Il Filostrato di Giovanni Boccaccio: lotte, intrighi e amori tra impero e papato 8856747588, 9788856747584

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Il Filostrato di Giovanni Boccaccio: lotte, intrighi e amori tra impero e papato
 8856747588, 9788856747584

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Carla Avanzi

Il Filostrato di Giovanni Boccaccio Lotte, intrighi e amori tra impero e papato

Albatros

© 2011 Gruppo Albatros II l’ilo S.r.l., Roma wzww.gruppoalbatrosilfilo.it ISBN 978-88-567-4758-4 1 edizione luglio 2011 stampato da 1 i.S.S. 1 iditorial Service System srl, Roma

Distribuzione per le librerie Mursia s.p.a.

Il iujostrato di Giovanni Boccaccio Lotte, intrighi e amori tra impero e papato

Ad Adriano R, un uomo speciale

INTRODUZIONE

Il poema in ottava rima intitolato I/Pilostrato^ scritto da Gio­ vanni Boccaccio, è la esaltazione dell’amore di Troilo e di Griseida. I due protagonisti della vicenda nascono dalla fantasia dell’autore oppure fanno parte della stessa vita del poeta, il quale dietro a quella storia particolare cela la grande Storia che non fu mai né narrata né scritta, ma semplicemente vis­ suta da coloro che erano direttamente coinvolti in essa? Chi si cela dietro i personaggi boccacceschi? Quale papa e re e quali principi e signori del XIII e del XIV secolo si nascondo­ no dietro a quella che apparentemente è una semplice storia d’amore di due giovani troiani? Il termine “Filostrato” corrisponde al cognome di un sofi­ sta di Atene, Vero, che visse nel II secolo d. C. autore di 43 tragedie e di 14 commedie. Il figlio di Vero nacque a Lemno. Fu un sofista come suo padre prima ad Atene e poi a Roma. Scrisse una Vita di Appollonio Tianeo^Vite dei sofisti^ Ppistole^ Quadri e altre opere. Apollonio fu un famoso impostore e tau­ maturgo, a cui furono attribuiti virtù e miracoli straordinari per far trionfare il paganesimo sul cristianesimo, e Apollonio su Gesù Cristo. Anche suo nipote fu un sofista e uno scritto­ re. Insegnò ad Atene e morì nell’isola di Lemno. Perché il poeta Boccaccio usa il lessema “Filostrato” per in­ titolare il suo poema d’amore? Giovanni Boccaccio nasconde forse, dietro la genealogia della famiglia Filostrato, la genea­ logia di un’altra famiglia che visse a cavallo del Duecento e del Trecento e che, essendo molto potente, non avrebbe mai potuto menzionare nel suo poema perché altrimenti avrebbe corso il rischio di essere incarcerato o peggio messo a mor­ te? Ruggirei Apuleiese visse nel XIII secolo. Fu un abile poeta. Le sue liriche fanno parte della cosiddetta poesia popolare e giullaresca. Il Sermone sulla Passione si trovava in una copia di Celso Cittadini un tempo conservata nelle Carte Molteni (ins.

13) della Biblioteca Ambrosiana di Milano. Oggi il testo è ir­ reperibile e si legge in PD, I, pp. 902-906. Il termine “Passio­ ne” allude alla vicenda biografica di Ruggirei Apuleiese, che la fa diventare un calco della Passione di Cristo. Proprio come Cristo fu ingiustamente accusato e processato, anche Ruggi­ rei Apuleiese fu processato dal tribunale dell’inquisizione che agì per volere dell’inquisitore domenicano Tommaso Bolzetti. Ruggirei Apuleiese fu processato per eresia. L’inquisitore so­ stenne che egli avesse accettato l’invito a pranzo dei pararmi che erano considerati degli eretici peggiori degli ebrei. Ruggi­ rei Apuleiese era, infatti, un giullare e un giullare non rifiuta­ va mai l’invito a pranzo di nessuno. Nel Sermone della Passione si legge il termine “Staroto” che è l’onomanzia della parola “Astarot” che nell’Antico Testamento è il dio delle A starti, cioè un idolo che gli ebrei avevano costituito in sostituzione a Dio peccando così di idolatria. Infatti, nella Bibbia si legge: “Gli israeliti fecero male agli occhi del Signore e servirono i Baal; abbandonarono il Signore, Dio dei loro padri, che li aveva fatti uscire dalla terra d’Egitto, e seguirono altri dèi tra quelli dei popoli circostanti: si prostrarono davanti a loro e provocarono il Signore, abbandonarono il Signore e serviro­ no Baal e le Astarti”.1 Nell’Antico Testamento la coppia “Baal e Astarte”, o al plurale “i Baal e le A starti”, designa le divinità cananee e più tardi anche quelle babilonesi. Baal, il “signore”, è il principio divino maschile, spesso considerato come il pos­ sessore del sole. Astarte, che corrisponde all’Istar assira, è la dea dell’amore e della fecondità. La parola Astarte talvolta è sostituita con quella di Asera. Ad Astarte si offrivano sacrifici umani. Più tardi fu identificata con l’Afrodite dei greci e la Venere dei romani. Allora, il termine “Astarot” può significa­ re sia “idolatra” che “diavolo” poiché nel corso dei secoli la parola “Astart” ha assunto anche il significato di “diavolo”. Astarot—>Astarti—>Staroto—>11 Staroto—> [Fjilostrato 1

Cfr. in Bibbia di Gerusalemme, labro dei Giudici 2, 11 13, Centro editoriale dehoniano-EDB Bologna, 2009.

Filostrato= L’idolatra= Il diavolo oppure al femminile L’idolatra, se si considera che Maria d’Ungheria prima di spo­ sare Carlo II d’Angiò, re di Napoli, era pagana. Erode v’era e Gaifasso E Pilato e Setenasso E Longino e Giudeasso [e] Markus e Barbanasso. Quinzìano v’era e Nerone e Staroto e Ferraone Bafabue e ìkuciglione ke dicieno tutti de none. Favellò el vescovo in primieri "Tatti innanzi e giura, Rug[g]ieri; perché mangiastù l’altrieri koi pattarini crudeli e feri. ke sonno peggio ke giudei?” [••;] Rispose un altro in issavia e disse in quella via: “Non è questi [quel] Rug[g]ieri k" io aud\\ e vidi laltrieri kantare inansi kavalieri di noi come semo crudeli eferi?” Rispose un altro da l’altra parte, ke non era di mia arte: ""Non guarisca, anzi sia morto; non i sia fatto dritto, ancf torto^”-

Con il termine patarini si intendono in genere tutti gli ""ere­ tici”. Il movimento religioso dei patarini sorse a Milano alla fine del XI secolo e fu pauperistico e contrario agli abusi ed alle ricchezze dell’alto clero. Il termine ""patar(in)o” finì per indicare nel XIII secolo qualsiasi forma di eresia. I patarini detti anche ""càtari” che significa ""puri” ammette­ vano due principi eterni, o Dei, il Dio buono, creatore delle PD, I, pp, 902-906.

13) della Biblioteca Ambrosiana di Milano. Oggi il testo è ir­ reperibile e si legge in PD, I, pp. 902-906. Il termine “Passio­ ne” allude alla vicenda biografica di Ruggirei Apuleiese, che la fa diventare un calco della Passione di Cristo. Proprio come Cristo fu ingiustamente accusato e processato, anche Ruggi­ rei Apuleiese fu processato dal tribunale dell’inquisizione che agì per volere dell’inquisitore domenicano Tommaso Bolzetti. Ruggirei Apuleiese fu processato per eresia. L’inquisitore so­ stenne che egli avesse accettato l’invito a pranzo dei palarmi che erano considerati degli eretici peggiori degli ebrei. Ruggi­ rei Apuleiese era, infatti, un giullare e un giullare non rifiuta­ va mai l’invito a pranzo di nessuno. Nel Sermone della Passione si legge il termine “Staroto” che è l’onomanzia della parola “Astarot” che nell’Antico Testamen to è il dio delle A starti, cioè un idolo che gli ebrei avevano costituito in sostituzione a Dio peccando così di idolatria. Infatti, nella Bibbia si legge: “Gli israeliti fecero male agli occhi del Signore e servirono i Baal; abbandonarono il Signore, Dio dei loro padri, che li aveva fatti uscire dalla terra d’Egitto, e seguirono altri dèi tra quelli dei popoli circostanti: si prostrarono davanti a loro e provocarono il Signore, abbandonarono il Signore e serviro­ no Baal e le Astarti”.1 Nell’Antico Testamento la coppia “Baal e Astarte”, o al plurale “i Baal e le Astarti”, designa le divinità cananee e più tardi anche quelle babilonesi. Baal, il “signore”, è il principio divino maschile, spesso considerato come il pos­ sessore del sole. Astarte, che corrisponde all’Istar assira, è la dea dell’amore e della fecondità. La parola Astarte talvolta è sostituita con quella di Asera. Ad Astarte si offrivano sacrifici umani. Più tardi fu identificata con l’Afrodite dei greci e la Venere dei romani. Allora, il termine “Astarot” può significa­ re sia “idolatra” che “diavolo” poiché nel corso dei secoli la parola “Astart” ha assunto anche il significato di “diavolo”. Astarot-—>Astarti—>Staroto—->11 Staroto—> [FJilos trato 1

Cfr. in Bibbia di Gerusalemme, Ubro dei Giudici 2, 1 1 13, Centro editoriale dehoniano-EDB Bologna, 2009.

Filostrato= L’idolatra^ Il diavolo oppure al femminile L’idolatra, se si considera che Maria d’Ungheria prima di spo­ sare Carlo II d’Angiò, re di Napoli, era pagana. Erode v’era e Gaifasso E Pilato e Setenasso E Longino e Giudeasso [e] Markus e Barbanasso. Quinzìano v’era e Nerone e Staroto e Terraone Ral^abue e 'Kuciglione ke dicieno tutti de none. Favellò el vescovo in primieri “Fatti innanzi e giura, Rug[g]ieri; perché mangiastù l’altrieri koi pattarini crudeli e feri, ke sonno peggio ke giudei?” [••;] Rispose un altro in issavia e disse in quella via: “Non è questi [quel] Rug[g]ieri k"io aud\\ e vidi taltrieri kantare inansi kavalieri di noi come semo crudeli eferi?” Rispose un altro da l’altra parte, ke non era di mia arte: “Non guarisca, anzi sia morto; non i siafatto dritto, an^i tortoP2

Con il termine patarini si intendono in genere tutti gli “ere­ tici”. Il movimento religioso dei patarini sorse a Milano alla fine del XI secolo e fu pauperistico e contrario agli abusi ed alle ricchezze dell’alto clero. Il termine “patar(in)o” finì per indicare nel XIII secolo qualsiasi forma di eresia. I patarini detti anche “càtari” che significa “puri” ammette­ vano due principi eterni, o Dei, il Dio buono, creatore delle 2

PD, l,pp, 902-906.

anime e delle cose invisibili, e il Dio cattivo, creatore del mon­ do visibile, dei corpi e della legge. I patarini si dividevano in credenti e in perfetti. Al grado di perfetti si passava mediante la cerimonia del consolamentum (“consolazione”) con la recita del Pater Noster, e l’imposizione del Libro dei Vangeli sulla testa del candidato. Ammettevano una gerarchia con diaconi, ve­ scovi e un papa, residente in Bulgaria. Furono scomunicati dai papi Alessandro III, e Innocenzo III. Il re Federico II li bandì dall’impero nel 1220. Affini ai patarini furono gli albigesi. An­ che gli ebrei furono accusati di essere degli eretici e il termine “giuderi” giunse a diventare sinonimo di eresia perché furono accusati di deicidio, cioè di essere stati loro la causa della mor­ te di Cristo. Giovanni Boccaccio nacque a Parigi nel 1313 da un mercan­ te di Certaldo e in tenera età fu condotto in Italia dal padre e avviato alla mercatura, ma il giovane si dimostrò subito essere un abile poeta e scrittore allora suo padre lo avviò agli stu­ di di diritto canonico. Alcuni ritengono che il Boccaccio sia nato a Certaldo o a Firenze. Trascorse tutta la sua giovinezza dal 1325 al 1340 a Napoli perché suo padre Boccaccino, era funzionario dell’agenzia bancaria dei Bardi, finanziatori del re Roberto d’Angiò. Frequentò alcuni scrittori umanisti come Franceschino degli Albizzi, Sennuccio del Bene, Zanobi da Strada. In seguito occuperà importanti incarichi pubblici e gli saranno affidate le ambascerie a Ravenna, nel Tirolo, ad Avi­ gnone e in Lombardia. Il Serventese romagnolo può essere considerato come un do­ cumento letterario del periodo che vide il susseguirsi di aspre contese tra guelfi e ghibellini nell’Emilia e nella Romagna alla fine del XIII secolo. L’anonimo autore narra vicende che av­ vennero tra il 14 novembre 1277 e il maggio 1283 che segnò la resa della città di Forlì. Il 14 novembre 1277 Guido da Montefeltro, capo ghibellino della Romagna sconfisse i fuoriusciti guelfi di Forlì e i fioren­ tini. I giullari o giocolieri erano dei buffoni che girovagavano per le piazze dei paesi e delle città andando a divertire la gente con componimenti poetici i quali spesso erano accompagnati da dolci melodie di strumenti musicali come la viola da gam­

ba, la tiorba, il liuto, la cetra, la lira. Il francescano Salimbene de Adam da Parma, storico e scrittore, nella sua Cronaca la­ tina inserisce lacerti uditi dai suoi contemporanei tra i quali i cosiddetti "ioculares” o "giocolieri di cui fece parte anche Rug[g]ieri Apuleiese. Il Serventese romagnolo presenta 12 strofe composte da 3 ales­ sandrini con rimalmezzo e 1 adonio di misura oscillante tra il quinario ed il quaternario secondo lo schema a(B) a(B) a(B) c. Gli emistichi sono settenari, ma ci sono anche senati e otto­ nari. V exordium è di derivazione provenzale e riprende X incipit della canzone Venuto m è in talento / digioi mi rinovare di Rinaldo d’Aquino e il sonetto Venuto me ‘n talento di savere di un anoni­ mo che alcuni critici attribuiscono al poeta fiorentino Monte Andrea. Ventu m’è in talento de contare per rema el novo asalimiento che facunu insta prima Col òr de tradimento taglad’ a surda lima: ayda, Deo! Quest’è l’ordene fatto del piligrino romeo: sutilmente è trattu se tortu va’l paleo talor se crede 1’ mattu lu sacu e ‘1 bon el reo; ore intendite. Guelfi de Bologna, mastri de la rete, segnor senc^a vergogna, se con’ vui ve sapete, de lor terra besogna che page le monede a lor vecini. Guelfi de Romagna, Lumbard e Fiorentini en pian de e(n) montagna àn prisu caminu; sucursu da la Magna besogn’ a cebelini en gran mestere Se venese lu re Callu o mandase cavaleri, iurarà de non farlu ché ‘1 ditu [è] menguneri; se nu’ ofenda Carlu, de multe penseri veràn falati En sino asalidore e d’ordene de frate gunse(no) de serore et ultramare crosate, [...] e sono li maiore, de multi sequetate

e creduti. En questo 'saltu pronti, en dire et fare arguti, [...] de mescunti, che stannu ancura muti che schivami per punti che non voglo(n) veduti esere ancora. E forcu mostran grande remore, e la paura per Romagna se spande; nulla part’ è segura: che ne porta girlande, che fa fortece e mura, che desfà. Chom’è usu de guerra, chosi andrà: tal ne crede aguistar terra che le perderà; tutta Romagna è en terra, batagla pur serà, se com’eo credo. L’aquila è salita e(n) trono e tornò lo nido e voi esere onida da tal che n’è '1 osidu per Deo dia vita al’altu conte Guido de Montefeltro. Eoi ne stia en statu chéd a lui è nula Feltro! En levere s’è avantatu, e '1 leone asalì lu veltro, ché paragunatu s’è l’oro e peltru del sapere. En questo non è t[... en$a ... -ere] dur’è la sentenza p[... -ere] En Deo è la potenza, e '1 So volere è 7 me.male? Guido da Montefeltro fu un grande capitano, capo dei ghi­ bellini. Nel 1296 vestì l’abito francescano in Ancona e morì nel 1298. Montefeltro è una regione montuosa nelle vicinanze della città di Urbino. Montefeltro fu sede vescovile. Bonconte di Montefeltro, figlio di Guido, combattè a Campaldino 1’ 11 giugno 1289 e morì in battaglia. I guelfi fiorentini sconfissero i ghibellini di Arezzo nella pianura di Campaldino. Nell’eser­ cito vincitore c’era anche Dante {Divina Commedia^ Purg. V, 85129). "Nella lepre si è avventato e il leone assalì il frate” (“velPD, I, pp. 877-881.

tro”). Il "veltro” è un panno usato per le tonache dei frati. Con la parola ""feltro”, invece, si intende o la città di Feltre oppure Montefeltro. Se si fosse trattato della città avrebbe usato la consonante ""F” al posto di ""V”. Molto probabilmente per distinguere la città dalle tonache dei frati fautore ha utilizzato una paro­ nomasia isofonica: feltro/veltro. Dante usa la parola ""feltro” e scrive: ""E sua nazion sarà tra feltro e feltro” (Inf. I, 104). Nella donna (""lepre”) si è avventato, e il re (""leone”) assalì il frate (""veltro”) poiché fece (""paragunatu”) della sapienza (""l’oro del sapere”) una stoltezza (""peltru del sapere”), cioè sottomise la fede alla ragione, facendo in modo di esaltare gli istinti e le passioni umane che secondo l’opinione della chiesa conducono alla perdizione e non alla salvezza eterna. Il re è Carlo II d’Angiò, il frate è Pietro da Morrone e la donna è Maria d’Ungheria. Il testo del Serventese romagnolo è conservato nell’archivio di Stato di Ravenna (fondo Corporazioni religiose soppresse, Registro di Classe 12). Compare sulla seconda facciata del duerno membranaceo che serve da coperta a un registro già del convento di San Severo di Ravenna, scritto in littera minuta cursiva di mano del notaio Andrea Rodighieri di Forlimpopoli che ha rogato alcuni atti fra il 1277 e il 1283. È seguito, sulla terza facciata della stessa coperta, sotto due imbreviture data­ te 14 aprile 1277 e 5 settembre 1278, da uno scongiuro in vol­ gare mutilo di cui restano 13 versi attribuibili alla stessa mano. Quando avvenne l’incontro amoroso tra Pietro di Morrone e Maria d’Ungheria? Probabilmente avvenne tra il 1277 e il 1283. Gli storici scrivono che nel 1277 nacque Roberto, figlio del re Carlo 11 d’Angiò e di Maria d’Ungheria. Nel 1294 Pietro da Morrone fu eletto papa con il nome di Celestino V. Nella primavera del 1294 prima della sua elezione ci fu l’incontro a Perugia e a Sulmona tra il re Carlo II d’Angiò e Pietro da Morrone. Fu nella primavera del 1294 allora, poco prima della sua elezione a pontefice, che ci fu l’incontro a Sulmona tra Ro­ berto d’Angiò (Troilo) e Maria (Griseida), figlia di Pietro da Morrone?

A quell’incontro si oppose papa Celestino V perché i due giovani erano fratellastri.

ILFILOSTRATO DI GIOVANNI BOCCACCIO (I)

Quando tutto sembra perduto, quando il mondo di ieri si fa presente per diventare futuro che darà voce solo all’amo­ re, quando i sentimenti veri e profondi sembrano non avere tempo perché è proprio il tempo a dare loro vigore, forza e voce in eterno, seppur quell’eterno è un frammento di tempo irrisorio, ma unico ed indelebile nella coscienza di chi ama, quando il vento dell’amore soffia su tutto e trasporta le fo­ ghe come fossero sussurri amorosi, quando la vita è legata ad un filo invisibile che pare spezzarsi da un momento all’altro, quando la nuvola oscura e densa della guerra e dell’odio si al­ larga ovunque e sembra non lasciare spazio a nemmeno uno spiraglio di flebile luce, quando tutto è rumore e frastuono, allora e solo allora si affaccia pudico alla finestra della vita quell’amore che pare essere senza volto e senza tempo per ascoltare il fruscio delle foghe che trasportano versi d’amore sempre, nel cuore della notte come a mezzogiorno, momento in cui si coghe, come un frutto proibito, il massimo splendore del sole che illumina di brillantezza amorosa la volta del cie­ lo. A quell’amore che appare e scompare per poi riapparire aU’improwiso, a quell’amore che ha un volto e un nome, ma che non sembra voler avere per nulla un volto e un nome, si accostano i tanti amori che nel corso dei secoh si sono suc­ ceduti e che trovarono e trovano tutt’oggi “corrispondenza d’amorosi sensi” come scriverebbe Ugo Foscolo nel suo car­ me intitolato Dei Sepolcri. All’uomo che soffre pene d’amore e che si cela dietro angoh bui di ritrosia e di incomunicabilità pur di non manifestare quando sente dentro il suo cuore, all’uomo che si fa portavoce di amore affinché l’amore di un amico diventi fonte di vita e di gioia e non sia solo un terribile anehto di morte, al consi­ gliere segreto che stringe con forza lo stendardo dell’amore e si fa promotore di una crociata affinché a trionfare sia per una volta sol non la guerra e i suoi lamenti infiniti, ma la pace

e l’armonia che solo l’amore può emanare, all’amico traditore che confonde l’amore con la semplice passione e che si lascia trasportare dagli impulsi più sfrenati per accaparrarsi quello che, senza l’uso della forza, non riuscirebbe mai a conquistare, l’unica soluzione rimane l’attesa. Una aposiopesi temporale in cui i sentimenti dell’uno e dell’altra rimangono in sospeso e vivono in un mondo ideale dove tutto è filtrato e meditato attraverso il meraviglioso strumento dell’amore che proprio come fosse un’arpa, trasporta gli amanti dal piano della mera immanenza a quello della trascendenza dove tutto, ma pro­ prio tutto, è speranza. Persino il fallimento diventa prologo di un attimo di felicità ancora da venire che fa in modo che la sospensione del tempo presente nel tempo che fu, sia una piacevole parentesi di futuro abbraccio amoroso e di scoperta vicendevole dove tutto, ritrosia, incertezza, dubbio, vaghezza, diventa forma plasmabile che assume le sembianze e i con­ torni dell’amore e i colori della gioia. L’assenza dell’amore diventa talmente viva e presente che sia l’amato che l’amata rimangono senza parole non constatare che, pur non essendo fisicamente presente, l’amore c’è e si manifesta nei loro cuori come nelle lor menti con una tale forza che diventa fisicità vera. Invisibile presenza di una assenza non voluta che tra­ sporta nell’animo di colui che ama una dolce corrente di pia­ cere, ma anche una ansia di vita e di smarrimento per quel che potrebbe essere e che ancora non c’è. Ma è proprio in quel non esserci che si percepisce Tesserci di colui che è lontano. E proprio nell’infinita purezza del proprio sentimento d’amore che il non esserci diventa motivo di tormento e di sofferenza che valica i limiti della comprensione e che oltrepassa i con ­ fini del lecito. “Fin dove è lecito amare? Fin dove ci si lascia cullare dal dolce canto d’amore che all’improvviso appare in­ nanzi e confonde le menti e i cuori degli innamorati?”. Sono domande che scorrono sulle labbra di tutti coloro che nella loro vita si sono sentiti incendiare dal fuoco d’amore. Sono titubanze amorose che hanno riempito e continuano a riem­ pire le pagine di poemi, di liriche e di romanzi che si sono succeduti nel corso dei secoli e che continuano e continue­ ranno ad imprimere sulle pagine ancora da scrivere tutto quel

flusso di sentimenti e di emozioni che, come fossero onde del mare, s’infrangono sugli scogli e lambiscono i volti abbagliati dall’estasi amorosa di un uomo e di una donna alla ricerca di amore. I/ Filostrato è un poema che Giovanni Boccaccio dedicò al duca Anna-Carlo-Sigismondo di Montmorency-Luxemburgo, "primo barone di Francia, [...] Pari del regno e primo Baron cristiano”.45Fin dalle prime parole si può cogliere tutta l’inten­ sità della captatio benevolentiae che l’autore del poema rivolge al duca che per più di venti anni fu il suo beniamino e protettore nella nobile ars scribendi. Infatti, scrive: "Onorato, per lo spa­ zio di venti e più anni, della preziosa protezione della vostra nobilissima casa, e ricolmato di benefizi dal vostro cuore ma­ gnanimo, mi riguarderei come il più ingrato delli uomini, se trascurato avessi di fregiare del vostro illustre nome questo italiano Poema, porgendovi nel tenue dono una prova sincera dell’animo mio riconoscente”.'’ Boccaccio sottolinea "l’animo generoso” del duca e quanto e "quanto abbia sempre la Casa di Montmorency amato le belle arti, e siasi dichiarata favorevole protettrice delle scienze”.6 Coloro che diedero alle stampe per la prima volta II Filostrato inserirono un’altra captatio benevolen­ tiae che rivolsero direttamente al lettore perché sarebbe stato proprio il lettore di tutti i tempi a venire ad essere il beneficia­ rio e il custode del magnifico poema. La protagonista è Fiam­ metta, nome sotto cui si cela "la bella Maria, figlia naturale del re Roberto di Napoli, della quale, da esso in una chiesa di religione veduta, fieramente s’accese, e ne ottenne per sorpre­ sa i più segnalati favori, dopo che la medesima era stata suo malgrado (per non contravvenire a cenni del padre) con un

4

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, pag. 3.

5

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso f rane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., pagg. 3-4.

6

Op.cit.

vecchio signor di Napoli congiunta in matrimonio”.7 Soltanto nel 1789, a Parigi, il poema di Giovanni Boccaccio, fino ad allora abbandonato e manoscritto, vide la luce “avendo noi, per nostra buona sorte, nella longa dimora fatta in Toscana, acquistatone un bellissimo codice in sottilissima carta pecori­ na del 1393 scritto, il quale appartenne già all’erudito Belisario Bulgarini, che di sua mano molte abbreviature vi dichiarò, e molti errori corresse, ci fecero coraggio a confrontarlo con i diversi manoscritti che in Firenze si ritrovano, e specialmente i quattro più antichi e preziosi, che nella Laurenziana biblio­ teca si custodiscono; con l’aiuto de’ quali, e di una indefessa diligenza ci lusinghiamo presentare all’amatore della buona lingua italiana questo poema a perfezzione condotto. [...] Devesi avvertire, che di questo nostro Filostrato se ne ha nella regia libreria di Parigi una versione in lingua francese fatta nel 1487 in circa, e tratta da un antico codice italiano, che con altri preziosi manoscritti arricchiva la libreria de’ duchi d’Angiò in Napoli, quando dominavano in quel regno: e si può supporre che il detto codice sia stato l’originale medesimo trasmesso dall’Autor e alla sua Fiammetta”.8 argomentatìo Giovanni Boccaccio spiega qual è la ca­ gione del suo scrivere: l’amore che nutre per una “nobilissi­ ma donna”9 per la quale l’autore stesso afferma: “ne servigi d’Amore sono stato, ritrovandomi nella sua Corte tra li gentili uomini e le vaghe donne”10. 7

Cfr. Il FMostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., M/ cortese lettore, pagg. 5-6.

8

Cfr. Il FMostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., Al cortese lettore, pagg. 7-8.

9

Cfr. Il FMostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX.

10

Cfr. Il FMostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX.

