Il discorso di marca. Modelli semiotici per il branding
 9788842084624

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Libri del Tempo Laterza 408

© 2007, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2007

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Gianfranco Marrone

Il discorso di marca Modelli semiotici per il branding

Editori Laterza

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel settembre 2007 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8462-4

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Premessa

Un altro libro sulla marca? proprio ora che il fenomeno accusa – come sembra – i primi segni di cedimento? No, non c’è da preoccuparsi. Questo non è l’ennesimo volume sui miracoli che il brand offre all’azienda in perenne crisi, sulle strategie di gestione e di comunicazione che essa può o deve praticare per navigare le acque tempestose della brutale concorrenza e per approdare nella terra mai ferma di una cultura sociale in ambigua, continua trasformazione. E non è una nuova opera che discute le note riflessioni delle scienze sociali e filosofiche sul ruolo indiscreto dell’immateriale nell’universo complesso dei processi di consumo, in quella economia simbolica – se non addirittura immaginaria o fittizia – che sembra foraggiare a più non posso i mercati perennemente minacciati dalle sovrapproduzioni di beni e dalle agguerrite nuove realtà produttive. Né tantomeno è un rinnovato attacco al sistema di potere che i megabrand globali più o meno surrettiziamente rappresentano, appiattendo le differenze culturali, trascendendo il ruolo degli Stati nazionali e instaurando un ordine economico che svantaggia sempre più i paesi del cosiddetto Terzo Mondo. Di tutto ciò abbiamo sentito e letto parecchio, con dovizia di particolari e riflessioni acute, in trattati, saggi, pamphlet, libelli, inchieste e testi d’ogni tipo. Non appare dunque necessario un altro libro che arricchisca la già sovrabbondante biblioteca sull’istituzione economica e sociale, politica e simbolica della marca. Di che cosa si tratta allora? Per certi versi, questo è un saggio sul metodo. Con tutte le conseguenze che una tale ambiziosa definizione porta con sé, in termini di una ricerca di rigore teorico che sappia tradursi in applicazione pratica, dunque in incremento di conoscenza. E a patto di intendere la metodologia non come un canone V

prestabilito ma come un organon flessibile. Non cioè – direbbe la filosofia critica – come un insieme di principi a priori che fissano l’uso legittimo della conoscenza, ma come un pacchetto coerente di regole d’uso, tanto sospettose quanto ragionevoli, che sappiano adattarsi alle situazioni pratiche senza abbandonare l’originaria volontà di sapere. I metodi d’indagine forniti da questo organon, plurali ma interdefiniti in un’unica visione teorica, saranno di derivazione e di natura semiotica. Piuttosto che ricette preconfezionate da applicare pedissequamente ai fatti di marca, si tratterà di modelli teorici da esportare in campi diversi da quelli nei quali sono nati, limitrofi ma non analoghi, allargandone il dominio ma al tempo stesso adattandoli, trasformandoli, traducendoli. La scienza e l’arte della significazione, quali si sono progressivamente delineate alla fine del Novecento sulla scorta di un’indagine a vasto raggio in ogni dominio del linguaggio, della società e della cultura, sono in grado di offrire al pensiero strategico della marca – è la scommessa di questo libro – un certo numero di indicazioni: ricostruendo il dibattito in corso; reinterpretando e riarticolando la vasta e complessa problematica; proponendo nuove e più precise griglie d’analisi; allargando il grado di consapevolezza delle strategie; suggerendo nuovi strumenti di gestione. Da qui l’idea di proporre non una generale semiotica ‘della’ marca, ma, più cautamente, una semiotica ‘per’ la marca, anche rispondendo alle richieste che gli specialisti del settore hanno a più riprese rivolto agli esperti di segni e di linguaggi, di testi e di discorsi, di simboli e di racconti quali sono – appunto – i semiologi. E da qui il tipo di lettore a cui questo libro vorrebbe rivolgersi, che non è né lo studioso duro e puro di semiotica né l’esperto navigato di mercati, ma qualcuno che si collochi a metà strada, ora andando a cercare nelle riflessioni sulla significazione originali vie d’accesso alle problematiche del brand, ora considerando il mondo delle marche come un felice terreno d’esercizio per la teoria e l’analisi semiotica. Ma il lettore modello di un testo, si sa, ha solo una funzione regolativa: va alla ricerca di lettori empirici, e soprattutto li invita a farsi a loro volta esploratori attivi in un campo di ricerca che, spero, verrà ulteriormente dissodato nel prossimo futuro. Le numerose persone che ho avuto accanto durante l’elaborazione e la stesura del libro hanno contribuito fortemente a radicare in me questa speranza. Per questo le ringrazio di cuore. E ringrazio soVI

prattutto Camilla Barone, Maria Claudia Brucculeri, Elena Codeluppi, Alice Giannitrapani, Dario Mangano, Francesco Mangiapane, Ilaria Ventura, che hanno inoltre discusso con me le varie fasi di questo lavoro, leggendo e discutendo le sue diverse versioni, regalandomi idee preziose ed evitandomi non pochi errori. Questo libro è dedicato a Laura e Matteo, per innumerevoli – mai ovvi – motivi. G.M. Palermo, aprile 2007

Il discorso di marca

1.

Destini ciclici di un segno puro

1.1. Natura semiotica della marca La marca è un fenomeno (o, meglio, un complesso insieme di fenomeni) di natura eminentemente semiotica. La marca è innanzitutto un marchio: un significante che, collegandosi a certi significati, genera effetti di tipo e rilievo variabile su cose e persone. E dal segnomarchio prende avvio una serie di più ampie questioni che – incrociando e trascendendo l’economia, il mercato, i consumi – riguardano le strategie di comunicazione, la produzione e ricezione dei discorsi sociali, le condizioni culturali della circolazione dei testi, le dinamiche dell’intersoggettività, la genesi delle credenze e la gestione della fiducia nelle persone e nelle istituzioni, le trasformazioni dell’immaginario collettivo, la costruzione e il riconoscimento dell’identità, l’incrociarsi di forme di vita. E potremmo continuare. Ad affermare e continuamente ribadire questa natura semiotica della marca sono economisti e sociologi, esperti di marketing e pubblicitari, studiosi dei consumi e filosofi. Molto meno, invece, semiologi. I quali, a fronte di questa conclamata pertinenza disciplinare, manifestano troppo spesso disinteresse nei confronti di un tale argomento, come a non voler vendere l’anima teorica al diavolo del commercio. Sbagliando, naturalmente. Non solo perché, così facendo, abbandonano un terreno di lavoro loro congeniale. Ma anche e soprattutto perché un tale aprioristico snobismo tacita quel circolo virtuoso tra ricerche semiotiche e intelligenza della marca che questo libro cercherà di mettere in rilievo. Da un lato la costruzione e la gestione della marca hanno tanto da guadagnare nell’uso dei modelli analitici e interpretativi della scienza della significazione. Dall’altro lato, quest’ultima può trovare nei fenomeni di marca un terreno 3

fertile per mettere alla prova, e conseguentemente in discussione, il proprio sguardo teorico sull’universo del senso umano e sociale. La marca, forma discorsiva suscettibile di assumere differenti sostanze socioculturali, è la verità della semiotica, l’ineluttabile certificazione di una sua necessaria esistenza in vita. La semiotica, dal canto suo, è la verità della marca, poiché le offre quella luce originale che permette di mostrarne i meccanismi profondi di funzionamento. Così, emergerà progressivamente nel corso di questo libro che la marca è un fenomeno di natura eminentemente semiotica per ragioni abbastanza diverse da quelle che di solito adducono gli esperti d’economia o di marketing, di sociologia dei consumi o di comunicazione pubblicitaria. Costoro – diciamo generalizzando – ritengono che la semiotica debba occuparsi degli aspetti cosiddetti ‘immateriali’ della marca, dunque di quegli svariati fenomeni simbolici, immaginari, narrativi ecc. che essa promana; laddove invece il core ‘materiale’ di essa, il suo hardware razionale ed economico, resterebbe di pertinenza di chi si occupa di cose concrete e pratiche, di beni e servizi reali, di denaro insomma. L’attuale prospettiva teorica degli studi semiotici supera però questo genere di aprioristiche distinzioni fra economia e comunicazione, funzionale e simbolico, reale e immaginario, hardware e software, contesti produttivi concreti e testi fittizi che metonimicamente li rappresentano. E lo fa in nome dell’idea (costitutiva della disciplina) secondo la quale i segni, i linguaggi, i testi, i discorsi sono per loro natura modi socioculturali diversi di mettere in relazione significanti e significati, espressioni e contenuti, forme e sostanze, dunque cose e idee, materie e pensieri, corpi e cognizioni, economia e simboli, facendoli in tal modo sussistere come tali. La marca non è un fenomeno costitutivamente schizofrenico che, per destino, mal si nutre di una doppia anima materiale e immateriale. Al contrario, essa è il processo discorsivo che, mettendo in relazione cose e valori, li genera come entità indipendenti. Come dire: prima viene la relazione, poi gli elementi che contraggono tale relazione. Se da un lato c’è il materiale dell’economia e dall’altro l’immateriale del simbolico, è perché una qualche istanza discorsiva – al tempo stesso, vedremo, linguistica e sociale, comunicativa e culturale – li ha generati costruendone il rapporto semiotico. Il denaro sta lì: nella relazione formale, non nelle sostanze di risulta.

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1.2. Dispiegamenti lessicali I dizionari ci permettono di cominciare ex abrupto la dimostrazione di questo assunto teorico – apparentemente astratto, e perciò a prima vista inadatto nella quotidiana gestione delle marche. Scorriamoli rapidamente. Laddove in lingue come il francese e l’inglese c’è praticamente un solo termine per indicare i processi in questione (rispettivamente marque e brand), in italiano ne esistono due, solo parzialmente sinonimi (marcare e marchiare, per quanto etimologicamente collegati, non sono nella nostra lingua operazioni sovrapponibili come in inglese o in francese). Innanzitutto, appunto, marca, che il Devoto-Oli definisce molto chiaramente «segno variamente impresso o applicato su un oggetto per indicarne la proprietà o la provenienza», e per estensione «casa produttrice, impresa industriale; prodotti di m. = fabbricati da una grande e rinomata ditta e quindi di qualità garantita». E poi, più interessante e articolato, marchio, definito dal medesimo dizionario «segno indelebile di riconoscimento; spec. quello che si stampa con un ferro rovente sui capi di bestiame o che, in passato, veniva impresso sulla pelle di chi si fosse macchiato di delitti infamanti»; da cui per metonimia il significato di «impronta infamante destinata ad accompagnare l’individuo per tutta la vita» (per esempio «il m. del traditore»), di «segno inconfondibile, carattere peculiare o emblematico» (per esempio «Dio ha messo in ogni uomo il marchio del suo dominio») e infine di «contrassegno di cui sono muniti i prodotti di imprese industriali o agrarie (rispettivamente m. di fabbrica o m. di origine)». Così, nella semantica della lingua italiana il significato tecnico attuale di marca (intesa comunque come «casa produttrice») è l’estensione figurata di un segno che ha una precisa caratteristica funzionale: quella di venire «impresso» o «applicato» su un oggetto per indicarne provenienza e proprietà; di modo che, qualora la «ditta» sia «grande» e «rinomata», ne viene fuori una marca. La marca, secondo la percezione del parlante medio italiano, nasce dalla rivendicazione di proprietà da parte di una grossa azienda che ha raggiunto una notorietà positiva, una qualche fama. Ciò perché il marchio, prima d’essere «contrassegno» di prodotti industriali, è segno indelebile impresso con ferro rovente nel corpo di animali di cui occorre attestare la proprietà, o in quello di uomini che si sono fatti autori di delitti infamanti, al punto da accompagnare tali individui per tutta la vita, manifestando nel teatro del mondo 5

le loro terribili malefatte. Insomma, per esserci marca ci dev’essere in primo luogo un evento o elemento straordinari: qualcosa che, eccedendo la norma sociale, riceve un sigillo evidente e incancellabile, e perciò acquista pubblica notorietà. Tutto questo a prescindere dal fatto che la fama sia positiva o negativa, e che il segno sia impresso nel corpo d’un traditore, su un oggetto industriale o su un agnello: quel che importa è il nesso causale tra l’impossibilità di cancellare il segno e la diffusione della fama di chi, a seconda dei casi, lo riceve o lo imprime. L’idea di un’intensa e irreversibile trasformazione del mondo fisico sta del resto già nell’etimologia di brand. In francone il verbo brennan sta per «ardere», «bruciare», e brand sta per «incendio», «cosa che brucia» e quindi metonimicamente per «spada fiammeggiante». Brand è anche, per sineddoche, il pezzo di legno incandescente, il «tizzone». Così, oggi l’inglese brand può esser tradotto con «tizzone», «marchio a fuoco», «marchio d’infamia, stigma», «marchio commerciale, marca, qualità (di merce)», «spada, brando», e to brand sta per «marchiare, stigmatizzare, tacciare» (per esempio «he was branded as a dangerous terrorist by the newspapers»), «imprimere nella memoria» (Hazon). A metà strada fra l’inglese e l’italiano è il marque francese che, assimilando marca e marchio, indica «segno materiale, impronta fatta su una cosa per distinguerla, riconoscerla», «segno infamante che s’imprimeva sulla pelle di un condannato», «segno distintivo applicato su una cosa da colui che l’ha fabbricata», «impresa che fabbrica prodotti di marca» (Petit Robert). Anche in questi casi, insomma, la natura cognitiva della marca – legata alla distinzione e al conseguente riconoscimento – si lega a fattori di ordine somatico e sociale: l’uso forzatamente pubblico del corpo, la sua violenta trasformazione culturale, è al tempo stesso l’instaurazione di una differenza fra le cose, la possibilità di una qualche catalogazione del mondo. L’immateriale del senso emerge grazie all’iscrizione sociale della carne. Il corpo diviene luogo e veicolo di significazione. I dizionari, inoltre, non possono non registrare l’uso tecnico dei termini marca e marque all’interno della linguistica strutturale – un significato che riuscirà particolarmente utile per la nostra trattazione. All’entrata marca del Devoto-Oli, infatti, si legge anche: «In linguistica, particolarità fonologica o morfologica la cui presenza caratterizza uno dei due elementi di un’opposizione binaria rispetto all’altro: per es. in fonologia l’occlusiva sonora b di banca rispetto alla sorda p di 6

panca, oppure in morfologia la -s che in inglese oppone il pl. dogs al sing. dog». Analogamente il Petit Robert registra in marque: «Tratto pertinente (fonologico, morfologico, sintattico) la cui presenza o assenza in un’unità linguistica data fonda un’opposizione». La marca, cioè, s’oppone alla non-marca: è un tratto linguistico che, presente in un elemento e assente in un altro, fa sì che questi due elementi finiscano per creare un’opposizione pertinente, significativa. In tal modo, si dice, l’assenza di un tratto è anch’essa significativa, forse anche più della sua presenza: fenomeno che porta con sé, vedremo, una straordinaria serie di conseguenze teoriche e pratiche. 1.3. Corpi marchiati e rivendicazioni di proprietà Possiamo così doppiare la questione del lessico con quella della storiografia. Se infatti, com’è stato più volte ribadito, la marca si modifica nel corso del tempo in funzione delle trasformazioni economiche, sociali e culturali, è anche vero che la sua storia segue ritmi propri, ha una cronologia relativamente autonoma, dove i vari momenti non si succedono secondo una logica evolutiva ma tendono anzi a ripresentarsi in periodi storici e situazioni socioculturali anche abbastanza diversi. In questa prospettiva, così come l’etimologia del termine ci ha dato alcune preziose indicazioni teoriche senza alcuna pretesa di darci la verità nascosta della cosa, allo stesso modo nella storia della marca non va cercata né l’origine ancestrale né l’ultima tendenza, come se fossero fonti privilegiate per comprendere l’essenza del fenomeno. Per esempio, se la preistoria della marca (come ci ha detto la ricognizione lessicografica) sta nella marchiatura a fuoco – ora del bestiame ora dei malviventi –, dunque in un segno che funziona innanzitutto per la sua perennità, certi odierni tatuaggi dei logo delle marche multinazionali – Nike innanzitutto – sul corpo di consumatori fanatici ripropongono il medesimo gesto di eternizzazione del marchio, semplicemente invertendone il senso. Del resto, sappiamo che nelle fiabe folkloriche e nei grandi miti l’eroe viene riconosciuto come tale proprio perché, al momento della Lotta contro l’Antagonista, subisce un’operazione di marchiatura: è grazie al segno che gli resta indelebilmente impresso nella carne che, tornato nello spazio proprio, potrà essere distinto dai falsi eroi e finalmente premiato per il suo operato, appunto, eroico (Propp 1928). Così, prima ancora che il marchio emerga nei commerci come segno forte di qualcosa, sorta di indice che rinvia a un referente esterno, esso 7

è tramite il corpo segno puro, significante che rinvia solo a se stesso, esattamente come il logo odierno è un significante che, assumendo qualsiasi possibile significato, finisce per valere socialmente in quanto tale, più per le sue proprietà visive ed estetiche che non per i valori semantici variabili che lo attraversano. Se la marca nasce ufficialmente, com’è noto, con la rivoluzione industriale, già negli antichi commerci per mare compare il marchio impresso sulle suppellettili, sorta di trademark per riconoscerne la provenienza geografica, il produttore ma soprattutto il proprietario, rispetto agli altri manufatti anonimi che stanno loro accanto nella stiva. Così, il marchio nasce profondamente ambiguo, la sua origine è in effetti uno spostamento: si opera sugli oggetti ciò che già si faceva sui corpi, si trattano magicamente le cose come persone; le si nomina come pertinenti, le si dota di un’identità positiva nel momento stesso in cui le si assoggetta. Si è qualcosa se si è di qualcuno. Seguiamo le tappe logiche di questa operazione: innanzitutto si marca un oggetto, che si distingue dagli altri che non lo sono (secondo lo schema ‘a vs non a’); poi si rapporta questo oggetto con un soggetto (produttore, proprietario) o con un luogo (provenienza); poi ancora si differenzia l’oggetto marcato da altri marcati in modo differente (lo schema diventa ‘a vs b’); si attribuiscono all’oggetto alcune proprietà come qualificazioni intrinseche (per esempio la robustezza o la funzionalità); si attribuiscono all’oggetto proprietà estrinseche derivanti dal produttore, dalla provenienza o addirittura dalla sua commercializzazione (per esempio la puntualità nella consegna delle merci); si reitera nel tempo la relazione veridittiva fra aspettative (il prodotto dovrebbe essere così) e loro appagamento (è veramente così); si costruisce la reputazione del prodotto; si attribuisce fiducia al produttore, alla provenienza o al proprietario commerciante. Le principali caratteristiche formali della marca moderna sono praticamente già presenti, mancano le sostanze industriali che in quantità le riempiano. Quel che è stato tacitato è però il carattere socialmente arbitrario della marchiatura dell’oggetto, la valenza magica di quest’atto che, trattando le cose come corpi, inscrive in esse una situazione sociale di dominio dell’uomo sul mondo, ma anche dell’uomo sull’uomo. La trasformazione produttiva dal manufatto artigianale alla merce industriale farà il resto, creando la marca come entità necessaria per la gestione di una situazione nuova, e francamente difficile: i prodotti si moltiplicano e divengono merci su larga scala, nasce il mercato di massa; questi oggetti, però, sono prodotti in serie e si diffe8

renziano solo per loro eventuali proprietà oggettive (qualità, prezzo...), mai per ragioni soggettive e relazionali; la merce è infatti anonima, non ha relazioni evidenti col produttore; è sola, non c’è più la mediazione soggettiva del venditore che la personalizza, ma una complessa rete di distribuzione che la diffonde; grazie alle innovazioni tecnologiche, poi, la merce è una cosa sempre nuova, e il consumatore non sa bene che cosa sia effettivamente. Con l’emergere del consumo di massa, s’afferma la marca moderna: dalla produzione su larga scala discende il crescente benessere economico che fa aumentare la domanda non solo quantitativa, ma anche e soprattutto qualitativa; aumenta la concorrenza fra produttori e conseguentemente fra merci; cresce l’innovazione dei prodotti, e con essa la loro qualità. La marca diviene necessaria perché nasce l’esigenza di trovare una differenza nella standardizzazione. Di modo che la marca moderna è qualcosa che si aggiunge al prodotto, per differenziarlo, è un segno di distinzione (rispetto alla produzione in serie) e di qualità (rispetto alla concorrenza). In questo, essa viene fortemente aiutata dalla comunicazione (moltiplicazione della pubblicità, ma anche cura del packaging, organizzazione dei punti vendita, diffusione delle promozioni, invenzione delle sponsorizzazioni ecc.). Si iniziano a studiare i consumatori, a considerarli persone e non solo numeri. Nasce una vera e propria cultura d’impresa, che non si cura tanto del possesso dei beni di produzione e della gestione del capitale, ma tiene conto di tutto quel che è accaduto: il brand manager deve gestire quest’esigenza sociale di differenziazione delle merci, questo desiderio diffuso di qualità delle merci. È così che la marca moderna, nata da una logica prettamente economica, razionalistica, calcolatrice, fondata sui bisogni e le possibilità oggettive d’acquisto, progressivamente tende a diventare qualcos’altro. Un soggetto che trascende l’azienda produttrice per mediare fra questa e il consumatore, stimolando, mantenendo e trasformando le relazioni fra i due attori in gioco, è garanzia di qualità offerta al consumatore; ma è anche esito della fiducia del consumatore nel produttore. Si innesca la necessità della costruzione e della gestione di un solido patto comunicativo, affinché la qualità del bene o del servizio sia funzione della buona relazione fra produttore e consumatore. La marca diviene uno degli elementi del marketing mix, qualcosa che – ripetono economisti ed esperti di mercato – incrementa il valore del prodotto, simbolicamente e dunque economicamente. Se per una visione commerciale è argomento di vendita, in una prospettiva indu9

striale è fonte di innovazione; se dal punto di vista finanziario è valore aggiunto, per i pubblicitari è supplemento d’anima e per il marketing mediazione necessaria. In ogni caso, essa è, esplicitamente, al servizio del prodotto, mezzo sapiente per un fine che è ancora, in un modo o nell’altro, sostanzialmente economico. A dispetto di chi tuttora continua a pensarla in questi termini, oggi però la marca è radicalmente cambiata. Per calcolo o per caso, essa sta progressivamente prendendo il posto di quelle «grandi narrazioni» che, secondo i teorici del cosiddetto postmoderno (Lyotard 1979, 1986), si sarebbero vanificate come progetti valoriali d’organizzazione dell’esperienza umana e sociale, di quelle ideologie religiose, politiche, sociali ecc. che hanno caratterizzato il pensiero e la prassi della modernità, contribuendo a produrre e alimentare i suoi sistemi di valori. Sono le marche, oggi, a farsi garanti non più e non tanto della qualità dei prodotti, e nemmeno soltanto della buona reputazione delle aziende che li propongono sul mercato, ma anche e soprattutto dei valori che in quei prodotti possono più o meno inscriversi e che in ogni caso circolano nella cultura sociale. La marca parla, è ovvio, attraverso alcuni suoi specifici strumenti comunicativi, ma della marca più in generale si parla nel mondo dei media: dal medium più antico del mondo – i rumours e le dicerie studiate da Kapferer (1987), non a caso poi grande esperto di marche – ai giornali, dalle televisioni alle chat sulla Rete. La marca postmoderna ribalta così, a poco a poco, la sua relazione col prodotto: si sgancia da esso, vive di vita propria, rapportandosi direttamente al mondo immaginario e valoriale dei consumatori, cioè degli attori sociali che costruiscono sempre più la loro identità patchwork vagando da uno stile all’altro, da un gusto a un altro, da un sistema di valori a un altro, da una marca all’altra senza soluzione di continuità. In questo quadro, la marca non vive in funzione del prodotto ma, anzi, è il prodotto a farsi manifestazione testuale della marca, a incrementarne lo spessore simbolico, a garantirne la riconoscibilità. La marca si colloca allora al centro del marketing mix, mentre il prodotto – insieme al prezzo, alla comunicazione, alla distribuzione e al punto vendita – costituisce la sua base, per così dire, di rifornimento simbolico e valoriale. Non è più Apple a esser costruita in funzione dell’iPod, è il prodotto iPod a rafforzare il capitale – immaginario e materiale al tempo stesso – della marca Apple. Come accade tutto questo? A esser brevi, per ironico paradosso: in un periodo di grande agiatezza ed euforia dei mercati, databile 10

grossomodo negli anni Ottanta del Novecento, dalla marca come differenziazione dei prodotti in serie e garanzia della loro qualità si passa alla marca come status symbol, dunque alla marca per la marca: nascono la griffe e la sua vistosa ostentazione su ogni supporto possibile, pura esibizione del lusso di massa, contro cui immancabilmente si scagliano le proteste anticonsumiste del periodo («scoccodrillai mille Lacoste», si cantava in quegli anni). Così, tutte le marche divengono uguali (si è griffati o non lo si è), e la marca diviene segno di se stessa di contro al mondo non marcato che le si oppone. Dallo schema ‘a vs b’ impostosi nella modernità si torna surrettiziamente insomma a quello di partenza ‘a vs non a’, che fa capolino ogniqualvolta la potenza delle marche rivela beffardamente la loro costitutiva fragilità. Certo, della griffe può farsi un uso ironico, al quadrato, come risposta alle pedanti, cicliche proteste contro il consumismo che le marche, per principio, rappresentano. In ogni caso, appare evidente che la marca torna a essere distintiva in un duplice modo: differenziandosi da altre marche, ma prima di tutto differenziandosi da quelle non-marche (per esempio, gli hard discount) o anti-marche (per esempio, Consumo equo e solidale) che poi immancabilmente finiscono per essere risucchiate nei suoi meccanismi euforicamente perversi. Il marchio è allora segno vuoto, significante che deborda oltre i confini istituzionali della significazione: logo che si offre sul mercato dei desideri e dei valori, prestandosi a dire qualsiasi cosa possa essere in quel frangente necessaria, ben sapendo che saranno quei significati stancamente assunti, più o meno inconsapevolmente, a veicolare in effetti le sue qualità sensibili, unica realtà semiotica degna d’essere trasmessa nello spazio sociale e nel tempo mediatico. Per questo la marca cosiddetta postmoderna, schivando le maglie della razionalità economica e le stesse strategie di mercato, si pone come pura forma capace di assumere sostanze diverse, dalla politica al turismo, dallo spettacolo all’umanitarismo, dall’educazione alla gastronomia ecc. – vettore forte di un senso qualsiasi, purché ce ne sia uno. (L’uso del termine ‘postmoderno’, per molti osservatori e studiosi ormai invecchiato, risulta essere allora, in questo contesto specifico, particolarmente calzante: come ha ricordato lo stesso Lyotard [1986], con questo termine non si vuol indicare un superamento radicale della modernità, ma, per quanto paradossalmente, un suo inveramento, la manifestazione di qualcosa che, in fondo, nel moderno era già surrettiziamente presente, il suo «futuro anteriore». 11

Così, la marca postmoderna, come s’è visto, non è altro che una radicalizzazione di quella moderna, la sua ‘verità’.) Detto ciò, il fenomeno della marca – che contiene, anche contraddittoriamente, pressoché tutti i momenti della sua storia – può essere spiegato e compreso a partire da moltissime prospettive, disciplinari e politiche, filosofiche ed estetiche. Da quella più tecnica e operativa del marketing (Kotler e Scott 1973; Kotler 2003) e del management (Keller, Busacca e Ostillio 1998) a quella aziendalista (Kapferer e Thoenig 1989; Aaker 1991; Kapferer 2000; Aaker e Joachimsthaler 2000; Kapferer 2002; Pratesi e Mattia 2006), da quella pubblicitaria (Séguéla 1982; Lombardi ed. 2001; Roberts 2004) a quella sociologica sui consumi (Codeluppi 2001; Fabris e Minestroni 2004), da quella socioantropologica (Sicard 2001; Remaury 2004) a quella storica (De Grazia 2005; Capuzzo 2006), a quella sociosemiotica (Semprini 1993, 1996, 2006). Per non parlare degli scritti politicamente avversi alla marca, come il celebre libro di Klein (2000), il cui successo è segno evidente della sensibilità sociale verso la questione, o la successiva denuncia di Quart (2003), preoccupata di come e quanto le attuali generazioni giovanili siano sempre più marc(hi)ate. Ma i testi qui citati sono solo pochi esempi fra i numerosi possibili, all’interno di una letteratura di settore tanto discontinua negli esiti quanto vasta per quantità e ampiezza. E anche la semiotica, per quanto come s’è detto sporadicamente, è intervenuta sulla questione, soprattutto grazie ai lavori di Floch (1990, 1995, 2006) e di alcuni suoi eredi diretti come Ceriani (2001, 2007), Chevalier e Mazzalovo (2003), Bertin (2003a). 1.4. Dal mondo possibile all’istanza discorsiva Qual è la specificità allora dello sguardo semiotico sulla marca? Se ci ricolleghiamo al catalogo di virtualità che la storia della marca ci ha proposto, e schivando il ricatto dell’‘ultima tendenza’ (per principio inverante), il luogo d’avvio di tale sguardo sta proprio nel fenomeno linguistico dell’opposizione fra termine marcato e termine non marcato (Trubeckoj, Jakobson), più volte discusso e utilizzato nella riflessione novecentesca delle scienze umane e sociali. Molti fenomeni linguistici, ci hanno ricordato i dizionari, costruiscono forme di opposizione fra un termine che vanta la presenza di un certo tratto (fonologico, morfologico ecc.), e che per questo è detto ‘marcato’, e un altro termine che non possiede quel tratto, ed è dunque 12

‘non marcato’. È una specie di diade sbilenca, detta infatti privativa, poiché oppone non due proprietà contrarie ma una presenza a un’assenza. Di modo che l’assenza, la negazione del tratto, sarà non meno importante della sua presenza. La cosa interessante sta però nel fatto, più volte sottolineato (cfr. per esempio Miceli 1982), che il termine non marcato finisce spesso per giocare un doppio ruolo: da una parte è termine dell’opposizione categoriale (per esempio nella coppia di termini italiani ‘uomo’ vs ‘donna’), dall’altra indica la categoria generale che riassume in sé l’opposizione (‘umanità’), vantando così un margine di manovra straordinariamente più ampio del suo opposto, il termine marcato, che apparentemente è quello positivo perché dotato di una qualche proprietà intrinseca. Come si sa, se nella lingua italiana ‘donna’ è generalmente il termine marcato, ciò non vuol dire che sia più importante ma esattamente il contrario (e gran parte delle disquisizioni politically correct partono proprio da questo genere di osservazioni: cfr. Violi 1986). Il non marcato può essere dunque ancora più importante del marcato, poiché tende a confondersi con la categoria generale: la quale a sua volta – instaurando una nuova opposizione detta partecipativa – può entrare in relazione ora con uno ora con l’altro termine (‘umanità’ vs ‘donna’; ‘umanità’ vs ‘uomo’). Ora, non è difficile accorgersi come nel caso della marca accadano fenomeni analoghi. La marca crea distinzioni, pone tratti positivi rispetto alla loro mancanza (‘di marca’ vs ‘non di marca’), ma crea anche posizionamenti (‘di marca a’ vs ‘di marca b’). Spesso, s’è visto, l’opposizione privativa slitta in quella qualitativa, e viceversa; ed entrambe poi sfumano in più complesse opposizioni partecipative. Una cosa è la marca che s’oppone alla mancanza di marca; un’altra è la marca che s’oppone a un’altra marca; un’altra cosa ancora è quando da un gruppo di marche che hanno tutte le medesime caratteristiche se ne distacca qualcuna che riesce a far emergere un suo specifico tratto differenziale. Il modello del quadrato semiotico, che spiegheremo oltre [cfr. § 3.2], articolerà la questione. Ma, nei fatti, i vari aspetti tendono spesso a confondersi: ciò che è contro la marca diviene una marca a sua volta; al punto che, proprio per imporsi sul mercato, ci si presenta come un soggetto che nega in toto il sistema delle marche, finendo per diventare una marca ancora più potente (si pensi al caso di Muji, marca di forte impatto perché priva di marchio). Ne deriva che, a ben pensarci, la marca va considerata quanto meno a due livelli: quello della categoria generale nel suo 13

complesso e quello dei termini che, opponendosi fra loro, l’articolano. Da una parte essa è l’esito di una marchiatura, dall’altra è l’atto stesso della marchiatura. Cosa che la rende, immancabilmente, vincente. A partire da questo meccanismo ambiguo della marc(hi)atura – in apparenza evidente, in effetti surrettiziamente bidimensionale – che regge in profondità l’esistenza stessa della marca, molte delle proposte definitorie che di essa sono state date appaiono deficitarie. Considerare per esempio la marca un mondo possibile, come ha proposto e ribadito più volte Semprini (1993, 1996) raccogliendo un certo numero di consensi (Codeluppi 2001; Ferraresi 2003), imposta la questione in termini di realtà e finzione, di una finzione mediatica che si fa ‘quasi-realtà’ esistenziale – di fatto reiterando quell’opposizione tradizionale di fondo fra materialità e immaterialità, reale e virtuale che dal punto di vista semiotico non ha alcuna ragion d’essere. I mondi possibili – secondo la filosofia del linguaggio, la semiotica e certa teoria letteraria (Volli 1978; Eco 1979, 1997; Corti 1997; Dolezˇel 1998) – non sono universi totalmente immaginari ma mondi fittizi che, per tutto ciò che non ricostruiscono esplicitamente al loro interno, restano parassiti del mondo effettivo della nostra esperienza, dipendono dunque fortemente proprio da quella realtà che vorrebbero superare, e a essa tornano molto spesso. Le marche non hanno questa prerogativa, poiché si innestano direttamente nella esperienza quotidiana del consumo e, in generale, nella vita quotidiana, contribuendo ad articolarla, dunque a dotarla di un qualche spessore di senso; l’opposizione, anche se debole, fra realtà e finzione per esse non ha alcun senso. Inoltre, il mondo possibile, se da una parte è parassita del mondo dell’esperienza comune, dall’altra, per definizione, non ha alcuna relazione con altri analoghi mondi possibili: è chiuso, impermeabile all’influenza esterna, senza contatto o dialogo. Le marche, al contrario, usufruiscono del meccanismo dialettico della costruzione identitaria sulla base del quale il Sé si determina in funzione dell’Altro, e viceversa – che è, a ben vedere, il principio strategico basilare del posizionamento. Come i miti, le marche si parlano fra loro: costruiscono e trasformano la loro identità, prima ancora che dotandosi di una forte coerenza interna, entrando in relazione con le marche complementari e concorrenti: cosa che viene esclusa dalla nozione stessa di mondo possibile, quale è stata formulata quanto meno da Leibniz in poi. Più utile invece la recente proposta dello stesso Semprini (2006) 14

di considerare la marca come un progetto di senso che, attraverso una serie di possibili manifestazioni empiriche, viene proposto a un consumatore che può più o meno accettarlo e farlo proprio, ridimensionandolo, trasformandolo, arricchendolo a partire dalla propria prospettiva esistenziale e valoriale, sulla base della propria cultura di riferimento. Tale progetto, fra l’altro, non viene creato arbitrariamente o casualmente dai gestori della marca, e meno che mai dalla corporate, ma si costituisce sulla base delle possibili aspettative dei consumatori, ripescando e riutilizzando dalla cultura sociale forme estetiche e contenuti tematici adeguati. Così, la diade progetto/manifestazioni – superando la semplicistica opposizione fra identità aziendale e immagine percepita – traduce in termini semiotici le classificazioni spesso estemporanee degli strateghi di marketing: se la marca è ‘al centro’ del marketing mix, ciò vuol dire, sostiene giustamente Semprini (2006), che essa è un qualcosa di astratto, un progetto di senso appunto, a condizione che tale progetto, per sussistere ed essere percepibile, sia dotato degli adeguati supporti materiali, di manifestazioni empiriche – ossia, tecnicamente, di configurazioni testuali. Detto ciò, questa dialettica fra progetto e manifestazioni va approfondita e articolata: una cosa è infatti – vedremo nel corso del libro – l’opposizione fra significante e significato, un’altra è quella fra enunciato ed enunciazione, un’altra quella fra racconto e discorso, un’altra ancora quella fra profondità e superficie. Fenomeni che è bene tenere distinti, non foss’altro che per poterli meglio articolare fra loro. Da qui l’ipotesi di questo libro: intendendo la marca come una particolare istanza discorsiva, dunque come un effetto di senso che è esito di una serie di meccanismi sottostanti di significazione, risulta possibile tenere insieme le componenti economiche, sociali e culturali che la caratterizzano, la trasformano, la sfaldano per ricomporla in altro modo. Innanzitutto, come sappiamo, il discorso nasce nella relazione fra un piano dell’espressione significante (côté materiale, ancorché articolato al suo interno) e un piano del contenuto significato (côté immateriale, anch’esso articolato a suo modo). Inoltre, questo discorso è tenuto da qualcuno a qualcun altro, personaggi che non solo sono in vario modo coinvolti nell’atto comunicativo ma, per lo più, vengono simulati al suo interno. Ancora: il discorso ha una natura sincretica, in quanto può manifestarsi in superficie facendo ricorso a testi di natura e sostanza diverse (verbali, visivi, gestuali ecc., ma anche legati all’azione umana e ai comportamenti istituzionali). Esso mantiene comunque una sua omogeneità 15

semantica poiché è dotato di regole proprie e, in più, è a sua volta manifestazione di strutture narrative sottostanti. Infine: il discorso entra in relazione con altri discorsi all’interno della cultura di riferimento, si incrocia e si ibrida, scatena conflitti o stipula accordi, in ogni caso si trasforma all’interno di una rete intertestuale, interdiscorsiva e intermediatica dove trova spazio anche la relazione metalinguistica di spiegazione o parafrasi. Ogni separazione fra discorso di e discorso su perde di valore. Il discorso, insomma, scorre in un processo, non è un’entità statica e monolitica ma un fenomeno in continuo mutamento – sulla base comunque di regole formali e astratte di tipo traduttivo che è possibile ricostruire ed esplicitare a ogni momento della sua complessa esistenza. È per questo che, più che di brand, è preferibile parlare di branding: un processo, non una cosa; un evento dinamico, non una situazione statica. Questo libro illustrerà una serie di modelli d’analisi semiotica, cercando ogni volta di esplicitare i riferimenti teorici sottostanti. Chi volesse approfondire il quadro d’insieme della teoria semiotica qui utilizzata può consultare: Barthes (1964a, 1985); Bertrand (2000); Eco (1975, 1979, 1984); Fabbri (1973, 1998, 2000); Fabbri e Marrone eds. (2000, 2001); Fontanille (1998); Geninasca (1997); Greimas (1966, 1970, 1976, 1983); Greimas e Courtés (1979, 1986); Hénault ed. (2002); Landowski (1989, 1997); Lotman (1985, 1993, 2006); Magli (2004); Marrone (2001); Marsciani (1999); Marsciani e Zinna (1991); Pozzato (2001), Rastier (2001); Volli (2000).

2.

Universi tematici

2.1. Una felice ambivalenza Di che cosa parla il discorso di marca? quali concetti mette in gioco, che tipo di nozioni o di messaggi? Prima di andare in cerca dei valori profondi a esso sottesi, delle storie che li fanno circolare, delle istanze che se ne assumono la responsabilità comunicativa o delle configurazioni estetiche cui dà luogo, quel che va individuato e interrogato al momento dell’analisi di un qualsiasi discorso di marca è l’insieme delle tematiche che esso propone al suo pubblico – le quali giocoforza costituiscono materia di continue negoziazioni, riformulazioni e ridefinizioni all’interno della cultura sociale. Del resto, il contenuto tematico di un discorso è ciò che alla fin fine resta impresso nel destinatario come risultato cognitivo, conseguenza passionale o stimolo pragmatico dell’attività comunicativa. L’universo tematico, in tal modo, è al tempo stesso il punto d’arrivo della ricezione comune e il punto di partenza dell’analisi testuale. Evidente all’apparenza, esso si rivela agli occhi dello studioso che ne ricostruisce le fattezze come il risultato conclusivo d’un lungo e paziente lavoro di costruzione semiotica: un qualcosa di dato che tende a nascondere il lavoro necessario per produrlo e a presentarsi come ovvio e naturale, intuitivo e immediato. Da questo punto di vista, il tema è più che altro ciò che si dice di una marca quando si vuol riassumere verbalmente il contenuto del suo discorso, nel momento in cui cioè si tende a rendere metalinguisticamente il messaggio trasmesso nel corso della sua attività comunicativa e della sua prassi significante. Quando si dice, per esempio, che Hermès veicola «lo chic borghese, l’eleganza discreta, il classicismo», che Ferragamo parla «di buon gusto, eleganza all’italiana, creatività, 17

qualità della creazione artigianale», che Louis Vuitton coniuga «il viaggio e l’eleganza elitaria» si sta condensando in alcune formule linguistiche molto semplici l’intero universo tematico di queste marche di moda: si sta ritraducendo in poche parole ciò che viene espresso dalle loro manifestazioni concrete, i loro prodotti, la loro comunicazione pubblicitaria, i loro punti vendita e così via – con tutte le conseguenze (di impoverimento, trasformazione, fraintendimento, arricchimento...) che ogni traduzione per sua natura comporta. Spesso questo genere di sintesi verbali del contenuto tematico tende a esplicitare con una formula stringata il cosiddetto ‘progetto’ della marca, ciò a cui essa tende rispetto al proprio pubblico. La presenza di un verbo all’infinito non è da questo punto di vista casuale, poiché segnala come dietro ogni tema sia sotteso in nuce un racconto: «rendere le donne orgogliose di se stesse» (L’Oréal), «unire le persone» (Nokia), «creare una cultura del caffè» (Starbucks), «rendere il lavoro conviviale e divertente» (Apple), «proporre un’alimentazione sana e golosa» (Danone) sono frasi apparentemente semplici che enunciano tematiche presenti nei rispettivi discorsi di marca. A ben vedere, si tratta di veri e propri abbozzi di quelli che nel prossimo capitolo chiameremo programmi narrativi: organizzazioni semiotiche che, mettendo in consecuzione logica una serie di azioni e passioni, danno senso a ciascuna di esse e a chi le compie. Ovviamente, queste verbalizzazioni/traduzioni del nucleo tematico del discorso di marca non sono sempre sintetiche, così come non sono necessariamente esterne. Possono darsi descrizioni del contenuto delle marche più o meno brevi e superficiali, più o meno lunghe e approfondite, sia in sede di discorsi sulla marca sia in sede di discorsi della marca – distinzione del resto che, come sappiamo, tende a essere neutralizzata nella cultura sociale data e nelle concrete esperienze di consumo. In tutti questi casi, comunque, quel che viene fuori è la costitutiva paradossalità dell’universo tematico: insieme di messaggi che emerge esplicitamente nel momento in cui si mettono fra parentesi le loro occorrenze testuali concrete, evidenza che si manifesta quando viene pervicacemente cancellato il lavoro semiotico che l’ha posta in essere. Assunta positivamente e controllata al momento della gestione del discorso, questa paradossalità del tema può essere per la marca un elemento felice. Sia perché, in termini teorici, essa permette di ricondurre alla categoria costruita di ‘universo tematico’ tutta una serie di nozioni che tornano spesso nella letteratura di settore (il ‘carattere’, le ‘alchimie’, il ‘territorio’, la ‘personalità’, il ‘magazzino 18

simbolico’...), le quali, proprio per la loro inconsapevole metaforicità, risultano essere poco utili alla comprensione e al controllo reali della marca. Sia perché, in termini pratici, con essa è possibile giocare il gioco dell’esplicito e dell’implicito, del detto e del non detto, dell’allusione e della presupposizione, senza necessariamente caricarsi della responsabilità enunciativa del discorso (come dire: «non sono io che l’ho detto, sei tu che l’hai pensato»). 2.2. La doppia costrizione del contenuto tematico Per questa sua costitutiva ambivalenza, il livello tematico del discorso ha costituito per gli studiosi di molte discipline un problema definitorio e interpretativo molto delicato, un fenomeno tanto più complesso da studiare quanto più semplicemente esso tende a presentarsi al pubblico empirico dei processi comunicativi. I teorici della letteratura e del racconto, i sociologi della comunicazione, i linguisti, i filosofi del linguaggio, gli esperti di estetica e di retorica hanno in vario modo affrontato la questione, incontrando non poche difficoltà a maneggiare una nozione apparentemente semplice qual è quella di tema, a fornire una definizione chiara e univoca di questa intuitiva ‘unità di contenuto’, a individuarne le configurazioni interne, a tracciarne i confini, a distinguerla da altre a prima vista analoghe quali quelle di motivo, topos, contenuto, argomento, topic e quant’altro. Quando, per esempio, in sociologia si lavora sulla cosiddetta content analysis, con metodologie statistiche talvolta sofisticate sebbene spesso prive di solide basi linguistico-testuali, non si fa altro che accostarsi all’universo tematico della comunicazione mediatica quale suo esito immediato e, per così dire, naturale, a prescindere dalle strutture formali che lo pongono in essere, dai meccanismi semiotici che lo hanno prodotto (cfr. le osservazioni di Trobia 2005). Quando in teoria letteraria ci si domanda quale sia l’argomento di un’opera narrativa, e soprattutto dove e come è possibile materialmente rintracciarlo lungo il corso del testo, ci si trova in serio imbarazzo e si ricorre a discutibili escamotage come la scomposizione del tema in «motivi», i quali spesso finiscono per identificarsi con alcune frasi chiave del racconto (cfr. Tomasˇevskij 1928; Segre 1981; Courtés 1986; Rastier 2001). Quando in linguistica si cerca di definire l’argomento di un enunciato (o topic) secondo criteri semantici oggettivi, si finisce per delegare all’interpretazione del destinatario la scelta circa ciò che esso dice, proponendo di fatto una 19

continua negoziazione fra l’intenzionalità del parlante e quella dell’ascoltatore, possibile solo in sede di pragmatica comunicativa; a meno di non rintracciare nelle macrostrutture profonde del testo in cui quell’enunciato viene inserito la produzione concreta del topic o, spesso, dei topics (cfr. Eco 1979; Violi e Manetti 1979). Ma non è indispensabile, in questa sede, ripercorrere la cronaca delle varie definizioni della nozione di tema, né valutarne le rispettive potenzialità analitiche e interpretative. Ci limitiamo a definire l’universo tematico di un discorso di marca come la sua materia del contenuto, ovvero – seguendo Hjelmslev (1943, 1959) – ciò che in linea di principio precede tale discorso in quanto nucleo concettuale da mettere in forma e da trasmettere, ma che in linea di fatto è la risultante finale di tutte le diverse, concrete performance discorsive. Il tema è dunque ciò che a livello di gestione di marca deve in qualche modo essere organizzato e valutato preventivamente a ogni attività comunicativa e a ogni prassi significante. Ma è anche ciò che si esplica e si afferma solo nel momento in cui entra in gioco l’attività ricettiva – cognitiva, passionale, pragmatica – del pubblico degli eventuali consumatori. Da qui alcune importanti conseguenze teoriche e metodologiche. Come sappiamo, nessun contenuto discorsivo è privo di supporti espressivi, dunque di un qualche elemento empirico – a sua volta articolato a vari livelli di complessità – che possa, appunto, esprimerlo. Non esistono contenuti puri, concetti astratti che circolano in quanto tali nella sfera culturale e sociale, ma significati solidali a significanti, nozioni veicolate da specifiche manifestazioni espressive. Da questo punto di vista, i cosiddetti concetti di comunicazione proposti a livello di marketing o di gestione aziendale non sono mai realmente tali, ossia entità ideali, se non facendo astrazione dei supporti testuali che li pongono in essere. Pensare un tema senza immaginarne già le fattezze testuali può comportare il rischio di una sua mancata messa a fuoco, di una sua reale ed efficace concettualizzazione. Allo stesso modo, invertendo la prospettiva, progettare una linea grafica, un’identità visiva o il lay-out di un punto vendita senza porsi il problema dei contenuti che tali significanti sono chiamati più o meno virtualmente a veicolare è correre un rischio analogo: la perdita del controllo sul discorso di marca, l’inconsapevolezza su quanto in ogni caso verrà a formarsi nella mente e nel corpo del pubblico al momento della sua ricezione. Il tema non è un concetto astratto, non può e non deve esserlo. 20

Sappiamo inoltre dallo stesso Hjelmslev (1943) che la materia del contenuto è ciò che viene formato semioticamente dando luogo a singole sostanze del contenuto, a specifici messaggi, ognuno dei quali è portatore parziale di tale materia supposta preesistente, approssimazione orientata di un nucleo di senso confuso e inarticolato. Così, ricostruire in toto il tema di un discorso significa, molto semplicemente, metterne a nudo le architetture, la serie complessiva dei meccanismi e delle strutture mediante cui, a conti fatti, esso esiste, persiste, funziona. Oltre ai vincoli fisici dei supporti significanti che lo veicolano, il tema è sottoposto a una seconda serie di costrizioni che sono di natura eminentemente semantica, tanto più complesse da reperire quanto più efficaci a livello comunicativo. Si tratta delle forme del contenuto, date in modo diverso nei vari livelli di pertinenza in cui è possibile analizzare la significazione umana e sociale (racconto, discorso, testo), ma presenti già a livello dei singoli termini linguistici o dei singoli tratti visivi che spesso si utilizzano per veicolare i ‘concetti di comunicazione’. Un concetto è, in senso stretto, una parola. Ma tale parola, nella prospettiva semiotica e linguistica, non è a sua volta un semplice concetto. È semmai un insieme virtuale di tratti semantici che, opponendosi ad altre parole della medesima lingua, dà luogo nei singoli contesti in cui ricorre a significazioni concrete anche molto diverse fra loro (Greimas 1966; Greimas e Courtés 1979; Rastier 1987). Apparentemente semplici e autoevidenti, le parole (o, in gergo tecnico, i lessemi) sono quanto di più complesso possa esistere nella realtà discorsiva. Sia perché, da una parte, si pongono al loro esterno in sofisticate relazioni di antonimia, sinonimia, omonimia, iperonimia, iponimia ecc. con altre parole appartenenti al medesimo codice semantico. Sia perché, d’altra parte, esse si configurano come veri e propri condensati di senso, riserve di contenuti diversificati dotate al loro interno di strutture proprie. Quando si dice, poniamo, ‘convivialità’ o ‘eleganza’ o ‘benessere’ o ‘naturalità’ si stanno usando, appunto, semplici parole. Tali parole, tuttavia, non veicolano concetti semplici ma nebulose di senso che nel discorso di marca sono suscettibili sia di divenire contenuti concreti (poiché espansi e articolati) sia di restare nuclei indeterminati di significati (poiché non strutturati o inespressi). L’abusato concetto di ‘convivialità’ potrà per esempio diventare, in concreto, la vicenda di un gruppo di amici che pranzano spesso insieme (Buitoni) o, più astrattamente, una maniera abbastanza disinvolta di vivere alcune relazioni sociali (Pe21

psi-Cola, Algida); oppure potrà restare soltanto un’idea confusa, priva di declinazioni interne o di manifestazioni espressive che ne supportino le opportunità comunicative. Per non parlare del ‘benessere’, declinabile ora a livello fisico (salute da ritrovare, stimolazione di esperienze sensoriali...), ora in termini psichici (equilibrio psicologico, pace interiore...), ora in senso intersoggettivo (relazioni armoniose con gli altri, rapporti affettivi positivi...), ora in altri possibili modi, ivi compresa – come spesso accade in questo particolare frangente – un’assoluta, calcolata indeterminatezza della nozione (‘benessere in senso lato’) (cfr. Marrone ed. 2005b). È stato mostrato a questo proposito da Floch (1990, pp. 89-123 trad. it.) come un lessema apparentemente semplice qual è quello di ‘chiarezza’, da una parte, vada distinto da una batteria di altri lessemi che potrebbero stare al suo posto (‘convivialità’, ‘apertura’, ‘affidabilità’...) e, d’altra parte, metta in gioco una sorta di narrazione virtuale di cui esso fornisce i tratti iniziali: il patto fra due soggetti che, prima di iniziare la loro relazione, decidono i termini in cui essa avrà luogo, le loro competenze reciproche, la loro sostanziale pariteticità nelle scelte e nei comportamenti ecc. Il tutto anche in funzione del modo in cui tale concetto ‘classico’ di chiarezza può essere reso a livello visivo, per esempio con colori basici, forme facilmente individuabili, confini netti fra le figure, distinzione evidente fra gli oggetti e simili [cfr. § 4.3.1; § 5.3]. Così come non è un concetto astratto avulso dai testi, allo stesso modo il tema non è un’unità di contenuto isolabile da altre nel flusso discorsivo e monolitica al suo interno. 2.3. Una cerniera fra narrativo e figurativo Volendo scendere un po’ più nel dettaglio, va ricordato che, dal punto di vista semiotico, il tema si colloca a un livello di cerniera fra (in profondità) i sistemi di valori e i percorsi narrativi e (in superficie) l’universo figurativo del discorso. Esso può cioè essere considerato come una concretizzazione dei valori distribuiti lungo l’asse del racconto e, al tempo stesso, come un grado astratto della figuratività espressa nel testo (cfr. Marsciani e Zinna 1991, pp. 100-113; Bertrand 2000, pp. 133-137 trad. it.). Ed è per questa ragione che le tematiche presenti nel discorso di marca possono emergere appieno solo nel momento in cui viene ricostruito l’insieme degli strati che rende significativo e comunicabile il discorso medesimo. Cosa che si farà in dettaglio nei prossimi capitoli. 22

In questo momento ci limiteremo a segnalare i principali meccanismi di superficie mediante cui, all’interno del discorso di marca, emergono nel modo più evidente le sue dimensioni tematiche, i prodromi dell’articolazione significativa dell’universo di una marca, di quell’organizzazione formale dei suoi contenuti che, strutturandoli, li rende effettivamente percepibili e comprensibili al pubblico. La domanda da porsi sarà allora: come si dice un tema? dove lo si ritrova? come è possibile individuarlo? Da cui una serie di interrogativi correlati: è possibile trovare luoghi semiotici concreti, emergenze testuali specifiche, precise occorrenze segniche – parole, immagini, suoni, luoghi e quant’altro – dove esso può essere individuato senza difficoltà, indicato a chiare lettere? E poi: i temi si danno in modo esplicito a un certo punto della progettazione e della successiva proposta del discorso di marca, vengono ripresi dalla cultura di riferimento del pubblico/target e riadattati per l’occasione, oppure emergono esclusivamente in modo indiretto, allusivo, implicito nelle differenti manifestazioni del discorso della marca, sorta di contenuto occulto, inconsapevolmente recepito, che un’attività comunicativa sostanzialmente manipolatoria tende surrettiziamente a trasmettere? Sappiamo che Coca-Cola veicola temi che rimandano all’America, alla gioventù degli Stati Uniti, al disimpegno che la contraddistingue, ai buoni sentimenti; e che chi consuma questa bevanda bruna, dolciastra e frizzante sta in qualche modo assorbendo tutto ciò. Sappiamo che Marlboro rinvia a tutto un immaginario mitologico di cowboy solitari nel deserto, vita avventurosa, tramonti struggenti, cavalli fedeli e falò improvvisati; e che dunque fumare quelle sigarette significa in qualche modo aspirare questo genere di atmosfera. E sappiamo altresì che il lavoro semiotico svolto dal discorso di queste marche consiste nel cercare di cancellare il più possibile la fortissima arbitrarietà del legame segnico fra la bevanda significante e la gioventù significata, fra il fumo-espressione e l’avventura-contenuto. Se dunque i temi non stanno – in questi come in molti altri casi – quasi mai nei prodotti (a meno di una loro strategica rimotivazione semantica), dove e come vengono espressi, attraverso quali altri linguaggi, quali ulteriori sistemi di segni? La comunicazione pubblicitaria, come è noto, è stata a lungo il genere discorsivo che più di tanti altri s’è preso in carico l’impegno di riempire questo vuoto di senso fra prodotti e tematiche di marca, proponendo contenuti più o meno immaginari che potessero funzionare da agenti di riseman23

tizzazione dell’universo delle merci (Séguéla 1982). Ma è evidente che oggi è l’intero mix di comunicazione della marca – prodotto, prezzo, posizionamento, distribuzione, pubblicità, punti vendita ecc. – a occuparsi di costruire un discorso di marca il più possibile coerente nelle sue diverse manifestazioni testuali, a veicolarne pertanto le tematiche di base. I segni del tema possono dunque egualmente essere distribuiti in tutte queste manifestazioni. 2.4. Forme di denominazione Il mezzo più ovvio, ma non per questo più semplice, per esprimere l’universo tematico di marca è quello della denominazione, presente in primo luogo quando un tema viene chiaramente esplicitato, laddove possibile, dal brand name. Elemento principe e ineliminabile di ogni marca, ciò in cui alla fin fine si condensa l’intero tesoro simbolico del discorso di marca, il nome di marca è in linea di principio – e al di là della sua provenienza originaria – un nome proprio: designa rigidamente l’universo di marca, non è e non può essere in alcun modo sostituibile con altri, né tantomeno preso a prestito, vuoi per disposizione giuridica, vuoi per struttura linguistico-comunicativa. Anche se in origine si tratta di un banale nome comune e non di una precisa denominazione di proprietà (per esempio un nome di famiglia o un indicatore di provenienza geografica), proprio a causa della sua patente arbitrarietà esso funziona sempre e comunque come un nome proprio. Così, ci sono talvolta nomi di marche motivati, che denotano cioè in quanto tali le tematiche che circolano nei loro rispettivi discorsi: in Nike c’è già la vittoria; in Magnum c’è la grandezza; per non parlare di un nome come Orzobimbo, che descrive molto chiaramente la proposta di mercato effettuata dalla marca. Più spesso ci sono nomi che divengono significativi per connotazione, come Absolut che rinvia all’idea di purezza e di trasparenza; come Mulino Bianco, che rinvia alla genuinità dei prodotti tradizionali fatti in casa; come Smart, che richiama eleganza, furbizia e rapidità. Ma può accadere anche di trovare nomi che si fanno portatori di significati i quali non hanno nulla a che vedere con il discorso di marca (Innocenti, Virgin). Altri nomi ancora, infine, possono risultare dannosi poiché veicolano significati intrinsecamente disforici (in Rana non ci dev’essere nulla dei batraci). Nella maggior parte dei casi, comunque, il processo di significazione del nome proprio della marca è quello, lento nel farsi ma du24

raturo negli effetti, dell’antonomasia, tale per cui un nome del tutto arbitrario, che a priori non vuol dire nulla, acquisisce, grazie alla fama che ottiene in quanto segno primo d’una marca di successo, un significato molto forte che trascende lo stesso mondo dei prodotti e, in generale, del mercato. È il meccanismo, abbastanza diffuso nella cultura di massa, della motivazione a posteriori. Armani ormai significa ‘eleganza discreta’, appunto, per antonomasia, anche al di là dei prodotti – d’abbigliamento o meno – che tale marca propone ai suoi consumatori. Allo stesso modo, Harley Davidson rinvia a tutto uno stile di vita duro e vagabondo che non implica necessariamente il guidare le specifiche motociclette di questo marchio né il far uso del merchandising proposto dalla medesima azienda. Se dunque in linea di principio il nome di marca è un designatore rigido, in linea di fatto esso finisce per essere una sorta di macchina evocativa che trascende il referente che pure dovrebbe indicare per farsi carico di un ampio universo immaginario ogni volta rinegoziato con il bacino dei consumatori. (Nella vasta bibliografia sul brand name, cfr. le riflessioni semiotiche di Ferraro 1987, Cabat 1989, Ferraresi 1994, Ceriani 2001, Calefato 2006.) Quando parliamo di denominazione, però, non intendiamo riferirci soltanto ai nomi propri ma a qualsiasi altra forma di evidente esplicitazione del tema, spesso di carattere verbale, che è presente in uno qualsiasi dei veicoli testuali del discorso di marca. Per esempio, nei documenti d’azienda rivolti sia all’interno sia all’esterno, nei dépliant di vario genere, nei testi redazionali che appaiono sulla stampa e quant’altro. Il luogo semiotico principale in cui si dà questa diretta esplicitazione del tema presente nel discorso di marca è comunque quello del payoff dei testi pubblicitari, che, come si dice nel gergo semplificatorio dei creativi, s’incarica di esprimere «la filosofia del prodotto, dell’azienda o della marca». Gli esempi a questo proposito sono pressoché infiniti: «C’è del buono ogni giorno» (Yomo), «Vivere con fiducia» (Axa Assicurazioni), «Gioielli da vivere» (Morellato), «The world is our culture» (Esprit), «Vivere senza confini» (Tim), «Connecting people» (Nokia), «Impossible is nothing» (Adidas) ecc. Emerge chiaramente, in questi come in tanti altri possibili enunciati di tal fatta, il tema della marca, quel contenuto discorsivo minimo, estremamente condensato, che altri testi (o frammenti di testo) interni al medesimo discorso si incaricano al tempo stesso di espandere e di specificare. Per esempio, l’idea della mancanza di confine, per Tim, è certamente legata al servizio di telefonia mobile 25

che concretamente offre, tale per cui lo spazio esistenziale del consumatore si dilata e si riarticola ogni volta in modo diverso sulla base dell’esperienza vissuta del parlare al telefono cellulare. Ma è abbastanza evidente come questa idea connoti, più in generale, tutto uno stile di vita giovanile disinvolto, un’etica spensierata, una pacata mancanza di regole che, poi, la comunicazione pubblicitaria della marca (ma anche la politica delle tariffe, il lay-out dei punti vendita, il sistema di assistenza al cliente ecc.) riprende e rilancia, riempiendolo di contenuti al tempo stesso specifici e cangianti. Allo stesso modo, il tono aforistico del payoff di Adidas («impossible is nothing»), visibilmente ironico nella sua enfasi, rimanda chiaramente al mondo delle competizioni sportive, del mettersi alla prova al momento delle gare, della fiducia nelle proprie capacità acquisite nel corso di duri e continui allenamenti; ma a livello più generale delle connotazioni questo payoff coinvolge, anche qui, uno stile di vita più ampio che reinterpreta l’idea titanica del «tutto è possibile» nel senso di un vago, pascaliano ottimismo della volontà. Ancora: nel celebre enunciato diadico su cui la comunicazione di Barilla ha fatto leva, e successo, per molto tempo («dove c’è Barilla, c’è casa») la figura della casa non è soltanto il luogo fisico dove si compie il rito quotidiano del pasto, ma rinvia anche al tema della famiglia e dei suoi valori, dunque al rifugio, al riparo, al desiderio di protezione. Per articolare gli universi tematici del discorso di marca, la dicotomia semiologica che sovrappone alla significazione denotata (esplicita, immediata, ovvia) un’altra connotata (implicita, nascosta, quindi più efficace) è però fortemente riduttiva (Barthes 1964a; 1964b). È infatti abbastanza palese come il tema enunciato nei payoff o in altri testi aziendali sia molto spesso la manifestazione discorsiva di un racconto, ora presente per esteso come tale, ossia con qualche mezzo effettivamente raccontato (a parole, per immagini, negli audiovisivi ecc.), ora semplicemente alluso, condensato in poche battute, e dunque riserva di senso cui poter attingere al momento della confezione di una campagna pubblicitaria, della scelta di un testimonial, dell’elaborazione di una politica dei prezzi e così via. Lo si vedrà meglio nel prossimo capitolo. Per adesso, riprendendo gli esempi già proposti, osserveremo che un’affermazione come «impossible is nothing» è la manifestazione discorsiva di uno specifico momento narrativo, quello che tecnicamente viene definito dell’acquisizione di competenza: se nulla è impossibile, i soggetti narrativi in gioco (l’ipotetico consumatore, per esempio) sono per26

sone che hanno la capacità di far tutto, possiedono una specie di preparazione ipertrofica e perfetta, quasi robotica; oppure, più verosimilmente, sono soggetti che hanno voglia di acquisire nuove competenze in ogni momento, che non si lasciano scoraggiare da nessun ostacolo, che sono pronti a lasciarsi sfidare da qualsiasi oppositore, sapendo di essere sempre, se non costanti vincitori, quanto meno ottimi partecipanti. Ecco, insomma, in nuce, una vera e propria storia, o almeno una base tematica forte per una serie di storie possibili che, come dicevamo, possono riguardare il mondo specifico delle competizioni sportive ma anche quello più ampio di altre esperienze di vita vissuta [cfr. §. 3.5]. Allo stesso modo, il «vivere senza confini» di Tim conserva in sé il germe di una serie di narrazioni in cui i personaggi presenti hanno una particolare capacità di attraversare gli spazi, di moltiplicare i percorsi, di oltrepassare barriere, siano esse da intendere come limiti fisici e geografici o come schemi sociali stereotipi che limitano le potenzialità espressive dell’individuo. Parallelamente, collocandosi a un livello più superficiale, occorre considerare e valutare il modo in cui queste storie condensate nel tema vengono concretamente raccontate, con quali sostanze espressive vengono messe in testo, e prima ancora con quali ‘figure del mondo’ i temi vengono manifestati. Da questo punto di vista diviene pertinente, per esempio, la questione del genere di confini che i soggetti del mondo Tim sanno varcare senza particolari difficoltà: frontiere fra Stati, soglie d’abitazioni, catene montuose, fiumi in piena? Passando invece all’esempio di Barilla, occorrerà chiedersi: che tipo di casa è quella convocata nel discorso? un casolare di campagna, un appartamento borghese in città, un monovano in un quartiere dormitorio? Ecco dunque emergere la pertinenza di un livello di senso di cui ci si occuperà approfonditamente in seguito [cfr. 4.4.2 e 5.3]: la cosiddetta figuratività – che non riguarda, vedremo, soltanto il regime della visualità ma più in generale tutti quegli universi di senso legati alla percezione del mondo esterno che possono darsi mediante sostanze espressive molto diverse (immagini principalmente, ma anche parole, suoni, gesti ecc.). È, questo, il vasto e complesso campo delle figure retoriche (metafora, metonimia, sineddoche, litote, ossimoro, allegoria e quant’altro): sia nel senso tradizionale di elementi del linguaggio verbale in cui si sovrappongono più sensi (proprio vs figurato); sia in quello per cui tale inscatolamento di significati ha luogo in linguaggi non verbali, come per esempio le immagini – dove, come sappiamo ormai 27

da tempo (Barthes 1964b), le figure retoriche trovano un terreno di diffusione notevolissimo. Semioticamente, una figura retorica non è altro che un’associazione di un universo tematico a un universo figurativo o, per dirla in modo ancora più semplice, la raffigurazione concreta di un’idea astratta. La relazione fra tematico e figurativo è pertanto duplice: ogni tema (poniamo: la ‘naturalità’) può essere raffigurato in modo molto diverso (vita agreste, prodotti della terra, concrezioni minerali...); viceversa, ogni figura (poniamo: una spiga di grano) può veicolare temi diversi (la natura, la panificazione...). Spesso si danno associazioni ostinatamente stabili nel tempo fra temi e figure: e nascono gli stereotipi. Per indicare la tossicodipendenza, si usa per esempio, nel discorso culturale corrente, l’espressione ‘tunnel della droga’; per raffigurare donne ostinatamente dedite ai figli scapestrati si parla di ‘madri coraggio’ ecc. Quando lo stereotipo è attivo, emerge in primo piano il tema, e le figure costituiscono un semplice supporto: moltissimi discorsi di marca ricorrono a stereotipi per far emergere in modo esplicito le loro tematiche: un cowboy è avventura, una spiaggia bianca è esotismo, una tovaglia a quadretti è convivialità italiana, un bavero rialzato è mistero, e così via. In molti altri casi invece, oggi sempre più frequenti, lo stereotipo viene meno. Emerge allora in primo piano la figuratività, ovvero tutta una rêverie – più o meno onirica, più o meno realistica – dove gli elementi che costituiscono il nostro mondo percettivo (visivo soprattutto, ma non solamente) arrivano a costituire una sorta di linguaggio secondo, sganciato rispetto alle argomentazioni e alle narrazioni esplicite, autonomo rispetto al tematico – il quale, dal canto suo, tende progressivamente a svanire sino a venir meno del tutto. 2.5. L’esplicitazione tematica Prima di passare all’illustrazione di ciò che sta a monte e ciò che sta a valle del livello tematico, occorre rapidamente ricordare altri possibili casi in cui esso emerge in modo esplicito nel discorso di marca. A livello della visualità, è il logo a svolgere talvolta un ruolo analogo a quello del nome proprio. E lo fa nei casi in cui è presente in esso un qualche tratto figurativo abbastanza netto e riconoscibile che rinvia all’universo tematico del discorso di marca. Così, per esempio, mentre McDonald’s usa l’iniziale del suo nome per costruire la figura di due archi dorati dai quali si accede al mondo fantastico della marca, Burger King esibisce nel suo logo un panino imbottito, predican28

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do pertanto in modo inequivocabile l’universo alimentare del fast food entro cui tale marca intende collocarsi [cfr. § 5.5]. Analogamente procede il celebre omino del logo Bic [fig. 1], che non solo tiene dietro di sé una penna, ma possiede una testa che può essere letta anche come una sfera, ossia esattamente come la punta delle penne biro proposte al mercato dalla marca. Meno diretto il senso del logo Camel [fig. 2], il quale, piuttosto che avere legami diretti col prodotto, suggerisce quell’atmosfera fortemente esotizzante, tendenzialmente orientalista, entro cui la marca svolge caparbiamente il proprio discorso. Non altrettanto possiamo dire del logo Apple: per quanto esibisca un elemento figurativo molto preciso, non instaura alcun particolare legame tra la figura convocata, la mela, e i temi specifici legati alla marca come l’informatica friendly, il lavoro divertente ecc. (Il richiamo al noto episodio di Newton che scopre la forza di gravità, presente nel logo originario, viene meno in quello più celebre che lo ha succeduto, dove il frutto in questione – di per sé ipersignificante – è comunque sganciato da ogni riferimento storico immediato; cfr. Floch 1995.) Più spesso i logo, piuttosto che esibire tratti figurativi chiari e distinti, usano la strategia di dotarsi di elementi detti figurali, tratti visivi sufficientemente astratti da poter essere interpretati, al momento della ricezione, in modi abbastanza diversificati, moltiplicando così le linee di senso che circolano e s’intrecciano nel discorso di marca [cfr. § 5.5]. Se lo swoosh di Nike ha avuto tanto successo, è certamente anche per questa sua intrinseca proprietà figurale che fa vedere in esso oggetti del mondo molto diversi, da un baffetto all’ala della Nike di Samotracia, dal ‘visto’ al movimento del piede che tocca rapidamente terra durante la corsa (cfr. Agnello 2003). Un luogo testuale dove il tema emerge in modo esplicito, come nel caso dei nomi propri significanti e dei logo figurativi, è quello delle scene tipiche, dei frames cognitivi, dei blocchi precostituiti di senso, dei simboli che circolano da tempo nella semiosfera culturale e che in forza della loro notorietà si fanno portatori di elementi te29

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matici molto netti. L’esempio più evidente in questo quadro è senz’altro la già menzionata atmosfera da vecchio Far West di Marlboro, sorta di cornice di eventi e situazioni tipiche entro la quale non è difficile prevedere azioni e passioni dei personaggi in gioco e, dunque, per proprietà transitiva, comportamenti e affetti del pubblico che con essi finisce per identificarsi. L’universo di marca Marlboro si afferma e si arricchisce in tal modo del portato mitologico di tale atmosfera, dei frammenti di senso che esso presenta al suo interno, e dei quali arricchisce uomini e cose. Questo meccanismo intertestuale elementare che tende a importare entro il discorso blocchi di significazione già dati, spesso ripresi da immaginari mitologici della cultura di massa, è molto frequente nella costruzione degli universi di marca. Ed è del resto abbastanza conosciuto: in questo la strategia pubblicitaria di Jacques Séguéla ha fatto scuola («fare del prodotto una star»), e non è un caso se essa, interdefinita con altre possibili ‘filosofie’ pubblicitarie, sia stata chiamata appunto «enunciazione mitica» [cfr. 4.3.3]. Ma prendiamo un caso più recente [fig. 3]. In un annuncio pubblicitario di 40WEFT, al payoff molto banale («wear the difference») si associa una headline d’impatto («what are you fighting for?») e un visual dove in uno scenario da post-conflitto una donna sventola una bandiera rossa, tenendo per mano un bambino ed essendo circondata da un certo numero di personaggi che si protendono verso di lei. Si tratta di una citazione abbastanza esplicita del celebre quadro di Delacroix La Liberté guidant le peuple [fig. 4], emblema rivoluzionario francese ormai talmente stereotipato da rappresentare quasi per antonomasia ogni movimento particolarmente sentito, intenso, vissuto collettivamente, verso la libertà. Il tema della lotta per la liberazione veicolato dalla marca viene così espresso da questo richiamo figurativo molto netto a una scena tipica della cultura moderna occidentale, in modo sostanzialmente analogo al tema detto da un nome o raffigurato in un logo.

Un altro frequente fenomeno semiotico mediante cui l’universo tematico viene espresso in modo esplicito è quello dei cosiddetti ruoli tematici. Si tratta di quei personaggi presenti nel discorso di marca che rivestono una funzione sociale, istituzionale o culturale precisa, e che per questo creano precise aspettative. Ci si attende da loro una serie di comportamenti tipici, all’interno di ambienti altrettanto facilmente immaginabili. Si inseriscono qui gli innumerevoli casi del personaggio in camice bianco che rinvia all’universo medico-scientifico; del giovanotto elegante con la valigetta ventiquattr’ore che de31

signa l’uomo in carriera, sempre più spesso sostituito oggi dal giovane rampante con l’orologio sul polsino e il telefono cellulare perennemente all’orecchio. Ma si pensi anche alla casalinga, al single, al ragazzino adolescente, allo sfigato con le donne, al dongiovanni ecc., altrettanti ruoli sociali standardizzati, che trasportano nelle storie in cui vengono inseriti il tesoro semantico di cui la cultura del nostro tempo li ha più o meno ideologicamente dotati. Ovviamente i ruoli tematici sono efficaci, più ancora di quando vengono confermati, anche e soprattutto quando vengono negati. Quando cioè lo stereotipo viene annullato da comportamenti atipici dei personaggi in gioco: il camice bianco nasconde un cuore che batte, la valigetta ventiquattr’ore contiene biancheria intima... O anche quando esso viene inscritto in contesti inusuali, laddove proprio non ce lo si aspetterebbe: uno degli strumenti vincenti della comunicazione Benetton ideata da Toscani è stato quello di inserirvi ruoli tematici come il soldato in guerra, il condannato a morte, il malato di Aids ecc. che generalmente non appaiono nella sfera pubblicitaria, quasi sempre dominata dall’euforia facile dei buoni sentimenti fiabeschi e rassicuranti [cfr. § 4.5.4]. Poco importa se il ruolo tematico, personaggio stereotipo che si fa portatore esplicito di un tema, sia un essere immaginario, inventato ad hoc dal discorso di marca, interpretato per esempio da un attore che recita una precisa parte finzionale, oppure sia una persona reale – spesso un testimonial –, che s’incarica di trasportare nel discorso di marca alcune proprietà caratteriali e sociali che le sono proprie in quanto individuo famoso, mito mediatico, eroe sportivo, star musicale, divo del cinema o simili [cfr. § 4.5.3]. Anche in questo caso, infatti, è sempre più difficile – oltre che inutile – distinguere nettamente tra fiction e non fiction: fra mondi immaginari prodotti a uso e consumo della singola marca, da una parte, e situazioni o personaggi preesistenti nella cultura sociale, dall’altra parte. Spesso le due sfere tendono a confondersi e a sovrapporsi, sino a formare un unico serbatoio di senso – la semiosfera – entro cui circolano testi e discorsi, agiscono soggetti, nascono affetti più o meno profondi, si trasformano progetti di vita più o meno sentiti. Il caso di Michael Jordan e Nike – ormai l’uno testimonial dell’altro – è l’esempio più celebre di una tendenza abbastanza diffusa all’ibridazione felice fra pratiche sociali e mondi immaginari, divismo popolare e strategie di mercato, epiche quotidiane e culti mediatici. 32

2.6. Performance discorsive e processi traduttivi Da qui alcune osservazioni conclusive a proposito degli universi tematici dei discorsi di marca, che ci consentiranno il passaggio agli approfondimenti dei prossimi capitoli. La prima osservazione riguarda il fatto che, sinora, abbiamo parlato del discorso della marca al singolare, come se esso si costituisse in quanto tale, senza alcuna relazione con l’esterno, ossia con altri discorsi di marca e, in generale, con altri discorsi sociali. Si è trattato ovviamente di una semplificazione. Sappiamo infatti che nessuna marca funziona da sé, come una sorta di monade isolata dal contesto socioeconomico. Una marca nasce e si sviluppa in funzione di altre marche, instaurando con esse relazioni ora – spesso – polemiche, ora – anche – contrattuali. Prima d’essere una tattica di marketing, il posizionamento è un principio semiotico-strutturale mediante cui agisce in profondo la semiosfera: l’identità di qualsiasi soggetto, individuale e collettivo, personale o istituzionale, si costituisce in primo luogo nella relazione con altri soggetti. Appare evidente allora che il tema del discorso di marca nasce, s’afferma e si sviluppa sempre e comunque in relazione a quello di altre marche: più che essere il semplice esito di una predicazione, il contenuto schietto di un enunciato, esso ha dunque un ruolo strategico, più o meno consapevole, più o meno mascherato, ma in ogni caso funzionante nel contesto comunicativo ed economico della marca. Dire è fare. Così, per esempio, la celebre ricerca della naturalità e della tradizione familiare di Mulino Bianco («chi mangia sano torna alla natura») era senz’altro l’esito tematico della comunicazione di questa marca. Ma era innanzitutto, soprattutto al suo sorgere, l’occupazione strategica di un segmento di mercato allora lasciato vuoto dal mito collettivo, tipico del boom economico degli anni Sessanta, della modernizzazione e tecnologizzazione dell’alimentazione. Prova ne sia che quando di lì a poco la mossa di Mulino Bianco si è rivelata vincente, e la corsa alla genuinità è divenuta in quel settore la norma, tale marca s’è posta il problema di riposizionarsi, modificando in parte la sua proposta e andando in cerca di nuovi territori entro cui collocarsi (‘la natura in città’). Allo stesso modo, la guerra delle tariffe instaurata fra i vari gestori di telefonia mobile è stata preceduta, in Italia, da una fase di concorrenza fra Tim e Omnitel, che si poneva come una disputa fra stili di vita: da una parte la funzionalità pratica del telefonino, utile per telefonare a scopi lavorativi sempre e dovunque; dall’altra la ri33

cerca della libertà, dell’‘essere senza fili’, tale per cui il cellulare poteva servire soprattutto a fuggire dalle routine quotidiane per andare alla ricerca di spazi alternativi di esistenza e di esperienza (cfr. Marrone 1999). Non prendere in considerazione il carattere profondamente polemico della predicazione tematica vuol dire insomma non valutare a fondo il senso del discorso di marca. La seconda osservazione, in parte legata alla prima, nasce dalla constatazione che il discorso, per sua intrinseca natura, non è mai un oggetto statico, un dato di fatto, ma un processo dinamico che trasforma senza posa i propri enunciati, a livello sia di espressioni sia di contenuti (dis-cursus). I suoi temi, pertanto, non sono e non possono essere entità monolitiche e stabili, ma unità semantiche in perpetuo movimento e mutamento, sorta di flussi di senso che cambiano in funzione delle esigenze strategiche del mercato, come s’è appena detto, e più in generale in funzione delle eventuali mutazioni socioculturali. Una marca non è tale semplicemente in relazione alle marche concorrenti, ma si nutre dell’humus culturale del momento, trasportando al suo interno gusti, mode, tendenze, desideri, valori, ideologie dell’ambiente in cui si trova, traducendoli per i suoi scopi specifici e riversandoli, trasformati, nel sociale. Così, le tematiche del discorso Apple non sono sorte soltanto in calcolata, continua opposizione al discorso Ibm, ma anche in relazione a una serie di fermenti culturali di tipo alternativo, a certe vaghe tendenze liberatorie della psiche e della percezione di tipo, per così dire, parapsichedelico che si stavano diffondendo nella costa occidentale degli Stati Uniti, soprattutto nei campus californiani, intorno agli anni Settanta. Analogamente l’ascesa di Microsoft si poneva come più ampia risposta alla crescente diffusione del computer nella vita quotidiana di milioni di persone in tutto il mondo. Possiamo dire allora, per concludere, che il tema, da questo punto di vista, non sta da nessuna parte specificamente e sta dappertutto: è, come il mito, l’insieme delle sue trasformazioni. Un tema discorsivo si dà per traduzioni progressive, sia internamente alla sfera discorsiva d’appartenenza (l’universo economico-sociale delle marche), sia esternamente rispetto agli altri discorsi sociali – sport, spettacolo, turismo, politica, religione... – che lo circondano, entro un’unica, complessa, frammentata, dinamica semiosfera. Laddove comunque, lo ricordiamo ancora, il confine fra esterno e interno, fra sfera del mercato e sfera sociale, non è mai dato anticipatamente e una volta per tutte, ma viene volta per volta ridisegnato dal discorso 34

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che si tiene, dal luogo e dal tempo in cui si decide di tenerlo, dalla serie di negoziazioni e di conflitti cui dà luogo, dai contenuti che riassorbe al proprio interno e che ripropone nelle sue svariate manifestazioni testuali. Il caso Benetton-Toscani ha fatto scuola in questo senso, perché ha contribuito a mettere in discussione, e a riscrivere, le barriere fra discorso pubblicitario (e in generale di marca) e discorso sociopolitico, inserendo tematiche quali quelle dell’Aids o della mafia entro un contesto di marketing dove erano per principio escluse, suscitando non pochi clamori ed enormi entusiasmi. Così oggi, dopo le invettive contro le marche multinazionali del movimento cosiddetto no global, non esiste marca che non faccia propri i valori sociali, ambientali, pacifisti di tale movimento, risucchiando al proprio interno tali tematiche e sfruttandole ai propri fini specifici [cfr. per esempio fig. 5]. Laddove movimenti e partiti politici si svuotano di senso, le ideologie si sgretolano e perdono significato, a rilanciare il valore di una serie di delicate questioni sociali e politiche è proprio la marca. Bill Gates investe in aiuti umanitari in Africa ben più di qualsiasi governo statale: lo fa per rafforzare il discorso di marca, per riparare alla debolezza politica degli Stati nazionali, per inventare nuove forme di sostentamento dei paesi disagiati? Impossibile, e inutile, stabilirlo a priori. Certamente mescola prassi e discorsi, mette in crisi i confini fra i generi, ne ridisegna – parzialmente e temporaneamente – i contorni semiotici e gli obiettivi strategici. E il segno di Microsoft, nel frattempo, continua a circolare. 35

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Raccontare per credere

3.1. Narrazione e narratività L’idea che la marca abbia un carattere narrativo, che elabori storie, che riprenda dalla cultura sociale racconti preesistenti per sfruttarli ai propri scopi specifici, è abbastanza diffusa e generalmente condivisa. Fra i termini che ricorrono nella letteratura di settore per cercare di spiegare il carattere simbolico della marca (il suo ‘capitale culturale’), sono frequenti quelli di ‘narrazione’, ‘racconto’, ‘mito’, ‘fiaba’, ‘saga’, ‘leggenda’, ‘storia’, ‘epopea’, ‘biografia’ e simili (cfr. per esempio Fabris e Minestroni 2004, pp. 423-444, che dedicano un intero capitolo alla narrazione come «metafora della marca»; o anche Remaury 2004, che ripensa antropologicamente le marche come «aperture verso i racconti della contemporaneità»). Del resto, il ciclo Marlboro, il mondo Disney, le vicende intorno al Mulino Bianco, molti spot pubblicitari Telecom o Breil o Lavazza hanno inequivocabilmente un carattere narrativo. E anche noi abbiamo evocato spesso nelle pagine precedenti la questione della narrazione per inquadrare teoricamente una serie di fenomeni relativi alla marca anche abbastanza diversi fra loro. Si tratta adesso di soffermarsi su tale questione, di riprenderla dalle sue basi per comprendere che cosa vada inteso, in questo contesto, per narrazione, e in che modo tale nozione abbia per il discorso di marca un valore esplicativo fondamentale. Occorre passare da un’idea intuitiva di racconto a una sua definizione tecnica rigorosa. E ciò al fine di rimuovere i fraintendimenti che un uso spontaneo di questo termine può generare (per esempio, l’idea diffusa secondo cui la narrazione ha un carattere finzionale, immaginario, quando non ad36

dirittura illogico e irrazionale), e per individuarne la pertinenza all’interno di una metodologia d’analisi semiotica teoricamente fondata. La prima distinzione, in questa prospettiva, è quella fra narrazione e narratività, ossia fra – da un lato – quei prodotti testuali che, nella nostra o in altre possibili culture, vengono intesi come racconti (fiabe, leggende, novelle...) o che raccontano delle storie (romanzi, poemi epici, ma anche film, fumetti, opere teatrali...), e – dall’altro lato – quelle caratteristiche costanti, essenziali, formali e astratte del racconto che si ritrovano più o meno celate sia in questi prodotti testuali che chiunque indicherebbe come narrativi, sia, più in generale, in qualsiasi tipo di discorso anche apparentemente molto lontano e diverso dai racconti propriamente detti: un trattato di filosofia, un’opera pittorica, l’architettura di un edificio, un oggetto di design, un documento aziendale, un’immagine pubblicitaria, l’architettura di un negozio... Laddove la narrazione è una nozione intuitiva, concreta e cangiante nel tempo e nello spazio, la narratività è una categoria costruita, astratta, tendenzialmente stabile entro un preciso paradigma teorico. La prima si usa nel linguaggio comune per designare certe opere come narrative (e dunque, per differenza, certe altre come non narrative). La seconda viene costruita all’interno del metalinguaggio della semiotica come modello esplicativo che accomuna, a certe condizioni e da uno specifico punto di vista, una serie di fenomeni discorsivi diversi, ritrovando in esse alcune costanti formali, dunque basi strutturali analoghe. La narratività, in altre parole, è una ipotesi interpretativa per descrivere la struttura profonda d’ogni fenomeno culturale. Ovviamente, fra i due fenomeni non c’è una distanza radicale, ma parziale sovrapposizione: c’è narratività in ogni narrazione (ed è ovvio), ma non sempre narrazione dove c’è narratività (ed è interessante). Quel che per noi risulterà determinante non sarà indicare la banale presenza della narrazione in alcune manifestazioni testuali del discorso di marca; dire, poniamo, che il cowboy della comunicazione Marlboro è come il personaggio di un racconto western. Sarà molto più utile ritrovare semmai la presenza di elementi narrativi, barbagli di narratività, laddove non ce li si aspetterebbe: nei progetti delle marche, nei ragionamenti strategici e nei comportamenti d’acquisto del consumatore, nel significato dei logo, nei lay-out dei punti vendita, nelle proprietà estetiche del packaging e, ben più in generale, ambiziosamente, nella struttura interna del discorso di marca. Emergerà in tal modo come sia proprio la strutturazione narrativa della marca a garantirne il potere significativo e l’efficacia comuni37

cativa, a contribuire in modo determinante alla costruzione di quella fiducia di fondo fra azienda e consumatore senza la quale nessuna marca avrebbe ragion d’essere. Raccontare, insomma, per credere. Un excursus ragionato nella semiotica della narratività, a prima vista estranea alle questioni di questo libro, sarà pertanto necessario proprio per approfondire la natura del discorso di marca. I tecnicismi della teoria si riveleranno altrettanti modelli concettuali necessari all’analisi e alla gestione del branding. 3.2. Strutture elementari della significazione Secondo la prospettiva teorica della semiotica strutturale e generativa, la narratività è un processo orientato di trasformazione di uno o più soggetti che si compie all’interno di qualsiasi testo o esperienza vissuta. Da questo punto di vista, la narratività è l’organizzazione basilare di ogni processo semiotico di produzione e circolazione del senso, dunque la forma profonda dell’esperienza umana e sociale. Come mai? La ragione è abbastanza semplice: a dare senso al mondo, alla nostra vita, alle persone e alle cose che ci circondano, sono le trasformazioni che vi accadono, i mutamenti che in esso avvengono. Nessuna cosa, persona o situazione acquista significato se non viene in qualche modo paragonata a ciò che era prima, a ciò che potrà diventare, a qualche altra cosa che potrebbe stare al suo posto. Il senso, prima ancora d’essere significato concettuale, è direzionalità, progettualità, cambiamento. Nessun significato, nessun racconto si danno nella staticità assoluta. Come facciamo infatti a dar senso a ciò che accade? In modo abbastanza semplice: raccontandolo, mettendolo in sequenza con altri eventi che sono accaduti prima e con altri che ci aspettiamo accadano dopo. È per questo che la narratività è la forma profonda della nostra esperienza, la griglia che fornisce un valore a ciò che ci accade, che facciamo o che subiamo. Nulla a che vedere con la finzione, con l’immaginario, con l’invenzione fine a se stessa, dunque. Anzi, al contrario, la narratività riguarda i vissuti quotidiani, le scelte d’ogni giorno, la prassi individuale e sociale, l’esperienza concreta di ciascuno di noi. Di questo processo trasformativo si danno generalmente in semiotica due diverse rappresentazioni concettuali, a seconda del livello di senso che viene reso pertinente al momento della descrizione: quello fondamentale e quello antropomorfo. In termini tecnici, le strutture narrative possono essere descritte secondo due diverse per38

tinenze: quella, più astratta, dove si costituiscono le categorie semantiche, articolate per differenza interna nel cosiddetto quadrato semiotico; quella, più concreta, dove tali categorie vengono prese in carico da simulacri umani, ed entrano in gioco i concatenamenti delle azioni, a loro volta articolati nei programmi narrativi. Prima di porre la questione dell’organizzazione narrativa vera e propria, c’è un abbozzo di racconto già a livello delle strutture presenti nel quadrato semiotico, laddove il senso si costituisce grazie alle relazioni di contrarietà, contraddizione, complementarità, e alle operazioni di negazione e affermazione. A livello antropomorfo, poi, questo processo minimo di trasformazione diviene un po’ più concreto, di modo che le relazioni e le operazioni vengono ripensate come operazioni di trasformazione di stati narrativi. A questo secondo livello, il racconto diviene una successione di stati e di loro trasformazioni, orientata al raggiungimento di uno stato finale in cui il valore posto viene finalmente raggiunto. Illustreremo in questo paragrafo le strutture elementari della significazione narrativa organizzate nel quadrato semiotico, e nei successivi forniremo invece le basi della grammatica narrativa di superficie. 3.2.1. Tre relazioni fondamentali Il celebre modello del quadrato semiotico è la rappresentazione visiva dell’articolazione logica di una qualsiasi categoria semantica (S), lo strumento mediante il quale emergono la struttura interna della categoria e i termini o sèmi (s) che essa genera. Dato che, seguendo il dettato epistemologico della semiotica strutturale, il senso si costituisce per differenza (di modo che le relazioni sono primarie e gli elementi secondari), il quadrato semiotico rende conto delle principali relazioni mediante cui si costruiscono, nelle varie culture ed epoche, le categorie semantiche, ovvero, molto semplicemente, la forma dei significati e dei valori sociali. Per questa ragione, a proposito del quadrato si parla di strutture elementari della significazione: elementari perché più semplici di altre, ma anche perché più importanti rispetto ad altre. In altre parole: affinché emerga un qualche senso, affinché cioè si dia una seppur minima trasformazione entro un universo semantico dato (una cultura, un intreccio di discorsi, un testo...), è necessario che venga resa pertinente culturalmente e socialmente quanto meno una delle relazioni presenti nel quadrato semiotico. 39

Il noto schema mediante cui si rappresentano tali strutture elementari della significazione è il seguente: s1

S

non-s2

s2 non-s1

Relazioni: contrarietà (s1 vs s2; non-s2 vs non-s1) contraddizione (s1 vs non-s1; s2 vs non-s2) complementarità (non-s1 → s2; non-s2 → s1; non-s1 ← s2; non-s2 ← s1)

Questo schema illustra la serie di relazioni che i quattro termini della categoria intrattengono fra loro. La prima è una relazione di contrarietà (linee orizzontali tratteggiate), detta anche opposizione qualitativa, poiché i due termini in gioco all’interno della relazione possiedono proprietà fra loro opposte. Così per esempio nell’antitesi /bianco vs nero/ la relazione è fra elementi che in molte culture o situazioni sociali vengono considerati come due colori dati (e non, poniamo, come mancanze di colore). Allo stesso modo /alto vs basso/ è una relazione fra elementi contrari sempreché entrambi i termini dell’opposizione vengano culturalmente caratterizzati per loro specifiche proprietà intrinseche e non, come nel caso della seconda relazione, per essere l’uno la negazione dell’altro. Non bisogna infatti confondere la contrarietà con la contraddizione (linee oblique continue), dove l’opposizione è invece privativa poiché mette in relazione un termine dotato di una proprietà con un altro termine nel quale tale proprietà non è presente. Per riprendere gli stessi esempi, è l’opposizione /bianco vs non-bianco/ (ma anche /nero vs non-nero/); oppure /alto vs non-alto (e /basso vs non-basso/). Inserendo gli esempi nello schema – ossia, come si dice in termini tecnici, lessicalizzando – si ha: alto bianco s1

basso nero s2

non-s2 non-nero non-basso

non-s1 non-bianco non-alto 40

Già intuitivamente cogliamo come, per esempio, i termini ‘nero’ e ‘non-bianco’, ‘alto’ e ‘non-basso’ non siano affatto sinonimi, come pure potrebbe sembrare: qualcosa può non essere bianca senza per questo essere necessariamente nera; qualcuno può non essere basso senza però essere alto. Se allora nella relazione di contrarietà l’opposizione è fra termini positivi, in quanto dotati di una qualche qualità specifica, nella relazione di contraddizione l’opposizione è fra un termine positivo, dotato di proprie peculiarità, e un termine negativo, senza caratteristiche proprie se non il fatto di non possedere quelle del termine con cui ha stabilito una relazione. Così, in certe situazioni sociali viene prescritto un determinato colore nell’abbigliamento («è d’obbligo il nero»), in certe altre è invece vietato l’uso di un certo colore («non usare il bianco»), lasciando però la possibilità di adoperarne qualsiasi altro. Analogamente, nelle varie culture le relazioni sentimentali possono essere ora prescritte (per esempio il matrimonio), ora interdette (l’incesto), ma anche non-prescritte, cioè tollerate (convivenza) o non-interdette, cioè osteggiate (adulterio), fermo restando che ogni società lessicalizza queste posizioni in termini diversi (e gli esempi conseguentemente si modificano). Scatta così la terza relazione rappresentata nel quadrato, detta di complementarità (linee tratteggiate verticali), che non è un’opposizione ma è pur sempre una differenza, poiché s’instaura giusto fra quegli elementi apparentemente sinonimi che derivano dall’incrocio fra contrarietà e contraddizione: ‘non-bianco’ e ‘nero’, ‘non-basso’ e ‘alto’ ecc. – dove il termine negativo copre questa volta un’area semantica molto più ampia di quello positivo (in ‘non-bianco’ ci stanno tutti i colori tranne il bianco, mentre in ‘nero’ c’è un colore solo; ‘non-basso’ può indicare stature molto diverse tranne quella massima, in ‘alto’ c’è invece una sola determinazione). Così, per esempio, se qualcuno mi chiede notizie circa la mia salute posso rispondergli (usando termini positivi): «sto bene» o «sto male»; ma più spesso dirò (usando termini negativi): «niente male» o «non sto tanto bene». Se qualcuno vuole situarsi politicamente può dire d’essere «di destra» o d’essere «di sinistra», ma può dire anche, se per un qualsiasi motivo non vuol schierarsi: «certamente non sono di destra» (oppure «non sono di sinistra»)... Eufemismi? volontà di schermirsi? rifiuto di rispondere? Può darsi. Si tratta comunque, a ben pensarci, di due diverse attitudini di pensiero, e conseguentemente di comportamento sociale. C’è chi ragiona per opposizioni semplici, tranciando giudizi definitivi o manifestando opi41

nioni nette, e usa pertanto i soli termini contrari: «se non sei di destra, vuol dire che sei di sinistra», «se non sei basso, allora sei alto», e c’è invece chi concepisce queste opposizioni nette come altrettante imposizioni, quando non addirittura come ricatti, e preferisce ricorrere a formule meno impegnative ma più meditate: «non mi considero un tipo alto, non per questo sono basso», «non voterò a sinistra, ma non per questo amo la destra»... La prima attitudine costruisce universi narrativi semplici, dove tutto è bianco oppure è nero, dove tutti sono buoni oppure cattivi, dove tutti sono poveri oppure ricchi: si pensi a certe fiabe popolari o a certi prodotti mediali di massa. La seconda articola modi di ragionare e di vivere più complessi e sfumati, dove il graduale, l’ipotetico, il meditato hanno un loro ruolo importante. I rischi di entrambe le posizioni sono evidenti: nel primo caso la semplificazione, nel secondo l’indeterminatezza. Il quadrato semiotico, articolando fra loro le due relazioni di contrarietà e contraddizione, e facendo emergere dal loro incrocio la complementarità, permette comunque di evitarli, facendo convivere nello spettro delle virtualità più elementari della significazione sia l’opposizione sia la differenza. Il modello teorico del quadrato semiotico è stato proposto per la prima volta nel 1968 in un saggio di Greimas e Rastier (ora in Greimas 1970), e da allora è stato sottoposto a molteplici revisioni e riaggiustamenti (cfr. per tutti la versione presente in Greimas e Courtés, 1979: ad vocem). In molti hanno osservato come le nozioni di contrarietà e contraddizione fossero comunque presenti già nella logica aristotelica (dove però si oppongono proposizioni e non termini) e nei suoi innumerevoli derivati e applicazioni (per esempio nella teoria del diritto). Allo stesso modo, è evidente come la nozione di opposizione privativa derivi dalla fonologia, ossia giusto da quella distinzione fra termine marcato e termine non-marcato di cui abbiamo parlato supra [cfr. § 1.4]. La forza del modello sta comunque in altro: innanzitutto nel fatto di essere, per così dire, metastrutturale, ossia d’avere messo in relazione fra loro le due relazioni aristoteliche, e d’aver con questo generato la complementarità; in secondo luogo, nella sua generalizzabilità, tale per cui (lasciando da parte il problema metafisico dell’universalismo) un gran numero di discorsi e di testi, di culture e di situazioni possono ricevere una prima spiegazione formale grazie a tale modello (ivi comprese, lo vedremo con l’assiologia dei consumi di Floch, le stesse nozioni della teoria semiotica). In tal modo, la critica che spesso gli è stata rivolta, quella d’essere troppo astratto, si dissolve da sola, proprio perché l’astrattezza formale è il principale 42

merito del quadrato – a patto, ovviamente, di non fermarsi a essa, ma di integrare la descrizione con gli altri livelli di pertinenza del senso previsti dal suo percorso generativo. Altra questione è quella, sollevata all’interno degli studi semiotici, circa l’eccessivo logicismo di tale modello, capace di cogliere la discontinuità dei fenomeni di senso ma non i processi continui spesso presenti in questi stessi fenomeni: si pensi alle modulazioni della voce, alle tensioni e intensità affettive, alla gradualità insite in molte categorie semantiche (ricco/povero, giovane/vecchio...). Così, per esempio, Fontanille e Zilberberg (1998) hanno proposto un nuovo modello teorico che incrocia su assi cartesiani le «valenze» dell’intensità e dell’estensione, e prova a descrivere in tal modo le continuità dei processi di senso, rinunciando però alla potenza euristica del quadrato.

