Il dissenso e l'ironia: per una rilettura delle orazioni "cesariane" di Cicerone 9788870921328, 8870921328

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Il dissenso e l'ironia: per una rilettura delle orazioni "cesariane" di Cicerone
 9788870921328, 8870921328

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STORIEE TESTI 8

nuovaserie direttada CLAUDIO MoRESCHINI

PAOLA GAGLIARDI

IL DISSENSOE L'IRONIA Per una rilettura delle orazioni «cesariane» di Cicerone

M. D'AURIAEDITORE

ISBN 88-7092-132-8

© 1997 M. D'AURIA EDITORE

Calata Trinità Maggiore52-53 80134 Napoli - Tel. 081/551.89.63

Ai miei genitori

PREMESSA

La ricercadel senso di un'opera d'arte può risultareun'operazione vana,in fJU(lntoogni testo (nell'accezionepiù ampiadel termine) racchiude in sé tanti significatiquanti sono i fruitori. Per dirlacon UmbertoEco,. «il testo è lì e producei propri e/letti di senso». Tentare dunque d'interpretarlodovrebbevoler dire solo propo"e la propriapersonale«lettura», nella consapevolew,che si tratta solo di una tra le tante possibili,tutte ugualmentevalide e discutibili. Su queste premesse,a maggiorragionediventa ardua una proposta di ripensamentodi un testo in chiave ironica,perché alla soggettività dell'interpretazionesi aggiungonoi problemi dati dalla naturasfuggente dell'ironia.Intanto, è costituzionalmenteimpossibilestabilirese un testo è ironicoo no, giacchél'ironia,per esseretale, ha bisognodi una copertura di serietàletterale;quando si rivela come ironia,perde il suo status più intimo di ambiguità, come nota bene l'Almansi: «Nel dichiararsi ironica-cioè nell'essereonesta circala propriaqualifica-l'operad'arte o l'operaletterariasi nega all'ironia».Quanto meno, un teito ironicopresenta due livelli di lettura, quello letterale e quello reale, entrambi sostenibili,perchéentrambi oggettivamenteinsiti in esso;unicapossibile fruizione intelligente diventa allora la semplice accettazionedel testo com'è, sen1,11 privilegiarealcuna delle due interpretav'oni. Sospensionedel giudizio, dunque? Non risolverebbenulla, e non aiuterebbea comprendereil testo. Ma il lettoreha una difesaintelligente contro l'ambiguità e l'impenetrabilitàdi un'opera, e cioè un approccio ironico ad essa, in rispostaali'ironia dell'autore. Questa lotta ad armi pari con lui permette al fruitore la scopertadi nuovi on"uonii entro un testo «insospettabile»,benchél'ingannevoleua dell'ironia,facile a vedersi dove non c'è e ad ignorarsidov'è presente, ammoniscasempre sulla soggettivitàdi ogni interpretazione. Ma se il valoree il senso di un'operasono sempresoggettivi,legati cioè al giudizio dei singoli lettori, esistono pure, al di là di tutte le

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appropriazioniindividuali criteriobiettivi di decifrazione,che ancorano un'operaal suo tempo e al suo autore e ne spieganola genesi. E' questa temperie che si è cercatodi ritrovare nel'analisi delle «cesariane»di Cicerone;dopo averlaricostruita,l'ironia è apparsa(oggettivamente!)la soluzionepiù persuasivaper i troppi contrastialtrimenti inspiegabilidei testi. Certo,esiste il rischiodi perderedi vista l'obiettività,confondendola con interpretazionipersonali e privando di scientificitàil lavoro;ma proprioper sfuggirea talepericolo,questo studio non vuole tanto proporre un'ipotesi di letturapre-de/inita,quanto cercared'individuaree fornire coordinateoggettive(stonche,polittche,psicologt"che) capacidi rendere attendibile l'interpretazioneironica,accantoalle altre tradizionalmente accettate. Sulla plausibilitàdella lettura qui propostae sulla sua capacitàdi nsolverealcunedifficilicontraddizionitra le «cesariane»di Ciceronee le lettere ad esse contemporaneeil giudizio resta affidato al lettore; a chi scrivebastaaver indicatoe co"edato di credenzialiattendibili una chiave di letturafinora ignoratao trascuratadi questi testi.

* È appena il caso di awertire

che l'epiteto "cesariane" alle orazioni di cui ci occupiamo è stato attribuito dai grammatici antichi che ne hanno spesso citato il testo: cfr. Nonio 703,9 (Lindsay); Probo (cath.4, 27,19 Keil), ecc. Non risale certamente a Cicerone.

INTRODUZIONE

Le tre orazioni «cesariane» di Cicerone (unici documenti della sua scarsa attività forense sotto Cesare) costituiscono da sempre materia di discussione tra gli studiosi. In particolare, la loro forma scopertamente encomiastica verso il dittatore ha sconcertato critici antichi e moderni, riluttanti all'idea di un Cicerone improvvisamente asservito all'autocrate al punto da farsene adulatore e strumento di propaganda, dopo aver accantonato con disinvoltura le sue convinzioni e il suo passato. D'altra parte, però, non è difficile scoprire in questi discorsi una vena ironica talora sottile e velata, accanto a battute sarcastiche più esplicite e non confacenti ad un àmbito adulatorio. Nel dibattito, a tutt'oggi più aperto che mai, la tendenza prevalente è quella di analizzare singoli passaggi dei tre testi, o tutt'al più l'impostazione e la struttura di uno solo di essi, senza estendere la prospettiva anche agli altri, e senza inserirne la lettura nel contesto storico e psicologico da cui nacquero: è il limite della bibliografia de re, peraltro povera, non molto recente (tranne qualche titolo importante) e addirittura quasi inesistente per la pro rege Deiotaro.L'embrione di un approccio critico attento al dato cronologico e psicologico dei tre discorsi tuttavia esiste, nella coraggiosa interpretazione della pro Marcello in senso ironico ed anticesariano proposta da R R DYERin un recente articolo: Una lettura stimolante, sia per l'analisi strutturale e retorica del testo, sia per i problemi cronologici prospettati. Partendo infatti dall'esame delle figure retoriche dell'orazione, lo studioso arriva a sostenerne la natura ironica e critica nei confronti di Cesare, il che lo costringe a rivedere anche la collocazione cronologica del discorso, non più databile -secondo la tradizione- al settembre 46, quando l'atteggiamento di Cicerone verso il dittatore non avrebbe giustificato una presa di posizione ostile e minacciosa. Il Dyer propone dunque di assegnare la versione a noi giunta della pro Marcelloall'anno successivo, considerandola un rifacimento (e una deformazione ironica) delle

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parole effettivamente pronunciate nel settem6re 46. Nel giro di pochi mesi, infatti, cambiarono sia le condizioni del regime, sia l'atteggiamento dell'oratore nei confronti di esso, e le sue speranze iniziali andarono in breve deluse dai componamenti autocratici e antiaristocratici del nuovo governante. Una situazione, insomma, che ben spiegherebbe un taglio ironico ed anticesariano della pro Marcello. La conclusione del Dyer, limitata a questa sola orazione, resta tuttavia parziale: una revisione dei problemi strutturali e cronologici di una «cesariana», infatti, impone il confronto e la verifica delle altre due, nella ricerca di eventuali conferme o smentite ad entrambi i livelli, strutturale e cronologico. È ciò che si tenterà di fare nel presente studio, nella speranza di gettare nuova luce su questa produzione ciceroniana, troppo spesso fraintesa e bistrattata, in un'interpretazione originale sia per l'approccio ai testi, sia per le conclusioni raggiunte. Dall'individuazione della coerenza interna e del significato autentico della piccola silloge si potrà meglio comprendere l'evoluzione del pensiero dell'autore in una fase ambigua e sfuggente della sua vita, e di enorme importanza per la storia della tarda Repubblica. Nonostante i rischidi un'operazione del genere, l'impresa appare stimolante, soprattutto perché condotta su un'opera di per sè fortemente "sospetta" d'ironia come questa, certamente proclive ad un doppio livello d'interpretazione. Non sarà un caso che l'ipotesi di una lettura ironica delle "cesariane" comincia ad essere documentata fin dal Medioevo, con lo ScholiastaGronovianus,e che indizi abbastanza consistenti possono far risaliregià a Lucano un'interpretazione analoga. Non solo; le orazioni presentano spunti scopertamente ironici, di quel sarcasmo che, troppo esibito, finisce per annullare se stesso. Nel nostro caso però, frammentato e camuffato com'è in un contesto dal1'apparenza seria, lungi dallo sminuire l'ironia vera e profonda, le dà nuovo vigore e induce il lettore a cercarla con più cura. E l'evidenza di questo sarcasmo ha forse proprio la funzione d'indicare la natura ambivalente delle «cesarianc». Una sfida ad un lettore intelligente, insomma, una realizzazione di quello che a Roland Barthes appariva il compito più nobile dell'attività letteraria: la trasformazione del lettore da semplice consumatore a coproduttore di letteratura.

PARTE PRIMA

1A PRO UGARIO

OVVERO LE CONTRADDIZIONIDELLACLEMENZA

CAPITOLO 1

IL DIFFICILE RAPPORTO CON CESARE TRA IL 46 E IL 45 a.C.

Prima di esaminare le «cesariane» è necessario soffermarsi sullo stato d'animo di Cicerone durante il dominio di Cesare e sui suoi rapporti con lui, sia per definire una cronologia corretta dei discorsi, sia per intenderne appieno la genesi, le finalità e i risvolti psicologici sottesi. Una ricostruzione non facile: in questo periodo infatti, sostituite dal contatto diretto tra i due, mancano quasi dd tutto le lettere ad Attico, il documento sempre più valido delle idee e degli umori autentici dell'Arpinate. L'enorme produzione filosofica e retorica coeva, per contro, non fornisce indicazioni esplicite in proposito, ma solo indizi vaghi e velate allusioni. Ma, soprattutto, una simile indagine è resa difficile dalla sua stessa natura, emotiva e sentimentale in senso ampio, in parte inconscia, fatta di sensazioni, illusioni, desideri, speranze e rimpianti, rdativa ad uno stato d'animo mutevole, influenzato da eventi esterni, pubblici e privati, e da reazioni personali non sempre espresse, talora solo ipotizzabili senza conferma nelle lettere', che d'altronde, volutamente «costruite» in questo periodo, non lasciano mai trapelare il reale pensiero dell'autore%.Se ne ricava l'impressione di un uomo che si rende fine cd ancor valida ricostruzione dello stato d'animo di Cicerone in qud Cicerone,Bari 19482• CTr.altrcsl S. L. UTCENICo, Cicerone periodo si devea F. ARNAID1, e il suo tempo, trad. it., Roma 197,, p.207 ss., e, tra le biografie più recenti, P. Cicerone,trad. it., Milano 1987, pp. 297 ss. GRJMAL, 2 Di parere diverso si mostra, in uno studio fondamentale per un'analisi moderna dcllc «ccsariane»,H. C. GoroFF,Ci«ro's Caesari.an speeches.A StylisticCommentary, Cllapcl Hill and London 1993, p. XI, che dichiara potersi ricostruire proprio dalle lettere I'attf'ggiam~to mutevole di Cicerone verso Cesare, per poi smentirsi subito dopo, affermando che per certi aspetti le «ccsariane» stesse possono aiutare una simile ricostruzione. 1 Una

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conto di vivere sotto un'autocrazia e, pur senza appoggiarla, non wole apparirne un aperto oppositore. Analoghe difficoltà presenta la definizione dei suoi rapporti con Cesare, la cui natura, ugualmente oscillante e indefinibile, va ricollegata all'atteggiamento dell'Arpinate appena descritto, ed è anzi individuabile come una causa di esso3• La considerazione dell'oratore per Cesare era stata e sarebbe rimasta sempre ambivalente, da una parte nutrita di ostilità razionale per l'avversario politico prima, per il sedizioso e per il tiranno poi; d'altro canto, però, influenzata da una costante ammirazione per il grande condottiero, per l'uomo di polso e fors'anche per l'audace ambizioso. Fuori dubbio è infine un'istintiva, invincibile simpatia per le devate doti letterarie dd personaggio, sentite con orgoglio come tratti comuni. Destinato a trovarsi in posizione antagonistica in ogni scdta (politica, ideologica, filosofica e anche retorica), Cicerone vede nell'avversario tutte le qualità che a lui mancano e non può fare a meno di ammirarlo e subirne il fascino. Non a caso avvertirà con tanta forza ed orgoglio il legame ddla comune passione per la cultura, quasi fosse l'unico aspetto in cui sentirsi pari, se non superiore a lui. L'insofferenza per questo fascino subito involontariamente determinerà nella sua natura fortemente emotiva un caratteristico sentimento di amore-odio per il dittatore, che lo porterà ad avversarlo sempre, ma cercando al tempo stesso di «convertirlo» alle sue idee; ad auspicarne e poi ad esaltarne l'uccisione·4,ma pure a conside, Confronti tra i due cd analisidei loro rapporti hanno proposto molti autori, a cominciare dal Mommscn o dal Carcopino, ma in una materia cosi aleatoria e poco documentabile il giudizio ha finito fatalmente per risentire delle opinioni (e non di rado delle simpatie) degli studiosi. Mi pare dunque più onesto tentare un'ennesima ricostNZione di tale rapporto sulla sola, labile base delle testimonianze sicure, come l'epistolario ciceroniano. 4 Al contrario, per il GaroFF,op. cit., p. XXIX, Cicerone si sarebbe illuso di avere influenza su Cesarefino al dicembre 4.5 e non avrebbe affatto approvato il suo omicidio; una tesi un po' difficile da sostenere e documentare, e che infatti lo studioso motiva debolmente, con la menzione della sosta di Cesare in casa di Cicerone nel dicembre 4.5, nella quale però -si badi bene!- il successo della serata fu dovuto all'accortezza di evitare temi politici (cfr. Att. 13,.52,2). Quanto alla presunta disapprovazione del ccsaricidio, troppi segnalicontrari giungono dalle lettere: cfr. ad esempio Fam.16,.5 (in verità contestata nella datazione alle Idi di marzo del 44); Att. 14,4;.5;9;11;12;13;18;21.

15 rarlo uno straordinario interlocutore intellettuale. La complessità di questi stati d'animo sarà allabase di tutto il suo altalenante comportamento verso Cesare, ora attaccato come il nemico della repubblica; ora fatto segno a speranze di rinascita democratica; ora combattuto a Farsàlo, e poi riconosciuto quasi sovrano nell'umiliante richiesta di perdono a

Brindisi. Non è facile comprendere la vera Stimmung di Cicerone nel 46, perché difficile è definire il grado di sincerità delle lettere, in cui ostenta imperturbabile serenità. Dalla fine dell'anno, in ogni caso, i suoi «umori» verso il regime mutano, ed anche nell'epistolario egli manifesta sentimenti diversi da quelli che teneva a farsi attribuire nei mesi precedenti'. Le ragioni di tale trasformazione e l'evoluzione del suo pensiero politico in questo periodo cruciale si ricostruiranno meglio •ripercorrendo sommariamente la sua storia personale negli anni inquieti ed inquietanti dal 48 ~ 46, nel tramonto della repubblica. Nei mesi del 49, vissuti in angosciosa indecisione, Cesare aveva preso contatti con lui, offrendogli una collaborazione politica da lui respinta come troppo restrittiva della sua libertà d'idee6. Dopo lungo tergiversare, infine si decide a prendere posizione e raggiunge i senatori e l'esercito al campo di Pompeo, più per dovere di gratitudine verso il Magno che per reale fiducia nei suoi ideali7. Si rende conto, infatti, che la lotta in corso non è quella del senato romano contro un ribelle, e che Pompeo non combatte in difesa della legalità e delle istituzioni repubblicane, ma solo per la supremazia personale, non diversamente dal suo awersario. È lo scontro, insomma, tra due aspiranti al supremo potere8, e la differenza -dirà più tardi nella pro l.igario-non è tra i capi, ma tra le partes. Dopotutto Pompeo è sostenuto dal senato e dai bonl1, e -come dirà Lucano- continua ad incarnare la legalità, il diritto, Roma ' Cfr. ad esempio Fam. 9,1.5,4-.5;9,18,4;9,19,1;9,26,4. Una rapida ricostruzione u, pro Marcelloe dell'evoluzionepsicologicadi Cicerone od 46 propone G. CIPRJANI, il suo significatocome oravone politica,in Alene e Roma, 22, 1'177,p.122. 6 Cfr. Alt. 9,11,2;9,17;9,18. 7 Cfr. Fam. 6,6;7,3;1.5,1.5,1; Alt. 4,7; pro Mare. 14. • Cfr.ad esempioFam.4,9 a Marcello;12,3,2;Alt.4,7;4,8;8,2,4;7,7,7;8,ll,1;10,8,.5. 'Nota in proposito tuttavia il SYNE,u, rivoluzione roma1111, trad. it., Torino 1974, p..53, che la tradizionale distinzione manichea tra nobili e onesti nella pars

16 stessa nel suo ordinamento repubblicano. Solo in nome di questi ideali, sia pure indegnamente rappresentati, otterrà l'appoggio dell' Arpinate 10, pur consapevole dell'inadeguatezza del personaggio rispetto al grave momento storico, in cui dawero non è più che magni nominis umbra, secondo la stupenda definizione del poeta di Cordova 11• Negli accampamenti di Pompeo, tuttavia, Cicerone si accorge ben presto della carente organizzazione militare 12, accompagnata da una boria ingiustificata e da preoccupanti minacce di rappresaglia verso i nemici; sul campo di Farsàlo, poi, vede tristemente awerarsi tutte le sue previsioni e crollare le speranze. Per lui la guerra contro Cesare finisce qui 0 ; tornato in Italia, e trattato dal vincitore con riguardi e particolarità imbarazzanti agli occhi dei suoi ex commilitoni 14, ne attende per più di un anno il perdono a Brindisi, pronto ad un'umiliazione che solo l'atteggiamento amichevole di quello gli risparmierà 1', ma che gli attirerà ancor più i malumori degli antichi compagni. Rientrato a Roma e resosi conto di non poter aspirare ad un ruolo di primo piano nel nuovo regime 16, opta comunque per un atteggiamento disimpegnato in politica e leale verso il nuovo governante 17, per gratitudine personale, ma motivata anche dalla constatazione della clemenza cesariana18• Come tutti, infatti, si attendeva atrocità e proscrizioni alla maniera di Silla, simili a quelle che i pompeiani minacciavano in caso di vittoria, ed a causa delle quali l'oratore paventava anche la loro supremazia 19• pompeiana e delinquenti in quella cesariana è solo una superficiale schematizzazione, storicamente falsa. IO Cfr. pro Lig. 19; Alt. 7,7,7;8,1,3;8,3,3;9,7,3;10,7,1. 11 Cfr. Phan. 1,135. 12 Cfr. Alt. 7,15,3. u Cfr. Fam. 5,21;6,6;7,3. 14 Cfr. Alt. 11,7,2. 1 ' Cfr. il racconto di PwrAllCO, Cicerone,39. 16 Cfr. Fam. 9,16. 17 Ibidem. Cfr. altrcsl Fam. 7,3;9,17. 11 Cfr. Fam. 6,8;6,10;6,11;10,5. 19 Cfr. Alt. 4,8,3;4,14;8,11;9,7,3;10,7,1;11,7,3; Fam. 4,9,3;5,3;5,21;9,6,2-3. Per la . previsione di un regime di tipo sillano, cfr. Alt. 4,7,1;4,8,2 e 9,10,6. Una buona ricostruzione di questo periodo e delle reazioni di Cicerone in GoroFF,op. cit., pp.