Fin dalle prime parole che Boccaccio usa per descrivere la nobiltà d’animo della donna amata traspare tutto il candore del suo poetare che sembra rompere i confini del tempo e dello spazio per inserire il volto e il valore di una dama vis­ suta alla fine del 1300 in un tempo e in uno spazio indefiniti perché la forza dell’amore irrompe talmente potente da cir­ condare i due amanti con una aurea di sconfinata sacralità e di incommensurabile candore. Ed è proprio la purezza dei loro sentimenti puri da rendere immortale il loro amore. Ogni let­ tore si sente rapito dagli effluvi che i loro sentimenti emanano a tal punto da vivere egli stesso quello che, forse, nella sua vita non ha mai vissuto e ha solo sperato di vivere. Un attimo d’amore puro. E innanzi alla bellezza dell’amore che non ha tempo e del raggio di vita che solo l’amore riesce a diffondere ovunque, anche il lettore, proprio come l’autore, si lascia tra­ sportare dalla corrente dell’estasi d’amore che diventa culla, rifugio e conforto per coloro che amano e si amano. Persino chi è ritroso e manifesta disprezzo o indifferenza per quei cuori che vivono d’amore, non può, leggendo tali versi, non sentire tutto il calore dell’amore che si scambiano vicende­ volmente un uomo e una donna innamorati come lo furono Troilo e Griseida. L’argomentai™ dell’autore diventa dunque una captatio be­ nevolentiae che l’autore rivolge non solo al duca, destinatario dell’opera, non solo ai lettori, ma soprattutto a se stesso come volesse dare conferma di un amore inspiegabile e inspiegabil­ mente meraviglioso a chi non sa spiegarsi in fondo qual è la cagione di un simile amore ed il motivo per cui un simile amo­ re abbia trovato breccia nel suo cuore. La grandezza dell’amo­ re, la nobiltà d’animo della donna amata sono talmente elevati che l’autore trasforma il suo tormento d’amore, la sua ango­ scia esistenziale, la sua fatica di continuare a vivere angustiato da pene amorose in una gioia incontenibile che pare essere mero miraggio accecante e ipocritamente artefatto da Amo­ re affinché egli gioisca di quell’attimo d’amore per poi alla fine, perir d’amore per la dipartita della donna tanto amata. Infatti, Boccaccio scrive: “ora il conosco, ora il veggio, ora apertamente sento, quanto di bene, quanto piacere, quanta

soavità dalla luce dell! occhj vostri traevo. Adunque, splendi­ do lume della mia mente, col privarmi della vostra vaga vista avete risoluta la nebula dell’errore sostenuto per addietro da me. [...] Ora così con le mie forze a quelle della fortuna, quan­ do la mia ragione è vinta, non posso resistere”.11 Gli occhi della donna amata diventano motivo non solo di piacere e di gioia, ma di vita. Con una perifrasi illuminista, tipicamente settecentesca, Giovanni Boccaccio invoca la donna amata e la definisce “splendido lume della mia mente”12. La don na amata diventa non solo oggetto di piacere e di desiderio d’amore, ma semplice cagione di pensiero. Ed è proprio il pensiero del poeta ad essere servo d’amore nei riguardi della donna che ama e per la quale vive. La donna è il “lume” che accende di speranza e di vita la vita angosciata del poeta. La donna è fonte non solo di ispirazione poetica, ma anche sor­ gente di ragionevolezza che placa gli istinti più focosi, doma le passioni perverse e trascina nell’alcova dell’amore solo la purezza del sentimento amoroso che non è ancora stato coinvolto e turbato da pensieri turpi, da moti indiscreti e da contrasti interni che spesso freddamente irrompono irruenti nella mente di chi ama e fanno in modo che la limpidezza di un sentimento e di una emozione si tramuti in tragedia e si tinga di sangue. La donna che con la sua purezza di vita e di pensiero diventa luce di serenità per un animo turbato è una immagine che appare costantemente anche nelle liriche di Francesco Petrarca: “Era il giorno ch’ai sol si scoloraro/ per la pietà del suo Factore i rai,/ quando i’ fui preso, et non me ne guardai,/ ché i be’ vostr’occhi, Donna, mi legaro. [...] Trovommi Amor del tutto disarmato,/ et aperta la via per gli

11

Cfr. Il YMostratoy poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso f rane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, pag. 7-8.

12

Cfr. Il FMostrato poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso f rane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, pag. 7.

occhi al core,/ che di lagrime son fatti uscio et varco.13 Sia Petrarca che Boccaccio usano la prosopopea o perso­ nificazione e fanno in modo che Amore sia la causa del loro tormento d’amore. Entrambi i poeti vengono disarmati da Amore che li coglie nel momento in cui un uomo meno se lo aspetta come volesse vendicarsi di un torto subito. Infatti, Pe­ trarca scrive: "Ter fare una leggiadra sua vendetta,/ et punire in un dì ben mille offese, celatamente Amor l’arco riprese,/ come huom ch’a nocer luogo et tempo aspetta”.1415 È splendi­ da la dittologia “uscio et varco” usata dal Petrarca per definire come i suoi occhi fossero diventati un “varco” attraverso il quale passava il fiume di lacrime da lui versato a causa della ritrosia di Laura. Sarebbero stati proprio quei suoi occhi intri­ si di pianto ad aprire la via del cuore del poeta che lo avrebbe irrimediabilmente legato ed ancorato all’amore di una donna pura e bella. E se Francesco Petrarca usa una sinestesia e un iperbato, “leggiadra sua vendetta”, per definire l’azione mal­ vagia che Amore fa nel suo cuore, Giovanni Boccaccio parla di Amore come fosse connivente e compiacente del fatto che tra i due innamorati scorresse il fuoco d’amore e non fos­ se ostile e contrario ai moti dell’animo del poeta che, seppur angustiato, invoca la beltà della donna amata alla quale sarà sempre fedele: “Adunque, bella donna, alla qual fui / e sarò sempre fedele e soggetto, /o vaga luce de begl’occhj, in cui / Amore ha posto tutto il mio diletto”.13 Nella prima stanza Boccaccio invoca il favore di una divinità affinché dia corpo alla sua ars poetica. Solitamente i poeti si rivolgono a Giove o ad Apollo o a Parnaso, dio della poesia, il cui monte è anche la sede dove vivono le muse protettrici delle arti. Giovanni Boccaccio si rivolge direttamente al dio 13

Cfr. Francesco Petrarca Canzoniere^ Editore Oscar Mondadori, 1985, sonetto III, vv. 1-4 e w. 9-11.

14

Cfr. Francesco Petrarca Canzoniere, editore Oscar Mondadori, 1985, sonetto II, vv. 1-4.

15

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, prima parte- IV stanza, vv. 1-4.

Amore che lo ha fatto innamorare di una donna altera e pudi­ ca e soavemente bella. Alla bella allocuzione, “donna”, che il poeta rivolge a Griseida subito dopo aver invocato la divinità affinché lo proteggesse e gli infondesse alto ingegno per poter porre per iscritto la materia nobile del suo argomentare, fa seguito una serie di perifrasi, circonlocuzioni ed epiteti dietro ai quali si cela sempre la donna amata dal poeta: “luce chiara e bella”, “la tramontana stella”, “ancora di salute”, “quella che sei tutto il mio ben e il mio conforto”, “Giove”, “Apollo”, “le mie muse”.16 La sinchisi, “Io di Parnaso le muse chiamare solea”,17 sot­ tolinea come Giovanni Boccaccio fosse abituato ad invocare altre divinità e non il dio Amore proprio perché il suo cuo­ re non era stato ancora colpito dai raggi dell’amore di una donna. Al suddetto enunciato segue un asindeto avversativo introdotto dalla congiunzione avversativa “ma” che pone il lettore entro una parentesi di breve attesa e di suspance che trova risoluzione quando il poeta svela il nome di chi gli fece mutare “quello costume anticho e usitato”18 che aveva quan­ do bisognava che invocasse il favore di una divinità che desse Xincipit al suo poetare. Nella prima stanza il poeta si rivolge al dedicatario dell’opera e al lettore, mentre nella seconda stanza l’autore cambia il destinatario e indirizza tutto il suo encomio poetico alla donna amata, utilizzando l’apostrofe che è segna ­ lata dall’uso della seconda persona del pronome personale

16

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, prima parte-1 stanza.

17

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, prima parte-1 stanza, vv. 4-5.

18

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, prima parte- I stanza, v. 7.

soggetto "tu”19 a cui segue una allocuzione, "donna”.20 La struttura anaforica della seconda stanza è determinata dalla presenza della particella pronominale "tu” posta all’ini­ zio del primo emistichio o del secondo emistichio in modo da sottolineare quanto sia importante non solo la presenza immaginata e, di conseguenza, immateriale in quel momento della donna amata, ma in particolar modo la presenza emotiva che è vissuta con una intensità e con un ardore tali da diven­ tare essa stessa presenza viva sotto forma di "grafema”. E come se la parola stessa, quel vocativo "tu”, prendesse forma e corpo ed occupasse non solo lo spazio del cuore del poeta, ma anche e soprattutto lo spazio reale entro il quale si trovano e si muovono i corpi dotati di corporalità. Il fatto che il poeta si rivolga direttamente alla donna amata e la apostrofi con il vocativo "tu”, fa in modo che la distanza tra lui e lei non ci sia e che il dialogo non avvenga esclusivamente tra la mente e il cuore del poeta. È un dialogo che non rimane chiuso nel "patrio carcere”21, cioè nello scrigno del poeta, come scrive­ rebbe secoli più tardi Giosuè Carducci, ma che diventa un fiume di dolcezza che il poeta fa convogliare direttamente nel cuore della donna. È un "tu” che trasforma l’assenza muta della donna in presenza parlante, la qual presenza fittizia fa in modo che la risposta sia comunque affermativa e diventi per lui speranza di vita dal momento che è proprio la mancanza fisica della donna ad infondergli pensieri di morte. Il poeta invoca la "bella donna” a dar luce al suo ingegno affinché dia corpo e struttura all’opera che si appresta a scrivere. E la voce della donna e non più la voce sconsolata del poeta a rendere noto a tutti gli ascoltatori il grande stato di dolore in 19

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, prima parte - II stanza, v. 1.

20

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, prima parte - II stanza, v. 1.

21

Cfr. Giosuè Carducci, Poesie, Garzanti Editore, \Fl%,]uvenilia-ProloS> I1!, v. 2.

cui versa l’animo del poeta e a fare in modo che tutti provino un sentimento di commozione e di pietà nei confronti di chi soffre per amore. E la commiseratio a cui si appella il poeta per trovare conforto non solo nella donna, a cui egli indirizza il proprio amore, ma anche al dedicatario dell’opera e ai lettori affinché si sentano personalmente coinvolti e non provino altri sentimenti negativi quali noia o disprezzo per i quali è fa­ cile venga meno l’interesse per la materia del poema: “la voce sconsolata, in guisa tal, che mostri il dolor mio, nelle altrui do­ glie, e mostrala si grata, che chi l’ascolta, ne divenga pio”.22 La commiseratio continua anche nella stanza successiva quando il poeta si rivolge a tutti gli amanti affinché ascoltino il suo “ver­ so lagrimoso”23 e in loro si desti “alcuno spirito pietoso”24 che li indurrà a supplicare Amore affinché interceda per il poeta e faccia in modo che egli si ricongiunga con la sua donna amata. 11 poeta si paragona a Troilo, figlio del re di Troia Priamo, che si innamorò di Griseida, figlia del vescovo di Troia, Calcas. Il vescovo a causa della lunga guerra tra greci e troiani decise di fuggire e si comportò da traditore. “Guerrieri incontro assai vide venirse”25 è una sinchisi che rappresenta in un sol ver­ so tutta la concitazione, la frenesia, l’ardore bellico che per lunghi anni hanno attraversato non solo i luoghi, ma soprat­ tutto le menti e i cuori di tutti i guerrieri sia greci che troiani. Proprio dal vescovo speravano, infatti, di trovare “sommo e

22

Cfr. UFilostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la prima vol­ ta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC. LXXXIX, prima parte- V stanza, v. 3-6.

23

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, prima parte - VI stanza, v. 2.

24

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, prima parte - VI stanza, v. 4.

25

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, prima parte - IX stanza, v. 5.

buon consiglio”.26 L’anastrofe, “da lui sperando”, infonde una grande enfasi sulla speranza che tutti i guerrieri riponevano nel vescovo come se le sue parole, eque o inique, speranzo­ se o catastrofiche che fossero, rappresentassero il solo filo a cui appigliarsi per poter riuscire a continuare a lottare e a sopravvivere in un mare di ostilità e di brutalità. L’egoismo e la meschinità del vescovo si manifesta non solo nel suo atto di tradimento che fece nei confronti della città di Troia e dei suoi abitanti, ma soprattutto nei riguardi di sua figlia vedova che abbandonò al suo triste destino. L’iperbato “avea Calcas lasciata”27 pone l’accento sulla figura paterna che viene meno ai suoi doveri di padre e che si ritrova a soddisfare i suoi di­ ritti di uomo e di alto prelato incapace di guardare ai bisogni di una figlia e di una cittadinanza in preda al panico e allo sconforto, capace soltanto di vedere il proprio ed esclusivo bisogno di salvezza. Il pavido uomo religioso si nasconde dietro la cortina della incapacità di dimostrarsi uomo di coraggio che brandisce le armi della fede e che lotta per far trionfare la pace, o una pos­ sibile tregua degli aspri combattimenti che ormai da lunghi anni si susseguono in entrambi gli schieramenti. La metoni­ mia “in abito dolente”,28 usata sapientemente dal poeta, trova compimento nell’epiteto “dolente” che si riferisce all’animo della donna appena abbandonata dal padre. L’uso del lessema “abito” al posto della perifrasi “ donna vestita di lutto” fa in modo che la stessa metonimia diventi al contempo una sine­ stesia e un ossimoro in quanto il contrasto paradossale tra le parole “abito” e “dolente” sembrano voler attenuare il dolore 26

Cfr. Il Filostrato^ poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, prima parte - IX stanza, v. 7.

27

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso f rane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, prima parte - XI stanza, v. 1.

28

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, prima parte - XII stanza, v. 4.

che la figlia ha nei confronti del tradimento che ha compiuto suo padre verso di lei e verso i troiani e affidare parte del suo furore e del suo disonore di figlia disonorata, del suo ramma­ rico e del suo sconforto al suo stato vedovile che le impone un atteggiamento “dolente” e contristato. L’immagine della donna che si getta in ginocchio, “lagnmosa”, “e con voce e chiede perdono a Ettore per il tradi­ con vista assai pietosa”2930 mento del padre, dimostra come le colpe dei padri effettiva­ mente ricadano sui figli che seppur, incolpevoli ed esenti da alcuna forma di accanimento giudiziario, si ritrovano a dover non solo patire, ma anche giustificare atti ingiustificati non commessi da loro. La presenza della sindesi affermativa “e” diventa voce poetica che mette in evidenza lo stato di males­ sere che la donna subisce a causa del comportamento pater­ no, messo in rilievo sia dal tono della voce che da uno sguardo intriso di pietà e di commiserazione. La commiseratio della don­ na diventa commiseratio non solo di Ettore, ma anche del poeta stesso e dei lettori che in quel senso di commiserazione tutti si ritrovano pur volendo distaccarsi ed allontanarsi immanti­ nente. L’iperbato “era cortese Ettore di natura”31’ diventa tra­ sposizione grafematica della cortesia che un uomo potente ha nei riguardi di una donna prostrata e piangente per il dolore causatogli dal padre irriverente verso di lei e verso i suoi dove­ ri di religioso e di cittadino troiano. A commuovere il grande Ettore fu “di costei il gran pianto”,31 un iperbato che mette in rilievo quanto il potere del pianto riesca ad indebolire sia il potere religioso che quello temporale per fare in modo che a 29

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, prima parte - Xll stanza, v. 6.

30

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, prima parte - XI li stanza, v. 1.

31

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, prima parte - XIII stanza, v. 2.

trionfare sia l’onestà e la costumatezza di una donna indifesa, dal cuore nobile e dai sentimenti puri. Ed è proprio la purez­ za dei sentimenti della fanciulla che costringono Ettore “il piacere, e l’onor qual lo vorrai, [...] sempre da tutti quanti noi avrai”.32 Il disonore che il vescovo Calcas, padre di Griseida, gettò sull’onore macchiando di infamia la limpidezza di una giovane donna e facendola apparire come ella in realtà non è, e cioè fonte di disonore, si trasforma agli occhi di Ettore in onore da tenere in grande considerazione, stima e rispetto non solo da parte della ristretta schiera di reali e di nobili, ma anche e soprattutto innanzi agli occhi di tutti i cittadini di Troia i quali avevano riposto proprio nella parola del loro vescovo ogni speranza ai loro dubbi, alle loro titubanze, alle loro aspettative. “Sommo e buon consiglio”33 speravano di trovare i cittadini di Troia, ma invece le loro speranze furono infrante e distrutte dalla fuga del loro vescovo che, impaurito e vile, si lasciò condurre non dal sentimento di coraggio per il quale si affrontano le battaglie della vita, ma dal desiderio di tradimento per il quale tutto si fa e tutto si nega, persino la presenza di un padre a una figlia. L’atto deplorevole del religioso, che abbandonò i suoi citta­ dini rendendoli privi di quel sostegno e conforto divino dal momento che egli, mediatore tra Dio e gli uomini, si era reso irreperibile vanificandosi nel nulla, diventa ancor più meschi­ no e disumano nei confronti della figlia Griseida, la quale, ol­ traggiata da tale atto infame, si ritrova sola a dover affrontare la eventuale gogna dei cittadini di Troia e la sua incapacità di evitare l’onta terribile che ha fatto seguito al tradimento del padre. Griseida appare agli occhi di Troilo bella più di tutte le altre donne “di beltà vince, cotanto era questa / più ch’altra

32

Cfr. Il YMostrato poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso b’ranc. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, prima parte - XIV stanza, v. 1 e 3.

33

Cfr. Il Mostrato poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso b’ranc. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, prima parte - IX stanza, v. 7.

donna bella, ed essa sola / più dell’altre facea lieta la festa”.3435 Dalla stessa bellezza vengono rapiti la mente e il cuore di Francesco Petrarca che loda la donna amata Laura con tali versi: “Quando fra l’altre donne ad ora ad ora / Amor vien nel bel viso di costei, / quanto ciascuna è men bella di lei / tanto cresce ‘1 desio che m’innamora”.30 Per Boccaccio, come per Petrarca, la bellezza della donna diventa motivo di amore immediato. E una bellezza non solo fisica quello che scatena nei due poeti il sentimento d’amore, ma è la bellezza anche spirituale resa ancor più sublime dagli atti e dalla onestà d’animo delle due donne entrambe aventi il cuore impegnato perché Laura, la donna amata dal Petrarca è sposata, e Griselda è vedova e quindi, forse, incapace di concedersi ad un nuovo amore proprio perché la grandez­ za del primo amore è tale da far cristallizzare nel suo cuore quel sentimento puro, candido e immortale che è l’amore. Un amore che per entrambi i poeti è immortalato all’ombra di un luogo religioso, la chiesa e il tempio, al tempo del pianto per Petrarca dal momento che vide Laura il 6 aprile 1327, il gior­ no del venerdì santo, quando la cristianità piange e si duole per la morte di Gesù, al tempo della gioia per Boccaccio dal momento che Troilo “le belle donne, dentro il tempio stare, / e con compagni giovani ridendo, / or questa, or quella cer­ cava lodare”.36 A quel tempo la donna non aveva tanti momenti di uscita e di svago. Le feste erano rare e solo le dame e i cavalieri, cioè il mondo aristocratico, potevano permettersi il lusso di avere incontri d’amore più o meno leciti, più o meno mantenuti dietro la cortina del riserbo e della riservatezza. Le feste pae­ 34

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, prima parte - XIX stanza, v. 4-6.

35

Francesco Petrarca Can^nìere^ editore Oscar Mondadori, 1985, sonetto n° XIII, vv. 1-4.

36

Cfr. Il Filostrato., poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri ­ ma volta dato in luce, Parigi presso f rane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, prima parte - XX stanza, vv. 3-5.

sane, alle quali tutto il popolo partecipava, spesso per le gio­ vani donne, costumate e in cerca di marito, erano un ostacolo alla loro onesta reputazione. Le feste religiose e le parentesi domenicali nelle quali una donna frequentava la chiesa diven­ tavano il solo ed esclusivo luogo di incontro d’amore e l’unica occasione di scambio amoroso per gli occhi di una donna che spesso erano velati e non incontravano altro che il consenso ed il piacere dei suoi famigliati e di quella ristrettissima cer­ chia di amici che di tanto in tanto aveva accesso alla casa dove ella abitava. Anche Dante Alighieri pone come data di inizio della Comedìa il venerdì santo. L’amore che il sommo poeta fiorentino nutre per Beatrice, sposatasi con Simone de’ Bardi nel 1286, diventa motivo di tormento e di angoscia proprio per il fatto che ella è una donna sposata e quindi impossibi­ litata a condividere con lui quell’ardore e quella passione che l’amore stesso porta con sé e fa sì che due cuori diventino un unico cuore e due pensieri si congiungano in un sol pensiero d’amore. Il lutto del venerdì santo è metafora del lutto del cuore del poeta che si ritrova a piangere e non a godere della bellezza non solo della visione della donna amata, ma anche della bellezza del suo animo. Il desiderio d’amore sia di Dante che di Petrarca si spegne e muore proprio nel momento in cui la donna da loro amata si mostra ai loro occhi in compagnia di un altro uomo che rappresenta o non rappresenta l’amore per lei. Entrambi i poeti elevano la bellezza fisica della donna e la trasportano da un piano immanente ad un piano trascendente in cui è possibile amare liberamente e scrivere versi d’amore per colei che si trova nelle condizioni di non poter amare, se non segretamente o nella propria mente o in sogno. I versi danteschi, “l’amico mio, e non de la ventura, / ne la diserta piaggia è impedito / sì nel cammin, che vòlt’ è per paura; / e temo che non sia già sì smarrito, / ch’io mi sia tardi al soccor­ so levata, / per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito”,37 sottoli­ neano quanto amore si cela nell’animo di Beatrice per Dante il quale nasconde i sentimenti della donna a cui fa utilizzare 37

Cfr. Dante Alighieri, Inferno, canto II, w. 61-66, Casa Editrice Le Monnier, 1979

l’epiteto “amico mio” al posto di “l’amore mio” perché trop­ po compromettente per lei. Si tratta non di un semplice amico proprio dal fatto che lo stesso Dante utilizza una perifrasi “e non de la ventura” per qualificare il lessema “amico” utilizzato da Beatrice. Solitamente un amico non lo si considera “de la ventura” perché solo un uomo, a cui si affida il proprio amo­ re, può essere ritenuto un grande amore oppure la semplice avventura di un breve istante di mero soddisfacimento dei propri impulsi sessuali. Infatti, Beatrice non considera Dante essere un “amico de la ventura”, ma “l’amico” che intende salvare e portare fuori della “diserta piaggia”38 che impedisce al suo cammino di proseguire e di ritrovare la retta via che conduce all’amore, alla luce divina, a Dio. Raggiungere Dio che viene appellato con molte circonlo­ cuzioni e perifrasi quali Luce divina, Amore, Colui che tutto muove, significa anche raggiungere l’Amore della donna ama­ ta, Beatrice, che si presenta agli occhi di Dante come una re­ altà metafisica, una figura angelica spinta da Amore ad andare incontro al suo amore, tenuto segreto agli occhi impietosi e indiscreti della gente e rivelato solo al proprio animo e quin­ di a Dio che concede ai due innamorati di amarsi in tempi e luoghi ultraterreni dove la purezza di un sentimento limpido e puro, come dovrebbe essere quello amoroso, non è offuscata da nessuna rovinosa e turpe mano umana, ma vive comple­ tamente avvolta dalla luce di Dio che è Amore elargitore di amore. L’amore segreto di Ludovico Ariosto per Alessandra Benucci rimarrà oscurato per molti anni, fino al 1527, anno in cui il poeta emiliano sposò, in segreto, la donna tanto amata. Un matrimonio segreto fu il loro, proprio perché Ludovi­ co Ariosto temeva di perdere i benefizi ecclesiastici se avesse reso pubblica la notizia della loro unione sacramentale. Non la fede, ma i precetti liturgici e le tradizioni religiose impedirono a Dante, a Petrarca, all’Ariosto e a molti poeti e scrittori di tutti i tempi di amare e di essere contraccambiati. Quel loro amore negato divenne comunque una forma di amore sublime senza 38

Cfr. Dante Alighieri, Inferno, canto II, v. 62, Casa Editrice Le Monmer, 1979

tempo né spazio perché il loro desiderio di amore, in fondo, distrusse le barriere che gli uomini costruirono intorno a loro per impedire al loro amore desiderato di esistere, forte e ge­ nuino, vero e puro, più vivo e autentico di quell’amore inesi­ stente che la donna amata era costretta a subire per volere di padri, di fratelli e di regole dettate dalle usanze e dai costumi di una società chiusa e retrograda, abbarbicata a soddisfare esclusivamente le esigenze dei due soli poteri forti esistenti a quel tempo: quello religioso e quello politico. I/ Filostrato rimase manoscritto per molti secoli e fu pubblicato solo nel 1789, a Parigi, e non in Italia. La pubblicazione del poema del Boccaccio in terra straniera e non in suolo italiano permise all’opera stessa di sopravvivere a tutte quelle controversie re­ ligiose che si abbatterono sull’Italia cattolica e permisero che un fiume di deplorevoli atti legislativi e processuali travolges­ sero la libertà di pensiero e di opinione non solo di letterati e di studiosi, ma anche di liberi pensatori, di religiosi e di sem­ plici laici che dissentivano dalla imperante oppressione reli­ giosa della Chiesa cattolica. Il tribunale dell’inquisizione non solo decretò la morte di migliaia di innocenti, ma anche fa­ vorì la eliminazione, tramite l’indice dei libri proibiti, istituito dall’apparato burocratico e legislativo della Chiesa, di migliaia e migliaia di scritti letterari e scientifici. Per secoli il pensie­ ro religioso cattolico dominò sugli stati di quello che sarebbe diventata nel 1861 l’Italia, una unica patria, una unica grande nazione, per secoli la legge della Chiesa cattolica fu una spada di Damocle posta sulle teste di molti eruditi scrittori i quali furono disposti a rinnegare le loro vite piuttosto che a dover distruggere la libertà del loro pensare e, di conseguenza, del loro agire. E grazie al vento della rivoluzione francese che scrisse le parole “libertà, uguaglianza e fraternità” non solo sulle lenzuola che penzolavano dai tetti e dai balconi come fossero bandiere, non solo sui muri delle case e dei palazzi nobiliari e signorili, non solo nelle pagine di poeti e di scrittori illuminati, ma soprattutto nelle menti e nei cuori della gente, la parola scritta rivelante la verità trionfò sull’oscurantismo che intendeva fare della menzogna la verità assoluta. In quelle sole tre parole tutti i popoli d’Europa vi trovarono tutto lo

spirito della vera democrazia che avrebbe concesso al popolo non solo francese, ma italiano, spagnolo, greco, inglese, au­ striaco, russo di essere libero e non più schiavo. Schiavo di una élite di persone benestanti che tutto facevano per il bene del proprio sé e nulla facevano per il bene altrui. L’altro da sé era schiacciato sotto il peso atroce della fame e della miseria. A nulla, in fondo, sarebbe servito il benessere industriale se non a mettere in evidenza l’immane differenza tra capitalisti e operai, sviliti e mortificati dal loro essere dei semplici operai, schiavi del potere forte e condannati alla schiavitù della obbe­ dienza forzata ai governi assolutisti che in Europa e nel mon­ do seppellivano l’entusiasmo dei popoli ancor prima che po­ tesse esplodere irruente ed impetuoso. I/Filostrato, poema che esalta l’amore di una donna, Griseida, figlia di Calcas, vescovo di Troia, non sarebbe sopravvissuto innanzi alla brutalità della azione papale perché il contenuto sarebbe stato considerato osceno e immorale. Infatti, Boccaccio con il suo poema volle mettere in luce il fatto che l’amore non ha impedimenti né di natura religiosa né di natura politica né di natura economicosociale. Griseida è la figlia di un vescovo, un uomo che secon­ do le leggi stabilite dalla Chiesa cattolica e vigenti al tempo in cui Boccaccio scrisse la sua opera letteraria, e cioè il 1393, non avrebbe mai potuto avere rapporti di natura sessuale, e nemmeno ideale e spirituale, con una donna. Eppure a quel tempo, e nel corso dei secoli che si susseguirono alla morte di Cristo, 1 religiosi si concedevano tutti i piaceri possibili e dava­ no piena soddisfazione ai loro istinti di natura sessuale tanto che addirittura papa Celestino V passò alla storia per essere stato non solo pontefice, ma anche padre. Come riuscì Boc­ caccio a evitare l’azione diffamatoria da parte della Chiesa? Trasportando l’azione in un tempo in cui la religione cattoli­ ca, al chiesa e i porporati non esistevano ancora ed ambientare la vicenda all’epoca della guerra tra greci e troiani, momento in cui anche il sacerdote poteva sposarsi e avere figli non era considerato un errore umano e un atto riprovevole e disdi­ cevole. D’altronde, nel Pentateuco ai sacerdoti, ai leviti, è con­ cesso sposarsi e avere figli perché la legge divina non impone loro nessun divieto alla procreazione. Il giudizio di condanna

che avrebbe dovuto subire Boccaccio da parte dell’azione ec­ clesiastica rimase congelato fino alla fine del secolo XV1II e, fortunatamente, il poema non entrò a far parte dell’elenco infame e diffamatorio diramato dai papi che si susseguirono a partire dall’anno 1220 al tempo del re Federico II. La ventata di libertà e soprattutto il desiderio di sentirsi liberi di esprime­ re il proprio pensiero correva per le strade di Parigi e di tutta la Francia la cui rivoluzione permise agli uomini di essere e di sentirsi illuminati dallo spirito di ragione e non solo dalla luce della fede che imponeva alla ragione di eliminare tutte quelle passioni e quegli istinti che sono insiti nell’uomo e che l’uomo stesso non può eliminare semplicemente a parole. Sono istin­ ti ed impulsi che fanno parte della natura umana e che non dipendono dall’uomo, ma da Dio. L’uomo può forzatamente negarseli, ma non potrà mai dichiarare e costringere gli altri ad affermare che l’uomo per sua stessa natura non sia fatto anche di passioni amorose e di soddisfacimenti amorosi. Con Vindice del 1559 anche le opere letterarie che risultava­ no “offensive alle pie orecchie” dei cattolici furono proibite. Ricordiamo il caso eclatante di fra Girolamo Malipiero che stampò il Petrarca spirituale nel 1536 nel quale cambiava ed ag­ giustava i versi di Francesco Petrarca perché ritenuti troppo audaci per quell’epoca.

