Il discorso amoroso. Melodramma e commedia nella Hollywood degli anni d'oro 8878704628, 9788878704626

Opera con copertina morbida in brossura. 211 p. ; 21 cm. Y.14. Ottimo (Fine)

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Italian Pages 220 [224] Year 2010

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Il discorso amoroso. Melodramma e commedia nella Hollywood degli anni d'oro
 8878704628, 9788878704626

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cinema/studio collana diretta da Orio Caldiron

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ROBERTO CAMPARI

IL DISCORSO AMOROSO MELODRAMMA E COMMEDIA NELLA HOLLYWOOD DEGLI ANNI D’ORO

BULZONI EDITORE

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I edizione 1990 II edizione 2010

TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941 ISBN 978-88-7870-462-6 © 2010 by Bulzoni Editore 00185 Roma, via dei Liburni, 14 http://www.bulzoni.it e-mail:[email protected]

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INDICE

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Melodramma e commedia

13 15 22 31 36 40 47

MELODRAMMA ANNI TRENTA L’amore oltre la morte Donne sublimi: la Garbo e la Dietrich L’eroina trasgressiva Il tabù del sesso L’amore e la storia La commedia-melodramma

51 53 61 66 70 74

COMMEDIA ANNI TRENTA Le signorine ricche e strane. Ereditiere e Cenerentole Maschile e femminile La spregiudicatezza di Lubitsch Le favole politiche di Capra Truffatori rispettabili

77 79 84 93

MELODRAMMA ANNI QUARANTA Amore e guerra Perfide signore Storie di romanzi

101 103 108 112 119 123 126

COMMEDIA ANNI QUARANTA La felicità coniugale Il tema del doppio Rapporti di classe La guerra dei sessi Commedie e guerra Commedie fantastiche

5

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INDICE

131 133 139 146 150 157 161

IL MELODRAMMA FINO AGLI ANNI SESSANTA Padri e figli Erotiche ossessioni Rapporti interrazziali I «remakes» Storie colorate Scrittori e musicisti

167 169 173 176 181 187

LA COMMEDIA FINO AGLI ANNI SESSANTA Principesse e nuove Cenerentole L’immagine di Marilyn Ambiguità di Wilder Ulteriori apologie del matrimonio La Crisi: riguardando agli anni Trenta

191

Postfazione

197 199 206

INDICI Indice dei nomi Indice dei film

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MELODRAMMA E COMMEDIA

Se si prescinde dal significato più comune d’opera teatrale con musica e canto, la parola «melodramma» crea qualche problema di interpretazione. Esiste infatti un genere così chiamato che incomincia nel teatro europeo dopo la Rivoluzione Francese e che, secondo Peter Brooks1, rappresenta «un elemento vitale per l’immaginario moderno»2 resistendo fino al decennio 1860-1870, per essere poi soppiantato, sempre a suo dire, dal cinema e quindi dalla televisione. Non a caso il genere nasce dopo la Rivoluzione: come storicamente è sempre stato riconosciuto3 insieme all’«ancien régime» tramontarono forme teatrali quali la tragedia e la commedia in costume, mentre si sviluppò notevolmente il romanzo, affine, per molti versi, al Melodramma. Ciò non significa che quest’ultimo abbia, di per sé, un contenuto rivoluzionario: è ancora Brooks ad osservare che le sue implicazioni sociali potevano essere sia rivoluzionarie che conservatrici, a seconda degli autori, ma il suo linguaggio, poiché si sforzava di rendere immagini chiare e comprensibili a chiunque, lo trasformava in un genere democratico4. Se il romanzo diventò forma primaria grazie alla sempre maggiore privatizzazione dell’arte determinata dal trionfo sociale della borghesia, il Melodramma fu, in un certo senso, la forma teatrale più vicina al romanzo; come, lo vedremo, una volta consolidatisi i generi nel cinema, sarà proprio il Melodramma filmico il genere che più si alimenterà dalla narrativa letteraria. 1 Per la trattazione del genere letterario, e per la relativa bibliografia, che è vastissima, si rimanda a Peter Brooks, L’immaginazione melodrammatica, Parma, Pratiche, 1985. 2 Ivi, p. 8. 3 Basti citare testi fondamentali come quello di René Welleck e Austin Warren, Teoria della letteratura, Bologna, il Mulino, 1956; Jean Duvignaud, Le ombre collettive. Sociologia del teatro, Roma, Officina, 1974; Robert Scholes e Robert Kellogg, La natura della narrativa, Bologna, il Mulino, 1970; e soprattutto Gyorgy Lukàcs, Il dramma moderno, Milano, Sugar, 1976. 4 Peter Brooks, L’immaginazione melodrammatica cit., p. 33.

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IL DISCORSO AMOROSO

Espressione del Romanticismo, o sua premessa, il Melodramma non ha solo analogie col romanzo gotico 5, ma anche col romance secondo la definizione datane da Frye, cioè rappresentazione del sogno e ricerca di una mitica età dell’oro, storie di avventure e di amori «casti»6. L’affinità tra Melodramma ed esperienza onirica, per cui il genere diventa «il naturalismo dei sogni»7, rende comprensibile il rapporto con la psicanalisi, definita addirittura da Brooks «realizzazione sistematica dell’estetica del melodramma, applicata alle strutture dinamiche della mente»; anzi la psicanalisi verrebbe ad essere una «realizzazione o codificazione moderna» del genere letterario8. Se pensiamo alle teorie di Freud sull’amore, in particolare al saggio Sulla tendenza universale alla devalorizzazione nella sfera dell’amore 9 non possiamo che trovare conferme a queste ipotesi. Il meccanismo individuato da Freud per cui la libido è accresciuta se trova degli ostacoli mentre il valore psichico dei bisogni erotici è ridotto quando diventa facile il loro appagamento, meccanismo che indusse gli uomini nei secoli a costruirsi degli impedimenti artificiali, quando quelli naturali non bastavano, per godere maggiormente le gioie dell’amore, corrisponde esattamente alle costanti individuate da Denis De Rougemont nella letteratura occidentale, a cominciare dal Medio Evo, a proposito dell’amore10. L’amore sublime, quello che non trova realizzazione in questo mondo e che può condurre alla distruzione, è componente costante nella nostra cultura e motivo che passa, per ammissione dello stesso De Rougemont, alla letteratura popolare e al cinema. Se quest’ultimo è «la forma estetica contemporanea che più si è avvicinata al melodramma e ha finito praticamente per soppiantarlo»11 ciò è accaduto sia per la mediazione costituita 5

Ivi, p. 38. Cfr. Northrop Frye, Anatomia della critica, Torino, Einaudi, 1969. 7 Eric Bentley, Melodramma, in The Life of the Drama, New York, Atheneum, 1964, cit. da Brooks, p. 57. 8 Peter Brooks, L’immaginazione melodrammatica cit., pp. 263-264. 9 Pubblicato in Sigmund Freud, Psicologia della vita amorosa, Roma, Newton Compton, 1970. 10 Denis De Rougemont, L’amore e l’Occidente, Milano, Rizzoli, 1977. 11 Peter Brooks, L’immaginazione melodrammatica cit. p. 31; scrive invece De Rougemont, il cui libro uscì in prima edizione nel ’39: «Ma ormai i romanzi da dozzina in serie, il teatro “di successo”, e finalmente il film, ci danno maggiori indicazioni sul calare del mito nei costumi, che non i capolavori» (pp. 288-89); «Questa volontà di godere del mito, ma senza pagarlo troppo caro, la vediamo espressa in tutta ingenuità nel film sentimentale» (p. 291). 6

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MELODRAMMA E COMMEDIA

dalla letteratura popolare, sia per il ruolo primario assunto dalla musica anche nella narrazione filmica; ma il discorso va riferito pure ad elementi di tipo narrativo, in particolare a questa rappresentazione mitizzata dell’amore per cui il Melodramma «non può prefigurare la nascita di una società nuova»12 cosa che invece attiene alla Commedia. Il punto di vista della vittima e la tensione del desiderio verso un oggetto irraggiungibile, caratteristiche del Melodramma filmico secondo Elsaesser 13, sono al contrario motivi assolutamente estranei alla Commedia. Quest’ultima naturalmente ha una tradizione ben più lunga, come genere teatrale, rispetto al Melodramma; Aristotele nella Poetica la definisce «imitazione di persone più volgari dell’ordinario», ma con una volgarità poi precisata e circoscritta al ridicolo, che «è qualcosa di sbagliato e di deforme senza essere però cagione di dolore e di danno»14. Dunque, all’interno di quel concetto di mimesi che informa l’intera poetica aristotelica, due dati fondamentali: la Commedia è imitazione degli aspetti inferiori dell’umanità, ma imitazione serena e innocua. Questa idea di serenità, a proposito della Commedia, è ripresa da Hegel che ne fa l’espressione quasi divina dell’animo conciliato15, «l’impassibilità degli dei trasferita agli uomini». Ecco perché anche nel cinema, se il desiderio amoroso resta tema primario della Commedia16, è comunque, a differenza del Melodramma, desiderio verso un oggetto raggiungibile (e dunque il punto di vista non è quello di una vittima) che verrà anzi raggiunto dopo la chiusura del racconto, attraverso la normalità quotidiana dell’istituzione matrimoniale, opposta al sublime irraggiungibile delle passioni melodrammatiche. Nell’apparente irrealismo, per cui spesso si apparenta alla fiaba come modelli narrativi17, la commedia cinematografica americana è invece gene-

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Peter Brooks, L’immaginazione melodrammatica cit., p. 268. Cfr. Thomas Elsaesser, Storie di rumore e furore. Osservazioni sul melodramma familiare, in «Filmcritica», n. 339-340, novembre-dicembre 1983. 14 Cfr. Aristotele, Opere, vol. X, Retorica, Poetica, Bari, Laterza, 1973, p. 201. 15 Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Estetica, Torino, Einaudi, 1967, p. 1963 e 1965. 16 Si veda il n. 33 di «Cinema & Cinema», ottobre-dicembre 1982, dedicato alla Commedia, e in particolare il saggio di Enrico Giacovelli, La commedia del desiderio. 17 Cfr. il mio saggio Il modello e le contaminazioni in «Cinema & Cinema», n. 33, cit. 13

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IL DISCORSO AMOROSO

re più adatto ad esprimere la «società nuova», dunque più realistico. Ben inteso non si vuole dire «realismo» nella forma, ma nel significato profondo del genere; un po’ come dice Bettelheim per le fiabe in Il mondo incantato: il bambino sa che è impossibile la felicità eterna nella quale si risolvono le vicende dei protagonisti delle fiabe; ma intuisce anche che c’è al di sotto una verità profonda sul modo in cui egli dovrà orientare, una volta adulto, la sua vita reale18. I personaggi della Commedia se pure, come nota Bergson, «bevono, mangiano e si riscaldano» a differenza degli eroi e delle eroine della tragedia19, sono altrettanto falsi cioè frutto di costruzione letteraria, rispondenti a tipologie narrative e a canoni estetici, degli eroi e delle eroine del Melodramma. Ma mentre i primi indicano, per usare ancora l’espressione di Bettelheim a proposito delle fiabe, «qual’è l’unica cosa che può farci sopportare gli angusti limiti del nostro tempo su questa terra: la formazione di un legame veramente soddisfacente con un’altra persona»20, i personaggi del Melodramma vedono frustrato il raggiungimento di quell’obbiettivo, tanto più desiderabile quanto più irraggiungibile: e se da una parte sembrano espressione reale dei meccanismi dell’inconscio e della vita affettiva così come sono teorizzati da Freud, dall’altra si pongono in zone non costruttive rispetto all’esperienza quotidiana. E se il cinema compare nei testi teorici di De Rougemont e di Brooks sul Melodramma, compare anche, a proposito della Commedia, nelle teorizzazioni di Northrop Frye o di Scholes e Kellog21. La Commedia è, per Frye, «mythos della primavera», lato gioioso dello schema stagionale scelto dall’autore; per questo, egli dice, nel cinema tutto tende all’amplesso, fuori scena come la morte nella tragedia greca. Ma mentre il finale della tragedia significa proprio fine, morte (e nel Melodramma, aggiungiamo, magari amore oltre la morte, come sola possibilità di appagamento amoroso), quello della Commedia, al contrario, è sempre un inizio.

18 Bruno Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicanalitici delle fiabe, Milano, Feltrinelli, 1977, p. 16. 19 Henry Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, Bari, Laterza, 1982. 20 Cfr. Bettelheim, Il mondo incantato, cit., p. 16. 21 Northrop Frye, Anatomia della critica cit.; Robert Scholes e Robert Kellogg, La natura della narrativa cit.

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MELODRAMMA E COMMEDIA

Analizzeremo dunque parallelamente i due generi Melodramma e Commedia (più facilmente classificabile la seconda del primo, che spesso presenta commistioni complesse) all’interno della cinematografia di maggiore diffusione internazionale, quella americana, nei decenni ormai solitamente definiti periodo «classico» o anni d’oro di Hollywood, cioè quelli che vanno dall’avvento del sonoro e dal trionfo dello Studio System, fino alla grande crisi degli anni Sessanta, che determina trasformazione dei modi produttivi e, parallelamente, mutamento radicale dei modelli di cultura22.

22 Si vedano almeno, per quanto concerne gli studi più recentemente usciti sulla Hollywood «classica», il libro di David Bordwell, Janet Staiger e Kristin Thompson, The Classical Hollywood Cinema, London, Melbourne and Henley, 1985, e l’altro del solo David Bordwell, Narration in Fiction Film, London 1985, oltre che, per il periodo che più direttamente ci interessa (Bordwell infatti parte dagli anni del cinema muto), A Certain Tendency of the Hollywood Cinema 1930-1980, di Robert B. Ray, edito dalla Princeton University Press sempre nel 1985.

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MELODRAMMA ANNI TRENTA

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L’AMORE OLTRE LA MORTE

Come abbiamo detto, è la grande mitizzazione del sentimento amoroso propria del Melodramma ad ispirare il tema del ricongiungimento degli amanti dopo la morte; un tema che il cinema fa suo a cominciare circa dagli anni Venti (la prima versione di Smilin’ Through è del ’23), ma che trova buon sviluppo soprattutto nel decennio successivo, quando si assiste a un più deciso consolidarsi del genere. Riferibile in parte al romanzo gotico, anche se i fantasmi che vi appaiono non sono mai presentati in termini terrificanti, ma anzi, al contrario, nei termini consolatori di un «happy end» che dura per l’eternità, questo motivo è collegato da Kobal1 alla cultura tardoromantica. C’è comunque quasi sempre un romanzo alla base delle sceneggiature di questi melodrammi; oppure, e come abbiamo visto fa poca differenza, un melodramma teatrale: il che accade ad esempio per il citato Smilin’ Through, da un dramma di Jane Murfin e Jane Cowl, che viene rifatto alla MGM nel ’32 (il titolo italiano è Catene) con la regia di Sidney Franklin e con Norma Shearer nel ruolo della donna che, uccisa da uno spasimante respinto proprio nel giorno delle nozze, può ricongiungersi al marito sempre vissuto nel ricordo di lei (e interpretato in questa versione da Leslie Howard) quando lui, vecchio, muore. In altri due film dello stesso anno troviamo, sia pure trattato diversamente, lo stesso motivo: in One Way Passage (Amanti senza domani, 1932) di Tay Garnett (Warner Bros) dove lui (William Powell) deve morire sulla sedia elettrica, mentre lei (Kay Francis) ha una malattia mortale; si incontrano su una nave, si amano, ciascuno viene a sapere dell’altro, ma non se lo dicono e si danno appuntamento in un certo locale la sera di Capodanno. Nell’epilogo vediamo il luogo dell’appuntamento mancato: il barista e un socio assistono, allibiti, al movimento di due bicchieri che tintinnano scontrandosi per brindare e si rompono:

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John Kobal, Romance and the Cinema, London, Studio Vista, 1973.

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MELODRAMMA ANNI TRENTA

cioè, legge lo spettatore, i due amanti sono finalmente ricongiunti nell’aldilà, dato che, come in Catene, il loro amore è stato impedito sulla terra. In a Farewell to Arms (Addio alle armi, 1932) di Frank Borzage (Paramount) i cambiamenti rispetto al romanzo di Hemingway, uscito tre anni prima, sono tutti in funzione degli schemi di un genere filmico nel quale il regista era specializzato: così, prima di tutto, l’ostilità dell’ufficiale medico Rinaldi e dell’infermiera Ferguson all’amore dei protagonisti che non trova altra giustificazione se non quella di aggiungersi alle vicende della guerra nel rappresentare un «impedimento», dato che fanno entrambi di tutto, separatamente, per tenere lontani i due amanti. Infatti, nel film, solo dopo che Henry (Gary Cooper) è arrivato al punto di mettere un annuncio sul giornale per ritrovare Catherine (Helen Hayes), già in Svizzera da tempo e incinta, Rinaldi si decide a rivelare dove si trova la donna; ma Henry riesce a raggiungerla solo quando lei è già sotto i ferri del chirurgo; possono appena parlarsi, in un dialogo finale che sembra proprio il duetto dell’ultimo atto della Traviata, col bel progetto di comprare una casetta in montagna. L’ultima battuta è sull’unione nella vita e nella morte; poi, quando lei è spirata, Henry la solleva dal letto e c’è lo strascico bianco del lenzuolo che segue sinuoso mentre lui la porta verso la finestra (proprio come, lo vedremo, Wyler vorrà nella scena della morte di Wuthering Heights) con stacco e immagine di bianche colombe verso il cielo, evidente simbolo delle loro anime ricongiunte. Con scelta di finale evidentemente molto diversa dalla secca chiusura di Hemingway, con Henry che si allontana solo sotto la pioggia. L’impossibilità amorosa è ben più forte e il rapporto risolto solo nel desiderio, in termini filmici espresso dal sogno, in The Bitter Tea of General Yen (L’amaro tè del generale Yen, 1933) di Frank Capra (Columbia) da un romanzo di Grace Zaring Stone, che come dice Sklar offre «una fantasia di sesso interrazziale»2 proponendo l’amore tra un donna bianca e un uomo cinese, tema talmente tabù a quei tempi da far proibire il film in molti paesi, tra cui l’Inghilterra.

2 Cfr. Robert Sklar, Cinemamerica. Una storia sociale del cinema americano, Milano, Feltrinelli, 1982, p. 242.

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L’AMORE OLTRE LA MORTE

I termini narrativi sono tradizionali, sebbene in certe scene il film possa far pensare a L’age d’or di Buñuel (1930); c’è la sequenza di un sogno in cui Megan (Barbara Stanwick) prigioniera nella improbabile, lussuosa dimora del generale Yen (Nils Atsher), già plastica immagine del desiderio irraggiungibile, vede il cinese come un mostro dalle orecchie smisurate e dagli artigli che spacca la porta e avanza per possederla; arriva però un eroe elegante, mascherato; l’altro fugge e la donna si rifugia tra le braccia dell’eroe che non si rivela, come si poteva intuire, il fidanzato bianco di Megan, bensì lo stesso Yen. Ma le suggestioni della psicanalisi e il rapporto più diretto con L’age d’or sono ancora più avvertibili nell’immagine della parte finale, quando Megan, che sta per cedere all’amore, siede davanti alla toilette per truccarsi e vede, nello specchio, se stessa che bacia Yen: come non pensare alla magrittiana scena dello specchio-cielo3 nel film di Buñuel? Nel finale, dopo che il generale, rovinato politicamente, ha bevuto il tè avvelenato, sulla giunca che li riporta a Shangai un amico dice a Megan di sperare di rincontrare un giorno, in un’altra vita, il nobile cinese suicida; e aggiunge d’essere sicuro che ci sarà anche lei. Mentre dunque in questo film il motivo dell’amore oltre la morte è delegato solo alla battuta di un personaggio minore, più spesso abbiamo la materializzazione, sullo schermo, del ricordo e del desiderio di un personaggio, come accade in The Wedding Night (Notte di nozze, 1935) di King Vidor (United Artists), che nelle prime scene, sull’ambiente newyorkese dello scrittore in crisi Tony (Gary Cooper), fa pensare ad una commedia. Ma che diventa poi un melodramma quando l’uomo resta solo a scrivere in una casa di campagna per cercare un più autentico rapporto con la terra e la sua gente (sono già anni di Roosevelt e della sua politica agraria). Ne nasce infatti un romanzo che si intitola Return to Earth e che gli è ispirato soprattutto da una contadina vicina di casa, Manya, figlia di un immigrato polacco; la interpreta Anna Sten, attrice russa chiamata ad Hollywood e messa da Samuel Goldwyn per la seconda volta in un ruolo di contadina slava dopo We Live Again (Resurrezione, 1935) di Rouben Mamoulian dal romanzo

3 Sul tema dell’«amour fou» nel Surrealismo e sui rapporti tra questa cultura e Luis Buñuel, analizzato soprattutto attraverso Un chien andalou e L’age d’or, si veda Felice Troiano, Surrealismo e psicanalisi nelle prime opere di Buñuel, Parma, Centro Studi Archivio della Comunicazione dell’Università, 1984.

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MELODRAMMA ANNI TRENTA

di Tolstoi. Tra la ragazza e lo scrittore nasce un’attrazione impedita non solo dal fatto che l’uomo è sposato (sia pure in crisi anche con la moglie, come la morale filmica di questi anni voleva) ma dalla mentalità chiusa e tirannica del contadino polacco che costringe la figlia a sposare l’uomo cui è promessa. Nella stessa notte di nozze però Manya muore, mentre tenta di salvare Tony dalla gelosia furiosa del marito. Dopo questo «sacrificio», nonostante la moglie cerchi di riconquistarlo (e c’è stata tra le due donne una scena giustamente definita pirandelliana4, perché esse parlano di se stesse attraverso i personaggi del romanzo che hanno ispirato) Tony riafferma il suo amore imperituro per la ragazza morta. Racconta di come la vedeva ogni mattina arrivare dai campi e fargli un segno di saluto da lontano; si avvicina alla finestra e compare, nella neve, l’immagine di Manya che saluta e poi svanisce: visualizzazione del pensiero del protagonista, è questa dunque una soggettiva un po’ particolare che ripropone lo stilema del fantasma d’amore. La più completa e quasi paradigmatica trattazione della persistenza del sentimento oltre i termini della vita naturale, e anzi, proprio in chiave psicanalitica, della sua unica possibilità di realizzazione nel sogno, è rappresentata da Peter Ibbetson (Sogno di prigioniero, 1935) di Henry Hathaway (Paramount), seconda e più famosa versione (la prima era stata nel ’22) di un romanzo fineottocentesco e film, se pure un po’ ingenuo, non a caso molto amato dai Surrealisti, da Bréton in particolare5. Il soggetto è molto freudiano: Peter e Mary si conoscono, si amano e vengono un po’ traumaticamente separati nell’infanzia. Quando lo rivediamo ormai architetto, Peter (Gary Cooper) rifiuta compagnie femminili; il direttore del suo studio che, in quanto cieco, afferma di vedere meglio le verità più profonde, gli consiglia di tornare sui luoghi dell’infanzia: Peter ci va con una ragazza incontrata casualmente (Ida Lupino), ma l’esperimento non riesce. Però poi conosce una duchessa

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Cfr. René Jordan, Gary Cooper, Milano, Milano Libri, 1978. Si veda su questo punto quanto scrive Ado Kyrou in Le Surréalisme au cinéma, Paris, Le Terrain Vague, 1963, p. 127: «Cette victoire sur le temps et sur la mort est le thème de ce “film prodigieux, triomphe de la pensée surréaliste qu’est Peter Ibbetson” (André Breton, L’amour fou). Henry Hathaway a réussi là (sans doute involontairement) une des plus grandes victoires du cinéma. 5

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L’AMORE OLTRE LA MORTE

(Ann Harding) che gli dà del lavoro e se ne innamora, senza rendersi conto che si tratta proprio di Mary. Una notte i due fanno lo stesso sogno; ma l’amore non sarebbe forse esplicitato, e le identità non scoperte, se il marito di Mary non facesse improvvisamente precipitare la situazione, una sera a cena, con la sua gelosia: a questo punto la svolta tragica del melodramma (Peter uccide, un po’ per sbaglio, il duca) allontana di nuovo, e in modo definitivo, la possibilità del rapporto, dato che Peter è imprigionato a vita e reso immobile da una paralisi provocata dalle botte dei carcerieri. Ma c’è l’alternativa del sogno: Peter è scettico dapprima quando Mary lo va a trovare in sogno dicendogli di condividere esattamente la sua esperienza onirica, ma lei gli promette una prova tangibile e infatti il giorno dopo l’uomo, già spacciato dai secondini, riceve un anello migliorando miracolosamente. Vediamo allora un lungo sogno in cui entrambi esaudiscono il desiderio frustrato, tornano ai luoghi e ai giochi dell’infanzia (ed è però un po’ ridicolo vedere Cooper e la Harding sul carrettino fatto di assi), dove c’è un castello come quelli delle fiabe (diciamo come quello di Neuschwanstein, fatto costruire da Ludwig di Baviera) presto distrutto dal fulmine del «mondo», cioè dalla realtà. Sembra che si perdano e invece si ritrovano: vivranno, di quei sogni, per molti anni, fino alla vecchiaia. Una volta lei gli dice che è costretta a lasciarlo; ma la morte è solo il passaggio al loro ritrovarsi finalmente libero e definitivo, nell’eternità che è occultata da grandi fasci di luce. Abbastanza simile a quella di Catene è la fabula di Maytime (Primavera, 1937) di Robert Z. Leonard (MGM), derivato da un’operetta e dunque commisto, come genere, al Musical. Qui è il protagonista maschile (Nelson Eddy) a morire per mano del marito dell’amata (Jeannette Mac Donald), la quale però, nell’epilogo che chiude il film (costruito in flash-back) muore dolcemente sotto una pioggia di fiori di ciliegio. Arriva a questo punto, cantando, il fantasma dell’amato: gli si unisce, staccandosi ancora giovane e bella dal corpo invecchiato, quello della donna e i due escono di scena, abbracciati per l’eternità nel canto amoroso, mentre la cinepresa sale ad inquadrare i fiori candidi nei quali si era trasformata, con passaggio alla scena d’epilogo, la neve sui rami nella scena del delitto. Quella della neve, o dei fiori bianchi, diventa una vera e propria costante visiva in questo tipo di situazioni: ovvio simbolo della purezza dell’amore sublimato, la ritroviamo ad esempio nel finale di Three 19

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MELODRAMMA ANNI TRENTA

Comrades (Tre camerati, 1938) di Frank Borzage (MGM), unica sceneggiatura accreditata di Fitzgerald tratta da un romanzo di Remarque. Ambientato nella Germania bellica e post-bellica, il film racconta l’amicizia di tre giovani tra i quali si inserisce, senza suscitare gelosie o rivalità, una ragazza, Pat (Margaret Sullavan) che sposa Erich (Robert Taylor) ma muore condannata dal mal sottile dopo bei progetti di una vita nuova lontano. Anche Gottfried (Robert Young) è morto, vittima dell’impegno politico; nella scena finale, accanto alla tomba di Pat, Erich dice a Otto (Franchot Tone) che partiranno loro due per il Sud America, ma che avrebbero dovuto andarci in quattro; mentre i due si allontanano di schiena, nella neve, vediamo affiancarsi a loro i fantasmi di Gottfried (dalla parte di Otto) e di Pat (dalla parte di Erich): Borzage dunque ricorre a uno stilema che diventa sempre più frequente nel cinema di questi anni. E vi ricorre anche William Wyler in quello che resta uno dei migliori melodrammi di tutto il cinema hollywoodiano: Wuthering Heights (La voce nella tempesta, 1939) (United Artists), ridotto da Hecht e Mac Arthur dal romanzo della Brontë. In realtà pare che il finale, così come lo vediamo nel film, sia stato voluto dal produttore Samuel Goldwyn, che non voleva storie in cui entrambe le star morissero alla fine6. Ma c’è da dire che stilisticamente la chiusura è in perfetta armonia con la scena iniziale, un po’ «gotica» e più da fantastico forse che da melodramma: la tempesta infuria, lo straniero che chiede rifugio alle «Cime tempestose» sente la voce di una donna che chiama e ne vede il fantasma. Poi c’è il flash-back, il racconto della governante (Flora Robson) e scopriamo che il mistero, il fantasma, sono dovuti a una contrastata vicenda amorosa. Non è il semplice tema della impossibilità dovuta alla differenza sociale (Heathcliff «zingaro» raccolto per pietà dal padre di Cathy e diventato, alla sua morte, maltrattato stalliere; Cathy che giudica «degradante», parlando con la governante, un matrimonio con lui). È proprio una specie di maledizione, come nel libro, per cui Cathy (Merle Oberon) confessa anche di «essere» Heathcliff (Laurence Olivier) e le parole «inferno» e «demonio» si sprecano; però c’è anche il sogno della collina in mezzo alla brughiera, già sede di giochi infantili, dove lui è «figlio di un imperatore

6

Cfr. Alvin H. Marill, Samuel Goldwyn Presents, Cranbury, Barnes, 1976, pp. 197-198.

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L’AMORE OLTRE LA MORTE

cinese e di una principessa indiana» e lei è la sua regina. Il luogo aperto annulla la disparità sociale e li ricongiunge, mentre i luoghi chiusi, le case, rappresentano la divisione, perchè la società e le sue leggi prevalgono sulla natura. Ci sono dunque molte inquadrature dall’esterno della casa dei Linton, dove Cathy andrà sposa soggiacendo alle regole sociali: ne vediamo le stanze in soggettiva dei protagonisti bambini, quando scendono a spiare il ballo che vi si svolge, e la stessa inquadratura dall’esterno della finestra chiusa Wyler la ripete alla fine della scena in cui Heathcliff ritorna, ricco, e trova Cathy sposata; la cinepresa passa impercettibilmente dietro il vetro, facendoci vedere Cathy che, dentro, si mette a ricamare. La simbologia delle finestre è reiterata nel film: già prima, dopo una lite, Heathcliff aveva spezzato con un pugno il vetro di una finestra chiusa. La finestra si apre invece nella scena della morte, quando lo chiede Cathy per vedere la brughiera e c’è appunto quell’immagine che fa pensare a Addio alle armi: dopo, Heathcliff adagia la donna morta sul letto chiedendole di perseguitarlo fino a che lui non la raggiungerà. Per quanto riguarda l’epilogo, quelle che nel romanzo sono date come dicerie di gente superstiziosa nel film acquistano valore di testimonianza attendibile, quando entra il dottore dicendo di avere visto Heathcliff con una donna – ma le orme sulla neve erano di uno solo – e poi di averlo trovato morto. La governante commenta allora «finalmente sono insieme» e abbiamo la citata, solita immagine dei due fantasmi che camminano, abbracciati, nella neve. Nel romanzo il protagonista muore nel suo letto, sia pure un po’ orribilmente, e il testo si chiude con una serena immagine cimiteriale, con le tombe dei personaggi visitate dal narratore, tra l’erica e il campanile, in una «terra di pace»7. Non pare credibile che si tratti di una forzatura del produttore: tutta la vicenda è concepita, nel film, in termini che ne fanno un trionfo del tema melodrammatico dell’amore oltre la morte, unica possibilità di definitiva liberazione dagli interni-società verso gli esterni-natura. E dunque l’immagine dei due che camminano verso la mitica collina appare la conclusione più coerente allo stile di tutta l’opera.