XXIII ss.

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Cosi nd 46 la vita di Ocerone è quella di un privato cittadino: egli dedica le sue giornate soprattutto allo studio e alla composizione di opere retoriche e filosofiche (sarà l'anno fertilissimo del Brutus, della Laus Catonis,dei ParadoxaStoicorum,dell'Orator,del De optimo genere oratorum,delle Partitionesoratoriae2"), a lezioni di declamazione per gli amici (accennerà scherzando in una lettera all'intenzione di aprire una scuola di retorica21), ai banchetti in allegra compagnia. Sembra un periodo consacrato ad allacciare e a consolidare rapporti umani, ai piaceri della tavola, alla cura del corpo22: l'oratore si dipingerà ironicamente come un edonista epicureo2>, e il tono scherzoso della maggior parte delle lettere e le descrizioni garbatamente autoironiche danno l'impressione di un uomo sereno e soddisfatto della sua condizione, rassegnato all'abbandono della politica e deciso a non occuparsene più24. Ma due fatti, in apparenza insignificanti, fanno da spia al suo vero stato d'animo: innanzitutto, la presenza a Roma quasi injnterrotta, pur in un anno cosi lunga2'; in secondo luogo, la frequentazione quasi esclusiva di amici, intimi anche di Cesare (nelle lettere si vanterà spesso della sua familiarità con gli uomini più vicini al dittatore2 6 e della stima di quello stesso per lui27). L'una e l'altra circostanza rivelano l'attenzione con cui segue da vicino la politica, certo con la segreta aspirazione a potervi partecipare, sia pure in modo indiretto, tramite gli amici influenti. Ancora più esplicite dei fatti, le sue stesse parole in altre lettere del 46 ne illuminano i veri sentimenti e modificano l'ostentata grandespazio concesso aglistudi offrono testimonianza, oltre alla produzione letteraria, frequenti riferimenti nelle epistole: dr. in Fam. 9,1,2 la descrizione della giornata-tipo dell'Arpinate. Or. pure Fam. 5,21;6,12;9,6;9,16;9,20. 21 Cfr. Fam. 7,33;9,16;9,18. zz Cfr. Fam. 9,15;9,16;9,18;9,19;9,20;9,26. v Cfr. Fam. 9,20: In Epicrlrinos adversariinostri castra coniecimus. 24 È questo, forse, il senso più giusto dcll'autoddìnizione di epicureo, al di là della maschera di gaudente materialista con cui l'oratore ama apparire,per coprire con un sorriso amaro la forzata inattività politica. z, Nd 46 -ricordiamolo- ci fu l'aggiunta di due mesi intercalari per adeguare l'anno al nuovo calendario giuliano. 26 Cfr. Fam. 6,10;6,12;7,33;9,6;9,7;9,16;9,18. r, Cfr. Fam. 4,13;6,10;9,15. 211Sul

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maschera epicurea cli sorridente imperturbabilità: se molti passaggi esprimono amarezza per la situazione politica, fantasma della vera repubblica, e per gli uomini indegni saliti alle cariche più alte28 , altrettanto frequenti sono infatti le recriminazioni per la propria dignitasridotta a pura apparenza e incapace d'influire sulla vita pubblica 29• Costante nell'epistolario è però il giudizio positivo su Cesare: anche nei brani più accorati e nostalgici per la sorte dello Stato, per lui Cicerone trova sempre espressioni cli elogio, o quanto meno cli non ostilità. La sua responsabilità viene limitata allaparte iniziale della sua ascesa, quando si impadroniva illegalmente cli cariche ed abusava del suo potere'CI;per il resto, la colpa maggiore della guerra civile e dell'attuale stato cli cose l'Arpinate fa ricadere su Pompeo, che dopo aver aiutato il suocero a salireeccessivamente in potenza' 1, ne ha sottovalutato le forze e la determinazione; e sul senato, lento a prendere coscienza della situazione e ad organizzare la guerra' 2 • Cesare, da Farsàlo in poi, è stato trascinato dagli eventi, e anzi Cicerone lo giudica degno cli lode per la moderazione e la mitezza conservate in momenti tanto calamitosiH. Egli vede sì la realtà della situazione e il potere cli fatto monarchico ormai stabilito (e infatti non mancano nelle lettere accenni ed allusioni eloquenti in tal senso,..), ma il giudizio sull'uomo resta positivo, sino ali'affermazione che certi suoi errori sono dovuti alla necessità cliaccontentare gli amici". Ma è soprattutto la sua clementia a stimolare le lodi dell'oratore, che ricordava fin troppo bene i tempi cli Silla e aveva temuto il rinnovarsi delle stragi alla vittoria dell'uno o dell'altro contendente"'. L'incredibile mitezza del vincitore e la perse• Cfr. Fam.4,4;7,28. 29

CTr. Fam. 4,7;4,14;6,10;6,13;9,l.5;9,26. '°Cfr. Fam. 6,2. 1 ' Cfr. Fam. 6,6;7,3. 2 ' Cfr. Fam. 7,3;7,28. "Cfr. Fam.4,4;4,8;6.,;6,6;6,10;6,11;6,13;10,.5. Sul giudizio positivo per Cesare e sulle speranze verso di lui, cfr. M. BEl.LINClONI, Ciceronepoliticonell'ultimoanno di villl, Brescia 1974, pp. 24 ss. J4 Cfr. F11111.9,1;9,2;9,17;9,19;9,26. " Cfr. Fam. 4,9;9,l7,2-3;12,18,2. )6 CTr.Alt. 4,7,1 e 4,8,3.

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veranza in tale atteggierof'Oto, da lui non più considerato una mera strategia politican, tranqni1lizzeno gli animi spaventati di tutti e provocano in lui gratitudine sincera. Anche l'esito della battaglia cli Tapso, in cui forse aveva riposto qualche segreta speranza, non lo getta nello sconforto, ché sa di aver ormai più da temere dalla vittoria che dalla sconfina· dei pompeiani38• La stessa composizione della Laus C,atonisavvalora anziché smentire tale punto di vista: la ieratica figura dell'Uticense è l'unica ritenuta degna di ricordo e di lode nella pars pompeiane, perché Catone è stato forse l'unico combattente disinteressato per quegli ideali39: come dire che tutti -o quasi- gli altri erano poco più che avventurieri. E in tutte le opere di questo periodo, pur venate di polemica anticesariana, la condanna colpisce sempre le disastrose condizioni dello Stato, gli erro40, ma il ri che ne sono alla base, la tirannide, la fine della mpp11cna giudizio su Cesareresta ammirato e rispettoso, con aperte lodi per la culturae l'abilità oratoria'41• E, naturalmente, una cosi inattesa clemenza dd vincitore autorizza anche speranze più audaci in Cicerone, quali il ripristino della forma repubblicana dello Stato e l'inveramento dd princepsteorizzato nd De re publica42• Questo il suo stato d'animo verso la metà dd 46, all'epoca dd ritorno di Cesaredalla campagna d'Africa e dd quadruplice trionfo. A confermarne le speranze sarà, a settembre·0 , la grazia concessa dal dittatore, dietro preghiera unanime dd senato, a M. Claudio Marcello, Cfr. Alt. 8,16,2;10,4,7;10,8,2. J1 Cfr. Fam.1,21; cfr. altresi AINAWJ, op. cii., p.150 e UTCENJCo, op. cii., p. 208. " Delle implicazioni e dei ~coli politici di un elogio di Catone Ciceronesi rendeva ben conto e li accettava. tlr. Alt. 12,4. 40 Cfr. Fam. 4,14. 41 Si pensi agli elogi dell'eloquenza e dei Comme11111rii ccsarian.inel Brutus. Un'analisi dell'ideologia politica delle opere del 46 è condotta dal GRJMAL, op.cii., pp. J7

298 SI,

Cir. Fam. 4,4;6,10;9,11. In una sirnilc ipotesi egli si dichiara pronto a riprendere il suo posto e a fornire allaprima richiesta il suo aiuto per la restaurazione dellarepubblica. CTr. Fam.9,2. 4 ' Questa, almeno, la cronologia tradizionale; ma non va sottovalutata la proposta di J. BEAUJEU, Ciclro11,Correrpo11da11a, VII, Paris 1980, App. II, pp. 307-309,di 42

spostare la seduta

in questione ad ottobre; cfr. la discussione a p. 97 s.

20 console nel 51, suo antico ed irriducibile avversario, in esilio volontario a Mitilene da dopo Farsàlo. Quell'emozionante seduta -di cui ci conserva un resoconto di prima mano, Fam. 4,4 a Sulpicio- suscita in Cicerone grandi speranze: gli sembra addirittura un'immagine di repubblica rinata 44, non solo per l'unanimità finalmente ritrovata tra i senatori nel pregare l'autocrate, ma soprattutto per la condiscendenza di lui verso la richiesta; una reazione in cui gli pare di scorgere una grande considerazione per il senato e la volontà di collaborare con esso4'. Interpreta il richiamo di Marcello dall'esilio come l'abbandono dei rancori personali da parte del vincitore nell'interesse dello Stato, per cui l'ex console, reintegrato odia sua dignitas, potrà efficacemente lavorare, come politico e come intellettuale 46• Ad un autocrate cosi ben disposto a dividere il suo potere con i migliori e a ricostituire una valida e colta classe dirigente l'oratore si sente spinto a manifestare non solo gratitudine, ma anche disponibilità a rientrare nella vita politica: gli rivolge allora, ndla stessa seduta del senato, ringraziamenti e consigli sulle misure da prendere per la riorganizzazione dello Stato, nella speranza di poter influire sulla sua politica con la parola: è l'episodio storico da cui nasce la pro Marcello. Rompe in quest'occasione un silenzio di anni e riprende a parlare in senato: un gesto pregno di significato, non tanto per il senso di abbandono di un atteggiamento rinunciatario che a lungo andare il dittatore avrebbe potuto interpretare come una protesta 47 , quanto per "" Noli qU1Jerere:ila mihi pu/cher hù: dies visus est ut speciem a/iquam viderer videreqU1Jsireviviscentis rei publicae. 4 ' K. BRINGMANN, Untenuchungen zum spaten Cicero, Gottingen 1971, p. 76, all'inizio della pro Marcello coglie la convinzione di Cicerone che il perdono di Marcello sia appunto un riconoscimento dell'autorità dd senato da parte di Cesare. 46 Marcello era infatti anche studioso di filosofia, e la coltivò specialmente durante l'esilio. Sul suo dovere di tornare a lavorare per il bene pubblico, dr. l'esortazione di Cicerone in Fam. 4,8 a lui indirizzata probabilmente nd settembre 46: Il/ud... ve/ tu me monuisse ve/ censuisse pula ve/ propter benevolentillm tacere non potuisse, ut quod ego /acio tu quoque animum inducas: si sii res pub/ica, in ea te esse oportere iudicio hominum reque principem, necessitate cedentem tempari . .f7 Or. Fam. 4,4: Sed tamen, quonillm effugi eius o/fensionem, qui /orlasse arbitraretur me hanc rem publicam non putare ri perpetuo tacerem, modice hoc (se. la rinuncia al suo honestum otium, ... unum so/4tium in malir) /acillm.

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il valore ideale di rientro nella vita pubblica, avviata -egli spera- alla ripresa delle istituzioni repubblicane. Dà insomma un valore enorme a quest'episodio, lo carica di tutte le sue speranze, individua come suo futuro ruolo quello di consigliere politico del governante, in grado di guidarlo con la forza della parola•. Sogna già di costruire accanto a Cesareuno Stato ideale, sul modello della repubblica scipionica, con l'aiuto degli uomini più colti e capaci di Roma, tra cui, appunto, Marcello e il giovane Bruto, che egli con le sue opere sta cercando di "educare" a quegli ideali49• Si sbaglia. Trascinato dal suo carattere generoso e impulsivo, ancora una volta scambia per realtà le sue illusioni e nel perdono di Marcello non riesce a cogliere -come invece fanno subito altri'°- le vere intenzioni di Cesare,coerenti con la sua politica di clemenza, diretta ad allargare la base dei consensi anche con gesti eclatanti. La grazia, poi, è anche un atto di profondo disprezzo per l'esule, che quegli mostrerà di aver compreso pienamente, accettandola malvolentieri e intendendola nel giusto senso di affermazione dell'assolutezza del potere cesariano e di beneficio concesso unilateralmente da un sovrano ad un suddito. Di tutto ciò Cicerone non tarderà ad accorgersi; gli apriranno gli occhi sia le misure politiche prese dal regime, sia il trattamento affatto riguardoso riservatogli dal dittatore, quando dina poco tenterà d'intercedere per dei pompeiani in esilio' 1• La distribuzione di terre ai veterani, i favori concessi alla plebe, l'immissione di uomini nuovi di origine provinciale nei ranghi del senato sono tutti prowedimenti inte• ~ un po', in nuce, con la sostituzione dell'eloquenza allafilosofia,un'anticipazione della teorizzazionescnecanadel ruolo dell'intellettualeaccanto al sovrano nel ~ demmtifl. 49 Cir. Brut.331,2; a lui -non si dimentichi-l'Arpinate dedica buona parte della sua produzione letteraria del 46. Cfr. AltNALDJ,op.cii., p. 146. '°Ad esempio Volcazi.oTullo,.uno dei senatori, che disapprovò immediatamente il gesto di Cesare:cfr. Fam. 4,4: lt"4"e cum omnes ante me rogati grati4s unari egissmt prader Volcatium (is mim, si eo locoessei, negavit se /acturum /uisse), ego rogatur mulllvi meum consilium.... ' 1 Cir., soprattutto in Fam. 6,14, l'urniliazi.nnesubita nella richiesta di perdono per Llgario

22 si a procurare al vincitore le simpatie delle classi inferiori, per gettare le basi di un potere monarchico in grado di prescindere dal sostegno del ceto senatorio' 2• Era d'altronde un'utopia sperare che egli rinunciasse a parte del suo potere, per giunta in favore di ex nemici, ma per Cicerone non era una novità abbandonarsi a sogni impossibili, salvo poi a soffrire crudelmente per l'impatto con la realtà. Anche in questo caso, il risveglio è doloroso: nell'arco di pochi mesi deve prendere amaramente coscienza che il nuovo padrone di Roma non lavora per ripristinare la repubblica, ma per rendere più saldo il suo potere, trattando da sudditi gli antichi pari e frenando in qualche modo la libertà d'espressione. Comprende l'inganno della clemenza, che gli appare di nuovo strumento politico di tirannia, non volontà di riconciliazione. In occasione del processo di Ligario, poi, sperimenterà il disprezzo di Cesare per i suoi suggerimenti e per la sua digni'tas,e forse allora riscoprirà il suo antico, consueto ruolo di difensore della repubblica, contro ogni tentativo di sovvertirla. Individuerà anche, probabilmente, una volta perduto ogni prestigio politico, l'unica attività possibile per lui nello scuotere gli animi con il pensiero e la parola; e si renderà conto della necessità di velare d'ironia le sue idee d'opposizione ad un governo non più condiviso. Il tono delle lettere, dagli ultimi mesi del 46 in poi, muta infatti sensibilmente: su Cesare e sulla situazione politica i toni si fanno sempre più duri", e forse questa diversa disposizione d'animo non sfugge al dittatore, che dalla Spagna, nel 45, sente l'esigenza di controbatterne gli attacchi ideologici con l'Anticato, ben deciso, ad onta dei formali elogi per l'Arpinate, a privare la figura dell'Uticense di quell'aureola di martire della libertà repubblicana che in ambienti pompeiani si cominciava ad attribuirle"'.

n Sulle innovazioni politiche dd primo periodo dd governo di Cesare cfr. l'accurata analisidi UTCENICo, op. cit, pp. 204 ss. e 215 ss. " Proprio in questo periodo le lettere documentano i primi chiari segni di antipatia per Cesare e per il suo regime. CTr. Fam. 4,14;9,15,4-5;9,18;9,19,1;9,26,4. '4 CTr.le allusioni all'Antiaito, o ad analogaopera di parte cesariana, in Att. 12,46 dd maggin 45.

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Nell'agosto dd 4.5 un tentativo di congiura contro Cesarefa capo a Trebonio, un suo beneficato''; nello stesso periodo un'idea analogasi affaccia in modo abbastanza esplicito .qelle opere di Cicerone e la gioia con cui, alle idi di marzo dd 44, accoglierà il tirannicidio'6 e continuerà a lungo ad esaltarlo è la logica reazione ali'ostilità via via maturata verso il governo cesariano. Di tali mutati atteggiamenti devono ovviamente risentire tutte le sue opere tra il 46 e il 4.5, un periodo quanto mai fecondo per la produzione retorica prima e filosofica poi". Ne saranno influenzate dunque anche le tre orazioni, pronunciate dal settembre 46 al novembre 4.5, lungo tutto l'arco dell'evoluzione dd suo giudizio su Cesare. Per esse tuttavia -in particolare per la pro Marcello-i problemi di datazione si collegano indissolubilmente a quelli strutturali, poiché se una lettura in chiave ironica presuppone un atteggiamento anticesariano, non si addice al momento delle illusioni sul nuovo regime, al tempo della grazia a Marcello a settembre, e neppure forse al novembre 46 (quando fu pronunciata la pro Ligario). Da simili questioni resta senz'altro esclusa la pro rege Deiotaro, la meno adulatoria delle «cesariane», pronunciata nd novembre 4.5 e pubblicata subito dopo, nd periodo dell'ostilità più evidente per Cesare. Per le altre due il problema cronologico investe il rapporto tra momento della pronuncia (su cui, in entrambi i casi, abbiamo precisi dati storici)" e della pubblicazione, ignoto per la pro Marcelloe forse 9 • L'ipotesi dd Dyer per la prima (rifaun po' meno per la pro LJgario' cimento in senso ironico nd 4.5, in vista della pubblicazione) 60 è l'unica " Cfr. GRJMAL, op. ca.,pp. 33.3s.

" Cir. Fam. 6,1,, se va ritenuta valida la datazione al marzo 44; cfr. altrcslAlt. 14,6;14,9;14,12. 17 Le m•Jizzano in tal senso GRJMAL, op. cit., pp. 298 ss. cd E. NAllDUCCI, Introduzionea Cicerone,Bari 1992, pp. 16,,168 s. e 183; per il De o/ficiis, cfr. BE:wNaoNJ, op. cii., pp. 24 ss. "Per la pro Mara/Jo la fonte è Cicerone stesso, Fam.4,4; per la pro LJgariocfr. PwrAJCO,Cic., 39,,-6. "Sulla quale cfr. Alt. 13,19;13,20e 13,24, tutte scritte tra giugno e luglio 4,. 60 Cfr.R R DvD, Rhetoncand intention in Cicno's pro Marcello,in Tbejo"rnal o/ Romanst"dies 80, 1990, pp. 17-30, passim,ma in particolare p. 30.