Chiarefresche e dolci acque Ove le belle membra Pose colei che sola a me par donna', gentil ramo, ove piacque, (con sospir mi rimembra) A lei difar al belfianco colonna', erba e fior che la gonna leggiadra ricoperse con /angelico seno', aere sacro sereno ove Amor co" begli occhi il cor m" aperse'. date udienza insieme a le dolenti mie parole estreme

La versione di fra Girolamo Malipiero è la seguente: Sono smarrite / acque Là, dove le sue membra Lavar soleva quell antica donna, ctìa Dio già tanto piacque', (con sospir mi rimembra) Et rotta è del suo seggio ogni colonna, squarciata l aurea gonna con che già ricoperse t alme in materno seno, quando fu il del sereno aperto da chi in croce il lato aperse e i due liquor insieme sparse, per tram dalle pene estreme Le parole d’amore che Francesco Petrarca rivolge alla sua amata non sono dissimili alle tante parole d’amore che Pietro Abelardo, filosofo e scrittore latino vissuto dal 1079 al 1142, rivolse alla sua amata Eloisa, nipote del canonico Eulberto di Chartres, donna bellissima e molto colta. I due amanti si sposarono in segreto ed ebbero anche un figlio. Siccome a quell’epoca un chierico non avrebbe mai potuto sposarsi, Abelardo mandò Eloisa nel convento di Argenteuil nei pres­ si di Parigi. I parenti della donna, temendo che egli volesse sbarazzarsi della moglie per motivi di carriera, si vendicaro­ no e fecero evirare Abelardo. Oltraggiato Abelardo decise di rinchiudersi in convento, prima nell’abbazia di San Dionigi e poi a Nogent-sur-Seine. Proseguì i suoi studi, ma non si dimenticò mai di Eloisa perche dal convento le continuò a mandare lettere d’amore che rappresentano tutto il dramma interiore vissuto dal letterato che amava una donna, ma che era anche innamorato della vita ascetica e degli studi filosofici. Tutto il travaglio spirituale e umano di Abelardo traspare dalla sua opera Historia calamitatum mearum (Storia delle mie disgrafie) scritta tra il 1133 e il 1136 dove vi si legge tutto l’amore fo­ coso che un uomo nutre per una donna e la tragedia conse­ guente perché a un religioso non era concesso di amare una

donna e di provare amore per una donna che era solo fonte di perdizione e di traviamento morale e spirituale. A un chieri­ co era concesso, dalle autorità ecclesiastiche, amare solo Dio. In teoria, però, perché in pratica molti sacerdoti, in segreto, trovavano consolazione tra le braccia di una donna! E in una lotta titanica tra essere uomo avente dei sentimenti umani ed essere una figura ipostatica, metafisica avente amore solo per Dio, si consumò tutto il dramma di un uomo e, di conseguen­ za, di una donna. Le parole d’amore altamente poetiche che Abelardo rivolse ad Eloisa, si possono considerare come una vera e propria eloquente pagina di letteratura che super il tempo contingente e va oltre il tempo perché l’amore di una donna per un uomo, se sincero e puro, supera i confini del tempo e dello spazio e trasforma i risentimenti e le frustrazioni di molti uomini che sono costretti sia dalle autorità ecclesiastiche che dal proprio Ego, ricolmo di superbia, ma anche di comprensibile frustra­ zione e gelosia, in sogni che potrebbero avverarsi in futuro. [...] Insommaprima ci trovammo uniti sotto lo stesso tetto,poi anche nei nostri cuori. Con il pretesto dello studio pensavamo solo al nostro amore e inoltre le cure scolastiche ci offrivano quella solitudine che /amo­ re sempre richiede. Aprivamo i libi, ma si parlava più et amore che di filosofia', erano più i baci che le spiegazioni. Le mie mani correvano più spesso al suo seno che ai libri. Clamore attirava i nostri occhi più spesso di quanto la lettura non li dirigesse sui libri. E talvolta, per meglio stornare qualsiasi sospetto, io arrivavo al punto di percuoterla', ma era lamore, non lo sdegno, era la tenerezza non tira a dare quelle percosse, e tutto ciò era più dolce di qualsiasi balsamo prezioso. Ma le parole sono inutili. Nel nostro ardore, passammo per tutte le fasi dell amore', e se in amore si può inventare qualcosa di nuovo, noi lo inventammo. E il piacere che provavamo era tanto più grande, perché noi non lo avevamo mai conosciuto, e non ci stancavamo mai [...] Quanto soffrirono i due innamorati nel vedersi separare} [...] Nessuno di noipensava a se stesso, ma ognuno soffriva per quello che era successo alt altro', ciascuno di noi piangeva per la sventura dell altro, non la propria. [...] Perfino la consa­ pevolezza dell irrimediabilità dello scandalo ci aveva resi insensibili allo scandalo', il senso di colpa, del resto, era tanto minore quanto più dolce

era stato ilpiacere delpossesso reciproco^

Cercarono di riscrivere le Novelle del vescovo domenicano Matteo Bandello, il Decameron di Giovanni Boccaccio, il Mor­ ente di Luigi Pulci, gli Hecatommithi di Giovanni Battista Giraldi Cinzio, la Vita Nova di Dante Alighieri, il Cortegiano di Bal­ dassarre Castiglione, la Zucca e la Vibrarla di Anton Francesco Doni, la Circe di Giovanni Battista Gelli, i Dialoghi piacevoli di Niccolò Franco, la Monarchia del mondo di Agostino Ferentilli e molte altre opere. Cercarono in tutti i modi di censurare pa­ recchi brani della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso per­ ché c’erano espliciti riferimenti al paganesimo, ai temi sacri e profani che si mescolavano e trattavano verità cristiane e miti eroici avendo poco rispetto per la chiesa di Roma. Per agevo­ lare la censura nel 1572 fu istituita la Congregazione dell’indi­ ce dei libri proibiti seguita dall’indice tridentino del 1564. Nel marzo del 1596 il papa Clemente Vili fece pubblicare un nuovo Indice che fu applicato in tutti gli stati italiani eccetto la Repubblica di Venezia e il Ducato di Savoia che si opposero a tale Indice. La galleria di persecuzioni che gli scrittori dovet­ tero subire per molti secoli si arrestò solo nel 1861 quando fu proclamata a gran voce la nazione Italia, unione di tanti picco­ li stati che trovò finalmente coesione e forza grazie anche alle note patriottiche inneggianti all’Italia unita di Giuseppe Verdi e ai versi gloriosi del poeta Giosuè Carducci che in quegli anni di tumulto e di grande frenesia intellettuale e politica scriveva: “Leva, o stranier, le tende! Il regno tuo cessò.”39 40 Il Filostrato, dunque, si salvò dalla persecuzione della Con­ gregazione dell’indice dei libri proibiti che misero in atto per secoli una azione di distruzione dei libri sacri e profani che fossero ritenuti sgraditi da leggere e da ascoltare da parte di papi, cardinali, vescovi e sacerdoti che vedevano nella diffu­ sione di versi e parole intrisi di dolcezza e di piacevolezza 39

Cfr. nella traduzione di K Ronconi in Abelardo, Storia delle mie di­ sgrafie. lettere d’amore di Abelardo e Eloisa, Milano Garzati! 1974.

40

Cfr. in Carducci, Poesie, Garzanti editore, 1978, ]ui>enilia, Il Plebiscito, vv. 119-120.

amorosa solo un turpe ed insensato insulto alla moralità e al buon costume dei cristiani. E forse da ritenersi un atto di immoralità amare? In quale versetto deU’Ej^/m# vi è forse scritto che l’uomo non deve amare e non deve concedersi ai piaceri della carne? Non bisogna confondere l’amore puro e il desiderio di amore che ogni uomo ha nel profondo del suo animo con la sfrenatezza e la smoderatezza nel concedersi a qualsiasi tipo di rapporto sentimentale e carnale volto esclusi­ vamente a soddisfare i propri istinti sessuali che nulla hanno a che fare con il sentimento d’amore che la donna prova per un solo uomo e l’uomo per una sola donna. L’amore è sempre accompagnato dal soddisfacimento dei propri impulsi e que­ sto è legge divina dal momento che è Dio stesso che dice agli uomini: “E voi siate fecondi e moltiplicatevi, siate numerosi sulla terra e dominatela”.41 A nessun uomo Dio negò, nega e negherà il fatto di essere “fecondi”, cioè di amare con cuore sincero. E chi si arroga il diritto di impedire a un essere umano di amare tramite l’azione diffamatoria, dissacrante ed impie­ tosa di un tribunale non rispetta la Parola di Dio che è l’unica parola che è al contempo Amore, Azione, Verità e Giustizia. L’uomo, dunque, non può negare a se stesso, per volontà uma­ na e non divina, di amare liberamente. E non può nemmeno considerare “follia”42 il proprio amore e la propria esigenza fisica di amare e di essere corrisposto. Boccaccio/Troilo non ama per il gusto di amare, ma riduce la sua grande passione d’amore a un desiderio impuro, deplorevole, da condannare, invece che da esaltare. Infatti, utilizza le perifrasi “maledetto foco” in sostituzione della dittologia “amore e cortesia”,43 “lo

41

Cfr. in Bibbia di Gerusalemme, Genesi 9,7, Centro editoriale dehoniano-EDB, 2009.

42

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, prima parte- XXIII stanza, v. 1.

43

Cfr. Il FIlostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, prima parte- XXIII stanza, w. 2 e 3.

strai crudele”4445 e l’iperbato "d’amore la ferita”415 per descrivere quanto l’amore provato fosse causa non di gioia, di letizia e di felicità, ma lo istigasse "al lutto, al pianto, alli tristi sospiri”.46 Troilo è catturato dalla bellezza soave della donna: "Troilo ebbe diletto, ed arrestassi allor mirando fiso gl’occhj lucenti, e l’angelico viso”.47 E tipico dei poeti del "dolce stil novo” del 1200, Dante Alighieri, Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Gianni Alfani, Cino da Pistoia, encomiare la bel­ lezza della donna amata e sentirsi rapire e trafiggere dall’amo­ re di lei che si manifesta dal viso, dalle sembianze, dagli occhi lucenti, dall’angelico viso, dal saluto, dal gentil sguardo, dalla bellezza fisica esteriore che corrisponde perfettamente a quel­ la bellezza interiore che è causa di mirabile costumanza, rigo­ re, giusta ritrosia tanto da sembrare agli occhi dell’amato "[...] sdegnosetta / quasi dicesse: Non ci si può stare”48 anche se, in realtà, il sentimento d’amore è fin da subito corrisposto, ma mantenuto segreto e rivelato solo al proprio cuore in fervente animazione e in smodata trepidazione. Nel sonetto intitolato Lo vostro bel saluto e 7 gentil sguardo il poeta Guido Guinizzelli utilizza un ossimoro per sottolineare quanto per lui il saluto e lo sguardo della donna amata non siano motivo di gioia, ma di tormento che raggiunge il para­ dossale sentimento nefasto della morte: "Lo vostro bel saluto

44

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, prima parte- XXIX stanza, v. 7.

45

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, prima parte- XXXII stanza, v. 5.

46

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, prima parte- XXIII stanza, v. 8.

47

48

Op. cit.

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, prima parte- XXVIII stanza, w.2-3.

e '1 gentil sguardo / che fate quando v’encontro, m’ancide”.49 La prosopopea di Amore che, come fosse uno spirito mali­ gno, lo assale, induce il poeta ad avere un duplice sentimento, l’uno contrastante l’altro, l’uno posto in antagonismo all’altro, tali da indurre nel suo animo a subire, inconsapevole ed invo­ lontariamente, la guerra devastante che scoppia per amore. Il sentimento del bene è posto a confronto con quello del male, il peccato e la gioia di amare si affrontano in duello e tutto è posto nelle mani di Amore che agisce al posto del poeta il quale riesce solo a proferire: “parlar non posso, che n’ pene ardo” e “remagno corno statua d’ottono / ove vita né spirito non ricorre”.50 Guinizzelli è talmente ferito per amore che muto diventa e, da uomo privo di parola, subisce una metamorfosi e nega a se stesso la vita riducendosi a cosa immateriale, a una statua d’ottone, che è priva di corpo e di anima. L’amore è talmente devastante in lui da subire una trasformazione fisica e interio­ re che corre in senso contrario alla classica personificazione di oggetti e cose i quali prendono corpo e forma e vita e si ani­ mano per dare anima e voce al canto d’amore che altrimenti per motivi religiosi e/o politici verrebbe soffocato al suo na­ scere. In questo quadro paradossale si tesse l’immagine non definita, ma sentita e percepita solamente a livello emotivo e mentale, dell’amore e dello strazio che l’amore fa al cuore del poeta. È un amore che causa dolore e desiderio non di amore contraccambiato, ma di morte. Gli occhi della donna ama­ ta divengono per lui cecità di sguardo, negazione assoluta di sentimenti di gioia e di serenità, fonte di dissoluzione non nel nulla immateriale e trascendente, dove ci potrebbe essere uno squarcio di vita amorosa e un lembo di smisurata felicità, ma nell’oggetto immateriale ed immanente, una statua di metallo, che ghiaccia e cancella ogni slancio di passione e di fermento amoroso che un uomo nutre e coltiva nel suo cuore come G. Contini, I poeti del Duecento, Milano-Napoli, Ricciardi Editore,

49

1960.

50

G. Contini, I poeti del Duecento, Milano-Napoli, Ricciardi Editore,

1960.

fosse un bene prezioso, un frutto di rara e disumana beltà e di piacevole e sorprendente sapore. Il dardo di Amore trova compimento nella dittologia “taglia e divide” che raffigura, spezzato in due e di conseguenza lace­ rato, il cuore del poeta il quale si sente combattuto da due sen­ timenti contrastanti, il bene e il male, il peccato o la giustezza della causa per la quale egli è sì tanto combattuto e tristo. Guinizzelìi si domanda, mentre in sé la vita, e conseguente mente il suo sentimento d’amore, continua o si sta improvvi­ samente fermando, trasformando il suo sé nella negazione del suo sé che assume forma immateriale, priva di sostanza vitale e di anima: “s’elli face peccato ver merzede”.51 Alla metamorfosi negativa di Guinizzelìi corrisponde la visione antitetica dell’amore che Guido Cavalcanti ha e che inneggia ed esalta nel sonetto intitolato Avete 7z vo li fiof e la verdura. La figura della donna amata risplende di luce più del sole. 11 paragone della donna con l’astro luminoso che irradia calore e vita sugli uomini e sul mondo, immerge il poeta, la donna amata e il lettore in un mondo paesaggistico che, nei secoli a venire, aprirà le porte alla poesia arcadica dove la beltà del luogo, la piacevole compagnia dell’amore e di persone angeli­ che che si animano ed animano il cuore del poeta e di coloro che gli stanno accanto, diventano il cuore pulsante e l’anima stessa della materia poetica. L’encomio che Guido Cavalcanti fa alla sua donna amata raggiunge la vetta del suo sentire amo­ roso alla fine del suo canto quando scrive: “perché di tutte siete la migliore”.52 Circondata dall’abbraccio del sole e della primavera, circondata dall’abbraccio delle donne che le fanno compagnia, circondata dagli stessi freschi e caldi versi che il poeta le dedica, la donna assurge ai suoi occhi come simbolo eterno di beltà che annulla tutte le altre beltà. La prima quar­ tina pone la donna amata entro un contesto naturale dove ella diventa la personificazione del sole e della luce, dei fiori e delle G. Contini, Ipoeti del Duecento, Milano-Napoli, Ricciardi Editore,

51

1960.

52

Gp.cit.

piante e il poeta è estasiato per la luminosità della sua bellezza che infonde vita ovunque. A quella vita piena d’amore che la figura della donna emana, il poeta risponde non con parole intrise di morte, ma con parole fervide d’amore. Nella secon­ da quartina la donna è posta a confronto con le altre donne e tale è il suo amore che lo induce a sentenziare: “In questo mondo non ha creatura / sì piena di beltà né di piacere”.53 Anche Troilo rimane talmente affascinato dalla beltà di Gri­ seida che dopo averla incontrata nel tempio, aver fatto ritorno a casa ed essersi rintanato “tutto soletto in camera”/455 ripensa a quanto godimento gli diede la visione di una simile bellezza che lo spinge ad enumerare le virtù della sua donna e a com­ mentarle conseguentemente. Il chiasmo semplice “annume­ rando a parte, a parte giva commentando” è caratterizzato da parole aventi identiche funzioni sintattiche poste in posizione speculare le une rispetto alle altre, e fa in modo che si crei un abbraccio non solo grafematico, ma anche figurale tra mondo umano e mondo poetico, tra il poeta e la donna amata.33 Angelo Ambrogini detto il Poliziano, nome latinizzato del suo paese natale Montepulciano, in una delle stanze che egli scrisse “per la giostra del Magnifico Giuliano di Piero de’ Me­ dici” mette in luce il candore della donna amata e della sua veste utilizzando una anafora “candida... candida”.56 Il primo emistichio è costruito in parallelismo sintattico con il secondo ed entrambi sono congiunti da una sindesi affer­ mativa “e” che lega in forma indissolubile il candore del volto e del corpo della donna al candore della veste. Una veste che G. Contini, I poeti del Duecento, Milano-Napoli, Ricciardi Editore,

53 1960.

54

Cfr. Il 'Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Orane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, prima parte- XXXIII stanza, vv. 1-2.

55

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Orane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, prima parte- XXXIII stanza, w. 7-8.

56

Cfr. in Angelo Poliziano, Poesie italiane, Fabbri Editori, 1995, Libro I, stanza XLIII v. 1.

per i suoi decori floreali, “di rose e di fior dipinta e d’erba”5759 58 immette l’animo sognante del lettore in una atmosfera pri­ maverile di dolce e delicata limpidezza di luce, di visione e di stato d’animo. L’epifora “di rose e fior dipinta e d’erba”68 ben si intona a quella di Giacomo Leopardi “dolce e chiara è la notte e senza vento”.69 L’epifora del Poliziano è riferi­ ta alla donna amata che viene lodata dal poeta non solo per la sua luminosa e candida presenza, ma per il suo abito per­ fettamente intonato con l’alterità e la austerità della donna, mentre quella di Leopardi è un inno alla bellezza della natura che magicamente sa catturare lo sguardo incantato del poeta e trascinarlo ad una invocazione di lode nei riguardi di quello che egli ammira sia di giorno che di notte: la potenza di una natura che infonde ora tormento e angoscia ora calma e sere­ nità incommensurabili. L’allegoria della foresta che partecipa alla felicità del poe­ ta completamente avvolto dalla bellezza e dalla soavità della donna trascina anche il lettore nel vortice della gioia e della allegria e lo rende partecipe non solo di quella visione di pu ­ rezza incantevole, ma anche del sentimento che Amore spri­ giona nei cuori di tutti. Il gesto mansueto e regale della donna viene posto in antitesi con il suo sguardo, “ciglio”,60 che è talmente potente da riuscire a placare le tempeste. Poliziano dà alla donna poteri taumaturgici tali da riuscire a domare le forze della natura come se ella stessa fosse una divinità inviata da Dio sulla terra ed agisse in nome Suo e per Suo volere. In­ fatti, il poeta scrive: “le braccia fra sé loda e ‘1 viso e £1 crino, / e £n lei discerne un non so che divino”.61 E proprio quel “un 57

Cfr. in Angelo Poliziano, Poesie italiane* Fabbri editori, 1995, Libro I, stanza XL1II v. 2.

58

Cfr. in Angelo Poliziano, Poesie italiane* Fabbri editori, 1995, Libro I, stanza XLIII v. 2.

59

Cfr. in Giacomo Leopardi, Canti* Loescher editore Torino, 1964, Lz; sera del dì difesta* v. 1.

60

Cfr. in Angelo Poliziano, Poesie italiane* Fabbri editori, 1995, Labro I, stanza XLIII v. 8.

61

Cfr. in Angelo Poliziano, Poesie italiane* Fabbri editori, 1995, Libro

non so che divino”62 che fa da prolessi al verso “col ciglio le tempeste acqueta”63 e anticipa la forza magnetica che la donna ha non solo nei riguardi del poeta e di tutti coloro che la cir­ condano, ma anche e soprattutto verso la natura con la quale si trova in perfetta sintonia e in sublime comunione.

I, stanza XLII w. 7-8.

62

Op. cit.

63

Op. cit.

ILFILOSTRATO DI GIOVANNI BOCCACCIO (II)

La sinchisi “essere dovesse il suo desiro / lodato molto”6465 trasporta i dubbi e lo sconforto di Troilo per un ipotetico diniego da parte della donna su una nuvola di breve quanto mai impensata letizia che trova soluzione nell’anastrofe “male avvisando”,66 dal sapore totalmente amaro ed aspro che pone il lettore e l’uditorio nelle condizioni di presagio funesto, a cui fa seguito l’oggetto, “il suo futuro fleto”.66 E una anastrofe che assume i tratti di una prolessi che dise­ gna i contorni di un futuro incerto e oscuro. Il desiderio iniziale del poeta di “celar l’ardore”67 pone un velo di oscurantismo amoroso che le usanze e i costumi del tempo caldeggiavano ampiamente impedendo quasi al “candi­ do velo”6869 di “si bella donna” di cadere e di mettere in luce non solo la sua bellezza, ma anche il suo candore di sentimenti che la eleva al di sopra di tutte le altre donne. Anche Petrarca pone la sua amata Laura su un piedistallo tanto da dimenticare tutte le altre donne e scrive: “null’altra fia mai che mi piaccia”.66 La 64

65

Cfr. I/ Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso f rane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., prima parte, stanza XXXV, w. 3-4. Op. cit. prima parte, stanza XXXV, v 8.

66

Cfr. I/ Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., prima parte, stanza XXXV, v 8.

67

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., prima parte, stanza XXXVI, v 3.

68

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., prima parte, stanza XXXV III, vv. 7 e 8.

69

Cfr. in Francesco Petrarca, Cannoniere, Oscar Mondatori Editore, 1985, sonetto XX, v.4.

stessa fedeltà alla donna amata la dimostra Boccaccio quando, per bocca di Troilo, afferma: “niente pensando ad altra, che venuta / gli sovvenisse, o fosse mai piaciuta”.70 L’anafora “tu sola” posta all’interno di un chiasmo avente parallelismo nelle funzioni sintattiche e nelle corrispondenze di significato, “tu sola contento puoi farmi, tu sola sei colei che puoi aitarmi”,71 diventa una lamentazione amorosa carica di enfasi e di pre­ gnante significato emotivo che fa del desiderio d’amore una speranza di vita per un uomo che sembra essere al limitar della vita. Tutti i pensieri di Trolio erano per la sua amata Griseida e nemmeno “le battaglie e gli scontri angosciosi, / che Ettore e gl’altri suoi fra tei faceano, / seguiti da Troiani numerosi, / da suoi pensieri niente il rimoveano”.72 Soltanto per amore dimostrava tutto il suo valore Troilo e divenne talmente forte nel maneggiare le armi e nei duelli che i greci lo temevano come fosse la morte. L’iperbato “divenne in armi si feroce e forte” congiunto alla dittologia “feroce e forte” pone in evidenza tutta la grandezza bellica del giovinet­ to Troilo che agisce spinto non solo dall’odio e dal desiderio di distruzione che egli nutre verso i greci, ma in particolar modo dall’amore per una donna alla quale vuole dimostrare tutto il suo ardore ed il suo coraggio. E se Troilo/Boccaccio guerreggia veramente contro i nemici greci causando loro terribili perdite umane e pone a motivo di quelle vittorie la forza che l’amore per Griseida gli infonde, Petrarca, invece, si ritrova a combattere non contro eventuali nemici e rivali in amore, ma contro Laura stessa, la quale diventa ai suoi occhi e al suo animo, fin troppo dolente per la ritrosia della donna a lui nemica. Per il fatto di porsi in antagonismo amoroso con il poeta 70

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., prima parte, stanza XXXVII, vv. 7 e 8.

71

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., prima parte, stanza XLIII, vv. 7 e 8.

72

Op. cit. prima parte, stanza XLV, 1-4.

ella viene appellata con l’epiteto “guerrera”.73 È una “guerre ra” non ostile, ma “dolce”74 e l’uso sapiente della sinestesia fa in modo che la donna amata, seppur reticente a corrispondere l’amore del poeta, sia sempre una figura che gli infonde dol­ cezza, piacere ed amore, perciò mai fonte di ostilità estrema e di sentimenti troppo aspri e duri. Nel poema di Boccaccia, invece, Troilo non riuscirebbe a sopravvivere al diniego della donna amata ed afferma con animo scorato: “ten prego non voler fare a questa grazia nego”75 a cui aggiunge lapidario: “cercherò morte, e lo farò di fatto”.76 Troilo affida tutte le sue speranze di vita nella speranza di ricevere da Griseida assenso al suo impellente bisogno di amore che gli invade anima e corpo e lo rende incapace di staccarsi da quell’unico pensiero che ora lo tormenta ora lo intenerisce ora lo fa esplodere in un unico e grande fremito di gioia inaspettata. Troilo desidera trovare la morte se la sua donna dovesse scomparire all’im­ provviso dalla sua vita. Leopardi, invece, trova un flebile mo­ mento di vita non mirando la bellezza della donna amata con la quale era solito favellare con lui, “ond’eri usata favellarmi”/7 perché, per disgrazia, quella bellezza dolce e soave, è venuta a mancare, ma trova un soffio di vita nuova ripercorrendo con la mente le parole e tutti i bei momenti trascorsi insieme passeggiando sugli “odorati colli”.78 73

Cfr. in Francesco Petrarca, Cantoniere, Oscar Mondatori Editore, 1985, sonetto XXI, v.l.

74

Cfr. in Francesco Petrarca, Cantoniere, Oscar Mondatori Editore, 1985, sonetto XXI, v.l.

75

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., prima parte, stanza LV, w. 7 e 8.

76

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., prima parte, stanza LVI, vv. 7.

77

Cfr. in Giacomo Leopardi, Canti, Loescher Editore, Torino, 1964, Le ricordante, v. 142.

78

Cfr. in Giacomo Leopardi, Canti, Loescher Editore, Torino, 1964, Le ricordante, v. 151.