7 Emily Brontë, Cime tempestose, versione di Rosina Binetti, Milano, Garzanti, 1965, p. 353.

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DONNE SUBLIMI: LA GARBO E LA DIETRICH

Genere eminentemente «femminile», nel duplice senso che prende a protagoniste soprattutto figure di donne e che è concepito in prevalenza secondo i gusti tradizionali del pubblico femminile (e la definizione anglosassone «women’s pictures» comprende entrambi i significati) il Melodramma si presta, in anni di divismo trionfante, a potenziare la personalità e il successo delle maggiori star di cui possono disporre gli Studios: prime fra tutte la Garbo e la Dietrich che, una alla Metro-Goldwyn-Mayer e l’altra alla Paramount, vengono a ricoprire spesso personaggi analoghi. Con grandi differenze però, dovute alla stessa differenza di personalità divistica tra le due attrici: come ben dice Barthes, la Garbo «appartiene ancora a quel momento del cinema in cui il solo afferrare il viso umano provocava nelle folle il massimo turbamento, in cui ci si perdeva letteralmente in un’immagine umana come in un filtro, in cui il viso costituiva una specie di stato assoluto della carne che non si poteva raggiungere né abbandonare»8. Idea più che Evento, la Garbo è dunque interprete ideale per il Melodramma; mentre sarà, lo vedremo, letteralmente distrutta dalla Commedia. Al contrario la Dietrich che, secondo una intelligente osservazione di Cocteau, indossa piume e pellicce che sembra appartengano al suo corpo come le pellicce appartengono agli animali e le piume agli uccelli, è piuttosto Evento e, per quanto mitizzata in forme sublimi, mantiene sempre, o spesso, aspetti ironici: i suoi melodrammi tendono dunque a risolversi in commedie. Ma procediamo a un confronto tra i ruoli interpretati dalle due star incominciando dal 1931, cioè dall’anno in cui, dopo il primo film girato dalla Dietrich a Hollywood, Morocco (Marocco, 1930) di Von Sternberg, si trovano entrambe ad impersonare figure di spie. Già alla prima scena Mata Hari (id., 1931) di George Fitzmaurice mitizza la protagonista: c’è infatti l’esecuzione di un uomo che si rifiuta di

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Roland Barthes, Il viso della Garbo, in Miti d’oggi, Milano, Lerici, 1962, p. 65.

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DONNE SUBLIMI: LA GARBO E LA DIETRICH

confessare che Mata Hari è una spia e subito viene detto quanto quella donna sia irresistibile. Anche il giovane ufficiale russo Alexis (Ramon Novarro), nonostante abbia fatto una trasvolata e sia stanchissimo, quando sente che quella sera la Hari danzerà dimentica la stanchezza. E c’è poi la poco felice entrata in scena della Garbo non certo versata per la danza9, salvata però come al solito dai primi piani illuminati da Daniels, con quella specie di addobbo da albero di Natale sulla testa, primo di una serie di copricapi inventati da Adrian per il film e tutti più o meno giocati, gli altri, sul motivo del cappello a cloche, di velluto e con strass. Gli abiti, pure di velluto o di lamè, sempre fasciati, sono molto più al centro degli interessi del film (insieme alla storia d’amore), che la vicenda di spionaggio: la Garbo-Hari, ci suggeriscono i costumi, è una divinità un po’ strana e forse fredda, irraggiungibile. Che sia un simbolo femminile negativo è dimostrato esplicitamente dalla scena della seduzione in casa di Alexis quando, quale segnale a un complice, esige dal giovane che spenga la candela davanti all’icona donatagli dalla madre, che gli ha fatto promettere di non spegnere mai quella luce: l’immagine è, naturalmente, quella della Madre sacra, la Madonna. La Garbo invece, coi suoi abiti lussuosi di velluto e luccichii non ha niente di materno ed è piuttosto assimilata all’orchidea (orchidee le vengono regalate, orchidee lei si appunta sugli abiti e in un’orchidea nasconde il messaggio carpito al giovane: cioè la lealtà e l’innocenza di lui finiscono in quel fiore, presentato in dettaglio con una connotazione sessuale abbastanza evidente). Però la Garbo non può essere solo questo: la dea si innamora, confessa il suo inganno, e prima di uscire riaccende il lume davanti all’icona. Dopo, tutto è fatto in funzione dell’amore: l’uccisione del generale che vorrebbe incriminare Alexis; l’arresto cui non sfugge quando va a trovare il giovane in ospedale (e qui, lui cieco, l’atteggiamento è diventato materno e i fiori non sono più orchidee); la confessione al processo e la finzione nel carcere, quando ad Alexis, prossimo a riacquistare la vista ma ancora cieco, lei dice di essere in clinica per un’operazione. Si preoccupa del giudizio dei posteri e quando va verso il plotone d’esecuzione è solenne, vestita di nero; mentre scende lentamente le scale la sua ombra si proietta grande sulla parete, quindi, gli occhi al cielo pieni di lacrime, le sue ultime parole sono d’addio all’uomo amato.

9 Su questa scena in particolare e sul problema della entrata in scena in generale rimando al mio Il racconto del film, Bari, Laterza, 1983, p. 82.

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MELODRAMMA ANNI TRENTA

Vediamo adesso come funziona la «spy story» programmata dalla Paramount per la Dietrich con la regia di Von Sternberg: Dishonored (Disonorata, 1931) è anch’esso la storia di una bella spia che si sacrifica per amore, ma se il plot è quello di un melodramma, sia pure di spionaggio, attraverso le immagini Sternberg fa un’altra cosa. Si pensi all’inizio, con l’entrata in scena della star: ci sono solo le gambe, bellissime e già famose, di una donna ferma in strada di notte sotto la pioggia: è evidente che si tratta di una prostituta. Ciò non significherebbe molto, tuttavia, se poi tutto il soggetto non fosse fintamente tradizionale: lealtà della donna verso la patria e sua disposizione a fare la spia; incontro con un avversario (Victor Mc Laglen) di cui si innamora (il tempo è ancora, come in Mata Hari, la Grande Guerra, mentre il luogo non è più Parigi ma l’Austria); dunque tradimento della donna, che fa fuggire l’amato, e sua fucilazione. In realtà Sternberg racconta solo la bellezza, il fascino, l’eleganza, la volgarità, la falsità, la lealtà, la furbizia, la sessualità della sua star, dell’immagine filmica che lui ha inventato, attento soprattutto a come Lee Garmes la illumina e Travis Banton la veste. Che poi lei sacrifichi la vita per amore di un uomo appartiene agli schemi di genere; ma non a caso le viene scelto un partner piuttosto inadatto al melodramma: in fondo non è neppure necessario che il pubblico creda a quell’amore10. E la scena finale è il testo forse più significativo per capire la differenza tra la Dietrich e la Garbo: non più addio straziante, grandi ombre, gesti maestosi; qui la Dietrich è sola, suona il piano e quando la vengono a prendere chiede a un giovane ufficiale uno specchio e lui le dà la lama della sciabola, che le serve per aggiustarsi in testa un cappello; quando esce davanti al plotone d’esecuzione usa la benda che dovrebbe mettere sugli occhi per asciugare le lacrime dello stesso ufficialetto, che chiaramente la desidera, l’ammira; ma lei pare riderne, anche dopo che lui si rifiuta di dare l’ordine di sparare; si dà il rossetto e si aggiusta una calza. In punto di morte. Questo è per Sternberg e per la Dietrich il melodramma hollywoodiano: qualcosa di cui ridere, perché il mistero dell’amore si gioca ad altri livelli, è tutta una magia d’ombre e di luci, di piume, di paillettes, di penne e di veli.

10 «Interprete assurdo come amoroso» definisce Victor Mc Laglen Giovanni Buttafava in Joseph Von Sternberg, Firenze, La Nuova Italia, 1976, p. 83.

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DONNE SUBLIMI: LA GARBO E LA DIETRICH

Il che è espresso esemplarmente in una scena del film successivo della coppia, Shangai Express (id., 1932) dove, nonostante le complicazioni da avventura esotica del plot, l’intreccio amoroso contrastato, le note ironiche (quando i rivoluzionari le chiedono cosa va a fare a Shanghai, la protagonista risponde «A comprarmi un cappello»), il vero intento di Sternberg è rivelato da quella scena in cui la Dietrich gironzola per il corridoio del treno, seguita dalla cinepresa, e poi si chiude a fumare nello scompartimento buio, con una sola luce che scende all’alto e, nel primissimo piano sublime, puramente contemplativo, abbiamo la certezza che tutto è funzionale soltanto alle immagini. Alla MGM intanto, dopo aver fatto interpretare alla loro grande star un ruolo quasi autobiografico in Grand Hotel (id., 1932) di Goulding, dove la Garbo è una famosa diva del balletto riscossa brevemente dal suo stato di triste solitudine da un grande amore subito tragicamente stroncato, le facevano inaugurare il nuovo, più prestigioso contratto11 col ruolo di una regina, e una regina svedese, in Queen Christina (La regina Cristina, 1933) diretta questa volta da Rouben Mamoulian. Che la Garbo sia «regina», anzi dea, Mamoulian riesce ad esprimerlo sfruttando a pieno il carisma del suo volto famoso, ma, a differenza di Sternberg, qui i primissimi piani, pure sublimemente costruiti grazie alle luci e ai costumi, sono molto spesso concepiti in funzione dell’intreccio, non solo fine a se stessi come quelli della Dietrich. Ci sono almeno tre primissimi piani memorabili: il primo è dopo la notte d’amore con l’ambasciatore spagnolo (John Gilbert), un po’ insolito per la Garbo perché connota decisamente sesso, con la «divina» che accarezza gli oggetti della stanza (anche il fuso fallico); l’altro è quando il popolo, sobillato da un ministro geloso, irrompe nella reggia e la regina riesce a domarlo con un semplice sollevamento di sopracciglia, micromimica percettibile solo in quanto a distanza ravvicinatissima dalla cinepresa, ma dato narrativamente come sufficiente per sedare la plebe inferocita che poi acclama la sovrana; e infine c’è il famoso primo piano con movimento di macchina in avanti a chiusura del film in pianosequenza di circa quaranta secondi, che è più significativo in quanto, sebbene la Garbo non si muova né batta ciglio, il suo stesso inserimento a quel punto della narrazione lo carica di grande significato drammatico, come d’altra parte Mamoulian stesso aveva previsto12. Nono-

11 12

Cfr. Alexander Walker, Greta Garbo, Milano, Fabbri, 1982. Cfr. Andrew Sarris, Interviews with Film Directors, New York, Avon, 1970, p. 348.

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MELODRAMMA ANNI TRENTA

stante l’androginia delle prime scene e il sesso esplicito di quella della locanda, la presenza della Garbo fa sì che anche La regina Cristina rientri perfettamente nel Melodramma in quanto storia di una regina che per amore vuole essere donna, come dice nella scena dell’abdicazione, ma non ci riesce. I cortigiani, quando lei scende dal trono spoglia del manto e dei simboli della regalità, le lambiscono la veste bianca quasi fosse una santa, chiedendole di non abbandonarli. Cristina-Garbo ha già preso la sua decisione; però donna non potrà diventarla, perché vi sarà un altro, ennesimo impedimento al suo progetto d’amore: prima l’ambasciatore l’ha creduta un ragazzo; poi lo stesso ha scoperto costernato, all’udienza ufficiale, di avere amato la regina, colei che il suo re Filippo di Spagna l’ha mandato a chiedere in moglie; quindi ci sono stati gli intrighi del ministro, ex-amante di Cristina; infine, dopo l’abdicazione, lo stesso perfido ministro uccide in duello l’ambasciatore, che Cristina trova ormai morente sulla nave che doveva portarli verso la realizzazione del loro sogno. Anche la Dietrich viene fatta cimentare con una regalità storica: ma significativamente, per raccontare la conquista, non l’abbandono di un trono. E una conquista in cui il sesso, visto come corollario del potere, ha decisa prevalenza sull’amore. In The Scarlet Empress (L’imperatrice Caterina, 1934), sempre di Von Sternberg, l’amore di per sè è impotenza, debolezza, come sperimenta soffrendo Caterina (Marlene Dietrich) quando è ancora illusa, ingenua. Da bambina ha intuito che nel ruolo di imperatrice non c’è gioia (ha detto di voler fare la ballerina), ma è docile (bacia le mani di tutti, ogni volta che entra in salotto) e accetta il suo destino di sposare il granduca di Russia, sia pure innamorandosi dell’ambasciatore, il conte Alessio (John Lodge), col quale non avrà il coraggio di intrecciare un rapporto, scoprendo poi che è l’amante dell’imperatrice e che a corte tutto è sesso, dato che, come già notava Sarris13, Sternberg qui dà una visione del potere come di «esperienza orgiastica». Dimenticando dunque, ed anzi umiliando Alessio, e dandosi ad amori occasionali (anche l’erede al trono è in realtà figlio di un tenente della guardia), Caterina ha come trovato la chiave per arrivare al potere: infatti riesce a sollevare esercito e clero contro il marito inetto e diventa zarina.

13 Andrew Sarris, The Films of Joseph Von Sternberg, New York, 1966, cit. da Giovanni Buttafava, Joseph Von Sternberg cit., p. 88.

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DONNE SUBLIMI: LA GARBO E LA DIETRICH

I film successivi, sia della Garbo che della Dietrich, sono tratti da romanzi; ma, anche qui, con differenze notevoli di scelta e di impostazione. Da Tolstoi, Clarence Brown trasforma per la Garbo in melodramma Anna Karenina (id., 1935), ruolo che d’altra parte l’attrice aveva già interpretato, con diversa sceneggiatura, nel suo periodo muto. Nonostante l’entrata in scena molto mitizzante, col volto che emerge improvvisamente quando il vapore del treno si dirada14, il personaggio della Garbo è poi delineato nel film in termini meno sublimi del solito, sebbene il racconto sia focalizzato nel rapporto con Vronsky (Fredric March), rapporto che ha un breve momento di felicità (in una Venezia di cartone, con bambini in costume da scugnizzi che fanno capriole davanti a case con tondi robbieschi), e l’epilogo tragico che sappiamo. Il suicidio, peraltro, già preannunciato all’inizio, come nel libro, dalla scena dell’arrivo di Anna alla stazione di Mosca, quando assiste a un incidente che la sconvolge, è preparato nel film, seguendo gli schemi di genere, da una serie di infelici casualità: abbandonata in campagna da Vronsky, Anna lo segue in città e gli manda una lettera; però non lo trovano e allora va lei stessa alla stazione, quando sa che lui sta partendo per la guerra: lo vede da lontano salutare la contessa sua madre e una fanciulla che Anna già sospettava la contessa volesse fargli sposare; Vronsky tiene le mani della giovane donna tra le sue ed Anna si ritrae, affranta; un intenso primo piano ci suggerisce la sua decisione. Ma c’è un epilogo, dopo che la protagonista si è gettata sotto al treno: Vronsky parla con un compagno e dice di provare grande rimorso; Anna, certo, lo perdonerà: e il film finisce con un movimento di macchina verso la foto in cornice, lì accanto, della Garbo-Karenina, sorridente aldilà della morte. Secondo il libro di Haver su Selznick15, produttore del film, la sceneggiatura fu scritta essenzialmente da due donne (sebbene Selznick l’avesse data per consulenza anche a Von Stroheim, dal quale accettò solo due suggerimenti) e forse per questo è tanto al femminile, che idoneo ad impersonare Karenin diventa Basil Rathbone, uno dei più illustri «cattivi» dell’epoca.

14 Su questa scena e sul mito della Garbo si veda anche Giorgio Cremonini, Da Greta a Marilyn: il corpo e la macchina, in «Cinema & Cinema», n. 27-28, aprile-settembre 1981. 15 Ronald Haver, David O. Selznick’s Hollywood, London, Secker & Waburg, 1980, pp. 162-164.

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MELODRAMMA ANNI TRENTA

Il film successivo della Garbo è il rifacimento di un vero e proprio paradigma del Melodramma, quel La signora delle camelie di Dumas figlio che, a teatro e già anche al cinema, era stato cavallo di battaglia di tante attrici (e soprano liriche, nella Traviata di Verdi) attratte dal romanticismo eroico del personaggio. Però Camille (Margherita Gauthier, 1937) è diretto da George Cukor che, non a caso maestro di commedie, pone ben in rilievo gli aspetti concreti della vicenda, quelli sociali e anche economici, che saltano fuori subito nella scena d’apertura, quando Margherita (Greta Garbo) compra camelie andando a teatro e l’amica le dice che spende troppo e che le occorre un amante ricco. Di soldi si parla molto, sempre, per tutto il film: quando Margherita decide di andare in campagna come Armand (Robert Taylor) le chiede, non potrebbe farlo se prima non ottenesse dal barone suo amante, quale regalo d’addio, una forte somma per pagare tutti i debiti. Il lusso degli abiti, l’abbondanza della servitù (e cavalli e cocchieri) sono sempre economicamente motivati, sebbene Cukor (e Adrian, che come al solito ha molta importanza e realizza alcuni tra i suoi costumi più belli) proprio agli abiti, in prevalenza bianchi e neri, deleghi il discorso sulla purezza dell’amore sublime e sul «sacrificio» del personaggio, che finge per il bene sociale di Armand. Pienamente da melodramma è anche la recitazione della Garbo, sia nelle scene d’amore con Armand (si pensi a quella del primo incontro, quando la Garbo bacia Taylor in più punti senza staccare le braccia dal corpo), sia nel dialogo col vecchio Duval (Lionel Barrymore), dove lei si appoggia continuamente a un tavolo – e Cukor racconta a Sarris (Interviews cit., p. 125) che fu idea dell’attrice – e infine vi si inginocchia accanto affranta. Ma i discorsi del vecchio sono molto lucidi e pacati, non fanno una grinza, e viene il sospetto che, malgrado il soggetto, malgrado lo strazio dell’abbraccio finale prima della morte, Cukor creda più ai discorsi del padre Duval che ai trasalimenti della sua splendida attrice, la cui carriera si sarebbe chiusa, proprio con lui, nell’insuccesso di un troppo smitizzante ruolo di commedia. Intanto che la Garbo si calava nella tragicità del suo personaggio tolstoiano, Von Sternberg e la Dietrich collaboravano per l’ultima volta con la riduzione filmica di un romanzo di Pierre Louis sceneggiato da Dos Passos. In The Devil Is a Woman (Capriccio spagnolo, 1935), tratto da La femme et le pantin, non c’è tanto la trattazione di un tema amoroso quanto la rappresentazione della donna come mistero. Ciò che sarà Concha (Marlene Dietrich) è già espresso dall’entrata in scena di lei, mascherata, 28

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DONNE SUBLIMI: LA GARBO E LA DIETRICH

nel delirio barocco di uno di quei carnevali che tanto piacevano al regista, col primo piano di un sorriso ammaliante dietro i pizzi della maschera. Antonio (Cesar Romero) non riesce a raggiungerla, è respinto dai servitori di lei, ma riceve nello stesso tempo un pacchetto dal quale schizza fallicamente fuori un bambolotto che porta il biglietto di un appuntamento. Però come gli racconta Pasqual (Lionel Atwill), un vecchio innamorato della donna, avere Concha è impossibile: il lungo flash-back che segue è solo la storia di un innamoramento assurdo da parte del vecchio gentiluomo, ammaliato e quasi distrutto (c’è anche un ricordo di Carmen, dato che siamo in Spagna e Concha fa la sigaraia) da una donna che però mai gli si concede, anzi per ben due volte, in due scene diverse, lo bacia e subito gli nega il bacio. È un segno dell’inesistenza di Concha come personaggio dato ch’essa è solo apparenza, immagine: ed è significativo che questo sia il film d’addio di Von Sternberg al personaggio divistico da lui creato. Bellissima nei suoi costumi assurdi di pizzi e di frange, la Dietrich, forse più che nei film precedenti, non ha altra motivazione aldilà della sua apparenza sublime. E se, come abbiamo detto, l’attrice Dietrich sarebbe riuscita in seguito a dare buone prove in personaggi di commedia, con Lubitsch e poi con Wilder, che questo suo risolversi nell’apparenza, inventato da Sternberg, potesse essere idoneo al discorso melodrammatico, è dimostrato da The Garden of Allah (Il giardino dell’oblio, 1936) di Richard Boleslawsky, produzione Selznick che ha molte caratteristiche di quelle Paramount sternberghiane (un esotico mondo arabo tutto ricostruito in studio, assurda sontuosità dei costumi, ecc.), ma che evolve decisamente, e senza ironie, nel Melodramma. Tratto da un romanzo di Robert Hichens del 1907 che aveva avuto una prima versione ai tempi del muto e che la stessa Garbo, quando Selznick era alla Metro, aveva rifiutato come progetto in quanto troppo datato16, il film è concepito in funzione del colore, innovazione tecnica di quegli anni nel cinema commerciale. Un po’ paradossalmente e senza che forse né il produttore né il regista se ne rendessero conto, accade che l’intreccio veramente obsoleto di questo melodramma si accordi bene con l’assoluto irrealismo dei colori. L’intreccio amoroso tra la giovane donna (la Dietrich) che viaggia in Algeria per dimenticare la morte del padre e l’uomo

16 Del film parla, come al solito con grande abbondanza di notizie e documenti, Ronald Haver in David O Selznick’s Hollywood cit., pp. 183-191.

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MELODRAMMA ANNI TRENTA

(Charles Boyer) che lei sposa ma che è in realtà un monaco fuggito da un monastero trappista ove alla fine farà ritorno, è altrettanto improbabile, nei suoi schemi di genere, dei tramonti arancio e violacei sulle sabbie del deserto, delle tende lussuose ove vivono i protagonisti, con lui che di giorno va a caccia e lei che lo va ad aspettare sulla rovina di una torre, in mantello bianco, sotto un cielo punteggiato di stelle come quello dei Baci Perugina. Ma la realtà incombe e il sogno d’amore, colorato, deve finire. – Perché punirmi con questo amore, questo amore impossibile? – chiede a Dio Boyer nella scena finale dell’addio, ed è solo una delle tante battute ai limiti del ridicolo. Però tutto ciò si accorda con l’irrealismo del Melodramma a cui il colore, come la Garbo non avrebbe mai sperimentato, apriva possibilità ulteriori: cosa che lo stesso Selznick avrebbe ben dimostrato, di lì a pochi anni con la riuscita di Via col vento.

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L’EROINA TRASGRESSIVA

Scritturata dalla Warner Bros a cominciare dal ’32 e impiegata dapprima in ruoli di ingenua, Bette Davis s’impose nel corso del decennio non solo come una delle maggiori personalità divistiche, con tanti ruoli di successo e la vincita di due Oscar nel giro di tre anni (’35 e ’38), ma anche come interprete ideale di melodrammi. Si tratta ancora di film «al femminile», ma profondamente diversi da quelli della Garbo o della Dietrich: non solo perché la Davis non ha le qualità fisiche e non è «costruita» dai truccatori e direttori della fotografia della Warner, o dal suo costumista Orry-Kelly, come accade alle due altre colleghe, importate dall’Europa e rifatte a Hollywood. La differenza dei melodrammi della Davis consiste soprattutto nell’aggressività della sua recitazione e nel suo coraggio di accettare ruoli negativi, persino odiosi, come è dimostrato dalla sua lotta di sei mesi con Jack Warner per convincerlo a lasciarle interpretare, alla RKO, il personaggio di Mildred nella versione cinematografica del romanzo di Maugham Of Human Bondage (Schiavo d’amore, 1934), offertole dal produttore David O. Selznick e dal regista John Cromwell17. Che Warner fosse contrario lo si può capire, considerando quanto lo Studio stava puntando sulla Davis e che rischio comportava un ruolo come quello; e d’altra parte in quella che Sklar chiama «l’età d’oro dell’ordine», che data a partire dal ’34 18, un film così forse a Hollywood non si sarebbe neppure fatto. Il pubblico poi non dimostrò di apprezzarlo, anche se la Davis, dal suo punto di vista, aveva avuto pienamente ragione, per lei fu un grande successo personale. L’idea del romanzo che in amore uno ama e l’altro si fa amare è fin troppo esplicitata nel film e lo rende un melodramma abbastanza tipico, con esemplificazioni plurime nel rapporto tra i personaggi. C’è lo studente

17 Selznick aveva infatti comprato i diritti del romanzo; ma il produttore fu poi Pandro S. Berman. Cfr. Jerry Vermilye, Bette Davis, New York, Pyramid, 1973, p. 41. 18 Cfr. Robert Sklar, Cinemamerica cit., cap. XI.

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MELODRAMMA ANNI TRENTA

Philip (Leslie Howard) che ama la cameriera Mildred (Bette Davis), la quale ama un uomo sposato; a sua volta Philip è amato prima da una scrittrice poi da un’altra ragazza, ma non può corrispondere perché pensa sempre a Mildred nonostante lei lo umili e lo insulti in tutti i modi. La differenza rispetto ad altri personaggi contemporanei, ad esempio rispetto a quello che farà la Dietrich in Capriccio spagnolo, è che qui non c’è neanche l’inganno, l’illusione da parte della donna: Mildred sfugge a Philip da subito, da subito gli fa capire di preferire altri e non si prende nemmeno la briga di insistere quando lui scopre che gli ha mentito. Però Philip continua a pensarla: la vede sui libri di medicina che studia e persino nello scheletro che hanno nell’aula di lezione; la sogna dolce e amorosa ballare con lui, come se lui potesse danzare nonostante il suo piede equino. Su questa menomazione fisica del protagonista maschile il film gioca molto, facendone, con dettagli, la causa principale della debolezza dell’uomo, bloccato dal complesso di inferiorità sul quale, ed è qui la massima perfidia del personaggio della Davis, Mildred continua ad infierire, quasi fosse una colpa, arrivando all’apice nella scena in cui gli dice di avere sempre provato tanto schifo di lui da pulirsi dopo i suoi baci. E non solo lo sfrutta, ma si degrada sempre più nel vizio, fino alla malattia finale e alla morte, diventando ad ogni scena più brutta e più furiosa, senza un solo elemento a riscattarne, in tutto o in parte, l’immagine. L’amore qui è veramente maledizione, malattia da cui bisogna guarire e la donna è una specie di strega, strumento di questa maledizione: lasciva (con gli altri), traditrice, ingrata, avida, egoista, è un’erinni che supera, nei suoi atteggiamenti esasperati (si pensi alla scena in cui taglia i quadri, strappa i libri e brucia i soldi di Philip), persino le «dark ladies» che troveremo nei melodrammi del decennio successivo. Né il pubblico né la carriera della Davis avrebbero retto la reiterazione di un simile personaggio: però se l’attrice, tornata e restata poi ancora per molti anni alla Warner, fu inserita in ruoli meno eccessivi ed anzi fu capace di interpretare anche donne dolcissime, spose che risparmiano sulla spesa, in strettezze economiche, per far trovare al marito l’albero di Natale e che respingono la sistemazione con uomini ricchi per aspettare il ritorno del consorte ubriacone e fallito (Errol Flynn) come accade in The Sisters (Io ti aspetterò, 1938) di Litvak più spesso i suoi personaggi di melodramma avevano una carica eversiva sconosciuta alle altre attrici. 32

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L’EROINA TRASGRESSIVA

È quanto appare soprattutto da uno dei suoi film migliori (e uno dei migliori melodrammi hollywoodiani in assoluto) Jezebel (La figlia del vento, 1938) diretto da William Wyler, che se nasceva come risposta della Warner al progetto di Via col vento (film al quale, come si sa, anche la Davis aspirava) prendeva quale tema la ribellione di una donna, Julie (Bette Davis), alle un po’ assurde convenzioni sociali del Sud. Sono, questi di Roosevelt, anni di ripensamento sulla Guerra Civile, anni in cui pure nel cinema sudista si tenta di risanare la massima frattura della storia americana, come accade anche in So Red the Rose (La rosa del Sud, 1935) di King Vidor (Paramount). Ecco dunque perché la trasgressione di Julie, che alla fine tra l’altro espia le sue colpe nel sacrificio volontario, assume un significato ben diverso dal demonismo di Mildred. Julie è spregiudicata fin dalla sua entrata in scena, in tenuta da amazzone nella sua bella casa di New Orleans piena di invitati che lei ha trascurato per la passeggiata a cavallo e per i quali non si cambia, suscitando critiche. Ancora sull’abito ma in termini più simbolici, verte la sfida che Julie rivolge al fidanzato Pres (Henry Fonda) e alla società tutta quando si ostina a voler indossare l’abito rosso (che noi vediamo grigio, essendo il film in bianco e nero) al ballo in cui tutte le ragazze, per tradizione, devono vestire di bianco. È come se in quel colore, che non vediamo, Wyler volesse esprimere una più concreta, sessuale, rottura di convenzioni, che costa a Julie l’abbandono del fidanzato e la radiazione sociale. Pena troppo severa, ingiusta, della quale comunque la protagonista non sembra cercare vendetta se, dopo un anno, attende il ritorno di Pres, in un ricevimento alla sua piantagione vestita di bianco come in un’innocenza recuperata (contrariamente a quanto aveva fatto col vestito rosso, rifiuta di promettere l’abito in dono alla cameriera); si inginocchia davanti all’ex-fidanzato, gli chiede perdono e gli ribadisce il suo amore. Ma nel frattempo lui si è sposato, al Nord; è allora che Julie si vendica, come capolvolgendo la situazione: diventa, sempre vestita di bianco, sostenitrice delle idee e delle tradizioni del Sud: canta coi negri, critica l’abolizionismo e prende a paladino il corteggiatore sempre respinto Buck (George Brent) contro un Pres che sia pure con cautela, sostiene le ragioni del Nord da cui proviene sua moglie. Adesso è lui a creare scandalo e la tensione si scaricherà in un duello in cui Buck resta vittima, duello provocato da Julie, così tramutata, le dice la zia, nella mitica figura biblica di Jezebel, regina perfida. L’espiazione, questa volta, 33

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MELODRAMMA ANNI TRENTA

non è più simbolica ma reale: il Sud è malato, c’è la febbre gialla e Julie sceglie di andare al lazzaretto insieme a Pres febbricitante, al posto della moglie. Parte dunque sul carro, in un finale da peste manzoniana, ribadendo una trasgressione che questa volta, in quanto sacrificio di sé e conciliazione, nella malattia, tra Nord e Sud, è accettata da tutti. La Davis dunque è personaggio melodrammatico generoso, se pure colpevole. Il film che meglio esprime forse l’incanalamento degli aspetti aggressivi della star, in questi anni dell’anteguerra, in un destino di nobile tragedia è Dark Victory (Tramonto, 1939) di Edmund Goulding, in cui la Davis è Judith, ragazza molto ricca e capricciosa dedita solo ai cavalli e alla vita mondana, amata sia da un medico (George Brent), sia da uno stalliere (Humphrey Bogart, in un ruolo ancora non da star), sia da un giovane del suo mondo (Ronald Reagan, ben lontano dal potere presidenziale). Lei ama solo il medico: salvo respingerlo dopo aver scoperto quello che lui ha cercato di tenerle nascosto, cioè che è condannata da un tumore al cervello. Il rifiuto di Judith diventa una specie di ribellione al destino e alla vita stessa; però non c’è colpa e infine c’è accettazione di amore e matrimonio, sia pure sapendo che sarà per breve tempo. Tramonto è dunque melodramma tradizionale, con l’amore stroncato dalla morte e la grande occasione di una scena finale (quando la protagonista capisce che sta per morire mentre sta facendo del giardinaggio) che la Davis domina, riesce a rendere commovente e non ridicola, né assurda, nonostante la sottolineatura eccessiva del commento musicale. Dalla ribellione demonica di Mildred dunque, la Davis passa a ruoli di melodramma in cui, repressa, non accetta supinamente la sua sorte e si ribella, ma finendo per farsi una ragione di quanto le accade. Nell’altro film del ’39 The Old Maid (Il grande amore) interpretato ancora con la regia di Goulding (da un romanzo di Edith Warthon), la repressione concerne la maternità di Charlotte, il rapporto con una figlia avuta da un amante (George Brent, ancora) morto nella Guerra Civile, e adottata, per evitare lo scandalo, dalla cugina Delia (Miriam Hopkins) un tempo innamorata dello stesso uomo ma sposa ad un altro. Fingendosi «zia» della figlia, Charlotte lotta per vent’anni contro colei che quest’ultima considera e ama come una madre e ci sono scene in cui esprime a Delia tutto il suo odio come solo la Davis riesce a fare, sebbene alla fine vi sia una pacificazione generale. 34

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L’EROINA TRASGRESSIVA

Che questi siano anni fondamentali per l’attrice e per il genere in cui essa eccelle, è dimostrato dal fatto che anche un film certo non di primo piano come Il grande amore ha potuto trovare chi lo giudica il migliore in assoluto della pur luminosa carriera della sua interprete19.