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soluzione plausibile della contraddizione tra l'ironia individuata dallo studioso nel testo e la genesi storica di esso all'epoca della simpatia e delle speranze in Cesare.Questioni in parte diverse suscita la pro l.igario, pronunciata a novembre 46, in un momento cruciale dell'evoluzione di Cicerone verso il dittatore 61: per il Dyer, che stravolge la cronologia tradizionale, essa precederebbe la versione a noi giunta della pro Marcello.Un esame obiettivo delle sue ipotesi mi pare imponga dunque in pn"misl'analisi della l.igariana,per verificare la credibilità della proposta e per aprire la strada alla comprensione, nonché ad un' eventuale sistemazione cronologica della ben più complessa pro Marcello.

Secondo ARNAIDI, op. cit., p.151, proprio in questo mese l'oratore comincia a dar segni d'insofferenzaverso il regime,a causa della swaumilianteperditadi dig,rillls. 61

CAPITOW2

GENESIDELLA PRO UGARIO

Subito dopo la grazia a Marcello, nell'entusiasmo delle sue illusioni e nella fiducia verso la clemenza di Cesare, Cicerone si dedica ad un'opera d'intercessione presso di lui e presso i suoi amici in favore di pompeiani in esilio1• Dietro questa decisione, la volontà di contribuire ad una pacificazione generale e alla ricostituzione di una valida classe dirigente, obiettivi da lui ritenuti non estranei allo stesso dittatore, sul quale pensa, in buona fede, di avere una certa influenza, sia a livello politico (dopo il ringraziamento per Marcello, con i suggerimenti sulla riorganizzazinne dello Stato), sia a livello personale, grazie agli amici comuni2• Sarà costretto a ricredersi, ad opera dello stesso Cesare che, comprendendone forse le illusioni, preferirà dissiparle subito, e non esiterà a dimostrargli allaprima occasione il poco conto che fa dei suoi consigli e della sua dignitas:il caso di Llgario gli offrirà il pretesto migliore. Costui, propretore d'Africa al tempo della guerra civile, in esilio dopo T apso, non sembra fosse amico di Cicerone, le cui lettere a lui dirette paiono piuttosto formali'; tuttavia l'oratore si adopera per il suo perdono, probabilmente su richiesta di Bruto 4• Nel settembre 46 comunica a Llgario il proprio impegno per lui e garantisce il successo, grazie alla buona disposizione di Cesare', ma a novembre la faccenda 1

Cir. Fam.4,4;6,1;6);6,6;6,7;6,10;6,12;6,13;6,14;6,22.

Ibidem. Cfr. Fam. 6,13;6,14. 4 E' un'ipotesi -a mio parere valida- di W. C. Mc DERMorr, In ligari411tlm, in T.A.Ph.A, 1970, p. 322, sulla base di Alt. 13,44,3, in cui è riferito il rimprovero di Bruto a Cicerone per l'errata menzione, nella proligario, di Corfidio, già morto all'epoca del processo. Ciò indicherebbe sia la scarsa familiaritàdell'oratore con i Ligarii e i loro parenti, sia l'interesse di Bruto per costoro. ' Cfr. Fam. 6,13. l

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26 non è ancora conclusa ed egli informa l'esiliato di un suo nuovo tentativo, addirittura in casa dd dittatore, dopo una lunga e umiliante anticamera6. Stavolta sembra fatta, ma ecco saltar fuori contro Ligario un'accusa di alto tradimento per essersi alleato con Giuba, re di Numidia, avversario di Cesare,dichiarato nemico di Roma7• Era una circostanza reale, ma non certo imputabile ad un'iniziativa personale di Ligario, bensl a tutti i pompeiani rimasti in Africa dopo Farsàlo; ma il dato ancor più strano riguarda il passato pompeiano anche dcli' accusatore, il figlio dd governatore designato dell'Africa per il 49, Tuberone, cui Ligario aveva a suo tempo impedito lo sbarco per prendere possesso ddla provincia'. I Tuberoni, padre e figlio, avevano combattuto a Farsàlo per Pompeo ma, riconciliatisi subito dopo con il vincitore, erano stati reintegrati nella loro posizione'; dunque degli ex pompeiani accusano uno dei loro di fronte a Cesare, dei beneficiari ddla sua clemenza lo esortano ad abbandonarla 10• Il dittatore, accolta l'accusa, presiede un processo pubblico contro Ligario, dd quale Cicerone si fa difensore 11• La decisione di Cesare

Cfr. Fam. 6,14 e pro Lig. 13-14. Per Mc OF.RMorr, /oc.cit., le assicurazioni a Ligario anche in questa lettera sono solo gentili incoraggiamf"flti di Cicerone, non suffragati da fatti concreti. 7 Cfr. Quint., lnst. or. 11,1,78. • I particolari dell'episodio, non molto chiari date le contraddizioni delle fonti, sono esaminati dal GoroFF,op. cit., p. 128. CTr. soprattutto Cacs., Beli. civ. l,Jl,3. 9 Una precisa ricostruzione delle circostanze dd processo, in gran parte ricavabili dall'orazione stessa, si deve al Mc DERMorr,art. cit., p. 321 ss. 10 La contraddittoria posizione dei Tubcroni, rilevatada Quintiliano, pare rendesse alquanto deboli le loro argomentazioni contro Llgario, a giudicare dal riassunto fattone in lnst. or. 11,1,78-80. 11 Alquanto fantasiosa mi pare la proposta di W. DRuMANN, GeschichteRoms im st!inemUbergangevon derrepublikanischen:Mrmo1111rcbische Ver/assung,Lcipzig 1906, accolta da autorevoli studiosi, quali G. WALSER,Der Proz.essgegenQ.l.igariusim ]abre 46 v. Chr., in Historia,1959, pp. 90-96; C. P. CRAIG,Tbe centraiargumento/ Cicero's speech /or l.igarius,in The classica/ joumtll, 1984, p. 195; E. LEPORE, Il princepsciceroniano e gli iJeali politici della tardarepubblica,Napoli 1954, p. 357, di un accordo di Cicerone con Cesare nell'inscenare un processo dall'esito già scontato, mero strumento propagandistico ddla clemenza dd dittatore. Non vedo perché Cesare, al quale già tanta pubblicità avrebbe fruttato il gesto magnanimo dell'assoluzione, avrebbe richiesto l'aiuto di un uomo il cui peso politico era ormai praticamente nullo. 6

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costituisce un doppio motivo di offesa per lui: gli prova come questi non abbia tenuto in alcun conto le recenti promesse fattegli in favore di Ligario, che gli erano costate l'umiliazione di una lunga anticamera in casa dd dittatore, motivo non certo secondario di risentimento personale12.Ma l'oltraggio più grave è un altro: la celebrazione di un processo pubblico contro Ligario dimostra che Cesare continua aritenere l'operato dei pompeiani un vero e proprio delitto, e non un semplice error,perdonabile con un po' di buona volontà, come Cicerone aveva suggerito nd suo intervento in senato a settembre. Tesi dominante dd suo ringraziamento per Marcdlo, infatti, era stata la proposta di considerare un errorl'atteggiaroP.ntodegli anticesariani, per facilitarne il perdono e la reintegrazione; ndla speranza che questo suggerimento venisse accolto, l'Arpinate si era dedicato all'opera d'intercessione per gli esuli1>.Ora, l'indifferenza cosi ostentata per la sua tesi e il disprezzo per i suoi consigli e la sua disponibilità gli fanno aprire gli occhi sull'impossibilità d'influire sul dittatore 14• Non è azzardato vedere proprio ndl' episodio di Ligario il movente dd suo ripensamento su Cesare, ddl' abbandono ddle speranze e ddla scelta di un ruolo di opposizione a lui più consono. In tale prospettiva la pro Ligario,pronunciata in seguito e in conseguenza ddle offese e ddle ddusioni subite, ammette logicamente -o richiede?- una lettura ironica, in quanto un'adulazione senza secondi fini ostili non si concilierebbe con il legittimo rancore per il trattamento ricevuto. Inaccettabile perciò l'interpretazione di essa quale strumento ddla propaganda cesariana o quale discorso rassegnato, di chi sa di non avere ascendente su Cesaree tuttavia continua ad dogiarlo 1'. 11

CTr.Fam.6,14; cfr. altresl C. LourscH,Ironie et libertide parole.Rema,ques

surf éxordead principe,,, Ju pro Ligariode Cichon, in &vue da étudesllltines,1984, p. 10,. Era un segno eloquente del dispreuo di Cesare per la sua dignitase della volontà di mantenere le distanzedalle sue ingcrcnzc politichenon richieste. Il dittatore tuttavia si rendeva ben conto dell'ingiustizia di tale trattamento e dell'odio che avrebbe suscitato in Cicerone. Or. Alt. 14,l e 14,2. "t la tesi -condivisibile,mi pare- di Mc OERM6• L'appassionata difesa delle loro ragioni svela le simpatie dell'autore e l'insincerità della sviolinata iniziale a Cesare. Le due parti s'illuminano a vicenda dal contrasto di tono: l'ironia della prima risulta inasprita dalla gravità della seconda, in cui la nobiltà e il dolore delle riflessioni rifulgono maggiormente per l'accostamento al sarcasmo. La premurosa raccomandazione al dittatore a non stancarsi nel conservaregli ex nemici si illumina d'ironia nell'allusione alla morte di Marcello; ma soprattutto genera scherno il significato ambiguo di de/atigariin conservandis,cui dà risonanza il verbo, raro ma deciso,

A ciò contribuisce la prolungata precisazione che i viri boni (nd senso politico dato da Cicerone all'aggettivo e con tutto l'interesse che i boni rivestivano ai suoi occhi) )6

sono proprio i pompeiani; un'identificazione fondamentale per capire le simpatie politiche dell'oratore in questo periodo in cui pure sembra «agnostico». Si segnalapoi, per la sua malinconica bellezza, il nesso speciequadamreipub/ime,denso d'inesprimibile rimpianto nella vaghezza dell'aggettivo indefinito.

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interpretabile come «non stancarti di salvare» (in senso letterale), ma anche «non affaticarti a salvare», ironico consiglio a Cesare a proseguire nella politica di eliminazione fisica degli avversari. Il periodo successivo, vero gioiello di ambiguità, si fonda su un apparente servilismo: non enim tua ulla culpa est si te aliqui ti'muerunt, contraque summa laus quod minime ti'mendum /uisse senserunt. L'affermazione che Cesare non ha colpa se alcuni lo hanno temuto, così adulatoria da cadere nd ridicolo, deve la sua inverosimiglianza proprio alla serietà formale. E risibile è, poi, l'impressione di premura nel voler giustificare il dittatore, a costo di negare la realtà. Ma il sarcasmo culmina ndla seconda frase, nella posizione ambivalente di minime, collegabile sì a timendum, ma pure a senserunt. L'abile gioco di parole, scoperto ma accurato, finisce per dogiare quale summa laus di Cesare l'ipocrisia. L'abilità riconosciutagli consiste infatti non nell'essersi rivelato clemente, ma nell'aver nascosto con ciò le sue mire, impedendo ai cittadini di accorgersi dd pericolo da lui rappresentato per la libertà. Si approfondisce un tema sviluppato ndla pro l.igan"o,nel confronto tra Cesare e Silla, in cui il primo veniva distinto dal predecessore per maggior ipocrisia, non per minor cruddtà 37; ora il caso di Marcello dimostra la giustezza di quell'accusa. Lo stesso confronto della pro l.igariotra Cesare e i predecessori è ripreso qui, al par. 12, col felice espediente di un doppio senso non della disposizione delle parole, ma della semplice interpretazione della frase: et ceteros quidem omnis vù:tores bellorum civilium iam ante aequitate et misencordia viceras; hodierno vero die te ipse vicisti. Sta nella conclusione la forza dell'ironia: dando ad aequitas e a misericordia il valore individuato di ipocrisia, si comprende in che cosa Cesare ha superato gli altri vincitori di guerre civili38• Colpisce però la serietà dell'affermazione finale: avendo già superato tutti gli altri (in falsità, s'intende), non gli restava che superare se stesso, come ha fatto per

Cfr. p,o Lig. 12 e il commento al brano a p. 69 ss. Lo stessoGoroFP,op.cit., p. 43, riconosceche qui (comenell'esordio)Cicerone tratta la clementiaCaesarisnon più come dote personale, ma come calcolo politico del vincitore. 37

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Marcello. Ma anche un'altra lettura, più sottile e vdenosa, è possibile: con qud gesto, e con il grande sdegno suscitato, Cesare ha posto le basi · per la distruzione della sua immagine di clemenza, e fors' anche della sua stessa vita. Ha annullato tutte le sue imprese precedenti, ha privato di valore le sue vittorie''. Al par. 25 una critica, ripresa dalla ligariana, all'ambizione e allo smodato desiderio di gloria dd dittatore è spostata sul piano filosofico, con l'àx.µti ironica nell'incidentale. Hic tu modum vitae tuae non salute

reipublicae,sed aequi'tateanimi de/inies?quid si istud ne gloriaequidem satis est? cuius te esse avidissimum quamvis sis sapiens non negabis. L'attenzione sull'insipienza filosofica di Cesare, pronto a misurare la portata della sua gloria non dal bene pubblico, ma dal successo personale40,rivela l'adeguamento di Cicerone al solo argomento persuasivo -la gloria individuale- per spingere il tiranno a lavorare per il bene pubblico. Soprattutto, si badi alla forza dell' epifrasi, distinta in due proposizioni, la relativa (aperta critica dell'ambizione di Cesare·0 ) e la concessiva, sede dell'ironia. La precisazione che egli è sapiente, in un contesto tutto volto a negarlo, accentua l'effetto antifrastico della frasetta, e proprio il risibile, apparente zelo nell'adularlo finisce per sottolinearne la stoltezza; la dura critica dd superlativo in chiusa, poi, rincara la dose per contrasto. Un altro punto sembra proseguire un discorso avviato nella pro ligario; al par. 16 non enim iam causae sunt inter se, sed vidoriae comparandaeriprende direttamente pro lig. 19 : nunc melior ea (se. causa)iudicandaest quam etiam di adiuverunt.AI tempo stesso pregnante ed ambigua l'affermazione della pro Marcello,sostenuta dallo stesso "lpum uiaoritlmuicissevideris,dirà appena dopo, in W1 nesso ambiguo, aguzzato dall'allitterazione;e ancora: rt!aeigit"r "nus invia"s es, a quo etillmipsi"s viaoritle condiciovisq"e deviaa est.Tutto il par. 12 gioca sui tennini victoria,vincere,invia"s, a ribadire -mi pare- sia la realtà (odiosa per i pompeiani) della vittoria di Cesare.sia le ipotesi di lettura appena proposte. 40 Il nesso salutereip"bliaJe,con l'allarmante salus,suona come W1 aperto rimprovero all'egoismo dd tiranno. 41 Non sfugga laforza critica dd supcrlativoauidissim"m,strategicamente in chiusa.

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anfibologico causaee dalla doppia lettura possibile dell'inquietante victoriae.Anche qui, come allora, causaesi può tradurre con «motivi ideali» o con «partiti politici», ma il senso è sempre che ormai (si noti l'intensità di iam) l'unica realtà di cui bisogna tener conto è la vittoria, la legge del più forte 42• Ancor più sottile l'ambiguità di victoriae,nominativo plurale («non si devono confrontare i partiti / le idee tra loro, ma le vittorie», quella reale di Cesare e quella eventuale di Pompeo) o dativo singolare («non vanno confrontati i partiti o gli ideali tra loro, ma con la vittoria»). Quello che ad un'interpretazione letterale (la prima) sembra solo una sviolinata di dubbio gusto al vincitore, sulla base di un improponibile confronto tra una vittoria concreta e un'ipotesi mai verificatasi, diventa un'enunciazione, sgradevole per il pubblico aristocratico, della legge dd più forte. Non serve guardare alle motivazioni ideali o ai partiti in lizza, ormai, ma solo all'esito dei fatti: un discorso che getta su Cesare la luce negativa del tiranno troppo forte per essere contrastato, ma proprio per questo malvisto. Nella pro Ligario il confronto, tra le causaee gli dei, ridimensionava i meriti dd dittatore e dei suoi nella vittoria (e polemizzava contro la mancanza di fede rdigiosa dell'epicureo Cesare); qui il rapporto, tra causae e vittoria, rileva l'assenza di qualsiasi valore ideale nella pars cesariana e suggerisce l'impressione della forza bruta come unico fondamento dd potere•J. Il doppio senso di verbi -s'è visto- gioca un ruolo importante nell'orazione, perché consente, senza stravolgere il senso e senza sottintendere nulla, di trarre differenti possibilità di lettura. Ancora un paio di mirabili esempi, ravvicinati tra loro, al par. 21, in apertura della seconda metà dd discorso. Introducendo in modo dd tutto inatteso il terna di una denuncia di Cesare su complotti contro la sua vita, Cicerone dice: nunc vento ad gravissimamquerelam et atrocissimamsuspi

ctonem tuam, quae non tibi ipsi magis quam cum omnibus avibus, tum 42

E l'doquentc gerundivo dà un sapore di rassegnazionea questa dura necessità. La PETRONE, art. cit., p. 93, pur sostenendola posterioritàcronologicaddla pro l.igariosullaproMarcello,riconoscemaggioreabilitàe misura ndla frase di quest'ultima rispetto ali'altra. 0

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maxime nobis qui a te conservati sumus, provùienda est. quam etsi spero /a/sam esse, numquam tamen extenuabo. tua enim cautio nostra cautio est. Risalta il tono di falsa premura per la salvezza dd dittatore, in una con l'enfasi dei superlativi; rilevante pure conservare, di frequente allusivo, per antifrasi, alla morte di Marcello. Ma sono i due verbi providenda ed extenuabo, con la loro ambivalenza semantica, a caratterizzare il periodo. Il gerundivo, con il duplice significato di «prevedere» e «provvedere» autorizza due livelli di lettura, uno superficiale («saremo noi, salvati da te, a prevedere/ impedire l'avverarsi dei tuoi sospetti»), l'altro profondo ma chiaro (gli fa da schermo il semplice doppio senso possibile): proprio gli ex avversari, salvati per modo di dire come Marcello, o umiliati nd perdono, come Cicerone, provvederanno che i sospetti di Cesare prendano corpo. Analogo il discorso per extenuabo, traducibile con «mai trascurerò i tuoi sospetti», ma anche con «mai attenuerò i tuoi sospetti», minaccia di continuare a lottare contro Cesare44 • L'epifrasi, poi, marcata dalla duplicazione dd termine-chiave cautio, nd doppio senso di «salvezza» e di «cautda» 4', diventa ineffabilmente ironica nel primo significato, in rdazione alla sorte di Marcello, che la smentisce. Con il valore di «diligenza» (ripreso -tra l'altro- poco più oltre), potrebbe anche alludere ad eventuali progetti di cesaricidio, la cui sicurezza dipenderebbe dalla tranquillità e dall'inconsapevolezza di Cesare. Stessa minaccia e stessa tecnica poco più avanti, al par. 22: è ancora il verbo a sostenere l'ironia e a completare il significato di una frase ambigua. Sed tamen cum in animis hominum tantae latebrae sint 44

Nello stesso tono minaccioso mi pare un'affermazione tanto adulatoria da scoprire l'ironia al par. 22: equidemde te dies noctesqueut debeo cogitans,casusdumtaxtat humanoset incertoseventusvaletudiniset naturaecommunis/ragilitatemextimesco.L'inciso ut debeo ribadisce l'importanza della propria opera e della propria riflessione contro Cesare in difesa della libertà, e gli accenni alla fragilità umana hanno un che di oscuramente minaccioso. In communis vedrei poi una frecciata alle pretese divine dell'autocrate, ridimensionate con la menzione dei limitidella sua natura, uguale a qudla di tutti gli altri uomini. 4 '

CTr.Go1°0FF, op. cit., p. 63.