3.2.2. Due operazioni di base Il quadrato semiotico non s’esaurisce comunque qui. Per comprenderne appieno l’importanza soprattutto operativa (nell’analisi degli universi di senso, ossia nel reperimento delle forme primarie mediante cui essi, articolandosi al loro interno, costruiscono e ricostruiscono sensi e valori), occorre completarne l’illustrazione. Va ricordato per esempio che la medesima struttura può essere utilizzata, oltre che per articolare fra loro le due opposizioni (qualitativa e privativa) e la complementarità, anche per descrivere i percorsi che è possibile effettuare per passare da un termine all’altro. Accanto alle relazioni (paradigmatiche), occorre porre pertanto due operazioni (sintagmatiche): s1

S

non-s2 Operazioni: negazione affermazione

s2 non-s1

(s1 → non-s1; s2 → non-s2) (non-s1 s2; non-s2 s1)

Il quadrato semiotico, pertanto, da un lato genera i termini a partire dalle relazioni: ed è il suo momento statico. Da un altro lato, però, permette i passaggi da un termine all’altro, garantendo la descrizione di una dinamicità interna alle categorie semantiche e agli universi di senso. Per questa ragione, esso pone dei valori all’inter43

no di un testo (d’un discorso, d’una cultura), ma abbozza nello stesso tempo una qualche tensione verso questi stessi valori, in modo da ipotizzare un universo in fieri, in costante trasformazione interna. Così, la categoria semantica che articola l’opposizione fondamentale tra ‘natura’ e ‘cultura’ non è suscettibile soltanto di una descrizione statica, ma riceve anche una logica interna delle possibili trasformazioni fra i suoi termini. I miti di fondazione operano passaggi dalla ‘natura’ alla ‘cultura’ attraverso il termine intermedio della ‘nonnatura’: prima negano la ‘natura’ e poi affermano la ‘cultura’. Da cui la figura: natura

cultura

non-cultura

non-natura

la quale non solo dà conto delle possibili relazioni attraverso cui ogni formazione sociale si costituisce generando la propria specifica ‘alterità’ naturale, ma prospetta anche possibili percorsi mediante cui queste formazioni sociali possono essere prodotte: ora negando lo stato di natura (‘natura’ → ‘non-natura’) e affermando quello di cultura (‘non-natura’ → ‘cultura’), ora, al contrario, prospettando ‘ritorni’ verso il naturale attraverso operazioni di negazione del culturale (‘cultura’ → ‘non-cultura’) e di conseguente affermazione del naturale (‘non-cultura’ → ‘natura’). È per questa ragione che il modello del quadrato semiotico è già la descrizione in nuce dei processi narrativi: se la narratività è generazione del senso tramite trasformazione, questa trasformazione è già presente nel passaggio che va da un termine (per esempio ‘vita’) al suo contrario (‘morte’) tramite la sua preventiva negazione (‘non-vita’). Ed è per questo che la logica narrativa – forma primaria della nostra esperienza concreta – collide con la logica aristotelica (formale ma normativa): se infatti per quest’ultima è basilare il principio di noncontraddizione (o a o non-a), per la prima la contraddizione (ripensata sotto forma di negazione) è l’anima d’ogni storia, il motore d’ogni attribuzione di significato. Grazie al potente strumento del quadrato semiotico, trovano una possibile chiarificazione i paradossi sottesi all’opposizione apparentemente ovvia fra marca e non marca [cfr. § 1.4.]. Adesso possiamo ben distinguere l’opposizione privativa fra ‘marca’ e ‘non-marca’ dall’opposizione 44

qualitativa fra ‘marca a’ e ‘marca b’. Nel primo caso si tratta di un’evidente contraddizione, dato che un elemento dell’opposizione è dotato di una proprietà positiva (l’essere di marca), mentre l’altro si limita a negare tale proprietà (il non-essere di marca). Così, se da una parte si collocano i prodotti di marca, dall’altra trovano spazio quelli, per esempio, non confezionati o da hard discount. Il secondo caso è quello del posizionamento: da una parte ci sta una marca (poniamo, Armani), dall’altra ci sta una marca concorrente (poniamo, Versace). In tal modo, considerando le cose staticamente, un abito Armani si oppone dal punto di vista qualitativo a uno Versace e dal punto di vista privativo a uno da grande magazzino privo di brand. Ne deriva: (Armani) marca a

(Versace) marca b

non-marca (grande magazzino)

non-marca (grande magazzino)

Ma il quadrato, abbiamo visto, lavora soprattutto in senso dinamico, permette cioè di spiegare posizioni a prima vista ambigue in quanto esiti di una serie di operazioni di negazione e affermazione. Oltre all’opposizione qualitativa fra ‘marca a’ e ‘marca b’ e all’opposizione privativa fra ‘marca’ e ‘non-marca’, trova così una spiegazione un’altra opposizione, anch’essa del tutto qualitativa: quella fra ‘marca’ e ‘antimarca’. Se ci troviamo di fronte a una contrarietà, è perché l’opposizione in gioco è fra due termini entrambi positivi: da una parte c’è l’essere di marca, dall’altra l’essere di non-marca, ossia il fatto di rivendicare come elemento positivo il non possedere un logo o una griffe, il non voler partecipare – almeno in linea di principio – alla globalizzazione dei marchi multinazionali, finendo – di fatto – per essere risucchiati all’interno del mercato come concorrente, ossia, appunto, come una marca concorrente. Il celebre slogan no-logo lanciato da Klein (2000) rientra esattamente in questo caso. Se pure in prima istanza si trattava di una negazione del mondo delle marche, ben presto il movimento no-logo ha compiuto una successiva operazione di affermazione divenendo un termine a tutti gli effetti positivo, ossia una marca che trova un proprio posizionamento nel mercato globale. Qualcosa di simile è accaduto con Slow food, Consumo equo e solidale o fenomeni affini. Nati come forme di rifiuto della globalizzazione e come movimenti di recupero dei prodotti locali (magnificati in quanto genuini, e dunque per definizione migliori di quelli contraffatti del fast food o della grande distribuzione), a poco a poco sono diventati 45

anch’essi vere e proprie marche, acquisendo precise quote di mercato in un regime di concorrenza con tutte le altre marche che si occupano di alimentazione e ristorazione. Così, per esempio, McDonald’s si oppone secondo la medesima forma di contrarietà (ma con investimenti semantici diversi) sia, poniamo, a Burger King sia a Slow food. Più complesso è un caso come quello di Muji – in giapponese, letteralmente, “no brand” –, azienda che usa tutta una retorica della riduzione, della semplicità, del minimalismo per diventare una specie di marca antifrastica: marca che nega le marche, usandone però il sistema di fondo e le forme discorsive, dal design alla comunicazione, dall’allestimento dei punti vendita al packaging (Bucchetti 2005, pp. 122-124). In questo caso i movimenti sul quadrato sono tre: c’è una originaria negazione (quella presente già nel brand name); c’è un’affermazione (per cui si rivendica come elemento positivo la mancanza di marchio); c’è un’ulteriore negazione (grazie all’uso esplicito del discorso di marca per posizionarsi nel mercato). Muji, insomma, più che un’‘antimarca’ dovrebbe essere classificata come una ‘non-antimarca’ (non-essere di non-marca), ed essere collocata dunque in una posizione complementare alle vere e proprie ‘marche’ (praticamente affermandone l’esistenza). Ne viene fuori lo schema: (No-logo, Slow food, Consumo equo e solidale) antimarche essere di non-marca

marche essere di marca

non-essere di non-marca non-antimarche (Muji)

non-essere di marca non-marche (sfusi, hard discount)

3.2.3. Termini di seconda generazione Occorre ricordare inoltre che, accanto ai sèmi sin qui prospettati (detti termini di prima generazione), è possibile pensare ad altri sèmi (detti di seconda generazione), che si costituiscono quando i termini contrari trovano forme, per quanto momentanee, di convergenza. Così, per esempio (Floch 1985), in un quadrato semiotico che articola la categoria della sessualità all’interno di un orizzonte culturale mitico, l’unione di ‘maschile’ e ‘femminile’ genera il termine ‘ermafrodita’, mentre l’unione di ‘non-femminile’ e ‘non-maschile’ genera il termine ‘angelo’: 46

uomo maschile

ermafrodita

non-femminile

donna femminile non-maschile

angelo

Il termine che riunisce i sèmi contrari viene detto complesso, mentre quello che riunisce i subcontrari viene detto neutro. Laddove il primo costituisce un arricchimento di senso, se non un ritorno verso una specie di indistinto originario (un po’ come l’ermafrodita, per Platone, precedeva la distinzione fra sessi), il secondo sfuma invece spesso verso il non-senso, l’indifferenza semantica: negare entrambi i termini di un’opposizione (‘non-alto’ + ‘non-basso’) comporta spesso l’elisione dell’intera categoria semantica (la statura non è più pertinente in quel dato contesto). L’antica retorica chiamava i termini complessi ossimori e spiegava così espressioni come il «giovane-vecchio», lo «stupido-intelligente» e simili. Ma già la lingua comune è piena di questo tipo di termini: ‘tiepido’ è la neutralizzazione dell’opposizione fra ‘non-caldo’ e non-freddo’, indica qualcosa che non è né caldo né freddo. E se i miti sono una riserva inesauribile di termini complessi (semidèi, animali/uomini...), la comunicazione pubblicitaria e, in generale, il discorso di marca ne fanno un grande uso: cercano per loro tramite di conciliare proprietà che comunemente vengono socialmente percepite come opposte (economico vs elegante, robusto vs raffinato, artificiale vs naturale) prospettando soluzioni talvolta valide talaltra pretestuose, ma sempre e in ogni caso rischiose: i semidèi, nei miti, fanno una brutta fine, e come loro le sfingi, i minotauri, le sirene... Dietro ogni termine complesso, peraltro, si nasconde un termine neutro: qualcosa che viene venduta come economica e al contempo elegante finisce facilmente per essere né l’una né l’altra. In uno studio sulla costruzione dell’identità di testata dei telegiornali nazionali italiani condotto alcuni anni fa (Marrone 1998a) emergeva per esempio abbastanza chiaramente come la sfida (perdente) di molti notiziari televisivi fosse appunto quella di voler conciliare aspetti televisivi e aspetti informativi della trasmissione, finendo per cancellare i principi formali e tematici del genere giornalistico. Così, per esempio, in quel periodo il Tg5 aveva agli occhi del pubblico un’identità di testata (di mar47

ca) sostanzialmente sfocata proprio perché, cercando di posizionarsi sul termine complesso (televisione + giornalismo), cedeva spesso verso quello neutro (né televisione né giornalismo). Un altro esempio. Con gli strumenti del quadrato semiotico è possibile spiegare con maggiore precisione quanto s’è detto nel capitolo precedente [§ 2.6] circa le strategie di Mulino Bianco. Sposando sul nascere l’ideologia ecologista diffusa nel sociale, questa marca ha all’inizio proposto un «ritorno alla natura», ossia, in termini tecnici, un passaggio dallo stato di ‘cultura’ a quello di ‘non-cultura’ e infine a quello di ‘natura’. Si ricorderà che i primi spot mostravano una famiglia borghese che aveva abbandonato la vita cittadina per trasferirsi in campagna (tant’è che il capofamiglia faceva il pendolare tornando quotidianamente al mulino dopo aver lavorato in città). Le operazioni sul quadrato erano dunque molto chiare. Quando però anche molte altre marche hanno intrapreso il medesimo percorso, di fatto inflazionando l’idea di un recupero euforico della naturalità, Mulino Bianco s’è spostata sul termine complesso con la serie di spot che mostravano le più note piazze italiane ricoperte d’erba e un payoff chiarissimo che recitava: «La natura in città». Ma è stato per poco, giusto il tempo di rivendicare il primato di un’idea e, soprattutto, di sottolineare una differenza, di risemantizzare la marca, di farle, per così dire, salutari iniezioni di senso. Comprendendo i rischi del soggiornare sul termine complesso (la «natura in città», a lungo andare, poteva generare interrogativi circa l’onestà comunicativa della marca), Mulino Bianco ha presto cambiato strategia, ed è tornata, rigenerata, sull’iniziale posizione di ‘natura’. (Sulla comunicazione di Barilla/Mulino Bianco, cfr. Colombo e Codeluppi 1994; Semprini e Musso 2001; e Morcagni 2005, che analizza in questi termini uno dei primi spot della saga del Mulino.) natura in città cultura

natura

non-natura

non-cultura

3.2.4. Timismo e assiologie Un’ultima osservazione riguarda la questione, fondamentale per il discorso di marca, dei valori. Il quadrato semiotico, infatti, ha un altro ruolo semiotico: quello di produrre assiologie, cioè sistemi di valori, garantendo al contempo la loro variabilità socioculturale. Come può accadere, per esempio, che in certe situazioni o culture il ‘nero’ 48

nell’abbigliamento sia considerato positivo mentre in certe altre esso sia negativo e il suo contrario, il ‘bianco’, è invece positivo? come mai in certe società la ‘guerra’ è un valore positivo e la ‘pace’ è un valore opposto, mentre in altre vale il contrario? Il meccanismo formale è abbastanza semplice: per far sì che l’articolazione interna delle categorie semantiche, visualizzata attraverso lo strumento del quadrato, produca sistemi di valori, occorre che i termini acquistino un peso ora positivo ora negativo. Così, nel quadrato che rende conto dell’opposizione cromatica fra ‘bianco’ e ‘nero’ ogni termine può acquistare valore positivo o negativo a seconda delle culture, degli universi di discorso, delle forme di vita o dei singoli testi in cui la categoria viene utilizzata. Rispetto, per esempio, all’abito nuziale della sposa, nella nostra cultura sarà pertinente l’opposizione tra i contraddittori ‘bianco’ e ‘non-bianco’, dove il primo termine è valorizzato positivamente e il secondo negativamente. Rispetto al sistema di segnalazione del lutto, sappiamo che il termine pertinente nelle culture occidentali è il ‘nero’ (valorizzato dunque negativamente, poiché indice della morte), mentre in culture orientali è il ‘bianco’ (che acquista, qui, per la medesima ragione, valore negativo). Diciamo allora che, per generare sistemi di valori (in modo diverso a seconda di testi e contesti), al quadrato semiotico rappresentante l’articolazione logica di una qualsiasi categoria semantica è necessario sovrapporre un’altra categoria semantica, detta timica, che distribuisce ai vari termini l’opposizione ‘euforia vs disforia’. L’omologazione tra il sèma ‘euforia’ e un certo termine (poniamo, il ‘bianco’) produce il valore ‘bianco = positivo’; mentre l’operazione inversa, ossia l’omologazione tra il sèma ‘disforia’ e un altro termine (poniamo, il ‘non-bianco’) produrrà il valore ‘non-bianco = negativo’. Avremo in questo caso: + bianco

non-nero

nero

– non-bianco

Accade insomma che all’interno degli universi semantici, dei discorsi, dei testi ecc. certi valori sociali (‘giustizia’, ‘benessere’ ecc.) o certi valori individuali (‘eros’, ‘affermazione di sé’ ecc.) vengano generati giusto a partire dal modo in cui le categorie semantiche entro 49

cui abitano vengono messe in racconto, ossia dal modo in cui tali valori entrano in relazione con i termini contrari, contraddittori e complementari all’interno di specifici quadrati considerati come pertinenti. Ma in che cosa consiste, esattamente, la categoria timica? Si tratta, per Greimas (1983), del semantismo spontaneo legato al modo in cui l’uomo percepisce se stesso, innanzitutto con il proprio corpo, e l’ambiente immediatamente circostante: sensazioni di piacere e dispiacere, dolore, fastidio, ripulsa, attrazione, prima che tutto ciò divenga oggetto di riflessione cognitiva (la quale trasforma, per esempio, l’attrattiva in interesse, o la ripulsa in disinteresse). Prima ancora di capire se e come il mondo è importante, utile, interessante per noi, cogliamo innanzitutto il fatto che esso – le cose, le persone, i luoghi, le situazioni – può procurarci fastidio o piacere, disforia o euforia. Così per esempio è noto che il pianto dei neonati è da interpretare come l’indizio di una generale disforia, e non come il segnale di uno specifico dolore, fisico o psicologico. Appare evidente, dalla nostra prospettiva, come la differenza fra, poniamo, oggetti per noi utili e oggetti che semplicemente ci piacciono, fra ambienti che ci possono servire e ambienti in cui ci troviamo bene, e dunque – più in generale – fra strumentalità ed estetica, cognizione e piacere, sia fondamentale per la costruzione del discorso di marca, che gioca quasi l’intera sua esistenza – come vedremo [cfr. § 3.7] – al confine appunto fra calcolo e passione, decisioni razionali ed esperienze affettive, convenienze economiche e piaceri sensuali. Inoltre, la categoria timica va a sua volta articolata nel quadrato: espandendo l’opposizione semplice fra i contrari ‘euforia’ e ‘disforia’ se ne ricavano la ‘non-euforia’ e la ‘non-disforia’, come anche i termini complesso (‘diaforia’) e neutro (‘adiaforia’). Questi ultimi due sono fondamentali ai nostri fini, perché permettono di spiegare l’esistenza di pulsioni verso qualcosa o qualcuno, per così dire, minime, non ancora distinte in positive e negative, attrazioni e repulsioni. Spesso la marca lavora per ottenere questo tipo di effetto, mira ad attirare la nostra attenzione, a creare tensioni verso un oggetto o una situazione, senza necessariamente che questa attenzione, queste tensioni siano chiaramente distinte in positive e negative. Toscani, nella comunicazione Benetton, faceva esattamente questo: produceva situazioni in qualche modo di choc percettivo e cognitivo, una sorta di sospensione momentanea dell’attribuzione di valore, in nome di una specie di ‘diaforia’ pura, oscillante fra il positivo e il negativo, sicuramente d’impatto. Dividendo il pubblico ma, in ogni caso, producendo notorietà e successo [cfr. § 4.5.4]. 50

3.3. Elementi di grammatica narrativa Ricondurre la narratività alle operazioni del quadrato semiotico, negazione e affermazione, è certamente riduttivo. Molto spesso accade che i racconti (per esempio, quelli mitici) descrivano certi contenuti (poniamo, una situazione di guerra) e si chiudano invece sui contenuti opposti (la pace). Si dice in questi casi che il racconto è il passaggio da un contenuto invertito (che sta all’inizio) a un contenuto posto (che sta alla fine). In tal modo, il famigerato messaggio del racconto non sta né all’inizio né alla fine, ma nel passaggio dall’uno all’altro, ossia, come già sappiamo, nel processo di trasformazione. Di che cosa ci parla uno spot? Del bellimbusto seduttore che vediamo nelle prime inquadrature o della sua triste sorte rappresentata alla fine? Di niente di tutto ciò: ci parla semmai del fatto che, per non aver usato un certo dentifricio, l’operazione di seduzione messa in atto dal bellimbusto è miseramente fallita. Il dentifricio è inserito in una storia, e grazie a ciò acquista il suo valore. Oltre a occuparsi della doppia trasformazione logica, negazione e affermazione, occorre pertanto comprendere se e come queste operazioni vengano prese in carico da soggetti antropomorfi, appartengano alla sfera dell’esperienza individuale e collettiva, non siano semplici movimenti logici ma precisi momenti di una storia. A livello antropomorfo, il racconto si configura così come una progressiva trasformazione di stati, dove sono in gioco soggetti, oggetti e, soprattutto, valori. Cerchiamo di capire innanzitutto che cos’è uno ‘stato’. Si tratta, per convenzione, di una relazione di congiunzione o di disgiunzione tra due cosiddetti attanti narrativi, un Soggetto e un Oggetto. Le trasformazioni, a loro volta, sono da intendere come il passaggio da una congiunzione a una disgiunzione o, all’inverso, da una disgiunzione a una congiunzione. Si danno allora una trasformazione disgiuntiva e una trasformazione congiuntiva. Così come nella sintassi di una qualsiasi frase di molte lingue il soggetto e l’oggetto sono sempre presenti, anche se talvolta impliciti, nell’azione espressa dal verbo, allo stesso modo all’interno di un racconto questi due attanti di base – Soggetto e Oggetto – sono sempre presenti. Il racconto è omologo alla frase: ci sono un processo (fare) e alcuni protagonisti di questo processo (essere), più alcuni elementi accessori (altri processi, altri attanti, alcuni circostanti). Ne deriva che il racconto non è, come si sostiene spesso, una semplice serie di azioni, ma, più precisamente, una successione non casuale di trasformazioni di stati, ora con51

giuntive ora disgiuntive, che mira a un qualche risultato finale. Il che comporta una serie di precisazioni. 3.3.1. Soggetto/Oggetto Il Soggetto e l’Oggetto non sono, rispettivamente, individui o cose già dati che intrattengono, poi, un qualche rapporto tra loro. Essi sono semmai termini, e in quanto tali esistono, si definiscono, si costituiscono soltanto nella loro relazione. Non può esserci l’uno senza l’altro: il Soggetto è quell’elemento narrativo che è congiunto o disgiunto con l’Oggetto (dunque non necessariamente un personaggio umano). L’Oggetto è quell’altro elemento narrativo che è dato nella sua disgiunzione o congiunzione con il Soggetto (e dunque non è una cosa nel senso letterale del termine). Entrambi sono attanti, elementi sintattici attraverso cui si articolano e prendono corpo le forze semantiche in campo in un determinato racconto. Ciò significa che nessuna soggettività – individuale o collettiva, sociale o istituzionale – esiste senza una qualche intenzionalità, un dirigersi verso qualcosa a essa esterna: una cosa, una persona, un’idea... Allo stesso modo, nell’universo del senso (che non è ovviamente l’universo fisico, ma l’ambiente culturale e sociale, quella che abbiamo chiamato semiosfera) non si dà alcuna oggettività esteriore, a sé stante, estranea a noi e ostinatamente muta, ma un elemento che è tale sempre per un soggetto, che è esterno al soggetto ma, se pure esiste, è grazie a esso, tramite lui. Vedremo come proprio in questa idea di una relazione reciproca costitutiva tra Soggetto e Oggetto si possa cogliere il nucleo profondo della marca, il suo essere al tempo stesso intima ed estranea, personale e mondana, immateriale e materiale; ossia, appunto, soggettiva e oggettiva. Un prodotto non vale per sé ma per essere Oggetto di valore, se non addirittura per rivestire in determinate circostanze il ruolo del Soggetto narrativo. È il discorso di marca, volta per volta, a determinare queste situazioni narrative e le loro conseguenti trasformazioni. 3.3.2. Fare ed essere Si danno nel racconto due tipi di Soggetto: un Soggetto operatore, che mette in atto le trasformazioni, e un Soggetto di stato, che è congiunto o disgiunto dall’Oggetto. Non è detto che in un racconto le due figure coincidano: può effettivamente accadere che a un re (Soggetto) venga rapita una principessa (Oggetto) e che lui stesso si ado52

peri per recuperarla (e in questo caso i due Soggetti, operatore e di stato, coincidono); accade invece più spesso che al re (Soggetto di stato) venga rapita la figlia (Oggetto) e che però sia un eroe (Soggetto operatore) a partire per riconquistarla (di modo che occorre distinguere le due soggettività). Sulla base di questa distinzione fra due tipi di Soggetto si delineano due diverse dimensioni del senso. Dalla parte del Soggetto operatore si instaura la dimensione pragmatica, dove il senso si produce negli eventi che accadono, nelle azioni che i soggetti svolgono, nei loro comportamenti, nella prassi umana e sociale. Dalla parte del Soggetto di stato si pone invece la dimensione affettiva, dove invece il senso si costituisce grazie alle emozioni dei soggetti, le quali sommuovono dall’interno gli stati di congiunzione e disgiunzione con l’oggetto – interpretabili pertanto come momenti timici, rispettivamente, positivo e negativo, di piacere e dispiacere, di euforia e di disforia. I cosiddetti stati, da questo punto di vista, non hanno nulla di statico, poiché al loro interno – come vedremo meglio [§ 3.7] – si compiono i processi passionali, fenomeni altrettanto costitutivi della narratività quanto lo sono le azioni e la loro programmazione. Dalla nostra prospettiva, questa duplicazione della narratività in due dimensioni permette di osservare come i processi affettivi prodotti dalla e nella marca non siano fenomeni estranei alla sua costituzione e alle sue eventuali affermazioni, sorta di fattori irrazionali spesso inconsapevoli e incontrollabili che si aggiungono dall’esterno al suo discorso. Molto diversamente, essi ne sono parte integrante, poiché arricchiscono con le proprie strategie specifiche la logica narrativa, contribuendo più di quanto non sembri alla costruzione dei valori negoziati con il consumatore. Ciò spiegherà come quest’ultimo, il consumatore, non sia un puro soggetto dedito all’azione sulla base di una serie di decisioni sedicenti razionali, secondo la logica economicista della convenienza; ma sia anche e soprattutto una soggettività ricca di umori e d’affetti, di passioni più o meno coscienti che, secondo una logica narrativa più profonda, si mescolano alle azioni e alle funzioni, le arricchiscono e le modificano a seconda dei casi. Così, la semiotica integra al proprio interno, ripensandolo e riarticolandolo, il cosiddetto marketing esperienziale ed estetico (Schmitt e Simonson 1997; Schmitt 1999, 2003; Ferraresi e Schmitt 2006) che, come è noto, oltrepassa l’idea di un semplice soddisfacimento del cliente (sulla base delle proprietà dei singoli prodotti) in nome delle sue reali espe53

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rienze di consumo (che coinvolgono più in generale i sensi, l’affettività, la cognizione, l’azione e la relazione). La scienza della significazione, come vedremo meglio più avanti a proposito delle passioni, non distingue fra le decisioni razionali dei soggetti (basate sulle loro reali necessità) e i loro impulsi sensoriali, affettivi e comportamentali: azione, ragione e passione sono dimensioni del senso che, in seno ai racconti, si articolano fra loro contribuendo in pari modo alla costruzione dell’identità soggettiva. Così, per esempio, una recente campagna Shell [fig. 1] ha un payoff che recita «Made to move» e una headline che dice a sua volta «Istinto, passione, desiderio», mentre una lunga immagine propone senza soluzione di continuità un bambino (o una serie di bambini) che gattona, progressivamente si solleva, inizia a camminare, cresce ancora e diventa ragazzo, poi adulto e infine frena con un volante fra le mani. «Cosa spinge a muoversi? Cosa rende la strada così invitante?», si legge più in basso. Insomma, quel che è importante non è ancora una specifica azione da portare avanti, ma un più generico ‘istinto’ verso il movimento, il quale, presente fin dalla nascita, determina il destino del Soggetto lungo tutta la sua vita, a prescindere dal fatto che si tratterà di una soggettività del fare o dell’essere, dell’agire o del patire. Come vedremo meglio più avanti [§ 3.7.2], si tratta infatti di un perfetto caso di costituzione passionale.

3.3.3. Oggetti di valore L’Oggetto – materiale o umano – non è importante di per sé, per le sue proprietà e fattezze intrinseche, ma, appunto, per il valore che vi è inscritto, per il valore che è il Soggetto ad attribuirgli. Un Soggetto, difatti, può andare alla ricerca di un Oggetto con il quale vuol congiungersi per ragioni molto diverse, ossia perché vede in esso possibili diversi valori che egli persegue. Così, l’eroe può ricercare la 54

principessa per obbedire al re (valore: ‘autorità sovrana’), per ascendere nella scala sociale (valore: ‘denaro’), perché ne è innamorato (valore: ‘eros’) o per moltissimi altri motivi. L’Oggetto è sempre, dunque, un Oggetto di valore: un valore più o meno concreto, più o meno astratto, a seconda dei casi, ma sempre legato a una qualche esperienza e condizione soggettiva. Individuare i Soggetti e gli Oggetti di una struttura narrativa significherà, per l’analisi semiotica, determinare i valori in gioco nel discorso o nel vissuto presi in esame. Appare abbastanza evidente come la nozione semiotica di Oggetto di Valore permetta di ridefinire alle fondamenta l’idea stessa di marca quale oggi si manifesta sulla scena sociale ed economica. E come al tempo stesso essa ponga fine alle dispute del marketing che in vario modo hanno opposto la marca al prodotto. Grazie a questa nozione la marca si rivela essere, nella sua estrema semplicità, un fenomeno prettamente semiotico. L’Oggetto infatti, ogni oggetto, si delinea e si costituisce nell’esperienza vissuta di ciascuno di noi, emerge come pregnanza a sé stante e diviene desiderabile, sempre e comunque grazie all’attribuzione di valore, cioè di senso, che un soggetto compie verso di esso. A dispetto di ogni rinnovato ontologismo – oggi tanto ingenuo quanto à la page –, nessun prodotto, nessuna merce, nessun bene di consumo e nessun servizio possono affacciarsi sul mercato in quanto tali, disponendo soltanto di una materialità presunta data e/o di una strumentalità supposta intrinseca. Essi sono sempre, anche inconsapevolmente, caricati di senso e di valore ora dal produttore, ora dal consumatore, ora da entrambi, ora dalla società e dalla cultura nella quale circolano. Non c’è prima il prodotto come tale (poniamo, la Coca-Cola), dotato di alcune proprietà fattuali (gusto, colore, temperatura...) e di alcune funzioni specifiche (dissetare), dunque di suoi valori intrinseci, e dopo la sua semantizzazione, ovvero l’eventuale attribuzione di senso quale belletto esteriore, surplus di valore più o meno immaginario, più o meno posticcio, che la marca in qualche modo giustifica e rilancia (il sentirsi simbolicamente simili ai giovani americani, aderire a uno stile di vita conviviale e spontaneo...). Molto diversamente, l’affermazione del prodotto, quale oggetto umano e sociale, coincide con la sua valorizzazione soggettiva: dissetarsi con Coca-Cola vuol dire condurre un certo stile di vita. Il mondo delle cose e il mondo dei significati si integrano vicendevolmente. Di modo che anche la funzione del prodotto, la praticità dell’oggetto, persino le sue fattezze materiali sono altrettanti effetti di senso che scaturiscono da una preventiva opera55

zione di valorizzazione: talora esplicita, talaltra nascosta, talaltra ancora dimenticata, ma sempre e comunque presente. Invertendo la prospettiva, nessun significato e nessun valore esistono come entità astratte e a sé stanti, sorta di ‘capitale simbolico’ ideale che la marca gestisce con le sue alchimie comunicative, i suoi prodigi semiotici, i suoi allestimenti immaginari incaricati di attribuire valore di scambio a beni dotati di valori d’uso. Il senso, per esistere, ha sempre bisogno di una sua manifestazione empirica, di una sua concretezza storica e sociale. Il valore, per darsi, ha necessariamente bisogno di una sua inscrizione in un qualche oggetto del mondo (il frizzante della Coca-Cola è al tempo stesso una salienza chimica e un valore socioculturale). Di conseguenza, la marca non può gestire valori se non gestendo al contempo prodotti e servizi (o loro surrogati tangibili): il controllo del mondo immaginario di marca è contemporaneamente il controllo della produzione materiale di beni e servizi. Quali essi siano. Per questo, in semiotica più che di valori si preferisce parlare di valorizzazioni, di quelle azioni di attribuzione di senso a un oggetto che producono in un sol colpo il senso e l’oggetto, il valore e il prodotto, il significato e il significante. 3.3.4. Attanti e attori Non bisogna confondere gli attanti (che sono presenti al livello antropomorfo delle strutture narrative) con i personaggi veri e propri di un racconto, o attori (che appaiono invece a livello delle strutture discorsive). Nei casi più semplici, a ogni attante corrisponde un attore: come in quel racconto in cui l’eroe è un Soggetto operatore che vuol far congiungere il principe Soggetto di stato con la fanciulla Oggetto. Ma può accadere anche che un solo attore personifichi due diversi attanti: come quando l’eroe è al tempo stesso Soggetto operatore e Soggetto di stato, ma anche come quando per esempio qualcuno, andando in cerca di se stesso, occupa tutte e tre le posizioni attanziali. E accade infine, ulteriore possibilità, che un solo attante sia personificato da più attori: si pensi alle fiabe dove tre fratelli – Soggetto operatore – partono tutti insieme alla ricerca dei genitori scomparsi – Oggetto di valore. In questo terzo caso, dove gli attori sono molteplici mentre l’attante è uno solo, si parla di attante collettivo: una classe sociale, una squadra di calcio, una famiglia, un esercito, un’azienda agiscono come altrettanti soggetti, sono cercati in quanto oggetti ecc. 56

Anche questo passaggio teorico è di grande utilità per la ricostruzione del discorso di marca. Ci permette di chiarire, infatti, che quando parliamo di valorizzazione soggettiva dei prodotti o dei servizi non stiamo intendendo un’attribuzione di valore che cambia da persona a persona, dunque instabile, fluttuante, variabile. Il soggetto a cui stiamo facendo riferimento è un attante, non un attore: è un’entità narrativa profonda che può manifestarsi a livello concreto del discorso ora come una persona singola, ora come un gruppo, ora come una massa indeterminata, ora come un’istituzione, ora come una società nella sua interezza. Così, a valorizzare un prodotto può essere l’individuo singolo, con tutte le variabili sociodemografiche che dovrebbero contraddistinguerlo e influenzarlo; ma può essere anche un’intera collettività, un’istituzione politica, una forza ideologica o sociale, un gruppo d’opinione, una ‘tribù’ che, in nome dei gusti supposti analoghi dei suoi membri, si costituisce molto spesso proprio intorno alle proposte di una marca, permettendole così di aspirare a un qualche successo. La valorizzazione soggettiva dell’oggetto, insomma, è sempre una valorizzazione sociale, anche quando a compierla è l’individuo singolo che, per quanto ritenga di prendere decisioni ed esprimere gusti personali, è anch’egli – ovviamente – l’esito di una situazione sociale data e di una eredità culturale specifica. La politica dei prezzi dei principali gestori di telefonia mobile fa costante ricorso a questo tipo di fenomeni. Prevedere speciali tariffe per famiglie o per aziende significa non solo e non tanto garantire un risparmio a chi ha esigenza di comunicare con il/la consorte o con i colleghi, ma in qualche modo incoraggiare questa stessa forma di comunicazione: dunque rafforzare i legami familiari o la collaborazione fra soggetti diversi entro la medesima azienda. Per non parlare delle tariffe per coppie, che rendono ancora più solida una relazione amorosa, per il semplice fatto di permettere una comunicazione telefonica economicamente conveniente – quando non addirittura gratuita – tra due innamorati. Ma poi: ci si innamora e poi si parla al telefono, o piuttosto il contrario? Appare evidente in questo quadro come la tariffa «tribù» recentemente proposta da Tim – tale per cui si risparmia quando si parla tra un ristretto, preciso gruppo di persone – sia l’immediata, più evidente messa in pratica del marketing tribale proposto, via Maffesoli (1988), da Cova (2003). Tim ha insomma colto come fra l’individuo singolo e la collettività non ci stia soltanto la coppia, ma innumerevoli gruppi ‘tribali’ entro i quali si costituiscono identità variabili nel tempo e nello spazio. Così, il prezzo è un elemento del mix di marca non solo perché seleziona un preciso target di 57

consumatori socialmente già dati (generalista, di nicchia, elevato ecc.), ma perché contribuisce a trasmettere i valori del discorso di brand al suo pubblico, costituendo di fatto quel target e quei consumatori.

3.4. Programmi, modalità, identità Per esserci struttura narrativa, non basta che ci sia una semplice serie di azioni, ma occorre che taluni attanti mettano in moto una sequenza di stati e di loro trasformazioni. Tale sequenza non è per nulla casuale: è orientata, tende a uno stato finale, generalmente di tipo congiuntivo, in cui il Soggetto, per realizzarsi, deve riuscire a far proprio un suo determinato Oggetto di valore, oppure, se è Soggetto operatore, deve far sì che l’Oggetto divenga proprio del Soggetto di stato. La sequenza narrativa, in tal modo, ha una mira precisa, un obiettivo specifico, un risultato da raggiungere, grazie al quale, alla fine, un determinato Soggetto si è realizzato, è divenuto, per così dire, un vero e proprio soggetto, qualcuno che s’è congiunto – o ha fatto congiungere qualcun altro – con i propri Oggetti, ossia con i propri valori. In una parola: qualcuno che ha acquisito un’identità («io sono uno che è riuscito a ottenere ciò che voleva»). L’identità soggettiva è innanzitutto l’esito di una sequenza narrativa riuscita, la conseguenza del compimento di un programma narrativo. Così, identificare la struttura di un racconto equivale a ricostruire i cosiddetti programmi narrativi che ne permettono lo sviluppo, a partire da una precisa posta in gioco (la ricerca di alcuni valori) verso un determinato obiettivo (il congiungimento con tali valori). Un programma narrativo (o PN) è definito come l’insieme delle operazioni che un Soggetto operatore mette in atto per far sì che il Soggetto di stato possa esser congiunto (o disgiunto) con il suo Oggetto di valore: la serie necessaria delle tappe dalle quali questi deve passare per giungere al risultato finale. Dalla nozione di programma narrativo discendono alcune conseguenze e derivano altre, più fini, modellizzazioni. 3.4.1. Virtuale, attuale, realizzato Innanzitutto, per attuare il programma di ricerca dell’Oggetto di valore, il Soggetto operatore deve preliminarmente essere abilitato a farlo. Per svolgere una certa azione è necessario che egli sia competente: è necessario innanzitutto doverla o volerla fare, e poi saperla o poterla fare. Ancora una volta in analogia con la linguistica, si dice allora che il processo narrativo viene diversamente modalizzato, a 58

seconda, appunto, della modalità con cui il Soggetto viene reso competente all’azione. Una cosa è per esempio un Soggetto secondo il volere. Cosa ben diversa è un Soggetto secondo il dovere. In uno spot, per esempio, una cosa è un tizio che vuol fare una determinata azione, che trova in se stesso le ragioni del proprio operato, che combatte in nome di ideali propri; tutt’altra cosa è che questo soggetto sia in qualche modo costretto a farlo, obbedendo per esempio a ordini, subendo un sopruso, aderendo a leggi superiori o simili. Oppure ancora: una cosa è un soggetto che è abilitato a fare qualcosa, ha il permesso di farla (come nel may inglese); tutt’altra è un soggetto che è in grado di farla, che sa come farla (can). Le modalità narrative sono quindi sostanzialmente quattro: dovere e volere (dette virtualizzanti), potere e sapere (attualizzanti). Si tratta, in senso stretto, di verbi che non predicano direttamente un contenuto descrittivo ma semmai altri verbi (sono ‘servili’, dice la grammatica tradizionale), trasformandone fortemente il senso. A esse va dunque sempre aggiunto un qualche altro verbo esprimente un’azione (fare) o uno stato (essere): dovere, volere, potere e saperfare; dovere, volere, potere e saper-essere; con le loro rispettive negazioni: non-dover-fare, non voler-essere ecc. Oppure, le modalità possono fare ciascuna il predicato a un’altra; e qui la combinatoria è pressoché infinita: dover-volere (fare), voler-potere (essere), nonpoter-sapere (fare), saper-volere (essere) ecc. Le possibilità descrittive dei processi narrativi divengono in tal modo molto alte: ne vedremo l’utilità, per esempio, al momento di descrivere i fenomeni passionali [§ 3.7.1] o i contratti comunicativi [§ 4.2]. In linea di massima diciamo che in ogni racconto canonico, per poter passare all’atto, per operare cioè la trasformazione, il Soggetto operatore ha bisogno di acquisire prima un volere o un dovere (ed è un semplice soggetto virtuale) e poi un potere o un sapere (ed è un soggetto attuale). A seconda delle modalità acquisite o non acquisite, la trasformazione avrà più o meno luogo, la congiunzione del Soggetto di stato con l’Oggetto di valore sarà più o meno effettuata, e il Soggetto operatore diverrà, a sua volta, un soggetto realizzato. Si instaura così una tipologia di soggetti (virtuali, attuali, realizzati) o, meglio, una serie di progressive assunzioni di identità, di modulazioni di competenza, e dunque d’esistenza, semiotica. Il Soggetto, abbiamo visto, si costituisce nel processo narrativo grazie alla sua relazione valorizzante con l’Oggetto. Vediamo adesso che questa identità non è data mai una volta per tutte, ma si delinea progressiva59

mente, si trasforma, mediante le modalità di cui il Soggetto si dota (o viene dotato). La soggettività narrativa è mobile. Non è costituita da un accumulo di proprietà essenziali e necessarie, ossia per entità specifiche che sono ora presenti ora assenti in un certo personaggio che si trova in un determinato ambiente e/o momento («io sono così-e-così»). Molto diversamente, tale soggettività varia a seconda dei contesti, si arricchisce o si impoverisce a seconda dei voleri e dei saperi, dei doveri e dei poteri che acquisisce o che perde, che riesce a ottenere più o meno in toto, che assume consapevolmente o che si trova a possedere quasi passivamente. È una questione, vedremo [§ 3.8], di forme di vita. Ci sono soggetti che hanno il volere ma non il potere, e che dunque non riescono mai a realizzarsi. Ci sono soggetti che non appena hanno un certo potere ne cercano altro ancora e non passano mai all’azione vera e propria, di modo che, per loro, il potere diviene in sé un Oggetto di valore. Oppure ci sono soggetti che hanno il saper-fare ma non il potere, e dunque non sono mai nelle condizioni di agire. Ancora: soggetti che hanno il potere ma non il volere, e si chiedono che cosa valga realmente la pena di fare. Soggetti che fanno aderire volere e dovere, come in certe etiche protestanti. Soggetti che fanno senza esserne capaci, e improvvisano a danno degli altri. Soggetti che perdono progressivamente interesse verso l’Oggetto man mano che esso diviene raggiungibile, e si domandano che cosa stanno facendo. Soggetti che non possono fare perché qualcuno glielo impedisce, e ne soffrono. Soggetti che possono non fare, e usano la mancanza d’azione come un’arma. Ecco perché, nella narrazione, l’identità soggettiva è al tempo stesso pragmatica e passionale: il calcolo delle competenze soggettive locali e temporanee, casuali o ricercate, fa scattare, da una serie di programmi d’azione, un tumulto affettivo; oppure – che è lo stesso – l’avvicendarsi di un cumulo umorale mette in moto programmi operativi. 3.4.2. Programmi di base e d’uso Così, al PN vero e proprio, detto di base, che mira al congiungimento (o al disgiungimento) del Soggetto di stato con il valore inscritto nell’Oggetto, si accompagnano uno o più PN, detti d’uso, che servono al Soggetto operatore per reperire le modalità necessarie attraverso le quali passare all’atto. Le modalità narrative si configurano allora come altrettanti valori d’uso, anch’essi inscritti in Oggetti, e anch’essi raffigurabili in modo vario, più o meno concreto, più o me60

no ideale. La scimmietta che vuol mangiare la banana (PN di base) deve prima acquisire il poter-fare, per esempio un bastone, che le permetta di tirare giù la banana dall’albero (PN d’uso). Se nella banana è inscritto il valore di base (‘nutrimento’), nel bastone è inscritto il valore d’uso (‘poter-fare’). Allo stesso modo, se qualcuno vuol sedurre l’oggetto amato (PN di base), deve preventivamente rendersi desiderabile, dunque gradevole, attraente (PN d’uso); cercherà pertanto di dotarsi dei mezzi (oggetti modali come l’abbigliamento, la cosmesi, l’igiene...) che gli consentano di diventar tale, per poi mettere in moto il programma finale di conquista. Gran parte dei discorsi di marca è organizzata secondo questa logica – che è poi, come sappiamo, la logica del senso comune, l’articolazione profonda che regola le nostre esperienze vissute. Si comprende facilmente come gli incastri tra programmi possano essere i più vari, e raggiungere forme molto sofisticate di complessità, dove la sospensione del PN di base comporta per esempio l’innesco di una serie di PN d’uso, completata la quale è possibile tornare al programma iniziale e portarlo a termine. Accade spesso che si cerchi di mettere in moto programmi di base senza passare dai programmi d’uso (e si agisce senza esserne competenti). Così come, viceversa, accade che i programmi di base vengano abbandonati a favore di puri programmi d’uso (dotandosi di una competenza di fatto inutile). Se quindi, in linea di principio, l’acquisizione della competenza deve sempre precedere il passaggio all’azione, non è detto che di fatto sia così, che i soggetti cioè desiderino un tale ordine di svolgimento degli eventi. Molto spesso vogliamo oggetti del tutto inutili, ci dotiamo di competenze che non ci servono; e poi, una volta congiunti con esse, ci mettiamo a far cose che prima non ci interessavano, di cui non sentivamo il bisogno. Si pensi a gran parte delle tecnologie sempre più sofisticate che ci si offrono quotidianamente: computer iperveloci, telefoni cellulari superattrezzati, automobili iperaccessoriate sono straordinari accumuli di competenze che non volevamo ma che, non appena possediamo, iniziamo a usare per raggiungere obiettivi prima impensati: scrivere con un word processor che ci corregge l’ortografia, fotografare o ascoltare musica dovunque grazie al telefonino, raggiungere in pochi secondi velocità altissime grazie allo scatto di una motocicletta d’ultima generazione... Si colloca qui, come sarà già chiaro, un altro fondamentale fenomeno riguardante la relazione tra la sfera dell’economia e quella dei media, tra il mercato e le comunicazioni di massa. E che dunque 61

coinvolge in prima istanza l’esistenza stessa delle marche. Si tratta del problema, variamente e affannosamente discusso, della sovrapposizione fra desideri e bisogni, della nascita più o meno indotta dei primi a discapito dei secondi, della manipolazione spesso surrettizia delle coscienze che trasforma i cittadini in consumatori, gli individui in clienti. Se, come è ovvio, accade che qualcuno si trovi ad agire sulla base di competenze che non voleva, da dove gli proviene questo desiderio? se, in che modo e sino a che punto è possibile insinuarglielo? Questione delicata, centrale per ogni discorso della e sulla marca, che dovremo riprendere più approfonditamente. 3.4.3. Il Destinante Per farlo, torniamo alla terminologia e alla concettualizzazione semiotica, grazie alle quali la domanda acquista una formulazione tecnica: in che modo il Soggetto operatore acquisisce la prima modalità? come accade che un certo personaggio del racconto divenga il Soggetto incaricato di svolgere l’azione narrativa principale? Dobbiamo porre la presenza di un terzo attante, il quale conferisce al Soggetto operatore la prima modalità necessaria per passare all’azione (volere o potere), mettendolo in condizione di essere un vero e proprio Soggetto virtuale che mira – per sé o per il Soggetto di stato – al raggiungimento di un qualche Oggetto di valore. Questo terzo attante, che viene detto Destinante, è colui il quale, provenendo da una dimensione altra, per definizione trascendente rispetto all’universo narrativo dato (la divinità è il caso più ovvio e frequente), trasmette al Soggetto operatore i valori del quale egli è portatore. Così, per esempio, in uno spot un padre che incarica il figlio di esercitarsi in un certo sport, facendolo assurgere alla condizione del virtuale eroe della storia, può farlo in nome della sua personale autorità, dotando il ragazzo di un dover-fare, oppure in nome di una comunanza di interessi, insinuandogli invece un voler-fare. Cosa ovviamente ben diversa: laddove sono la forza o la gerarchia sociale (religiosa, familiare, economica...) a costituire doveri, che cosa invece rende possibili i voleri? in nome di quale principio supposto comune si insinuano negli altri certi desideri? Risposta complessa, ed estremamente delicata, che può variare parecchio da contesto a contesto, da situazione a situazione, ma che già lascia intravedere come, in un modo o nell’altro, il Soggetto non sia mai una monade, un individuo singolo, ma si configuri sin da principio come un attore sociale, un essere-nel-mondo che, prima 62

di cominciare il suo percorso narrativo di costruzione o di trasformazione della propria identità, vive relazioni ora polemiche ora contrattuali con altri soggetti sociali, all’interno di relazioni intersoggettive ora gerarchiche ora paritetiche che gli forniscono doveri e voleri, sottomissioni e alleanze. C’è sempre, volenti o nolenti, qualcuno che è il nostro Destinante: sia esso un’entità divina, un’istituzione, una comunità, un individuo concreto, un essere mitico o immaginario, una star dello spettacolo, un partito politico, una marca... Così, se il racconto è una struttura chiusa (con un inizio, uno svolgimento e una fine), la figura del Destinante lo tiene in qualche modo dischiuso e in contatto con un universo semantico altro, dal quale i valori provengono e dove probabilmente si tornerà alla fine. Se l’Oggetto è, come abbiamo detto, sempre e in ogni caso un oggetto in cui sono inscritti valori soggettivi, tali valori arrivano al Soggetto dall’esterno, di modo che ogni racconto è in perenne e necessario collegamento con altri racconti, con altre storie, dove personaggi diversi (per esempio una madre e un bambino) incarnano i medesimi ruoli (per esempio di Soggetto) o, viceversa, lo stesso personaggio (per esempio un medico) ha ruoli attanziali diversi (ora di Soggetto ora di Aiutante). E le relazioni tra l’universo narrativo dato e l’universo trascendente vengono però interamente gestite dal Destinante: figura trait d’union fra ambienti e contesti diversi, la quale all’inizio della vicenda conferisce al Soggetto i valori in gioco, e, alla fine della stessa storia, giudica l’operato del Soggetto sulla base dei valori posti in gioco all’inizio. Il Destinante è dunque sia un mandante sia un giudice: anche qui ovviamente, intesi come attanti, e dunque rappresentabili ora con il medesimo ora con un diverso attore. È abbastanza evidente come la figura del Destinante sia ancora più importante di quella del Soggetto, poiché è da lui che dipendono i valori che il Soggetto si incarica di raggiungere nei suoi programmi d’azione: è lui che determina, più che i valori in sé, il loro valore, il loro peso sociale, la loro gerarchia culturale, l’importanza da attribuire loro, in una parola: la loro valenza. Avere un buon Destinante è essere già in buona posizione. Esserne privi è viceversa un forte svantaggio. Lo sanno bene gli uomini politici, che pongono ora il Popolo, ora il Paese, ora la Chiesa, ora la Comunità europea, ora la Nato come loro Destinanti, trasferendo indirettamente su se stessi l’autorità (o l’autorevolezza) che da quelle realtà molto spesso proviene. E lo sanno bene le marche, anch’esse preoccupate di dotarsi di Destinanti più o meno gloriosi, più o meno mitici, più o meno ac63

cettabili; e anch’esse pronte, a loro volta, a proporsi come Destinanti per i loro potenziali consumatori. Ricevono valori dall’esterno e li trasferiscono ad altri: ecco gran parte del loro lavoro, che le pone per questo in una posizione narrativa che vuol mimare la sfera sacrale. Da quanto s’è detto, appare chiaro come la categoria semio-narrativa del Destinante sia di basilare importanza per la determinazione della marca come fenomeno al tempo stesso sociale ed economico, immateriale e strategico. In molti hanno osservato come fra la nozione di Destinante e quella di marca ci siano profonde analogie: entrambe sono entità portatrici di valori, dei quali però non usufruiscono direttamente, poiché il loro ruolo specifico è quello di trasmetterli, in vario modo, a dei veri e propri soggetti (l’eroe della storia, il consumatore). Detto ciò, osserva Volli (2003), non bisogna comunque concluderne che la marca sia di per sé sempre e comunque un Destinante: la presenza di un elemento narrativo che ha un qualche aggancio con il piano dei valori non implica necessariamente che esso sia da interpretare come Destinante. Così come ci sono marchedestinante (Nike: «just do it»), ci sono anche marche-soggetto (Heineken: «lo spirito della birra»), marche-destinatario (L’Oréal: «perché io valgo»), marche-aiutante (Star: «Star è sempre con te»), marche-oggetto di valore (Diesel: «successful living») e persino marcheoppositore (Pepsi-Cola: «chiedi di più») (classificazione tratta da Ceriani 2001, p. 202). Per individuare il ruolo narrativo assunto di volta in volta dalla marca, occorre allora andare in cerca non solo dei valori in gioco, ma anche dell’intera situazione intersoggettiva che intorno a questi valori viene messa in opera. E, soprattutto, esaminare il modo in cui tale situazione intersoggettiva viene, per così dire, presa in carico dal discorso, che può limitarsi a riportarla in toni sedicenti obiettivi, oppure, al contrario, assumerla come propria, intervenendo come soggetto all’interno dell’articolazione narrativa. Come si vedrà approfonditamente nel § 4, una definizione narrativa della marca deve giocoforza incrociarsi con una sua definizione comunicativa: la prospettiva teorica della cosiddetta enunciazione ha proprio il compito di coniugare insieme narrazione e comunicazione all’interno della discorsività. Un campo, apparentemente molto lontano, dove questo genere di modelli narrativi trova fertile applicazione è senz’altro quello degli oggetti e del loro design. Il design strategico opera da tempo, infatti, per progettare prodotti e servizi che non solo siano coerenti con i valori di 64

marca dal punto di vista estetico e funzionale, ma che in un modo o nell’altro se ne facciano portatori, se non addirittura promotori. Se da una parte dunque la questione del design entra in relazione con quella della marca all’interno delle problematiche dei generi discorsivi [§ 4.3.4] e dell’identità visiva [§ 5], essa è pertinente già per quel che riguarda le strutturazioni narrative soggiacenti al discorso di marca. Progettare un oggetto è dotarlo non solo di una forma più o meno gradevole e di una funzione più o meno evidente ma, agendo in profondità, di un qualche senso, di una significazione che si determina e si precisa in relazione ai contesti narrativi in cui quell’oggetto (bene, servizio, evento ecc.) viene inserito. Così, può accadere che un oggetto celebre come il Juicy Salif di Philippe Starck per Alessi divenga, nella pratica sociale, non più un semplice strumento quotidiano (uno spremiagrumi) ma soprattutto un oggetto di contemplazione estetica (un’icona del design da mostrare in salotto) anche grazie alla sua strutturazione semiotica interna. È stato mostrato infatti (Mattozzi 2004) che, se pure dal punto di vista strumentale perde in praticità (spreme ma non filtra né raccoglie), dal punto di vista figurativo questo oggetto richiama tutto un immaginario da fantascienza anni Cinquanta (una specie di macchina/ragno, o di astronave/calamaro): ne viene fuori l’ironia tipica del discorso Alessi, marca che costitutivamente gioca sul confine fra ordinarietà quotidiana e straordinarietà fantasiosa. (Sul nesso fra comunicazione di marca e design cfr. pure gli esempi presenti in Ceriani 2001.) La configurazione fisica di un oggetto contribuisce spesso a determinare le storie in cui esso si troverà a ‘vivere’, dunque le relazioni che instaura con i soggetti sociali. La semiotica degli oggetti, da questo punto di vista, ha osservato come in essi non ci sia nulla di ‘oggettivo’, e che senza una qualche relazione con uno o più soggetti, nonché con altri oggetti, nessun oggetto assume e manifesta il proprio significato, sia esso un senso di tipo strumentale, alla maniera del vecchio funzionalismo, oppure di tipo estetico, mitico, sociale e così via (Latour 1993; Floch 1995; Semprini 1995; Semprini ed. 1999; Landowski e Marrone 2002; Deni 2002; Deni ed. 2002). L’oggetto, qualunque oggetto, è già rivolto verso di noi: in qualche modo ci include, contribuendo a delineare i contorni e le fattezze della nostra soggettività, a inscriverci nella rete di relazioni intersoggettive e interoggettive che ci pongono in gioco come corpi sociali. Studiando l’oggetto sapremo insomma qualcosa di noi. In questo senso, è stato possibile analizzare semioticamente uno strumento a prima vista banale, uno sbattitore domestico denominato «Cucina HR1565/6» [fig. 2], che fa parte di una serie di attrezzi Philips denominata, appunto, «Cucina» che comprende frullatori, tostapane, bollitori, friggitrici, centrifughe e così via (Mangano e Marrone 2002). Nel sito web della marca in cui viene presentata la collezione, l’apparecchio si trova tra i mixer e 65

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sembra presentarsi come l’item al tempo stesso più completo e più semplificato del suo gruppo. Infatti, come si vede in figg. 2 e 5, l’oggetto in questione è articolato in una parte superiore dotata di un’impugnatura da cui fuoriescono le fruste (praticamente identica a Cucina HR1560/6 di fig. 3) e in una base inferiore con ciotola. Non è dotato invece del vano per riporre le fruste (che invece ha Cucina HR1561/6 di fig. 4). Lo sbattitore in questione non solo – dal punto di vista estetico – presenta un design dalle linee arrotondate e slanciate, ma soprattutto – dal punto di vista funzionale – ha un unico tasto che serve sia per regolare le velocità delle fruste sia per sganciarle, ed è dotato di ciotola girevole. Scomponibile in una serie molto complessa di elementi (raffigurati nel libretto di istruzioni come in fig. 5), la componente configurativa del nostro sbattitore può essere così schematizzata. (1) C’è innanzitutto una parte superiore dove sono presenti: (i) in alto, un pulsante di accensionespegnimento, con il quale si regolano le tre velocità e si comanda l’espulsione delle fruste o dei ganci; un secondo pulsante ‘turbo’ per accelerare ulteriormente la velocità di rotazione delle fruste; (ii) in basso, due vani di inserimento delle fruste (o dei ganci); (iii) lateralmente, una scanalatura intorno alla quale si arrotola il filo elettrico prima di riporre l’apparecchio; (iv) al centro, un’impugnatura per la quale tenere l’apparecchio quando non lo si incastra nella base. (2) Questa parte superiore è strutturata in modo tale da poter essere utilizzata con una sola mano, che contemporaneamente impugna l’apparecchio e ne regola il funzionamento in modo assolutamente indipendente, senza alcuna ciotola annessa o base 66

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di appoggio. La parte superiore, in realtà, per essere adoperata va collegata a due fruste (che talvolta designano l’intero apparecchio per sineddoche) o a due ganci, che si attaccano a essa in alternativa a seconda del tipo di ingredienti che devono essere lavorati. Le fruste e i ganci costituiscono per così dire il cuore dello sbattitore, in quanto sono la parte dell’intero apparecchio che entra fisicamente in contatto con le sostanze da trasformare: grazie all’azione motoria prodotta elettricamente, sono essi che, ruotando più o meno rapidamente, sbattono gli ingredienti presenti nella ciotola sino a trasformarne lo stato materico: mescolano, amalgamano, montano... (3) La ciotola non è soltanto il recipiente in cui riporre gli ingredienti da trasformare (lo ‘spazio utopico’ del programma d’azione), poiché compie anch’essa una specifica azione: ruotando, fa sì che le sostanze sbattute dalle fruste (o dai ganci) subiscano uniformemente il medesimo trattamento e formino composti privi di grumi o di altre discontinuità materiche. Se la rotazione delle fruste sostituisce il gesto umano della sbattitura, quella della ciotola compie invece l’azione dell’altra mano che, tenendo ben salda la ciotola, la farebbe girare con una certa regolarità. (4) La totale delega dell’azione umana alla macchina è possibile però per via delle due basi dove si incastrano rispettivamente la parte superiore e la ciotola. È grazie a queste basi che lo sbattitore assume la configurazione finale di macro-oggetto tecnologico che, una volta acceso, agisce in piena autonomia, senza che alcun attore umano debba partecipare alla sua performance in qualche modo agevolandola. Anche se sparisce dal programma narrativo dello sbattitore, al quale 67

viene delegato l’intero svolgimento dell’azione, la soggettività umana resta però presente in alcuni punti precisi della configurazione oggettuale: nelle fruste, per astrazione figurativa dagli arti superiori del corpo umano; nell’impugnatura, per calco della mano. L’oggetto, in tal modo, non solo ha un corpo in quanto tale, ossia una sua configurazione complessa e specifica, ma allude anche a una realtà somatica prettamente umana, mostrando un qualche legame con una soggettività dalla quale non può in alcun modo affrancarsi del tutto e per sempre. Lo si vede bene se si mette in relazione la componente configurativa sin qui descritta con la componente funzionale del medesimo oggetto: occorre ricostruire la catena narrativa nella quale lo sbattitore trova il suo specifico posto, il contesto situazionale che tale oggetto presuppone per poter acquisire tutto il suo senso. Questo contesto, però, non è qualcosa di extrasemiotico che si ricava fuoriuscendo dalla significazione dell’oggetto, ma, al contrario, è inscritto nella sua natura testuale. Se isoliamo alcuni aspetti della configurazione complessiva dello sbattitore, vediamo infatti che esso, per poter portare avanti le proprie performance, deve essere collegato a una catena di altri attori attraverso due sue fondamentali interfacce (Zinna 2004): (a) un’interfaccia-soggetto, che si rivolge a un utente umano, manifestata nei due pulsanti presenti nella parte superiore e dall’impugnatura; (b) un’interfaccia-oggetto, che si rivolge ad attori non-umani, che è manifestata come ciotola dove vengono riposti gli ingredienti da trasformare. La catena assume così una forma del tipo: SBATTITORE

attore umano → [pulsanti/impugnatura → fruste → ciotola] → ingredienti interfaccia soggetto

interfaccia oggetto

Vediamo così che, grazie alla sua specifica configurazione interna fondamentalmente triadica, lo sbattitore assume un ruolo di mediatore tra un attore umano e una serie di ingredienti da trasformare. Questa mediazione è pressoché totale, in quanto, conferendo all’attore umano il compito di schiacciare un pulsante, di fatto gli impedisce un contatto diretto, empirico e sensibile, con gli ingredienti. Così, lo sbattitore ha l’onere di lavorare alcune sostanze sino a modificarne qualitativamente la natura (amalgama, mescola, monta...); ma questo compito gli viene affidato da qualcun altro, dall’attore umano, che avrebbe dovuto (ma, vedremo, non potuto) farlo in origine. 68

Ora, questo ruolo di mediatore dello sbattitore va riconfigurato all’interno di quanto meno due programmi narrativi fra loro inscatolati. Innanzitutto, all’interno del programma semplice di trasformazione degli ingredienti (per esempio: farina, burro, uova, zucchero → pasta frolla), lo sbattitore è in tutto e per tutto un Soggetto operatore che costruisce un Oggetto di valore (la pasta frolla), inscrivendo cioè dei valori (culinari) all’interno di oggetti (farina, burro, uova, zucchero) che, per essere acquisiti, devono essere radicalmente trasformati. In quanto tale, esso riceve da un altro attante (l’attore umano) il sistema di valori (culinari) attraverso i quali agire, dunque un dover-fare. Quest’ultimo attante ha ovviamente il ruolo del Destinante che stipula con il Soggetto-sbattitore un contratto fiduciario. L’attore umano fa fare allo sbattitore alcune operazioni di trasformazione della materia sulla base di valori culinari precedentemente stabiliti. Ma l’Oggetto di valore in tal modo prodotto non è, presumibilmente, un Oggetto di valore finale, ciò a cui definitivamente si mira: la pasta frolla serve a fare una crostata, la panna montata serve a guarnire una torta e così via. L’azione svolta dallo sbattitore si configura allora come un programma narrativo d’uso, atto a produrre un oggetto modale (la pasta frolla), che è parte di un programma narrativo più ampio, mirante a produrre l’oggetto di valore finale (la crostata). Se è così, lo sbattitore deve essere interpretato non più come un Soggetto operatore ma come un Aiutante, e l’attore umano, a sua volta, assume il ruolo non più di Destinante ma di Soggetto operatore. A ben vedere, comunque, l’Aiutante non è da considerare come un semplice supporto all’azione del Soggetto che fornisce un poter-fare aggiuntivo all’operato di quest’ultimo: come in molti racconti mitici o fiabeschi, l’Aiutante è in tutto e per tutto il poter-fare, è colui che agisce al posto del Soggetto, che fa qualcosa che il Soggetto avrebbe, forse, dovuto fare, ma non è in grado di fare in modo adeguato. In altri termini, la performance svolta dallo sbattitore non sostituisce quella che l’attore umano avrebbe dovuto compiere ma la migliora, garantendo una pasta frolla che farà della crostata finale qualcosa di ben più appetibile di quella che si sarebbe ottenuta senza di lui. Non solo, dunque, lo sbattitore previene l’eventuale fatica dell’attore umano, causata dall’azione ripetuta ed energica della sbattitura, e non solo evita il costituirsi del programma patemico di pazienza che tale azione genererebbe, ma, di più, fa sì che l’oggetto finale risponda al meglio al sistema di valori culinari predisposto al momento del contratto. Emerge, in tal modo, l’esigenza di una specie di giudizio sul lavoro svolto dall’Aiutante: l’attore umano torna a essere Destinante, questa volta giudicatore, dello sbattitore-soggetto, premiandolo dei risultati raggiunti. La nostra storia si conclude così, con una trasfigurazione del soggetto eroe che, direbbe Propp, va a Nozze. Lo sbattitore smette di esse69

re un semplice attrezzo da cucina, un semplice strumento a cui delegare lavori sporchi e faticosi, e diviene un ‘compagno di strada’, un amico fedele, un consigliere fidato, un Soggetto – insomma – che suscita e vive esso stesso una serie di passioni. Si è contenti di possedere uno sbattitore che prepara dei manicaretti così gustosi, si è orgogliosi di far contenti quelli che li mangeranno, sanzionandoci a loro volta. Oppure, arretrando d’un passo la vicenda, si vorrebbe tanto possedere quell’oggetto così capace, si vorrebbe far bella figura con i familiari e gli amici grazie a torte tanto appetitose, si vorrebbe ricevere la loro sanzione. Oppure ancora, modificando il punto di vista, si è invidiosi di chi già lo possiede, si vorrebbe ricevere la sanzione di quelli che sanzionano coloro i quali già lo possiedono. Lo sbattitore, da Soggetto operatore o Aiutante da cucina, diventa oggetto voluto, oggetto di valore, oggetto di desiderio da possedere a tutti i costi: in breve, oggetto da acquistare.

3.5. Lo schema narrativo canonico Quanto si è detto sin qui a proposito delle strutture narrative può essere sinteticamente rappresentato nel cosiddetto schema narrativo canonico, modello a quattro tappe che è supposto essere adoperabile per ogni aspetto della narratività, sia essa il racconto vero e proprio, considerato tale in una certa cultura, o una struttura astratta e soggiacente ad altri generi discorsivi, quali, per esempio, la comunicazione pubblicitaria e di marca. Il momento centrale di una struttura narrativa è certamente quello della performance, l’atto che, se riuscito, porta alla trasformazione narrativa, e che dunque consente il passaggio da uno stato iniziale (spesso negativo) a un secondo stato (spesso positivo). Nelle fiabe questo momento corrisponde a ciò che i folkloristi chiamano Funzione Lotta e i mitologi Prova Decisiva, poiché comporta una conflittualità, un incontro-scontro con un Antagonista, con un Anti-soggetto che all’interno del medesimo racconto porta avanti un programma narrativo opposto. Così, se in generale la performance deve essere intesa come quella azione o serie di azioni grazie a cui il Soggetto porta a termine il suo programma narrativo di base, la riuscita di questo atto non è per nulla scontata. Si tratta, appunto, di una messa alla prova delle capacità del Soggetto, del suo potere e saper-fare, di contro alle capacità di cui a sua volta viene dotato l’Anti-soggetto. Ma in fondo, più profondamente, si tratta di una specie di verifica della tenuta sociale dei suoi valori, della loro reale consi70

stenza culturale, della loro valenza, rispetto ai valori opposti di cui è portatore l’Anti-soggetto (anch’essi più o meno indirettamente messi alla prova). Se l’atto della performance è necessariamente presente in ogni struttura narrativa, non è detto che sia il più importante. In fondo, esso è l’esito di ciò che lo precede e causa di ciò che lo segue. Il Soggetto che compie questo atto trasformativo fondamentale, come abbiamo detto, deve infatti preliminarmente essere messo nelle condizioni di farlo, deve cioè acquisire una competenza: non dovrebbe essere possibile compiere una certa azione senza saperla o poterla fare. L’azione della performance (corrispondente all’esito del PN di base) deve allora essere preceduta da altre azioni (articolate nel PN d’uso), consistenti nell’acquisizione delle competenze necessarie per svolgere la performance, di quei poter- e saper-fare senza i quali nessun atto di Lotta con l’Anti-soggetto potrà mai essere risolutivo. Nelle fiabe questo momento viene spesso messo in scena come Fornitura, spesso sotto forma di Dono, di quel ‘mezzo magico’ che consente all’eroe di risolvere il Danneggiamento iniziale. Nei miti si tratta della celebre Prova qualificante, grazie alla quale l’eroe entra in possesso degli oggetti, delle informazioni o degli alleati che gli permetteranno di acquisire poteri straordinari, sovrannaturali, appunto: mitici. Più in generale, l’acquisizione della competenza consiste in quell’azione o serie di azioni grazie a cui il Soggetto viene messo – o dovrebbe esser messo – in condizione di passare all’atto. Tale acquisizione, per definizione, non è quasi mai pacifica. Se talvolta il ‘mezzo magico’ è frutto di un Dono, o in ogni caso è prevista la presenza di un Aiutante, molto più spesso c’è una prova da superare, un mettersi in gioco, uno sforzo da compiere rispetto non più a un Anti-soggetto, ma a un Oppositore, ovvero a un altro attante narrativo che ostacola il compiersi del programma d’uso, il possesso reale del potere e del sapere. A esser complessa, in altri termini, non è solo la manovra di seduzione dell’oggetto amato (PN di base), ma anche l’acquisizione dello shampoo per farsi belli (PN d’uso). Ma la storia non si esaurisce in questo. In ogni racconto ci sono in gioco, ricordiamolo, dei valori. È per questo che i due momenti propriamente pragmatici dello schema narrativo, quelli dove si svolgono le azioni, sono per così dire incorniciati da due momenti cognitivi, dove appunto è in gioco la questione più profonda dei valori narrativi. Il primo di questi momenti è quello della manipolazione, elemento iniziale di ogni racconto in cui il Destinante e il Soggetto 71

stipulano una sorta di contratto, sulla base del quale il Soggetto acquisisce un volere o un dovere. Prendendo un esempio pubblicitario, il momento della manipolazione può identificarsi con quello in cui qualcuno insinua nel consumatore le ragioni del proprio atto d’acquisto. Come s’è accennato, il conferimento del dovere è per certi versi più facile, poiché deriva dall’uso della forza o, in ogni caso, dalla rivendicazione di una qualche autorità legata alle gerarchie sociali preesistenti («devi fare così»); ma è al tempo stesso più labile, poiché, come è ovvio, all’autorità ci si può anche ribellare («non voglio farlo»). Il conferimento del volere è molto più delicato, poiché comporta una procedura di persuasione, una in-formazione della coscienza interiore del soggetto, un vero e proprio convincimento circa la validità di un determinato sistema di valori («tu vuoi fare così»). È per questo che il momento della manipolazione è anche molto spesso quello del contratto, di quell’accordo fiduciario implicito tale per cui il Soggetto, per aderire ai valori del Destinante, per volere quei valori, per farli propri, deve in primo luogo credergli, avere fiducia in quel che tale Destinante dice e gli promette («se fai così-e-così, in nome di questi valori, otterrai una ricompensa»). Una volta ottenuta la fiducia, stipulato il contratto, la manipolazione sarà molto più efficace che non quella ottenuta sulla base del trasferimento di un dovere. Non c’è più un’autorità che s’impone, alla quale si può rivendicare un proprio volere. C’è semmai un volere assunto, un sistema di valori fatto proprio, in nome del quale si agisce (e si patisce) fieramente, euforicamente. Sino quasi a far sparire quel Destinante che, con un’attività persuasiva più o meno surrettizia, quei valori ha pure insinuato. È allora questo, com’è facile intendere, il momento narrativo al quale il discorso di marca fa maggiore riferimento: da una parte più complesso, dall’altra più efficace; da una parte più indeterminato, dall’altra più duraturo. La problematica della marca incrocia così, inevitabilmente, quella della credenza e della fede, della religione. È a partire da questo genere di considerazioni che Landowski (1989, pp. 135-151 trad. it.) ha proposto di distinguere nel discorso promozionale e pubblicitario una logica dell’acquisto da una logica del contratto. Secondo la prima il consumatore è un Soggetto che ha soprattutto dei bisogni e l’azienda è un altro Soggetto che può in qualche modo soddisfarli. Il cliente ha innescato un tipico programma narrativo d’uso; l’azienda si presenta come l’Aiutante che gli dona l’oggetto modale, quel pote72

re o quel saper-fare che conferiscono a esso la sospirata competenza. Gli esempi sono innumerevoli: gran parte della pubblicità di prodotto risponde a questa logica dell’acquisto, dove l’oggetto pubblicizzato (poniamo, un detersivo) riveste il ruolo narrativo della competenza ricercata dal soggetto-consumatore per compiere il suo programma di base (lavare i panni). Landowski osserva però come ormai da diverso tempo, accanto a questa comunicazione pubblicitaria di tipo strumentale, ne sia nata un’altra – i cui confini non riguardano ovviamente i singoli oggetti o servizi pubblicizzati – dove il consumatore non viene rappresentato più come qualcuno che ha bisogni precisi ma semmai desideri, più o meno vaghi, più o meno determinati; e l’azienda a sua volta viene messa in gioco come un soggetto che risponde a tali desideri, li individua e li concretizza, dà loro una forma e una sostanza. In questo secondo caso, dunque, siamo nel momento della manipolazione, laddove il Soggetto (consumatore) stipula un contratto con il Destinante (azienda, istituzione, marca...), il quale gli conferisce un dovere e/o un volere. Per Landowski, questa seconda forma di comunicazione è abbastanza ambigua, perché promette di voler esaudire dei desideri che essa stessa, in fondo, nomina. Da un lato pone il soggetto come qualcuno che ha dei voleri e l’azienda come qualcun altro che risponde a tali voleri; da un altro lato, così facendo, dota il soggetto di quei voleri, lo in-forma come soggetto virtuale, e informa al contempo l’azienda come l’opportuno Destinante di tale soggetto virtuale. In ogni caso, quel che importa è rilevare, sostiene lo stesso Landowski, come la logica del contratto metta in secondo piano l’esistenza stessa dei prodotti, la loro materialità o funzionalità, per lavorare soprattutto sulle relazioni intersoggettive, per instaurare forme di partnership fra soggettività differenti ma complementari, cooperative, e, più in profondità, per forgiare queste stesse soggettività. In questo senso, la logica del contratto è assolutamente tipica del discorso di marca, il cui obiettivo è appunto la costituzione di relazioni il più possibile sentite e durature. E proprio come la marca trascende spesso – osserva Landowski – la sfera economica e il discorso pubblicitario per innestarsi anche in altre sfere sociali, altri discorsi, come la politica e il giornalismo. Ci sono infatti – non sarebbe difficile rilevarlo – uomini politici che si presentano come Aiutanti e altri come Destinanti, giornali che si propongono come strumenti e altri in cui ci si riconosce. Va ricordato inoltre come la procedura di manipolazione possa essere suddivisa in una serie di figure più precise, a partire dalle modalità messe in gioco e dai loro reciproci incastri (Greimas e Courtés 1979, voce «Manipolazione»). Se il Destinante lavora sul dovere, in linea di principio avanzerà la minaccia di un oggetto negativo, la quale può configurarsi ora come provocazione (se tale oggetto è un sapere: per esempio «sei 73

incapace di»), ora come intimidazione (se l’oggetto è un potere: per esempio «non ti permettere di»...). Se invece lavora sul volere, quasi certamente formulerà la promessa di un oggetto positivo, la quale a sua volta può configurarsi ora come seduzione (se l’oggetto è un sapere: «sei bravissimo!»), ora come tentazione (se l’oggetto è un potere: per esempio «uno come te non deve chiedere permessi»). Ne viene fuori lo schema:

sapere potere

volere

dovere

seduzione tentazione

provocazione intimidazione

Ci accorgiamo così di come la pubblicità e la comunicazione di marca in generale possano fare ricorso ora a questa ora a quella figura di manipolazione. Più che parlare, come spesso accade, di semplice persuasione di tipo cognitivo (convincere a comprare), la comunicazione promozionale va allora intesa, più finemente, come una vera e propria manovra di manipolazione: (far-fare qualcosa a qualcuno attraverso un preliminare far-volere e/o far-dovere), oppure – perché no? – di dissuasione (non far-fare qualcosa a qualcuno, come per esempio nelle pubblicità istituzionali contro il consumo di droghe o l’alcoolismo), dove il momento pragmatico legato all’azione e il momento cognitivo legato alla riflessione si intrecciano e si confondono. Potremo così distinguere fra pubblicità seduttive e pubblicità tentatrici, ma anche fra pubblicità provocatrici e pubblicità intimidatorie, e più in generale fra marche seduttive e marche tentatrici, marche provocatrici e marche intimidatorie. A seconda dei contesti comunicativi e delle circostanze di mercato, una strategia pubblicitaria può difatti puntare ora su una ora su un’altra di queste figure della manipolazione, anche in funzione delle scelte comunicative attuate dalla concorrenza. Così, una celebre proposta di Denim («per l’uomo che non deve chiedere mai») è un evidente caso di tentazione; laddove la vecchia campagna Glen Grant, dove due vecchi compagni di scuola si rincontrano ricordando «i bei tempi di Londra», mette in gioco una manovra di seduzione («Michele, tu sì che sei un intenditore»). A sua volta, un più recente spot per Baci Perugina si configura come una ironica provocazione: lui offre un cioccolatino a lei, lei inizia ad attribuire al gesto significati ipertrofici («questo vuol dire che mi ami, che ci sposeremo, che faremo tanti bambini...»), lui, terrorizzato, immediatamente ridimensiona riportando la questione intorno al prodotto («ti ho solo offerto dei cioccolatini»). Abbastanza evidente infine il caso dell’intimidazione nelle campagne Breil basate sul celebre claim «Don’t touch my Breil». 74

Il secondo elemento cognitivo dello schema narrativo canonico è quello della sanzione, momento finale del racconto in cui il Soggetto, operata la performance, si ripresenta al cospetto del Destinante, riapparso sotto la forma del medesimo o di un altro attore, e sottopone al suo giudizio il proprio operato. Se la sanzione è positiva (corrispondente cioè ai valori concordati nel contratto iniziale), l’eroe verrà trasformato; se la sanzione è negativa, ripiomberà nell’anonimato tipico dei non-soggetti. Nelle fiabe si tratta della cosiddetta Funzione Nozze, momento in cui l’eroe, tornato a casa, intraprende uno scontro con un falso eroe che pretende di prendere il suo posto, in modo tale da mostrare al suo popolo d’esser stato proprio lui a sconfiggere l’antagonista, da essere riconosciuto come eroe a tutti gli effetti, ottenendo infine una ricompensa (la principessa in sposa, metà del regno...) che lo trasforma in persona ben diversa da quel che era all’inizio (se per esempio era un contadino, alla fine diventa un re). Nei miti questo momento viene detto Prova Glorificante (o Sublimante), poiché in esso l’eroe mitico, esaurita la sua ricerca, non ha più bisogno di dotarsi dei mezzi sovrumani necessari per compiere la sua missione, e non ha nemmeno più necessità di impegnarsi in azioni risolutive contro il suo nemico giurato: deve comunque mettersi alla prova, compiere quelle nuove fatiche che possano dargli, appunto, gloria, e con essa il riconoscimento sociale della sua essenza mitica, l’istituzionalizzazione della sua avvenuta trasformazione. La sanzione, in generale, è il momento in cui si tirano le somme di quanto è accaduto, si fa il bilancio delle azioni intraprese e delle passioni vissute, ci si ragiona su e se ne cerca a posteriori un senso. Si cerca di capire se l’assunzione dei valori da parte del Soggetto sia stata conducente, dunque efficace, in grado di risolvere effettivamente le situazioni problematiche dell’esistenza individuale e sociale. È un giudizio sulla performance attuata dal soggetto («sei stato bravo»), ma più a monte sulla competenza che ha acquisito («avevi le capacità per farlo»), e indirettamente sul suo sistema di valori («ti sei comportato bene»). Così, quel che torna in gioco è la promessa iniziale del Destinante, il contratto stipulato fra questi e il Soggetto, sulla base del quale il Soggetto avrebbe avuto diritto a una ricompensa per la missione ben svolta. Ancora una volta, è la figura del Destinante, ora mandante ora giudice, a emergere in tutta la sua importanza, a imporsi non tanto in nome dei singoli eventi accaduti nel racconto ma per la sostanza culturale che li supporta, per il valore sociale che essi hanno o possono avere, per il loro significato. È il De75

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stinante a darci – letteralmente – un destino, ad assicurarci il senso profondo, se non della nostra intera esistenza, quanto meno di tutte quelle nostre azioni che possono far sistema all’interno di una narrazione ben compiuta. 76

Il discorso di marca mette in scena molteplici forme di sanzione; e mostra spesso desideri soddisfatti, programmi d’azione portati a termine, di solito in modo del tutto felice. A parte i rari casi fortunati dei nomi propri che hanno in sé il semantismo della sanzione (Nike, ovviamente, ma anche il marchio milanese di scarpe Premiata o l’azienda di grande distribuzione Migliore), i riconoscimenti dell’avvenuta performance sono innumerevoli, e abbastanza noti. Più utile ricordare invece come si possano dare casi di sanzione negativa, o quanto meno di narrazioni di performance mal riuscite – le quali però coinvolgono spesso altri attori che accorrono in soccorso del malcapitato rivelandosi come i veri eroi positivi della storia. Così, in un annuncio francese Marithé + François Girbaud [fig. 6] si vede un uomo ucciso da un’esplosione, forse nel corso di una battaglia (sullo sfondo c’è ancora un filo di fumo nero). Infangate come lui, altre tre persone provano inutilmente a soccorrerlo, con il volto visibilmente disperato. La sanzione negativa fa emergere la prospettiva dei soggetti salvatori, che non a caso incarnano i valori umanitari e pacifisti fatti propri dalla marca in questione.

Lo schema narrativo canonico assume allora la seguente visualizzazione: manipolazione

sanzione momenti cognitivi competenza performance

momenti pragmatici

e richiede alcune fondamentali precisazioni. 3.5.1. Allusioni e argomentazioni nascoste Innanzitutto è bene ricordare che il modello dello schema narrativo canonico si colloca a un livello di pertinenza del senso molto profondo. Ciò significa che non tutti i momenti dello schema devono necessariamente esser presenti in un testo – pubblicitario, grafico, spaziale... – che si vuole interpretare come un racconto così come in una specifica esperienza vissuta. Se è abbastanza frequente che in una fiaba vengano effettivamente raccontati uno dopo l’altro tutti e quattro i momenti narrativi, è molto probabile invece che in altri tipi di testo o altre situazioni narrative alcuni stadi dell’azione possano essere soltanto allusi, per esempio nell’antefatto o con altre forme di ellissi narrativa. In molte storie, per esempio, il momento della manipolazione, per quanto fondamentale, spesso non viene raccontato 77

esplicitamente, ma emerge indirettamente dalle azioni compiute dall’eroe, dalle ragioni che lo portano a intraprendere determinati programmi, a identificare in certi personaggi i propri nemici e in certi altri i propri amici. In altre storie a non venire raccontata è invece la performance: se per esempio in un film vediamo che un certo personaggio s’è dotato di una spada che rende invincibili, non è necessario che nella scena successiva egli venga mostrato mentre la usa contro il Cattivo: sappiamo già che vincerà; e possiamo passare direttamente alla sanzione. È grazie a questo meccanismo che gran parte degli spot pubblicitari – ma anche un logo, un punto vendita, una confezione – possono raccontare storie anche molto complesse in pochi secondi o tratti: ci mostrano una seduzione riuscita e la confezione di un profumo, lasciando a noi il compito di completare il racconto, di associare causa ed effetto, di capire insomma che il profumo è il ‘mezzo magico’ per conquistare chi ci piace. Così una marca sportiva può proporsi ora come l’Aiutante che ci fornisce una competenza (con un annuncio che mostra soltanto un paio di scarpe ben fatte per correre più agevolmente), ora come il Destinante che sanziona positivamente le nostre sfide riuscite (in uno spot dove il soggetto viene premiato con una medaglia d’oro). Allo stesso modo, se in uno spot pubblicitario di un telefonino vediamo qualcuno che, facendone uso, resta in contatto con la famiglia, viene manifestato il solo momento della competenza (l’apparecchio è uno strumento per raggiungere uno scopo), ma non facciamo fatica a ricostruire l’intera possibile storia (la necessità di mantenere i contatti, le ragioni di questa necessità...). Se in un altro annuncio [fig. 7] vediamo un telefonino abbandonato sul sedile di una macchina parcheggiata sul bordo di una strada, a essere manifestato è il momento della sanzione (il soggetto ha abbandonato l’apparecchio perché ha ormai raggiunto i suoi obiettivi esistenziali), dal quale a ritroso sarà possibile immaginare quanto è accaduto prima (costui aveva desiderio di evasione, s’è procurato il telefonino, l’ha usato, ha completato la conversazione, è andato chissà dove...). Così la head «Vivi a modo tuo» si configura come un tipico PN assunto, per nulla paradossalmente, alla fine della storia.

In questo gioco di ricostruzione interpretativa fra profondità del modello invariante e superficie delle varianti testuali si innesta molta della comunicazione di marca, già a livello del cosiddetto concept. Se, come abbiamo sottolineato in § 2.1, molto spesso i concetti di comunicazione, ripensati sotto forma di lessemi della lingua, possono racchiudere al loro interno intere storie in miniatura, è proprio per78

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ché i loro significati manifestano alcuni «attimi fecondi» (avrebbe detto Lessing) di queste stesse s Floch (1990) ha potuto mostrare come dietro la nozione di ‘chiarezza’ si celi un contratto paritetico fra azienda (nel caso particolare una banca) e cliente (risparmiatore/investitore), mentre dietro una nozione apparentemente sinonima come ‘affidabilità’ si rilevi invece il momento della competenza acquisita da uno solo degli attori in gioco (la banca), dunque una relazio79

ne fortemente sbilanciata: l’azienda ha il poter-fare mentre il cliente, che ne è privo, non ha alcuna voce in capitolo sui propri risparmi e deve affidarsi passivamente a essa. È per questo che la narrazione è una forma di argomentazione mascherata: apparentemente racconto soltanto una storia, tralasciandone alcuni aspetti; ma questi aspetti che ho tralasciato li ho in effetti inseriti nella mia narrazione: li ho occultati, non realmente omessi. Se racconto di un tizio che non ha svolto bene il proprio compito (che non ha eseguito a puntino la propria performance), sto in qualche modo alludendo al fatto che costui non possiede le giuste capacità per svolgerlo: metto in discussione il momento dell’acquisizione della competenza, oppure quello della manipolazione, forse addirittura sto prendendo di petto il suo Destinante... Allo stesso modo, se mostro qualcuno che s’inebria nel mangiare un certo gelato di una certa marca, apparentemente sto solo mostrando il momento positivo del consumo del bene; in effetti sto anche e soprattutto alludendo alle capacità produttive di quella marca, alla sua competenza nel procurare piacere. Un esempio. In uno studio sulla comunicazione delle principali marche sportive proposta in Italia nel 2005 (Agnello e Marrone 2007) è emersa abbastanza chiaramente una linearità narrativa profonda i cui singoli momenti temporali e logici vengono presi in carico dai vari brand. In questo caso, l’universo di senso complessivo delle sei marche si articola infatti in una vera e propria storia canonica dove ogni azione raccontata ha un qualche significato in quanto viene messa in relazione con tutte le altre all’interno della medesima configurazione pragmatica. Asics, per esempio, enfatizza il problema dell’allenamento adeguato per «migliorare le proprie prestazioni», e le scarpe tecniche si pongono come lo strumento atto a superare questa sorta di mitologica Prova Qualificante [fig. 8]. Adidas, a sua volta, si colloca in un momento un po’ successivo, laddove le potenzialità per agire sono tutte già acquisite e si è pronti all’azione («impossible is nothing» [fig. 9]). Queste due marche manifestano pertanto due diversi poli dell’acquisizione della competenza: rispettivamente, la spinta a possedere la modalità del poter-fare, l’essersi adeguatamente dotati di essa. Champion ci fa vedere invece persone direttamente in azione, che corrono, giocano a basket o praticano il canottaggio; si pone dunque nel momento centrale della performance, della congiunzione con l’Oggetto di valore di base grazie a una Prova Decisiva [fig. 10]. La messa in gioco del momento successivo, quello dell’azione ben compiuta, spetta invece ad Arena, che parla di sfide riuscite («ho fatto piangere molti uomini, così impa80

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rano a sfidarmi») e conseguenti vittorie («the rest is gold, silver and bronze») [fig. 11]. Puma, a sua volta, manifesta il momento in cui lo svolgimento dell’azione non costituisce un problema, di modo che la corsa non è l’oggetto di valore perseguito ed eventualmente raggiunto, ma diviene a sua volta una specie di strumento conviviale per una generale esperienza di so81

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cializzazione. In quattro spot relativi a questa marca c’è un corridore che irrompe in una microsituazione sociale già avviata – un ballo di gruppo, una partita a golf o a carte, la registrazione di una canzone in una sala discografica – e passa una specie di testimone a uno degli astanti, il quale, come per magia, si trova ai piedi le sneakers del primo e inizia a correre al suo posto [fig. 13]. È il momento della sanzione sociale dell’eroe, della sua Prova Glorificante. Più complesso il ruolo giocato da Nike: nei suoi annunci non c’è quasi azione e, nello stesso tempo, nessuno sta mai fermo. Vediamo corpi in movimento che danno luogo a forme pure, sganciate da una pratica sportiva concreta nominabile come una specifica disciplina sportiva. E anche quando c’è qualcuno che corre, quel che viene enfatizzato non è mai l’obiettivo dello jogging in sé, l’esperienza e la piacevole fatica del correre, ma le forme plastiche che, correndo in modo perfetto perché perfettamente equipaggiati, si possono produrre in una qualche parte del corpo [fig. 12]. È come se questa marca in qualche modo trascendesse l’universo narrativo delle altre senza abbandonarlo del tutto, ponendosi su una specie di piano superiore che irradia senso e valore verso ciò che gli sta sotto. È il ruolo narrativo del Destinante: non è un caso che a livello tematico Nike si ponga in modo un po’ diverso rispetto ai suoi concorrenti, non parli cioè di competizioni e di capacità, di prestazioni da migliorare o di sfide da affrontare, di vittorie ottenute e di conseguenti rivendicazioni sull’avversario, ma di una ricerca profonda della personalità, di un ripiegamento interiore in se stessi. In termini semiotici potremmo dire che, più che semplici valori, Nike comunica valenze, ossia valori di valori, ombre tanto vaghe quanto profonde di ciò che i valori, forse, concretamente diventeranno una volta discesi nel mondo comune. Mettendo in relazione i racconti pubblicitari delle aziende sportive ne viene fuori una linea logico-temporale che, ponendo le sei marche in una 82

successione di tipo narrativo, permette di cogliere la significazione che si produce nella loro relazione complessiva, ossia in quello che possiamo supporre sia il loro reciproco posizionamento: manipolazione

competenza

performance

sanzione

Nike

Asics Adidas

Champion Arena

Puma Nike

3.5.2. La presupposizione Ma come è possibile questo genere di operazione mentale che ci permette di ricostruire, a partire da un singolo frammento, addirittura l’intero racconto? attraverso quale tipo di ragionamento si passa dalla variante singola al modello invariante unico? Ovviamente, tale modello (che come vedremo non è affatto universale) deve appartenere alla cultura di riferimento dell’interprete. Una volta stabilito ciò, va sottolineato il fatto che la possibilità di ricostruire a partire da un momento dello schema tutti gli altri è data soltanto per presupposizione. Si può cioè andare, per così dire, all’indietro nello schema, ma non certamente in avanti per implicazione. Infatti, se il compimento di una performance presuppone l’acquisizione di una competenza (anche non raccontata) o lo svolgersi di una sanzione presuppone una performance (anche se non raccontata), non è per nulla vero l’opposto: acquisire una competenza non implica necessariamente un passaggio all’atto (un Soggetto può saper fare una certa cosa ma non per questo farla), e operare una performance non implica necessariamente una successiva sanzione (un Soggetto può aver eseguito il suo compito ma non per questo essere giudicato). Molti drammi esistenziali si consumano così: avere una volontà, ma non la possibilità conseguente; aver acquisito le capacità, ma non riuscire mai a usarle; aver svolto un buon compito, che nessuno però riconosce... Sapere come va a finire una storia è l’unico modo per ricostruire a posteriori il senso degli eventi raccontati. L’andare indietro nel racconto grazie al movimento della presupposizione è, all’interno della cultura di riferimento, un meccanismo pressoché inattaccabile: se ho acquistato un’automobile, devo prima aver necessariamente trovato il modo di procurarmi il denaro, altrimenti non si tratterà di un acquisto ma di un altra forma di appropriazione di quel bene di consumo (dono, eredità, furto...). In 83

questo senso, la presupposizione è una forma narrativa/argomentativa molto forte ed efficace – che rischia però, nella sua necessarietà, di cadere nel banale («è ovvio che, se fai bene questo, possiedi la capacità di farlo...»). Viceversa, l’andare avanti viene totalmente affidato all’immaginazione, a una fantasticheria mascherata da implicazione («potrebbe a questo punto succedere»). Debole dal punto di vista del rigore argomentativo, questo meccanismo è molto ricco in termini di creatività, di allusione immaginativa. Lo sa bene la pubblicità, soprattutto quando usa l’ironia per costruire una complicità con il suo destinatario/consumatore: mostrare qualcuno che usa un certo profumo può far pensare, per esempio, alla sua capacità seduttiva, dunque far immaginare meravigliose avventure galanti; a meno che non si tratti del profumo sbagliato... 3.5.3. Polemiche narrative Lo schema narrativo va raddoppiato. All’interno di ogni racconto è infatti presente una struttura polemica dove si incrociano quanto meno due programmi narrativi di base: quello del Soggetto della storia e quello, formalmente analogo, del suo Anti-soggetto. Se il primo è chiamato «eroe» è solo perché chi racconta la storia tende a condividere i valori da esso portati avanti: l’eroe, tra i due Soggetti antagonisti presenti in una storia, è quello i cui valori vengono fatti propri dal narratore della storia stessa. Allo stesso modo, il cosiddetto antagonista (il ‘cattivo’) è tale solo perché i suoi valori vengono più o meno implicitamente respinti dal narratore e considerati anti-valori. Ma al di là delle prospettive valoriali con le quali si interpretano ideologicamente le storie, è indubbio che all’interno di ogni racconto vi sia un contrasto polemico tra due programmi: occorre pertanto ipotizzare la presenza (anche implicita) e le trasformazioni di due Soggetti, due Destinanti, due sistemi di valori (inscritti ora nel medesimo Oggetto ora in due Oggetti diversi) tra loro diametralmente opposti. Il senso si dà nel dissenso; le opposizioni semantiche si realizzano come contrasto di azioni. Ogni programma è al tempo stesso un anti-programma, ogni comportamento ha senso perché si oppone a un altro comportamento, ogni valore è tale perché si differenzia dal valore contrario. Non esistono significati e valori assoluti, ma sempre e soltanto significati e valori relazionali: vantare l’autonomia di un valore è dimenticare, o tacitare, il conflitto che lo ha fatto emergere rispetto al valore opposto. 84

Da cui quanto meno due conseguenze. La prima, abbastanza ovvia anche se spesso rimossa, è che raccontare una storia è sempre e necessariamente prendere posizione per uno dei due Soggetti che vi sono presenti, parteggiare ora per l’uno ora per l’altro. Tale circostanza non è dovuta a ragioni storiche o disposizioni etiche, ma a un motivo eminentemente formale, semiotico: assumere una prospettiva narrativa vuol dire mettere in gioco valori e anti-valori, soggetti e anti-soggetti, significati e significati contrari. Impossibile assumere un punto di vista neutro, distaccato dai valori dei due soggetti. Enunciare una storia (lo vedremo meglio nel prossimo capitolo) è al contempo rivendicare i valori assunti al momento della sua enunciazione. La seconda conseguenza riguarda la questione dell’identità soggettiva, individuale e collettiva, personale e istituzionale. Se il Soggetto, infatti, si costruisce e si trasforma di continuo in seno al racconto, non è soltanto per via delle sue mire nei confronti dell’Oggetto di valore, che lo fanno essere variamente modalizzato: ora virtuale (quando acquisisce dovere o volere) ora attuale (quando acquisisce potere o sapere) ora realizzato (quando si congiunge finalmente con l’oggetto). C’è un’altra ragione, riguardante l’intersoggettività: ogni Soggetto è tale in funzione del suo Anti-soggetto, si forma e si trasforma nella relazione con il suo Altro, si plasma e si rafforza in vista dello scontro con il Cattivo, rinvigorisce o indebolisce i propri valori in funzione della debolezza o della forza del Nemico. Senza conflitti, nessuna reale trasformazione, dunque nessuna identità. L’identità del Soggetto è allora duplice: da un lato si costituisce nel percorso narrativo (individuazione del valore, iscrizione del valore nell’Oggetto, desiderio dell’Oggetto, ricerca, congiungimento...), dall’altro si afferma nello scontro dialettico con l’Anti-soggetto, con tutto quello che questo scontro comporta in termini – vedremo – di pensiero strategico. Non diversamente si costituisce l’identità di marca: da una parte vige la dialettica della relazione Io-Altro, ovvero, molto semplicemente, la differenziazione delle proposte di marketing nel reciproco posizionamento; d’altra parte ogni marca guarda alla propria storia, conserva gelosamente il proprio capitale simbolico e fa leva su di esso per mantenersi fedele alla propria tradizione, per conservare – durante e nonostante le mutazioni economiche e culturali – i propri valori di fondo. Il discorso di marca è narrativo dunque per più ragioni: ogni marca racconta la propria storia, mette in scena la propria tradizione e i propri valori, e così facendo si 85

costituisce come Soggetto contro i propri Anti-soggetti: manifestando la propria missione, in modo più o meno esplicito si oppone a quella dei propri concorrenti. Riprendendo alcune riflessioni di Ricoeur (1990) sulla doppia costruzione narrativa dell’identità (dove l’idem si oppone all’ipse, il «carattere» alla «parola mantenuta», la «sedimentazione» all’«innovazione»), Floch (1995) ha mostrato come la produzione dell’identità di marca segua lo stesso tipo di logiche. Da una parte tale identità si costruisce e si sedimenta in modo differenziale, per posizionamento reciproco, dove ciascuno è tale in quanto è diverso dai concorrenti: Apple ha insistito su una visione friendly dell’informatica opponendosi a quella professionale di Ibm; e Omnitel, al suo nascere, ha proposto una telefonia mobile affettiva rispetto a quella lavorativa di Tim. Ma, secondo Floch, ciò non è sufficiente: è necessario altresì che alla sedimentazione si accompagni l’innovazione, senza per questo negare l’identità. È necessario cioè che ogni marca riesca a modificare se stessa non a caso, per il semplice gusto della novità, ma sulla base di una logica precisa: quella della narratività, dove, come sappiamo, la trasformazione del Soggetto è frutto di un preciso PN, di uno specifico obiettivo, tale per cui alla fine si è diventati così come all’inizio s’era deciso di essere. Così Apple ha saputo innovarsi coerentemente con l’immagine amicale che fin dall’inizio ha offerto del computer, trascendendo persino l’universo dell’informatica propriamente detta per proporre prodotti come l’iPod o l’iPhone, differenti per funzione ma coerenti con la propria missione di marca. E ciò non vale solo nella specifica sfera del mercato. Nello studio già menzionato sulle modalità di costruzione delle identità di testata dei telegiornali italiani (Marrone 1998a), abbiamo rilevato come essi perseguissero soprattutto il primo obiettivo (quello della differenziazione a tutti i costi rispetto ai concorrenti di altre reti), trascurando sistematicamente il secondo (quello della innovazione calcolata sulla base di un progetto predefinito, di una ‘promessa’ da mantenere al proprio ascoltatore). Il Tg5, per esempio, cambiava stile comunicativo con grande frequenza – un giorno era ufficiale e serioso, un altro giocoso e spensierato, un altro ancora accorato e passionale – con un camaleontismo esasperato che finiva per negare ogni progetto comunicativo coerente. Ne veniva fuori un’identità sfocata e frammentaria, una guerra dell’audience cui non si accompagna alcuna ricerca di una costanza comunicativa, dunque di relazione duratura con il telespettatore.