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Cfr. Lawrence J. Quirk, The Great Romantic Films, Secaucus, Citadel, 1974, p. 72.

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IL TABÙ DEL SESSO

Se pure è dubbio che esista nel cinema hollywoodiano una «età dell’oro della turbolenza» così come la teorizza Robert Sklar 20, è però verificabile che, per quanto concerne il Melodramma, la rappresentazione del sesso, motivo importante sia per questo genere che per la Commedia, subisca un’evoluzione dai primi anni Trenta alla fine del decennio. Abbiamo visto come Mata Hari e La regina Cristina, rispettivamente del ’32 e del ’33, contengano, per quanto riguarda i melodrammi della Garbo, delle simbologie e delle allusioni erotiche scomparse in film posteriori della stessa attrice nonostante il maggiore «realismo» dei personaggi. Se melodramma si vuole considerare Red Dust (Lo schiaffo, 1932) di Victor Fleming (MGM) (e in questa chiave è narrato nel film il rapporto tra Dennis e Barbara) va notato come esplicitamente carnale venga presentato il legame tra il giovane piantatore Dennis (Clark Gable) e la prostituta Vantine (Jean Harlow): la cinepresa va ad inquadrare la gabbia di un pappagallo mentre i due si rovesciano a terra in modo abbastanza inequivocabile, tanto che suona poi doppio senso alla Mae West il saluto dell’uomo: «È stato un piacere...». Ed è rimasta nell’immaginario erotico dell’epoca la scena in cui la Harlow fa il bagno davanti a Gable in una tinozza d’acqua alla piantagione indonesiana, scena non a caso citata in Bombshell (Argento vivo, 1933), commedia sul divismo della Harlow. Se un po’ alla Sadie Thompson è il personaggio di Vantine, che dice a un certo punto di diffidare dei religiosi – come d’altra parte già notava una critica dell’epoca21 – abbastanza nuovo è invece l’erotismo del personaggio di Gable, che si toglie la camicia e resta a torso nudo senza susci20 Si tratterebbe, secondo lo studioso americano, degli anni che vanno dalla crisi del ’29 al ’34, con la fondazione del Breen Office e il successo del New Deal di Roosevelt. 21 Si tratta della recensione al film pubblicata sul «Time», riportata in Gabe Essoe, The Films of Clark Gable, New York, Citadel, 1970, p. 137.

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IL TABÙ DEL SESSO

tare le proteste che poi solleverà con la scena famosa di Accadde una notte, forse perché qui il contesto è appunto esotico-erotico, non «realistico» come nella commedia di Capra. È comunque indubbio che, contrariamente al solito, il «sex-appeal» è qui delegato anche e soprattutto al personaggio maschile, che tanta passione suscita in Barbara (Mary Astor) di cui diventa l’amante nonostante lei sia regolarmente sposata, da indurre la donna a sparargli quando lui la lascia colto da scrupoli morali. Ma se nel finale di Lo schiaffo, col riavvicinamento di Dennis ferito a Vantine che ha generosamente mentito per salvare l’onore della «signora», il sesso torna ad essere libero e giocoso (lei gli legge le storie di Peter Rabbit e lui allunga le mani...), più spesso troviamo, nei melodrammi del decennio, la punizione per il peccato compiuto. In Cristopher Strong (Falena d’argento, 1933) di Dorothy Arzner (RKO), il soggeto è trattato in modo spregiudicato, straordinariamente spregiudicato per la produzione di Hollywood, forse per il fatto che regista del film è una donna. Qui una nobile inglese, Cynthia (Katharine Hepburn), ha una storia d’amore con un uomo molto più vecchio, sposato, la cui moglie sa tutto da subito perché assiste da una finestra al primo bacio, quando l’anziano signore accompagna l’amica della figlia dopo una serata mondana. Cynthia d’altra parte, coraggiosissima pilota d’aerei, non si abbandona subito al rapporto; lo fa solo quando incontra l’amato durante una trasferta in America e la prima notte è tutta raccontata col solo dettaglio del braccio di lei (con bracciale regalato dall’amante) che accende l’abat-jour, mentre ascoltiamo il dialogo fuori campo. Cynthia resta incinta ma, trattata male dalla sua amica, figlia dell’amante, che prende le parti della madre (sebbene costei in società sia sempre gentilissima con la rivale), pensa di rompere la promessa fatta di non volare più e di togliersi la maschera dell’ossigeno mentre batte il record d’altitudine. Comunque anche la morte qui, il suicidio, non appare tanto una punizione quanto una scelta consapevole della donna sul proprio destino, dato che l’uomo, ignaro, le ha detto di considerare un «dovere» lasciare la famiglia nel caso della nascita di un figlio. Alla fine la protagonista ha un monumento, la statua di una vittoria alata, in ricordo delle sue imprese eroiche e come modello di imitazione per le altre donne: cosa impensabile, trattandosi di adulterio, nella Hollywood di pochi anni dopo. 37

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MELODRAMMA ANNI TRENTA

Quando lo sceneggiatore è del livello di William Faulkner, come accade in Today We Live (Rivalità eroica, 1933) di Howard Hawks (MGM), il tema dell’impedimento amoroso e dell’attrazione sessuale si complica di riferimenti freudiani: Diana (Joan Crawford), giovane aristocratica inglese, conosce l’americano Bogard (Gary Cooper) dopo che ha appena avuto notizia della morte del padre in guerra; lui viene ad affittare la casa, lei non fa parola di quanto è accaduto, ma, mentre gli fa visitare lo studio paterno, quando il giovane prende in mano una pipa Diana ha una reazione veramente un po’ eccessiva. Nei giorni seguenti fanno gite in bicicletta, sembrano amarsi, ma c’è una specie di proibizione segreta e lei scappa in guerra a raggiungere il fratello (Franchot Tone) e un caro amico (Robert Young) legati tra loro da un rapporto tipicamente hawksiano di solidarietà virile. Anche Bogard si arruola; si diffonde a un certo punto la falsa notizia della sua morte e Diana reagisce a questa seconda privazione diventando l’amante dell’amico. Quando rincontra Bogard sarebbe ormai disponibile, superato il tabù, ad andare con lui, ma l’amico è accecato in un’azione di guerra e Diana non ha il coraggio di lasciarlo, anche perché si sente colpevole; ci pensano poi amico e fratello a risolverle il problema sacrificandosi insieme in una missione disperata. La cecità come punizione del sesso troviamo, in termini anche più espliciti, in The Dark Angel (L’angelo delle tenebre, 1935) di Sidney Franklin (United Artists), con sceneggiatura cofirmata da Lillian Hellman, in cui l’azione si svolge ancora in Inghilterra durante il periodo bellico (ma i costumi sono, come nel film precedente, contemporanei). Alan (Fredric March) non vuole dire al cugino Gerald (Herbert Marshall), ufficiale a lui superiore, che ha passato la notte con la fidanzata Kitty (Merle Oberon), amata da sempre da entrambi; pensando che abbia passato la notte con una prostituta, Gerald gli nega una licenza; Alan va volontario in missione e diventa cieco. Gli altri lo credono morto ma lui diventa, sotto pseudonimo, un bravo scrittore per bambini, cioè totalmente purificato; quando rincontra Kitty finge di vederci, per paura della sua pietà, ma lei svela l’inganno e tutto finisce bene. Non ci può più essere «happy end» invece, (anche perché i peccati della protagonista sono troppi), in The Rains Came (La grande pioggia, 1939) di Clarence Brown (20th Century Fox) dal romanzo di Bromfield, film che, ancora in ambito inglese, sia pure anglo-indiano, ha un’impostazione melodrammatica abbastanza simile a quella della Si38

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IL TABÙ DEL SESSO

gnora delle camelie. Edwina (Myrna Loy) non è una mantenuta di lusso bensì una lady, ma sulla sua condotta licenziosa il film informa subito con le battute del dialogo e con la scena della visita alla reggia del maragià insieme all’aristocratico Tom (George Brent). Ciò che accade tra i due, mentre il marito della lady e gli altri invitati sono nella sala del ricevimento, è suggerito più che espresso: manca improvvisamente la luce, c’è il simultaneo avvicinamento dei due volti alla luce di un fiammifero che illumina il primo piano, dopo di che stacco e sala del ricevimento con l’impazienza del marito; quando finalmente i due tornano, la Maharani fa notare a Tom che ha il cravattino da sera fuori posto. Però è proprio questo il momento in cui Edwina viene folgorata dalla visione («chi è quel bell’Apollo?») di Rama (Tyrone Power) designato al trono dal maragià e medico che, scoppiata l’epidemia, non si risparmierà per il suo popolo. Ha dunque un futuro ben più significativo della vita borghese che aspetta Armand Duval; e non pare altrettanto focoso se, dopo una gita a cavallo interrotta romanticamente dalla pioggia con ascolto di una melodia indiana, Edwina, ormai follemente innamorata (e abituata in altro modo) gli rimprovera la sua freddezza. Lui si trae facilmente dall’impaccio perché proprio allora incomincia un grande, disastroso terremoto. Ci sono inondazione ed epidemia, Edwina si prodiga come infermiera e, nonostante continuino con Rama a darsi del lei, a un certo punto la Maharani interviene assumendo nel racconto la funzione del vecchio Duval in Dumas, però con meno tatto: temendo che Edwina sia dannosa per Rama, le manda l’ordine di partire; subito dopo lei sbaglia bicchiere, in ospedale, e prende la peste. A quel punto, senza saperlo, arriva Rama e le dice che ha deciso di lasciare tutto per lei; starebbe per baciarla, ma è lei a fermarlo adesso e lui si accorge subito che sta male, e la porta a letto, da paziente. Pur redenta dall’amore, Edwina pagherà: c’è un dialogo d’addio che è pura Traviata, coi progetti di lasciare Ranchipur e di sposarsi; però, appunto come nel melodramma di Verdi, è troppo tardi e lei spira in quel momento, senza che ci sia bisogno della conferma del medico, dato che Armand e medico qui coincidono. Dopo di che c’è, nella scena dell’epilogo, solo la consacrazione a maragià di Rama, tutto lucente di broccati e di purezza.

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L’AMORE E LA STORIA

Il Melodramma, che tende per sua natura all’«alto-mimetico», secondo la classificazione di Frye proprio della Tragedia 22, diventa nel cinema il genere atto al racconto della vita privata dei personaggi storici, soprattutto regine o grandi condottieri, per i quali è normale il contrasto tra ragione di Stato, e dunque potere, e amore, o sesso. Quest’ultimo in realtà è tema centrale solo de L’imperatrice Caterina di Von Sternberg, come abbiamo visto; cioè lì il potere si accompagna al sesso, piuttosto che all’amore, mentre nella maggioranza dei melodrammi hollywoodiani a sfondo storico il potere è rappresentato positivamente solo se si accompagna ad una grande frustrazione sentimentale. È quanto troviamo nel già citato La regina Cristina, dove se pure il sesso ha la sua importanza, la grandezza del personaggio regale è dimostrata dalla sua capacità di rinunciare al trono per seguire le ragioni del cuore. Nel corso del decennio troviamo altri film sugli amori delle regine; e il modello è piuttosto quello della Garbo che quello della Dietrich. Alla Paramount Cecil B. De Mille si riferisce addirittura a Shakespeare e a George Bernard Shaw per Cleopatra (id., 1934) che però finisce per seguire molto più gli schemi di genere che fonti tanto prestigiose. La regina d’Egitto (Claudette Colbert) si dà a Cesare, dapprima, per riconquistare il potere perduto; però quando lo uccidono, lei nonostane veda sfumare il sogno di diventare imperatrice, le cui vesti sontuose sta proprio allora indossando, assistita dalle ancelle (le scene e i costumi sono la cosa più interessante del film), pare soffrire sinceramente. Ma quando incontra Antonio (Henry Wilcoxon) la sua passione è tale che non è disposta, quando il vincitore Ottaviano glielo offre, a scambiare la vita dell’amato con la conservazione del trono. Né Antonio è da meno: all’inizio del film dice che le donne non contano, sono solo oggetto di piacere; ma poi,

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Northrop Frye, Anatomia della critica cit.

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L’AMORE E LA STORIA

conosciuta Cleopatra, arriva al punto di distruggersi come politico per amore di lei; muoiono entrambi, come da realtà storica: prima lui, poi lei, che già morsa dall’aspide e seduta sul trono mentre aspetta i Romani dice a un’ancella: – Se non hai trovato l’amore non dare niente; ma se lo hai trovato dà tutto –. Nonostante i citati, bellissimi costumi di Banton d’altra parte il contesto del film è più anni Trenta che antico Egitto, o tragedia elisabettiana. Basti pensare solo all’impagabile sequenza del ricevimento in casa di Calpurnia dove le signore, con acconciature e abiti da sera anni Trenta, spettegolano dello scandaloso rapporto nato in Egitto tra Cesare e Cleopatra e alla padrona di casa che, da vera signora, finge di non sapere, dicono, guardandola con un po’ di compassione, cose molto gentili sul ricevimento, su come siano sempre gradevoli le serate in casa sua. In quanto al matrimonio tra Antonio e Ottavia, il film finge che avvenga prima ch’egli incontri Cleopatra; così come Cesare si dice pronto a divorziare da Calpurnia per sposare Cleopatra (probabilmente in ossequio al codice Hays...). Al solito ricevimento poi, quando Ottaviano si lamenta perché Cesare scrive sempre ad Antonio e mai a lui, che è il suo erede, la sorella Ottavia gli dice che è naturale, anche lei preferisce di gran lunga Antonio... Il quale frattanto arriva con grossi cani al guinzaglio (che ha qualche imbarazzo, ottenuto l’effetto dell’entrata in scena, a «parcheggiare») ed è assalito da un vero e proprio stuolo di «girls» a cui dice di non avere proprio tempo per loro adesso. Il tema amoroso è un po’ secondario, data la personalità dell’autore, in Mary of Scotland (Maria di Scozia, 1936) (RKO) di John Ford, ma a parte il fatto che il rapporto tra Mary (Katharine Hepburn) e Botwell (Fredric March) sia pure seguendo il testo teatrale di Maxwell Anderson rientra negli schemi del Melodramma, è molto significativo che il tema centrale del film possa essere (così ad esempio lo legge, anche a livello iconico, J.A. Place nella sua seconda monografia, sul Ford «non-western»)23, il contrasto tra la «regina» (Elisabetta) che fa trionfare sempre e solo la ragione di Stato e la «donna» (Maria) che apparentemente soccombe ma che,

23 Cfr. J. A. Place, The Non-Western Films of John Ford, Secaucus, Citadel, 1979, p. 249. Il libro è stato tradotto parzialmente in edizione italiana ed edito dalla Gremese di Roma nel 1983.

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MELODRAMMA ANNI TRENTA

appunto perché più umana, ha dalla sua parte tutta l’attenta solidarietà dell’autore. Non è una regina, ma l’amante di un imperatore, il personaggio femminile di Conquest (Maria Walewska, 1937) di Clarence Brown (MGM), dove Greta Garbo torna al melodramma storico per impersonare una contessa polacca amata da Napoleone (Charles Boyer). Irresistibile come capiamo dalla sua entrata in scena, quando, comparendo in cima allo scalone, ferma con la sua sola presenza dei rudi cosacchi che le stanno devastando la casa, conquista subito il conquistatore francese (donde il titolo originale)24 e dapprima, ubbidendo solo alle sollecitazioni dei politici, si «sacrifica» alla causa della Polonia, dato che Napoleone la tempesta di lettere e di fiori e pare non ci sia altro mezzo per servire la patria. Ci rimette il matrimonio, peraltro con un vecchio, e tratta con molta freddezza Napoleone appunto perchè si è imposto; ma quando lui le manifesta le sue idee di democrazia (!!) e di creazione degli «Stati Uniti d’Europa», la Walewska è a sua volta conquistata dal grande uomo e continua ad amarlo fino all’Elba (prestandosi lì a fargli da messaggera per la fuga) sebbene ormai Napoleone sia stato cambiato dalla smania del potere (lei si scandalizza quando lo sente affermare «l’Europa sono io!») e abbia sacrificato il suo amore al matrimonio con l’Asburgo. Il tutto è raccontato in termini che ancora una volta ci fanno pensare a Camille: mentre Napoleone e Maria si amano felici, in Francia, arriva la madre di lui, Letizia, con discorsi simili a quelli del padre Duval (cioè «non hai il diritto di distogliere Napoleone dai suoi progetti») come se la politica mondiale fosse un «affaire de coeur», discorsi che si trasformano in grande attestazione di stima quando salta fuori che la polacca è incinta dell’Imperatore. Il quale però non viene a saperlo, perché quando la chiama a raggiungerlo a Schombrun e Maria sta per dargli la bella notizia, lui la previene e la gela con quel progetto su Maria Luigia che li fa litigare. Certo la Walewska ha ragione: la vita col figlio che quando va a letto la sera dice le preghierine o col quale si mangia insieme a tavola, Napoleone riesce a farla giusto all’Elba, quando lei lo va a trovare; ma anche lì il

24 Ma prima di arrivare a Conquest vi fu una vera e propria sarabanda di ipotesi sul titolo, con una ventina di proposte avanzate soprattutto dal responsabile dell’ufficio newyorkese della MGM e pubblicate da Alexander Walker, in Greta Garbo, cit., p. 185.

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L’AMORE E LA STORIA

paradiso della vita famigliare dura poco, lui è ripreso dal demone del potere e la fa partire col bambino, sotto un temporale, per i suoi complotti. Però Maria ormai sarebbe disposta a seguirlo anche a Sant’Elena; è lui a rifiutare, sia pure dicendole che è stato l’unico vero amore della sua vita e che il suo ricordo sarà la sola consolazione dell’esilio. Si chiede anche come abbia fatto a resistere a un amore simile, tanto forte da spezzare l’acciaio. Un rapporto con Napoleone, ma visto negativamente, appunto come prevalenza di un potere al quale non ci si può opporre, c’era stato anche in Anthony Adverse (Avorio nero, 1936) di Mervyn Le Roy (Warner Bros), dove il fatto di essere amata dall’Imperatore impedisce alla moglie del protagonista, cantante famosa (Olivia De Havilland) di ricongiungersi all’adorata famigliola. Dunque il marito (Fredric March) che pure ha le sue colpe ed è stato tanti anni lontano, è costretto a ripartire col figlio senza di lei. Ancora gli amori, anzi l’unico platonico amore, di una famosa regina troviamo in Marie Antoinette (Maria Antonietta, 1938) di W.S. Van Dyke (MGM) che, tratto dal libro di Zweig, non ne accoglie, come nota Argentieri25 il giudizio sul personaggio, «donna comune, non troppo intelligente, non troppo stolta», ma ne fa un’eroina di tutte le virtù, compresa la fedeltà a un marito inetto e non amato. Madre esemplare e anche dotata di buone capacità dal punto di vista politico, la Maria Antonietta (Norma Shearer) del film ama romanticamente il conte Fersen (Tyrone Power) che fa di tutto, ma inutilmente, per sottrarla alle perfidie e agli orrori nei quali si risolve la Rivoluzione. In lei non c’è tanto il solito contrasto tra amore e potere, dato che non riesce ad avere del tutto il primo e perde il secondo, ma piuttosto l’esaltazione di una rettitudine tutta perbenista e borghese, consona alla società americana dell’epoca in cui il film fu fatto. Con la fine degli anni Trenta infatti si fa più stretto il legame tra cinema hollywoodiano, anche di genere, e realtà contemporanea. Sempre restando nel Melodramma, il famosissimo Gone With the Wind (Via col vento, 1939) di Victor Fleming (MGM) che chiude il decennio rappresentando una specie di apoteosi della produzione di

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Cfr. Mino Argentieri, Il film biografico, Roma, Bulzoni, 1984, pp. 39-40.

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MELODRAMMA ANNI TRENTA

Hollywood è anche, come nota Sorlin26 un interessante film storico, sebbene gli aspetti più problematici, ad esempio la ribellione del Sud e il rapporto con la popolazione di colore, vi siano sacrificati rispetto alla vicenda della fissazione amorosa sempre frustrata di Rossella (Vivien Leigh) per Ashley (Leslie Howard) e delle sue realtà matrimoniali che culminano nel rapporto con Rhett (Clark Gable). Però Via col vento è anche, in anni in cui Roosevelt aveva promosso una vasta azione politica in favore dell’agricoltura, un film sull’amore per la terra. Certo, non è quella del film una società agraria vista dalla parte dei contadini: i neri sono schiavi, lavorano il cotone e tornano dai campi la sera, ma è giusto che sia così, anzi la madre di Rossella che si dà alle opere di carità scandalizza la simpatica Mamie (Hattie Mac Daniel), così attenta a che i padroni rispettino le regole sociali, cioè a che siano, in fondo, razzisti e classisti. I bianchi fanno feste in villa che durano giornate intere: nelle ore più calde del pomeriggio le signore e le signorine riposano, con le nere che fanno loro vento, mentre i signori parlano di politica in biblioteca. I bianchi lavoreranno la terra soltanto quando la guerrà avrà distrutto tutto e non si saprà più cosa mangiare; allora Rossella giura davanti a Dio (con musica di Steiner al massimo e uno dei movimenti di macchina all’indietro che sottolineano i momenti più drammatici del film) che né lei né alcuno dei suoi soffrirà più la fame. E la vita dei campi, presentata in termini idilliaci nelle prime scene, adesso che non ci sono più gli schiavi viene vista come una specie di maledizione, tanto che Rossella si affretta, grazie a due matrimoni, a diventare capitana di industria, cioè donna del Nord, dell’America nuova. Tara, la terra, e il Sud continueranno ad essere mitizzati (Rossella fa tutto per salvare Tara), ma non ci è dato sapere quale sarà la vita della protagonista dopo il suo ritorno là, nel finale quanto mai mitizzante con i soliti colori, il solito campo lunghissimo e la solita musica. Nella lunga lotta melodrammatica tra utopia e realtà amorosa, tra Ashley e Rhett, tra Sud e Nord, alla fine, aldilà delle molteplici vicende create dalla guerra e dal tempo, sembrerebbe aver vinto non Ashley, cioè l’utopia (e in ciò le regole del genere sono scavalcate, Rossella si accorge all’improvviso, quando potrebbe averlo, di non amare più

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Pierre Sorlin, La storia nei film, Firenze, La Nuova Italia, 1984, pp. 97-99.

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L’AMORE E LA STORIA

Ashley), ma il Sud, cioè la terra, anche se non è dato sapere quale può essere il significato di questa vittoria se non pensando al pericolo che, con lo scoppiare della guerra in Europa e con la politica di Hitler, si prospetta per la Patria. Dunque ritorno a Tara come valore primario, aldilà d’ogni utopia o realtà amorosa, in quanto amore e protezione per la terra d’origine. L’utopia amorosa del Melodamma si identifica invece esplicitamente con la difesa della Patria in That Hamilton Woman (Lady Hamilton, 1941) girato a Hollywood da Alexander Korda (United Artists) quando si era ormai vicini all’entrata in guerra degli Stati Uniti. Pare che il film fosse molto amato da Churchill27, ma è soprattutto un melodramma, raccontato in flash-back da Emma (Vivien Leigh) ridotta a rubare una bottiglia in un’osteriaccia di Calais. Vediamo dunque la casa a Napoli dell’ambasciatore inglese Hamilton, collezionista raffinato che conosce il passato di «ballerina» (con evidente eufemismo) di Emma ma la fa venire lì in quanto bellissima e, non pago di farne la sua amante, la sposa. Del resto Emma è subito molto benvoluta a corte: quando Nelson (Laurence Olivier) ha bisogno di uomini dal re di Napoli è lei a farglieli ottenere, cosa che si ripete quando Nelson va ad affrontare Napoleone in Egitto e ha bisogno di rifornimenti. Prima di tutto dunque lotta al «dittatore» che minaccia la patria inglese (sarà ancora Emma a convincere un Nelson riluttante a tornare in servizio per combattere, e morire, a Trafalgar); ma anche un grande amore contrastato, con lady Nelson che non ne vuole sapere del divorzio neanche dopo che Emma è svenuta, incinta, alla Camera dei Lords. I grandi momenti d’amore, potènziati dalla musica di Rozsa, sono espressi con delle corse della Leigh: una è quando Emma crede che Nelson sia già partito da Napoli e invece sa dalla madre ruffiana che la sta aspettando su una terrazza; gran corsa attraverso varie stanze del palazzo, poi abbraccio con lo scoccare della mezzanotte tra il 1799 e il 1800, con Nelson che fa una specie di inventario dei grandi eventi e uomini del secolo (ed Emma ci aggiunge anche lui). L’altra corsa invece è prima della partenza per Trafalgar: Emma va a prendergli una coperta e quando scende lo trova già 27 L’interesse di Churchill per questo film è ampiamente documentato da Karol Kulik, Alexander Korda, New Rochelle, Arlington House, 1975, che parla di That Hamilton Woman da p. 245 a p. 253; la studiosa afferma che il discorso di Nelson all’Ammiraglio Britannico (riportato a p. 151) fu scritto tenendo presente i discorsi di Churchill contro Hitler.

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MELODRAMMA ANNI TRENTA

partito e dice alla madre di essere sicura che non lo vedrà più, come se già avesse letto un libro di storia. Le ultime parole di Nelson a Trafalgar sono comunque per lei e, visto a distanza di tempo, il film non si differenzia poi tanto da altri melodrammi storici così che diventa quasi incomprensibile il fatto che, a quanto racconta la Kulik, Korda avrebbe rischiato di essere messo sotto inchiesta per eccessiva propaganda filobritannica e sarebbe stato salvato solo da Pearl Harbor.

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LA COMMEDIA-MELODRAMMA

Come si diceva altrove28 i generi non sono mai rigidamente chiusi in se stessi; se pure presentano, nella Hollywood «classica», strutture molto forti, contengono spesso scene, situazioni o personaggi tagliati secondo tradizioni narrative diverse. Quando il materiale narrativo, di sceneggiatura o d’immagine che sia, riferito a un altro genere è molto, si può assistere a una vera e propria «contaminatio» di due generi. Ci sono naturalmente generi che tra loro si uniscono meglio di altri: Melodramma e Commedia, essendo in un certo senso antitetici, dovrebbero presentarsi del tutto distinti; e invece, specie negli anni Trenta, li troviamo spesso confusi, in film difficilmente classificabili con termine univoco. C’è in particolare un autore, considerato specialista di melodrammi, che si avvicina piuttosto alla Commedia: si tratta di Frank Borzage, di cui abbiamo parlato a proposito di Addio alle armi e di Tre camerati. Il suo A man’s Castle (Vicino alle stelle, 1933) (Columbia) è uno dei film più citati a proposito della Depressione e citato come melodramma29. L’inizio potrebbe essere quello di un film di Chaplin: Bill (Spencer Tracy) incontra Trina (Loretta Young); lui è elegantemente vestito da sera e invita lei, affamata, al ristorante: in realtà Bill è un vagabondo che sta solo facendo pubblicità a un prodotto; non ha i soldi per pagare il conto e se la cava con una specie di comizio che spaventa il padrone.

28 Rimando alla parte relativa alla «commistione dei generi» nel mio Il racconto del film cit., pp. 61-64. 29 Cfr. il saggio su Borzage in The Hollywood Professionals, vol. III di John Belton, London-New York, Tantivy-Barnes, 1974, e anche Jean-Loup Bourget, Il cinema americano da D. W. Griffith a F. F. Coppola, Bari, Dedalo, 1983.

