa, e non per qual­ cos’altro. E sotto tale aspetto troviamo qui che i samaritani «dicevano alla donna: Non è più per la tua parola che noi crediamo» alla verità; ma per la verità stessa. Tre sono le cose che possono indurci alla fede di Cristo. Primo, la ragione naturale (Rm 1,20) [...]. Secondo, le testimonianze della Legge e dei Profeti (Rm 3,21) [...]. Terzo, la predicazione degli apostoli e degli altri predicatori (Rm 10,14) [...]. Però quando un uomo così guidato arriva a credere, non si può dire che crede per qualcuna di tali cose: né per la ragione naturale, né per la testimonianza della Legge, né per la predi­ cazione altrui; ma crede solo per la verità stessa. Ossia come avvenne per Abramo (Gen 15,6): «Abramo credette a Dio, e gli fu computato a giustizia»49.

Nella Summa theologiae san Tommaso afferma, molto sinteticamente, che «l'assenso, che è l'atto principale della fede, viene da Dio che muove interiormente con la sua grazia» (11-11,6.1). Gli autori moderni non sono tutti dell'opinione che san Tommaso am­ mettesse la possibilità della fede «naturale» o «scientifica», basata cioè su prove accessibili alla ragione in quanto tale. Da quel che dice della fede dei demoni e degli eretici (11-11,5.1 e 2), è chiaro che egli ritiene che sia possibile convincersi, sulla base della conoscenza naturale, di certe verità rivelate senza tuttavia accettarle per l'autorità di Dio. Ma nei medesimi passi egli afferma anche che un'accettazione della rivelazione sulla base di ragionamenti umani non è fede in senso proprio. In senso teologico, la fede non poggia sull'inferenza umana, ma sull’autorità di Dio, incontrato misteriosamente nella grazia. La fede non esiste senza un oggetto formale e un oggetto materiale. Il credente è convinto di qualcosa sulla base dell'autorità di colui che parla, Dio, l'oggetto formale. Il contenuto o oggetto materiale è ciò che Dio af­ ferma. Potrebbe sembrare che il corpo della rivelazione contenga una molteplicità di articoli eterogenei, ma secondo san Tommaso essi forma-

49 TOMMASO d ’A q u in o , ln Evangelium secundum Joannem, cap. 4, lect. 5, Marietti, Torino 1925, 137s. [trad, it., Commento al Vangelo di San Giovanni, a cura di T.S. Centi, 2 voli., Città Nuova, Ro­ ma 1990-92, voi. 1,363-364].

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no un'unità ordinata, in quanto vertono tutti su Dio e la via che conduce a lui. Il principale oggetto materiale della fede è Dio stesso. La fede non è soltanto credere Deo (credere a Dio in quanto testimone), bensì anche credere Deum (credere in Dio in quanto oggetto di testimonianza). Il contenuto essenziale della fede è espresso sinteticamente da Eh 11,6: «chi s'accosta a Dio deve credere che egli esiste e che egli ricompensa co­ loro che lo cercano». Commenta san Tommaso: «nell'essere divino sono incluse tutte le cose che crediamo esistere eternamente in Dio, e nelle quali consisterà la nostra beatitudine; e nella fede nella provvidenza sono inclusi tutti i mezzi di cui Dio si serve nel tempo per la salvezza degli uo­ mini, e che preparano alla beatitudine» (11-11,1.7). La chiesa ha raggrup­ pato i dati della rivelazione sotto alcuni titoli, costituiti dagli articoli del credo. Sebbene l'oggetto della fede sia uno e in se stesso indiviso, la men­ te umana non può assorbirlo se non esprimendone i vari aspetti in propo­ sizioni distinte. Il credente non presta il suo assenso alle proposizioni in quanto tali, ma ne fa il veicolo attraverso cui presta il suo assenso alle realtà da esse significate: «l'atto del credente non si ferma all'enunciato, ma va alla realtà: infatti formiamo degli enunciati solo per avere la cono­ scenza delle cose, sia nella scienza che nella fede» (11-11,1.2, ad 2). La fede è per san Tommaso una percezione dinamica. Mosso dal desi­ derio dell'unione col divino, l'intelletto non può trovare pace in proposi­ zioni o in realtà create, ma soltanto in Dio stesso. Secondo una formula tradizionale che san Tommaso attribuisce a Isidoro di Siviglia, «l'articolo [di fede] è un modo di percepire la verità divina tendendo verso di essa» («Articulus est perceptio divinae veritatis tendens in ipsam», 11-11,1.6, sed contra). La verità prima è, per il credente, la meta finale. Per questa ra­ gione, la fede non è semplicemente credere sulla base dell'autorità di Dio (icredere Deo), o credere nell'esistenza e nella provvidenza di Dio (credere Deum), ma anche credere tendendo all'unione con Dio (