3.5.4. Strategie e tattiche Da qui una questione centrale per ogni racconto, ma anche, come è ovvio, per ogni marca: il ruolo basilare delle strategie. Se infatti Sog86

getto e Anti-soggetto si incontrano (e si scontrano) fisicamente al momento della performance, tutto il racconto è permeato dal fatto che le rispettive strategie d’azione presuppongono la presenza dell’altro, quell’altro che si incontrerà prima o poi, appunto, al momento della performance. Accade così che il Soggetto, prima ancora di incontrare l’Anti-soggetto, deve costruirsene un simulacro, immaginare le sue possibili mosse, adattando le proprie a quelle che si presume l’Anti-soggetto compirà. Ma anche l’Anti-soggetto, ovviamente, mette in moto una strategia analoga, costruendo un simulacro del Soggetto e cercando di prevederne le mosse. Alle strategie globali dei PN di base si accompagnano dunque le tattiche locali dei PN di sostituzione, programmi paradigmatici allestiti per rimediare alle azioni dell’altro (vere o presunte che siano) o per anticiparle (vere o presunte che siano). Strategie e tattiche moltiplicano gli attanti narrativi, aumentando a dismisura l’importanza della dimensione cognitiva del senso. Diversamente dall’ipotesi tradizionale, che pensa il racconto come una serie di azioni più o meno ordinata secondo criteri causali e temporali, l’idea della narratività lascia spazio, accanto all’azione, alla cognizione e alla passione. Nessuna azione è possibile senza una doppia interfaccia, da un lato con il sapere e dall’altro con l’affettività. Lo stratega è colui il quale si pone il problema del confronto fra il proprio programma narrativo e quello del nemico, o meglio: quello che egli attribuisce al nemico. Da cui l’importanza basilare delle spie, attori incaricati di far circolare un sapere tattico circa le competenze del nemico, e prima ancora di entrare in contatto, al momento opportuno, con informazioni utili alla costruzione della propria capacità bellica. Inoltre: lo stratega sa che il nemico ragiona al suo stesso modo, e deve dunque offrire una certa immagine di sé, un certo simulacro di programma d’azione tale da compromettere il programma che egli immagina il nemico abbia. Da cui la presenza delle contro-spie o, più spesso, del gioco sporco di molte spie, agenti doppi che a forza di far circolare segreti fra le due parti in causa, modificando volta per volta la propria identità, fanno evaporare l’idea stessa di una Verità assoluta in nome di un sapere locale interamente misurabile ed esperibile entro contesti strategici dati (Fabbri 2000). Insomma, ecco apparire in seno al racconto un gran numero di soggetti: soggetti pragmatici che intraprendono dei programmi d’azione, soggetti cognitivi che cercano di costruire l’essere dell’altro, soggetti simulacrali che vengono immaginati dall’altro, soggetti di finzione 87

che si danno a vedere all’altro. In tal modo, non può non apparire la passione, che s’insinua nel calcolo strategico e inevitabilmente lo alimenta e lo trasforma, ne determina l’intensità e la tensione, le durate e i ritmi, le soste, gli abbandoni, i rilanci. A forza di calcolare, di prevedere puntigliosamente costi e benefici, rischi e vantaggi, si finisce per perdere il conto, lasciandosi infine trasportare dalla spontaneità del gesto, da un’‘irrazionalità’ nata dall’eccessivo bisogno di razionalità. Sebbene anche la passione, vedremo meglio, possieda logiche proprie che alimentano e arricchiscono la logica narrativa. È evidente che tale questione semiotica delle strategie, sorta in un campo apparentemente molto diverso qual è quello della narrazione, incontra molto da vicino il pensiero strategico messo in gioco nel campo del marketing e del management della marca, dove talvolta si manifesta un modo di pensare e di agire fortemente improntato a quello militare. Non a caso, il nome del generale prussiano von Clausewitz, autore del noto trattato Della guerra, ricorre con una certa frequenza nei testi di marketing strategico. L’apporto teorico della semiotica può dunque servire a chiarire i presupposti epistemologici e le conseguenze pratiche di questo accostamento, troppo spesso irriflesso, fra marketing e intelligenza strategica. La semiotica ha molto insistito sull’importanza delle strategie per la costruzione e la gestione del senso, lavorando su un vasto campo problematico che va dalle questioni specificamente militari (Fabbri, Montanari 2001) alle interazioni microsociali (Landowski 1989), dalle pratiche quotidiane (De Certeau 1980) al terrorismo (Alonso Aldama 2006), dal marketing (Bertin 2003a) alla comunicazione (Volli 2000), insistendo comunque sulle omologie formali fra questi settori diversi per sostanza, e arrivando così a formulare l’idea di una vera e propria razionalità strategica (Parret 1990). Il punto di partenza di questo genere di riflessioni è ancora una volta nell’epistemologia strutturalista: nessuna azione ha senso e valore in sé, ma sempre e soltanto nel momento in cui viene inserita in un adeguato contesto, ossia in una rete di altre azioni, compiute dal medesimo o da un altro soggetto, all’interno di un programma narrativo. Questo programma narrativo, però, non è, banalmente, lo scopo coscientemente individuato da un soggetto all’inizio di una certa storia e da esso ostinatamente perseguito lungo tutta la sua durata. Va inteso semmai come la ricostruzione finale, a cose fatte, del percorso intrapreso e di tutto ciò che in esso è accaduto. Conclusa la vicenda il soggetto, per così dire, si guarda indietro e comprende il senso che, a posteriori, le sue azioni hanno acquisito e che molto probabilmente a monte non avevano, o che egli non pensava avrebbero avuto. È difficile che i nostri obiettivi iniziali vengano perfettamente raggiunti tali e quali quando si chiude una storia, 88

più o meno avventurosa, più o meno di routine, nella quale siamo coinvolti. Non solo perché, come abbiamo visto, ogni performance presuppone adeguate competenze, che non è detto vengano realmente o pienamente acquisite. Ma anche e soprattutto perché, durante il percorso che ci dovrebbe portare all’obiettivo si incontrano una serie di inevitabili ostacoli, messi in gioco ora da Oppositori ora da Anti-soggetti, i quali, questi ultimi, sono a loro volta dotati di loro programmi narrativi, di obiettivi da raggiungere, di valori (anti-valori, per noi) con cui congiungersi. Da qui l’idea delle tattiche, ulteriori programmi narrativi che mettiamo in atto ogniqualvolta si tratta di schivare un ostacolo, veri e propri controprogrammi da istituire celermente di contro ai programmi messi in atto dall’avversario. L’azione, ogni azione, non è dunque soltanto l’effetto di quella che la precede e la causa di quella che la segue: essa è anche, per un verso, l’esito di una cognizione, di un pensiero tattico, di una qualche forma di calcolo sulle opportunità e sui rischi, di una valutazione delle reali capacità dell’altro; ma, per altro verso, dato che l’avversario compie contemporaneamente ragionamenti analoghi, l’azione è anche un gesto significante, un comportamento che – si sa – verrà interpretato, dunque una sorta di messinscena a favore, ma soprattutto a discapito, dell’avversario: un fare che è al contempo un far-credere. E vale anche il contrario: non solo ogni gesto è significante, ma ogni processo comunicativo è una forma di azione, anche quando si tratta di testi che apparentemente si limitano a rappresentare dall’esterno il conflitto in atto. Così, per esempio, è noto che l’informazione in tempo di guerra svolge sempre il ruolo di arma strategica: in qualche modo partecipa all’agone poiché inevitabilmente influenza i programmi delle forze in campo, modifica i loro saperi e le loro passioni, le loro competenze (Fabbri, Montanari 2001). Allo stesso modo, un’azienda che dà comunicazione di volersi quotare in borsa, che preannuncia forti modifiche nel consiglio di amministrazione, che svela di star adoperando nuove tecnologie o di essere sul punto di lanciare nuovi prodotti ecc. non sta semplicemente fornendo notizie al suo pubblico: sta anche costruendo una certa immagine di sé e la sta proponendo nell’arena comunicativa, laddove ha necessità di confrontarsi con la concorrenza. Ogni attività comunicativa è insomma una mossa strategica, un contributo al posizionamento e riposizionamento reciproco. Così, se fare è dire e dire è fare (ma ci torneremo nel prossimo capitolo), è necessario che i due contendenti possiedano una sorta di capacità metastrategica che consenta a entrambi di controllare, per così dire, dall’alto quanto sta avvenendo nel terreno di scontro, momento per momento, di saper calcolare gli esiti strategici globali delle singole tattiche locali. Ed è altresì indispensabile che gli stessi contendenti abbiano qualcosa in comune, un codice per capirsi, un sistema di valori condiviso mediante cui dare agli stessi gesti gli stessi valori, alle stesse parole gli stessi 89

significati. Per litigare, occorre prima essere d’accordo sul senso stesso del litigio, sui significati specifici di ciò che ci si rimprovera vicendevolmente. Se ogni contratto presuppone, ovviamente, un conflitto (ci si mette d’accordo per non parlarne più), vale anche il contrario: ogni conflitto presuppone un contratto (si deve essere consapevoli della comune posta in gioco della lotta). Anzi, ha osservato Landowski (1989, pp. 227-241 trad. it.), relazioni polemiche e relazioni contrattuali sfumano gradualmente e reciprocamente le une nelle altre. Se non fosse in questo modo, non si capirebbero meccanismi come quelli della sfida d’onore («vediamo se sei capace di...»), così frequenti in molte culture, che comportano una specie di obbligo dello sfidato a sottoporsi alla sfida, pena la perdita della sua ‘faccia’, dunque una specie di primato logico dello sfidante. L’unico modo di evitarlo, ricorda Greimas (1983), è quello di fuoriuscire dal sistema di valori comune, di aggirare il ricatto dell’onore a tutti i costi, di sganciarsi dal codice condiviso (l’evangelico «porgere l’altra guancia» è un perfetto esempio di questo movimento). La strategia ha, insomma, una sua cultura di riferimento, la quale fornisce ai gesti, alle azioni, ai comportamenti, alle parole e ai segni dei soggetti in gioco pesi e valori diversi. Ogni cultura ha una sua idea del nemico, suoi modi di affrontarlo, compreso quello – più frequente del previsto – di non affrontarlo, preferendo per esempio schivare le sue mosse senza mai attaccare apertamente. È noto per esempio che la cultura cinese ha un’idea del divenire come un fluire continuo di piccoli mutamenti, e non come una serie di operazioni discontinue e dunque calcolabili: per il guerriero cinese (ma senz’altro anche per l’odierno manager di quella cultura) più che combattere occorre adattarsi progressivamente, elasticamente, al nemico, lasciando passivamente che le cose accadano, di modo che l’avversario finisce per logorarsi e la battaglia si vince quasi senza agire (Jullien 1996). Analogamente i guerrieri arabi nel deserto vantano una cultura strategica molto particolare, fatta di continue linee di fuga e improvvisi movimenti decentrati che confondono il nemico conducendolo alla sconfitta (Alonso Aldama 2003). Così, prima ancora di mettere in atto specifiche tattiche e strategie, occorre preoccuparsi di riconoscere meta-strategicamente questo genere di differenti culture della strategia, comprendere il valore dei valori in gioco, identificare i codici dell’altro. Cosa che vale non soltanto per le grandi differenze culturali (le quali, in epoca di globalizzazione e multiculturalismo, sono comunque pertinenti alle strategie del marketing e della marca), ma anche per le situazioni più ‘micro’, dove la competenza metastrategica è necessaria al calcolo strategico nel suo complesso. Questo genere di esempi di strategie di altre culture, del resto, invita a riflettere sulle nostre, e porta a osservare il fatto che, in fondo, anche nella nostra cultura, nella nostra stessa vita quotidiana non sempre le 90

azioni acquistano un senso grazie a precisi calcoli strategici, a programmazioni basate su logiche narrative standardizzate. Lo stesso Landowski (2006) ha osservato come le relazioni intersoggettive polemico-contrattuali possano essere di vari tipi, e come pertanto alle procedure di programmazione dell’azione (propria e dell’altro) fondate sulla regolarità si possano accostare altri regimi interattivi. Ci possono essere interazioni basate non sulla regolarità ma sul suo contrario, dunque sul caso (è il regime dell’accidente); altre basate sulla negazione della regolarità, dunque sulla sensibilità (è il regime dell’aggiustamento); altre ancora fondate sulla deliberata negazione del caso, dunque sull’intenzionalità (ed è il momento, per noi già noto, della manipolazione). Ne viene fuori il quadrato: regolarità programmazione

caso accidente

manipolazione intenzionalità

aggiustamento sensibilità

i cui sviluppi nel campo della gestione e della comunicazione di marca appaiono abbastanza evidenti. Così, per esempio, la nota tipologia dei concorrenti proposta nel campo del marketing da Kotler e Scott (1973, p. 340) potrebbe essere ripensata a fondo, passando – come amava ripetere Floch (1990) – dalla semplice percezione di una differenza alla precisa individuazione di una serie di relazioni. Appare evidente come i concorrenti reattivi (imprese che sistematicamente fanno opposizione a qualsiasi mossa dell’azienda) rientrino perfettamente nel regime della programmazione (regolarità), mentre i concorrenti imprevedibili (imprese che si comportano nei confronti delle manovre competitive in modo casuale, senza che sia possibile definire uno specifico modello di reazione) stiano bene nel regime dell’accidente (caso). A loro volta i concorrenti selettivi (imprese che ritengono che non tutti gli attacchi competitivi giustifichino una reazione) si collocano nel regime della manipolazione (intenzionalità), mentre i cosiddetti concorrenti scarsamente reattivi (imprese che non reagiscono agli attacchi competitivi, se non in ritardo e senza particolare vigore) potrebbero essere inseriti nel regime dell’aggiustamento (sensibilità).

3.6. Valorizzazioni e forme di razionalità Quando parliamo dell’importanza di una riflessione approfondita sulle forme strategiche per la comprensione e la gestione del discor91

so di marca, evidentemente ci stiamo riferendo a due aspetti apparentemente diversi del problema, che però, a ben vedere, sono fortemente legati fra loro. Da una parte occorre considerare le strategie comunicative e significative della marca, le programmazioni delle varie azioni che essa mette in campo per ottenere gli obiettivi prefissati di contro a quelli della concorrenza. Dall’altra parte ci sono le strategie dei consumatori, dei destinatari privilegiati del discorso di marca, i quali a loro volta, per costruire più o meno consapevolmente la propria identità, organizzano i loro atti di consumo seguendo logiche diverse (programmazione, aggiustamento ecc.) ma tutte a loro modo strategiche. La cosa interessante è che se, come sappiamo, la marca è l’esito semantico della negoziazione continua fra azienda e consumatore, destinante e destinatario, il discorso di marca finisce per avere fra i suoi contenuti privilegiati il racconto delle varie strategie di consumo, la messinscena degli atti mediante cui i consumatori/destinatari entrano in relazione con i loro oggetti di valore, delle logiche di valorizzazione che essi usano nella scelta dei loro oggetti di consumo. Incontriamo così la nota riflessione di Floch (1986a, 1990, 1995) sulla cosiddetta assiologia dei consumi, che ha prodotto un modello ermeneutico già da tempo entrato nelle pratiche di consulenza qualitativa di mercato e di comunicazione, e soggetto per questo a una grande serie di semplificazioni, incomprensioni e conseguenti critiche, nonché di un certo numero di possibili revisioni. Occorrerà in questa sede tornarci ancora una volta, forti però delle riflessioni condotte nelle pagine che precedono, e dunque di una teoria narrativa coerente e completa che permetta di cogliere il senso del modello flochiano, evitando al tempo stesso gli equivoci a cui ha dato luogo. 3.6.1. L’assiologia dei consumi Per comprendere a fondo il modello delle assiologie del consumo proposto da Floch, occorre innanzitutto aver chiaro che esso fa interagire in modo originale (e quindi non del tutto in linea con la teoria semiotica standard) il quadrato semiotico con la grammatica narrativa, quasi schiacciando la seconda sul primo, ossia a prima vista appiattendo le riflessioni circa i programmi narrativi sulle articolazioni del quadrato. L’idea di fondo (Floch 1986a) da cui parte tutto il ragionamento, e al tempo stesso giustifica una simile operazione teorica, è quella di sottolineare che, se in linea di principio programmi di 92

base (orientati ai fini soggettivi) e programmi d’uso (preoccupati dei mezzi oggettivi) sono legati dalla logica narrativa della presupposizione (senza competenza nessuna performance è possibile), di fatto nell’immaginario dei mass media, manifestato soprattutto dalla comunicazione pubblicitaria e in generale nella maggior parte dei discorsi di marca, le cose stanno diversamente: mezzi e fini vengono molto spesso rappresentati come opposti, non foss’altro perché in molti casi la pubblicità propone come plus oggetti o situazioni in cui essi vengono ‘finalmente’ conciliati. Quando si magnifica un treno al contempo rapido e confortevole, sicuro ed elegante si sta infatti presupponendo che generalmente le cose non stiano così, che i treni cioè siano di solito o rapidi o confortevoli, o sicuri o eleganti, e non godano pertanto di tutte queste proprietà contemporaneamente (come invece accade nel caso del treno x, oggetto di quel particolare annuncio pubblicitario). Analogamente, Floch (1990) porta l’esempio di un vecchio annuncio della Simca 1100, dove l’automobile pubblicizzata veniva rappresentata – nella parte superiore del foglio – secondo la sua bellezza esteriore, dunque come oggetto del desiderio («La voiture dont vous avez envie») e – nella parte inferiore – secondo le sue caratteristiche tecnico-pratiche, dunque come oggetto utile («La voiture dont vous avez besoin»), per poi giungere alla conclusione – nella baseline finale – che essa miticamente risponde a due esigenze che vengono presupposte come socialmente contrarie («Vos envies et vos besoins sont enfin d’accord») [fig. 14]. In altri casi invece può accadere che una campagna pubblicitaria proponga in annunci diversi proprietà diverse del medesimo prodotto. Così, ricorda Floch (1986a, pp. 132-135 trad. it.), una nota campagna francese per la radio Europe 1 metteva in scena personaggi animali che ascoltavano quella radio per ragioni diverse: ora per avere notizie fresche, ora per fare amicizia, ora per divertirsi, ora perché le sue trasmissioni 14 erano «ben fatte». 93

Insomma, se per la grammatica narrativa programmi d’uso e programmi di base si collocano in una linea virtuale che conduce dai primi ai secondi (per possedere un’automobile devo innanzitutto avere la patente; per accedere alla telefonia portatile devo acquistare una scheda ecc.), secondo il senso comune – supportato da riflessioni di autori celebri come Barthes o Lévinas, e persino dalle differenze fra le filosofie ellenistiche – essi si oppongono come veri e propri termini contrari: si acquista un’automobile o perché è pratica o perché ben rappresenta la propria identità; si porta in giro un telefonino o per lavoro (bisogna essere reperibili) o per aumentare la propria libertà (si desidera non esser legati sempre al medesimo luogo). Possono darsi nello stesso tempo entrambi i moventi; ma si tratta sempre di una scelta fuori dalla norma o, per dirla con gli antropologi, di una conciliazione mitica di elementi contrari. Da qui l’idea che valori d’uso utilitari (pratici) e valori di base esistenziali (utopici) costituiscono nell’immaginario mediatico una sorta di categoria semantica del tutto analoga a quella che oppone bianco e nero, natura e cultura, vita e morte. Pertanto, questa opposizione può essere espansa e articolata nel quadrato semiotico, il quale, mettendo in gioco relazioni e operazioni, porta alla individuazione dei termini negativi: i valori non utilitari o ludici (dove la funzionalità viene kantianamente negata in nome della spensieratezza, del gioco o della bellezza fine a se stessa) e quelli non esistenziali o critici (dove viene negata la questione dell’identità soggettiva da costruire ed emerge invece il problema della convenienza dell’oggetto). Ecco allora la possibilità di proporre una tipologia dei possibili modi con cui un Soggetto tende a valorizzare un Oggetto, mediante la proiezione sul quadrato semiotico dell’opposizione tra una forma di valorizzazione utopica e una pratica, e dunque fra valori intesi come esistenziali, importanti per l’esistenza stessa del Soggetto che desidera congiungersi con essi, e valori intesi come utilitari, necessari soltanto per il raggiungimento dei primi. Ne viene fuori lo schema: valorizzazione pratica valori utilitari

valorizzazione utopica valori esistenziali

valori non-esistenziali valorizzazione critica

valori non-utilitari valorizzazione ludica 94

Le possibili forme di valorizzazione dell’Oggetto da parte del Soggetto diventano così quattro: altrettanti modi diversi di attribuire senso alle cose, di mettere in gioco valori soggettivi e sociali, di farli circolare attraverso il supporto materiale delle cose. Non si tratta di una classificazione di tipi di comunicazione legata ai singoli generi merceologici (prodotti pratici, ludici ecc.), ossia ai referenti del discorso, ma di una tipologia specificamente semiotica, dettata dalle nozioni presenti nella grammatica narrativa (di modo che il medesimo prodotto può ricevere forme di valorizzazione anche molto diverse). Allo stesso modo, non si tratta di una classificazione di valori sociali, carichi di specifiche sostanze semantiche, ma di procedure formali di valorizzazione, nelle quali, poi, si innestano valori sociali variegati. Innanzitutto, la valorizzazione pratica, mediante la quale l’Oggetto viene considerato per il suo carattere di strumento volto allo svolgimento di un programma d’uso, all’acquisizione di specifiche competenze. In questo caso, i valori, per esempio, dell’oggetto-automobile saranno la maneggevolezza, il comfort o l’affidabilità; i valori di un telefonino saranno la ricettività, la comodità d’uso, le altre funzioni in esso implementate; i valori di una radio saranno legati alla sua capacità di dare informazioni sempre aggiornate; e i valori di un arredamento saranno quelli di proporre mobili solidi e modulabili a seconda delle esigenze personali e degli spazi domestici a disposizione. Il prodotto o la marca, in questo genere di valorizzazione, giocano il ruolo del classico Aiutante narrativo che favorisce la realizzazione del programma di base di un Soggetto. Così, la valorizzazione pratica – occorre precisarlo – non è presente quando il discorso tende a indicare le reali capacità pratiche del prodotto o del servizio, la sua effettiva funzionalità di contro agli eventuali valori simbolici che, poi, il sociale gli conferisce in modo più o meno fittizio. La maniera di ragionare di Floch, in linea con la mentalità semiotica, è molto diversa: egli non oppone infatti, alla maniera tradizionale, la funzionalità da un lato e il simbolismo dall’altro, ma insiste sul fatto che anche la praticità è un valore che il Soggetto, per sue ragioni specifiche, può conferire all’Oggetto, dunque un significato di cui l’oggetto è socialmente caricato, al di là di quelle che sono le sue proprietà intrinseche più o meno oggettive. Così, per esempio, del tutto a prescindere dalle caratteristiche tecniche dell’apparecchio, posso usare un telefonino per restare in contatto con la famiglia o per essere sempre raggiungibile dal mio direttore, ma anche per godermi una vacanza al mare senza rinunciare a essere informato circa gli sviluppi di un affare in corso... 95

Negando la valorizzazione pratica, l’oggetto viene caricato di senso a prescindere dalla sua utilizzabilità, dunque per le sue qualità formali e fisiche, per la sua bellezza, per il modo in cui ci procura piacere, divertimento. È la valorizzazione ludica. Nel genere merceologico delle automobili i valori di riferimento saranno in questo caso il lusso, la raffinatezza, la velocità e simili. Per i telefonini saranno il design, la fattura estetica, la varietà di suonerie, ma anche le funzioni in essi inserite che non hanno direttamente a che vedere con la comunicazione telefonica come la musica o la fotografia. Per la radio i valori in gioco sono ovviamente quelli del divertimento dato dalla musica che trasmette o dai giochi interattivi che propone al pubblico. Nel caso dell’arredamento saranno il lusso o la raffinatezza dei mobili. Alla logica funzionalista precedente s’oppone qui una logica di puro svago, del tutto sganciata dalla strumentalità immediata del prodotto, ma a suo modo anch’essa funzionale ad altri scopi: quelli, appunto, del divertimento fine a se stesso. La valorizzazione contraria alla ludica e complementare alla pratica è quella critica, grazie alla quale l’Oggetto viene scelto più che altro per la sua convenienza economica, secondo il calcolo razionalistico che mette in relazione qualità e prezzo, innovazione e costi. Nell’esempio dell’automobile, si starà attenti appunto al prezzo dell’oggetto, al consumo del carburante, alla sicurezza. Nel caso dei telefonini a esser valorizzati saranno soprattutto le dimensioni e la robustezza, la durata delle batterie, e solo in ultima istanza il prezzo. Per quel che riguarda la radio, a diventare un valore potrà essere, come nel caso di Europe 1, la proprietà di essere «ben fatta», dunque la valorizzazione della competenza tecnica di chi vi lavora. E per l’arredamento varranno non solo i mobili economici, ma anche quelli ingegnosi, che è possibile sfruttare in più momenti o situazioni, che possono venire trasformati in altro, riciclati. Si tratta insomma di una logica della convenienza che va oltre la reale politica dei prezzi e riguarda semmai il modo in cui il basso costo dei beni o dei servizi viene messo in primo piano dal discorso, e diviene dunque, al suo interno, uno specifico effetto di senso. Come nel caso della valorizzazione pratica, anche qui ciò che conta non è il referente, ossia il costo effettivo delle merci, ma il fatto che l’economicità sia posta come un valore per il soggetto-consumatore. Infine, la valorizzazione contraria alla pratica, complementare alla ludica e contraddittoria con la critica, è quella utopica (dove il termine ‘utopica’ non va inteso nel senso di empiricamente impossibile 96

ma in quello di realizzazione soggettiva). Con essa, l’attenzione del racconto non è più indirizzata verso l’oggetto da proporre ma direttamente verso il Soggetto che, congiungendosi con il suo Oggetto di valore, fa valere i valori del racconto e realizza finalmente la propria identità profonda. Così, un’automobile può essere valorizzata perché esprime il carattere del suo proprietario, è lo specchio del suo modo di essere e di vivere, oppure addirittura sparisce come oggetto materiale per far affiorare progetti, pensieri, sentimenti ed emozioni del Soggetto, che diviene l’unico, indiscusso protagonista del discorso. Analogamente, nel caso dei telefonini emergeranno i valori della libertà e della ricerca di sé, ci sarà una famiglia con la quale restare in contatto, la voglia di esprimersi, di mostrarsi al mondo. Per quel che riguarda la radio, essa in questo caso sarà luogo e momento per stringere relazioni, coltivare amicizie, esprimere gratitudine. Per quel che riguarda infine l’arredamento, di esso verrà valorizzato il fatto di proporre mobili con uno stile ben preciso, tradizionale o moderno a seconda delle occasioni, ma sempre e in ogni caso dotati di una fattura estetica con la quale identificarsi, riconoscervi un preciso gusto come aderente al proprio («io sono uno che arreda la casa solo con mobili di...»). Spesso la valorizzazione utopica tende a proporre immagini e situazioni dove l’oggetto-prodotto si antropomorfizza, inizia a vivere una vita indipendente da quella del consumatore, avendo desideri, programmi e destini propri: automobili che sfrecciano su strade deserte prive di conducente, che danzano sensualmente o che sfidano un gruppo di corridori neri; telefonini che percepiscono le onde nello spazio, che hanno sentimenti e sensazioni, voglia di fare; vestiti o elettrodomestici che parlano. Per tacere dei casi in cui gli oggetti assumono vere e proprie fattezze del corpo umano, o dei corpi che, al contrario, si tecnologizzano prendendo le sembianze degli oggetti. Il noto caso del profumo Jean Paul Gaultier [fig. 15], facendo propri entrambi questi movimenti figurativi, è esemplare a questo riguardo. L’assimilazione, del resto, è tanto fisica quanto cognitiva, come in un recente annuncio istituzionale Volvo [fig. 16], dove è indecidibile se le proprietà vantate obliquamente per questo ‘chi’ siano da riferire all’automobile o al suo conducente. La valorizzazione utopica, insomma, fa propria una logica di tipo identitario, dove il prodotto tende a svanire a tutto vantaggio del consumatore, oppure – che è lo stesso – balza in primo piano per meglio rappresentarne forme di vita e modi di essere. Sembrerebbe dunque che questa ultima forma di valorizzazione sia quella specifi97

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ca del discorso di marca. Diciamo che certamente è quella che meglio e più efficacemente prende in carico l’intento di costruzione di universi immaginari, ricchi di valori e desideri soggettivi, che è tipico di molte marche. Dunque quella esemplare a questo riguardo. Ma si sbaglierebbe nel pensare che l’utopica sia l’unica forma di valorizzazione di marca, addirittura la sua logica specifica. Così come la valorizzazione pratica non è (solo) la pubblicità di prodotto, quella utopica non è (solo) la pubblicità di marca. A ben vedere, infatti, anche le altre tre forme di valorizzazione tendono a costruire l’identità del consumatore che in esse si riconosce più o meno in toto. Lo stesso Floch (1988) mostra a questo proposito come a tali classi in perpetuo movimento possano corrispondere, tra l’altro, sia quattro tipi astratti di consumatori (strateghi, conviviali, curiosi, consumeristi) sia, più in generale, quattro tipi di passione nei confronti di un oggetto (bisogno, desiderio, capriccio, interesse). Così, per esempio, è evidente che Consumo equo e solidale, che a tutti gli effetti è divenuto una marca, si indirizza soprattutto alla valorizzazione critica, così come ci sono marche orientate verso il ludico (Apple) o verso il pratico (Microsoft). Ritornando all’esempio delle marche sportive già affrontato [§ 3.5.1.], il modello delle assiologie del consumo consente di operare un’ulteriore 98

riduzione e articolazione di quell’universo semantico, distinguendo in generale due grandi aree: da una parte lo sport come qualcosa verso cui si tende, un obiettivo da raggiungere dotandosi dei mezzi necessari; da un’altra lo sport come esperienza di vita che supera la pratica sportiva stessa per aprirsi al mondo, agli altri, alla socialità, ma anche per guardarsi dentro e scoprirsi dotati di un’interiorità ricca e complessa. La prima sfera è quella delle valorizzazioni critica e pratica; la seconda quella delle valorizzazioni utopica e ludica. Così Asics parla di allenamenti per un generale miglioramento delle prestazioni, ma parla ancor prima di scarpe che durano nel tempo e che sono fatte pensando all’anatomia del piede che le deve calzare. A sua volta Adidas concepisce lo sport come sfida perenne ed estrema, ma anche come voglia di cambiare il mondo. In un annuncio [fig. 9] leggiamo: «Impossibile è solo una parola pronunciata da piccoli uomini che trovano più facile vivere nel mondo che gli è stato dato, piuttosto che cercare di cambiarlo. Impossibile non è un dato di fatto, è un’opinione. Impossibile non è una regola, è una sfida. Impossibile non è uguale per tutti. Impossibile non è per sempre». Una sorta di superomismo di massa coniugato a un generico obiettivo trasformativo: quel che interessa è comunque l’idea della sfida possibile, dell’esser pronti a sostenerla in ogni situazione. In uno spot Adidas di quel periodo viene raccontata la storia di un uomo che già da bambino pratica sport acrobatici e pericolosi, con risultati eccellenti, e che da grande, se pure costretto sulla sedia a rotelle, decide di non mollare arrivando a rischiare la propria vita gettandosi da una specie di toboga. La sfida possibile diventa vittoria in Arena, dove il soggetto è realizzato grazie ai risultati raggiunti, così come in Champion la pratica sportiva è inserita in una continuità storica che va avanti verso il nuovo, senza comunque dimenticare i valori del passato. L’atto del consumo non è più agognato ma dato: grazie a esso il soggetto costruisce la propria identità individuale e sociale. Laddove Adidas, nel rispetto della propria storia aziendale, insisteva nel collocarsi nel mondo dello sport («Forever sport»), Champion supera le barriere di questo pur vasto universo per posizionarsi in una sfera ben più ampia, quella della tradizione («The story goes on»). Si innesta qui anche il discorso di Puma, che recupera i valori della etnicità ambientando i suoi spot e alcuni suoi annunci in Giamaica, ma soprattutto facendo del prodotto un relais profondo di intesa culturale, il tutto in un’atmosfera essenzialmente spensierata, giocosa, divertita. Chiude ancora una volta il quadro Nike, la quale occupa il posto del termine complesso che, sintetizzando pratico e utopico, li trascende: la perfetta tecnologia dell’attrezzatura sportiva (dalla scarpa al reggiseno) è funzione di prestazioni perfette in ogni ambiente, ma è legata a una ricerca interiore o alla costituzione spontanea di una comunità di utenti e di intenti. La costruzione dell’identità di marca diviene così strategica, operata sempre e soprattut99

to in relazione a quella dei concorrenti. Parte della significazione identitaria delle sei marche viene determinata dal modo in cui ognuna di esse entra in relazione con tutte le altre – relazioni visivamente rappresentate nello schema: Nike Adidas valorizzazione pratica

Champion, Arena valorizzazione utopica

valorizzazione critica Asics

valorizzazione ludica Puma

sport come qualcosa verso cui si tende

sport come esperienza di vita

Ecco quattro grandi procedure narrative valorizzanti in cui si raccolgono le possibili forme di razionalità più o meno consapevolmente adoperate dai consumatori al momento di acquistare determinati prodotti, forme strategicamente riprese ed enfatizzate dai discorsi di marca che intendono rivolgersi a quegli specifici target che ne fanno un uso più o meno regolare. E si capisce subito, in questo quadro, come il calcolo economico sia soltanto una, e nemmeno la principale, tra le forme di razionalità messe in opera dai consumatori, i quali molto spesso attuano le proprie scelte a partire da sistemi di valori che nulla hanno a che vedere con la qualità dell’oggetto, la sua durata nel tempo, il suo costo e così via. Queste forme di razionalità, tra l’altro, in quanto appunto forme, possono essere ‘riempite’ da personaggi socialmente e culturalmente molto diversi fra loro, così come può accadere, viceversa, che lo stesso individuo adoperi, a seconda dei diversi oggetti che gli vengono proposti dalla pubblicità e/o dal mercato, ora una valorizzazione pratica, ora una ludica, ora una utopica, ora una critica, modificando le proprie logiche valoriali sulla base di criteri del tutto personali che sfuggono alle classificazioni della sociologia tradizionale. Di conseguenza – a differenza di quanto spesso ancora si ritiene –, così come il prodotto-merce non viene considerato dal consumatore per le sue caratteristiche fisiche ma in base ai valori immateriali che egli vi inscrive, allo stesso modo l’identità del consumatore si determina volta per volta sulla base dei valori che sono presenti negli oggetti, e quindi delle valorizzazioni in 100

cui esso si trova narrativamente coinvolto. Non esistono da un lato la marca bell’e pronta e dall’altro il consumatore socialmente già dato i quali, poi, entrano in una qualche relazione fra loro grazie alla comunicazione di marca. Marca e consumatore, piuttosto, si costituiscono nella loro relazione reciproca, relazione che è il discorso di marca a proporre in modi ogni volta diversi, sulla base – da un lato – delle congiunture economiche del mercato e – dall’altro – dei desideri circolanti negli immaginari sociali del momento. Alla luce di queste considerazioni si capisce come i comportamenti di consumo che sociologi ed esperti di marketing vogliono ricostruire (andando in cerca delle motivazioni individuali e/o intersoggettive dei cosiddetti consumatori) siano previsti in anticipo entro quattro classi che, se pure molto ampie, hanno il vantaggio di essere chiare e distinte, non foss’altro perché sono interdefinite fra loro. L’universo di marca si rivela come una grande macchina che riprende dall’immaginario collettivo situazioni, desideri o bisogni già esistenti, e li trasforma al suo interno per i propri obiettivi comunicativi specifici, li ritraduce cioè sotto forma di storie di Soggetti che, per realizzare se stessi, vanno alla ricerca degli Oggetti più difformi, nei quali si trovano iscritti i valori sociali più disparati. Compito dell’analisi semiotica del discorso di marca – che diviene così una vera e propria indagine sociale sulle motivazioni di consumo – è quello di ritrovare al di sotto di questa apparente diversità del mondo, di questo mescolarsi eteroclito di soggetti, oggetti e valori, una serie di costanti narrative, di forme invarianti di valorizzazione di Oggetti da parte di Soggetti. Come dicevamo, il modello delle assiologie ha avuto un grande successo nel campo della consulenza di marketing e comunicazione (cfr. per esempio Ceriani 2001; Chevalier e Mazzalovo 2003; Bertin 2003a), ma è stato anche soggetto a un certo numero di critiche e revisioni, spesso rivolte, più che al modello in sé, al suo cattivo uso semplificatorio. Tra le principali revisioni del modello va invece segnalata quella messa in opera da Semprini (1993) proprio in funzione di un’analisi sociosemiotica della marca. Il quadrato delle assiologie del consumo viene da questo autore reinterpretato sotto forma di mapping, sistema logico che oppone, incrociandole, due categorie differenti. Laddove il quadrato si costituisce attraverso l’espansione e l’articolazione di una sola categoria semantica (pratico vs utopico), il mapping permetterebbe invece una riorganizzazione dell’opposizione di partenza. Così, se per Floch le valorizzazioni pratica, utopica, critica e ludica sono le risultanti di fasci di relazioni, per 101

Semprini occorre partire dai valori pratici e utopici intesi come dati sostanziali a sé stanti, e ricavare da essi i valori critici e ludici come specificazioni dei primi. Ne vengono fuori quattro quadranti – il critico dell’utopico e il ludico dell’utopico, da un lato; il critico del pratico e il ludico del pratico, dall’altro – nei quali posizionare le varie marche. Da qui uno schema che spazializza le relazioni e le operazioni del quadrato in un’unica superficie: utopico ludico

critico pratico

Questa modifica terminologica e categoriale si fonda su diversi motivi. Innanzitutto su un’esplicita ragione di opportunità, per così dire, contestuale: il mapping offre una rappresentazione tradizionale del posizionamento di marca, ben più familiare ai professionisti del marketing e della comunicazione. Ma c’è un’altra ragione: è l’esigenza di rendere conto, più che delle strutturazioni fondamentali del discorso pubblicitario, delle sottili differenze, delle parziali sovrapposizioni semantiche tra un concetto e un altro, tra un valore e un altro. Si tratta di un’esigenza che lo schema del quadrato non sembra in quanto tale di poter soddisfare. Diversamente, la disposizione spaziale dei valori su un piano permette di cogliere non solo le discretizzazioni categoriali ma anche l’eventuale continuum tra termine e termine, tra valore e valore. Il mapping semiotico dei valori del consumo permette per esempio, mostra Semprini, di riempire progressivamente la distanza che separa il pratico dal critico (attraverso comportamenti come ‘ragionamento’, ‘razionalità’, ‘continuità’ ecc.) o il critico dall’utopico (mediante valori come ‘storia’, ‘socialità’, ‘sapere’ ecc.). Una via di mezzo tra la prospettiva di Floch e quella di Semprini è stata offerta da Ferraro (1994, 1998), che propone un proprio modello per l’analisi della comunicazione. Questo modello prende avvio dall’osservazione secondo la quale all’interno di un racconto non è presente soltanto il piano dei valori oggettivi legati all’impresa da compiere (distinguibili a loro volta in valori d’uso e valori di base), ma anche quello dei valori soggettivi legati all’affermazione individuale e sociale dell’eroe. Una fiaba, spiegava già Propp (1928), non si chiude mai al momento della Lotta e della Vittoria ma in quello del Ritorno e delle Nozze; essa termina cioè quando l’eroe, dopo aver sconfitto l’antagonista e recuperato gli oggetti mancanti, si scopre diverso da com’era in partenza e viene riconosciuto eroe dalla società in cui si trova a vivere. Così, in ogni struttura narrativa 102

occorre prevedere la sovrapposizione di due piani, quello oggettivo e quello soggettivo, le cui diverse possibili articolazioni tendono a generare modi diversi di produrre senso e, pertanto, di percepire e comprendere il mondo. Diversamente dalla narratologia corrente, che pensa il racconto in termini di successioni lineari, è opportuno allora – secondo Ferraro – intendere il percorso narrativo sulla base delle molteplici possibili interrelazioni tra il piano dei differenti valori dell’Oggetto e quello delle differenti realizzazioni del Soggetto. Da un lato, come ha già rilevato Floch, c’è la distinzione tra valori utilitari (relativi) e valori esistenziali (assoluti); d’altro lato, sottolinea Ferraro, c’è un’ulteriore distinzione, quella tra valori inerenti all’Oggetto e valori per il Soggetto. Mentre Floch si preoccupa di proiettare sul quadrato la prima dicotomia, ottenendo l’assiologia dei valori di consumo, e Semprini a sua volta la spazializza all’interno di un mapping di possibili posizionamenti delle marche, Ferraro preferisce invece pensare a quattro possibili articolazioni, date dall’incrocio della categoria soggettivo/oggettivo con la categoria relativo/assoluto. La spazializzazione dei risultati dà infine lo schema:

SOGGETTIVO

posizionale

praticità, efficacia, convenienza, equilibrio, compromessi, dimostrabilità, misurabilità, dati concreti

essenza delle cose, naturalità, tradizionalità, ruoli sociali preassegnati, adeguatezza, spiegazioni concettuali, definizioni delle cose

comunicazione e cooperazione, rapporti fra persone, interazione e scambio, seduzione, discorsi a più voci, inclusioni fra prospettive diverse

identità personale, differenziazione, esclusività, golosità, desideri individuali, meccanismi di proiezione e di identificazione

multiprospettico

prospettico OGGETTIVO

Gli incroci tra l’asse soggettivo-oggettivo e l’asse relativo-assoluto producono quattro diversi modi di rendere significanti gli eventi, che possono diventare operativi sia nell’analisi di una campagna pubblicitaria, ma anche nell’esame delle procedure di costruzione dell’immagine di un’azienda o, ancora, nello studio del discorso politico. Ma queste posizioni hanno soprattutto, per Ferraro, importanza a livello virtuale: rap103

ASSOLUTO

RELATIVO

causale

presentano ora gli esiti a cui giunge una prassi interpretativa, ora i punti di partenza da cui prende avvio un processo comunicativo; sono cioè sistemi assiologici ricostruiti a partire dai racconti sottesi ai processi comunicativi, a prescindere dai modi specifici in cui i valori vengono attualizzati nel discorso ed eventualmente realizzati nel testo concreto. Il modello parte dalle articolazioni narrative di tipo sintagmatico per arrivare a costituire una tassonomia di posizioni valoriali che si pongono ora a monte ora a valle della narrazione stessa. Una delle vie della ricerca a venire sembra essere allora quella di recuperare la prospettiva sintagmatica, reintegrandola alla tassonomia ricavata a partire da essa.

3.6.2. Percorsi e posizionamenti A ben vedere, nel saggio di presentazione delle assiologie del consumo Floch (1990) aveva già sottolineato che il suo modello non va inteso come uno schema statico che illustra una serie di possibilità in alternativa fra loro, ma come uno strumento operativo utile a ricostruire i movimenti interni ai testi e alle vicende di marca, le trasformazioni semantiche che sono presenti nelle varie storie comunicative. E mostra come in un celebre spot di Séguéla che pubblicizzava la Citroën BX l’automobile passi da un’iniziale valorizzazione pratica (è rapida, sicura, confortevole mentre sfreccia sull’asfalto bagnato) a una ludica (si tuffa nel mare) e a una utopica («Citroën BX. Elle vit», recita la head finale). In tal modo, la marca automobilistica francese riprende molte sue campagne precedenti, dove aveva messo in opera diverse forme di valorizzazione dei suoi prodotti, e le ripropone sinteticamente in un solo testo, dispiegando in un unico spot l’intera sua storia d’impresa, nonché le linee evolutive della sua comunicazione. Presentando la BX in quel modo, spiega Floch, la Citroën conferma la propria immagine di marca, pubblicizzando in generale se stessa, non soltanto quel tipo specifico di autovettura. Ed è proprio a partire da questa necessaria interdipendenza fra la prospettiva paradigmatica classificatoria e la prospettiva sintagmatica processuale che Floch (1995) ritorna sul quadrato delle assiologie di consumo, chiarendo il senso originario del suo modello sia rispetto alle numerose utilizzazioni semplificatorie che ne sono state fatte sia rispetto alle critiche che ha ricevuto. Analizzando le strategie di valorizzazione messe in opera da alcune case produttrici di mobili e da alcuni cataloghi di vendita per corrispondenza (Ikea, Habitat), egli mostra come le valorizzazioni pratica, utopica, critica e ludica non siano da intendere semplicemente come differenti po104

sizioni sul quadrato (in relazione paradigmatica tra loro), ma anche in quanto punti di un più complesso percorso di senso (in successione sintagmatica). In primo luogo, infatti, i diversi tipi di arredamento proposti dalle case produttrici mediante i cataloghi di vendita sono collegati ora all’una ora all’altra valorizzazione: si avranno così mobili funzionali e mobili di lusso, ma anche mobili economici e mobili in stile. In secondo luogo, però, queste quattro forme di arredamento vengono collegate, nel discorso svolto dai cataloghi, a quattro diverse ‘situazioni’ o ‘epoche’ che si succedono nella vita di una persona: se nella giovinezza una coppia si sistema in un monovano arredato con mobili economici che si adattano ai più piccoli spazi (valorizzazione critica), non appena mette al mondo dei bambini deve abitare ambienti più ampi riempiti con mobili solidi e modulabili (valorizzazione pratica); col passare del tempo, poi, essa acquista una maggiore sicurezza economica che fa desiderare una certa agiatezza, e dunque mobili raffinati e lussuosi (valorizzazione ludica); con la maturità, infine, sarà l’arredamento personalizzato a essere desiderato, con mobili che rappresentano un certo stile e, con esso, una precisa configurazione personale e sociale (valorizzazione utopica). Da qui lo schema: mobili solidi valorizzazione e modulabili pratica 1 mobili economici e ingegnosi

valorizzazione critica

valorizzazione utopica 2

mobili tradizionali o moderni

3 valorizzazione ludica

mobili raffinati e lussuosi

L’identità dell’individuo, in questo stereotipato progetto di vita, non è data soltanto dal risultato finale («mi esprimo attraverso l’arredamento della mia casa») ma soprattutto dalla coerenza con la quale si persegue, con sorprendente abnegazione, un avanzamento di status che è un’affermazione di sé («sono arrivato dove volevo»). L’identità è il frutto di uno stile di vita, ossia di una serie progressi105

va di possibili valorizzazioni dei propri oggetti del desiderio. Come l’eroe delle fiabe, il riconoscimento finale è funzione delle azioni compiute per raggiungere momento dopo momento oggetti e risultati diversi: al posto degli anelli magici e delle spade fatate, dei draghi da uccidere e delle principesse da recuperare ci sono qui tavolini pieghevoli e letti a castello, poltrone dove sprofondare e salotti rococò. Si comprende meglio, in tal modo, come le quattro valorizzazioni previste da Floch non debbano essere intese come semplici elementi di una tassonomia. Esse sono il risultato specifico della proiezione di una categoria semantica sul quadrato semiotico, ovvero l’esito di un’articolazione significativa che è al tempo stesso paradigmatica (un’assiologia di valori virtuali) e sintagmatica (un’ideologia di valori attualizzati in un percorso narrativo). Se non si mantengono contemporaneamente entrambe le prospettive (quella delle relazioni e quella delle operazioni), si finisce per fare del quadrato semiotico uno schema statico fra tanti da applicare, se pure con qualche difficoltà, a un qualsivoglia universo di senso. Il suo interesse sta invece nell’essere in grado di prospettare sia una certa organizzazione logico-semantica di quell’universo sia i possibili percorsi mediante cui esso tende a trasformarsi. In uno studio, già citato, sulla telefonia mobile abbiamo ricostruito la prima fase della concorrenza fra Tim e Omnitel – grossomodo dal 1995 al 1998 – sulla base degli spostamenti della comunicazione di queste due aziende all’interno del quadrato dell’assiologia dei consumi (Marrone 1999, pp. 145-166). Quando Tim è sorta come azienda indipendente, aveva il monopolio nel mercato della gestione dei cellulari. Per crearsi un’identità, aveva in ogni caso bisogno di un ‘nemico’, che ha individuato repentinamente in Telecom: l’opposizione di fondo diveniva perciò quella fra telefonia fissa ‘tradizionale’ e ‘nuova’ telefonia mobile che consentiva di comunicare senza trovarsi in un luogo preciso. Da qui affermazioni come «A chi deve viaggiare e comunicare abbiamo aperto un mondo» [fig. 18]. «Quest’anno non mi ferma nessuno» [fig. 17], «Io vado dove gli altri non vanno», evidenti manifestazioni di una valorizzazione pratica, dove il cellulare si configura come il ‘mezzo magico’ per raggiungere spazi e percorsi altrimenti impossibili. Il comparativo proposto nel payoff iniziale di Tim («Il modo migliore per dirlo») era la più chiara dimostrazione di questa implicita volontà di raffronto fra la nuova marca e la vecchia, tradizionale azienda di telefonia fissa. Così, quando Omnitel dopo circa un anno entra in gioco, non può che proporre un’immagine della telefonia mobile – e con essa dello stile di vi106

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ta del suo utilizzatore – del tutto antitetica: e sceglie la valorizzazione utopica. La scelta comunicativa e valoriale di Omnitel è chiara: «Vi diamo ascolto» è il payoff dell’azienda [fig. 19]. Laddove Tim proponeva l’isotopia del parlare, Omnitel pone quella dell’ascoltare, costruendo un asse comunicativo che include se stessa e l’avversario. In tal modo, se sino a quando esisteva soltanto Tim il ‘dirlo’ del payoff non aveva particolare valore, e tutto il gioco stava nel comparativo ‘migliore’, il payoff di Omnitel risemantizza il discorso di Tim, crea l’idea dell’asse comunicativo, posizionando ai due poli di esso sia se stessa sia il concorrente. La scelta di Omnitel, in

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più, crea l’abbozzo di una storia. Un conto infatti è dire qualcosa, e dirlo nel modo migliore (problema pratico, funzionale), un’altra è essere ascoltati, situazione che coinvolge, al di là dell’evento comunicativo in sé, l’identità del possessore del telefonino: trovare chi ci dà ascolto significa aver modo di poterci finalmente esprimere con qualcuno che ci capisce. Così, laddove Tim si proponeva come un semplice servizio per comunicare meglio, Omnitel stipula con il proprio enunciatario un patto che incide sui valori profondi del sé, che coinvolge non tanto una funzionalità tecnica, quanto un’intera personalità. Il patto di Tim è gerarchico («ti fornisco quel che ti serve»), quello di Omnitel è paritetico («so capirti»). La risposta del primo gestore non si fa attendere: Tim restringe il proprio spazio d’azione sul quadrato delle valorizzazioni e si posiziona nel polo del critico, ovvero giusto nella posizione contraddittoria rispetto all’utopico, di fatto negandola. Da qui quello che sarà, e resterà, il tema privilegiato in tutta la comunicazione Tim successiva a cui ben presto anche Omnitel dovrà adeguarsi. Da qui, insomma, l’inizio di quella guerra delle tariffe che il regime di concorrenza non poteva non scatenare. Sparisce il payoff della prima fase, sostituito con «Tim conviene sempre», in cui la comparazione con l’avversario, questa volta esplicita, è condotta in termini di calcolo economico. E vediamo apparire moltissime forbici che, letteralmente, tagliano i prezzi [fig. 20]. In tv il simulacro di uno dei Blues Brothers atterra con un paracadute su un negozio Tim con l’incarico di tagliare i prezzi, ricevendo come sanzione il bacio di una bionda procace. E la stampa riprende più volte questa figura delle forbici, appese all’antenna di un telefonino, a sottolineare la durevole volontà del gestore di abbassare i prezzi dei contratti telefonici e delle rispettive tariffe. La risposta di Omnitel alla mossa di Tim risente del colpo subìto. Il payoff viene modificato: «Vi diamo ascolto. Dateci voce», recita adesso, come a chiedere pietoso aiuto a un non meglio precisato destinatario plurale. Ma, soprattutto, l’azienda si muove in due direzioni contrarie. Da un lato Omnitel è costretta ad andare nello stesso polo occupato da Tim, 108

21 quello del critico, proponendo anch’essa tariffe e condizioni di abbonamento estremamente più basse di prima. Da un altro lato, però, l’accettazione delle armi dell’avversario non implica una resa totale. La scelta del critico è infatti associata all’occupazione dell’unico polo del quadrato non ancora utilizzato: il ludico. Cosa che Omnitel fa immediatamente: «È finita l’era dello status symbol», dice più che esplicitamente uno spot televisivo dove due giovani si contendono la stessa donna. Inutile dire che la scelta del ludico – facendo riferimento al nuovo target giovanile – non può non attirare anche Tim. Ecco dunque che il primo gestore propone una carta prepagata, ma anche Flash Gordon e Superman vengono convocati per una serie di album promozionali delle nuove condizioni di accesso al servizio. D’ora in poi, anche la comunicazione Tim coniuga critico e ludico, denaro e divertimento. Un neologismo cerca di sintetizzare miticamente quest’opposizione: «Telefoniniamoci di più. Ora costa meno» [fig. 21]. Ecco che nel giro di pochissimi anni il telefonino acquista una configurazione ben diversa: occorre spendere di meno, non per servirsene con minore apprensione, ma per «telefoninarsi» di più; parlare al telefonino è divertimento puro, come andare sui pattini, pedalare tutti insieme in bicicletta, percorrere una pista da sci e simili. L’ultima fase è caratterizzata da uno smanioso movimento di Omnitel, che sembra aver definitivamente perduto lo smalto della sua fase iniziale, e cerca di reagire in tutti i modi possibili, onde recuperare un’identità visiva forte da opporre all’invadenza e alla spregiudicatezza di Tim. Che fare? Sembra non esserci altra strada possibile: andare a occupare gli spazi lasciati vuoti dall’avversario, magari ritrovando i temi d’una volta; in altre parole, andare verso il pratico, cercando di farlo giocare miticamente con l’utopico. Principalmente, c’è tutto un lavoro sul payoff, che adesso diventa «Quel che facciamo oggi gli altri lo faranno domani» (che ha un esplicito riferimento alla concorrenza); ma quest’ultimo viene nuovamente trasformato in «Persone in grado di cambiare il mondo» [fig. 22].

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E poi la pubblicità delle tariffe. C’è una serie di annunci dove la nuova tariffa Omnitel City viene pubblicizzata con due giovani qualsiasi: l’immagine maschile è accompagnata dalla head: «Commercialista, rappresentante, taxista, elettricista?...»; nell’immagine femminile cambia la prima parte: «Pediatra, avvocato, architetto, professoressa?...». I ruoli tematici richiamati dalle due head hanno un’evidente particolarità: non si tratta più di manager o finanzieri, personaggi in qualche modo costretti a viaggiare molto, da una città all’altra, da un aeroporto all’altro; si tratta invece di mestieri o professioni svolte pressoché totalmente in città, dunque particolarmente adatte a una tariffa metropolitana. C’è un’altra serie di annunci in cui a fare da testimonial alla «rivoluzione verde» di Omnitel è chiamato addirittura – con un’ironia che resterà presente in tutta la serie – Karl Marx, con una prima head che dice: «Dove ha fallito Marx, è riuscita Omnitel», e una seconda: «Telefonare tutti, solo per lavoro» [cfr. fig. 23 di § 4.3.3]. La valorizzazione pratica è evidente. La nostra storia si chiude con la risposta di Tim: se Omnitel va verso il pratico, il primo gestore si sposta sull’utopico. Lo si vede innanzitutto dal nuovo payoff, «La vita migliora», che coinvolge direttamente il tema e il valore della vita. Ma è il tema della spazialità a venire adesso in primo piano, e con esso una forte ridefinizione della soggettività. In alcuni annunci vediamo spazi relativamente aperti (una piazza italiana, la hall di un aeroporto, la vetta di una montagna) dove alcune persone parlano al telefonino, mentre alcune linee tratteggiate le uniscono a diversi punti della pagina. La head dice: «Accendi il telefonino e sei al centro del tuo mondo», e nei vari punti della pagina indicati dalle li110

nee tratteggiate leggiamo per esempio nel caso della montagna: «180 km dai ‘mi raccomando’ di tua madre», «420 dal fax del laboratorio», «266 dalla tua ragazza, l’unica che ti capisce» [fig. 23]. Insomma, se da un lato lo spazio si restringe intorno a una soggettività che lo ridefinisce di continuo, dall’altro assistiamo alla verità della telefonia cellulare: nonostante la retorica che li nega, i fili ci sono, e, per quanto virtuali, non sono meno opprimenti. Le figure di questi annunci sono forse più vicine ai loro oggetti euforici che a quelli disforici, ma restano sempre e comunque in continuo collegamento anche con gli aspetti negativi della vita quotidiana: il fax del laboratorio, l’amica che non c’è mai, la madre e i suoi «mi raccomando». Cosa che è comunque temperata dalla novità offerta dalla head, secondo la quale tutti questi collegamenti diventano possibili se e solo se «accendi il telefonino». Dunque può stare spento. Alcuni schemi possono visualizzare i movimenti pressoché opposti dei due gestori sul quadrato: Movimento di Omnitel (da utopico a pratico) pratico 1a utopico

Movimento di Tim (da pratico a utopico) pratico utopico 1 critico

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3

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ludico

critico

2b

1b ludico

3.6.3. Conquiste e nuovi problemi Se pure il modello delle assiologie del consumo può apparire astratto o schematico, possiede tuttavia una serie non indifferente di meriti. Meriti che altri modelli, eliminando il principio strutturale del quadrato semiotico, finiscono per ridimensionare fortemente. Innanzitutto, esso ha il grande pregio di essere formale e non sostanziale. Il quadrato dell’assiologia dei consumi rintraccia le quattro forme standard di valorizzazione degli oggetti e non gli specifici contenuti dei valori che vengono in essi iscritti. Accade così che, a seconda dei diversi generi merceologici, alla medesima forma di valorizzazione possano associarsi contenuti molto diversi: se nel caso delle automobili la valorizzazione critica ha a che fare con valori come il prezzo contenuto della vettura o il basso consumo del carburante, 111

e nel caso dei mobili essa coinvolge l’ingegnosità nel costruirli personalmente, nel caso dei telefoni cellulari ritroviamo invece tutt’altro genere di contenuti come la leggerezza dell’apparecchio o le sue piccole dimensioni. Un altro merito di questo modello è il suo essere eminentemente strutturale. In esso ogni forma di valorizzazione trova la sua ragion d’essere in relazione alle altre, ed è soltanto in funzione dell’intero universo virtuale dell’assiologia dei consumi che è possibile comprendere il senso profondo di un annuncio pubblicitario. Così, per restare in tema di telefonia cellulare, se un annuncio ci dice che un certo determinato apparecchio è «fatto per parlare», valorizzandolo in termini pratici apparentemente molto banali, è perché in effetti una gran serie di annunci della concorrenza proclama in quello stesso periodo che il telefonino serve – utopicamente – per realizzare se stessi. Inoltre, tale modello non è soltanto statico ma anche e soprattutto dinamico. In quanto tale, esso permette di ricostruire le logiche di posizionamento e riposizionamento tra un certo numero di aziende presenti contemporaneamente sul mercato, ma offre altresì la possibilità di capire la logica delle trasformazioni assiologiche profonde sia nella comunicazione di una singola azienda (cfr. Séguéla e Citroën) sia nelle storie di vita costruite a livello comunicativo in funzione di una più complessa strategia comunicativa e di marketing (cfr. Ikea e Habitat, o Tim e Omnitel). Vale la pena altresì di ricordare che questo modello è eminentemente semiotico: esso non ragiona in termini referenziali, ossia di riscontri empirici tra il singolo testo e il prodotto reale che esso pubblicizza, e dunque nei termini di un’opposizione tra le funzioni effettivamente possedute dell’oggetto e i valori simbolici che a esso vengono aggiunti a livello comunicativo. In questo senso, bisogna evitare l’equivoco per cui, lo ripetiamo, la valorizzazione pratica indica le funzioni strumentali effettivamente possedute dell’oggetto mentre quella utopica propone dall’esterno una sua possibile simbolicità rispetto al consumatore. Tutte e quattro le valorizzazioni sono l’esito di un’interazione semiotica, ossia dell’attribuzione di senso a un Oggetto da parte di un Soggetto: ci sarà un senso utopico come anche uno pratico, uno critico come uno ludico. Va infine ribadito che questo modello, per quanto nelle sue linee essenziali possa sembrare astratto, è l’esito di una complessa ed estremamente concreta antropologia del racconto. In tal senso, esso non ha nulla di aprioristico o generico, in quanto si basa su una preventiva osservazione e una conseguente concettualizzazione del senso comune, di quell’immaginario collettivo cir112

colante nella società che poi il discorso di marca ritraduce al suo interno per i propri obiettivi comunicativi. Così, se per esempio secondo il senso comune, in questo ripreso dalla logica del racconto, il fine (valore esistenziale) non si oppone al mezzo (valore utilitario) ma lo presuppone, nell’immaginario specificamente comunicativo si crea una vera e propria opposizione fra termini contrari, non foss’altro per poterla poi, a seconda delle esigenze del momento, sintetizzare in un termine complesso. Corollario di tutto ciò è l’immagine generale della comunicazione che ne viene fuori: non una banale, assolutamente astratta, trasmissione di dati e informazioni da un emittente ‘pieno’ e subdolamente manipolatore a un destinatario ‘vuoto’ e passivamente disponibile alla manipolazione, ma un’operazione di interpretazione di quanto il destinatario già sa e sente nel proprio immaginario, una specie di traduzione narrativa dei valori e dei desideri del pubblico – in funzione, ovviamente, delle esigenze specifiche e cangianti del mercato. Come già abbiamo rilevato in altra sede (Marrone 2001, pp. 187214), il modello delle assiologie del consumo di Floch lascia comunque aperti diversi problemi, a partire innanzitutto dal fatto, ricordato anche sopra, che esso articola sul quadrato semiotico alcune strutture di senso legate alla grammatica narrativa, mettendo cioè fra parentesi la dimensione antropomorfa (il Soggetto e l’Oggetto) a tutto vantaggio delle procedure di valorizzazione. All’interno di ciascuna forma di valorizzazione, occorre dunque prevedere una serie di distinzioni, a seconda che l’accento del racconto cada sul Soggetto operatore, sull’Oggetto di valore o sulla loro relazione. Così, per esempio, a proposito della valorizzazione ludica, una cosa è esibire la bellezza di un oggetto (poniamo un abito), un’altra è mostrare qualcuno che prova piacere possedendolo (una persona che lo indossa con grande felicità), altra cosa ancora è rappresentare la gratuità dell’incontro fra i due (mostrare un guardaroba straripante di abiti consimili). Limitare l’analisi alla disposizione delle marche nel quadrato di Floch è dunque fortemente riduttivo, poiché esso non ci dice nulla circa le dinamiche di senso che da una forma valorizzante portano all’attuazione vera e propria del consumo. Occorre insomma proseguire l’indagine, passando all’esame degli altri livelli del senso presenti in un annuncio, una campagna, un punto vendita e quant’altro fa parte del mix di marca. Inoltre, a proposito della valorizzazione utopica, si pone il problema di comprendere meglio in che cosa consista lo stato di con113

giunzione narrativa fra Soggetto e Oggetto, tale per cui, come s’è detto, il Soggetto passa dal ruolo attuale a quello realizzato: trasforma cioè se stesso e si dota di una nuova identità. Anche qui occorre operare alcune distinzioni, a seconda dello specifico momento del processo congiuntivo che viene raccontato: quello statico (ed estatico) della beatitudine data dal congiungimento avvenuto; quello immediatamente precedente della massima tensione che sta per sfociare nell’incontro; quello successivo di una congiunzione già data (e goduta), di una storia conclusa che, forse, porterà il soggetto a scuotersi dal torpore del piacere per guardarsi in giro in cerca di nuove avventure. Il racconto, abbiamo detto, dà il senso alle azioni della nostra vita: e queste ultime, si sa, hanno più sapore quando andiamo in cerca di qualcosa piuttosto che quando l’abbiamo raggiunta. I nostri ripostigli, reali o mentali, sono pieni di oggetti che abbiamo a lungo bramato e che, una volta conquistati, hanno perduto tutto il loro valore. Don Giovanni, da secoli, insegna che il processo seduttivo ha valore in sé e non per l’Oggetto che si finisce sempre e comunque per conquistare. Non è difficile capire quanto queste considerazioni siano pertinenti per il discorso di marca, nel quale si ha costantemente il problema di rappresentare figurativamente desideri e valori (astrattamente? concretamente?), ma anche e soprattutto di raccontarli, di scegliere il momento adatto (pulsione verso, consumo del bene, soddisfacimento successivo...) per suggerirne la portata. Meglio far vedere qualcuno che desidera mangiare un gelato, mostrarlo mentre lo addenta, esibire il suo godimento più intimo, riprenderlo mentre lo gusta in compagnia di un gruppo di amici, riferire le sue parole in merito, far capire quanto è socializzante quel tipo di consumo? Le possibilità sono molto ampie, come è ovvio, e tutte gravitano intorno a una valorizzazione utopica, alla messa in evidenza di un bene di consumo che è l’incarnazione sensibile dei valori realizzati di un Soggetto narrativo. Una differenza di fondo va comunque fatta, a partire dai due elementi da cui siamo partiti nell’illustrazione della grammatica narrativa: da un parte le trasformazioni (il fare, le azioni), dall’altra gli stati (l’essere, le passioni). Così, in un annuncio inglese di Waterman risalente ad alcuni anni fa [fig. 24], e facente parte di una campagna pubblicitaria internazionale volta a risemantizzare il logo della marca, l’identità dei due soggetti in gioco è la risultante della lunga sequenza di azioni che i due vivono in maniera fra l’altro molto intensa. Con la stilografica uno dei due scrive all’altro: «While you were discovering law shool, I was covering Beirut. You 114

took the bar. I haunted it. You joined a City law firm, I got the Moscow desk. To our birthday you gave me a Waterman. How often I forget how alike we really are». Ecco una fitta serie di enunciati molto stringati, ognuno dei quali predica un’azione ora dell’uno ora dell’altro dei due gemelli, alla fine della quale si coglie come la loro identità sia la risultante, da una parte, della loro relazione e, dall’altra, del ritmo frenetico delle loro esistenze. (Per un’analisi dettagliata di questa campagna cfr. Marrone [1998b; 2001, pp. 196-241], ma già Floch [1995] aveva lavorato su un annuncio francese dal quale essa ha preso avvio.) Un caso opposto, pur all’interno della medesima valorizzazione, è quello di un annuncio per il profumo Flower di Kenzo [fig. 25], dove in senso stretto non è presente alcuna azione, e i due attori in gioco – la modella e la boccetta del profumo – stanno fra loro in una relazione che non è nemmeno di reale congiunzione. Non sappiamo se la donna ha fatto uso del contenuto della boccetta. Quella a cui assistiamo è la rappresentazione di un’‘atmosfera’ vagamente orientaleggiante, sfumata, indeterminata, alla quale entrambi gli attori sembrano adeguarsi perfettamente, come a vivere un comune

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modo di essere. Il problema, per noi, è capire che cosa significhi esattamente ‘atmosfera’, come la si rappresenta a livello visivo, come si suggerisce sinesteticamente l’idea di un certo profumo, e soprattutto come si determina a livello narrativo questo comune ‘modo di essere’.

3.7. Logiche dell’affetto Si innesta qui la questione del ruolo dell’affettività nella costruzione e gestione del discorso di marca. Il ‘modo d’essere’ relativo all’identità di un soggetto o di un’atmosfera non è altro, infatti, che la processualità interna, e la conseguente articolazione, di quelli che in § 3.3 – con terminologia improntata alla logica e alla linguistica – abbiamo chiamato ‘stati’ di congiunzione e di disgiunzione fra Soggetto e Oggetto. Ora, questi stati narrativi, come s’è accennato, non hanno in sé nulla di statico; allo stesso modo per cui, come è intuitivo, i cosiddetti ‘stati d’animo’ sono in realtà sommovimenti interiori della psiche, modulazioni affettive, vere e proprie avventure passionali che non si configurano affatto come arresti o blocchi dell’azione, ma semmai come una sorta di ricarica motivazionale profonda che rilancia i programmi narrativi conferendo nuovo vigore ai sistemi di valori. Del resto, più d’una volta la nostra trattazione della narratività, partita da una definizione del racconto come serie orientata di azioni, è sfociata in derive di tipo affettivo – tutte, fra l’altro, essenziali per il discorso di marca. Si pensi alla questione della strategia, dove non solo si danno passioni squisitamente tattiche (paura, coraggio, temerarietà, senso del rischio, incertezza...) ma dove, fra l’altro, il calcolo delle competenze altrui, incrociandosi con l’esigenza di una messinscena della propria, sfocia quasi inevitabilmente in uno ‘sfogo’ passionale talvolta incontrollabile. E si pensi al fenomeno della manipolazione, dove ogni manovra legata al far-fare e, soprattutto, al far-volere non può non tenere in considerazione le disposizioni affettive sia del soggetto da manipolare sia di quello manipolatore. Per non parlare del meccanismo profondo della costituzione del valore, dato dalla proiezione su categorie semantiche qualsiasi della categoria timica (euforia/disforia), ossia proprio dalle reazioni di attrazione e repulsione psicofisica di un soggetto corporeo nei confronti dell’ambiente immediatamente circostante. Dobbiamo ridefinire così, con Fabbri (1998), la narratività come un processo orientato di trasformazione di azioni e passioni, dove ogni azione genera una passione e, viceversa, ogni passione provoca un’azione. 116

Nel pensiero sulla marca la questione dell’affettività è da diverso tempo all’ordine del giorno. Da quando la marca non è più soltanto un marchio, cioè un segno di riconoscimento, essa ha trasceso la semplice dimensione cognitiva, legata all’awareness, per invadere in modo sempre più massiccio i territori del sentimento, del calore passionale, del mood, delle modulazioni del desiderio nella psiche e nel corpo. In una direzione duplice ma complementare. Da una parte si prende in considerazione il côté affettivo, e non soltanto economico-razionalistico, del consumatore: il consumo viene inteso come un’esperienza complessiva che travalica la relazione più o meno soddisfacente al singolo bene o servizio, e dunque il consumatore stesso diviene non tanto un cliente da catturare e coccolare ma una persona a tutto tondo, con le sue debolezze e contraddizioni, i suoi impulsi e caparbietà. Da un’altra parte, proprio nell’intenzione di stimolare gli affetti oltre che le ragioni di questo consumatoreindividuo, a ‘riscaldarsi’ di passione è il discorso di marca nella sua interezza, che forgia i suoi contenuti sempre meno con argomentazioni e dimostrazioni, storie e mitologie, e sempre più invece con sensazioni e sentimenti, umori e slanci affettivi anche molto diversi fra loro. S’è parlato di emotional branding (Gobé), ma anche di marketing aesthetics (Schmitt e Simonson) ed experiental marketing (Schmitt), proprio per sottolineare il movimento di ridefinizione complessiva della nozione di marca (che da moltiplicatore di valore dell’impresa, entità funzionale alla crescita economica di una corporate, è diventata un vero e proprio soggetto dotato di proprietà antropomorfe molto precise, fra cui appunto quella dell’affettività) e con essa della nozione di consumatore (che da cliente da soddisfare nel possesso di un bene è diventato una persona alla ricerca di esperienze disparate, fra cui, anche qui, quella passionale). La relazione fra marca e consumatore non è più allora soltanto di verificabile garanzia rispetto ai prodotti, ma semmai di coinvolgimento amicale, di trasporto affettivo, in nome di una condivisione profonda di valori comuni. Fabris e Minestroni (2004) sottolineano molto chiaramente questo passaggio: la marca, sostengono, da una parte certamente muove, sposta l’attenzione e l’azione del consumatore, provoca precise reazioni; da un’altra parte essa però commuove, mette in relazione soggetti, li avvicina affettivamente, fa in modo che condividano i medesimi valori. Da qui, per Schmitt, la centralità della nozione di ‘esperienza’, che – sostituendo quella di customer satisfaction – si estrinseca in campi diversi quali il Sense, il Feel, il Think, l’Act e il Relate, da curare mediante una serie di espedienti pianificati in specifiche operazioni di marketing dette ‘fornitori di esperienza’ (ExPro). E analogamente da qui, secondo Gobé, una serie di inevitabili trasformazioni nella mentalità di gestione della marca: dal consumatore alla persona; dal prodotto all’esperienza; dall’onestà alla fiducia; dalla qualità alla preferenza; dalla notorietà all’aspirazione; dall’identità alla 117

personalità; dalla funzione al sentimento; dall’ubiquità alla presenza; dalla comunicazione al dialogo; dal servizio alla relazione (cfr. il commento di Fabris e Minestroni [2004, pp. 85-91]). Di fronte a questo genere di problematiche, la prospettiva semiotica assume il ruolo, prima ancora che di opportunità metodologica, di riflessione chiarificatrice tramite una preliminare interdefinizione dei concetti convocati, delle nozioni tirate in gioco, le quali spesso risultano intrecciarsi le une con le altre, ora specificandosi e approfondendosi vicendevolmente, ora sovrapponendosi e contraddicendosi, ora restando invece assolutamente estranee fra loro. La prospettiva epistemologica assunta, del resto esplicitamente, da Schmitt per il suo experiential marketing, per esempio, è di tipo cognitivo e modulare (Fodor è il punto di riferimento teorico), tale per cui sensazione, emozione, pensiero, azione e relazione vengono elencate come altrettante dimensioni dell’esperienza, del tutto svincolate fra loro. Ma come è possibile separare, in realtà, la sensorialità dalla passione, l’azione dalla relazione, ma anche il pensiero dall’emozione? In fondo, l’idea stessa di marca presuppone una forte interrelazione fra queste cinque componenti, in nome di un superamento di fondo dell’opposizione – tanto invecchiata epistemologicamente quanto tuttora spesso praticata nel pensiero economico e nel marketing – fra razionalità ed emozione, mente e corpo, socialità e individuo ecc. Analogamente, come mettere in relazione l’esperienza (sensoriale, affettiva, cognitiva ecc.) del soggetto-consumatore con il ‘riscaldamento’ del discorso di marca, e sino a che punto è possibile prevedere quella specie di implicito meccanismo behavioristico per cui a ogni appassionamento del discorso (stimolo) dovrebbe automaticamente corrispondere un appassionamento del suo destinatario (risposta)? Da sempre, quanto meno dalla Poetica aristotelica in poi, sappiamo che le reazioni emotive del pubblico possono essere ora di adesione alla passione dell’emittente, ora – con buona pace degli odierni fan dei cosiddetti neuroni-specchio – di assoluta inversione: è il modo di articolazione interna del discorso a determinare la sua efficacia, ora in senso mimetico (mi impaurisco per un discorso pauroso), ora nel senso opposto del rigetto (mi viene da ridere di fronte a tanta tragedia). Così, se la prospettiva modulare, tenendo separate le varie dimensioni dell’esperienza, appare deficitaria rispetto alla realtà effettiva dei meccanismi semiotici di produzione del senso (cfr. per esempio Violi 1997), occorre ricostruire le relazioni multidirezionali fra tutte queste dimensioni. Da un lato, c’è un indubbio movimento nel mondo della comunicazione e della cultura di massa che tende a ridimensionare l’individuo singolo (con i suoi programmi d’azione atti a costituirne l’identità): ora in nome delle interconnessioni fra persone, di un’intersoggettività trionfante in ogni gesto e comportamento (Ferraro 1998); ora, invece, in nome di 118

una primarietà dell’esperienza sensoriale in quanto tale, di una desiderabilità che non starebbe più nelle cose ma direttamente nell’esperienza – più o meno stereotipa – che ne facciamo (Bertrand 1995). Da un altro lato, sul piano della ricerca sulla significazione, si è ormai da tempo osservato che la soggettività in gioco nei fenomeni narrativi non è il punto di partenza volitivo da cui hanno luogo i programmi d’azione, ma l’esito finale di questi stessi programmi, e soprattutto dell’esperienza che in essi e con essi ha avuto luogo: un’esperienza che è al tempo stesso intersoggettiva (sociale, culturale) e presoggettiva (sensoriale, corporea), dunque in senso lato affettiva, patemica. Il soggetto è la risultante finale, ancorché perennemente provvisoria, di questi processi contemporaneamente estetici e collettivi, l’esito fragile di un corpo sociale che riemerge fieramente ogniqualvolta la cognizione esaurisce la propria (debole) azione raziocinante (Marrone 2001, 2005a). L’osservazione delle trasformazioni socioculturali e lo sviluppo della teoria semiotica delineano così una serie di percorsi atti ad approfondire e perfezionare i modelli d’analisi narrativa: la sociosemiotica (Landowski 1989), la semiotica delle passioni (Greimas e Fontanille 1991), la semiotica dell’esperienza sensoriale e del corpo (Greimas 1987) sono i principali fra questi percorsi, sui quali ci soffermeremo nelle pagine successive. Nel prosieguo di questo capitolo tratteremo specificamente la questione delle passioni; nel capitolo successivo prenderemo in considerazione la prospettiva sociosemiotica e discorsiva; nel successivo ancora illustreremo invece la questione della sensorialità e del corpo. Ma si tratta, ovviamente, di distinzioni di comodo, che finiscono per intrecciarsi di continuo nella ricerca e, soprattutto, nella esperienza concreta del senso.

3.7.1. Affetti ed effetti Da diversi anni la scienza della significazione riflette in modo approfondito sulla cosiddetta dimensione patemica (o passionale) del senso, ricostruendone sia i meccanismi discorsivi specifici sia le interrelazioni con le altre dimensioni pragmatica, cognitiva e somatica (Greimas 1983; Parret 1986; Fabbri e Pezzini 1987; Greimas e Fontanille 1991; Pezzini 1991, 1998; Fabbri 1998). Dopo un primo momento di rifiuto per tutto ciò che avesse a che fare con lo ‘psicologismo’ degli attori sociali (siano essi reali o ‘di carta’), in nome di un’aristotelica priorità delle azioni sui caratteri, la semiotica – in linea con analoghe tendenze ‘passionaliste’ in altre scienze umane (dall’antropologia all’economia, dalla teoria del cinema a certa sociologia) – ha assunto al proprio interno l’idea che il senso umano e sociale viene prodotto e trasformato non solo in base alle attività co119

gnitive o ai comportamenti culturalmente codificati, ma anche a partire dall’affettività, la quale a sua volta fa riferimento continuo alla realtà somatica. La prima opposizione a essere neutralizzata, pertanto, è proprio quella fra ragione e passione, in tutte le sue possibili declinazioni e ribaltamenti (compresa quella psicanalitica), e con essa anche quella fra azione e passione (tale per cui, cartesianamente, la passione è la conseguenza di un’azione subìta, una sorta di passivazione del soggetto che viene dominato controvoglia dal mondo – manco a dirlo irrazionale – delle emozioni). Ne deriva che la dimensione passionale non è, come spesso si ritiene, semplicemente quella legata al desiderio e all’emozione erotica, al sensualismo corporeo e alla sua sublimazione romantica. E ne consegue altresì – cosa per noi fondamentale – che tale dimensione è, da una parte, linguisticamente e culturalmente determinata (nulla di universale o di intimo, pertanto, nelle passioni), e, dall’altra parte, possiede uno strato profondo che precede la sua stessa organizzazione linguistica e culturale. In altri termini, al di là dei modi in cui le lingue nominano le passioni (come è noto, spesso intraducibili: cfr. la celebre saudade brasiliana), e dunque delle forme che esse acquisiscono nelle varie culture (esistono culture della vergogna e culture della paura: Lotman e Uspenskij 1975; ed esistono passioni legate alle epoche storiche, come l’avarizia seicentesca che è oggi, notano Greimas e Fontanille 1991, del tutto inesistente), ci sono quelle che Landowski (2003) chiama passioni senza nome: le disposizioni affettive, le modulazioni emozionali, insomma, proprio quel mood, tanto indeterminato quanto essenziale, di cui molto si parla nel pensiero sulla – e nella pratica della – marca. Semioticamente, la passione è un effetto di senso del discorso. Sia perché, ovviamente, i vari discorsi producono, sollecitano o trasformano le emozioni di entrambi gli attori in gioco nella comunicazione, produttore e pubblico. Sia perché, cosa meno evidente, l’idea stessa di affettività è la risultante finale, ancorché mai definitiva, di una serie di meccanismi semiotici, anche al di là delle passioni espressamente nominate o rappresentate nei testi (cfr. Fabbri e Sbisà 1985; Fabbri 1998; Fabbri e Marrone 2001). Se infatti, come s’è detto, la categoria timica è la base d’ogni processo passionale, altrettanto importanti sono i giochi e gli incastri modali: la gelosia, per esempio, ha in sé un voler-sapere; l’ostinazione è un voler-fare che si innesta su un non-poter-fare; l’avarizia è un non-voler-essere disgiunto dal proprio oggetto di valore; per non parlare delle fonda120

mentali passioni del dovere, come l’onore e la vendetta. Altri fenomeni che contribuiscono a produrre un effetto di senso passionale sono senz’altro la temporalità (la nostalgia è una passione del passato come la speranza lo è dell’avvenire) e l’aspettualità (ci sono passioni istantanee come l’orrore e passioni durative come l’angoscia; passioni incoative come l’attesa e passioni terminative come la collera). Ma a produrre la dimensione passionale sono soprattutto la tensione (si pensi a opposizioni come teso/disteso, raccolto/rilassato, contratto/esteso), l’intensità (che genera un coinvolgimento emotivo più o meno forte) e, infine, il ritmo (un cambiamento di suono o di colore veicola effetti passionali evidenti). Tali questioni si intrecciano fra loro, e dal loro intersecarsi gli affetti nascono e, soprattutto, si modificano: accade per esempio che un dolore troppo intenso produca momentanee reazioni euforiche; che una tensione massima trasformi l’euforia in disforia; che il protrarsi di un’emozione provochi distensione e adiaforia oppure, analogamente, improvvisi cambiamenti d’umore. Insomma, ogni determinata passione è l’esito di questi possibili montaggi fra fenomeni semiotici diversi (e descriverla significherà passare in rassegna questi montaggi e verificarne, caso per caso, la portata). Un esito che non è mai conchiuso poiché viene inserito in un processo di continui mutamenti, salite e discese timiche, tensioni e distensioni, blocchi e sincopi, rinunce e rilanci. Così, quando si dice che McDonald’s cerca di rimediare alla monotonia del cibo standardizzato in menu ripetitivi con un appassionamento più ampio e coinvolgente dell’esperienza di consumo del fast food (dalla scelta dei colori vivaci nella comunicazione e nel punto vendita alla strutturazione dei percorsi entro i locali, sino alla presenza del pagliaccio-mascotte e delle feste per bambini), è possibile cercar di capire, per esempio, quali reali processi affettivi vengano messi in opera, e a partire da quali organizzazioni espressive. Che relazione per esempio si instaura, se si instaura, fra la morbidezza del panino (detensione) e le patatine con lo zucchero (intensità), la cura dell’igiene (diaforia), il logo dalle mille significazioni (irradiazione progressiva dell’affetto e proposta di un rifugio), il gusto del servirsi in continuazione (iteratività) ecc.? Così, soprattutto, bisognerà comprendere se fra tutti questi elementi si diano una coerenza e un conseguente significato determinato, oppure se si tratti di un semplice affastellamento di cose e situazioni che produce tutt’al più, come generico effetto di senso, pura euforia. Allo stesso modo, quando si dice che Armani è prima di ogni altra cosa un mood nei confronti della 121

vita e del mondo, un vago ‘non-so-che’ fatto di sottili sfumature emotive e d’un gusto elitario, possiamo aggirare il ricatto dell’indicibilità di tale atmosfera (senza per questo nulla togliere alla sua suggestività) ricostruendo i processi che lo pongono in essere: e spiegarci se e come le linee di prodotto che, per allargamento progressivo, estendono la marca, hanno fra loro una qualche coerenza espressiva e semantica con lo scopo di produrre una specifica dimensione affettiva. Un’altra strada promettente potrebbe essere quella di mostrare come la maggior parte dei tratti espressivi di questa marca siano perfettamente antitetici a quelli della marca storicamente concorrente, Versace (in quest’ultima vigono la tensione, l’euforia e un’intensità forte; la prima lavora sulla detensione, la non-disforia e l’intensità debole), cercando al tempo stesso di capire se a questa opposizione sul piano dell’espressione (riconducibile a quella classico/barocco, su cui torneremo in seguito [§ 4.4]) corrisponda un’opposizione altrettanto radicale su quello del contenuto. Più agevole potrebbe essere misurarsi con il mondo Disney (cfr. Marin 1973, Augé 1999, Codeluppi 2001), la cui intera organizzazione interna trae origine da un universo narrativo molto preciso, nel quale personaggi stereotipati incarnano passioni ben determinate (avarizia, fortuna, sfortuna, buon umore, furbizia, stupidità...) al punto da costituire veri e propri ruoli patemici che, analogamente ai ruoli tematici della grammatica narrativa, portano in sé tutte le possibilità del loro sentire affettivo. E ci si chiederà: che relazione c’è fra Paperopoli o Topolinia e i parchi a tema creati dalla marca? sino a che punto la vaga sensazione di infantile fantasia che regna a Disneyworld o a Celebration rispecchia le avventure di Topolino e Pippo, quando non semmai quella, molto meno determinata, dei vari film fiabeschi anno per anno mandati nelle sale (e in Dvd) dalla Disney Production? [cfr. anche § 5.6] Insomma, la batteria di categorie analitiche messa in gioco dalla semiotica delle passioni può articolare con maggiore rigore e precisione l’esame dei discorsi di marca imbevuti di passione. Passando, soprattutto, da una lista di valori sostanziali, pieni di contenuti specifici, a una serie di forme valorizzanti, di procedure atte a produrre come effetto di senso i valori e, soprattutto, le loro relazioni reciproche. Così, per esempio, a proposito di una delle marche italiane più studiate, Barilla, si insiste spesso su una serie di core principles cui essa farebbe riferimento in diverse campagne di comunicazione, pur nelle sue innumerevoli variazioni nel tempo: da un parte la qualità (da cui la naturalità, la freschezza, la cura nella preparazione della pasta...), dall’altra la tradizione (da cui la famiglia, la casa, il calore domestico...). Ma come si mettono in rapporto fra loro tali valori? in quali storie vengono inseriti, grazie a quali procedure si costituiscono? Semprini e Musso (2001), riprendendo alcuni spunti di Codeluppi (1997, pp. 134-136), osservano come, nel passaggio dalla serie di spot incentrati sul ritorno a casa a quel122

li che narrano di viaggi in paesi extraeuropei, la marca abbia seguito le tendenze sociali del momento: dapprima, di contro allo yuppismo del cosiddetto edonismo reaganiano, mirava al recupero dei valori familiari; successivamente, dinnanzi all’enorme sviluppo del multiculturalismo, ecco invece un’attenzione ai valori di apertura tipica delle coppie etnicamente miste. Dal punto di vista formale della teoria della narratività, invece, più che un andare avanti inseguendo le mutazioni della cronaca, la marca è andata indietro verso le presupposizioni insite nella logica narrativa: dal ritorno a casa si risale verso il viaggio in paesi lontani. Ecco dunque una storia più ampia, raccontata dal discorso di marca, tanto più efficace quanto più, saturando i momenti dello schema canonico, li intensifica e li risemantizza, fornendo alle passioni in gioco – voglia di tenerezza vs curiosità per l’altro; chiusura nel focolare domestico vs apertura verso il mondo – una base narrativa nella quale svolgersi e, per così dire, trovare una loro motivazione profonda. Un buon modo per cominciare un’analisi passionale del discorso di marca è di studiare appunto come l’affetto si innesti nel racconto producendo un’eccedenza passionale rispetto alle logiche precipue del concatenamento delle azioni. Così, per esempio, tornando alla già citata campagna Waterman, se nell’annuncio sopra riportato [fig. 24] il processo di senso era legato a un susseguirsi frenetico di azioni compiute dai due soggetti in gioco, in una stereotipa versione femminile analizzata altrove (Marrone 2001) il soggetto narrativo (una giovane donna in cerca di sé) non riesce mai a portare a termine i programmi che ostinatamente si dà (andar via da casa, fare della musica, scrivere romanzi), se non con l’ausilio affettivo della madre, che la sostiene a ogni passo dell’esistenza [fig. 26]. In tal modo la realizzazione non è data dal compimento dei programmi narrativi, e dalla conseguente sanzione sociale positiva, ma dalla passione vissuta in comune, dove l’ostinazione del soggetto-figlia è bonariamente tollerata dal destinante-madre. L’ostinazione, voler-fare compulsivo a cui non si lega un conseguente poter-fare, eccede per definizione la logica azionale, aprendo un intero processo affettivo. Analogamente, in una campagna per Sony PlayStation, Bertin (2002, 2003b) ritrova una versione interattiva – ancorché ironica – del patto faustiano: si scambia la libertà individuale per il piacere del momento ludico, valorizzando la passione sfrenata a discapito dei ragionevoli programmi di realizzazione personale. Una serie di visual propongono una folla di persone in adorazione del logo, un abito privo di corpo con il marchio in evidenza, un pugno in primo piano con le icone dei comandi del gioco in ogni dito. È l’idea dell’abbandono identitario, della rinuncia di sé, per perdersi nel divertimento insensato: si blocca un programma narrativo di ricerca dell’oggetto di valore (lo strumento per giocare) per farne decollare uno passionale, quasi di ‘fusione’ fra soggetto e oggetto, di attrazione fatale per ciò 123

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che è divenuto il vero oggetto di valore, il momento del gioco fine a se stesso. Come si diceva sopra, la ricerca di un’esperienza vissuta prende il posto del voler essere congiunto a un oggetto concreto. 124

3.7.2. Un percorso canonico Il meccanismo della passione è intrinsecamente dinamico e processuale. Da questo punto di vista, esso si collega, pur eccedendole, alle articolazioni della narratività, dove ogni elemento acquisisce identità e senso soltanto all’interno di uno svolgimento orientato degli eventi. Pertanto, in analogia allo schema narrativo canonico, anche i processi passionali possono far riferimento a un loro percorso canonico, costituito da tre tappe fondamentali – costituzione, sensibilizzazione, moralizzazione –, la seconda delle quali è a sua volta divisa in tre parti – disposizione, patemizzazione, emozione (la terminologia qui usata è ovviamente convenzionale, metalinguistica). Da cui lo schema: costituzione

sensibilizzazione

moralizzazione

disposizione patemizzazione emozione

Secondo questo modello ogni fenomeno passionale può essere ricondotto a uno di questi cinque momenti di un processo sostanzialmente standard dell’affettività, il quale si configura come una sorta di crescendo che dai semplici e indefinibili umori porta a un catalogo etico, variabile nel tempo e nello spazio, dei vizi e delle virtù (Fontanille 1993). In tal modo, possiamo considerare una singola passione – o meglio: ciò che una determinata cultura considera tale – come una serie articolata di tappe dal diverso valore semantico (per esempio, come osserva Greimas 1983, la collera è l’esito di un’attesa frustrata verso l’azione di qualcuno su cui s’era riposta fiducia e che non si vuol perdonare), e possiamo anche focalizzare all’interno dei processi semiotici alcuni momenti con evidente valenza affettiva, anche senza che si tratti di vere e proprie passioni, ossia di affetti comunemente riconoscibili e nominabili. Il primo momento dello schema passionale canonico è quello della cosiddetta costituzione. In esso si manifesta una specie di predisposizione del soggetto ad accedere al processo passionale, anche e soprattutto sulla base di stimoli provenienti dall’esterno, siano essi ambienti familiari e sociali, congiunture storiche e culturali, altri soggetti. Per esempio, nel caso di una passione come l’avarizia la costituzione consiste in quella sorta di generico attaccamento alle cose 125

che un soggetto può aver acquisito, per ragioni diverse, dall’ambiente in cui vive, che lo ha in qualche modo influenzato. Nel caso della gelosia, invece, si tratta di quella vaga inquietudine provocata dal comportamento non ancora sospetto dell’oggetto amato. Non si tratta di vere e proprie passioni, ma di propensioni patemiche che, date certe condizioni, potranno essere culturalmente circoscritte come stati affettivi o linguisticamente definite con termini passionali. È quindi il regno specifico di quelle che, con Landowski (2004), abbiamo chiamato passioni senza nome e soprattutto senza soggetto singolo, in cui vi è una specie di atteggiamento umorale collettivo. Ciò può comportare, come talora accade, la presa in carico di disposizioni affettive assolutamente generiche (‘romanticismo’, ‘tenerezza’, ‘umanesimo’) che portano il discorso di marca verso una probabile perdita di senso. Come distinguere un ‘romanticismo’ da un altro? un atteggiamento ‘umanitario’ da un altro? O può invece implicare, nei casi più efficaci, la messa in gioco di una sfera affettiva che proprio dalla sua genericità trae spunti felici per una serie di possibili sviluppi e approfondimenti – anche in funzione delle mosse strategiche dei concorrenti. È per esempio il caso del «born to move» di Shell ricordato sopra [fig. 1], che si configura molto chiaramente come il vero e proprio inizio di un percorso che si svilupperà seguendo direzioni e ottenendo esiti del tutto imprevedibili: ci si può muovere per guadagnare un obiettivo preciso, oppure lo si fa a partire da un vago ‘istinto’ al dinamismo che può prendere tutt’altre configurazioni (divenendo per esempio semplice sommovimento interiore). Quel che è comunque importante, in questo momento dello schema, è la condivisione sociale dell’affetto, proprio come nell’annuncio Shell lo sviluppo paradarwiniano del bambino viene visualizzato come un’evoluzione collettiva dall’infanzia alla maturità.

I tre momenti successivi dello schema passionale canonico vengono raggruppati nella cosiddetta sensibilizzazione, dove la disposizione affettiva diviene passione propriamente detta: trasformazione che si viene a creare quando una determinata cultura, una determinata lingua, un certo testo o un qualche universo immaginario interpretano come configurazione passionale il quadro affettivo precedentemente costituitosi. Per riprendere gli stessi esempi, l’attaccamento alle cose viene qui inteso come specifica avarizia; l’inquietudine nei confronti dell’oggetto amato come patente gelosia. Non siamo più in presenza di semplici propensioni patemiche ma di passioni riconoscibili e nominabili. La prima tappa della sensi126

bilizzazione è la disposizione, dove – analogamente alla fase pragmatica dell’acquisizione della competenza – il soggetto acquista le capacità necessarie per, appunto, disporre il proprio animo ad appassionarsi in un modo anziché in un altro. Così, il geloso trasforma la vaga inquietudine in un preciso sospetto, in un voler-sapere che lascia presagire precise forme di comportamento; e l’avaro organizza la sua generica inclinazione come non-voler-essere disgiunto dai propri beni, anch’esso prodromo di azioni future. La seconda tappa della sensibilizzazione è la patemizzazione, ossia la vera e propria performance passionale, il comportamento appassionato che consegue dalla disposizione d’animo precedentemente acquisita. Adesso non c’è più una competenza passionale ma una scena-tipo con una serie di tematiche e di configurazioni ricorrenti, come quando l’avaro trasforma immaginariamente il valore dei propri beni mettendo in moto tutto un programma per la loro strenua difesa; o come quando il geloso inizia a credere nel tradimento del soggetto amato e prova ossessivamente a pedinarlo lasciandosi andare a continue scenate. La terza tappa della sensibilizzazione è l’emozione, conseguenza della passione sul corpo del soggetto, manifestazione somatica dell’affetto che tende a trasformare la corporeità o a farla agire direttamente (rossori, balbuzie, tremiti, ‘colpi di testa’ ecc.). Laddove la disposizione ha una natura in qualche modo cognitiva, interagendo con forme di sapere o di credenza, e la patemizzazione una natura in qualche modo pragmatica, poiché dà luogo a comportamenti precisi, l’emozione recupera la tensione di base che era propria della costituzione e la trasferisce su un ‘corpo proprio’ che diviene veicolo di significazione e di comunicazione. Con l’emozione il processo passionale raggiunge l’intimità più profonda del soggetto (che si frantuma in parti somatiche relativamente autonome, le quali agiscono in modo incontrollabile) e al contempo si apre alla più ampia socialità (esponendosi al pubblico ludibrio). La conseguenza della passione realizzata sul soggetto appassionato è la perdita del controllo individuale, l’irrazionalità, l’‘uscire fuori di testa’. La gelosia, che abbiamo usato sin qui come passione esemplificativa, non è un fenomeno soltanto letterario (da Medea a Otello, a Swann), e meno che mai superato dagli attuali stili di vita sedicenti torbidi e teatralmente disinvolti. Si tratta di una passione frequente nel discorso di marca, al punto da essere usata spesso come la passione per antonoma127

sia. È così, per esempio, nella fortunata campagna di comunicazione Campari dal claim «Red Passion», che ha risemantizzato a fondo la marca attraverso un discorso trasgressivo e fortemente seduttivo, tutto giocato sui doppi sensi e sul ribaltamento inaspettato dei ruoli di genere. Nel primo spot della serie, divenuto celebre per il conturbante ‘graffio’ che lo contraddistingue, il tradizionale triangolo amoroso lui-lei-l’altra si rivela essere una situazione ben più complessa, dove entrambi i membri di una coppia eterosessuale scoprono d’aver avuto una relazione con una seconda donna, sorta di sensuale mantide, unico soggetto che sa in effetti gestire l’originale ménage à trois. Quel che qui ci interessa mostrare è il gioco narrativo del film, che si articola percorrendo i tre momenti della sensibilizzazione. La configurazione passionale è infatti chiara: si tratta di una parodia trasgressiva della gelosia, di modo che la disposizione emerge per rovesciamento ironico. Gli altri due momenti sembrano invece andare in ordine inverso rispetto al modello standard. Da una parte, infatti, l’elemento narrativo che porta all’agnizione finale (lei scopre che lui è stato con l’altra; lui scopre che anche lei è stata con l’altra) è un teatrale graffio che la mantide ha lasciato sul collo di entrambi i membri della coppia. La passione ha preso il corpo. D’altra parte, questo momento d’emozione scatena la patemizzazione: la gelosia della donna, alla vista del graffio sul collo di lui, la spinge a gettare sulla faccia dell’uomo il contenuto di un bicchiere di Campari. In realtà le cose non stanno esattamente così: il graffio, infatti, non è il momento emotivo della gelosia ma semmai quello di una passione precedente: l’incontro erotico della mantide con i due inconsapevoli soggetti. Il vero momento d’emozione è semmai la conseguenza fisica del Campari gettato sul viso dell’uomo, parallela comunque a quella del graffio: laddove quest’ultimo macchia il corpo di sangue (rosso), il primo compie la medesima operazione: macchia il corpo di Campari (rosso). L’associazione cromatica genera un interrogativo (la cui risposta viene lasciata alle eventuali inferenze dello spettatore): se il sangue (che fuoriesce) ha marchiato il corpo dell’uomo e della donna, che cosa produrrà il Campari quando (seguendo il movimento inverso) penetrerà quel medesimo corpo o almeno – più verosimilmente – vi resterà in superficie? Come dire: siamo certi che la mantide sia il vero soggetto della storia? o sono gli altri due che bevono Campari? Quel che è certo è che la passione red è come sospesa: non riceve alcuna sanzione sociale certa. In uno spot successivo della marca spariscono il triangolo amoroso e la gelosia conseguente, ma resta intatta la configurazione del liquido rosso che si riversa sul corpo maschile. Una donna sembra attratta dall’uomo che l’attende al tavolo d’un bar con una bottiglia di Campari; si avvicina a lui con fare sensuale, versa il contenuto della bottiglia sulla camicia bianca di lui e comincia freneticamente a baciarla, strofinandosela ad128

dosso. Si completa così il movimento iniziato nello spot del graffio: il liquido rosso fuoriesce dal pack del prodotto e invade la superficie del corpo di lui, impregna la camicia e, grazie a ciò, viene condiviso dalla ragazza che, in modo a dir poco originale, finisce per consumarlo.

La perdita di sé del soggetto appassionato nel momento dell’emozione porta al pubblico oltraggio, o in ogni caso a un esporsi involontario del soggetto rispetto al teatro del mondo. Da qui l’ultimo momento del percorso passionale canonico: quello della moralizzazione. È con questa tappa che ritorna in gioco l’intersoggettività, poiché i dispositivi passionali che durante il percorso passionale hanno preso forma e si sono palesati vengono posti al vaglio di una regola sociale (di varia natura: veridittiva, estetica, religiosa, ideologica...) che tende a configurarsi come norma etica. Nella moralizzazione occorre così prevedere la presenza di un ‘attante valutatore’ che opera secondo il principio classico della misura (variabile nello spazio e nel tempo), a partire dal quale decide circa l’eccesso o l’insufficienza di una determinata passione rispetto a determinate direttive sociali (altrettanto variabili). La passione, in questo stadio finale, diviene vizio o virtù. Così, per tornare all’avarizia, è grazie alla moralizzazione che si distinguerà la parsimonia dalla tirchieria, laddove la prima viene socialmente accettata mentre la seconda rifiutata. Il momento della moralizzazione, come del resto accadeva per la parallela sanzione, è molto frequente nel discorso di marca. Laddove in altri discorsi sociali, come per esempio il giornalismo, essa finisce spesso per trasformarsi in banale moralismo, nel campo della comunicazione il gioco dei vizi e delle virtù viene usato spesso in modo ironico o sfacciatamente trasgressivo. Basti pensare alle complesse valorizzazioni delle relazioni erotiche che, incrociandosi con i ruoli di genere, si danno in molta attuale comunicazione della moda e dei profumi, dove l’intera gamma delle esperienze sensuali e sessuali viene costantemente messa in gioco, ribaltando euforicamente le moralizzazioni sociali: i vizi divengono virtù, e le virtù vizi. Cambiando settore, il noto claim del rum Pampero («Il rum più bevuto nei peggiori bar di Caracas») può essere interpretato come un caso di risemantizzazione euforica – ancorché ironica – di un dato disforico di partenza (Melchiorri 2002, p. 144), di modo che ‘peggiore’ diviene evidente sinonimo di cool. Un altro esempio interessante di questa ambiguità costitutiva della moralizzazione nell’attuale mondo dei media, e dunque delle marche, potrebbe essere quello della nota campagna Telecom del 2004 con Gandhi 129

che, parlando in una webcam piazzata in una piccola e umile capanna, viene visto nello stesso momento in tutto il mondo (cfr. Traini 2006). «Se avesse potuto comunicare così, oggi che mondo sarebbe?» recita il claim entusiasta, e il payoff chiude sostenendo: «Comunicare è vivere». Da una parte, le immagini in bianco e nero del Mahatma (passato, povertà), dall’altra quelle a colori del suo pubblico entusiasta, sparso nelle più diverse piazze del pianeta (presente, ricchezza). Ma soprattutto: da una parte Gandhi che parla, dall’altra il vocio della gente entusiasta e la musica di sottofondo che coprono totalmente le sue parole. Ecco insomma una sorta di determinismo tecnologico che, radicalizzando sino alla caricatura le tesi di McLuhan, ritiene inutile il contenuto del messaggio a tutto vantaggio del medium che lo trasmette. Nessuno sa che cosa dice il Mahatma: quel che è importante è che la sua immagine arrivi dappertutto. E se questa stessa immagine mediatica fosse arrivata allora, grazie alle tecnologie di cui oggi invece disponiamo, il mondo sarebbe stato migliore. Perché? Semplicemente per il fatto che la comunicazione suscita passioni euforiche collettive moralizzate positivamente: sorta di virtù sociali tanto indeterminate nei contenuti quanto vaghe nelle sostanze, ma comunque e in ogni caso sintomo del valore euforico di base, la vita. C’è insomma una specie di ritorno alla costituzione (la passione non viene ancora nominata), ma a partire da una sua ridefinizione sociale. Ottimo esempio di una moralizzazione passionale che, incrociando il mondo ‘vero’ dell’informazione, si trasforma in trito moralismo giornalistico.