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MELODRAMMA ANNI TRENTA

Il film, però, molto più della vita dei baraccati rimasti senza lavoro racconta la contrapposizione tra un uomo che si sente attratto dal fischio dei treni nella notte e sogna solo il viaggio, l’avventura, la mancanza di legami, e una donna che al contrario sogna la casa, gli elettrodomestici, il matrimonio e i figli. Lei accetta peraltro la libertà di lui, non lo condiziona, accetta persino di essere tradita. Gli uomini, dice, sono degli eterni bambini, destinati a soccombere di fronte al senso di realtà delle donne. Bill nella sua baracca ha lasciato un buco nel tetto per guardare le stelle quando sta sdraiato, o gli uccelli, di giorno, e sognare la libertà; ma poi, dopo aver tentato di fuggire, deve riconoscere che quella libertà è illusoria, è un sogno cui va preferita la costrizione, se tale è, del matrimonio. Dunque, se il significato della Commedia è quello che abbiamo detto, si tratta proprio di una commedia: e non tanto per l’happy end quanto proprio perché vi è affermato esplicitamente la superiorità del principio di realtà, che non è ovviamente solo (anche se si accorda col significato del film) il conclamato «realismo» dell’ambientazione, baracche, stracci, continui problemi di soldi (ma Bill accetta di lavorare solo finché ha debiti da pagare). È il titolo originale a darci la chiave del significato del film: gli uomini fanno soprattutto castelli in aria, inutili e anzi dannosi; grazie alle donne e al matrimonio però, riescono a salvarsi. In History Is made at Night (L’uomo che amo, 1937), sempre di Borzage (United Artists) se non ci fosse un delitto che complica la situazione, già parecchio assurda, e un marito che manda a picco un bastimento (suo) pur di non perdere una moglie da cui è stato lasciato, tutto sarebbe solo lieve commedia, con un capocameriere (Charles Boyer) maestro di raffinatezza e di galanterie nei confronti di una signora (Jean Arthur) afflitta appunto da un perfido marito che Paul, ben presto fortunato gestore di un ristorante alla moda, saprà sostituire felicemente. Aldilà del plot, macchinoso e improbabile (quel ritrovamento dei due innamorati a New York, dopo che si sono persi di vista in Francia senza sapere nulla uno dell’altra) è proprio il tono della regia che fa commedia: gli scherzucci dei protagonisti anche nei momenti più tragici; l’insistenza sugli abiti da sera, i begli ambienti e i modi «signorili»; e anche, naturalmente, la recitazione della Arthur e di Boyer. E che cos’è se non una commedia The Shining Hour (Ossessione del passato, 1938) (MGM) dove l’amore inespresso tra cognati (che poi tor48

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LA COMMEDIA-MELODRAMMA

nano ai rispettivi coniugi) si svolge tra frivolezze mondane, gite a cavallo, e tè nelle case di campagna e dove la protagonista (Joan Crawford) crede di sposarsi per interesse, ma si accorge alla fine di amare proprio il marito (Melvyn Douglas) e non il cognato (Robert Young)? Un personaggio abbastanza simile è quello interpretato dalla stessa Crawford nel pressoché contemporaneo Mannequin (La donna che voglio, 1938), sempre diretto da Borzage e sempre prodotto da Mankiewicz (MGM). Anche questo, come il precedente, classificato melodramma30, è piuttosto da considerarsi commedia, se si pensa che racconta di una Jessica (la Crawford) lavoratrice indigente e poi indossatrice, che ci mette un’ora di film a dire al ricchissimo John (Spencer Tracy) che non lo ama (lei intanto è moglie di un uomo indegno); poi, lasciato il marito, non sfugge più a John e lo sposa per i suoi soldi; quindi, perdutamente innamorata, gli resta legata, felicissima, quando lui si rovina. «Dov’è finito il tuo spirito irlandese?», gli dice incitandolo a ricominciare da capo; e possiamo intuire che con la grinta «buona» che si ritrova John troverà ancora il modo di fare tanti soldi, cosa di cui nel film continuamente si parla, ben di più che di utopie amorose, peraltro inesistenti. In una società in cui non ci sono neppure le ferie matrimoniali (vediamo Jessica andare al lavoro la mattina dopo il primo matrimonio) è abbastanza intuibile quale sarà la scelta di lei tra un buono a nulla per di più disonesto e un John che le offre cene sulla terrazza del grattacielo in cui vive. Ma non era solo Frank Borzage a unire nei suoi film elementi di Melodramma e di Commedia con prevalenza di quest’ultima. C’è ad esempio un altro precedente film della Crawford, Chained (Incatenata, 1934) di Clarence Brown (MGM), che parrebbe il melodramma promesso dal titolo (sempre, quando c’entrano le catene): Diane (Joan Crawford) è l’amante di un uomo anziano, ricco e già sposato con moglie contraria al divorzio; va in crociera per distrarsi e incontra il bel Mike (Clark Gable) col quale è subito amore, fatto di scherzucci al bar, nuotate in piscina, feste con stelle filanti, podismo diurno e dialoghi al chiaro di luna, il tutto naturalmene per la gioia del costumista Adrian. Finita la crociera, la moglie del vecchio ha concesso il divorzio; dunque

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John Belton, The Hollywood Professionals cit.

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MELODRAMMA ANNI TRENTA

Diane non se la sente di deluderlo e preferisce fingere con Mike adattandosi alla sua sorte di gran signora. Dopo un anno di matrimonio ritrova Mike, in un negozio di fucili; ma a questo punto è il vecchio marito che, ben lontano dai soliti vendicativi mariti guastafeste del Melodramma, la lascia andare col suo giovane innamorato in Argentina, dove lui ha un ranch e possono sposarsi e cavalcare tutto il giorno, ricevendo tra l’altro gentili missive dal vecchio, rimasto con loro in ottimi rapporti. E pare che tutti vivano la vita bella e facile dei ricchi che era, in quegli anni, proposta soprattutto, sugli schermi, dal genere Commedia.

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COMMEDIA ANNI TRENTA

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LE SIGNORINE RICCHE E STRANE EREDITIERE E CENERENTOLE

Genere essenzialmente «femminile» come e ancor più del Melodramma, la Commedia si basa molto sulla varietà e l’eleganza dei costumi delle attrici, che essendo contemporanei hanno un diretto rapporto con la moda, e sulla messa in scena di ambienti ricchi. Sarebbe troppo facile affermare, come è stato fatto d’altra parte, che ciò accada a causa della Depressione, per assicurare gli spettatori «che gli sporchi ricchi erano dopo tutto solo delle persone come tutte le altre e che sebbene il denaro non potesse comprare la felicità, certamente faceva nascere complicazioni sociali e sessuali di un certo interesse»31. Né basta la spiegazione che quegli ambienti venissero scelti in quanto permettevano al pubblico povero, che in quegli anni affollava i cinema, un accesso a mondi socialmente preclusi. Pare, piuttosto, un problema connesso alle caratteristiche del genere in termini più vasti, meno legati a congiunture storiche particolari: gli ambienti ricchi, liberi da preoccupazioni economiche, meglio permettono l’esplicarsi di quel gioco sentimentale mirato al matrimonio, che della commedia è sempre la conclusione; e inoltre prospettano a volte un interscambio tra le classi sociali, in nome del principio superiore del sentimento, di scarso riscontro nella realtà. È questo l’unico aspetto utopico della Commedia, che ha invece, come abbiamo detto sulla base delle teorie di Bettelheim, lo stesso fondamento «realistico» delle fiabe. Possiamo considerare questi due aspetti della Commedia anni Trenta riferendoci a due principali tipologie di personaggi femminili: le ereditiere e le Cenerentole. Le prime, spesso ribelli e bizzose, hanno bisogno di un uomo che le domini e le riequilibri; seguono cioè il modello narrativo della «bi-

31 Cfr. Thomas Schatz, La «screwball comedy» degli anni ’30 in AA.VV., Effetto commedia. Teoria, generi, paesaggi della commedia cinematografica, a cura di Claver Salizzato e Vito Zagarrio, Roma, De Giacomo, 1985, p. 65.

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COMMEDIA ANNI TRENTA

sbetica domata»32. Nelle seconde invece le virtù sono premiate dalla promozione sociale e il modello narrativo è, appunto, la fiaba di Cenerentola. Milionarie bizzose troviamo, agli inizi del decennio, in commedie di Frank Capra, destinato a diventare uno dei nomi più prestigiosi nel genere: già in Platinum Blonde (La donna di platino, 1931) (Columbia), ove peraltro Anne (Jean Harlow), che sposa un giornalista chiamato poi dai compagni «Cenerentolo», non gli rende la vita tanto impossibile da giustificare il suo abbandono finale a favore di una collega (Loretta Young); si limita infatti a farlo smettere di lavorare (ma lui non ne sembra disperato), a dargli un cameriere personale (e questo gli dà fastidio) e a farsi accompagnare in società. Però il film è contro i ricchi, forse in quanto realizzato a soli due anni dal crollo di Wall Street: ben lungi dall’essere simpatici ed eccentrici come li troveremo in commedie più tarde, anche dello stesso Capra, qui infatti i ricchi corrompono la stampa a suon di dollari, si fanno servire con una certa arroganza e anche nei sentimenti paiono capricciosi (invece che essere «domata», Anne rinuncia al marito senza traumi). Vanno però sulle prime pagine dei giornali per i più piccoli episodi dei loro affari di cuore e questa è una costante che troveremo in molte commedie americane del decennio. Il primo vero grande successo di Capra fu, come sappiamo, It Happened One Night (Accadde una notte, 1934) (Columbia) dove, se c’è ancora un giornalista-Cenerentolo, appare con evidenza il modello «bisbetica domata»: Ellie (Claudette Colbert) incomincia col pretendere che l’autobus la aspetti (e la aspetta naturalmente solo il giornalista, che l’ha riconosciuta), spende senza pensare, è capricciosa nelle sue decisioni, come si vede all’inizio quando si getta dallo yacht dopo la lite col padre. Però è anche generosa e regala tutti i pochi soldi che ha a una madre con bambino, affamati, che incontra sull’autobus (la commedia è anche simbolicamente la presa di coscienza della realtà sociale di quei giorni da parte di una ragazza ricca). Peter (Clark Gable), il giornalista, è colui che la «doma», che la tratta duramente (salvo poi essere pieno di attenzioni e proteggerla ben aldilà dell’intento di scoop) e rappresenta insomma (come mette in evidenza Stanley

32 Anche per questo modello narrativo della Commedia rimando al mio saggio Il modello e le contaminazioni in «Cinema & Cinema», n. 33 cit.

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LE SIGNORINE RICCHE E STRANE EREDITIERE E CENERENTOLE

Cavell)33 un’alternativa al padre. Infatti sarà proprio quest’ultimo, mentre accompagna la figlia, dopo una serie di equivoci, all’altare verso il primitivo fidanzato, ad indurla a fuggire invece con Peter. La commedia non potrebbe essere più classica: è un viaggio attraverso la realtà (i motel, la povera gente che incontrano) compiuto dall’ereditiera, un po’ «bisbetica» e un po’ «bella addormentata», con la guida dell’uomo forte e protettivo (basti pensare alla scena in cui le allontana il corteggiatore molesto) per arrivare all’amplesso fuori scena teorizzato da Frye, qui proprio anche visualizzato nell’immagine delle coperte-«mura di Gerico» presentate in dettaglio, nella loro simbolica caduta, nell’inquadratura finale, cui segue lo spegnersi della luce, cioè l’avvenuto rapporto. Anche la Mary (Joan Crawford) di Forsaking All Others (La donna è mobile, 1934) di W.S. Van Dyke (MGM) – storia di milionari un po’ annoiati che fanno gli scemi per passare il tempo e che piantano i promessi sposi davanti all’altare quasi con regolarità – anche lei quando finalmente trova l’uomo giusto in Jeff (Clark Gable), fa esplicito omaggio alla sua virile superiorità nella scena finale: raggiungendolo sulla nave con cui lui sta per partire credendola sposa del rivale, gli porge senza parlare la spazzola usata da Jeff stesso in una scena precedente per punirla picchiandola sul sedere. È significativo qui che Jeff appartenga allo stesso ambiente di Mary; mentre il rapporto con un «Cenerentolo» da parte dell’ereditiera sembra trovarsi ancora in My Man Godfrey (L’impareggiabile Godfrey, 1936) di Gregory La Cava (Universal), sebbene poi il finale ribalti completamente il discorso. Nella scena iniziale, tra barboni in riva al fiume che dicono che in realtà «la fortuna dietro l’angolo non si trova», c’è un riferimento alla crisi dell’epoca. Scopriremo poi che si tratta di persone rovinate in quanto oneste, banchieri, dice Godfrey (William Powell), i quali hanno preferito sacrificarsi al posto dei loro clienti... Lui sta tra loro quando Irene (Carole Lombard) lo ingaggia per una caccia al tesoro (deve portare un autentico pezzente) e quindi lo vuole come maggiordomo. E lui si dimostra efficientissimo in una casa dove una delle signorine si

33 Stanley Cavell, Pursuits of Happiness, The Hollywood Comedy of Remarriage, Cambridge, Harvard University Press, 1981, pp. 73-109, ma vedi soprattutto alle pp. 90-91.

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COMMEDIA ANNI TRENTA

diverte la notte a rompere vetrine mentre l’altra porta a casa un cavallo e lo mette in biblioteca. L’interesse un po’ ossessivo di Irene per Godfrey viene prospettato come un capriccio dal quale l’uomo è un po’ infastidito ed è una fissazione che, trattandosi di un servitore, potrebbe apparire scandalosa se lo scandalo non fosse svuotato, a neanche metà film, dal «mistero» sulla identità vera del protagonista, appartenente ad una delle prime famiglie di Boston e rovinato da una donna. Ci potrà essere dunque il matrimonio finale con Irene e la dimostrazione che i ricchi, sui quali il film pareva critico, sono capaci di reagire e di riprendersi (Godfrey), di vincere la loro vanità capricciosa (Irene) e di pentirsi della loro malvagità (la sorella) anche se tutta la loro vita si svolge tra il bar del Ritz e viaggi in Europa (regolarmente registrati dai giornali). Ancora una milionaria, Connie (Myrna Loy) e un giornalista (William Powell) troviamo in Libeled Lady (La donna del giorno, 1936) di Jack Conway (MGM) dove la donna sta per far andare a picco un giornale che ha dato una notizia scandalistica su di lei, ma dove la situazione viene salvata prima dalla macchinazione un po’ cinica del direttore del giornale (Spencer Tracy) e poi, soprattutto, dall’amore che naturalmente nasce tra il giornalista e la sua presunta vittima. Film di grande successo, La donna del giorno fu anche molto imitato (ancora nel ’62 ne riprendeva quasi puntualmente la sequenza della pesca Howard Hawks in Man’s Favorite Sport); molto simile, un anno più tardi, ci appare Love Is News (L’amore è novità, 1937) di Tay Garnett (20thCentury-Fox), dove la milionaria (Loretta Young) si prende decisamente gioco del giornalista (Tyrone Power) annullando subito il vantaggio da lui ottenuto con uno scoop (naturalmente sulla vita sentimentale di lei) con l’annunciare a tutti, lui ignaro, che si sono fidanzati. Nella lotta col giovanotto la stramba signorina non perde un colpo: riesce a farlo licenziare, a farlo mettere in prigione (mandandolo a prendere un portacipria e poi accusandolo di averla derubata) persino, a livello micronarrativo, a portargli via l’ultima sigaretta, perché il giovane è furbo, ma sempre un po’ meno di lei. La sequenza della prigione, quando arrivano tutti quegli amici in abito da sera a trovare la milionaria, sembra annunciare l’Hawks di Bringing Up Baby (Susanna!, 1938), una delle commedie più significative di tutto il periodo. 56

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Resta fondamentale, su questo film, la lettura fattane da Cavell34 tutta in chiave sessuale; però si può intendere anche come una commedia del tipo «principe addormentato»35 specie nella prima parte, con le scene al golf in cui Susan (Katharine Hepburn) prende a David (Cary Grant) prima una pallina da golf, poi l’auto, quindi, al Ritz, lo fa cadere con un’oliva, poi lo fa credere un ladro (ed è stata lei a scambiare sbadatamente la borsetta), infine gli strappa la giacca. Quando Susan riesce a trattenere il giovane studioso nella sua casa del Connecticut (mandandogli i vestiti in lavanderia) il film è già diventato quasi una farsa e ci sono momenti di stanca, se tutti i gag relativi al cane e alla sottrazione dell’osso non si vogliono leggere, come fa Cavell, in termini psicanalitici; e anche per quanto concerne il motivo dei due leopardi identici, di cui uno feroce e l’altro docile, l’insistenza appare un po’ tediosa se non si accetta l’interpretazione simbolica dello studioso americano (i due leopardi rappresenterebbero la duplice realtà interiore dell’uomo). E lo sdoppiamento un po’ demenziale dei personaggi (Grant non è più il serioso professore ma è Mister Osso «carino senza gli occhiali», come dice Susan) raggiunge forse l’apice quando la ricca protagonista smette di fare la «signora» e parla, in cella, come le donne dei film sulla malavita (così spiega lo stesso David il suo modo di parlare) arrivando a un doppio senso che non si può cogliere in italiano quando minaccia di scatenare il suo «puss» (gattone), leopardo nella traduzione del doppiaggio, ma in inglese anche organo sessuale femminile. E se non è forse molto studiato il doppio riferimento a Rodin (Il pensatore in apertura e Il bacio in chiusura) è però certo che quella di Susan a David è una specie di caccia e iniziazione sessuale, con perdita e ritrovamento di «osso» che guida al solito amplesso matrimoniale fuori scena dopo il superamento del superego (la scienza) rappresentato da quello scheletro di dinosauro che Susan alla fine fa fragorosamente crollare.

34 La parte relativa a Bringing Up Baby del libro citato di Stanley Cavell è stata pubblicata in traduzione italiana su «Cinema & Cinema» n. 33 cit. 35 Si tratta, anche in questo caso, di uno dei modelli di commedia da me individuati nel saggio citato più volte; è anche il titolo di una opera teatrale di Terence Rattigan (portata sullo schemo da Laurence Olivier per Marilyn Monroe col titolo The Prince and the Showgirl) che ha ovvio riferimento alla fiaba della «bella addormentata», ma rovesciandone i termini.

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COMMEDIA ANNI TRENTA

Nel film successivo, Holiday (Incantesimo, 1938) diretto da George Cukor da una commedia di Philip Barry (Columbia) la Hepburn è ancora un’ereditiera che tuttavia desidera, in un certo senso, uscire dalla sua classe, in cui si sente soffocata e ci riesce grazie a Johnny (Cary Grant) socialmente inferiore e dapprima fidanzato della sorella. Come il giornalista di tanti altri film è lui ad aiutare Linda (la Hepburn) a ritrovare la sua personalità autentica, cioè a scegliere i valori della madre morta (il cui ritratto troneggia nella «stanza dei ricordi» dove Linda si rifugia durante la festa e dove tutti i personaggi positivi del film finiscono prima o poi per capitare) contro quelli del padre despota, che sono soltanto la ricchezza e il potere che ne consegue. Forse in ricordo del loro film precedente, la Hepburn e Grant sono anche un po’ pazzerelloni (scherzo e fantasia sono al primo posto nella stanza simbolica): fanno insieme un numero acrobatico con scandalo del padre e dei cugini pettegoli. Ben più significativa comunque è l’altra commedia scritta dallo stesso Barry per la Hepburn e ancora tradotta in film da Cukor: Philadelphia Story (Scandalo a Filadelfia, 1940), (MGM) grande successo che, almeno per la Hepburn, chiude il decennio piuttosto che aprire quello successivo (quando la quasi costante presenza di Spencer Tracy determinerà delle trasformazioni). È la più tipica delle commedie del «remarriage», elemento primario secondo Cavell nella commedia cinematografica americana; e infatti nella scena di prologo ci sono le premesse di un divorzio: Dexter (Cary Grant) esce di casa, vediamo tutte le valige pronte vicino all’auto, Tracy (Katharine Hepburn) lo segue con la sacca da golf, la getta a terra e ne estrae una mazza che spezza; mentre lei rientra in casa, lui le picchia sulla spalla, lei si volta e lui con una manata sulla faccia la fa sparire all’interno. Però Tracy, come scopriamo in seguito, non è tanto la solita ereditiera bizzosa da commedia, la solita «bisbetica» da domare, bensì una Diana, una dea lunare fulgida (così le dicono più volte) e intollerante (il matrimonio sarebbe fallito perché lei non ha aiutato il marito, che aveva il vizio di bere). A «scoprire» la sua umanità, a risvegliarla con un bacio come nelle fiabe, è ancora un giornalista, Mike (James Stewart), intellettuale (è anche scrittore) e, si presume, un po’ di sinistra, il quale però riceve la sua lezione e deve riconoscere che uno può nascere povero e non valere niente mentre un altro può nascere ricco e valere molto. A farlo arrivare a questa illuminante intuizione è Dex58

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ter, astuto, cavalleresco con la ex-moglie e campione in più sport, oltre che buon cacciatore: insomma un vero uomo, oltre che un vero signore. Contrariamente a quanto Mike pensava, conosce anche la biblioteca cittadina (l’ha fatta costruire suo nonno). Tracy dunque non potrà essere che sua: la «verginità» rinfacciatale sia dall’ex-marito che dal padre, viene superata grazie a Mike (senza rapporto sessuale) in modo che lei possa tornare, più umana come accade a tutte le ereditiere della commedia, con il primo e più degno amore. Le Cenerentole, al contrario, non hanno bisogno di trasformazioni del carattere: già fornite in partenza delle virtù necessarie, assistono un po’ stupite e senza grandi sforzi al verificarsi di una serie di circostanze fortuite che le vedono realizzate e trionfanti. Tipico in questo senso appare The Good Fairy (Le vie della fortuna, 1935) di William Wyler, (Universal) su sceneggiatura di Preston Sturges da Molnar, dove un’orfana (Margaret Sullavan) per sfuggire alle avances di un vecchio miliardario, finge di essere sposata con un avvocato quasi alla fame (Herbert Marshall) scelto a caso, al quale il ricco fa fare fortuna. Che la fata di questa fiaba sia un po’ sporcacciona (il vecchio vuole giocare con la ragazza in un separé al lupo e all’agnello) non toglie nulla agli schemi di genere, sostanzialmente rispettati. Cenerentola diventa invece una snob premiata in Alice Adams (Primo amore, 1935) di George Stevens, (RKO) commedia di un realismo persino amaro fino all’happy end edulcorato e un po’ forzoso, che infatti era diverso nel romanzo di Tarkington da cui il film è tratto, ove la protagonista, rinunciando finalmente al suo snobismo assurdo, si metteva a fare la segretaria36. Nel film il desiderio di Alice (Katharine Hepburn) di apparire ricca, evidente fin dalla prima scena dal fiorista, se diventa motivo di critica duro e quasi drammatico, specie in scene come quella della signora Adams che chiama fallito il marito perché non guadagna tanto da permettere alla figlia di essere nella buona società, assume poi dei toni romantici quando è, secondo la ragazza, il solo modo per riuscire ad essere corrisposta dal giovane ricco (Fred Mac Murray) di cui è innamorata. Alice soffre, sogna e piange come se davvero fossero cose serie le stupidaggini che la preoccupano; mentre lo

36 Cfr. Donald Ritchie, George Stevens An American Romantic, New York, Museum of Modern Art, 1970; p. 11.

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COMMEDIA ANNI TRENTA

snobismo diventa motivo di ilarità nella scena del pranzo dove gli Adams si sforzano invano di fare i «signori». Ma poiché il suo vizio è giustificato, nel film, dall’amore, anche questa Cenerentola è destinata a trionfare. Ad esplicitare il riferimento alla fiaba sono comunque Charles Brackett e Billy Wilder (come già, prima, in L’ottava moglie di Barbablù, scritto per Lubitsch, e, poi, in Colpo di fulmine, scritto per Hawks) sceneggiatori di Midnight (La signora di mezzanotte, 1939) di Mitchell Leisen (Paramount). Qui un’avventuriera (Claudette Colbert) che si finge baronessa pensa di essere smascherata («Ogni Cenerentola ha la sua mezzanotte» dice), ma trova invece la fata-milionario (John Barrymore) che sta al suo gioco perché lei seduca l’amante della moglie: ma non glielo dice subito, così che lei si trova un appartamento al Ritz, un intero guardaroba e una macchina con chaffeur senza sapere chi e perché glieli ha forniti. Se la protagonista non è in partenza dotata di tradizionali virtù, in compenso rifiuta alla fine di sfruttare la sua posizione: l’amore infatti trionfa, ma nella persona di un taxista (Don Ameche) che in un molto wilderiano gioco di travestimenti tra realtà e finzione, sanità e follia, la protagonista ha presentato come suo marito.

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MASCHILE E FEMMINILE

La Commedia è senza dubbio il genere in cui più precisamente sono definiti i ruoli sessuali; e, in questi anni Trenta, in termini piuttosto tradizionali, privi di ambiguità (con qualche eccezione che vedremo). Non a caso uno dei prototipi del genere, realizzato nel ’19 partendo da una commedia di Barrie, è quel Male and Female (Maschio e femmina, 1919) di De Mille (Paramount) teso a dimostrare la superiorità naturale dell’uomo in quanto la ricca e capricciosa signorina, una volta naufragata nell’isola deserta, deve sottomettersi al suo prima disprezzato cameriere se vuole sopravvivere; e date le qualità virili di lui se ne innamora anche; salvo poi, tornata in patria, riprendersi l’insulso, ma socialmente paritetico, fidanzato. Risale non casualmente ai primi anni Trenta, per i motivi già esposti, l’apparire di un fenomeno abbastanza unico nel cinema americano come quello di Mae West: non bella e ormai non più giovane, non brava, ma molto audace e inventiva nel suggerire, in sceneggiature scritte da lei stessa, un’evoluzione di quel ruolo femminile che la Commedia andava già sclerotizzando in pochi tratti immutabili, se pure, com’è stato notato, con trasgressioni soprattutto verbali 37. Prendiamo ad esempio il terzo film dell’attrice, I’m No Angel (Non sono un angelo, 1933) di Wesley Ruggles (Paramount), girato prima degli interventi censori e giudicato da qualcuno il migliore della West38. Il finale è un po’ ipocrita: nella sequenza del processo si suggerisce che Tira (Mae West) in fondo sia onesta, che di Jack (Cary Grant) si sia innamorata sinceramente e gli sia stata fedele; non è chiaro invece in cambio di cosa abbia avuto dal cugino di lui tutti quei gioielli e soldi e vestiti e pellicce. Ma la relazione con quel signore incomincia quando lui lascia volutamente il suo bastone da passeggio nell’appartamento di 37 Vedi Franco La Polla, Mae e Ginger: la maschera dietro il volto, in «Cinema & Cinema», n. 27-28, aprile-settembre 1981. 38 Cfr. John Douglas Eames, The Paramount Story, London, Octopus Books, 1985, p. 94.

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COMMEDIA ANNI TRENTA

Trina nascosto tra dei fiori, e, quando va a riprenderlo, lei gli chiede se non lo abbia fatto perché pensava che potesse fiorire anche il suo bastone... Qui però la spregiudicatezza sembra andare anche aldilà dei doppi sensi, molto frequenti nella West: a un certo punto Trina fa vedere a un’amica collane e altri doni e dice di averli avuti tutti da bei ragazzi, la cui fotografia tiene in cornice; più tardi accosta ai ritratti un animaletto scolpito e sembra scontato che chi entra in quella specie di zoo abbia avuto con lei rapporti tali da permetterle certe similitudini (ad esempio quella col toro). In Go West, Young Man (1936) di Henry Hathaway (Paramount) invece, a parte le ironie sulla diva sexy della prima parte e ancora qualche spiritoso doppio senso (ad esempio quando la diva chiede al giovane ingegnere con la mania delle invenzioni di portarla in laboratorio per vedere il suo «prototipo») tutto resta negli schemi convenzionali (la diva finisce con lo sposare il suo agente, al quale è stata sempre fedele; o meglio non è riuscita ad avere nessun altro). L’unica commedia veramente ambigua del decennio non è di Mae West ma è quel Sylvia Scarlett (Il diavolo è femmina, 1936) di George Cukor (RKO) che, non a caso, fu un insuccesso. Qui, come è stato detto, «la scena erotica diventa preponderante»39 ed è un erotismo ambiguo, quale Cukor non farà più. La trasformazione iniziale di Sylvia (Katharine Hepburn) può essere castrazione dovuta all’Edipo, come suggerisce Kané, quando lei si taglia le trecce e diventa un «ragazzo». Compiuto il travestimento, le situazioni del film giocano tutte sull’ambiguità, ma non per fini comici, come sarà ad esempio in A qualcuno piace caldo. Qui ci sono tre imbroglioni, padre, figlia e un amico, Jimmy (Cary Grant), che si mettono a fare spettacolo; e dei tre, Sylvia non smette mai di fingere, tanto che anche Jimmy la crede un ragazzo, con gli equivoci da commedia antica che s’immaginano, sebbene non ci sia rapporto ambiguo con lui, ma col pittore, subito attratto dal «ragazzo» e stupito di questa attrazione, tanto più quando «lui» prende a schiaffi la sua amante. L’ambiguità è naturalmente anche nella recitazione: in nessun altro film la Hepburn ha recitato così (si

39 Cfr. Pascal Kané, Sylvia Scarlett, in «Cahiers du Cinéma», n. 238-239, maggio-giugno 1977, pubblicato in traduzione italiana in Il cinema di George Cukor, a cura di Enrico Ghezzi e Marco Giusti, Incontri Cinematografici di Salsomaggiore Terme, aprile 1983.

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MASCHILE E FEMMINILE

pensi a come a un certo punto salta atleticamente la spalliera di un divano). È comunque scontato che Sylvia finisca per rivelarsi all’uomo amato e che si giunga al tradizionale happy end che rappresenta anche, in questo caso, la conquista definitiva della femminilità da parte di Sylvia. La non equivalenza dei ruoli, anche dopo il matrimonio, è dimostrata da una commedia classica del periodo, The Awful Truth (L’orribile verità, 1937) di Leo Mac Carey (Columbia), in cui Jerry (Cary Grant) e Lucy (Irene Dunne) si sono lasciati per sospetto di infedeltà reciproca: questa però ci appare sicura nel caso del marito (che la ammette con un amico al Club), e molto improbabile nel caso della moglie (che continua, anche quando sono soli, a dare del lei al presunto amante). Hanno un cane in comune, che viene assegnato a lei ma che lui ha il diritto di andare a trovare e dunque è tutto un rincontrarsi fino al prevedibile ricongiungimento in una scena finale, in due camere da letto adiacenti, che è una delle più esemplari sul tema del desiderio e dell’amplesso fuori scena che suggella la Commedia. In The Cowboy and the Lady (La dama e il cowboy, 1938) di H.C. Potter (United Artists) la vicenda dello scontro, e poi dell’amore, tra Strech (Gary Cooper) e Mary (Merle Oberon), diventa, più simbolicamente, rappresentazione della diversità tra due generi in base ad una loro connotazione sessuale: il Western, cioè il Maschile, contro la Commedia, cioè il Femminile. Strech è infatti un cowboy che non vuole saperne di donne, come dice agli amici; quando Mary è costretta a cambiarsi d’abito, in una scena, e lui vede in uno specchio le spalle nude di lei, ha uno scatto come di spavento. Mary però grazie a un racconto strappalacrime riesce a farsi baciare; ma Strech si sente in colpa per quel bacio al punto di voler sposare la ragazza che, ricca e bizzosa, rifiuta, finendo per punizione in piscina. Infine Mary acconsente al matrimonio e il film diventa come una commedia di Capra, cioè sulla linea di Roosevelt, quando il cowboy (che non a caso è Cooper e che scopre in ritardo di avere sposato una milionaria) non si trattiene dal dire tutto quello che pensa dei politicanti intrallazzoni agli ospiti importanti che trova a cena dal suocero. Dopo di che, quest’ultimo, preso dalle parole del genero, rinuncia all’intrallazzo di una candidatura e nel finale sembra che abbia vinto il Western, cioè i sani valori della nazione americana: tutti appaiono ade63

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COMMEDIA ANNI TRENTA

guati, nel modo di vestire e in quello di pensare, alla «vita semplice» dei cowboys, bandendo ogni frivolezza. Una vera e propria apologia della frivolezza femminile e del Femminile in generale troviamo in una delle commedie più riuscite del decennio: Women (Donne, 1939) di George Cukor (MGM), dall’opera teatrale della Luce. Si tratta in verità di un’apologia un po’ retrograda anche per l’epoca: il personaggio che rappresenta la saggezza dell’età avanzata, la madre di Mary (Norma Shearer) dà alla figlia una lezione sulla sopportazione silenziosa come unica risposta ai tradimenti degli uomini. Mary invece non sopporta, si fa montare dalle amiche pettegole e chiede il divorzio; ma se ne pentirà perché anche Miriam (Paulette Goddard), ballerina furba, (il suo animale è la volpe, nella presentazione dei titoli di testa), le dice a Reno che quel suo scappare via e lasciare il campo libero a Crystal (Joan Crawford, pantera nera) è da vigliacca. Per quanto «gazzella» dunque, Mary riesce a darsi il «rosso giungla» sulle unghie (è lo smalto raccomandato dalla manicure che per prima ha sparso il pettegolezzo sul marito di Mary) vincendo tutte le altre «belve» di amiche. L’ossessione del Femminile, deliziosamente ironizzato non solo nella commedia originaria ma anche e soprattutto nella sceneggiatura di Anita Loos, è evidente fin dalla prima sequenza, quell’ingresso nel salone di bellezza della signora con cane (rigorosamente femmina, come ogni apparizione nel film) che si lamenta dell’aggressività dei cani maschi e subito diventa ridicola nelle sue eccessive attenzioni all’animale così come, in quel tempio del narcisismo femminile nei cui ambienti ci conduce con insistenza la cinepresa di Cukor, sono ridicole le eccessive cure agli animali-donne della classe ricca. Gli uomini sono oggetto costante dei discorsi e obiettivo di tutte quelle cure esteriori (c’è anche una lunga sequenza in un atelier con tanto di sfilata di moda): si fa tutto per gli uomini, ma pare che essi abbiano importanza soprattutto in quanto detentori del potere economico. Nessuna di queste mogli lavora, ma anche quelle che lavorano, cioè le massaggiatrici, le sarte e le cameriere, sembrano interessate e coinvolte solo dagli affari di cuore delle signore (si veda per tutte la scena molto alla Lubitsch in cui la decisione del divorzio è raccontata attraverso il resoconto che ne fa, in cucina, la cameriera alla cuoca). Non solo l’amplesso ma l’Uomo stesso è, qui, fuori scena; a lui però tende infine, sorridente, luminosa, con le braccia protese, la donna prota64

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MASCHILE E FEMMINILE

gonista, Mary, nell’inquadratura finale con felice movimento di macchina all’indietro. È un Altro che resta in fondo inconoscibile, oggetto di una commedia che si è svolta tutta per lui ma senza che lui l’abbia determinata, perché, anche nella seduzione, gli uomini appaiono in questa commedia sempre soltanto manipolati.