Il ricordo di Leopardi diventa non motivo di pianto e di amaro sconforto, ma fonte di esultanza estrema che gli fa ri­ trovare quel sentimento perduto, l’amore, e quella gioia amo­ rosa che nemmeno la morte riesce a infrangere. “Questa Ter­ ra natal: quella finestra”79 diventano per il poeta la finestra del suo cuore che non si è mai chiusa nemmeno di fronte al terribile verdetto del fato che gli ha rubato il suo bene più pre­ zioso, l’amore di Nerina, ma che è sempre rimasta aperta ver­ so quell’orizzonte nel quale può ancora immaginare e scolpire la bellezza della sua donna e dipingere i lieti momenti di vita trascorsi insieme. Il ricordo della donna diventa per Leopardi non dolore, ma luce di eternità che trasforma il suo vivere turbato ed angosciato in un vivere armonioso che si allinea con il vivere che fu, con la vita di quel recente passato che gli riempie la vita e il cuore. Il ricordo diventa culla che trasfon­ de nella mente del poeta flebili momenti di ripresa emotiva e spirituale grazie ai quali egli riesce, in un connubio perfetto di sensi e di sentimenti, dove l’oscurità della morte diventa luce che abbaglia e che ridona vita al suo cuore martoriato, a rie­ cheggiare le parole e a rendere vivo e presente innanzi ai suoi occhi il volto e la figura della giovane Nerina. Persino le feste e le “radunanze”80 sono fonte non di trastullo e di sollazzo, di svago e di divertimento, ma sono sorgente di rimembranze continue e costanti che lo inducono a dolersi del fatto che Nerina mai più si acconcerà e mai più si accingerà ad andare ad una festa. Il parallelismo sintattico e semantico “se a feste anco talvolta, / se a radunanze io movo [...] a radunanze, a feste, / tu non ti acconci più, tu più non movi”,81 inframezzato dalla apostrofe “infra me stesso dico: o Nerina”,82 che 79

80

Cfr. in Giacomo Leopardi, Canti., Loescher Editore, Torino, 1964, Le ricordante, v. 141. Op.cit.

81

Cfr. in Giacomo Leopardi, Canti, Loescher Editore, Torino, 1964, Le ricordante, v. 158-161.

82

Cfr. in Giacomo Leopardi, Canti, Loescher Editore, Torino, 1964, Le ricordante, v. 159-161.

assume i contorni della anastrofe dal momento che il poeta si rivolge non più solo a se stesso e ai lettori, ma alla stessa donna amata, utilizzando il pronome personale soggetto alla seconda persona “tu”, in forma anaforica, trova compimento nella assenza totale di movimento, ossia di vita. L’uso della anastrofe è messo in evidenza anche dal vocativo, “o Nerina”, che permette al poeta di circoscrivere il suo raggio di amore e di fare in modo che solo la donna da lui amata sia circondata dall’abbraccio caldo e solare del suo amore. E un amore che non trova risoluzione perché la fatalità della morte della giovane ha di fatto impedito a quel loro amore di esistere, ma la ricordanza di quell’amore diventa paradossalmente una forma di amore estremo vissuto a livello mentale e trasporta­ to sulle pagine bianche di un libro in forma di versificazione che hanno ed emanano amore intenso e, forse, più vivo e vero di quell’amore che spesso si vive quotidianamente, ma che non fa parte del mondo dei ricordi e quindi di poca sostanza e di superficiale consistenza. Le allocuzioni, “Nerina mia” e “Nerina”, che si susseguono secondo una struttura anaforica, fino alla fine del canto trovano corrispondenza nel lessema “passasti”, anch’esso ripetuto più volte, come se la volontà del poeta fosse quella di evidenziare il passaggio di Nerina sulla terra che, seppur breve, fu intenso e carico di significato per la sua vita solitaria ed il suo cuore infranto dalla mancanza di un amore vero da vivere ed assaporare con gioia e letizia di sensi e di consensi. Nerina passò sulla terra come una figura metafisica, come un angelo. Il cammino di Nerina sulla terra fu un soffio di candore per gli occhi addolorati di pianto del poeta che, dopo la morte improvvisa della giovane donna, si è trovato sempre solo a consolare il suo stesso pianto e il suo stesso dolore lacerante attraverso non la visione funesta della lotta tra il suo dolore e la presenza beffarda della morte, ma l’immagine ancor solare, luminosa e bella della donna che ri­ vive assieme a lui i momenti di vita vissuti insieme. Il ricordo della donna, e non il lamento doloroso che Leopardi rivolge a se stesso nel vano tentativo di autocommiserazione per quello

che avrebbe potuto ancora essere e che invece, non sareb­ be stato più, diventa luce salvifica per l’animo del poeta che spinto dalla luce dell’amore perduto sulla terra, ma ritrovato nella sua mente e nel suo cuore, diventa il suo indissolubile ed eterno compagno di vita che vive e vivrà in lui ed alberga nel suo cuore per sempre: “fia compagna / d’ogni mio vago immaginar, di tutti / i miei teneri sensi, i tristi e cari / moti del cor, la rimembranza acerba”.83 Se Leopardi rivive l’intensità del suo amore per Nerina attra­ verso il ricordo, Boccaccio/Troilo vive nella sua quotidianità il tormento del suo amore per Griseida che per tutti coloro che verranno a conoscenza del suo amore e delle sue pene d’amo­ re conseguenti, “ben potran dir fra loro assai scontenti: / vedi costui come è di senno uscito, /che in questi tempi noiosi e dolenti, / pensa ad amore, e d’amore è nutrito”.8485 Il chiasmo “pensa ad amore, e d’amore è nutrito”83 fa in modo che ci sia un avvolgimento strutturale e sintattico tra il pensiero che si concede all’amore, come fosse esso stesso una prosopopea, e il pensiero che trova nutrimento dall’amore. In tale connubio mentale che vede il pensiero essere as­ sorbito totalmente dall’amore ed essere al contempo nutrito da quello stesso amore, è percepita tutta la forza dell’amore stesso di un uomo, Troilo, che non si lascia distrarre da nien­ te e da nessuno, né dalla guerra e nemmeno da “li eccellenti capitani”86 che potrebbero distoglierlo da quel suo amore im­ pellente e a lui vitale. Il pensiero che vola all’amore costante­ 83

Cfr. in Giacomo Leopardi, Canti, Loescher Editore, Torino, 1964, Lé’ ricordante, v. 170-173.

84

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso f rane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., prima parte, stanza LII, vv. 3-6.

85

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Orane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., prima parte, stanza LII, v. 6.

86

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Orane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., prima parte, stanza LII, vv. 2-3.

mente da esso è nutrito. La ripetizione della parola “amore” avente, però, una struttura sintattica diversa, fa in modo che alla figura di parola del polittoto corrisponda perfettamente sia il desiderio carnale che Troilo ha di dare concretezza a quel suo desiderio d’amore, sia il desiderio mentale che permette al suo pensiero di far corrispondere il suo desiderare spasmo­ dicamente la donna amata con l’amore che egli nutre per lei. Desiderio ed amore allora collimano e diventano una unica forma di desiderio pensato, desiderato, voluto, cercato. Molto luminoso è il polittoto che Angelo Poliziano usa per definire quanto egli fosse incapace di distogliere il suo sguardo da quello della sua amata, “giammai li occhi da li occhi levar puolle”,87 poiché è proprio quello sguardo incantevole che lo rapisce e lo fa sentire innamorato di lei. La metafora della luce che Poliziano usa per definire gli occhi luminosi della donna da lui amata, “le luce amorose”,88 immettono il lettore in una aura di sacralità e di purezza che trovano corrispondenza sia nella letizia celestiale che il volto della donna emana, “ di cele­ ste letizia il volto ha pieno”,89 che nel suo modo di parlare che è divino, “ogni aura tace al suo parlar divino”.90 L’aria e il paesaggio intorno alla donna diventano belli, lu­ minosi, piacevoli, sereni, ameni, proprio come lo sono il suo sguardo e il suo volto. 11 volto cosparso “di ligustri e rose”91 trova corrispondenza con la precedente epifrasi della veste della donna amata, “di rose e fior dipinta e d’erba”,92 e fa in 87

Cfr. in Angelo Poliziano, Poesie italiane, Fabbri Editori, 1995, Libro primo, stanza XLI, v. 6.

88

Cfr. in Angelo Poliziano, Poesie italiane, Fabbri Editori, 1995, Libro primo, stanza XLIV, v. 4.

89

Cfr. in Angelo Poliziano, Poesie italiane, Fabbri Editori, 1995, Libro primo, stanza XLIV, v. 5.

90

Cfr. in Angelo Poliziano, Poesie italiane, Fabbri Editori, 1995, Libro primo, stanza XLIV, v. 7.

91

Cfr. in Angelo Poliziano, Poesie italiane, Fabbri Editori, 1995, Libro primo, stanza XLIV, v. ó.

92

Cfr. in Angelo Poliziano, Poesie italiane, Fabbri Editori, 1995, Libro primo, stanza XLIII, v. 2.

modo che il parallelismo non sia solo sintattico, ma anche semantico. Infatti, tutto, veste, volto, occhi, paesaggio, aere, modo di parlare e di atteggiarsi, diventa una grande etopea d’amore in cui il gesto mansueto e regale e gli occhi amorosi della donna rendono “tutto ameno” soave, dolce, luminoso. Se gli occhi della donna amata da Poliziano sono fonte di amore, gli occhi di Griseida amata da Troilo sono fonte di tor­ mento e di desiderio di morte. L’anastrofe iniziale, “lasso me dicendo”,93 intrisa di mesta amarezza, fa da proemio al verso seguente dove la morte diventa la protagonista poiché invade la mente ed il cuore del giovane innamorato a tal punto da farlo esplodere in una sentenza lapidaria: “E1 m’ha Griseida sì la vita tolta,/ co’ suoi belli occhj, che morire intendo/ per lo desio fervente che si affolta/ sopra nel core dove io brucio e incendo”.94 La sinchisi “E1 m’ha Griseida sì la vita tolta”9* diventa per Troilo una enfasi di dolore. L’accento dolente è posto dal Boccaccio proprio sulla parola Griseida la quale è causa non di amore e di serenità, ma di turbamento continuo. Le pene d’amore di Troilo sono costanti e continue e diven­ tano per lui una anafora di dolore che non si affievolisce mai e che di giorno in giorno aumenta come fosse una cantilena, un ritornello tragico dove a diventare emblema di amore e di felicità non è l’amore stesso vissuto con sentimento positivo, ma un pseudo-amore vissuto con pesantezza di mente e di cuore. Infatti, Troilo afferma: “e a cento a cento/ moltipli­ cava il giorno il suo tormento”.96 La epanalessi o geminatio “a cento a cento” diventa per l’animo del giovinetto una frustata 93

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso f rane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., terza parte, stanza XIX, v. 2.

94

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., terza parte, stanza XIX, w. 3-6.

95

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., terza parte, stanza XIX, v. 3.

96

Op. cit.

lacerante di dolore che si moltiplica con il passare del tempo e che purtroppo non lenisce tutta la sua infinita brama di auto­ lesionismo amoroso e di autodistruzione mentale e fisica. Lo stesso sapore amaro, intriso di sconforto lo si percepisce nella epanalessi o geminatio, "se giovanezza, ahi, giovanezza è spen­ ta?” con la quale Leopardi sostiene quanto duro sia il consta­ tare che gli anni passano veloci e il veder spegnersi di giorno in giorno sempre più la propria e l’altrui giovinezza che solo essa è causa di piacevoli pensieri e di fugaci attimi di intensità emotiva. Ogni uomo maturo che abbia oltrepassato la soglia della propria giovinezza si sente spento dentro e sente che il suo vivere è una forma di lento adombramento e riawolgimento su di sé e persino sulla propria voglia di esultare per la propria esistenza poiché i dolori e le delusioni del presente "maturo” lacerano e annientano la piacevolezza dell’essere e del sentirsi giovani e trasportano le membra spesso affaticate e spossate in un futuro dove la maturità regna sovrana e con essa tutto un mondo di illusioni e di gioie perdute che frustra­ no e atterrano il corpo spossato e la mente ancor più sfinita di un uomo che si ritrova al limitar della sua esistenza. Leopardi, e in genere ogni uomo maturo, si ritrova a convivere non con la gioia della giovinezza, ma con la frenesia del proprio ma­ lessere quotidiano che si protrae lungo una infinita parentesi di maturità, spesso non desiderata quanto mai sopportata e vilmente trascorsa, che spegne la luce della fanciullezza ed ac­ cende l’oscurità della bassezza di sentimenti pavidi e gretti che accompagneranno il cammino dell’uomo verso il suo traguar­ do. Una meta che Leopardi stesso non ambisce raggiungere perché il lasciarsi alle spalle la giovinezza implica l’accoglienza e la conoscenza di quel proprio sé nascosto che esso stesso si occulta ai propri ocelli i quali si rivelano essere ancor più ciechi innanzi ad un benché minimo slancio di passione amo­ rosa o vitale che sia. Leopardi usa tutta una serie di perifrasi in sostituzione del lessema "giovinezza”: "primo entrar di gio­ vinezza”, "giorni vezzosi”, "fugaci giorni”, "vaga stagion”97 97

Cfr. in Giacomo Leopardi, Canti, Loescher Editore, Torino, 1964, L? ricordante, vv. 120,121,131, 134.

che immettono nell’animo del lettore un duplice sentimento: di gioia e di speranza, ma anche di rapida lestezza dovuta alla brevità di quei giorni. La bella similitudine del lampo usata per dare visione alla fugacità della giovinezza che passa veloce come un lampo è una nota di dolore per l’animo intriso di sconforto del poeta perché i bei momenti giovanili si dilegua­ no nel nulla e non trovano corrispondenza alcuna durante lo scorrere lento degli anni in cui l’uomo è maturo che si dimo­ stra essere spesso insensibile agli amori, alle passioni ed agli ardori che invece caratterizzano l’età precedente. La maturità sembra assopire gli istinti naturali dell’uomo per trasportarlo in una specie di oblio sentimentale dove tutto è ancora possibile tranne l’amore. Con lo spegnersi della giovi­ nezza, il desiderio di amore si affievolisce sempre più e il ma­ lessere interiore attanaglia l’animo dell’uomo fino a renderlo schiavo non della purezza del sentimento di amore, ma della viltà e della debolezza dei suoi atti viziosi e delle sue parole mascherate di falsità e di promiscuità indecorose. Il rimpianto per quella giovinezza che fu, scorrerà sempre nel cuore intriso di romanticismo di Leopardi e trasformerà il suo canto d’amo­ re in una mesta lamentazione dolorosa dove a fargli compa­ gnia non è mai la felicità, la quale è irraggiungibile anche con il pensiero, è l’annullamento stesso della felicità dovuto a cause di forza maggiore o al suo stesso sentimento di oppressione che vive in lui e che lo costringere ad essere, e prim’ancora a sentirsi, infelice. L’anelito alla felicità è un miraggio che sorge nell’animo del poeta e che gli consente soltanto di usufruire

della vaghezza di una tensione mai effettivamente conquista­ ta, sempre bramata, sempre spenta a causa dello spegnimen­ to vero della vita di molte presenze femminili, da lui amate, che vivono e rivivono in lui solo nell’ambito del ricordo ora dolce ora amaro, e dell’oblio totale perché troppo struggen­ te è in lui il senso della perdita della donna amata tanto da indurlo a fare di un inno d’amore un “funereo canto”.98 La stessa infelicità la prova nel suo cuore Petrarca che intona un “funereo canto” d’amore talmente tetro e luttuoso da indurlo a maledire il giorno della sua nascita che lo ha costretto ad essere un uomo in carne ed ossa, “facto di sensibil terra”,99 che trova sostentamento e forza vitale da quella stessa sel­ va da cui trova nutrimento anche l’”aspra fera”.100 obtestatio o obsecratio di Petrarca raggiunge il culmine con il connetti­ vo “come” quando il poeta paragona la donna amata ad una “aspra fera” che si aggira famelica per “la selva”,101 la qual selva subisce una metamorfosi e diventa “l’amorosa selva”,102 cantata anche da Virgilio nell’Eneide, dove trovano rifugio le anime dei morti caduti a causa della disperazione d’amore. Se il poeta avesse provato almeno un sentimento di pietà e non solo un rifiuto opprimente e sconfortante da parte di Laura, quell’attimo di felicità vissuto un solo giorno avrebbe potu­ to compensare tutti gli anni a venire i quali sarebbero stati vissuti da lui senza la presenza di lei. Dal tramonto del sole fino all’alba del giorno seguente egli sarebbe stato felice di condividere quello che ogni uomo vorrebbe condividere con la donna amata. Il desiderio del poeta è quello di stare accanto 98

Cfr. in Giacomo Leopardi, Canti, Loescher Editore, Torino, 1964, Ce ricordante, v.l 18.

99

Cfr. in Francesco Petrarca, Cantoniere, Oscar Mondatori Editore, 1985, sestina XXII, v.l6.

100

Cfr. in Francesco Petrarca, Cantoniere, Oscar Mondatori Editore, 1985, sestina XXII, v.20.

101

Cfr. in Francesco Petrarca, Cantoniere, Oscar Mondatori 1 editore, 1985, sestina XXII, v.l9.

102

Cfr. in Francesco Petrarca, Cantoniere, Oscar Mondatori Editore, 1985, sestina XXII, v.26.

alla sua donna da quando il sole tramonta, per tutta la notte, illuminati e guardati soltanto dalle stelle. Petrarca vorrebbe che la sua donna non si trasformasse in “verde selva”,103 cioè in alloro proprio come accadde a Dafne che, per sfuggire ad Apollo, si trasformò in lauro. La selva simboleggia non più il bosco, ma diventa allegoria della donna amata che si allontana dal poeta e gli sfugge dalle sue braccia proprio come fa Dafne con Apollo che dal cielo ha inseguito la sua amata fin sulla terra, ma che sulla terra non ha ricevuto altra risposta che il diniego della ninfa che ha preferito diventare un tutt’uno con la natura piuttosto che concedersi con chi ella non amava. Il timore di Petrarca di diventare proprio come Apollo lo indu­ ce a concludere il suo affannoso canto con una immagine di auto-dissoluzione perché il poeta preferisce vedersi morto e sepolto nella “secca selva” piuttosto che patire il rifiuto e la metamorfosi della donna da lui amata. adynaton, “’l giorno andrà pien di minute stelle”, assume i contorni di un ossimo­ ro in cui il paradossale accostamento “giorno/stelle” diventa un chiasmo con i lessemi “alba/sole”, entro cui ruota tutto il desiderio del poeta, impossibile da realizzarsi, perché egli sarà già morto quando verrà il giorno in cui, di giorno, spunteran­ no le stelle, come già defunto egli sarà quando spunterà il sole all’orizzonte dopo una notte trascorsa con la sua amata Laura. Quattro immagini contrastanti ed antitetiche si susseguono anaforicamente: la selva intesa come luogo dove esseri umani ed animali trovano nutrimento, la selva come luogo infernale, la selva come prosopopea della donna amata, la selva come terra che riceve il corpo morto del poeta. E tutte e quattro le immagini circoscrivono il capo del poeta con la corona di spine per essere stato egli stesso vittima d’amore, nutrimento per quella “sì aspra fera” che è la sua donna che lo induce al pianto, “a l’ombra e al sole”.104 La selva descritta dal Petrarca non è certamente la “selva 103

Cfr. in Francesco Petrarca, Cannoniere^ Oscar Mondatori Editore, 1985, sestina XXII, v. 34.

104

Cfr. in Francesco Petrarca, Cannoniere., Oscar Mondatori Editore, 1985, sestina XXII, v. 21.

oscura”,105 la “selva selvaggia e aspra e forte”106 dove si è smarrito Dante. La selva dantesca non è certamente un luogo dove trovare nutrimento fisico e benessere spirituale. La selva dantesca è una selva “oscura” e “selvaggia” dove l’oscurità è presente con tutta la sua forza viva ed illuminante che rende morto l’animo del poeta che, infatti, sostiene, con mestizia profonda e disarmante, che è una selva “che nel pensici* rino­ va la paura”.107 Il pensiero di Dante è intriso di paura e la selva rispecchia perfettamente il suo sentire fisico e soprattutto mentale che si è perduto nei meandri oscuri del suo stesso vivere. L’asprezza della selva è fonte per lui di tale immensa e incontenibile ama­ rezza da indurlo a emettere una esplosione di amaro scon­ forto interiore: “tant’è amara che poco è più morte”.108 La dittologia “aspra e forte”,109 corroborata dalla presenza della sìndesi affermativa “e” ripetuta due volte marca ancor di più l’asprezza del luogo che circonda l’animo del poeta di un sen­ timento di assoluta incapacità di riuscire in qualche modo, se non a lenire il fardello di quel peso naturale che gli opprime corpo ed anima, almeno ad allontanarsi con le sue stesse forze da quel luogo impervio e selvaggio. Lo stesso epiteto “sel­ vaggia”, usato per descrivere la selva, trova nella stessa parola “selva” la sua comunanza sintattica in quanto la radice etimo­ logica, “selv”, del nome e dell’aggettivo è identica. Ira i due lessemi c’è anche un parallelismo semantico in quanto per sua natura una selva è sempre selvaggia dal momento che in essa non vi è presenza umana, ma solo la presenza di una natura selvaggia che può essere ora luogo di conforto e di calma per l’uomo ora di sconforto e di paura inenarrabili. La sfochisi dantesca “m’avea di paura il cor compunto”110 105

Cfr. in Dante Alighieri, Inferno, Danto 1, v. 2.

106

Cfr. in Dante Alighieri, Inferno, Danto 1, v. 5.

107

Cfr. in Dante Alighieri, Inferno, Danto I, v. 6.

108

Cfr. in Dante Alighieri, Inferno, Danto 1, v. 7.

109

Cfr. in Dante Alighieri, Inferno, (Anto I, v. 5.

110

Cfr. in Dante Alighieri, Inferno, Danto I, v. 15.

esprime tutto lo sconvolgimento interiore del poeta che si ri­ trova da solo ad affrontare un cammino di liberazione che è paragonabile all’esodo del popolo ebraico che vedrà concre­ tizzato il suo sogno di liberazione grazie all’azione di Dio. Ad accompagnare Dante nel suo lungo viaggio di liberazione e di purificazione interiore saranno due figure metafisiche Vir­ gilio che simboleggia la Ragione e Beatrice che simboleggia l’Amore, la Virtù, la Bellezza, la Grazia. L’azione liberante di Dio si manifesta sempre a chi si sente perduto ed oppresso fi­ sicamente e spiritualmente. È un Dio che nel corso dei secoli invia i Suoi mediatori celesti per fare in modo che la libertà umana e, di conseguenza, la verità siano esaltate affinché sia resa giustizia anche sulla terra per volontà dell’unica vera e sola Giustizia che è Dio e che è anche Libertà e Verità assolu­ te. La selva dantesca simboleggia il peccato ed è considerata essa stessa luogo di peccato dal quale allontanarsi per riuscire a ritrovare la “dritta via”111 che conduce non solo alla salvez­ za umana, ma alla vera salvezza che è Dio fonte di salvezza. Il richiamo della luce diventa per Dante, oppresso dal pec­ cato, motivo non solo di estasi d’amore, ma soprattutto filo conduttore che gradatamente lo porterà al congiungimento con la Luce che è fonte di vita e speranza di vita, sia durante la vita terrena che in quella ultraterrena. All’epoca in Dante visse era in vigore il sistema tolemaico secondo cui il sole era considerato un pianeta che girava intorno alla terra ed il sole era il simbolo di Dio. Il cammino di ascesa che compie Dante diventa il passaggio dalla oscurità delle tenebre, nella quale il mondo e l’uomo sono completamente immersi, alla luce della Grazia divina che fa in modo che anche dopo la morte del corpo ci sia vita. Ed è proprio a quella nuova vita ultraterrena, completamen­ te illuminata dalla Luce di Dio che è Luce pura, a cui il pensie­ ro e l’animo di Dante volgono inducendo anche il suo corpo, lasso ed affaticato, a muovere il passo verso quel richiamo luminoso,, a non perdersi e disperdersi entro i confini limitati e ristretti di un mondo oscuro e brutale dove vige soltanto la 111

Cfr. in Dante Alighieri, Inferno, Canto I, v. 3.

menzogna e la volgarità sia del parlare che del gesto i quali trovano luce e sostentamento nel buio della violenza e della guerra atroci e disumane. È da quella selva disumana, di di­ sumana nefandezza, da cui Dante si distacca per immerger­ si in un bagno di luce pura, ristoratrice e vivificante proprio come lo è l’amore vero e cristallino di una donna e l’Amore supremo che Dio ha per gli uomini. Per Dante la “selva oscu­ ra” rappresenta la vita angosciosa che procura tormento e di­ venta, paradossalmente, il proemio tragico che fa da preludio funesto alla morte, a quella stessa morte in cui è piombata irrimediabilmente la mente del poeta la quale, faticosamente e a passo lento, affaticata più del corpo, si sta liberando grazie all’azione salvifica di Dio. A questa metamorfosi spirituale e psicologica, a questa liberazione contribuisce la donna dal po­ eta tanto amata, Beatrice, che gli infonde tutto il suo conforto emotivo e lo spronerà a non fermare il suo passo innanzi al dolore e al tormento dei dannati, ma di proseguire sempre in avanti finché i suoi occhi non avessero trovato la luce della vita pura e purificata dal peccato, che avrebbero ridato luce e vita al suo animo. Gli occhi della mente, abbagliati dalla luce divina, infondono luce di salvezza anche all’animo che, sep­ pur torbido e intriso di torbide passioni umane, trova forza e vigore per sentirsi rinascere proprio in virtù di quella luce che lo avvolge e lo stringe in un abbraccio eternamente puro e vitale. E proprio la luce salvifica dell’amore di una donna, casta e sublime come appare Beatrice agli occhi di Dante, a mancare a Francesco Petrarca il quale si ritrova solo, nella più completa solitudine, a contemplare non il piacere dell’amore, ma le pene e le angustiate avversità a lui causate dalla donna che egli ama e che gli nega il proprio amore. La “selva oscura” dantesca, motivo di paura e di smarrimento per l’animo del poeta fiorentino, diventa ancor più funesta in Petrarca che la definisce paradossalmente “amorosa selva”, seppur egli con la parola “selva” voglia intendere l’inferno dove si trovano le anime dei dannati che, quando erano ancora in vita, patirono

i tormenti d’amore. La selva/inferno del Petrarca non è causa di timore e di angoscia perché per il poeta è meglio l’inferno, che gli appare perfino amoroso, piuttosto che il rifiuto infer­ nale di Laura che lo immette entro un luogo di assoluta per­ dizione dal quale non ne uscirà mai. E l’afflizione del Petrarca diventa ancor più inconsolabile e gravosa per il suo animo dolente proprio perché, a differenza di Dante che trova la sua amata Beatrice a confortarlo e addirittura ad accompagnar­ lo nel suo lungo cammino di liberazione, al Petrarca viene a mancare quel sostegno e quell’appoggio morale e spirituale che solo Laura avrebbe saputo e potuto dargli. Quello di Pe­ trarca è un cammino inverso rispetto a quello di Dante e in quel suo retrocedere verso il basso, che per quanto basso gli appare essere sempre più alto e sublime di quanto non sia il luogo abissale dove è sprofondato il suo animo di amante rifiutato dall’amore, trascina irrimediabilmente anche i lettori negli abissi dell’oscurità dove perfino il fuoco infernale, le urla e le stride dei dannati sembrano essere luce e parvenza di vita. Se, paradossalmente, la morte prematura di Beatrice diventa luce di vita per l’animo di Dante avvolto dalle tenebre del pec­ cato, la presenza di Laura è oscurità totale e in quella oscurità nemmeno la luce di Dio riesce a raggiungere l’animo del poe­ ta e a staccarlo dal buio in cui è piombato il suo animo e la sua mente, buio che gli agghiaccia ogni benché minimo impulso d’amore a causa di colei che egli definisce con una perifrasi, tutt’altro che amorosa, “la nemica mia”.112 Anche Laura è fe­ rita per causa d’amore, ma a differenza di molte altre donne che, seppur sposate, si lasciano andare a passioni turbinose che soddisfano i loro appetiti amorosi ogniqualvolta elle lo desiderano, Laura non si concede all’amore del poeta seppure provi amore per lui. E un amore non svelato, tenuto segreto. E un amore che traspare dai versi del Petrarca specialmente quando scrive: “et lei vid’io ferita in mezzo ‘1 core!”. Se Petrar­ ca vide Laura ferita per amore vuol dire che ella stessa confidò al poeta, in segreto, quale fosse il motivo della sua ferita e chi 112

Cfr. in Francesco Petrarca, CannoniereOscar Mondatori Editore, 1985, sonetto LXXXVI1I, v. 13. ''

fosse l’uomo che l’avesse ferita in tal modo. La guerra d’amo­ re che si combatte tra Laura e Petrarca non trova soluzione se non nel dolore e nel pianto che fa sanguinare il cuore di entrambi proprio per quella impossibilità di dare soluzione all’amore che si trova in un vicolo cieco a dover lottare con se stesso e con i sentimenti e gli istinti amorosi tenuti a freno, o meglio, polverizzati dalla ragione che li costringe a rinne­ gare quell’amore che è in loro, che vive in loro, ma che non uscirà mai da loro. E una specie di epanadiplosi o inclusione sentimentale quella che vivono Laura e Petrarca che li induce a circoscrivere il loro amore entro i loro cuori e a non per­ mettere all’amore che nutrono l’uno per l’altra di fuoriuscire, di esplodere e diventare un tutto unico e armonico, ma di rimanere separati stando l’uno agli antipodi dell’altro, proprio come due guerrieri che si mirano e rimirano da lontano prima di quel duello atroce e fatale che vede la vita di uno dei due soccombere irrimediabilmente. Se tra Petrarca e Laura non ci sono intermediari che possano in qualche modo forzare il corso degli eventi e dare soccorso ai loro cuori separati che vorrebbero unirsi, Pandaro, ne // Fzlostrato di Boccaccio, diventa il vero ed unico amico di Troilo perché agisce come se egli stesso fosse Amore perché Amo­ re potrebbe essere ora favorevole e benevolo ora contrario

e ostile all’amore che all’improvviso sboccia tra un uomo ed una donna. Infatti, dopo che Troilo rivela a Pandaro il nome della donna che lo sta facendo sì tanto soffrire, Pandaro stes­ so rassicura l’amico proprio perchè, conoscendo la cugina, egli è già a conoscenza di quello che ella potrebbe provare per Troilo. Quindi i versi “per Dio, ti prego, non ti sconfortare, / che amore ha posto in parte il tuo desio”113 sono una prolessi rassicurante per l’animo agitato di Troilo e lasciano in sospeso il giovinetto innamorato e il lettore stesso i quali si ritrovano entrambi a fantasticare riguardo a quello che avverrà nei versi successivi e alla risposta che darà loro Griseida tramite Pan­ daro. La sillepsi “tu sei di lei, ed essa è di te degna”114115 diventa motivo non di incongruenza, seppur semantica lo sia, ma di tale coesione sentimentale che basta utilizzare una volta sol­ tanto l’epiteto “degna” per dare concretezza e vigore all’unità e all’unicità di un sentimento d’amore unico e vero qual è quello che esiste tra Griseida e Troilo. Raffinata è la metafo­ ra, “la catena dell’amore”,113 usata da Pandaro per affermare quanto sua cugina Griseida sia legata a Troilo. Tale metafora è legata a un iperbato, “la catena la lega”,116 che sembra ancor più legare indissolubilmente i due cuori innamorati. È una catena che non induce al pianto doloroso perché non si trat­ ta di una prigionia vera e propria, seppur da Troilo l’amore viene vissuto come una incarcerazione della sua mente e del suo cuore. È una catena che unisce e che non separa i due innamorati. E una catena che non spezza l’amore della donna 113

Cfr. Il Filostrato., poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., seconda parte, stanza XXI, w. 3-4.