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et tanti recessus,augeamussane suspicionem tuam; simu/ enim augebimus di/igentiam. Augeamus conferma l'intenzione di continuare a lottare per la libertà, trascinando altri nella battaglia; rafforzato da sane, prende un'aria di sfida, destinata ad infiammare il pubblico ostile al regime; il discorso, iniziato subito prima, s'allarga così in un'esortazione che coinvolge tutti gli anticesariani (lo dimostra il passaggio dalla 1° persona singolare di extenuabo alla 1° plurale di augeamus46, dall'indicativo alla sfumatura esortativa del congiuntivo). Sottile pure il gioco di senso sulla duplice interpretazione cli sustu/isti, al par. 2: ergo et mihi meae pristinae vitae consuetudinem,C. Caesar,interclusamaperuistiet hi'somnibus ad bene de omni re pub/ica sperandumquasi signum a/iquodsustu/isti. Se il primo termine di paragone è smentito dall'evidenza dei fatti (Cicerone non aveva affatto ripreso la sua vita pubblica precedente), il secondo si adegua logicamente alla sua falsità, grazie alla luce ironica gettata dal verbo su tutta la frase. Oltre che «innalzare», infatti, to//o I sustu/i significa anche «distruggere»; Cesare, lungi dall'aver realmente innalzato un vessillo di speranza per la repubblica, con la morte di Marcello ha davvero in qualche modo abbattuto ogni segnale positivo per lo Stato. La frase, estensibile a tutto l'operato cesariano, di là da questo singolo omicidio, diventa una condanna della sua politica e un coerente completamento dell'ironica affermazione iniziale47 • Un altro verbo, do/eo, colora di ambiguità un'intera, importante affermazione, ancora al par. 22, senza alludere a significati sottintesi, ma presentandosi nel suo valore più proprio: a mutare è l'intero con testo, se lo si legge in senso ironico o encomiastico: ... do/eoquecum res

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Anche qui sarebbe suggestivo scorgere un'allusione a progetti di cesaricidio, adombrati da di/igentiam:parrebbe una sfida al despota ad aumentare pure i suoi sospetti, con il solo risultato di accrescere la prudenza dei nemici. 47 Difficile per il GoroFF,op.cit., pp. 20 s., spiegare questa metafora militare, un unicum nell'oratoria ciceroniana, per il cui impiego egli non trova di meglio che pensare ad un omaggio all'attività di condottiero di Cesare.Sul piano ironico, la motivazione regge (Cicerone non perde occasione di rilevare il passato militare dd dittatore, per sminuirlo), ma solo se subordinata al senso di sustulisti.

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publica immortalis esse debeat, eam in unius mortalis anima consistere. La studiata presenza del congiuntivo suggerisce il divario tra ciò che dovrebbe essere e ciò che è, e il riuscito gioco di parole paronomastico tra immortalis e mortalis e l'accostamento ossimorico res publica I unius aumentano l'impressione di minaccia, di rimpianto, di denuncia della tirannide. Soprattutto colpisce, però, il doppio senso complessivo, insinuato dal verbo: davvero c'è da dolersi che la repubblica, eterna e immortale, sia finita nelle mani di un uomo solo48 ! Identica lieve struttura ironica in un senso univoco al par 25, in una violenta requisitoria contro la falsità dell'epicureismo, ha una frasetta allitterante, noli nostro pericufu esse sapiens. Significativo il contesto: quare (se. poiché Cesare ha fatto ancora troppo poco per la patria) omitte, quaeso, istam doctorum hominum in contemnenda morte prudentiam; noli nostro pericufu esse sapiens. I docti homines sono gli epicurei, e la loro filosofia -si badi bene!- è definita limitativamente prudentia, non sapientia; non solo, ma la presenza di 1'stamscopre il disprezzo dell'oratore per essa49 • Esse sapiens va riferito in senso ironico ad una presunta sapientia epicurea, e nostro pericufu, lungi dall'alludere al pericolo di un abbandono del potere da parte di Cesare, con conseguente, ulteriore sfascio delle istituzioni, mi pare più perspicuo riguardo ai pericoli sociali e politici da sempre temuti da Cicerone nella filosofia del Giardino. L'osservanza di quei precetti da parte del dittatore rappresenterebbe dunque un pericolo per tutti i Romani, e in questo senso, non in quello di un'adulatoria premura per il suo futuro,

Spiccail tono solenne dd discorso,come ogni volta che si tratta ddla respublica. 4'1 Dellasua antipatia per il Giardino Cicerone, com'è noto, non fece mai mistero: oltre l'aperta polemica dd De/inibus e dd De naturadeorum,nwnerosi sono gli spunti ostili nelle sue opere. Basti citarne uno dei più famosi,l'apostrofe di In Pison.37: con/er nunc, Epicurenoster ex baraproductenon ex sebo/a... Sull'anticpicurcismodi Cicerone cfr. P. Gll.JFFRIDA, L'epicureismonella letteraturalatina nel I sec. a.C., Torino 1940; M. GIGANTE, Filodemoin ltalill,Firenze 1990,passim;G. MARTANO, Lapolemicaantiepicurea di Cicerone,in «Storia, poesia e pensiero nel mondo antico» (= Studi in onore di M. Epicureismoromano,in «I.uç11t11ms» Gigante), Napoli 1994,pp. 433-449;T. GARGIULO, (= Studi sull'epicureismogreco e romano), Napoli 1983, pp. 637 ss. 41

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la frase trova a mio avviso una più retta comprensione. Il tono di preghiera e la presenza di quaeso accrescono il sarcasmo. Già nella pro Ligano gli ablativi assoluti, le frasi incidentali, le epifrasi celavano le punte ironiche più forti; nella pro Marcellola ripresa e il perfezionamento di tale tÉX_VT\aggiunge ad essi gli avverbi. Qualche loro impiego ironico è stato già esaminato, ma altri meritano attenzione. Al par. 29, ad esempio, proprio un avverbio nega credibilità all'enfatico elogio di Cesare. Sul giudizio dei posteri per le sue imprese Cicerone dice: erit inter eos etiam qui nascentur,sicut inter nos /uit, magnadissensio,cum a/ii laudibusad caelumres tuas gestasef/erent,alzi /orlasse aliquid requirent... (ossia la restaurazione della repubblica). La natura stessa d'inciso pone in rilievo il breve sicut inter nos /uit, non riferito solo al passato della guerra' 0, ma pure alle opinioni dei contemporanei su Cesare dopo la vittoria, a smentita delle affermazioni di poco precedenti sulla concordia dei cittadini e sull'amore generale per lui' 1• In primo piano appare però, nella sottintesa polemica sull'incredibilità delle imprese cesariane, il sarcasmo di /orlasse, notevole al posto di certe'2 : anche nel senso letterale, tuttavia, insinuerebbe pur sempre un dubbio su quella gloria agli occhi dei posteri, non sempre disposti a lasciarsi incantare dalle res gestae tramandate, ma pronti ad apprezzare azioni più utili per la patria. Altro bell'esempio di avverbio ironico (stavolta accompagnato ad un ablativo assoluto) è al par. 10: equidem cum C. Marce/li... lacrimas modo vobiscum viderem, omnium Marcellorummeum pectus memon"a ob/udit, quibustu ett"ammòrtuisM. Marcelloconservatodignitatemsuam reddidistt:nobilissimamque/amilz"amt"amad paucos redactampaene ab interitu vindicasti.Il tono elevato e rispettoso nel ricordo della gloriosa gens dei Marcelli suscita sdegno nel pubblico senatorio, sia per la sone dell'esule, sia per il confronto con l'attuale stato dell'assemblea, riem,oSi potrebbe giustificare il perfetto anche leggendolo nella prospetùva futura dei posteri. '

1

'2

Al par. 21. Persino il GOToFF,op. cit., p. 81, è costretto a rilevare un tono di criùca in

questo awerbio.

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pita da Cesare di sue creature, che non perpetuano certo la tradizione delle antiche famiglie aristocratiche. In M. Marcelloconseroato,espediente di chiara ironia sul destino dell'ex console, spicca certo una grande amarezza nella rievocazione di qud misfatto, ma pure una sorta di autocommiserazione per la propria ingenuità di allora, e di conseguenza una punta di autoironia, sottesa nello stato d'animo con cui, alla luce dei fatti, l'oratore rilegge quelle sue parole. Nd periodo compare anche un altro caratteristico sillogismo sottinteso, nel confronto tra la salvezza di Marcello e la recuperata dignità dd senato: la falsità del primo assunto comporta quella dd secondo. Emerge, sempre sul!'omicidio, l'ironia amara di paene, la cui pregnanza dà all'insieme, nonostante la dolorosa serietà dell'argomento, una striatura macabra. Il costrutto forse preferito da Cicerone per aguzzare l'ironia è l'ablativo assoluto, grazie alla sua posizione naturalmente isolata e in rilievo. Vale la pena esaminarne qualcun altro, dopo quelli già incontrati. Al par. 13 il confronto tra la salvezza di Marcello, richiesta da tutto il senato, e quella dello stesso Cicerone, concessa spontaneamente da Cesare, ricorda un analogo paragone nella pro Ligarioin cui pure lo stesso espediente era spia del picco beffardo' 3• Nam cum M. Marcellum deprecantibusvobisreipublicaeconseroavit,me et mihi et item reipublicae nullo deprecante, reliquos amplissimos viros et sibi ipsos et patriae reddidit... La ripresa dd tema ripropone la debolezza politica di Cesare, costretto a graziare acerrimi nemici per accaparrare consensi e ricostituire una valida classe dirigente. Il confronto tra i due ablativi assoluti evidenzia la punta di orgoglio di nullo deprecante,compiaciuto rilievo di Cicerone sulla propria insostituibile importanza ndla vita pubblica. D'altro canto emerge l'ironia di deprecantibusvobis, nd dolente ricordo dd senato intero supplicante per la salvezza di Marcello, e soprattutto si rievoca la delusione per l'esito di quella preghiera. L'insistenza dei pronomi di 11 persona, l'allitterazione a ponte me et mihi et item sottolineano l'autoironia della constatazione di quanto " Cfr. a pro l.ig. 7 la menzione dd perdono a Cicerone; per un ablativo assoluto simile a questo, si veda pro l.ig. 12, nd confronto con Silla: Ipse iubebat occidinulla

postulante,p,aemiisinvitabat.

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(poco!) l'oratore sia stato realmente restituito alla patria, come i reliqui amplissimi viri nominati subito dopo. In relazione al caso di Marcello negli ablativi assoluti si celano non di rado denuncia e ironia pungente: al par. 2, M. eni'mMarcello vobis... reique publicae reddito costituisce il termine di paragone per l'inesistente recupero dell'audoritas di Cicerone'4; al par. 10 il raffronto con la «salvezza» di Marcello si estende alla dignitasdell'intero senato, mai riottenuta; al par. 33 M. Marcello... reddito riporta in primo piano l'evento-chiave dell'omicidio, lasciato in ombra per tutta la seconda parte dell'orazione'', e in quest'ottica diviene pregnante anche la frasetta successiva, carica d'un'ironia dolente che sfocia in laetari,un fulmen in clausula,ad improntare di sarcasmo il contesto'6. Tant'è che una delle trovate ironiche più belle è l'ambiguo ablativo assoluto al par. 32, un punto tra i più impressionanti per chiarezza di minacce ed aspra mordacità: sed iam omnis /rada dissensioest armis,

exstinctaaequitatevictoris.restaiut omnes unum velini, qui modohabent aliquidnon sapientiaemodo, sed etiam sanitatis.La prima affermazione, rivolta ai pompeiani, è una realistica ammissione dell'attuale stato di cose, idonea a preparare l'effetto inatteso dell'ablativo assoluto. Di solito, nell'interpretazione letterale, si riferisce il participio exstincta a dissensio:non ha molto senso, però, additare l' aequitasdi Cesare come causa della vittoria, ottenuta in realtà con la forza militare; eppure, proprio l'oscurità del testo segnala un significato più profondo. Che in realtà è chiaro se si concorda aequitatecon exstincta,in uno splendido Cfr. pro Mare.2 e il commento a p. 152. "CTr. pro Mare.33: sed quia non est omnibus stantibus necessedicere,a me . La chiusa,in improvvisa antitesi, evidenziata dal forte nunc, istituisce un brusco passaggio, temporale e ideologico, allo squallore della presente situazione, mentre atrocissimamrafforza la riprovazione per la decisione di Cesare di accogliere l'accusa contro Deiotaro. La lunga tirata seguente contro gli awcrsari (in particolare sull'ammissione dell'accusa di uno schiavo, vietata tassativamente dall'ordinamento giuridico repubblicano) introduce la fondamentale denuncia dello stravolgimento delle tradizioni 4; e la cura formale, l'uso insistito di retorica, il tono sostenuto, le ripetizioni frequenti che i.ritensi6cano il pathos scoprono l'indignazione, vera ed ostentata, dell'autore su quest'argomento decisivo. Subito prima, una frase breve ma intensa riprendeva i temi della paura e dell'assurdità della causa: accedit ut accusatorum alterius crudelitate, alterius indignitate conturber; le allitterazioni martellanti, la presenza di conturbo,la posizione finale, la diatesi passiva marcano il timore e trasmettono una vaga sensazione di angoscia, al di là delle intenzioni dell'oratore. Nd verbo è però pure un Il possessivoIIOSITdtll, tra il nostalgico e J'orgoglioso,lasciaintendere anche più lo scarto cronologico e politico tra passato e presente. chiaramente di t11llet1 4 Giustamente il GoroFF,op. cit, pp. 204 s., nota, al par. 2, la forza di impietlltee di sa/ere (crudekm Ctlstom,,, ne àialm sakrtztum et impium qui nepos111111111 ;,, a,pitis discrimm t1ddwcmt,... commmutio11m,q,,e i11e1111tis t1ellllisflb impielllleet flb sa/ere prtlmtiis1111 t1CC1Ht11UU1m domi1111m imp11krit),il primo redwcmt, fl1li smNm coml/)111111 lativo al delitto di Castore contro la famiglia.il secondo ai dannidi tutta la società. Va altrcslrilevato, in questo brano denso di ripetizioni, come i due sostantivi in questione siano preceduti dagli aggettivi corrispondenti (salnt1tum et impium), disposti però chiasticamentein ordine inverso. J

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intento chiarodi denuncia della degenerazione giuridica, etica e sociale rappresentata dal processo: Cicerone si dichiara preoccupato della presente situazione, e lancia cosi l'allarme per l'opinione pubblica. L'analogo perturbai, anch'esso nella posizione-chiave d'inizio, riprende il tema della paura a conclusione dell'invettiva contro l'accoglimento delle accuse e dà il via ad una serie di frecciate sul modello delle due precedenti «ccsariane»; qui Cesareè interlocutore diretto, e perciò il tono dell'ironia ritrova tratti di ambiguità più raffinati e meno espliciti. Perturbai me, C. uzesar, etiam il/ud interdum,

quod tamen cum te penitus recognovi,timere desino: re enim iniquum est, sed tua sapientia/it aequissimum.nam dicereapud eum de /acinore contracuius vitam consilium/acinoris inisse arguare,cum per se ipsum consideres,grave est; nemo enim /ere est qui sui periculi iudex non sibi se aequioremquam reo praebeat.sed tua uzesar praestanssingularisque naturabune mibi metum minuit. La continua oscillazione tra affermazioni generiche ed eccezioni per il solo Cesaresa d'ironia, con le smentite per nulla convincenti dei concetti appena sostenuti'. Anche la forma, involuta e contorta, sembra schernire e negare il contenuto con l'ambivalenza tra considerazioni affermative e negative, e suggerire l'ingarbugliata situazione di Cesare, giudice e parte offesa insieme. Culmine del sarcasmo è /ere nemo est..., per l'irresistibile effetto comico dell'avverbio (anche qui sintagma ironico privilegiato), nel bel mezzo di una sententiagenerale, e troppo adulatorio per essere serio. Nell'ultima frasetta allitterante (sed tua Caesarpraestanssingularisquenatura bune mibi metum minuit), ancora il concetto di metus è in evidenza nel gioco fonico di nasali, dentali e di u, ma è ripreso anche, dalla pro Marcello,l'ambiguo singulans,vox media leggibile anche in negativo, e in tal senso fortemente ironica sulla natura di Cesare'.

'La ripetizioneiniquum... t1equissimum ... t1ef{Uiorvn, sull'ingiustiziadellaprocedura seguita, toglie valore ad •equissimum,con l'iperbole insita naturalmente nd superlativo. 6 A differenza ddla pro Mt1rcello, il doppio senso dcll'aggettivo, qui riferito a Mlurtz, indica l'estensione ddla critica, prima limitata allasola stultilill filosofica dd dittatore, allasua più intima personalità.

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Gli accenni allasapi'entiae allapraestanssingularisquenatura del dittatore trovano poi la logica conclusione nella successiva frecciata allasua demagogia: non enim tam timeo quid tu de regeDeiotaro,quam intellego quid de te ceteros velis iudicare.Pure qui la forma, a bella posta involuta, pare smentire ciò che afferma, ma si tratta solo di un espediente ironico per stimolare l'attenzione a ben comprendere il senso reale; la clementia Caesaris,accostata, come al solito, a motivazioni opportunistiche, è identificata con l'ipocrisia. L'accenno ai criteri di giudizio vigenti, denari solo dall'esigenza di non scontentare l'opinione pubblica7, si risolve in denuncia dell'aberrante amministrazione della giustizia: anche a questo si deve l'insistenza sul concetto di timore, inteso come angoscia per l'arbitrio del tiranno e per il degrado politico e giuridico. La sezione seguente riprende da un altra angolazione l'assurdità della causa e delle procedure giudiziarie: la stranezza del luogo di svolgimento, anch'essa introdotta da un verbum timendi al par. 5: mo-

veor etiam loci ipsius insolentia,quod tantam causamquanta nulla umquam in disceptationeversata est dico intra parietes, dico extra conventum et eam /requenti'amin qua oratorumstudia niti soleni: in tuis oculis,in tuo ore vultuqueadquiesco,te unum intueor,ad te unum omnis spectatoratio;quae mihi ad spem obtinendaeveritatisgravissimasunt, ad motum animi et ad omnem impetum dicendicontentionemqueleviora. Colpisce anche qui una scelta lessicale fuori del comune, quell' insolentia cosl poco frequente nel senso etimologico di «inusualità», e invece eloquente in quello più usato di «insolenza»; è chiara l'allusione all' roganza di Cesare, spinta fino alla celebrazione in casa propria di un processo che lo vede unico giudice e parte lesa8• Non a caso, si insiste sulla stranezza di perorare una causa in una dimora privata e sul rim-

ar-

7

Anche per GoroPF, op.cii.,p. 297, questa frase significache per Cesareil verdetto su Dciotaro sarà dettato da considerazioni di opportunità politica, piuttosto che da motivazioniumane o da esigenzedi giustizia. 1 La piaggeria di questo brano, in particolare di in tuis oculis... adquiesco,ha dato da pensareai critici, che vi vedono un'acccnno ironico alla situazione di Cesare nella causa; lo stesso GoroPF, op. cii.,p. 208, deve ammettere che Ibis smtmce is noi mli"/y mcomiastic.