Anche in relazione all’oggetto specifico del nostro discorso, è necessaria, a proposito del percorso passionale canonico, una serie di importanti chiarimenti. Occorre innanzitutto insistere sull’idea che, nonostante ci si trovi di fronte a uno schema (che, come tutti gli schemi, impoverisce la natura dei fenomeni che vuol spiegare), la passione è prima di ogni altra cosa un processo dinamico che la semiotica deve cogliere al di là o al di sotto delle lessicalizzazioni che le varie lingue forniscono o dei discorsi che le varie culture producono per dotarla di configurazioni riconoscibili. Scopo dell’analisi è quello di sfuggire alle stereotipie linguistiche e discorsive, spiegandone le procedure costruttive – e mostrando implicitamente come esse avrebbero potuto produrre, o effettivamente producono, in altre lingue o in altri discorsi, differenti forme stereotipe. In secondo luogo, l’elaborazione del percorso passionale risente dello schema narrativo, che la semiotica ha da tempo costruito e sperimentato. La canonicità del primo è infatti ricostruita a partire da quella del secondo. Come è facile vedere, laddove costituzione e moralizzazione (data 130

anche la presenza di uno specifico attante che, rispettivamente, invia e giudica) rimandano a manipolazione e sanzione, i tre momenti della sensibilizzazione riprendono il doppio momento della competenza e della performance. Il che costituisce un pregio più che un difetto, poiché – come si diceva – sottolinea il carattere dinamico della passione (in analogia a quello del racconto) e soprattutto ribadisce la necessaria mescolanza di azione e passione, della dimensione pragmatica con quella passionale. Così, i principali caratteri della logica narrativa possono essere riproposti a proposito di quella passionale. Se per esempio è bene tenere distinti gli attori concreti del discorso dagli attanti come funzioni sintattiche profonde, nulla impedisce che le mansioni dei diversi attanti presenti nel percorso passionale canonico (attante costituente, soggetto appassionato e attante valutatore) vengano ricoperte dal medesimo attore o che, al contrario, più attori si incarichino di rendere la medesima funzione attanziale. Posso essere il moralizzatore di me stesso («basta, non posso continuare così!»), così come posso avere una ingente schiera di costituenti (i parenti, gli amici...). Inoltre, trattandosi di uno schema profondo, non è per nulla detto che tutti i momenti del percorso debbano esser presenti nella superficie del testo e debbano seguire lo svolgimento lineare del testo stesso. L’importanza di questo schema sta proprio nel fatto che è sufficiente reperire in superficie anche soltanto uno dei momenti del percorso per poter ricostruire in profondità tutti gli altri, riconfigurando la passionalità come effetto di senso a partire da un suo solo elemento. In tal modo, è significativo vedere quali elementi del percorso vengono manifestati in superficie e quali invece occultati in profondità, in modo da ricostruire per via generativa una dialettica dell’implicito e dell’esplicito. Inoltre, va considerata la possibilità – data anche la natura aperta dei testi che stiamo esaminando – che le varie tappe del percorso siano collocate in manifestazioni testuali diverse, sia della stessa marca sia di altre marche concorrenti, in modo da reperire per via passionale una logica intertestuale e una narrazione seriale sottostante. 3.7.3. Passioni dette, rappresentate, vissute Come si manifesta la passione nel discorso di marca? Come sarà già chiaro, accade che essa, per così dire, emerga in superficie. Può innanzitutto essere esplicitamente nominata nei testi, sia come termine iperonimo, riguardante cioè la categoria in generale (‘passione’, 131

‘emozione’, ‘desiderio’, ‘affetto’...), sia con termini iponimi, interni alla categoria (‘gioia’, ‘felicità’, ‘amore’, ‘gelosia’, ‘vendetta’...). Gli esempi al riguardo sono infiniti: «Nescafé, créateur d’émotions», «Fiat Barchetta, la passione ci guida», «Estée Lauder, eau de toilette Pleasures», «Ralph Lauren, profumo Romance», «Alfa, il cuore ha sempre ragione», «Granarolo: la passione per l’alta qualità», «Tre Marie: Passione Pausa Rito», «Saab, move your mind»... E basta anche un piccolo elenco per accorgersi di come, in effetti, il termine ‘passione’ venga utilizzato in accezioni di senso molto diverse (desiderio, erotismo, irrazionalità, atmosfere vagamente torbide, indeterminatezza ecc.), anche ricorrendo a parasinonimi (emozione, affetto, romanticismo...) che ampliano il campo semantico di riferimento, ora per opporre stereotipicamente il cuore alla ragione (Alfa), ora viceversa per collegarli (Saab), ora per rivendicare una specie di diritto ancestrale al piacere (Estée Lauder), ora per connotare pura euforia (Nescafé), ora per riallacciarsi a una tradizione di consumo (Tre Marie), ora per motivare il desiderio intenso d’un oggetto con la qualità del prodotto garantita tradizionalmente dalla marca (Granarolo) ecc. Più frequentemente, come abbiamo visto nel caso Campari, se pure si preferisce usare il termine iperonimo («red passion»), la messa in discorso e soprattutto l’articolazione narrativa specificano di che tipo di passione si tratta (gelosia) e che tipo di sviluppi ci si può attendere da essa (reazione patemizzata). La passione emerge in superficie, però, anche quando viene rappresentata mediante un qualche stereotipo visivo, come un’espressione del viso (si pensi alle codificazioni fisiognomiche di pittori come Le Brun, ma anche al gioco delle emoticons), un colore o un oggetto che simbolicamente rimandano a universi affettivi standardizzati (la rosa significa passione, il verde significa speranza), oppure un comportamento anch’esso stereotipo (balbettare significa essere emozionati, tremare significa essere impauriti...). C’è poi il caso dei già menzionati ruoli patemici, cioè personaggi tipici carichi di virtualità affettive abbastanza prevedibili al punto da diventare i rappresentanti per antonomasia di una specifica passione (l’avaro, il collerico, l’entusiasta). L’esempio degli eroi che circolano nel mondo immaginario di Disney (l’avaro Paperone, Pippo lo stupido ecc.) è da questo punto di vista evidente. O si pensi ancora al caso dei gelosi in Campari «Red Passion», esemplari anche per quel che riguarda la questione degli stereotipi visivi (la bionda platinata, la ‘mantide’ mascolina...). Dalla superficie evidente dei testi scendiamo progressivamente verso la profondità del discorso, dove non è più questione di nomi132

nazione o visualizzazione diretta della dimensione passionale: anche se lo stereotipo è ancora in agguato, per esempio, nella rappresentazione narrativa esplicita che essa riceve. Basti a questo proposito ricordare il caso della nostalgia in Barilla, dove il «ritorno alla natura» cui abbiamo più volte fatto cenno si coniuga con questa passione del passato percepito come Oggetto di valore. Laddove però la nostalgia, per così dire, standard consiste nel languore d’un ricordo privo di contenuto che si scopre essere una specie di «felicità nell’esser tristi» (Greimas 1986), in Barilla la storia della famiglia che torna alla natura comporta l’euforia stereotipa data dalla congiunzione finale con l’Oggetto di valore (il Mulino Bianco è il «passato rinato»). Così come i motivi narrativi del folklore e della letteratura (il viaggio, il doppio, il ritrovamento d’un oggetto fatato...) modificano il proprio significato a seconda dei contesti in cui vengono di volta in volta inseriti (Courtés 1986), allo stesso modo le passioni culturalmente determinate sono riserve di significazione virtuale che le configurazioni testuali possono più o meno attualizzare, ora conservandone intatta la tipizzazione culturale, ora, al contrario, modificandola a proprio uso e consumo. Le narrazioni pubblicitarie, da questo punto di vista, sono formidabili meccanismi di traduzione dell’affetto entro il discorso di marca, il quale, contrariamente a quanto generalmente si sostiene, non conserva triti stereotipi sociali ma li risemantizza, spesso con ironia, per i propri obiettivi comunicativi, riversandoli poi, così rinnovati, nel sociale. Se infatti una marca come Barilla, puntando sulla tradizione, non può non giocare su valori culturali stabili (famiglia, casa, affetti domestici, infanzia), molte altre marche puntano invece, se non sulla trasgressione, senz’altro sull’innovazione, anche in funzione del reciproco posizionamento. Così per esempio Landowski (2003) ha mostrato come le principali marche di birra brasiliane mettano in scena una relazione costitutiva fra il gusto della bevanda e le euforiche forme di socializzazione legate alle circostanze del suo consumo. In quel contesto bere la birra non è mai un’esperienza solitaria legata all’assunzione di una bevanda che, per quanto poco alcolica, potrebbe comunque portare a stati di alterazione psicofisica. È semmai un’esperienza collettiva, un piacere vissuto in comune con altri, entro cui tuttavia si produce, o si riafferma, un’identità individuale. Più che identificarsi con una certa birra e il suo gusto specifico («io sono una persona a cui piace quella birra lì»), ci si immedesima con un certo modo sociale di consumarla («io sono una persona che beve in quel modo lì»). La passione collettiva per il consumo di alcolici, partico133

larmente sentita in Brasile, viene risemantizzata dal discorso di marca e riversata nella cultura sociale, in un gioco infinito dove diviene del tutto superfluo stabilire precise relazioni temporali o causali fra esperienze realmente vissute e loro ripresentazione mediatica. Diventa a questo punto necessario chiedersi quali meccanismi semiotici specifici possano concorrere a mostrare la passione nel discorso in modo, per così dire, implicito. Tra questi, il più lampante è quello del ritmo che – basti pensare alla musica – non solo manifesta la passione ma la produce o addirittura, probabilmente, si identifica con essa (Ceriani 2002). Il ritmo mette in contatto affetto, corpo e significato, al punto da far esperire questi tre fenomeni come se fossero uno solo, e provocando continue, curiose inversioni di ruolo: ora è il ritmo del corpo a ‘sublimarsi’ in passioni culturalmente definite (si pensi all’ansia), ora è la passione (preoccupazione, timidezza, paura...) a provocare modificazioni nei ritmi somatici (tremori, balbettii...). In particolare, del resto, nei testi che riguardano il discorso di marca il ritmo legato alla passione è soprattutto quello che mette in specifiche relazioni semiotiche il piano dell’espressione con il piano del contenuto, producendo quella particolare procedura di significazione – che ritroveremo spesso, soprattutto nei testi visivi – chiamata semisimbolismo. Di che cosa si tratta? Si pensi al già menzionato spot Telecom con Gandhi, dove immagini in bianco e nero, riguardanti la vita e il mondo del Mahatma, si mescolano con altre a colori, riguardanti la contemporaneità. In quel caso il ‘bianco e nero’ significa ‘passato e povertà’ e il ‘colore’ significa ‘presente e ricchezza’ non per ragioni simboliche legate a stereotipi culturali o a tradizioni cromatiche prestabilite, ma, appunto, per semisimbolismo: per una specie di piccola equivalenza secondo la quale Espressione

Contenuto

‘bianco e nero’: ‘colore’ = ‘passato e povertà’ : ‘presente e ricchezza’

È lo spot che, giocando su questa specie di proporzione, fa sì che le immagini in bianco e nero acquistino, all’interno del testo e solo in quello, un particolare senso, mentre le immagini a colori acquistino il senso opposto. Sono le scelte stilistiche dello spot a creare l’equivalenza semantica, a farla funzionare lungo tutto il testo, ren134

dendola comprensibile allo spettatore, senza per questo convocare alcuna costrizione esterna, alcuna tradizione estetica, alcuno stereotipo mediatico. Così, ogniqualvolta a una categoria sul piano dell’espressione (poniamo ‘alto’ vs ‘basso’) si associa una categoria corrispondente sul piano del contenuto (poniamo ‘sacro’ vs ‘profano’), si produce un semisimbolismo, ossia un simbolismo che funziona solo nel testo (o nel gruppo di testi) nel quale e per il quale è stato codificato. Può svilupparsi in tal modo una dimensione passionale nel discorso che fa economia di quei segni evidenti – verbali, visivi, musicali ecc. – che ci si aspetterebbe di ritrovare alla sua superficie. Dovremo approfondire la questione del semisimbolismo, attribuendo a questo meccanismo un ruolo basilare nella costruzione del senso dei testi, anche e soprattutto quando – si pensi alle immagini cosiddette astratte – essi sembrano non voler dire nulla [cfr. § 5.4]. Per adesso va ribadito come la pratica della comunicazione adoperi spesso questo meccanismo tanto implicito quanto ineluttabile per l’espressione della passione. Così per esempio in uno spot per il portale Lycos di alcuni anni fa la passione amorosa dei due attori presenti nell’enunciato narrativo si fa metafora della gestione delle informazioni in e attraverso Internet proprio grazie al complesso gioco ritmico e semisimbolico messo in atto nella trama testuale. I due verbi – trovare, condividere – che tornano nel claim finale quasi a incorniciare il logo vanno infatti letti a due livelli: quello cognitivo della marca (il portale permette la ricerca di contenuti sulla rete e la loro condivisione mediante la telefonia mobile a esso collegata) e quello passionale (lo spot racconta del colpo di fulmine fra due giovani che, incontrandosi per caso sotto la pioggia cittadina, decidono di partire insieme verso mete lontane ed esotiche). Evidentemente, questi due livelli si incrociano nella storia raccontata: è grazie a Lycos, solido Aiutante, che i due ragazzi riescono a portare a termine il loro programma narrativo: trovano su Internet le informazioni necessarie circa il viaggio, le condividono tramite sms lanciati dal portale. Il tutto sotto gli auspici di una passione montante, nata per caso ma vissuta sempre più intensamente, che è soprattutto la fattura espressiva dello spot a mettere in movimento, grazie a una serie complessa di semisimbolismi e a un ritmo molto variabile. Tutto lo spot sembra infatti opporre, convocando il meccanismo della agogia, la lentezza dell’incontro fra i due (che ha luogo nel qui della città) alla rapidità nella formulazione e conseguente messa in opera del loro comune programma di viaggio (che ha luogo nel non altrove del pub dove i due organizzano la spedizione, e nel non qui dell’aeroporto dove si rincontrano) e alla ritrovata lentezza della meta finalmente raggiunta (l’altrove dove si presume vivranno 135

la loro avventurosa fuga d’amore). Tutto ciò viene reso a livello espressivo da (a) una generale staticità delle inquadrature cui si oppongono un paio di improvvisi movimenti della macchina da presa giusto nei due momenti di raccordo informativo (trovare la meta del viaggio, condividerla); (b) una sequenza iniziale rallentata seguita da una successione molto veloce di inquadrature cui segue ancora un ritorno al ralenti; (c) una iniziale profondità di campo, succeduta da una serie di primi e primissimi piani, succeduta ancora da un ritorno alla profondità di campo. Il tutto doppiato dalle scelte musicali, lente nelle parti iniziale e finale, molto ritmate in quella intermedia. Insomma, una microanalisi dello spot (per cui cfr. Melchiorri 2002) rivela molto chiaramente la serie varia e complessa di espedienti espressivi che mette in opera una distinzione molto netta fra la parte iniziale e finale dello spot (interamente dominate dall’intensità della passione amorosa nei momenti della costituzione e della moralizzazione) e quella centrale (contraddistinta invece dalle azioni necessarie, per così dire, alla sensibilizzazione di tale passione). Lycos, strumento tecnico per lo svolgimento del programma passionale, ne è anche la sua metafora: trovare, condividere. Il semisimbolismo, insomma, non è soltanto l’associazione locale e momentanea fra due paradigmi, dell’espressione e del contenuto, che costituiscono una specie di piccolo codice di interpretazione dei testi. Esso è anche e soprattutto un processo che s’articola nel sintagma, che rende conto delle trasformazioni interne del testo, dei passaggi narrativi e passionali che esso mette in opera. Così per esempio in uno spot plurimarca Porsche + Hewlett Packard analizzato da Bianchi (2005, pp. 142-151), dove le tecnologie della seconda fanno sì che i prodotti della prima divengano «le auto più eccitanti del mondo», l’alternanza tra il bianco e nero delle prime sequenze del film con il colore di quelle finali ha una doppia valenza, a seconda che la si consideri in termini statici o dinamici. Lo spot inizia con una serie di inquadrature in soggettiva dove il vento, attore protagonista antropomorfizzato da una suadente voce femminile, vaga senza meta per le vie e le piazze di una struggente Parigi d’antan che tanto ricorda le atmosfere esistenzialiste degli anni Cinquanta («Seul, je vais sans but. Vers où? Vers quoi?»). Tutto è rigorosamente in bianco e nero. A un certo punto, però, incontrando la macchina con la quale si congiungerà («Porsche + HP»), entra in scena il colore, e la voce suadente emette un gridolino di inaspettato piacere. Se dunque in un primo tempo il bianco e nero connotava vaghe e sensuali atmosfere d’altri tempi (di contro, implicitamente, al banale, accecante colore d’oggi), l’introduzione del colore nello spot produce un nuovo semisimbolismo, di tipo eminentemente pubblicitario, per cui ‘b/n’: ‘colore’ = ‘disforia e solitudine’: ‘euforia dell’incontro’. Il testo pubblicitario risemantizza, col gioco dei semisimbolismi, quelle stesse atmosfere che ha convocato, propo136

nendole prima come euforiche e poi come disforiche, lanciando allo spettatore la sfida di esplicitare l’ironia («altro che esistenzialismo, meglio l’eccitazione dell’auto!»). Vediamo meglio il caso delle birre brasiliane analizzato da Landowski (2003). In questo corpus non si parla quasi mai esplicitamente di passioni. Eppure esse emergono chiaramente ora dai diversi modi di stare insieme che il consumo della birra produce ora dai modi di assumere questa bevanda e, pertanto, di valorizzarla nel suo specifico contesto d’uso. In questo modo, la passione, se pure mai nominata, domina il discorso, ed è a partire da essa che s’articola in un preciso campo semantico il reciproco posizionamento delle marche. In Brasile, ricorda Landowski, la preferenza attribuita a una birra è come quella che porta a essere tifoso d’una squadra di calcio: si tratta di una vera e propria affiliazione, direbbe Cova (2003), tribale, tale per cui, d’altra parte, bere una certa birra significa far parte d’un gruppo, riconoscersi in esso e determinare la propria identità in base a tale adesione; ma al tempo stesso, d’altronde, il far parte di quel gruppo implica la scelta d’una determinata marca di birra e la conseguente esclusione delle altre. Si capisce così la ragione per cui ogni marca mette in scena un diverso ‘clima’ di consumo (sensualistico, edonistico, igienista, intellettualistico) e, con esso, un vero e proprio modello politico (teocratico, aristocratico, rappresentativo, partecipativo). Tutti parlano di un certo specifico modo d’essere al mondo, di riconoscersi in un gruppo sociale, e di consumare la birra entro tale gruppo. Il mondo di riferimento, così come il gruppo sociale in questione, sono sempre e in ogni caso modi diversi d’immaginare e di dire il Brasile. Brahma propone già dal nome il modello teocratico e un clima sensualistico: la sua comunicazione mostra folle di corpi seminudi che ballano all’unisono al suono di samba bevendo a dismisura e spruzzandosi euforicamente addosso la birra, dice il claim, «stupidamente ghiacciata». È l’immagine di un Brasile vittorioso e festante, sottolineata dal gesto collettivo del braccio teso in aria con l’indice verso il cielo, a indicare il fatto d’essere «il numero 1»: campioni del mondo di calcio, ma anche leader nel settore della birra. La quantità trionfa, e con essa l’adesione comunitaria immediata, teocratica appunto, verso un paese potente e indiscutibile. Laddove Brahma unisce e confonde, Antarctica separa e distingue, presentando una serie diversa di situazioni e di contesti di consumo, tutti fortemente caratterizzati per colore locale, paesaggi, costumi, atmosfere, tipi umani. Il senso della collettività brasiliana si costruisce dunque non per integrazione ma per accumulo, dove l’individuo non si perde nella folla ma resta, per quanto rappresentativo d’una regione o situazione, perfettamente distinguibile dagli altri, anche dal punto di vista dell’occupazione o della professione. Ad accomunare questi individui tipici è ovviamente la comune passione per la birra: il Brasile è fatto di persone diverse, ma tutte bevono, correttamente e ordinatamente, quasi 137

igienicamente, Antarctica. Diversa l’immagine offerta da Kaiser, fatta da gruppi elitari di intenditori che, nel chiuso del bar, si ritrovano a bere insieme una birra da assaporare con intenso piacere. La qualità si oppone alla quantità, e al modello teocratico si contrappone, anche qui risemantizzando il nome proprio, il modello aristocratico e imperiale di chiara derivazione asburgica. In questo caso, il senso di comunità brasiliana discende dalla volontà di distinzione un po’ dandy, dal sentirsi diversi dagli altri, quasi chiusi in se stessi, pochi ma buoni, marginali ma consapevoli del proprio essere superiori. Laddove Brahma presentava un’identità precostituita in modo populista, Kaiser propone un’immagine anch’essa precostituita dell’identità, ma di tipo elitario. Analogamente, così come Antarctica esibiva un’identità collettiva in perenne costruzione, abbiamo visto, per accumulo di tipi rappresentativi di comunità diverse, l’ultima marca in gioco, Skol, lavora su un’identità in costruzione, esibendo però un modello non rappresentativo ma partecipativo: la caratteristica di questa marca è il dissenso, lo scontro, il litigio. Ecco una serie di piccoli contrasti fra tipi sociali diversi – il carioca e il paulista, l’uomo e la donna, lo studente e il lavoratore – che si trovano per varie ragioni in disaccordo e che poi, manco a dirlo, si riappacificano dinnanzi a un comune boccale di birra. Il clima, qui, è intellettualistico: a dominare non sono né i corpi di Brahma né il palato di Kaiser né la bocca di Antarctica, ma gli occhi con cui i nemici/amici si scrutano per meglio mettersi in comunicazione. Da tutto ciò conseguono quattro diverse concezioni della birra e del suo consumo: Brahma è una bevanda per dissetarsi, anzi addirittura per rinfrescare l’intero corpo; Antarctica è una birra che si merita, fatta per ristorarsi; Kaiser è una «grande birra», tutta da assaporare; Skol è una birra intelligente e calda, utile nei momenti del dialogo, della comunicazione. Il posizionamento delle marche assume pertanto la forma di un quadrato semiotico dove, come i miti per Lévi Strauss, le marche sembrano parlarsi fra loro: modello teocratico clima sensualistico birra per rinfrescarsi Brahma

modello aristocratico clima edonistico birra da assaporare Kaiser

Antarctica birra per ristorarsi clima igienista modello rappresentativo

Skol birra per comunicare clima intellettualistico modello partecipativo 138

3.7.4. Il discorso appassionato Questa disamina della dimensione passionale del discorso di marca implica una serie di importanti conseguenze. Innanzitutto, la complessità che talvolta raggiungono i testi della comunicazione di marca, costruendo vere e proprie macchine estetiche, fa ben comprendere come la posta in gioco non sia esclusivamente quella di raccontare storie dove s’intrecciano in modi anche abbastanza diversi azioni, passioni e ragioni. In altri termini, non si tratta soltanto di rappresentare vicende più o meno avventurose, più o meno logiche, più o meno cariche d’affetto. Si tratta semmai, soprattutto, di sollecitare grazie a tali storie lo spettatore, di scuoterlo e attirarlo nel gioco dei comportamenti, dei ragionamenti e degli affetti, di considerarlo parte attiva nella costruzione e trasformazione del senso, lavorando al contempo alla caratterizzazione semiotica della marca che tale storia, in fondo, prova a raccontare. In altri termini, più la fattura estetica del testo viene curata, più diviene chiaro come la costruzione narrativa sia giocata in funzione dei processi comunicativi che la pongono in essere. Da una parte, dunque, la produzione identitaria dell’emittente-marca che ha luogo giusto nell’atto della comunicazione («io sono una persona che parla così-e-così»). D’altra parte, la parallela produzione dell’identità del destinatario-consumatore, all’opera grazie al processo comunicativo che a esso si rivolge («tu sei una persona che ben si attaglia a ciò che dico»). Da un’altra parte ancora, cosa ben più importante, la relazione intersoggettiva che si costruisce progressivamente, entro il processo comunicativo, fra i due attori della comunicazione: relazione che può essere ora di accordo ora di conflitto, ora soprattutto di negoziazione, e che in ogni caso senz’altro contribuisce alla costruzione delle reciproche identità («noi siamo così-e-così»). Di tutto ciò si parlerà per esteso nel capitolo successivo. Qui basti ricordare come la messa in atto di quello che potremmo chiamare il discorso della passione, ossia la ricostruzione semiotica dei processi passionali enunciati nei testi, conduca inevitabilmente a un discorso appassionato, a spostare cioè l’affetto dal piano più o meno esplicito dell’enunciato a quello sottostante della sua enunciazione. A essere investiti dall’affetto sono, da questo punto di vista, non più gli attori narrativi di cui si parla, ma quelli che ne parlano: la marca, da un lato, soggetto che racconta appassionatamente; il consumatore, dall’altro, soggetto che riceve il racconto appassionandosene. Così, quando nello spot Porsche + HP 139

il vento dice «io», e poi, incontrando l’automobile, lancia gridolini di piacere, è evidente che questo piacere non è soltanto quello del vento raccontato, ma anche quello di HP che, incontrando Porsche, si mette in scena come soggetto appassionato – e, inevitabilmente, appassionante. Analogamente, quando le marche di birra brasiliane propongono diversi stili di consumo della bevanda che sono altrettanti modi d’essere brasiliano, stanno proponendo al loro consumatore alcuni modelli identitari di vaga ascendenza politica, non tanto da adottare scientemente ma ai quali aderire appassionatamente. Da cui altre due considerazioni. Innanzitutto, la presa in carico della dimensione passionale del discorso apre la questione, molto discussa in sede di sociologia dei consumi, degli stili di vita che si formano e si riaffermano non solo durante gli atti del consumo di beni e servizi, ma anche nella relazione preliminare fra il consumatore e la marca. Se la narratività non è soltanto la logica che permette d’organizzare le proprie azioni in vista di un determinato obiettivo, ma anche l’affetto che fa da collante fra tali azioni, modificandone fortemente il significato, appare evidente che la costruzione identitaria, individuale e collettiva, non è legata tanto alla realizzazione più o meno conclusa dello schema narrativo canonico ma, molto diversamente, alla serie infinita delle sue possibili variazioni: di quelle forme di vita che, come diremo nel paragrafo successivo, derivano dalle deformazioni coerenti dei modelli standard della narratività. Molto spesso, sappiamo, i consumi non hanno nulla di logico-razionale, e l’adesione, anche plurale e contraddittoria, alle marche è appunto il superamento d’ogni consumerismo in nome di un’intensa volontà – se non bisogno – di costruzione sociale del sé, che è certamente più legata a processi passionali che non a logiche d’azione. Pensiamo ancora alle birre brasiliane: il nesso fra passione e stile di vita è in quei casi evidente, poiché si tratta sempre di passioni collettive, vissute dall’individuo entro gruppi nei quali, volta per volta, perdersi, riconoscersi, distinguersi o trovare momentanei accordi. Inoltre, la dimensione passionale, incrociando la questione degli stili di vita, si lega altresì, a prima vista antiteticamente, alla corporeità. Abbiamo detto quanto spesso la passione sfoci nell’emozione, prenda cioè il corpo, porti ad atti e comportamenti in cui la realtà fisico-somatica diviene l’unico soggetto agente che, ormai ‘fuori di testa’, domina il campo esperienziale lasciandosi andare a puri sfoghi d’energia, avendo reazioni inconsulte e manifestando talvolta sulla propria stessa superficie tracce involontarie dell’affetto. Ma, ovvia140

mente, vale anche il contrario: spesso è il funzionamento del corpo, basato su logiche proprie, a dar luogo a conseguenze passionali: malesseri e piaceri non sono mai semplici eventi fisici circoscritti nell’ambito oscuro della corporeità. Essi divengono sempre, al punto da fondersi con essi, affetti, affezioni corporee nel doppio senso del termine: nulla si dà nel corpo che non sia anche nella passione, e da lì poi, per successive sublimazioni, arriva sino alla cognizione – la quale infine, facendo economia della propria origine somatica, tende a presentarsi come pura razionalità. Comprendiamo come mai gli stili di vita siano sempre e comunque stili di consumo: modi di darsi nel mondo sociale che sono al contempo modi d’essere e di vivere del corpo; corpi individuali che s’atteggiano in seno alla società; gruppi che vivono come altrettanti esseri organici dotati di un’unica, collettiva forma corporea; corpi che la società riprende e modella secondo i propri codici di gusto e d’azione; corpi che incontrano altri corpi in una specie di sottostante intercorporeità sociale. Torna così ancora una volta la birra brasiliana: gustare la bevanda ed essere in comune non sono eventi diversi che la comunicazione delle marche associa per ragioni pubblicitarie e di reciproco posizionamento: si tratta d’un unico gesto somatico e culturale, presoggettivo e intersoggettivo: la condivisione sociale del gusto non segue l’esperienza sensoriale del bere, ma semmai la precede, la fonda, la forma. L’essere del corpo è essere nel mondo. Emergono le questioni più attuali legate al discorso di marca: ci troviamo all’interno della problematica detta del potere della marca (Codeluppi 2001) o, con altra terminologia, della marca postmoderna (Semprini 2006). Nel momento in cui, introducendo la dimensione passionale entro le logiche della narratività, vengono fuori le questioni degli stili di vita e della corporeità sociale, la marca cessa d’essere un fenomeno agito ed esperito all’interno della sola sfera economica del mercato, per quanto ampiamente la si voglia pensare, per diventare una forma discorsiva a sé stante, capace d’esser riempita da sostanze diverse: dalla politica allo sport, dai media al benessere psicofisico, dall’educazione alla cosmesi, dal turismo alla gestione dei beni culturali. Uomini o partiti politici, star dello spettacolo e case di produzione cinematografiche, calciatori e società sportive, centri di wellness e rampanti disc jockey, gruppi rock e cantanti lirici, città d’arte e musei agroalimentari vengono permeati dalla logica di marca, la usano per emergere nella cultura sociale e mediatica, vengono da essa usati a mo’ di testimonial, in un vasto movimento in 141

cui testi, discorsi e media si intrecciano senza posa producendo quella contemporanea semiosfera di cui la marca – vedremo meglio [§ 4.3.5] – assume sempre più spesso il ruolo d’autore. 3.8. Forme di vita Come s’è visto, la progressiva elaborazione della narratività quale modello interpretativo generale dell’esperienza umana individuale e collettiva è iniziata con un’attenzione pressoché esclusiva al senso delle azioni nei contesti in cui ricorrono, per allargare via via la problematica ai processi di costruzione e di continua trasformazione della soggettività identitaria, sino a comprendere, accanto alle azioni, gli intrecci di strategie cognitive e tattiche intersoggettive, nonché la sfera delle passioni e degli affetti, per coinvolgere infine, da una parte, la corporeità e, dall’altra, la socialità. In tal modo, i capisaldi della teoria narrativa sono stati soggetti a costanti integrazioni e revisioni, approfondimenti e allargamenti, al punto che, terminando il capitolo che alla narratività è interamente dedicato, viene spontaneo chiedersi: che ne è di quello schema narrativo canonico che, a un certo punto del nostro percorso, era sembrato essere la chiave di volta teorica per spiegare i meccanismi formali di costruzione del senso umano e sociale, mentre adesso, una volta compresa l’importanza della dimensione strategica e passionale, sembra perdere gran parte del suo valore euristico? Se la soggettività si costituisce e si articola anche e soprattutto grazie ai processi intersoggettivi e affettivi, per quale motivo conservare un modello in cui sembra prevalere una logica razionalistica legata all’ostinato raggiungimento solitario di uno scopo, alla realizzazione sociale di sé attraverso il compimento dei propri personali progetti di vita? Lo schema canonico, come è stato più volte rilevato, sottende un’ideologia ben precisa, culturalmente e storicamente determinata, legata al fare di un soggetto caricato di precise proprietà, ai suoi complessi calcoli atti allo svolgimento delle sue mire, ai suoi scontri e alle sue alleanze sempre e comunque finalizzati alla congiunzione con oggetti di valore preventivamente messi in gioco. Del resto, esso nasce per progressiva generalizzazione di un genere narrativo preciso, la fiaba russa, dunque di un prodotto culturale geograficamente e temporalmente circoscritto, dove l’eroe (cioè l’individuo socialmente riconosciuto) è chi parte per difendere i valori della terra e del regno, mentre lo stupido è chi preferisce restare al riparo nella capanna, al calore della stufa, a go142

dere degli affetti più intimi della famiglia e del piccolo gruppo cui sa di appartenere profondamente (Propp 1928, 1984). Si tratta insomma di una concezione culturale molto precisa, tendente a valorizzare l’azione a discapito della passione, l’istituzione piuttosto che il sentimento, il fare rispetto all’essere. Concezione che, se per certi versi alcuni prodotti mediatici di massa sembrano riprendere e amplificare, è per altri versi molto parziale, anche e soprattutto alla luce delle molteplici e complesse trasformazioni geopolitiche e socioculturali della società e del mondo attuale – processi postcoloniali, messa in discussione delle relazioni di genere, globalizzazione e localizzazione, multiculturalismo ecc. – alle quali, come è ovvio, i discorsi delle marche fanno spesso riferimento, partecipandovi attivamente. Lo schema narrativo canonico è insomma un modello non certo da abbandonare, ma comunque da ridimensionare, innanzitutto eliminando da esso quell’aura di universalità che una lettura superficiale o un suo utilizzo meccanico gli hanno talvolta attribuito. Esso è un buon punto di partenza per spiegare alcuni meccanismi di produzione del significato, ma non è certo l’unico possibile. A tale modello vanno progressivamente aggiunti, come s’è fatto nelle pagine precedenti, tutta una serie di altri modelli che rendono conto di fenomeni sociosemiotici più complessi e più fini che la semplice successione delle sue quattro tappe standard – manipolazione, competenza, performance, sanzione – non riesce a spiegare e comprendere. Accade spesso, e i discorsi di marca sono molto sensibili a tali casi, che lo stile di vita di un soggetto – individuale o collettivo – si costituisca per differenza rispetto al modello narrativo standard: non strutturi precisi programmi narrativi, di base e d’uso, non valorizzi oggetti specifici facendone il proprio obiettivo esistenziale, non si preoccupi di acquisire competenze, non sia interessato alla realizzazione sociale, ma si lasci per esempio andare a mire di tipo etico o estetico che mal si conciliano con le macro-organizzazioni culturali, se non addirittura le trasgrediscano appositamente. Alle soggettività di tipo progettuale, basate su decisioni controllate cognitivamente, si accostano così altre forme di soggettività e d’esperienza, più interessate all’affettività, o all’espressività estetica, alla cura e all’esibizione del corpo, alla conquista di un benessere più o meno ascetico, più o meno sensuale. Si tratta di forme di vita anche molto diverse fra loro, ma tutte probabilmente riconducibili a una deformazione coerente dei modelli standard del vivere civile, di quei codici sociali forti che, introiettati individualmente, appaiono ovvi e naturali. 143

Deformazione che, una volta avvenuta, può più o meno stabilizzarsi, entrare nell’uso comune, fare sistema e divenire fonte di negoziazione nell’arena sociale. Siamo, come è evidente, nel cuore del discorso di marca, laddove le forme private dell’esperienza soggettiva si confrontano con le pratiche sociali e le organizzazioni micro e macrosociali, in una dialettica costante fra acquisizione e attribuzione, ricezione e trasmissione. Le marche, si sa, non fanno altro che proporre forme di vita, traducendo all’interno del proprio discorso fenomeni ed esperienze già presenti nella società, modificandoli, ridimensionandoli, amplificandone alcuni aspetti a discapito di altri, trasformandone comunque il significato sulla base dei propri specifici obiettivi comunicativi, di carattere più o meno aziendale, più o meno commerciale, più o meno etico. Il fenomeno diacronico delle tendenze (nell’abbigliamento o nella cucina, nell’arredamento o nel turismo...) nasce appunto da questa costitutiva tensione fra serbatoi di valori e comunità di gusto già presenti nel sociale, dalla loro traduzione entro i discorsi di marca, dalla successiva immissione nella cultura sociale (Ceriani 2007). La nozione semiotica di forma di vita non va confusa con quella di stile di vita, che da diverso tempo è oggetto di interesse negli studi sociali. Coniato da Simmel e Weber in opposizione al principio idealistico-romantico dello Zeitgeist, il concetto di ‘stile di vita’ è stato presto utilizzato nella sociologia dei consumi per cercare di trovare nuovi criteri di segmentazione del mercato che, rispondendo alla crescente complessità dell’organizzazione sociale contemporanea, superassero quelli basati sulle tradizionali variabili sociodemografiche, generazionali, comportamentali, motivazionali, per aspettative e vantaggi ecc. (cfr. Codeluppi 2005, pp. 135-167). Così, laddove per Weber lo stile di vita si costituisce a partire dal prestigio, dall’onore e dalla stima che un individuo ha in comune con altri individui entro un medesimo gruppo sociale, per gli studiosi del consumo esso deriva dall’insieme di valori, atteggiamenti, opinioni e comportamenti che accomunano persone anche molto diverse per nascita, ceto o status economico. Si costituiscono così, a partire da complesse statistiche che rendono sistematiche un gran numero di variabili socioculturali, cataloghi di tipologie di individui (‘frugali’, ‘impegnati’, ‘radicali’, ‘tradizionalisti’, ‘neoconservatori’ ecc.) omogenei al loro interno e ben distinguibili da altri tipi possibili, ai quali dovrebbero corrispondere altrettanti stili di consumo. Al di là delle delicate questioni di ordine tecnico circa l’introduzione di una variabile piuttosto che di un’altra, della composizione del campione statistico, della metodologia dei rilevamenti 144

ecc., è apparso progressivamente chiaro all’interno della stessa ricerca sociale come gli stili di vita tendano a moltiplicarsi col passare del tempo, al punto che ogni individuo ne seleziona più d’uno, a seconda delle situazioni e dei momenti, nell’atto del proprio personale consumo di beni e servizi diversi. Nato per cercare profili specifici e coerenti di consumo, lo stile di vita finisce così per negare se stesso, in quanto approda all’idea di un’identità cangiante e patchwork del consumatore, non solo incoerente nelle sue scelte di fondo, per principio infedele a prodotti e marche, ma addirittura frammentato al proprio interno: cfr. per esempio le ricerche di Polhemus (1996) sullo style surfing nella Moda, e le conclusioni di Fabris (2003) sul consumatore cosiddetto postmoderno. La prospettiva semiotica su tali questioni è maggiormente problematica. Non solo si consuma in un certo modo perché si aderisce a un determinato stile di vita, ma vale anche il contrario: si hanno uno stile di vita e un’identità sociale perché si consuma in un certo modo (il legame fra le due cose non è allora causale ma di significazione: di presupposizione reciproca). Gli stili di vita non esistono in modo preconcetto ma si costituiscono momento dopo momento, volta per volta, nell’atto del consumo, salvo stabilizzarsi e divenire in qualche modo norme condivise di comportamento (Ceriani 2001, pp. 69-74; 2006). Cosa che non solo spiega fenomeni come quelli dell’identità cangiante e patchwork degli attori sociali, ma introduce anche l’idea di un ritmo comune nei processi di modificazione dei propri gusti. Ci si riconosce in un gruppo, sostiene Landowski (1998), non soltanto perché si ha omogeneità di gusto ma perché si persegue lo stesso ritmo di trasformazione di tale gusto: è la ragione per cui la Moda oggi non è solo un fenomeno riguardante l’abbigliamento ma una vera e propria forma di vita che invade sostanze diverse, come per esempio, ricorda lo stesso autore, la sfera politica. Così, esistono all’interno dell’arena sociale comunità di gusto differenti fra loro (Landowski 2004), a condizione che in esse siano previste forme di contrattazione e conflitto permanenti, scontri e aggiustamenti reciproci sia all’interno della comunità sia fra comunità differenti. La nozione di forma di vita, del resto, arriva alla ricerca semiotica non da riflessioni di ordine sociologico ma filosofico-linguistico, ed esattamente dalle celebri Ricerche filosofiche di Wittgenstein (1953). Per questo filosofo, come è noto, il significato di un’espressione linguistica ha una base pragmatica: esso deriva dall’uso che di quell’espressione viene fatto; a sua volta l’uso discende dai giochi di linguaggio entro cui l’espressione viene adoperata; i quali a loro volta dipendono dalla forma di vita di colui che la adopera. Trasferita nel campo semiotico e sociosemiotico, tale idea comporta un’inversione di certi tradizionali modi di intendere la significazione: ogni codificazione linguistica e semiotica ha un fondo d’azione, e sono dunque i processi sociali, in ultima istanza, a darne con145

to, permettendo la costituzione dei sistemi di senso. Per Wittgenstein, ricorda Pozzato (1995), il significato è ciò che ha importanza: prima ancora di avere una base sistematica nella lingua, esso ha a che fare con il valore esistenziale e culturale. E siamo così all’interno della problematica della narratività, dove, come sappiamo, i fenomeni di formazione e trasformazione dei valori individuali e collettivi dipendono dai processi azionali, cognitivi e passionali che prendono forma di racconto entro modelli formali relativamente invarianti. In un saggio dedicato allo studio del ‘bel gesto’, Greimas e Fontanille (1993) mostrano come le forme di vita siano l’esito di una deformazione coerente di strutture narrative e discorsive standardizzate, come per esempio lo schema canonico. Una giovane fanciulla lancia un guanto dentro la fossa dei leoni, promettendo il proprio amore al cavaliere che va a recuperarlo. Un cavaliere accetta la sfida, affronta la prova, restituisce il guanto, ma rifiuta l’amore della fanciulla che pure brama da tempo e s’allontana solitario. Il gesto inaspettato del cavaliere, come si vede, è un’assoluta negazione della logica narrativa per cui un soggetto si sottopone a una prova per congiungersi con il proprio oggetto di valore. Qui, a essere valorizzata è soltanto l’estetica del comportamento, l’azione kantianamente priva di utilità – e per questo, forse, dotata di peso etico non indifferente: le fanciulle non dovrebbero concedersi così, e i veri cavalieri non dovrebbero conquistarle grazie alla loro destrezza in battaglia. Insomma, è l’intero sistema di valori in gioco che finisce per essere capovolto, dove il meccanismo antropologico della reciprocità sociale, basato sul nesso costitutivo dono/controdono, viene ad assottigliarsi sempre di più sino a scomparire del tutto. Quanti spot hanno questo tipo di costruzione narrativa, dove l’ironia che nasce dalla rottura degli schemi narrativi tradizionali porta a una risemantizzazione complessiva dell’esperienza umana e sociale?

L’apparato categoriale della semiotica narrativa prende così in carico, oltre agli schemi canonici, le loro variazioni socioculturali, persino individuali, mostrando il nesso molto stretto – non di tipo causale, s’è detto, ma comunque, appunto, semiotico – fra i modi di consumo di un bene o di un servizio e le corrispondenti forme di vita assunte, ed esibite, dai soggetti in gioco. Così, per esempio, prendere un caffè non è da intendere come il semplice atto di assunzione di un prodotto più o meno gradito dal cliente/consumatore; tale azione richiama tutta una concezione dell’esistenza, un’organizzazione del tempo, una suddivisione della giornata, e una loro correlativa teatralizzazione: c’è chi beve il caffè come accompagnamento delle varie attività della giornata, facendolo interagire con esse, e chi, al contrario, lo usa per interrompere tali attività, sorta di pausa ri146

storatrice in cui l’apprezzamento della bevanda esige una sorta di isolamento dell’individuo dal contesto esistenziale e sociale; ma c’è anche chi trangugia il caffè in gran fretta, sacrificando i piaceri del palato alle esigenze dettate dai ritmi incalzanti della vita, e chi, viceversa, si lascia andare all’assaporamento di una particolare miscela in modo occasionale, forse casuale, ponendosi come il tipico consumatore potenziale, preda ambita dagli uffici marketing d’ogni azienda produttrice (Oliveira 2000; Giannitrapani 2004). Analoghe riflessioni sono state condotte a proposito delle maniere del fumare (Montes e Taverna 2000) o dell’assunzione di droghe (Marrone ed. 2005a) quali altrettante variegate manifestazioni di specifiche forme di vita. Così come è stato mostrato che la pratica oggi diffusa del bungee jumping, apparentemente insensata, ha un suo preciso significato quale negazione regolata di ogni estetica della meraviglia assunta entro una forma di vita calcolatamente spericolata (Basso 2005). Il discorso di marca ci rimanda a esperienze di consumo che s’intrecciano con specifiche forme di vita, dove queste ultime sembrano influenzare le prime, e viceversa. Ripensiamo ancora alle marche di birra Brahma, Antarctica, Kaiser e Skol (Landowski 2003), dove il consumo della bevanda è contestualizzato in modo diverso a partire dai diversi modi di essere e di sentirsi appartenente alla nazione brasiliana: la comunità politica e la comunità di gusto sono la medesima cosa. Allo stesso modo un annuncio delle sigarette News analizzato da Floch (1985) propone un preciso stile di consumo del tabacco («Take a Break in the Rush») che è al tempo stesso una forma di vita il cui ritmo frenetico viene talvolta interrotto da una pausa: quella, appunto, del concedersi il piacere di una sigaretta, a dispetto di un mondo che scorre ricco di Grandi Eventi da cogliere e raccontare confezionando affannosamente la prima pagina di un quotidiano. Per non parlare di tutto ciò che riguarda il mondo della Moda, ostinatamente arredato di oggetti, eventi e situazioni che, innestando motivazione nell’arbitrarietà costitutiva del segno vestimentario (Barthes 1967), finiscono per esibire un corpo rivestito che s’aggira per contesti microsociali svariati, alla ricerca di un modo d’essere soggettivo, di una forma di vita ogni volta raccattata e beatamente assunta come propria (Calefato 1999). Così, dal bel gesto dello sprezzante cavaliere medievale alla samba brasiliana innaffiata di birra, dal salto nel vuoto dei ragazzini in cerca di emozioni forti alla condivisione silenziosa d’un caffè o d’una sigaretta, dal rinchiudersi in sé mediante l’esperienza allucinata del147

la mescalina alle quotidiane sfilate di prêt-à-porter lungo le strade metropolitane costellate di marchi globali, è sempre la stessa esigenza di teatralizzazione, di esibizione della propria maniera di vivere nel palcoscenico evanescente del mondo. E non si tratta di accidenti isolati: la messa in scena della forma di vita è costitutiva della forma di vita stessa; senza l’esibizione dei propri personali modi di deformazione coerente dei codici sociali questi modi non potrebbero di fatto esistere, funzionare. Così come il terrorista compie azioni che divengono significative non per quel che sono ma per quel che significano, dunque se e solo se vengono riprese e rilanciate dai media, allo stesso modo il dandy è un individuo che ha un certo disprezzo di fondo verso le persone e il mondo circostanti, a patto di metterlo provocatoriamente in mostra, di recitare pedissequamente la propria parte di antipatico dinnanzi alla gente che pure guarda dall’alto in basso. Da una parte, la componente teatrale mette in collegamento etica (che sta in linea di principio dal lato del produttore) ed estetica (che starebbe invece da quello dell’interprete): sollecitato dal gesto inaspettato, lo spettatore preso dalla meraviglia ripensa ai propri valori, li confronta con quelli dell’altro, finendo per riformularne la valenza sociale comune («come stanno veramente le cose?»). Da un’altra parte, il gesto esibito emerge, per così dire, metonimicamente, si autorappresenta come parte di un tutto indicibile che, però, attende d’essere detto. Un testo, sappiamo, più che essere semplice frammento di una cultura più ampia di lui, può efficacemente esprimere l’intera forma di tale cultura, condensandola al suo interno (Lotman 2006). Allo stesso modo un piccolo gesto, il dettaglio d’una azione, la forma estetica di un comportamento possono manifestare l’intera forma di vita di chi, assumendoli, li esibisce pubblicamente: e dunque il sistema di valori a partire da cui s’organizzano le pratiche quotidiane d’esistenza, le scelte di vita, i gusti, le decisioni, le convinzioni etiche e politiche, e così via. Un modo di vestire, sappiamo bene, è un modo di vivere, in una tensione profonda fra condensazione ed espansione, manifestazione e profondità, testualità e narrazione che va ben oltre il mondo dell’abbigliamento per investire qualsiasi evento o fenomeno della vita individuale e collettiva. La procedura semiotica su cui si basa la forma di vita è dunque l’alternanza dialettica fra condensazione ed espansione, fra figure espresse localmente e configurazioni globali che le sussumono facendole significare, fra piccoli (bei) gesti carichi di potenziale espressività e sistemi di senso che ne permettono la realizzazione semanti148

ca, fra dettagli allusivi e loro contesti sensati (Fontanille e Zilberberg 1998, pp. 151-168). Per esserci forma di vita, occorre che un soggetto selezioni una qualche categoria semantica (per esempio, a livello aspettuale, la perfettività piuttosto che l’incompiutezza, l’iteratività piuttosto che la terminatività) e la ponga come dominante all’interno della propria organizzazione esistenziale, come se tutte le altre categorie debbano derivare da essa o a essa venire in qualche modo ricondotte, in un continuo gioco di espansione e di condensazione. Così, se la forma di vita dell’artista classico discende dalla categoria della compiutezza, quella dell’esistenzialista deriva al contrario dall’incompiutezza; e se per il tossicodipendente l’iteratività del rischio è assunta positivamente come funzione del piacere cercato, per l’eroe romantico a dominare è l’idea di destino, ed emerge sempre nella sua forma di vita la questione della conclusione dei suoi atti, dell’esito dei suoi comportamenti. Analogamente, convocando tutt’altro campo semantico, c’è chi seleziona la categoria della ‘scelta’, ponendosi entro un regime esistenziale di distinzione rispetto agli altri e al mondo, e chi, viceversa, usando quella della ‘mescolanza’, preferisce il regime della fusione in collettività più o meno grandi, realizzandosi identitariamente oppure dissolvendosi all’interno di un qualche gruppo. Appare evidente come, a fronte della cosiddetta sparizione postmoderna delle grandi narrazioni collettive, ossia di codici sociali forti e universalmente condivisi, le forme di vita tendano a moltiplicarsi nello scenario sociale contemporaneo. Il medesimo scenario, non a caso, in cui fioriscono e si diffondono le forme brevi della comunicazione audiovisiva (Pezzini 2001): trailer, spot, banner, promo, logo ecc., altrettante schegge mediatiche che coniugano perfettamente, ed efficacemente, la brevità testuale sul piano dell’espressione con la densità semantica su quello del contenuto. Rivelandosi così, in modo inequivocabile, come i testi che meglio sono portati a manifestare il discorso di marca. È forse anche per questo che, come sottolineano gli avversari delle marche multinazionali (Klein 2000), il logo ha una tale importanza nella vita sociale dei nostri giorni. Due forme di vita opposte sembrano venir fuori dalle ibridazioni recentemente messe in scena da due marche che propongono bevande cosiddette ready-to-drink, Bacardi e Campari. Quest’ultima gioca sull’estensione coerente della marca, di modo che la tematica dell’ambiguità identitaria che è presente nella campagna istituzionale (di cui s’è detto so149

pra [§ 3.7.2]) ritorna per rendere conto di un prodotto che, in quanto tale, è esito di una mescolanza, Campari Mixx: ed ecco l’esibizione festosa dei tradizionali termini complessi, di figure che sintetizzano esteticamente coppie di contrari (maschile/femminile, uomo/animale, bianco/nero, angelo/diavolo ecc.), dove perfino i corpi, sempreché imbevuti del misterioso prodotto, si fondono l’uno con l’altro. Bacardi invece, proponendo un prodotto anch’esso basato sulla compresenza di elementi diversi qual è Bacardi Breezer, gioca su un altro tipo di doppiezza: quello dell’ipocrisia sociale, della dialettica fra apparire pubblico ed effettivo modo d’essere. Così, i personaggi in gioco – una donna dallo psicanalista, una coppia di giovani manager, persino un gatto e la sua anziana padrona – si danno a vedere secondo i loro ruoli prescritti socialmente, ma il film li mostra per quel che realmente sono: esseri che si scatenano nottetempo manifestando dentro di sé quel «latin spirit of everyone» rappresentato dalla bevanda (Russo 2007). Analogamente, un’immagine anonima pseudopubblicitaria che circola nella rete propone Microsoft e Apple come due opposte forme di vita: la prima ricollegabile simbolicamente al celebre coltellino svizzero multifunzione, e la seconda a un semplice coltello monolama. Si tratta esattamente, come spiega Floch (1995), di due modi diversi di porsi in relazione transitiva con il mondo: da una parte il modo concettuale dell’‘ingegnere’, che per ogni funzione da svolgere ha il suo specifico strumento; dall’altra il modo sensoriale del ‘bricoleur’, che adatta invece l’unico strumento che ha a disposizione per effettuare le operazioni più diverse. Di modo che, sembra si dica, se Windows è programmata per far bene un certo numero di cose, 27 ma solo quelle, Apple 150

in qualche modo tiene aperta la gamma delle sue operazioni possibili, svolgendole però con minore precisione.

Per dotarsi di ulteriori strumenti d’analisi al riguardo, occorrerà affrontare alcune questioni rimaste in sospeso. Da una parte si apre tutto lo scenario relativo alle significazioni intrinseche alle forme estetiche ed estesiche, dunque il nesso tra qualità sensibili delle cose e investimenti culturali di senso, tra i sensi e il senso. Come possono una forma visiva o un colore, una consistenza materica, una texture, un sapore o un odore o una melodia musicale non solo acquistare significato sociale ma, addirittura, divenire espressione condensata di un’intera forma di vita? in che modo si passa dal corpo intimo e presoggettivo alla sua declinazione intersoggettiva, dunque al corpo sociale? come coniugare estetica ed esistenza, estesia e cultura? Torna così, grazie a una problematica interamente semiotica, la questione del cosiddetto marketing aesthetics, su cui dovremo necessariamente soffermarci all’interno di una riflessione sulla costituzione delle identità visivo-estesiche delle marche [§ 5]. D’altra parte, occorre chiedersi non solo in che modo le forme di vita nascono, nel doppio passaggio dalla condensazione all’espansione e viceversa, ma anche se e come si stabilizzano, con durate e diffusioni variabili, nel tempo e nello spazio, passando dalla semplice esibizione individuale all’assunzione collettiva: in una coppia, in un gruppo di amici, in una tribù, in un’intera società. È la questione, che affronteremo [§ 4], della cosiddetta prassi enunciativa, ossia dei diversi gradi di presenza dei modelli di senso (potenziale, virtuale, attuale, realizzato), dei passaggi dall’uno all’altro, delle loro continue trasformazioni. Infine, se la forma di vita è una rivisitazione semiotica dello stile di vita della sociologia, non sarà possibile non affrontare rigorosamente la questione dello stile, e dunque delle modalità discorsive ricorrenti atte a costituire l’identità comunicativa dell’enunciante e, parallelamente, di colui al quale il discorso viene rivolto. Lo stile di vita e lo stile comunicativo, vedremo, si coniugano perfettamente entro la problematica della marca/autore. È arrivato allora il momento di discutere a fondo non più i contenuti del discorso di marca e le loro articolazioni, ma le procedure di attuazione del discorso stesso, insomma: la sua enunciazione.

151

4.

Produzione e riproduzione del discorso

4.1. Testo, contesto, discorso La narratività – s’è visto nel capitolo precedente – fornisce al discorso di marca una serie di modelli che permettono di descrivere le articolazioni profonde dei suoi contenuti. Si tratta adesso di spostare lo sguardo e affrontare una nuova, fondamentale questione: non più relativa ai temi o ai valori enunciati dal discorso ma al modo di enunciarli, alle strategie comunicative messe in atto per veicolare quei contenuti, alle interazioni tra le istanze che li producono e quelle che li recepiscono. Ossia, in fondo, al discorso in quanto tale, che si tratta pertanto di esaminare in tutta la sua importanza e complessità. Se la forma profonda della comunicazione di marca è di natura narrativa, chi racconta queste storie? che tipo di narratore è? si palesa apertamente o tende piuttosto a nascondersi? s’assume in prima persona la responsabilità di quel che dice o la delega a figure più autorevoli? sa quel che racconta o riporta la parola altrui? E poi, a chi vengono narrate queste storie? a qualcuno che è curioso e competente, o a un soggetto che occorre prima di tutto interessare, dunque convincere e istruire? Ancora: quali sono le possibili relazioni fra questi due soggetti? fra loro ci sarà accordo, conflitto, collaborazione, negoziazione, attrito? Le modalità di relazione fra marche e consumatori possono essere molto diverse: di neutralità («Eni. Valore, energia»), di complicità («La Coop sei tu»), di confidenzialità («Olio Cuore. Vivi con gusto»), di autorevolezza («Volkswagen, c’è da fidarsi») (esempi da Ceriani 2001). Il problema è allora: come si costruiscono e si gestiscono questi patti di fiducia senza i quali nessuna comunicazione può aver luogo e senso? e che nesso si instaura fra il tipo di relazione convocata da una marca e l’efficacia comunicativa 152

generale del suo discorso? e come si analizza e si ricostruisce, a posteriori, tutto questo? Entriamo così nel dominio dei processi comunicativi: da intendere, però, non nel senso di una produzione e di una ricezione empiriche, di attori comunicativi in carne e ossa, ma come iscrizione della produzione, della ricezione e dei loro attori nel flusso del discorso, e dunque nei testi che tale discorso tendono a manifestare. In termini tecnici, ciò significa reinterpretare la comunicazione come enunciazione. Da cui un atteggiamento al tempo stesso più rilassato e più circospetto nei confronti dei processi comunicativi. Da una parte la comunicazione viene inserita nel più ampio quadro della significazione, in modo da considerare fra i testi che tengono il discorso di marca non soltanto quelli appositamente costruiti a scopi dichiaratamente comunicativi (pubblicità, logo, marketing diretto ecc.) ma anche quelli che non avrebbero in linea di principio questa prerogativa, e che dunque apparentemente non si presentano sotto forma testuale: l’articolazione degli spazi nei punti vendita, per esempio, ma anche il design dei prodotti, le azioni aziendali, gli eventi promozionali e le sponsorizzazioni, la politica dei prezzi ecc. D’altra parte, lo sguardo semiotico mette fra parentesi i cosiddetti contesti comunicativi, le circostanze concrete – più o meno casuali, più o meno costruite – di produzione e di ricezione del discorso, nonché le motivazioni economiche (politiche, sociali, familiari, affettive...) che portano una determinata azienda/marca a proporre un certo patto comunicativo e un determinato consumatore ad accettare (o a rifiutare) tale patto. Salvo poi ritrovarle, tali circostanze, inscritte in un qualche testo che manifesta il discorso di marca, secondo il principio sociosemiotico di fondo secondo cui il contesto comunicativo di un testo è giocoforza presente in quello stesso testo, o in altri testi che con il primo intrattengono specifiche relazioni intertestuali all’interno di uno stesso discorso sottostante. Ne viene fuori lo schema generale riprodotto nella pagina successiva, che rappresenta visivamente quel percorso definitorio generale della marca che – ricollegandosi apertamente alle celebri quattro P del marketing (Kotler e Scott 1973) e riarticolando nel dettaglio la diade Progetto/Manifestazioni proposta da Semprini (2006) – si vuol seguire nel corso di questo libro, e che il presente capitolo ha il compito di illustrare in dettaglio. Nel seguito del capitolo approfondiremo allora le seguenti questioni: le relazioni fra gli attori concreti della comunicazione e le loro istanze simulacrali presenti 153

logo

nome prodotti punto vendita prezzo pubblicità ecc.

testo 1 testo 2 testo 3 Emittente empirico (azienda)

Enunciatore (marca che comunica)

testo 4 Enunciato

testo 5 Enunciatario (target)

testo 6

mix di marca

ecc.

Destinatario discorso di marca empirico (consumatore)

programmi d’azione e passione, strategie narrative, valorizzazioni

racconto di marca

assiologie profonde

valori di marca

all’interno del discorso di marca (rendendo conto in tal modo della doppia linea orizzontale tratteggiata: § 4.2); i modi di iscrizione di tali istanze entro l’enunciato di marca, e gli effetti di senso provocati da questi modi di iscrizione (doppie linee orizzontali continue: § 4.3); i rapporti fra testi manifestati e discorso immanente, e dunque le questioni di coerenza intertestuale e intradiscorsiva (linee oblique e linee verticali tratteggiate: § 4.4); il fenomeno sociosemiotico dello spessore discorsivo dato dalla sovrapposizione di molteplici grandezze al suo interno (linee verticali: § 4.5). 4.2. Comunicazione simulata ed efficacia discorsiva Il punto di partenza per l’elaborazione della nozione semiotica di enunciazione è una constatazione del senso comune: così come ogni prodotto presuppone un produttore (ogni artefatto umano esiste perché gli preesiste un artefice che lo ha pensato, progettato per un qualche scopo e conseguentemente costruito), allo stesso modo ogni prodotto comunicativo presuppone qualcuno che lo ha comunicato (voluto, pensato ed emesso per un qualche scopo), nonché qualcuno verso il quale esso è stato comunicato. Un ‘comunicato’, qualsiasi sostanza assuma e a qualsiasi forma faccia ricorso, acquista gran parte del suo senso non tanto dal mondo esterno cui si riferisce, ma da colui il quale lo ha prodotto e da colui per il quale è stato prodotto. In altre parole: ogni messaggio trasmesso, in un qualsiasi processo comunicativo, presenta al suo interno non solo un certo con154

tenuto enunciato, ma anche una qualche traccia del processo stesso della sua produzione, una specie di firma del suo autore, un appello al suo fruitore. 4.2.1. Conversazioni Capiamo così perché, come abbiamo sostenuto sin dall’inizio, la marca sia in fondo ‘la verità’ della semiotica. Ogni enunciato, per il fatto stesso di esistere, qualsivoglia sia il suo contenuto tematico, ha una sua marca: che è il segno dell’atto che lo ha posto in essere, del soggetto che lo ha compiuto, della sua finalità transitiva, dell’altro soggetto verso cui l’atto è diretto, delle conseguenze pratiche di tutto questo. Il discorso è un fenomeno che racchiude il processo comunicativo, il suo prodotto, gli attori che lo producono, la traccia del processo e degli attori all’interno del prodotto. Ogni discorso, dunque, è per certi versi un discorso di marca: vanta al suo interno una congerie di segni che lo caratterizzano come prodotto d’un produttore per un fruitore, e che, grazie a questo assetto comunicativo/produttivo, si fa portatore di determinati contenuti comunicativi. La marca in sé emerge quando si sgancia dall’essere semplice marca enunciativa, segno del produttore del discorso, e si presta ad assumere, a posteriori, qualsiasi discorso possibile, a farsi segno di un qualsiasi soggetto possa e voglia presentarsi come produttore di qualsiasi cosa, materiale o immateriale che sia. La questione diventa al tempo stesso più evidente e più estrema se si considerano non solo i processi di comunicazione emessi intenzionalmente ma qualsiasi evento significativo accada nel mondo, a prescindere da una volontà comunicativa diretta, esplicita, consapevole. In altre parole, non solo ogni prodotto comunicativo presuppone una struttura comunicativa – esplicita o implicita – che lo incornicia dotandolo di ulteriore significato, ma, più in generale, ogni azione dotata di senso, intenzionale o meno, esiste in funzione di una qualche istanza enunciativa grazie a cui essa può darsi nel discorso sociale e manifestarsi testualmente. Qualsiasi prassi significante ha al suo interno un marchio di produzione e di ricezione, una marca. Ciò significa, dal punto di vista della marca, che essa si produce come effetto di senso discorsivo non solo mediante la sua attività comunicativa (pubblicità e altre forme concomitanti di promozione), ma – volente o nolente – attraverso tutta la sfera delle sue attività: di modo che, come s’è già ribadito, non solo l’intero 155

marketing mix diviene mix di marca (ivi compresa la serie dei prodotti che si immettono sul mercato), ma soprattutto la tradizionale distinzione fra identità prodotta e immagine percepita perde ogni valore. Numerosi studiosi hanno posto le basi teoriche della nozione di enunciazione e conseguentemente delineato i modelli per una sua analisi (per alcune sintesi cfr. Manetti 1998; Fontanille 1998; Bertrand 2000; Fabbri e Marrone eds. 2001). Wittgenstein (1953) ha insistito molto sull’idea che il significato delle espressioni linguistiche dipenda dai loro usi effettivi. Morris (1938) ha coniato il termine pragmatica per indicare quella parte specifica della semiotica che si occupa dei fenomeni psicologici, biologici e sociologici che intervengono nel funzionamento dei segni. E Austin (1962) ha individuato alcuni fenomeni linguistici per i quali i soggetti implicati nella comunicazione linguistica hanno un ruolo di primo piano. Accanto agli enunciati constativi, il cui scopo è descrivere il mondo, nel linguaggio comune esistono per Austin enunciati che sono altrettante forme d’azione. Se «la terra è rotonda» predica qualcosa del mondo, «dichiaro aperta la seduta», «ti chiedo scusa» o «le do il benvenuto» non dicono qualcosa sul reale ma fanno qualcosa, agiscono nel reale, inserendosi in esso e trasformandolo. Laddove gli enunciati constativi, assumendosi l’onere di rappresentare la realtà, sono soggetti a criteri di verità e falsità, gli enunciati di secondo tipo, detti performativi, non sono né veri né falsi, ma, semmai, efficaci o non efficaci. Il loro valore significativo non risiede nella capacità descrittiva, ma nell’appropriatezza comunicativa, nel fatto d’essere pronunciati al momento giusto e dalle persone abilitate a farlo. Parallelamente alla riflessione filosofica sugli usi pragmatici del linguaggio, la linguistica s’è interessata ai procedimenti con cui sia il parlante sia l’ascoltatore sono in qualche modo inscritti nella lingua che usano, sottolineando il ruolo del soggetto parlante all’interno dei meccanismi verbali. Benveniste (1966, 1974) ha insistito sul fatto che una serie di categorie linguistiche – pronomi personali, dimostrativi, forme del verbo, modalità ecc. – possono essere spiegate solo ricorrendo alla concreta situazione di enunciazione in cui vengono messe in opera. Così, i pronomi cambiano ogni volta di significato a seconda di chi li enuncia: ‘io’ è il soggetto parlante, e il suo valore semantico si modifica ogni volta che cambia colui che parla; allo stesso modo ‘tu’ è sempre l’ascoltatore, mentre ‘egli’ è qualcuno che non è né il parlante né l’ascoltatore. Stessa cosa accade con il presente, il passato e il futuro, categorie temporali decidibili solo in funzione del momento in cui si parla; o con i dimostrativi, il cui senso effettivo varia in funzione del luogo in cui si tro156

va colui che parla. Al di là dei sistemi di regole che risiedono nella lingua, e al di qua dei singoli proferimenti linguistici, c’è insomma, secondo Benveniste, un apparato formale di regole che, esigendo la presenza concreta dei parlanti, rinvia al codice linguistico. L’enunciazione è appunto un’istanza di mediazione che si manifesta nel concreto atto comunicativo ma che in qualche modo è prevista dalla lingua. Questa nozione ha una serie di ricadute concettuali di un certo rilievo: l’apparato formale dell’enunciazione permette il sorgere della soggettività, il suo costituirsi mediante la lingua e soltanto attraverso essa. Non solo il soggetto si fa e si disfa attraverso le ‘forme vuote’ che il linguaggio gli mette a disposizione, ma anche le relazioni intersoggettive dipendono dal modo in cui le situazioni di discorso fanno ricorso ai codici linguistici che in qualche modo le annunciano. Così, per esempio, se dico «ti ordino di aprire la finestra», mi pongo come qualcuno che può permettersi di dare un ordine, e pongo il mio destinatario come qualcuno che può riceverlo: creo insomma una specie di gerarchia sociale. Laddove Austin riteneva che le condizioni reali della comunicazione siano la misura della felicità o dell’infelicità di un atto linguistico, Benveniste al contrario pensa che sia l’enunciato linguistico a produrre le corrette condizioni di enunciazione che lo rendono efficace. Ma l’enunciazione non è un fenomeno esclusivamente linguistico: ogni sistema di significazione, per funzionare, deve presupporre un’istanza enunciativa che lo mette in atto. Ogni enunciato – qualunque sia la sostanza dell’espressione a cui fa ricorso: verbale, visiva, gestuale ecc. – presuppone un’enunciazione, un atto produttivo originario che, poi, può essere più o meno manifestato all’interno dell’enunciato stesso. Ci possono essere casi in cui il soggetto dell’enunciazione viene segnalato esplicitamente (con un pronome di prima persona nella lingua, con un movimento di macchina al cinema, con l’inserimento della figura del pittore tra i personaggi di un quadro ecc.); oppure casi in cui, viceversa, ogni traccia della produzione enunciativa viene nascosta (con l’‘egli’ linguistico, le figure di profilo in pittura, la mancanza di intrusioni d’autore in letteratura ecc.), di modo che l’enunciato appare come sospeso nel nulla, privo di ogni riferimento a chi lo ha prodotto e, dunque, interamente proiettato verso ciò di cui parla, verso la ‘realtà’ che tende a rappresentare. Così, l’enunciazione è presente nell’enunciato anche quando non è percepibile, dato che l’assenza della sua esplicitazione – segnalando la volontà di costruire forme di ‘realismo’ – appare ancora più significativa della sua presenza. Se in linea di principio l’enunciazione è un’istanza presupposta all’enunciato è perché è interpretabile in tutto e per tutto come una forma d’azione. Come un qualsiasi oggetto porta inscritte le tracce del suo produttore, e dunque le azioni compiute per costruirlo, allo stesso modo un 157

enunciato possiede al suo interno delle marche – io/non-io, ora/non-ora, qui/non-qui – che rinviano al soggetto dell’enunciazione, ossia, da un lato, all’enunciatore (simulacro testuale di chi lo ha prodotto) e, dall’altro, all’enunciatario (simulacro testuale di colui al quale si rivolge). In tal modo, se l’enunciazione è un’azione, che in quanto tale si inserisce in una serie di azioni precedenti e successive, essa può essere interpretata mediante quei modelli che la semiotica ha già approntato per lo studio delle azioni: i modelli narrativi. La comunicazione diviene allora un racconto, e i suoi personaggi fondamentali – emittente, messaggio, destinatario – possono essere pensati come altrettanti attanti narrativi. Parlare non è solo far circolare informazioni, trasmettere un sapere. Prima ancora, è dar luogo a un’azione in cui un Soggetto operatore (l’enunciatore) congiunge un Soggetto di stato (l’enunciatario) con un Oggetto (l’enunciato). E questo Oggetto non è importante tanto per quel che dice ma per il valore che porta inscritto al suo interno (molto spesso, un valore di verità). Così, l’enunciatore non è soltanto un Soggetto operatore ma anche il Destinante manipolatore che inscrive il valore ‘verità’ nell’oggetto-enunciato proponendolo all’enunciatario; e quest’ultimo, a sua volta, non è soltanto un Soggetto di stato che subisce passivamente la congiunzione o la disgiunzione con l’oggetto-enunciato, ma anche un Destinante giudicatore, che valuta il valore ‘verità’ in esso inscritto, accettandolo o rifiutandolo. Da qui una serie di importanti conseguenze teoriche. Innanzitutto, nominare i protagonisti dell’enunciazione attanti vuol dire ripresentare la loro differenza con gli attori tangibili della comunicazione. L’enunciatore e l’enunciatario possono essere differentemente attorializzati. Ciò significa che se la comunicazione è uno scambio, i ruoli di enunciatore ed enunciatario si alternano tra gli attori che nel corso di una conversazione restano fisicamente gli stessi. Ma quel che è più interessante è che tra attanti e attori non si dà quasi mai una corrispondenza biunivoca. Così, per esempio, un’azienda, con i suoi apparati di uomini e tecnologie, all’interno di una certa comunicazione assume il ruolo dell’enunciatore, unico dal punto di vista testuale, al di là del numero effettivo degli attori coinvolti; e l’intera massa di consumatori è, in generale, un enunciatario, anch’esso testualmente unitario. Inoltre, i ruoli narrativi del Soggetto operatore e del Destinante manipolatore (dal lato dell’enunciatore) e del Soggetto di stato e Destinante giudicatore (dal lato dell’enunciatario) possono essere incarnati da un unico attore o da molteplici. In secondo luogo, in quanto attanti, enunciatore ed enunciatario sono variamente dotati, all’interno del testo, di valori modali (volere, dovere, sapere, potere). Laddove nella tradizionale teoria della comunicazione l’emittente e il destinatario sono pure istanze di trasmissione e di ricezione senza alcuna speciale determinazione interna, in se158

miotica l’enunciatore e l’enunciatario sono forme di soggettività diversamente costruite che entrano in relazione fra loro, attraverso i carichi modali che li contraddistinguono. Così, per esempio, una cosa è parlare a un pubblico dotato di dovere, un’altra cosa è rivolgersi a un destinatario dotato di volere. In terzo luogo, se l’enunciatore e l’enunciatario rivestono anche il ruolo del Destinante manipolatore e giudicatore, bisogna presupporre allo scambio comunicativo una qualche forma di contratto, un accordo più o meno tacito sui valori che nel corso del racconto-comunicazione entreranno in gioco. Questo contratto può essere, a seconda delle epoche, delle culture o delle situazioni comunicative, presupposto dal testo stesso, oppure stipulato volta per volta insieme al farsi del testo, oppure ancora trasformato una o più volte all’interno del testo stesso, a seconda delle strategie comunicative che si intendono mettere in atto. Ne consegue un’immagine della comunicazione e del linguaggio molto diversa da quella tradizionale: il criterio di verità di un enunciato non è dato tanto dalla sua relazione di adeguatezza alla realtà esterna, ma dalla relazione interna all’enunciato tra enunciatore ed enunciatario, i quali possono trovare – sulla base dei rispettivi carichi modali – un accordo più o meno profondo sulla verità di quanto si scambiano nel processo comunicativo. La verità, in altri termini, non è l’effetto di una rappresentazione ma l’esito di una relazione intersoggettiva, dunque qualcosa strettamente legato ai modi in cui i testi inscrivono al proprio interno le relazioni sociali che, da un lato, presuppongono e, dall’altro, determinano.

Così, non bisogna confondere l’emittente e il destinatario della teoria standard della comunicazione con l’enunciatore e l’enunciatario previsti dalla semiotica dell’enunciazione. Laddove i primi, almeno in apparenza, sono attori empirici, esseri in carne e ossa (o apparati tecnologici che svolgono in vece loro la pratica comunicativa concreta), i secondi sono i loro simulacri all’interno del discorso: quelle loro ‘immagini’ semiotiche che – a seconda della sostanza testuale adoperata e degli obiettivi comunicativi perseguiti – possono assumere le forme più svariate. Simulacri che, al momento dell’analisi, vanno individuati, esplicitati, ricostruiti, al fine di comprendere il tipo di patto comunicativo entro cui si dà l’intero processo discorsivo. Dal nostro punto di vista, ciò significa che, se l’azienda svolge il ruolo dell’emittente empirico, la marca ricopre quello dell’enunciatore simulato; e, parallelamente, se il consumatore è da considerarsi come il destinatario empirico, il target a sua volta va considerato come l’enunciatario simulato. Da cui lo schema: 159

attori empirici

azienda

consumatore

personaggi simulati

marca

target

A ben vedere, ripensando alla ricostruzione appena fatta dell’intera problematica, le cose non stanno però esattamente così. Intendere l’enunciatore e l’enunciatario come semplici rappresentanti dei reali attori comunicativi entro il testo vuol dire non comprenderne la portata, non coglierne la reale funzione nel discorso come fenomeno semiotico, e proprio per questo sociale, dunque empirico, concreto. Perché infatti, occorre chiedersi, il discorso si dota di queste due figure? Non soltanto, come talvolta sembra, per tenere in memoria i momenti della sua produzione e della sua ricezione ma, molto diversamente, in qualche modo per provocarli, per porli in essere, per fare del processo enunciativo anche e soprattutto una strategia comunicativa, con tutte le conseguenze – teoriche e pratiche – insite in quella nozione narrativa di strategia di cui s’è detto al capitolo precedente [cfr. § 3.5.4]. Come si ricorderà, nelle strategie (belliche e non) i simulacri dei soggetti in gioco sono come tali forze in campo: per potersi combattere – e/o mettersi d’accordo – Soggetto e Anti-soggetto si dotano ognuno di un’immagine da mostrare all’altro e, parallelamente, si costruiscono ognuno un’immagine dell’altro; di modo che tali simulacri funzionano come vere e proprie armi contro il nemico. Analogamente, nelle strategie comunicative, per poter comunicare fra loro, emittente e destinatario devono in primo luogo mettersi d’accordo sui valori della comunicazione, dunque devono negoziare e confliggere, confliggere per negoziare. Si dotano allora reciprocamente di simulacri di sé e dell’altro, in modo da usarli come armi persuasive l’uno contro l’altro. L’emittente propone un’immagine di sé (l’enunciatore) e un’immagine del destinatario (l’enunciatario); stessa cosa fa il destinatario: si costruisce un’immagine dell’emittente (l’enunciatore) nel momento in cui dà di sé un’immagine (l’enunciatario). Il contratto comunicativo che risulta da questa doppia immagine strategica degli attori comunicativi entro l’enunciato sarà funzione dell’efficacia comunicativa finale. In altre parole: l’efficacia assolutamente concreta della comunicazione (sia essa cognitiva, passionale, pragmatica o somatica) deriva dall’efficienza discorsiva interna, dunque dalla simulazione 160

orientata degli attori comunicativi nella struttura dell’enunciazione. Da cui un rovesciamento di prospettiva e una revisione dello schema sopra proposto: attori concreti

marca

target

personaggi astratti

azienda

consumatore

Così, l’enunciatore e l’enunciatario svolgono concretamente l’azione comunicativa. Sono essi che costruiscono il senso dell’enunciato, lo dotano di valori, lo propongono come tale nell’arena sociale. Laddove l’emittente e il destinatario, invece, sono i semplici terminali di tali azioni, istanze astratte poste come poli iniziale e finale di un processo le cui reali poste sono giocate altrove, a livello del discorso sociale, dunque, della scena enunciativa. Dire io non significa esibire un’immagine di sé ma, diceva Benveniste, costituirsi in toto come soggetto comunicativo; parallelamente dire tu significa coinvolgere qualcuno nel discorso, non rappresentarlo in un certo modo. Analogamente, se all’interno di un’immagine fotografica, come per esempio in un annuncio C’N’C [fig. 1], un personaggio guarda verso di noi, non sta facendo finta di vederci ma, molto concretamente, ci sta attirando dentro l’immagine, ci sta chiamando in causa, sta facendo in modo che quella foto abbia un certo senso se e solo se anche noi contribuiamo a costruirlo. Se la donna guardasse verso un altro personaggio dentro la scena, starebbe prendendo il nostro posto, ci starebbe cioè indicando dove e che cosa guardare. Analogamente, quando in un brand store il personale addetto simula l’atto del consumo dei beni esposti (indossa dei vestiti, ascolta della musica, beve dei drink), non sta semplicemente emulando il consumatore reale, ma in qualche modo lo sta creando, gli sta fornendo istruzioni di consumo, gli sta suggerendo il sistema di valori e di desideri del brand. Insomma, enunciatore ed enunciatario non sono rappresentanti degli attori della comunicazione ma loro prodromi, sorta di istruzioni per l’uso del discorso inserite all’interno dei testi che quel discorso manifestano. Ci dicono il genere testuale entro cui l’enunciato va inserito; ci dotano della necessaria carica passionale per fruirlo; ci forniscono il sistema di valori per apprezzarlo e giudicarlo; ci delineano i confini dei comportamenti che esso potrebbe 161

1

suscitare; prefigurano le trasformazioni somatiche che esso provoca. Senza, ovviamente, per questo deterministicamente prospettare una situazione comunicativa a senso unico, tale per cui il destinatario si trova necessariamente a coincidere con quella sua immagine testuale che è l’enunciatario. L’enunciatario, infatti, è da intendere come 162

una proposta di senso che, dal canto suo, il destinatario può più o meno accettare, più o meno rifiutare: non solo aderendo in modo ora parziale ora completo alla figura dell’enunciatario ma, soprattutto, costruendo a sua volta un’immagine dell’emittente come enunciatore. Ogni comunicazione è una forma di conversazione. L’identificazione, il rigetto, il contagio, il rovesciamento di prospettive, il coinvolgimento, il rifiuto, l’adesione, l’allontanamento sono altrettante forme che può assumere – dentro e fuori il testo – la risposta che l’enunciatario dà all’enunciatore, e che questo forse aveva previsto in anticipo. Non è difficile intendere quanto tutto questo sia decisivo per la questione della marca, e comprendere la ragione per cui, come si è ribadito mediante la nozione di equity (Aaker 1991), essa non è soltanto l’effetto di senso derivante dal variegato discorso che l’azienda rivolge ai consumatori. A costruirla è anche la serie di risposte che sopraggiunge dal pubblico di tali fruitori, nonché le risposte che l’azienda dà alle risposte dei consumatori, in una sorta di conversazione che per definizione è senza origine né compimento. La marca è l’esito di un incessante patteggiamento (e delle contese interne che possono derivarne) fra globali prefigurazioni di senso e risposte locali, di un’interazione costante – al tempo stesso comunicativa e sociale, sociosemiotica quindi – fra sistemi di valori, per quanto deboli e iridescenti, presenti nella cultura sociale, e artificiose costruzioni valoriali elaborate ad hoc dal marketing e dalla comunicazione. 4.2.2. Rituali d’enunciazione Risulta evidente il circolo virtuoso che s’innesca fra costruzione dei contratti comunicativi ed efficacia. Da una parte, la stipula del patto è condizione necessaria alla buona riuscita del processo comunicativo/significativo, di modo che la fiducia nei segni e nel loro produttore è una costitutiva precondizione di ogni atto semiotico della marca. D’altra parte, la fiducia che l’enunciatario pone nell’enunciatore e il conseguente patto comunicativo fra questi due attanti non sono realmente preliminari. Non c’è, come nelle fiabe russe analizzate da Propp (1928), un momento iniziale di contratto da cui prende avvio il discorso di marca. È nel corso del processo comunicativo concreto che tale contratto viene stipulato, grazie ai diversi possibili modi in cui, come s’è detto, enunciatore ed enunciatario si costruiscono reciprocamente all’interno del flusso discorsivo, intrat163

tenendo fra loro relazioni polemico-contrattuali più o meno complesse sulla base dei rispettivi carichi modali. Un contratto comunicativo non si stipula: semmai si ristipula, lo si riafferma o lo si modifica, lo si ricarica di senso oppure lo si dota di altri significati e altri valori, a partire dalle situazioni sociocomunicative in cui ci si trova – di svecchiamento o di rinnovo dell’immagine di marca, di crisi comunicativa, di allargamento o restringimento del target ecc. – o delle circostanze più o meno contingenti del mercato, della politica, della cultura e così via. La questione del credere – dell’acquistare e del riporre fiducia – ha ricevuto in semiotica una trattazione continua, già a partire dalle ipotesi di Peirce sul fissarsi della credenza sino alla nozione di contratto di veridizione di Greimas, via via sino a De Certeau, Parret, Geninasca, Casetti, in dialogo continuo con la riflessione sul linguaggio (Wittgenstein, Benveniste) da una parte e con la sociologia (Luhmann, Gambetta) dall’altra. A questo proposito Landowski (1998) ha per esempio notato come sia opportuno distinguere fra verosimiglianza dell’enunciato (esito di quello che Barthes chiamava effetto di reale), credibilità dell’enunciatore (data da autorevolezza, abilità persuasiva, carisma, simpatia...) e credulità dell’enunciatario (basata su riflessione, trasporto affettivo, calcolo...). In tal modo il credere viene considerato come un’azione che, al modo di ogni azione narrativa, presuppone la preliminare acquisizione di una specifica competenza; per credere, occorre prima poter e saper credere; per esser creduti, occorre prima poter e saper essere creduti. A sua volta De Maria (1994) ha osservato come sia soprattutto nei momenti di crisi comunicativa, causata ora da circostanze interne ora da contingenze esterne, che si palesa la struttura su cui si regge una comunicazione efficace: saper gestire le crisi di fiducia – in politica, nel marketing, nei media ecc. – vuol dire saper penetrare i meccanismi talvolta nascosti talaltra casuali della comunicazione, palesarne le strutture, soppesarne la funzionalità e l’efficienza. Gran parte della comunicazione di marca è giocoforza, per dirla con Jakobson, di tipo fàtico: un discorso che interviene rispetto alla (ri)costituzione dei patti di fiducia. Dicendo qualcosa, si reinnesta il contatto ricaricandolo di valore, ora per affermare l’autorevolezza dell’enunciatore (credibilità), ora per dotare di nuove modalità l’enunciatario (credulità), ora per fare in modo che l’enunciato possa esser considerato vero (verosimiglianza). Così, per esempio, Floch (1990) ha osservato come lo spot di Séguéla per Citroën BX che tanto successo ha avuto negli anni Ottanta (una macchina corre nella notte, arriva in poche ore da Parigi al mare, attraversa la spiaggia e... si tuffa nell’acqua), passando da una valorizza164

zione pratica a una ludica e infine a una utopica dell’automobile, fosse in effetti una nuova narrazione della marca: allo scopo di svecchiarne l’immagine e allargare il target senza cancellarne comunque la coerenza comunicativa/significativa accumulata negli anni. La sceneggiatura dello spot di lancio della BX era, in sostanza, la sintesi dell’intera comunicazione Citroën dal 1982 al 1985, che andava appunto dalla valorizzazione critica della Gsa a quella pratica della Visa e della CX, per passare a quella ludica della stessa Visa, e arrivare infine a quella utopica della campagna istituzionale dei cosiddetti chevrons sauvages, dove il logotipo della marca – le due note cuspidi – viene raffigurato da una mandria di cavalli selvaggi in corsa ripresa dall’alto. Lo stesso Floch (1990) ha mostrato come il redesign complessivo dell’immagine di una banca come Crédit du Nord dovesse passare innanzitutto da una ridefinizione del contratto comunicativo fra la banca stessa e i suoi potenziali clienti, usando nell’intero mix di marca il concetto comunicativo di ‘chiarezza’. Che cosa vuol dire infatti, per una banca, essere ‘chiara’? e perché preferire, per Crédit du Nord, il ‘chiaro’ e non altri concetti apparentemente analoghi come ‘conviviale’, ‘affidabile’, ‘diretto’ e ‘aperto’? Analizzando tutti questi lessemi della lingua, riserve virtuali di senso che attendono d’essere attualizzate nei contesti frastici e testuali in cui possono venir inseriti (Greimas 1966), Floch osserva come la semantica del termine ‘chiarezza’ metta in gioco due attanti molto precisi: da una parte un soggetto che si mostra, dall’altro un soggetto che lo osserva e che ne constata la corrispondenza fra il suo apparire immediato e il suo effettivo modo di essere. Esser ‘chiari’ vuol dire, da un lato, non aver nulla da nascondere, darsi a vedere per quel che si è senza timore d’esser scoperti in fallo; ma vuol dire al tempo stesso, dall’altro lato, porre il problema del controllo di questa esibizione, mantenere una certa continua sospettosità e verificare volta per volta l’effettiva rispondenza fra apparire ed essere. La chiarezza è insomma la qualità non di una cosa o di una persona ma di una relazione fra due persone: un patto paritetico fra due soggetti, entrambi dotati di una propria competenza, che viene mantenuta, per così dire, attiva lungo tutto il corso della loro relazione. Una banca che dice d’esser chiara, pertanto, non intenderà avocare a sé la gestione del denaro del cliente, mettendo in atto procedure finanziarie che solo lei conosce e sa praticare. Molto diversamente, essa farà in modo di tenere la propria clientela costantemente informata su ciò che è più opportuno fare, e volta per volta lasciarla decidere circa gli investimenti da tentare. Tale concetto comunicativo, sottolinea Floch, si rivelava dunque essere per Crédit du Nord – che stava traghettando la propria clientela di piccoli risparmiatori di provincia verso i grandi investimenti nazionali – molto più adatto che non, per esempio, quello di ‘affidabilità’ (per il quale la banca sarebbe stata l’unico soggetto professio165

nalmente competente e il cliente qualcuno che non ha nulla da dire o da fare), o di ‘convivialità’ (dove l’instaurarsi di una prossimità immediata fra i due soggetti in gioco avrebbe messo in secondo piano la questione della professionalità). È risultato in tal modo possibile declinare la chiarezza sia a livello pubblicitario, proponendo un claim che nominasse il denaro senza falsi pudori («Soyons clairs. L’argent qui dort, c’est l’argent qui meurt»), sia a livello visivo (usando come logo una stella che rispondesse ai principi di un’estetica classica, dove le varie parti dell’immagine risultano immediatamente leggibili: cfr. § 5.4), sia a livello architettonico (ristrutturando le sedi delle varie agenzie, nelle vetrine e negli spazi interni, secondo una logica della discontinuità fisica tra ambienti e tra cose). Crédit du Nord è divenuta così non più una semplice banca ma una vera e propria marca: non solo ha espresso un progetto di senso ricorrendo a svariati supporti testuali, ma s’è posta come un preciso enunciatore che ha stipulato con il proprio enunciatario un contratto comunicativo forte, destinato a durare nel tempo. Ovviamente, i patti fra enunciatore ed enunciatario possono essere molto diversi, orientati ora in un senso ora in un altro a partire dalle contingenze economiche o dalle situazioni socioculturali del momento, arrivando per esempio a escludere appositamente certe fette di mercato al fine di rafforzare la relazione con certe altre. Così, per esempio Bertrand (1988) ha mostrato come una campagna pubblicitaria per Black & White, finalizzata a una risemantizzazione della marca verso l’esclusività e il lusso, abbia lavorato secondo una precisa logica dell’ironia che mirava, per nulla paradossalmente, a restringere il target piuttosto che ad allargarlo: in certe congiunture è più conveniente intrattenere una relazione molto sentita con pochi piuttosto che una debole con molti. La campagna in questione presenta quattro annunci [figg. 2-5] che giocano con il senso letterale del brand name (bianco e nero) valorizzandolo come forma di vita, e lanciando così un messaggio – ironico, appunto – come: «Occorre far coesistere pacificamente il bianco e il nero». Giocando con elementi diversi dell’immaginario mediatico (personaggi da film gotico, i segni cinesi Yin-Yang, figure con kimono...), questi annunci puntano a enfatizzare, nel nome della marca, la congiunzione sintattica fra i due colori, quella «&» detta commerciale, sinora puro significante, caricandola di un qualche senso. Essi escludono così non solo ogni riferimento al whisky, alle sue proprietà, alle procedure della sua produzione o all’atto del suo consumo, ma aboliscono altresì la costruzione – o il rafforzamento – di un reale sistema di valori di marca da proporre al consumatore, a tutto vantaggio di ciò che nella marca è al tempo stesso più importante e meno significativo: il suo nome. L’obiettivo è allora un altro: quello di creare una sorta di intima complicità con il consumatore, di intesa profonda, incaricando l’enunciatario degli annunci di collaborare al completamen166

to del loro senso, di farsi co-enunciatore, complice e collaboratore tutt’altro che silente dell’enunciatario per così dire ufficiale. Si instaura così – con un medium per nulla nuovo qual è un annuncio stampa – una vera e propria comunicazione interattiva, dove il lettore è chiamato a produrre il senso del testo, e non a recepirlo come un tutto già dato in anticipo al momento della sua produzione. Il corpus dei quattro annunci, secondo Bertrand, gioca su due principi costitutivi. Il primo è quello della simmetria, dove l’opposizione di base ‘bianco vs nero’ viene ripetuta con una serie disparata di altre opposizioni: ora fra parte iconica e parte verbale del testo; ora fra Occidente (Famiglia, Tunnel) e Oriente (Yin-Yang, Arti marziali); ora fra immagini figurative (Famiglia, Arti marziali) e immagini astratte (Tunnel, Yin-Yang); ora fra sollecitazione di una dinamica narrativa (Famiglia, Tunnel) ed espressione di una statica perfezione (Yin-Yang, Arti marziali). Il secondo principio è invece quello della rottura della simmetria, della neutralizzazione dell’opposizione di base ‘bianco vs nero’ e conseguentemente di tutte le altre a essa collegate. Così, per esempio Famiglia [fig. 2] mostra una sorta di fotografia di gruppo dove una serie di figure tipiche della mitologia popolare – dal cavaliere medievale in armatura all’angelo sulpiciano, dalla strega al fantasma, dal Darth Vador di Guerre stellari sino a Zorro – sta in posa avvolta da ragnatele che ne indicano la vecchiaia, se non addirittura la morte: ognuno di essi è vestito ora solo in bianco ora solo in nero; e proprio per questo, suggerisce il claim, nessuno fra loro è un bon vivant... La simmetria dei colori opposti si stempera nella comune sorte negativa: per passarsela meglio, bisognava essere ‘black & white’. In Tunnel [fig. 5] l’ironia è giocata in tutt’altro modo: da una parte c’è la figura della galleria buia di cui si scorge a malapena la via d’uscita; dall’altra parte viene convocato il supporto materiale della pagina dove la galleria è disegnata, a indicare la coesistenza non delle due figure della galleria e dell’uscita, ma dei colori del nero e del bianco che rispettivamente le rappresentano per convenzione grafica. La coabitazione di questi due principi contraddittori – simmetria e rottura della simmetria – all’interno del medesimo corpus di annunci è ovviamente ironica: richiede un destinatario che sappia coglierla. Di modo che, nota Bertrand, la convivenza data a livello dell’enunciato è strutturalmente collegata alla complicità sul piano dell’enunciazione. La cosa interessante sta, fra l’altro, nel fatto che questa complicità fra un enunciatore (che tratta parodisticamente una serie composita di figure culturali) e un enunciatario (che sa identificare e comprendere questo tipo di trattamento) è costruita in funzione di una calcolata, concomitante rinuncia ad altri interlocutori possibili, i quali, dal canto loro, non hanno la competenza per cogliere il tono ironico della campagna. Apparentemente la convocazione di questi personaggi ‘facili’ dell’immaginario popolare sembra indirizzata a un lettore, appunto, popolare; a ben vedere 167

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Famiglia: «Ceux ce qui sont tout noir ou tout blanc, sont vraiment de bon vivants?»

Yin-Yang: «Personne n’est tout noir, personne n’est tout blanc»

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5 Arti marziali: «La simplicité est le luxe de ceux qui ont atteint la perfection»

Tunnel: «Si toute la page était noire, il n’y aurait plus d’espoir»

però questo genere di lettore, non possedendo la sensibilità e il gusto adeguati per comprenderne la collocazione strutturale in seno all’annuncio, e dunque il loro senso, finisce per essere programmaticamente escluso dal target di riferimento. Da qui l’esclusività della marca, il suo posizionamento nella sfera del lusso. Per i problemi relativi alla relazione fra contratti di fiducia e pubblici di massa, cfr. lo stesso Bertrand (1999) che analizza un caso relativo alla comunicazione politica francese. Sull’uso dell’ironia nel discorso di marca cfr. Marrone (1998a, pp. 269-272), dove se ne mostra il ruolo nella costruzione dell’identità di testata di un telegiornale italiano. 168

4.3. Per una tipologia dei discorsi di marca Una seconda questione relativa all’enunciazione del discorso di marca è quella che riguarda i modi in cui enunciatore ed enunciatario si rendono più o meno palesi all’interno del testo enunciato (nel nostro schema di p. 154, cfr. le doppie linee orizzontali continue). Se ogni enunciato, come s’è detto, presuppone un processo d’enunciazione, e se tale processo d’enunciazione contribuisce alla formazione dei contenuti presenti nell’enunciato, è evidente che, in un modo o nell’altro, l’apparato enunciativo non può non esservi presente e pressante: ora in modo esplicito e dichiarato, ora in modo implicito e silente – laddove, molto spesso, l’implicitezza si rivela essere ben più significativa d’ogni esplicitazione. Da una parte, la chiara presenza di enunciatore ed enunciatario nell’enunciato – ricorrendo per esempio all’io/tu nel caso del linguaggio verbale o alla sintassi degli sguardi nelle immagini – crea quegli effetti di soggettività che, come s’è detto, in vario modo coinvolgono gli attori della comunicazione entro il discorso, ne trasformano gli assetti cognitivi o passionali, i progetti d’azione, le configurazioni somatiche. D’altra parte, l’assenza d’ogni segno enunciativo, esito sapiente di una preventiva, sistematica operazione di cancellazione di enunciatore ed enunciatario (l’egli linguistico, la prospettiva centrale nell’immagine...) produce invece effetti di oggettività, anch’essi funzionali dal punto di vista comunicativo, ora alla produzione di una credibilità parascientifica in ciò che viene detto, ora alla riapparizione inaspettata – corporea spesso – dell’apparato enunciativo. 4.3.1. Soggettività e oggettivazioni A prima vista, il discorso di marca non può che essere soggettivante, in quanto i segni – le marche, appunto – dell’enunciatore e dell’enunciatario devono necessariamente apparire nelle sue manifestazioni testuali sotto forma di logo, griffe, nome o altri possibili segnali identificativi: colori aziendali, motivi decorativi, estetiche riconoscibili, stili espositivi ecc. Secondo l’opinione comune, senza griffe non c’è marca. A ben pensarci, le cose sono però più complesse. Non solo perché questa opinione, nella sua generalità, assimila aprioristicamente due fenomeni come marca e griffe, che potrebbero essere invece considerati separatamente (Volli 2003, pp. 99-105), e tende pertanto ad appiattire le forti differenze fra tipologie di presentazione della marca come soggetto – dell’enunciato e 169

dell’enunciazione –, ma anche perché il discorso di marca s’accompagna spesso a altre forme, sia interne sia esterne, di discorso: ora passando la parola a nuovi enunciatori, ora mescolando la propria voce a quella di altri soggetti, ora ridimensionando o addirittura nascondendo la griffe per far riemergere la marca dietro altre vesti significanti, ora assumendo un vero e proprio discorso oggettivante portatore di tematiche e valori che assorbono l’universo di marca entro ambiti socioculturali più ampi che al tempo stesso – per quanto paradossalmente – lo dissolvono e lo rafforzano.