114

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., seconda parte, stanza XXIV, v.7.

115

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso f rane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., seconda parte, stanza XXVII, w. 4-5.

116

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., seconda parte, stanza XXVII, w. 4-5.

e che non “la spoglia”117 del malessere che ella prova proprio a causa dell’amore che ancora non si è concretizzato. E una catena che induce la donna a provare sofferenza, ma è una sofferenza “lieta”118 perché nel suo cuore ella ha percepito già quello che 1 rollo le dirà riguardo al loro amore. La sofferenza lieta di Griseida diventa una prolessi senti­ mentale che anticipa le parole d’amore che ella e il suo amore si scambieranno in segreto. Boccaccio utilizza una sinestesia, “soffre lieta”,119 per descrivere lo stato d’animo della donna la quale, seppur sofferente per amore, fa esaltare in lei non il tormento, ma la letizia che sembra annullare quasi la dittolo­ gia, “malore e pena”,120 costruita in parallelo come tosse un ossimoro che mette in luce i due sentimenti contrastanti che caratterizzano l’amore: la felicità e il dolore. La conferma che anche Griseida nutre lo stesso sentimento d’amore è lo stes­ so Pandaro a darla a Troilo e le sue parole, “la mia cugina lo stesso desia; / e sei negasse noi la crederla”, diventano l’unico conforto e la sola rassicurazione che Troilo riceve dopo tanti giorni e tante notti vissute nell’incertezza e nel dubbio. E al dubbio che il giovinetto innamorato ha di essere o di non essere ricambiato dalla donna amata, Troilo dà al suo amico Pandoro la sola risposta certa che suona come una certezza che fa scomparire la nebulosa incertezza della sua attesa e del suo stesso esistere: “lo credo ciò che dici di costei”.121 11 credo di Troilo è un credo dettato non dalla ragione, ma dal senti mento, da quell’istinto che vive in ogni uomo e che lo induce a 117

Cfr. Il F'ilostrato^ poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., seconda parte, stanza XXV11, v. 5.

118

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso f rane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, seconda parte, stanza XXV11, v. 6.

119

Gp. cit.

120

Op. cit.

121

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso f rane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX, seconda parte, stanza XXIX, v. 8.

credere anticipatamente che sia amore e non sia solo una bol­ la che al primo soffio di vento si polverizza nel nulla. Rimane ancora un dubbio nella mente e nel cuore di Troilo: l’onestà di Griseida. Infatti, Troilo teme che sia proprio l’onestà della donna che la costringerà a rifiutare il suo amore. A quell’epo­ ca una donna onesta sia di costumi che di atti e parole non si sarebbe mai concessa spudoratamente ai desideri dell’uomo e avrebbe preferito dimostrarsi reticente e sdegnosa alle di lui parole d’amore, piuttosto che apparire come una donna di facili costumi. Il timore di Troilo nasce proprio dal fatto che ella sia fin troppo onesta e incapace di concedersi ad un amore che ella non consideri essere puro, candido e casto come lo è il suo animo. L’onestà della donna si manifesta in un suo atteggia­ mento di ipotetico diniego che è suffragato dal fatto che ella abbia timore che l’atteggiamento e il sentimento che Troilo nutre per lei sia dovuto non ad amore vero, ma a un breve e passionale attimo di frenesia amorosa che potrebbe spegnersi subito e rivelarsi essere un lampo a ciel sereno. Il timore di Troilo viene confermato dalle stesse parole di Griseida che, una volta saputo il nome dell’uomo che la ama, espone a Troi­ lo tutto il suo dubbio con un asindeto avversativo iniziale a cui si aggiunge un avversativo causale introdotto con la con­ giunzione causale “che”: “ma come tu conoscer chiaro dei, / che le vaghezze si trovano spesse / quali però sol quattro giorni o sei / durano, e poi passano di leggiero, / cambiando amore come lo pensiero”.122 Se l’amore non è vero e sincero, la passione amorosa dura poco, qualche giorno, e poi si spegne subito. Il timore di Gri­ seida risiede proprio nel desiderio che ella ha di constatare che la fedeltà che il suo amato prova nei suoi riguardi si dimostri e si renda manifesta non solo a lei, ma soprattutto all’amore stesso la cui forza ed intensità, la cui purezza, qualora ci fos­ sero, sarebbero quell’/jz/zzm che dona vita e forza al pensiero 122

Cfr. I/ Ft/ostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., seconda parte, stanza L, vv. 4-8.

e al cuore di Troilo affinché egli continui ad essere e a sentirsi avvolto dall’amore. L’immagine della catena usata dal Boccaccio trova corri­ spondenza e simmetria con il verso petrarchesco: “[...] Oimè! Il giogo et le catene e i ceppi”,123 con il quale il poeta esprime tutta la sua agonia d’amore causata da Amore stesso che lo ha rinchiuso nella prigione dell’amore. Da quella prigione il poe­ ta si è liberato perché è riuscito a fuggire dopo che per molti anni è stato schiavo dell’amore non corrisposto. Petrarca non ha mai avuto nessun potere su se stesso ed è sempre stato in­ capace di essere il vero protagonista dell’amore che scoppiava in lui. È sempre stato Amore che ha agito su di lui e sulla sua volontà e che lo ha costretto alla prigionia amorosa, pur egli non volendo essere prigioniero. Per due persone, una vera, l’altra figurata ed irreale, allora è stato prigioniero Petrarca! Prigioniero di Laura e prigioniero di Amore! Entrambi i suoi carcerieri gli hanno fatto fare quello che egli non desiderava ed entrambi lo hanno reso vittima del suo essere vittima per loro. Una volta uscito di prigione, però, l’amore per Laura tor­ na imperante sul suo cuore e sulla sua mente tanto da indurlo a sostenere con amaro disincanto: "Oimè! Il giogo et le catene e i ceppi/ eran più dolci che l’andare sciolto!”.124125 Una seconda volta cade nella rete dell’amore, questa volta tesa non da Amore, che agisce con beffarda ironia sul suo animo, torturandolo e distruggendolo, ma tesa dalla sua stessa Laura che lo illude e lo fa cadere nell’errore di provare quello stesso sentimento che provò un tempo e per il quale fu im­ prigionato e patì i tormenti della “pregione ove Amor”12’’ lo spinse. Anche Poliziano sostiene che quando nasce in un uomo l’amore egli si sente privato della sua libertà e considera l’amo­ re stesso come una prigionia seppur dolce, ricercata e voluta. 123

124

125

Cfr. in Francesco Petrarca, Cannonierey Oscar Mondatori Editore, 1985, sonetto LXXXIX vv. 10-11.

Cfr. op. cit. sonetto LXXXIX vv. 10-11. Cfr. in Francesco Petrarca, Cannoniere, Oscar Mondatori Editore, 1985, sonetto LXXXIX v. 1.

Infatti, scrive l’iperbato, "per lei di libertà si spoglia”,126 ri­ prendendo lo stesso verbo usato dal Boccaccio quando affer­ ma che la catena d’amore che tiene legata Griseida all’amore non la libera, non la "spoglia”127 dal quel suo sentimento, ma la tiene maggiormente ancorata a esso, seppur sia proprio l’amore a spingerla a provare "malore e pena”.128

126

Cfr. in Angelo Poliziano, Poesie italiane, Fabbri Editori, 1995, Libro primo, stanza XIV, v.3.

127

Cfr. Il Pilostrato poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., seconda parte, stanza XXVII, v. 5.

128

Op.cit.

ILFILOSTRATO DI GIOVANNI BOCCACCIO (III)

Pandaro circuisce la cugina Griseida con parole altisonanti di lode nei riguardi del suo amico Troilo per indurre la donna a sentirsi rapita dal foco d’amore ancor prima di sapere colui che per lei “mena la sua vita in pianto”. Pandaro utilizza una iperbole per assecondare Griseida e afferma: “da chè colui, che il mondo circoscrisse, / fece il primo uom, non credo più perfetta / anima in alcun altro mai inserisse / che quella di co­ lui che t’ama tanto / che per te mena la sua vita in pianto”.129 Non c’è uomo al mondo più degno di Griseida di Troilo che “è d’animo altiero, e di lignaggio / nobile molto, e cupido d’onore, / d’ingegno naturai più ch’altro saggio, / [...] prode nell’armi, bello nel visaggio”.130 L’enfasi con la quale Pandaro sottolinea gli eccellenti pregi di Troilo che lo rendono ai suoi occhi, come a quelli di Gri­ seida, unico ed insuperabile rispetto a tutti quei pretendenti che ella vede passare in ogni momento davanti alla sua abi­ tazione, diventa un encomio al valore e alla bellezza sia fisica che spirituale del giovinetto. L’unione dei due innamorati sarà splendida e solare e viene paragonata al congiungimento, sep­ pur paradossale, del sole con la stella, “e giunta fia la stella col sole allora”.131 Anche la natura si unisce materialmente e partecipa della felicità dei due amanti che godono l’uno dell’amore dell’altra. Infatti, il loro congiungimento è visto come una benedizione di Dio Stesso che con tutto il Suo potere farà in modo che 129

130 131

Cfr. Il F'ilostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., seconda parte, stanza XLI, vv. 4-7. Op. cit. seconda parte, stanza XLII, vv. 1-5.

Cfr. Il Mostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., seconda parte, stanza XLIII, w. 4-5.

sole e stella, generalmente tenuti separati per volere e forza divina, si congiungano e contribuiscano a fare della gioia di un uomo e di una donna, la gioia dell’universo intero e quindi di Dio stesso che è fonte di Amore e di Felicità sublimi. Dio Stesso partecipa con le sue creature e circonda di gioia e di letizia una unione che è scritta nel cielo e che dal cielo non può che non ricevere se non beneficio, sostentamento, for­ za e vigore. Il Cantico dei Cantici di Salomone è suddiviso in dieci poemi che sono un dialogo d’amore tra Salomone e la sua donna amata. Alla voce della amata fa da eco la risposta dell’amato ed entrambe le voci, intrise d’amore, vengono di tanto in tanto inframmezzate dalla voce del coro che sembra voler mettere discordia o dubbio tra l’amore che i due inna­ morati si dichiarano. Le due voci si alternano in una specie di duetto verbale che sembra essere un canto, una dolcissima musica che esalta l’amore puro e la purezza dell’amore stesso che trova negli occhi dell’amata e dell’amato il suo fulcro vitale ed esisten­ ziale. La metafora, “gli occhi tuoi sono colombe”,132 che la donna amata rivolge al suo amato diventa un ritornello po­ etico che si ripete lungo tutto il Cantico tanto da trasforma­ re, ora l’uomo ora la donna, attraverso l’uso sapiente della prosopopea, in un simbolo di purezza e di pace qual è la colomba. Il mondo della natura, tanto caro ai poeti del “dol­ ce stil novo” e agli arcadi, viene costantemente utilizzato come similitudine costante per fare in modo che alla bellez­ za dell’animo e del corpo della donna corrisponda anche la bellezza delle creature, dei fiori e degli astri presenti nell’uni­ verso. È un parallelismo perfetto sia di versi che di senso quel bellissimo e dolcissimo scambio di parole che avviene tra l’amato e l’amata, corroborato dalla presenza sublime dei connettivi “come” e “così” che, utilizzati in modo anaforico, fanno in modo che il duetto sia tessuto in modo identico, e che combaci metricalmente e idealmente: “Come un giglio fra i rovi, / così l’amica mia tra le ragazze. / Come un melo 132

Cfr. in Bibbia di Gerusalemme, Cantico dei Cantici 1, 15b, Centro editoriale dehoniano-1 (1DB Bologna, 2009.

tra gli alberi del bosco, / così l’amato mio tra i giovani”.133 11 paragone dell’amato e dell’amata con gli alberi e con i fiori sarà una costante di tutta la poesia italiana del 1200 e del 1300 che canta e mette in luce la bellezza ed il profumo della natura a cui trova corrispondenza e similarità la beltà e il candore dei volti e dei corpi degli amanti che si scambiano parole d’amore in luoghi campestri, ora ameni e belli ora più aspri e selvaggi, ma sempre tali da rispecchiare quell’ardore e/o quella paca­ tezza d’animo che contraddistingue i due innamorati. Anche la continua invocazione all’amato e all’amata è una ripetizione continua che costruisce l’intero Cantico dei cantici su una struttura anaforica dove il filo che unisce l’amore dell’uo­ mo e della donna è proprio quella loro invocazione alla loro reciprocità di sentimenti e alla loro reciproca bellezza che rap­ presentano l’esultanza del loro amore. E un amore che non può rimanere inespresso e nemmeno tenuto nascosto. E un amore che deve fuoriuscire proprio come acqua nel deserto della vita che trasforma la vita in una valle florida e rigogliosa di piante e piena di corsi d’acqua. E un amore che si riassume in tutta la sua limpidezza e in tutto il suo splendore proprio in quella loro invocazione che è al contempo desiderio d’amore e soddisfazione d’amore. L’invocazione, "O, amore della mia vita”,134 e le due epanalessi o geminatio^ con interposizione di incisi vocativi, "Quanto sei bella, amata mia, quanto sei bella!”, "Come sei bello, ama­ to mio, quanto grazioso!”,135 rappresentano il fondamento del loro amore. Entrambi i due innamorati costruiranno le loro lodi al loro amore, al mondo e alle sue bellezze, alla gioia che l’amore infonde nei cuori e che dissipa ogni densa nube di timore, di paura e di incertezza perché quando l’amore è puro, dubbio ed incertezza magicamente scompaiono e lasciano il 133

Cfr. in Bibbia di Gerusalemme, Cantico dei Cantici 2, 2-3. Centro editoriale dehoniano-EDB Bologna, 2009.

134

Cfr. in Bibbia di Gerusalemme, Cantico dei Cantici 1,7. Centro edi­ toriale dehoniano-EDB Bologna, 2009.

135

Cfr. in Bibbia di Gerusalemme, Cantico dei Cantici 1, 15a e lóa, Centro editoriale dehoniano-EDB Bologna, 2009.

posto solo all’esultanza di un sentimento che è vita e che fa della vita di due persone il proseguo della vita di molti. L’amo­ re di un uomo e di una donna diventa non solo la loro sto­ ria, ma storia dell’umanità intera perché senza quella fiamma d’amore non ci sarebbe mai stata storia. L’incipit del quarto poema riprende la stessa epanalessi del primo, “quanto sei bella, amata mia, quanto sei bella!”, come se volesse ripetere a se stesso, al suo animo innamorato l’importanza della bellezza della donna che è una esca per gli occhi e, di conseguenza, per il cuore dell’uomo che si è invaghito di lei. Alla constatazione da parte dell’amato di quanto sia bella la sua donna segue l’enumerazione delle bellezze che compongono lo splendore di bellezza che ella è e che ella rappresenta agli occhi di lui che, estasiato da tale beltà, si lascia andare ad una sviolinata di pa­ role che hanno il tenore e il sapore di una dolcissima melodia, “gli occhi tuoi”,”le tue chiome”, “i tuoi denti”, “le tue labbra”, “la tua bocca”, “il tuo collo”, “i tuoi seni”136 le quali sono me­ tafore che uniscono indissolubilmente le bellezze della donna con quelle del regno animale e con gli elementi naturali e ar­ tificiali che circondano la loro esistenza. Tale enumerazione va in crescendo e diventa una climax d’amore che trova il suo apice nel verso ripetuto identico per due volte, “Tu mi hai rapito il cuore”, intercalato da due invocazioni sinonimiche, “sorella mia” e “mia sposa”. La donna diventa tutto per l’uomo che la ama. La donna è al contempo donna, sorella, sposa perché l’amore che l’uomo nutre per una madre è diverso da quello che egli prova per una sorella o per una figlia. Quando, però, egli si innamora di una donna allora tutta la diversità di quegli amori confluisce in un unico amore come fosse acqua che disseta il suo corpo e il suo animo costantemente in un continuum di sensi e di sen­ timenti espressi spesso in forma anaforica perché ogni giorno è il tempo di una vita e a quel giorno si susseguono altri giorni che rappresentano nuove vite e tutte insieme si rinnovano e rinnovano l’amore di quel primo giorno che è essenza d’amo­ 136

Cfr. in Bibbia di Gerusalemme, Cantico deiCzz/z/zbz 4,1 b.2.3.4.5,Centro editoriale dehoniano-EDB Bologna, 2009.

re, primizia amorosa, radice sulla quale cresce e si rafforza l’amore stesso che per sua stessa natura è sempre mutevole e cangiante. Vi è l’esigenza mentale e fisica che diventa poi verbale e scritturale dei due innamorati di ribadire continuamente il loro amore. Infatti, la risposta della donna amata è identica a quella di lui. Ella ripete in forma anaforica le stesse parole o usa dei sinonimi per dire a se stessa e al mondo quan­ to l’amore per lei sia vita e fonte di vita: “il suo capo”, “i suoi occhi”, “i suoi denti”, “le sue guance”, “le sue labbra”, “le sue mani” “il suo ventre”, “le sue gambe”, “il suo aspetto”.137 E tutte le metafore trovano il loro apice nella parola “dolcezza”138 che è il vero motivo per cui ella è stata cattu­ rata dall’amore di lui. Un vero e proprio incrocio d’amore si rivela essere il chiasmo, “Io sono del mio amato/ e il mio amato è mio”,139140 usato per definire come l’uno appartenga all’altro per purezza di sentimenti e non per semplice e banale desiderio carnale. E un possesso mentale ed emozionale che spezza l’idea bassa e volgare del possesso inteso come forma di distruzione e di degrado o, peggio, di negazione della digni tà e della personalità di chi si ama. Con la sentenza intrisa di amore puro, “Io sono del mio amato e il mio amato è mio”,14() la donna si pone sullo stesso piano non solo sentimentale, ma anche fìsico e soprattutto umano dell’uomo il quale non le appartiene come oggetto e gioco con il quale trastullarsi per un po’ di tempo finché dura la sua passione d’amore, ma le appartiene come vita che fa combaciare desiderio d’amo­ re ed amore in un unico ed immenso connubio dove donna ed uomo si ritrovano ad essere e a considerarsi uguali nella loro diversità e capaci di accettare e di ricevere, come fosse 137

Cfr. in Bibbia di Gerusalemme, Cantico dei Cantici 7, 1 1.12a. 12.b. 13a. 14a. 15a.,Centro editoriale dehoniano-EDB Bologna, 2009.

138

Cfr. in Bibbia di Gerusalemme, Cantico dei Cantici 1, 16a, Centro editoriale dehoniano-EDB Bologna, 2009.

139

Cfr. in Bibbia di Gerusalemme, Cantico dei Cantici 6,3, Centro edi­ toriale dehoniano-EDB Bologna, 2009.

140

Cfr. in Bibbia di Gerusalemme, Cantico dei Cantici 6, 3, Centro edi­ toriale dehoniano-EDB Bologna, 2009.

un dono divino, l’amore che si dimostrano l’uno per l’altra, amore che non è assolutamente una prigione come lo sarà per molti poeti e scrittori italiani e stranieri che nell’amore negato e rifiutato, ma anche in quello cercato ed assaporato, hanno trovato sempre motivo di struggente agonia e tormento, inca­ pacità di vivere ed anelito alla morte. Per un uomo, come per una donna, essenziale è non solo appartenere mentalmente e fisicamente alla donna amata, ma anelare che il desiderio di lei corrisponda al desiderio di lui e che entrambi i desideri tes­ sano insieme la trama del loro amore. Infatti, la donna amata afferma: “Io sono del mio amato/ e il suo desiderio è verso di me”,141 proprio perché, qualora il desiderio non combaciasse con il bisogno d’amore e la necessità di dare concretezza ai loro impulsi amorosi, non sarebbe vero amore, ma solo una biasimevole e oltraggiosa forma di uso e abuso vicendevole legato all’ipocrisia sentimentale, all’opportunismo e al deside­ rio di supremazia che l’uno avrebbe nei confronti dell’altra. Il desiderio d’amore di un uomo e di una donna trova nell’atto di donarsi amore liberamente e semplicemente, con purezza di intenti e di cuore, compimento e fa in modo che esso stes­ so non si spezzi mai e che sia fonte e sorgente continua di vicendevole amore. E il desiderio d’amore che rende l’amore un continuo desiderio e un desiderare continuo. Il desiderio è un flusso inarrestabile, è un andare verso l’amore ovunque e sempre. È un cammino di libertà verso la libertà di amare e di sentirsi amati. Ne libilostrato di Boccaccio, Griseida chiede a Pandaro “se per sollazzo o gioco / cerca Troilo il mio amore, e in che maniera / fu nota a te la fiamma sua primiera”.142 Saranno proprio le parole di Pandaro a dissipare tutte le incertezze di Griseida poiché, utilizzando la forma della sermocinatio^ le riporta le stesse parole che Troilo gli ha confidato in segreto riguardo all’amore che egli nutre per lei. Tali parole sono pa­ role accorate che Troilo rivolge direttamente ad Amore, invo­ lai 142

Cfr. in Bibbia di Gerusalemme, Cantico dei Cantici 7, 11, Centro editoriale dehoniano-1 sDB Bologna, 2009. Op.cit.

candolo ad entrare nel cuore della donna e di farle sentire il suo stesso desiderio d’amore: "Entra nel petto suo con quel desio / che dimora nel mio e me molesta: / fallo ten prego, o pietoso dio”.143 La motivazione per cui Troilo si rivolge al dio dell’amore ed acclama accoratamente la sua benevolenza e la sua pietà nei confronti di un povero giovane innamorato, risiede nel suo stesso desiderio di essere amato: "sì che per te i suoi dolci sospiri / portin conforto ai miei caldi desiri”.144 L’invocazione ad Amore è una commiseratio che Troilo fa per suscitare non solo la commiserazione del dio, ma anche quelle del dedicatario dell’opera e dei lettori stessi i quali partecipa­ no a quel suo stato d’animo commiserevole in modo vivo ed attivo, come fossero essi stessi coinvolti nel sentimento di au­ tocommiserazione del giovane. Il pathos dei lettori si uniforma al sentire dell’uomo innamorato che per mancanza di amore invoca Amore affinché lo aiuti a trovare una subitanea solu­ zione alla sua angosciosa situazione sentimentale per la quale egli sarebbe disposto addirittura a perdere la propria vita. La risposta di Griseida alla commiseratio che Troilo fa a se stesso è motivo di conforto sia per il giovane innamorato sia per Pan­ daro: "Così lo faccia Dio allegro e sano”,145 a cui si aggiunge il desiderio di essere anche lei nuovamente allegra e festosa perché amore le ha invaso, per la seconda volta, la mente ed il cuore, "e me ancora”. Il desiderio di felicità per entrambi viene rinsaldato e rinfocolato dal sentimento di pietà che ella prova per lui dopo aver sentito in quale stato d’animo il gio­ vane vive. Il mediatore Pandaro riporta le parole esatte con le quali Troilo definisce al sua mesta condizione sentimentale a 143

Cfr. Il Filostrato., poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., seconda parte, stanza LX, w. 4-5.

144

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., seconda parte, stanza LX, vv. 7-8.

145

Cfr. Il Filostrato•, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., seconda parte, stanza LXV, v. 5.

causa della quale egli si sente costantemente oppresso e schia­ vo: “Tu vedi, come l’anima angosciosa / di giorno e notte si tormenta, e grida, / dalla paura che essa non l’uccida”,146 e subisce lo stesso influsso di commiserazione che ha investito tutti: dio dell’Amore, Griseida, Troilo, lettori. “Tanta pietà mi fe, che per lui vegno / a te, mentre con Troilo fei tal patto”147 afferma con dolorosa costernazione Pandaro il quale, per sal­ vare l’amico, gli ha promesso di trasformare tutto il suo dolo­ re in felicità agendo sul cuore di sua cugina Griseida proprio come fosse Amore in modo da indurla ad amarlo, con lo stes­ so o addirittura maggior fervore di quanto ella provò per il suo defunto marito. Il patto che Troilo e Pandaro fanno è una vera e propria dimostrazione di fedeltà tra due amici ai quali preme l’uno il bene dell’altro. Le parole rassicuranti di Panda­ ro, “Indurla cercherò con il mio detto / a voler le tue fiamme sofferire / e porgere sollievo al tuo desire”,148 rappresentano un emblema della amicizia vera che trova coronamento nella fedeltà interscambiabile che c’è tra i due giovani. La terza parte del poema, I/ Yilostrato si apre con la sce­ na ambientata nello stesso luogo in cui avviene l’incontro tra Troilo e Pandaro: la camera da letto. I due versi sono costruiti in parallelo e sono simmetrici sia per la struttura sintattica che per quella semantica: “Stanto soletto / nella camera sua Troilo pensoso”149 e “se ne andò soletta / nella camera sua

146

Cfr. Il YMostrato., poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., seconda parte, stanza LIX, vv. 6-8.