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pianto per il Foro, subito ripreso in una nostalgica rievocazione9, finalizzata alla denuncia, ma pervasa pure da sentita commozione. La seconda parte del periodo, però, torna alla critica della autocrazia: ad esprimerla, anche qui, l'accumulo di personali e possessivi, in una specie di anafora poliptotica culminante in te unum intueor. L'aggettivo, ribattuto, dà una sensazione di esclusività e d'isolamento minacciosa per il dittatore, indice della sua ormai incolmabile distanza dall'opinione pubblica. Non servono più l'arte degli oratori o le conoscenze giuridiche: il successo di una causa dipende solo dal suo capriccioso volere. La successiva, ampia rievocazione dell'atmosfera calorosa del Foro, con il grande populiRomani concursus,vuole anche accentuare il contrasto, agli occhi di Cesare, tra la rappresentazione di una scena di massa e la sua condizione, appena evidenziata, di isolamento dal popolo, al quale l'oratore tiene a mostrarsi invece legato da comuni interessi e da tradizioni rimpiante. Dopo l'analisi dei punti capitali dell'esordio, ricco di tratti ironici e polemici, sarà opportuna una ricognizione per temi dell'ironia nd resto dell'orazione. Abbiamo diviso le accuse a Cesare nei due grandi filoni dei suoi difetti e dello sconvolgimento della tradizione. Nel primo gruppo spiccano l'ingratitudine, l'intemperanza, la stoltezza e le aspirazioni monarchiche. L'accusa d'ingratitudine verso Deiotaro attraversa tutto il testo con continui confronti impliciti tra la devozione dd re, alleato di Cesare, e la spoliazione di terre da questi riservatagli: il secondo termine del paragone (Cesare) è sempre sottinteso, ma solo perché risalti meglio ex silentio. In genere la menzione della fedeltà di Deiotaro è solenne e commossa; Cicerone finge di dimenticare il passato pompeiano del tetrarca e la sua tardiva ed obbligata alleanza con il vincitore 10• Talora però il silenzio su costui viene rotto per segnalarne 'Cfr. il successivopar. 6. Anche allaPETRoNE, art. cii., p. 98, che pure non legge il discorsoin un'ottica ironica, la rievocazionedd Foro suona come «rimprovero esplicito a Cesare». 10 Cfr.adesempioi parr. 8,13 s., 24. Il primo va segnalatoin modo particolare per una frecciatapolemica,affidataall'ambiguocomparativoassoluto/irmiomn. In un contesto densodi retorica e di pathos, in cui anche il tono eccessivodi preghiera ironizza sullepose da sovranodi Cesare,si dice infatti:pertkx1eramislamte oroquam"gi Deiolllro

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la prepotenza nel pretendere aiuti, come in una beffarda esclamazione al par. 25, a proposito dell'accusa secondo cui Deiotaro sarebbe stato alieno animo verso di lui. Quo tum rex animo /uit qui auctionatussii sesequespoliaremalueritquam tibi pecuniamnon subministrare?Risibile l'adulazione attribuita al re, soprattutto ricordando il vero svolgimento dei fatti, l'obbligo fattogli da Cesare di aiutarlo e la successiva privazione dei territori, richiamata da spoliare.La pointe sta in maluen"t,sarcastico sulla «spontaneità» di Deiotaro nell'offrire aiuti al vincitore. A volte, la mordacità sull'ingratitudine di Cesare non è lasciata nelle pieghe di un paragone sottinteso, ma è espressa; accade al par. 10, nd ridicolo, sproporzionato confronto prima tra la colpa e la pena di Deiotaro, poi tra le perdite subite e la conservazione formale di un inutile titolo: ita cum maximis eum rebusliberares,perparvamin amicitia

culpam relinquebas.itaque non solum in eum non animadvertisti,sed omni metu liberavistt~ hospitem agnovisti, regem reliquisti. La duplicazione, a distanza ravvicinata, di liberarepone in voluto rilievo il verbo, che in chiave ironica equivale a spoliare11, entrambe le volte. Ridimensionando la responsabilità del sovrano a meschino motivo di gdosia da parte di Cesare per essere stato posposto a Pompeo nell'amicizia12,non solo s'illumina un altro difetto del tiranno (la gelosia, appunto), ma si riduce anche l'operato di Deiotaro ad una perparvaculpa, non meritevole di così grande pena. L'altra contrapposizione, tra l'ospitalità ricevuta da Cesare in Galazia e la sua ingratitudine nd lasciare al re un titolo quasi vanou si aguzza nella bella disposizione della seconda ho1~1hospitiporrexisti,istam,inqU1Jm, dexteram11011 tllmi11bellis11eque i11proeliisquam i11p,omissiset/itk /irmiorem.Accomunare la durezza in guerra e la lealtà nelle promesse (due àmbiti cioè troppo diversi) per mezzo dello stesso aggettivo, per giunta a1comparativo, significa insinuare che la stessa fermezza adoperata nelle campagnemilitari(non casua1el'endiadi bellis... proeliis,a marcare il concetto) Cesare l'ha avuta verso gli amici come Deiotaro, trattati dunque piuttosto alla stregua di avversari ... 11 Vedremo più oltre, a p. 230, come Cicerone consideri ironicamente una «liberazione» per Deiotaro la perdita di parte dd regno, e dunque di responsabilità. 12

Cfr. pro reg. Dei. 9: 11umquamtu illum 11ccu1avi1ti ut hostem, sed ut amicum

o/licioparum/u11ctum,quodpro~11siori11C11.Pompeiamicitillm/uisset quam i11tuam... u È in gioco qui il tema dell'ospitalità sacro per la mentalità corrente e perciò fomite di riprovazione per il comportamento di Cesare e per il disprezzo di un valore fortemente sentito.

230 frase, con i tre membri finali asindetici, isocolici e omotdeutici, in significativa climax ironica, chiusa dall'accostamento allitterante dd pomposo regem allo sprezzante reliquisti:ciò che Cesarelasciava al re era solo un titolo senza valore! Un passaggio altrettanto studiato sull'ingratitudine è al par. 36: ndla dimostrazione dell'assenza di rancore in Dciotaro per la perdita dei possedimenti 14, Ocerone inserisce il paralldo con Antioco ID di Siria, che, privato da L. Scipione ddla maggior parte dd suo regno, si diceva grato al vincitore per averlo liberato da tante responsabilità.

Etenimsi AntiochusMagnusi/le, rexAsiae,cumposteaquama L Scipione devidus Tauro tenus regnareiussus est, omnem [que] hancAsiam quae est nunc nostraprovinciaamisisset,dicereest solitusbenignesibi a populo Romano esse/actum, quod nimis magnaprocurationeliberatusmodicis regni terminis uteretur,potesi multo /acilius hoc se Deiotarusconsolari. Il confronto è all'insegna di un'enorme sproporzione (simboleggiata anche dallo squilibrio tra l'ampiezza dell'episodio di Antioco e le frettolose parole spese per Deiotaro, pur in un periodo cosl ricco 1'): tra i due re, tra l'estensione e l'importanza dei territori confiscati e -perché no?- anche tra i due generali romani. L'ironia scaturisce però anche dal senso ddla frase di Antioco, che l'oratore finge di prendere sul serio solo per smentirsi subito, lasciando a tutto il passo un'aria poco persuasiva16.Resta irrisolta, infatti, l'illogica contraddittorietà dell'argoSostenuta con affermazioniiperboliche al limite dd ridicolo, anche al par.3,: quidmim ~tineat per le, meminit, non quidamiserit. Consideratala sproporzionetra ciò che ha perso e ciò che ha mantenuto (il solo titolo regale) non si capirebbe davvero perché Dciotaro dovrebbe ricordare solo il beneficio; la frasetta, in ogni caso, mentre affermache il re non ne tiene conto, sottolinea proprio quid amiserit, a bella posta in 14

chiusa. "Sulla stravagantecomplessitàdd quale cfr. GoroFF, op.cii., p. 261. A giudizio dd critico, tanto questo quanto l'episodio di Attalo al par. 19 sono storicamente falsi; ciò avvalorerebbela mia tesi, se si potesse dimostrareche si tratta di episodi inventati da Occrone stesso per sostenere le sue accuse. 16 Anche per GoroFF, ibidem,l'Arpinate non può certo sperare di far credere che una simile argomentazionepotrà consolare Dciotaro delle perdite subite; essa gli serve piuttosto a dimostrare la fede stoica dd re, un tratto polemico contro l'epicureismo di Cesarela cui portata sfuggeallo studioso.

231 mentazione: se la perdita di territori è una fortuna, in quanto sgravio di responsabilità, a maggior estensione di possedimenti perduti dovrebbe corrispondere maggior soddisfazione; non avrebbe dunque senso sostenere che Deiotaro, proprio per aver perso meno terre di Antioco, potrà rassegnarsi con più facilità. La frase si smentisce da sola e ribadisce l'ingiustizia di Cesarenell'aver danneggiato il vecchio ospite cd amico 17• Altra palese ironia è, al par. 14, l'enfatica conclusione quaequidem (se. gli aiuti di Deiotaro in guerra) a te in eam partem acceptasunt, Caesar,ut eum amplissimoregishonoreet nomine adfeceris,ironica -con l'altisonante superlativo- sull'ingratitudine del tiranno e sull'inconsistenza dell' amplissimushonos, ridimensionato da nomine, a farne intendere la pura formalità 18• Nella ripresa letterale, all'inizio del par. 15

(non modoa te periado liberatus,sed etiam honoreamplissimoonldlus...), ancora liberarericorda la spoliazione (si noti il rilievo sulla responsabilità di Cesare in a te) e si oppone all'ipocrita formalità del dittatore nella riassegnazione del titolo regale a Deiotaro. Inverosimile l'iperbole del par. 36: omnuz tu Deiotaro, Caesar,

tribuisti,cum et ipsi et /ilio nomen regiumconcessisti.hoc nomine retento 17

Un altro rapido confronto con un episodio storico si segnalaalpar. 19: termine di paragone è qui l'Erniliann (detto Africano minore), polemicamenteassunto a modello di comandante repubblicano, disinteressato ndla gestione dd bottino. Quo in loco Deiotarum talem erga te cognovisti, qualis rex Attalus in P. A/ricanum fuit, cui magni/icmtissima dona... usque ad Numantillm misit ex Asia,qu« A/ricanus inspectante exercitu accepit. Probabilmente -nota GoroPF, op. cii., p. 233- il sovrano di cui si parla non è Attalo II di Pergamo, bcnsl Antioco VII di Siria. Fulcro ddl'ironia, secondo la solita tecnica, è l'ablativoassoluto: Scipione, come Cesare,ricevette onori straordinari, ma ncll' accoglierei ricchi doni si comportò nelmodo più degno di un generaleromano

(rappresentante dd senato e dd popolo), facendolo alla luce dd sole, in presenza di tutto l'esercito. Cesareinvece, convinto dd proprio potere personalee non esponente ddla volontà popolare, ha preso i doni come un omaggiodiretto a lui, allamaniera di un autocrate. Inutile sottolineare la voluta distorsione ddla verità storica, date la ben nota avidità dei generaliromani e la loro amministrazione«privata» dei rin:bissirnihottini di guerra, a cominciare proprio dagliScipioni. 11 Tra l'altro, Cesarenon facevache riconfermare il titolo già concesso a Dciotaro dal senato anni addietro, e dunque ancora minore appare a Cicerone il suo merito verso il sovrano.

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atque servato,nullum beneficiumpopuli Romani, nullum iudiciumde se senatus imminutum putat. L'insistenza su nomen allude alla vanità dd beneficio concesso ed esagera il contrasto con la gratitudine di Deiotaro: nomen è il perno ddla prima frase, del tipo più semplice d'ironia come affermazione del contrario. Ma colpisce anche, subito dopo, la considerazione che, ridando al re il suo titolo, Cesare ha solo interpretato la volontà del senato e del popolo, che un tempo l'avevano concesso; implicitamente gli viene imputato anche il disprezzo per le autorità repubblicane (compresa la volontà popolare), che al tetrarca avevano assegnato pure i territori ora sottrattigli. Non solo: la rappresentazione di Deiotaro ansioso di vedersi riconfermate la stima e l'amicizia dd senato e del popolo romano nega ogni rilevanza politica a Cesare: come se il suo regime non si fosse mai instaurato ... !19 La stoltezza, non solo filosofica, come ndla pro Marcel/o2",ma Per due volte a denunciare l'ingratitudine e l'inaffidabilità di Cesare è citato il caso dello stesso Cicerone, che al par. 38 ricorda le sue assicurazioni, dopo l'allontanamento dai pompeiani, a bene sperareet bono esseanimo,quod sciote nonfrustra scribere solere.L'ironia dell'epifrasi (ancora il sarcasmo alla fine e staccato dal contesto), aguzzata dall'allitterazione, fa notare, nd confronto con l'oscurità politica riservatagli nd nuovo regime, la vanità delle promesse dd tiranno, con frustra ad accentuare l'amarezza. Poco oltre, al par. 39, l'Arpinate diviene un vero contraltare di Cesare,enfatizzando non poco la propria gratitudine per Deiotaro: laboroequidnn regisDeiolllricausa,quoe11m 1 '

mihiamicitiamrespublicaconciliavit,hospitiumvoluntasutriusqueconiunxit,/amiliaritatem consuetudoattulit, summam veronecessitudinemmagnaeius officiain me et in exercitum meum e/fecerunt.L'ingratitudine dd dittatore emerge ex sikntio dal contC!!tO,in cui leggerei però anche una frecciatina all'illegittimità dd suo potere (e dunque delle pretese di feddtà da lui avanzate nei riguardi dd re), rispetto alla regolarità della carica di Cicerone (amicitiamrespublicaconciliavit,con il solenne respublicain forte rilievo), e un tocco polemico al disprezzo dd tiranno per il sacro vincolo dell'ospitalità (hospitium voluntasutnusque coniunxit).La climax nell'denco dei legami instaurati da Cicerone con il re crea un sapiente pathos. 20 La stultitia filosofica di Cesare compare in un solo caso, in chiusa dd par. 37: un'esaltazione della virtus è preceduta da un polemico denco delle doti di Deiotaro: quid de virlute e,us dicam,de magnitudineanimi (la grandezza d'animo, che nelle laudes regiaevedremo concessa in apparenza anche al dittatore, spetta in realtà solo a chi può congiungerla con la saggezza filosofica) gravilllteconstantia?quae omnes docti atque

sapientessumma, quilklm etiam bona sola esse dixerunt, eisque non modo ad bene, seJ etiam ad beate vivendum contentamessevirtutem. La menzione dei tanti sapientesa so-

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personale, contrasta vistosamente con le pretese monocratiche cesariane; per dimostrarla s'insiste con compiacimento sull'assurdità della accusa accolta dal dittatore contro Deiotaro. In effetti, s'istituisce un implicito dilemma, poiché se non per stupidità egli crede a cose tanto inverosimili, allora lo muovono malafede e tenacia nei rancori, pecche altrettanto vergognose in un governante e ancor più in un giudice. Il tutto sottinteso nella critica all'incredibilità delle accuse di Castore e Fidippo: dal tono di sufficienza s'inferisce la stupidità (o la malafede) di chiunque abbia potuto credervi. Tutta la confutazione offre materia, spesso aspra, per quest'argomento, ma certi punti si segnalano per una trattazione sarcastica più dura o per la commistione con altre tematiche. È il caso, al par. 15 s., dd concitato elenco dei motivi di convenienza politica, oltre che di pietas, per cui Deiotaro non avrebbe mai osato far uccidere Cesare. Ut enim omittam cuius tanti sceleris/uerit in conspectu deorum penatium necare hospitem (ma il vincitore non aveva dimostrato tanto scrupolo verso l'ospitalità! Così Deiotaro diventa suo opposto nell'incarnare l'uomo saggio e timorato), cuius tantae importunitatis omnium gentium atque omnis memoriae clarissimum lumen exstinguere (l'eccesso di adulazione ha, come sempre, scopo beffardo), cuius /erocitatis victorem orbis terrae non extimescere21••• cuius tanti /uroris /uit omnis reges... omnis liberos populos, omnis socios, omnis provinci'as, omnia denique omnium arma contra se unum excitare? L'amplificazione, caricata dalle anafore, dalle ripetizioni e dalla climax, sbeffeggia il delirio di potenza di Cesare e soprattutto gli fa notare l'assurdità di un stcgno ddla propria affermazione e la co"ectio 11011 modo... sed etiam definiscono, in polemica con l'epicureo Cesare,l'ambito puramente etico e non materiale della felicità data dalla virtù; il tono quasi da maestro, di spiegazione a chi non ne ha mai sentito parlare, accentua l'impressione di grave errore filosofico nell'avversario. Colpisce, poi, la consonanza adverbumcon Seneca, ep.9, 13 (secontentusest sapiensad beatevivendum, 11011ad vivendum),che avvalora l'àmbito stoico della formulazione ciceroniana. 21 Si riparla di paura, stavolta qudla incussa da Cesare e dal suo potente esercito ai popoli soggetti o amici di Roma; che è poi un modo per dipingere come tirannico un potere fondato sulla superiorità militare, temuto ma non amato. Una rapida ripresa del tema, con la ripetizione di amens,in posizione d'inciso che ne segnalal'intento beffardo, al par. 38:... ilk ... 11011modo tibi 11011susanset -esseienim non solum ingratus,sed etiam amens-...