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Proviamo a esplorare alcune di queste possibilità. C’è innanzitutto il caso della griffe come tale, che però raramente ricorre al suo grado zero, in quanto s’accompagna molto spesso, volenti o nolenti, a un mucchio d’altri elementi che fanno del segno puro di marca la semplice componente di un discorso più ampio. Così, in un annuncio per occhiali Prada [fig. 6], la griffe è presente due volte: la prima a livello dell’enunciazione, dove il nome di marca, sovrapposto al visual, ponendosi come enunciatore a sé stante crea un piano di referenza autonomo e trascendente rispetto alla raffigurazione della modella con gli occhiali, firmando al tempo stesso l’annuncio pubblicitario e il prodotto che intende veicolare; la seconda a livello dell’enunciato, dove il logo si trova impresso in modo evidente nell’asta laterale del prodotto. Ma l’annuncio non si esaurisce in questa specie di ipertrofia del brand. Nel visual infatti emerge un vero e proprio racconto in nuce che inquadra la marca in un universo sociale fittizio, dato non solo dalla modella e dal suo look (bavero dell’impermeabile rialzato, capelli al vento, trucco ‘lunare’), ma anche dall’atmosfera generale nella quale essa si trova inserita: ha un’ombra che si staglia sulla fronte, sulla destra s’intravede la striscia continua d’un battistrada e sullo sfondo emergono luci di veicoli non meglio

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identificati che, fuori fuoco, sfrecciano a tutta velocità. È abbastanza evidente che la donna indossa gli occhiali mentre, di notte, percorre in auto una strada. Il suo viso è illuminato, quindi, non dalla luce del sole, ma presumibilmente dai fari di un’auto che la sua vettura sta in quel momento incrociando. Ecco insomma emergere una tipica forma di vita [§ 3.8] nella quale la griffe, che pure vi trova posto, viene trascesa per lasciare spazio a un intero sistema di valori: vita spericolata notturna, nascondimento e concomitante esibizione di sé, seduzione, mistero ecc. Spesso la struttura enunciativa emerge nella sua più esplicita componente linguistica – paradigma pronominale di prima e seconda persona, deittici, imperativo... – producendo forme di interazione abbastanza differenti. Può darsi per esempio il caso del doppio richiamo conativo di Baileys [fig. 7], che da un lato consiglia euforicamente al consumatore «Serve chilled», mentre dall’altro gli ricorda «Bevi responsabilmente». Del resto, anche nella head «Mix Baileys Ice & Christmas» il primo termine può essere letto come un imperativo. Ne viene fuori un enunciatario-consumatore che, nel momento in cui viene sedotto dal visual, dove il caldo liquore mieloso scivola lungo gli spigoli d’un albero di Natale ghiacciato, sciogliendolo, è altresì caricato di un triplice compito – gastronomico, etico, sociale – da eseguire scrupolosamente, a fronte di un enunciatore-marca che si manifesta in tutta la sua caparbia volontà – sadica? – di dar piacere dominando. Diverso il caso di un annuncio Lancôme [fig. 8] dove l’enunciatario viene tirato in causa da una head il cui imperativo iniziale («Scolpite le vostre ciglia oltre misura») è questa volta motivato dalla promessa d’una immediata acquisizione della competenza seduttiva («per uno sguardo fatale»). Dice innanzitutto la marca: se usi il mascara Lancôme, avrai uno sguardo irresistibile, con il quale potrai sedurre gli oggetti del tuo desiderio. La valorizzazione è sin qui di tipo pratico. Il visual sembra però invertire la direzione dell’interazione. Dà a vedere, come modello 7 171

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da imitare, l’esito incarnato del programma d’uso portato a termine: un soggetto femminile che, avendo scolpito le proprie ciglia col mascara adeguato, esibisce uno sguardo fatale. Questo sguardo è all’opera: e guarda lo spettatore, ossia proprio quell’enunciatario che, una volta congiunto col mascara, avrebbe potuto scolpirsi le ciglia «oltre misura» e vantare a sua volta uno sguardo fatale. La donna – scolpita nel viso e nell’acconciatura, oltre che nelle ciglia – è allora l’attore umano a cui l’enunciatore astratto ha delegato lo sguardo fatale da puntare sull’enunciatario. È protesa in avanti, quasi a voler uscire dal supporto materiale del foglio di carta. E, fra l’altro, tiene in mano l’astuccio del mascara a mo’ di penna, con la quale ha verosimilmente firmato in basso l’annuncio stesso, sovrapponendo la scritta del nome di marca alla sua stessa immagine riprodotta. Essa è dunque la marca, o il suo rappresentante mondano, che intende sedurre il proprio potenziale consumatore con il medesimo sguardo che quest’ultimo potrà a sua volta usare verso le sue future prede amorose. Sedurre, in amore, è come irretire nell’universo dei consumi. Che lo sguardo sia fatale per questo? che la misura sia stata superata per tale ragione? Al lettore malizioso – anche qui attivo, come nel caso di Black & White – la possibile risposta. Doppia l’interpellazione del lettore – cognitiva e passionale, tecnologica ed erotica – proposta da un annuncio per Nespresso [fig. 9]; il quale, onde offrire una macchina da caffè con una serie di capsule in dotazione dai gusti diversi, usa a mo’ di testimonial la figura mediatica di un George Clooney che ammicca con il suo sguardo ormai proverbiale 172

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l’enunciatario inscritto. «Nespresso. What else?», domanda il claim riprodotto con un carattere tipografico che simula una scrittura corsiva. È la marca che parla, e con lei il seducente testimonial. Ma i due soggetti non stanno dicendo, forse, la stessa cosa, poiché verosimilmente – ed è il lettore, appunto, che dovrà affrontare la questione – ognuno di essi attribuisce a quel «what else?» un significato molto diverso. Per la prima, il concetto è quello di un servizio totale: prendendo Nespresso si ha insieme all’apparecchio la dotazione di caffè necessaria a metterlo prontamente all’opera, senza bisogno di dover andare ad acquistare a parte il prodotto macinato. Non c’è bisogno d’altro. Per il secondo, che ha già usato la macchinetta e sta per bere il caffè dalla tazzina che tiene in mano, le cose sono ben diverse. Clooney guarda l’enunciatario negli occhi e sembra chiedergli: «C’è qualcos’altro che desideri, per caso, oltre il caffè – e che io solo, non la marca, posso offrirti?». Del resto, l’opportunità di una duplice lettura dell’annuncio ce l’aveva fornita il payoff, che innocentemente aveva già dichiarato: «Nespresso. Il caffè, anima e corpo». Se dunque per certi versi il lettore viene in più modi stimolato, irretito, tirato in ballo dal discorso di marca, per altri può invece eclissarsi, anche se gradualmente, per lasciar spazio a un enunciato ‘puro’, che parla del mondo senza bisogno di specifici interlocutori. Così, a un primo grado potremmo collocare la strategia di Clinique [fig. 10], che, oltre a non far mai apparire attori umani nei testi della propria comunicazione, con tono parascientifico oggettivante esalta direttamente il prodotto, il suo contesto 173

d’uso e la sua efficacia pratica («Una buona crema notte si vede dal mattino»). L’enunciatario è invece relegato nelle affermazioni quasi profetiche del body copy: «Senti subito una piacevole sensazione di lifting. La pelle sarà più morbida. […]. Poi, notte dopo notte, i contorni del tuo viso appaiono sollevati, più elastici, meno rilassati. Persino linee e rughe risultano visibilmente ridotte. [...]. Un problema in meno a cui pensare stasera». Il gioco dei tempi verbali, e in generale delle indicazioni temporali, è formidabile: c’è un presente («senti»), un futuro imprecisato («sarà»), quindi un’indicazione avverbiale di prosecuzione iterativa («poi, notte dopo notte»); per tornare però maldestramente a un presente duraturo e avvolgente («appaiono», «risultano»), e chiudere con un ancoraggio temporale verso un futuro prossimo («stasera»), momento – non più descrittivo ma surrettiziamente prescrittivo – nel quale cominciare il trattamento Clinique. Più oggettivante il caso di Eucerin [fig. 11], «programma di protezione dermatologica» che usa un interessante verbo all’infinito nel claim di un suo annuncio («Riempire le rughe dall’interno»), in modo da far scattare la finzione delle istruzioni per l’uso paramedico del prodotto, facendolo però seguire da imbarazzanti virgolette («con ‘precisione chirurgica’»)

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che moltiplicano le piste interpretative: se si tratta di una citazione, presumibilmente da un’autorità del discorso medico cui dover credere, chi parlava invece prima? un enunciatore privo di particolari competenze qual è, allora, la marca? Se invece si tratta di virgolette che prendono le distanze dal contenuto enunciato, la precisione da usare è tutt’altro che chirurgica? Oppure, terza possibilità, se le virgolette tendono soltanto a ridimensionare, questa precisione sarà quasi chirurgica, un po’ come quella dei chirurghi, senza comunque subirne il lato spiacevole e cruento? Che la risposta da dare sia l’ultima lo potrebbe indicare il visual, che in anodino bianco e nero mostra il viso di una donna segnato con la crema nei punti in cui c’erano (ci saranno?) le rughe da riempire dall’interno. La crema, però, è all’esterno: trattamento concluso o indicazioni su dove si dovrà intervenire in sala operatoria? Ancora più scientifica e oggettivante la strategia comunicativa di L’Oréal [fig. 12], dove l’enunciatario è praticamente assente sia a livello visivo sia a quello verbale. Qui la marca dichiara di voler emulare non la parola medica, facendo proprio il sapere per principio efficace di questa categoria sociale, ma, senza le ambiguità di Eucerin, direttamente la pratica dermatologica, ‘ispirandosi’ a una specifica tecnica di cura, la dermoabrasione, che viene comodamente trasportata a domicilio. Nessuna interpellazione del lettore, nessun ammiccamento di testimonial, nessuna indicazione pragmatica da portare avanti per l’enunciatario. Se questi è in qualche modo convocato nell’enunciato, come si vedrà meglio più avanti, è allora indirettamente: grazie all’inquadratura ravvicinata del vasetto di crema, tagliato dai bordi del supporto dell’annuncio, si ipotizza uno spettatore poco distante, che porta l’oggetto verso di sé, con uno sguardo che, sfiorando quasi il contenuto del pack, si fa tatto. Sguardo aptico che mette in campo quella che chiameremo un’enunciazione di marca di genere sostanziale [§ 4.3.4]. Anche l’io può giocare in modi diversi nelle strategie comunicative del discorso di marca, creando casi più o meno complessi di identificazione, o di sostituzione, fra soggettività della marca e soggettività del consumatore. In un annuncio 12 175

per Labello [fig. 13] il claim («Luce delle mie labbra») mette in gioco la bocca dell’enunciatario, risplendente grazie al prodotto col quale congiungersi, ma anche la parola dell’enunciatore, anch’esso dotato di labbra, se non proprietario di quelle dell’enunciatario. Le labbra in gioco sono allora quelle di un consumatore posseduto dalla marca, di un soggetto che cade nella vertigine del contratto comunicativo, lasciandosi irretire dalle proposte luminose che gli vengono fatte. Vertigine riprodotta nel visual dell’annuncio, come a raddoppiare visivamente la sua indecidibilità ermeneutica. Un io diverso è quello di Sony Ericsson [fig. 14], che in un annuncio ‘barocco’ per l’elegante serie di telefoni portatili Z610i dichiara orgogliosamente: «Io: la perfezione», dove però il segno di interpunzione è visualizzato come logo di marca. A mo’ di rebus, il claim va dunque letto: «Io, Sony Ericsson, (sono) la perfezione», se non addirittura: «Io sony(o) la perfezione». E il prodotto, in questo, gioca il ruolo di esemplificazione pratica dell’enunciato: non è il telefonino a essere perfetto in sé, per la sua tecnologia o la sua estetica, se non in quanto esito oggettuale di un discorso che lo trascende; discorso che, appunto, è solo la marca a tenere, per un enunciatario, questa volta, del tutto as-

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sente. La teoria di telefonini mostrati di sbieco mentre riceve dall’alto la luce da una sorta di Destinante superiore – la marca, appunto – viene raddoppiata dalle loro immagini riflesse nella parte inferiore della pagina nera che funge da specchio. I telefonini si specchiano, insomma, per rendersi personalmente conto di questa perfezione che viene loro infusa da una entità superiore (lei, effettivamente, perfetta). La loro semplicità minimalista – in parte ripresa dalla comunicazione Apple – è l’esito estetico di questo meccanismo neoplatonico senza saperlo, dove l’Uno illumina il reale rendendosi visibile ma, inevitabilmente, corrompendosi nella materia empirica.

Appare evidente come le possibili forme di interazione fra enunciatore ed enunciatario, nonché gli svariati modi in cui essi possono palesarsi o nascondersi nell’enunciato, si determinano nel discorso di marca sulla base degli obiettivi strategici, volta per volta diversi, che possono darsi in congiunture specifiche, e dunque in funzione delle scelte di posizionamento che ciascuna marca persegue in relazione alle marche concorrenti. Laddove una marca assume per esempio un tono enunciativo soggettivante, una seconda ne sceglierà un altro di tipo oggettivante: ma si tratta ovviamente dei due poli di una scala virtualmente infinita di possibilità intermedie [cfr. per esempio l’analisi di alcuni siti aziendali di Marmo (2003)]. La scelta di un’interpellazione diretta dell’enunciatario si distinguerà così da quella di un suo coinvolgimento ironico o da quella di una richiesta esplicita di compiti da svolgere. Abbiamo visto per esempio come quattro diverse marche di cosmetica – Lancôme [fig. 8], Clinique [fig. 10], Eucerin [fig. 11], L’Oréal [fig. 12] – grossomodo facenti riferimento al medesimo target si ponessero in una scala che va da un massimo di soggettivazione (lo «sguardo fatale» di Lancôme) a un massimo di oggettivazione (l’«ispirarsi» alla tecnica dermatologica di L’Oréal). Così, le sei grosse marche sportive – Adidas, Arena, Asics, Champion, Nike, Puma – che abbiamo analizzato in altra sede (Agnello e Marrone 2007) possono posizionarsi fra loro utilizzando, oltre allo schema narrativo [§ 3.5.1] e al quadrato delle valorizzazioni [§ 3.6.2], una scala graduale d’assunzione della soggettività enunciativa. Si parte dalla strategia visibilmente oggettivante di Arena, i cui annunci [fig. 15] mettono in scena un enunciato sostanzialmente parascientifico («Humans are 70% water»). E un’analoga posizione sembra occupare Adidas, il cui payoff in terza persona – «impossible is nothing» – aziona però un qualche coinvolgimento personale dell’enunciatario [fig. 9 in § 3.5.1]. A loro volta gli annunci Champion [fig. 16] sono apparentemente ogget177

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tivi, in quanto producono l’effetto di un testo pubblicitario standard, con tutti gli elementi tipici come il visual, il payoff, l’headline ecc. A ben vedere, però, in essi è presente una mise en abyme: nel visual è riprodotto in un muro sullo sfondo il logo della marca; non si tratta però del logo attuale, presente come di consueto in basso a destra o in alto a sinistra, ma quello ‘storico’ che si presume sia sempre presente nella mente del consumatore fedele. In tal modo, il claim «the story goes on» viene per così dire duplicato, tradotto e riraccontato in un inscatolamento discorsivo che mette in comunicazione il logo ‘storico’ con quello attuale sollecitando il lavoro memoriale dell’enunciatario. L’effetto di senso finale è chiaro: Champion è un universo di senso che è ben in linea con la propria tradizione aziendale proprio perché si rivolge a persone che conoscono questa storia, ne condividono i valori di fondo e la mettono in pratica nell’esercizio dello sport. Per il resto, sono frequenti i casi di interpellazione diretta al destinatario consumatore, come quando viene fuori un «tu» (in «metti l’estate ai tuoi piedi» di Adidas [fig. 17]; in «perché corri?» di Puma [fig. 19]; in «per migliorare le tue prestazioni» di Asics [fig. 8 di § 3.5.1]) o un «noi» che può essere letto sia come pronome inclusivo (come in «festeggiamo sul campo» di Adidas) sia come esclusivo («abbiamo aspettato che tu» sempre in Adidas). Il consumatore interviene a sua volta in alcuni annunci, non più soltanto come soggetto rappresentato nell’enunciato narrativo, ma come enunciatore a cui la marca ha delegato la parola e, con essa, il sapere – cognitivo e passionale – sulla marca stessa. Sono i casi in cui troviamo esplicitamente un «io», come in «ho fatto piangere molti uomini» di Arena o nelle risposte al «perché corri?» di Puma («non avevo più buchi nella 178

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cintura», «adoro la mia mamma ma non le sue gambe») [fig. 19]. Nike si colloca a metà fra queste due strategie: da una parte la marca chiama in causa esplicitamente il consumatore coinvolgendolo imperiosamente nella sua filosofia d’esistenza («find yourself at...»); dall’altra è il consumatore stesso che prende la parola, in una sorta di monologo interiore che tende a esaltare le sue proprietà profonde, il suo Sé («nella mia vita precedente devo essere stata la Regina di __»; «mi piace spiccare il volo») [fig. 20]. Un caso di personalizzazione della marca e di dialogo 179

diretto fra essa e il consumatore ha luogo in due annunci Asics dove a parlare sono direttamente le scarpe [fig. 18]. Se in un caso c’è una sorta di autopresentazione antropomorfica del prodotto («siamo le Asics Gel-Kayanox [...]. Supportiamo il peso di qualsiasi prova...»), in un altro le scarpe si rivolgono anche all’enunciatario, interpellandolo e tirando in ballo la conformazione fisiologica del suo corpo («siamo le Asics Gel-Invasion. Siamo scarpe da tennis con ben 10 tecnologie diverse ciascuna. Esagerate? Chiedilo ai tuoi piedi: hanno 26 ossa e 40 articolazioni ciascuna»). Si crea così una sorta di corrispondenza analogizzante (che valorizza entrambi gli elementi) fra l’alta tecnologia della scarpa e l’alta specializzazione dell’arto umano, dotati entrambi di parola e di coscienza: di modo che il soggetto consumatore viene caratterizzato per possedere un corpo e al tempo stesso le scarpe adatte a esso, diventando una sorta di garante del loro incontro. Così, l’universo semantico complessivo costruito dalla comunicazione di tali marche può essere visualizzato, a questo livello di senso, come una serie a cascata di soggetti enunciatori ed enunciatari progressivamente sempre più coinvolti con la loro parola e i loro comportamenti nella scena enunciata, nella conversazione circa i valori di marca. Ne deriva uno schema che rende conto della complessa articolazione enunciativa generale e del progressivo passaggio da un effetto di oggettività a uno di soggettività: effetto di marca implicita che parla oggettività marca esplicita che parla

Champion consumatore implicito che ascolta consumatore interpellato come destinatario Adidas consumatore che parla marca che dialoga marca messa in scena Puma, Arena consumatore come soggetto d’azione come soggetto d’azione Nike corpo complesso del prodotto che parla consumatore interpellato tecnologicamente avanzato e competente Asics

effetto di soggettività

4.3.2. Norme sociali e specificazioni individuali Questa varietà di assetti enunciativi, non derivando da norme linguistico-comunicative codificate a priori, è in linea di principio senza limiti, dipendendo dalla creatività e dalla originalità espressive del singolo produttore del discorso – che entra comunque in negozia180

zione con il relativo ricettore, il quale può più o meno accettarne le proposte di senso. In linea di fatto, però, questa infinita varietà delle forme comunicative e questa conseguente capacità creativa dell’enunciatore ricevono, se non dei limiti, senz’altro delle cornici entro cui incanalarsi e costituirsi. Si tratta di schemi comunicativi già dati che guidano le operazioni di produzione e di ricezione, principi d’organizzazione interna della comunicazione che non traggono origine né da una qualche lingua storico-naturale né da un codice normativo di tipo prescrittivo ma da configurazioni culturali al tempo stesso più ampie e più fluide, e dunque da quella semiosfera entro cui testi e metatesti, pratiche e rituali, discorsi e azioni interagiscono fra loro, confliggono e s’accordano, trovando forme locali di stabilizzazione, consuetudini comunicativo-espressive, abitudini ermeneutiche. I discorsi di marca, per quanto ideati a partire da precise congiunture economiche, da esigenze di mercato e spesso di concorrenza, non sfuggono alla forza stabilizzante di questi modelli comunicativi antropologicamente orientati, di questi schemi produttivo/interpretativi inscritti nel flusso della cultura sociale: traggono da essi gran parte della loro forza persuasiva, vi trovano ragion d’essere e potenza espressiva, plausibilità sociale e riconoscimento collettivo. Per comodità, distingueremo queste forme comunicative preesistenti – ancorché in continua trasformazione – secondo due classi di base. E precisamente: (a) alcuni principi generici d’organizzazione delle operazioni di produzione e di interpretazione, che portano a effetti di socialità e che chiameremo generi; (b) alcuni principi specifici d’organizzazione delle operazioni di produzione e di interpretazione, che producono effetti di individualità e che chiameremo stili. I primi forniscono le cornici comunicative entro cui il discorso di marca, da una parte, risponde a determinate routine produttive e, dall’altra, si relaziona a precostituiti sistemi d’attese del pubblico. I secondi portano invece alla definizione dell’identità di marca – sorta di autore che si rende riconoscibile a partire da un personale stile mediante cui esprime il proprio mondo d’affetti e comunica i propri valori; e parallelamente conducono alla costruzione dell’identità del consumatore – il quale, sapendo riconoscere lo stile specifico della marca-autore, per ciò stesso si ritrova dotato di qualcosa come un gusto, mediante il quale aderisce a una proposta di senso che ben si attaglia alla propria personale sensibilità. La questione della marca, per nulla paradossalmente, sconfina così nei domini della poetica e dell’esteti181

ca, di quelle sfere culturali a prima vista lontane dall’economia, dal marketing e dalla gestione aziendale che possono invece fare da cerniera – tanto simbolica quanto concreta – fra la materialità di queste ultime e l’immaterialità dei valori sociali. Il discorso di marca, al modo di qualsiasi produzione letteraria, risponde a un determinato sistema di generi e si manifesta nei suoi testi-opere a partire da un preciso stile espressivo-comunicativo. Genere e stile – nozioni, come è noto, d’origine retorica e letteraria, poetica ed estetica – risultano allora essere di grande utilità per una migliore spiegazione dei meccanismi interni dei fenomeni di marca, nonché per una più corretta comprensione dei suoi obiettivi di partenza e dei suoi esiti ermeneutici. Del resto, se, come si ripete con convinzione sempre maggiore, la sfera dell’economico e quella dell’estetico sconfinano l’una nell’altra diffondendo quella che Carmagnola (2006) battezza fiction economy, nasce il problema di una duplice competenza gestionale, di un saper fare ibrido – se non addirittura schizofrenico – in grado per esempio di spiegare come un piano marketing e un’arguzia retorica possano tradursi l’uno nell’altra all’interno di una medesima strategia discorsiva: quella della marca. 4.3.3. Generi pubblicitari Nasce così, in primo luogo, la questione dell’individuazione di una tipologia delle forme strategiche entro le quali una marca può essere prodotta o trasformata, dei generi comunicativi che il discorso di marca può adottare per trasmettere e/o condividere le proprie tematiche e i propri valori. Questione fondamentale perché, rivendicando l’importanza del genere per la costruzione del significato di qualsivoglia atto comunicativo, sottolinea l’urgenza di una definizione non ingenua di questa nozione e sollecita altresì la costruzione di criteri rigorosi per una classificazione dei suoi diversi modi di manifestazione. Individuare una tipologia di generi di marca significa adottare esplicitamente un qualche criterio distintivo coerente ed esaustivo che permetta una suddivisione interna del suo discorso in classi differenti. Onde evitare i rischi derivanti da classificazioni che rispondono a criteri impliciti, incoerenti, inadeguati a una corretta comprensione dei loro reali meccanismi di funzionamento. Sui generi – folklorici, letterari, pittorici, cinematografici, televisivi, comunicativi – si sono costituite biblioteche intere. Dopo un lungo pe182

riodo in cui li si intendeva – in una prospettiva dichiaratamente prescrittiva – come rigide classificazioni di norme estetiche a partire dalle quali poter creare opere letterarie e in generale artistiche, e dopo il conseguente rifiuto idealistico-romantico verso ogni forma di imposizione precostituita alla creatività espressiva, ormai da tempo ci si è resi conto – in una prospettiva invece descrittiva – che le tavole dei generi sono griglie formali, tanto necessarie quanto variabili nel tempo e nello spazio, a partire dalle quali qualsiasi processo comunicativo può aver luogo. Si tratta, in fondo, di quello che Foucault (1970) chiamava l’ordine del discorso, quell’insieme di principi di composizione e di ricezione dei testi che ogni epoca storica, assetto culturale o gruppo sociale elaborano per ordinare – nel doppio senso di organizzare e controllare – i propri materiali intellettuali e culturali. Così, in antropologia, in teoria letteraria, in linguistica, in estetica, negli studi sui mass media ci si è progressivamente accorti che il genere è un’entità tanto più utile per intendere i rispettivi campi di indagine quanto più sfuggente nella sua individuazione. Principio astratto e, appunto, generico, il genere non risulta essere sempre e comunque percepibile entro un singolo testo. Abbastanza raramente un sonetto, una tragedia, un thriller, un documentario, una sit-com, un talk show, una fiction dichiarano al proprio interno d’esser tali. Più spesso sono altri testi che stanno loro intorno – i cosiddetti paratesti (Genette): trailer, interviste, critiche, opere di poetica, quarte di copertina ecc. – a indicare, a mo’ d’istruzioni per l’uso, il genere cui i primi appartengono. Dotato d’una realtà non empirica e immediata ma, per così dire, traslata, traduttiva, intertestuale, il genere è un’entità determinante nella costruzione e circolazione del senso umano e sociale. Non è un caso, allora, se anche la scienza della significazione abbia parecchio lavorato sulla questione, alternando riflessioni di carattere teorico e definitorio (Greimas e Courtés 1979) a indagini su singoli campi comunicativi come la pittura (Calabrese 1985), la letteratura (Segre 1979; Fontanille 1999), la televisione e i mass media (Bettetini, Fabbri e Wolf 1977; Casetti e Villa 1992; Grignaffini 2006), la filosofia (Fabbri e Marrone 1992), l’informazione (Marrone 1998a), le culture (Bauman 2001), il dominio della lingua (Rastier 2001). Sono così state individuate alcune problematiche di fondo e precise direttive per la ricerca. Innanzitutto, s’è posta la necessità di distinguere fra le teorie dei generi (esplicite o implicite in ogni epoca e società, fondate comunque su criteri spontanei e molto variabili) e una tipologia dei discorsi (fondata invece su criteri formali espliciti e coerenti). Ed è sorta l’esigenza di costituire sia classificazioni di generi appartenenti a un medesimo discorso (per esempio nella letteratura i generi letterari; nella filosofia i generi filosofici; nell’informazione i generi giornalistici ecc.); sia gerarchie all’interno di tali classi, distinguendo fra generi e sottogeneri (per esempio, entro la poesia, la lirica, 183

l’epica, l’esortativa ecc.; oppure, nella cronaca giornalistica, la politica, la giudiziaria, la nera ecc.); sia, più in generale, distinzioni fra tipi di discorso (per esempio pubblicitario, politico, scientifico, filosofico, letterario ecc.). Da cui, ovviamente, la questione dell’ibridazione – orizzontale o verticale, interna o esterna – fra queste diverse classi di testi, di generi, di discorsi, e dunque della de-generazione e della ri-generazione continua che ha luogo nella semiosfera: una dialettica per cui, se da una parte ogni testo si costituisce e si interpreta a partire da una classificazione generica precedente, d’altra parte esso ridefinisce il genere che lo ha posto in essere, lo degenera e lo rigenera al tempo stesso (Fabbri e Marrone 1994), dettando ogni volta le istruzioni per una sua possibile ricezione: il suo lettore modello (Eco 1979). Le classi di discorso sembrano così distinguersi l’una dall’altra a partire da principi di funzionamento di tutti i discorsi in un determinato periodo o cultura. Così, prima di distinguere fra discorso pubblicitario, politico e giornalistico, è possibile individuare le loro analogie formali di fondo basate – per Landowski (1989) – su una logica del contratto che si sostituisce a una precedente logica dell’acquisto. Oppure, prima di distinguere fra discorso scientifico, religioso ed estetico entro la nostra cultura, vale la pena di notare come essa si opponga, più in generale, a un modello intellettuale molto diverso come quello cinese, dove la differenza fra il sapienziale e lo scientifico, il letterario e il sacrale non passa dalla problematica – tutta occidentale – della verità e della falsità (Jullien 1995).

Nel nostro caso, tutto ciò è di fondamentale importanza. Il discorso di marca, infatti, si costituisce, per definizione, nel crinale fra diversi tipi di discorso, slittando progressivamente dal terreno dell’economia e del mercato a quello della cultura sociale, e portando al proprio interno forme e tematiche di altri discorsi: da quello politico a quello dello show business, da quello dell’etica a quello dello sport ecc. E vale l’inverso: in molti altri discorsi emerge e si impone quella che è stata chiamata la forma marca (Semprini 2006), ossia l’importazione di modi, modelli e temi tipici del discorso di marca. Inoltre, anche qui, per definizione, il discorso di marca si presenta come una continua rigenerazione, soppesata e allargata, di un altro discorso da cui pure deriva e che si staglia persistentemente nel suo sfondo, qual è quello pubblicitario. È allora passando da una discussione sui generi pubblicitari – e sul discorso pubblicitario in generale – che è possibile arrivare a una proposta, teorica e pratica al tempo stesso, di articolazione dei generi del discorso di marca. 184

Di solito si pensa alla pubblicità come a un tutto unico, la si declina quasi sempre al singolare, come se si trattasse di un tipo di discorso, e dunque di senso, unitario, del quale si può discutere se fa bene o male, se è buona o cattiva, se è morale o immorale e simili. Si distinguono così testi pubblicitari (annunci stampa o radiofonici, spot, cartellonistica...) da altri non pubblicitari (film, trasmissioni tv, servizi giornalistici ecc.), salvo poi accorgersi che è terribilmente facile, e frequente, passare dai primi ai secondi, in entrambe le direzioni dell’ibridazione. Quali sono i confini della pubblicità come genere discorsivo in sé? Una risposta definitiva a questa domanda non può che essere parziale e aprioristica, in quanto dovrebbe basarsi su criteri dati – obiettivi comunicativi, tematiche, estetiche ecc. – che sono invece in perenne trasformazione. L’idea di persuasione all’acquisto, per esempio, che per lungo tempo ha definito, implicitamente o esplicitamente, la pubblicità, è oggi fortemente problematica e riduttiva – anche e soprattutto grazie all’affermarsi del discorso di marca. Più utile allora lavorare sui bordi e analizzare se e come il discorso pubblicitario sfumi nel politico, nel giornalistico ecc. Landowski (1989) ha mostrato come, diversamente da quel che generalmente si sostiene, non sia tanto la politica a essere oggi influenzata da modelli pubblicitari (il cosiddetto marketing politico), quanto semmai il contrario: è l’esigenza di in-formare il pubblico, di dotarlo di un Destinante e di un relativo sistema di valori, dunque di un volere e di un dovere – tipica della politica – a investire in pieno la pubblicità, a farla diventare così non un banale catalogo di consigli per gli acquisti ma un vero e proprio punto di riferimento spirituale e culturale per individui singoli o interi gruppi sociali. Analogamente, a dispetto di questa pretesa unitarietà della pubblicità, si ha quanto meno la percezione che al suo interno ci siano realtà discorsive molto diverse, e che si debba dunque parlare delle pubblicità al plurale. Così, per esempio, se fino agli anni Sessanta in Italia i generi pubblicitari erano importati da altri campi di discorso come il teatro di varietà, la radio, il cinema e simili (si pensi a Carosello), dagli anni Settanta in poi la pubblicità si è imposta come macrogenere a sé, e dunque ha finito per produrre al proprio interno una serie di sottogeneri, differenziati fra loro, però, ancora intuitivamente. Di solito si distinguono, in modo più o meno spontaneo e immediato, una serie di presunti generi pubblicitari per canale o medium (affissioni, stampa, spot tv e cinematografici, annunci radiofonici, promozioni, mail, sponsorizzazioni, azioni nel punto vendita ecc.); oppure per referente (pubblicità di prodotti, servizi, marche, istituzionali, pubblicità progresso o sociale o d’idee, comunicazione politica ecc.). Recentemente Eugeni (1994) ha provato a impiegare un criterio formale ed esplicito, pensando ai diversi aspetti dominanti nella comunicazione pubblicitaria: il sintattico, il semantico e il pragmatico. La 185

pubblicità, secondo Eugeni, può insistere ora su uno ora su un altro di questi aspetti, di modo che la persuasione si appoggerebbe ora su questioni di espressione, ora di contenuto, ora di contatto col ricevente. (a) Vi sarebbe pertanto una pubblicità d’espressione, dove si trasferisce per metonimia il valore espressivo, esteticamente ipercurato, del testo pubblicitario sul prodotto di cui esso parla: se una pubblicità è bella, lo sarà anche il prodotto. (b) Altra cosa è la pubblicità di contenuto, che tende a collegare valori e prodotti. E si innescano racconti di produzione (per esempio dall’elemento naturale al prodotto surgelato), di uso (la casalinga che adopera prodotti di igiene per la casa), di desiderio (richieste di una merendina da parte di bambini alle mamme) o di attesa (di un’auto, di un caffè, di qualcuno...). (c) Altra cosa ancora è la pubblicità che instaura un qualche collegamento col ricevente, dove il consumatore viene interpellato, chiamato in causa per fondare un patto di fiducia. È il regno dei testimonial che mediano tra azienda e consumatore ricorrendo ad argomentazioni molto diverse. Questa classificazione, che ha il merito di dichiarare esplicitamente i propri criteri, peraltro formali e semiotici, ha comunque limiti oggettivi, poiché insiste sull’idea tradizionale di una persuasione pubblicitaria, proponendo altresì classi di testi spesso sovrapponibili: perché mai la cura estetica del testo pubblicitario dovrebbe fare a meno di veicolare contenuti e valori, nonché di entrare in collegamento con l’enunciatario? La maggior parte degli esempi riportati all’inizio di questo capitolo dimostrano il contrario: sintassi, semantica e pragmatica sono aspetti che inevitabilmente s’intrecciano nel discorso e nei testi che lo manifestano. Da qui l’esigenza di ricorrere a un altro criterio, grazie al quale i fenomeni comunicativi e quelli testuali si coniughino fra loro, un criterio dunque legato alle strategie di enunciazione.

È quel che indirettamente ha fatto Floch (1990, pp. 231-276 trad. it.), parlando di ‘ideologie’ della pubblicità, che possiamo ridefinire come veri e propri generi pubblicitari e – allargando la prospettiva – altrettanti diversi tipi del discorso di marca. A partire dall’analisi comparata dei discorsi tenuti da alcuni noti pubblicitari francesi (Séguéla, Ogilvy, Michel, Feldman) in merito al senso e agli obiettivi della loro attività, Floch elabora un’idea tanto semplice quanto radicale: non è possibile esprimere un giudizio (tecnico ma anche estetico o politico o etico) circa un qualsiasi prodotto pubblicitario se non a partire dalla ‘ideologia’ entro la quale esso è stato prodotto e ha circolato, ossia, appunto, a partire dal patto implicito che il suo enunciatore propone all’enunciatario circa i valori della comunicazione che è in gioco in quel momento, il senso di tale comunicazione, i suoi obiettivi strategici. Si elimina così il luogo comune secondo il quale la pubbli186

cità – tutta la pubblicità – sarebbe per definizione un tipo di comunicazione schietta, semplice e di immediata comprensibilità, una persuasione mascherata da informazione, indirizzata per principio a un pubblico il più ampio possibile. Ogni testo pubblicitario, sottolinea invece Floch, pone le proprie regole, il proprio contratto comunicativo, la propria filosofia del fare pubblicitario, sulla base dei quali, poi, potrà essere valutato, giudicato, criticato o lodato. Ci sono testi pubblicitari che mirano a una cattura rapida del pubblico e a una fruizione immediata del messaggio, e altri che lavorano in senso diametralmente opposto. Ci sono pubblicità che tendono a far sognare e altre che vogliono informare correttamente circa le proprietà di un bene o di un servizio. Differenze che dipendono, appunto, dal genere comunicativo assunto e perseguito. Il punto di partenza di Floch è la constatazione secondo la quale il discorso pubblicitario può vantare ora una funzione rappresentativa (il cui scopo è mettere in luce le proprietà intrinseche dell’oggetto pubblicizzato, sia esso un oggetto o un’idea, un valore o un servizio), ora una funzione costruttiva (dove invece l’oggetto in sé non ha alcuna importanza di principio, ed è il discorso a determinarne volta per volta l’essenza). Da una parte si tratta di una pubblicità che, più o meno indirettamente, fa propria una filosofia del linguaggio di tipo referenzialista, tale per cui il significato delle entità linguistiche dipende dalle realtà esterne cui esse rinviano. Dall’altra parte si tratta di una pubblicità che si nutre di una concezione del linguaggio di tipo strutturalista, per la quale i referenti esterni alla lingua non hanno alcun particolare ruolo nella determinazione dei significati veicolati dalla lingua stessa. Distinzione un po’ caricaturale, come lo stesso Floch non esita ad ammettere, che serve comunque a delineare la radicale opposizione fra chi, come David Ogilvy, pensa la pubblicità in quanto servizio informativo, magari arricchito di un po’ di sano divertimento, e chi al contrario, come Jacques Séguéla, pensa la pubblicità come fabbrica di sogni, serbatoio e rilancio di mitologie nel contemporaneo. Espandendo nel quadrato semiotico quest’opposizione di partenza, Floch ricava due ulteriori generi pubblicitari, che, convocando altri due ‘ideologi’ della pubblicità, specificano e arricchiscono il panorama generale delle possibilità enunciative: da una parte una radicalizzazione della referenzialità, che mira a esibire la sostanza intrinseca del prodotto (Jean Feldman); dall’altra una radicalizzazione della costruttività, che mette in primo piano la relazione con l’enunciatario a discapito d’ogni informazione circa l’ogget187

to pubblicizzato (Philippe Michel). Da qui le quattro ‘ideologie’ pubblicitarie: referenziale e mitica (contrarie), sostanziale e obliqua (subcontrarie), altrettanti modi di intendere, in fondo, la pubblicità stessa come una marca, con la conseguente esigenza di prender posizione rispetto ad altre analoghe marche nel mercato della comunicazione. Ognuno di questi generi pubblicitari corrisponde così ad altrettante marche pubblicitarie: (Ogilvy) referenziale

mitica (Séguéla)

(Feldman) sostanziale

obliqua (Michel)

La pubblicità referenziale, ricorda Floch, non è la pubblicità che mira a dire la verità sul prodotto, senza caricarlo di valori aggiunti eminentemente comunicativi, ma quella che intende presentarsi come tale al proprio enunciatario. Essa non rinvia all’oggetto o al bene come referenti assoluti, ma tiene un discorso nel quale essi vengono mostrati come tali grazie a una serie di procedure e di tecniche atte a far sembrar vero il contenuto dell’enunciato. Non si tratta necessariamente di una pubblicità che esibisce il prodotto come tale, al di fuori del contesto d’uso, ma che anzi lo inserisce in quei frammenti della normale vita quotidiana in cui esso può o deve acquistare tutto il suo senso. Viene così bandito tutto ciò che può essere percepito come eccessivo o straordinario, e vengono preferite situazioni realistiche, verosimili, magari divertenti, che l’enunciatario può riconoscere come proprie: di modo che l’oggetto pubblicizzato si rivela come qualcosa che fa ‘naturalmente’ parte del suo mondo di cose e di affetti. Questa esigenza di far sembrare vero il contenuto dell’enunciato si avvale di una serie di tecniche molto precise, come il ricorso a dimostrazioni e a descrizioni, magari iperboliche ma in ogni caso pertinenti, a miniracconti in cui viene messo alla prova quel che si dice, ad articolazioni temporali e causali molto semplici, nonché a una sistematica cancellazione d’ogni enfatico aggettivo o slogan. Il discorso referenziale, insomma, deve sembrare essersi fatto da solo, senza la mediazione di quell’apparato enunciativo che, se pure lo ha posto in essere, ha comunque ritenuto opportuno non farlo notare. Floch fa, tra gli altri, l’esempio di un annuncio per Super Glue, una colla istantanea molto potente le cui virtù sono dimostrate da un signore che, davanti al no188

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taio, si incolla i piedi al soffitto [fig. 21]. E cita poi, come ulteriore tecnica di questo genere di pubblicità, la creazione di referenti interni al testo, dove per esempio visual e body copy sono ben distinti fra loro, di modo che il primo viene usato come esemplificazione visiva del secondo. Come per esempio in un annuncio Alcatel, dove per dimostrare l’ampiezza del display di un telefonino si esibisce un essere dagli occhi eccessivamente ingranditi: un’evidente iperbole dimostrativa che, proiettando sul soggetto le proprietà dell’oggetto, ne certifica l’esistenza e la validità [fig. 22]. Altri esempi di pubblicità referenziale possono essere poi gli annunci Clinique [fig. 10] (dove, senza visualizzare il consumatore, si insiste sugli effetti benefici dell’uso pratico del prodotto da notte: «una buona crema notte si vede dal mattino») [...] ed Eucerin [fig. 11] (dove la crema viene usata, prima ancora che come riparatore, a mo’ di segnalatore del problema estetico nel viso della donna rappresentata). La negazione della pubblicità referenziale di Ogilvy è quella obliqua, che fa capo a Michel. Laddove la prima insisteva sulle performance del prodotto nella vita quotidiana, e coinvolgeva pertanto un consumatore dotato di un fare pragmatico (acquistare qualcosa, provarne la validità, inviare il tagliando allegato, partecipare a un concorso a premi...), quest’ultima sollecita invece nell’enunciatario un fare cognitivo, un qualche sforzo di tipo intellettuale per capire il senso dell’enunciato, se non addirittura per completarlo interattivamente. La pubblicità obliqua considera un valore il fatto di dover 189

soffermarsi su di essa per tentare di coglierne l’arguzia sottile e velata. È una pubblicità, per definizione, intelligente, o che come tale vuol far apparire il proprio enunciatario. Il suo ideatore, Philippe Michel, parla a questo proposito di ‘pensiero laterale’ per indicare un lavoro enunciativo volto a negare ogni immediatezza comunicativa, a cancellare l’uso di ogni possibile stereotipo, per mettere in gioco una specie di straniamento brechtiano del mondo, una prospettiva inusuale da cui guardare le cose. Questa negazione assoluta d’ogni referenzialismo positivista fa spesso ricorso all’arma dell’ironia, e Floch cita appunto l’esempio della campagna Black & White analizzata da Bertrand di cui s’è detto sopra [fig. 5]. Quando un annuncio rappresenta un tunnel con in fondo una via d’uscita accompagnato da un claim che dichiara: «Se tutta la pagina fosse nera, non ci sarebbe più speranza», sta chiedendo al proprio lettore un doppio sforzo interpretativo: innanzitutto costui deve saper cogliere la rottura della simmetria del bianco e del nero, valorizzando positivamente la loro convivenza; poi deve anche apprezzare l’ironia data dallo spostamento della rappresentazione figurativa del tunnel alla sua costruzione nello spazio materiale della pagina: il nero e il bianco non sono la parte scura della galleria contrapposta alla sua uscita ma, letteralmente, il nero e il bianco come colori, usati dall’annuncio in quanto componenti significanti della figura significata. Un perfetto caso di pensiero laterale, come lo è del resto un altro annuncio ricordato da Floch per le scarpe Buggy di Eram, dove un paio di scarpe da tennis sformate e consumate sono introdotte dal claim: «Paris-Amsterdam, aller et retour 30F.». La strizzata d’occhio è chiarissima: il prezzo è delle scarpe, non del biglietto del treno; ma l’accostamento insolito fra le due cose non è incongruo, in quanto rimanda allo stile di vita di chi quelle scarpe potrebbe calzare: non nella vita quotidiana (come avrebbe fatto un pubblicitario referenzialista) ma nel corso di un viaggio, poniamo, in autostop. Un altro esempio potrebbe essere quello di Nespresso con George Clooney [fig. 9], dove il lettore, per cogliere l’ammiccamento del testimonial, deve saper attivare una pista interpretativa alternativa di quel «what else?» che esuli dall’uso quotidiano della macchina per il caffè. Complementare all’obliqua, di cui infatti si serve, ma contraria alla referenziale, è la pubblicità mitica, il cui rappresentante per antonomasia convocato da Floch è Jacques Séguéla. In questo caso, lo scopo della comunicazione è quello di arricchire il prodotto, dotarlo di un valore aggiunto, di un’anima e di un senso che, in quanto ta190

le, esso può anche non avere. Si tratta, per certi versi, della tipica pubblicità enfatica, esagerata, stupefacente, che prova ad ammantare l’oggetto di cui parla di un alone di mistero e di fantasticheria, collocandolo in situazioni tutt’altro che abituali, normali, quotidiane. Laddove la pubblicità referenziale costruisce racconti in cui le proprietà presunte intrinseche del prodotto possono emergere in tutta la loro chiarezza, mostrando quindi appositi contesti d’uso, qui è esattamente il contrario: si tratta di raccontare storie che donano al prodotto un carattere che come tale esso non ha. L’esempio perfetto, secondo Séguéla e Floch, di questa strategia enunciativa è la saga Marlboro del pubblicitario americano Leo Burnett, dove la sigaretta acquista nel corso del racconto una serie di qualità che è l’avventura del cowboy a donarle, qualità legate dunque a uno stile di vita immaginario, da leggende del ‘vecchio Far West’, e non certo al prodotto in sé. Ma si pensi anche allo spot per Citroën BX dello stesso Séguéla, dove il tuffo a mare della macchina le conferisce, per traslazione rispetto a quello del suo guidatore, un carattere ludico e spensierato. In generale, la pubblicità mitica fa emergere un lavoro enunciativo volto ad accostare elementi incongrui, creando con questo contrasto un racconto o una situazione degni di nota, sorprendenti, e dunque efficaci: un aereo che decolla dagli Champs-Elysées, l’Uomo di Leonardo colorato con un arcobaleno, un’automobile che corre su una portaerei o, come s’è visto sopra con l’annuncio Sony Ericsson [fig. 14], una teoria di telefonini di sbieco che si specchiano nello sfondo nero della pagina (a significare il valore della ‘perfezione’). Un annuncio Omnitel di alcuni anni fa con Karl Marx [fig. 23] che, per render conto di una speciale tariffa per aziende, ostenta il saluto comunista con il telefonino in mano (claim: «La parola a chi lavora») è un ottimo esempio di questo genere di pubblicità. Per non parlare della celebre campagna per Müller «Fate l’amore con il sapore» [fig. 24], dove lo yogurt acquista carattere grazie alle atmosfere fantastiche e sognanti nelle quali è inserito il suo consumatore. Infine, la pubblicità sostanziale, complementare alla referenziale e negazione della mitica, il cui ideologo ufficiale è Jean Feldman, non a caso fra i più fervidi critici del lavoro su marche e star system portato avanti da Séguéla. Lo scopo di questo genere enunciativo, in linea di principio, è quello di far emergere l’essenzialità del prodotto, le sue qualità, appunto, sostanziali, e non, come nel caso del genere referenziale, il suo contesto di uso o di produzione. Così, non si tratterà di mostrare l’«arte del vero birraio» ma la pastosità e il vivace 191

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color rosso della bevanda; non il complesso atto di confezionamento della pasta ma la freschezza delle uova e la bontà della farina che ne sono gli ingredienti di base; non il glamour nel consumo del whisky ma, come per Label 5, il suo invecchiamento in botte per cinque anni dal quale deriva – oltre al nome – il sapore forte e intenso. Da qui un atto creativo concepito come ‘depurazione’ da ogni orpello inutile e supplementare, sistematico prosciugamento di qualsiasi fantasticheria che esuli dalla realtà più intima del prodotto. Realtà che non è in senso stretto soltanto la sua materialità, come nel caso dei prodotti alimentari sin qui citati, ma anche la sinuosità della sua forma, come per la spugna Spontex che, in un certo spot, diviene oggetto erotico, date le curve e la consistenza, per due simpatici carcerati lavapiatti. In questo senso, la strategia d’enunciazione della pubblicità sostanziale non è affatto, come per la referenziale, di tipo positivista. Non si tratta di mostrare fatti e oggetti ma sostanze e stati di cose, dettagli eidetici talvolta, ma sempre a partire da uno sguardo ravvicinato sulla realtà, quasi tattile, che ne fa emergere le qualità sensibili. Spesso spariscono gli oggetti, poniamo una fetta biscottata o un maglione, viene meno la forma canonica per la quale essi vengono riconosciuti come figure del mondo, per far percepire meglio 192

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– ossia più da vicino – la friabilità della pasta o la trama della lana. Ora il biscotto al burro è fortemente ingrandito in un cartellone pubblicitario, al punto che l’enunciatore, entrandovi quasi dentro, perde i contorni dell’oggetto (Biscotti Lu [fig. 25]). Ora il supporto della pagina prende l’oggetto di scorcio, cancellando la sua forma tradizionale e permettendo la percezione delle diverse materie delle quali è composto (come in un annuncio Panasonic, dove a emergere è il contrasto fra le parti plastiche e quelle metalliche dell’oggetto [fig. 26]). Ma si pensi anche alla geniale soluzione di Alviero Martini, che per mostrare il materiale plastico e trasparente di una borsa, la pone davanti al corpo nudo di una modella, il cui colore della pelle ricorda, fra l’altro, il canonico colore della marca [fig. 28]. O a quella di Perlana, che, per esibire l’esito tattile e cromatico del detersivo, ingrandisce enormemente un capo di lana del quale si percepiscono soltanto il nero cupo e la trama del tessuto [fig. 27]. E anche gli annunci per Prada [fig. 6] e Baileys [fig. 7] sopra riportati possono essere facilmente collocati in questa categoria di pubblicità: materie plastiche e metalliche di cui son fatti gli occhiali, nel primo caso; viscosità e calore del liquido liquoroso a contatto col ghiaccio, nel secondo caso. Così, la pubblicità sostanziale è in modo evidente del tutto contraria a quella obliqua. Laddove quest’ultima convoca un fare cognitivo dell’enunciatario, uno sforzo interpretativo per capire o completare il senso dell’enunciato, la prima mette in moto invece un evento estetico che sollecita lo spettatore in tutt’altro modo. Qui è la sostanzialità del mondo che prende il sopravvento, che s’avvicina forzatamente allo 193

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spettatore facendogli perdere, per un momento, le coordinate cognitive, la ‘griglia di lettura’ canonica, figurativa, culturale delle cose. Gli offre un altro modo di percepire il mondo, senza schemi culturali precostituiti, basato sulle qualità sensibili – visive e tattili in primo luogo, ma in generale sensoriali e somatiche –, e dunque su quella pellicola estesica, estetica in senso etimologico, che media ogni relazione fra il soggetto e il mondo o, meglio, fra il corpo e le cose. È la definizione più propria dell’esperienza estetica (Greimas 1987): il soggetto vacilla dinnanzi all’insistente prorompere delle materie (consistenza, porosità, fragilità, calore, ruvidezza...), diviene oggetto per un mondo che s’è fatto soggetto; salvo poi sorprendentemente recuperare, a cose fatte, il controllo cognitivo di una realtà nuovamente intellettualizzata («ah, era un biscotto!», «guarda un po’, si trattava di un telefonino!»). Volendo tirare le somme da questa catalogazione proposta da Floch, occorre ricordare che si tratta, come per tutti gli schemi, di una prima indicazione circa tendenze generali. Essa dunque, non appena viene accostata alla concretezza della pratica comunicativa e dei singoli testi, sembra dar luogo a qualche forzatura. Esige pertanto alcune precisazioni, specificazioni e correzioni. Così, per esempio, l’annuncio Perlana [fig. 27] potrebbe in qualche misura essere 194

rubricato fra la pubblicità referenziale: ciò di cui si vede la sostanza, infatti, non è il prodotto in sé, ma l’oggetto su cui esso agisce, il capo di lana; del prodotto dunque, in senso stretto, si mostra l’esito euforico del suo uso pratico. Può senz’altro accadere che in un medesimo annuncio – come già s’è visto a proposito del quadrato delle cosiddette assiologie del consumo [§ 3.6] – sia presente più d’un regime comunicativo. Di modo che, per catalogarlo, occorre rilevare quello fra essi che più chiaramente domina sugli altri (in Müller [fig. 24], per esempio, è senz’altro presente anche un aspetto sostanziale). Ma occorre soprattutto ricordare come queste quattro categorie, costruite da Floch in stretta relazione reciproca fra loro, non riguardino tanto i contenuti enunciati, e dunque i prodotti, quanto le strategie enunciative. Quel che conta allora, per determinare la collocazione di un singolo testo pubblicitario nello schema proposto dal semiologo francese, non è tanto l’eventuale fuoco sul prodotto ma la modalità comunicativa adottata, e dunque i rispettivi ruoli dell’enunciatore e dell’enunciatario, nonché le dimensioni discorsive che vengono sollecitate. Quel che infatti conta nell’annuncio Perlana non è il fatto che mostri le conseguenze di una performance (questione d’enunciato narrativo), ma che solleciti la dimensione estetico-estesica, che riavvicini sino all’inverosimile soggetto percipiente e oggetto percepito sino a invertire i loro ruoli sintattici: il nero della trama della lana prende il sopravvento, s’impone agli occhi dello spettatore, risucchiandolo dentro l’annuncio. Per questa ragione, l’abbiamo collocato fra le pubblicità sostanziali. Da qui una seconda precisazione. Non bisogna sovrapporre il quadrato delle assiologie del consumo a quello delle ‘ideologie’ della pubblicità. Dato che sono stati esposti da Floch nel medesimo libro, a poche pagine di distanza l’uno dall’altro, diversi studiosi li hanno intesi come un medesimo modello e li hanno schiacciati l’uno sull’altro, provocando una certa confusione. È abbastanza evidente, difatti, che il primo riguarda l’enunciato narrativo mentre il secondo le strategie enunciative (Floch 1990, pp. 254 trad. it.). Se può accadere, in modo abbastanza prevedibile, che una valorizzazione pratica venga resa mediante una pubblicità referenziale, o una valorizzazione ludica da una pubblicità obliqua, ciò non implica alcun automatismo. Una valorizzazione critica può essere enunciata in modo obliquo (com’è il caso delle scarpe Eram), e una pratica in modo sostanziale (Perlana), una ludica in modo mitico (Müller), una critica in modo mitico (Omnitel), una utopica in modo obliquo (Nespres195

so) e così via. La combinatoria è molto ampia, ed è interessante semmai osservare il modo in cui i due livelli, all’interno di ogni singolo testo, si mettono volta per volta in relazione fra loro, dando luogo a soluzioni comunicative più o meno originali, più o meno standardizzate. La valutazione dell’efficienza e dell’efficacia della pubblicità, come s’è detto, va fatta a partire dalle scelte comunicative che essa fa a monte, stipulando precisi patti comunicativi fra enunciatore ed enunciatario. Una terza precisazione riguarda il fatto che questi generi pubblicitari hanno valore formale e non devono pertanto essere intesi come diverse strategie di comunicazione da adottare a seconda dei referenti a cui l’enunciato rinvia. La loro esistenza e il loro funzionamento sono assolutamente indipendenti dalla natura dei prodotti o dei servizi, e dunque dalle classi merceologiche nelle quali tali prodotti o servizi vengono tradizionalmente inseriti (Floch 1990, p. 256 trad. it.). Come s’è visto dagli esempi, la pubblicità sostanziale sembra a prima vista avere a che fare con paste e biscotti, le cui sostanze hanno senz’altro un grosso peso al momento della comunicazione, ma coinvolge anche telefonini, maglioni, borse, occhiali e quant’altro. Analogamente, la strategia obliqua può riguardare indifferentemente whisky, macchinette per il caffè o scarpe da tennis, così come la mitica coinvolge yogurt, telefonini o automobili. La tavola dei generi pubblicitari proposta da Floch è da intendere allora come una mappa di possibilità che trascende, e al tempo stesso risucchia al proprio interno, il mondo a cui pure ogni comunicazione concreta non può non riferirsi. Così, ricorda Floch, i due generi di sinistra (referenziale e sostanziale) hanno più a che vedere con la materialità, mentre i due sulla destra con l’immaterialità; ma ciò non significa, come alcuni hanno ritenuto, che i primi rispecchino il modo anglosassone di far pubblicità (tradizionalmente più legato ai fatti), mentre i secondi il modo francese (convenzionalmente più interessato ai concetti). E non significa nemmeno che i primi siano stati adottati dalla pubblicità degli anni Settanta e Ottanta, mentre i secondi da quella dai Novanta in poi. Se insomma è possibile usare il quadrato delle ‘ideologie’ pubblicitarie per ragionare sulle differenze storiche e culturali fra modi di pensare e praticare la comunicazione pubblicitaria, non vale il contrario, poiché tali esperienze storiche non esauriscono la mappa di virtualità comunicative che esso prevede. L’aspetto per noi più importante, in questa sede, è però un altro. Se pure referenziale e sostanziale hanno a che vedere con la mate196

rialità, mentre mitica e obliqua con l’immaterialità, ciò non significa affatto, ribadisce Floch, che i primi due generi siano legati a una pubblicità di prodotto e i secondi a una pubblicità di marca. Così potrebbe sembrare a un primo momento, dato peraltro che l’esponente di spicco della pubblicità mitica è Séguéla, noto e affermato teorico dell’edificazione pubblicitaria della marca come star (cfr. Séguéla 1982). Ma nulla vieta che le marche possano usare, come del resto spesso fanno, una strategia comunicativa di tipo referenziale o di tipo sostanziale. Anzi, ricorda Floch citando il noto volume curato da Kapferer e Thoenig (1989), molto spesso le marche vengono addirittura teorizzate e gestite – opponendosi diametralmente a Séguéla – in senso referenziale, ossia come strumenti pratici per incrementare il valore del prodotto, per spingere vigorosamente in avanti le innovazioni tecnologiche sul prodotto stesso, oppure per adeguarsi tatticamente ai gusti dei consumatori. Insomma, esistono marche referenziali e marche mitiche, marche sostanziali e marche oblique: sia nel senso dell’‘ideologia’ che le pone in essere sia in quello delle strategie comunicative – pubblicitarie e no – da esse adottate per portare avanti il loro discorso. 4.3.4. Generi di marca Possiamo così allargare il ragionamento di Floch e pensare non più a ideologie pubblicitarie ma a veri e propri generi del discorso di marca. Per farlo, dobbiamo però compiere due mosse teoriche preliminari. Innanzitutto, occorre distinguere due aspetti fondamentali – i generi e gli stili – che nella trattazione di Floch vengono spesso sovrapposti. Una cosa sono le strategie comunicative adottate da una certa pubblicità, un’altra gli stili adoperati da un singolo pubblicitario. Se le due cose possono coincidere, è sempre nel senso che le prime contengono i secondi come i generi, logicamente, contengono le specie. Il fatto che in alcuni casi queste diverse strategie siano state teorizzate, e praticate, da precisi esponenti della pubblicità, che ne hanno fatto il loro stile, non vuol dire che esse si esauriscano nel loro lavoro. Vuol dire semmai che, all’interno di ciascuna strategia (genere), ogni pubblicitario si crea il proprio stile (specie). Leo Burnett e Jacques Séguéla, entrambi partigiani della pubblicità mitica, non hanno lo stesso stile. Un’altra cosa ancora, poi, è lo stile di marca, anch’esso specie dentro un genere, ma di tutt’altra natura rispetto a quello del singolo pubblicitario. Può accadere che una certa marca 197

faccia proprio lo stile di un certo pubblicitario (si pensi al lungo rapporto Benetton-Toscani), senza che questo debba diventare, in teoria e in pratica, la norma. La seconda mossa teorica, più importante, è quella di verificare se questi generi pubblicitari possano essere usati per classificare anche gli altri elementi del mix di marca come i punti vendita, i prezzi, le sponsorizzazioni ecc., in modo da attualizzare l’ipotesi che un intero discorso di marca – se coerente nelle sue varie manifestazioni – adotti un medesimo genere enunciativo. E indubbiamente, come si vedrà meglio nel prossimo capitolo, ciò è in linea di principio, e di fatto, possibile. La dimensione enunciativa, infatti, non è presente soltanto nella lingua e nella comunicazione ma, come sappiamo, in qualsiasi fenomeno semiotico: un’immagine, un luogo, un comportamento, un gesto... Lo stesso Floch (1985), del resto, prima che per distinguere generi pubblicitari, ha adoperato questo quadrato per differenziare generi fotografici. Così, è possibile distinguere logo obliqui e logo referenziali, logo sostanziali e logo mitici (cfr. Agnello 2003, 2004; Agnello e Marrone 2007). I logo referenziali tendono a costruire un effetto di senso realistico relativamente alla marca, ora perché si limitano a presentarne il nome, con eventuali connotazioni affidate al carattere tipografico adoperato (Armani), ora inserendo una figuratività che riguarda direttamente l’universo produttivo o quello del consumo (Trenitalia). I logo mitici sarebbero a loro volta quelli che convocano una serie di icone dell’immaginario, mediatico e non, che arricchiscono dall’esterno il capitale simbolico della marca (McDonald’s, Starbucks, Puma). Molti logo sono invece obliqui perché, presentando figure essenziali o segni astratti, chiedono all’enunciatario un lavoro interpretativo che completi il loro senso, instaurando così fra marca e consumatore una relazione di intima complicità (Nike, Renault, Asics). Più rari i logo sostanziali, atti a sollecitare nell’enunciatario una qualche esperienza sensoriale, ora legata all’atto del consumo ora prodotta direttamente dal marchio (Burger King, Michel Bras). Analogamente, è possibile riflettere sul modo in cui queste strategie enunciative sono inscritte nel packaging (Bucchetti 2005; Ventura 2007). Un pack referenziale, senz’ombra di dubbio, è quello in cui il prodotto vi è rappresentato con fotografie sedicenti realistiche (la scatola di un televisore con l’immagine fotografica dello stesso) oppure viene mostrato in un preciso contesto d’uso (la confezione 198

logo referenziali

logo mitici

logo sostanziali

logo obliqui

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di uno sbattitore da cucina che fornisce vere e proprie istruzioni per il montaggio, l’utilizzo e la pulitura dell’elettrodomestico: cfr. Marrone e Mangano 2002). Di conseguenza, il packaging mitico è quello che mette in mostra l’essere della marca e la dimensione passionale che essa coinvolge (le confezioni con la sola griffe, quelle che convocano un immaginario che trascende l’universo commerciale), il packaging obliquo convoca le competenze interpretative dell’enunciatario (confezioni che apparentemente contengono tutt’altre cose) e il packaging sostanziale magnifica la materialità del prodotto (confezioni trasparenti che permettono di guardare all’interno). Così, per esempio, è referenziale la confezione di Risotto Pronto Gallo, dove questa strategia enunciativa è data anche dal rapporto tra immagine e testi scritti che nominano le cose e ne definiscono le caratteristiche, stabilendo un rapporto quasi indicale con il prodotto [fig. 29]; è sostanziale la bottiglia del Fragolì Toschi, con le fragoline in vista, il rosso intenso del liquido e il vetro leggermente satinato per dare l’effetto pastoso [fig. 31]; è mitico l’imballaggio in alluminio o plastica delle magliette polo Lacoste chiamate infatti «techno-polo» o «eco-polo» [fig. 30]; ed è obliqua la confezione di gioielli quadrati in stile orientale Clizia che mima le scatole per takeaway di sushi [fig. 32]. Possiamo fare un ragionamento simile per il design dei prodotti, elemento che, come sappiamo [§ 3.4.3], contribuisce in modo fondamentale alla costruzione dei valori e dell’immagine di marca. Ci sono design di tipo referenziale e mitico, altri di tipo sostanziale e obliquo, dove le diverse strategie enunciative, in questo caso, hanno a che vedere con il modo in cui un certo oggetto con la sua forma definisce una specifica attività. Nel caso delle sedute, per esempio, possiamo considerare referenziale una sedia semplice, essenziale, che nasconde il suo progetto dietro una forma che riprende la tradizione. Il progetto referenziale passa inosservato, come può accadere a uno dei tipici prodotti di Ikea, la Stefan [fig. 33]. Obliquo non può che essere allora un prodotto che si allontana da questa tradizione obbligandoci non soltanto a vedere in una forma insolita una funzione che conosciamo, ma spesso anche a cambiare il nostro modo di fare. In questa direzione va la celebre Sacco prodotta da Zanotta e disegnata da Gatti, Paolini e Teodoro, le cui particolarità d’uso sono passate alla storia grazie ai film con Paolo Villaggio [fig. 35]. Da una seduta mitica dobbiamo invece aspettarci non soltanto una forma particolare ma anche un fascino unico in grado di suscitare fer200

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packaging referenziale packaging mitico

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packaging sostanziale

packaging obliquo

venti passioni, come accade nel caso della chaise longue Lockheed Lounge disegnata da Marc Newson il cui prototipo, non a caso, è stato venduto all’asta per una cifra stratosferica, diventando un emblema per il recente fenomeno della Design Art [fig. 34]. Infine, sono sostanziali quelle sedute ultratecnologiche che offrono infinite possibilità di regolazione e dunque di adattamento a un corpo presupposto dato. Emblematica è in questo senso la Pro disegnata da Alberto Meda per Vitra [fig. 36]. Analoghe osservazioni potremmo fare per i punti vendita: anch’essi possono essere distinti in referenziali (quando il negoziomarca propone al consumatore di entrare in contatto e mettere alla 201

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design mitico

design referenziale

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design sostanziale

design obliquo

prova in loco ciò che espone: Mercedes-Benz Spot, Zara); mitici (quando l’ambiente ammanta di sé ciò che espone sin quasi a porlo in secondo piano: si pensi alle Nike Tower); obliqui (quando un punto vendita induce il frequentatore a domandarsi dove si trovi, come nei Diesel Store); sostanziali (dove non si offrono cose ma un’intera esperienza sensoriale che va oltre la stessa idea del servizio al cliente, per esempio Sephora o Ralph Lauren). E in termini simili possiamo ragionare per le sponsorizzazioni. Una marca, generalmente, tende a sponsorizzare eventi di vario tipo (sportivi, musicali, televisivi, culturali) se in qualche modo questi eventi si fanno promotori di valori e temi a essa congeniali, o quanto meno non conflittuali. È accaduto che 202

certe trasmissioni televisive – per esempio alcuni reality o certi documentari sedicenti veritieri – spesso sottendessero valori contrastanti con i loro sponsor, i quali infatti, accorgendosene, hanno immediatamente ritirato il loro supporto economico e il loro nome dai titoli di testa. Detto ciò, le sponsorizzazioni di marca possono essere referenziali, se i valori dell’evento non fanno altro che ribadire quelli della marca (Gatorade e gli eventi sportivi; Alessi e Vinitaly); oppure mitiche, se al contrario l’evento rafforza, amplia o addirittura fonda i valori della marca (Red Bull e gli sport estremi); possono essere oblique, quando in apparenza c’è estraneità fra marca ed evento, e spetta al consumatore operare il collegamento cognitivo (Marlboro e il Grand Prix; Banca Intesa e le grandi mostre d’arte); o sostanziali, quando l’evento praticamente coincide con l’universo di marca (Dimensione Danza e La Scala). Non diverso è il discorso per le promozioni inserite, per esempio, nei programmi televisivi: una marca di dadi da brodo che fa promozione in una trasmissione di cucina per famiglie lavora in senso referenziale (Maggi e La prova del cuoco); una marca generalista di telefonia mobile che promuove le proprie offerte in una trasmissione satirica intende stringere rapporti con il target di quest’ultima, e dunque lavora in senso mitico (Vodafone e Striscia la notizia). Infine, i testimonial: anch’essi possono essere suddivisi in referenziali, quando il leader dell’azienda-marca se ne fa esso stesso promotore e testimone (Giovanni Rana per Rana); mitici, quando il personaggio celebre del mondo dello spettacolo o della musica dona i propri sistemi di valori e stili di vita alla marca (Woody Allen per Coop); sostanziali, quando l’identificazione reciproca è tale da poter esserci interscambio (Michael Jordan per Nike); obliqui, quando è richiesto all’enunciatario uno sforzo interpretativo per giustificare l’uso di quel personaggio e delle sue trasformazioni come testimonial per quella marca specifica (Kevin Costner per Valleverde; Patrizio Roversi e Syusy Blady per Dash). Possiamo allora concludere il ragionamento proponendo, a mo’ di ipotesi da verificare, un modello per articolare reciprocamente i generi del discorso di marca, riadattando e allargando quello proposto da Floch per i generi pubblicitari. I criteri che possiamo incrociare per ottenere il modello saranno, in primo luogo, il grado di soggettivazione e di oggettivazione presente nella relazione fra enunciato ed enunciazione (di cui s’è parlato all’inizio di questo paragrafo, e che in Floch restavano per lo più impliciti) e, secondariamente, la dimensione discorsiva – pragmatica, passionale, cognitiva 203

o estetica – maggiormente sollecitata nell’atto comunicativo (accennata talvolta da Floch fra le righe, ma di sicura centralità). Ne deriva pertanto lo schema:

dimensione pragmatica tendenza oggettivante marca referenziale

dimensione passionale tendenza soggettivante marca mitica

marca sostanziale tendenza non-soggettivante dimensione estetica

marca obliqua tendenza non-oggettivante dimensione cognitiva

Riassumendo. Il discorso di una marca referenziale tende a produrre effetti di oggettività, in modo da far emergere un universo fatto di cose concrete, di pratiche effettive, di verifiche sul campo, di programmi d’azione. I valori messi in gioco da questo genere di marca saranno dunque più che altro pragmatici; e la forma di vita da esso convocata sarà indirizzata verso la concretezza, la posizione e soluzione di problemi quotidiani, la capacità di saper affrontare le situazioni che la vita giorno per giorno ci presenta. Il discorso di una marca mitica tende, invece, a produrre un effetto di soggettività, in modo da far emergere tutto un intenso universo di intimi affetti e conclamati sentimenti, in un arco passionale molto ampio che va dalle relazioni familiari e amorose ai grandi entusiasmi collettivi per i miti mediatici e politici, dall’indeterminato ‘nonso-che’ minimalista all’adesione ossessiva a ideologie forti e totalizzanti. Da qui una forma di vita appassionata e appassionante, programmaticamente sganciata dalle logiche prosaiche del quotidiano e indirizzata invece verso il sogno e la fantasticheria, il ‘colpo di testa’, il viaggio poetico verso l’esotico, l’altro, l’ignoto. Nega tutto ciò la marca sostanziale, le cui esperienze non sono per nulla oniriche o immaginarie ma, viceversa, fisiche, sensoriali, corporee. Questo genere di marca contraddice ogni forma di soggettività individuale o collettiva per rifugiarsi nel mondo prepersonale, frammentario, parziale del corpo, dove l’erotismo e la sessualità sono generalmente intesi come la forma più banale dell’esperienza somatica. A dominare è allora la vasta, intera gamma della sensorialità, che si 204

erge a forma di conoscenza ancestrale o aurorale del mondo; un mondo costituito da consistenze e colori, odori e sapori, materie e sonorità d’ogni tipo. A mettere in gioco la mente e le sue ingegnose capacità intellettive è invece la marca obliqua, che propone un mondo che è assoluta negazione di ogni praticità e concretezza, pensiero puro che si bea della propria intelligenza, che gode dell’arguzia logica e matematizzante, dell’enigma da risolvere, del mistero da sciogliere, dell’investigazione da compiere. È il regno degli ingegneri e dei tecnici, di coloro i quali si divertono a piegare la vita pratica alle loro esigenze cerebrali, ostinandosi a migliorarla in un senso che è logico per definizione aprioristica, arrivando così a sfiorare il crinale molto sottile che lega la logica pura al delirio immaginativo, il matematico al poeta e al sognatore. Due ulteriori osservazioni per concludere. Innanzitutto, come s’è mostrato nella prima parte di questo paragrafo, è evidente che le tendenze soggettivante e oggettivante sono, appunto, tendenze, dunque da intendere come poli estremi di un continuum nel quale i termini subcontrari – non-oggettivante e non-soggettivante – indicano i punti intermedi, convenzionali e quindi negoziabili volta per volta, a seconda delle concrete manifestazioni testuali. Per rendere visibile questa continuità e rendere conto del fenomeno tendenziale, lo schema, a essere puntigliosi, potrebbe dunque essere ridisegnato, come propone Landowski (2006), non nei termini di un incrocio (che segnala discontinuità) ma sotto forma di una specie di segno dell’infinito, di modo che i poli estremi fungono soltanto da punti qualsiasi in un flusso unico, senza, appunto, soluzione di continuità. Le perdite sarebbero però superiori ai guadagni: le relazioni (contrarietà, contraddizione, complementarità) e le operazioni (negazione, affermazione) non sarebbero possibili, e ritorneremmo così, invertendo il percorso ermeneutico proposto da Floch (1990, 1995, 2006), da una rigorosa puntualizzazione delle articolazioni a un’intuitiva percezione delle differenze. È meglio mantenere il modello del quadrato, ricordando semmai che, come tutti i modelli scientifici, esso è una rappresentazione visiva convenzionale – arbitraria, dunque, ma con la consapevolezza di esserlo – volta ad aumentare l’intelligibilità di ciò che è chiamato a spiegare (e comprendere), a incrementare la conoscenza del mondo umano e sociale, giudicabile unicamente per la sua efficacia descrittiva, in attesa di modelli a maglie più fini che possano felicemente rimpiazzarlo. La seconda osservazione è in parte analoga. Le quattro dimensioni della discorsività – pragmatica, cognitiva, passionale, estetica – in linea di principio sono sempre tutte presenti entro un determinato discorso e un 205

determinato testo: non esistono testi passionali senza una certa dose di cognizione o d’azione o d’estesia; non esistono testi estetici senza passione o cognizione o azione; e così via. Opporle fra loro in modo esclusivo potrebbe sembrare pertanto incongruo. Va ribadito però che, se pure tutte e quattro queste dimensioni sono pressoché sempre presenti in un testo, non lo sono allo stesso modo. Come le celebri funzioni comunicative di Jakobson (1958), in ogni testo si forma una specie di scala gerarchica dove ognuna di queste dimensioni trova posto in un certo preciso gradino, ora predominando sulle altre, ora ponendosi in posizione subalterna. In un testo filosofico prevarrà la dimensione cognitiva, ma anche le altre saranno con peso diseguale presenti. In un testo poetico prevarrà la dimensione estetica, ma le altre saranno a loro modo attive. E così via. Cosa che, come ricorda Lotman (1985), vale anche per ogni singola cultura, che si distingue da altre culture proprio sulla base dei discorsi che pone in posizione dominante e di quelli che colloca in posizione subordinata. Insomma, un po’ come la questione della soggettivazione/oggettivazione, si tratta di tendenze generali. Quando si afferma che la pubblicità mitica sollecita la dimensione passionale o che la referenziale sollecita quella pragmatica, o via dicendo, si vuol semplicemente affermare che in quel contesto esse sono dominanti, non esclusive. Sarà utile allora osservare come, volta per volta, il discorso di marca costituisca queste gerarchie e le faccia giocare al suo interno in funzione dei suoi specifici obiettivi comunicativi. Anche se l’enunciatario potrà trasformarle, reinterpretando un discorso passionale sotto forma più cognitiva, uno estetico sotto forma anche pragmatica ecc., secondo tutte le combinazioni possibili offerte dallo schema. Insomma, sappiamo perfettamente che nella realtà le cose sono più complesse che nella modellizzazione offerta dall’analisi scientifica, la quale per forza di cose semplifica e generalizza. Ciò non significa che dobbiamo abbandonare i modelli scientifici, ma semmai che dobbiamo perfezionarli. Agitare lo spettro della continuità è utile se serve a incrementare la potenza euristica dei modelli. Se è fine a se stesso, riporta l’analisi semiotica alla sua fase preistorica, dove, come l’infinito romantico di Schelling, tutti i segni appaiono neri nella notte della parole.

4.3.5. Emergere dello stile, morte dell’autore La questione dello stile è implicita in quanto s’è detto sinora a proposito dei generi: ne è la specificazione. Laddove i generi forniscono modelli formali di comunicazione socialmente condivisi, adottati per lo più e riconosciuti come tali dal pubblico, gli stili sono modi individuali di impiegare i generi, procedure comunicativo-espressive di un singolo soggetto, il quale, proprio per questo, diviene ta206

le, si crea cioè un’identità e una riconoscibilità in quanto enunciatore. Lo stile comunicativo è l’insieme dei tratti espressivi e delle tematiche tipiche di un’istanza enunciante che, distinguendosi da quello di altri enunciatori, ha come effetto di senso la costruzione della sua identità soggettiva (Marrone 1998a). In questo senso, lo stile non si limita a far proprio un genere: per costituirsi deve ridirlo a suo modo, modificarlo e rigenerarlo, in attesa che possa col tempo essere accettato, adottato da altri enunciatori, divenendo genere a tutti gli effetti. Se il genere precede logicamente lo stile, per altri versi lo segue anche, in quella felice dialettica senza origine né conclusione che caratterizza il mondo delle arti e della comunicazione, della cultura sociale. Lo stile è una nozione al tempo stesso immediatamente intuitiva ed estremamente complessa. Concetto evidente nell’opinione comune, alla stregua del tempo per Agostino o dell’arte per Croce («tutti sanno cos’è!»), esso è stato oggetto di molteplici interpretazioni, traghettando dai domini tradizionali della retorica, della poetica e dell’estetica a quelli più tecnici della linguistica e della semiotica, senza comunque trovare una definizione realmente condivisa (cfr. per esempio Barthes 1984, pp. 125-133 trad. it.; Fontanille 1999, pp. 189-221; Rastier 2001, pp. 249-279 trad. it.). In generale, lo stile è stato inteso secondo due grandi criteri, spesso articolati o mescolati fra loro. In primo luogo, è stato concepito come una forma sensibile che si sovrappone a un contenuto ideale dato, come un significante che si giustappone a un significato preesistente, laddove queste sovrapposizioni o giustapposizioni possono essere ora imperfette e posticce, decorative e tendenzialmente superflue, ora invece ben compiute, appropriate, ‘corrette’, di modo che i due piani del linguaggio finiscono per rafforzarsi l’uno con l’altro apparendo come un’unica cosa. In secondo luogo, lo stile è stato pensato come la deviazione espressiva individuale rispetto a una norma linguistico-comunicativa collettiva e trascendente, come l’instaurarsi di un idioletto, sorta di paradossale lingua privata comprensibile soltanto a pochi eletti, in una specie di congenialità spirituale che, unendo fortemente e misteriosamente autore e lettore, al tempo stesso li separa dalla quotidianità, li isola dal normale svolgersi della congerie sociale. Non a caso, se in certe società è il poeta ad avere uno stile, in altre è lo sciamano, in altre ancora il folle: quel che resta comune è l’idea di un’anomalia verbale, di una trasgressione rispetto a una regola linguistica ma anche, più o meno implicitamente, sociale, politica. Lo stile così, secondo entrambi i criteri, si lega alla nozione di espressività, di esteriorizzazione di una sensibilità tanto forte in sé quanto fuori dal comune, di un mondo di affetti individua207

li che cozzano, proprio a causa della loro intensità, con la prosaicità dell’istituzione sociale e della vita d’ogni giorno. Oggi entrambi questi criteri sono considerati insufficienti per render conto dei fenomeni di stile, i quali investono del resto non solo l’arte e la letteratura, la poesia o la religione, ma anche e soprattutto la lingua e la comunicazione quotidiane. Le basi teoriche più o meno implicite su cui tali criteri si basano non sono infatti ritenute valide. Innanzitutto, l’opposizione forma/contenuto, come è noto, non ha più corso, in quanto si scioglie in quella espressione/contenuto, da un lato, e forma/sostanza dall’altro, le quali esistono in quanto tali solo per la presupposizione reciproca che lega i due membri di cui sono rispettivamente composte (Hjelmslev 1943). In secondo luogo, l’opposizione fra una lingua supposta comune (o una comunicazione supposta normale) e un’altra invece individuale data per calcolata deviazione della prima non ha alcun senso. Non esistono parlate ‘normali’ e parlate ‘speciali’ ma una serie di forme discorsive più o meno diffuse, più o meno intime, con una relativa autonomia l’una con l’altra, e con costanti relazioni di conflitto o di accordo fra loro. La deviazione dello stile discorsivo si costituisce non a partire da una norma condivisa ma da un altro possibile stile discorsivo. Infine, l’espressività e l’affetto non sono prerogative esclusive di pochi, selezionati individui (secondo una prospettiva chiaramente romantica), ma in qualche modo – come s’è detto [§ 3.7] – investono il discorso di chiunque. L’opposizione stereotipa fra ‘cuore’ e ‘ragione’ cede il posto, se si vuole, a quella fra ‘ragioni del cuore’ e ‘cuori della ragione’. Così, lo stile non è il segnale linguistico di un’individualità particolare ed eccentrica, di un’espressività non comune, ma l’indicatore di ogni individualità parlante, l’elemento – o serie di elementi – che segnala ciascuna soggettività linguistica e comunicativa, costituendone l’identità. Esso insomma non è la trasgressione individuale di una norma sociale, ma la norma sociale stessa nel momento in cui si fa regolarmente manifestazione individuale concreta. Non a caso la sociolinguistica e l’antropologia del linguaggio hanno enormemente arricchito la nozione, rendendola utile anche agli studi mediatici e comunicativi – e dunque, per quel che ci riguarda, anche alle indagini sulla marca. Lo stile non entra in opposizione con la mancanza di stile, ma con altri stili – laddove ciò che viene percepito come mancanza di stile è in effetti uno stile a sua volta. La proverbiale affermazione di Buffon – «lo stile è l’uomo» – va intesa in questo senso. Resta indubbio, comunque, che lo stile è un fenomeno di tipo eminentemente espressivo, nel doppio senso di qualcosa che si dà sul piano dell’espressione e di qualcosa che domina nel campo delle passioni. L’identità che esso tende a costituire è più che altro di natura affettiva, un’affettività profonda che tracima nell’estetico e nell’etico – come si ve208

drà nel capitolo successivo a proposito di Chanel [§ 5.4]. Lo stile, vedremo, tende a costituire per semisimbolismo relazioni motivate fra una serie di elementi espressivi e una serie di elementi semantici, di modo che l’identità enunciativa emerge progressivamente e surrettiziamente, sino ad apparire quasi ‘naturale’, senza l’apporto di una motivazione esterna (ed estrinseca) che ne renda ragione. È il caso, frequentissimo, in cui la riconoscibilità di un discorso di marca non passa dal marchio e dal logo, ma da una serie di tratti espressivi ricorrenti della marca che tornano identici, o con calcolate minuscole variazioni, in ogni sua manifestazione testuale: dal colore aziendale alle gamme cromatiche preferite, dai tratti eidetici costanti alle loro studiate variazioni. Si pensi per esempio ai tratti figurali del logo – stilizzati, appunto – che vengono ripresi in altre figure del mondo (si pensi allo swoosh di Nike leggibile nelle sinuosità dei corpi dei suoi atleti: cfr. Agnello e Marrone 2007) o a quelle forme visive che non fanno parte del logo ma in qualche modo richiamano l’universo di marca (cfr. l’arabesco di Versace che s’intravede nelle stoffe dei suoi divani [§ 5.4]). Così la griffe, sorta di aura estetica indebolita e secolarizzata, non è soltanto nelle griffe, che marchiano perentoriamente oggetti e luoghi, corpi e cose, ma anche in quei sintagmi ritmici fissi – come quando Chanel integra elementi barocchi nel suo total look classico [§ 5.4] – che appaiono su ogni possibile elemento del mix di marca, e che costituiscono, appunto, il suo stile.

La nozione di stile interessa il discorso di marca non soltanto perché coinvolge direttamente il fenomeno della moda, ma anche perché, ben più radicalmente, convoca il tradizionale, immarcescibile concetto di autore, enunciatore non più di un testo ma di quella che viene chiamata opera, sia essa un singolo prodotto o il corpus di tutte le sue produzioni, entro la quale vive, si manifesta e circola tutta una congerie di sentimenti e passioni, idee e valori, storie di vita e aspirazioni, esaltazioni e delusioni. È, insomma, l’Autore romantico, essere ritenuto geniale poiché dotato di una sensibilità e di un’espressività che trascendono l’individuo comune e la realtà effettuale per schiudere mondi affettivi e universi di conoscenza che né l’esperienza empirica d’ogni giorno né le metodologie scientifiche sanno cogliere e rappresentare. Se pure, cioè, dal punto di vista di una teoria semio-linguistica scientifica coerente la nozione di stile non ha più motivo d’essere intesa in questi termini, il legame costitutivo fra lo stile espressivo e l’autore/genio resta perfettamente intatto nell’immaginario sociale diffuso, fortemente alimentato dai media; e come tale passa, sic et simpliciter, negli immaginari di marca. 209

Che cos’è un autore? Come è noto, si tratta di una nozione relativamente recente (nasce in concomitanza all’emergere dell’individualismo borghese), oggi in piena decadenza nelle arti e nella teoria estetica (muore in concomitanza alla crisi di questo stesso individualismo). Se nell’antichità i testi circolavano e si diffondevano senza l’ausilio di un nome d’autore che ne certificasse l’origine e, conseguentemente, l’eventuale importanza, è già il tardo Medioevo che ricorre all’argomento dell’auctoritas («è vero perchè lo ha detto x»), facendo dell’autore un marchio di fiducia nei confronti dei lettori e considerando i suoi testi come opere da recepire con adeguata attenzione e dovuto rispetto. Quelle opere divengono opere d’autore sia perché pregne di sapere e di verità, sia perché, più sottilmente, prodotto e proprietà di chi ha enunciato quel sapere e quelle verità. L’Autore diviene nell’età moderna il marchio dell’opera – d’origine, di garanzia, di proprietà –, in un movimento analogo a quello che, nel campo dell’economia di mercato, veniva parallelamente a darsi con la nascita, la diffusione e l’affermazione della marca in relazione alle merci [cfr. § 1.3]. L’opera vale perché è prodotto di un autore e, per tacito contraccolpo, l’autore è un genio perché produttore di quell’opera. Del tutto similmente: la merce vale perché è prodotta da quell’azienda e, con sottile movimento inverso, l’azienda è una marca perché ha prodotto quella merce. Resta da capire che cosa accade a queste due entità – autore e marca –, e soprattutto alla loro curiosa relazione reciproca, dopo e attraverso la modernità, in quella fase detta postmoderna che vede decretare, da una parte, la morte dell’autore e, dall’altra, l’affermarsi generalizzato di una marca non più strumento ancillare e succube dei propri prodotti, ma entità autonoma pronta a risucchiare al proprio interno, a dar forma e a dotare di senso molteplici fenomeni della cultura sociale. A prima vista i rispettivi destini si biforcano, a ben vedere finiscono per convergere e sovrapporsi. La morte dell’autore è una delle questioni su cui sembra esserci maggiore accordo fra gli studiosi di letteratura ed estetica, di linguistica e semiotica. Se con il Positivismo la relazione autore-opera raggiunge la sua acme, di modo che gli studi letterari e artistici molto spesso – e ancor oggi – si occupano della seconda al solo fine di comprendere il primo, di sviscerarne il mondo interiore o il contesto sociale, con il Novecento scrittori, artisti e critici iniziano a prendere le distanze da questo ricatto estetico che mal nasconde una rivendicazione di proprietà. Non senza, comunque, curiose forme di resistenza. Da una parte c’è chi mette in secondo piano la 210

propria individualità in nome di un’assoluta preminenza estetica del linguaggio, di modo che, mentre la scrittura si manifesta come gioco linguistico fine a se stesso, l’autore sacrifica la propria vita in nome di un’opera che è pura elaborazione segnica. Così, non è più l’opera che conferisce immortalità all’autore, ma, molto diversamente, è l’autore che muore nell’atto di dare al mondo un fenomeno di linguaggio e di semiosi (è il caso di scrittori come Flaubert, Proust o Kafka ecc. letti da critici come Blanchot 1955 e Barthes 1968). In perfetto parallelismo con quanto si va elaborando negli stessi anni in sede linguistica e filosofico-linguistica (Jakobson, Benveniste, Austin ecc.), s’afferma l’idea per cui non è l’autore a parlare una certa particolare lingua producendo un’opera ma, al contrario, è l’opera, essendo detta in una certa particolare lingua, a produrre l’immagine del suo autore, la sua esistenza sociale, la sua riconoscibilità pubblica. D’altra parte c’è anche chi porta la predominanza culturale dell’autore/artista/genio alle sue estreme conseguenze, facendo della vecchia ironia romantica il gesto trasgressivo per eccellenza: non importa più l’opera ma solo la sua firma, il fatto cioè d’esser prodotta da un sedicente artista o, addirittura, d’essere dichiarata tale da costui. Da qui Duchamp che espone oggetti comuni facendoli assurgere a opere d’arte sol per il gesto da lui compiuto in quanto artista e – soprattutto – per la firma che vi appone (i celebri ready made); o addirittura De Chirico che espone opere non sue spacciandole per proprie solo perché da lui effettivamente firmate. La firma – segno istituzionale del gesto d’autore – fa apparire come prodotto irripetibile il banale elemento di una qualsiasi serie di oggetti, trasformando, per usare la nota terminologia di Goodman (1968), l’opera allografica in prodotto autografico. Emerge così, per quanto rovesciata, una nuova analogia fra il dominio dell’arte e quello del mercato. Nel primo si dà il fenomeno della falsificazione dei quadri grazie alla semplice apposizione di firme false; le quali convocano l’occhio clinico di un attribuzionista – esperto riconoscitore del vero stile dell’autore – che cerca di smascherarle. Nel secondo si diffonde la contraffazione di prodotti griffati che esibiscono marchi copiati ad arte e prezzi notevolmente ridotti; esigendo non più un esperto in stili, qui superfluo, ma un’autorità legale che punisca i falsari. Il che invita a riflessioni di un certo interesse. Se, come si dice spesso e giustamente, l’opera d’arte è divenuta da tempo una merce, vale anche il contrario: la merce diviene un’opera d’arte se e in quanto è di marca, instaurando un regime artistico forse nuovo, quello di un’opera che potremmo definire nonallografica. Di modo che la marca finisce per vivere molte delle ambiguità costitutive – sacralità, incertezze, ambizioni, trionfi, burle, rischi, assunzioni di principio, entusiasmi, delusioni – dell’arte. La recente diffusione dei musei d’azienda e in generale la riorganizzazione dei musei in senso commerciale (Pezzini e Cervelli 2006) sono la più evidente dimostrazione di questi nessi e di queste sovrapposizioni. 211

Ma come può accadere che i destini dell’autore e quelli della marca convergano ancor oggi? Per spiegarlo, non è sufficiente invocare la trasformazione mercantile dell’arte. Occorre semmai distinguere, seguendo Foucault (1969), l’autore vero e proprio, istanza individualista che nasce e muore con la modernità, da una più generale funzione-autore, che trascende le fattezze culturali del genio romantico e dei suoi prodromi positivistici per restare pressoché intatta anche dopo la scomparsa di questi ultimi. Un autore, ricorda Foucault, negli studi letterari tradizionali ricopre una serie di ruoli molto precisa: non solo è custode e garante di ciò che dice, ma, in quanto centro di irradiazione espressiva, conserva una certa unità stilistica e un certo livello di valore in tutti i testi che gli si attribuiscono, dalle opere vere e proprie ai brogliacci, agli appunti, alla corrispondenza e così via. In tal modo, nell’opera di un autore, di un Vero Autore, in linea di principio non esistono né contraddizioni né cadute di tono: tutto si spiega e si giustifica a partire dall’unità enunciativa ed esistenziale che esso, per definizione, rappresenta. In questo senso, l’autore non si identifica né con una persona reale né con un locutore fittizio, ma si costituisce nei continui passaggi dall’una all’altro e viceversa: l’esistenza materiale e la valenza comunicativa si intrecciano fra loro per produrre quest’entità ibrida e quasi sacrale, proprietaria indiscussa e responsabile assoluta (a livello etico e civile, ma prima ancora sul piano penale) della propria opera. Ora, secondo Foucault, se pure è indubbia la morte dell’autore nei termini sopra descritti, è altrettanto innegabile che le caratteristiche discorsive con esso instaurate – sacralità del nome proprio, unità stilistico-valoriale, proprietà e responsabilità dell’opera ecc. – non sono per nulla venute meno. Tali caratteristiche sono più che mai esercitate, anzi, nell’ordine attuale dei discorsi, senza tuttavia che un altro personaggio sia intervenuto a occupare il posto lasciato vuoto dal tradizionale autore. Resta più forte che mai la pretesa di una proprietà dei discorsi, viene tenacemente esercitato un controllo su di essi attraverso classificazioni e gerarchie, riprendono a circolare nomi propri che non possono essere ridotti né ai normali nomi di persona né a sostitutive descrizioni definite. Foucault fa a quest’ultimo proposito l’esempio di quei nomi propri che non sono in senso stretto nomi d’autore come quelli di un romanziere o un poeta ma che, nonostante ciò, si pongono come instauratori di un nuovo campo discorsivo. Nomi come quelli di Marx o di Freud 212

non possono essere ridotti alle opere che costoro hanno tangibilmente scritto, senza per questo poter essere ritenuti responsabili esclusivi del dominio discorsivo che a partire da essi s’è creato (il marxismo, la psicanalisi). Tale dominio infatti, pur facendo ininterrotto riferimento a essi (da cui i frequenti casi del ‘ritorno a...’), presenta al suo interno un gran numero di altri autori, che lo estendono a dismisura in nome del loro precursore. Essi hanno reso possibile l’esistenza di quel campo discorsivo – una disciplina, un’ideologia, un sapere – con un atto fondatore iniziale, hanno dettato le regole di fabbricazione di altri testi per definizione diversi dai propri, ma non possono per questo avere né controllo né responsabilità su chi e quanto succederà loro, arricchendo pur tuttavia, a ogni enunciazione prodotta in loro nome, la loro fama e la loro potenza, in un circolo virtuoso senza fine. Appare così evidente come la marca contemporanea non solo, come spesso è stato osservato, abbia tratto vantaggio da quella crisi delle Grandi Narrazioni e Ideologie che, secondo Lyotard (1979, 1986), caratterizza la condizione postmoderna del sapere e della cultura, ma, ben più profondamente, essa possa essere considerata esattamente come quell’istanza discorsiva che oggi occupa il posto lasciato vuoto dalla morte dell’autore, facendo propria la funzione-autore descritta da Foucault. L’autore romantico, morto nell’arte, torna nella marca, la quale esercita così gran parte delle prerogative che a esso erano state a suo tempo assegnate. La marca si fa centro propulsore di un’unità stilistica e valoriale, fa sfumare al proprio interno eventuali contraddizioni tematiche o incongruenze estetiche, rende possibili una classificazione gerarchica e una conseguente valutazione dei discorsi sociali, ma, soprattutto, si propone come istanza che instaura un campo discorsivo che altri, in vario modo, potranno riprendere, proseguire, modificare, fraintendere forse, ma sempre in nome dell’autore che ha compiuto quell’atto fondatore d’instaurazione discorsiva. Così, ribaltando la prospettiva, se oggi le grandi marche multinazionali svolgono il ruolo delle ideologie politico-sociali della modernità (al punto che le odierne quasi-ideologie non possono che presentarsi a loro volta sotto forma di marche), è perché, strutturalmente, esse hanno occupato il posto lasciato vuoto dai nomi d’autore come Marx e Freud. La marca – al di là delle perplessità che questo termine può suscitare – è postmoderna proprio per questo. Oggi gran parte degli autori (letterari e musicali, cinematografici 213

e artistici ecc.) si propongono al loro pubblico come altrettante marche. E gran parte delle marche (grandi e piccole) si atteggiano ad autori. Entrambi, autori e marche, sono entità ibride che vivono nell’interstizio fra un’esistenza fisica reale che attesta il loro discorso e un’istanza prettamente discorsiva che rende ragione della loro esistenza fisica. Non solo perché, ovviamente, dietro un autore ci sta tutto un apparato mediatico e produttivo che sostiene le sue opere, il quale, molto spesso, si configura a sua volta come una marca: dalla testata di un giornale a un network televisivo, da una major hollywoodiana a una casa discografica. E nemmeno soltanto perché molti autori di successo vengono risucchiati in un mercato che moltiplica i beni di consumo (libri, gadget ecc.) a partire dall’opera madre (dai Beatles a Dan Brown, da Walt Disney a Joanne Kathleen Rowling). Ma soprattutto perché, più profondamente, la realtà discorsiva di un autore mediatico e quella di una marca si presentano, nella forma e nella prassi quotidiana, attraverso le medesime forme: fondano campi discorsivi, ridistribuiscono gerarchie di testi e di discorsi, risucchiano e rilanciano temi e valori, diffondono linee estetiche, si propongono come centri propulsori di espressività che cancellano differenze stilistiche e contraddizioni argomentative. Si prenda il film The Terminal di Steven Spielberg (2004), che in altra sede abbiamo provato a intendere come un film quasi interamente dedicato alla questione della marca (Marrone 2007a). Si tratta di una divertente commedia che vanta una griffe pronta a trasformare in successo, dunque in entusiasmo e denaro, tutto ciò su cui si iscrive. Spielberg, infatti, non è solo un regista hollywoodiano di successo, amato dal grande pubblico e stimato dalla critica più colta. È anche un brand rinomato e diffuso, un soggetto enunciante da cui prende avvio una specie di flusso discorsivo che fa riverberare intorno a sé un vero e proprio sistema di valori, affetti, corpi. Il marchio Spielberg sovradetermina una storia di marche e consumatori, di margini e marginalità, di successi e sfortune, di lunghe attese e un’inverosimile pazienza. La storia, in sé, è abbastanza semplice: un signore arriva all’aeroporto JFK di New York proveniente da un paese immaginario dell’Est europeo denominato Krakozhia. Si tratta del giovane Viktor Navorski (Tom Hanks), arrivato lì per completare – vecchio sogno del padre – una stramba collezione di firme di vecchi jazzisti. Durante il volo transoceanico, però, nel suo paese c’è stato un colpo di Stato, e nel giro delle poche ore di volo il passaporto di Viktor si trova a non essere più valido. Lui non può più entrare in America, ma non può nemmeno tornare nel proprio paese. È 214

bloccato lì, alla frontiera d’entrata a NYC, che è anche la frontiera d’uscita dalla Krakozhia, in un ambiente che è un perfetto non luogo dal punto di vista del riconoscimento formale di un’appartenenza politica, ma che si rivelerà un perfetto luogo – storico, identitario, relazionale – dal punto di vista della sua organizzazione economica e sociale. Da qui l’idea creativa: pressoché l’intero film racconta quel che accade a un uomo che, per ragioni del tutto casuali, si trova costretto in uno spazio ‘non proprio’ che in senso stretto non è nemmeno uno spazio ‘altrui’; a qualcuno, cioè, che si trova a esser straniero nel mezzo di un nulla pur tuttavia pienissimo di cose e di persone, senza conoscerne la lingua e i codici di comportamento, i sistemi di valori, il funzionamento degli oggetti, senza denaro e senza amicizie, e soprattutto senza avere la minima idea di quanto tutto questo possa durare. Grazie a questa sua curiosa esperienza, nella quale, alla fine, se la caverà con grande sagacia, Viktor coglie l’essenza dell’America, presente in nuce al JFK: da una parte il melting pot di etnie e lingue, rappresentato dalla serie di persone – messicani, neri, indiani ecc. – che svolgono in aeroporto i lavori più umili; dall’altra il mondo totalizzante dei grandi brand, che riempiono la sala transiti dei loro stand più svariati: dal fast food all’abbigliamento, dalle librerie alla telefonia e via dicendo. Quel che è interessante è anche un altro aspetto del film, legato alla difficoltà di inscriverlo in un preciso genere cinematografico. Si tratta, a prima vista, di una brillante commedia; non certo di un dramma, come pure, con una storia come quella appena raccontata, avrebbe potuto perfettamente darsi. Qualsiasi evento (per quanto triste), qualsiasi azione (per quanto dolorosa), qualsiasi personaggio (per quanto perfido) vengono sempre filtrati dal sorriso indotto dello spettatore, da un velo d’ironia che permea il tutto, da quella comicità che – per definizione – fa sì che il mondo possibile del film (una sala transiti), presentato alla rovescia (una zona stanziale), lasci trasparire, proprio perché rivelate, la fragilità delle sue regole profonde e la labilità blandamente ideologica dei suoi apparati istituzionali. Ma il genere ipercodificato della commedia, a poco a poco, perde consistenza e lascia il posto a un altro genere discorsivo, quello della fiaba, il quale, benché certamente più antico, viene messo in opera in una versione moderna filtrata – ricodificata dunque – nelle maglie pertinenti all’immaginario hollywoodiano, dei suoi apparati produttivi, del suo pubblico mirato. Una fiaba, dunque, molto poco proppiana, dove del classico movimento sintagmatico profondo che dal Danneggiamento porta alle Nozze viene enfatizzato soprattutto il momento finale, quello di un’ipertrofica Prova Glorificante che fa godere più dei successi effimeri del protagonista (divenuto eroe per un giorno, nella sua lotta con l’Anti-soggetto Dixon, agli occhi del popolo dell’aeroporto) che non delle sue quotidiane lotte per la sopravvivenza, delle sue faticose Prove 215

Qualificanti. La fiaba quasi disneyana, peraltro controfirmata dalla casa cinematografica DreamWorks, pigia dunque il pedale sul modo del fantastico, addirittura dell’onirico, dell’euforia collettiva tanto insensata nelle ragioni quanto intensa nei modi d’espressione: urla di felicità, danze collettive, fiumi di birra, cortei di entusiastici ammiratori che accompagnano l’eroe verso la sua ultima, agognata Frontiera da valicare. In termini tecnici, diciamo così che all’assiologia di partenza che opponeva, nella commedia, la costrizione alla libertà si sostituisce, nella fiaba, un’assiologia ben diversa: quella dell’opposizione, tanto profonda quanto inconsistente, fra realtà e fantasia, vita e sogno. Questo slittamento di generi si deve appunto alla firma/brand del regista: cosa che fa tracimare la questione del genere verso un’altra, più delicata questione, non sempre e non abbastanza sviluppata dalla ricerca semiotica sui media e sui testi, sui media come testi, sui testi mediali. È il problema della enciclopedia di riferimento che un’opera come un film di Spielberg inevitabilmente contribuisce a riprendere e ad allargare. In altre parole, questo film di Spielberg dissemina il proprio testo della sua firma, non solo inscrivendolo nel genere della fiaba, ma anche e soprattutto riempiendolo di citazioni più o meno criptiche di altri film del medesimo regista: si pensi a E.T. L’Extra-Terrestre, appunto, a proposito del corteo di gente festante che accompagna alla fine l’eroe che vuol tornare a casa («telefono... casa») o – opposto dialettico – all’universo concentrazionario di Schindler’s List indebolito nelle costrizioni claustrofobiche della sala transiti. Ma il brand non è solo del regista. È anche degli attori, soprattutto del protagonista (e soprattutto se il protagonista è stato anche attore di altri film del regista). Allora, emerge chiaramente come Viktor sia in fondo una nuova versione di Forrest Gump, fool che non è più deietto in un’isola deserta, come in Cast Away, ma in un luogo molto simile: un aeroporto. Dal punto di vista della ricostruzione dell’articolazione significativa del testo tutto ciò ha un’importanza non banale: accanto al ruolo tematico del personaggio (l’insieme delle sue virtualità semantiche dispiegabili lungo il flusso diegetico) si pone il ruolo mediatico dell’attore che lo rappresenta (ossia un pacchetto d’altre virtualità a disposizione della storia), che si riverbera inevitabilmente, arricchendolo o impoverendolo a seconda dei casi, sul personaggio medesimo. Viktor non è soltanto uno pseudoturista, uno straniero proveniente dell’Est europeo in missione a NYC per conto del vecchio padre scomparso, innamorato del jazz. È anche un Forrest Gump/Robinson al JFK.

Un’ultima considerazione a questo proposito riguarda la fisionomia e il destino del pubblico dei consumatori dinnanzi a questa reinterpretazione, per così dire, estetico-letteraria della marca. Se infat216

ti, come s’è detto spesso, l’enunciatario contribuisce in modo attivo alla costruzione del discorso di marca attraverso le sue tattiche d’accettazione o rifiuto, di assunzione parziale e relativa trasformazione, in una dialettica costitutiva e perenne con le proposte strategiche dell’enunciatore, come si configura esattamente il consumatore di fronte alla marca-autore? Laddove la marca occupa il posto lasciato vuoto dal genio romantico e dai suoi residui positivistici, qual è il ruolo concomitante rivestito dal consumatore? E dunque: a quale tipo di lettore corrisponde l’immagine tradizionale dell’autore? Non certo, a ben pensarci, a quella del lettore usa e getta, dello spettatore costitutivamente ‘distratto’ che da Benjamin (1937) in poi è sempre stato considerato peculiare di quella cultura mediatica dove l’arte, riprodotta in serie, perde senza appello la propria aura sacrale. Anzi, a ben pensarci, se la marca corrisponde all’autore, la merce marcata – materiale o evanescente che sia – si ritrova dotata proprio di quell’aura che l’opera d’arte ha perduto nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. E il ‘lettore’ di questo genere di merce non può che esserne coinvolto in prima persona, proponendosi come congeniale all’autore-marca, interpretandone l’opera-merce con il rispetto dovuto a ogni manifestazione, per quanto degradata o secolarizzata, del sacro. A un autore con stile, risponde un lettore con gusto. In questo quadro, il consumatore della marca postmoderna non ‘consuma’ affatto la merce marcata, la marca come merce, non la utilizza ‘a suo uso e consumo’ ma, in qualche modo, la pone su un alto piedestallo dove anche lui, peraltro, può felicemente installarsi. Nella tradizionale distinzione fra arte di consumo (mediatica e popolare) e arte di ricerca (raffinata ed elitaria), se alla marca spetta il ruolo dell’autore di un’arte di ricerca, al consumatore tocca quello del suo raffinato interprete, dotato d’una adeguata competenza per apprezzarla, appunto d’un gusto sapiente e squisito che lo porta a godere positivamente e attivamente dell’opera, a perdersi nel piacere di quel testo particolare che è la merce marcata. Se è così, il termine stesso di ‘consumatore’ risulta del tutto inadeguato e andrebbe forse sostituito con quello – non attraente in sé ma senz’altro più pertinente – di fruitore produttivo del discorso di marca. Parallelamente, un’indagine sociologica dei consumi dovrebbe cedere il posto a un’analisi sociosemiotica della produzione e della ricezione estetica delle marche, del loro discorso abilmente estetizzante.