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LA SPREGIUDICATEZZA DI LUBITSCH

Quando si afferma il sonoro Ernst Lubitsch è già maestro riconosciuto di commedie ed acquista anzi funzione dirigenziale alla Paramount. Incomincia a collaborare con attori-cantanti quali Jeannette Mac Donald o Maurice Chevalier, cosa che lo porta alla realizzazione di alcuni musicals, o piuttosto commedie con canzoni, qual’è ad esempio Montecarlo (id., 1930) ove il tema della signora che si innamora di colui che crede un parrucchiere (ma che è un gentiluomo, anche molto ricco, a differenza che in L’impareggiabile Godfrey) appare tipico del genere e, per di più, con una «agnizione» finale delegata al teatro, ad una rappresentazione all’opera di Monsieur Beaucaire, che è già in parte un discorso sul genere, dato che la risposta ai problemi «reali» è demandata del tutto alla loro trattazione nella finzione scenica. In One Hour with You (Un’ora d’amore, 1932) Lubitsch firma la regia con Cukor; si tratta di una ripresa della prima commedia realizzata da Lubitsch in America, The Marriage Circle (Matrimonio in quattro) girata nel ’24 alla Warner Bros. Mentre nella versione muta l’ambiente è Vienna (come nella commedia di Schmidt da cui deriva) Un’ora d’amore si svolge a Parigi, vi sono minori finezze linguistiche, qualche canzone e qualche scena aggiunta, come quella iniziale in cui i due protagonisti, sorpresi dai poliziotti a baciarsi sulle panchine di un parco, hanno l’aria di mentire quando affermano di essere sposati, ma poi li vediamo entrare insieme nel bell’appartamento déco che costituisce la scenografia fondamentale del film. Lì il movimento di macchina sulla porta, tipico di Lubitsch, sta maliziosamente a suggerire il rapporto sessuale, come malizioso è poi, in un’altra scena a letto, il gesto di André (Maurice Chevalier) che continua a spegnere la luce mentre Colette (Jeannette Mac Donald) la riaccende. La spregiudicatezza del soggetto, l’adulterio del marito con la migliore amica della moglie, pare accresciuta rispetto all’altra versione: c’è in più ad esempio tutto un gioco di gags sulla cravatta («tie», il cravattino da sera) che acquista connotazioni ambigue; Mitzi, la futura amante, glielo scioglie 66

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LA SPREGIUDICATEZZA DI LUBITSCH

e glielo riaggiusta in continuazione nella sequenza della serata, quando, con l’inconsapevole aiuto della moglie ignara, riesce a porre le premesse della seduzione. Se il presunto tradimento di Colette è tutto fasullo, pensato giusto per ingelosire il marito (anche perché il corteggiatore è ridicolo) quello di André è reale e verificato dal detective; ma non ci sono grandi scenate e drammi; ci sono invece duetti canori in cui si esaltano le gioie del matrimonio, in quanto così si risolvono problemi d’orario e di luoghi d’incontro e in più senza proibizioni. In Trouble in Paradise (Mancia competente, 1932) il tema dei ladri gentiluomini, molto diffuso come vedremo nella Commedia, e che trova spiritosa espressione in quella prima parte a Venezia quando i due protagonisti (Herbert Marshall e Miriam Hopkins) si derubano reciprocamente fingendo di essere membri dell’aristocrazia internazionale, si intreccia con quello dell’attrazione della ricchissima madame Colet (Kay Fancis) per il «segretario» Gaston (Marshall), gioco la cui posta è il sesso non il matrimonio, dice giustamente Fink40 e che incomincia fin dal momento dell’assunzione (lui dice che se fosse suo padre la sculaccerebbe. – E se fosse il mio segretario? – chiede la signora. – Lo stesso – . – Lei è assunto –). Equiparato ai gioielli, il tema del sesso resta sempre nell’ambito del desiderio, sebbene in termini smitizzanti41: anche nell’addio finale quando Gaston dice alla signora «non sa quello che perde», lei pensa sospirando al sesso, mentre lui intende una collana. In Design for Living (Partita a quattro, 1933) ridotto da Ben Hecht dal testo teatrale di Noel Coward, il personaggio maschile è triplicato, mentre quello femminile resta unico: ci sono un pittore (Gary Cooper) e un commediografo (Fredric March), amati entrambi, prima platonicamente poi anche sessualmente, dalla ragazza (Miriam Hopkins); la quale, non riuscendo a scegliere tra i due, sposa un industriale (Edward Everett Horton). Ma di che matrimonio si tratti è espresso attraverso un bellissimo gag molto lubicciano: i due ex-amanti mandano, il giorno della cerimonia, due fiori in un vaso; la donna li butta a terra; poi entra in camera da letto col marito e la vediamo riuscire e

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Vedi Guido Fink, Ernst Lubitsch, Firenze, La Nuova Italia, 1977, p. 65. Soprattutto un’analisi di questo film di Lubitsch si trova in Enrico Giacovelli, La commedia del desiderio, cit. 41

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COMMEDIA ANNI TRENTA

rimettere i fiori a posto; la cinepresa resta ancora fissa sulla porta, dopo che questa si è rinchiusa; quando vi torna sopra la luce, cioè con ellissi temporale quando s’è fatto giorno, esce il marito in pigiama e prende a calci i soliti fiori. Partita a quattro rompe la legge della Commedia: non si va verso lo stabile rapporto monogamico, ma anzi l’incertezza che caratterizza la donna fin dalla prima sequenza dell’incontro sul treno, quando a un certo punto la cinepresa ci fa scoprire che ha ritratto entrambi gli uomini sul suo album, viene ribadita nel finale, quando lei lascia il marito e se ne va in taxi insieme agli altri due. Più compiuta ad ogni modo è la commedia girata da Lubitsch nel ’37 ancora alla Paramount, Angel (Angelo) su sceneggiatura di Samson Raphelson. L’identità del personaggio interpretato da Marlene Dietrich non è svelata per tutta la prima sequenza, quella a Parigi; capiamo che lei non vuole farsi conoscere (dà un nome falso al portiere dell’albergo, come lui capisce dal passaporto), ma non scopriamo chi è nemmeno quando va alla casa di appuntamenti e parla con la «granduchessa» che sembra conoscere da tempo. Potrebbe essere una spia o una ladra, come dice in una battuta (e abbiamo certo un riferimento a Disonorata e a Desiderio, due ruoli precedenti della star). Comunque Anthony (Melvyn Douglas) lo incontra per caso entrando in una stanza; dopo accetta un appuntamento e va da lui, con la solita inquadratura della porta chiusa che ci fa pensare al rapporto. Per lui è subito grande amore con musica, fiori e romanticherie; ma lei non vuole svelare il suo nome. La sequenza successiva, a Londra, parte dalla grande importanza politica di sir Barker (Herbert Marshall), marito della protagonista, il cui ritorno dalla conferenza di Ginevra è annunciato sui giornali a caratteri cubitali (in Lubitsch la stampa è un po’ più seria che in Capra) ed è poi visto con l’ottica del servitore (la Russia è in fase distensiva perché il suo rappresentante era vestito decentemente), cosa tipica di Lubitsch e ripresa in modo molto spiritoso nella sequenza delle corse di Ascot, quando il maggiordomo dei Barker sta per lasciare la fidanzata perché ha salutato la cameriera di una signora americana... Inevitabile l’incontro, a un pranzo per soli uomini, tra sir Barker e Anthony, suo vecchio amico, dal quale apprende la storia della signora misteriosa e che invita a colazione. Sir Barker racconta l’episodio alla moglie mentre lei si sta vestendo per andare all’opera e poi ancora sull’auto e nel palco, ma la rivelazione della identità della donna misteriosa, 68

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LA SPREGIUDICATEZZA DI LUBITSCH

chiamata «Angelo» da Anthony, è tutta risolta in termini puramente stilistici. Anthony arriva ed è ricevuto dall’amico; conversano, Anthony ammira un ritratto seicentesco; in soggettiva di lui la cinepresa scende e vediamo una cornice voltata, sopra il pianoforte: – Quella deve essere tua moglie – dice, ma quando si alza per andare a vedere la fotografia c’è lo stacco. Dopo, quando lady Barker entra in salotto, Anthony non tradisce emozione alcuna; ma c’è la famosa sequenza tanto ammirata da Truffaut42 ove Lubitsch esprime i sentimenti dei tre personaggi coi piatti di carne che tornano in cucina: intatto uno, con il cibo solo tagliuzzato l’altro e vuoto quello dell’ignaro marito. Sir Barker incomincia a sospettare solo quando scopre che la moglie ha fatto un viaggio a Parigi con l’aereo diplomatico (!) senza averglielo detto; poi si ritrovano tutti e tre all’appuntamento dato da Anthony ad «Angelo»; sir Barker si rende conto di avere sempre trascurato la moglie per la politica, le chiede perdono e lei finisce per restare col marito. Anche qui dunque, contro le solite regole, un adulterio e un rapporto coniugale che si mantiene nonostante questo. Ancora più lontana dai canoni la commedia «politica» che Lubitsch gira alla fine del decennio alla MGM, Ninotchka (id., 1939) su sceneggiatura di Wilder e Brackett, che già avevano scritto per lui Bluebeard’s Eight Wife (L’ottava moglie di Barbablù, 1938) pure commedia abbastanza spregiudicata sul rapporto coniugale. Film non del tutto antisovietico (si pensi alla figura della granduchessa) ove l’occidente sta però a rappresentare la raffinatezza, il lusso e l’amore, la commedia racconta la funzione quasi di Pigmalione che Léon (Melvyn Douglas) assume nei confronti di una Ninotchka-Greta Garbo appositamente squadrata, imbruttita, seria e amimica fino al famoso scoppio di risa al ristorante quando Léon cade con la sedia. Dopo il ritorno a Mosca c’è una scena che dà un forte colpo al mito della diva: Ninotchka invita nella sua stanza i tre compagni di Parigi e cucina per loro. Vediamo la Garbo fare una frittata! È tutto un mondo che sta cambiando, sebbene Lubitsch non arrivi agli eccessi cui farà arrivare la diva Cukor, due anni dopo, determinando la fine di una carriera e di un’epoca. 42 Vedi François Truffaut, Lubitsch était un prince, in «Cahiers du Cinema», n. 198, février 1968, ripreso in F. Truffaut, I film della mia vita, Venezia, Marsilio, 1978.

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LE FAVOLE POLITICHE DI CAPRA

Abbiamo visto come la commedia di Capra, fino al trionfo di Accadde una notte, si inserisca negli schemi ormai consolidati del genere e si ambienti in un mondo in cui la stampa quotidiana, quasi la vita politica non esistesse, mette sempre in prima pagina le minime notizie riguardanti le bizze amorose dei ricchi. Ma il ’36, non a caso l’anno della trionfale rielezione di Roosevelt, segna per l’autore un momento di passaggio, che d’altra parte, come appare abbastanza chiaro dalla lettura dell’autobiografia di Frank Capra, The Name Above the Title, era già stato preparato dal suo incontro con Myles Connolly, giornalista e scrittore di novelle, che gli aveva rimproverato di fare delle cartoline mentre avrebbe potuto fare delle Cappelle Sistine43, cioè aveva giudicato il suo cinema troppo lontano e indifferente rispetto ai problemi reali del tempo e troppo preoccupato invece di fare la volontà di Harry Cohn, il boss della Columbia. L’opera di passaggio al «new deal» di Capra, Mr. Deeds Goes to Town (È arrivata la felicità, 1936), resa possibile naturalmente dal successo che la precede, dà un più profondo significato alla figura di semplice ragazzo di campagna (Gary Cooper) erede di una fortuna, ne fa, come dice Jeffrey Richards un mito del Populismo, a mezza strada tra Lincoln e Cristo stesso44. C’è ancora una giornalista, Babe (Jean Arthur), pronta a sfruttare la sua ingenuità; ma non si tratta più soltanto di notizie scandalistiche, di stampa rosa: c’è una precisa responsabilità sociale di cui i ricchi, dice Capra (col suo sceneggiatore Riskin), devono farsi carico e di cui si fa carico infatti Longfellow Deeds, per il quale sarebbe troppo facile rinunciare alla ricchezza e tornare al suo villaggio, alla vita semplice e innocente. La verifica dell’ostilità nei suoi confronti da parte delle vittime della Depressione lo convince 43 Cfr. Frank Capra, The Name Above the Title, New York, Macmillan, 1971, p. 121; ed. it. Il nome sopra il titolo. Autobiografia, Roma, Lucarini, 1989. 44 Cfr. Jeffrey Richards, Frank Capra: The Classic Populist, in Visions of Yesterday, London, Routledge & Kegan, 1973, p. 234.

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LE FAVOLE POLITICHE DI CAPRA

ad usare la sua ricchezza a beneficio degli strati sociali economicamente emarginati, contadini in primo luogo (come Roosevelt indicava con la sua politica). Se ciò implica la condanna del mondo, l’accusa di follia, non c’è però bisogno del «sacrificio» in senso cristiano: siamo pur sempre nella Commedia e i valori troveranno, nella vita terrena, il loro giusto riconoscimento. Capra a questo punto sembra non poter più fare film di pura evasione ma si trasforma, come dice Sklar, in creatore di miti culturali45: in Lost Horizon (Orizzonte perduto, 1937) siamo nel Fantastico, non nella Commedia, ma il mitico mondo di Sangrilà dove il tempo non passa e tutto è serenità e amore sembra un’altra faccia della soluzione offerta da Capra e Riskin all’America contemporanea dopo, o insieme, a quelle del New Deal, cioè recupero dei valori autentici della gente comune, ossia, in termini storico-ideologici, ritorno all’America agraria di Jefferson. In Mr. Smith Goes to Town (Mr. Smith va a Washington, 1939) il bersaglio non è più, come nella commedia precedente il potere economico, bensì quello politico e Jefferson Smith (James Stewart), il cui nome non è certo casuale, depositario dei valori autentici della Nazione, riesce a «cacciare i mercanti dal tempio»46 perpetuando l’insegnamento di Lincoln, la cui statua è la prima cosa che va a visitare al suo arrivo nella capitale. Ma le commedie di Capra tendono sempre a trasformarsi in favole: infatti a questo punto, cioè una volta smascherate le mire disoneste del potere, non è solo il popolo a sostenere Jefferson Smith, ma lo stesso corrotto senatore Paine (Claude Rains) che prima pensa di suicidarsi poi passa, confessando i suoi torti, dalla parte degli onesti, proprio come aveva fatto il capitalista Kirby (Edward Arnold) in una commedia dell’anno precedente, You Can’ Take It with You (L’eterna illusione, 1938), rinunciando alla mistica del danaro. Il discorso viene ripreso ancora, alle soglie del periodo bellico, in Meet John Doe (Arriva John Doe, 1941) (Warner Bros): il personaggio di John Doe, simbolo dell’uomo comune, viene creato dalla giornalista

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Robert Sklar, Cinemamerica, cit., cap. XII. Cfr. Patterson Murphy, in «Esquiry», january 1940, pubblicato in La frontiera urbana dell’America del New Deal, Comune di Modena, aprile-maggio 1985. 46

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COMMEDIA ANNI TRENTA

Ann (Barbara Stanwyck) in un momento di disperazione, quando sta per essere licenziata; dato che il personaggio ha successo, lei cerca chi possa impersonarlo: all’appello si presentano dei vagabondi, attratti dal guadagno; ma Ann scuote la testa fino a che non entra Long John (Gary Cooper), che secondo lei ha «la faccia giusta», cioè essendo il divo Cooper è proprio quell’«americano puro»47 costruito dal cinema e alla cui immagine non poco ha contribuito il Mr. Deeds interpretato per Capra. Long John in effetti, a differenza di Deeds, non ci è dato in partenza ma è formato sotto i nostri occhi, proprio come un personaggio divistico, in base al diario del padre di Ann, americano sconosciuto ma quanto mai onesto e «autentico» (si potrebbe però vedere anche come la trasformazione di Cooper, nei due film di Capra, in base al pensiero di Roosevelt). Ann finisce per innamorarsi del suo personaggio, che è poi il padre (l’america agraria), ma con la bella faccia di Cooper (l’America massmediologica di Hollywood). Siamo già nel ’41 e dunque nel sogno un po’ troppo esplicitamente edipico in cui Long John si identifica col padre della ragazza amata entra, quale terzo incomodo, il nipote del potentissimo sponsor dei «Club John Doe», uomo che sfrutta l’intera operazione per fondare un terzo partito e arrivare alla Casa Bianca come presidente «duro», cioè nazi-fascista. Dunque non più soltanto lotta ai poteri interni, ma anche a quelle ideologie esterne che rischiano di inquinare la sanità americana: inevitabile, nella parabola di Capra, la ribellione di Long John e il suo identificarsi, fino al rischio della vita, col personaggio di John Doe; pure inevitabile il pentimento di Ann, sviata da pellicce e rubini (cioè, al solito, dal danaro); e assolutamente prevedibile quella sequenza della notte di Natale (la gente del «Club John Doe» si chiede perché non si possa essere tutti i giorni come a Natale) in cui Long John sta per gettarsi davvero dal grattacielo per dimostrare al mondo la sua buona fede. Là arrivano a fermarlo, nel turbinio della neve, sia Ann (ma l’eros, come spesso nel Capra più politico, è funzionale all’ideologia, è un fatto di stima e un primo passo verso l’amore per l’umanità), sia il «cattivo» Norton (Edward Ar-

47 Sulla tipologia del personaggio, come sulle più importanti tipologie divistiche, si veda il mio Miti e stelle del cinema, Bari, Laterza, 1985.

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LE FAVOLE POLITICHE DI CAPRA

nold) con le minacce (ma nei suoi occhi trema una lacrima, se pure il film è più pessimista ed egli non si «converte» come in L’eterna illusione) sia la gente comune, prima di tutti quel vagabondo (Walter Brennan) col quale, sul treno, Long John aveva suonato sull’armonica a bocca, non a caso, una canzone del Pinocchio di Disney, quella in cui il burattino è indotto dal gatto e dalla volpe a marinare la scuola. E ciò diventa conferma sia del ruolo parallelo a quello di Disney (il cui Pinocchio era uscito nel ’40, dunque l’anno precedente) notato da Sklar per Capra, sia di un ulteriore elemento della mitologia culturale americana inserito dall’autore nel film, il mito, studiato dal Fiedler, della vita libera del tramp, del viaggiatore sradicato che ha il compagno ma non la famiglia e si ribella alle costrizioni sociali48. Ma è chiaro che Long John, in un film di Capra del ’41, non potrà soggiacere a questo richiamo un po’ anarchico: basti pensare a quell’inquadratura della scena nell’ufficio del sindaco quando, mentre i membri del «Club» gli parlano, vediamo i ritratti di Lincoln e di Washington dietro il primo piano di Cooper. Aggiuntovi anche Jefferson, sono i tre nomi fatti a Long John come «momenti di luce» dal direttore del giornale, quando si pente e gli svela, al solito, le macchinazioni del politicante Norton.

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Leslie Fiedler, Amore e morte nel romanzo americano, Milano, Longanesi, 1983.

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TRUFFATORI RISPETTABILI

Apparentemente lontane dagli schemi della Commedia, sono le commedie degli anni Trenta che si basano su delle truffe: in qualche caso esse coincidono con quelle sul tema dei ladri gentiluomini, che da Arsenio Lupin in poi avevano una tradizione abbastanza consolidata nella letteratura popolare. Ne abbiamo visto un esempio, in parte, con Mancia competente di Lubitsch; un altro, supervisionato dallo stesso Lubitsch (ma firmato da Borzage) è Desire (Desiderio, 1936) (Paramount) ove l’equiparazione tra sesso e danaro (o gioielli), di cui parla Fink per il regista49 è esplicita fin dai titoli di testa, in cui appare una donna con bracciale di brillanti in dettaglio e poi una collana di perle. Questa collana è motore di tutta la commedia, in quanto per impossessarsene la seducente avventuriera Madeleine (Marlene Dietrich) architetta la truffa a Parigi, con un gioielliere e uno psichiatra e poi aggancia, in viaggio per la Spagna, l’americano ingenuo Tom (Gary Cooper) nelle cui tasche nasconderà, ad insaputa di lui, il gioiello per passare la frontiera. Però la donna finisce per innamorarsi di Tom ed è chiaro, da quella prima scena sotto la luna, che non solo dovrà rinunciare alla collana se vuole lui (e infatti il gioiello sarà restituito al gioielliere) ma che dovrà proprio cambiare vita. Sesso e danaro (o gioielli, ma frutto comunque d’azioni disoneste) più che equivalenti sono qui complementari, come si capisce dalla scena in cui l’anziana ladra sua amica confessa a Madeleine di aver dovuto in gioventù rinunciare all’amore (anche il loro partner nelle truffe appare scapolo e privo di legami affettivi). E non è forse nemmeno tanto casuale il fatto che nel solito mondo europeo ricco (e qui disonesto) di Lubitsch, arrivi a portare l’autenticità del sentimento e dei valori morali un giovane americano. Anche quando non arrivano ad essere ladri, sia pure gentiluomini, i truffatori delle commedie hanno sempre in questi anni, se sono protago-

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Guido Fink, Ernst Lubitsch cit., pp. 75-84.

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TRUFFATORI RISPETTABILI

nisti, molte scusanti: una può essere il fatto di imbrogliare solo imbroglioni, come accade al James Cagney di Blonde Crazy (1931) di Roy Del Ruth (Warner Bros) dove, lasciati gli aspetti sinistri e aggressivi del gangster, coi quali era diventato un divo, egli tenta con successo la commedia dando prova di intelligenza, inventiva, savoir faire, fornitigli in abbondanza da un personaggio concepito in partenza come antintellettuale. Basti pensare al confronto col vero disonesto del film (Ray Milland), marito della compagna di truffe (Joan Blondell) del protagonista e a come quest’ultimo a un certo punto reciti con gestualità effemminata e canzonatoria le poesie di Browning che l’altro fa leggere alla donna. Gentilezza, raffinatezza, cultura, possono essere peggio della truffa dice il film; infatti la donna alla fine saprà scegliere per il meglio. Il mondo della truffa può essere visto con simpatia anche perché, in fondo, è abbastanza simile a quello dello spettacolo: è quanto si può concludere pensando a Twentieth Century (Ventesimo secolo, 1934) di Howard Hawks (Columbia) dove il regista tirannico (John Barrymore) riesce alla fine ad avere ancora l’attrice (Carole Lombard) da lui formata ed amata (secondo lo schema di Pigmalione) grazie appunto ad un inganno, facendole firmare il contratto fingendosi in punto di morte. Però è chiaro che nonostante lui alla fine la tratti di nuovo come una principiante e lei pesti i piedi dalla rabbia, la genialità del regista è tale che la loro collaborazione (oltre che la loro intesa sul piano privato, per ubbidire alla legge del genere) porterà a buoni risultati. In un’altra commedia «classica» del decennio, Nothing Sacred (Nulla sul serio, 1937) di William Wellman (United Artists) il problema diventa, più che la truffa vera e propria, la dialettica tra realtà e apparenza. Qualcosa di simile dunque all’«inganno» dello spettacolo. Ecco perché anche Hazel Flagg (Carole Lombard) non può essere un personaggio negativo. Tutti credono che lei dovrà morire a causa di radiazioni avute durante il lavoro; la notizia è andata sui giornali ed ha suscitato l’interesse di un giornalista (Fredric March) in cerca di rilancio che ne fa un caso nazionale. In realtà Hazel non ha niente, è stata una diagnosi errata; ma le apparenze sono tutte a suo favore e la ragazza, con la complicità ignara del cronista, entra in una grande finzione che ha tanto più l’apparenza di autenticità in quanto perfettamente equivalente (acuta intuizione di questa commedia) all’apparato pubblicitario (spet75

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COMMEDIA ANNI TRENTA

tacoli, celebrazioni, lanci di nuovi locali) messo in moto dalla presenza di Hazel a New York. Ogni segno resta a suo favore: quand’essa crolla, dopo essere stata equiparata alle «eroine della storia», pensano a un cedimento psicologico e invece è solo ubriaca; quando finge di suicidarsi per trarsi d’impiccio, il giornalista, sempre ignaro e anzi scandalizzato da tutto quel bailamme, è lì a «salvarla» e a proporle il matrimonio. E se la rivelazione dell’inganno, una volta Hazel sottoposta a visita medica, può mettere in pericolo il rapporto amoroso (che tuttavia trionferà, naturalmente, nel finale), non può più essere accettata da tutto l’apparato politico, che ha fatto suo l’inganno in funzione elettorale. Il «nulla sul serio» della Commedia è anche questo: la realtà individuale, il bacio al tramonto tra Hazel e il giornalista sul transatlantico che li porta lontano alla fine, è immagine stereotipa ma è anche certezza, mentre tutto il resto può essere finzione, imbroglio, spettacolo e non verità. Il sindaco e le altre autorità politiche non se la sono potuta permettere questa verità: e tutto si è risolto in ulteriori commoventi addii sui giornali, oltre che in un funerale molto solenne ma senza nessuna salma. Hazel e il giornalista sono stati fatti fuggire verso una felicità che Wellman ha l’intelligenza di prospettare in termini di fiaba, aiutato in ciò anche dalla presenza e dall’uso del colore.

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MELODRAMMA ANNI QUARANTA

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AMORE E GUERRA

Gli Stati Uniti entreranno nella Seconda Guerra Mondiale, com’è noto, solo nel dicembre del ’41, dopo Pearl Harbor; ma già da prima, da più di due anni, cioè da quando la guerra era scoppiata in Europa, la produzione hollywoodiana era spesso stata concepita in funzione del grande evento. Tra i generi di maggior successo, il Melodramma era forse quello che meglio si adattava al momento storico, poiché la guerra rappresentava di per sé un impedimento al libero esplicarsi del discorso amoroso, in accordo dunque con uno dei canoni narrativi del genere stesso. C’erano sempre stati, perciò, melodrammi a sfondo bellico; ma non è certo un caso che venga prodotto nel ’40 il remake di uno dei più famosi, Waterloo Bridge (Il ponte di Waterloo), dal dramma di Robert Sherwood, che, già portato sullo schermo nel ’31, viene realizzato alla MGM da Mervyn Le Roy facendo dell’ufficiale inglese protagonista, Roy (Robert Taylor), un combattente non solo della Prima, come nel testo originale, ma anche della Seconda Guerra Mondiale. Il remake diventa un classico del genere filmico, grazie forse anche a quella triplice coincidenza di impossibilità amorosa rappresentata, oltre che dalla guerra, dalla fatalità e dalle differenze di classe (come nota La Polla). Ad interpretare Myra, la ballerina che si prostituisce per fame e si suicida per vergogna in una Londra bellica, viene chiamata Vivien Leigh che reduce dal grande trionfo di Via col vento recupera, qui come in Lady Hamilton, la sua origine inglese. La storia del loro tragico amore viene rievocata in flash-back da un Roy ormai brizzolato e ufficiale della nuova guerra. Il passaggio al passato è costruito grazie al dettaglio sul portafortuna di Myra, un idoletto d’avorio che Roy evidentemente ha recuperato dopo la morte di lei e contempla su quello stesso ponte dove è avvenuto il loro incontro e anche il suicidio dell’amata. È una storia d’amore tutta costellata di addii fin dalla prima scena, la sera dell’incontro, dopo il dialogo del rifugio; addii in realtà sempre falsi, per scelta o per fatalità (prima Roy rinuncia alla cena col colonnello per 79

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MELODRAMMA ANNI QUARANTA

raggiungere Myra, ma poi la sua partenza per il fronte è rimandata e infine egli ritorna dopo che la fidanzata lo ha creduto morto avendone letto il nome tra i caduti su un giornale, nome che Le Roy fa a caratteri cubitali, in soggettiva della protagonista, nella scena in cui Myra incontra la futura suocera in una sala da thè e le lascia, non volendo rivelare la tragica realtà appena appresa, una pessima impressione). La felicità amorosa invece è tutta concentrata nella sequenza del «Valzer delle candele» che Le Roy dice nella sua autobiografia di avere inserito in quanto l’uso esclusivo della musica gli risolveva problemi di dialogo 50. Ma prevalgono gli aspetti tragici con le scelte «fatali» della prostituzione (quando Myra, in seguito alla malattia dopo la notizia della morte di Roy, soffre la fame) e del suicidio (quando confessa agli aristocratici parenti del fidanzato, ma non a lui stesso, la sua indegnità) sempre legate al ponte e risolte dalla Leigh in un caso (l’accettazione del primo cliente) col sorriso di «Rossella», solo un po’ più triste; mentre nell’altro con lo sguardo nel vuoto e i fasci di luce dei fari delle camionette militari che le passano ossessivamente sul volto. Il più famoso e il più originale dei melodrammi legati al momento bellico è tuttavia, naturalmente, Casablanca (id., 1942) di Michael Curtiz (Warner Bros) in cui l’amore tra Rick (Humphrey Bogart) e Ilsa (Ingrid Bergman), reso impossibile dalle vicende della guerra, è mitico a tal punto da diventare irreale e persino, come più volte notato, dubbio. Alla fine, come si sa, è Rick a «sacrificarsi» facendo partire Ilsa dal Marocco col marito (Paul Henreid) eroe della Resistenza; ma, dopo la commozione dell’addio (immortalato da Woody Allen in Provaci ancora, Sam) Curtiz inquadra marito e moglie e lei non sembra poi così affranta, mentre Rick, com’è notorio, si consola con l’amicizia per il commissario francese (Claude Rains). E quel grande amore accompagnato dalle note di «As Time Goes by» è talmente contrastato, sognato, negato, soffocato, eluso, sacrificato nelle varie scene del film da far sorgere il sospetto che davvero la sua unica ragione di esistenza si trovi nella sua narrativamente astuta impossibilità. Ma se in Casablanca la guerra appare solo come «colpi di cannone confondibili coi battiti del cuore» ed è allontanata dall’ambiente esotico,

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Cfr. Mervyn Le Roy, Take One, London-New York, Allen, 1974, p. 147.