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simj),-proposito in un piccolo re orientale, e di conseguenza la stupidità dell'accusa. Più espliciti su questo l'attacco e le considerazioni finali del par. 16 : at, credo, haec homo inconsultus et temerariusnon videbat. quis

consideratiorilio, quis tectior,quis prudentior?... quod igitur/acinus nec in hominem imprudentemcaderetproptermetum praesentisexiti, nec in /acinerosum,nisi essei idem amentissimus,id vos et a viro optimo et ab homine minimestulto cogitatumesse con/ingitis?L'inverosimiglianza di un simile gesto, lontano mille miglia dalla saggezza e dalla ponderatezza del re, ricade su chi ha proposto l'accusa, ma anche su chi l'ha accolta, e le lodi di Dciotaro si ritorcono in negativo sul dittatore, stolto e incauto. Ancora più forte il secondo periodo, esempio dell'ironia franca dell'orazione: dietro il labile schermo degli accusatori, a Cesare tocca la pesante taccia di amentia. Solo un uomo amentissimus(addirittura al superlativo!) poteva meditare un simile delitto, e solo uno altrettanto irragionevole poteva crederci: fingendo di dar credito alla buona fede del giudice e di non vedere nell'accoglimento dell'accusa uno sfogo al suo risentimento, Cicerone critica l'incapacità di un giudizio sereno da parte sua. Mi pare, questo, un brano peculiare del tono dell'orazione. La stoltezza di Cesare è pure spunto per uno dei passaggi più comici del discorso, una godibile, inattesa pausa della tensione. Si tratta, al par. 17 s., della gustosa narrazione delle reazioni di Cicerone al primo approccio con le accuse22:già l'aria scherzosa, incredula e superiore costituisce una dura critica alla credulità del despota. At quam non modo non credibiliter (se. con/ingitis/acinus1 sed ne suspiciose quidem! (non sono neppure degne di sospetto le invenzioni degli avversari! La forte polemica lascia intrawedere il pensiero reale dell'autore: troppo assurde per essere credute, le accuse saranno state accolte per altri motivi...!) ego mehercules,Caesar,initio (più eloquenti che mai, in questo punto, l'apostrofe a Cesare, d'ineffabile ironia, e la voluta trascuratezzae l'ironia del racconto sono rilevateanche dal GoroFF, op.cit. , pp. 228 s. , che ovviamenteleggeil sarcasmoin senso letteralee lo riferiscesolo agliaccusatori. 12 La

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precisazione temporale initio, che chiarisce l'inverosimiglianza dell' accusa, evidente al primo impatto) cum est ad me ita causa delata, Phidippummedicum,servum regium (non si perde occasione per ribadire la condizione servile di uno degli accusatori, tremenda violazione di una norma di diritto penale), qui cum legatis missus essei, ab isto

adulescenteesse corruptum, hac sum suspicionepercussus:«medicum indicemsubomtJtJit; fingei videlicetalÌ4uodcrimenveneni.»etsi a veritate longe, tamen a consuetudinecriminandi non multum res abho"ebat. quid ai'tmedicus?nihil de veneno.La voluta spontaneità e il tono scherzoso della na"atio illuminano l'dementarità di certe deduzioni (che '.La frase, in ogni caso pregnante per ambiguità e sottigliezza, anticipa degnamente un seguito altrettanto beffardo, che la smentisce. Per far notare a Cesare la falsità dell'affermazione del carattere quasi incruento della sua vittoria, l'oratore dice infatti: solus inquam es, C. Caesar, cuius in victon"aceciderit nemo nisi armatus. Col che non solo precisa che la vittoria è stata preceduta da una guerra civile e da inevitabile sangue, ma forse allude anche per antifrasi, con amaro sarcasmo, ai nemici fatti eliminare a tradimento, come Marcell36. L'ironia di questo brano, sintesi d'imponanti temi ironici delle altre «cesarianc», si distacca dal tono complessivo del discorso per ambiguità e finezza. E prosegue: et quem nos liberi in summa populi Romani libertate nati non modo non tyrannum, sed etiam clementissimum in victoria vidimus, is Blesamio qui vivit in regno, tyrannus videri potest? Due concetti spiccano: la tirannide negata e l'affermata clemenza37 • Del pensiero precedente (quae semper in civili victoria sen.simus...) sono ripresi il tema e le interpretazioni, ché anche qui si può intendere: «non vediamo come tiranno costui grazie alla sua falsa clemenza», o ancora: «siamo costretti a fingere di ritenere clemente vincitore uno che anche a Blesamio, nato e vissuto in regime monarchico, pare un tiranno e non un re legittimo». Forse ancor più interessante la figura etimologica sui termini decisivi liberi... libertate, rafforzata dall'icastico summa, a conferma -direi- della nostra lettura: come potrebbero dei cittadini, abituati alla massima libertà politica, non vedere (se non costretti) la degenerazione del governo in autocrazia? Il duplice richiamo .allalibertà rievoca pure, con nostalgia, i tempi repubblicani, ma è un rimpianto

"L'una e l'altra possibile lettura awicinano in modo impressionante questo pas• saggio a qudlo di pro Lig. 18 (/iceat esse miseros -quamquam hoc vietare esse non possumus...), anch'esso giocato sulladecifrazione ironica dell'ablativo assoluto. J6 Qui il richiamo a gladiumvaginavacuumin urbe non vidimus di pro Mare. 17, con le debite allusioni all'ipocrisia dd tiranno, mi pare innegabile. 11 Anche alGoroFP,op.cit., p. 258, sembra difficile qui difendere Cesaredall'accusa di aspirare allatirannide.

242 denso di minaccia all'autocrate a non privare di libertà chi da generazioni è abituato a godeme' 8• Segue l'episodio della statua di Cesare collocata tra quelle dei re39: l'accusa, attribuita agli avversari, è esposta con esplicito, duro sarcasmo. Nam de statua quis queritur, una praesertim, cum tam multas videat? va/de enim invidendum est eius statuis, cuius tropaeis non invidemus. nam si locus ad/ert invidiam, nullus est ad statuam quidem rostn"s clarior. Un brano difficile a spiegarsi senza ironia 40: la prima frase rileva come non si tratti di una sola statua, ma tutta la città sia piena d'immagini del. tiranno·41 (apice dello scherno è una praesertim, bell'impiego di avverbio ironico isolato in rilievo), mentre la seconda torna a polemizzare contro gli eccessivi trionfi e onori del vincitore. Ma si sente grande amarezza, e nel rimprovero, stavolta, non è coinvolto solo lui, che quegli onori chiede e quasi pretende; benslsenato e popolo, ormai cosi asserviti da non riuscire a negarglieli, e addirittura da favorirli con il loro smaccato consenso. Neanche qui l'ironia visibile ne sottintende un'altra. L'ultima frase, su una statua posta sui rostri del Foro, contesta al tiranno la pretesa d'inserirsi nell'alveo della tradizio-

,. Nello stesso tono wi inciso al par. 10, in una polemica contro la propaganda di regime:a proposito di Dciotaro, che condivise con tanti Romani l'errore di schierarsi con Pompeo, va notata l'espressione ,ws in media re publiCll1111ti sempe,quevenllli. A pane il minaccioso rilievodi nos in apertura, allusivo all'intera società(che -tra l'altroriprende il 110s clipro Lig.10, contrapposto ad hic, che isolava il dittatore), leggerci " publiCllnd suo pieno signific•to etimologico, opposto tacitamente all'attuale regime, praticamente wia resprivattJdi Cesare. 19 Episodio reale, riportato da Plut., Caes.61, Suet., Caes.79 e Dione Cassio 42,45,3, che attirò sull'autocrate non pochi malumori, come, di n a qualche mese, la vicenda ddla corona offertagli da Antonio nei Lupercali: tutti segni che la plebe mal gradiva l'idea cliuna monarchia. 40 Non pochi problemi, infatti, questa parte pone al GaroFF,op.cii. pp. 258 s., il quale innanzitutto, credendo che Cicerone parli davverosolo ddle critiche per lastatua posta tra qudle dei re, non si spiega il riferimento a tutte le altre, e in secondo luogo non comprende l'adulatoria giustificazione dd fatto, in palese contrasto con le lettereCODtemporanee (cfr.Alt. 13,44,1). 41 Forse allo scopo di favorire il processo cli autodivinizzazione. Sullc statue di Cesare, cfr. GaroFF,op.cit., p. 257.

243 ne repubblicana, sistemando una sua effige nel luogo più sacro di essa, simbolo di libertà politica e giuridica. Se proprio wole una statua sembra dire l'oratore- abbia il coraggio d'innalzarla solo (come pure ha fatto) tra quelle dei re, non nel Foro, indicando cioè apertamente la sua intenzione, senza cercare di camuffarsi da buon cittadino ... Lo sdegno per l'indifferenza dei civesdinanzi a tale intollerabile abuso suona chiaro, e la polemica, fin troppo esplicita, verte su temi pericolosi: il finale dell'orazione riprende edesaspera tutti gli spunti, sl che a Cesareappaia l'enormità delle sue colpe. Il momento di più sorprendente franchezza sul tema delle aspirazioni regali è però al par. 40 s., in due frasi, di aperta denuncia la prima, d'impressionante minaccia la seconda. Quae (se. i monumenta clementiaedi Cesare e la salvezza concessa alle persone graziate) si in privatisgloriosasunt, multo magiscommemorabunturin regibus.Risalta la scarsa perspicuità dei complementi di luogo figurati, che riprende la tecnica della Ligarianadi rottura della chiarezza superficiale a beneficio dell'evidenza dell'ironia: un'ulteriore conferma dell'intento di riproporre stilemi ed espedienti delle altre due orazioni in conclusione del ciclo. In un'interpretazione letterale, infatti, ci si aspetterebbe piuttosto ergaprivatosed ergareges,relativi all'eventuale gloria di Cesare, se grazierà Deiotaro e suo figlio, intendendo privati e re come destinatari della clemenza. Ma gli strani complementi autorizzano anche un'altra lettura, più sottile, che attribuisca loro un ruolo attivo, nel senso di «da parte di». Nel qual caso, Cicerone darebbe apertamente del rex a Cesare, affermando che certi comportamenti (nella fattispecie, la clemenza verso l'imputato) sono più gloriosi per i sovrani che per i privati. Ma assegnando a gloriosaun valore ironico (dopotutto, allude alla clemenza, di cui si stava parlando, e su cui ormai sappiamo il giudizio dell' autore nelle «cesariane») e riferendo la frase a Cesare, i complementi si spiegano meglio, ed acquistano un che di minaccioso. La prima interpretazione significa infatti che certe ipocrisie e certe prepotenze, come i gesti tirannici, assumono più ampia risonanza se compiuti contro personaggi in vista come due re alleati. Il senso della seconda lettura, a questo punto più chiaro,è invece che certi «gloriosi» atteggiamenti di falsa clemenza, riprovevoli in privati cittadini, sono addirittura intolle-

244 rabili in chi wol fare il rex42.Commemorabuntur prende allora un ineffabile sapore di minaccia e prepara l'exploit dell'inquietante frasetta successiva, inverosimile nella formulazione e plausibile solo in senso

.

.

ll'ODlCO.

Semper regium nomen in hac civitate sanctum/uit, sociorumvero regum et amicorumsanctissimum.La palese contraffazione della verità storica nella prima parte 43 cozza con la veridicità della seconda, per far cogliere subito la differenza tra monarchia legittima (rispettata anche dai Romani negli alleati) e tirannide, come quella cesariana. Menzionando il rispetto per la vera regalità, approvata e sostenuta dal popolo, Cicerone sottolinea per antifrasi l'ostilità generale per un governo imposto con la violenza (di grande incisività ironica e minacciosa la precisazione sociorumvero). Resta tuttavia da decifrare l'assurda frase iniziale: la sua stessa enormità ne segnala il sarcasmo e in effetti, assolvendo alla funzione costituzionale dell'ironia come affermazione del contrario, potrebbe dar valore alla frase già in senso letterale, smentendone semplicemente il significato, nel momento in cui lo enuncia. Ma l'eccesso d'inverosimiglianza fa da spia ad elementi ironici precisi: il nocciolo della questione, ritengo, risiede nell'interpretazione di sanctus,

42 Analogo

l'ambiguo plurale regibusnd periodo conclusivo dcli' orazione: quociraz,

C. Caesar,velim existimes hodierno die sententiam tuam aut cum summo dedecore miserrimampestem importaturamesseregibusaut incolumem/amam cum salute.quorum alterumoptareillorumcrudelitatisest, alterumconservareclementùzet1111e. Condannando l'imputato, Cesare distruggerà la sua fama di clemenza; regibus,in apparenza rdativo anche al figlio di Dciotaro, che rischiaeglipure il titolo, acquista un senso più profondo e minaccioso se comprensivo dello stesso dittatore. Il disprezzo dd termine («coloro che vogliono fare i re») si accompagna al solito ricatto dclla clemenza: per mantenere un potere illegale e «monarchico», il tiranno non può venir meno alla tollerante (e ipocrita) liberalitas.L'orazione, dunque, riprende in chiusa il tema finale della pro Ligario,non solo in ossequio alla comune natura di perorationesdi discorsigiudiziari, ma anche nd deliberato intento di chiudere la piccola silloge delle «cesariane» quasi ad anello. 0 Or. per converso la ripresa quasi letterale, ma di senso opposto, di Liv. 27,19,4: regiumnomen,alibi magnum,Romae intolerabileesse.Lo stesso Cicerone, da buon Romano, aveva di re e monarchia un concetto ben diverso da quello qui ostentato; cfr. in De o/I. 3,21,83, proprio su Cesare, l'espressione rexpopuliRomani in senso chiaramente dispregiativo.

24.5

per cui bisogna ricorrere al doppio significato della parola. Per la lettura superficiale vale quello più comune di «sacro, venerato» (il meno credibile), e per quella profonda il senso connesso per un pubblico romano a sacer,a sacrosanctus,nella sfera negativa di «maledetto», «esecrando», «intoccabile», ugualmente riferibile al concetto di sacertas, e anzi presumibilmente più antica e più perspicua della caratterizzazione positiva di «sacro», «santo». Anche qui tra i due aggettivi adeguati alla bisogna (sacere sanctus) l'oratore sceglie il meno identificabile come negativo; ponendolo però ad affermare un fatto inverosimile come la «santità» del nome di re a Roma, costringe il lettore intelligente a scavare il senso vero, recuperabile d'altronde per ben due vie. L'una, appunto, è l'associazione con sacer, naturale per un Romano, che li vede come endiadi. E dunque: «sempre il nome di re è stato maledetto in questa comunità». L'altra spinge a risalire al senso meno evidente di sanctus come participio di sancio, «vietare, punire» 44, in un gioco di etimologie realie traslate di peso notevole. «Sempre il nome stesso di re è stato vietato 4' in questa comunità». Una trovata straordinaria, insomma, che con impressionante eppur velata chiarezza ricorda a Cesare l'odio da sempre legato, a Roma, all'idea stessa di monarchia e le conseguenze tragiche per chi tenta d'imporla. Per converso, lo stesso aggettivo, al superlativo (come a distinguerlo dall'applicazione precedente, più afferente all;àmbito di participio) qualifica le monarchie alleate a Roma e la connotazione non ironica che assume fa risaltare quella ambivalente di prima, confermando la nostra interpretazione. La sconvolgente chiarezza rende il passo una delle più aperte minacce, delle più inappellabili condanne di tutto il discorso. Ma le aspirazioni monarchiche cesariane ispirano a Cicerone anche altre minacce, meno estreme, ma pure pregnanti. Spesso ricorre al sillogismo sottinteso a base della difesa (se Cesare non assolverà Deio-

Devo questa sottile interpretazione ad un'intuizione di AndreaCccchi,appassionato cultore delle lettere classiche, raffinato filologo e mio amico. 4 ' O addirittura «punito»: la grande inventiva ironica ciceroniana riesce ad ottenere da una scelta lessicale pregnante una duplice possibilità di lettura all'interno di un doppio senso e di un contesto già ambiguo. 44

246

alla rappresentazione di se stesso come portavoce della concordia plebe/senato dannosa per il

taro, si attirerà il malcontento popolare) e

tiranno: ancora, ci sono le allusioni a tinte forti ai malumori popolari e la cosiddetta «apologia del veleno». Cominciamo da questa. Al par. 18, nella confutazione delle accuse di Castore e Fidippo l'oratore, riferendo le sue considerazioni sulla loro assurdità, confessa di aver pensato che avrebbero indicato il veleno come mezzo per il tentato cesaricidio, il che, per quanto distante dallaverità, non sarebbe stato almeno alieno dalle abitudini dei criminali, e avrebbe reso più credibili le loro menzogne. Essi invece non parlano di veleno: al id /ieri

potuit primum occulti'us,in potione, in cibo;deinde etiam impunius/it quod, cum estfactum, negaripotesi. si palam te interemisset,omnium in se gentium non solum odia, sed etiam armaconvertisse/;si veneno, lovis ,1/iusquidemhospitalisnumen numquamcelarepotuisset,homines/orlasse celasse/.Le spregiudicate lodi allasegretezza del veleno, attraversate da una leggera ironia nel parallelo tra la consapevolezza di Giove e l'ignoranza degli uomini, cinicamente più auspicabile in un simile frangente, possono senz'altro costituire un velato suggerimento ad eventuali congiurati o futuri assassini di Cesare, ma anche un mezzo per spaventare costui, ricordandogli come, da tiranno, debba temere di tutto, dai cibi e dalle bevande, e costringersi all'esistenza da prigioniero che è la prima condanna di ogni autocrate 46• Soprattutto, le lodi del veleno restano un prezioso documento del clima cupo di quei mesi e del genere di discorsi che cominciavano ad aleggiare, e la cui eco si vuol far arrivare al dittatore. Ancor più indicative dell'atmosfera incerta e difficile sono le allusioni al malcontento popolare, manifestatosi anche nell'episodio dell'applauso negato in teatro 47• Discusso ai parr. 33 s., è presentato come

Un'efficace caratterizzazione della vita dei tiranni Cicerone aveva fatto in T"sc. 5,20-22, adombrando in Dionigi di Siracusa la figuradi Cesare. ~ Non dovette trattarsi di un episodio isolato: ad un analogo appaluso mancato, in una processione, allastatua della Vittoria perché posta vicino a quella di Cesare, si allude in Alt. 13,44,1 del luglio 45: O sUllVes tuas litteras!-etsiacerbapompa... populllm 46

veropraeclarum,q"od proptermal""' vicin1'mne Victorùleq"idem plodit1'r!