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4.4. Intertestualità, interdiscorsività, intermedialità Un’ulteriore questione relativa al fenomeno dell’enunciazione è quella del modo in cui il discorso di marca, manifestandosi concretamente, rende possibile un’esperienza empirica di sé: viene materialmente prodotto da un qualche emittente e fisicamente recepito da un qualche destinatario. Si è visto che la nozione di discorso, e con essa i suoi attanti costitutivi dell’enunciatore e dell’enunciatario, pur avendo in linea di principio (e di fatto) un’efficacia concreta ed esiti comunicativi – pragmatici, cognitivi, passionali, somatici – del tutto reali sul piano sociale e culturale, hanno un’esistenza astratta e un carattere simulacrale. In quanto entità prettamente semantiche, la loro capacità e la loro forza strategiche derivano proprio dal fatto di non poter mai essere percepite come tali, ma sempre e soltanto grazie alla mediazione di una qualche emergenza testuale, non importa se prodotta intenzionalmente e percepita consapevolmente o meno. Soltanto il testo, infatti, presenta la doppia faccia – espressione e contenuto – costitutiva d’ogni linguaggio. Da una parte, esso tiene un discorso, fa proprio cioè il portato semantico dell’enunciato e dell’enunciazione. Da un’altra parte, per far ciò, il testo ha bisogno di plasmare, articolare, formare una o più materie fisiche, incaricandole di veicolare quel portato semantico, di esprimerlo concretamente e di trasmetterlo fisicamente lungo l’asse della comunicazione. A dispetto della sua fisicità, la nozione di testo non è comunque evidente, e soprattutto non bisogna confonderla con ciò che questo termine indica per il senso comune (come nelle locuzioni ‘libro di testo’, ‘testo di una canzone’, ‘fare testo’ ecc.). Secondo la prospettiva semiotica, il testo, per quanto abbia necessariamente un’esistenza empirica, è in ogni caso da intendere come una relazione necessaria fra tale empiria e un piano astratto del contenuto, nonché, all’interno di ciascun piano, come un’articolazione significativa ora della sostanza empirica ora di quella semantica. In questo senso, il testo non è mai dato come tale ma sempre doppiamente costruito: nel corso di una circostanza sociale, immediatamente comunicativa o meno; nel corso dell’analisi che ne viene fatta per determinati scopi ermeneutici ed esplicativi. Un testo può essere presentato come tale dalla cultura sociale in cui circola; ed è in questo caso una porzione di materia del mondo esplicitamente e istituzionalmente dotata di limiti netti e di un’articolazione interna atti a significare contenuti determi218

nati (per esempio, nella nostra attuale cultura, un romanzo, una fotografia, una trasmissione televisiva, un annuncio pubblicitario, un film, un’e-mail, un sms...). Così un punto vendita, oltre ad articolare adeguatamente il proprio interno, deve porsi il problema di segnare i confini col proprio esterno: ora rinchiudendosi in sé (per esempio oscurando le vetrine, che divengono un limite forte tra dentro e fuori), ora aprendosi alla strada (per esempio mantenendo il selciato del marciapiede come pavimento, riprendendo i colori degli edifici ecc.), con tutta una serie di possibilità intermedie che lo fanno percepire in tutto e per tutto come un testo da leggere e interpretare. Oppure, per altri versi, un testo può essere ricostruito a posteriori nel corso di un’analisi, in funzione dei suoi specifici obiettivi di descrizione: ora studiando per esempio non un singolo spot, ma un intero flusso televisivo spalmato nel palinsesto, disseminato qui e là di schegge promozionali, indicatori di marca, inserti comunicativi di vario tipo; ora integrando progressivamente dati apparentemente di contesto nel testo dato, in modo da far emergere la loro pertinenza specifica (si pensi al caso di The Terminal, dove regista e attore protagonista contribuiscono in quanto tali a costruire il senso del film); ora mostrando in che modo un fenomeno apparentemente aperto e irregolare come la visita a un negozio si fondi su precise regole testuali (saluti iniziali e finali, ritmo di movimenti e soste, gesti e sguardi, osservazione puntuale o distratta delle merci, domande al personale ecc.). In ogni caso, sia che il testo venga espressamente dato sia che ciò non accada, esso è qualcosa che viene appositamente costruito da una qualche istanza umana e sociale per mettere in relazione reciproca un certo contenuto discorsivo con una certa espressione significante. È testo tutto ciò che, a determinate condizioni e in precise circostanze, viene identificato come tale da un qualche soggetto culturale – ivi compreso il soggetto dell’analisi. Non lo è, a quelle condizioni e in quelle circostanze, ciò che non riceve la medesima interpretazione (cfr. Greimas e Courtés 1979, ad vocem; Marsciani 1999, 2007; Marrone 2007c). 4.4.1. A monte e a valle Così, il discorso di marca può essere manifestato da testi molto diversi, in un mix significativo che comprende sia strumenti comunicativi generalmente riconosciuti come tali (annunci, spot e altre forme di pubblicità, logo, mailing ecc.) sia entità generalmente consi219

derate non semiotiche: spazi fisici (allestimento dei punti vendita, negozi monomarca, inserimenti di zone brandizzate in grandi magazzini e centri commerciali), comportamenti concreti (gestione aziendale, distribuzione, promozioni, contatti con il cliente ecc.), azioni economiche (politica dei prezzi, inserimento di benefit), esperienze di consumo (coordinazione della sensorialità, costruzione di specifiche immagini del corpo, pratiche somatiche), ma anche beni e servizi (oggetti e loro design, istruzioni per l’uso, interfacce utente, forme di interoggettività) e, ovviamente, le svariate azioni volte all’edificazione dell’identità soggettiva della marca (posizionamento nel mercato rispetto alla concorrenza, gestione del capitale simbolico accumulato nel corso del tempo). Questa relazione fra discorso astratto immanente e testi empirici che lo manifestano è reciproca: non si dà discorso di marca senza testi che lo mettono in mostra empiricamente; non si danno testi senza un qualche discorso da svolgere. Nessuna primarietà fra i due fenomeni, ma necessaria complementarità. La presupposizione reciproca fra testi e discorso mette a sua volta in moto la dialettica fondamentale fra un enunciatore, che produce determinati testi al fine di veicolare il proprio preesistente discorso, e un enunciatario, che, a partire dai testi che gli vengono proposti, e da altri possibili che circolano loro accanto, ricostruisce a suo modo il discorso di marca. Una dialettica dunque, per così dire, sghemba, perché fra il discorso prodotto a monte e quello ricostruito a valle non può esserci una rispondenza totale, un’assoluta sovrapposizione. E ciò non è dovuto, come si ripete spesso sulla scia di Stuart Hall, allo scarto necessario fra processi di codifica e attività di decodifica. Dipende semmai dal fatto che fra il discorso a monte e il discorso a valle c’è sempre la mediazione di una serie di testi che non è condivisa in toto dai due attanti della comunicazione. Della congerie di testi prodotti dall’enunciatore solo alcuni arriveranno e saranno recepiti come tali dall’enunciatario. Il quale, inoltre, potrà considerare pertinenti altri testi, prodotti più o meno casualmente da ulteriori enunciatori (si pensi alla proliferazione di testi e discorsi sulla marca che in vario modo circolano nella società). Il punto di vista dell’azienda e quello del consumatore non coincidono. Il che rende estremamente difficile, se non impossibile, determinare a priori che cosa contribuisce alla costruzione complessiva di un campo discorsivo variegato e aperto qual è quello della marca, 220

nonché di decidere a priori la fisionomia di un testo. Congerie e configurazioni testuali vengono negoziate e rinegoziate di continuo, ora trovando forme convenienti di accordo ora innescando conflitti più o meno violenti, in un flusso discorsivo senza inizio né fine. La questione della costituzione formale della testualità e la questione della costituzione discorsiva della serie testuale divengono così la medesima: di modo che testo e intertesto, distinti a priori, derivando dai medesimi processi comunicativi di costituzione e di circolazione, sono da intendere, a posteriori, come una medesima cosa. Per esempio, a monte una campagna pubblicitaria sarà composta da una serie di elementi (spot, annunci stampa, cartellonistica ecc.), ognuno dei quali è in sé un testo conchiuso che, mettendosi in relazione con gli altri, assume una precisa significazione. Ma, a valle, non tutti questi testi arrivano a destinazione: cosa che inevitabilmente modificherà la significazione di ciascuno di essi. Oppure, se in un certo punto vendita ha luogo un determinato evento promozionale, accade che a partire da due testi diversi (lo spazio del negozio e l’evento in sé) se ne costituisca uno solo (l’evento situato). Comprendere i confini del testo è comprenderne i legami con altri testi. E, viceversa, stabilire legami fra testi è determinare la fisionomia di ciascuno di essi. Tutto dipende, nella pratica quotidiana di produzione e di ricezione del discorso di marca, dalle situazioni di comunicazione e dalle circostanze di ricezione. E tutto deriva, nella pratica scientifica di chi intende analizzare ciò, dalle dipendenze semantiche dentro e fuori i testi che si intendono mettere in evidenza per raggiungere determinati obiettivi ermeneutici. Così, la questione del mix di marca è a tutti gli effetti analizzabile come un fenomeno, diciamo così, uno e trino: (a) produzione e interpretazione della testualità (confini del testo, coerenza e articolazione interne, processualità e trasformazioni, spessore semantico ecc.); (b) costituzione della intertestualità (catene fra testi e tipi di testo; forme di collegamento semiotico fra essi ecc.); (c) procedure di traduzione (mantenimento o possibili modifiche di un nucleo di senso comune nei passaggi da un testo all’altro). (Per una trattazione teorica di tutto ciò, cfr. Barthes 1984; Cavicchioli 2002; Fabbri 2000; Dusi e Spaziante eds. 2006; Marrone 2007c.) Per quanto complessa nella sua formulazione e delicata nel suo trattamento, grazie a questa prospettiva di studio la questione del mix di marca assume tutt’altro aspetto. Innanzitutto permette di insistere sull’idea che la ‘mescolanza’ dei diversi fenomeni di manife221

stazione della marca non è un miscuglio casuale (un mix, appunto), ma una costruzione coerente basata su precise architetture formali intra- e inter-testuali, con le relative regole di passaggio da un testo a un altro, da una serie di testi a un’altra. In secondo luogo, così formulata, essa assorbe anche le due nozioni ambigue – e le relative pratiche – di architettura di marca (ancora troppo spesso assunta come una pura questione di gestione aziendale) e di estensione della marca (anch’essa ancora spesso pensata a partire da una semplice considerazione della gamma dei prodotti aziendali e della relazione fra settori merceologici) (per entrambe le nozioni cfr. i capitoli relativi in Fabris e Minestroni 2004). La relazione fra aziende e marche, infatti, si risolve in quella fra emittente ed enunciatore, di cui s’è detto nel paragrafo precedente, ma soprattutto in quella della produzione testuale di tale enunciatore, di cui si tratterà in questo. E la questione dell’allargamento delle linee di prodotto (line extension), del terreno di azione della marca (brand extension) e dei rischi economico-comunicativi che ne derivano (brand stretching) si riconfigura a sua volta in quella della coerenza fra legami intertestuali (i prodotti e i servizi, s’è ripetuto spesso, sono anch’essi testi) e della relativa costruzione di un unico discorso di marca a partire dalle sue differenti manifestazioni testuali (dove un profumo può essere associato a un abito e a una pietanza; un computer a un telefonino; un viaggio a un disco e via dicendo). 4.4.2. Traduzione e coerenza Il problema diviene allora quello della costruzione e del mantenimento della coerenza discorsiva a partire da testi di tipo e natura anche molto diversi. I testi che contribuiscono alla manifestazione del discorso di marca possono per certi versi adottare le medesime materie dell’espressione – verbale, visiva, sonora, gestuale ecc. – spesso mescolate fra loro in sincretismi abbastanza diversi (logo, visual ed elementi verbali in un annuncio; audiovisivi con parole, musiche e immagini in movimento in uno spot; corpi che si muovono in spazi fisici nei punti vendita e così via). E in questo caso le forme di coerenza saranno intrasemiotiche. Ma questi testi adoperati per esprimere un medesimo discorso possono altresì, come per lo più accade, far ricorso a differenti materie dell’espressione (nonché a media diversi), esigendo forme di coerenza più complesse e delicate, che dipendono da vere e proprie traduzioni intersemiotiche (o intermedia222

tiche): come quando, appunto, occorre far combaciare il senso di uno spot con quello di un negozio, con quello di un prodotto, con quello di un evento promozionale ecc. (sulla traduzione intersemiotica cfr. Dusi e Nergaard eds. 2000; Dusi 2003; Fabbri ed. 2007); o come quando in un sito web si sovrappongono sostanze e moduli testuali molto diversi, a formare un ibrido del tutto inedito che dà luogo a sua volta a nuove forme di comunicazione promozionale e di interpellazione del destinatario (sulla valenza semiotica dell’intermedialità cfr. Ferraro 2001, 2003). Uno dei modi più efficaci di produrre e mantenere questa coerenza discorsiva a partire da testi di natura sostanziale e mediatica diversa è senz’altro quello di serbare in superficie non solo gli stessi valori profondi, ma specialmente il medesimo contratto comunicativo. Dotando l’enunciatore e l’enunciatario presenti in testi diversi delle stesse modalità d’azione e passione e di una comune forma di dipendenza reciproca è infatti possibile tenere un controllo costante sulla comunicazione e sulle sue strategie: l’esempio del concetto/lessema ‘chiarezza’ declinato da Floch in molteplici manifestazioni di Crédit du Nord – logo, pubblicità, distribuzione degli spazi delle agenzie bancarie, struttura delle vetrine e forma delle insegne ecc. – è senz’altro il più indicativo in questo senso [§ 4.4.1]. Una forma molto diversa di coerenza, di cui si parlerà nel capitolo successivo, è quella di tipo eminentemente estetico-estesico: ora visiva ora derivata da altri modi sensoriali del corpo (olfatto, gusto, udito ecc.), e in ogni caso legata al piano dell’espressione e ai suoi eventuali esiti significativi di tipo secondario e indotto. Si tratterà in questo caso di capire, come ha fatto per esempio Floch (1995) a proposito dello chef Michel Bras, se e in che modo una soluzione visiva (un logo) può essere tradotta in una tattile (un’etichetta a rilievo) e in una gustativa (una pietanza particolare). È il corpo, in tutta la sua evidente complessità, a farsi carico – vedremo – del discorso di marca, la cui identità non passa più da una dimensione cognitiva (riconoscimenti, comprensioni...) o da una passionale (identificazioni, entusiasmi...) ma, appunto, dall’attivazione del somatico. A metà strada fra queste due, c’è la coerenza prettamente discorsiva, scandita dalla batteria di categorie semantiche (temi e figure) e sintattiche (attori, spazi, tempi) nonché dalle molteplici configurazioni che le loro possibili combinazioni possono creare. Il tema d’un discorso, s’è visto [§ 2.3], è la concretizzazione dei valori narrativi sottostanti, che viene a sua volta ulteriormente concretizzata da una 223

serie di figure del mondo che lo rendono, per così dire, esperibile. Figure che si strutturano fra loro in totalità ora partitive (accumulo paratattico di immagini collegate da un medesimo principio semantico: per esempio, da ‘albero’, figure come ‘pino’, ‘quercia’, ‘olmo’, ‘ulivo’ ecc. in un elenco aperto e potenzialmente inesauribile) ora integrali (configurazioni semantiche articolate internamente da una qualche sintassi; per esempio, a partire da ‘pranzo della festa’, figure come ‘servizi di porcellana’, ‘posate d’argento’, ‘vestiti eleganti’, ‘cibi squisiti’ ecc.). Questo nesso semantico fra temi e figure viene congegnato grazie al fatto che, all’interno della configurazione, si istituiscono precise connessioni e dipendenze fra attori (concretizzazione degli attanti), spazi e tempi (concretizzazioni dei programmi narrativi). Un ‘pranzo della festa’, oltre ad avere sue precise figure stereotipe, possiede suoi personaggi tipici, una sua temporalità canonica, suoi luoghi standardizzati. La coerenza del discorso viene costruita in tal modo – orizzontalmente – grazie alla compresenza entro un medesimo pacchetto testuale di figure appartenenti ora a una ora all’altra forma di totalità figurativa (nonché dalla ricorrenza in esse dei medesimi attori, spazi e tempi); ma viene costruita anche – verticalmente – grazie alla progressiva concretizzazione e al conseguente arricchimento di una storia astratta prima in un preciso tema e poi in una specifica forma di figuratività e in una precisa batteria di attori, spazi e tempi. Un buon esempio di questo meccanismo di costruzione della coerenza – e quindi dell’intelligibilità – del discorso di marca a partire dalle categorie discorsive semantiche (temi/figure) e sintattiche (attori, spazi, tempi) è la campagna 2006 per Renault New Clio RS 200cv, dove l’annuncio stampa acquista una diversa, e più esatta, significazione se viene messo in relazione con uno degli spot che sono stati realizzati all’interno della campagna (cfr. Marrone 2007b). In sé, l’annuncio propone, a livello della retorica di superficie, un’atmosfera cupa dove un’automobile lucida e nera sfreccia lungo una strada deserta. Per testimoniare la sua velocità, ma anche e soprattutto la tenuta di strada, la perfetta aderenza dei copertoni al terreno, nonché la straordinaria solidità delle sospensioni, essa passa attraverso un dosso artificiale, polverizzandolo. Il plus del prodotto, espresso per argomentazione iperbolica, è subito chiaro: se l’auto oltrepassa indenne l’ostacolo d’un dosso, figuriamoci come andrà bene sul normale battistrada metropolitano, generalmente liscio, continuo, senza particolari fratture. Con la terminologia della Retorica aristotelica, è in gioco il classico luogo comune del più e del meno. 224

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Andando più in profondità, l’annuncio comunica tanto altro: è presente in esso una forte densità discorsiva che, scendendo ulteriormente di livello, racconta una vera e propria storia. A livello figurativo le nuvole nere e minacciose, l’edificio bianco e austero sullo sfondo, la lunga cancellata e il dosso artificiale tendono a costruire, se messi in relazione con 225

l’azione compiuta dall’auto, una configurazione abbastanza articolata e complessa che, tematicamente, potremmo definire come ‘fuga dal carcere’. Le nuvole, l’edificio e la cancellata rinviano, per connotazione, a una situazione di tipo letterario e cinematografico, convocando tutto un immaginario stereotipo noir fatto di evasioni spericolate e avventurose, dove la trasgressione della legge viene in qualche modo giustificata dalle angherie subite dal malcapitato di turno nel chiuso della cella e, prima ancora, nelle maglie delle innumerevoli ingiustizie subite in società (da cui il claim utopico liberatorio: «Extra full of life»). La messa in gioco di questo tema immaginario legato all’evasione e ai valori esistenziali cui dà adito, permette, tornando al visual, di cogliere una differenza percettiva molto forte fra la macchina, splendente nella sua eleganza e semplicità, e il contesto ambientale in cui si trova, scuro e lugubre, dunque foriero di atmosfere e situazioni tutt’altro che euforiche. L’automobile, a ben guardare, sta in un fascio di luce che la illumina in modo molto diverso dalle altre figure del mondo presenti nell’immagine, facendone il focus visivo del testo e perciò anche, verosimilmente, il topic discorsivo: è lei che viene illuminata; è di lei che si parla; ed è lei che si fa promotrice di un’entusiastica ventata di euforia che rompe l’atmosfera visibilmente disforica che la circonda, dalla quale sta evidentemente cercando di fuggire. La presenza di questa differente illuminazione dei vari volumi presenti nell’immagine invita a domandarsi quale sia la fonte di tale discontinuità percettiva, e quali siano gli scopi eventuali di questa specie di ancestrale istanza visiva che dà luce – e importanza, valore, senso – a ciò che vuole. Ogni illuminazione, ovviamente, presuppone un oggetto illuminato e, a monte, una fonte della luce, la quale può essere più o meno attorializzata nel testo, oppure rimanere impersonale e astratta (Fontanille 1995). Nel nostro caso, è come se il sole stesse per apparire squarciando il denso strato di nuvole nere: una striscia bianca più chiara lo testimonia, e dal fondo dell’orizzonte s’intravedono alcuni raggi: la macchina sta andando verso la luce. Ma, a farci caso, in quanto oggetto visibile essa è illuminata da altre fonti di luce che, trascendendo l’universo figurativo verosimile dell’immagine, si propongono come istanza discorsiva altra, superiore, e che per tali ragioni non può essere identificata che con la marca, enunciatore ultimo del testo che decide di dar luce e senso agli oggetti del mondo a dispetto di ogni logica della verosimiglianza rappresentativa. Renault ci presenta la nuova Clio RS Sport come un’automobile che prende in carico i valori utopici di ‘pienezza di vita’ tipici della marca, e un relativo programma d’azione atto a raggiungere tali valori congiungendosi con la libertà: libertà in senso molto concreto, data dall’evasione da una galera. La marca si fa responsabile enunciativo dei valori espressi dal testo e Destinante del soggetto che compie l’azione raccontata nell’enunciato soggiacente. 226

Da qui la messa in opera di una precisa situazione narrativa, quella di un incontro-scontro fra un’automobile e un dosso, e delle istanze sociali che tramite queste due figure sono chiaramente rappresentate: da un lato il guidatore dell’auto, che non si vede espressamente ma s’inferisce come presente («chi guida la vettura?»); dall’altro un secondino o un agente a guardia dell’uscita della prigione, che hanno in parte delegato i loro compiti di sorveglianza a un attore non umano qual è il dosso, dinnanzi al quale la macchina avrebbe dovuto quanto meno rallentare e il suo guidatore farsi riconoscere («chi è là?»). Per convenzione sociale (Latour 1999), un dosso artificiale è, come dicono i francesi, un gendarme couché, un ‘poliziotto coricato’ fatto di una materia dura qual è la pietra o succedanei, il quale si fa promotore di un preciso dover-fare (rallentare) e conseguentemente portatore di una sanzione negativa per i suoi trasgressori: punizione fisica sia per l’auto (saltano le sospensioni) sia per il suo guidatore (che si prende una botta alla schiena). Come in molte storie, anche qui ci sono due soggetti che si incontrano e si scontrano, che entrano in competizione e in conflitto, fino a che l’uno non domina sull’altro. Il primo soggetto è il dosso, attore non umano che svolge il ruolo del poliziotto, invitando perentoriamente chi passa da quella strada a prestare attenzione e rallentare. L’altro è il guidatore, che non accetta il dovere che il dosso-poliziotto gli impone, e non solo non rallenta ma accelera, arrivando al punto di tranciarlo, di annientarlo, di ucciderlo insomma. Ma perché il dosso stava lì? Lo sappiamo: era in prossimità di qualcosa, di un edificio nei pressi del quale occorre rallentare, l’edificio minaccioso e silente della prigione (la cui interpretazione tematica riceve ulteriore conferma). In più, il dosso è posizionato, rispetto al luogo dove si trova l’automobile in corsa, dalla parte sinistra della carreggiata: possiamo dunque presumere che sia stato piazzato lì perché in prossimità dell’entrata di quest’edificio. Un’entrata dalla quale la macchina invece fuoriesce calpestandolo e polverizzandolo. Mettendo in scena l’esatto momento centrale d’ogni storia, la performance del Soggetto nella sua Lotta con l’Anti-soggetto, l’annuncio illustra l’attimo fecondo in cui l’auto ha appena terminato di annientare il nemico, cancellando la discontinuità del terreno che il dosso cercava di riaffermare, per lanciarsi in una corsa sfrenata. Solo che, in tal modo, viene fuori una vicenda tutt’altro che edificante, dove la ricerca della libertà è funzione non solo di una serie di infrazioni alle regole stradali, ma persino di quelle del vivere civile. A lasciarci la pelle, alla fine, è il poliziotto che custodiva l’entrata del carcere: prima disteso a terra e trasformato in un dosso, poi annientato dall’evaso senza scrupoli. Ma non stiamo esagerando con queste inferenze? Basta l’enciclopedia letteraria e cinematografica per giustificare una tale interpretazione? Probabilmente no. E dunque più che ricorrere alla nostra riserva di cono227

scenze e ricordi progressivamente costruita grazie alle nostre precedenti esperienze di lettura o di visione, possiamo cercare un’altra strada. Per esempio, quella dell’aggancio dello specifico testo studiato al discorso che lo sostiene, quindi alla relazione intertestuale e intradiscorsiva fra il nostro annuncio e altri momenti della medesima campagna pubblicitaria. Così, andando a cercare nella ricca serie di spot per New Clio RS200cv, ne troviamo uno che fa al caso nostro. In uno spazio, manco a dirlo, deserto, sotto un cielo scuro e nuvoloso dal quale sta però per emergere il primo sole dell’alba, una macchina nera e lucente sfreccia a tutta velocità lungo una strada anonima. Un valzer di Strauss, a tutto volume, connota un’atmosfera spensierata ed euforica che, però, viene ogni tanto disturbata da un rumore metallico non ben identificato che emerge in sottofondo. Guardando con attenzione le immagini ne capiamo l’origine: è lo stridore di una pallottola che, inseguendo l’auto, le si affianca minacciosamente sulla sinistra. Il guidatore se ne accorge e non smette di correre, di modo che auto e pallottola tengono per un po’ la stessa folle velocità e corrono in parallelo. Strauss s’alterna con il suono metallico e sinistro. A un certo punto il nostro uomo scorge un bivio a sinistra, e con un’ardita, pericolosissima manovra apre il finestrino sinistro, fa entrare la pallottola nell’abitacolo, sterza leggermente sulla sinistra cercando di scansare il proiettile, apre l’altro finestrino, sterza un altro po’, e la minaccia esce dall’altro lato, permettendogli di girare infine al bivio, mentre la pallottola s’allontana inutilmente lungo la strada maestra. Pericolo scansato, grazie alle velocità inaudite raggiungibili dalla New Clio RS 200cv («Schizza via come un proiettile»), alla sua tenuta di strada, ma anche all’abilità e al sangue freddo del suo guidatore. Da dove deriva questo sangue freddo? Lo abbiamo già capito. Dal fatto di essere appena evaso dalla galera e di star fuggendo a tutta velocità mentre i secondini, allarmati dall’‘uccisione’ del dosso, provano a inseguirlo sparandogli dietro. La libertà è garantita, la strada laterale imboccata, la morale in pericolo. E la pallottola? persa nel mezzo del nulla desertico? Forse no, se osserviamo con attenzione quella X presente in «Extra» del claim dell’annuncio. Quello che provvisoriamente avremmo potuto considerare come una specie di logo ci appare molto chiaramente come un’immagine: è il vetro frantumato dal buco di un proiettile che, casualmente, forma una figura a croce. Che alla fine i secondini abbiano riacchiappato il malvivente? Lo schema nella pagina a fronte, che riassume la nostra analisi, mostra i livelli di senso coinvolti nella campagna per costruire la propria coerenza discorsiva.

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Annuncio

Spot

macchina che sfreccia dosso artificiale distrutto cancellata senza fine nuvole scure X di «Extra»

macchina che corre proiettile che l’insegue manovra ardita del guidatore deviazione del percorso

fuga nella strada deserta e inseguimento

‘prigionia ‘legge

vs vs

configurazione figurativa

configurazione tematica

‘evasione’ rapida e violenta uscita dal carcere

serie di testi

macchina colpita e cattura

libertà’ trasgressione’

racconto sottostante

assiologia profonda

4.4.3. Punti di vista Un’altra fondamentale procedura che dà luogo a forme un po’ più complesse di coerenza fra testi diversi mantenendo un unico discorso soggiacente è quella del punto di vista e dei suoi giochi cognitivopassionali. Sulla base di questa procedura i medesimi eventi, persone, cose o situazioni possono venire raccontati in termini anche molto diversi sulla base di quanto se ne sa o si vuole che se ne sappia. Possono venire raccontati in modo globale, cioè da un enunciatore che, dall’alto del proprio sapere, dice più di quello che i singoli attori presenti pensano e conoscono della vicenda in cui pure sono coinvolti. Oppure, il medesimo enunciato può essere assunto nell’ottica di un sapere locale, e cioè da un enunciatore che controlla la situazione solo parzialmente e che spesso coincide con uno dei personaggi presenti. Procedura praticata – e teorizzata – soprattutto nella letteratura e nel cinema come allargamento o restringimento di focale sull’enunciato narrativo (da cui la metafora visiva), il punto di vista è in effetti presente in qualsiasi forma di discorso: è una sorta di controllo dei flussi di sapere che il discorso stesso intende veicolare, di gestione della qualità e della quantità di conoscenza che s’intende comunicare. Così, in tutti i discorsi – ivi compreso quello di marca – l’enunciatore può assumere in prima perso229

na ciò che dice, esibendo la propria ‘cultura’ ma facendosi al tempo stesso carico delle responsabilità che ne derivano («Io dico ciò che so»). Oppure – negli stessi generi di discorso – esso può limitarsi a trasmettere un sapere che sono altri a possedere, altri più esperti e capaci di lui, che si prendono quindi gli onori e gli oneri di queste conoscenze pregresse. O possono esistere forme intermedie, come quando l’enunciatore cede temporaneamente o in parte la parola ad altri, delegando loro la responsabilità enunciativa e cognitiva, per poi riprendersela e mostrare tutta quella sua competenza che, per calcolata falsa modestia, in un primo momento aveva voluto lasciare in secondo piano. Il discorso di marca usa molto frequentemente questo genere di strategie comunicative legato ai passaggi di parola e alla citazione del discorso altrui, ora per trasferire al proprio enunciato un valore veridittivo proveniente da altri soggetti sociali e comunicativi (esperti medici o dentisti, sedicenti scienziati, trainer sportivi, casalinghe che ‘la sanno lunga’, meccanici professionisti, ‘praticoni’ vari...), ora per dotarlo di un’intensità passionale maggiore (uomini di spettacolo, divi e cantanti, campioni di una qualche disciplina sportiva, avventurieri...), ora – appunto – per legare insieme testi diversi, ognuno dei quali dotato di un punto di vista differente sul medesimo processo narrativo. Un esempio abbastanza noto per quest’ultimo caso è quello di quattro spot di una campagna Barilla dei primi anni Novanta, dove la medesima storia è raccontata ogni volta in modo diverso dai suoi quattro protagonisti: una madre, la figlia, il figlio minore, l’allenatore americano di basket di un terzo figlio maggiore (cfr. Losito e Zerbinati 1994). Quest’ultimo porta a pranzo, inaspettato, l’aitante sportivo, scatenando pensieri e passioni diversi in tutti i membri della famiglia (dove è significativamente assente la figura paterna). Il bambino, innanzitutto, si mostra scocciato dalla presenza straordinaria dell’uomo, preoccupandosi di perdere gli spaghetti quotidiani. L’allenatore, per nulla imbarazzato dalla situazione, pensa a un pasto leggero che possa mantenerlo in forma. La figlia, colpita dall’uomo, prova a sedurlo preparandogli un piatto di spaghetti che sfrutta una ricetta illustrata nel pack. La madre, infine, all’inizio perde il controllo della situazione e cede alla figlia il suo ruolo di cuoca, poi però tiene sott’occhio i movimenti di tutti e desidera far bella figura con l’ospite. Ognuno di questi punti di vista, provocando una passione diversa, tende a valorizzare diversamente gli spaghetti (pasto abituale, cibo dietetico, strumento per sedurre, oggetto estetico) facendo 230

della marca Barilla il luogo di un’unione familiare complessa e contrastata, il soggetto capace di gestirla, nonché la rivendicazione di un valore di italianità che non esclude per questo abitudini alimentari altre, come quelle dello sportivo americano. La multiprospetticità narrativa mantiene la coerenza del discorso di marca proprio attraverso l’esplicitazione di una diversità interna di vedute.

4.5. Prassi enunciative L’ultima questione da affrontare a proposito dell’enunciazione discende in parte da quanto s’è detto alla fine del paragrafo precedente circa la procedura del punto di vista e dei passaggi di parola: i meccanismi di delega e controdelega della parola, ma anche di attori, spazi e tempi tendono a produrre all’interno del discorso un qualche spessore enunciativo, ossia un’inevitabile moltiplicazione di piani comunicativi e semantici. Così come all’interno di un’immagine, e in generale di ogni campo visivo, vi sono molteplici piani – primo piano, secondo piano, sfondo ecc. –, al punto che la percezione è sempre selezione orientata di un visibile che emerge rispetto a un invisibile che lo sostiene, analogamente all’interno di un qualsiasi flusso discorsivo si produce una stratificazione, un accumulo più o meno gerarchicamente organizzato di piani enunciativi e di conseguenti contenuti enunciati, di voci e di messaggi che può avere esiti molto diversi e molto particolari. È l’idea di una polifonia interna al discorso, più o meno nascosta, più o meno palese, ma sempre e in ogni caso presente e, per così dire, funzionante. Se in taluni casi può esser chiaro chi parla (e a chi si parla), in altri la voce dell’emittente emerge invece sullo sfondo di ulteriori voci che riecheggiano nel suo discorso, portandosi dietro contenuti diversi pronti a mescolarsi fra loro, ad articolarsi in maniere ora casuali ora calcolate. Parlando, posso tenere per me la parola, posso passarla ad altri, posso parlare in nome di altri, posso riprendere la parola altrui nella mia sino a confondere del tutto le voci – con tutte le conseguenze che ciò produce sia dal punto di vista dei contenuti trasmessi sia da quello delle responsabilità enunciative. In fondo, quando apro bocca, chi parla effettivamente in me? l’inconscio, la famiglia, il gruppo sociale, l’opinione comune, la tradizione, il calderone mediatico? Tutte istanze che, volenti o nolenti, s’intrecciano e si confondono in ogni mio discorso, al punto da rendere estremamente difficile, se non inutile, un’individuazione chiara e definitiva dell’origine dei contenuti discorsivi che pure produco. 231

4.5.1. Lo spessore del discorso Tematica molto vasta, questa della polifonia e della pluridiscorsività, variamente affrontata in teoria letteraria, in filosofia del linguaggio e in semiotica (basti per tutti il nome di Michail Bachtin), che ha ricadute notevolissime anche per quel che riguarda il discorso di marca: istanza comunicativa che, per definizione, ne trattiene al suo interno molteplici altre, facendole giocare in modi anche abbastanza complessi. Se la marca può essere la fonte del discorso che produce, Autore consapevole e responsabile dei contenuti che diffonde, essa lo è, a ben vedere, solo in linea di principio: per il modo in cui tende a presentarsi e ad apparire al proprio pubblico. Nei fatti, essa è perennemente attraversata da enunciatori molteplici, da concatenamenti collettivi di enunciazione (Deleuze) che tendono a incrinarne l’autorialità e l’autorevolezza originaria, oppure – se ben strutturati e gestiti – possono invece apportare alla fonte discorsiva primaria il loro sapere, i loro contenuti, i loro valori di verità, il capitale di fiducia che, in altri campi, essi si sono progressivamente conquistati, rafforzando così l’istanza autoriale di partenza. Analogamente, una marca può presentarsi come sfondo dove si stagliano discorsi d’altro genere – sociali, politici, turistici, spettacolari ecc. – oppure al contrario essa può usarli come orizzonte entro cui far emergere i propri contenuti tematici e i propri valori. Immergendosi nella cultura sociale, del resto, essa si mescola ai flussi comunicativi e alle pratiche in essa presenti, dando luogo a combinazioni variegate, ora assorbendo al suo interno valori, tematiche provenienti da altri domini del sapere, ora al contrario donando a essi parte del proprio capitale simbolico. In un modo come nell’altro, quel che si produce è un ispessimento del discorso di marca, e conseguentemente la creazione di una prospettiva gerarchica grazie a cui le differenti istanze discorsive si ordinano e si manifestano testualmente. Di modo che sono i testi, come sempre, che alla fine si fanno carico di rendere conto e di diffondere questi fenomeni di profondità enunciativa. Così, quando Clinique, come s’è visto [fig. 10], afferma che «una buona crema notte si vede dal mattino» sta abbastanza chiaramente riprendendo un modo di dire, importandolo e trasformandolo ai propri scopi pubblicitari: gli effetti di un prodotto di bellezza si stagliano sullo sfondo dell’opinione comune prendendo metaforicamente il posto del ‘buon giorno’. Chi sta parlando in questo momento? La marca, è chiaro, ma lo fa in qualche modo mescolandosi 232

al discorso diffuso e autorevole della saggezza popolare, vera o presunta che sia, non senza una certa dose d’ironia che strizza l’occhio al destinatario dell’annuncio che sa coglierla. Gli esempi di questo tipo sono innumerevoli. È più che noto infatti che il discorso pubblicitario tende spesso a far propri espressioni popolari, luoghi comuni, modi di dire, proverbi, frasi fatte, stereotipi che sono entrati nella parlata quotidiana sin quasi a diventare patrimonio della comunicazione standard. Cosa che vale sia per la lingua verbale sia per le immagini (stereotipi visivi, icone, sintagmi gestuali tipici, pose cristallizzate del linguaggio del corpo ecc.), espandendosi dal discorso quotidiano a tutti gli altri linguaggi e forme espressive della cultura di massa, dall’arte alla letteratura, dal cinema alla televisione, dal giornalismo ai videogiochi e ai siti Internet. Così, un annuncio Ava [fig. 38] ha come head «Ava Forza Polare. Il pulito che viene dal freddo», dove l’evidente citazione della «spia che viene dal freddo», con tutto l’immaginario cinematografico che ne deriva, viene corroborata dal curioso interrogativo del body copy («hai mai provato nell’acqua fredda?»), mitigato dalla presenza dell’immagine del pulcino Calimero, quasi-logo della marca da lungo tempo. Ne viene fuori un discorso, appunto, ispessito da istanze discorsive diseguali e forse incoerenti, che il visual (una confezione del prodotto immersa a forza in acqua ghiacciata) non fa a sua volta che rafforzare. Piccolo esempio di un enorme campo di lavoro comunicativo e testuale su cui peraltro la critica pubblicitaria, anche di ispirazione semiotica, ha già tanto e bene lavorato (cfr. per esempio Codeluppi 2000a; Dagostino 2006; e Manetti 2006), e sul quale non occorre quindi ritornare in questa sede. La pratica della citazione diretta e indiretta, dell’uso ironico degli stereotipi, della 38 loro traduzione in campi di233

scorsivi diversi da quelli originari, fra l’altro, non è certamente una prerogativa della sola pubblicità: a essa anzi è arrivata tramite forme artistiche varie (architettura, pittura, letteratura, cinema...) che già da tempo sono state rubricate nel campo del postmoderno, e che dunque non stupisce affatto di ritrovare adesso all’interno di una problematica della marca. Quel che semmai è interessante in questa sede è osservare come tutti questi fenomeni possano ricevere, oltre e accanto a una definizione storico-estetica, anche una spiegazione formale di tipo semiotico, a partire dalla nozione di prassi enunciativa. La prassi enunciativa, su cui la semiotica lavora già da qualche tempo, è una nozione particolarmente interessante, non foss’altro perché è uno degli anelli che mettono in collegamento due delle più recenti correnti della scienza della significazione: da una parte la semiotica cosiddetta tensiva (Fontanille e Zilberberg 1998; Fontanille 1998), dall’altra la sociosemiotica (Landowski 1989; Marrone 2001). Molto in sintesi, questa nozione comporta l’innesto di una semiotica della cultura all’interno della testualità, sulla base del principio teorico per cui non ci sono soltanto ricadute sociali dei testi, ma anche una socialità intrinseca della semiosi. Come chiarisce Bertrand (2000), si tratta di porre il discorso sociale, con i suoi ‘blocchi pre-condizionati’, al centro dell’analisi testuale: non più partire dal sistema della lingua e vedere come viene realizzato individualmente con la parole; ma esaminare in che modo topoi, stereotipi, generi discorsivi, modi di dire ecc., costituiti nell’uso semiotico, si riverberano sotto forma di primitivi nel sistema virtuale della lingua. L’idea è quella di un’enunciazione che sta a metà tra il sistema formale-astratto della significazione e la sua appropriazione individuale. Diversamente da Benveniste, che insisteva sull’importanza della soggettività nel linguaggio, l’idea di prassi enunciativa mette a fuoco le istanze collettive che stanno dietro, o dentro, qualsiasi enunciatore: io che parlo non sono un io se non in funzione dell’istanza socioculturale che mi attraversa, e che parla in me. Ci si chiede spesso: chi parla in un annuncio pubblicitario? La catena è lunga: l’azienda, la marca, il pubblicitario, il testimonial, l’attore, il personaggio, ma anche, a ben pensarci, il buon senso, l’opinione comune, l’opinione pubblica, il moralismo diffuso ecc. Floch (1995), a proposito della prassi enunciativa, richiamava il bricolage di Lévi-Strauss (1962), su cui torneremo [§ 5.6], proprio per sottolineare la presenza di quegli elementi già significanti che circolano nel mondo della cultura e che vengono ripresi, e più o meno trasformati, al momento dell’enunciazione. Ciò permetterebbe altresì di misurare il grado di innovazione di un discorso, a seconda del modo in cui questi blocchi pre-condizionati vengono ripresi, in modo più o meno pedissequo, più o meno originale. A lo234

ro volta Fontanille e Zilberberg (1998) hanno proposto un modello d’analisi della prassi enunciativa attraverso la postulazione di quello che chiamano «campo tensivo delle modalizzazioni esistenziali», il quale ha la seguente rappresentazione schematica: potenzializzazione (scomparsa) (declino) virtualizzazione

realizzazione

(emergenza)

(apparizione) attualizzazione

Ci sarebbe una specie di movimento circolare che parte (per convenzione) dal sistema virtuale, passa per l’attualizzazione e arriva alla realizzazione (ed è il movimento della significazione). Da qui ha inizio la storia, ossia il fatto che, grazie all’uso, dalla realizzazione si passa alla potenzializzazione, ossia alla costituzione di prassemi enunciativi, che possono contribuire al riaggiustamento del sistema grazie alla virtualizzazione. Si possono indicare in tal modo quattro ‘operazioni elementari’ della prassi enunciativa, due delle quali di carattere ascendente – l’emergenza (dalla virtualizzazione all’attualizzazione) e l’apparizione (dall’attualizzazione alla realizzazione) – e due di carattere discendente – il declino (dalla realizzazione alla potenzializzazione) e la scomparsa (dalla potenzializzazione alla virtualizzazione). Nel discorso concreto però, osservano Fontanille e Zilberberg (1998), non ha mai luogo una sola operazione ma come minimo due: un’operazione, per esempio, di emergenza di una data grandezza semiotica si accompagna al declino di un’altra che stava al suo posto, o viceversa. Da qui la formulazione di una combinatoria delle operazioni elementari, che rende conto della tensione tra due movimenti della prassi enunciativa: ascendenza decadenza declino scomparsa

emergenza

apparizione

distorsione

fluttuazione

rimaneggiamento

rivoluzione

Quando un’apparizione si associa a una scomparsa si ha una rivoluzione, ossia la sostituzione di un elemento con un altro (per esempio, il cambio radicale di un logo o di un nome di marca); quando un’appari235

zione si associa a un declino c’è una fluttuazione, ossia la compresenza entro il medesimo discorso di un elemento tradizionale con uno del tutto nuovo (per esempio l’estensione di una marca di moda a un ambito molto lontano come il cibo). Più delicate le altre due operazioni: quando un’emergenza si associa a un declino c’è una distorsione, dove la compresenza riguarda un elemento che sta per affermarsi e un altro che sta invece per scemare (per esempio l’affermarsi di certe forti tendenze al cambiamento entro un panorama momentaneamente stabile della moda); quando un’emergenza si associa a una scomparsa c’è un rimaneggiamento, ossia l’affermarsi di una nuova tendenza che sta per prender piede di contro a un’altra che viene meno (per esempio il riposizionamento di una marca nel posto lasciato vuoto da un’altra).

4.5.2. Gradi di presenza La prassi enunciativa prevede che in un discorso ci siano quanto meno due grandezze: una di esse è ovviamente realizzata, data, effettivamente percepibile; l’altra è percepibile invece solo in modo indiretto, secondario, come sullo sfondo: essa è quindi attuale (se si tratta di una possibilità in qualche modo prevedibile ma non ancora realmente presentatasi) oppure è potenziale (se si tratta di qualcosa che ha avuto suoi momenti di realizzazione, essendo stata per un certo periodo una soluzione adottata e riconosciuta, e adesso è come in stand by, fra parentesi, ma pronta a tornare a galla). Riprendendo la metafora visiva, nel discorso ci sono sempre un primo piano e uno sfondo che, grazie alla prassi enunciativa, possono scambiarsi i ruoli nel corso del tempo. In tal modo, i contenuti testuali non rispondono solo a relazioni sistematiche o logico-narrative, ma hanno anche un diverso grado di presenza nel discorso, sono più o meno ‘in servizio’ nel discorso, vi insistono più o meno. Grado di presenza che si costituisce in una tensione essenziale, e in una messa in prospettiva, degli elementi testuali dati: che divengono virtuali, potenziali, attuali o realizzati l’uno in relazione all’altro. Così, una marca può affermare i propri contenuti mettendoli in relazione più o meno palese con quelli di altri discorsi concomitanti, oppure può progettare una propria trasformazione interna giocando in modo calcolato fra emergenze discorsive e concomitanti declini. Può produrre al proprio interno forme più o meno fittizie di enunciazione, a partire dalle quali prendere posizione e arricchirle, oppure può moltiplicare le voci e i contenuti sino a esplodere o a dissolversi. Trovano qui risistemazione teorica e metodologica pratiche come quella del co-bran236

ding, dove una marca si staglia in funzione di un’altra e viceversa, costituendo forme momentanee di alleanza discorsiva prima ancora che economica [cfr. il caso Porsche/Hewlett Packard in § 3.7.4]. Con questo modello possono altresì ricevere una nuova definizione abitudini come quelle della sponsorizzazione, dove il marchio si inserisce in eventi, circostanze e discorsi altri, articolandosi con essi in una qualche gerarchia. E si reinterpretano in questo quadro tattiche di marca come la presa in carico di problematiche sociali o ambientali, circostanze belliche, disastri naturali, questioni etiche, ideologie politiche, religioni. Prendendo posizione rispetto a tutto ciò, il discorso di marca si risemantizza, acquista o perde senso a seconda del grado di presenza con il quale riesce a imporsi nelle sue prassi enunciative. Uno dei casi più semplici e più ricorrenti in questo senso è quello per cui la marca si manifesta nei testi che costituiscono il suo discorso delegando parte della propria parola ad altri enunciatori più o meno fittizi. Così facendo, è come se essa, per così dire, continuasse ad aleggiare in un enunciato che prende altre direzioni e insegue obiettivi propri, in realtà rafforzando i suoi contenuti e riaffermando i suoi valori. Floch (1995), a proposito di una campagna stampa Waterman con cui la marca francese ha provato a risemantizzare il proprio logo insistendo sull’idea di doppiezza presente nella prima lettera del suo nome (W), ha mostrato come gli annunci [fig. 39] – obliqui nella strategia enunciativa – accostassero per fluttuazione al discorso esplicito della marca un secondo discorso, il cui enunciatore è un ‘io’ fittizio che scrive una lettera a un fratello gemello per ringraziarlo del dono ricevuto (ovviamente una penna Waterman). Laddove il discorso di marca viene manifestato dal logo, dalla parte verbale in caratteri tipografici e dall’immagine della penna presenti nella parte inferiore della pagina, il discorso dell’io emerge in tutto il resto dell’annuncio: la parte verbale scritta a mano, la vecchia foto soprastante, la penna con cui la lettera è stata scritta. Si tratta di due discorsi autonomi, il cui unico punto di sovrapposizione – la penna – si pone come elemento focale di entrambi: è un oggetto che, dice il body copy, permette di esprimersi più che di scrivere; ed è un oggetto, dice la lettera scritta da ‘io’, che ha fatto tornare alla memoria la profonda somiglianza – fisica, caratteriale, sociale, etica – fra i due gemelli, in apparenza molto diversi nelle scelte di vita. Così, la parziale delega enunciativa che la marca compie a favore dell’io scrivente è, molto chiaramente, una riaffermazione fortissima sia della valorizzazione utopica in cui essa intende collocare se stessa e il proprio prodotto, sia una risemantizzazione surrettizia del logo: i due gemelli – profondamente simili al di là d’ogni etichetta – s’abbracciano nella vecchia foto in cui era237

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no ancora ragazzini come le due V del marchio/nome (su questo annuncio cfr. anche Marrone 1998b e 2001). Un caso analogo è quello di Adidas [fig. 40], che per rafforzare la propria identità di marca tradizionale nel mondo dello sport propone un annuncio in cui si sovrappongono e si confondono con un sapiente bricolage enunciativo e figurativo – chiaro caso di distorsione – due diversi discorsi (Agnello e Marrone 2007). Innanzitutto c’è il discorso della marca, veicolato dalle parti tipografiche dell’annuncio, sia nella headline («6:54 a 89 anni. 5:40 a 92 anni. I keniani dovranno tenerlo d’occhio ecc.») sia nel body copy («Supernova Cushion, più comfort ecc.»), e dall’immagine centrale del vecchio indiano con la lunga barba bianca, seduto sul tappeto con una collana in mano. Che si tratti di un unico universo semantico, separato dal resto dell’annuncio, viene sottolineato anche, a livello plastico, dall’uso di una medesima gamma di colori, che vanno dal nero al bordeaux, al rosso, e che grossomodo rimandano ai colori dell’henné indiano. Il discorso della marca viene affiancato da un secondo discorso, questa volta presente a livello dell’enunciato, prodotto dalla finzione della parete beige sulla quale sono appesi una serie di oggetti, riuniti figurativamente dalla medesima ombra: ritagli di giornali, una medaglia, un orologio, delle scarpe ecc. L’enunciatore di questo secondo discorso è supposto essere il soggetto dell’enunciato che abita quella stanza con quella parete, individuo che nel corso del tempo ha appeso i suoi oggetti ben visibili sul muro. Discorso della marca e discorso fittizio, però, non solo si accostano ma soprattutto si sovrappongono, finendo per costruire una specie di effetto di continuità fra il mondo della marca (che parla) e il mondo rappresentato (che è parlato). Infatti, da una parte, possiamo inferire che il soggetto che abita la stanza sia il vecchio indiano rappresentato nel discorso della marca (la foto in uno dei due ritagli di giornale, del resto, enfatizza la somiglianza fisionomica fra le due figure umane). Il tappeto su cui l’indiano è seduto sembra quasi dipinto sulla parete; il filo dell’orologio e la sua ombra gli passano sopra, così come il 238

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bordo del pezzetto di carta in basso a destra. D’altra parte, gli oggetti appesi alla parete, seguendoli da sinistra a destra, vanno progressivamente a mettere in comunicazione l’universo rappresentato (giornali, medaglia, orologio) con quello della marca (scarpe, logo, pezzo di carta col payoff Adidas «forever sport»), dove a fare da trait d’union (da connettore d’isotopie, secondo il metalinguaggio semiotico) intervengono non a caso le scarpe, quelle sneakers che sono al tempo stesso il prodotto pubblicizzato e il mezzo che ha permesso all’anziano corridore di vincere la maratona di Boston. Un altro buon esempio di incastro tra discorso della marca e discorso dell’Io è quello di Krizia analizzato in Perri (2006).

4.5.3. Un imbuto discorsivo La questione della pluridiscorsività può essere approfondita riflettendo su un dato per certi versi ovvio riguardante la marca, e forse proprio per questo sinora poco discusso nei testi che cercano di renderne conto teoricamente. Da un lato, come s’è detto spesso (per esempio Semprini 1993), la marca è l’insieme dei discorsi che circolano intorno a essa, un discorso dunque che a partire da contenuti propri si sviluppa e si rafforza grazie alla proliferazione d’altri discorsi, progressivamente selezionati, filtrati e risucchiati al suo interno, fatti propri. Ma a ben vedere, già a monte la marca si configura come una specie di imbuto che incanala verso un unico discor239

so istanze enunciative abbastanza diverse, ognuna delle quali è la voce più o meno fioca delle molteplici forze che hanno partecipato a fondarla e che il destinatario può cogliere interamente o limitatamente: quella del produttore (impresa, azienda, corporate...), certo, ma in fondo anche quella del promotore e del distributore, quella del pubblicitario, quella del testimonial, quella di altri enunciatori fittizi creati dalla pubblicità stessa, quella dei media impiegati (tv, radio, stampa, affissioni, bus metropolitani...), quella degli eventi o delle istituzioni sponsorizzate, quella del rivenditore e del punto vendita, quella del packaging, quella del passaparola e così via. La marca è la risultante comunicativa di quest’insieme di voci che si mescolano e si sovrappongono al suo interno, ora mantenendo una propria fisionomia ora dissipandosi del tutto. Essa non può non considerare pertinenti tutti questi attori – dato che il consumatore/destinatario, dal canto suo, in ogni caso se ne preoccupa –, ora per cancellarne la presenza minacciosa, ora per mantenerla in vita per i propri scopi comunicativi. Quando Apple usa intere facciate di edifici storici come sfondi per le proprie affissioni riguardanti l’iPod, non sta soltanto proponendo una pubblicità particolarmente visibile, ma sta anche contribuendo nel bene o nel male all’estetica di quella città, sta entrando in dialogo con la significazione metropolitana implicandola entro il proprio discorso. Il cittadino, dal proprio punto di vista, non considera l’edificio con una nuova, temporanea ricopertura; valuterà semmai l’iPod e l’edificio come un testo coerente dotato di un unico senso: quello, appunto, della marca. Analogamente, quando Nike decide di sponsorizzare una città come Berlino, promuovendo l’istituzione di campi sportivi ma anche, per esempio, disegnando nuovi cestini della spazzatura, non sta soltanto iscrivendo il proprio marchio in un luogo urbano già dato, ma sta creando una nuova città, che non a caso è stata battezzata Niketown (Borries 2004). Ancora, quando una marca di moda decide di occupare un certo spazio espositivo all’interno di un grande magazzino, abbandonando la logica del brand store, sta entrando in contatto e in dialogo non soltanto con la significazione di quel punto vendita, ma anche con quella delle altre marche di moda che le stanno a fianco, in qualche modo equiparandosi a esse anche soltanto per il semplice fatto di stare usando i medesimi espositori, di godere della stessa illuminazione, della stessa sonorizzazione e così via. Ancora, quando una marca come Lavazza usa per lunghi anni come testimonial un attore come Nino Manfredi, sta mettendo in rela240

zione il caffè con l’espressività caratteristica del personaggio, ma sta anche risemantizzando il proprio discorso, sta enunciando un nuovo discorso nel quale la propria parola e quella di Manfredi si sovrappongono: Lavazza diviene «il caffè di Manfredi» e Manfredi diviene «quello del caffè Lavazza». Il cosiddetto ‘vampirismo’ del testimonial nei confronti della marca, come insegnano Nike e Michael Jordan, può funzionare in entrambi i sensi. Rileggere tutto ciò in chiave di prassi enunciativa permette di evitare le continue, fastidiose sovrapposizioni fra espressioni o nozioni fortemente ambigue (che la terminologia inglese, pura connotazione efficientista, non risolve affatto) come quelle di product image, corporate image, corporate identity, brand identity, brand image ecc. Preoccuparsi di distinguere la gestione dell’impresa da quella della marca, l’immaginario della marca dalle caratteristiche del prodotto, il consumo delle merci dalla rivendicazione di valori, l’identità costruita dall’immagine percepita ecc. significa ragionare in termini ancora referenzialisti, e dal nostro punto di vista improduttivi. Come se queste espressioni designassero entità ontologiche e non elementi semiotici. Come se tali nozioni riguardassero cose, persone, società, gruppi finanziari, istituzioni e non invece, come qui stiamo esponendo, istanze discorsive la cui esistenza reale si stempera – e al tempo stesso si riafferma – nel flusso di senso che esse, volenti o nolenti, costruiscono e diffondono. Non ci sono cose da un lato e rappresentazioni mentali (individuali o collettive) di queste cose dall’altro. Ci sono casomai discorsi sociali costituiti grazie all’articolazione coerente e significativa di cose e parole, azioni e immagini, organizzazioni e tecnologie, spazi e simboli. La nozione di marca riassume e rilancia tutto questo, ponendosi come una sorta di metaistanza discorsiva dotata di una particolare profondità enunciativa, che assorbe al suo interno tutta una serie di altre istanze discorsive, articolandole fra loro in una scala gerarchica variabile, volta per volta negoziabile, non senza conflitti interni da regolare e risolvere. Essere un ‘autore’ è anche e soprattutto questo. Soffermiamoci a mo’ d’esempio sulla questione del testimonial, figura pubblicitaria che, al di sotto di un’evidente funzione d’attrattiva psicologica e supporto comunicativo, nasconde un certo numero di problemi definitori e pragmatici. Dietro questa sua funzione testimoniale a prima vista ovvia, si tratta di una figura che non solo, com’è ovvio, è cambiata nel corso della storia in relazione ai forti cambiamenti sopravvenuti nella comu241

nicazione commerciale, ma è stata usata in termini molto diversi dalla pubblicità, ed è stata intesa dagli studiosi del settore in termini alquanto diseguali (cfr. per esempio le sintesi di Fabris 1994, pp. 168-172; Appiano 1998, pp. 222-225; Lombardi ed. 1998; Musso 2005). Che cosa testimonia, in fondo, il testimonial? Aspetti piuttosto differenti. Può trattarsi di qualcuno di cui si usa la notorietà semplicemente per attirare l’attenzione sul discorso pubblicitario, senza necessariamente avere un’attinenza con il prodotto o la marca; di un personaggio celebre le cui caratteristiche sono in sintonia con i contenuti della comunicazione; di un consumatore abituale eccellente, dunque garante della bontà del prodotto; dell’esponente di un certo stile di vita analogo a quello promosso dalla marca, dunque modello e complice del consumatore potenziale; di un’auctoritas che comprova la veridicità del discorso; di una star che sta al posto del prodotto e così via. Fra la ‘stella’ Kim Novak (il cui viso è semplicemente accostato al sapone Lux che promette «carnagioni più pure») [fig. 41] e la modella Megan Gale (protagonista delle storie Omnitel/Vodafone, dunque sorta di logo della marca grazie al quale acquisisce, in seconda battuta, notorietà e successo personali) [fig. 42] c’è un abisso non solo temporale ma anche semiotico: la prima è un eroe mediatico già costituito che si riverbera su un oggetto della vita quotidiana, magnificandone le proprietà; la seconda è una figura del mondo che acquisisce una serie di proprietà grazie alle storie in cui si trova ad agire, divenendo infine un eroe mediatico. L’uso del testimonial può essere insomma perfino antitetico. Tuttavia, c’è chi considera testimonial anche quei personaggi di fantasia appositamente creati nel discorso di marca (si pensi al già menzionato pulcino Calimero o alla famiglia del Mulino Bianco), chi invece include nella categoria anche gli anonimi ‘esperti’ in camice bianco che connotano scientificità (Dentosan), chi considera tali anche le citazioni da altre forme espressive (E.T. per Sip, la Gioconda manipolata 41 42 per Ferrarelle [fig. 43]), e chi addirittura considera testimonial di una marca... l’immagine della marca. È evidente che si tratta di casi molto diversi, se non contrastanti, racchiusi in una nozione che si configura come il tipico ‘termine om43 242

brello’: un lessema parascientifico che esprime sensi e designa situazioni non assimilabili, e che richiede pertanto l’esplicitazione di una serie di criteri coerenti di catalogazione. Fabris (1994) propone a questo proposito di distinguere i testimoni veri e propri (che assommano le proprie caratteristiche a quelle del prodotto) dai semplici influenti (la cui autorevolezza si riverbera sul prodotto). E analogamente Musso (2005) distingue una logica dell’intermediazione (dove vige il criterio della notorietà del personaggio che serve soltanto ad attirare l’attenzione del pubblico) da una logica della complicità (dove il personaggio aderisce ai valori di marca, ne esprime sinteticamente il portato, ponendosi come modello al consumatore). Ma si tratta di criteri generici che, a ben vedere, rispondono a una mentalità orientata sul prodotto, oppure assimilano questioni legate all’enunciato (i valori semantici investiti) ad altre legate all’enunciazione (interrelazione enunciatore/enunciatario), senza peraltro differenziare una dimensione prettamente cognitiva (da cui la notorietà e la conseguente attenzione) da una più chiaramente passionale (da cui l’adesione, la complicità, la creazione di un universo affettivo comune). Eppure, è indubbio che la problematica del testimonial sia non solo pertinente ma essenziale in una discussione sul discorso di marca. Nel momento in cui la marca acquista tutta la sua centralità non solo nell’universo comunicativo ma in quello sociale, la figura del testimonial, venendo a coincidere con alcune delle principali funzioni della marca (marchio di garanzia, controprova della veridicità del discorso, modello di stile di vita...) al tempo stesso si rafforza e si dissolve. La marca, per certi versi, è un testimonial tanto forte da non aver bisogno di testimonial esterni; e quelli che pure usa – da cui i casi come quelli di Michael Jordan o Megan Gale – divengono marche a loro volta. Per altri versi, qualunque anonimo consumatore, aderendo profondamente ai valori di marca ed esponendo orgogliosamente il suo logo, si fa moltiplicatore del discorso di marca, suo diffusore più o meno consapevole, perdendo grazie a ciò parte del suo anonimato e facendosi a tutti gli effetti testimonial della marca e... di se stesso. Così, più che proporre aprioristiche – e spesso disordinate – distinzioni fra tipi, frequentemente contraddette dalla pratica comunicativa e dai processi sociali, risulta più utile esaminare i casi concreti, le forme di manifestazione testuale del testimonial e il ruolo discorsivo che esso volta per volta occupa nel discorso di marca, a partire dal quadrato dei generi di marca sopra esposto [§ 4.3.4]. Si consideri l’esempio abbastanza semplice di un annuncio per un lucidalabbra L’Oréal [fig. 44], dove viene convocata la star emergente Scarlett Johansson, cui viene attribuita fra virgolette un’interpellazione diretta all’enunciatario («Trasformate le vostre labbra in specchio»). L’enunciato in questione viene fatto seguire subito sotto dal nome dell’attrice, che funziona sia a mo’ di firma autenti243

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cante della frase sia come didascalia dell’immagine dove essa viene riprodotta, appunto, con le labbra palesemente specchianti. Il testimonial funziona dunque a un solo livello, quello dell’enunciazione, dove la Johansson è il delegato dell’enunciatore che rivolge un appello esplicito all’enunciatario, invitandolo a consumare il prodotto. In questo contesto, la sua riproduzione nel visual dell’annuncio non fa che costituire un doppio referente interno al testo, ponendosi come oggetto a cui l’enunciato verbale si riferisce: da una parte comprova quel che l’attrice afferma a parole, mostrando l’esito euforico dell’uso del prodotto (ridetto, per lo più, dall’immagine specchiata della donna); d’altra parte, lo sguardo del personaggio verso l’enunciatario conferma la volontà d’interpellazione, il coinvolgimento dello spettatore – guardato – nel discorso guardante. Appare chiaro, pertanto, come qui il testimonial giochi un ruolo assolutamente referenziale, che viene per esempio negato in senso obliquo da un annuncio per il profumo Curious che convoca la cantante Britney Spears [fig. 45]. La domanda posta nella head – «Vuoi osare?» – può essere attribuita, se messa in relazione allo sguardo della donna verso l’enunciatario, direttamente alla cantante: è una specie di manipolazione narrativa in cui essa si pone come un Destinante che propone a un Destinatario di dotarsi di una modalità del fare (volere) e di un conseguente programma d’azione (osare). Tale programma, pur senza possedere un contenuto specifico, mette alla prova l’identità pragmatica e passionale del Sogget244

to: «osare» – dice il dizionario – è fare qualcosa che potrebbe andar oltre le comprovate possibilità del Soggetto, il suo saper-fare, e che richiede pertanto una forte dose di coraggio, addirittura una certa temerarietà, l’assunzione di un rischio. Collegandosi a questo assetto enunciativo, che in sé potrebbe dar luogo a un’oscillazione interpretativa – osare di adoperare il profumo? osare, più genericamente, nella vita grazie all’ausilio del profumo? –, il visual dell’annuncio propone l’attimo fecondo di una storia di temerarietà: la donna guarda noi, forse, non perché ci sta interpellando riguardo al profumo, ma perché è lei che sta osando (sta per lanciarsi in un’avventura galante con l’uomo sullo sfondo che a sua volta la guarda), e ci chiede pertanto di sospendere il giudizio circa il suo operato trasgressivo («che importa?»). Oppure, più probabilmente, si tratta di una più complessa catena di sguardi: la donna sta guardando noi con il medesimo sguardo ammiccante con cui è guardata dall’uomo (al quale però dà le spalle). Il profumo – Curious – trova così il proprio ruolo narrativo e comunicativo al tempo stesso: è la figura del coraggio necessario per poter osare, strumento che porta all’assunzione euforica di un rischio. Enunciazione ed enunciato, facendo giocare a entrambi i livelli il testimonial convocato, contribuiscono così nella loro articolazione reciproca a costruire il senso globale di un annuncio evidentemente obliquo.

4.5.4. La legittimazione sociale Se la marca non è in senso stretto un’istanza discorsiva semplice ma una metaistanza che assorbe e rilancia discorsi altri a proprio uso e consumo, ciò pone l’annosa questione della legittimità etica – e della conseguente ricerca di una legittimazione sociale – di questo genere di prassi enunciativa. La marca parla discorsi altrui, li fa propri, li riporta al suo interno. Da cui quanto meno due interrogativi. Da un lato: che cosa accade a questi discorsi? che tipo di ripercussioni socioculturali può avere questa loro importazione più o meno forzata all’interno del discorso di marca? Dall’altro, parallelamente: in che modo la marca prova per così dire a giustificarsi, assumendosi in prima persona – oppure ipocritamente denegando – la questione delle valenze discorsive, del metavalore, del valore dei valori presenti in ogni discorso? che cosa accade quando, per sua specifica natura, la marca varca i confini della comunicazione commerciale – e dei valori che tale macrogenere porta con sé – per farsi discorso sociale che invade e risucchia altri discorsi sociali (come quelli che discutono delle politiche ecologiche, della responsabilità etica nei confronti dei minori, degli aiuti ai Paesi del Terzo Mondo, della pena di morte, ma anche, per altri versi, come quelli che hanno a che fare con lo 245

sport, lo spettacolo, il turismo, l’immaginario mediatico e così via)? La prima reazione, si sa, è quella dell’irritazione, sulla base dell’idea diffusa per cui la marca sfrutta surrettiziamente altri discorsi per scopi che, a conti fatti, sono sempre esclusivamente commerciali. La sensibilità sociale nei confronti delle marche è da questo punto di vista di continuo sospetto, se non di assoluto rifiuto. E possiamo a questo proposito osservare che, in fondo, i grossi movimenti anti-marca che si sono affermati dagli anni Novanta in poi non sono altro che la punta di iceberg di un’irritazione sociale più profonda e più ampia nei confronti della marca in quanto istituzione. Ma a ogni reazione segue, come è ovvio, una reazione opposta, una qualche risposta che, tenendo conto delle ragioni e delle passioni del proprio interlocutore incattivito, prova a convincerlo delle proprie buone ragioni e passioni, oppure a sfruttarlo, ancora una volta, per i propri fini specifici. La marca attuale, dato che costitutivamente non può che porsi sulla soglia fragile fra uno specifico discorso economico (di marketing e gestione aziendale) e un più ampio discorso sociale, vive e per certi versi si nutre di queste continue negoziazioni fra discorsi e, soprattutto, fra valori da attribuire a tali discorsi. Non solo, infatti, mette in continua discussione il senso e il ruolo della comunicazione commerciale, rivendicandone l’importanza sociale ed etica, ma, a ben vedere, al tempo stesso trasforma il senso e il ruolo degli altri discorsi a essa concomitanti – dalla politica allo sport, dallo spettacolo al turismo, dalla cultura alla solidarietà – mostrandone l’intrinseca valenza economica (e la triste ipocrisia di chi vuole ancora negarla). La marca, insomma, per sua natura mette in discussione la separazione aprioristica fra discorsi commerciali e discorsi non commerciali. Per dirla con i linguisti, essa neutralizza quest’opposizione radicale assumendo il ruolo di un ‘arci-discorso’ che, sussumendola al proprio interno, ristabilisce volta per volta il confine fra i suoi due termini. Appare chiaro per quale motivo uno studioso come Semprini (1993, 1997), ponendosi pionieristicamente il problema di una definizione sociosemiotica della marca, abbia preso in attenta considerazione il caso Benetton-Toscani: uno dei primi e dei più evidenti fenomeni comunicativi che, trasformando la pubblicità di prodotto in discorso di marca, ha provocato reazioni molto forti, sollevando un gran numero di questioni etiche talvolta anche molto delicate. Ripercorrendo circa dieci anni di campagne pubblicitarie Benetton (dal 1985 al 1995), Semprini mostra come, nonostante tale comuni246

cazione fosse basata su una coerenza di fondo data dalla declinazione semiotica dei medesimi temi (uguaglianza, differenza, identità, multiculturalismo), le ripercussioni che ha avuto (critiche di opportunismo, di provocazione gratuita, di cinismo nello sfruttare a fini commerciali argomenti delicati come la mafia, la guerra o l’Aids) hanno portato a una sua netta trasformazione, di fatto mescolando il discorso della marca al discorso sulla marca. A un certo punto, le stesse immagini utilizzate negli annunci portavano traccia delle polemiche in atto, ponendosi come esplicite risposte alle reazioni moralistiche che le precedenti campagne della marca avevano suscitato. In tal modo, la separazione di principio tra elementi testuali (relativi alla pubblicità) ed elementi contestuali (relativi al dibattito che ne scaturiva) è venuta meno, non solo ai fini dell’analisi (per tali ragioni, costitutivamente sociosemiotica), ma anche al momento stesso della produzione discorsiva: la comunicazione Benetton era diventata al tempo stesso pubblicitaria e metapubblicitaria, commerciale e politica, promozionale e sociale. Di fatto rivendicando la legittimità di un regime discorsivo essenzialmente metaenunciativo, quello della marca, che diverrà di lì a poco la norma. Semprini (1997, pp. 34-86) ripercorre le fasi cruciali delle campagne Benetton affidate a Toscani, ricostruendo i progressivi passaggi che da un ciclo della differenza (dove la varietà viene assunta a valore socioculturale positivo da rivendicare) conducono a uno dell’eguaglianza (dove la marca si assume il compito di superare le opposizioni conflittuali – sessuali, religiose, etniche, razziali – imposte dalla società) e poi a uno della morte (dove l’ottimismo precedente viene abbandonato in nome di una rappresentazione sedicente realistica dei terribili esiti dei conflitti umani). Le differenze prima assunte euforicamente e le opposizioni successivamente poste per essere ostinatamente superate fanno adesso intravedere il sostrato comune tipicamente umano, quegli avvenimenti cruciali di fronte ai quali, appunto, tutte le possibili differenze vengono negate: la morte, la malattia, la sofferenza, la distruzione, il sopruso, l’ingiustizia, ma anche, per altri versi, la nascita e l’intimità corporea del neonato con la propria madre. In tal modo la marca, pur vendendo maglioni, svolge un proprio preciso discorso, parla del mondo e dice la sua, prende posizione, interviene polemicamente, esprime il proprio sdegno, manifesta un’affettività profonda. Mettendo in gioco valori universali come quelli della vita e della morte, il discorso di Benetton, però, non può non toccare la sensibilità sociale: sia in senso positivo, attirando su di sé l’attenzione curiosa della gente comune e dei media; sia in senso negativo, con247

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vogliando critiche violente e fortissime richieste di messa in mora. Peraltro, se sino alla fase precedente gli annunci erano confezionati seguendo le regole e i mezzi canonici del discorso pubblicitario, il ciclo della morte propone adesso foto d’agenzia di carattere giornalistico: non più visual pubblicitari, ossia immagini prodotte a scopi eminentemente commerciali, ma fotografie scattate a prescindere dal discorso pubblicitario, dunque percepite dal grosso pubblico come immagini ‘vere’, non foss’altro perché generalmente collocate entro la cornice veridittiva del discorso dell’informazione. Lo ‘scandalo’ di questo genere di campagna non si gioca pertanto sul livello tematico ma su quello enunciativo. Lo choc non consiste nel fatto che Benetton dica o mostri temi e figure fortemente disforici (su cui infatti i media quotidianamente tornano), ma nel fatto che sia proprio lui a farlo, all’interno di una cornice discorsiva socialmente non legittimata a trattare tali argomenti qual è la pubblicità. Non è un caso, nota Semprini, che i primi a insorgere rispetto al ‘ciclo della morte’ siano stati proprio i pubblicitari, fortemente spiazzati dal doppio tabù infranto da Toscani: l’aver introdotto la disforia in un discorso sino ad allora considerato costitutivamente euforico; l’aver ricontrattato i confini 248

fra il discorso pubblicitario, da un lato, e i discorsi giornalistico, politico e medico, dall’altro lato, i soli sino a quel momento legittimati a parlare di Aids e di guerra, di mafia e di cimiteri. Così facendo, Benetton ha compiuto un’azione metaenunciativa che diverrà tipica di qualsiasi discorso di marca: non ha semplicemente tenuto un discorso ma ha preso posizione circa l’ordine generale dei discorsi sociali, la distribuzione dei generi, le pertinenze di ciascun genere, il senso e il ruolo d’ogni presa di parola, dentro e fuori la pubblicità. Non stupisce allora che la campagna successiva (battezzata ‘ciclo della verità’) si configuri come una chiara risposta alle critiche ricevute e come un conseguente rilancio del medesimo atteggiamento metaenunciativo assunto dalla marca. Due annunci in bianco e nero pubblicati sui giornali a una pagina di distanza l’uno dall’altro [figg. 46, 47] mostrano Luciano Benetton nudo mentre guarda negli occhi l’enunciatario, con una grande head che si sovrappone parzialmente al suo corpo: nel primo si legge «voglio recuperare i miei vestiti» e nel secondo «vuotate gli armadi». Nel body copy del secondo annuncio poi si invitano i consumatori a portare i vestiti dismessi nei negozi Benetton «per aiutare coloro che ne hanno bisogno», spiegando altresì che questa iniziativa, battezzata «Redistribution Project» in una specie di bollo in alto a destra, verrà intrapresa in collaborazione con la Croce Rossa e la Caritas (i cui rispettivi logo stanno sul fondo della pagina). Apparentemente, la rottura espressiva e comunicativa è fortissima: si abbandona il colore, si cambia tematica, la marca si appella direttamente al destinatario mettendo fra parentesi ogni discorso sul mondo. A ben vedere, si tratta invece della logica prosecuzione della strategia d’attacco all’ordine del discorso precedentemente messa in campo: non solo la marca parla di tutt’altro che non dei suoi maglioni entro un discorso che si vorrebbe rigorosamente pubblicitario, ma addirittura fa altro, e lo fa in collaborazione con due istituzioni che per definizione non hanno nulla a che vedere con l’universo commerciale. Il senso degli annunci, comunque inscritti nel discorso di marca grazie alla presenza del logo, può dunque essere ricostruito, nota Semprini, solo se si segue una logica intertestuale e contestuale: il testo esce fuori dai suoi confini canonici e si inscrive in una rete di altri testi, esibendo il suo essere replica a una critica precedente. Se non lo si inquadra sullo sfondo delle polemiche che l’hanno preceduto, esso sarebbe soltanto la bravata di un direttore d’azienda che si mostra nudo al suo pubblico chiedendo vestiti invece che venderglieli. In più, interpellando direttamente il consumatore, Benetton lo chiama in causa esattamente nel suo ruolo sociale di un soggetto che, consumando, potrebbe comunque compiere azioni di solidarietà verso gli altri: nel momento in cui si va a comprare un maglione, non si getta via quello già usato ma lo si dona a chi sta peggio di noi. 249

Al di là di quelli che saranno i destini successivi – comunicativi e commerciali – di Benetton, è indubbio, ricorda Semprini, che le sue campagne hanno segnato una fase di passaggio fra due diverse epoche della marca, allargandone a dismisura le frontiere della legittimità discorsiva: non più espediente di supporto alla pubblicità commerciale ma discorso sociale autonomo che si posiziona sul crinale fra diversi regimi di parola, rinegoziando i loro rispettivi ruoli ogniqualvolta risulta essere strategicamente utile. Superato lo scoglio – epistemologico prima ancora che etico – dei confini tematici e valoriali della forma pubblicità, il discorso di marca potrà a suo piacimento ridisegnare volta per volta il proprio campo d’esercizio, assumendo su di sé problematiche tipiche d’altri discorsi, risucchiandoli in modo più o meno assoluto al proprio interno. 4.5.5. Valenze discorsive e testi modulari Da ciò, riprendendo alcuni punti del ragionamento di Ferraro (1998), è possibile trarre alcune considerazioni conclusive. In primo luogo, appare evidente che lo ‘scandaloso’ allargamento dello spazio di legittimità discorsiva compiuto da Benetton verso altri campi della comunicazione come la politica e il giornalismo è in parte derivato dalla perdita di autorevolezza di questi altri tipi di discorso. Ci troveremmo così dinnanzi a un perfetto esempio di quella che Fontanille e Zilberberg (1998) chiamerebbero una prassi enunciativa per distorsione, data dall’incrociarsi fra il declino di una grandezza semiotica e l’emergenza di un’altra. Ma forse, più in generale, l’affermarsi del discorso di marca – di cui il caso Benetton-Toscani è un esempio paradigmatico – è legato a un affievolirsi dell’idea stessa di un’autorevolezza discorsiva, al venir meno di un’autorità veridittiva (ipse dixit) fondata su un contratto di veridizione forte e socialmente condiviso (Greimas 1983). A dispetto della sua apparente fiducia nella scienza e, più a fondo, nell’oggettività, la (post)modernità è indubbiamente caratterizzata da una crisi della veridizione, dove l’instaurazione problematica e negoziale di una serie di fedi locali e temporanee ha preso il posto di un contratto sociale indiscutibile, stipulato una volta per tutte con un Destinante epistemico trascendente. Così la marca, istanza discorsiva il cui fine principale è proprio la stipula di patti comunicativi il più possibile convincenti e duraturi, si trova ad agire in una cultura sociale che va costitutivamente in cerca di una fiducia reciproca. Laddove la pubblicità tradizio250

nale aveva come scopo primario il congiungimento euforico fra Soggetti e Oggetti di valore, il discorso di marca persegue invece, più a monte, l’instaurazione di connessioni convincenti e sentite fra soggetti. Il suo obiettivo è la comunicazione intersoggettiva, non l’appropriazione del mondo. Non si tratta di congiungersi con valori – individuali o sociali – già dati e come tali inscritti in oggetti, ma di ridiscutere ogni volta il valore di valori, di rinegoziarne la valenza all’interno di possibili relazioni fra soggetti. Laddove la comunicazione Benetton teneva un discorso che insisteva sul valore positivo della convivenza di entità differenti (rispetto a quello negativo dei conflitti fra elementi opposti), le critiche che le son state mosse non riguardavano affatto questa assiologia (di per sé difficilmente contestabile) ma il discorso pubblicitario che la proponeva: dunque il modo in cui tale discorso valorizzava i valori, la relazione comunicativa entro cui essi venivano posti e rivendicati. La pubblicità, s’è detto, non può parlare di vita e di morte, di malattia e sofferenza, di sangue e di guerra perché instaura una relazione intersoggettiva nella quale non è considerato legittimo discutere di questi argomenti e, soprattutto, è considerato pretestuoso il fatto stesso di porre questi valori. Benetton – sostenevano i suoi detrattori – parla di valori nei quali in realtà non crede, li esibisce a scopi eminentemente commerciali, e pertanto li degrada, li deprezza, li de-valorizza. Da qui, in secondo luogo, un indebolimento non solo e non tanto dei singoli discorsi sociali ma della frontiera culturale che li distingue. La crisi della veridizione provoca una messa in discussione delle tavole precostituite di generi comunicativi, delle implicite catalogazioni degli atti di parola. Non solo per quel che riguarda i contenuti tradizionalmente deputati ai singoli discorsi (la politica parla della cosa pubblica, la medicina si preoccupa della malattia, il giornalismo diffonde notizie, la pubblicità magnifica beni di consumo...), ma soprattutto per il valore veridittivo attribuito a ciascuno di essi, ossia per la gerarchia implicita in ogni tassonomia di generi (la scienza dice la verità più che la storia, la storia più che il giornalismo, il giornalismo più che la pubblicità...). Così, a essere costantemente messo in dubbio nella nostra cultura è il crinale che separa il vero dal falso, la realtà dalla finzione: può accadere che una fiction televisiva sia più veritiera di un documentario giornalistico, che un’inchiesta giornalistica colga meglio la realtà che non un’indagine storiografica, che un annuncio pubblicitario punti il dito su certe tragiche esperienze umane in modo più convincente che non i discorsi 251

della politica o della medicina. Era questo, nel bene o nel male, il senso del discorso tenuto da Benetton. Ed è questo, più generalmente, il luogo epistemologico critico dove si innesta il discorso di marca. Laddove la separazione fra realtà e finzione si fa sempre meno netta e riconoscibile, affiorano e s’affermano quelle quasi-realtà che sono le marche, definite proprio per questo da Semprini (1993) mondi possibili: entità a metà strada fra realtà e finzione, basate su una logica del ‘come se’, su una coerenza interna grazie alla quale esse possono sembrar vere, avendo esiti pragmatici e passionali come se esistessero realmente. Da parte nostra, consapevoli delle difficoltà teoriche della nozione di ‘mondo possibile’ [cfr. § 1.4], e seguendo un ragionamento e un’analisi dello stesso Semprini (1997), preferiamo parlare della marca come di una istanza – o, meglio, metaistanza – enunciativa che, abbiamo detto, fa un passo indietro rispetto alla mappa dei discorsi sociali rinegoziandone ogni volta le rispettive legittimità, e dunque ridisegnandola. Ciò consente di ribadire che ogni differenza di principio fra il discorso tenuto direttamente dalla marca e quello da altri proferito sulla marca viene di fatto ad annullarsi. Come è noto, la marca non è altro che la sua generale notorietà, dunque la risultante dei vari discorsi – anche contraddittori nel merito e nei contenuti – tenuti su di essa, inclusi ovviamente i propri. Ogni distinzione tra una ‘reputazione’ presunta obiettiva (dunque veritiera) e un’‘immagine’ presunta artificiosa (dunque fallace) non ha da questo punto di vista alcuna ragion d’essere. Inoltre, molto spesso le marche assumono su se stesse i discorsi che le riguardano, assorbendoli più o meno surrettiziamente, e replicando a essi in vario modo: ora accentuando la direzione valoriale e tematica del proprio discorso (come ha fatto Benetton con il ciclo della verità); ora capovolgendo il senso delle critiche ricevute, ripresentando per esempio sarcasticamente come plus ciò che era stato additato come manchevolezza (Diesel che espone modelle sedicenti anoressiche nei propri cataloghi); ora trasformando comportamenti e comunicazione per venir incontro ai desideri emergenti (McDonald’s che propone cibi dietetici tra i propri menu); ora lanciandosi in campagne di solidarietà ai paesi del Terzo Mondo (ormai la regola). Così come il vintage è una tendenza che incrina dall’interno la logica della Moda, la quale però sistematicamente si ricompatta risucchiandolo senza difficoltà dentro di sé ed esasperandone anzi il côté trasgressivo, analogamente la marca si nutre di ogni tendenza o fenomeno che vorrebbero minarne le fon252

damenta, trasformando l’anti-marca in marca a sua volta. Il caso Naomi Klein (2000) è da questo punto di vista esemplare. All’uscita del libro che avrebbe dovuto essere – come si è detto – ‘la bibbia’ del movimento anti-marca, il celebre No Logo, le grandi marche hanno cominciato immediatamente a contendersene il verbo, facendo propria la crociata anticonsumistica e no global della giornalista canadese (si pensi alla mossa tattica di Armani che espone il volume nelle sue vetrine). Al punto che, come è noto, l’espressione stessa «no logo» è diventata un logo multinazionale [cfr. § 3.2.1]. Oggi adbusters e loro seguaci – proprio grazie alla loro competenza strategica – sono fra i pubblicitari più cool, e la cosiddetta culture jamming fa a sua volta perfettamente parte di un discorso di marca ancora più forte di prima. Infine, da tutto ciò ne discende che la marca, più che proporre contenuti propri all’interno di un suo specifico discorso, si fa carico – a suo modo – dei contenuti d’altri discorsi. In quanto metaistanza, essa ridistribuisce ogni volta tematiche, configurazioni, forme di vita già esistenti e circolanti nella cultura sociale, selezionando che cosa assorbire e che cosa tralasciare, che cosa enfatizzare e che cosa ridimensionare, che cosa valorizzare e che cosa disvalorizzare, rimontando il tutto a proprio uso e consumo. Così, essa si inserisce perfettamente, essendone uno dei principali protagonisti, in quel generale movimento che nell’attuale congiuntura culturale spinge sempre di più i processi comunicativi verso l’intertestualità, l’interdiscorsività, l’intermedialità: una generale tendenza all’ibridazione dei generi e delle forme testuali; alla sovrapposizione di temi e formati; alla ricomposizione ogni volta diversa dei medesimi moduli; al rifacimento e al montaggio originali di materiali espressivi preesistenti; alla convergenza e collaborazione di tradizioni mediatiche sinora autonome, se non conflittuali; all’emergenza e all’affermazione – dunque – di quella forma di testualità costitutivamente intertestuale, interdiscorsiva e intermediatica che è il web. C’è una specie di omologia, sottolinea Ferraro (1998, 2001, 2003), fra la logica del discorso di marca e la logica della testualità in Internet e nei cosiddetti nuovi media: si producono moduli da montare non direttamente testi o, meglio, i testi prodotti sono l’esito di moduli già dati (da cui le brand.com di cui parla Lombardi ed. 2001). Cogliendo questo tipo di tendenza della comunicazione dei nostri giorni, e la sua relazione fondamentale con il discorso di marca, Floch (1995, 2006) ha ripreso il termine lévi-straussiano di bricola253

ge. Con esso, ha proposto di definire la prassi enunciativa che caratterizza per lo più il discorso di marca: selezione e ricombinazione di elementi già significanti, frammenti di segni, pezzi di linguaggio in testi nuovi che ne trasformano il senso perseguendo obiettivi propri. La cosiddetta creatività non è, in questo quadro, produzione di nuovi contenuti enunciati ma messa in opera di una pratica dell’enunciazione che trasforma contenuti preesistenti, rimescolandoli e producendo nuova significazione (cfr. Dusi e Spaziante eds. 2006). D’altra parte, questo stesso termine serve a Floch per sottolineare e rivendicare l’innegabile importanza della dimensione sensoriale all’interno dei processi comunicativi e mediatici. Questione che tratteremo dettagliatamente nel prossimo capitolo.

5.

Dall’identità visiva all’identità estetica

5.1. Visioni, immagini, immaginario Fra le svariate questioni che riguardano il fenomeno della marca, l’identità visiva è senza dubbio quella per la quale più frequentemente si chiama in causa la capacità d’analisi della semiotica applicata alle ricerche di mercato e alle strategie di comunicazione. Riguardando logo e nomi, lettering e immagini, packaging e soluzioni grafiche, lay-out e colori aziendali, design e vetrine, forme e formati, la problematica della costruzione e della gestione dell’identità visiva sembra essere di diretta prerogativa di chi, come per definizione è il semiologo, avrebbe come preminente campo d’indagine l’universo multiforme del segno, e dunque per inclusione la comunicazione e la significazione visive, il cosiddetto linguaggio delle immagini. Laddove altri aspetti del branding – prodotto, posizionamento, prezzo, gestione dell’impresa, esperienze di consumo ecc. – sarebbero di pertinenza dell’economia e del marketing, dell’organizzazione aziendale e della giurisprudenza, della sociologia e della psicologia, quelli che più apertamente hanno a che fare con la visione e con l’immagine riguarderebbero appunto la scienza dei segni. Questo modo di pensare, per quanto diffuso e generalmente condiviso, presenta un certo numero di problemi, di varia natura ed emergenza, che occorre rimarcare prima di cominciare la trattazione di quest’ultimo capitolo del nostro libro, che sarà appunto dedicato all’identità visiva in prospettiva semiotica. Innanzitutto, la semiotica ha da tempo abbandonato il segno come specifico ed esclusivo oggetto di indagine, preoccupandosi semmai di studiare la significazione, ossia quelle forme significanti che, sottostando al segno come unità di superficie, permettono la produzione e la circolazio255

ne del senso umano e sociale. Già da tempo la semiotica si occupa di tutti quei fenomeni (narratività, passioni, forme di vita, discorsività, enunciazione, contratti comunicativi, testualità e intertestualità, traduzione ecc.) che trascendono e al tempo stesso fondano l’esistenza del segno, e che – come abbiamo appunto visto – sono anch’essi, ben più del segno, di stretta pertinenza del processo complessivo del branding. Così, in secondo luogo, dal punto di vista di una semiotica intesa come studio della significazione e non del segno, la questione dell’identità visiva assume tutt’altra configurazione e un diverso spessore. Si tratterà di studiare il marchio grafico e gli altri elementi visivi, le immagini e le varie pratiche di visione non come segni isolati, linguaggi o esperienze autonomi, ma come altrettanti elementi testuali che, collegandosi fra loro in un insieme coerente di senso, si caratterizzano per essere la punta dell’iceberg di un flusso discorsivo e una narratività soggiacenti. Il logo, per esempio, acquisisce un suo senso di marca non perché sia un segno autonomo che, saussurianamente, ha una doppia faccia significante e significata; ma semmai perché si inserisce in un fascio complesso di relazioni: orizzontali, con gli altri elementi di superficie del brand (ivi compresi i logo concorrenti); verticali, con il racconto e con il discorso che esso si incarica – parzialmente – di manifestare mediante la propria natura visiva. Così, non si tratta più di lavorare sulle ‘denotazioni’ primarie di un’immagine (ciò che raffigura) e sulle sue eventuali ‘connotazioni’ aggiunte (ciò che significa simbolicamente e ideologicamente), come quando per esempio si dice che il disegno di un mulino denota un mulino ma connota ‘campagna’ e con essa indirettamente ‘natura’. Questo era il compito che s’era data la semiologia degli anni Cinquanta e Sessanta, oggi superata in nome di problematiche semiotiche più complesse e più utili. Persistere in questo atteggiamento – come spesso ancora molti analisti fanno, accondiscendendo alle richieste semplificatorie dei loro committenti – vuol dire negarsi a priori un incremento di conoscenza sui fenomeni di senso, facendo di fatto un pessimo servizio a quegli stessi committenti che pure si vorrebbero accontentare. Impostando il lavoro semiotico sull’identità visiva in questi termini, possiamo inoltre portare qualche elemento di chiarificazione alla problematica, decisamente vaga e confusa, ambigua e spesso contraddittoria, della cosiddetta immagine di marca (sulla quale già più volte abbiamo avuto modo di soffermarci). Per quanto talvolta adoperata per proporre alcune importanti distinzioni interne, la pro256

liferazione terminologica in questo settore – brand image, corporate image, visual identity, corporate identity ecc. – è la più palese dimostrazione della complessità (forse apparente) della problematica, ma soprattutto della generale confusione che regna nella gigantesca pubblicistica del settore. Dando una scorsa a questa letteratura, eterogenea negli scopi ed eteroclita nelle trattazioni disciplinari (cfr. per esempio Bernstein 1984; Carmagnola 1988; Appiano 1991, 1998; Perini 1992; Ferraresi 2003; Fabris e Minestroni 2004, pp. 211-256; Pasca e Russo 2005; Corti 2005; Pratesi e Mattia 2006), emerge come spesso si tenda a far coincidere accezioni semantiche molto diverse del termine ‘immagine’, le cui parziali tangenze nell’ambito pratico non giustificano l’assimilazione teorica. Semplificando, le accezioni di senso che tendono a venire sovrapposte e confuse sono grossomodo tre. 1) Immagine come insieme percettivo, esito di un’esperienza visiva, diretta o riprodotta in un supporto. Dunque ciò che viene visto, anche e soprattutto attraverso una fotografia, un disegno, uno spot, un annuncio, un logo e così via. Secondo la definizione del Devoto-Oli: «la forma esteriore degli oggetti corporei in quanto percepibile dal senso della vista». 2) Immagine come simulacro, rappresentazione mentale, individuale o collettiva di un qualcosa che esiste di per sé, identità più o meno costruita, più o meno apparente di un qualche soggetto. Sempre il Devoto-Oli: «l’idea generale del proprio modo di essere che un’istituzione o una persona fisica o giuridica o un dato ambiente suggeriscono al loro pubblico; ovvero anche l’idea, l’opinione e in qualche modo il giudizio che il pubblico o i terzi ne hanno». 3) Immagine come icona, come elemento di un immaginario, sia esso a sua volta inteso come repertorio di idee, simboli e desideri individuale e/o collettivo, oppure come mondo del fantastico, della rêverie, della finzione, dunque come qualcosa, leggiamo ancora nel Devoto-Oli, «privo di fondamento o corrispondenza con la realtà». Quando si dice, per esempio, che l’immagine di marca è la parte visibile della marca, o che l’immagine d’impresa è l’insieme delle percezioni che si hanno di tale impresa, o che la corporate image comporta una gestione della visibilità, o che l’identità di marca è la sua immagine coordinata ecc., si sta di fatto sovrapponendo il significato 1 con il significato 2 del termine ‘immagine’, ossia, molto semplicemente, si sta schiacciando una questione di espressione significante su una di contenuti significati. È evidente che a costruire l’identità di 257

una marca contribuisce fortemente tutto ciò che ha a che fare con le sue manifestazioni visive – il logo, il lettering, i cromatismi dominanti e così via. Ciò non significa però che le due cose vadano assimilate, dal momento che, come appare evidente, l’identità della marca è l’esito finale e cangiante, la risultante dinamica di tutte le forme testuali – costruite o meno, controllate e non – mediante cui si manifesta il discorso di marca, ivi comprese le forme testuali dei concorrenti e le risposte attive dei pubblici presupposti o socialmente determinati. Inoltre, molto spesso si tende ad assimilare il significato 2 con il significato 3 del termine in questione, sostenendo così, più o meno esplicitamente, che l’identità di marca è una costruzione immaginaria, impalpabile, fittizia, dunque sostanzialmente non coincidente con la realtà empirica dell’azienda. Così, quando si continua a ripetere che viviamo in una società delle immagini, o che ci troviamo nel regno dei simulacri, o che il dominio del brand impone un regime culturale dominato dall’immagine, si stanno di fatto dicendo cose molto diverse fra loro (tutte peraltro discutibili): che l’esperienza visiva s’impone su quella verbale; che la costruzione comunicativa dei soggetti sociali riveste un ruolo di prim’ordine nella cultura attuale; che la realtà empirica tende a evaporare di fronte all’imporsi di modelli simulacrali di persone e cose, di entità immateriali, di elementi fittizi. Come spesso nella storia, iconofilia e iconoclastia finiscono così per scambiarsi i ruoli: ribadire il primato dell’immagine nel senso 1 finisce surrettiziamente per suggerire il dominio dell’immagine nel senso 3. Quel che in questo frangente rimane schiacciato è allora il senso 2, e quindi quel nesso al tempo stesso sottile e necessario che lega l’immagine di marca, nel senso della sua identità comunicativa e semiotica, alla strategia aziendale, da un lato, e alla cultura sociale, dall’altro. L’immagine di marca, come s’è detto più volte nel corso di questo libro, e come del resto molti autori a più riprese pure sottolineano, innanzitutto ha un valore strategico, e in secondo luogo costituisce una realtà socioculturale a tutti gli effetti: è un soggetto sociale che fa e fa fare, prova e provoca affetti, pensa e suscita riflessioni, a prescindere dalla sostanza dei testi che la pongono in essere, a prescindere dunque dalle esperienze visive cui più o meno volontariamente dà luogo. Dire, come fa Bernstein (1984), che l’immagine (di marca) è una realtà non significa sostenere, come fa Baudrillard (1976), che la realtà non esiste più. Così, se il nostro intero libro si occupa più che altro del significato 2 dell’immagine (si pensi per esempio a quanto detto a pro258

posito della funzione strategica dei simulacri [§ 3.5.4] o del valore performativo degli attanti enunciativi [§ 4.2]), questo capitolo si concentrerà specificamente sul significato 1, dunque sugli aspetti visivi del discorso di marca, sul modo in cui l’identità del brand fa affidamento a una serie di sue manifestazioni visive – le quali però, vedremo, tracimano in altre dimensioni sensoriali (udito, olfatto, gusto...) sino a coinvolgere la corporeità nel suo complesso. È così che l’identità visiva, riformulata più correttamente nei termini di un’identità estetica, rincontra le questioni oggi à la page nel pensiero strategico sul brand, quali quelle di un’esperienza ‘olistica’ del consumo, dove ogni distinzione di principio fra mente e corpo, pensiero e azione, ragione ed emozione viene neutralizzata: non per svanire, comunque, ma per diventare semmai luogo e capacità di una riorganizzazione creativa, continuativamente diversa, fra queste molteplici dimensioni del senso. Se, come chiariremo, un’esperienza visiva non è mai esclusivamente tale, ma è sempre e inevitabilmente sinestetica, quel che può darsi è un nesso ogni volta singolare non solo fra i vari modi della percezione (un’immagine che sta per un sapore, un profumo che sta per una sensazione tattile ecc.) ma più in generale fra la percezione nel suo complesso e l’affettività, la cognizione, l’azione (un atto percettivo che diviene occasione di una passione, di un programma d’azione, di un evento conoscitivo...). Così, parlare di un’identità estetica del brand non significa additare una sua presunta inconsistenza materiale e pratica. Vuol dire semmai, molto diversamente, investire e intrecciare fenomeni diversi: da quello specificamente legato alla sfera della sensorialità (dunque all’etimologica aisthesis) a quello riguardante una forma di pensiero che, superando le tradizionali barriere fra bello e utile, arte e conoscenza, esperienza estetica ed esperienza pratica quotidiana, tenda verso nuove forme di conoscenza e di prassi, verso un’esperienza non stereotipa del quotidiano e del corpo. C’è un vero e proprio pensiero del corpo, il quale, doppiando ogni sedicente cognitivismo che vorrebbe ingabbiarlo nell’irrazionalità, tende a emergere nei luoghi e nei momenti meno attesi. Se, come amava ripetere Merleau-Ponty (1945), «il corpo ne sa più di noi», il discorso di marca tende sempre più spesso a stimolare e a rilanciare questa forma di sapere somatico, facendosi luogo e momento di una generalizzata attesa dell’inatteso. A più riprese questa problematica è emersa nei capitoli precedenti – si ricordino le questioni della passionalità [§ 3.7], 259

delle forme di vita [§ 3.8], dell’enunciazione sostanziale [§ 4.3.4., 4.3.5] o dello stile [§ 4.3.5]. Si tratta adesso di affrontarla direttamente e approfonditamente. 5.2. Figurativo e plastico Superate le lunghe discussioni sul cosiddetto iconismo, e quindi sul nesso naturale o convenzionale fra immagini e realtà referenziale, ormai da diversi anni la semiotica insiste nel rilevare una doppia natura significativa dell’immagine (Greimas 1984; Floch 1985). Da una parte, infatti, l’immagine significa in quanto raffigura qualcosa, si fa cioè manifestazione di una serie di figure del mondo che, ricorrendo a una sostanza espressiva visiva (spesso mescolata per sincretismo con altre sostanze, prima fra tutte quella verbale), si pongono sul suo piano del contenuto. Un disegno, una fotografia, un visual pubblicitario, un logo sono molto spesso portatori di una qualche figuratività, ‘rappresentano’ oggetti o persone, paesaggi, artefatti. Da un’altra parte, però, un’immagine può essere portatrice di ulteriori significati che hanno a che fare con i suoi aspetti specificamente visivi (o, seguendo una terminologia ormai entrata nell’uso improntata alla lingua francese, plastici). I colori, per esempio, articolandosi fra loro possono dar luogo a certi particolari significati; le forme grafiche o pittoriche, analogamente, possono diventare portatrici di un senso specifico; per non parlare della disposizione degli oggetti visivi nel loro supporto; ma anche la texture di un’immagine, travalicando nel modo del tatto, non può non veicolare ulteriore significazione. Nel caso della lingua, il suono usato sul piano del significante per veicolare determinati significati è generalmente arbitrario, salvo i casi in cui – per esempio nella poesia – esso acquista sensi ulteriori (una rima come cuore/amore, accostando due parole per la loro sonorità, surrettiziamente suggerisce di associarle anche per il loro senso), allo stesso modo nel campo visivo i significanti materiali incaricati di rappresentare determinate figure (forme, colori, posizioni nello spazio ecc.) possono, articolati in altro modo nel medesimo testo, farsi portatori, a un altro livello, di nuovi significati, detti appunto plastici. Si pensi a tutti quegli spot che giocano sul passaggio fra un cromatismo in bianco/nero e uno a colori, associando al primo valori negativi e al secondo valori positivi (cfr. un recente spot di Sole Piatti): in questi casi la trasformazione da b/n a colore, di solito al 260

momento dell’apparizione del prodotto ‘magico’, si fa carico di rappresentare la trasformazione narrativa e la congiunzione con l’oggetto di valore. Ciò non significa, ovviamente, che il b/n negli spot pubblicitari di per sé sia un simbolo disforico e il colore di per sé sia simbolo di valori euforici. In altri spot, come per esempio in quello di Telecom con Gandhi [§ 3.7.2], il gioco fra i cromatismi è differente: tutte le immagini con il Mahatma in India sono in b/n, mentre tutte quelle con gli altri personaggi sono a colori. Quel che produce senso, allora, non è il carattere simbolico del singolo cromatismo, ma quella che possiamo chiamare la relazione semisimbolica fra i cromatismi presenti nel medesimo testo (o anche in testi diversi ma in qualche modo fra loro connessi) e i significati di cui ciascuno di essi è portatore (cfr. Floch 1985, 1986b; Eugeni 1999; Calabrese 1985, 2007). È come se il singolo spot (o il singolo corpus pubblicitario) istituisse una specie di analogia fra l’opposizione di due (o più) elementi sul piano dell’espressione e l’opposizione di due (o più) elementi sul piano del contenuto. Nel caso di Sole Piatti, per esempio, potremmo pensare a un’analogia come ‘b/n’: ‘colore’ = ‘disforia’: ‘euforia’. Nel caso di Telecom scriveremmo invece: ‘b/n’: ‘colore’ = ‘passato e povertà’: ‘presente e ricchezza’ [§ 3.7.3]. Le immagini, fisse o in movimento, fanno un uso molto frequente di questa procedura di significazione del semisimbolismo per attivare i loro significati prettamente plastici, visivi. Al di là di quel che raffigurano, e delle connotazioni che tali figure possono avere in certe culture (una borsa per la spesa a forma di rete – notava Barthes [1964b] in una celebre analisi di un annuncio Panzani – può connotare la pesca miracolosa degli apostoli di Gesù), esse attivano forme talvolta complesse di analogie semisimboliche, sorta di minicodici che valgono nelle circostanze testuali per le quali sono stati prodotti, e che devono dunque essere volta per volta negoziate fra enunciatore ed enunciatario. Dal punto di vista dell’analisi semiotica, ricostruire semisimbolismi vuol dire sia aggirare il ricatto dei simbolismi – dei colori, delle forme, delle posizioni... –, culturalmente determinati e dunque passibili di frequenti inversioni semantiche (il nero è colore del lutto o dell’eleganza; l’alto è simbolo dell’autorità o della divinità), sia fuoriuscire dalla vaghezza delle connotazioni, dipendenti unicamente da chi, soggettivamente, le nota, se e quando le nota. Si pensi all’annuncio Tunnel di Black & White analizzato da Bertrand (1988), di cui s’è parlato a proposito di un’enunciazione ‘obli261

qua’ [fig. 5 in § 4.2.2]. Da una parte, sul piano figurativo, in esso vi è rappresentato l’interno di un tunnel, del quale si percepisce sul fondo l’uscita; dall’altra parte il claim invita l’enunciatario a una lettura diversa del medesimo annuncio. Chiede di osservare non ciò che l’annuncio raffigura, ma il modo in cui lo fa. Ricoprendo pressoché l’intero supporto della pagina con il colore nero, e lasciando solo una piccola parte, in alto a destra, in bianco, si crea sia una collocazione spaziale dell’osservatore (interno del punto di vista vs esterno del ‘mondo’) sia un effetto di prospettiva (vicino è l’interno del tunnel, lontana è l’uscita). Così, dire nel claim «se tutto l’annuncio fosse nero, non ci sarebbe più speranza» significa rimarcare il lavoro di costruzione figurativa dell’annuncio («guardate che sto usando il colore nero per raffigurare l’interno della galleria, e il colore bianco per raffigurarne l’uscita»), ma soprattutto significa spostare l’attenzione dell’enunciatario dal piano del contenuto a quello dell’espressione dell’annuncio stesso, producendo di fatto una nuova espressione e nuovi contenuti. A significare la ‘speranza’ non è più l’uscita dal tunnel, ma direttamente il colore bianco; così come a significare la disperazione non è l’interno del tunnel, ma direttamente il colore nero. Ecco allora il semisimbolismo: ‘nero: bianco = disperazione: speranza’. L’ironia che crea la complicità fra gli attanti dell’enunciazione, come s’è detto, sta proprio in questo gioco fra piano figurativo e piano plastico: nel saper cogliere cioè, dietro tutto ciò, il nome del brand che predica la congiunzione bianco ‘&’ nero. Quel che interessa, in questo capitolo, non è però tanto il gioco ironico che scatta all’interno del patto comunicativo, bensì lo scarto, per quanto minimo in questo caso, fra piano figurativo e piano plastico dell’immagine; ossia, in altri termini, la non coincidenza assoluta fra i due sistemi di significazione che convivono al suo interno. In termini tecnici, ciò significa tenere separati i cosiddetti formanti figurativi del testo visivo (ossia quegli elementi del significante che servono a veicolare contenuti figurativi) dai formanti plastici del testo medesimo (quegli altri elementi del medesimo testo visivo che s’incaricano di veicolare significati ulteriori). Nel nostro caso questi due formanti in parte coincidono, in parte non coincidono. Coincidono la compresenza dei due colori e la loro distribuzione nella pagina (c’è più nero e meno bianco), mentre quel che sul piano figurativo produce l’effetto di prospettiva (la macchia bianca sta in alto a destra) sul piano plastico è assolutamente indifferente, non è significativo. 262

1 Soffermiamoci su un caso in cui la compresenza di questi due linguaggi figurativo e plastico all’interno dell’immagine è abbastanza evidente. Si prenda l’annuncio per l’ansiolitico Sédatonyl [fig. 1] (facente parte di un corpus pubblicitario sugli psicofarmaci analizzato da Floch 1990, pp. 125-161 trad. it.), il cui contenuto comunicativo emerge immediatamente: grazie al prodotto, il soggetto può progressivamente passare da uno stato di disforia ansiosa a uno di euforica tranquillità. Come si produce questo banalissimo contenuto? Ricorrendo a una grande, e forse inutilmente ipertrofica, quantità di categorie espressive, le quali appartengono sia al livello figurativo sia a quello plastico. Sul piano figurativo emerge innanzitutto la posizione yoga della figura in basso, noto simbolo di rilassamento; posizione che invece non è presente nelle altre due figure più in alto. Così, il processo di tranquillizzazione è dato figurativamente dalle tre posizioni del corpo: le braccia stanno in alto, poi s’abbassano, finalmente assumono la posizione ‘corretta’; stessa cosa per le gambe; qualcosa del genere per l’espressione del viso. A livello espressivo ciò è reso dalla silhouette della donna, dunque dal tratto grafico che ne rappresenta il contorno. Sul piano plastico questo processo di tranquillizzazione viene sovradeterminato da una serie di categorie visive: l’alto e il basso, innanzitutto, che si fanno portatori di un processo temporale (‘alto’: ‘basso’ = ‘prima’: ‘dopo’); lo scuro e il chiaro, in secondo luogo, che veicolano direttamente la trasformazione timica (‘scuro’: ‘chiaro’ = ‘disforia’: ‘euforia’); ma anche il tratto discontinuo e il tratto continuo del disegno, nonché la figura asimmetrica e quella simmetrica, sono altre due categorie plastiche che ridicono a loro modo del medesimo passaggio dalla disforia all’euforia. Così, a parte la questione della proliferazione dei tratti figurativi e plastici messi in gioco per significare un contenuto tutto sommato molto semplice, quel che è evidente è che questi tratti non sono i medesimi: i formanti figurativi (contorno delle figure) e i formanti plastici (colore, posizione della figura nel foglio, linee, forme), nella generale semplicità dell’annuncio, non sono comunque gli stessi.