147

Cfr. Il YMostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., seconda parte, stanza LXIII, vv. 6-7.

148

Cfr. Il ^Mostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., seconda parte, stanza XXIII, vv. 6-8.

149

Cfr. Il ^Mostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., seconda parte, stanza I w. 1-2.

Griseida bella”.130 L’unica variante sono gli epiteti "pensoso” attribuito a Troilo e "bella” attribuito a Griseida. La pensosità di Troilo sfocia nella bellezza di Griseida perché egli è ancora nel mare dell’incertezza amorosa e non sa ancora se il suo amore è corrisposto oppure se è un sentimento unilaterale che opprime solo il suo animo e al sua mente, mentre ella si trova in una situazione di certezza dal momento che sa già che Troilo la ama profondamente con cuore sincero. Anche l’epi­ teto "soletto”131 che fa rima con "letto”151 150sul quale Troilo si 152 era "disteso tutto lacrimoso”,153 viene ripetuto identico nella terza parte e attribuito a Griseida che, tutta "soletta”l vl nella sua camera, si ritrova a ripensare alle belle parole d’amore che Troilo le ha fatto pervenire tramite suo cugino Pandaro. Alle lacrime di Troilo fa da contrasto l’esultanza di Grisei­ da la quale, lieta e festosa, immagina come potrebbe essere Troilo e quanto la sua bellezza la potrebbe far cadere nella rete amorosa. Boccaccio utilizza una anastrofe, "le bellezze di Troilo imaginando”,155 per sottolineare i voli pindarici che il pensiero della fanciulla fa nell’immaginare la fisionomia, il volto e il corpo di colui che è ancora un mistero per lei. Un 150

Cfr. I/ Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri ­ ma volta dato in luce, Parigi presso f rane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., terza parte, stanza I vv. 1-2.

151

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso f rane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., seconda parte, stanza I v. 1.

152

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., seconda parte, stanza I v. 5.

153

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso f rane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., seconda parte, stanza I v. 6.

154

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso f rane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., terza parte, stanza I v. 1.

155

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., terza parte, stanza I v. 8.

mistero d’amore tenuto sospeso dal filo àeVCallusio per la quale l’oggetto del suo pensiero e del suo ardore amoroso non è ancora stato rivelato e quindi il senso di allusio che colpisce Griseida e tutti i lettori infonde una aura di mistero ancor più accentuata dove tutto vive allo stato emozionale e percettivo che fa in modo che l’amore dei due giovani nasca, cresca e si sviluppi dentro i loro cuori prima ancora che essi si siano visti e conosciuti. È un amore che nasce dalle parole d’amore che Troilo e Griseida si scambiano reciprocamente grazie al loro mediatore Pandaro che fa da tred union a quel ricamato e raffinato dialogo d’amore che c’è tra di loro. Ciò che li fa in­ namorare è la bellezza delle loro parole che riflette la bellezza e la purezza del loro pensiero e del loro vivere puro. Anche se viene enfatizzata da entrambi e dallo stesso Pandaro, la loro bellezza fisica non è la vera causa del loro reciproco amore. Dalle loro parole calde e appassionate Boccaccio fa trapelare sì l’importanza della bellezza fisica che colpisce gli occhi di chi guarda e che da quella bellezza non vorrebbe distaccarsi mai ma, in realtà, il poeta anticipa, tramite una prolessi ver­ bale, la bellezza dei sentimenti limpidi e puliti dei due giovani innamorati e posticipa, come fosse una analessi, il momen­ to in cui i due si guardano, si scrutano e vengono attratti da quella bellezza fisica che secondo l’opinione di tutti, è quella che maggiormente se non esclusivamente è fonte di amore. I ragionamenti di Griseida trovano fondamento su una strut­ tura anaforica caratterizzata dalla congiunzione “perché” che è di per se stessa al contempo un dubbio e una fragilità che rispecchia i dubbi e i sentimenti ancor fragili della donna che non si fida ancora ciecamente e totalmente delle parole, sep­ pur lusinghiere, che Troilo le manda a dire tramite Pandaro, ma che non si fida nemmeno dei suoi stessi sentimenti ancora duttili ed incerti dovuti proprio alla paura che ella ha di essere per lui solo una avventura di poco valore. La successione di domande che Griseida si pone diventa una raffica angosciante di frecce con le quali tortura il suo animo, seppur lieto per avere appena appreso che Troilo la ama con inusitato fervore. Quelle domande diventano una climax ascendente che trova soluzione nella amara constatazione che l’uomo non rinun-

eia mai alla sua libertà e soprattutto alla sua libertà di amare chi egli vuole e desidera amare in qualunque momento della sua vita la quale spesso è scolpita da innumerevoli attrazioni femminili che lo portano e trasportano nell’alcova dell’amo­ re facile e sempre cangiante. “Perché non potrò stare inna­ morata?”, “Ed io perderò il tempo inutilmente?”, “Ne forsi innanzi tempo penitersi, / e dire lassa, perché non ami?”, “Perché d’amante buon non provedersi?”, “Perché dentro nel core / come egli ha te, tu noi ricevi alquanto?”, “Perché tiol corrispondi col tuo amore?”, “Perché pietà non senti del suo pianto?” diventano una commiseratio che la donna innamorata fa a se stessa che suscita anche la commiseratio dei lettori i quali soffrono a causa del dilemma che Griseida si pone: “amare o non amare”. E un dilemma che anticipa quello di Amleto che si chiede: “Essere o non essere, questo è il problema. [...] Mo­ rire per dormire. Nient’altro. E con quel sonno poter calmare i dolorosi battiti del cuore, e le mille offese naturali, di cui è erede la carne! Quest’è una conclusione da desiderarsi devo­ tamente. Morire per dormire. Dormire, forse sognare”.136 11 chiasmo che il drammaturgo William Shakespeare usa nella tragedia intitolata Amletoy “Morire per dormire. Dormire, for­ se sognare”,156 157 pone la morte sullo stesso piano del sogno in cui si rivelano i misteri ancora insoluti per l’uomo perché è vivente e non dormiente, è vivo e non morto. E un morire che annulla la stessa tragicità della morte e che fa planare lì desi­ derio che l’uomo ha di morire su un piano di trascendenza, di vita nuova che lo fa essere, seppur sotto forma di realtà meta­ fisica, più uomo di quanto non lo fosse quando l’anima sua era ancora inviluppata nella carne, fonte di piaceri, di passioni, di violenza, di turpiloqui, di torti e di oltraggi disumani. 11 chia­ smo si snoda su una tessitura parallela per quel che concerne la struttura sintattica con speculantà nelle corrispondenze di significato. La forma verbale dell’infinito presente pone sullo stesso piano scritturale quello che dal punto di vista del signi156 157

William Shakespeare, Amleto, introduzione, traduzione e note di Gabriele Baldini, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1975.

Op.cit.

ficato si pone su due piani diversi, uno immanente e l’altro trascendente legati entrambi dal lessema “dormire”.158 Il dormire appartiene sia all’immanenza che alla trascen­ denza perché nella sua duplice versione di significato diame­ tralmente opposto e contraddittorio, se non addirittura para­ dossale, a seconda della realtà, terrena o ultraterrena, in cui il dormire è inserito, diviene simbolo o di sonno eterno o di sonno la cui brevità viene interrotta al momento del ri­ sveglio dell’uomo. Griseida riesce a superare il suo dilemma affidandosi non all’amore di Troilo, ma alla amicizia che ella spera di avere con Troilo, amicizia che nasce e si sviluppa e cresce e si corrobora in contemporaneità con l’amore, facen­ do dell’amore la realtà in cui l’amicizia prende forma, corpo e anima. Griseida, dunque, considera cosa fondamentale, prima ancora che l’amore, la amicizia che ci dovrebbe essere tra un uomo e una donna, perché è proprio l’amicizia a durare nel tempo, mentre l’amore è spesso sfuggevole e sfuggente. Il marito che è anche un amico rappresenta un tutto armonico perché permette alla donna di essere non solo oggetto di de­ siderio e di piacere, ma anche un rifugio a cui affidare i propri pensieri e i propri dubbi, le proprie angosce e le proprie vicis­ situdini interiori. Con un amico ci si confida sempre e all’ami­ co si affidano i pensieri più reconditi e le aspettative più desi­ derate e mantenute riservate e segrete forse anche a se stessi per la paura che nulla accada di bello e gioioso per la propria esistenza solitamente vissuta sul filo della tensione emotiva, psicologica, sentimentale, umana. E una esplosione di since­ rità verso l’uomo che ama e verso l’amore in generale l’escla­ mazione di Griseida che fa parlando dell’amicizia tra un uomo ed una donna, “Grande fra sposi sia pur l’amistate”,159 perché è proprio la loro amicizia che impedisce al marito, come alla donna, di non dimenticare subito la donna amata e di non concedersi troppo presto ad altre focose avventure sentimen­ 158 159

Op. cit.

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., terza parte, stanza VI v. 6.

tali. "Fa’ che al marito tosto non rincresca, / vago d’avere ogni dì cosa fresca”160 sentenzia Griseida con onestà d’animo e di intenti. Il timore di Griseida trova compensazione nella invocazione che ella fa all’amicizia e al potere dell’amicizia che induce due persone che si amano con cuore sincero ad avere l’uno per l’altra un atteggiamento di confidenza e di dialogo aperto e continuo che fa che il loro amore sia un continuum di sentimenti, di emozioni e di parole che si protraggono nel tempo e che con l’andare del tempo non mutano mai, ma si corroborano vicendevolmente. Alla parentesi amicale che per un breve lampo di tempo ha coinvolto, facendoli gioire, i suoi pensieri, segue una amara ed angosciosa constatazione che la donna si pone, "Non sai quanto rea / vita si mena per amor languendo”.161162 È un interrogativo che rappresenta il fulcro stesso della con­ dizione amorosa che trascina colui e/o colei che ama all’in­ terno di una nebulosa di sentimenti contrastanti, ora positivi ora negativi, che realmente fa della vita spensierata ed allegra una "rea vita”102 come se fosse proprio la vita amorosa, che si desidererebbe vivere con intensità d’amore donato e ricevuto e con forti emozioni, ad essere motivo di dolore e di immensi dispiaceri. L’anastrofe sinonimica, "in affanni, in sospiri, in guai piangendo”,163 esprime la motivazione per cui Griseida vorrebbe evitare di amare e di rimanere invischiata in una re­ lazione sentimentale che la farebbe soltanto soffrire ed, infat­ ti, si definisce "misera”.164 In quella sua miseria si percepisce 160

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Pangi presso f rane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., terza parte, stanza VI vv. 7-8.

161

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso f rane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., terza parte, stanza Vili w. 3-4.

162 163

164

Op. cit. Cfr. Il F'ilostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., terza parte, stanza Vili v. 6. Op. cit

tutto il sentimento accorato che ella ha nei suoi riguardi e in generale nei confronti di tutte quelle donne che affidano le loro vite nelle mani dell’amore il quale può travestirsi ed assu­ mere contorni poco limpidi e oscuri. L’anastrofe, “congiunta avendo poi la gelosia”,165 con interposizione di inciso, “poi”, fa in modo che tutto il peso dell’angoscia causata dall’amore venga assorbito interamente dalla gelosia la quale è cosa “peg­ giore assai dell’aspra morte ria”.166 La gelosia fomenta non la purezza e la limpidezza dell’amore, ma tutta una galleria di sentimenti torbidi che elevano bassezze di atti e di parole spesso avvolte dal risentimento e dall’invidia. E se l’amore che spinge alla morte è visto come una forma di esultanza dell’amore stesso perché chi si toglie la vita spera che nell’al­ dilà ci sia quel congiungimento d’amore che nella vita terrena è mancato e, di conseguenza, vede nella morte un simbolico gesto d’amore nei confronti di colui /colei che si ama, la ge­ losia è vista e sentita come una cosa peggiore della morte da cui l’uomo vorrebbe sfuggire, ma dalla quale non può allon­ tanarsi perché è proprio la morte da essere l’unico, certo tra­ guardo verso cui tutti gli esseri umani sono costretti per forza maggiore ad andare. Si percepisce il paradossale contrasto tra la visione della morte intesa come salvezza per ritrovare quell’amore che, quando si era ancora in vita, non c’era o, qua­ lora ci fosse stato, non era contraccambiato e quindi era causa di spropositato tormento, e la visione della gelosia che, come fosse la morte, stritola i pensieri d’amore di chi ama e li rende essi stessi al contempo vittima e fomentatori di discordia e di acredini che spesso trovano soluzione in una molteplicità di improperi, di atti biechi e svenevoli che paradossalmente liberano l’animo che fino a quel momento era rimasto contri­ to nella morsa distruttiva del sentimento d’amore. La gelosia fomenta odi e passioni perverse che acuiscono solo il deside­ rio di distruzione che l’uomo geloso ha nei confronti del suo oggetto d’amore il quale, privato di ogni forma di pensiero e 165

Op.cit. parte terza, stanza Vili, v. 7.

166

Op.cit. parte terza, stanza Vili, v. 8.

di vita, viene ridotto allo stato immateriale e ad essere dunque, più facilmente umiliato, oltraggiato, spezzato. La gelosia è un male incurabile che può condurre a compiere e a far compiere gesti estremi come quello che Otello, nobile moro al servizio della Repubblica di Venezia, fa nei confronti di sua moglie Desdemona e di se stesso. Il letto del fiume su cui scorrono i giorni di Otello e di De­ sdemona è proprio la gelosia la quale è un sentimento che cre­ sce a poco a poco dentro fanimo di Otello a causa dell’azione malvagia di Iago, alfiere di Otello, che, per vendicarsi del “so­ spetto che il gagliardo Moro abbia inforcato la mia sella”,167 affina tutte le sue arti malefiche per insinuare nel novello spo­ so il dubbio di non essere amato da Desdemona con purezza di mente e di cuore. Infatti, con spropositata cattiveria e con animo avviluppa­ to nell’ira e nel desiderio di vendetta afferma: “E se questa sorta di vendetta mi manchi, ch’io almeno faccia assaporare al Moro una tal gelosia che nessun esercizio di ragione possa curarla”.168 L’azione malvagia di Iago giunge ai confini estre­ mi dalla razionalità la quale, condotta esclusivamente dall’in­ vidia e dal risentimento per un torto subito o presunto, farà in modo che Otello cada nella rete di distruzione che il suo alfie­ re ha preparato per lui e lo spinga entro il labirinto della follia che lo condurrà a compiere il gesto più tragico che un uomo possa compiere nei confronti della donna che ama: l’omicidio. Farà in modo che sia il Moro stesso a ringraziarlo e a ricom­ pensarlo per avergli fatto aprire gli occhi innanzi alla vera na­ tura di Desdemona, la quale appare come non è rivelandosi agli occhi di suo marito come falsamente ed ipocritamente innamorata di lui. Iago sarà il tormento mentale di Otello du­ rante tutto il dramma e il suo pensiero avvelenato riuscirà ad 167

William Shakespeare, Amleto, introduzione, traduzione e note di Gabriele Baldini, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1984, pagg. 8889.

168

William Shakespeare, Amleto, introduzione, traduzione e note di Gabriele Baldini, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1984, pagg. 9091.

avvelenare anche gli unici due cuori casti e puri della tragedia shakespeariana, i quali avvolti dal lenzuolo della tragedia si muovono come pedine sullo scacchiere di Iago e si ritrovano ad essere schiavi del pensiero distruttivo di un solo uomo che per vendicarsi sia del ruolo che, forse, gli è stato sottratto sia dell’amore che egli stesso non prova per sua moglie Emilia e che, invece, prova per Desdemona, si ritrova a mascherare se stesso e ad indossare i panni del traditore. Il tradimento di Iago verte su due direttive, la prima abbrac­ cia Otello e lo circuisce a provare un sentimento che egli non ha ancora provato proprio perché il suo è stato un matrimo­ nio d’amore, la seconda coinvolge la ingenuità, la dolcezza e la bontà di una donna innamorata la quale non concepisce nem­ meno il pensiero del tradimento, ma che da quel tradimen­ to, supposto e presunto, mai comprovato espressamente, ne uscirà sconfitta. Iago rappresenta l’uomo astuto che, infelice della sua condizione familiare e sociale, vittima del suo essere egli stesso una vittima dell’azione di potere che il suo supe­ riore Otello ha nei suoi confronti, trasforma il suo vittimismo in malvagità che si riversa, come un fiume in piena che per le abbondanti piogge, rompe gli argini, fuoriesce dal suo letto andando ad inondare tutto quello che incontra. Ed è proprio la figura di Iago che, sorpassando il suo essere una semplice maschera teatrale, indossa una maschera sul volto, e diven­ ta un “tipo” che con il suo linguaggio sfrenato e dissoluto, con parole pronunciate in modo ironico e caricaturale, spesso molto provocatorio e denigratorio nei confronti di tutto e di tutti, è fonte di turbamento e di distruzione. Iago, infatti, non viene posto all’interno di una azione di guerra dove ci si aspetta che egli dimostri apertamente tutta la sua malvagità di pensiero e di azione, ma viene posto come fosse un semplice consigliere segreto che Otello consulta non per motivi bellici, ma per questioni di natura sentimentale. La vera guerra non è quella che si combatte con le armi e che cambia continuamente i confini delle nazioni, ma la vera guerra è quella d’amore e fatta per amore, dove i duellanti, due o addirittura più di due, si ritrovano a dover combattere per far trionfare le proprie ragioni amorose spesso sì tanto

devastanti da impedire ai guerrieri di continuare a vivere. La guerra è questione secondaria. La storia si tonda sull’amore che fa in modo che ci sia ancora e sempre una storia lutura. La guerra è un lampo distruttivo che impedisce alle genti di vivere. William Shakespeare, in realtà, pone come fulcro della sua tragedia non Otello e Desdemona, ma Iago che agisce se­ guendo il suo risentimento e il suo bisogno di vendetta e fa in modo che i due innamorati siano marionette che egli muove a suo piacimento. L’agire di lago ai danni dei novelli sposi di­ venta una paradossale forma di sudditanza che sia Otello che Desdemona hanno nei confronti di lago. E Desdemona che chiede a Iago, e non a suo marito Otello, che cosa egli pensa realmente di lei: “E di me che scriveresti, se fossi costretto a lodarmi?”. È Desdemona che insiste sul fatto che Iago le riveli se ella è tenuta in considerazione da lui oppure se è considerata come tutte quelle donne che si mettono in mostra e si agghindano per conquistare i loro mariti ma, una volta conquistati, li cri­ ticano, li denigrano e li dipingono come persone piene di vizi e di passioni focose che riversano non su di loro, ma su tutte quelle donne con le quali tessono un rapporto sentimentale frivolo e poco duraturo. “Voi altre donne, fuori, per la strada, siete dei quadri dipinti, campane nei vostri salotti, gatti selva­ tici in cucina, sante quando offendete, e demonii quando vi s’offende, svagate e oziose nei lavori di casa, e massaie indaf­ farate solo a letto”169, afferma Iago con ironia mescolata ad una sagacia che disarma e fa della donna una abile persona che si traveste e che traveste i suoi sentimenti a seconda delle circostanze e delle persone con le quali ella entra in relazio­ ne. L’uomo viene circuito dalla bellezza e dall’eleganza di una donna che prima di essere moglie è semplicemente donna, un esempio di virtù e di grazia che la rende unica agli ocelli dell’uomo che è completamente soggiogato dalle sue grazie e dai suoi modi raffinati di porsi e di apparire. La vera natu­ ra della donna l’uomo la scopre solo dopo il matrimonio in 169

William Shakespeare, Otello, introduzione, traduzione e note di ( la briele Baldini, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1984, pagg.78-79.

quanto ella si sveste della sua grazia e si riveste di ipocrisia che la fa essere quella che ella è veramente e cioè poco abile a compiere qualsiasi forma di lavoro, compreso quello casalin­ go, e brava solo a soddisfare le brame sessuali di suo marito o di eventuali suoi amanti, che le girano intorno nel tentativo, più o meno vano, di conquistarla. Non ha nessun ruolo la donna che Iago dipinge con una freddezza di sentimenti, con una aridità di cuore e con un disprezzo tale da far rabbrividire corpo e animo perché per lui le donne sono solo “massaie indaffarate solo a letto”.170 È una perifrasi che qualifica il ge­ nere femminile nel peggiore dei modi, ma che rivela come un uomo considera, in cuor suo, una donna. “Vi alzate per giocare e non fare nulla, e andate a letto per lavorare”171è una sentenza che riassume, tragicamente, tutto il pensiero non dell’uomo Iago che è frustrato dalla relazione sentimentale con sua moglie Emilia e che allora sfoga tutto il suo disprezzo su colei che è stata la causa della sua rovina sentimentale e, di conseguenza, di vita, ma il pensiero dell’uomo in generale che considera la donna non solo come una tentatrice, una seduttrice, ma come una persona incapace di agire e di pen­ sare, capace esclusivamente di fare l’amore. E spesso nem­ meno a letto le donne riescono a soddisfare i loro mariti dal momento che essi allacciano relazioni adulterine con chiun­ que altra donna si dimostri piacente e seducente vero di loro. E nemmeno a letto una donna è considerata da Iago essere una “signora” perché il soldato Iago definisce le donne con un epiteto denigratorio, “massaie”, svilendo anche quell’uni­ co ruolo che, a parer d’uomo, una donna dovrebbe svolgere: quello di moglie e di amante. La donna che Iago raffigura è una donna che sembra mettere tutto il suo ingegno solo nel trastullarsi e nel perdere i suoi giorni oziando, qualora fosse ricca e mantenuta dalla famiglia e/o dal marito. In condizioni di povertà, invece, la donna non può e non potrà mai avere ingegno e abilità che la nobilitano dal suo stesso degrado in 170 171

Op. cit.

William Shakespeare, Otello^ introduzione, traduzione e note di Ga­ briele Baldini, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1984, pagg.78-79.

cui vive, allora ella ripone tutti i suoi pensieri più turpi e male­ voli, pregni di risentimento e di odio sui suoi familiari e/o suo marito, per i quali fatica indecorosamente giorno e notte notte e giorno essendo diventata loro schiava. Iago toglie alla donna al capacità di pensare, di usare liberamente il suo pensiero e di agire secondo le sue volontà, e dà alla donna solo la facoltà, che non è certamente una capacità, di amare. Anche la capaci­ tà di amare alla donna viene negata perché se fosse capace di amare vorrebbe dire che ella è capace di comprendere quando e se il sentimento d’amore che le avvolge il cuore esiste, è vero e non è una sua fantasia o se è un modo subdolo per riuscire a intrappolare l’uomo che ha di fronte. Alla donna è concesso soltanto farsi amare che richiede un atteggiamento di totale passività sia nei riguardi dell’amore che di se stessa rivelandosi così incapace di imporre i suoi veri sentimenti. Anche nei confronti dell’uomo che dice di amare, ma che in realtà non ama affatto la donna dimostra tutta la sua passività. Desdemona, al contrario di come sono le donne di­ pinte da Iago, è una donna che ama per sua volontà e non per­ ché ne è costretta. Infatti, è la libertà di pensiero, di sentimenti e di azione che ha Desdemona a condurla alle nozze e a fare di lei un emblema della libertà di scelta in campo sentimen­ tale e sessuale. E la vendetta biasimevole di Iago si scatena proprio su Desdemona che ha scelto liberamente di sposare Otello nonostante ci potessero essere degli impedimenti. La vera libertà di amare e non di farsi invece amare passivamente dall’uomo che si ama, la dimostra Griseida nei confronti di Troilo la cui vita è appesa ad una risposta. La risposta che Griseida darà a Troilo sarà per lui motivo di esultanza o di sconforto tale da indurlo a compiere un atto scellerato come è il suicidio. In attesa di risposta, però, 'frollo, su consiglio del suo amico Pandaro, scrive una lettera d’amore a Griseida le cui parole infuocate d’amore per la donna, trova­ no l’apice nella invocazione che l’amato rivolge alla sua amata. È una apostrofe che ha struttura anaforica proprio perché all’inizio di ogni verso viene ripetuta l’invocazione “Tu sola” che permette a Troilo di parlare direttamente a Griseida pro­ prio come se ella fosse lì con lui, sebbene sia uno pseudo­

dialogo e non un dialogo vero e proprio: “Tu sola puoi queste pene noiose, / quando tu voglia, porre in dolce pace; / Tu sola puoi l’angosce mie penose / in un riposo mettere verace; Tu sola puoi con l’opere tue piatose / tornii il tormento, che sì me disface; / Tu sola puoi, come il cor vorria, / accordare al mio cuor ciò che desia”. È un dialogismo che avviene tramite lettera e che rompe il silenzio tra i due innamorati e li fa congiungere prima ancor che il loro amore si concretizzi. Guido Guinizzelìi, nel sonetto intitolato Io voglio del ver la mia doma laudare^ fa un panegirico alla donna da lui amata e la loda con parole encomiastiche utilizzando la similitudine della luce e, di conseguenza, dello splendore che il volto e la figura della donna emanano, per associare la bellezza della donna a quel­ la degli astri che risplendono nel cielo: “più che stella diana splende e pare / e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio”.172 La lode del poeta si carica di amore smisurato ed incom­ mensurabile quando il poeta immerge la donna non nella soli­ tudine di un bosco, ma nella chiassosità del vivere quotidiano, e fa in modo che il suo cammino per una strada di città diventi motivo di amore. La donna indossa un abito elegante, mani­ festa gentilezza di sembiante e modi aggraziati tali che la fa essere inafferrabile ed inavvicinabile da persona vile e gretta, ma solo da chi è nobile sia di animo che di intenti. Infatti, Guinizzelìi scrive: “e no He pò apressare om che sia vile”.173 L’apocope della parola “omo” in “om”scorre come fresca acqua sul greto dell’amore e fa scivolare l’accento sulla parola “vile”. La donna sfugge da quella viltà e si lascia catturare sol­ tanto dalla nobiltà d’animo, dalla dolcezza e dalla gentilezza dell’uomo che sa riconoscere in lei la virtù e l’onesta dei suoi intenti. La climax encomiastica della donna amata raggiunge il culmine alla fine della lirica quando il poeta annuncia al mon­ do che tutti gli uomini che la vedono passare non pensano 172

Cfr. in G. Contini, I poeti del Duecento, Milano-Napoli, Ricciardi Editore, I960.

173

Cfr. in G. Contini, Ipoeti del Duecento, Milano-Napoli, Ricciardi Editore, 1960.

male di lei, ma annullano addirittura ogni loro pensiero vile e indecoroso per far rilucere, nella bellezza e nel fascino smi­ surato di lei, quel pizzico di orgoglio femminile, che le dona vigore e che la fa essere ancora più altera, orgoglio tenuto smorzato e non esibito con troppa baldanza proprio in virtù di quelle qualità che la contraddistinguono e che la fanno es­ sere superiore a tutte le altre donne: la castità e la purezza del suo animo che sono in sintonia con la castità e la limpidezza del suo pensiero. E un pensiero che non si lascia mai andare a nessuna forma di indecorosa immaginazione, ma che rimane sempre legato a una forma di assoluto decoro che fa essere la donna ancor più splendida e sublime e forse, proprio per questa sua sublimazione, spesso irraggiungibile.

ILFILOSTRATO DI GIOVANNI BOCCACCIO (IV)

Griseida affacciata alla finestra dimostra subito che ella con­ traccambia il sentimento d’amore che il giovane nutre per lei e non si mostra “ne selvaggia ne alpestra verso di Troilo”.174 Gli epiteti “selvaggia” ed “alpestra”175 riecheggiano il ver­ so dantesco “selva selvaggia e aspra”176 e pongono la selva oscura che incute timore all’uomo sullo stesso piano della donna che potrebbe dimostrare tutta la sua scontrosità e la sua asprezza di cuore nei riguardi dell’amato. La similitudine che lega il verso dantesco a quello boccacciano diventa una chiave metaforica per descrivere non solo il mondo femmi­ nile chiuso all’interno di una prigione mentale e fisica a cau­ sa della quale la via di fuga diventa un miraggio e la volontà di esibire i propri sentimenti e le proprie emozioni diventa motivo di scherno, di derisione se non addirittura di gogna da parte sia dei familiari che della gente la quale, con pathos portato spesso all’esasperazione, partecipa delle gioie e degli insuccessi, delle pene e delle angosce che affliggono l’animo e la vita delle donne. Un animo selvaggio e scontroso quello della donna che si ritrova a dover sottostare e a sottomettersi ai desideri e alle volontà di uomini altrettanto duri e forti che impongono con tutta la loro forza il loro pensiero oltremodo oscurantista e dominatore verso la realtà femminile. La donna si sente ed è effettivamente subordinata all’uomo che si sente un padrone capace di ridurre al niente la volontà, le emozioni e la vita stessa della donna con la quale vive. La parola spesso inespressa della donna viene raccolta ed esaltata nei versi di poeti e scrittori che vedono nei gesti e nelle parole, eloquenti 174

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso f rane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., terza parte, stanza XV, vv. 3-4.