247

frutto delle solite maldicenze degli awersari, secondo i quali Blesamio avrebbe scritto, tra l'altro, al suo re te (se. Cesare) in invidia esse, tyrannum existimari, statua inter reges posita animos hominum vehementer o//ensos, plaudi tibi non solere. Vanno notati animos hominum vehementer of/ensos, per nulla ironico, anzi esplicito, grazie alla finzione di far parlare gli accusatori, e solere, invece molto sarcastico, allusivo ad un atteggiamento ormai non più limitato ad un solo episodio, come subito dopo l'oratore si affannerà a fingere di sostenere, con smentita immediata (anzi stavolta anticipata) di un'affermazione. Una tattica ripresa subito, all'inizio della finta confutazione delle accuse: nonne intellegis, Ctlesar, ex urbanis malevolorum sermunculis haec ab istis esse conlecta? La falsa smania di negare le affermazioni attribuite a Blesamio non fa che confermarle: il fatto che gli awersari abbiano raccolto queste chiacchiere presso i maligni significa che in città qualcuno le fa (importante la precisazione urbanis). Nell'ostentare disprezzo per tali voci, l'autore si lascia sfuggire maliziosamente che si tratta di rumores popolari, il che deve svelare al despota gli umori della plebe. L'argomento, intervallato dalla discussione sulla tirannide di Cesare e sulla statua, è ripreso con la vicenda dell'applauso mancato, in cui l'ironia nasce dal finto impaccio nel negare l'accaduto, dall'inconsistenza e contraddittorietà delle giustificazioni, in contrasto con un'ostentata serietà formale: ne risultano potenziate la veridicità del fatto e la colpa del tiranno. De plausu autem quid respondeam? (la domanda stessa sembra tradire l'imbarazzo di negare un fatto tanto ... innegabile!) qui nec desideratus umquam in te est, et non numquam obstupe/actis hominibus ipsa admiratione compressus est, et /orlasse eo praetermissus quia nihil volgare te dignum viden· potesi. L'adulazione, spinta al ridicolo, serve solo a smentire con il suo eccesso quello che sembra affermare. Un piccolo rilievo va fatto per in te, strano complemento d'agente, a meno di non pensarlo come moto a luogo figurato, intendendo, con sarcasmo allusivo agli anticesariani, «che non è mai stato desiderato (da noi) per te». Ma anche lasciandogli il valore di complemento d'agente, la frase afferma una falsità, essendo a tutti noto il costante desiderio di Cesare di attirarsi il plauso della plebe.

248 Ancor più incisiva l'ultima frase, la più incredibile delle motivazioni addotte, illuminata dall'doquente volgare: in senso etimologico (privilegiato nell'orazione per i più efficaci spunti ironici), l'aggettivo significa «p0polare, plebeo», e affermare la superiorità dd dittatore rispetto a tutto ciò che è popolare equivale a negare ironicamente la sua ben nota attenzione al consenso plebeo, sempre stigmatizzata nelle «cesariane» come bieca demagogia48 • L'attribuzione, poi, proprio al vulgus di un pensiero cosl delicato per Cesare (in contrasto con la natura appunto «plebea» dd concetto di volgare), che costituisce un auto-svilimento delle classi umili,chiude la frase in un inestricabile giro vizioso, negandole credibilità ed istituendo un divertito «contrappasso,. per la demagogia cesariana. L'accusa principale dell'orazione, il sovvertimento delle istituzioni, non trattata in modo ironico, dà vita ai passaggi più drammatici: la rievocazione del Foro 49, gli attacchi al disprezzo di Cesare per l'ospitalità'°, la menzione della lotta pompeiana' 1, i paralleli tra presente e passato' 2, lo sdegno per l'accoglimento dell'accusa di uno schiavo e per la mancanza di rispetto di un nipote verso il nonno" si risolvono tutti in una sottesa, costante critica al tiranno, corresponsabile o unico autore di tali misfatti. La durezza delle apostrofi al servo e degli attacchi a Castore, trattato in apparenza da novello Catilina {ma destinatario ddla critica è Cesare), paiono lasciar sempre in ombra il dittatore, tranne l'unico caso in cui è chiamato in causa, al par. 30, nella più vibrante requisitoria contro gli avversari. Solo un rapido passaggio lo menziona {a tanta auctoritate adprobata, in cui l'aggettivo e la personificazione dell'astratto accentuano la gravità della sua colpa, in qualità di capo dello Stato), ma tutto il brano è denso di accuse affatto

ar. ad esempioproI.ig.37. 4' ar. i parr. ' ss. '°Parr. 8 s. 41

1

Parr. 9 ss. e 28 s. n Parr. 3,5 ss. , 31 s. "Parr. 3, 30 ss. '

249 oscure e pervaso da fremente minaccia clivendetta. È la più alta invettiva contro chi tenta cli sconvolgere l'ordine sociale e le istituzioni, uno dei punti in cui meglio si manifesta la nuova ironia della pro Deiotaro, volta ad accentuare e mai a coprire i concetti.

Esto, concedaturhaecquoque acerbitatiset odi magnitudo;adeone ut omnia vitae salutisque communis atque etiam humanitatis iura vio/entur?servum so/licitareverbis, spe promissisquecorrumpere,abducere domum, contra dominum armare, hoc est non uni propinquo,sed omnibus/ami/ii's ne/arium be/lum indicere.nam ista corrupte/aservi si non modo impunita/uerit, sed etiam a tanta auctoritateadprobata,nulli parietesnostramsa/utem,nu//as/eges,nulla iuracustodient. .. o tempora, o mores! Il malvagio attentatore alla serenità sociale e alla proprietà privata è evidentemente Cesare, paragonato a Catilina per l'analoga temibilità dei progetti rivoluzionari; è lui che con la sua autorità consente un simile processo, è lui il vero barbaro che distrugge dalle fondamenta la civiltà romana e le sue leggi. È lui dunque il destinatario vero cli quest'altro tremendo attacco al par. 32 (che perderebbe molta credibilità, riferito all'oscuro Castore): quae est ista tam impotens, tam

crude/is,tam immoderatainhumanitas?idcircoin hanc urbem venisti ut huius urbis iura et exemp/a corrumperes,domesti'caqueinmanitate nostrae civitatishumanitatem inquinares?L'abbondante retorica sostiene il dettato solenne dd passo, soprattutto con le ripetizioni, i giochi cli parole (notevole quello sui due termini fondamentali contrapposti inmanitase humanitas)e le figure clisuono, mentre l'amplificazione dei concetti chiarisce che non può trattarsi dd nipote dd re. Tra l'altro, i due passaggi appena letti incorniciano l'episodio cli Domizio e Scauro, del cavalleresco comportamento dd primo verso il secondo, suo avversario, che pure egli si rifiutò cli rovinare con la testimonianza cli uno schiavo dello stesso Scauro. Il racconto adombra dietro gli accusatori la figura cli Cesare, celata da quella dd suo luogotenente Domizio (per coincidenza omonimo dd primo), che materialmente accolse le denunce cliCastore. Dovrebbe essere costui per antitesi il termine cli paragone per il Domizio cli età repubblicana, eppure, volutamente, l'oratore lo lasciain ombra nella narrazione dell'episodio dd primo Domizio e nd successivo confronto tra quello e Castore. Ciò

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consente di ricavare per antifrasi, da tutte queste incongruenze, le responsabilità del legato di Cesare, e quindi del dittatorc'4. Restano da esaminare due temi, solo in apparenza marginali, comuni alle altre «ccsarianc»: la polemica con la propaganda del futuro vincitore negli anni di guerra e gli attacchi alla clemenza. Cominciamo dal primo, sviluppato sempre nei toni dell'iperbole adulatoria, o di una commossa serietà e di un malcelato orgoglio per il proprio passato politico. Deiotaro, con la sua encomiabile fedeltà al senato, si contrappone più volte allaribellione di Cesare.Ad esempio al par. 10: is rex quem

senatushocnominesaepehonori/icentissimis decretisappellavisset,quique illum ordinem ab adulescentiagravissimumsanctissimumqueduxisset, isdem rebusest perturbatushomo longi111juus et alienigenaquibus nos in media re publicanati semperqueversati.La solennità del tono, l'abuso di superlativi e di vocaboli lunghi sottolineano non solo la dignità del senato e l'obbedienza del re, ma anche la giustezza di una causa di fronte alla quale nessun buon cittadino poteva esitare a prendere posizione. Un tocco malizioso nell'ultima considerazione: anche un barbaro lontano da Roma come Deiotaro individuò il suo dovere nell' obbedienza al senato, non foss' altro che per gratitudine e per la legalità che esso rappresentava. Ogni buon cittadino ragionò cosl, tranne Cesare: ebbene, di fronte a tanta compattezza nella scelta e allagiustezza di una causa compresa anche da uno straniero, non sorgerà il sospetto che a sbagliare fosse lui? E prosegue al par. 11, con forte intonazione autobiografica: cum

audiret senatus consentientis auctoritate arma sumpta, consulibus praetoribustribunisplebis nobis imperatoribusrem publicam de/endendam datam, movebaturanimo et vir buie imperioamicissimusde salute populi Romani extimescebat,in qua etiam suam esse inclusamvidebat. in summo tamen timore, quiescendumesse arbitrabatur.Emergono, nel taglio del brano, la mobilitazione generale descritta come per una guerra esterna, la respublicade/endenda,la saluspopuli Romani in pericolo: ,..Anche per la Prn«>NE, art. cit., p. 100, l'episodioadombra la figuradi Cesare,a cui non mi sembraperò fare da schermoCastore,checorruppelo schiavo,quanto Domizio che, come lui, accolsel'accusa.

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come se, dimenticando di aver davanti l'autore di quello scompiglio, si rievocassero sinceramente i fatti. Il che vale a ricordare al vincitore che è stato un nemico dello Stato, contro cui si mobilitarono tutte le forze sane e le istituzioni legittime: né la vittoria basta a cancellare o giustificare la sua ribellione, o a nobilitare il suo operato. L'denco dei magistrati, l'accenno alla senatus consentientisauctoritasmartellano sulla giustezza della causa di Pompeo, mentre la rapida menzione di se stesso e dd proprio ruolo tradisce il compiaciuto orgoglio dell'autore, in quel nobis denso di dignità e rimpianto''. Ancor più appassionato e autobiograficamente sentito il concitato seguito della narrazione, in cui Deiotaro si identifica con le incertezze e le angosce di Cicerone: maximeveroperturbatusest, ut audivitconsules

ex Italiapro/ugisse,omnis consulans(sic enim ei nuntiabatur);cunctum senatum, totam Italiam e/lusam. Il crescendo emotivo si accompagna all'incalzante dimax con la ripetizione paronomastica consules/consularis (consules... omnis consularis... cuntum senatum... totam Italiam) e all'allargamento della visuale fino all'immagine di tutta l'Italia riversa fuori dei suoi confini per paura di Cesare, in chiara polemica con la figura mite e clemente da quello propagandata. Da rilevare l'inciso sic enim ei nuntiabatur,pregno di un'ironia esaltata dalla posizione isolata: ciò che era riferito al re era vero, ma Cicerone, nella finta, ridicola smania di difendere l'autocrate, comincia una godibilissima opera di negazione della verità che fa il verso a certi eccessi della propaganda di regime.

Talibusenim nuntiis et rumoribuspatebatad orientem via, nec ulli veri subsequebantur.nihil ille de condidonibus tuis, nihil de studio concordiaeet pacis, nihil de conspirationeaudiebat certorumhominum contra dignitatem tuam. quae cum ita esseni, tamen usque eo se tenuit quoada Cn. Pompeiolegatiadeum litteraequevenerunt.Spassosa, perché scoperta, l'impudenza falsamente convinta nd negare l'evidenza e capovolgere i fatti: si giustifica la scelta di una guerra di quella portata " Ciceronesorvolaqui sulle tante incertezzee ambiguitàdel suo comportamento nd 49 e sullasua titubanza anchedopo la decisionedi schierarsicon Pompeo;un riflesso di tutto ciò si coglieperò nell'allusioneautobiograficaal par. 11:in summa tamen timore, quiescendumessearbitrabatur.

2.52

con la necessità di salvare la dignitas di Cesare oltraggiata (che era appunto la sua discutibile motivazione), si trasformano le sue pretese e la decisione di combattere in studium concordiaeet pacis e la reazione del senato in una conspiratiocertorumhominum contro di lui! Il tutto reso più esilarante dalla triplice anafora di nihil, che asseconda il crescendo delle proposizioni propagandistiche: il povero Deiotaro non aveva mai sentito nulla di tutte le ragioni del ribelle per il semplice fatto che non erano mai esistite! La smentita delle affermazioni è stavolta insita nella loro falsità storica, alla portata di qualsiasi contemporaneo informato sugli eventi di quegli anni. Segue, al par. 12, l'elogio di Pompeo, d'impressionante sincerità ed ammirazione, espressa con sfida nella dichiarazione che mai alcun Romano potrà dimenticarne i meriti e la gloria, per nulla inferiori a quelli del nemico; e che i suoi seguaci non sbagliarono affatto a parteggiare per lui. Si ribadisce la giustezza della sua causa, seguita da tutti i migliori, sconfessando quella cesariana. Dal confronto con un predecessore, classico nelle tre orazioni, stavolta è Cesare ad uscire sconfitto, e per la prima volta l'avversario è lodato non fra le righe, ma palesemente, con un capovolgimento adeguato alla nuova ironia esplicita.

lgnosce,ignosce,Caesar,si eius viri auctoritatirex Deiotaruscessit,quem nos omnes (si noti la forte riprovazione per il vincitore in questo omnes) secuti sumus. ad quem cum di atque homines omnia ornamenta congessissent,tum tu ipseplurima et maxima (un colpo all'ingratitudine del dittatore, prima alleato di Pompeo e da questi aiutato nell'ascesa politica, poi suo nemico). nequeenim si tuae resgestaeceterorumlaudibus obscuritatemadtulerunt, idcircoCn. Pompei memonam amisimus (cioè, nonostante l'impegno di Cesare per distruggere il rivale, la memoria di lui continua a sopravvivere nei suoi fedeli; una minaccia?). quantum

nomen 11/ius /uerit, quantaeopes,quantain omni generebellorumgloria, quanti honorespopuli Roman~ quanti senatus,quanti tui"' (ancora sull'ingratitudine del dittatore verso il genero e sulla sua ipocrisia nel "' Non sfuggala climax serrata dei tre concetti di populus Romanus, senatus e Cesare,che dietro l'apparenza adulatoria constata e denuncia la distanza del dittatore dalle strutture civili e politiche romane.

25.3

fingere di non ricordare i legami precedenti allaguerra) quis ignorai?

tanto i/le superioresviceratglcria,quanto tu omnibus praestitisti.itaque Cn. Pompeibellavictoriastriumphosconsulatusadmirantesnumerabamus, tuos enumerarenon possumus. Colpisce, nel confronto tra la superiorità di Pompeo rispetto ai predecessori e quella di Cesare, l'asimmetria tra i termini: laddove ci si attenderebbe quanto tu i/li praestitisti, l'anodino omnibus è un vero àxpoac561CT1tov, che nella sua piatta genericità lascia finemente trapelare il pensiero dell'autore. Evitando vistosamente il confronto vero con questa brusca diversione, praticamente nega la superiorità di Cesare su Pompeo mentre sembra volerla affermare. Non solo: se per il Magno specifica che superò i predecessori glcria, per Cesare si mantiene in una vaghezza che lascia l'impressione di un elogio obbligato e frettoloso, ma non convinto né meritato, e perciò impersonale. La frecciata finale, elegante rimprovero degli eccessi dei trionfi di Cesare" e del suo orgoglio per la propria abilità militare, racchiude un'accusa alla sua autocrazia, che gli fa concentrare e accumulare, ormai senza pudore, le cariche più importanti. Ancora sull'obbedienza di Deiotaro al senato il par. 13: ad eum

igitur rex Deiotarusvenit hoc misero/atalique belle, quem antea iustis hostilibusquebellis adiuverat(eloquenti i due aggettivi, polemici sulla guerra del 49, né iusta, né contro nemici esterni, ma -cosa ben più grave- fra cittadini)... et venit ve/ rogatus ut amicus, ve/ arcesitusut socius,ve/ evocatusut is qui senatui pareredidicisset(al culmine della solenne climax amicus, socius, la perifrasi contrappone alla ribellione cesariana l'obbedienza del re); postremovenit [ut] ad/ugientem, non ad insequentem, id est ad pericull non ad victoriaesocietatem.Nella ricchezza retorica del brano spicca questo stupendo finale: l'energica polemica si mescola all'amarezza e all'orgoglio di essere stati dalla parte giusta; l'attacco, forte, colpisce le pretese dei cesariani di far passare il loro campione per la vittima della situazione: Cicerone ristabilisce la verità, ricordando che, dopo tutto, Pompeo era lo sconfitto e lui l'insen CTr.l'espressionequasiidenticadi proMare.11 sulleinnumerabilesgratulationes pretese dal dittatore.

254 guitore, mosso non da desiderio di pace, ma da ambizione, e non poco crudele nell'accanirsi su un awersario già finito. Il ripetuto parallelismo dei membri, marcato dalla co"ectio, e la contrapposizione periculi/ victoriae,che suscita la naturale simpatia per il più debole, collocano Cesare in una luce odiosa e rivelano, accanto al rancore per lui e alla pietà per la parte awersa, l'orgoglio della propria scelta, ribadita con fierezza' 8• L'altro passaggio polemico con la propaganda, al par. 29, ha un taglio più umoristico, nella caricata descrizione dello slancio bellico anticesariano di Castore a Farsàlo" (che ricorda quella di Tuberone nella pro Ligario),ma trova un momento di amaro realismo nell'ammissione che dopo quella sconfina bisognò non deporre, bensì gettare le armi (egoqui... post Pharsalicumautemproeliumsuasor/uissem armorum non ponendorumsed abiciendorum),e un guizzo di profondo orgoglio nell'accenno all'esercito, al paragrafo precedente: cum in ilio nostro exercituequitaret..., che alla fierezza del dimostrativo accosta l'espressione d'affetto del possessivo. "Non si può tralasciare una stupenda espressione poetica, anch'essa polemica e minacciosa,sempre al par. 13: itaquePhanalicop,oeliofacto a Pompeiodisassit; spem in/initam persequinoluit. Il nesso spem in/initam, molto bello, tradisce l'ammirazione dcli'Arpinate, che tanta costanza non aveva avuto, per i pompeiani più irriducibili. Ma la scdta lessicalenasconde anche un doppio senso, affine a quelli degli aggettivi-chiave ddla pro Marcello,dal prefisso negativo in: etimologicamenteinfatti infinita significa «non finita»,e può alludere ad una speranza ancora viva,benché affidata non più ad una guerra, ma ad altri mezzi (magari il tirannicidio...). Analoghe espressioni d'dogio per la coerenzadei pompeiani di Tapso e di Munda a pro Mare.31 (... eadnn aliis constantitJ videripotesi), e un altro momento di vera poesia, a pro Mare.20, nd richiamn ai viri bonL. lapsispeciequadamrei publicae,a confenna della costante dcvazione dd tono, nelle «ccsariano., sul tema della repubblica e degli ideali politici ciceroniani. "Cfr. par. 28 s.: hicvero adukscensqui meus in Ciliciamiks, in Graeciacommilito /uit (pure qui una punta di orgogliosaprovocazione nella menzione dd proprio passato), cum in ilio nostroexercituequitaretcum suis delectisequitibusquos u1111 cum eo ad Pompeiumpater miserat,quos concursus/aceresokbat, quam se iactare,quam ostenlllre, quam nemini in il/a causastudio et cupiditate concedere!tum vero exercitu amisso ego...suasor/uissem armorum...abiciendorum...bune ad meam auctoritatemnon potui adducere,quod et ipseardebatstudioillius belliet patrisatis/aciendumarbitrabatur.Sulla partecipazione di Castore alla battaglia di Farsàlo cfr. Cesare,Debeli. civ. 3,4.