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Occorre così sottolineare che il piano plastico dell’immagine non è affatto, come pure talvolta si sostiene, il piano dell’espressione della sua figuratività, ma un linguaggio secondo, dotato di una propria espressione e di propri contenuti, dunque un linguaggio a tutti gli effetti, che si sovrappone al (e spesso si nasconde sotto il) linguaggio figurativo (Floch 1985, 1986b). Se così non fosse, non potremmo per esempio in alcun modo garantirci la possibilità di dare un senso e soprattutto di spiegare l’articolazione delle immagini cosiddette astratte, quelle immagini cioè che non hanno un piano figurativo, non rappresentano nulla, pur conservando la possibilità di avere un senso: senso che, ovviamente, è il loro linguaggio plastico a garantire. Vedremo quanto questo sia importante nel caso dei logo: se molti di essi sono figurativi (rappresentano coccodrilli, coniglietti, corone, stelle, sirene, cavallini, omini, lettere dell’alfabeto...), molti altri non lo sono: si tratta spesso di forme che, pur senza avere un senso figurativo, hanno un significato plastico, determinato dalla grafica, dai colori, dal lettering e così via. 5.3. Argomentazioni figurative Chiarita la differenza fra i due linguaggi che si intersecano nelle immagini, proviamo a esaminarne uno per volta – ferma restando la consapevolezza dei giochi comunicativi che possono darsi proprio grazie alla loro compresenza in un medesimo testo visivo o in uno stesso corpus d’immagini. Che cosa si intende, più esattamente, per ‘livello figurativo’? Come si ricorderà, ne abbiamo già parlato in § 4.4.2, quando, a proposito del problema della coerenza di un discorso a partire da manifestazioni testuali diverse, abbiamo richiamato il nesso fra configurazioni tematiche e configurazioni, appunto, figurative. Se il livello tematico della semantica discorsiva comporta una certa dose di astrazione e ha a che fare soprattutto con la cognizione, con l’intellezione, il figurativo è invece la sua concretizzazione, dunque riguarda il modo in cui si percepisce la realtà esterna. La figuratività, pertanto, è quel livello del senso che prende in carico la percezione umana e sociale del mondo, in primo luogo di tipo visivo, ma poi anche, vedremo, riguardante l’intero apparato sensoriale e somatico. Così, se l’‘evasione’ è un tipico tema narrativo, ci deve essere un apparato figurativo che la rende concreta, percepibile, in qualche modo ‘realistica’; poniamo: sbarre segate, lenzuola legate fra loro che scivolano lungo un muro, sirene spiegate, fari che nella notte illuminano gli angoli più reconditi di una ga264

lera, fuga nella notte ecc. (cfr. Marsciani e Zinna 1991; Bertrand 2000). Come si capisce, il modo in cui i temi vengono raffigurati non ha nulla di stabile ma varia da cultura a cultura, da epoca a epoca, da paese a paese (il medesimo tema può dar luogo a rappresentazioni figurative molto diverse, come per esempio quella messa in gioco da Renault per New Clio RS200cv nella campagna esaminata in § 4.4.2). Inoltre, anche l’apparato figurativo che ‘ricopre’ i temi astratti non ha nulla di naturale, dunque di generalizzabile, di universale e necessario. Tale apparato dipende anzi da un processo percettivo che è l’esito di una ‘griglia di lettura’ proiettata da ogni cultura sulla materia del mondo, per renderlo al tempo stesso percepibile e significativo: significativo perché percepibile, percepibile perché significativo (Greimas 1984). La percezione, come insegnano antropologi, psicologi e filosofi, non è legata tanto al nostro apparato sensoriale, fisico, quanto al modo in cui ogni soggetto che percepisce, e prima ancora il suo corpo, è collocato in un certo contesto situazionale, sociale, culturale, storico. La visione, in particolare, non è una operazione naturale ma dipende, esattamente come la lingua, da una serie di codici sociali che la trascendono e che, come nella lingua, sono tanto arbitrari quanto condivisi socialmente. Di conseguenza, la costituzione di una certa porzione di mondo come figura (poniamo, ‘casa’) deriva da ciò che preventivamente intendiamo per casa: un antro buio, una capanna di frasche, un parallelepipedo con un tetto spiovente e un comignolo che fuoriesce, un appartamento cittadino, un grattacielo? Vedere qualcosa significa in qualche modo decidere in anticipo che cosa guardare (Merleau-Ponty 1945, 1964; Goodwin 2003). Una figura, un conglomerato di figure, un evento in cui tante figure si succedono secondo ritmi variabili ecc. sono sempre l’esito di quest’incontro preliminare fra una qualche forma visiva del mondo e un qualche senso del mondo stesso, fra un pacchetto organizzato di tratti percettivi e un pacchetto organizzato di tratti semantici. Se per rappresentare una zebra noi disegniamo qualcosa come un cavallo con delle strisce, in una popolazione dove esistono soltanto zebre basterà disegnare il profilo del cavallo (Eco 1968). Così, quando si dice che una certa immagine è realistica, mentre un’altra non lo è, si sta implicitamente riportando quel che vediamo nelle due immagini all’idea che già abbiamo di quel che esse rappresentano, sulla base di una serie di codici sia di rappresentazione sia di visione. Se la figuratività implica una certa dose di realismo (per cui diciamo che le immagini imitano la realtà, somigliano a es265

sa, la riproducono più o meno fedelmente), tale effetto mimetico deriva da una specie di accordo sociale su quel che la realtà è, ossia, a ben pensarci, su ciò che in essa è significativo. Dürer rappresentava i rinoceronti con le scaglie non perché nella sua epoca non si conoscessero i rinoceronti reali, e non si sapesse che questi animali non hanno affatto le scaglie, ma semplicemente perché riprendeva una tradizione pittorica secolare in cui i rinoceronti venivano rappresentati secondo quel modello figurativo. Per far sì che le sue incisioni potessero essere considerate realistiche, aveva bisogno di farle aderire a un modello culturale, non a un animale reale (Eco 1975). Ovviamente, non tutte le immagini sono realistiche allo stesso modo. L’effetto mimetico è volta per volta differente, sia sulla base delle variazioni culturali (dunque dei contratti impliciti fra enunciatore ed enunciatario circa i modelli figurativi considerabili come ‘reali’), sia sulla base della fattura stessa dell’immagine, che può essere più o meno densa, più o meno rarefatta, a seconda della quantità – e della qualità – di tratti figurativi che usa al suo interno. Generalmente, più un testo visivo è ricco di tratti visivi che rendono conto dei dettagli della figura, più quel testo è considerato realistico. E viceversa, meno un testo si dota di tratti visivi, meno è dettagliato, meno è realistico. Una fotografia, generalmente, è considerata più realistica di un dipinto, e a sua volta un dipinto è più realistico di un disegno, proprio per questa ragione. Una circonferenza, in sé, è una circonferenza e nient’altro; ma se progressivamente disegniamo al suo esterno e al suo interno una serie di tratti, essa diverrà ora un sole ora una palla ora un viso ora tante altre figure possibili. Viceversa, se progressivamente eliminiamo dall’immagine di un viso i suoi tratti interni, resterà nella migliore delle ipotesi una figura circolare, dunque non più un’immagine figurativa ma una tendenzialmente astratta. Il gioco delle cosiddette emoticons, e della loro trasposizione grafica mediante certe lettere e certa punteggiatura, segue questo stesso principio. Ha molto chiaramente seguìto un processo di astrazione figurativa, ossia di progressiva eliminazione di tratti figurativi, il celebre logo Shell. Come si può facilmente osservare in fig. 2, nell’arco di un secolo esso è passato dalla raffigurazione ben dettagliata di una conchiglia a un’immagine abbastanza astratta nella quale la conchiglia è pressoché scomparsa. Se è riconoscibile, probabilmente, è in parte dovuto al brand name, in parte alla memoria dei logo precedenti. Prova ne sia che, non appena è stata eliminata la scritta del nome, nel logo è apparso qualcos’altro, per 266

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esempio un sole. Così, come vedremo meglio più avanti a proposito dei logo, l’uso di una figura in qualche modo intermedia, tendente all’astratto senza comunque raggiungerlo del tutto, fa sì che si possano dare di quella figura una serie di letture figurative possibili, tutte in qualche modo permesse e nessuna per principio più valida delle altre. Se nel 1900 il logo Shell è unicamente una conchiglia, progressivamente, stilizzandosi e astrattizzandosi esso diviene sempre meno conchiglia e sempre più tante altre possibili figure. Viene in tal modo convocata la capacità al tempo stesso visiva e interpretativa dell’enunciatario, supposto essere competente di vedere nel logo ora un oggetto del mondo ora un altro.

Volendo generalizzare la questione, il livello figurativo del discorso prevede al suo interno una sorta di scala graduale che va da un massimo di figurazione a un massimo di astrazione, passando da tutta una serie di gradi intermedi. Per convenzione, la teoria semiotica ha proposto di soffermarsi su tre diversi sottolivelli: un primo sottolivello chiamato figurale (dove pochi formanti figurativi cominciano a ricoprire la tematizzazione astratta precedente); un secondo sottolivello detto figurativo (dove appaiono le figure compiute del mondo); un terzo denominato iconico (dove tali figure vengono arricchite, per tocchi successivi, di dettagli sempre più minuziosi, sino a imporsi come interpretazione standard, canonica della figura). Una cosa è un parallelepipedo, un’altra è una scatola, un’altra ancora un forziere: non è una differenza di referenti, di cose, ma di densità figurativa. Cfr. Greimas e Courtés (1979, p. 144 trad. it.); Greimas e Courtés (1986, voci Figurativité e Figure); Floch (1993), Geninasca (1997). 267

Da tutto ciò deriva una serie di rilevanti considerazioni. Innanzitutto, è evidente che la figuratività non è presente esclusivamente nelle immagini ma – in modi ovviamente differenti – in qualsiasi altro sistema semiotico, ivi compreso il linguaggio verbale. Anzi, come è stato ampiamente dimostrato (Greimas 1966; Greimas e Courtés 1979; Rastier 1987), nella costituzione del piano dei significati verbali è sempre presente una componente visiva, i cosiddetti sèmi figurativi, appunto, che contribuiscono in modo fondamentale alla produzione degli effetti di senso delle parole, non appena queste vengono inserite nei loro concreti contesti linguistici. È celebre a questo riguardo l’analisi fatta da Greimas (1966) del lessema ‘testa’: una volta permutato in tutti i contesti discorsivi in cui può ricorrere, questo termine rivela come ‘nucleo semico comune’, ossia come base semantica invariante, due ‘semi’ (o unità di contenuto) di tipo eminentemente visivo: l’estremità e la sferoidità – ai quali si aggiungono, a seconda del contesto, altri semi quali la verticalità (‘testa di un palo’), l’orizzontalità (‘stazione di testa’), la solidità (‘aver la testa dura’), il contenente (‘aver in testa una cosa’) ecc. Così, se pure il dizionario offre come prima definizione del lessema «testa» qualcosa come «parte del corpo unita al corpo per mezzo del collo», e il senso comune recepisce questa definizione come suo significato letterale, nel momento in cui si esamina quel che accade nel discorso effettivo, ci si accorge che quel significato letterale deriva – dice Greimas – da un’immagine non linguistica del corpo. Sono invece i cosiddetti significati figurativi (‘metaforici’) a essere la norma, una norma che, alla fin fine, si presenta come una specie di figura astratta dove c’è qualcosa che ha la forma rotonda e che si colloca nella parte estrema di qualche altra cosa. In sintesi, potremmo dire che la figuratività è, da un lato, la componente visiva del verbale e, dall’altro, la componente verbale del visivo: ciò che permette e regola i passaggi traduttivi fra questi due linguaggi. Ne deriva che i sottolivelli del piano figurativo – figurale, figurativo, iconico – sono assolutamente presenti anche nel linguaggio verbale. Posso dire «pantaloni» oppure, come fa il dizionario per definire questa parola, dire «indumento che riveste il corpo inferiormente alla cintola, prolungandosi separatamente sulle due gambe, fino al collo del piede» (Devoto-Oli); oppure ancora posso parlare di un tipo preciso di pantaloni, descrivendone lo stile, la provenienza, le fasi di produzione, i minimi dettagli di cui è composto ecc. Nel primo caso faccio uso della figuralità, nel secondo della figuratività, nel terzo 268

dell’iconicità. Ed è abbastanza evidente che, anche qui, più si carica una descrizione verbale di tratti figurativi, più si rende ‘visibile’ un oggetto ricorrendo a quella procedura che la retorica classica chiamava ipotiposi, più si tendono a produrre effetti di realismo nell’enunciatario («quel che mi dici corrisponde a quel che vedo di solito»). Capiamo così il senso e la funzione di molti body copy presenti negli annunci pubblicitari: il loro scopo non è banalmente referenziale (informarci circa le proprietà e le funzioni di un prodotto) ma più sottilmente comunicativo (arricchire di dettagli la descrizione in modo da far sembrare vero il contenuto complessivo del discorso). In secondo luogo, è importante sottolineare il fatto che questi sottolivelli non sono però soltanto presenti nelle varie immagini (o nelle parole) in modo, per così dire, oggettivo. Molto spesso dipendono invece dal tipo di sguardo – culturalmente situato – che si proietta sulla medesima immagine. Come spiegava Panofsky (1955) con la sua teoria dei tre livelli del significato delle opere d’arte (motivo primario; soggetto secondario iconografico; significato intrinseco iconologico), in un certo quadro uno spettatore può percepire la figura di una donna (motivo di base), mentre un altro, cogliendone gli elementi iconografici (il velo azzurro, l’aureola...), vi scoprirà più specificamente una Madonna, e un altro ancora, attivando il significato intrinseco, vi riconoscerà la Madonna del cardellino. Non è che il primo sguardo, in senso stretto, sia errato: è semplicemente in qualche modo ‘ingenuo’, non collegato cioè a quei codici di riconoscimento dell’immagine che ne fanno, nell’esempio in questione, un’immagine sacra. Da qui una serie di casi in cui emerge una sorta di indecidibilità di principio su ciò che è rappresentato nell’immagine, permettendone di fatto una doppia lettura. Come quando una serie di putti, assumendo una certa posizione del corpo, possono essere letti come elementi dell’alfabeto. Difficile stabilire che cosa in fig. 3 venga prima a livello percettivo: sono i putti che, perdendo una serie di tratti figurativi, fanno emergere la K, la L e la M, oppure al contrario sono queste tre lettere che, arricchite di tratti, divengono putti?

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Impossibile, e inutile, dare una risposta certa a questa domanda. Dipende soltanto da una ‘scelta’ percettiva individuale. Quel che a noi qui interessa è il fatto che la possibilità di tale scelta percettiva sia data dai due sottolivelli coinvolti: uno propriamente figurativo (in cui leggiamo i putti e le lettere) e un altro figurale (la silhouette dei putti e delle lettere) che, sottostante e comune alle due figure, permette il passaggio percettivo dall’una all’altra e viceversa. Da qui, in terzo luogo, la possibilità di sganciare la figuratività dalla sua base semantica profonda, di renderla in qualche modo autonoma e di usarla 5 non più per raffigurare racconti o temi sottostanti ma per instaurare all’interno dei testi veri e propri ragionamenti figurativi – detti comunemente per analogia –, forme argomentative cioè che non passano per le procedure standard della logica (deduzione, induzione, abduzione) ma per giochi percettivi di vario tipo, per rimandi più o meno espliciti ora figurali ora figurativi ora iconici fra più immagini, o anche all’interno della medesima immagine. Così, come ha ricordato Floch (2006, pp. 207-208), in molte scelte visive di Toscani per Benetton non c’è soltanto, come abbiamo visto [§ 4.5.4], la volontà di fuoriuscire dai confini canonici del discorso pubblicitario per invadere quello dell’attualità giornalistica; c’è anche una sorta di memoria della tradizione storico-artistica, una frequente citazione di motivi pittorici che tende a impreziosire la comunicazione di marca, strizzando l’occhio all’enunciatario eventualmente competente. Nella famigerata immagine del malato di Aids agonizzante [fig. 4] è ben visibile il motivo della Pietà [fig. 5], e nella nave con gli immigrati albanesi [fig. 6] quello dell’Arca di Noè [fig. 7]. In questi casi, il rimando fra l’universo pubblicitario e quello artistico è dovuto al fatto che le due coppie di immagini iconiche (un ma4

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lato di Aids → una pietà; una nave di immigrati → l’arca di Noè) hanno in comune uno strato figurativo sottostante: un uomo agonizzante con la famiglia piangente intorno; un’imbarcazione piena di gente e uomini in mare.

I ragionamenti per analogia possono dunque essere iconici, figurativi o figurali, e il senso che mettono in moto può andare in molteplici direzioni. Spesso si accostano due o più figure perché hanno una silhouette comune (ossia un tratto figurale che, a modello della poesia, ‘rima’ con un altro), e in tal modo si suggerisce che esse abbiano in comune anche il significato, almeno da una determinata prospettiva. Così, la donna e la boccetta di profumo della fig. 15 citata in § 3.6.1 hanno molto chiaramente la medesima forma: la boccetta, inoltre, ‘è vestita’ con la stessa guêpière della donna, in qualche modo essa è dunque la 7 donna; oppure, che è lo stesso, è la donna a essere come il profumo. In un modo o nell’altro, entrambi sono Oggetti di valore: la donna per il marinaio a cui si mostra, la boccetta per la donna che ne fa uso. O viceversa? Un gioco simile è in un’immagine Apple che accosta l’iPod all’iMac [fig. 8]: i due oggetti rientrano nella stessa filosofia di marca anche e soprattutto perché hanno lo stesso tratto figurale. Così, non è più un’azienda produttrice di computer a inventare un lettore Mp3; al contrario sono i creatori di quel particolare lettore di successo, che ha quella particolare forma, a generare adesso un particolare computer, che è come l’iPod perché di quello ha la stessa silhouette. Una situazione speculare c’è anche nell’annuncio Lipton che fa rimare a livello figurale una foglia di tè e una donna che si tuffa [fig. 9]. Anche qui, la rima visiva suggerisce un significato aggiunto che si configura come una precisa risposta alla domanda retorica posta nella head. «Quanta vi271

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talità nasce da una foglia?» Tanta, ovviamente, dato che, non solo il corpo della donna riesce a emulare la forma della foglia, ma, a ben guardare, i due attori provengono dal medesimo luogo, da quella specie di figura metamorfica – metà pianta, metà trampolino – che dà vigore alle foglie e vitalità a chi ne beve l’infuso magico. Il tutto viene del resto sottolineato anche, sul piano plastico, dal colore rosso di alcune parole della head, che associa, appunto, «vitalità» e «foglia». Più complesso un annuncio Kérastase [fig. 10] in cui, mettendo in continuità la forma dei capelli della donna alle linee che ne rappresentano una sorta di ingrandimento al microscopio, ne viene fuori la forma astratta di un semicerchio. Il senso di questa figura – che non sta in senso stretto né nei capelli realistici né in quelli, per co9 sì dire, tradotti al microscopio – è molto ricco. Innanzitutto, appunto, mette in continuità due mondi: sul lato sinistro, quello presunto realistico rappresentato dalla fotografia della donna (rigorosamente in b/n); sul lato destro quello parascientifico dove si trovano il pack shot del prodotto, le indicazioni tecniche che lo riguardano, il nome/logo della marca e, soprattutto, la curiosa figura dei capelli disegnati come se fossero ingranditi al microscopio, con una serie di piccole palline che ne costituiscono il nutrimento (tutto sulla tinta dell’arancio, colore della marca). Questa messa in continuità figurale di due mondi cromaticamente separati produce un universo mitico in cui non solo la forza nutritiva del prodotto si trasmette all’intera capigliatura, ma, ben più profondamente, l’universo della marca e quello del consumatore si trovano non a coincidere, ma in qualche modo a dialogare, a intendersi. Un uso creativo potente dell’argomentazione figurale è stato quello di Absolut, che, come è noto, ha impostato per molti anni la propria comunicazione di marca proprio sulla silhouette della bottiglia, finendo per diventare in qualche modo il logo effettivo della marca (Semprini 2003). Se da un lato nella gigantesca produzione pubblicitaria di Absolut molto è 272

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stato giocato a partire dal nesso fra la trasparenza della bottiglia e l’assolutezza predicata dal brand name, da un altro lato quasi tutta l’azione creativa è stata svolta invece dal tratto figurale della bottiglia. Può accadere così che, per arricchimento iconico, la bottiglia divenga il corpo ricucito di Frankenstein («Absolut Shelley») o quello sensuale della Monroe («Absolut Marilyn»); ma accade ben più spesso che essa, per astrazione figurale, divenga una piscina californiana («Absolut L.A.»), una partitura musicale («Absolut music»), il tracciato di una prova della verità («Absolut truth») e così via. Al punto che non è stato difficile per adbusters e simili rivolgere contro la marca il gioco che essa aveva creato, facendo circolare nella rete una serie di annunci fittizi [cfr. figg. 11-13] in cui la forma della bottiglia veniva giocata in tutt’altro senso, fortemente disforico per l’immagine – nel senso 2 però – di Absolut.

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5.4. Categorie plastiche Come sarà chiaro, la questione della visualità è per noi importante non tanto per la sua natura espressiva o comunicativa, quanto per il suo valore significativo. In altre parole, al di là delle questioni, tanto scontate quanto discutibili, legate alla naturale attrattività emotiva dell’immagine, alle sue capacità evocative e oniriche, all’imperativo di una coerenza visiva generale dei vari elementi aziendali, all’abbellimento estetico apportato dalle componenti visive e simili, quel che più interessa in questa sede è l’apporto di significato dell’immagine al discorso della marca: e dunque quelle componenti di significazione che essa, grazie alle proprie specifiche potenzialità, garantisce nella costruzione del senso fluido e negoziale del brand. Come si è visto, nei giochi che in vario modo si instaurano fra i sottolivelli del campo figurativo emergono vere e proprie forme argomentative tanto indicibili verbalmente quanto estremamente chiare all’osservatore: nascoste a chi non sa o non vuole vederle; palesi invece per chi, smaliziato o curioso, vuol andar oltre il velo delle apparenze figurative. Ma anche e soprattutto difficilmente attaccabili da chi non è dotato del metalinguaggio descrittivo per indicarle e spiegarle, dunque perfetto alibi per chi vuole, appunto, suggerire contenuti senza dichiararli apertamente. Così, a dispetto di chi si ostina a ribadire il carattere di immediatezza comunicativa delle immagini, la semiotica insiste al contrario sul fatto che esse insinuano più che dire, suggeriscono più che dichiarare, nascondono più che svelare, argomentano più che rappresentare. Convocando uno sguardo attento e attivo, è l’attività cognitiva che esse finiscono in effetti per convocare. Tutto ciò diventa ancora più evidente e più conducente se si passa dall’esame della componente figurativa a quello della componente plastica dell’immagine – argomento certamente fra i più sentiti e più vivaci nella ricerca semiotica attuale, su cui non a caso la bibliografia si arricchisce a un ritmo rapidissimo (cfr. per esempio Corrain e Valenti 1991; Eugeni 1999; Fontanille 1995; Corrain ed. 1999; Corrain ed. 2004; Calabrese 2006, come anche i recenti numeri monografici di numerose riviste del settore come «Versus», «Carte semiotiche», «Protée», «Nouveaux Actes Sémiotiques», «Visio», «Visible» ecc.). Il plastico, come s’è già detto, è un linguaggio secondo che si sovrappone a quello figurativo, in parte appoggiandosi a esso, in parte riarticolando la materia espressiva dell’immagine per dar luogo a formanti specifici incaricati di veicolare significati specifici. 274

I modi e le forme di questo linguaggio secondo – traducibili solo nei termini del metalinguaggio dell’analisi testuale – sono complessi, molteplici e per certi versi ancora in via di definizione all’interno di una semiotica del visibile che ha comunque superato, come s’è detto, ogni sudditanza sia nei confronti del linguaggio verbale (per troppo tempo considerato l’unico capace di farsi carico del pensiero complesso e speculativo) sia nei confronti del referente (a lungo e a torto ritenuto il significato primo, letterale, evidente d’ogni immagine non astratta). Tra le categorie già da tempo considerate pertinenti nella costruzione del linguaggio plastico, occorre quanto meno ricordare quelle che hanno a che fare con le linee e le forme (eidetiche), quelle che riguardano i colori (cromatiche) e quelle che concernono la posizione delle figure rispetto allo spazio del supporto impiegato (topologiche). A queste tre categorie di base vanno aggiunte la questione della luce (che intreccia una questione di colori con una di forme) e quella della testura (che sconfina in parte nella problematica dell’enunciazione e in parte in quella della tattilità: si pensi alla marca sostanziale illustrata in § 4.3.4). Per quel che riguarda le categorie topologiche (centro/bordi, destra/sinistra, alto/basso), occorre chiarire che esse non vanno confuse con la spazialità rappresentata nell’immagine a livello figurativo: laddove quest’ultima riguarda la questione dei diversi piani dell’immagine, dunque del nesso figura/sfondo e della prospettiva, le categorie topologiche entrano in gioco quando diviene pertinente il modo in cui le figure sono posizionate, poniamo, nella pagina di un annuncio o nella superficie di una tela o di un arazzo. Così, per esempio, nell’annuncio Sédatonyl di fig. 1, i tre personaggi sono collocati secondo l’asse verticale della pagina, che viene usato per significare il processo temporale di avanzamento verso la tranquillità euforica; viene cioè attivato un semisimbolismo per il quale, come s’è detto sopra, l’alto sta al basso come il prima al dopo. Ma si pensi anche al vecchio, celebre annuncio Volkswagen con il claim più volte ripreso «Think small» [fig. 14]: per mostrare le dimensioni ridotte del maggiolino, e risemantizzare la piccolezza come valore positivo, è stato necessario collocare la figura della macchina in alto a sinistra, lasciando vuoto quasi tutto lo spazio del visual, solitamente occupato da immagini. Per quel che riguarda invece le categorie cromatiche, abbiamo già fatto gli esempi del passaggio dal b/n al colore in molti spot che attiva un semisimbolismo per significare il movimento dalla disforia all’euforia (Sole Piatti) o dalla tradizione alla modernità 275

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(Telecom Gandhi). Così, nell’annuncio Sédatonyl [fig. 1] la trasformazione timica dalla disforia all’euforia è data, oltre che dalla categoria topologica alto/basso, anche da quella cromatica scuro/chiaro. Nell’annuncio Kérastase di fig. 10, invece, la parte sinistra (sfera del consumatore) è in b/n, mentre quella destra (sfera della marca) usa la tonalità aziendale dell’arancione: si produce in tal modo il semisimbolismo ‘b/n: arancione = capelli normali: capelli nutriti’. Per quel che riguarda le categorie eidetiche (retto/curvo, continuo/ tratteggiato, convesso/concavo ecc.) nel medesimo annuncio Kérastase l’opposizione semantica fra mondo reale del consumatore e mondo mitico della marca è data dall’opposizione espressiva fra la parte fotografica e quella grafica; il tratto grafico, inoltre, riprende la linea curva dei capelli della foto, rendendola però irregolare grazie all’inserimento dei piccoli elementi circolari chiamati a designare il nutrimento alla capigliatura fornito dal prodotto. Ma si pensi ancora all’annuncio Sédatonyl, dove il passaggio dalla disforia all’euforia è ulteriormente sovradeterminato dall’opposizione fra il tratto grafico discontinuo e quello continuo. Il modo migliore per entrare nel merito del linguaggio plastico, comunque, sembra essere quello di vederlo, per così dire, all’opera nella costruzione di un’identità di marca, ricorrendo ad alcuni esempi, nei quali, fra l’altro, diverrà utile la ripresa di alcune ulteriori categorie plastiche tratte dall’antropologia e dalla storia dell’arte. Grazie a tali esempi apparirà chiaro, al tempo stesso, come il plastico, per quel che riguarda il brand, non è presente soltanto nell’immagine pubblicitaria, ma, in quanto linguaggio silente che s’innesta e si nasconde nelle maglie del figurativo, diviene spesso il luogo e il mezzo di un intero discorso sociale, come per esempio quello della Moda. Una cosa è infatti, come rilevava Barthes (1967, 2006), il fatto che la Moda si produca, si radichi e si diffonda anche e soprattutto parlandone, moltiplicando gli strumenti e le occasioni per instaurare un di276

scorso sulla Moda. Un’altra cosa è invece, osserva Floch (1995), il discorso della Moda stessa, che in larga misura è di natura visiva e dipende dunque dall’organizzazione plastica delle forme e delle materie, del gioco dei colori, degli abbinamenti e delle sovrapposizioni. Per Barthes, dinnanzi all’imbarazzante evidenza della tautologia su cui si regge – «la Moda è di moda» –, il sistema dei media tende a moltiplicare le verbalizzazioni e le rappresentazioni, spesso ipertrofiche nella pochezza dei loro contenuti, del fatto di Moda, sia per quel che riguarda l’abbigliamento in senso stretto sia per quel che concerne qualsiasi altro àmbito in cui tale fenomeno è presente. D’altro canto, però, rileva Floch, dire la Moda – nelle riviste di settore, nelle cronache delle sfilate, nelle mitologie sugli stilisti e sulle modelle, nelle trasmissioni televisive più o meno documentaristiche, nei film e nei romanzi ecc. – significa in qualche misura uscir fuori da essa per occuparsi semmai delle sue valenze sociali e delle sue funzioni ideologiche, forse politiche. In effetti, per Floch, a costituire l’essenza della Moda, lo stile degli stilisti – nel senso in cui questa nozione è stata definita in § 4.3.5 – è la dimensione eminentemente plastica. Analizzando l’identità visiva di Coco Chanel, Floch (1995, pp. 124-162 trad. it.) distingue molto chiaramente nel celebre total look della stilista francese la dimensione figurativa da quella plastica, mostrando come la prima sia facilmente verbalizzabile (e difatti sia stata ampiamente verbalizzata nelle mitologie che la riguardano), mentre la seconda, ineffabile nella sua evidenza visiva, sia in realtà quella che costituisce e che conserva l’identità della griffe, che la rende unica nella sua riconoscibilità, persistente nei suoi cambiamenti. Sul piano figurativo, il discorso tenuto da Chanel (nei vestiti e negli accessori, come anche nelle innumerevoli dichiarazioni e interviste) tende a rafforzare il carattere della marca, ossia – come si ricorderà [§ 3.5.3] – la costruzione di un’identità data dalla contrapposizione con altre marche concorrenti: nel caso particolare, negli anni Venti con Poiret, negli anni Cinquanta con Dior, negli anni Sessanta con Courrèges (sul match Chanel/Courrèges cfr. in particolare Barthes 2006, pp. 84-89) ecc. I celebri elementi di identificazione di Chanel – tailleur, scarpina bassa con punta nera, borsa impunturata, fiocco, bottone dorato con il logo della doppia C [cfr. fig. 15] –, montati fra loro secondo sintagmi ritmici fissi, tendono a produrre l’idea di una donna moderna e libera, che può mettersi alla prova e affermarsi nel mondo del lavoro, senza per questo perdere in femminilità ed eleganza. Così, dice Floch, al di sotto della figuratività della moda di Chanel è possibile intravedere un racconto: una performance riuscita, il congiungimento euforico con un preciso Oggetto di valore – la libertà sociale – e quindi la realizzazione di una nuova forma di soggettività: la donna moderna, con un abbigliamento al tempo stesso pratico ed elegante, femminile e comodo. Laddove Poiret tendeva a esaltare una femminilità fine a se stessa e sfoggiava creazioni per donne 277

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che avevano come unico fine l’esibizione della propria bellezza ed eleganza, Chanel – reinventando il tailleur e costellandolo di accessori – risemantizza queste creazioni dell’avversario tacciandole, indirettamente, di essere scomode e invecchiate, inadatte alla vita moderna, maschiliste. Così, da un lato Chanel importa nell’abbigliamento femminile quel valore della ‘distinzione’ che è tipico dell’abito maschile; d’altro lato, però, lo reinterpreta in funzione di una nuova immagine della donna che sa giocare con l’androginia senza perdervisi. Ecco insomma, per riprendere l’assiologia dei consumi, un perfetto termine complesso fra valorizzazione pratica e valorizzazione utopica. Se il piano figurativo costituisce la moda di Chanel, il suo ‘carattere’ in opposizione ad altri stilisti, è invece il piano plastico a costituire il suo stile: uno stile che Floch definisce – riprendendo in questo un’intuizione barthesiana (Barthes 2006, pp. 84) – fondamentalmente classico, con alcuni contrappunti barocchi che, apparentemente mitigandolo, lo esaltano ancora di più. Dal punto di vista plastico, quel che emerge non sono più gli elementi vestimentari usati dalla stilista, le loro combinazioni e trasformazioni, ma la silhouette che essa è riuscita a creare, il total look che ha voluto mantenere costante nel corso del tempo. La silhouette Chanel è classica, sostiene Floch, perché riprende in modo straordinariamente evidente quei caratteri visivi dello stile classico che, interdefinendoli con quelli dello stile barocco, sono stati individuati nel campo della storia dell’arte da Heinrich Wölfflin (1915): il lineare (di contro al pittorico), la distinzione dei piani (rispetto alla valorizzazione della profondità), la forma chiusa (in opposizione alla forma aperta), la molteplicità degli elementi (e non la diffusione di masse uniche), la chiarezza immediata delle forme (a sfavore di una luce che esalta una realtà sottomessa ai suoi capricci). Così, a prescindere dai singoli capi usati e dai loro abbinamenti, la forma generale del total look di Chanel produce in effetti un senso di chiusura: da un lato del corpo la punta nera della scarpa produce una cesura con il terreno; dall’altro lato la scelta dei capelli corti o di una paglietta molto strutturata o di un fiocco tende a segnare in modo netto il confine percettivo fra la parte alta della figura e il suo sfondo. Se la forma è chiusa, 278

non per questo si crea un effetto di massa: il predominio della linearità (si pensi alla bordatura del tailleur, alla precisione delle pieghe, ai colletti e alle cinture molto marcati, ai tessuti stampati, alla rigidità di caduta dell’abito...) tende a produrre un effetto di molteplicità, una chiara riconoscibilità dei singoli elementi di cui è composto il total look. Se in esso sono presenti masse, per esempio negli accessori, esse sono localizzate, circoscritte, ben individuabili: elementi, appunto, barocchi che, isolati da ogni possibile barocchismo, finiscono per esaltare la chiarezza visiva di fondo. Infine, anche sul piano della luce s’afferma lo stile classico: sia nella scelta dei colori dominanti (beige, rosso, bianco, nero) sia in quella delle stoffe (jersey, tweed, crêpe) c’è un controllo totale della luce, che viene sempre catturata e controllata, onde evitare che essa prenda di traverso le diverse parti del look trasformandole in modo casuale. Dall’ineffabilità verbale di questo secondo aspetto del look Chanel non ne consegue che esso sia privo di significato. La dimensione plastica, abbiamo detto, è un linguaggio a tutti gli effetti: si dà pertanto se e solo se entra in relazione con un qualche contenuto. Così, sostiene Floch, la silhouette di Chanel tiene un suo preciso discorso, che è quello di un’etica del mantenimento, di una forma di vita caratterizzata da un rifiuto delle discontinuità forti, delle rotture, delle separazioni, sia nella relazione con le cose sia in quella con gli altri sia anche in quella con se stessi. Se a livello figurativo Chanel parla di praticità e di femminilità che si coniugano, a livello plastico essa ricopre questo discorso con la tendenza verso un dandismo discreto, tutt’altro che eccessivo, dunque verso la volontà di una profonda perseveranza, pur negli inevitabili cambiamenti che la vita quotidiana e la storia sociale impongono. Le forme di vita, sappiamo [§ 3.8], producono deformazioni coerenti delle logiche narrative standard espandendo a dismisura dettagli a prima vista secondari che spesso riguardano la sensorialità. Nella cura ossessiva che mette per la costruzione della propria silhouette, nella variazione infinita di un modello visivo in fin dei conti sempre identico a se stesso, Chanel afferma pertanto una propria idea della vita, e se ne fa a suo modo – un modo prettamente plastico – una strenua paladina. Il celebre chic di Chanel è questo: dire visivamente la discrezione, la costanza, la distinzione. Questo riuso semiotico fatto da Floch dell’opposizione formale fra classico e barocco prevista da Wölfflin ha una fortissima capacità esplicativa in un gran numero di casi e di situazioni. Può servire a ricostruire, come abbiamo appena illustrato, l’identità visiva di cui una marca si dota grazie a un uso sapiente della dimensione plastica. Ma può essere utile anche per mostrare le forme di concorrenza fra marche diverse, i posizionamenti che si producono fra brand anche e soprattutto attraverso le allusioni e i rinvii reciproci fra i loro discorsi, le inversioni calcolate o i prestiti velati di elementi plastici: giochi visivi che, prima ancora di sottendere 279

significati ulteriori, mirano a costituire identità contrastive, dialettiche, relazionali. Come vedremo nel prossimo paragrafo a proposito dei logo, le marche tendono a distinguersi fra loro visivamente anche e soprattutto quando, in fondo, i loro contenuti sono sostanzialmente simili. Accade così che due brand tradizionalmente concorrenti possano scambiarsi talvolta i singoli tratti visivi, mantenendo comunque, a livello della loro organizzazione plastica complessiva, la stessa identità relazionale. Due recenti annunci per Armani/Casa [fig. 16] e Versace Home Collection [fig. 17] sono in questo senso particolarmente esemplari. Accade infatti che queste celebri grosse marche di Moda, estendendosi nel campo limitrofo dell’arredamento, invertano alcune loro caratteristiche visive di fondo, citandosi a vicenda, forse addirittura costruendo un’immagine caricaturale dell’altro, per riaffermare alla fine il proprio stile profondo, e rafforzare così il patto valoriale col proprio enunciatario presupposto. Se il gioco delle inversioni appare totale, dal punto di vista della forma visiva i due brand non mutano affatto la maniera di autorappresentarsi. I due annunci, sistematicamente antitetici, riaffermano la tradizionale concorrenza fra i due brand, di cui illustrano il rispettivo settore dell’arredamento. Sono opposti già nelle scelte grafiche e linguistiche. Tralasciamo il lettering istituzionale (ovviamente diverso) e la componente significante del nome (la lettera iniziale è opposta graficamente e per quanto riguarda l’ordine alfabetico). Osserviamo semmai che il primo pone nel medesimo rigo, separandole con uno slash, il brand name e la sua estensione («Armani/Casa»), facendoli precedere da uno specifico logo (il profilo di una lampada); il secondo, invece, pone in due righi diversi il nome («Versace») e l’indicazione dell’estensione di marca, usando la lingua inglese («Home Collection») e non proponendo alcun logo supplementare. A livello figurativo, l’annuncio Armani propone un’immagine quasi mitografica, che usa lo spazio irraggiante di una sorta di vetrina nella quale sono disposti su uno sfondo uniforme nero pochi oggetti: un tavolino rotondo dorato su cui sono poggiate due candele accese, due ciotole e due vasi, tutti tendenti al dorato con pochi inserti neri; un paravento del medesimo colore; un vaso rosso con fiori rossi – che crea un certo straniamento visivo, in quanto non si coglie bene se sia poggiato sul tavolino o se stia su un piano diverso dell’immagine. L’effetto di senso complessivo è dunque abbastanza irrealistico, quasi metafisico, e rimanda comunque all’idea dell’esposizione fuori contesto di alcuni oggetti in uno spazio per nulla casalingo. Una tradizionale foto di design, dove la totalità degli oggetti rappresentati è molto chiaramente partitiva, quasi un elenco. L’annuncio Versace gioca una strategia opposta. L’immagine è decisamente pittografica. I molteplici oggetti presenti – divani, poltrone, tavolini, vasi, lampade, lampadari, finestre, specchi (che rispecchiano tutto questo) ecc. – stanno fra loro in 280

un’organizzazione molto precisa, sono disposti secondo un principio d’arredamento. Di modo che l’effetto che si crea è quello, assolutamente realistico, di un interno domestico, di un contesto casalingo – per quanto anch’esso privo di figure umane. Una fotografia, qui, quasi documentaria, dove la totalità delle cose raffigurate è di tipo integrale. Anche i singoli oggetti rappresentati sono, come dire, ontologicamente diversi: in Armani il tavolino basso è uno solo, è rotondo, dorato, con tre piedi in verticale; in Versace i tavolini bassi sono due, rettangolari, neri, con i piedi obliqui e incrociati. In Armani i due vasi, dorati e neri, sono tondeggianti; in Versace, i due vasi, per quanto anch’essi di misura diseguale, sono rigorosamente bianchi e hanno una forma lineare. In Armani ci sono due candele accese; in Versace lampadari e lampade (le quali riprendono, in scena, il logo dell’avversario). In Armani vediamo due ciotole dorate; in Versace due bicchieri gialli. In Armani c’è un lungo cilindro rosso a mo’ di vaso da fiori, dunque in verticale; in Versace ci sono molti cilindri, bianchi, a mo’ di cuscini, dunque in orizzontale. Infine, in Armani c’è un paravento traforato che lascia intravedere il fondo nero che gli sta dietro; in Versace ci sono due grossi specchi che, naturalmente, riflettono l’immagine; al centro c’è però una finestra, dietro i cui vetri si intravede la facciata dell’edificio di fronte, con i toni però del bianco. Insomma, una ricca serie di parallelismi sbilenchi e di sistematiche inversioni che nulla ha da invidiare alle più sofisticate architetture formali della poesia. Passando alla componente plastica, le cose si complicano. Quel che emerge abbastanza chiaramente, soprattutto a livello cromatico, è il fatto che Armani usi i colori vivaci che tradizionalmente sono appannaggio di Versace (dorato, nero, rosso) e, viceversa, Versace usi quelli tenui tipicamente attribuiti ad Armani (bianco e nero, rosa, beige, grigio). Il dorato del grosso lampadario ‘neobarocco’, evidente concessione alle tendenze del design del momento, sembra quasi una citazione della dominanza cromatica dell’avversario. Fra l’altro, nel primo caso domina un cromatismo scuro, mentre nel secondo uno chiaro. I materiali in gioco sembrano anch’essi rispettivi prestiti dal concorrente: in Armani predomina un metallo che riflette e respinge la luce, producendo una concentrazione luminosa e un effetto di bagliore (Leonardo avrebbe detto lustro); in Versace è in primo piano una stoffa che invece la assorbe, producendo una diffusione, una circolazione luminosa e un conseguente effetto di illuminazione (Leonardo avrebbe parlato di pura luce). In più, il disegno del paravento dell’annuncio Armani è una chiarissima citazione del motivo grafico che Versace usa da tempo ormai quasi come logo, e che difatti, nell’annuncio avversario, intravediamo a rilievo nel bracciolo della poltrona in primo piano. Insomma, i due sembrano voler fare reciprocamente la caricatura dell’altro, importando ironicamente nella propria dimensione visiva gli elementi d’immagine più caratteristici del concorren281

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te: Armani gioca a essere barocco, come generalmente si pensa sia Versace; Versace gioca a essere classico, come generalmente si pensa sia Armani. Dove i termini ‘barocco’ e ‘classico’ sono qui appositamente usati nella loro accezione ingenua, comune, popolare. Se invece proviamo a usarli nella loro accezione tecnica, quella di Wölf282

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flin e di Floch, le cose stanno in tutt’altro modo. Scopriamo infatti che Armani usa un’estetica formale classica, mentre Versace una barocca. Ripercorriamo rapidamente le cinque coppie oppositive che costituiscono le rispettive estetiche. (i) In Armani predomina la linea, di modo che le figure sono ben definite e si coglie la linea di confine percettivo fra l’una e l’altra; 283

in Versace domina invece la massa: gli oggetti, dati per frammenti, non sono ben distinti fra loro sin quasi a perdere i loro contorni e a sovrapporsi, per creare un effetto, appunto, di massa. (ii) In Armani si distinguono chiaramente tre diversi piani dell’immagine: il tavolino, il paravento, lo sfondo; in Versace è pressoché impossibile enumerare i piani presenti nell’immagine e si produce così un generale effetto di profondità che parte dallo scorcio di poltrona in primissimo piano sino ad arrivare all’esterno indistinto e sfocato (per non parlare degli specchi, che moltiplicano ulteriormente il numero dei piani). (iii) In Armani la forma delle figure è chiusa: a partire da un osservatore idealmente collocato nell’asse centrale dell’immagine, tutti gli oggetti sono perfettamente inquadrati nello spazio topologico della pagina; in Versace domina invece la forma aperta: a partire da un osservatore idealmente collocato all’interno della scena, quasi a creare uno sguardo in soggettiva, molte figure (poltrona, tavolino, lampadario, specchio ecc.) fuoriescono dal supporto materiale della pagina. (iv) Ne consegue che in Armani si produce un senso di molteplicità: c’è un numero preciso di cose rappresentate; in Versace invece domina l’unità, la massa: gli oggetti, disposti in uno spazio pittorico e con precise relazioni sintagmatiche fra loro, tendono a produrre un effetto di unitarietà: un arredamento d’interni. (v) Infine, benché in Armani predomini un cromatismo scuro e gli oggetti tendano a riflettere la luce, questa cade su di essi in modo da isolarne perfettamente i contorni e produrre un generale senso di chiarezza; in Versace invece, nonostante il cromatismo sia tendenzialmente chiaro, la luce cade sugli oggetti secondo il suo capriccio, mettendone in rilievo alcune parti a discapito di altre (cfr. i cuscini di pelle scura, il piano riflettente dei tavolini bassi, le vetrate delle finestre). A contrappunto di questo evidente gioco delle parti, un po’ come gli accessori di Chanel, in Armani la chiarezza della visione viene disturbata dalla figura rossa del vaso; tale figura scompagina l’organizzazione complessiva dell’annuncio, ponendosi indifferentemente nel piano del tavolino, in quello del paravento e forse persino in quello dello sfondo. In Versace troviamo qualcosa del genere, ma sul piano figurativo: il lampadario dorato potrebbe per certi versi giocare questo ruolo, poiché, come si è detto, introduce un colore pressoché assente nell’annuncio e ha uno stile tipicamente neobarocco. La tabella riassume e schematizza quanto emerso dall’analisi testuale: dimensione figurativa

dimensione plastica

Armani

barocco

classico (con contrappunto barocco)

Versace

classico (con contrappunto barocco)

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barocco

Ecco allora delinearsi una prima ragione forte che giustifica il passaggio teorico – evocato nel titolo di questo capitolo – da un’identità meramente visiva della marca a una più ampiamente estetica. Parlando di ‘identità estetica’ della marca, Floch (1995) non intende riferirsi alla sfera dell’arte e della bellezza, tradizionalmente considerata autonoma rispetto a quelle dell’economia, della tecnica e del pensiero speculativo. Non vuole racchiudere il discorso di marca nel campo di una costruzione semiotica tanto gradevole quanto fittizia, impattante all’occhio ma vuota concettualmente e inutile pragmaticamente. In termini molto diversi, questo autore vuole semmai mettere in gioco, e considerare come pertinenti nella costruzione pratica e nella ricostruzione analitica dell’identità di marca, entrambe le dimensioni dell’immagine. Da una parte la dimensione figurativa, su cui più frequentemente si insiste negli studi di settore. Dall’altra quella plastica; una dimensione che, per quanto appaia ineffabile, indicibile e sfuggente, non solo risulta essere dotata di significati propri e specifici, ma riesce spesso a tenere vere e proprie argomentazioni: parla d’altro che di se stessa, dice qualcosa e interviene sul mondo, esprime idee e valutazioni, non ultime quelle che riguardano la concorrenza. Il caso Armani/Versace appena esaminato è esemplare a quest’ultimo proposito: il discorso visivo – figurativo e plastico – di una marca ha spesso come contenuto la marca avversaria. Cosa che diviene quasi la norma nel caso dei logo. 5.5. Il caso dei logo Generalmente il logo, elemento principe dell’identità visiva d’una marca, viene considerato e studiato dal punto di vista grafico e tipografico. Elemento decorativo che ha la funzione di attirare l’attenzione del consumatore, nonché di agevolarne la memorizzazione sull’esistenza fisica della marca, esso deve possedere una serie di proprietà interne – forme, colori, dimensioni, valori simbolici –, coordinate con le altre componenti visive della marca medesima, in modo da formare un lay-out coerente e riconoscibile nello spazio e nel tempo. Un logo, da questo punto di vista, sarebbe il segno d’identificazione della marca, la figura che per sineddoche visiva comunica la sua complessiva identità (cfr. Monachesi 1993; Heilbrunn 2001). Tutt’al più, vuoi per il nome che porta inscritto, vuoi per le figure del mondo che rappresenta, esso può avere alcuni significati connotativi, come quando si dice che un puma connota ‘esotismo e avventura’ o il solito mulino bianco una 285

‘natura pura ritrovata’. A questa concezione grafica del logo, elemento visivo con forte funzione identificante, se ne oppone un’altra, altrettanto diffusa e a ben pensarci complementare, secondo la quale il logo (in questo caso chiamato per lo più marchio) veicola in quanto tale la marca, al punto da identificarsi sic et simpliciter con essa. E ciò a prescindere dalle sue qualità visive o dai suoi significati connotativi, elementi supposti estrinseci, tutto sommato casuali, e quindi in alcun modo legati con l’essenza reale della marca, la quale avrebbe di per sé una natura economica, una funzione commerciale e una sede istituzionale nel campo esclusivo del marketing. È la prospettiva, per esempio, di No Logo di Klein (2000), che in più di quattrocento pagine interamente dedicate alla critica del sistema dei logo multinazionali non dedica alcuna attenzione al marchio in quanto tale, né alla sua fattura estetica né alla sua natura segnica. Radicalizzando e naturalizzando la sineddoche, ‘logo’ diviene in tal modo sinonimo assoluto di ‘brand’; trasformando la significazione in ontologia, il marchio è la marca. La prospettiva semiotica, mettendo in relazione queste due interpretazioni del logo in quanto due facce del medesimo fenomeno semiotico, superandole in una visione unitaria e relazionale delle cose, propone una definizione del segno/marchio al tempo stesso più dettagliata e più ampia. Da questo punto di vista, più che analizzare da una parte gli elementi visivi come tali (lungo tutto l’asse del lay-out aziendale) e dall’altra gli elementi semantici come tali (nella loro diffusione all’interno della cultura sociale), si tratta di esaminare la loro relazione e, soprattutto, la loro costituzione reciproca: il fatto cioè che gli uni si danno in funzione degli altri, e viceversa. Come sappiamo, nessun sistema di tratti visivi è percepito (isolato, memorizzato, valorizzato) se non nel suo essere portatore di un sistema di senso; e nessun insieme di significati emerge (è compreso, memorizzato, valorizzato) se non è veicolato da un qualche supporto espressivo. Così, un logo è un segno in quanto è la presupposizione reciproca delle sue due facce significante e significata, entrambe a loro volta esito costruito di un montaggio complesso di elementi minimi sottostanti. Inoltre, in quanto segno, esso è l’elemento minimo di costrutti semiotici più complessi – testi, discorsi, racconti – dei quali, per sua specifica natura e funzione, esso si pone, per così dire, come punta dell’iceberg. Elemento manifesto, immediatamente percepibile, di una grande macchina significativa sottostante – la marca –, il logo si incarica talvolta di rappresentarla in toto grazie a una sorta di ipercondensazione semantica, ponendosi come una tipica forma breve dell’universo mediatico contemporaneo 286

(Pezzini ed. 2002). Infine, grazie a questa sua alta capacità espressiva e significativa, il logo è spesso portavoce della marca in territorio nemico, dialoga a denti stretti con i logo concorrenti, li ridice a suo modo, a seconda dei casi se ne fa gioco (risemantizzandoli negativamente) o si nutre della loro gloria (risucchiandone interi significati). Non è un caso, allora, che questo piccolissimo segno grafico sia dotato nella cultura contemporanea di un immenso valore e di una straordinaria efficacia. Tutto ha un logo e tutto è un logo. Dalle griffe dei grandi stilisti abilmente contraffatte nelle mercanzie asiatiche alla frenetica circolazione d’icone nei display telefonici di milioni di adolescenti, dai marchi tatuati nei corpi di intere tribù d’invasati ai variegati segni incaricati di costruire un’identità qualsiasi, agli entusiasti bloggers dell’ultim’ora, è tutto un fiorire di logo e anti-logo, marchi e marchette, dove – ancora una volta – il confine del discorso di marca eccede di gran lunga la sfera del mercato nella quale pure è sorto nella modernità. Dimostrazione in negativo di questo ruolo di spicco dei logo in epoca contemporanea, e dunque della loro sicura efficacia simbolica, è la dimensione pragmatica riguardante l’uso dei logo (esibizione/ridimensionamento, ingrandimenti/rimpicciolimenti, cancellazioni/moltiplicazioni ecc.), e soprattutto la sistematica opera di distruzione di cui essi sono stati – e sempre più spesso sono – oggetto. Dato che, come s’è detto, i logo vengono generalmente considerati segni sineddochici dei brand, li si distrugge (infanga, ricopre, smonta, trasforma, brucia, irride...) per colpire quel sistema del mercato globale che ai grossi brand multinazionali deve gran parte della sua natura e della sua potenza. Come in ogni iconoclastia che s’è ciclicamente presentata nella storia religiosa e politica, si distruggono le immagini perché si teme la loro forza: indice indiretto e indiscutibile, dunque, della loro riconosciuta efficacia sociale (Latour e Weibel eds. 2002). In uno studio comparativo ormai celebre dei logo Ibm e Apple, Floch (1995, pp. 60-96 trad. it.) ha inaugurato questo genere di prospettiva d’analisi, mostrandone tutta l’utilità. Grazie a un’analisi testuale molto accurata, Floch osserva come i logo di queste due grandi aziende informatiche siano stati costruiti in modo diametralmente opposto, dato che tutti gli elementi plastici del primo risultano essere invertiti nel secondo. Il logo di Ibm [fig. 18] (sigla dell’azienda in carattere egiziano ritoccato a strisce blu) è verbale, dunque astratto; quello di Apple [fig. 19] (la mela addentata colorata con una specie di arcobaleno in disordine) è figurativo, dunque concreto. La struttura del primo è complessa (un trittico che ripete bande di287

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sgiunte), quella del secondo è semplice (una mela dove si alternano bande congiunte). I colori del primo sono monocromatici e freddi (il blu), quelli del secondo sono policromatici e caldi (violetto, rosso, arancione e giallo spiccano perché inseriti fra blu e verde). Le forme del primo sono spesse e dritte, quelle del secondo sono ora linee di delimitazione ora curve. Sembra quasi che i due logo si parlino a vicenda: ognuno di essi indica le qualità visive dell’avversario ma si adopera a modificarle, a distorcerle. Sappiamo però che Apple è entrato nel mercato ben dopo Ibm: così, adottando figurativamente il logo della mela addentata e colorata, osserva giustamente Floch, Apple ha voluto connotare tutta l’euforia creativa che già dall’inizio caratterizzava l’azienda; inoltre, plasticamente, il brand di Cupertino ha preso posizione contro Ibm, in qualche modo delimitandone il campo, risemantizzandone i segni. L’efficientismo e la competenza che il discorso Ibm voleva veicolare divengono, rispetto alla convivialità di Apple, tradizionalismo e monotonia, forse addirittura schiavitù. Lo si vede ancor meglio se si mette in relazione l’opposizione plastica dei due logo con lo spot 1984 girato da Ridley Scott per Apple, e mandato in onda quell’anno, al momento del lancio del celebre McIntosh. A prima vista si tratta di una riscrittura ottimistica del celebre romanzo di Orwell: una serie di uomini grigi e con lo sguardo perso nel vuoto [fig. 20] marciano e ascoltano passivamente il lungo discorso di una fantomatica Guida che proviene da uno schermo gigante blu catodico [fig. 22]; una giovane donna, colorata e con curve prominenti, irrompe con un grosso martello in mano [fig. 21] e, sfuggendo a inseguitori senza volto, lo lancia verso lo schermo distruggendolo [fig. 23]. Ma a ben vedere si tratta di una chiara parabola del conflitto fra i due giganti dell’informatica: con McIntosh, la marca Apple (i cui colori e forme sono quelli della ragazza) s’impone in un mondo standardizzato e asservito a un potere repressivo e totalizzante (che ha tutti i tratti visivi di Ibm). Lo spot, insomma, parla di Ibm, del suo logo, e lo paragona alla tirannia del Big Brother orwelliano (non è un caso, fra l’altro, che il logo Ibm fosse chiamato Big Blue). Da qui la surrettizia risemantizzazione di Ibm, le cui proprietà visive finiscono per significare schiavitù, perpetuità, standardizzazione, di contro a quelle di Apple, che simboleggiano libertà, cambiamento, creatività. L’identità visiva di Apple si costituisce creando un perfido semisimbolismo e imponendolo al proprio avversario. Più ancora che le con288

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Le strisce blu degli schiavi Ibm

La forza colorata di Apple irrompe

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Il Grande Fratello Ibm

La sinuosa Apple lancia il martello verso lo schermo

notazioni simboliche presenti nella figura della mela (la mela di Newton, la mela di Adamo ed Eva...), a costruire l’identità complessiva della marca Apple sono i tratti plastici del suo logo, resi significativi anche grazie alla risemantizzazione di quelli di Ibm. Accade così, come è noto, che Ibm e Apple divengano portatrici di due opposte filosofie della conoscenza e, addirittura, di due diverse forme di vita: la sigla di Ibm è portatrice di una cultura della verbalità e della digitalizzazione (le strisce ricordano il codice binario) tipica del mondo pragmatico e razionale degli affari nella East Coast americana; la figura radiante di Apple, al contrario, diviene il simbolo di una cultura dell’immagine e dell’analogico tipica invece di una West Coast creativa e psichedelica... Le infinite mitologie delle rispettive marche hanno origine proprio da qui. Non è un caso, come ha mostrato Mangiapane (2007), che la successiva storia della competizione fra le principali marche dell’informatica sia proseguita soprattutto sul piano dei logo. Se a un certo punto Apple, per esempio, ha eliminato il cromatismo dell’arcobaleno per presentare un marchio monocolore leggermente a rilievo, è perché la reale concorrenza 289

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aziendale non era più con Ibm (dunque sul piano dell’hardware e dei servizi commerciali) ma con Microsoft (dunque su quello del software e dell’operatività, dell’interfaccia grafica). In tal modo, per questa marca non si è trattato più di veicolare una convivialità da opporre alla grigia seriosità burocratica di Ibm, ma di proporre come plus un design al tempo stesso minimal e giocoso. In altri termini, il tema della creatività non si è concretizzato più come ‘psichedelia creativa’ dell’operatore ma come ‘ricercata bellezza’ degli oggetti. Ed è soprattutto il primo marchio Windows di Microsoft [fig. 24], secondo Mangiapane, a dimostrare indirettamente la sensatezza dell’analisi di Floch. Esso infatti si presenta, grazie a una serie di precisi tratti grafici (alcuni dei quali successivamente eliminati), come il biglietto da visita di una marca emergente che, sintetizzando al proprio interno le caratteristiche principali dei due brand concorrenti, ampiamente li trascende per imporre una propria, originale visione del computer e, con esso, del mondo nel suo complesso. Già a un primo sguardo, si nota come vengano convocate nel logo Windows le invarianti plastiche dei logo Ibm e Apple, per essere in qualche modo messe in contrasto e modificate. Per semisimbolismo, l’area di sinistra (linee discontinue che generano tanti frammenti in una forma complessivamente aperta) è ‘digitale’, mentre quella di destra (quattro quadrati colorati in una forma complessivamente chiusa) è ‘analogica’. Inoltre, fra le due parti della figura, divise da una barra nera centrale, è facile cogliere un senso di lettura complessivo dell’immagine da sinistra verso destra. I frammenti divengono sempre più spessi e, per così dire, sempre meno frammentati, sino a originare forme continue, i quattro quadranti, interpretabili figurativamente come ‘finestre’ (con tutta la serie di significati connotativi che questa figura porta con sé). Come dire che Windows si pone come termine di sintesi fra la professionalità digitale di Ibm e la creatività analogica di Apple, tendendo comunque a dirigersi dalla prima verso la seconda. Le finestre di Microsoft sono il presente, un presente che (forme e colori) sintetizza i conflitti del passato e (barra nera) si pone in discontinuità rispetto a esso. Ma sino a un certo punto: la forma generale dei quattro quadranti è infatti al tempo stesso ondulata (linee curve di Apple) e ortogonale (linee dritte di Ibm); a livello cromatico, poi, essa presenta un perfetto incrocio fra colori caldi (rosso, giallo) e colori freddi (blu, verde). In altre parole, a esser superato è soltanto l’universo digitale di Ibm, non gli altri elementi della sua estetica. Ne viene fuori la tabella riassuntiva: 290

Ibm

Apple

Microsoft

struttura

configurazione complessa; ripetizione di bande disgiunte

configurazione semplice; non ripetizione di bande congiunte

configurazione complessa e semplice; ripetizione/non ripetizione di bande disgiunte/congiunte

colori

monocromatici freddi

policromatici caldi

policromatici freddi/caldi

forme

spesse dritte

semplici limiti curve

spesse/limiti dritte/curve

Il lavoro semiotico sui logo, impostato nei termini inaugurati da Floch, è proseguito con grande fermento. Cfr. per esempio Semprini (1997, pp. 89-137) su Ratp e Itineris; Marrone (1999) su Tim/Omnitel; Ceriani (2001, pp. 135-143) su Jammin’/Mtv; Marrone (2005b) e Marrone ed. (2003) sui marchi degli Atenei italiani; Agnello (2003, 2004) rispettivamente su Nike/Adidas e McDonald’s/Burger King; Teotti (2006) sui nessi strutturali fra il marchio Mercedes e il discorso complessivo di tale marca; il già citato Mangiapane (2007) su Apple/Microsoft; Brucculeri (2007) sui logo turistici dei Paesi del Mediterraneo. Ma questi studi non sono mere applicazioni della metodologia di Floch, in quanto approfondiscono diversi aspetti della questione. In particolare, Agnello (2004) ha messo in evidenza all’interno di alcuni logo multinazionali (proprio quelli presi di mira da Klein) l’importanza strategica della dimensione della figuralità e di quella dell’enunciazione. Così, da una parte, viene verificato come, per esempio, anche per il caso McDonald’s/Burger King si inneschi un dialogo silente fra i rispettivi logo, costituito da una serie di riprese e di inversioni di tratti plastici – come riportato nella tabella:

struttura

formato chiuso figura contorno

formato aperto figura piena

colori

sfondo rosso scritta bianca figura gialla

sfondo bianco scritta rossa figura gialla

forme

curve in verticale

curve in orizzontale 291

25

26

Dall’altra parte, l’analisi insiste sulla costruzione discorsiva di tali logo, quindi sui ruoli rispettivi di enunciatore ed enunciatario sia nella costituzione del patto comunicativo sia nei confronti dell’enunciato. Così, nota Agnello in riferimento ai generi pubblicitari previsti da Floch [§ 4.3.3], il discorso di McDonald’s condensato nel suo logo è fondamentalmente mitico. Esso mira cioè, avrebbe detto Séguéla, a dare carattere al prodotto, a inserirlo in un contesto fiabesco e in un mondo fantastico che trascendono la banale quotidianità dell’atto di consumo alimentare. I celebri Golden Arches che esso rappresenta figurativamente segnano l’ingresso in uno spazio protetto, al cui interno si danno il massimo di organizzazione produttiva (valorizzazione pratica del fast food) e il massimo di divertimento sfrenato oltre le regole del galateo (valorizzazione ludica del momento del consumo). Varcata la soglia dorata, si apre un universo disneyano dove tutto, purché preliminarmente organizzato, risulta possibile: è il mondo di marca in cui si costituisce e si rinforza il patto comunicativo. D’altronde, se la dimensione plastica, come si vede nella tabella sopra riportata, ha l’obiettivo di ridire a suo modo l’identità visiva del concorrente, la dimensione figurativa del logo McDonald’s approfondisce la questione posta a livello enunciativo, invitando l’enunciatario a un gioco interpretativo senza fine. Come già nel caso di Shell [fig. 2], mettendo in rilievo la componente figurale si apre il ventaglio delle letture possibili, e i Golden Arches si moltiplicano in una deriva di significati senza alcuna aprioristica gerarchia fra di essi: c’è innanzitutto l’iniziale del brand name, quella M che, per altri versi, apre a tutto l’universo femminile di una Grande Mamma che tradizionalmente controlla e al tempo stesso permette (cfr. Codeluppi 2001); ci sono le montagne russe, con quell’andirivieni continuo verso l’alto e verso il basso che può essere messo in correlazione semisimbolica col raggiungimento e la perdita dell’oggetto di valore (un Don Giovanni felice!); ma ci sono anche le orecchie di un coniglio disneyano (il celebre Walt e il fondatore dell’azienda Krock erano compagni di scuola), le patatine fritte (simbolo a loro volta della globalizzazione alimentare), il seno materno (ancora!), gli ingranaggi di una catena di montaggio (prepa292

razione fast del food), i grafici delle vendite (mai dimenticati), persino il tracciato di un elettrocardiogramma [fig. 25] (prontamente usato dagli adbusters, come del resto anche il grafico dei profitti [fig. 26]). E così via. Ecco l’efficacia del logo: altamente strutturato al suo interno, attentamente costruito nel suo dialogo con la concorrenza, esso offre all’universo generalista dei consumatori la possibilità di auto-organizzare i propri stili di consumo alimentare, di lasciarsi andare alla deriva delle interpretazioni, salvo preventivamente rinchiudersi all’interno di un luogo utopico al tempo stesso euforico e iperorganizzato. Libertà vigilata?

5.6. Esperienza estetica e corporeità La dimensione visiva del discorso di marca non esaurisce la costruzione dell’identità estetica del brand. Per quanto in essa siano in gioco, come s’è detto, due differenti linguaggi – il figurativo e il plastico – che, combattendosi o alleandosi entro le medesime immagini, danno adito a un’estetica complessiva, occorre comunque andare oltre il campo della visualità e considerare anche le altre possibili esperienze sensoriali. Udito, olfatto, gusto, tatto e – vedremo – tutta la complessa esperienza polisensoriale che si radica nel corpo vengono in più modi e occasioni convocati dalla marca, e da essa usati in funzione dell’edificazione e della cura della sua identità. Del resto, isolare la componente visiva dalle altre esperienze sensoriali e somatiche, come pure abbiamo fatto sin qui per ragioni espositive, è inesatto. Si ripensi per esempio ai discorsi di marca che abbiamo definito sostanziali [§ 4.3.4]. In quei casi, lo sguardo dell’osservatore inscritto nell’immagine viene ravvicinato all’oggetto raffigurato al punto da trasfigurare non solo l’oggetto percepito (che perde la sua forma per far emergere le sostanze di cui è composto), ma anche e soprattutto il soggetto percipiente: costui non si limita più a vedere, ma viene per così dire invitato a impiegare il tatto, a toccare quanto sta vedendo, a esperirne le qualità materiche. Più in generale, nessuno sguardo è fine a se stesso, pura attivazione di una visualità che scruta il mondo, le sue forme e i suoi colori, a prescindere dal corpo che in quel mondo in un modo o nell’altro si trova situato. Vedere non è soltanto un’operazione già di per sé complessa. In più, si tratta di un processo che coinvolge la totalità del corpo percipiente, l’intero apparato sensoriale che in esso ha sede, e con esso la specifica situazione che il corpo volta per volta si trova a vivere in quanto inserito in un preciso contesto d’esperienza. Così, ogni vedere pre293

suppone un guardare, dunque uno sguardo sempre e in ogni caso orientato a una qualche intenzionalità mondana, attivato per una qualche ragione, diretto a un obiettivo che è al tempo stesso corporeo e sociale, preindividuale e collettivo. L’esperienza visiva coinvolge dunque, in linea di principio e di fatto, la totalità dei sensi. Ne deriva che l’esame dell’identità visiva della marca deve necessariamente essere integrato con quello di un’identità più ampiamente estetica: dove questo termine deve adesso essere inteso, ne conviene ancora Floch (1995), nella sua accezione etimologica di aisthesis (= sensorialità), dunque a esser rigorosi dovrebbe esser modificato in estesica, poiché in esso tutto ciò che conviene al corpo trova un suo spazio di manovra e una sua precisa funzione significativa. Da questo punto di vista, l’idea oggi molto diffusa di un marketing estetico o esperienziale (Ferraresi e Schmitt 2006) non fa altro che attestare, e importare entro una disciplina generalmente poco incline a questo genere di questioni, una convinzione che in semiotica (e ancor prima in filosofia, in etnologia, in psicologia...) è da tempo radicata. I sensi e il senso – così come il soma e il sema – non s’accomunano solo per casuali ragioni di sonorità: sono fenomeni strettamente correlati, se non addirittura uno solo. Dopo un primo periodo di disinteresse, già da tempo la scienza semiotica ha preso a interessarsi al problema della corporeità (Greimas 1987; Fontanille 2004; Marrone 2005a). Un corpo che non viene inteso in senso fisico e naturale, come un dato in qualche modo universale e sovraculturale; né viene considerato in senso spontaneistico e aurorale, come l’espressione più spontanea e immediata dell’essere umano. Viene semmai osservato come il luogo in cui, e il mezzo per cui, si costituisce e si ricostruisce la significazione. Per la semiotica, prendere in considerazione il corpo significa pensarlo come un elemento e un processo che sono già sociali, che hanno un destino culturale segnato da precisi interessi, programmi e valori, contribuendo a formarli o a decostruirli. Se la soggettività umana ha una sua base corporea, non vuol dire che essa si fondi su una naturalità astratta quale condizione di possibilità delle successive diversificazioni individuali e collettive. Vuol dire semmai che il soggetto si costituisce e si ricostituisce di continuo fra esperienze presoggettive e istanze intersoggettive, le quali sono entrambe di matrice somatica. Da questo punto di vista, la riflessione semiotica sulla corporeità riprende e riarticola gli assunti filosofici della fenomenologia e gli esiti teoretici dell’etnologia in una teoria del linguaggio e della significazione che sia al contempo metodologia d’analisi testuale. 294

La riflessione fenomenologica, dal suo punto di vista, ha da tempo mostrato come – mettendo fra parentesi le distinzioni tradizionali fra materia e spirito, corpo e mente, sensi e intelletto – sensazioni, percezioni, azioni, affetti e concetti agiscano già da sempre intrecciati fra loro, e che dunque fra l’energia vitale corporea e gli schematismi logici non ci sia alcuna differenza di natura ma solo di grado (Husserl, Merleau-Ponty). Io vedo qualcosa se e solo se mi trovo in un luogo dal quale sto guardando, per un qualche motivo, con un qualche obiettivo; e anche quel qualcosa è lì per una qualche ragione: c’è fra noi una relazione che anticipa la percezione, la fonda e la giustifica. Il corpo, ripete Merleau-Ponty (1945), ne sa più di noi. A dispetto di ogni sedicente sperimentalismo da laboratorio (che ama isolare i soggetti dai loro contesti per esporli a condizioni di percezione inabituali e falsate), la relazione di senso fra me e il qualcosa è precedente l’atto stesso con il quale la percepisco, e tende a dirigerlo. Come s’è detto, non è il guardare che si appoggia sul vedere, come generalmente si pensa, ma proprio il contrario: la predisposizione a vedere determina la visione, così come ogni udire presuppone un ascoltare che lo fonda, ogni sensazione gustativa presuppone un gustare, ogni sensazione olfattiva un odorare ecc. Del resto, osserva ancora Merleau-Ponty (1945), la distinzione fra apparati sensoriali diversi e sensazioni a essi correlate non ha alcuna base nell’atto concreto del percepire. La percezione si fonda semmai su un corpo: è una sorta di apparato sensoriale univoco (il settecentesco sensorium commune) che precede la famigerata, e sempre discussa, topica dei cinque sensi. Vista, udito, olfatto, gusto e tatto sono immediatamente in collegamento fra loro, si scambiano senza sosta funzioni e forme, esiti e ragioni, in una specie di sinestesia fondamentale: dire il gusto per mezzo del tatto o dell’udito, l’udito per mezzo della vista, l’olfatto per mezzo del tatto o della vista ecc. non è ardita creazione di poeti e pubblicitari: è la normale, quotidiana maniera di percepire del corpo umano e sociale. Ciò non significa che il corpo sia un tutto unitario sempre uguale: esso si costituisce come oggetto in sé in modo ogni volta diverso, a seconda delle concrete esperienze percettive, che sono sempre e già pratiche sociali. Il corpo, dice Merleau-Ponty, è al tempo stesso finestra sul mondo e oggetto del mondo, ciò a partire da cui il mondo può essere percepito come altro da sé ma in qualche modo anche parte di tale mondo. Percepire se stessi, in questo senso, è sempre percepirsi come altro da sé: l’esperienza dello specchio, ricordano gli psicanalisti (Lacan 1966), fonda l’identità e al tempo stesso l’alterità, la soggettività e insieme l’intersoggettività. A sua volta l’antropologia strutturale ha indicato nelle logiche sensoriali la base di quella ‘scienza del concreto’ che sarebbe tipica del bricolage mitico dei cosiddetti selvaggi (Lévi-Strauss 1962). Diversamente da quanto spesso si ritiene, è stato mostrato come la conoscenza del mondo 295

fisico e naturale propria dei popoli considerati primitivi non sia affatto dettata da esigenze pratiche di vita, come il sostentamento, l’esigenza di protezione dagli agenti atmosferici o la difesa da eventuali nemici. Molto diversamente, si tratta di una conoscenza a suo modo speculativa che fa leva su logiche del sensibile avulse da eventuali, successive concettualizzazioni. Pratiche complesse come la ceramica, l’agricoltura o la lavorazione dei metalli non sarebbero state possibili senza una persistente, paziente esplorazione delle qualità sensibili delle materie, delle loro capacità d’essere trasformate e riadattate a scopi prettamente umani. Le narrazioni mitiche non fanno che mostrare all’opera questo pensiero selvaggio che esplora il mondo attraverso i sensi e lo ricompone in ipotesi esplicative generali sempre diverse, accostandosi in questo a certe pratiche artistiche contemporanee che cercano di affrancarsi da un funzionalismo sociale a tutti i costi, ridando alla percezione tutto il suo valore esistenziale prima ancora che estetico. È possibile così distinguere, secondo Lévi-Strauss (1962), due modi molto diversi di conoscenza del – e d’azione sul – mondo. Da una parte quella dell’ingegnere, il quale prima progetta a tavolino qualcosa (un edificio, un ponte, una strada...) e poi, sulla base dei calcoli progettuali, decide quali e quanti materiali sono necessari per costruire quel qualcosa. Dall’altra quella del bricoleur, il quale prima dispone di una serie di cose o frammenti di cose, un universo limitato di oggetti e materie già significanti, e poi, sulla base del modo in cui può riutilizzare tutto ciò, decide se e come può costruirsi qualcosa: riciclando una vecchia porta farà il tetto di una capanna, valutando la resistenza di una trave in disuso proverà a fabbricare un ponte e così via. L’ingegnere, insomma, trasforma il mondo sulla base di un pensiero astratto, razionale, intellettuale. Il bricoleur usa invece un pensiero concreto, sensibile, corporeo. Per il primo le cose hanno un senso se e solo se è lui a fornirglielo: altrimenti restano un dato bruto, insignificante, inutile. Per il secondo le cose hanno già un significato e una funzione; si tratta semmai di trasformarle, di risemantizzarle, di dotarle di un’altra possibile funzione a partire dalle loro qualità sensibili. Lo scopo di una semiotica della corporeità è quello di costruire modelli esplicativi, dunque predittivi, aventi l’obiettivo di articolare questo pensiero selvaggio che in modi molto diversi sopravvive nel mondo d’oggi, questa costitutiva paradossalità dell’esperienza percettiva per cui il corpo è punto di vista sul mondo e sua parte costitutiva. Per quel che ci riguarda qui, del resto, gran parte dei meccanismi profondi del discorso di marca, troppo spesso considerato iper-razionalistico e ostinatamente programmatore, sono proprio legati al bricolage: sia perché sono di natura sensoriale e somatica, sia perché agiscono sulla base di materiali e circostanze predefinite, da risemantizzare a proprio uso e consumo. Del resto, la corporeità non è semplicemente qualcosa che riguarda i sensi e la 296

percezione. Se la si intendesse così, si persisterebbe nella vecchia, tradizionale idea di una separazione di principio fra sensibile corporeo e intelligibile mentale. Un campo in cui il corpo è in stretta relazione con la significazione è per esempio quello della spazialità, dei linguaggi cosiddetti topologici. Superando le iniziali, ingenue opposizioni fra spazio funzionale e spazio simbolico, si è difatti osservato come le strutture spaziali, radicandosi in quelle somatiche, siano per l’uomo altamente significative. Da un lato, lo spazio significa sempre a partire da un soggetto, individuale e collettivo, che vede e vive in un determinato ambiente, reinterpretando le proprietà fisiche di tale ambiente come articolazioni significanti sulla base dei propri progetti d’azione, dei propri valori. Da un altro lato, è lo spazio stesso, in quanto dotato di articolazioni significanti pregresse, a contribuire alla costituzione dell’identità soggettiva, a permettere certe forme d’azione e a impedirne altre, presentando se stesso non solo come una semplice struttura topologica ma come una vera e propria assiologia. Così, per esempio, opposizioni semantiche come alto/ basso, destra/sinistra, davanti/dietro, interno/esterno non sono soltanto distinzioni fisiche che derivano dalle conformazioni somatiche, ossia dal fatto che il corpo umano ha una determinata forma e determinate posture. In modo diverso a seconda delle culture o dei singoli testi, tali opposizioni finiscono per diventare veri e propri sistemi di valori, che dettano al soggetto possibili costrizioni, orientandolo nella costruzione di propri programmi d’azione. Corpo e spazio sono dunque strettamente legati: basti pensare all’esperienza basica dell’essere contenuti, costitutivamente paradossale perché relativa a un corpo che abita uno spazio e a quello stesso corpo che, dotato di una propria specifica spazialità, è quindi al tempo stesso un contenitore. Così, la ricerca semiotica attuale è progressivamente arrivata a considerare l’esperienza sensibile e, in generale, corporea come una specie di compartecipante alla costruzione e alla trasformazione della significazione. Non c’è semiosi, fondazione o donazione di senso se non con un corpo che vive, fa esperienza del mondo, entra in relazioni contrattuali o conflittuali con esso, lo costituisce e viene da esso modificato. Il corpo ha a che fare, ovviamente, con le materie dell’espressione dei diversi linguaggi – uditive, visive, olfattive, tattili e così via – e contribuisce in modo determinante alla loro formazione semiotica, alla loro articolazione in sostanze significanti. Esso è presente poi nel piano del contenuto di questi stessi linguaggi: importato al loro interno, costituisce quel livello della figuratività ‘a valle’ che rende manifesti, concreti e dunque verosimili i contenuti tematici astratti; ma al tempo stesso si colloca ‘a monte’ di questi contenuti, facendo da base alla formazione delle categorie semantiche e della loro articolazione. Aperture e chiusure, dilatazioni e contrazioni, impulsi e resistenze, energie e materie, forze e forme, euforie e disforie, 297

mire e prese sono altrettanti processi corporei prototipici che possono venire reinterpretati cognitivamente come stati e trasformazioni, azioni e passioni, programmi operativi e modalità del fare, e forse, ancor prima, come contrarietà, contraddizioni, complementarità, affermazioni e negazioni. Il corpo interviene inoltre, e in maniera ancora più determinante, al momento dell’enunciazione del discorso, dei vari discorsi, e ne rimane traccia al momento della conseguente costruzione dei vari testi. L’istanza dell’enunciazione non è una forma vuota che in modi più o meno meccanici, più o meno consapevoli, tende a produrre – o a recepire – la discorsività. Essa ha, ed è, innanzitutto un corpo che, prendendo posizione nello spazio e nel tempo, determina in modi volta per volta diversi se stesso e ogni sua mondana alterità; come anche costituisce, inevitabilmente, il suo Me e il suo Sé, il suo interno e il suo esterno, il suo essere carne mobile – interna e invisibile – e il suo essere corpo proprio – formato e manifesto (Fontanille 2004). Si ipotizza così che il corpo sia responsabile non solo della discorsività ma anche, più a fondo, della semiosi: è a partire dalle prese di posizione corporee che si determina qualcosa come un’esterocettività e qualcosa come un’interocettività, e dunque in fin dei conti un’espressione e un contenuto.

5.6.1. Le sinestesie olfattive La questione che per noi adesso si pone è quella di predisporre modelli d’analisi che possano mettere in correlazione questo genere di problematiche, apparentemente astratte, con la realtà testuale e discorsiva del brand, che mettano cioè in collegamento sensorialità e testualità. Da una parte, ciò non risulta particolarmente azzardato o impegnativo se si ricorda che, come abbiamo ribadito più volte, la nozione semiotica di testualità non riguarda soltanto ciò che nella nostra lingua e cultura si intende normalmente come testo, ma include anche situazioni ed esperienze concrete, così come pratiche, oggetti e, ovviamente, corpi. D’altra parte, però, è evidente che sensorialità e corporeità non possono essere ricondotte, e ridotte, alle forme testuali canoniche – racconti, film, canzoni, annunci e spot pubblicitari ecc. – all’interno delle quali esse possono tutt’al più collocarsi entro il loro piano del contenuto (si tratterebbe in questo caso di corpi e sensi ‘rappresentati’). Esse richiedono pertanto modelli d’analisi semiotica al tempo stesso specifici e generali: specifici perché elaborati a partire dalla particolare maniera in cui il corpo e la percezione accedono al senso, elaborando e modificando sostanze e forme dell’espressione; generali perché in qualche modo retroattivi rispetto alle testualità canoniche, anch’esse per certi versi reinter298

pretabili come esiti di un corpo che è in primo luogo quello dell’enunciazione, dunque – seguendo ancora Fontanille (2004) – come impronte che il corpo lascia su determinate materie, formandole a partire dai propri apparati e producendo – sappiamo con Hjelmslev (1943, 1959) – sostanze volta per volta diverse. Accade così che la differenza di principio fra corpo rappresentato (a livello dell’enunciato), tema o figura del discorso di marca, e corpo rappresentante (a livello dell’enunciazione), marca che agisce come corpo su altri corpi, sia talvolta molto difficile da cogliere. Si dà spesso il caso di corpi parlati (o raffigurati) a partire da corpi parlanti (o raffiguranti), i quali a loro volta iscrivono le loro tracce nell’enunciato, dunque nel corpo di cui stanno in qualche modo parlando (o raffigurando). È, a ben pensarci, la verità del brand: al tempo stesso marchio inscritto su cose e atto del marchiare, impronta e calco, corpo marchiato e marca marchiante. A partire da questo genere di considerazioni Fontanille (2004, p. 173) ha provato a elaborare un modello d’analisi testuale relativo alla corporeità, la cosiddetta topica somatica, sorta di matrice che stabilisce una tipologia di ‘modi del sensibile’ al cui interno trovano spazio, oltre a una ridistribuzione dei tradizionali cinque sensi, anche processi generalmente esclusi dall’apparato percettivo, ma strettamente pertinenti a una semiotica del corpo, come la sensomotricità o i movimenti intimi delle viscere. Questa matrice parte dal presupposto che il corpo sensibile vada fenomenologicamente distinto in corpo proprio, a partire da cui si produce una percezione del Sé, e carne, sorta di istanza di referenza intima che determina qualcosa come un Me. Entrambi questi lati del corpo hanno a loro volta un interno e un esterno, nonché ovviamente una zona di confine, dunque un involucro che separa e al tempo stesso mette in comunicazione – grazie alle sue svariate porosità – ciò che sta dentro con ciò che sta fuori. La percezione sensoriale – che è percezione concomitante al tempo stesso del mondo e di sé – è dunque un doppio processo che va dall’esterno verso l’interno o, viceversa, dall’interno verso l’esterno. È per esempio per questa ragione, dice Fontanille, che l’olfatto, legandosi intimamente al processo vitale della respirazione, non solo tende a portare verso l’interno ciò che sta fuori dal corpo, ma viene in vario modo usato nelle diverse culture per semantizzare la vita e la morte, la nascita e il deperimento. Ed è per la medesima ragione, come sosteneva Lévi-Strauss (1968), che nelle culture primitive il processo della digestione e quello della cucina – grossomodo assi299

milabili nel campo del gusto – vengono pensati come analoghi: la cucina è la trasformazione culturale dei cibi come la digestione lo è dal punto di vista naturale. Tutto ciò non deve però essere inteso come una riorganizzazione definitiva, e definitoria, dei processi percettivi, e dunque come una giustificazione naturalistica del nesso fra sensorialità e significazione. Molto diversamente, non solo la topica somatica deriva da un precedente, vasto esame di una molteplicità di testi e discorsi (letterari come cinematografici, linguistici come visivi, ma anche etnologici e psicanalitici, psicologici e cognitivisti) riguardanti i modi del sensibile; ma, soprattutto, essa è data sempre a partire da un ‘senso comune’ che, per definizione, è culturalmente determinato, dunque da una maniera socialmente condivisa (variabile nel tempo e nello spazio) di pensare e praticare la percezione, usandola come macchina per dar luogo a significati, semisimbolismi, assiologie, sistemi di credenze, rituali, narrazioni. Quel che peraltro più importa, dal nostro punto di vista, è che, per Fontanille, ogni modo della sensibilità instaura una specifica sintassi figurativa, un’articolazione formale dei suoi processi più propri che, in vario modo e misura, può essere investita da sostanze diverse, dando luogo a effetti sinestetici più o meno mascherati, più o meno creativi, più o meno naturalizzati. Se un sapore può essere ridetto visivamente, olfattivamente e tattilmente (si pensi al complesso lessico enologico), se una gamma di suoni può essere intesa come serie cromatica (come nella celebre poesia di Verlaine) ecc., è perché, rispettivamente, i modi del gusto o dell’udito hanno ognuno una sintassi figurativa che viene investita ora da sostanze visive, olfattive e tattili, ora da sostanze cromatiche. Ne deriva che la sinestesia non è per nulla, come generalmente si pensa, la rappresentazione esteriore di un senso attraverso un altro (come quando si dice che l’immagine di una bottiglia umida dà l’idea del freddo), ma il riuso di una forma sintattica attraverso altre sostanze sensoriali – dunque una specie di riemersione di quel sensorium commune corporeo a partire da cui i modi del sensibile possono differenziarsi. Così come due immagini possono essere associate fra loro, dando luogo a possibili argomentazioni visive, per il fatto che hanno in comune un qualche sottolivello figurativo (due figure e un tratto figurale sottostante; due icone e una figura soggiacente...) [§ 5.3], allo stesso modo due processi sensoriali possono essere accostati o sovrapposti perché hanno in comune un’articolazione sintattica soggiacente. 300

Si apre così un campo di indagine immenso ed entusiasmante, quello di una semiotica che analizzi i nessi fra discorso di marca e significazione somatica. I pochi studi pionieristici in questo settore – tra cui un’analisi di Floch (1995) sull’identità visiva del ristorante di Michel Bras; un’investigazione di Landowski (1997, pp. 153196) sulla presenza sensibile del corpo in una serie di annunci femminili; una riflessione di Spaziante (2005) sulla musica negli spot; la ricostruzione dell’identità Breil grazie al gioco contagioso dei corpi proposta da Boero e Traini (2006) – lasciano già intravedere come e quanto l’uso di questo genere di modelli possa permettere un forte incremento di conoscenza nel mondo del marketing sensoriale ed estetico, grazie a una esplicitazione di quanto sinora era rimasto nell’ordine del vago riscontro di una potenzialità comunicativa. Non è difficile mostrare, a mo’ d’esempio, come questo modello di Fontanille permetta un esame semiotico delle pubblicità – e delle marche – che hanno a che fare con i profumi, dove, come è stato giustamente ribadito, l’unico modo per fuoriuscire dal ricatto della irrappresentabilità visiva del profumo è quello di porre la sinestesia come regola compositiva di fondo del testo pubblicitario (Ceriani 1994). Spesso, però, questa ‘figura retorica’ è stata intesa in tali frangenti come una sovrapposizione percettiva di tratti espressivi e tratti semici (morbidezza di una linea curva → morbidezza di un’essenza; intensità di un colore → intensità di un odore; equilibrio di una forma → equilibrio di un bouquet ecc.); di modo che si ricadeva nel vecchio gioco intuitivo delle connotazioni. Passando invece, come invita a fare implicitamente Fontanille, da un’analisi per tratti elementari a un esame che contempli interi segmenti discorsivi a partire da una soggiacente sintassi formale, il ventaglio delle possibilità si amplia e al tempo stesso si precisa. Tutto ciò che (mal nascondendo un’impotenza esplicativa) nelle pubblicità dei profumi si leggeva in termini di pura evocazione di atmosfere, di sottili allusioni, di delicata evocazione di un mood, di ineffabile ‘non so che’, sperando in micronarrazioni di seduzione che consentissero un’analisi in termini di programmi d’azione, riceve adesso una nuova luce. Per esempio, osserva Agnello (2005), l’ossessiva presenza in questo settore di figure del mondo come il vento che solleva i capelli (Alien di Th. Mugler; Gaultier2 di J.P. Gaultier), petali di fiori che volano in aria (Chance di Chanel; Promesse di Cacharel), drappeggi di tessuti (Euphoria di C. Klein; J’adore di Ch. Dior), luce che si irradia (Miracle di Lancôme; Max Mara), ac301

qua che scorre (Montblanc; Provocative Woman di E. Arden) non si giustifica nei termini di una pura evocazione di vaghe, indicibili atmosfere. Quel che va osservato non sono infatti le figure in sé, e meno che mai ciò che esse produrrebbero in termini di ‘sensazioni’ nell’enunciatario, ma le loro forme profonde, i loro tratti figurali e plastici. Sono queste forme – comuni alla sostanza visiva e a quella olfattiva – che permettono la traduzione testuale fra sensi diversi, rendendo possibile dire un profumo attraverso un’immagine, veicolarne il senso tramite la visualità. Così, per spiegare l’articolazione significativa di un annuncio come quello di Givenchy pour homme in fig. 27 (già preso in considerazione, se pure in termini diversi, da Lancioni 2004), va innanzitutto ricostruita la sintassi canonica dell’olfatto. Secondo Fontanille (2004, pp. 143-147), i processi olfattivi prevedono la presenza non soltanto del corpo che percepisce l’odore ma anche di quello che lo emette (un odore, qualunque esso sia, proviene da una sostanza organica, sia essa effettivamente presente o ricostruita come sensazione per via sintetica). Tutt’altro che spirituale, un odore mette dunque in gioco ben due diversi corpi che, entrando in una qualche relazione fra loro, intrecciano due tipi di sintassi. Dal lato del corpo-bersaglio, l’odore arriva progressivamente o improvvisamente all’interno di un processo (l’effluvio) che prevede quanto meno tre fasi: l’emanazione (da cui la questione di rintracciare la provenienza), la diffusione (da cui la circostanza di uno spazio riempito più o meno esaustivamente: l’‘alone’), la penetrazione (nel doppio senso di qualcosa che entra dentro il corpo e del corpo che entra dentro l’‘alone’). Queste fasi, ovviamente, possono essere tutte quante presenti, oppure alcune di esse possono darsi, secondo la classica procedura della presupposizione: se siamo dentro un odore, in qualche modo siamo prima dovuti entrarci dentro; se si è diffuso, è prima partito da una certa fonte... Dal lato del corpo-sorgente, le cose sono ben diverse: un odore prevede un corpo che emette certi odori sulla base del suo stato organico: da cui la nascita di un odore, la sua degradazione, la sua decomposizione finale. Se un odore è fresco, è perché in qualche modo il corpo che lo emette si trova al momento della sua nascita; se è cupo, il processo di decomposizione è avanzato... In ogni caso, esso è in qualche modo l’impronta delle condizioni organiche del corpo-sorgente. L’intreccio di queste due sintassi dà luogo alle specifiche esperienze olfattive, talvolta molto complesse, e alle loro relative traduzioni sinestetiche. Quel che appare chiaro è che in queste esperienze si pongono questioni relative allo spazio (luogo di nascita e di emanazione, spazio di diffusione dell’alone, punto d’arrivo; distanze fra di essi; percorsi interni...) e al tempo (puntualità, 302

27 durata, stabilizzazione), con tutte le sovrapposizioni possibili (un odore ‘di rinchiuso’ è un odore che sta in un luogo per molto tempo). Ne viene fuori sia un’ampia serie di storie possibili (la seduzione è una negoziazione continua fra emanazione e penetrazione...), ma soprattutto un enorme numero di raffigurazioni visive possibili a partire dal gioco fra interno ed esterno (penetrazione dell’odore in un corpo/immersione di un corpo nell’odore; avvolgimenti per cerchi concentrici; sussulti per emanazioni improvvise...). Detto ciò, la significazione del nostro annuncio risulta adesso abbastanza evidente. «The gentleman is back», dice la scritta in sovrimpressione posta giusto al di sotto della mano della ragazza, quasi a rimarcarla. Per quale ragione? Lei stava per scendere dalla macchina e lui, per non farle sporcare le scarpine nel fango, s’è prontamente tolto la camicia distendendola sull’erba bagnata. Gesto da bricoleur – l’indumento rifunzionalizzato come tappetino – che ricorda (a lei, a noi) i gentiluomini d’una volta, di cui il ragazzo che dà le spalle all’osservatore è certamente uno degli ultimi rappresentanti. Un tipo sociale in disuso – che guarda caso dà il nome al profumo (sovrapposto fra l’altro al corpo maschile) – ritorna sulle scene attuali. E quest’immagine ne racconta in nuce la storia esemplare. Tutto qui? Un profumo che ci ricorda come le buone maniere del bel tempo andato non siano fortunatamente del tutto scomparse? C’è da supporre che si tratti di una lettura superficiale del testo, che lascia trasparire una storia e una morale ben diverse. I due si guardano. Lei è visibilmente compiaciuta, e forse non soltanto del bel gesto galante. Lui, di cui vediamo solo la schiena, la guarda a sua volta, ma soprattutto si fa ammirare. Senza la camicia, viene fuori il suo fisico prestante, desiderabile. Forse lei lo sta guardando con animo interessato al piacere. Del resto, siamo sicuri che stia uscendo dalla macchina? Un piede sta per toccare terra, una mano si appoggia sulla parte bassa della vettura. L’altro piede, però, è ancora tutto all’interno, ben piantato nel pavimento dell’automobile, e l’altra mano afferra con forza il cruscotto. Insomma, uno stato di palese indecisione, una postura ambigua, uno sguardo ammiccante. Forse sta per chiedere al ragazzo di tornare dentro, al gentleman di rientrare in macchina (back). Pura supposizione: non lo sapre-

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mo mai. Quel che è abbastanza certo è comunque il ruolo tentatore giocato dal profumo. Basta applicare le due sintassi che conosciamo. Il corpo sorgente è all’opera: appena tolta la camicia, il profumo che il ragazzo ha addosso (che ha, ma che in qualche modo è) si sprigiona immediatamente. È il momento iniziale della nascita, di cui il profumo, recandone l’impronta, trasporta la freschezza, la vitalità. Il corpo-bersaglio attraversa invece tutte le fasi canoniche dell’effluvio: lui emana il profumo, improvvisamente poiché inaspettatamente (apparentemente la situazione lasciava pensare a un gentiluomo all’opera non a un corpo così profumato); l’alone del profumo si diffonde rapidamente nello spazio che separa lui da lei; arriva sino a lei, che ne viene totalmente invasa, penetrando dentro l’alone. Ed è qui che emerge la sinestesia: a guardare la forma della macchina con lo sportello aperto, ecco un semicerchio, un tratto figurale che è al tempo stesso nella figuratività del testo visivo e nella sintassi profonda del profumo. Lei è dentro la macchina, da un lato, ma è anche, per sinestesia, dentro il profumo: catturata dal gioco seduttivo, penetrata dall’odore, compie il solito, patetico gesto del soggetto ormai sedotto: prova a lanciare uno sguardo ammiccante. Ma è assolutamente evidente che è stato il soggetto maschile a condurre interamente il gioco, senza farlo comunque notare. Un vero gentleman.