175

Op. cit.

176

Cfr. in Dante Alighieri, Inferno, Canto I, v. 5.

seppur mute, di una donna tutto un mondo di dolore e di agonia causato proprio dal fatto che alla donna è negato di essere donna e di manifestare i suoi pensieri e le sue volontà. La donna è un oggetto che si può solo ammirare, compra­ re e vendere. Alla donna l’uomo non chiede mai nulla. Non le rivolge mai la parola per sapere se egli rappresenta per lei Famore o se è solo colui che è stato scelto dalla famiglia di lei affinché diventasse quel marito che ella non avrebbe mai voluto sposare. In quella nebulosa di sentimenti e di realtà la donna si ritrova a subire le aggressioni psicologiche e fisiche di un uomo al quale non si sente per nulla legata sentimental­ mente, ma che le leggi della società e del decoro assecondano. La reazione della donna innanzi alla pretesa d’amore di un uomo che ella non desidera amare è quella della scontrosità e del rifiuto. Un rifiuto che raggiunge l’apice della reazione negativa proprio perché alla donna non è permesso di esporsi e di esprimere la sua volontà, ma solo di ubbidire e di tace­ re. E in quel suo silenzio lacrimante ella riversa tutto il suo impeto aggressivo che la rende selvaggia e spesso irriverente nei riguardi di un uomo che da lei pretende la negazione del proprio sé, della sua libertà di espressione e di azione. Grisei­ da rappresenta la donna emancipata che agisce per proprio conto e non deve aspettare di avere il consenso da qualcuno per il suo agire. Griseida è la donna del ventesimo secolo che esibisce i suoi sentimenti e che non si vergogna di esibirli. E la donna che ama e che non si interessa dell’opinione della gente e nemmeno quella dei suoi familiari. Infatti, Boccaccio ha ini­ zialmente allontanato dalla scena il padre di Griseida perché avrebbe potuto essere un ostacolo alla loro relazione ed im­ pedirle di unirsi con il giovane e ha lasciato la donna sola sul palcoscenico della vita per farle recitare la parte della vera ed assoluta protagonista della sua esistenza senza che ci fossero delle interferenze da parte di qualcuno. Soltanto Dio avrebbe potuto distruggere quella loro unione. Ed è proprio a Dio che entrambi i due innamorati si rivolgono direttamente per fare in modo che non ci sia nessuno ad ostacolare il loro amore. Pandaro è un mediatore. Avrebbe potuto esserci come non esserci. La lettera che Troilo fa pervenire a Griseida tramite

suo cugino Pandaro avrebbe potuto benissimo portargliela lui stesso senza che ci fosse ostacolo alcuno. Nemmeno la guer­ ra per la quale gli uomini vivono e vanno a morire sarebbe stata motivo di rinuncia ad assaporare quell’amore che egli non ha ancora gustato. L’eco della guerra si sente in lontanan­ za e rappresenta lo sfondo di un paesaggio d’amore che egli vuole lasciare intatto ed immacolato proprio perché è amore. Se non fosse stato amore molto probabilmente il richiamo della guerra sarebbe stato talmente un imperativo per lui da costringerlo a rinunciare all’amore e a vivere di guerra e per la guerra. Nel poema di Ludovico Ariosto intitolato Orlando F'urioso, il conte Orlando innamoratosi follemente di Angelica fino a perdere il senno non rinuncia mai all’amore e non antepone mai la guerra all’amore. Anzi! Lo insegue ovunque Orlando, l’amore. Ovunque, sia di giorno che di notte. E nonostante le richieste e le suppliche del re Carlo Magno di soccorrerlo nella guerra contro i saraceni d’Africa che stanno assediando Parigi, il conte Orlando lotta aspramente soltanto contro se stesso e il suo dolore di essere stato rifiutato e sconfitto da un “povero fante”, Medoro, che la bella figlia di Galafrone, re del Cataio, Angelica sposa alla presenza solo del sacerdote, dell’oste e della moglie dell’oste che li hanno ospitati quan­ do Medoro ferito in battaglia, necessitava di cure e di con­ forto. La pazzia di Orlando non deriva solamente dal fatto che egli sia stato rifiutato da Angelica, ma dal fatto che una donna avesse scelto quale uomo avrebbe dovuto sposare per sua volontà e non per volere di suo padre o di qualche altra persona che le avrebbe imposto di fare quello che ella non avrebbe mai voluto fare. Angelica, lontana dal regno di suo padre, si è trovata nelle stesse condizioni di Griseida, cioè di dover scegliere se amare o non amare, se aspettare di amare o se lasciarsi trasportare dalla passione amorosa e di concedersi all’amore dell’amato. Intorno a loro non c’è nessuno. Nes­ sun impedimento. Nessun ostacolo. Nessuna guerra. Nessuna donna rivale che avrebbe potuto conquistare il cuore di un uomo che era già stato conquistato non solo dalla bellezza della donna, ma soprattutto dai suoi modi aggraziati e dalla

sua forte personalità che la fa essere superiore a tutte le altre donne. Sia Angelica che Griseida sono donne che in tutta la loro semplicità e in tutta la loro cortesia emanano una forza interiore e un desiderio di affermazione di sé e della propria volontà che le trascina verso il moto ondoso dell’amore. E anche quel senso di vergogna che Griseida prova per quel suo sentimento d’amore così tanto acceso in lei, viene dal lei stes­ sa vanificato proprio perché "gl’atti piacevoli e la cortesia”1 n di frollo, che lo rendono un guerriero d’amore e non un ca­ valiere armato che vive di guerra e per la guerra, hanno il so­ pravvento su tutto e lo circondano con un’aura di gentilezza e di nobiltà d’animo che diventano sinonimi di amore. Amote vero. Ella si sente talmente rapita dalle belle maniere di frollo che si duole "del tempo perduto”.177 178179 Griseida si rende subito conto della differenza tra quello che fu il suo primo manto e il suo nuovo amore e si ritrova ad ammettere "che il vero amor non avea conosciuto”.19 Boccaccio non rivela se Gnsida si è sposata per amore o per costrizione, ma dalle parole di elogio che la donna fa a Troilo si può benissimo intendere che la sua prima relazione amorosa è esistita in quanto la donna deve svolgere, volente o nolente, il suo ruolo di sposa prima e di madre poi. Non è stato un amore unico, passionale e travol­ gente a tal punto da rinchiudere Griseida in una prigione sen­ timentale e da farla vivere in lutto per tutto il resto della sua vita. Griseida ammette di aver conosciuto l’amore, ma non il vero amore. E soltanto con Iroilo che ella può dire aper­ tamente e liberamente di aver incontrato l’amore vero. Nella stessa contrazione e restrizione amorosa vive Laura, la donna 177

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri ­ ma volta dato in luce, Parigi presso frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., terza parte, stanza XVI, v. 4.

178

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso f rane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., terza parte, stanza XVI, v. 7.

179

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso f rane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., terza parte, stanza XVI, v. 8.

amata da Petrarca che per lei si struggerà la mente, il cuore e l’animo per tutto il corso della sua vita. Laura e Beatrice sono due donne sposate e il loro matrimonio rappresenta un ostacolo all’amore che nutrono rispettivamente per Petrarca e per Dante. Il sonetto CXL di Francesco Petrarca può essere considerato una allegoria di Amore che, come fosse un cavaliere arma­ to, ha posto il suo regno nel cuore del poeta costringendo­ lo a continue e snervanti imprese che segnano il fallimento dell’uomo innamorato. Il poeta utilizza una omonimia, “insegna/’nsegna”,180 con­ trassegnata dall’uguaglianza grafematica e fonetica e diversi­ tà di significato, per dire quanto Amore agisse per conto del poeta che si ritrova completamente disarmato poiché Amore ha posto le sue insegne sulla sua stessa fronte impedendo alla sua mente addirittura di pensare. Il poeta si è svestito della sua personalità e ha dato ogni potere di azione ad Amore, il quale viene a sua volta destabilizzato e detronizzato da Laura la quale insegna ad entrambi, poeta ed Amore, che la donna è motivo di amore, ma al contempo anche di terribile sofferen­ za “amare et sofferir ne ‘nsegna”.181 È la donna questa volta, e non Amore, che spesso si maschera e si presenta come la personificazione di un uomo vile che intende rovinare e di­ struggere i sentimenti di due innamorati, a porre un freno al desiderio, alla speranza, alla ragione, al senso di vergogna che accompagna solitamente i pensieri e le emozioni di chi ama e alla riverenza che i due hanno l’uno nei riguardi dell’altro. E la donna che si sdegna dell’ardore e dell’impeto amoroso che esiste nel cuore del poeta e di Amore stesso i quali si sentono entrambi vinti proprio da colei che al contrario avrebbe dovu­ to dimostrarsi accondiscendente al loro amore. Amore fugge e abbandona l’impresa, trema di paura e si nasconde agli occhi del nemico vincitore. È una guerriera la donna che si sdegna 180

Cfr. in Francesco Petrarca, Cannoniere, Oscar Mondatori Editore, 1985, sonetto CXL w. 4-5.

181

Cfr. in Francesco Petrarca, Cannoniere, Oscar Mondatori Editore, 1985, sonetto CXL v. 5.

per la passione che un uomo nutre verso di lei, pur nutrendo in segreto anch’ella la stessa foga amorosa. Anche Troilo, nel poema boccaccesco II Filostrato, parla di sdegno che Griseida potrebbe provare nel leggere le infuocate parole scritte nella lettera che egli le invia tramite suo cugino Pandaro: “Ne di ciò che ti scrivo prenda sdegno / quell’animo tuo grande, ma sij umile / a me, come negl’atti sei gentile”.182 Era la visione della vita di quell’epoca profondamente con­ dizionata dalla morale cristiana che imponeva la totale nega­ zione delle passioni e degli istinti di natura sessuale e una as­ soluta forma di sottomissione alla ragione la quale imponeva agli uomini di mantenere comportamenti corretti e dignitosi e di non cadere in tentazioni adulterine che sarebbero state considerate un grave peccato. La visione moralistica e moraleggiante che la chiesa cattolica imponeva a tutti i fedeli, corroborata da una forma di coer­ cizione mentale e fisica che si attuava tramite la confessione che veniva spesso usata come strumento di tortura per co­ stringere il maggior numero di uomini, di donne e di bambini a convertirsi al cristianesimo, e tramite la lotta armata attuata dai cosiddetti paladini della fede che si facevano promotori della diffusione della Parola di Gesù Cristo nel mondo, era diventata un’arma da sfoderare ogniqualvolta il popolo si di­ mostrava troppo libero e troppo distaccato dal pensiero teo­ logico che i religiosi si preoccupavano di diffondere ovunque. La donna era vista come oggetto di tentazione e di turba­ mento interiore per tutti gli uomini e non solo per i religiosi cristiani i quali, sebbene non fosse scritto in nessuno dei van­ geli canonici e nemmeno in quelli apocrifi, avevano stabilito che si astenessero dall’unirsi in matrimonio con donne e che avrebbero modificato quello che Dio stesso aveva stabilito e cioè che anche i sacerdoti dovessero essere uomini come gli altri e quindi avessero la libertà di scegliersi una donna con la quale avrebbero condiviso la loro vita. Nella prima metà del I secolo d. C. fu concordato che i sacerdoti non dovessero sposarsi e che non dovessero avere rapporti di natura sessuale 182

Op.cit.

con le donne, le quali spesso, però, in segreto, accondiscende­ vano alle brame dei religiosi e davano soddisfazione a tutte le loro esigenze. La durezza e l’asprezza della vita vissuta in soli­ tudine e senza avere la possibilità di manifestare apertamente i propri sentimenti d’amore ad una donna divenne uno dei grandi motivi di scontro teologico tra coloro che ritenevano che l’uomo fosse stato creato per amare anche fisicamente e non solo idealmente e spiritualmente e coloro invece che ritenevano che bisognava astenersi da ogni rapporto di natura sessuale perché fonte di perdizione e di peccato. E anche leg­ gere dei versi di autori italiani che si rivolgevano con parole d’amore sublimi alle loro donne amate poteva essere motivo di perversione e di corruzione per il clero che fin dagli inizi del secolo XI incominciò a vietare al popolo non solo l’ascolto e la lettura dei libri che ritenevano essere proibiti, ma anche ad istituire una speciale Commissione che si prendesse carico di modificare i testi di quelle poesie, di quei poemi e di quei racconti che elogiavano ed esaltavano l’amore di un uomo e di una donna. Tutto era proibito tranne l’uso della forza. Il pontefice si circondava di uomini armati che, come fossero dei cavalieri alle dipendenze di un sovrano, erano pronti a dif­ fondere non la Parola di Dio, ma la loro parola di uomini, intrisa di oscurantismo, di proibizionismo, di anti-liberalismo. Era una parola minacciosa che impediva agli intelletti più il­ luminati e liberi di far librare in volo il loro pensiero Ubero. Era una parola moralista che uccideva le menti più fervide di idee e annientava chiunque si fosse permesso di opporsi al vo­ lere della Chiesa la quale imponeva alla società di crogiolarsi nell’ignoranza e di eliminare ogni forma di slancio scientifico, filosofico, culturale, artistico teso a migliorare le forme di vita degli esseri umani e ad affermare la dignità della persona uma­ na. Molti pensatori e intellettuali, molti poeti che nei loro versi cantavano le lodi che essi facevano all’amore e alle donne che essi amavano, molti religiosi che non condividevano la visione oltranzista della chiesa e predicavano una maggiore libertà di vedute e di pensiero, specialmente in materia di rapporti sen­ timentali tra donne e uomini, molti scienziati furono accusati di immoralità, di blasfemia, di stregoneria, di eresia e furono

per secoli processati, imprigionati e condannati alla tortura o al rogo semplicemente perché non veniva loro riconosciuta la loro dignità di esseri umani liberi.183 Il pensiero libero di un uomo fu messo alla gogna dalla mol­ teplicità di pensieri ristretti e meschini che vilmente e para­ dossalmente non erano neppure loro in grado di dare risposte esaurienti riguardo al tema della natura umana e/o divina di Gesù, della iconoclastia, e al problema del celibato dei sacer­ doti. La visione moralistica della Chiesa cristiana influenzò il pensiero e, di conseguenza, gli scritti di molti scrittori i quali incominciarono a vivere l’amore all’interno delle loro menti e dei loro cuori come fosse motivo di disgrazia, di abominio, di perversione, di sconforto anche quando l’amore era ricambia­ to e non era per nulla motivo di dramma interiore. Il poeta francese Francois de Montcorbier, meglio cono­ sciuto con il nome di Francois Villon, nato a Parigi nel 1431 o nel 1432, meglio di molti altri rappresenta la risposta, talmen­ te anticlericale e libera fino a spingersi oltre i confini del lecito e a sprofondare nell’illegalità, alla chiesa cristiana. Nel 1455 uccise in un rissa il prete Philippe Sermoise. Rubò 500 scudi d’oro al collegio di Navarra. Un suo amico, un avventuriero parigino, Guy Tabarie, sotto tortura lo accusò e il poeta fu co­ stretto ad andare in carcere. Nel 1461 Villon fu liberato in oc­ casione di una amnistia quando salì al trono di Francia Luigi XI. La sua vita fu tutto un susseguirsi di atti vandalici, di risse e di rapine che lo condussero in prigione dove fu condannato a morte per impiccagione. Fece ricorso contro la sentenza e la pena gli fu commutata in dieci anni di esilio. Dopo questa pri­ gionia il poeta scomparve dalla vita pubblica. Il poeta afferma di aver vissuto goliardicamente per tutta la sua vita e di essersi concesso agli amori delle donne: “Ho amato, sì, questo è vero / e di amare sarei tentato”,184 ma l’amore che un povero può 183

Cfr. in Adriano Prosperi, Tribunali della coscienza, Casa Editrice Ei­ naudi, 1996.

184

Cfr. in Erangois Villon, Opere, trad. di A. Carminati ed E. Stojkovic Mazzariol, Milano, Casa Editrice Mondadori, 1971, dal Testamento, w. 126-127.

offrire a una donna è ben diverso di quello di un ricco. Alla fine, però, tutti, ricchi e poveri, dovranno morire e il sarcasmo del poeta raggiunge l’apice quando scrive: “Vedo bene che ricchi e poveri, / preti e laici, sensati e strambi, / prodighi e avari, servi e nobili, / belli e brutti, piccoli e grandi, / dame dai colletti svasati, / di qualsivoglia ceto e stampo, / con cuf­ fie e largi copricapo, / Morte ghermisce senza scampo”.185 E se la danza macabra della morte trascina nel nulla l’uma­ nità non facendo distinzione alcuna tra ceto povero e ricco, ma colpisce con la sua scure tutto e tutti anche gli animi più limpidi e puri che non si sono lasciati scalfire dal peccato e dai vizi che catturano i sensi e i sentimenti degli uomini fino a annientarli, la danza dell’amore che il poeta esalta nei suoi versi diventa motivo di piacere spirituale e fisico al contempo. In questa ballata il poeta evoca tutte le dame e le cortigia­ ne che sono state amate da poeti, filosofi, sovrani, religiosi: Flora ricordata dal poeta latino Giovenale o Flora cantata da Lattanzio, Taide, la cortigiana egizia confortata da Pafnuzio, Eco amata da Narciso, Eloisa amata da Abelardo che, dopo essere stato castrato dallo zio di Eloisia, Fulberto, prese i voti ed indossò il saio, la regina di Navarra che, dopo aver amato il filosofo Buridano, lo fece precipitare nella Senna dall’alto del suo castello, Bianca di Castiglia, madre di Luigi IX, cantata dal poeta Tibaldo di Champagne, o Bianca di Borgogna, moglie del re Carlo IV, Bice, ossia Berta Arembourg, madre di Carlo Magno, che andò in sposa a Folco d’Angiò. Il ritornello, “ma ove sono le nevi dell’anno?”,186 avente struttura anaforica, è un quesito che il poeta pone a se stesso e ai lettori ed allude alla figura della donna che non compare soltanto nei sogni, ma è presente anche nella vita reale di un uomo. Infatti, Villon si chiede dove sono andate a finire le donne 185

Cfr. in Francois Villon, Opere, trad. di A. Carminati ed E. Stojkovic Mazzariol, Milano, Casa Editrice Mondadori, 1971, dal Testamento, w. 145-152.

186

Cfr. in Francois Villon, Opere, trad. di A. Carminati ed E. Stojkovic Mazzariol, Milano, Casa Editrice Mondadori, 1971, Tallata delle dame di un tempo, vv. 329-356.

che animano la vita degli uomini rendendola piacevole seppur intrisa di sofferenza e di tormento? La metafora della neve viene utilizzata dal poeta non solo con lo scopo di mascherare i sentimenti d’amore che egli nu­ tre per le donne, ma anche per porre in evidenza tutto il can­ dore sia del corpo di una donna che invita l’uomo all’amore in ogni momento della sua esistenza, sia dell’animo che, sebbene torbido ed oscurato da atti ignobili, rimane sempre più candi­ do e luminoso di quello di un uomo. L’amore/prigione che pone l’uomo in un carcere sentimen­ tale che riduce la sua vita ad una continua e lacerante agonia e ad una forma di vittimismo, l’amore visto e sentito come un male, un errore, una colpa e addirittura un peccato biasimevo­ le pervade i versi di molti poeti e scrittori italiani da Dante a Petrarca, da Boccaccio a Poliziano, dall’Ariosto al Leopardi. In uno scritto dello Zibaldone Giacomo Leopardi scrive: “la mia filosofia non solo non è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l’ac­ cusano; ma di sua natura esclude la misantropia, di sua natura tende a sanare, a spegnere quel mal umore, quell’odio... che tanti e tanti portano a’ loro simili, a causa del male che... rice­ vono dagli altri uomini. La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi”.187 Quello della donna, però, è uno slancio che deve essere te­ nuto a freno e che non può librarsi in volo proprio perché la sua situazione familiare le impedisce di essere Ubera come vorrebbe e di concedersi a colui che per lei rappresenta ed è l’amore. Amore! teme la donna e si nasconde ad esso. Il Pe­ trarca teme Dio e Lo invoca affinché si dimostri pietoso nei riguardi di un uomo a cui non resta altro da fare che rinchiu­ dersi in se stesso e non lasciare spazio a nessun altro amore fino a quando la morte non lo colga, “infin a l’ora extrema”.188 187

Cfr. in Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura di E flora, Milano 1937, pag. 4428 scritta il 2 gennaio 1829 a Recanati.

188

Cfr. in Francesco Petrarca, CannoniereOscar Mondatori Editore,

L’ultimo verso del sonetto è una commiseratio che il poeta rivol­ ge a se stesso e in genere a tutti coloro che lottano, invano, per amore. Egli fa una laudatio a tutti coloro che muoiono dopo aver vissuto “ben amando”,189 cioè amando secondo ragione e non lasciandosi trasportare dal fuoco delle passioni amorose che offuscano i sensi e la mente. Alla fine del sonetto Petrar­ ca fa vincere non Amore e nemmeno quell’amore impetuo­ so che trascina corpo ed animo nel vortice della irrefrenabile passione, ma la Ragione che si è privata dell’istinto e che vive esclusivamente di ragione pura, la quale elimina il trasporto ed il piacere di amare e riduce l’amore ad una mera forma di ese­ cuzione pratica dove l’atto d’amore diventa una semplice ri­ petizione meccanica e non una piacevole sensazione cerebrale che fa in modo che piacere fisico e mentale si accomunino e diventino una simbiosi. Se “’l gran desìo, l’accesa spene, ra­ gion, vergogna, et reverenza”190 vengono bandite dalla mente e dal cuore dell’uomo perché rappresentano la perversione dell’amore, la presenza esclusiva dello sdegno che la donna ha verso tali accese passioni ed il trionfo della ragione che impone di non concedersi alla passione d’amore diventano paraventi costruiti per impedire all’amore di varcare la soglia del cuore, di sedersi sul trono e di regnare indisturbato e indisturbabile. Chi ama secondo ragione riveste il suo cuore con l’usbergo dell’ipocrisia e della viltà perché apparentemente conduce una vita felice, senza affanni e senza delusioni, ma in realtà affida tutte le sue ansie e i suoi tormenti ad una mente che con gran­ de difficoltà riesce a reggere il confronto tra amore vero ed amore falsato. E se l’amore vero può essere negato per tutta una vita, il desiderio d’amore è innegabile e sarà proprio quel desiderio a schiacciare la ipocrisia di una relazione nata su commissione e a far trionfare quel sentimento d’amore negato 1985, sonetto CXL v. 13. 189 190

Op.cit. Cfr. in Francesco Petrarca, Cannoniere Oscar Mondatori Editore, 1985, sonetto CXL w. 6-7.

che vive, cresce ed aumenta di giorno in giorno sempre di più proprio perché negato, rifiutato, devastato, ucciso impietosa­ mente. È la “ragione dell’altro” che fa in modo che la ragione del singolo si annulli e che diventi essa stessa sottomessa a ciò a cui non vorrebbe mai essere assoggettata. La “ragione dell’altro”, che non è certamente la “Ragione dell’Altro”, ha imposto agli altri una moralità e una ragione privata dell’istinto e delle passioni che sono tipicamente uma­ ne. La “ragione dell’altro” per secoli e secoli, subito dopo la morte di Gesù, ha condizionato pensieri ed azioni degli uo­ mini. Tale “ragione dell’altro” si manifesta in forme eli aggre­ gazione, in istituzioni religiose, politiche, culturali che steri­ lizzano il pensiero del singolo e lo deformano a tal punto da togliere la singolo la propria personalità e la propria dignità umana. Tale ragione massificata e massificante si riunì e con­ tinua a riunirsi in gruppi più o meno folti di uomini senza la propria ragione. Uomini che uniformano la propria ragione non alla molteplicità delle singole ragioni che mantengono, ognuna, la propria autonomia di pensiero e la propria volontà di essere libera, ma si conformano a quella “ragione dell’al­ tro” che rappresenta la molteplicità a cui è negata la propria ragione. L’uomo, costretto a negare dalla forza della violenza sia tìsica che mentale la propria ragione, si vede disarmato e schiavo a tal punto da dover emulare il pensiero di una massa di uomini non pensanti che fanno il volere di qui pochi gerar­ chi politici e religiosi che detengono nelle loro mani il potere decisionale di agire in base a quella “ragione dell’altro” che altro non è che la ragione singola di un gerarca. E solo nel caso di papi, re e dittatori che la “ragione dell’altro” coincide con la ragione del singolo e cioè con la ragione del papa, di un sovrano e di un dittatore i quali utilizzano la forza delle armi e l’insegna della fede che spinge ad armarsi e a lottare per la fede e in nome della fede per assoggettare, ancor prima che il mondo, le menti degli esseri umani che sono in tal modo pri­ vati della propria ragione. È la stessa ragione che condiziona la scelta di Griseida, la quale cerca di dare spiegazione usando la ragione a quello che non si potrà mai giustificare con la ragione perché ragione non è. L’amore e il farsi trasportare

dall’istinto non seguono pedissequamente la logica razionale che impone agli uomini di raffreddare ogni slancio amoroso e di comprimere la propria mente in un luogo oscuro dove vive solo il tormento che stuzzica i pensieri angustiati di uomini depressi, agitati, sconvolti da un amore che dovrebbe essere fonte di gioia immensa e non solo di turbamento interiore. Griseida antepone la ragione all’istinto e si concede all’amore, minando quello che è la purezza e la bellezza dell’amore stes­ so che manifestandosi all’improvviso, proprio perché è amo­ re, non ha bisogno di tempo per nascere e svilupparsi, ma ha bisogno di trovare subito una risoluzione. Griseida, seguendo la logica della morale ecclesiastica che a quell’epoca era un imperativo a cui bisognava soggiacere senza emettere verbo di contrarietà, innalza un muro invisibile tra lei e il suo amato e pone tra di loro la razionalità pura, privata proprio di quello slancio naturale che si forma all’improvviso quando dentro al proprio corpo e alla propria mente si capisce che l’amore sta invadendo tutto e fa di quel tutto invaso di amore una fonte di amore superiore che fuoriesce e che raggiunge l’altro che sta innanzi a lei e che prova le sue stesse emozioni e i suoi stessi desideri. “Ma con ragione ogni cosa pensando”191 è un verso strutturato come fosse una anastrofe a cui segue un altro ver­ so sempre in forma di anastrofe, “la speranza esaminando”,192 che rivela qual è l’effettivo stato d’animo di una donna che usa solo ed esclusivamente la propria ragione, e non il suo cuore, per stabilire se ella può o non può concedersi all’amore. E, seguendo la freddezza della razionalità, che le impone di con­ gelare ogni suo impulso amoroso ed ogni sua volontà di esse­ re esuberante e vitale nei confronti non solo di se stessa, ma anche di Troilo i cui sentimenti che ella nutre per lui vengono setacciati dalla logica pura che le vieta di essere passionale e di gioire della propria passionalità, prende in considerazione solo i dettami che la morale cristiana le impone di seguire. Persino la stessa speranza viene esaminata razionalmente e 191

Op. cit.