255 L'analogia tra la descrizione di Castore e quella di Tuberone a Farsàlo anticipa la tendenza di tutto il finale, tramato di fitti richiami alla l.igariana, soprattutto sul tema della clementi'a Caesaris. Prima la frase già esaminata del par. 33 (quae semper in civili victoria sensimus ...), poi la menzione, al par. 38, delle ingannevoli promesse di reintegrare Gcerone nell'antica dignitas rievocano non solo la difesa di Ligario, ma anche certi passaggi e certe scelte ironiche della pro Marcello. Tre punti nell'orazione colpiscono per la grazia maliziosa e la leggerezza degna della l.igariana nello smentire la clemenza di Cesare mentre la si afferma. Il primo è al par. 8: ... teque cum buie iratum, tum sibi amicum esse cognoverant (se. accusatores}, quodque apud ipsum te de tuo periculo dicerent, /ore putabant ut in exulcerato animo facile /ictum crimen insideret. quam ob rem hoc nos primum metu, Caesar, per /idem et constanti'am et clementi'am tuam libera, ne residere in te ullam partem iracundiae suspicemur. Elegante il contrasto tra gli auspici degli accusatori e il suspicemur finale, /ulmen in clausula rivelatore del fatto che quelli erano in realtà sospetti generaJizzati, e che nessuno (non solo gli avversari di Deiotaro) credeva allaclemenza e al perdono spontaneo di Cesare. Lo strale è ancor più incisivo perché colpisce il dittatore in veste di giudice, la sua inadeguatezza in tale ruolo e la sua assurda posizione nella causa. Il secondo passaggio è al par. 39: sed cum de i/'lo (se. Deiotaro) laboro, tum de multis amplissimis viris quibus seme{ ignotum a te esse oportet, nec tuum bene/icium in dubium vocari, nec haerere in animis hominum sollicitudinem sempiternam, nec accidere ut quisquam te timere in_cipi'ateorum qui sint semel a te liberati timore. L'argomento è quanto meno strano: perché tanti già graziati da Cesare dovrebbero temere un suo ripensamento o un suo residuo rancore, e vivere cosi in perenne angoscia? Evidentemente non c'è più fiducia nella sua clemenza, e se non la ribadisce con nuove assoluzioni, finirà per perdere la sua immagine magnanima. Il tema, non nuovo, riprende il paradosso più singolare della pro l.igario, ma due elementi sorprendono: la franchezza nell'esposizione (motivo fondamentale di difformità dal clima del1'altro discorso), e l'atmosfera di sospetto e di paura. Gcerone sottolinea che ormai il regime cesariano è sentito come una tirannide, in cui

2.56

i cittadini vivono in continua precarietà, esposti agli arbitrii del dominatore. Che poi, oltre che la denuncia di una situazione più o meno vera, può essere pure una minaccia: dallo stato d'animo spaventato dd popolo l'autocrate può attendersi una reazione ostile; insomma, sollicitudosempiternadeve averne anche lui. Poco oltre, al par. 40, il terzo passaggio sulla falsità ddla clemenza: multa sunt monumenta clementiaetuae, sed maxima eorum incolu-

mitatesquibus salutem dedisti.Aspra l'ironia: dire che la maggior prova della clemenza è l'incolumità dei graziati sembra una tautologia, ma è in effetti una negazione ddla clemenza stessa, se è già una fortuna conservare la vita concessa dal dittatore! Che -lascia pensare l'autoredi solito la toglie, dopo, confermando la sua ipocrisia. In tutti i tre passaggi sul tema mi pare evidente un richiamo alla sorte di Marcello, tipico caso di grazia smentita nei fatti (l'oratore fa sempre mostra di credere all'implicazione dd dittatore ndla sua morte). In questa luce i brani acquistano straordinaria pregnanza e l'ironia si carica di toni . foschi e di umorismo macabro, vicino alla pro Marcello. È curioso notare la ripresa, nei paragrafi finali, di altre due tematiche delle precedenti «cesariane»; una, dalla peroratiodella l.igariamf:'J, al par. 42, sulla memoria di Cesare; a nome dd dignitario di Deiotaro addetto a lui nd soggiorno in Galazia, l'oratore dice: memoriam tuam imploraiqua valesplurimum.Come nell'altra orazione, la frasetta rimarca ironicamente l'ingratitudine e l'opportunismo dd dittatore, pronto a ricordare solo le offese e non i benefici. L'ironia si appunta nell' epifrasi, sede privilegiata, e insiste sull'intenzionalità di certi atteggiamenti di Cesare. Se fosse in buona fede, ricorderebbe l'assenza di pericoli durante l'ospitalità ricevuta, stante la saldezza ddla sua memoria: l'apparente dimenticanza, alla quale la forza del superlativo plurimum nega credibilità, cda dunque malafede. Più importante, al par. 41 ss., l'insistenza sulla devozione a Deiotaro dei suoi funzionari, al punto da volersi far attribuire loro la colpa degli attentati, se saranno riconosciuti veri. In particolare corporasua pro CTr.pro Lig.35: speroetitJmte qui obliviscinihil solesnisi iniurias... te aliquidde huiusilioquaestorioofficioetiamdealiisquibusdamquaestoribusreminiscentemrecordari. 60

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salute regumsuorum bi legatiregiitradunt61 ricorda da vicino pro Mare. 32, l'offerta a Cesare dei senatori e dei boni di non modo excubiaset custodias,sed etiam laterum nostrorumopposituset corporum.L'atteggiamento sembra identico, ma se ll la promessa era ironica e minacciosa, la sincerità dei sudditi di Deiotaro denota l'amore di un popolo per il suo sovrano, contrapposto all'ostilità suscitata da un tiranno. Il luogo va notato perché contribuisce a richiamare, nel finale dell'ultima «cesariana», le precedenti. Come se, nelle intenzioni dell'autore, la pro Deiotaro fosse destinata a chiudere un'epoca e a sigillare la piccola raccolta; come se egli prevedesse (e forse lo prevedeva) che con Cesare non ci sarebbero state altre opportunità di dialogo e che la sua morte, di na poco, sarebbe venuta a concludere la breve esperienza di questo nuovo genere di oratoria. Quasi in Ringleomposition,dunque, le tre orazioni si richiamano, a suggellare l'intima unità che le pervade e l'indissolubilità della loro natura 62 , compendiando nell'ultima le loro tematiche fondamentali. Una ripresa, però, non più (unzionale alla persuasione del dittatore, ma solo alla riaffermazione della giustezza della visione politica ciceroniana. Dunque accanto all'intento di sintetizzare al tiranno tutte le antiche accuse da lui mai prese sul serio, anche l'orgoglio di ricordare la propria lungimirante saggezza anima la pro Deiotaro. Il riepilogo e il compendio delle linee portanti delle «cesariane» nel finale dell'ultima non significano però solo questo: ci si avverte davvero la consapevolezza dell'autore, stanca e amara, ma lucida, di aver concluso un ciclo e un'esperienza umana e politica, drammatici forse, ma certo ricchi di passione e d'ideali sentiti e sofferti.

Non sfugga la concentrazione di termini attinenti alla regalità ("gum ... "git), polemica con la posizione irregolare di Cesare:per un re -sembra dire Cicerone- i sudditi sono anche pronti a sacrificarsi, ma per un tiranno illegittimo come lui proprio no! 62 Si ricordi, ad esempio, che la pro ligario, tradizionalmente considerata successiva alla proMarcello,contiene nd finale un richiamo a quell'episodio: anche tra le prime due «ccsarianc» l'autore tiene a segnare uno stretto legame ideologico e tematico. 61

258 CONO.USIONI

Anche la pro Deiotaro,dunque, si rivda coerente e logica ad una lettura ironica. Anzi, solo in quest'ottica trova un'autonomia e un'originalità non evidenti ad un'interpretazione letterale. A tutta prima, l'orazione appare scialba, stanca, impersonale, priva delle peculiarità delle precedenti, al punto da sembrare un prodotto «minore» dell'doquenza ciceroniana. In effetti, a parte qualche sprazzo di vivacità sui temi «tecnici» del processo, non sembra segnalarsi per meriti originali: gli spunti «politici», ripresi in modo più o meno banale dalle altre «cesariane», si distinguono solo per asprezza polemica. In particolare, la riduzione a tema marginale della clemenza, demento essenziale per un'interpretazione non ironica di questi discorsi, priva la difesa di Deiotaro di senso e valore, rendendone irriconoscibile il messaggio. Nel segno dell'ironia, invece, l'orazione cambia aspetto: la banalizzazione dei temi-base dei modelli si giustifica con la comparsa di argomenti nuovi e più pressanti; la cupa tensione sottintende una volontà precisa di denuncia; gli eccessi retorici sono la traccia dd conflitto tra esigenze d'ironia e di franchezza. Il messaggio, drammatico e profondo, pienamente calato nell'attualità politica, si distingue per concretezza derivantegli dall'abbandono di ogni speranza di «recupero» del regime cesariano. Nella rinuncia a persuadere il dittatore sta infatti la grande frattura con le altre «cesariane», lo snodo fondamentale che segna il ritorno dell'ultima nel solco dell'oratoria tradizionale. Nella prevalenza dello sconforto sulla speranza è la radicale differenza dalla pro Marcello:D, pur nell'incertezza dei mezzi, il fascino di un'idea sorreggeva il discorso. E soprattutto la fiducia nella parola come strumento di persuasione caricava l'orazione di orgoglio appassionato. Assai diverso lo scenario della pro Deiotaro:l'idea adombrata nell'altro discorso s'è fatta quasi realtà, ma nei termini n esposti solo come minaccia. Il rovesciamento dell'autocrazia cesariana non può apparire agli occhi di Cicerone una soluzione definitiva, ché fin dai tempi dd De re publica aveva avvertito l'indudibile necessità di un capo unico per lo Stato ed aveva sperato nelle grandi qualità politiche, umane e culturali del vincitore di Farsàlo. In realtà l'ultima «cesariana»,

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con la decisione del tirannicidio, o almeno con la presa di coscienza del declino politico del dittatore, segna l'estrema disfatta dell'ideale ciceroniano del princeps.Perciò la gioia per il crollo del tiranno non ha la meglio sull'amarezza: c'è, sl, la soddisfazione di dimostrargli la giustezza dei propri consigli, ma non basta a compensare il senso di sconfitta, non dissolto neppure dal vagheggiamento di un passato in fondo irrecuperabile. · Quasi superfluo, dunque, soffermarsi sulla distanza ideologica, oltre che stilistica, ddla pro Dei'otarodallapro Ligario:separate da un anno travagliatissimo per l'autore e decisivo per la definizione del nuovo regime, le due orazioni riflettono stati d'animo antitetici: nella prima domina la speranza ancora integra di persuadere Cesare al ritorno alla repubblica; nell'ultima, dopo il crollo di quella fiducia, la disillusione. Eppure proprio Cicerone, con i continui richiami allapro Ligario, indica tra i due discorsi intrecci e punti di contatto sul piano tecnico e strutturale (sono entrambe orazioni giudiziarie), ma anche formale ed ideologico. Tutto però, persino la comune natura giudiziaria, sembra dividere anziché unire i due testi: se la pro Ligano è tecnicamente una deprecatio(la forma più adatta ad un discorso sulla clementiaCaesaris), la pro Deiotaroè una difesa tradizionale, divisibile in ena"atio, argumentatio,con/utatioe peroratio.Ma quella depreca/ioha ben poco d'implorante e di patetico (a parte gli eccessi di adulazione ironica) e questa difesa si risolve in un'accusa: segno dell'assunzione di entrambi i generi solo sul piano estrinseco e del valore poco più che formale della loro classificazione. I contenuti profondi esulano dalle scelte esteriori e improntano i testi nel senso dell'unità e della continuità: la denuncia, la polemica, la critica, la rievocazione del passato, l'orgoglio pompeiano le attraversano e le permeano entrambe con i toni diversi richiesti dalle circostanze e dagli umori, ma con identico spirito. E ancora, analoghi l'impiego delle risorse ironiche e di elementi strutturali (come l'identificazione di personaggi con altri o con valori etici fondamentali), gli spunti autobiografici, le tracce tematiche minori. È sul piano stilistico ironico che meglio si misura la distanza dell'ultima «cesariana» dalle prime due: debitrice ad esse della sua coloritura ironica e dei mezzi d'impiego del sarcasmo, la pro Deiotaro

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non può tuttavia conservarne il fine né il senso dell'ironia, per la differenza dei messaggi e degli scopi. Incapace però anche di staccarsi del tutto da precedenti così ben riusciti, l'orazione si presenta come un ibrido della loro ironia: a tratti riprende lo humour leggero e divertito della pro Ligariocon i suoi giochi di parole e i suoi compiaciuti paradossi a tratti la solennità, il sarcasmo feroce, il macabro umorismo della pro Marcello.Molte scelte lessicali, molti recuperi di stilemi ironici privilegiati risalgono all'uno o all'altro modello, eppure la pro Dei'otaro conserva un'impostazione originale, un'unità fondamentale in cui le riprese appaiono come visibili sovrapposizioni. A causa di ciò il testo rappresenta un'inversione di tendenza rispetto ai due esperimenti precedenti e l'ironia, n impiegata in modo nuovo e insospettato, tende a rientrare negli schemi consueti dell'oratoria repubblicana. La ragione di fondo di tale involuzione è semplice: nella pro Ligarioe nella pro Marcellol'Arpinate sentiva di aver a che fare con un dominatore unico, coglieva tutte le novità della situazione politica e giuridica rispetto alle regole tradizionali e capiva di dover adeguare a questi mutamenti l' eloquenza, ormai difficilmente conciliabile con la libertà d'espressione. Unico compromesso possibile gli pareva l'ironia, capace di salvaguardare le due esigenze opposte di chiarezza sostanziale e di cautela formale, anche sotto la veste dell'adulazione. Nella pro Deiotarole mutate esigenze, il messaggio diverso, e soprattutto la nuova posizione di Cesare impongono ulteriori cambiamenti: se prima egli era il despota unico, da «convertire», ora, perso il sostegno popolare, è solo la vittima designata di un progetto di restaurazione repubblicana. In quest'unica veste appare come nemico vinto, awersario ormai alla pari, simile ai tanti competitori nelle contese politiche o giudiziarie del passato. L'unificazione degli uditorii, dei messaggi e dei livelli di lettura riporta appunto alla prassi oratoria repubblicana, con la sua ironia diretta ed esplicita, utile solo a rafforzare le proprie posizioni o a demolire le argomentazioni awersarie. Così la pro Deiotarocorregge anch'essa a suo modo -dopo la pro Marcello-gli scarti della Ligananatra i due livelli d'interpretazione, ma in maniera né originale né innovativa, con un semplice ritorno agli scherni della tradizione. Ben altrimenti il

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problema era stato risolto nella pro Marcello,con l'unificazione, pur nell'evidente distinzione, dei due livelli interpretativi: si era realizzato ll un vero miracolo di equilibrio ironico, reso possibile dal grande entusiasmo e dalla profonda convinzione, che la rendevano la più riuscita e moderna delle «cesariane» e dunque, nella misura in cui queste possono essere considerate le punte più innovative dell'eloquenza ciceroniana, l'orazione più «nuova» dell'Arpinate. Nella difesa di Deiotaro, invece, è come se Cicerone, persuso della vicina fine di Cesare, respirasse già un nuovo clima politico e, liberatosi di una tecnica oratoria consona a situazioni diverse, adeguasse il corso della sua eloquenza all'auspicato ritorno al passato. Ma la presenza stessa dell'ironia nell'orazione e la sopravvivenza di una necessità di cautela, accanto a quella di chiarezza, indicano a sufficienza quanto, nonostante le illusioni, egli si rendesse conto dell'illusorietà di una restaurazione repubblicana tout court.Dopotutto, Cesare era ancora un governante assoluto, e la libertà d'espressione non poteva rompere certi limiti formali, da cui pure avrebbe voluto slegarsi: di qui la lotta tra le due istanze fondamentali del testo. Dawero lacerata appare, anche nella forma, la pro Deiotaro, tra l'aspirazione ad un impossibile ritorno al passato e la consapevolezza che l'esperienza cesariana ha segnato una svolta ineludibile nella storia di Roma. Dall'ultima illusione di libertà della lotta contro Antonio nascerà l'eloquenza genuinamente repubblicana delle Philippicae,e sarà quella la vera involuzione dell'oratoria ciceroniana rispetto alle «cesariane»: la pro Deiotaro,tappa iniziale di questo cammino a ritroso, è però anche il documento, in un periodo in cui ancora gli eventi non avevano offuscato la lucidità dell'oratore (come awerrà dopo le Idi di marzo), della sua sfiducia nei propositi di Bruto e Cassio, in un ripristino delle forme repubblicane. Non a caso, a conferma della sua intrinseca ambivalenza, la pro Deiotaro,antesignana delle Phz1ippicae,è al tempo stesso l'archetipo più vicino, nella forma e nello spirito, alla prossima retorica imperiale. L'angoscia e la stanchezza, sue cifre di fondo, precorrono il sentimento diffuso di un'età precaria, priva di certezze e d'ideali; ma forse ciò che maggiormente anticipa l'eloquenza imperiale (e che fa di Cicerone un

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modello modernissimo per i posteri immediati) è proprio il destinatario unico, referente esclusivo di una retorica avviata a perdere la sua fun. zione di guida della società per divenire panegirico o suasoriaper il sovrano, o mero e vuoto virtuosismo di un'arte d'evasione dai problemi contingenti.

263 CoNSIDERAZIONI FINALI

La nostra proposta di lettura delle orazioni «cesariane» mi pare abbia condotto a risultati inediti e abbastanza sicuri che vale la pena riassumere. I discorsi si prestano senza difficoltà ad un'interpretazione ironica, che svela l'evoluzione del pensiero di Cicerone su Cesare nel periodo cruciale tra il 46 e il 45. Offrono altresì elementi non deboli per una plausibile disposizione cronologica, che vede la pro Marcello spostata dopo la pro Ligario, contro la tradizione. Solo attraverso l'interazione, d'altra parte, i due campi d'indagine, ideologico e cronologico, strettamente correlati, danno coerenza e verosimiglianza alla ricostruzione proposta. Proprio la discrepanza tra una lettura ironica della pro Marcello,valida e credibile -s'è visto-, e la sua cronologia tradizionale ha indotto ad esempio a rivederne la datazione, mentre la diversità del suo messaggio da quello della ligariana presume la sua posteriorità. I tre discorsi, uguali per impostazione ironica, per duplicità di lettura, di destinatario e di contenuti (una duplicità meno presente nella pro Deiotaro,prima tappa del ritorno ad un'oratoria «repubblicana») differiscono solo nel messaggio, la «chiave» più giusta per seguire i pensieri e i sentimenti di Cicerone. Dalla fiducia della ligariana all'ultimatum della pro Marcelloall'amaro bilancio della pro Deiotaro,tuttavia, un'identica impostazione strutturale (e un medesimo ideale repubblicano) unifica le tre orazioni, pur con le variazioni richieste dai diversi contesti, grazie allo strumento nuovo e flessibile dell'ironia. I mutamenti politici e giuridici, la figura dell'autocrate, sconosciuta a Roma, la fine della 1Wpp11