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AMORE E GUERRA

in This Above All (Sono un disertore, 1942) di Anatole Litvak (20th Century Fox) la guerra emerge in primo piano sia nell’ambientazione inglese, di un’Inghilterra bombardata dagli aerei tedeschi, sia nell’impossibilità amorosa imputata al fatto che lui (Tyrone Power) diserta, piuttosto che alla differenza sociale con Prudence (Joan Fontaine), aristocratica che scandalizza il parentado arruolandosi nelle ausiliarie. Come nota Everson51 nel romanzo di Eric Knight da cui il film è tratto c’è forte attrazione fisica a base del rapporto e scambio sessuale tra i due fin dall’inizio, ma il puritanesimo del cinema di quegli anni era ancora troppo condizionante per cui vediamo che quando i due innamorati impossibilitati a rifugiarsi dalla pioggia in un caffè strapieno o in un cinema ancora chiuso chiedono innocentemente una stanza in un albergo, giusto per conversare, vengono cacciati in malo modo; che, finalmente rifugiati in un fienile, non si va oltre un bacio; che quando vanno al mare insieme dormono in stanze diverse, anzi viene inventata addirittura una specie di soffitta segreta alla quale si sale da una scala dentro la camera di Prudence, in modo che non dormono insieme (e lui rimprovera aspramente un commilitone che lo insinua) ma abbastanza vicini perché lei senta gli incubi notturni da nevrosi bellica che giustificano la diserzione di lui, già eroico combattente, permettendole una sparata sulla bellezza e la grandezza dell’Inghilterra (ormai alleata degli States quando il film viene realizzato) e sul fatto che, prima di tutto, bisogna pensare a vincere la guerra. Infatti lui finirà per ricredersi, sarà favorito da un ufficiale aristocratico comprensivo (dopo aver disertato soprattutto per polemica sociale) ma resterà sotto il crollo di un bombardamento mentre sta salvando la vita a due persone. C’è matrimonio finale all’ospedale, con lui tutto fasciato e gravissimo; non si sa se vivrà, ma è sereno e crede di nuovo nella Patria e nella vittoria; nel romanzo invece Prudence è incinta e l’uomo muore senza sposarla. Più famoso certo era il romanzo da cui venne tratto For Whom the Bell Tolls (Per chi suona la campana, 1943) di Sam Wood (Paramount) la cui sceneggiatura, di Dudley Nichols, punta soprattutto sul rapporto tra Robert (Gary Cooper) e Maria (Ingrid Bergman) facendone appunto un melodramma, mentre la regia vi aggiunge da parte sua una serie di pri-

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Cfr. William H. Everson, Love in the Cinema, Secaucus, Citadel, 1979, pp. 166-167.

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MELODRAMMA ANNI QUARANTA

missimi piani nelle scene d’amore dei due divi protagonisti, inquadrature piuttosto belle ma un po’ insistite. In un coro di falsi spagnoli che, non si sa perché, sono diventati tutti dei gitani, il viso della Bergman è potenziato dai colori, coi capelli biondi tagliati cortissimi, mentre Cooper non si toglie il cappello neppure nelle scene d’amore. La situazione già molto romantica (si incontrano in guerra, sulle montagne, e lei esce da un’esperienza terribile) è esasperata dal fatto che tutto si consuma in tre giorni e tre notti, con la continua coscienza della provvisorietà e della mancanza di un futuro reale. Non ci sono ricongiungimenti oltre la morte ma c’è qualcosa di simile quando Robert dice a Maria, nella straziante scena di addio quando è ferito e sta per essere ucciso, che ormai sono diventati una cosa sola (concetto espresso reiteratamente anche nel romanzo) e che lei porta la vita di lui dentro di sé, ove l’impossibilità del melodramma, in questo caso dovuta alla morte, serve in un certo senso a legittimare il contenuto sessuale hemingwayano, il fatto che magari, dopo le notti nel sacco a pelo, la ragazza è incinta. Nessun spettatore in realtà può figurarsi un futuro in America, suggerito dal dialogo, per quei due, divi famosi scesi da montagne spagnole di cartone; ma è significativo che, in tempo di guerra, il melodramma rinunci ai mitici ricongiungimenti oltre la morte. Man mano che le vicende belliche si fanno più impegnative e drammatiche assistiamo, nel Melodramma, ad una subordinazione dei canoni di genere rispetto all’attualità storica: esplicitamente costruito in funzione dell’alleanza tra Stati Uniti e Inghilterra, ancor più che Io sono un disertore, è ad esempio The White Cliffs of Dover (Le bianche scogliere di Dover, 1944) di Clarence Brown (MGM) dove Susan (Irene Dunne) americana di provincia sposa un Sir inglese, perde nelle due guerre prima il marito e poi il figlio, conservando nel cuore l’amore per entrambi i Paesi ma augurandosi, nella scena finale mentre vede sfilare insieme i due eserciti trionfanti, che non ci possano più essere guerre. Ci sono tuttavia anche scene giustificabili solo pensando all’anno di produzione, come quella della colazione dei due bambini tedeschi già guerrafondai e ipocriti. L’assenza, più che la morte vera e propria, degli uomini, sta alla base di un film assimilabile, se non proprio classificabile nel genere: Since You Went Away (Da quando te ne andasti, 1944) di John Cromwell, produzione Selznick. Si tratta di un’opera al femminile non nel senso 82

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AMORE E GUERRA

della commedia di Cukor del ’39 ma proprio in quanto gli uomini, quando ci sono, sono di passaggio, in licenza, o sono vecchi, come il pensionato. Le donne vivono nella loro attesa e il mood del film è già tutto espresso nella sequenza iniziale, quando Anne (Claudette Colbert) rientra in casa, mesta, dopo aver accompagnato il marito in partenza per la guerra e sale lentamente le scale contemplando fotografie di lui fino al sacrario della camera da letto (ma la cinepresa ha già indugiato su significativi oggetti di famiglia), dove sfoglierà un album di fotografie insieme alle due figlie. Una di queste, Jane (Jennifer Jones), avrà un breve incontro con un soldato (Robert Walker) destinato a cadere in Italia (e la scena dell’addio alla stazione, con l’ombra lunghissima della ragazza sulla pensilina suggerisce già questo destino), ma l’interesse primario del film è nel tema della solidarietà, di come tutti concorrono alla causa comune (eccetto una perfida signora che Anne finirà per cacciare di casa); alla fine scena natalizia, con scambio di doni e giochi e, soprattutto, la notizia che il marito di Anne tornerà. L’atmosfera natalizia ritorna in I’ll Be Seeing You (Al tuo ritorno, 1944) diretto da William Dieterle e prodotto ancora da Selznick dato il successo di Da quando te ne andasti: è l’incontro difficile tra Zachary (Joseph Cotten) che soffre di nevrosi bellica e Mary (Ginger Rogers) in prigione per un delitto di cui è innocente, ma uscita per le vacanze di Natale. Canti, regali, l’albero sempre in scena, le rievocazioni dell’infanzia concellano le parti drammatiche e le impossibilità da melodramma conducendo ad un prevedibile happy end. Finita la guerra, vittoriosamente, nel ’45, non è però che il cinema di Hollywood la dimentichi subito: la figura del reduce, magari ancora sofferente di nevrosi bellica, può essere importante ai fini del melodramma, come accade in Daisy Kenyon (L’amante immortale, 1947) di Otto Preminger (20th Century Fox) dove l’amore «impossibile» di Daisy (Joan Crawford) per l’avvocato Dan (Dana Andrews), sposato con figli viene infine vinto dal fatto che il marito Peter (Henry Fonda) sogna ancora, con incubi, le Panzerdivisionen. La guerra, a questo punto, ha rovesciato un canone primario del genere: lungi dall’essere, come in origine, elemento di separazione per gli innamorati, è al contrario motivo di avvicinamento, di coesione, perché le donne sono indotte a scegliere la fragilità degli eroici combattenti.

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PERFIDE SIGNORE

Non tutte le donne dei melodrammi del periodo bellico comunque hanno la rettitudine e lo spirito di sacrificio degli ultimi personaggi di cui si è parlato: sia o no per i motivi individuati da Michael Wood, cioè che rappresentino un brutto sogno dei soldati tornati in patria52, è un fatto che negli anni di guerra emerge sempre più la figura della donna diabolica, dal cui amore l’uomo è portato alla distruzione. Più che di Melodramma, si può parlare in questi casi di Noir, sebbene il tema amoroso resti spesso primario. Nasce naturalmente un divismo femminile adatto a questo tipo di racconti: in qualche caso si tratta di star già ben collaudate in ruoli negativi, come Bette Davis e Joan Crawford; ma sorgono anche attrici nuove, la cui bellezza viene spesso potenziata da connotazioni ambigue, o del tutto sinistre. Nello spirito di questo tipo di melodrammi è The Letter (Ombre malesi, 1940) di William Wyler (Warner Bros) ove Bette Davis è Leslie, signora «high class» inventata per il teatro da Somerset Maugham che, in una piantagione della Malesia, ammazza a rivoltellate un compatriota inglese e afferma di averlo fatto per difendersi da un tentativo di violenza carnale. Però capiamo subito dalle ombre di Wyler (quella luna coperta dalle nuvole che diventa immagine ricorrente) e dalla recitazione della Davis che, nonostante l’amore del marito (Herbert Marshall) e il sostegno della società, qualcosa non quadra. Esiste infatti una lettera compromettente, scritta da Leslie alla vittima e nelle mani della moglie di questo, indigena: dalla lettera emerge che la signora era l’amante dell’ucciso; dunque Leslie e il suo avvocato la comprano dalla vedova impiegando tutti i risparmi del marito ignaro. In una scena piena di tensione, l’indigena umilia la signora inglese del cui danaro ha bisogno costringendola a scoprirsi il capo e poi a chinarsi a terra per raccogliere il pezzo di carta che potrebbe costarle la 52

Cfr. Michael Wood, L’America e il cinema, Milano, Garzanti, 1979, p. 69.

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PERFIDE SIGNORE

libertà e forse anche la vita. Nonostante l’assoluzione al processo e i festeggiamenti che ne conseguono nella società coloniale, la verità deve alfine essere conosciuta dal marito, al quale Leslie dice di amare ancora con tutto il cuore l’uomo che ha ucciso. Mentre gli amici inglesi danzano in casa, la signora esce in giardino andando incontro al suo destino, un pugnale che scintilla nel buio e che poco prima aveva trovato, annuncio di vendetta da parte della vedova indigena, aprendo una porta. La uccidono, ma la cinepresa di Wyler passa sopra le piante del giardino a farci vedere la gente che danza: nessuno, ancora, si accorge della verità. Se la Davis sembra insistere coi personaggi perfidi, interpretando per lo schermo la tremenda Regina di Little Foxes (Piccole volpi, 1941), ancora di Wyler (RKO) e tratto dalla Hellman, o la Stanley di In This Our Life (In questa nostra vita, 1942) di John Huston (Warner Bros), che rovina l’esistenza ai famigliari, sostanzialmente positivo è invece il personaggio da lei interpretato in Now Voyager (Perdutamente tua, 1942) di Irving Rapper (Warner Bros). Prima brutta e infelice perché si sente rifiutata dalla madre, la Charlotte di questo film diventa bella ed elegante grazie alla psicanalisi, panacea, nella Hollywood del tempo, per trovare l’amore o scoprire assassini, indifferentemente; si innamora dunque di Jerry (Paul Henreid), sposato con figlie e perciò, per quanto infelice e innamorato di Charlotte, non disposto a divorziare dalla moglie. Grazie a un incidente d’auto galeotto che li costringe a passare una notte insieme i due diventano amanti: il segno dell’attrazione sessuale nel film è reiteratamente espresso dal gesto di lui, che accende sempre due sigarette insieme e poi ne passa una alla donna. La chiama «Camille» e le manda camelie; perciò, anche dopo che si sono lasciati, Charlotte rinuncia a sposarsi. Ribelle alla madre al punto di farla morire (e qui rispunta brevemente un po’ di perfidia), per espiare e anche per dare un senso alla sua vita la donna si dedica ai malati di uno psicanalista e in particolare a una bambina che, guarda caso, è figlia di Jerry. Quando lui cercherà di riallacciare il rapporto amoroso, Charlotte pronuncerà la battuta rimasta famosa ad esprimere il gusto del melodramma hollywoodiano: – Perché vuoi anche la luna quando già abbiamo le stelle? – Cioè, essendoci già una situazione parentale nei confronti della bambina ad accomunarli, non si può pretendere anche il recupero di quell’«amour fou» da romanzo (Camille) in nome del quale tuttavia si continua a vivere; e l’inquadratura finale, fuori 85

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MELODRAMMA ANNI QUARANTA

dalla finestra della casa di lei, è proprio sulle stelle, sottolineatura iconica della metafora contenuta nel dialogo. La Davis ritorna a far soffrire il marito in Mr. Skeffington (La signora Skeffington, 1944) di Vincent Sherman (Warner Bros) dove, insolitamente per lei, all’inizio dovrebbe essere bellissima, signorina newayorkese del ’14 molto corteggiata da tutti. Fanny sposa il ricco Job (Claude Rains) senza amarlo, solo per salvare il fratello dalla galera, e capiamo subito che il matrimonio sarà infelice: infatti lei, anche dopo la nascita di una figlia, pensa solo alla sua bellezza e alle mondanità, dunque separazione e divorzio, con amanti per entrambi i coniugi. Però Job continua ad amare la moglie; va in Germania, subisce le torture naziste essendo ebreo e quando torna Fanny ha perso la sua bellezza essendosi ammalata gravemente, con la Davis che passa da una scena in cui ancora deve essere corteggiata da ammiratori giovani e veste ridicolmente come una pupattola, ad inquadrature in cui il trucco la trasforma in quella che l’attrice diventerà, senza trucco, una quindicina d’anni più tardi. La figlia porta via a Fanny l’ultimo amante e lei si guarda terrorizzata negli specchi; ma ha la gran fortuna che il marito, in seguito alle torture, è diventato cieco e dunque si riconcilia con lei, ora disponibile, ricordandola bella come un tempo. Lo sdoppiamento della personalità, la bellezza e la bruttezza che appartengono allo stesso personaggio e sono quasi sempre segno di una condizione morale, sia come rispecchiamento, sia invece a contrario (come in La signora Skeffington), diventa tema primario nel melodramma di questi anni, quasi appunto che la guerra scoprisse ambiguità prima nascoste. Persino ovvio nella simbologia del volto metà sfigurato è ad esempio un film interpretato dalla Crawford, A Woman’s Face (Volto di donna, 1941) diretto da George Cukor (MGM). Anna (Joan Crawford) ha il viso mezzo rovinato e perciò odia il mondo, guida un gruppo di malviventi e si presta a ricatti infami; però, come dice parlando con Torsten (Conrad Veidt) sinistro figuro destinato ad essere suo amante, per lei l’amore è cosa coinvolgente in modo totale, tanto che quando lui le chiede, parlando di Chopin, se ne ha letto le lettere d’amore a George Sand, lei risponde che ha letto tutte le lettere d’amore e subito si mette al piano a suonare, appunto, Chopin. Su schemi doppi e contrastanti si svolge tutta la vicenda: Anna ha perso la bellezza a cinque anni a causa di un incendio doloso provocato dal padre che però l’ha poi salvata dalle fiamme; il racconto prefigura i due rapporti 86

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futuri di Anna, quello con Torsten, che la induce al ricatto e persino all’omicidio, e quello con Gustav (Melvyn Douglas), il chirurgo plastico che la opera ridandole la bellezza e che viene dunque a identificarsi con la parte luminosa del volto di lei, inducendola a rinunciare ai progetti delittuosi dell’altro ed anzi ad uccidere il perfido amante. Anche visivamente il film si compone di due parti abbastanza distinte: la prima più buia e in interni, in cui Cukor tende a nascondere sotto i cappelli di Adrian o a mettere in ombra il trucco mostruoso della Crawford; la seconda (quando Anna si finge istitutrice del bambino che Torsten vorrebbe uccidere per averne un’eredità) in una Svezia nevosa di slitte, sci, boschi e cascate, con la presenza di Gustav, finalmente libero da una moglie indegna, che non si capisce bene cosa sia venuto a fare lì se non ad innamorarsi della sua «Galatea». Prima quasi uccisa dal padre e poi salvata da lui; prima quasi assassina e poi materna; prima brutta e poi bella, la donna in questo film vede convivere in sé gli aspetti più contrastanti, legati, come sempre nel Melodramma, da una mitizzazione del tema amoroso. Lo sdoppiamento della personalità è ancora più evidente quando il Melodramma ricorre a un congegno narrativo molto usato nella Commedia (ma là a fini comici) come quello dei gemelli assolutamente identici. Si veda ad esempio un altro melodramma Warner Bros interpretato da Bette Davis subito dopo la fine della guerra: A Stolen Life (L’anima e il volto, 1946) di Curtis Bernhardt fu realizzato probabilmente per dar modo alla star, che se lo produsse personalmente, di misurarsi con i suoi due ruoli tipici in uno stesso film, e cioè il ruolo della donna affascinante e aggressiva, spesso immorale, e quello della donna dolce e introversa. Qui sono due gemelle ricche di cui prima incontriamo Katy, pittrice che si innamora di Bill (Glenn Ford) giovane guardiano di un faro al quale lei va con la scusa di dipingere (e devono essere quadri orribili, proprio come le dirà poi, a New York, un collega pittore che partecipa al suo vernissage solo per il buffet), ma in realtà per fare discorsi sul fascino della nebbia e sulle persone sole e sensibili insieme al giovanotto. Però quella sera stessa torna a casa e ci trova (e ci troviamo) la gemella Pat, che si presenta come dedita alla mondanità e agli uomini e che, venuta a sapere dell’amore di Katy, riesce facilmente a portarglielo via, perché va a un appuntamento al posto della sorella e piace tanto a Bill che lui, sempre creden87

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MELODRAMMA ANNI QUARANTA

dola Katy, le dice che è come una torta a cui finora era mancata la crema, mentre adesso la crema c’è. Quando capisce che si tratta di un’altra persona, Bill cerca di essere corretto con Katy, ma Pat lo vince con la sua aggressività e riesce a farsi sposare, mentre la gemella va a New York a sublimare nella pittura il suo amore infelice. Però durante una gita in barca Pat muore e Katy, trovata con la vera di lei in mano (rimastale nel tentativo di salvarla) viene scambiata per la sorella. La tentazione di sostituirsi è troppo forte; ma Katy viene a scoprire che Pat era in crisi con Bill, aveva un amante e altri ne aveva avuti prima. Furiosa che il suo grande amore le abbia potuto preferire un’altra se stessa così indegna, Katy lo lascia, anche se poi abbiamo l’happy end che viene in parte a svuotare l’interesse di un melodramma dove casualmente, per gratificare una diva, si fa un discorso sul doppio al femminile, sulla ambiguità di una donna che quando ha tutte le virtù non è appetita dall’uomo, mentre lo è quando diventa viziosa. E ciò, nel Melodramma anni Quaranta, era già accaduto: in Blood and Sand (Sangue e arena, 1941) di Rouben Mamoulian (20th Century Fox) ad esempio una Spagna coloratissima di luci arancione e di mercati verdi e ocra, ispirati alla pittura classica, fa da sfondo all’emergere di Juan (Tyrone Power) come toreador e insieme al suo amore che data dall’infanzia per la bella e virtuosa Carmen (Linda Darnell). Drappeggiato in blu e rossi come un ritratto di Velázquez, Juan affronta vittorioso i suoi tori mentre la moglie prega; ma poi arriva Doña Sol (Rita Hayworth), spregiudicata collezionista di toreri, e tutto va a rotoli: Juan perde notti e giorni con lei, la moglie lo va a cercare dalla rivale e quando questa le chiede se può offrirle qualcosa lei risponde: – Si, mio marito! – salvo poi dover assistere ad una specie di corrida in cui il toro, vincente, è Doña Sol. Siccome però Juan è rovinato dalla passione, la bellissima si mette a danzare (simbolicamente) vestita di rosso fragola con una nuova promessa delle arene. Juan naturalmente, riconciliatosi con la moglie, morrà. C’è equiparazione esplicita, in questo film, tra la donna come male e il toro come strumento di morte: lo dice all’inizio un matador quando Juan è ancora bambino, poi la cosa è ripetuta a proposito di Doña Sol. Se Rita Hayworth divenne una star proprio grazie a questo ruolo di maliarda è con Gilda (id., 1946) di Charles Vidor (Columbia) che cinque anni dopo raggiunse l’apice del successo, in un personaggio che, come 88

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PERFIDE SIGNORE

dice Michael Wood53 è apparentemente colpevole e sostanzialmente innocente, una donna che è stata l’amante di Johnny (Glenn Ford) e si ritrova ad essere la moglie del suo migliore amico. Nel film è sempre Gilda a dominare, sia nell’entrata in scena sotto la cascata di capelli che poi getta indietro scoprendo il bellissimo volto, sia nei due numeri musicali di cui uno, «Put the Blame on Mame» suggerisce a Wood tutto il suo discorso sulla «Dark Lady» degli anni Quaranta, mentre l’altro, «Amado mio», è ricordato da Pasolini in ben altro contesto (ma è significativo che lo stesso Wood veda omosessualità latente in Gilda). L’assurdità del plot, quell’amore che Johnny finge di disprezzare e per il quale Gilda finge di essere una puttana, è dovuta solo alla volontà di potenziare il personaggio femminile in termini ambigui. In fondo si tratta di una romantica storia d’amore: resa impossibile prima non si sa bene da cosa, resa impossibile poi dall’amicizia tra i due uomini e ancora infine, creduto morto il marito, dal disprezzo che lei fa di tutto per suscitare in lui. C’è l’happy end con cancellazione improvvisa dei sospetti sulla donna; ma è proprio per il suo fondo di ambiguità che Gilda diventa un personaggio mitico. Nella seconda metà del decennio comunque il Melodramma tende sempre più a confondersi col Noir, come venne osservato a proposito di Leave Her to Heaven (Femmina folle, 1946) di John Stahl (20th Century Fox)54. Si tratta ancora di un melodramma non solo per le scene ariose in esterni, i colori e la scenografia (nel Noir le atmosfere sono più cupe e ossessive), ma anche e soprattutto per il tema centrale di un amore un po’ incestuoso della protagonista Ellen (Gene Tierney) nei confronti del padre, di cui la vediamo all’inizio gettare al vento le ceneri uscendo a cavallo all’alba. Il giovane Richard (Cornel Wilde) è scelto da lei solo in quanto assomiglia al padre morto. Quando Ellen lo incontra sul treno, sta leggendo un romanzo che Richard ha scritto e sul quale c’è anche la fotografia dell’autore, cosa che induce a interpretare i campi-controcampi sull’interesse della donna per il compagno di viaggio come significanti un suo riconoscimento. E invece solo apprendendo il suo nome, scesi dal treno, Ellen lo collegherà all’autore del libro. È ancora l’edipismo a far sì che Ellen non

53 54

Ivi, pp. 55-56. Cfr. Yann Tobin, John M. Stahl, in «Positif», n. 220-221, juillet-aout 1979.

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MELODRAMMA ANNI QUARANTA

riesca a vedere Richard nella sua realtà neppure dopo averlo sposato, ma lo consideri solo un simulacro del padre, gelosa fino all’omicidio di un fratello handicappato di lui e dello stesso bambino che porta in seno, dal quale sarebbe costretta a un ruolo di madre, e che la induce ad abortire; dopo di che si suicida. Gli schemi freudiani sono fin troppo espliciti nei film di questi anni, finalizzati alle diverse tradizioni narrative dei generi. Sconfinano decisamente nel Noir i melodrammi interpretati in questo periodo da Barbara Stanwick, a cominciare da Double Indemnity (La fiamma del peccato, 1944) di Billy Wilder (Paramount) (dove, non a caso, il soggetto è di James Cain e la sceneggiatura di Raymond Chandler), in cui lei induce perfidamente l’amante ad ammazzare il marito. In The Strange Love of Marta Ivers (Lo strano amore di Marta Ivers, 1946) di Lewis Milestone (Paramount), lei è stata assassina da ragazza, facendo ruzzolare giù dalle scale una zia, sia pure insopportabile; divenuta capitana di industria, tenta di sedurre un amico d’infanzia e di indurlo ad uccidere il marito, ma si scontra con un Van Heflin molto onesto e non le resta che il suicidio. Infine in Thelma Jordan (Il romanzo di Thelma Jordan, 1950) di Robert Siodmak (ancora Paramount) uccide nuovamente una zia ricca (però lo si scopre solo alla fine), ma viene assolta perché seduce il Pubblico Ministero, salvo poi pentirsi e confessare tutto rovinando anche professionalmente l’uomo che per lei ha già lasciato la famiglia. Perfidamente platinata, come la Stanwick in La fiamma del peccato, e sempre vestita di bianco, è anche la Lana Turner di The Postman Always Rings Twice (Il postino suona sempre due volte, 1946) di Tay Garnett (MGM), dove il soggetto, dal romanzo di Cain, è il solito della donna che induce l’amante ad uccidere il marito (quello già realizzato anche da Visconti in Ossessione) e dove è molto significativa l’entrata in scena del personaggio femminile: un tubetto bianco di rossetto rotola per terra; in soggettiva del personaggio maschile (John Garfield) la cinepresa ne segue il percorso e si ferma su due gambe nude di donna; risale e vediamo la Turner in shorts bianchi e turbante pure bianco, con un uso simbolico del colore, il bianco come colore del male 55, che sarà ribadito per tutto il film.

55 Questo significato simbolico del bianco come colore del male del resto era già stato usato da Ejzensˇtejn in Alexandr Nevskji (1938) e da lui stesso teorizzato nel saggio Significato del colore, uscito in The Film Sense nel ’42.

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PERFIDE SIGNORE

Solo falsamente assassina invece e per nulla diabolica ci appare la Crawford nel suo primo film dopo l’abbandono della MGM, Mildred Pierce (Il romanzo di Mildred, 1945) di Michael Curtiz (Warner Bros), dove tutti i guai nascono dal troppo amore di una madre (la Crawford) per soddisfare i capricci di una figlia (Ann Blyth) questa sì indegna e perfida. È uno dei primi melodrammi hollywoodiani sul rapporto tra genitori e figli; ma a differenza di quelli che saranno poi (lo vedremo) frequenti negli anni Cinquanta, qui è la madre, non la figlia ad essere sacrificata e non ricambiata nel suo amore: non paga degli agi procuratigli dalla madre con duro lavoro (si mette anche a fare la cameriera), la ragazza le insidia il marito e lo uccide quando il padrino rifiuta di divorziare da Mildred per sposare lei. Se la Crawford sembra ritagliarsi, alla fine del decennio, dei personaggi che cercano la solidarietà del pubblico56, la Davis non teme al contrario di apparire ancora inarrivabile nella sua perfidia in Beyond the Forest (Peccato, 1949) di King Vidor (Warner Bros). Melodramma apparentato col Noir, il film si apre con immagini «documentaristiche» e voce fuori campo come nel Neorealismo italiano; ma poi dalla scena in tribunale parte un flash-back che dà subito un’idea molto chiara del personaggio di Rosa (Bette Davis) moglie di un medico filantropo (Joseph Cotten) che tradisce senza scrupoli. Le opposizioni di cui parla Comuzio in una monografia sul regista57 ci sono da principio: Rosa è una specie di Bovary americana che però non ha grilli per la testa (anche il suo rapporto con l’amante sembra strumentale) e vuole soprattutto evadere dal paese. I capelli sciolti e il modo di camminare sono elementi importanti per la Davis nella caratterizzazione di questa donna avida ed egoista, che scrive ai clienti poveri del marito esigendo il pagamento delle parcelle (per rag-

56 Anche in Flamingo Road (Viale fiammingo, 1949) sempre di Curtiz e sempre produzione Warner Bros, la Crawford interpreta un personaggio aggressivo e ambizioso, che da donna di baraccone e cameriera riesce poi a fare un buon matrimonio entrando nel mondo dei ricchi; il fatto è però che vi entra senza rinunciare all’amore (dopo essere stata lasciata da un giovane di buona famiglia), in quanto è attaccatissima al marito ed ha anzi la soddisfazione di ammazzare il perfido sceriffo, a cui per tutto il film è riuscita a tener testa, quando costui tenta di rovinare la carriera politica dell’amato consorte. Andrà in prigione, ma è stato un incidente e ci sono buone speranze finali. 57 Vedi Ermanno Comuzio, King Vidor, Firenze, La Nuova Italia, 1986, p. 115.

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MELODRAMMA ANNI QUARANTA

giungere l’amante a Chicago), che tratta malissimo la cameriera di colore, che maneggia perfettamente il fucile (come Pearl e Ruby Gentry, altre eroine di melodrammi di Vidor, di cui parleremo) e se ne serve, durante una caccia, per far fuori l’uomo che ha capito le sue intenzioni (fuggire con l’amante nonostante sia incinta del marito). Assolta dell’omicidio, si butta giù da una scarpata per abortire quindi, ancora sofferente, cerca di raggiungere Chicago, la sognata metropoli, e arranca verso un treno che non riuscirà a prendere, che si allontana mentre lei si accascia a terra, morta. Se pure non tutti i personaggi femminili del melodramma anni Quaranta sono di questi tipo58, è un fatto che non ne appariranno più, nel cinema hollywoodiano, con tanta frequenza. E che il male, un male quasi biblicamente imputato alla donna, diventi la causa dell’impedimento melodrammatico in questi anni di guerra e dopoguerra, non può certo essere fenomeno casuale.