192

Op. cit.

a quella speranza ella toglie le ali, impedendole di essere spe­ ranza. Tutto si può fare tranne eliminare la speranza di spe­ rare di essere contraccambiati in amore. L’amore può essere negato e venire ucciso dalla propria volontà schiacciata dalla ragione, e/o dalla volontà degli altri i quali con le loro ragioni annientano quella di chi si ritrova a dover lottare per amore e in nome dell’amore. Se l’amore può, purtroppo, essere elimi­ nato, la speranza di amare non viene mai meno. Più l’amore non c’è e più la speranza di poter un giorno, nella vita terrena come in quella ultraterrena, amare prende il posto dell’amore e diventa essa stessa amore. Griseida teme il giudizio impie­ toso della gente e proprio per questo ella nega a se stessa la propria capacità di amare e si lascia sopraffare dalla sola sua ragione che le fa proferire simili meste parole: “Come che il compiacerti saria bene, / se il mondo fosse cliente dovrebbe; / ma essendo traditor, a noi conviene / accomodarsi a quello che ne direbbe; / altro facendo, disperate pene / ciascun so­ pra di noi ne tirerebbe; / sicché malgrado mio t’ho dichiarato / che in ciò che vuoi, tu non fia appagato”.193 Grisieda sostiene che il concedersi all’amore di Troilo è bene, ma si tira indietro non perché ella lo ritiene essere un male, ma perché ha paura di quello che dirà il mondo che ella giudica essere traditore e proprio per questo le loro volontà dovreb­ bero uniformarsi, “accomodarsi”, a quelle degli altri. E la ra­ gione del singolo che viene eliminata dal singolo stesso che si impone di uniformare la sua ragione alla “ragione dell’altro”. La “ragione dell’altro” è la ragione della società, della massa, che è composta da religiosi, intellettuali, politici, sovrani, po­ polo. Tutti pensano con la ragione di tutti e tutti cancellano la propria ragione la quale si ritrova dentro ad una nebulosa di pensieri arrovellati che conducono la mente dentro il labirinto della non vita. È la negazione della vita perché se l’uomo nega a se stesso la facoltà di amare liberamente senza essere e sen­ tirsi condizionato da altri che minacciano il suo amore contra­ 193

Cfr. I/ Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., terza parte, stanza LVII, w. 1-8.

stato, allora vive in un clima interiore ed esteriore mortificante proteso a trasformare la vita in un preambolo di morte. Se Troilo e Griseida non seguissero il volere della maggioranza il loro atto d’amore verrebbe considerato come una infamia e “disperate pene” ricadrebbero sopra di loro annientando il loro futuro. Griseida, anteponendo la ragione all’istinto, non intende appagare le brame d’amore del suo amato Troilo, seb­ bene ella vorrebbe soddisfare ogni desiderio d’amore che vive nel cuore e nella mente del giovane innamorato. L’esortazione che la donna fa a Troilo, “presta alla pena tua alquanta sosta, / ne ti porti dolor questa risposta”,194 nasce non dalla sua passione di volerlo amare, sebbene il giudizio impietoso del­ la gente potrebbe rovinare sia le loro reputazioni che le loro vite, ma nasce dal puro calcolo, dalla freddezza della raziona­ lità che congela ogni sentimento di purezza e di limpidezza amorosa. L’omoteleuto o omoteleuto, la cui struttura è simile a quel­ la di una alliterazione, “presta/sosta/questa risposta”,195 è un invito che la donna rivolge al suo amato a non prestare atten­ zione alla propria pena e ai propri tormenti causati dall’amore stesso, ma ad interrompere le proprie angosce amorose non andando incontro all’amore, ma allontanandosi per sempre dall’amore. Ella lo invita a non provare dolore dopo aver rice­ vuto la lettera e dopo aver letto la sua risposta. Poi si rivolge al suo cugino Pandaro e gli dice: “Oimè infelice! A che m’ai tu condotta, / Pandaro mio, e che pretendi io faccia? L’onestà mia hai tu spezzata e rotta; / [...] E la vegogna mia tu stesso vedi”.196 194

Cfr. Il Filostrato,, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso f rane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., terza parte, stanza LIX, vv. 7-8.

195

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso f rane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., terza parte, stanza LXX vv. 1 e 3.

196

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso f rane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., terza parte, stanza LXX w. 1-3 e 8.

Griseida si commisera e dà tutta la colpa del suo stato di tor­ mento e di pena a suo cugino che ha agito per proprio conto dicendo che ella si sarebbe concessa all’amore di Troilo senza sapere se ella effettivamente avrebbe corrisposto l’amore del giovane. L’allocuzione, “Pandaro mio,”197 acuisce la colpa del giovane che, facendo da mediatore tra i due innamorati, ha ascolta­ to più la voce del cuore di Troilo che la ragionevolezza della donna la quale, a differenza di Troilo e di Pandaro, si lascia guidare non dall’istinto, ma dalla ragione. La dittologia, “spez­ zata e rotta”,198 riferita alla onestà della donna, concorda per­ fettamente con il termine “condotta”199 usato da Griseida per mettere in evidenza a se stessa, a suo cugino e ai lettori, a quale via di perdizione ella sia stata condotta per volontà non sua, ma di urialtra persona che ha sempre agito come se egli fosse il diretto interessato. Nella relazione tra due persone il mediatore può essere di aiuto e di conforto, ma anche di dan­ no e di impedimento a tal punto da minare il rapporto, fragile ed incerto, che ci può essere tra un uomo ed una donna che ancora non si sono svelati i sentimenti d’amore che nutrono l’uno per l’altra. A Griseida altro non rimane che un senso di vergogna profondo perché la sua onestà è stata annientata. 1 due versi, “l’onestà mia hai tu spezzata e rotta”200 , “E la ver­ gogna mia tu stesso vedi”,201 hanno la struttura di un chiasmo con parallelismo sintattico e semantico e corrispondenza di significato. Il tono enfatico di entrambi i versi raggiunge il culmine nel pronome personale soggetto “tu” su cui è ripo­ sta tutta la colpa che Griseida dà a Pandaro per essere stato l’anticipatore di una risposta positiva che in realtà per lei è negativa. Tutto il comportamento di Pandaro nei riguardi sia del suo amico Troilo che di Griseida e dell’intera situazione in 197

Op. cit.

198

Op. cit.

199

Op. cit.

200

Op.cit.

201

Op. cit.

cui il loro amore vive può considerarsi come una prolessi non del pensiero di Griseida, ma dell’agire della donna che non collima affatto con i suoi pensieri i quali sono completamen­ te sradicati dalle sue azioni. Griseida pensa con il cuore, ma agisce con la ragione che le impone di non amare e di tirarsi indietro per salvaguardare la sua onestà. E, infatti, ammette sconsolata e distrutta mentalmente “Vorrei esser morta pria del giorno, ch’io / qui nella loggia tanto t’ascoltai”.202 L’ascol­ to delle parole di Pandaro diventa per lei fatale perché dopo averle ascoltate, ella si mette nelle mani di suo cugino che agisce seguendo il volere di Troilo. Griseida non ascolta la sua voce che la farebbe agire come ella di fatto vorrebbe agire, cioè concedersi all’amore di Troilo, ma segue la voce dell’al­ tro da sé che le ordina di compiere, seppur ella mantenga un atteggiamento di difesa e di contrarietà iniziale verso Troilo, quello per cui una donna è sempre costretta a fare e cioè non la propria volontà, ma il volere dell’uomo che anche in amore si dimostra, seppur aggraziato e gentile, essere un dominatore che assoggetta ai propri desideri la sua conquista. E una don­ na che, in realtà, si pone in uno stato di assoluta subordina­ zione nei confronti dell’uomo. Infatti, Griseida, rivolgendosi a Pandaro, dichiara con animo sconfitto: “E son disposta a fare il tuo volere”.203 L’apostrofe che conclude la terza parte del poema libilostra­ to è costruita sulla invocazione e sulla preghiera che Griseida rivolge a suo cugino affinché egli non sbandieri in giro il sen­ timento d’amore che la lega a Troilo. Gli omografi omofoni, “prego”204 sostantivo e “prego”205 verbo, costituiscono una 202

Cfr. Il YMostratoy poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Orane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., terza parte, stanza LXXI vv. 1-2.

203

Cfr. Il Mostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Orane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., terza parte, stanza LXXI v. 8.

204

Op. cit.

205

Gp. cit.

specie di enfasi retorica che tocca i sentimenti e la sensibilità dell’uomo affinché egli agisca per il meglio e non compro­ metta la sua reputazione onesta. Il cugino rassicurò Griseida dicendole “averem buona cautela”.206 La riservatezza è d’ob bligo per entrambi affinché il loro amore viva e si consolidi indipendentemente dalle opinioni e dai giudizi della gente. I giudizi impietosi rovinerebbero la loro relazione e offusche­ rebbero 1 loro sentimenti più puri che, se repressi, potrebbero condurre a compiere atti nefasti nei confronti di uno o ad­ dirittura di entrambi gli innamorati. E proprio come Grisei­ da anche Desdemona, protagonista della tragedia di William Shakespeare intitolata Otello, confida sul giudizio di lago. Tale giudizio su come ella è e appare agli occhi di Iago sarà motivo di distruzione sia fisica che mentale non solo della donna, ma di entrambi i coniugi i quali si vedono impotenti di fronte alle malehngue e alle gelosie di coloro che li circondano. E il bene m lotta con il male. E la guerra delle opinioni, dei sentito dire, dei pettegolezzi, dei forse, dei ma e dei però. E la guerra delle dicerie che scorrono come fiumi in piena e che travolgono le vite innocenti di persone spesso ingenue, incapaci di trin­ cerarsi e di trincerare i propri sentimenti e di combattere per essi. E la guerra della falsità e della dissimulazione che si met­ te a confronto con l’onestà e con il senso del pudore. E la battaglia titanica della volontà della donna di essere giudica­ ta dall’uomo non come un oggetto, non come una donna di poco conto e di poco valore capace esclusivamente di soddi­ sfare i piaceri di natura sessuale che gli uomini hanno e che a tutti i costi vogliono soddisfare. Anche Griseida e Troilo temono che il loro amore possa essere sconfitto dai giudizi altrui e dalle dicerie che trasformano la purezza dell’amore in nefandezza. Perché il giudizio della gente dovrebbe distrug­ gere il loro amore? Che cosa si cela dietro quel loro amore apparentemente pulito e limpido? 206

Cfr. Il Filostrato^ poema eli Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Orane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., terza parte, stanza LXX IV v. 2.

La quarta parte si apre con una protasi dove sono effigiate le lodi che Troilo rivolge alla donna da lui amata. L’entimema, “Se la grazia m’accordi ch’io dimando, / le lodi tue continue­ rò cantando”,207 fa in modo che l’assenso della donna induca il giovane innamorato a continuare a decantare le lodi della donna. Il Boccaccio utilizza una anastrofe, “le lodi tue con­ tinuerò cantando”, per esaltare la forza della parola stessa, “lodi”, senza la quale non ci sarebbe canto da parte del poeta. Le “lodi”, però, dipendono dalla grazia che la donna concede all’uomo di essere ricambiato in amore. Qualora ella si rifiutasse di amarlo la tela, che abilmente Pandoro, e più ingenuamente i due innamorati hanno tessuto insieme, si disferebbe subitaneamente. Infatti, Pandaro esorta Griseida con parole accorate e le dice: “Tiriamo ormai a capo questa tela”.208 L’uso della terza persona plurale e non della seconda persona plurale dimo­ stra quanto Pandaro sia effettivamente coinvolto nell’impresa d’amore e che lotti alla stessa stregua dei due innamorati affin­ ché il loro amore si coroni di luce e viva nella luce. La perifrasi che Troilo usa per qualificare Griseida, “provida luce”, colpi­ sce proprio come fosse un raggio di luce non solo il cuore del giovane, ma anche il luogo dove si consumerà il loro amore che viene definito con un’altra perifrasi, “amoroso sale”.209 L’amore non è soltanto luce, ma è il sale della vita. L’amore è il sale che condisce le vite di due persone che si amano e che trovano nel loro amore compiutezza e pienezza. L’immagine del sale come fonte di sapore e di vita è espres­ sa nel brano evangelico di Matteo che si struttura su una do­ 207

Cfr. I/ F'ilostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., quarta parte, stanza II, vv. 7-8.

208

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., terza parte, stanza LXXIV v. 4.

209

Cfr. Il Filostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., quarta parte, stanza I v.3.

manda ipotetica "se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato?” e una affermazione "a null’altro serve che a essere gettato via e calpestato dalla gente”.210 Il sale ser­ ve a condire i cibi, a proteggere dalla putrefazione e viene utilizzato per il sacrificio.211 Nell’Antico Testamento il sale è il simbolo dell’Alleanza e della sapienza e nel mondo greco dell’ospitalità. Dopo aver pronunciato le Beatitudini, Gesù invita i discepoli e la folle ad essere come il sale e la luce e a risplendere mediante le opere buone e a glorificare il Padre che è nei cieli.212 Boccaccio sottolinea l’importanza del sale che dà sapore all’amore e gli permette di non essere rigettato proprio per­ ché insapore. Solamente l’avventura amorosa di un giorno o di breve durata è insipida e senza sale. L’amore vero non sarà mai insipido proprio perché è sale esso stesso e quindi sor­ gente di sapore che dura per sempre, sorgente di luce che non si spegnerà mai. E proprio perché l’amore è come il sale e la luce, di sale e luce ce n’è sempre bisogno perché senza la luce non si vive. Allora Pandaro agisce subito e, per non fare in modo che la luce dell’amore non si spenga, va da Troilo e lo esorta ad ave­ re prudenza e rispetto verso Griseida, altrimenti la vergogna ricadrà su di lui: "Se adopri men prudenza che non dei, / li togli ciò che più non renderai; / e sarà mia vergogna, che pa­ rente / gli sono, e fui mezzano similmente”.213 Si presenta come fosse un ritornello il senso di vergogna che unisce i tre protagonisti e l’obbligo di essere e di rimanere onesti sia nel pensiero che in particolar modo nelle azioni, per 210

Cfr. in Bibbia di Gerusalemme, Vangelo di Matteo 5, 13-16, Centro editoriale dehoniano-EDB Bologna, 2009.

211

Cfr. in Bibbia di Gerusalemme, 2 Re 2, 19-23; Lv. 2,13; Centro editoriale dehoniano-EDB Bologna, 2009.

212

Cfr. in Bibbia di Gerusalemme, Vangelo di Matteo 5, 14-16, Centro editoriale dehoniano-EDB Bologna, 2009.

213

Cfr. Il Vilostrakg poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso b'ranc. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., quarta parte, stanza Vili, vv. 4-8.

evitare che atti irrazionali e non dettati da un puro sentimento di amore, ma solamente dalla brama di possesso dell’amato/a vadano a intaccare la mente e l’animo fin troppo turbato ed angustiato di coloro che si vedono all’improvviso travolgere dall’amore. Pandaro ha già fatto in modo di rimuovere nella mente e nel cuore di Griseida quella castità che le imponeva il lutto dovuto alla morte di suo marito e la vergogna che ella provava per sentire dentro di sé la fiamma dell’amore che le accendeva il cuore di passione e di gioia inusitate. Infatti, Pandaro conforta Troilo a rincuorarsi e a essere sicuro che la donna acconsentirà al suo volere di amarla dal momento che afferma: “Io dal cuor di Griseida ho già rimosso / di castità e vergogna ogni pensiero / che facea contro a te”.214215 Le parole “castità”, “vergogna”, “onestà” albergano nelle menti e nei cuori degli innamorati i quali si sentono in obbligo più verso l’azione di negare a loro stessi l’amore che di dare soddisfazio­ ne a quello che è un dovere morale per ogni essere umano. Sì, amare è un imperativo a cui l’uomo non dovrebbe astenersi perché amare è sinonimo di vita che continua, di storia che si fa nuova storia. Amare è fare in modo che il presente conti­ nui e non si fermi al presente, ma che diventi futuro. Senza amore non ci sarebbe storia futura e il dovere dell’uomo è quello di amare per assolvere alla legge divina che è quella della procreazione: “Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra”.21L’uomo, però, come nella vita può scegliere se seguire la strada del bene o quella del male, anche in amore è libero di scegliere se amare per amore e Uberamente oppure amare, pur non amando, usando soltanto la razionalità che annienta la passione amorosa e distrugge il desiderio di amare liberamente. Se all’amore si toglie la componente essenziale e vitale che è il desiderio di amare, desiderio che non è assolutamente 214

Cfr. Il Yìlostrato, poema di Giovanni Boccaccio, ora per la pri­ ma volta dato in luce, Parigi presso Frane. Ambr. Didot il Maggiore. M.DCC.LXXXIX., quarta parte, stanza IX, w. 3-5.

215

Cfr. in Bibbia di Gerusalemme, Genesi 9,1, Centro editoriale deho­ niano-EDB Bologna, 2009.

un camuffamento e una specie di viltà amorosa, ma è estrin­ secazione vera di un sentimento d’amore vero, allora non si può parlare di amore. Se, però, amore e desiderio fanno parte dello stesso nucleo vitale che li tiene saldamente uniti e permette che l’uno sia la controparte dell’altro, allora non c’è ragione, non c’è ostruzionismo morale e moraleggiante, non c’è posizione ecclesiastica, non c’è partito politico che possa annientare tale amore, poiché esso alimenta se stesso e viene costantemente alimentato dalla forza dell’amore che 1 due innamorati nutrono l’uno per l’altra. Non ci dovrebbero essere mediatori in amore. Qualora ci fossero dei mediatori potrebbero causare danni irreversibili all’amore, anche se le intenzioni di coloro che mediano non sono deleterie, ma le circostanze, gli interventi esterni di terzi, il giudizio ostile di parenti ed amici, le dicerie e i pettegolezzi, qualora ci fos­ sero, potrebbero circondare il loro amore con un’aura non intrisa di lode e di gloria, ma di annientamento e addirittura di esecrabile dissacrazione. L’amore, però, non aspetta e non concede tempo al tempo perché in amore si ama subito o non si ama più. Se l’amore ritarda, indugia, e si perde per i mille rivoli del tempo riducendosi ad un mero prolungamen­ to dell’attesa di amare perché il dubbio e l’incertezza induce coloro che amano a fare uno, due, cento, mille passi indie­ tro e a posticipare l’incontro, allora non si può sostenere che sia amore. Il desiderio di amare deve trovare soddisfazione subito altrimenti non è un desiderio. E una forma perversa di amore volta a distruggere la controparte che, in attesa di amare, chiude gli occhi innanzi alle innumerevoli possibilità di amore vero e si rinchiude nel carcere della solitudine dove lo sconforto e la depressione mentale e fisica aggrediscono quel­ lo di un essere umano allo stremo delle forze come fosse stato ferito mortalmente nel campo di battaglia. L’amore è di fatto una lotta vera quando ritarda o annulla il suo appuntamento con l’amore. Posticipare l’amore significa distruggere l’amore stesso perché l’amore si alimenta non del tempo metafisico, ma del tempo terreno vissuto in quell’intenso attimo fuggente che rende eterno il desiderio d’amore. Petrarca prolunga per tutta la sua vita l’attesa e con essa la speranza di amare Laura,

ma in quel suo prolungamento forzato, a causa della ritrosia della donna, si leggono le innumerevoli parole segrete che egli rivolge all’amata e che ella segretamente ricambia ogniqual­ volta si incontrano, sebbene l’impedimento del loro amore sia dovuto a un fattore esterno: il matrimonio di Laura. Un matrimonio certamente non voluto da parte di lei, ma subito. Ecco dunque che il rifiuto della donna diventa paradossal­ mente la sola risposta d’amore, protratta nel tempo, che ella dà al poeta. È proprio in quel rifiuto prolungato che si annida tutto l’amore di Laura, amore che viene mantenuto segreto, proprio come Troilo e Griseida vogliono che rimanga il loro amore: segreto. La segretezza e la riservatezza in amore è fon­ damentale perché l’amore si nutre di amore e, di conseguen­ za, viene illuminato dall’amore della persona con la quale si hanno rapporti amorosi. L’ostentazione in amore diventa una forma di esibizionismo non del proprio sentimento d’amore, che in quanto sentimento non ha affatto bisogno di essere esibito perché vive interiormente, in sé e per sé, ma del fatto che sia oggetto di amore e, quindi, di una possibile conquista per amore. L’uomo ha bisogno di essere conquistato e al con­ tempo di conquistare in amore e di dimostrare agli altri che anche lui è oggetto di attenzione da parte di qualcuno. La soli­ tudine annienta l’amore umano e nella solitudine si soffre per amore, ma spesso purtroppo non si ama proprio perché si è soli. Il rifiuto in amore può essere dovuto o alla totale assenza di amore o ad uno o più impedimenti di natura ideologica, so­ ciale, religiosa, culturale, umana. L’uomo che si sente rifiutato, pur ritrovandosi nelle condizioni di poter amare perché non ci sono impedimenti di alcun genere, ad eccezione del fatto di non voler corrispondere a quella richiesta di amore, si sente perduto umanamente e mentalmente. È il dramma di Giacomo Leopardi che per tutta la sua vita soffrì il tormento del rifiuto d’amore e della solitudine vissuta dal poeta come una prigione entro cui la sua anima vagava alla ricerca di una seppur illusoria luce amorosa che gli avrebbe infuso lo stesso calore di un raggio di sole. E proprio nella sua solitudine interiore ed esteriore che Leopardi ama, sep­ pur impossibilitato ad amare. E per il poeta anche il semplice

ricordo diventa una sorgente di amore sempre viva che lo fa sentire vivo: Tornami a mente il dì che la battaglia D’amor sentii la prima volta, e dissi: Oimè, se quest’è amor, com’ei travaglia! Che gli occhi al suol tuttora intenti e fissi, Io mirava colei ch’a questo core Primiera il varco ed innocente aprissi. .Ahi, come mal mi go vernasti, amoreA(} Vive quel foco ancor, vive l’affetto, spira nel pensier mio la bella imago, da cui, se non celeste, altro diletto giammai non ebbi, e sol di lei ni appago A1

Leopardi con la sua mente torna indietro nel tempo al mo­ mento in cui egli sentì sorgere in lui l’amore per la prima volta. Si innamorò di sua cugina Gertrude Cassi di Pesaro, che andò a Recanati in visita presso la famiglia del poeta e trascorse lì alcuni giorni, dall’l 1 al 14 dicembre 1817. Egli fu talmente rapito dalla bellezza della fanciulla che di notte non riusciva a prendere sonno. I suoi pensieri erano tutti per l’amata:

Oh come viva in mezzo alle tenebre Sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi ha contemplavan sotto alle palpebre?™ E una immagine che gli rimarrà sempre nella mente. Non è, però, l’immagine della donna che appare e riappare nella sua mente dopo che tra di loro si è consumato l’amore, ma è 216

Cfr. in Giacomo Leopardi, Canti, Loescher Editore, Torino, 1964, Ilprimo amore, vv. 1-7.

217

Cfr. in Giacomo Leopardi, Canti, Loescher Editore, Torino, 1964, Ilprimo amore, vv. 100-103.

218

Cfr. in Giacomo Leopardi, Canti, Loescher Editore, Torino, 1964, Ilprimo amore, nn. 25-27.

l’immagine della donna non ancora amata dal poeta che vive nei suoi pensieri. Leopardi non trovò appagamento nell’amo­ re che la giovane gli concesse, perché tra di loro non ci fu amore carnale, ma trovò “diletto”219 soltanto ripensando alla celestiale “bella imago”220 della fanciulla. Leopardi parla di un amore spiritualizzato e non del ricordo di una amore effettivamente consumato. Quando effettivamente si innamorò Leopardi di sua cugina Gertrude? Tra ITI e il 14 dicembre 1817 come attestano le corrispondenze scritte fra la stesura della lirica IIprimo amore e il diario in cui il poeta annotò i sentimenti che quella visita gli provocò oppure un anno prima nel 1816? Infatti, Leopardi scrive: “garzon di nove / e nove Soli, in que­ sto a pianger nato / quando facevi, amor, le prime prove”.221 Se, invece, si legge il diario scritto tra il 14 e il 23 dicembre 1817, si capisce quanti e quali sentimenti contrastanti ci siano nel cuore e nella mente del poeta verso sua cugina perché scri­ ve: “N’uscII scontentissimo e inquieto. [...] Non sentia quel ri­ morso che spesso, passato qualche diletto, ci avvelena il core, di non esserci ben serviti dell’occasione. [...] Conoscea però benissimo che quel piacere era stato più torbido ed incerto, ch’io non me l’era immaginato...”222. Molto probabilmente Leopardi conobbe sua cugina Gertrude nel 1816, se ne in­ namorò subito e compose la Urica intitolata 11primo amore che è tutto un elogio alla fanciulla da lui amata. L’anno successi­ vo, nel 1817, la cugina Gertrude tornò a fare visita al poeta, ma durante quella seconda visita ella si dimostrò a lui ostile e refrattaria a tal punto che le parole infuocate e stizzose del poeta annotate nel suo diario diventano la effettiva e deluden­ te presa di coscienza del rifiuto della fanciulla di amarlo. “La dolce imago” che il poeta contemplava ad occhi chiusi, “la 219

Op. cit.

220

Op. cit.

221

Cfr. in Giacomo Leopardi, Canti* Loescher Editore, Torino, 1964, Ilprimo amore, vv. 67-69.

222

Cfr. in Giacomo Leopardi, Memorie delprimo amore* pag 658.

bella imago, / da cui, se non celeste, altro diletto / giammai non ebbi”223 si dissolse nel nulla e ad essa subentrò “un dolore acerbo”.224 Infatti nel suo diano il poeta annota: “Un dolore acerbo mi prende ogni volta che mi ricordo dei dì passati, ricordanza malinconica oltre a quanto potrei dire, e quando il ritorno delle stesse ore e circostanze della vita, mi richiama alla memoria quelle di que’ giorni, vedendomi dintorno un gran voto, e stringendomisi amaramente il core”.225 Il voto è probabilmente causato dal rifiuto della fanciulla di amare il poeta, rifiuto che in un solo istante gli annullò tutte le sue speranze di amore che egli aveva nutrito e gelosamente custodito nella sua mente e nel suo cuore per un anno intero, da quando in quel fatidico 1816 egli la vide per la prima volta e se ne innamorò. Le speranze di Leopardi si infrangono sugli scogli del dolore che acuisce il suo stato di perenne prostrazio­ ne proprio innanzi a quell’amore che dovrebbe essere fonte di gioia, ma che, in realtà, si dimostra angosciante e sconsolante. Come deprimente è Famore di una donna che, non amando suo marito gli dedica una vita intera costellata da lapidi di sofferenza estrema sulle quali sono scolpite le frasi irriverenti, sottaciute e mai dette, che ella rivolge al suo non amato marito non solo nei momenti di sconforto esistenziale e sentimentale, ma anche in quelli di quotidiana normalità. Solo con la morte di lui ella potrà trovare quella pace e quella serenità che non aveva quando egli era ancora in vita. Un uomo non scelto, non voluto, subito per volere di altri e quindi mai amato. La donna che, invece, ama suo marito con amore puro e sincero, dopo la morte di lui, non intreccia relazioni sentimentali con altri uomini che la corteggiano, ma si lascia, pur nel dolore e nel pianto, “corteggiare” dal ricordo dell’uomo che ha amato con vero trasporto e limpidezza di sentimento. La donna che non è innamorata del malvagio, dopo la dipartita di lui, non si presenta sulla sua tomba a rimpiangere i bei tempi trascorsi 223

Op.cit.

224

Op. cit.

225

Cfr. in Giacomo Leopardi, Memorie del primo amore, pagg. 659-660.

insieme perché di bello nulla c’è mai stato tra di loro. Nel Carme Dei Sepolcri il poeta Ugo Foscolo nega al malvagio la presenza di una moglie, di una madre, di una figlia sulla sua tomba proprio perché la sua brutalità e la sua irriverenza nei riguardi della donna ha impedito alla donna di essere libera per troppo tempo e, una volta che egli è scomparso, la donna si sente finalmente libera di agire secondo quella sua volontà che per troppo tempo le è stata negata. È una volontà che si dimostra essere una denuncia che la donna rivolge non solo verso il mondo maschile, ma soprattutto verso quel mondo femminile che è disposto a piegare la testa e a dimostrarsi ar­ rendevole nei riguardi della meschinità, degli atti di violenza e dei soprusi che gli uomini fanno nei confronti di chi è debole ed indifeso donne e bambini.

Affesco raffigurante Boccaccio nel suo studio © Ente Nazionale Giovanni Boccaccio

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