5.6.2. Bricolage culinari Un altro settore pertinente alla corporeità, strettamente collegato con il discorso del brand e con l’universo dei consumi, è sicuramente quello del gusto. È abbastanza evidente che è anche grazie a una sapiente manipolazione del gusto, della cucina e del consumo alimentare che si produce l’identità estesica di una marca. E se ciò è abbastanza evidente nel caso di marche che hanno direttamente a che fare con l’universo di prodotti alimentari, è meno scontato per quelle che estendono il proprio campo d’azione dal singolo alimento o serie di alimenti ad altri possibili, passando per esempio senza soluzione di continuità da un’offerta legata al vino a una serie di altre che riguardano, poniamo, il cioccolato, i formaggi, la pasta, il sushi e simili. In questo caso, a far da collante fra le offerte alimentari non può essere ovviamente il gusto intrinseco dei prodotti, ma quello dei loro consumatori, capaci di apprezzare in sostanze diverse le medesime, profonde caratteristiche gastronomiche. Si passa così da un significato ristretto della parola ‘gusto’ (qualità sensibili dei cibi) a un altro più allargato (capacità soggettiva di riconoscere e apprezzare queste qualità sensibili), che riguarda non più alcune proprietà di specifici oggetti del mondo ma certe competenze soggettive, apparentemente innate e naturali, in 304

realtà acquisite e fortemente culturalizzate, al punto da essere più sociali che individuali. Come è noto, il gusto è al tempo stesso qualcosa di estremamente intimo, personale, soggettivo, e qualcosa che ha un carattere collettivo, condiviso: in un modo o nell’altro dunque qualcosa che porta a unire («abbiamo gli stessi gusti») e a dividere («non potrei mai mangiare quella roba lì»). Ma ci sono anche marche che hanno provato a estendere il proprio raggio d’azione a prodotti molto diversi che travalicano il settore merceologico di partenza per includerne molti altri, fra cui appunto quello del cibo: per esempio dall’abbigliamento alla cosmetica, all’arredamento e... ai dolci. Ma che cosa può accomunare – al punto da rendere coerente il brand che li propone – un abito e un divano, un’essenza e un cioccolatino? Non certamente le qualità sensibili dei prodotti, se non per complesse sinestesie come quelle sopra ricostruite nel mondo della comunicazione dei profumi. Dunque ancora una volta il gusto dei consumatori, a patto però di estendere ulteriormente il senso di questo termine, includendo non solo la capacità di discernere e apprezzare i prodotti dell’universo alimentare, ma ben più in generale la competenza ad apprezzare le qualità positive – estetiche – delle cose, quella che si chiama la loro bellezza, come anche, per inclusione, la capacità collegata di saper disprezzare le qualità negative delle cose, la loro bruttezza. Ogni gusto si basa su un disgusto. Con questa terza accezione del medesimo termine, siamo, come è ovvio, al centro della problematica della marca, discorso sociale che mira appunto a costruire, o a riprendere, vere e proprie comunità di gusto (Landowski 2004) che condividano appunto, più ancora che gli stessi valori, le medesime competenze a riconoscere il gusto delle cose. Quel che qui va tematizzato è allora il corrispettivo, per così dire, concreto delle variazioni retoriche del termine ‘gusto’, ossia in qualche modo le ragioni che rendono possibili questi slittamenti di significato, i processi – molto chiaramente semiotici – che permettono di porre in correlazione le qualità sensibili di un oggetto commestibile, le competenze soggettive per apprezzarle, la socializzazione di queste competenze gastronomiche, l’allargamento delle medesime competenze oltre il campo della cucina e della buona tavola. Quel che non può non emergere, per entrare nel merito di questa delicatissima questione, è ancora una volta il corpo, entità fisica in cui nasce l’incontro intimo fra un insieme di qualità sensibili e una serie di apparati per distinguerle; luogo propriocettivo che regola gusti e disgusti, euforie e disforie; organismo che seleziona e memorizza; 305

soggetto che vive nel mondo in relazione ad altri soggetti; ma soprattutto apparato che tiene insieme e articola in modi volta per volta diversi questi passaggi – inneschi e disinneschi – fra sensorialità, passione, cognizione e azione. Sono poi le varie culture a istituzionalizzare determinate abitudini alimentari, creando veri e propri codici del gusto che, nell’esperienza quotidiana, vengono poi vissuti come universali e necessari: riconfigurando e ripensando, quindi, il corpo sociale come un’entità al tempo stesso soggettiva e naturale («non posso farci niente: io quelle cose lì non le mangerò mai!»). In parallelo alle ricerche etnologiche, sociologiche e storiche sulla cucina e sull’alimentazione (Lévi-Strauss, Goody, Douglas, Montanari ecc.), la semiotica già dai suoi inizi ha lavorato sul nesso fra percezione sensoriale del gusto e costruzione dei significati sociali della cucina e del cibo. Jakobson, Barthes, Greimas, Fabbri, Ricci, Floch, Landowski e altri hanno in vario modo e da prospettive diverse insistito su rituali, pratiche, ricette di cucina, piatti, pasti, mostrando la fecondità semantica del gusto, dato anche il rapporto molto stretto che esso intrattiene con il linguaggio verbale (parlare di cibo/mangiare le parole). Alcune recenti raccolte (Landowski ed.1998; Landowski e Fiorin eds. 2000; Manetti, Bertetti e Prato eds. 2006), che presentano una grande quantità di riflessioni e di analisi, rendono conto delle diverse sfaccettature della questione, non ultima quella riguardante il mondo dei media e delle marche. Uno dei primi studi che ha messo in relazione una riflessione semiotica sulla cucina con la problematica della marca è ancora una volta di Floch (1995, pp. 97-123 trad. it.) e riguarda l’identità visiva del ristorante di Michel Bras a Laguiole [fig. 28]. L’analisi parte dall’osservazione che il lettering usato per scrivere il brand name di questo celebre chef francese (l’Eve light italic) ha le medesime caratteristiche estetiche (l’estrema delicatezza nelle linee, negli spessori e nelle grazie) della figura selezionata come logo: un finocchietto alpino, pianta selvatica e profumata che viene spesso usata nelle preziose creazioni gastronomiche proposte nel menu. Il finocchietto alpino è difatti l’emblema aromatico della cucina di Bras, al tempo stesso elemento figurativo che condensa l’identità del brand e tratto olfattivo-gustativo che contraddistingue alcuni suoi piatti di punta. In questo modo, l’identità visiva di Michel Bras viene costruita riproponendo nelle varie manifestazioni del discorso di marca – il logo, il lettering, i piatti-prodotto – il medesimo effetto di senso: quello della ‘delicatezza’. Floch osserva come l’idea di delicatezza (principale qualità sensibile del finocchietto alpino, pianta estremamente fragile, ma dall’odore intenso, pungente e persistente) venga tradotta visivamente sia dal carattere tipografico usato nei documenti aziendali, sia dalla resa tattile del supporto 306

materiale su cui il logo che lo rappresenta viene stampato: una carta riciclata a rilievo, dove fra l’altro il logo emerge dal fondo nero goffrato. Un logo che va toccato prima ancora che guardato, una figura che va trattata con cura come la pianta che rappresenta: fragile, quasi invisibile, esposta alle intemperie, ma al tempo stesso molto forte nei suoi esiti olfattivi e gustativi, pronta a emergere all’interno di un piatto, a caratterizzarlo pressoché in toto. Si tratta, dice Floch, del paradosso della delicatezza, quale viene del resto indicato più in generale nei dizionari: da una parte ‘delicato’ rimanda a ‘fragile’ e ‘leggero’; dall’altra a ‘sottile’, ‘tenue’, ‘ingegnoso’, ‘penetrante’. Ne viene fuori una configurazione semantica molto particolare, alla quale sottostà una grande fecondità narrativa: essere delicati vuol dire esser sensibili alle minime variazioni, saper cogliere le sfumature, percepire differenze laddove altri non sanno farlo; e dunque individuare le minime emergenze di significato, le più piccole variazioni di senso. In qualche modo, del resto, la delicatezza è sia una qualità sensibile delle cose (occorre che si dia una qualche salienza percettiva nel mondo) sia una competenza del soggetto (occorre una qualche capacità per apprezzarla): da cui la possibilità di un loro incontro, l’approssimarsi di una congiunzione con l’Oggetto di valore, l’imminente realizzazione del Soggetto. Si tratta, come si vede, del nucleo più profondo di una sensorialità gustativa non standardizzata, del gusto, dunque, in tutte le possibili accezioni del suo significato. Non è allora un caso se uno chef sofisticato qual è Bras abbia usato questa serie coerente di supporti visivi e tattili che producono una comune impressione di delicatezza per comunicare sinesteticamente le proprie creazioni gastronomiche, proponendosi come qualcosa di più di un semplice ristorante di lusso: un vero e proprio brand che estende la propria gamma commerciale con una serie di offerte concomitanti – dalle conserve alle essenze, ma anche un resort di campagna con camere e centro benessere, passeggiate nel verde ed esperienze sensoriali svariate –, e soprattutto si costituisce come una precisa proposta di senso: una riscoperta delicata della sensorialità naturale e selvaggia, dei nessi tanto sottili quanto fondamentali fra sensibile e intelligibile, fra esperienze gastronomiche e immaginario antropologicoculturale. Se infatti, osserva Floch, il logo con il finocchietto alpino condensa il discorso di Bras come marca, non è soltanto per le sue qualità visive e tattili, ovvero per il suo valore simbolico in quanto elemento isolato della natura, ma soprattutto per le sue qualità olfattive e gustative, 28 307

e dunque per il modo in cui esso, usato come ingrediente all’interno di certe pietanze, si mescola con altri ingredienti per costituire quelle complesse costruzioni semiotiche che sono i piatti di Michel Bras. Il logo, allora, non si pone soltanto come elemento da vedere ma, letteralmente e profondamente, come qualcosa da mangiare, da assaporare, da gustare. Per dimostrarlo, Floch propone l’analisi approfondita di una pietanza molto particolare creata da questo chef – il branzino al latticello e al finocchio alpino, basella e polpettine alla salvia –, mostrando come tale piatto possa essere inteso semioticamente come un vero e proprio testo che racconta una sua precisa storia. Una storia in cui il finocchietto ricopre un ruolo fattivo molto preciso, quello di un eroe che – come dice un critico gastronomico – «lancia istantaneamente e spontaneamente punte di anice e mentolo sul corpo del branzino»: attaccandolo, per certi versi, al modo di un Oppositore che ostacola il cammino del Soggetto; ma in realtà potenziandolo, al modo di un Aiutante che agevola quel cammino, fornendo al Soggetto le adeguate modalità del fare o dell’essere. Grazie al finocchietto, come anche agli altri ingredienti (latticello, basella e polpettine) che si mescolano nel piatto secondo criteri paradigmatici (selezione) e sintagmatici (combinazione), il branzino riesce egregiamente a portare a termine il proprio paradossale programma narrativo: quello di proporsi come stupefacente Oggetto di valore – gustativo ed estetico al tempo stesso – per un palato che sappia apprezzarlo. Sin qui, potremmo dire, il ruolo del finocchietto non è molto diverso da quello di qualsiasi altro ingrediente in qualsiasi altro piatto elaborato. Ma come gioca, per esempio, nella costruzione culinario-semiotica del branzino di Bras, il fatto che il finocchietto abbia una processualità ‘istantanea e spontanea’? e che il ‘lancio’ riscontrato dal gastronomo – il quale traduce in uno specifico metalinguaggio le proprie esperienze gustative – sia addirittura ‘penetrante’, sia rispetto al branzino sia rispetto al soggetto che lo assapora? Per rispondere, occorre aggiungere alla dimensione narrativa della pietanza la sua dimensione sensoriale. Del resto, sembra dire Floch fra le righe, al modo di un’immagine anche un piatto, se ben preparato e ben gustato, può rivelare accanto a una propria dimensione figurativa (quella per cui possiamo nominarne gli ingredienti, classificarli secondo precisi codici culturali di riferimento, nonché caricarli di significati connotativi) una vera e propria dimensione plastica, qualunque sia il termine che vogliamo usare per indicarla. Questa dimensione plastico-gustativa (ma forse è più semplice dire soltanto ‘sensoriale’), al pari di quella plastico-visiva, eccede il linguaggio verbale che può parlare del piatto. È dunque in qualche modo indicibile. A meno di non ricorrere a metalinguaggi ad hoc, come quello del critico gastronomico (e del critico d’arte) che usa specifiche terminologie e metafore per rendere comprensibile la propria esperienza di consumo del piatto stesso (a 308

chi, ovviamente, conosca i suoi codici di comunicazione). O addirittura a meno di non elaborare – come la semiotica ha già fatto, sappiamo [§ 5.2], per la dimensione plastico-visiva – una batteria di categorie descrittive che rendano il metalinguaggio descrittivo della dimensione sensoriale esplicito e coerente, dunque in qualche modo condivisibile. La topica somatica di Fontanille (2004) ha appunto questo scopo: e non sarà un caso che la penetrazione, elemento finale della sintassi sensoriale dell’odore percepito, sia presente nel caso del finocchietto alpino, aroma prima che sapore. Il finocchietto penetra nel corpo del branzino, trasformandone il gusto, e penetra al tempo stesso nel corpo del soggetto della percezione, aprendo la via all’assaporamento del branzino. Si tratta pertanto, a ben vedere, di un unico fenomeno profondo: che non è quello (figurativo) di una congiunzione estetica fra un branzino all’anice mentolato e un signore che sta seduto al ristorante di Michel Bras per godere delle sue creazioni; ma semmai quello (plastico) di un incontro sensoriale – istantaneo e indicibile – fra una salienza percettiva (pronta a penetrare) e un corpo percipiente (cavità pronta ad assorbire). Salvo poi, a cose fatte, poter tornare cognitivamente sull’evento e riconfigurarlo a livello verbale («ah, era il finocchietto!»). Pur senza esplicitare chiaramente questa distinzione di fondo fra una dimensione figurativa verbalizzabile e una sensoriale sul momento indicibile, Floch propone un’analisi strutturale del piatto di Bras in cui queste due dimensioni sono perfettamente presenti. A livello figurativo, il branzino di Bras vuol prendere le distanze dal modo analogo, diffuso soprattutto in Provenza, di cucinare questo tipo di pesce condendolo con aromi vari fra i quali, appunto, il finocchietto alpino. Il celebre chef rielabora dunque a suo modo una ricetta abbastanza nota, dando però al finocchietto – pianta di montagna, dunque tipica del terroir in cui egli opera – un ruolo di assoluto primo piano. Per far risaltare quest’aroma del Laguiole nel gusto del branzino, senza comunque eccedere, lo mette accanto ad altri sapori e odori molto diversi (alcuni selvatici e naturali, altri particolarmente elaborati), con i quali ritrova una sua armonia: il latticello, residuo del siero nella cagliatura del latte; la basella, spinacio locale; le polpettine di pane abbrustolito ripiene di salvia. Il pesce viene così, per così dire, importato nelle alture di Laguiole, dove trova una sua felice integrazione senza comunque perdere la propria identità d’origine. Ora, questo discorso in qualche modo esplicito tenuto dalla pietanza di Bras, discorso gastronomico socialmente riconosciuto (non a caso più volte tenuto dallo stesso Bras in interviste e dichiarazioni), viene supportato e approfondito dalla dimensione sensoriale del piatto, e dunque dalla particolare combinazione delle qualità sensibili dei vari ingredienti. Da una parte stanno le sostanze calde e secche: il finocchietto (selvatico) e le polpettine (elaborate). Dall’altra, le sostanze fredde e umide: il latticello 309

(elaborato) e la basella (selvatica). Al centro il branzino che, assorbendole, in qualche modo riequilibra il tutto, rendendo possibile ‘poeticamente’ la compresenza di elementi opposti (paradigma) nel medesimo piatto (sintagma). Così, osserva Floch, grazie al gioco sensoriale dei vari elementi al suo interno, il piatto creato da Michel Bras riprende e raddoppia – del tutto inconsapevolmente – il celebre mito greco di Adone: giovinetto ipersessuato nato nel finocchio (caldo e secco) e morto adolescente nella lattuga (fredda e umida), che porta nel mondo equilibrato dei cereali (l’orzo, il grano), caro a Demetra, euforici momenti di scompiglio, rivendicando l’importanza del piacere istintuale in un mondo votato al matrimonio e alla guerra. Cultura gastronomica e cultura antropologica trovano così il loro punto d’incontro, trascendendo la socializzazione e la stereotipizzazione che la società per forza di cose impone alle pratiche culinarie e alle esperienze di gusto.

Se ci siamo soffermati sull’identità visiva del ristorante di Michel Bras, cercando di approfondire l’analisi di Floch ed esplicitandone alcuni passaggi, è perché grazie a essa ritorna e trova definitiva giustificazione la nozione di bricolage, sulla quale ci siamo più volte sinora imbattuti. Bras infatti, rivelandosi doppiamente bricoleur, ci indica la natura profonda del discorso di marca. Innanzitutto, questo celebre chef è un bricoleur perché, alla maniera del ‘selvaggio’ di Lévi-Strauss, agisce sulla base di una vera e propria scienza del concreto: riprende elementi già significanti – ora naturali ora culinari – e li rielabora a partire dalle qualità sensibili che possiedono, attribuendo loro nuovi significati entro testi complessi quali sono le sue ‘invenzioni’ gastronomiche; così facendo, costruisce per contraccolpo la sua stessa specifica identità di, appunto, chef-bricoleur: non creatore ex nihilo di piatti più pensati che assaporati (secondo il recente dettato di certa cucina cosiddetta ‘concettuale’), ma intelligente scopritore e rielaboratore di sapori, sostanze e piatti già usati nelle cucine regionali, sulla base di uno stile molto personale che fa della delicatezza un valore da perseguire e uno stile di lavoro. Da qui la seconda ragione della sua pratica del bricolage, usata per costruire un’identità visiva che declina la nozione di delicatezza in una serie di testualità diverse: il logo, la grafica, il merchandising, i suoi stessi piatti – di modo che, come è consuetudine nella marca contemporanea, il prodotto diviene una delle manifestazioni del discorso di marca. Nel momento in cui il brand persegue la costruzione della propria identità come qualcosa non solo di visivo ma più profondamente di estesico, sensoriale, corporeo, riunisce – come Bras – le due 310

anime del bricolage: pensiero concreto che agisce sulle qualità sensibili delle cose convocando l’esperienza polisensoriale del corpo; istanza metaenunciante che seleziona, riprende e rielabora discorsi altri, testi eterocliti, parole già dette, immagini già viste, musiche già sentite in un mix discorsivo originale che torna sempre inevitabilmente in circolo nella cultura sociale. Così, le marche fanno bricolage senza saperlo: il loro discorso è esito di una tattica della sensorialità; la loro identità si radica nel corpo. 5.6.3. Spazi e soggettività La questione del corpo, s’è detto, non è comunque legata soltanto alla sfera, per quanto ampia e poliedrica, della sensorialità, ma coinvolge molti altri fenomeni semiotici, tra cui, in modo molto potente, il senso dello spazio. Punto di vista sul mondo e parte del mondo, ma anche involucro poroso dotato di un esterno e di un interno che si ridefiniscono di continuo sulla base delle svariate esperienze polisensoriali, il corpo ha un nesso doppiamente costitutivo con la spazialità: da una parte acquista consistenza e senso grazie alla sua collocazione in un determinato luogo, allo spazio da esso vissuto, abitato e attraversato; dall’altra contribuisce a dare senso a tali luoghi, a costituirne la fisionomia e la significazione. Intesi semioticamente, lo spazio e il soggetto si costruiscono uno rispetto all’altro, e il tramite grazie a cui ciò avviene è proprio il corpo, nella sua doppia natura di elemento situato in uno spazio e di estensione spaziale, contenuto e contenente. Dal punto di vista della teoria e dell’analisi della significazione umana e sociale, più che di spazio è bene parlare allora di spazialità, di quel dispositivo formale che si ritrova in testi, discorsi e pratiche anche non necessariamente e sostanzialmente spaziali (fisici, geografici, architettonici e quant’altro), per esempio la poesia, l’immagine, la lingua stessa. Questa prospettiva di studio considera lo spazio come un sistema e un processo di significazione, ossia come un insieme strutturato di cose e di vuoti che parlano d’altro da sé, che parlano a noi di noi, che parlano alla società della società e delle sue forme, delle sue istituzioni, dei suoi mutamenti. Come le lingue verbali sono complesse articolazioni di suoni in presupposizione reciproca con complesse articolazioni di significati, la spazialità è una serie di possibili estensioni (reali o metaforiche) in presupposizione reciproca con una serie di specifici significati, cultural311

mente e storicamente determinati (Greimas 1976; Marrone 2001; Cavicchioli 2002; Hammad 2004). Così, non ha ragion d’essere la tradizionale opposizione concettuale fra uno spazio oggettivo e uno soggettivo, né quella fra uno spazio funzionale (denotato) e uno simbolico (connotato). Per la semiotica contemporanea spazialità e soggettività si costituiscono reciprocamente: a patto di intendere la spazialità non come lo spazio fisico o naturale, ma come quello significante per l’uomo, lo spazio che le culture umane costituiscono come proprio specifico strumento per significare l’universo sociale, e che pertanto ogni singolo individuo si ritrova come già significante; e a patto di intendere la soggettività non come l’individualità o la coscienza singola, ma come un qualcosa al tempo stesso di presoggettivo (corporeo) e intersoggettivo (sociale), come una soggettività che non è già data come tale, non è precostituita, né tantomeno statica, per la quale l’identità si costituisce non mediante imposizioni autoritarie ma attraverso processi che hanno a che vedere sia con la percezione e il corpo, sia con la sfera della socialità e della cultura. Il punto di vista adottato dal semiologo nell’occuparsi di luoghi e città, negozi e appartamenti, centri commerciali e uffici, non è insomma quello del progettista ma semmai quello del fruitore, del corpo-soggetto che percorre questi spazi, li subisce o li trasforma, ci si installa o li rifugge. Anche perché, come è ovvio, fra la predeterminazione progettuale di un luogo e il suo significato concreto ci sta in mezzo la riappropriazione individuale e collettiva di quel luogo, la sua messa in discorso, ossia il modo reale in cui esso viene vissuto, inteso, valorizzato, dotato di senso (De Certeau 1980). Come sanno bene urbanisti e architetti, arredatori e pianificatori territoriali, geografi e amministratori, per quanto si cerchi di prevedere a monte il destino sociale di un luogo, si provi a orientare il comportamento delle persone entro determinati luoghi più o meno vasti, più o meno istituzionali, tali persone per forza di cose – vivendo, incontrandosi, perseguendo obiettivi comuni o entrando in competizione fra loro – risemantizzano quei luoghi, li adattano alle proprie esigenze, li rifunzionalizzano a partire dalle loro azioni e soprattutto dalle loro passioni. Sviluppando questo genere di prospettiva teorica, la semiotica dello spazio insiste su alcune questioni legate fra loro. La prima riguarda la narratività: lo spazio significa in quanto, articolandosi, inscrive al suo interno una serie di azioni di coloro i quali lo vivono e lo attraversano. Questa serie di azioni è, appunto, narrativa: le azio312

ni non sono organizzate a caso, ma sono significative poiché articolate in vista di programmi più o meno complessi; se gli spazi sono funzionali per qualcuno, non è in senso banalmente strumentale, ma in quello per cui essi stimolano (o impediscono) determinate forme di comportamento: la forma di un appartamento inscrive in essa lo stile di vita di chi lo abita; l’articolazione di una città è lo specchio delle complesse interrelazioni fra soggetti individuali e collettivi, istituzionali e spontanei che in essa si ritrovano. Così, in uno studio poco noto Floch (1999) ha mostrato come l’organizzazione interna di uno spazio di lavoro contribuisca a favorire o a impedire determinati rapporti fra i soggetti che in quel luogo, appunto, lavorano, e dunque anche a costruire il tipo di lavoro da essi svolto. A seconda per esempio che il plateau di un ufficio sia più o meno articolato, più o meno indistinto, il gruppo di lavoro si rafforza o si disperde: ci possono essere effetti spaziali di molteplicità strutturata (da cui un team di persone che lavorano insieme, ma ciascuna con il proprio ruolo) o di unità totalizzante (i singoli vengono assorbiti in un gruppo unico); così come possono darsi effetti spaziali di frazionamento (da cui un certo automatismo dei ruoli e delle funzioni lavorative) oppure effetti di condivisione (da cui una serie di ruoli che si implicano fra loro in una sorta di macchina perfettamente organizzata). Grazie ai propri modelli esplicativi, che prevedono una dialettica felice fra forme spaziali e forme di soggettività, la semiotica può allora contribuire non solo all’analisi a posteriori di uno spazio commerciale ma anche alla sua ideazione, affiancandosi ai progettisti veri e propri. In un altro studio lo stesso Floch (1988) ha per esempio provato a utilizzare il quadrato delle assiologie dei consumi [§ 3.4] per la concezione dell’ipermercato Mammouth, sito alle porte di Lione, prevedendo zone pratiche e zone utopiche, zone ludiche e zone critiche; rispondendo così alle esigenze dei diversi tipi di consumatori (strateghi, conviviali, consumeristi, edonisti), ma anche, per così dire, frazionando ogni singolo cliente dell’ipermercato in diverse soggettività sulla base dei percorsi possibili entro quello spazio: dapprima la zona critica (prodotti in scatola, bibite, detersivi) posta all’ingresso, e poi quella pratica (alimentari, biancheria) situata al centro dell’ipermercato; da lì un bivio: a sinistra la zona utopica (abbigliamento, libri, dischi, elettronica), a destra quella ludica (bar, bricolage, bazar). Lo zoning diviene così funzione dei tipi di consumo e di consumatori. (Un altro esempio di ideazione semiotica di spazi commerciali è in Cervelli e Torrini 2006.) 313

Sappiamo però dalla teoria narrativa che al programma d’azione di una certa soggettività si oppone spesso il programma di un’altra soggettività. Se un certo spazio appare come significativo è dunque perché in esso si inscrive una polemica narrativa, una serie di strategie e di tattiche intersoggettive. Un ostacolo è un impedimento a entrare, un accesso un invito a farlo. In ogni spazio ci sono quanto meno due soggetti che entrano in relazione fra loro, soggetti dotati di modalità del fare o di resistenze a questo fare (Marrone 2001). Ancora Floch (2006) ha mostrato come il design delle scrivanie per dirigenti favorisca determinate relazioni prossemiche fra i soggetti che entrano in relazione all’interno di un ufficio, ora consolidando ora sfumando le gerarchie fra ‘capi’ e personale di vario livello. Ci sono scrivanie per dirigenti decisori (le quali producono un effetto di spazio unico e unidirezionale che sollecita la dimensione cognitiva) e quelle per dirigenti piloti (per le quali lo spazio è multiplo e multidirezionale, funzionale alla dimensione pragmatica); ma ci sono anche scrivanie che negano l’attività pratica del dirigente (spazio ricentrato e riorientato dove ci si riunisce e si presiede) e quelle che negano l’attività cognitiva (spazio bidirezionale dove si interviene, ci si consulta). E non si tratta comunque di behaviorismo mascherato: le azioni e le relazioni intersoggettive non sono inscritte nello spazio solo nel senso per cui certi luoghi provocano certi comportamenti, ma in quello per cui, molto più profondamente, tali luoghi fanno al posto dei soggetti, assumono su di sé azioni umane, le fanno proprie; le organizzazioni spaziali sono ‘attori non umani’ che fanno (meglio) ciò che potrebbero fare ‘attori umani’: un ascensore o una scala mobile salgono le scale per qualcuno; un cancello automatico sostituisce un portiere; una porta aperta invita a entrare, una porta chiusa vieta l’ingresso. Quando per esempio entriamo in contatto con una stanza ben riscaldata, non stiamo soltanto facendo esperienza di uno stato del mondo, dato che quello stato si fonda su una serie di azioni, individuali e collettive, che hanno permesso il riscaldamento del locale. Per dirla in termini semiotici, ogni luogo fisico è un enunciato di stato che presuppone almeno un enunciato del fare: e per ricostruire il senso di quel luogo, è necessario ricostruire la catena delle presupposizioni, la serie delle deleghe, e ritrovare dietro le cose del mondo le operazioni umane che le hanno, appunto, dotate di senso. Così, diviene possibile più precisamente distinguere tra soggetti enunciati nello spazio (per cui certe azioni e certi programmi vengono delegati a forme e sostanze spaziali), soggetti dati a livello di enun314

ciazione (‘utilizzatori modello’ previsti dall’articolazione spaziale), soggetti sociali che vivono lo spazio (adeguandosi agli utilizzatori modello, dunque accettando la semantica dello spazio in cui si trovano, oppure risemantizzando il testo spaziale). I primi sono impliciti e fisici, e spesso più efficienti. I secondi sono astratti e in qualche modo costretti dalla situazione. Gli ultimi sono concreti e imprevedibili. Ma più che la tipologia in sé, l’importante è vedere come si passa nella pratica da uno all’altro di questi soggetti: non solo cioè osservare che il modello precostituito e astratto influenza concretamente le persone, ma anche per altri versi riscontrare se e come l’empirico influenzi il modello risemantizzando lo spazio (si pensi ai malls, da tempo riadattati per un consumatore che è in prima istanza una persona che va a passeggio lì dentro; o alle stazioni ferroviarie, dove il viaggiatore/cliente non va solo a prendere il treno ma usa quei luoghi per darsi appuntamenti, sostare al ristorante, acquistare un libro ecc.). Ne consegue che anche la sfera dell’affettività e delle passioni va inserita all’interno di una problematica della spazialità. Lo spazio significa anche perché provoca passioni, o è appassionato egli stesso. Ha le proprie passioni al posto dei soggetti che lo abitano, subisce azioni e patisce. Per esempio, se a un voler vedere del soggetto che vive un certo luogo corrisponde un voler non essere visto di quel luogo, scatta una specie di voyeurismo che provoca reazioni passionali prevedibili e nominabili come disagio, frustrazione o simili. Hammad (2004) ha mostrato come una parete di vetro sia una specie di ‘promessa architettonica’, in quanto permette di vedere ciò che solo in seguito, superato l’ostacolo, sarà possibile raggiungere fisicamente. E, come tutte le promesse, può essere mantenuta o meno, dando luogo a serie d’azioni e passioni, a storie anche molto complesse. Da cui la possibilità di una semiotica delle vetrine; in linea con le riflessioni dei sociologi sugli attuali processi sociali di vetrinizzazione (Codeluppi 2007), per la scienza della significazione le vetrine sono tutt’altro che semplici soglie: sono vere e proprie macchine produttrici di senso soggettivo e interoggettivo; dispositivi d’arredo urbano, ma anche processi di seduzione o di adescamento del consumatore. Con la vetrina ci si dà a vedere, ci si rende totalmente trasparenti, ma in altri casi ci si rinchiude in se stessi; si anticipa all’esterno quanto all’interno si mostrerà meglio, oppure si mettono in scena realtà simulate, si mettono in relazione oggetti più o meno incongrui. Ci sono vetrine discrete e vetrine senza pudore, vetrine riservate e vetrine pornografi315

che (Oliveira 1997; Mangiapane 2004). Con tutta la serie corrispettiva di possibili reazioni del consumatore, in qualche modo inscritte nel dispositivo materico e spaziale della trasparenza: posso accettare l’invito a guardare e a entrare, ma posso anche rifiutarlo; posso sbirciare all’interno, posso sentirmi già dentro, posso percepire una resistenza, posso persino specchiarmi. A sua volta, Floch (1990) ha dimostrato come ogni soggetto possa valorizzare in modi più o meno sentiti lo spazio che attraversa, dandogli senso e importanza a seconda che esso venga percepito e vissuto come continuo (liscio) o come discontinuo (frammentato), ma anche come non-continuo (ripiegato) o nondiscontinuo (ricucito). In una stazione di metropolitana – come anche nel corridoio di un hard discount o nella zona transiti di un aeroporto, nell’open space di un brand store o nella sala di un museo ecc. – il soggetto consumatore si costruisce ora come ‘esploratore’ (se percepisce e valorizza le discontinuità di un percorso) ora come ‘sonnambulo’ (se percepisce e valorizza invece la continuità di una traiettoria), ora come flâneur (quando s’entusiasma per la non continuità di una passeggiata), ora come ‘professionista’ (quando intende lo spazio come una sequenza non discontinua di zone). Si tratta, a ben vedere, di utilizzare per gli spazi vissuti le categorie del classico e del barocco previste, come sappiamo [§ 5.4], in sede di storia dell’arte da Wölfflin e riutilizzate dallo stesso Floch per analizzare le immagini di marca e le identità visive dei brand più diversi (da Crédit du Nord a Coco Chanel). Esistono spazi classici (lineari, pluriplanari, chiusi, molteplici, chiari) e spazi barocchi (pittorici, profondi, aperti, unitari, oscuri) – la tipologia dei punti vendita è infinita –, ma esistono anche modi classici e modi barocchi di percepire il medesimo spazio: i Diesel Store, per esempio, permettono al consumatore entrambe le strategie possibili di attraversamento del loro spazio interno (Chirico 2006). Azioni e passioni non esauriscono comunque il nesso tra soggetto e spazio, in quanto, come s’è detto, a essere coinvolto nella dinamica dei luoghi – naturali o costruiti, istituzionali o informali – è innanzitutto e soprattutto il corpo. Il corpo vive nello spazio, che si espande più o meno sulla base delle diverse relazioni intersoggettive. È la nota lezione della prossemica di Hall (1966): la sfera di un individuo è variabile. Ma il corpo possiede anche una sua spazialità, sue dimensioni specifiche – alto/basso, fronte/retro, destra/sinistra, interno/esterno – che proiettano nello spazio esterno, antropomorfizzandolo. Il corpo ha sue forme di accettazione o di rifiuto dello 316

spazio del mondo sulla base delle proprie attività proprio- ed esterocettive: sensazioni come quelle di caldo o freddo, di sicurezza o insicurezza sono determinate dalla relazione intima fra il corpo e lo spazio circostante visto come una soggettività che incide su di lui. Da qui l’importanza decisiva, forse più che della dimensionalità, della direzionalità. Lo spazio ha per il soggetto/corpo, più che delle dimensioni, delle direzioni: più che un reticolo geometrico, è una serie di percorsi. Apparentemente, a partire dalla nostra cultura cartesiana, c’è prima l’astrazione dell’estensione pura dotata di dimensioni proprie, e poi un soggetto che vi si colloca, la abita e la percorre. In effetti le cose stanno al contrario: il corpo che sta in uno spazio è già dotato di programmi d’azione, è un soggetto somatico già pieno di sentimenti, idee, progetti, scopi, valori; percepisce lo spazio e gli dà valore a partire da tutto ciò. È abbastanza evidente allora la ragione per cui i punti vendita – negozi, concept store, super- e ipermercati, hard discount e centri commerciali, malls e città-mercato, paesi immaginari ecc. – non sono semplici contenitori di merci, luoghi d’esposizione e d’offerta, ma punti di riverbero del brand, forme semiotiche d’espressione del suo discorso, componenti del mix di marca. Il punto vendita dice e traduce il senso del brand, ma soprattutto lo esteriorizza e lo mette in pratica, coinvolgendo in modi più o meno seducenti il consumatore, i suoi desideri, i suoi affetti, il suo stesso corpo. Entrare in un punto vendita non è entrare in contatto con le merci ma vivere forme d’esperienza che i brand propongono e dispongono. Il negozio non si limita a fornire al consumatore un pacchetto di istruzioni per il consumo, ma suggerisce tipi d’esperienza che rientrano nel discorso di marca, che conseguono dal suo universo di valori. In certi casi, la manifestazione spaziale è il perno della marca, la sua tematizzazione originaria. Si pensi ai caffè Starbucks, per i quali il brand sta appunto nel superare il semplice atto di assumere la bevanda per soffermarsi nel locale a leggere, lavorare o chiacchierare, recuperando quella settecentesca cultura del caffè che negli Stati Uniti, patria di Starbucks, era pressoché sconosciuta (Semprini 2006, pp. 158-159). E si pensi anche a un caso come quello dei parchi Disney, su cui parecchi studiosi si sono non a caso soffermati (Gottdiener 1982; Marin 1973; Augé 1999; Codeluppi 2001), dove l’universo immaginario della marca riceve una sua fortissima concretizzazione, permettendo in qualche modo al consumatore di vivere finalmente nel mondo pervicacemente gioioso della fantasia. Ma le cose possono spingersi 317

molto oltre la localizzazione fisica di una serie di offerte commerciali, e anche ben oltre il concept store. Se esiste un luogo che può chiamarsi Niketown non è per metafora: è semmai l’esito di un’operazione a vasto raggio di massiccia brandizzazione dello spazio urbano berlinese (Borries 2004). Riprendendo le suggestioni dei sociologi dei consumi (Debord, Abruzzese, Baudrillard, Ritzer, Codeluppi ecc.) e reintegrando le riflessioni filosofico-politiche sui luoghi cosiddetti eterotopici (Foucault, Deleuze, De Certeau, Augé), la semiotica dello spazio ha da tempo prestato attenzione alle logiche di marca sottese alle articolazioni dei punti vendita (esempi d’analisi in Heilbrunn 1999; Ferraresi 2000; Ceriani 2001; Semprini ed. 2003; Musso 2005; Pezzini e Cervelli eds. 2006). Hetzel (2002), per esempio, ha ricostruito il nesso molto stretto fra l’allestimento dei negozi Ralph Lauren e la costruzione mitica del brand. Per veicolare e rilanciare i valori di marca – successo, eleganza, potere, distinzione, esclusività, conservatorismo – e gli elementi basilari del suo stile – recupero di una sorta di americanità elegante da New England mescolata con il ‘neo british’ –, i negozi Ralph Lauren sono collocati in alcuni punti strategici di grandi metropoli come Londra (Bond Street), New York (Madison Avenue), Los Angeles (Beverly Hills) o Parigi (place de la Madeleine) e molti di essi spiccano per il loro ricercato, ipercostruito e iperdettagliato senso di intima domesticità. Entrare in uno di questi punti vendita è come ritrovarsi nell’abitazione di Ralph Lauren in persona: divani, quadri, camini, vetrinette, mobilio antico, soprammobili di lusso si mescolano e si confondono con gli oggetti realmente in vendita (abbigliamento prêt-à-porter ma anche accessori, occhiali, biancheria per la casa, oggetti di design, servizi da tavola ecc.) per creare un sistematico effetto avvolgente in cui tutti i sensi del consumatore vengono coinvolti. La luce, la temperatura, i colori, gli aromi, i tessuti mirano a costruire il medesimo effetto di pacata intimità, grazie al quale viene comunque rimarcata la separatezza con il resto del mondo. Così, laddove molte boutique giapponesi tendono a costruire un senso di continuità fra l’esterno della strada e l’interno del negozio, qui la soglia fra il punto vendita e la città viene fortemente sottolineata (per esempio oscurando le vetrine): si entra in uno spazio mitico in cui, come sarà chiaro, l’atto del consumo viene al tempo stesso enfatizzato (perché esclusivo) e ridimensionato (perché mescolato all’esperienza somatica e immaginativa che si sta vivendo). Così, potremmo dire che Ralph Lauren tiene al proprio consumatore un discorso spaziale che, da una parte, è di tipo sostanziale (le cose perdono i contorni per far emergere le qualità sensibili) ma, dall’altra, è di tipo obliquo (viene sollecitato un lavoro interpretativo dell’enunciatario per deci318

frare nei dettagli d’arredo le differenze fra le merci in vendita e il resto del negozio). Laddove i negozi Ralph Lauren si caratterizzano per una forte discontinuità con l’esterno e un’accurata omogeneità nell’arredo interno, i Mercedes-Benz Spot – studiati da Teotti (2006) in relazione all’intero discorso di marca, e quindi unitamente al marchio aziendale e al merchandising – sembrano seguire la strategia opposta: quella di una vera e propria non-discontinuità fra la strada e il punto vendita (vetrate più che vetrine, colonne-pilastro che riprendono il colonnato della piazza, colore grigio ‘urbano’ dominante), e di una conseguente significativa articolazione degli spazi interni (palcoscenico, espositori e teche per il merchandising, bancone con il personale, angolo relax). I Mercedes Spot, osserva Teotti, non sono negozi in senso stretto, e meno che mai tradizionali concessionarie automobilistiche. Si tratta semmai di spazi commerciali allestiti dal brand in alcune città italiane (e poi europee) a scopo eminentemente fàtico: mettere in contatto un’azienda storicamente produttrice di automobili sicure ed eleganti, destinate a un target economicamente elevato, con un pubblico più ampio e più vario, potenzialmente interessato ai valori della marca – innovazione nella tradizione, sicurezza, rispetto per l’ambiente – anche a prescindere dai suoi prodotti di base. Più che un vero e proprio negozio monomarca, si tratta di spazi pubblicitari – spot, appunto – in cui l’automobile esposta al centro del punto vendita e con una serie di faretti puntati verso di lei (ancora spot, ma questa volta in senso spettacolare) è come collocata in un palcoscenico accessibile: tutti possono vederla e toccarla, apprezzarne la bellezza complessiva e i dettagli di fabbricazione, l’impatto della figura e l’eleganza dei particolari. Intorno a questo palcoscenico centrale si articola il resto dello spazio commerciale, instaurando un percorso, se non in senso stretto obbligato, fortemente consigliato al visitatore: dapprima si gira attorno alla vettura, poi ci si dirige verso gli espositori collocati nelle vicinanze, dove spiccano modellini automobilistici e merchandising maschile, in seguito si viene attirati da alcune teche/‘scrigni’ che contengono merce più preziosa; a questo punto, si può decidere se andare verso il bancone (dove il personale specializzato è lì più per dare informazioni che per vendere i prodotti) oppure accomodarsi nelle poltrone della zona relax, leggermente nascosti da una colonna, per leggere i dépliant o altri magazine aziendali. Così, da una parte Mercedes compie un’evidente operazione di marketing cosiddetto estetico, volta a trasformare il consumo degli oggetti in esperienza complessiva del corpo in un luogo, proponendo più che automobili un complessivo stile di vita dettato dal brand. D’altra parte, però, si tratta di un’operazione, per così dire, timida di estensione del marchio, dato che tutto l’allestimento del punto vendita è finalizzato a far risaltare sempre e comunque il core business aziendale: la macchina, in319

torno alla quale, letteralmente, gira tutto l’universo Mercedes. E anche il più interessante oggetto di design esposto nello Spot – una lussuosa mountain bike – da una parte si pone come un prodotto perfettamente in armonia (visiva, materica, funzionale) con la tendenza generale di Mercedes, e, in linea di principio, alternativo all’automobile; d’altra parte, però, esso appare molto chiaramente come uno strumento gerarchicamente subordinato all’automobile: il suo plus principale è la facile, intuitiva ripiegabilità, dunque sostanzialmente la possibilità d’essere collocata nel bagagliaio della vettura. Si va comunque in macchina; ogni tanto la si posteggia e si procede in bici.

5.7. Superfici d’iscrizione: dal marchio all’impronta Con la questione dello spazio siamo passati dal corpo rappresentato a livello d’enunciato, per esempio pubblicitario, al corpo vissuto, all’esperienza che esso direttamente vive in un determinato ambiente, caricandolo di senso e/o ricevendo senso da esso. La marca, dunque, da una parte, mostra corpi da essa dominati, plasmati a suo uso e consumo, mette in scena soggetti che vivono esperienze polisensoriali legate in un modo o nell’altro alle proposte commerciali da essa offerte. D’altra parte, però, il brand mette in contatto il corpo del consumatore potenziale con i propri valori profondi, inscritti nelle articolazioni fisiche dello spazio, dunque direttamente lo plasma e lo riarticola in relazione alle esperienze olistiche che gli propone, al di là – oppure in funzione – del suo universo commerciale, dei suoi stessi prodotti. A ben pensarci, tuttavia, questa distinzione fra un corpo rappresentato, e dunque mostrato a un consumatore in qualche modo esterno a esso, e un corpo direttamente coinvolto nello spazio tende a ridimensionarsi sino a scomparire del tutto. Principalmente, come è ovvio, perché i corpi coinvolti nello spazio sono in fondo anch’essi messi in scena entro quello spazio, che è palcoscenico non solo per i prodotti che espone ma anche per le persone che vi entrano, lo attraversano, ne hanno un’esperienza, mono- o polisensoriale che sia. Guardarsi intorno, accomodarsi per una pausa di relax, consumare una bibita, indossare per prova un indumento, interrogare il personale addetto non sono semplici esperienze unidirezionali da un soggetto verso un mondo a lui esterno. Il soggetto che vive uno spazio, come abbiamo detto, fa parte di quello spazio, è collocato all’interno di esso e contribuisce in modo decisivo alla sua costruzione, fisica e semantica nello stes320

so tempo, entrando inoltre in significativo contatto con altri soggetti in quel momento presenti. Di modo che, quando un consumatore entra in un brand store, c’è per forza di cose qualcun altro che lo percepisce come corpo in movimento entro quello spazio, che lo osserva, che entra in relazione con lui mediante una possibile, complessa serie di esperienze sensoriali. Gli spazi commerciali più o meno camuffati da luoghi pubblici o, viceversa, i luoghi pubblici che si prestano a diventare spazi commerciali sono al tempo stesso sociali e intimi, ambienti da vedere e visitare ma anche punti d’incontro intersoggettivo e, più profondamente, intercorporeo. Guardare ed essere guardati, percepire il mondo ed essere percepiti sono momenti e situazioni concomitanti, non successivi. Il tutto all’insegna del brand, entità enunciante che predispone, e volta per volta articola, questo movimento semiotico profondo transitivo e insieme riflessivo. 5.7.1. L’estesia tattile Una seconda ragione di questa assimilazione fra corpo mostrato e corpo coinvolto si ha tornando a riflettere sul testo pubblicitario. Il corpo in esso rappresentato, infatti, è mostrato a un enunciatarioconsumatore che, per definizione, è esso stesso dotato di un corpo, il quale vede ciò che gli viene proposto, ma più in generale entra attivamente in relazione, grazie a una complessa esperienza polisensoriale, con l’enunciato che gli viene proposto. In questo senso, il corpo rappresentato viene mostrato non a un occhio mentale ma a un corpo coinvolto – di modo che, ovviamente, la relazione scopico-cognitiva si fa rapporto intersomatico, incontro fra corpi. Per rendersene conto, basta ritornare a quelle pubblicità che abbiamo chiamato ‘sostanziali’ [§ 4.3.4], le quali molto spesso mostrano, oltre che paste frolle e merletti, lane e plastiche, creme e liquori, i corpi più vari: parti, frammenti, colori somatici e in generale tutto ciò che permette di far emergere – in modo più o meno sinestetico – le loro qualità sensibili. Si consideri per esempio l’annuncio di Alviero Martini in fig. 28 di § 4.3.3: lì è il colore della pelle della modella a essere per così dire messo in contrasto con la trasparenza della borsa in plastica; cosa che, facendo meglio emergere la sostanzialità del prodotto, mette in mostra una proprietà sensibile del corpo rappresentato agli occhi forzatamente ravvicinati dello spettatore. La sostanza, in questi casi, non è semplicemente quella degli eventuali prodotti glorifi321

cati dal testo pubblicitario, ma quella dei corpi in esso esibiti. Si riavvicina il corpo rappresentato allo sguardo dello spettatore, uno sguardo, come sappiamo, tattile: in modo da mettere in opera una relazione intima e immediata fra determinate qualità sostanziali del corpo mostrato e l’apparato polisensoriale di quello guardante. L’intercorporeità, in questi casi, non è più quella vissuta negli spazi commerciali del brand, ma quella messa in atto nella relazione d’enunciazione, meno ovvia ma non meno vissuta della prima, e anch’essa fortemente legata al discorso di marca. Un campo di grande interesse in questo senso è per esempio quello della comunicazione della gioielleria e degli orologi di lusso (su cui si è soffermato già Lo Chirco [2007]), dove i contrasti fra i materiali di cui sono fatti i vari oggetti (ori, argenti, pietre, metalli) e la sostanza somatica (soprattutto colori, consistenze e testura della pelle) giocano in mille maniere diverse. Ora in modo da far emergere l’opposizione semplice fra corpo e oggetto. Ora, invece, associando – da un lato – corpi con oggetti e differenziando – dall’altro – corpi da altri corpi, oggetti da altri oggetti. Sino a produrre vere e proprie storie materiche nelle quali le diverse sostanze del mondo – e del corpo – vengono chiamate a rivestire ruoli attanziali precisi. Così, per esempio, Dkny [fig. 29] gioca con i diversi colori della pelle dei cinturini sullo sfondo del panneggio scuro di un’altra pelle che – seguendo il dettato dell’enunciazione sostanziale – non è attribuibile ad alcun oggetto preciso; il tutto in contrasto con la parte metallica del quadrante dei tre orologi, ma in relazione di distribuzione complementare con il colore del loro quadrante. Breil [fig. 30] e Calvin Klein [fig. 31], invece, a partire da una certa continuità cromatica di fondo – il grigio del metallo dell’orologio che emerge dal grigio di sfondo in un’immagine in b/n –, innescano una sorta di narrazione in nuce, con gradi diversi di complessità. Laddove in Breil si oppongono in modo abbastanza netto la superficie riflettente metallica dell’orologio, liscia e scanalata, e la superficie assorbente della pelle, granulosa e rugosa, Calvin Klein, mantenendo l’opposizione fra riflessione e assorbenza, inserisce un terzo elemento materico: quello della stoffa dell’abito, lasciando intravedere la possibilità, se non di un vero e proprio racconto, quanto meno di una qualche processualità. In Gucci [fig. 32], infine, la presenza di una storia è pressoché evidente. Qui ci sono due diverse pelli di diverso colore e grana: nera e porosa la prima; bianca e liscia la seconda. E ci sono due elementi dell’orologio: il cinturino in pelle (scura) e la cassa in metallo (dorato). L’eco materica è evidente: la cassa dell’orologio, liscia come la pelle bianca, ne riprende la tinta cromatica; la pelle del cinturino, porosa come la pelle scura, ne ha quasi il medesimo colore. Due attori umani, dun322

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que, e due attori non umani che vivono storie parallele: così come il cinturino di pelle nera s’accoppia con la cassa metallica chiara, la mano nera e rugosa si protende verso la pelle liscia e chiara, quasi l’accarezza. Due dettagli – uno somatico e l’altro oggettuale – lasciano inoltre inferire la posizione delle mani rispetto ai corpi e quella dei due corpi fra loro. 323

L’ombelico (già presente nell’annuncio Breil, dov’era però orizzontale) ci indica che la mano nera – presumibilmente maschile – accarezza la parte inferiore del corpo bianco – presumibilmente femminile. L’orologio rovesciato (già presente in Calvin Klein, dov’era però ovale) ci lascia immaginare che il soggetto nero si trova dietro la donna bianca, e da lì la cinge accarezzandole il girovita. Inoltre, è in gioco un terzo soggetto: quello spettatore il cui sguardo mette perfettamente a fuoco la varie materie, a scapito dell’interezza delle figure presenti negli annunci, e per farlo deve avvicinarsi parecchio ai corpi rappresentati, quasi toccarli. La storia si complica e si intorbida.

In tal modo, anche qui è il caso di distinguere fra una dimensione figurativa (dove contrastano o si associano figure del mondo riconoscibili e nominabili come orologi, cinturini, quadranti, lancette...) e una dimensione plastica dell’annuncio (dove però entrano in relazione non solo linee, colori e spazi ma anche e soprattutto testure e consistenze). Alla dimensione visiva si sovrappone, per quanto sinesteticamente (ma in vista di una percezione dei concreti oggetti di design qui convocati), una dimensione specificamente tattile: un linguaggio plastico-tattile dove entrano in gioco categorie come duro/molle, flessibile/rigido, liscio/ruvido, poroso/impermeabile, tramato/ondulato, puntinato/rugoso e simili (Gruppo μ 1991), tutte in qualche modo riconducibili – seguendo Ceriani 1995 – all’opposizione fra continuità e discontinuità, con i loro relativi termini negativi. Da cui uno schema che articola molte delle nozioni che abbiamo utilizzato nel nostro rapido excursus: frattura o rilievo assenza di contatto fra bordi durezza seguita da cedevolezza discontinuità

liscio piatto durezza o cedevolezza continuità

non-continuità piega granuloma nodo

non-discontinuità raccordo escrescenza buco

Si tratta ovviamente di una sistematizzazione provvisoria, di uno schema utile per indicare la strada da seguire nell’elaborazione di nuovi e più sensibili modelli d’analisi delle emergenze somatiche 324

all’interno del discorso di marca. Ulteriori ricerche e nuove investigazioni potranno riprenderlo e perfezionarlo. 5.7.2. Marchi enunciati e impronte enuncianti Possiamo comunque sin d’ora indicare alcune interessanti tendenze all’interno delle intricate relazioni fra marca e corpo. Pensiamo per esempio al massiccio ritorno del marchio sui corpi. Se, come sappiamo, la marca nasce, abbiamo visto [§ 1.3], nel passaggio silenzioso dalla marchiatura dei corpi (per sottolinearne la schiavitù o l’infamia) alla marchiatura delle cose (per rivendicarne la provenienza e la proprietà), la diffusione delle marche e dei marchi (differenza lessicale e concettuale che solo la lingua italiana mantiene) su scala planetaria, e la relativa loro invadente presenza nella vita quotidiana dei consumatori hanno provocato, fra gli altri, due fenomeni di un certo interesse. Molta gente – calciatori, attricette, gente comune – ha iniziato a battezzare i propri figli con i nomi di marca (da Prada ad Armani, da Gucci a Ferrari, a Chanel), di fatto istituendo per il brand name una falsa antonomasia al quadrato. Ma poi, soprattutto, diverse persone – ricorda Codeluppi (2001) – hanno tatuato in modo indelebile sulla propria pelle gli ‘odiamati’ logo multinazionali. Così, in un’indagine sull’invadente presenza delle marche presso le giovani generazioni, la giornalista americana Alissa Quart (2003) ha ricordato come gli adolescenti oggi siano e vogliano a tutti i costi essere branded (e la traduttrice italiana scrive, giustamente, «marchiati»), raccontando altresì i processi di iniziatica marchiatura che si attuano in precocissima età, non molto dissimili da quelli degli antichi eroi mitologici o dei personaggi del folklore. E il discorso di marca non ha mancato di riprendere la cosa, proponendo innumerevoli immagini pubblicitarie nelle quali il marchio non sta più sulle cose ma viene impresso direttamente sul corpo – dunque, diremmo noi, è tornato sul corpo. Cosa che accade, come si vede nelle figg. 33-38, sia nel caso di logo di marche d’abbigliamento (dove si dichiara apertamente e ironicamente l’assoluta inessenzialità dell’indumento rispetto alla radicale importanza della sua griffe), sia in altri casi, dove la presenza o l’assenza dell’oggetto che avrebbe dovuto essere marc(hi)ato non ha alcuna rilevanza. Così, i logo Lacoste [fig. 33] e Sahzá [fig. 34] stanno proprio dove dovrebbero essere: mancano solo le rispettive magliette. Analogamente, per la Logomania Collection [fig. 35], Bulgari mostra senza soluzione di 325

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continuità un foulard e una schiena interamente ricoperti del nome di marca. Già diverso è il caso di Shamir [fig. 36], dove è una piega della pelle, volutamente ottenuta, che disegna il marchio sul corpo, un po’ come gli atleti Nike lo formano con i movimenti dei loro arti [§ 3.4]. L’ironia, in questo contesto, è abbastanza evidente, e diviene ancora più esplicita per esempio per Pin-Up Stars [fig. 37], dove la marchiatura del corpo riprende visibilmente quella dei capi di 35 bestiame; oppure in Tactel [fig. 38], dove l’idea di indumenti particolarmente confortevoli viene tradotta in quella di un body language che deve essere compreso. Ma sin qui, appunto, siamo ancora nell’universo figurativo dell’abbigliamento, e dunque all’interno di enunciati in cui la marchiatura del logo sul corpo viene in qualche modo giustificata, ironica326

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mente o meno, dalla significativa assenza degli indumenti. Il discorso di marca, qui, lavora per così dire al secondo grado, riassorbendo al suo interno alcuni discorsi sociali che su di esso vengono condotti. È come se esso rispondesse – al modo di Benetton/Toscani di cui s’è detto [§ 4.5.4] – alle critiche ideologiche circa la eccessiva supremazia del marchio sull’oggetto, radicalizzando tale situazione e assumendola positivamente. Non solo il marchio prevale sull’indumento, 38 ma addirittura ne fa a meno. Per mostrare il logo, basta imprimere direttamente la pelle del corpo. Il soggetto/consumatore ne sarà felice perché marc(hi)ato, e la marca avrà raggiunto il proprio unico, reale obiettivo: quello d’essere presente. A un altro livello, però, vale anche il significato opposto (e complementare al primo). È come se questi annunci per antifrasi dicessero: «non vi facciamo vedere l’unica co327

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sa che ci interessa (che vi interessa), ossia l’indumento che dovete (volete) acquistare». Un perfetto caso di comunicazione ambivalente, da giocare ora in una situazione (al secondo grado, per rispondere alle critiche alla marca), ora in quella opposta (al primo grado, per promuovere il prodotto). Quando invece il corpo viene marchiato, come dire, di per sé, senza possibili motivazioni di tipo narrativo o figurativo, e senza nemmeno alcun richiamo a stereotipi culturali, il fenomeno semiotico che ne viene fuori è molto diverso. Soprattutto se, come spesso accade, a essere impresso nella pelle non è per nulla il logo di marca, ma altre possibili cose o figure. Quel che conta, in questi casi, non è dunque l’esibizione del marchio attraverso un corpo impiegato come pura superficie di iscrizione, ma l’atto enunciativo del marchiare e quindi, per presupposizione, la natura del soggetto che marchia. Accade allora che la marca – soggetto dell’enunciazione – non si manifesti tanto negli enunciati del proprio stesso discorso grazie al marchio, quanto semmai, in modo al tempo stesso più specifico e più sfuggente, grazie alla marchiatura o, meglio, grazie all’impronta di sé che lascia nei corpi più diversi. Essa emerge dunque, a monte rispetto ai suoi esiti fissi e stereotipati – nome e logo –, attraverso l’azione del marchiare un qualsivoglia corpo, che diviene superficie di iscrizione per qualsivoglia figura del mondo: ora 328

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una coperta, ora dei numeri, ora un intero paesaggio, ora le indicazioni per una ricetta di cucina... Certo, si potrebbe obiettare che, alla fin fine, l’azione discorsiva prende le mosse da Flou, Swatch, Regione Trentino o Nardi, e che dunque ci troviamo sempre e ancora all’interno di una logica di marca abbastanza tradizionale. E in effetti, considerando autonomamente i quattro annunci delle figg. 39-42, non è difficile cogliere le argomentazioni specifiche che sottostanno a ogni marca, tutte in fondo di carattere iperbolico: Flou [fig. 39] insiste sulla varietà cromatica dei letti, presentandoli quasi come abiti da indossare (e in qualche modo dunque riprendendo l’ambivalenza dei logo d’abbigliamento che marchiano direttamente i corpi umani); Swatch [fig. 40] deve presentare la linea Skin di orologi, dunque la piattezza di quei modelli che quasi aderiscono alla pelle del consumatore; la Regione Trentino [fig. 41] propone un’offerta turistica legata al benessere e alla salute, dove i monti vengono riconfigurati in quanto «ricarica naturale»; le cucine Nardi [fig. 42] giocano ironicamente con il nesso fra cucinare e sedurre, di modo che a «fare fuoco e fiamme» non sono soltanto i fornelli ma il soggetto che, diciamo così, apprezza la trovata della donna, la quale scrive sul proprio corpo gli ingredienti per preparare le crêpes, guarda caso, flambées. Se si considera però il tipo di atto enunciativo comune che sta dietro i quattro annun329

ci, e li si paragona a tanti altri possibili (per esempio le figg. 43-46), appare abbastanza evidente come il discorso di marca tenda oggi a inserirsi, traducendolo come sempre a proprio uso e consumo, in quel generale movimento del pensiero e della cultura attuali dove l’opposizione tradizionale fra corpi e tecnologie, organismi e macchine viene in ogni modo neutralizzata. Basti pensare a tutta l’estetica cyborg e alla retorica dell’ibrido, ma anche alle mescolanze più o meno raccapriccianti fra pezzi di corpo umano e pezzi di ingranaggi non umani, ai trapianti di macchine in organismi complessi o – viceversa – di organi in macchine, alle reciproche e continue sovrapposizioni fra reale e virtuale (cfr. per esempio l’indecidibilità di fondo presente nella saga cinematografica di Matrix, dove il creatore del mondo e l’ingegnere informatico si scambiano le reciproche identità) e così via. E si considerino i visi maschili degli ultimi quattro annunci, dove l’impressione di segni – qualsiasi essi siano – sulla pelle è tanto gratuita nelle sue ragioni quanto necessaria nella sua ineluttabilità. Vichy [fig. 43] si adopera per eliminare il marchio del «vero cuoio» dalla pelle, in qualche modo presupponendolo come condizione di normalità. Ma la rete SuperService [fig. 44] per il cambio degli pneumatici sembra non avere proprio alcun motivo per mostrare un viso/ruota, umano e al tempo stesso gommoso, in cui è impresso come una cicatrice il battistrada: una specie di destino identitario e ineliminabile che il soggetto d’enunciazione deposita sul corpo di un consumatore, è il caso di dirlo, consumato. Analogamente Ericsson [fig. 45] esprime l’assoluta aderenza destinale fra corpo e spazio: «you are everywhere» vuol dire che siamo dappertutto grazie al telefonino, ma anche che siamo il dappertutto, di modo che una mappa stradale può essere sovrapposta al viso e impressa su di esso, senza più possibilità di separazione. E infine Nokia [fig. 46], che gioca con il doppio senso di «impressionare», e forse ci dice molto di più di quanto non voglia: l’impressione emotiva, se intensa, lascia sempre anche un’impronta nel corpo, lo segna e lo trasforma. Tutto ciò trova piene conferme negli attuali sviluppi della ricerca semiotica, sempre più orientata a mettere in discussione, e dunque in gioco, le opposizioni di principio fra corpo rappresentato e corpo rappresentante (Fontanille 2004) e fra attori umani e attori non umani (Latour 1996, 1999); mostrando come sia sempre l’atto enunciativo instauratore della semiosi a porre in modi volta per volta diversi (e dunque per principio cangianti) che cosa è enunciato e 330

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che cosa è enunciazione, ma anche che cosa è umano e che cosa non lo è. È a partire dal corpo – organismo culturale e macchina naturale, dunque – che ogni discorso, atto comunicativo e so46 ciale, installa una divaricazione ‘originaria’ fra il soggetto produttore e ciò che viene prodotto. Ed è a partire dal corpo che ogni società – esito d’un intreccio discorsivo e comunicativo – produce attanti ibridi che si scindono, poi, in attori umani e attori non umani, in entità poste come naturali ed entità poste come artificiali. Tro331

va così piena giustificazione quanto avevamo affermato all’inizio di § 5.6.1: la marca è un corpo che lascia la propria impronta sui corpi, facendosi ora soggetto astratto che si distacca dalle manifestazioni e dai processi somatici, ora soggetto concreto che incontra e si mescola in situazioni di intercorporeità. Più che marchio, essa è dunque impronta che gioca il gioco dell’impressione e dell’impresso, e che con questo si mette in mostra in quanto creatrice prima e assoluta di mondi e di corpi. Insomma, tutto lascia pensare che l’ultimo – ultimo in tutti i sensi – movimento del discorso di marca abbia intenzioni molto precise: voler occupare il posto di Dio.

Conclusione

L’affermazione con la quale abbiamo chiuso l’ultimo capitolo – la marca al posto di Dio – può apparire a prima vista forzata, una sorta di battuta a effetto in cerca di scoop. Eppure, a ripensarci, si tratta della metafora nascosta che abbiamo, come si dice, ‘filato’ lungo il corso di questo libro e che, arrivati alla fine, è il caso di esplicitare. La marca, oggi, sta al posto di Dio per svariati motivi, e tutti di natura eminentemente semiotica. Innanzitutto, il modo di pensare che essa fa proprio e in qualche modo propone alla cultura sociale è radicalmente opposto a ogni funzionalismo e materialismo ingenui, a una razionalità economica che pensa e opera nei termini rigidi ed esclusivi del calcolo e del bisogno, del rapporto fra qualità e prezzo, fra necessità e loro soddisfacimenti. La marca, abbiamo visto, prima d’ogni altra cosa propone valori verso cui tendere, sensi individuali e significati sociali in nome dei quali costruire, articolare e svolgere la propria identità soggettiva. In questo, più che il contenuto del singolo valore o dello specifico sistema di valori, quel che conta è il processo della valorizzazione, il percorso narrativo nel quale Soggetti, Oggetti e valori entrano in relazioni complesse e variabili fra loro, al cui interno trova spazio e giustificazione, senza comunque conservare alcun ruolo privilegiato, la razionalità economica. La valorizzazione critica è uno degli strumenti che la marca ha a disposizione per giocare le proprie proposte di senso, non certamente l’unica o la più importante, né quella a cui in ultima istanza tutte le altre devono venir ricondotte. La prospettiva spiccatamente umanistica verso le questioni di marca e di consumo adoperata in questo libro, che alcuni avranno trovato esageratamente letteraria o estetizzante, viene pertanto giustificata dalla materia stessa che abbiamo cercato di affrontare. Una pro333

blematica come quella della marca non può non convocare uno sguardo ampio e trasversale sulle questioni aziendali ed economiche, sul marketing e sui consumi. Fenomeni semiotici come quelli del racconto e della passione, dell’identità e della comunicazione, della presa di parola e della pluralità di voci, dello stile e del genere, delle strategie figurative e dei ragionamenti visivi, della sensorialità e del corpo non sono semplici strumenti per uno scopo più o meno subdolo eminentemente commerciale, né banali ed estrinseci belletti di processi informativi o persuasivi sottostanti. Sono fenomeni costitutivi della marca, la sua essenza profonda, la sua verità. Contro l’attuale spiccata tendenza verso una formazione iperspecialistica e settoriale, funzionalista e banalmente praticona, questo libro rivendica una visione transdisciplinare e comparativa della marca, dove la ricostruzione di un preciso tipo di discorso – quello, appunto, del branding – non può non prendere in efficace considerazione altri tipi di discorso, in modo da rilevarne somiglianze e differenze. In quest’ottica, il discorso religioso o sacrale si presta a esser accostato al discorso di marca forse anche di più di quello pubblicitario o politico, spettacolare o finzionale, come pure generalmente viene fatto. Da qui una seconda buona ragione per proporre l’idea della marca come forma attuale di divinità. Nella sua costitutiva immaterialità, la marca non è un Dio nascosto: trascende e domina uomini e cose, ma solo a patto di manifestarsi per mezzo di un certo numero di segni necessari che la rendono riconoscibile, identificabile, replicabile. In questo senso, più che una precisa sostanza, essa è una forma invariante; e più che un’entità unitaria, è una relazione fra entità diverse. Trovano così assoluta rispondenza l’eclisse della centralità del prodotto (nell’universo dei consumi) e il superamento strutturale d’ogni referenzialismo ontologico (nella teoria semiotica). Il prodotto è una delle manifestazioni discorsive del discorso di marca; il discorso di marca è la messa in relazione coerente delle sue varie manifestazioni testuali, prima fra tutte il prodotto. Per la semiotica, la disputa marca/prodotto non ha ragion d’essere, così come ogni faccia del segno non può in alcun modo sussistere senza l’altra. In ogni Oggetto è sempre inscritto un valore da un Soggetto che mira a congiungersene. In terzo luogo, però, questo dominio divino sul mondo non solo si manifesta tramite segni/testi che la marca rende coerenti, ma deve inverarsi nella ‘comunità dei fedeli’ che tale divinità, prima ancora di creder plausibile, riconosce come esistente. I centri commer334

ciali, sappiamo, sono cattedrali del consumo. Ogni progetto di marca si scontra e al tempo stesso si rinvigorisce nell’incontro con il pubblico eteroclito e tendenzialmente blasé dei consumatori, i quali recepiscono e trasformano le direttive di senso che vengono loro proposte, ritraducendole in versioni sempre aggiornate e rilanciandole nell’universo composito della comunicazione, nella sfera multimediale della cultura e nell’arena sociale. Appare così in tutta la sua aprioristica inconsistenza la tradizionale distinzione fra identità costruita a monte e immagine percepita a valle. Il senso di marca è dato sempre e comunque nella negoziazione e nel contrasto fra attori della comunicazione: da cui la fragilità di ogni assetto istituzionale dato, l’illusorietà di ogni controllo reale del mercato e del discorso. La natura divina della marca non ha nulla di rigidamente autoritario, non impone desideri o manipola coscienze, né mira a banali, empirici comportamenti d’acquisto. Si innesta semmai in una socialità diffusa, agendo in essa come attore fra gli altri, ma con propri linguaggi e specifiche armi. A loro volta i consumatori non professano una credenza illimitata e intaccabile nella marca/Dio, non operano sulla base di una fiducia data in anticipo e per sempre, ma – come tutte le comunità dei fedeli – aderiscono in modo graduale, parziale, ogni volta rivedibile alle proposte di senso che vengono loro fatte, ai pacchetti valoriali che sono per loro allestiti, alle forme di vita che vengono loro magnificate. Ogni Destinante deve fare i conti con il proprio Destinatario. Inoltre, la marca è come Dio in quanto Autore onnisciente di uno specifico discorso, come Soggetto di un’enunciazione di cui è proprietario di diritto e responsabile per principio. La marca parla dall’alto della sua costitutiva vocazione destinale. Non tanto, però, producendo dal nulla una serie di contenuti discorsivi ed espressioni testuali che li supportano. Quanto semmai facendosi garante delle enunciazioni altrui, operando una ricognizione e uno spoglio dei discorsi, dei testi e dei media che circolano e agiscono nella cultura sociale, riorganizzandoli per bricolage a propria misura e necessità. Da qui la sua duplice natura trascendente: prima ancora che come Enunciatore discorsivo che dota il proprio discorso di una serie di valori a esso immanenti, come Meta-enunciatore che conosce, valuta e rilancia discorsi e valori già presenti, in nome di un Valore dei valori che solo a essa è dato praticare e diffondere. Strano autore, la marca, che produce un proprio stile enunciativo grazie al continuo, necessario attraversamento della parola d’altri enunciatori più o me335

no anonimi. Soppesata, giudicata, fatta propria, rilanciata, tradotta, la congerie di segni e di testi che costituisce la socialità sta a perenne disposizione di una marca/Dio che inocula desideri, apre universi di senso, garantisce forme d’esistenza. Salvo poi mefistofelicamente trasformarsi in altro dinnanzi alle minacce d’un concorrente, ai sussulti del mercato, alle variazioni finanziarie, ma anche ai cambiamenti delle mode e dei gusti, alle congiunture storiche, ai mutamenti sociali, alle nuove morfologie politiche o culturali. Il web, sempre meno vetrina aziendale e sempre più piattaforma per l’interazione e il dialogo, appare come il luogo ideale di questa marca para-divina che tutto controlla e tutto assorbe, lasciando agire e discutere il pubblico dei consumatori e degli anticonsumatori, ma detenendo comunque il diritto a proferire l’ultima, precaria parola su ciò che adesso è realmente cool, è effettivamente vero, è certamente valido esteticamente ed eticamente. Infine, la marca si pone come entità divina poiché rivendica, e di fatto attua, una sua capacità fondatrice sui corpi umani e sociali. Più che marchio, essa si mette in gioco grazie all’atto del marchiare, dell’imprimere segni più o meno indelebili sulla pelle e nella carne. Diviene così un soggetto marchiante che esibisce corpi marc(hi)ati, di fatto costruendone l’identità individuale e la valenza sociale. Agendo sul corpo e forgiandone le fattezze, non solo la marca rivendica una sua posizione di supremazia e di dominio su di essi, ma, ben più profondamente, finisce per porsi come entità artefice, perfetto sostituto di un Dio creatore del cielo e della terra, delle cose materiali ma anche di quelle immateriali.

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Indici

Indice analitico

Aaker David, 12, 163. Abruzzese Alberto, 318. Absolut, 24, 272-273. acquisto/contratto (logica del), 71-72, 184. Adamo, 289. Adidas, 25-26, 80, 83, 99-100, 177178, 180, 238-239, 291. Adone, 310. agenti doppi, 87, 89. Agnello Marialaura, 29, 80, 177, 198, 209, 238, 291-292, 301. agogia, 135. Agostino di Ippona, 207. Alcatel, 189. Alessi, 65, 203. Alfa, 132. Algida, 22. Allen Woody, 203. Alonso Aldama Juan, 88, 90. Alviero Martini, 193, 321. Antarctica, 137-138, 147. Appiano Ave, 242, 257. Apple, 10, 18, 29, 34, 86, 98, 150, 177, 240, 271, 287-291. Arena, 80, 83, 99-100, 177-178, 180. Armani, 25, 46, 121, 198, 280-284, 325. Asics, 80, 83, 99, 100, 177, 178, 180. assiologia dei consumi, 43, 92-111, 113-114, 195, 278, 313. attante collettivo, 56.

attanti/attori, 51-52, 56-57, 63, 69, 158. atti linguistici, 156. attori/spazi/tempi, 224. attuale (soggetto), 58-60. Augé Marc, 122, 317-318. Austin John, 156-157, 211. autografico/allografico, 211. autore, 209-212. morte dell’–, 210-211. Ava, 233. Axa Assicurazioni, 25. Bacardi, 149-150. Bachtin Michail, 232. Baileys, 171, 193. Banca Intesa, 203. Barilla, 26-27, 48, 122, 133, 230-231. Barthes Roland, 16, 26, 28, 94, 147, 164, 207, 211, 221, 261, 276- 278, 306. Basso Pierluigi, 147. Baudrillard Jean, 258, 318. Bauman Richard, 183. Beatles The, 214. Benetton, 32, 35, 50, 198, 246-252, 270, 327. Benjamin Walter, 217. Benveniste Émile, 156-157, 161, 164, 211, 234. Bernstein David, 257-258. Bertetti Paolo, 306.

359

Bertin Erik, 12, 88, 101, 123. Bertrand Denis, 16, 22, 119, 156, 166168, 190, 234, 261, 265. Bettetini Gianfranco, 183. Bianchi Cinzia, 136. Bic, 29. Black & White, 166-167, 172, 190, 261. Blady Syusy, 203. Blanchot Maurice, 211. Boero Marianna, 301. Borries von Friedrich, 240, 318. Brahma, 137-138, 147. Breil, 36, 74, 301, 322, 324. bricolage, 150, 234, 254, 295-296, 310311. bricoleur/ingegnere, 150-151, 296, 303, 310. Brown Dan, 214. Brucculeri Maria Claudia, VII, 291. Bucchetti Valeria, 46, 198. Buffon, conte di, 208. Buitoni, 21. Bulgari, 325. Burger King, 28, 46, 198, 291. Burnett Leo, 191, 197. Busacca Bruno, 12. Cabat Odilon, 25. Cacharel, 301. Calabrese Omar, 183, 261, 274. Calefato Patrizia, 25, 147. Calimero, 233, 242. Calvin Klein, 301, 322, 324. Camel, 29. Campari, 128, 132, 149-150. Capuzzo Paolo, 12. Caritas, 249. Carmagnola Fulvio, 182, 257. Carosello, 185. Casetti Francesco, 164, 183. categoria semantica, 39-40. Cavicchioli Sandra , 221, 312. Ceriani Giulia, 12, 25, 64-65, 101, 134, 144-145, 152, 291, 301, 318, 324. Cervelli Pierluigi, 211, 313, 318.

Champion, 80, 83, 99-100, 177-178, 180. Chanel, 209, 277-279, 284, 301, 316, 325. Chevalier Michel, 12, 101. Chirico Annalisa, 316. Citroën, 104, 112, 164-165, 191. classico/barocco, 122, 166, 278-279, 282-284, 316. Clausewitz von Carl, 88. Clinique, 173-174, 177, 189, 232. Clizia, 200. Clooney George, 172-173, 190. C’N’C, 161-162. Coca-Cola, 23, 55-56. Codeluppi Vanni, 12, 14, 48, 122, 141, 144, 233, 292, 315, 317-318, 325. Colombo Fausto, 48. competenza, 26, 61, 70-71, 73, 78, 80, 83, 93, 127, 143, 164-165. complementarità, 41-42. comunicazione/significazione, 127, 153. condensazione/espansione, 36, 101, 148-149, 151, 286. configurazione (tematica/figurativa), 65-68, 128, 224-229, 307. congiunzione/disgiunzione, 50-51, 53, 59, 80, 113-116, 133, 142, 158, 261, 307. Consumo equo e solidale, 11, 46, 98. contraddizione (opposizione privativa), 39-43, 46, 205. contrarietà (opposizione qualitativa), 39-43, 205, 298. contratto comunicativo, 159, 163-166, 176, 223. Coop, 152, 203. corpo, 5-8, 49, 68, 97, 116-119, 127129, 134, 140-141, 151, 180, 194195, 204, 223, 259, 265, 293-299, 301-306, 309, 311-312, 316-317, 320-322, 325-332. Corrain Lucia, 274. Corti Maria, 14. Corti Paolo, 257. costituzione, 125-126, 130.

360

Costner Kevin, 203. Courrèges André, 277. Courtés Joseph, 16, 19, 21, 42, 73, 133, 183, 219, 267-268. Cova Bernard, 57, 137. credenza/fiducia, 3, 9-10, 38, 69, 7172, 89, 127, 152, 164-165, 168, 186, 250, 335. Crédit du Nord, 165-166, 223, 316. Croce Benedetto, 207. Croce Rossa, 249. Dagostino Maria Rosaria, 233. Danone, 18. Darth Vador, 167. Dash, 203. Debord Guy, 318. De Certeau Michel, 88, 164, 312, 318. De Chirico Giorgio, 211. De Grazia Victoria, 12. Delacroix Eugène, 31. Deleuze Gilles, 232, 318. De Maria Cristina, 164. Demetra, 310. Deni Michela, 65. Denim, 74. denotazione/connotazione, 24, 26, 198, 226, 256, 261, 285-286, 288, 290, 301, 308. Dentosan, 242. design, 64-70, 104-106, 200-202, 314. destinante, 62-64, 69, 82, 123, 159, 177, 226, 244, 250, 335. – manipolatore, 62, 71-74, 158. – sanzionatore, 63, 75, 78, 158. Diesel, 64, 202, 252, 316. Dimensione Danza, 203. Dior, 277, 301. discorso, discorsivo, 15-17, 33-34, 152157, 159-161, 169-205, 218-254, 264-273, 334. discorso appassionato, 139-142. discorso della passione, 131-138. Disney Walt, disneyano, 36, 122, 132, 214, 216, 292, 317. disposizione, 126-128.

Dkny, 322-323. Dolezˇel Lubomír, 14. Don Giovanni, 114, 292. Douglas Mary, 306. DreamWorks, 216. Duchamp Marcel, 211. Dusi Nicola, 221, 223, 254. Eco Umberto, 14, 16, 20, 184, 265266. effetto di reale, 164, 188. efficacia/efficienza, 118, 154-162, 196, 287. Elizabeth Arden, 302. ellissi, 77-79. emozione, 118, 127-128. enciclopedia, 216, 227. Eni, 152. enunciati del fare o trasformazioni (fare), 38-39, 45, 50-53, 57-59, 69-70, 86, 114, 116. enunciati di stato (essere), 50, 52-53. enunciatore/enunciatario, 157-164, 166-173, 175, 177, 186, 195, 206209, 216-217, 220-221, 229-230, 234-235, 237-239, 244, 266, 335. enunciazione, 15, 31, 64, 85, 139, 152254, 291, 299, 315, 322, 330, 335. Eram, 190. Ericsson, 176, 191, 330. Esprit, 25. Estée Lauder, 132. E.T., 216, 242. Eucerin, 174-175, 177, 189. Eugeni Ruggero, 185-186, 261, 274. Europe 1, 93, 96. Eva, 289. Fabbri Paolo, 16, 87-89, 116, 119-120, 156, 183-184, 221, 223, 306. Fabris Giampaolo, 12, 36, 117-118, 145, 222, 242-243, 257. fàtica (comunicazione), 164. Feldman Jean, 186-188, 191. Ferragamo, 17. Ferrarelle, 242.

361

Ferraresi Mauro, 14, 25, 53, 257, 294, 318. Ferrari, 325. Ferraro Guido, 25, 102-103, 118, 223, 250, 253. figurale, 29, 209, 267-268, 270-273, 303-304. figuratività, 22, 27, 29, 190, 198-199, 260-272, 280-284, 306-307. argomentazioni figurative, 270-273. figurativo/plastico, 260-264, 274276. figurativo/tematico, 28, 223, 224229. gradi di –, 266-267, 292-293. Fiorin José Luiz, 306. Flash Gordon, 109. Flaubert Gustave, 211. Floch Jean-Marie, 12, 22, 29, 42, 46, 65, 79, 86, 91-93, 95, 98, 101-104, 106, 113, 115, 147, 150, 164-165, 186-188, 190-191, 194-198, 203205, 223, 234, 237, 253-254, 260261, 263-264, 267, 270, 277-279, 283, 285, 287-288, 290-292, 294, 301, 306-310, 313-314, 316. Flou, 329. Fodor Jerry, 118. Fontanille Jacques, 16, 43, 119-120, 125, 146, 149, 156, 183, 207, 226, 234-235, 250, 274, 294, 298-302, 309, 330. forma/sostanza/materia, 4, 12, 16, 2021, 27, 73, 141, 145, 154, 157, 159, 208, 218-219, 260, 297, 299-300, 302, 315, 322, 334. forme di vita, 60, 97, 140, 142-151, 171, 279, 289, 335. Forrest Gump, 216. Foucault Michel, 183, 212-213, 318. frame, 29-30. Frankenstein, 273. Freud Sigmund, 212-213. Gale Megan, 242-243. Gallo, 200.

Gambetta Diego, 164. Gandhi, 129-130, 134, 261, 276. Gates Bill, 35. Gatorade, 203. Gatti Piero, 200. generi, 180-206. – dei logo, 198-199. – dei punti vendita, 202. – del design, 200-202. – della pubblicità, 185-197. – delle promozioni, 203. – delle sponsorizzazioni, 203. – del packaging, 198-201. – di marca, 197-206. teoria dei –, 182-184. Genette Gérard, 183. Geninasca Jacques, 16, 164, 267. Gesù, 261. Giannitrapani Alice, VII, 147. Gioconda, 242. Givenchy, 302-303. Glen Grant, 74. Gobé Marc, 117. Goodman Nelson, 211. Goodwin Charles, 265. Goody Jack, 306. Gottdiener Mark, 317. grammatica narrativa, 50-91. Granarolo, 132. Grand Prix, 203. Greimas Algirdas J., 16, 21, 42, 50, 73, 90, 119-120, 125, 133, 146, 164-165, 183, 194, 219, 250, 260, 265, 267268, 294, 306, 312. Grignaffini Giorgio, 183. Gruppo μ, 324. Gucci, 322, 325. Habitat, 104, 112. Hall Edward T., 316. Hall Stuart, 220. Hammad Manar, 312, 315. Hanks Tom, 214. Harley Davidson, 25. Heilbrunn Benoît, 285, 318. Heineken, 64.

362

Hénault Anne, 16. Hermès, 17. Hetzel Patrick, 318. Hewlett Packard, 136, 237. Hjelmslev Louis, 20-21, 208, 299. Husserl Edmund, 295. Ibm, 34, 86, 287-291. idem/ipse, 86. identità, 10-11, 15, 33, 47, 57, 59-60, 85, 86-87, 94, 97, 98-100, 105-106, 114-117, 125, 133, 139, 142, 145, 156, 168, 181, 207, 208-209, 238, 241, 255-332. Ikea, 104, 112, 200. immagine, 15, 86-88, 104, 156, 160161, 255-260. impronta, 5-6, 299, 328-332. Innocenti, 24. intercorporeità, 141, 321-322, 332. intimidazione, 74. Itineris, 291. Jakobson Roman, 12, 164, 206, 211, 306. Jean Paul Gaultier, 97, 301. Joachimsthaler Erich, 12. Johansson Scarlett, 243. Jordan Michael, 32, 203, 241, 243. Jullien François, 90, 184. Kafka Franz, 211. Kaiser, 138, 147. Kapferer Jean-Noël, 10, 12, 197. Keller Kevin, 12. Kenzo, 115. Kérastase, 272-273, 276. Klein Naomi, 12, 45, 149, 253, 286, 291. Kotler Philip, 12, 91, 153. Krock Ray, 292. Label 5, 192. Labello, 176. Lacan Jacques, 295. Lacoste, 11, 200, 325.

Lancioni Tarcisio, 302. Lancôme, 171, 177, 301. Landowski Eric, 16, 65, 72-73, 88, 9091, 119-120, 126, 133, 137-138, 145, 147, 164, 184-185, 234, 301, 305306. Latour Bruno, 65, 227, 287, 330. Lavazza, 36, 240-241. Leonardo da Vinci, 191, 281. lessema, 21-22, 78, 165, 223, 242, 268. Lessing Gotthod E., 79. Lévinas Emanuel, 94. Lévi-Strauss Claude, 138, 234, 253, 295-296, 299, 306, 310. Lipton, 271. logo, 8, 11, 28-29, 121, 149, 154, 165166, 170, 176, 178, 198-199, 237, 256, 266-267, 285-293, 308, 325, 326-329. Lombardi Aldo, 12, 242, 253. L’Oréal, 18, 64, 175, 177, 243. Losito Daniela, 230. Lotman Jurij, 16, 120, 148, 206. Louis Vuitton, 18. Lu, 193. Luhmann Niklas, 164. Lux, 242. Lycos, 135-136. Lyotard Jean-François, 10, 12, 213. Maffesoli Michel, 57. Maggi, 203. Magli Patrizia, 16. Magnum, 24. Mammouth, 313. Manetti Giovanni, 20, 156, 233, 306. Manfredi Nino, 240-241. Mangano Dario, VII, 65, 200. Mangiapane Francesco, VII, 289-291, 316. manipolazione (contratto fiduciario), 71-74, 79-80, 244. mapping delle marche, 44, 101-102. marchiatura, 8-9, 14, 325, 327, 329. Marin Louis, 122, 317. Marithé - François Girbaud, 35, 77.

363

marketing estetico/esperienziale, 53, 117-118, 151, 294, 319. marketing tribale, 57, 137. Marlboro, 23, 31, 36-37, 191, 203. Marmo Costantino, 177. Marrone Gianfranco, 16, 22, 34, 47, 65, 80, 86, 106, 113, 115, 119-120, 123, 147, 156, 168 177, 183-184, 198, 200, 207, 209, 214, 219, 221, 224, 234, 238, 291, 294, 312, 314. Marsciani Francesco, 16, 22. Marx Karl, 110, 191, 212-213. materia, 322-324. Mattia Giovanni, 12, 257. Mattozzi Alvise, 65. Max Mara, 301. Mazzalovo Gérald, 12, 101. McDonald’s, 28, 46, 121, 198, 252, 291-292. McLuhan Marshall, 130. Meda Alberto, 201. Medea, 127. Melchiorri Alessandro, 129, 136. Mercedes, 202, 291, 319-320. Merleau-Ponty Maurice, 259, 265, 295. metaistanza enunciativa, 241, 245, 247, 249, 252-253. Miceli Silvana, 13. Michel Bras, 198-199, 223, 301, 306310. Michel Philippe, 186, 188-190. Microsoft, 34-35, 98, 150, 290-291. Migliore, 77. Minestroni Laura, 12, 36, 117-118, 222, 257. moda, 145, 147, 252, 276-284. modalità (volere, dovere, potere, sapere), 58-62, 69, 71-74, 80, 84-85, 120, 158-160, 164, 185, 227, 235, 244, 308, 314-315. moderno/postmoderno, 10, 12, 141, 145, 149, 210, 213, 217, 233-234, 250. Monachesi Roberto, 285. mondo possibile, 13-16, 215, 252.

Monroe Marilyn, 273. Montanari Federico, 88-89. Montanari Massimo, 306. Montblanc, 302. Montes Stefano, 147. moralizzazione, 129-130. Morcagni Simone, 48. Morellato, 25. Morris Charles W., 156. Mtv, 291. Muji, 13, 47. Mulino Bianco, 24, 33, 36, 48, 133, 242, 285. Müller, 191, 195. Musso Patrizia, 48, 122, 242-243, 318. Nardi, 329. narratività, 36-38, 45, 52-53, 116, 123, 140, 142, 256, 312. Navorski Viktor, 214. Nergaard Siri, 223. Nescafé, 132. Nespresso, 172-173, 190. News, 147. Newson Marc, 201. Newton Isaac, 29, 289. Nike, 7, 24, 29, 32, 64, 77, 82-83, 99100, 177, 179-180, 198, 202-203, 209, 240-241, 291, 318, 326. Noè, 270-271. Nokia, 18, 25, 330. nome proprio, 24-26, 154, 166, 170, 172, 212-213, 235, 272, 280, 303, 325-326. Novak Kim, 242. oggetti (semiotica degli), 64-70, 200202. oggetto di valore, 52, 54-56, 58-60, 6970, 80-81, 85, 97, 113, 123-124, 133, 146, 292, 307. Ogilvy David, 186-189. Olio Cuore, 152. olismo, 259, 320. Oliveira Ana Claudia de, 147, 316.

364

Omnitel, 33, 86, 106-112, 191, 195, 242, 291. Orwell George, 288. Orzobimbo, 24. Ostillio Maria Carmela, 12. Otello, 127. Pampero, 129. Panasonic, 193. Panofsky Erwin, 269. Panzani, 261. Paolini Cesare, 200. Paperone, 132. Parret Herman, 88, 119, 164. Pasca Vanni, 257. passioni, 89, 114, 119-142. – collettive, 137-138. – senza nome, 120-126. patemizzazione, 127. Peirce Charles S., 164. Pepsi-Cola, 21, 64. percorso definitorio della marca, 153154. percorso passionale canonico, 125-131. performance, 67-71, 77, 80, 83, 87, 127, 227. Perini Alessandro, 257. Perlana, 193-195. Perri Antonio, 239. Perugina, 74. Pezzini Isabella, 119, 149, 211, 287, 318. Philips, 65-66. Pin-Up Stars, 326-327. Pippo, 122, 132. plastica (semiotica), 238, 274-285, 288291, 308-309, 324. plastico/figurativo, 260-264. Poiret Paul, 277. polemica (narrativa), 84-85. Polhemus Ted, 145. Porsche, 136, 139-140, 237. Pozzato Maria Pia, 16, 146. Prada, 170, 193, 325. prassi enunciativa, 231-236. Pratesi Mattia, 12, 257.

Prato Alessandro, 306. Premiata, 77. presenza (gradi di), 236-237. presupposizione, 19, 83-84, 123, 145, 208, 286, 302, 311-312, 314, 328. profondità enunciativa, 231-233. programma narrativo, 57-58, 67, 70, 87-88, 123, 135, 308. – di base, 60-61, 69, 92-93. – d’uso, 60-61, 69, 72, 92-93. Propp Vladimir J., 7, 69, 102, 143, 163, 215. Proust Marcel, 211. provocazione, 73-74. Puma, 81, 83, 99-100, 177-180, 198. punto di vista, 229-231. quadrato semiotico, 14, 39-45, 92, 94, 106, 111, 113, 177-178, 195, 204. operazioni nel –, 44-46, 105. relazioni nel –, 39-44. termini di seconda generazione, 4648. timismo e assiologie nel –, 48-50, 120. 40WEFT, 31. Quart Alissa, 12, 325. Ralph Lauren, 132, 202, 318-319. Rana, 24, 203. Rastier François, 16, 19, 21, 42, 183, 207, 268. Ratp, 291. realizzato (soggetto), 58-60. Red Bull, 203. regimi discorsivi, 102-104. Remaury Bruno, 12, 36. Renault, 198, 224, 226, 265. Ricci Piero, 306. Ricoeur Paul, 86. Ritzer George, 318. Robinson Crusoe, 216. Roversi Patrizio, 203. Rowling Joanne Kathleen, 214. ruolo mediatico, 31-32, 216. ruolo patemico, 122, 132.

365

ruolo tematico, 110, 122, 216. Russo Dario, 257. Russo Luisa, 150. Saab, 132. Sahzá, 325. sanzione, 75-78, 82-83, 108, 123, 128129, 227. Sbisà Marina, 120. Schelling Friedrich W., 206. schema narrativo canonico, 70-91, 125, 130, 140, 142-143. Schmitt Bernd H., 53, 117-118, 294. Scott Ridley, 288. Scott Walter, 12, 91, 153. Sédatonyl, 263, 275-276. seduzione, 74, 78, 301, 303. Segre Cesare, 19, 183. Séguéla Jacques, 12, 24, 31, 104, 112, 164, 186-188, 190-191, 197, 292. semisimbolismo, 134-136, 209, 261263, 275-276, 288, 290. Semprini Andrea, 12, 14-15, 48, 65, 101-103, 122, 141, 153, 184, 239, 246-250, 252, 272, 291, 317-318. sensibilizzazione, 126-128. Sephora, 202. Shamir, 326. Shell, 54, 126, 266-267, 292. Sicard Marie-Claude, 12. Simca, 93. Simonson Alex, 53, 117. sinestesia, 259, 295, 298, 300-301, 304-305. sintassi figurativa, 300, 302-303. – del gusto, 302-310. – dell’olfatto, 301-304. – del tatto, 324. Sip, 242. Skol, 138, 147. Slow food, 45-46. Smart, 24. soggettività/oggettività, 169-171, 197206. soggetto di stato, 52-53, 56, 58-60, 158. soggetto/oggetto, 51-52.

soggetto operatore, 52-53, 56, 58-60, 69-70, 159. soggetto strategico, 87. Sole Piatti, 261, 275. Sony, 123, 176, 191. spazialità, 110, 297, 311-318, 320-323. Spaziante Lucio, 221, 254, 301. Spears Britney, 244. Spielberg Stephen, 214-216. Spontex, 192. Star, 64. Starbucks, 18, 198, 317. Starck Philippe, 65. stile, 181-182, 197, 206-210, 277-279, 334. stili di vita, 26, 55, 105, 140, 143-145. strategia/tattica, 86-91, 159-161, 177179. Strauss Johan, 228. Super Glue, 188. Superman, 109. SuperService, 330. Swann, 127. Swatch, 329. Tactel, 326. Taverna Licia, 147. Telecom, 36, 106, 129, 134, 261, 276. tema/tematico, 17-35, 264. tematico/figurativo, 28, 223-229. tensione, 44-45, 88, 121-122, 235. tentazione, 74. Teodoro Franco, 200. Teotti Rita, 291, 319. testimonial, 26, 32, 110, 172-174, 186, 241-245. testo, 20, 148, 159, 184, 206, 218-219, 298. –/discorso, 153-154, 160-161, 183, 219-221, 228. –/intertesto, 16, 31, 221-222, 228, 249, 253, 256. Thierry Mugler, 301. Thoenig Jean-Claude, 12, 197. Tim, 25, 27, 33, 86, 106-112, 291. Tomasˇevskij Boris, 19.

366

Torrini Claudia, 313. Toscani Oliviero, 32, 35, 50, 198, 246248, 250, 270, 327. Toschi, 200. traduzione, 18, 34, 113, 133, 144, 221223, 256, 302. – intersemiotica, 222-223. Traini Stefano, 130, 301. Tre Marie, 132. Trenitalia, 198. Trentino (Regione), 329. Trubeckoj Nicolaj, 12. Uspenskij Boris, 120. Valenti Mario, 274. valenza, 44, 63, 71, 82, 90, 148, 245, 251. Valleverde, 203. valorizzazioni, 91-111. – critica, 96, 99-100, 105, 111, 333. – ludica, 96, 99-100, 105, 109, 111, 113, 292. – pratica, 95, 98-100, 105, 111, 278, 296. – utopica, 96-97, 99-100, 105, 107, 111, 113-115, 237, 278. Ventura Ilaria, VII, 198. Verlaine Paul, 300. Versace, 45, 122, 209, 280-284. Vichy, 330.

Villa Federica, 183. Villaggio Paolo, 200. Vinitaly, 203. Violi Patrizia, 13, 20, 118. Virgin, 24. virtuale (soggetto), 58-60, 73. Vitra, 201. Vodafone, 203, 242. Volkswagen, 152, 275. Volli Ugo, 14, 16, 64, 88, 169. Volvo, 97. Waterman, 114-115, 123, 237-238. Weber Max, 144. Weibel Peter, 287. Windows, 150, 290. Wittgenstein Ludwig, 145-146, 156, 164. Wolf Mauro, 183. Wölfflin Heinrich, 278-279, 282, 316. Yomo, 25. Zanotta, 200. Zara, 202. Zerbinati Emanuela, 230. Zilberberg Claude, 43, 149, 234-235, 250. Zinna Alessandro, 16, 22, 68, 265. Zorro, 167.

Indice del volume

Premessa

V

1.

3

Destini ciclici di un segno puro 1.1. Natura semiotica della marca, p. 3 - 1.2. Dispiegamenti lessicali, p. 5 - 1.3. Corpi marchiati e rivendicazioni di proprietà, p. 7 - 1.4. Dal mondo possibile all’istanza discorsiva, p. 12

2.

Universi tematici

17

2.1. Una felice ambivalenza, p. 17 - 2.2. La doppia costrizione del contenuto tematico, p. 19 - 2.3. Una cerniera fra narrativo e figurativo, p. 22 - 2.4. Forme di denominazione, p. 24 - 2.5. L’esplicitazione tematica, p. 28 - 2.6. Performance discorsive e processi traduttivi, p. 33

3.

Raccontare per credere

36

3.1. Narrazione e narratività, p. 36 - 3.2. Strutture elementari della significazione, p. 38 - 3.2.1. Tre relazioni fondamentali, p. 39 - 3.2.2. Due operazioni di base, p. 43 - 3.2.3. Termini di seconda generazione, p. 46 - 3.2.4. Timismo e assiologie, p. 48 - 3.3. Elementi di grammatica narrativa, p. 51 3.3.1. Soggetto/Oggetto, p. 52 - 3.3.2. Fare ed essere, p. 52 3.3.3. Oggetti di valore, p. 54 - 3.3.4. Attanti e attori, p. 56 3.4. Programmi, modalità, identità, p. 58 - 3.4.1. Virtuale, attuale, realizzato, p. 58 - 3.4.2. Programmi di base e d’uso, p. 60 - 3.4.3. Il Destinante, p. 62 - 3.5. Lo schema narrativo canonico, p. 70 - 3.5.1. Allusioni e argomentazioni nascoste, p. 77 - 3.5.2. La presupposizione, p. 83 - 3.5.3. Polemiche narrative, p. 84 - 3.5.4 Strategie e tattiche, p. 86 - 3.6. Valorizzazioni e forme di razionalità, p. 91 - 3.6.1. L’assiologia dei consumi, p. 92 - 3.6.2. Percorsi e posizionamenti, p. 104 - 3.6.3. Conquiste e nuovi problemi, p. 111 - 3.7. Logiche dell’affetto, p. 116 - 3.7.1. Affetti ed effetti, p. 119 - 3.7.2. Un percorso canonico, p. 125 - 3.7.3. Passioni dette, rappresentate, vis-

369

sute, p. 131 - 3.7.4. Il discorso appassionato, p. 139 - 3.8. Forme di vita, p. 142

4.

Produzione e riproduzione del discorso

152

4.1. Testo, contesto, discorso, p. 152 - 4.2. Comunicazione simulata ed efficacia discorsiva, p. 154 - 4.2.1. Conversazioni, p. 155 - 4.2.2. Rituali d’enunciazione, p. 163 - 4.3. Per una tipologia dei discorsi di marca, p. 169 - 4.3.1. Soggettività e oggettivazioni, p. 169 - 4.3.2. Norme sociali e specificazioni individuali, p. 180 - 4.3.3. Generi pubblicitari, p. 182 - 4.3.4. Generi di marca, p. 197 - 4.3.5. Emergere dello stile, morte dell’autore, p. 206 - 4.4. Intertestualità, interdiscorsività, intermedialità, p. 218 - 4.4.1. A monte e a valle, p. 219 - 4.4.2. Traduzione e coerenza, p. 222 - 4.4.3. Punti di vista, p. 229 4.5. Prassi enunciative, p. 231 - 4.5.1. Lo spessore del discorso, p. 232 - 4.5.2. Gradi di presenza, p. 236 - 4.5.3. Un imbuto discorsivo, p. 239 - 4.5.4. La legittimazione sociale, p. 245 - 4.5.5. Valenze discorsive e testi modulari, p. 250

5.

Dall’identità visiva all’identità estetica

255

5.1. Visioni, immagini, immaginario, p. 255 - 5.2. Figurativo e plastico, p. 260 - 5.3. Argomentazioni figurative, p. 264 5.4. Categorie plastiche, p. 274 - 5.5. Il caso dei logo, p. 285 - 5.6. Esperienza estesica e corporeità, p. 293 - 5.6.1. Le sinestesie olfattive, p. 298 - 5.6.2. Bricolage culinari, p. 304 5.6.3. Spazi e soggettività, p. 311 - 5.7. Superfici d’iscrizione: dal marchio all’impronta, p. 320 - 5.7.1 L’estesia tattile, p. 321 - 5.7.2. Marchi enunciati e impronte enuncianti, p. 325

Conclusione

333

Bibliografia

337

Indice analitico

359