58 La donna del melodramma anni Quaranta può, al contrario, essere del tutto vittima, in modi tali che non si vedevano dai personaggi della Gish: accade ad esempio in Johnny Belinda (id., 1948) di Jean Negulesco (Warner Bros), tratto da un’opera teatrale, dove la protagonista Belinda (Jane Wyman) è sordomuta; il padre non la considera granché, la fa lavorare al suo mulino, e una sera un cliente, sapendola a casa sola, la violenta, lasciandola con un bambino. Non solo: lo stesso uomo, scoperto, le uccide anche il padre, assassinio che resta impunito in quanto non è nemmeno riconosciuto come tale. Da parte sua, Belinda uccide il seduttore quando lui torna per rapire il bambino. Dunque sesso e paternità naturale sono deleteri per Belinda; ma il film pone in rapporto simbolico un altro tipo di paternità, quella legata alla parola, che implica razionalità e sentimento e che si identifica nel dottore (Lew Ayres) che insegna a Belinda a parlare al modo dei sordomunti. Grazie a lui, dapprima messo sotto accusa, la verità, come logos, trionfa.

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STORIE DI ROMANZI

La versione cinematografica di romanzi più o meno famosi continua ad assumere, durante gli anni Quaranta, le forme tipiche del Melodramma, che al romanzo come abbiamo detto si era sempre imparentato. Componente costante di questo genere di film è l’ambientazione al passato, con preferenza per l’Ottocento: un passato ancora vicino, riconoscibile, atto a ribadire tutta una serie di valori. Non si parla di trasformazioni, di dinamica storica, se non in un raffinatissimo film d’autore (non dunque classificabile tra i film di genere) come The Magnificent Amberson (L’orgoglio degli Amberson, 1942) di Orson Welles (RKO), tratto da un libro del ’18 di Booth Tarkington e ampiamente rimaneggiato dalla produzione proprio in quanto stentava ad inserirsi nei soliti schemi59. Qui il tema primario è quello del passaggio dal mondo del calesse a quello dell’automobile, esplicitato in una serie di inquadrature (le prime) anche sulla trasformazione della moda e degli usi sociali; ma questo si intreccia, e vi dà senso, con la storia dell’amore sempre contrastato tra Morgan (Joseph Cotten), destinato a successi nel mondo futuro, e Isabel (Dolores Costello), della vecchia e altezzosa famiglia degli Amberson. L’accettazione della Storia (e l’happy and matrimoniale) si avrà soltanto in una seconda generazione, quella dei figli. Ma non è in questi termini che normalmente Hollywood guarda al tempo passato come esso emerge dai romanzi: ad esempio in Devotion (Appassionatamente, 1944) di Curtis Bernhardt (Warner Bros), sulla vita delle sorelle Brontë, è la versione hollywoodiana di Cime tempestose ad ispirare il film, più ancora che il libro stesso o le vicende reali della sua autrice. Emily Brontë (Ida Lupino) non solo va continuamente a contemplare, anche sotto la pioggia battente, le «cime» del suo

59 Per sapere quali siano effettivamente le parti di Orson Welles si veda, documentatissimo, Charles Higham, The Films of Orson Welles, Berkeley, University of California Press, 1970; pp. 48-71.

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MELODRAMMA ANNI QUARANTA

romanzo, ma vive un amore infelice per il parroco (Paul Henreid) aiutante di suo padre e, soprattutto, ha sulle «cime» la costante visione di un misterioso cavaliere nero che simboleggia la morte. Più superficiale nei sentimenti, ma scrittrice di altrettanto successo, Charlotte Brontë (Olivia De Havilland) finirà per sposare l’uomo amato dalla sorella salendo con lui nella scena di chiusura sulla famose alture celebrate dalla defunta Emily. Il mistero, la morte, le presenze d’oltretomba, insomma il romanzo «gotico» si legano a contesti ottocenteschi e prevalentemente europei. In Dragonwyck (Il castello di Dragonwyck, 1946) di Joseph L. Mankiewicz (20th Century Fox) c’è, sia pure in America, un castello un po’ sinistro ove i membri di una antica famiglia di origine olandese sentono nella notte, perseguitati da una maledizione, il fantasma di un’antenata che suona la pianola. Quel mondo aristocratico, da romanzo, esercita grande fascino su Miranda (Gene Tierney) appartenente a un ambiente sanamente rurale. Dunque essa accetta di sposare il cugino raffinato (Vincent Price) senza rendersi conto che, come le dice sua madre, sposa un sogno. Ecco dunque il Melodramma (c’è alla base un libro di Anya Seton); non ascoltando la madre, che la mette in guardia contro le fantasie nate dai libri, Miranda sarà destinata a scoprire che il marito non solo è tirannico coi mezzadri (che riceve seduto su una specie di trono), ma è ateo, cinico, si isola per drogarsi ed ha avvelenato con una pianta la moglie. Cosa che accadrebbe anche a Miranda se non ci fosse un giovane medico «democratico» (è amico dei mezzadri) a salvarla. Quando è più lontano, il passato dei romanzi può prestarsi al grande spettacolo a colori, come accade con Forever Amber (Ambra, 1947) di Otto Preminger (20th Century Fox), ove, in un’Inghilterra del Seicento, la protagonista (Linda Darnell), da cameriera in una locanda ad amante del re, riesce a fare una carriera simile a quella dell’eroina della serie di «Angelica», una quindicina d’anni più tardi. Ambra si innamora di un lord (Cornel Wilde) che la tratta sempre malissimo e parte sempre senza nemmeno salutarla: lei continua ad amarlo e lui continua ad essere sostanzialmente indifferente, nonostante Ambra gli abbia dato un figlio e lo abbia salvato durante la peste; però la donna passa dalla rovina che le procura l’essere fedele a quell’amore, agli splendori che invece riesce a procurarsi non appena accantona gli scrupoli: dunque partendo dal carcere riesce a diventare, grazie ad altri letti, 94

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STORIE DI ROMANZI

famosa attrice, moglie di un nobile, e amante del re; salvo perdere di nuovo tutto a causa di quella sua fissazione per il lord e restare priva anche del figlio. Si tratta, in questo caso, di un romanzo che pare scritto per farne un film; come certo accadde60 per Green Dolphin Street (Delfino verde, 1947) di Victor Saville (MGM), in cui emigrazione in Nuova Zelanda, terremoto, ribellione dei Maori, continui successi finanziari (sempre dovuti all’acume della protagonista) e viaggi da un capo all’altro del mondo, sono soltanto episodietti rispetto al tema fondamentale che è la storia dell’amore di Marianna (Lana Turner), forte e sicura di sé, per un uomo debole che l’ha sposata per sbaglio, amando in realtà sua sorella. Se l’ambiente è americano tuttavia, anche il grande spettacolo, magari a colori, ha degli agganci culturali più interessanti, come si vede da Duel in the Sun (Duello al sole, 1947) di King Vidor (Selznick), dal libro di Niven Bush, melodramma-western, ma piuttosto melodramma per quella simbologia proclamata subito dal prologo, dell’amore come fiore scarlatto, cioè di sangue, del deserto. Incontro-scontro fatto di sesso e morte, come nel famoso e un po’ assurdo finale che dà titolo al film, il duello tra Pearl (Jennifer Jones) e Lewt (Gregory Peck) che si uccidono ma muoiono l’una nelle braccia dell’altro, qui l’amore è impossibilità a più livelli stratificati: a livello sociale, perché Pearl è quasi una sguattera e Lew figlio del padrone; a livello razziale, perché lei è mezza indiana e lui è bianco; a livello psicologico, perché lui ha ereditato la prepotenza del padre, mentre lei sta a mezzo tra la sensualità di sua madre e la rettitudine di suo padre; a livello culturale, perché lei è figlia del «deserto» indiana61, mentre lui è dalla parte dei dominatori, della civilizzazione (anche se poi, per passione, uccide il marito di Pearl e diventa fuorilegge). Se in Duello al sole il contrasto antropologico e lo spessore mitico ci fanno pensare al Western, film paradigmatico sull’impossibilità amorosa, anzi sull’amore come soggettività assoluta è senza dubbio il contemporaneo Letter from an Unknow Woman (Lettera da una scono-

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Cfr. John Douglas Eames, The MGM Story, London, Octopus Books, 1975, p. 214. Sulla contrapposizione mitica tra «deserto» e «giardino» nella cultura americana si veda Henry Nash Smith, Virgin Land. The American West as Symbol and Myth, New York, Vintage Books, 1950. 61

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MELODRAMMA ANNI QUARANTA

sciuta, 1948), desunto da un racconto di Stefan Zweig e realizzato a Hollywood ma, forse non a caso, da un regista europeo come Max Ophüls (Universal). Stefan (Louis Jourdan), signore viennese, rientra a casa la sera prima di un duello e il cameriere gli dà una lettera: è di Lise (Joan Fontaine), una donna vissuta amandolo tutta la vita, senza che lui se ne sia nemmeno reso conto. A visualizzazione della lettera ha inizio dunque un flash-back che si articola in tre parti. La prima, con Lise ragazzina, è quella dello sguardo e dell’ascolto, quando lei spia il giovane pianista venuto ad abitare nella sua casa e ne ascolta le esecuzioni al pianoforte. Nella seconda parte Lisa, ormai diciottenne, non si limita più alla passività del sentimento ma agisce, sia pure rovinando progressivamente la sua esistenza. Respinge dunque una proposta di matrimonio, si mette a lavorare e finalmente riesce ad incontrare Stefan e a passare con lui una notte. La sequenza è significativa: Stefan la porta al Prater su un finto treno dietro cui scorrono immagini di paesaggi; lei dice di avere viaggiato ma non è vero, viaggi e amore si equivalgono qui, tutto è solo soggettivo, sognato. Dall’incontro nascerà un bambino, ma Lise non ne avvisa Stefan, che l’ha subito dimenticata. Nella terza parte, dopo l’illusione dell’amore, ci sono la rovina e la morte. Moglie di un uomo importante, Lise manda all’aria il suo matrimonio solo perché rivede Stefan, che tuttavia l’ha dimenticata. Una provvidenziale forma di tifo conduce alla morte Lise (dopo che ha scritto la lettera) e il suo bambino; Stefan, fallito ormai anche come pianista, uscirà in cerca della fine. L’equivalenza tra amore ed arte è in questo film causa di illusione: e che l’amore sia illusione è linguisticamente ben dimostrato da un’inquadratura che Ophüls ripropone due volte, trasformandola da soggettiva in oggettiva ma con stessa angolazione e punto di vista; ed è quando Lise, l’unica volta che va ad un convegno amoroso con Stefan, ci appare nella stessa immagine che, spiando dalle scale l’ingresso dell’uomo amato e di una delle sue tante donne, essa aveva visto da ragazzina. Ma tutto il film sta poi a dirci che il desiderio, espresso come frustrazione dalla soggettiva, resta solo illusoriamente appagato dalla trasformazione dell’inquadratura, con la protagonista in campo. 96

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STORIE DI ROMANZI

Il rapporto tra amore e creazione artistica, vanificati entrambi alla fine in Lettera a una sconosciuta, non viene trattato sempre allo stesso modo nel Melodramma hollywoodiano. In The Ghost and Mrs. Muir (Il fantasma e la signora Muir, 1947) di Joseph L. Mankiewicz (20th Century Fox) ad esempio, che potremmo definire un melodramma fantastico, Lucy (Gene Tierney) incontra, nella casa in cui va ad abitare, il fantasma del capitano Gregg (Rex Harrison) che, come lui stesso dice, esiste in quanto la signora vi crede; lungi dall’esserne spaventata, essa si lega a lui in un rapporto di stima e comprensione profonda e scrive, sotto sua dettatura, un romanzo di grande successo. Ma il capitano, ahimè, non ha corpo, e quando Lucy già vedova, tenta una seconda esperienza matrimoniale con un uomo (George Sanders) destinato a deluderla e a farla soffrire come del resto l’aveva delusa il primo marito, il fantasma si dilegua. Vuota e infelice, priva di un sentimento soddisfacente e incapace com’è ovvio di scrivere ancora, Lucy vedrà tornare il capitano solo dopo tanti anni, al momento della morte; allora, proprio come nei melodrammi degli anni Trenta già ricordati, il fantasma la ritrova giovane e bella ed esce con lei dalla stanza e poi dalle scale, senza che la fida cameriera possa vederli, fino alla porta che si richiude dietro di loro nell’ultima inquadratura come in The Searchers (Sentieri selvaggi, 1956) di Ford, ma con significazione contraria: qui la casa è la vita terrena, limite ai valori veri che stanno all’esterno. Qualcosa di analogo, con ancora più esplicita ed insistita equivalenza tra amore ed arte, troviamo in Portrait of Jennie (Il ritratto di Jennie, 1949) di William Dieterle (Selznick), dove un pittore (Joseph Cotten) incontra al Central Park una misteriosa ragazza, Jennie (Jennifer Jones) che gli appare in strane circostanze (con nebbia, silenzio, magari solo un fremito di vento e poi musica di Debussy) e che lui scoprirà essere vissuta tanti anni prima. Jennie torna a vivere, in varie fasi e momenti della sua vita, solo perché non ha conosciuto l’amore, perché il pittore a lei destinato sarebbe vissuto più tardi. Derivato come il film di Mankiewicz da un romanzo minore, Il ritratto di Jennie ne esaspera l’equivalenza tra amore impossibile ed arte autentica, in quanto Jennie torna a vivere anche perché il pittore possa ritrarla e realizzare così l’unica opera «sublime» della sua carriera. Che poi il quadro sia in realtà, per quanto ci appare dall’immagine filmica, una cosa accademicamente piatta e certo ben lontana dal capolavoro, non toglie nulla al significato del film, che attraverso battute di 97

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MELODRAMMA ANNI QUARANTA

dialogo e musica mitizzanti ne fa appunto un’opera eccezionale, unico segno tangibile di un amore che però non si apre all’eternità, dato che l’ultimo straziante incontro tra Jennie e il pittore si ha prima che lei riviva il momento della sua morte, quando è scomparsa in mare durante una tempesta. Dopo, l’uomo non la vedrà più e resterà, anche per lui, soltanto il ritratto, il prodotto della creazione artistica, reso possibile esclusivamente grazie all’amore. Tema sempre centrale nei film di Vincente Minnelli, il rapporto tra amore ed arte appare anche nel melodramma ch’egli realizza alla MGM dal capolavoro di Flaubert Madame Bovary (id., 1949). La soluzione di far raccontare tutto allo scrittore (James Mason) durante il processo è in rapporto al tentativo di trasformare Emma (Jennifer Jones) nel personaggio tutto minnelliano di una donna che cerca «bellezza e amore», come dice la voce fuori campo, ma che misurandosi con la realtà della vita matrimoniale, in una cittadina di provincia, così imbevuta com’è di romanzi non può correre incontro che al disastro. Non ci sono fantasmi né amori sublimi per lei, solo squallide illusioni che a tratti sembrano portarla alla follia, come nella (brutta) sequenza del matrimonio o in quella del ballo al castello, dove la cinepresa gira vorticosamente in tondo e quando Emma dice di sentirsi mancare il respiro vediamo dei servi che spaccano le vetrate del salone a colpi di sedie. E allora, forse, il romanzo più consono alla cultura del cinema di genere di questi anni pare quel Little Women (Piccole donne) della Alcott che Mervyn Le Roy riporta sullo schermo nel ’49 per la MGM, racconto femminilmente mitico e immagine del mondo attraverso una angolatura casalinga, da donna ottocentesca per cui la casa è tutto. Non ci sono amori se non corrisposti e risolti nel matrimonio, nel conglobamento famigliare, e il mondo esterno alla casa è solo minaccia indefinita, come la guerra che tiene lontano il padre. Che l’interno domestico sia l’unico vero valore è dimostrato dal fatto che il libro scritto da Jo (June Allyson) abbandonerà le storie truci, passionali ed esotiche delle sue novelle e si chiamerà My Beth, storia del suo rapporto con la sorella (Margaret O’Brien) morta in tenera età. Per scriverlo Jo non ha avuto bisogno del tanto sognato viaggio in Europa, ma solo di tornare a casa. Nella casa si ritrovano, alla fine, tutti i personaggi, anche il professore (Rossano Brazzi) che porta a Jo igna98

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STORIE DI ROMANZI

ra il suo libro pubblicato e che, pronto a sposarla, entra con lei, nell’ultima inquadratura, dentro la casa calda, dal camino fumante, sulla quale splende l’arcobaleno.

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COMMEDIA ANNI QUARANTA

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LA FELICITÀ CONIUGALE

Mentre nel Melodramma degli anni della guerra e del dopoguerra la donna può essere infedele e diabolica, nella Commedia invece è spesso merito suo se il matrimonio riesce, nonostante tutto, ad essere felice. Sono abbastanza frequenti, in questo periodo, commedie che trattano il tema amoroso proprio del genere riferendolo ad una coppia già sposata. Sono i film naturalmente più all’interno di quello schema narrativo chiamato da Cavell del «remarriage»62. In uno dei primi film hollywoodiani di Hitchcock ad esempio, e una delle sue poche commedie, Mr. and Mrs. Smith (Il signore e la signora Smith, 1941) (RKO) il contrasto tra i due coniugi Ann (Carole Lombard) e David (Robert Montgomery) trova un riscontro nel fatto che il loro matrimonio viene scoperto non valido e che la moglie interpreta la reticenza del marito a riguardo come volontà di divorzio. Cosa che la induce a volere la separazione e determina il percorso narrativo della commedia nei tentativi di riconquista da parte del marito, fino alla conclusione abbastanza prevedibile di un film che non ha nulla di hitchcockiano se non la vertigine di una scena al Luna Park quando Ann e il suo corteggiatore, destinato alla sconfitta, restano bloccati a grande altezza su una giostra e il sadismo del regista (qui aspirante comico) li vuole anche sotto la pioggia. Più incentrato sul tema della felicità coniugale, possibile soltanto, secondo il film, se ci sono dei figli, è Penny Serenade (Ho sognato un angelo, 1941) di George Stevens (Columbia), più vicino forse al dramma che alla commedia in quanto la frustrazione della maternità (prima a causa di un terremoto e poi quando muore la bambina che hanno adottato) induce Julie (Irene Dunne) a separarsi da Roger (Cary Grant). Se pienamente nella commedia rientrano le scene in flash-back relative alla nascita dell’amore (l’incontro in un negozio di dischi, l’importanza delle canzoni d’epoca, la festa di Capodanno) il film poi vira

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Stanley Cavell, Pursuits of Happiness cit.

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COMMEDIA ANNI QUARANTA

appunto sul tema della necessità di avere un bambino, con sequenze come quella della prima notte con la neonata in casa e quella dell’amico giornalista che insegna come cambiarla e farle il bagno, anche abbastanza fuori da schemi retorici. Invece la scena della recita di Natale non solo appartiene pienamente al gusto dell’epoca (ci sarebbe da fare uno studio sulla frequenza in cui il Natale appare nei film degli anni Quaranta) ma riporta l’opera su binari sentimentali potenziati dal finale quando, dopo la morte della bambina, il matrimonio si salva soltanto perché la direttrice dell’orfanotrofio propone alla coppia l’adozione di un altro bambino. È ancora Lubitsch comunque a dare una delle più interessanti commedie del periodo, e forse la più significativa sul tema della felicità coniugale, con Heaven Can Wait (Il cielo può attendere, 1943) (20th Century Fox), dove la rievocazione dall’Aldilà della vita di un uomo (Don Ameche) si risolve in fondo in una lunga storia d’amore, nel matrimonio, nonostante le continue infedeltà del marito, grazie alla pazienza e alla dolcezza di una donna, Marta (Gene Tierney), sempre pronta a perdonare e la cui scomparsa verrà pianta fino al ricongiungimento, fuori campo, in Cielo, in un finale che, grazie anche al tema musicale, è tra i più commoventi mai girati da Lubitsch. Le raffinatezze registiche (le figure dei nonni e dei camerieri soprattutto), le squisitezze cromatiche di scenografie e costumi giocati sulle tinte pastello, l’apparente spregiudicatezza del tema di Don Giovanni63, senza il quale il film perderebbe di senso (ancora sul letto di morte il protagonista spasima per una bella infermiera, mentre, autobiograficamente, Lubitsch inserisce nel sonoro il valzer della Vedova allegra), tutto rimane in fondo subordinato all’esaltazione del rapporto coniugale, cioè del personaggio femminile, con una promessa di ritrovamento oltre la morte che fa quasi pensare al Melodramma. Le donne non possono, in queste commedie, essere infedeli. Basta il sospetto dell’infedeltà a scatenare propositi omicidi in Unfaithfully Yours (Infedelmente tua, 1948) di Preston Sturges (20th Century Fox) ove il protagonista (Rex Harrison), direttore d’orchestra, pensa che la moglie (Linda Darnell) lo tradisca col segretario e vive fantasie diverse a seconda del pezzo che sta dirigendo: Rossini gli suggerisce di uccide-

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È Guido Fink, in Ernst Lubitsch cit., p. 97, a vedere nel film il mito di Don Giovanni.

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LA FELICITÀ CONIUGALE

re la donna costruendo delle false prove a carico del presunto amante; Wagner invece perdono ed elargizione magnanima ai peccatori; Cˇajkovskij infine il suicidio tramite roulette russa. Naturalmente tutto si risolve per il meglio e la circolarità della commedia è rispettata: non c’è stata nessuna infedeltà e il «noir» dell’episodio con musica di Rossini o il Melodramma di quelli con musiche di Wagner e Cˇajkovskij, già annullati stilisticamente dai toni farseschi della sequenza in cui il protagonista tenta di mettere in atto i suoi piani di omicidio e sbaglia tutto con disastro di cose che cadono, che si rompono, che non funzionano, lasciano pieno campo alla commedia vera e propria della parte finale, con il ristabilirsi dell’equilibrio coniugale. Anche l’infedeltà da parte del marito, o meglio la tentazione di essa, è assimilata da Capra alla corruzione della stampa e alla disonestà politica, cioè ai peggiori dei mali, in State of the Union (Lo Stato dell’Unione, 1948) (MGM) dove Grant (Spencer Tracy) è un costruttore di aerei che ha lo spirito del pioniere e che si estasia davanti alla Casa Bianca facendo un elenco di tutti i più grandi uomini vissuti (molti presidenti Usa, qualche filosofo e qualche artista italiano); ma si rovinerebbe se non fosse per sua moglie Mary (Katharine Hepburn) la quale non solo non ha dubbi sulla sua genialità e condivide il suo spirito patriottico (pensa che ogni problema dell’umanità sarebbe risolto se, esistendo gli Stati Uniti del Mondo, l’America desse da mangiare ai paesi poveri), ma soffre come cittadina, ancor più che come moglie, quando lo vede scendere a compromessi spinto soprattutto da una perfida miliardaria che controlla parecchi giornali e che, se solo lui le desse retta e la preferisse alla moglie, lo farebbe diventare Presidente. Non sarebbe un film di Capra se Grant non scegliesse secondo coscienza e in favore della solidità del suo matrimonio confessando a milioni di telespettatori in diretta quanto turpi siano i raggiri dei potenti e quali compromessi abbia dovuto accettare per avere la candidatura; Mary è naturalmente lì ad ascoltarlo con gli occhi pieni di lacrime (specialità, da sempre, della Hepburn). Spencer Tracy e Katharine Hepburn erano ormai da anni, dal ’42, la coppia più forte della commedia cinematografica americana; è facile, data l’età non più giovanissima, che li troviamo in ruoli di persone sposate di cui si racconta magari la crisi; come accade in Adam’s Rib (La costola di Adamo, 1949) di George Cukor (MGM), film teso ad affermare, molto più di tutti quelli precedenti, la parità di diritti e 105

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COMMEDIA ANNI QUARANTA

doveri dei coniugi. Scritto da Garson Kanin e Ruth Gordon il film racconta di un’avvocatessa (Katharine Hepburn) che difende e fa assolvere, contro il marito avvocato (Spencer Tracy) una donna rea di avere sparato, pur senza gravi conseguenze, al consorte colto in flagrante adulterio. La «concorrenza» (– Voglio una moglie, non una concorrente! – dice lui in una scena di litigio) è poi vinta dalla «differenza», cioè dall’attrazione sessuale, sulla quale si chiude la commedia. Che in realtà è un po’ verbosa, non sempre divertente (i giochi e gli scherzucci dei coniugi decisamente attempati sono spesso fastidiosi) ma, come scrive Cavell64, riesce a rappresentare la vita della coppia nei vari ambienti della casa (soggiorno, cucina, bagno, camera da letto) con una propensione per il femminile, questa volta proprio in senso femminista, che solo la simpatia di Tracy riesce a parare. Il rovesciamento dei sessi non è riuscito quando è troppo esplicito (il vero e proprio travestimento che visualizza l’arringa dell’avvocatessa) mentre lo è molto quando è più implicito e ne fa uno degli elementi dell’equilibrio coniugale (come nel «femminile» fingere le lacrime da parte del marito) nella scena dal legale per la separazione dei beni. Lo stile è spesso teatrale (ad esempio camera fissa e scena vuota con entrate ed uscite alternate dei due coniugi, che stanno dialogando mentre si vestono per la cena) e, come osserva Cavell, le cortine del letto matrimoniale, disegnate anche nei titoli di testa e di coda, assumono proprio la funzione di un sipario. Ma la migliore commedia sull’amore coniugale realizzata nel periodo è senza dubbio A Letter to Three Wives (Lettera a tre mogli, 1949) di Joseph L. Mankiewicz (20th Century Fox), che mette in scena la vita di tre coppie borghesi di una piccola città americana: le loro case, i loro «party», le riunioni al circolo, i picnic con i bambini della scuola. È proprio mentre partono per uno di questi, un sabato, che le tre mogli ricevono l’annuncio che uno dei loro mariti, non si sa quale, è fuggito con Addie, la ragazza più affascinante della città. Hanno inizio allora i flash-back sulla fragilità dei rapporti, sulla possibilità che ciascuno dei mariti possa essersene andato: Deborah (Jeanne Crain) lo teme perché ha un complesso di inferiorità, perché si sente provinciale e inelegante; Rita (Ann Sothern) lavora in pubblicità ed ha mire sno-

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Stanley Cavell, Pursuits of Happines cit., pp. 191-228.

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LA FELICITÀ CONIUGALE

bistiche che la portano persino a scordarsi del compleanno del marito (Kirk Douglas); Lora May (Linda Darnell) è una Cenerentola riuscita a farsi sposare dal ricco Porter (Paul Douglas) ma senza troppo amore. Nella riunione serale al circolo sembra emergere la verità: non è Deborah ad essere stata abbandonata, come crede avendo trovato un biglietto del marito accampante impegni improvvisi; è invece Lora May, sebbene poi Porter ci abbia ripensato e sia lì a dichiararlo. Il film conserva tuttavia un margine di ambiguità in quanto pare che Deborah non sia convinta; quello che è certo è che i tre matrimoni si salveranno senza sacrifici se non da parte di Rita, che rinuncia al lavoro. Contrariamente a La costola di Adamo dunque, la cui sceneggiatura era cofirmata da una donna, Lettera a tre mogli, scritto dallo stesso Mankiewicz, sembra suggerire che la felicità coniugale è possibile solo a patto di un assoluto rispetto dei ruoli tradizionali: il lavoro all’uomo (Rita lascierà il suo per dedicarsi esclusivamente al marito) e la dedizione sentimentale alla donna (Lora May dovrà amare di più Porter se non vorrà perderlo). Gli anni a venire però, anche nel cinema, non gli daranno ragione.

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IL TEMA DEL DOPPIO

Se c’è un tema, o meglio un congegno narrativo, che è stato sempre proprio della Commedia, fin dalle origini, è certo quello del «doppio»: gemelli identici che vengono scambiati, fratelli che si trasformano in sorelle e viceversa, persone che assumono una duplice personalità, hanno affollato le scene comiche dai tempi di Plauto e di Menandro, per non parlare delle «riprese» rinascimentali italiane e poi di Shakespeare e fino al teatro contemporaneo. Il quale, sostituito a un certo punto dal cinema nel gradimento popolare, ha trovato in questo nuovi maestri di commedie capaci di infondere vitalità ai vecchi congegni (si pensi, tra i film già esaminati degli anni Trenta, a Il diavolo è femmina o ad Angelo), oppure a farne mezzi di una nuova interpretazione della realtà. È questo ad esempio il caso di Billy Wilder, che sul tema del travestimento, della falsificazione della personalità e dunque dell’inganno, gioca si può dire per tutta la sua felice carriera di autore di commedie già in sceneggiature come quella per La signora di mezzanotte, di cui s’è parlato, ma ancor più al suo esordio da regista in The Major and the Minor (Frutto proibito, 1942) (Paramount). Qui l’apparenza, il travestimento, l’«occupazione del posto di un altro»65 sono componenti primarie. Suso Applegate (Ginger Rogers) finge una se stessa adolescente, usurpa in un certo senso un’età passata della sua vita suscitando, proprio perché così il rapporto è proibito, l’interesse del maturo Maggiore (Ray Milland) incontrato sul treno, col quale la relazione si pone subito in modo ambiguo (quando lui la prende tra le braccia pensando che abbia paura del temporale la situazione suonerebbe un po’ inquietante anche se lei avesse davvero dodici anni). Nonostante Suso sia smascherata da una coetanea e desti sospetti in altri personaggi (soprattutto nella fidanzata del protagonista che all’inizio «vede» la realtà ma prefe-

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Cfr. Maurizio Grande, Billy Wilder, Milano, Moizzi, 1978, p. 52.

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IL TEMA DEL DOPPIO

risce credere all’inganno per salvare le convenienze ed evitare scandali), il Maggiore non pare avere coscienza della verità fino alla scena finale, quando Suso lo raggiunge alla stazione finalmente vestita da adulta. Infatti subito prima l’ha ingannato un’altra volta invecchiandosi e fingendosi la madre di Suso: cioè lui la incontra in due età diverse prima che in quella reale; ma ovviamente l’ambiguità è creata solo con Suso ragazzina e la rivelazione, col bacio finale, è conclusione necessaria ma forse deludente per il personaggio. Anche il personaggio maschile di The Lady Eve (Lady Eva, 1941) di Preston Sturges (Paramount) non vede la realtà ed anzi soggiace due volte all’inganno della stessa donna. Il modello di questa commedia è quello chiamato altrove del «principe addormentato»66, con il giovane scienziato (Henry Fonda) tutto perso nei suoi oggetti di studio (qui i rettili) e perciò in balia delle cose (ci sono in questo senso molte scene farsesche, proprio da slapstick) e, soprattutto, in balia delle donne; anzi di una sola donna (Barbara Stanwyck) che si presenta sotto mentite spoglie e alla quale il giovane soccombe due volte senza capire, come invece ben capisce il suo cameriere, che si tratta della stessa persona. La maschera, il doppio, viene costruita dalla donna non per una necessità contingente (come accade in Frutto proibito, dove la causa è la mancanza di danaro che non permette a Suso l’acquisto di un biglietto ferroviario se non ridotto); qui è una scelta dettata da desiderio di vendetta e dalla volontà di dimostrare all’uomo che lei è comunque capace di essergli superiore. Diversamente da quanto accade in altre commedie con lo stesso modello narrativo infatti (ad esempio in Susanna! di Hawks), l’uomo e la donna qui non appartengono alla stessa classe sociale, lui la lascia perché è un’avventuriera e il travestimento della truffatrice Jane in «lady Eva» avviene anche e soprattutto per dimostrare all’uomo che lei riuscirà sempre ad ingannarlo in quanto, troppo astratto dalla realtà, lui è incapace di «vedere»: infatti non solo viene truffato da Jane e dal padre sulla nave, ma poi non capisce che lei si è innamorata e la lascia, salvo poi credere all’esistenza della «gemella», arrivare a sposarla, esserne praticamente a sua volta lasciato, con un ritorno alla situazione di partenza (che rispetta la «circolarità» di cui

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Vedi nota 35.

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COMMEDIA ANNI QUARANTA

parlava Bergson)67. Situazione nella quale però, questa volta, l’uomo non vuole vedere, rifiuta di apprendere la verità perché considera ciò la sua sola salvezza. La razionalità maschile, un po’ ottusa in questo caso, si affida alla trionfante irrazionalità femminile: ed è un riconquistare il rapporto, un «risposarsi» nel segno di Cavell. Allo stesso modo è usata la soluzione del «doppio» per ribadire la superiorità femminile e la capacità della donna di salvare, comunque, il matrimonio, in un’altra commedia contemporanea diretta da George Cukor se pure non tra le sue migliori: Two-Faced Woman (Non tradirmi con me, 1941) (MGM). La presenza di Greta Garbo qui è condizionante; la sua smitizzazione, la sua trasformazione in personaggio da commedia, dunque più «reale», era già avvenuta con Ninotchka: ridere, far da cucina, ecc., erano state, lo abbiamo visto, le situazioni che l’avevano fatta scendere dal piedistallo del Melodramma. Ma con questo film, suggerito da un’evoluzione del gusto e insieme da una limitazione al mercato americano a causa della guerra, c’è proprio il tentativo di ribaltare il personaggio: già la maestra di sci sportiva e semplice della prima parte ha poco a che fare con la Garbo (ma come ha potuto Adrian permettere che porti quella specie di sombrero nella scena in cui torna dal mercato?) sebbene l’attrice, pur in situazioni trite e poco spiritose, riesca a cavarsela; ma quando raggiunge il marito (Melvyn Douglas) a New York fingendosi una gemella, è anche peggio. Il «doppio» qui è una donna spregiudicata, leggera, tutta uomini, rumba e champagne. E vedere la Garbo muoversi a quel ritmo sudamericano, nel night club, non ha niente di spiritoso, né di affascinante: sarebbe come vedere Marilyn Monroe fare «la regina Cristina», non c’entra niente col personaggio divistico e dunque, a livelli così alti, non si può fare. In quanto al soggetto poi, sebbene il tema del doppio sia, come s’è detto, vecchio quanto il mondo, questa volta spaventò la censura, tanto che venne inserita una scena durante la sequenza dell’incontro tra il marito e la «gemella»68 in cui lui telefona in montagna e viene a sapere che la moglie è partita per New York, dunque che la gemella non esiste, cosa che fa crollare l’interesse dell’insieme e rende incomprensibi-

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Henri Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, Bari, Laterza, 1982. Cfr. Alexander Walker, Greta Garbo cit., p. 160.

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IL TEMA DEL DOPPIO

li le scene seguenti perché lui si comporta come se lei fosse un’altra, non come un marito che sta al gioco. Sulla finzione, più che sul «doppio», si basa la successiva commedia di Cukor, ultimo film interpretato da Norma Shearer come l’altro lo fu per la Garbo: Her Cardboard Lover (Avventura all’Avana, 1942) (MGM). Consuelo (la Shearer) chiede a Terry (Robert Taylor) già innamoratissimo di lei e suo debitore al tavolo da gioco, di trasformarsi in un «amante di carta» per scoraggiare Tony (George Sanders) e permetterle, col tempo, di liberarsi da quel rapporto sempre frustrato per i tradimenti e le incostanze dell’amante. Che la donna finisca poi per innamorarsi di colui che prima ha finto di amare è prevedibile, ma l’azione si regge tutta sull’equivoco di quel falso ruolo «recitato» davanti al terzo elemento del triangolo. Come riconosce lo stesso Cukor il limite primo della commedia era la troppa distanza dagli eventi storici, dopo Pearl Harbor69. La storia di una donna ricca e annoiata, sempre in abito da sera, che non si sa cosa stia a fare lì all’Avana, non interessava più a nessuno; e per quanto Taylor, a detta dello stesso regista, funzionasse bene, il film non ebbe successo.

69 Cfr. Gavin Lambert, On Cukor, New York, Putnam, 1972, pp. 166-168. Il riferimento alla situazione storica è invece presente in Frutto proibito: Suso, d’accordo con l’amica adolescente, manda a monte il progetto «perverso» della fidanzata, quello di non fare accettare a Washington una richiesta di trasferimento del Maggiore che, in caso di guerra, significherebbe andare al fronte. Lei dice infatti che tutte le ragazze sono fiere di tenere la foto di un soldato nel portafoglio, o una ciocca di capelli, e sembra augurarsi che ci sia presto la guerra, senza neanche spiegare il perché (tanto i pubblici del ’41 lo sapevano bene). Significativo anche che il Maggiore creda che sia stata la fidanzata ad ottenere il suo trasferimento.

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RAPPORTI DI CLASSE

Le differenze di classe, con i problemi economici connessi, sono molto più importanti, come abbiamo visto, per la Commedia che per il Melodramma. Si tratta anzi del tema sotteso ad un motivo alla base di uno dei principali «modelli» del genere, quello di Cenerentola, e che troviamo dunque costante attraverso le variazioni d’epoca e di cultura. Alla Commedia ad esempio più che al Melodramma, sebbene desunto da un romanzo famoso, un classico della letteratura inglese, si può ascrivere Pride and Prejudice (Orgoglio e pregiudizio, 1940) di Robert Z. Leonard (MGM) sia perché Jane Austen come già notava Frye scrive sempre romanzi che sono commedie in quanto propongono il «mito della primavera»70 – accompagnato, aggiungiamo, da una correlata, continua attenzione agli aspetti socioeconomici –, sia perché proprio negli schemi della Commedia è concepito questo film che Huxley e Jane Murfin sceneggiarono partendo non direttamente dal libro ma da una sua riduzione teatrale. In questo scontro di caratteri ambientato nell’Inghilterra dopo Waterloo (lo spostamento cronologico rispetto al romanzo emerge da una battuta della madre nella prima scena), il danaro ha moltissima importanza ed è messo sempre in relazione con l’amore (non certo col sesso) al punto da diventare un tema costante in termini persino un po’ esasperati (si pensi alla scena delle confidenze della madre a un’amica, quando Darcy sente non visto, o alle volgarità esplicite, in tal senso, del cugino Collins) tanto da determinare continuamente sia il rapporto di Jane (Maureen O’Sullivan) con Bingley, sia l’atteggiamento aggressivo di Elizabeth (Greer Garson) nei confronti di Darcy (Laurence Oli70 La citazione della Austen da parte di Frye in verità è soltanto indiretta; scrive infatti: «Abbiamo quindi un ordine stabile armonioso infranto dalla follia, dall’ossessione, dalla dimenticanza, da “orgoglio e pregiudizio”, o da eventi non compresi dai personaggi stessi, e alla fine una restaurazione dell’ordine primitivo». Northrop Frye, Anatomia della critica cit., p. 227.

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RAPPORTI DI CLASSE

vier). Ciò accade in quanto le due sorelle sono socialmente un po’ inferiori rispetto ai giovanotti e soprattutto, cosa che si continua a ripetere come di gravità estrema, resteranno senza niente alla morte del padre in quanto tutto deve andare al cugino maschio. Anche qui comunque, come in tutti i romanzi della Austen, le protagoniste finiscono per fare matrimoni invidiabili sia dal punto di vista umano che da quello sociale (cioè economico); peccato solo che la Elizabeth della Garson sia inevitabilmente troppo matura e seriosa rispetto al personaggio del romanzo71, con una mimica sbagliata (mentre funziona benissimo, specie quando è antipatico, il Darcy di Olivier, come del resto la «zia» di Edna May Oliver e Mary Boland che centra il personaggio «piatto» – nel senso di Forster – della madre). Decisamente primario appare il discorso del rapporto tra amore e danaro anche in The Palm Beach Story (Ritrovarsi, 1942) di Preston Sturges (Paramount), che comincia dove di solito le altre commedie finiscono, cioè con la scena di un matrimonio (sotto i titoli di testa). Ma il tradizionale «e vissero felici e contenti», ereditato dalle fiabe, è subito messo in discussione a causa della mancanza di danaro. E dato che lui (Joel Mac Crea) non riesce a realizzare i suoi progetti (la costruzione di un aeroporto), lei (Claudette Colbert) pensa di divorziare per trovare un altro marito ricco che lo finanzi. Tutto il film poi gioca un po’ paradossalmente sull’assoluta facilità, una volta presa questa decisione, di trovare chi è disposto ad elargire danaro alla donna senza nulla in cambio: il «re dei salamini» nella prima sequenza le offre di pagare l’affitto, il conto del lattaio e quello del droghiere, il parrucchiere e un vestito nuovo; un club di cacciatori le offre il viaggio a Palm Beach, dove va per chiedere il divorzio; e infine un miliardario non solo le rifà il guardaroba e le compra un braccialetto,

71 Seymour Chatman in Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel film, Parma, Pratiche, 1981, sceglie proprio questo esempio per farne un discorso generale sul personaggio nei due mezzi di espressione; scrive infatti, pp. 122-123: «Certi personaggi di narrative sofisticate rimangono costrutti aperti, proprio come nella vita reale certe persone, per quanto le conosciamo, rimangono misteriose. Di qui nasce forse il fastidio di una forzata visualizzazione di personaggi ben noti nei films. L’attore anche troppo evidente – Jennifer Jones in Emma Bovary, Greer Garson in Elizabeth Bennet e anche un attore superbo come Laurence Olivier in Heathcliff – sembra delimitare inevitabilmente il personaggio nonostante la brillante interpretazione».

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COMMEDIA ANNI QUARANTA

ma si dichiara disposto a finanziare il marito e le chiede di sposarlo. Dunque, sembra dire il film, la ricchezza è facile, solo che non ci siano impicci sentimentali. Ma siamo nel ’42, nell’ambito di una produzione di genere, e la spregiudicatezza di Sturges ha un limite: il marito raggiunge la moglie, pur presentato come un fratello, e la coppia infine si ricongiunge. Se è chiaro che l’amore senza il danaro non può bastare, dice il film, in compenso i ricchi sono svitati e per arrivare all’happy end senza limitazioni, come la Commedia gli chiede, Sturges inventa un fratello gemello a lui e una sorella gemella a lei che possano gratificare anche le esigenze sentimentali dei ricchi, arrivando, nel finale, ad una scena di doppio matrimonio che rende il concetto di «remarriage» persino ridondante e forse ironico. Però c’è anche chi pensa che il sesso possa bastare da solo al superamento delle differenze di classe: è quanto sembra emergere da No Time for Love (Non c’è tempo per l’amore, 1943) di Mitchell Leisen (Paramount) dove una famosa fotografa (Claudette Colbert) viene attratta da un operaio grazie soprattutto ai muscoli, alla forza fisica, insomma alla virilità di lui, che la donna sogna, nei panni di Superman, giungere in volo a salvarla mentre sta precipitando. C’è dunque anche un occhio alla psicanalisi, come accadrà con maggiore evidenza qualche anno più tardi in It Had To Be You (L’uomo dei miei sogni, 1947) di Rudolph Mathè (Columbia) in cui la ragazza ricca (Ginger Rogers) non riesce a sposare il fidanzato del suo ceto perché vede sempre in sogno un «indiano» (Cornel Wilde) che si materializza e che poi lei incontrerà nella realtà riconoscendo in lui un amico d’infanzia divenuto pompiere. Ma mentre qui la soluzione è proprio nel senso della scelta istintuale, in Non c’è tempo per l’amore si scopre, come in L’impareggiabile Godfrey, che l’uomo non è affatto un operaio e si è finto tale solo per studiare meglio il funzionamento di una macchina che si rivela sua ottima (e si presume, fruttifera) invenzione. Le differenze di classe sono più facilmente superabili nella commedia americana quando non sono tanto economiche ma proprio soprattutto sociali, in particolare quando c’è di mezzo un ceto inesistente negli Stati Uniti quale è l’aristocrazia. In Princess O’Rourke (Sua altezza è innamorata, 1943) di Norman Krasna (Warner Bros) l’amore nasce tra una principessa erede al trono (Olivia De Havilland) e un aviatore americano (Robert Cummings). Le difficoltà non nascono dal padre, sovrano di uno Stato immaginario, che anzi vedrebbe bene l’aviatore come 114

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RAPPORTI DI CLASSE

principe consorte avendo lui ben otto fratelli maschi. È invece l’aviatore, innamoratosi senza conoscere la vera identità della ragazza (che crede anzi poverissima), a ribellarsi quando apprende che sposandola dovrà rinunciare alla cittadinanza americana. Vanno ospiti alla Casa Bianca, da Roosevelt (che però non si vede mai, occupato com’è a lavorare, con la nazione in guerra) e la principessa, che dorme nella camera di Lincoln, si appella piangendo allo spirito di costui, in quanto dice di sentirsi «schiava» e manda una lettera al Presidente tramite un cagnolino. Roosevelt naturalmente non potrà decidere che secondo lo spirito di Lincoln, facendo sposare nella notte stessa la ragazza, contentissima di rinunciare al trono per diventare una comune borghese, ma cittadina americana. Se il momento bellico gioca evidentemente un ruolo importante nella concezione di un simile soggetto, passata la guerra Lubitsch ritorna a ridere del classismo inglese (più che dei rapporti interclasse) in Cluny Brown (Fra le tue braccia, 1946) (20th Century Fox) il cui tema è quello del poter dare «conigli alle rape» (invece del contrario), e cioè il tema della libertà e della sovversione del principio della inamovibilità sociale. Lo insegna lo scrittore antinazista Belinski (Charles Boyer) alla giovane proletaria Cluny (Jennifer Jones) incontrata casualmente a Londra dove lui si è rifugiato (siamo prima della guerra), in un appartamento in cui lei è andata a riparare un lavandino sostituendo lo zio idraulico. Il quale poi la viene a prendere, si scandalizza nel vederla conversare con dei «signori» e la manda a fare la cameriera in una casa gentilizia in campagna dove andrà anche Belinski e dove entrambi scandalizzeranno padroni e servitù: lei perché servendo in tavola suggerisce al capofamiglia quale pezzo prendere, e lui perché parla al maggiordomo – lo racconta quest’ultimo costernato alla governante – «come se fossimo di pari grado». L’ironia di Lubitsch a riguardo si fa più sfrenata che in Angelo: maggiordomo e governante si confessano, in una scena spiritosissima, come la loro irresistibile «vocazione» al servizio sia nata nell’infanzia. Cluny naturalmente sposerà Belinski e andrà con lui, scrittore di successo, a vivere in America; ma il mondo aristocratico ch’essi si lasciano alle spalle rimarrà immutato nei suoi rituali, in cui le forme hanno più importanza della sostanza e una domanda di matrimonio diventa una cortesia mondana chiesta dalla futura suocera alla futura nuora, mentre le buone maniere non sono trascurate neppure quando si parla di Hitler e della guerra che sta per scoppiare. 115

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COMMEDIA ANNI QUARANTA

Qualcosa di simile negli Stati Uniti si può trovare solo sulla costa atlantica; e sul classismo dei bostoniani, ma agli inizi del secolo, non su quello degli inglesi contemporanei, si basa The Late George Apley (Schiavo del passato, 1947) di Joseph L. Mankiewicz (20th Century Fox). Di impianto molto teatrale (c’è all’origine una commedia di Marquand e Kaufman) il film si fonda tutto sia sulla boria sociale che su quella legata al luogo (il protagonista trova scandaloso che i figli vogliano sposare persone non di Boston). E subito si pone, naturalmente, il problema dell’«autenticità»: è giusto sacrificare tutto alle regole sociali? La risposta qui è più ambigua che altrove: George (Ronald Colman) impone all’inizio ai figli dei matrimoni consoni al loro stato sociale, ma poi, grazie ad una lettura di Freud, accetta la scelta sentimentale della figlia. Nello stesso tempo però il figlio cambia idea e decide di sposare proprio la cugina destinatagli da sempre: e il loro matrimonio sarà felice, dice sua madre, in quanto il segreto della riuscita di un’unione sta nella comunanza dei gusti e nelle piccole cose, (cioè nell’omogeneità di classe). Se i «bostoniani» di Mankiewicz sono pur sempre americani e borghesi, Billy Wilder si riferisce al tramontato mondo asburgico imperiale per far luce sul classismo del «modello» di Cenerentola in The Emperor Waltz (Il valzer dell’imperatore, 1947) (Paramount). Per farlo, veramente, usa due cani, dato che tutto il rapporto tra la contessa austriaca (Joan Fontaine) e il commesso viaggiatore americano (Bing Crosby) si svolge rappresentato paradigmaticamente da quello tra la barboncina di lei, imparentata con tutti i cani reali d’Europa, e il bastardo di lui, che è quello della «Voce del padrone» (lui vende grammofoni, novità dell’epoca). L’ambiguità c’è subito dalla prima scena del colloquio con l’imperatore Francesco Giuseppe, quando la contessa e il padre credono si stia parlando di un matrimonio per lei (vedova) e capiscono solo più tardi, quando si dice che lo sposo ha dodici anni, che si tratta della barboncina e del cane dell’imperatore. Poi la cagna ha scontri col bastardo americano (come la contessa, che teorizza al rappresentante le differenze di classe «insuperabili»), sta male e per guarirla la stendono su un lettino, col veterinario che chiede se i genitori dell’animale andavano d’accordo, prima bordata satirica di Wilder nei confronti della psicanalisi (e atteggiamento che si ritroverà nel corso della sua opera fino all’ultimo film, Buddy Buddy). Ma siamo 116

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RAPPORTI DI CLASSE

nella commedia e nasce l’amore, sia per i cani che per gli uomini; la natura, cioè il sesso, si dimostra più forte di ogni differenza di classe e la barboncina partorisce non cuccioli di razza come dovrebbe, essendosi unita al cane imperiale, ma bastardi inequivocabilmente figli del cane americano. Anche l’imperatore accetta il fatto compiuto e lascia sposare la contessa col rappresentante: tanto interclassismo, e in termini persino volgarmente satirici (ma il film è molto divertente) è possibile solo in quanto si tratta di ambito aristocratico europeo, dunque rovesciamento del mito di Cenerentola (ma vedremo che Wilder ci tornerà sopra) e non discorso di omologazione piccolo borghese, come troviamo invece nelle commedie anni Trenta di Camerini, per il cui cinema i rapporti di classe sono molto importanti72. Che però il tema non presenti variazioni sensibili, a parte i casi esaminati, neppure nella commedia americana che ormai si affaccia agli anni Cinquanta, è dimostrato dalla ripresa, nel ’48, di un film di più di dieci anni prima, L’amore è novità, alla 20th Century Fox e sempre con Tyrone Power protagonista. In That Wonderful Urge (Quel meraviglioso desiderio) diretto da Robert Sinclair il «modello» di Cenerentola è citato esplicitamente, tanto che la fiaba è nominata dai giornali annuncianti il matrimonio tra la miliardaria e il giornalista, ma con minore prevalenza del personaggio femminile su quello maschile, rispetto all’altro film, per la presenza di Gene Tierney, più dolce e sognante rispetto a Loretta Young che aveva impostato il personaggio sull’aggressività e la scaltrezza, ed anche perché Power, più vecchio e nel ruolo di valoroso ex-combattente, risulta meno inerme rispetto agli inganni della donna che anzi riesce a sua volta a giocare in due occasioni, nella scena del supermercato e in quella del ricevimento. Anche in prigione lui non ci va a causa di lei ma per volere del giudice; mentre è mantenuto uguale il gag dell’ultima sigaretta, di cui s’è parlato73. A segnare il tempo, gli anni del dopoguerra, ci sono parecchie battute sull’anticapitalismo dei russi, quasi che il protagonista possa essere accusato di sovversione, cosa naturalmente subito smentita. E poi-

72 Vedi a proposito anche il saggio di James Hay, Cose dell’altro mondo, in «Cinema & Cinema», n. 45, giugno 1986. 73 Vedi il capitolo Le signorine ricche e strane. Ereditiere e Cenerentole.

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COMMEDIA ANNI QUARANTA

ché il personaggio femminile è meno volitivo (ma potenziato in altri aspetti, ad esempio nei begli abiti disegnati per la Tierney da Oleg Cassini)74, non è più riconoscibile il riferimento alle commedie di Hawks.

74 Abbiamo detto che la Commedia è genere di primaria importanza per un discorso sui rapporti tra il cinema e la moda: infatti non solo si svolge quasi sempre nel contemporaneo (le commedie in costume sono limitate), ma tende a rappresentare, come abbiamo visto, il mondo dei ricchi; dalle sue origini dunque (si pensi al film con Gloria Swanson negli anni Venti) il genere è stato lo strumento primo dell’influenza esercitata dal cinema sul modo di vestire e le attrici della commedia cinematografica sono diventate, proprio per questo aspetto, dei modelli da imitare, soprattutto in quanto, consci di questo fatto, autori e attrici stesse si rivolsero spesso a stilisti d’alta moda per i costumi delle commedie. Nel caso specifico Oleg Cassini era anche marito di Gene Tierney e gli abiti del film furono ripresi da uno stilista italiano molto attento alla moda degli anni Trenta e Quaranta come Walter Albini: si veda il catalogo Walter Albini, a cura di Gloria Bianchino, Università di Parma, Centro Studi Archivio della Comunicazione, 1988.

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LA GUERRA DEI SESSI

L’opposizione uomo-donna, propria da sempre della Commedia, ci appare nelle commedie del periodo bellico con un’esasperazione maggiore rispetto ai film del decennio precedente. Se il «modello» resta spesso quello della «Bisbetica domata», i contrasti appaiono potenziati, al limite dello scontro fisico, in un film come The Bride Came C.O.D. (Sposa contrassegno, 1941) di William Keighley (Warner Bros), molto vicino per soggetto e personaggi ad Accadde una notte, da cui fu evidentemente derivato, ma con una diversa violenza nella concezione delle scene e, soprattutto, nella recitazione dei protagonisti, che sono due «campioni» di aggressività come Bette Davis e James Cagney. Le premesse sono identiche a quelle del film di Capra: Joan (Bette Davis) vuole volare a Las Vegas con un aereo privato per sposare un cantante di cui il padre, magnate del petrolio, non vuole sapere; quest’ultimo allora si mette d’accordo con il pilota Steve (James Cagney) e lo convince a rapirgli la figlia impedendole il matrimonio. Joan però, ben lungi dall’essere in fondo docile e indifesa come la Ellie di Accadde una notte, costringe Steve ad atterrare nel deserto ed è da quel momento uno stato di conflittualità totale, con tentativi da parte della donna di incriminare l’uomo e con sadismi da parte di quest’ultimo che, proprio come il Petruccio shakespeariano, a un certo punto la lascia senza mangiare. Non ci sono illusioni: diversamente da quanto accade nel film di Capra la donna viene a sapere subito che l’uomo vuole sfruttare la situazione e anzi, quando conosce la cifra pattuita col padre per il suo rapimento, si stizzisce giudicandola troppo bassa per una come lei. Naturalmente tra uno scontro e l’altro è nata l’attrazione sessuale e tra gli scherzi di Steve c’è anche quello di riuscire a rendere non valido il matrimonio che Joan ha voluto celebrare con l’ex-fidanzato solo per far dispetto a lui: tutto finisce come previsto, perché, anche se la Davis si barrica in camera, Cagney è sempre in grado di entrare dalla finestra e di caricarsela sulle spalle senza tanti complimenti. 119

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COMMEDIA ANNI QUARANTA

Se qui lo scontro è soprattutto a livello di carattere, e con due caratteri omologhi, incominciamo ad avere, con gli anni Quaranta, delle commedie in cui i problemi nascono a causa del lavoro delle donne, come abbiamo già visto in La costola di Adamo o Lettera a tre mogli. In Woman of the Year (La donna del giorno, 1942) di George Stevens (MGM), primo film della coppia Katharine Hepburn-Spencer Tracy, l’opposizione non è dovuta soltanto al lavoro della donna, ma al fatto che questa, giornalista politica, è molto più impegnata e ambiziosa dell’uomo, giornalista sportivo. Lei incontra Roosevelt, telefona a Batista, sa il cinese, il russo, il greco, lo spagnolo e il tedesco ed è definita la donna più importante d’America dopo Eleanor Roosevelt; troppo per non farci sospettare che alla fine l’uomo avrà la sua rivincita. Infatti c’è attrazione fisica e poi matrimonio, nonostante le differenze di gusti e di ambienti frequentati. La sequenza del matrimonio è forse la più significativa del film: Tess (la Hepburn) viene chiamata al telefono subito dopo la cerimonia, in casa del giudice di pace; il padre di lei deve andarsene subito, senza poter neppure accettare un bicchierino, perché ha impegni politici; e la prima notte è rimandata per l’arrivo di un famoso politico jugoslavo, amico di lei, fuggito dai campi di concentramento nazisti. Tess prova anche ad adottare un bambino, un piccolo profugo greco, ma Sam (Tracy) lo riporta all’orfanatrofio e lascia la moglie, che è eletta «donna dell’anno» ma non ha mai un minuto per la sua famiglia. Tess allora si arrende: diventerà donna di casa (sia pure con un esordio disastroso, quando tenta di far da mangiare) e trascurerà molti impegni. La donna deve avere dunque un ruolo «femminile» o non è neanche donna (dice Sam a un certo punto). E la famosa battuta del primo incontro tra i due attori75 la ritroviamo nel film: solo che qui non è lei a dire che lui è basso (e Mankiewicz, il produttore, avrebbe risposto che Tracy sarebbe stato capace di ridurla alla dimensione giusta), bensì al contrario è Sam a dire a Tess che è alta, in una scena d’amore, e lei risponde che saprà alzarlo alla sua altezza. Simbolo della virilità, lo sport, che Tess disprezza ma che secondo Sam era stato per Wellington alla base della vittoria di Waterloo, non riesce in fondo ad essere subordinato rispetto all’impegno politico neppure nella

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Cfr. Garson Kanin, Spencer e Katharine, Milano, Garzanti, 1977.

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LA GUERRA DEI SESSI

brutta commedia The Male Animal (L’uomo questo dominatore, 1942) di Elliott Nugent (Warner Bros), dove un professore universitario (Henry Fonda) sembra sfidare la mentalità reazionaria del suo direttore amministrativo e legge agli studenti una lettera di Vanzetti, solo per dimostrare alla moglie (Olivia De Havilland) che è più «virile» di un amico atleta, sempre intento a giocare a baseball rotolandosi per terra ovunque si trovi, anche in casa. Nel giudizio del direttore sport significa «sanità» e lealtà alla Patria, mentre il professore puzza di sovversione come quei suoi colleghi andati in Urss a fare le vacanze (ma non erano alleati in guerra a quell’epoca?) e dunque desta perplessità anche nella moglie, che quasi gli preferisce il tontolone, fino a quando il marito non «dimostra» con modi da «dominatore» (ma il titolo originale suona «animale maschio») di avere ragione. A creare un po’ di ambiguità, smitizzando il dominio del maschio, pensa soltanto, a guerra ormai finita, il solito Howard Hawks, che nelle commedie si diverte, come abbiamo visto, a presentare i suoi eroi perdenti rispetto alle donne, quasi come contrappasso rispetto al maschilismo dei suoi avventurosi western. Se in His Girl Friday (La signora del venerdì, 1940) Hawks aveva rifatto Prima pagina cambiando sesso ad uno dei due protagonisti proprio perché la competitività e il rapporto di lavoro prendessero anche una decisa colorazione sessuale e diventassero la solita guerra dell’uomo (qui però vincente) contro la donna; e se in Ball of Fire (Colpo di fulmine, 1942) la ballerina «Sugarpuss» (Barbara Stanwick) ha gioco facile nel vincere il professore di musica (Gary Cooper), troppo perso nei suoi studi (come al solito) per avere il senso della realtà e per sapersi difendere dalla seduzione femminile; in I Was a Male War Bride (Io ero uno sposo di guerra, 1949) il discorso si fa più ambiguo: non solo la donna è combattente quanto l’uomo (è ausiliaria) e guida virilmente la moto in divisa, ma lui, per sposarla, è costretto da un cavillo burocratico a fingersi una «moglie». E che il travestimento, aldilà dell’ovvia finalizzazione comica, sia in sostanza una vittoria del «femminile» lo si capisce quando, in una scena breve ma significativa, lui sembra avere assunto non solo gli abiti ma la psiche dell’altro sesso: Henry (Cary Grant), vestito da donna, è con la moglie Catherine (Ann Sheridan); si tira su la gonna per aggiustarsi le calze e un soldato fischia; quando Catherine gli dice che il fischio non era per lui Henry se ne dimostra deluso e contrariato. 121

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COMMEDIA ANNI QUARANTA

Un motivo, questo, che verrà sviluppato e approfondito da Billy Wilder una decina d’anni più tardi, con A qualcuno piace caldo, ma che è comunque decisamente contrario alla rappresentazione tradizionale dei sessi nella Commedia cinematografica.

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COMMEDIE E GUERRA

Se gli eventi bellici entrano, come abbiamo visto, in quasi tutti i film del periodo, ci sono anche per la Commedia, come per il Melodramma, delle opere concepite proprio in funzione del momento storico al punto di non avere più senso in tempi di pace. Uno degli autori di commedie più interessanti di quegli anni è ad esempio Preston Sturges, già più volte citato; il suo The Miracle of Morgan Creek (Il miracolo del villaggio, 1943) (Paramount) è certo inferiore ad altri film di cui s’è parlato, come Lady Eva o Ritrovarsi, ma ha un soggetto forse inaccettabile in un diverso contesto storico. Contrariamente alle leggi del genere qui l’amplesso è sempre fuori scena, ma nel prologo invece che nell’epilogo: la ragazza (Betty Hutton) a un ballo di militari si ubriaca, si sposa dando un nome falso e si ritrova incinta, sanza sapere di chi. Ricorre allora allo sciocco corteggiatore che l’aiuta offrendosi di sposarla; quando nasceranno sei gemelli tutti maschi, l’uomo, creduto il padre, diventerà una specie di eroe, che ha saputo dare alla Patria sei futuri soldati; ma è anche molto significativo che i bambini siano figli, in realtà, di un combattente ignoto che diventa l’idea stessa di combattente. In The Human Comedy (La commedia umana, 1943) di Clarence Brown (MGM), film prediletto non a caso da Mayer, gli intenti comici sono molto minori, quasi inesistenti, e molto più forti invece gli aspetti drammatici, con una sceneggiatura di William Saroyan (premiata con l’Oscar) che vuole dare una rappresentazione dell’America in guerra simile in un certo senso a quella di Da quando te ne andasti ma con maggiori ambizioni culturali, se il piccolo centro ove si svolgono le vicende è stato chiamato Itaca e se il suo protagonista, un ragazzo, si chiama Homer (Mickey Rooney). Itaca è popolato di gente piena di buona volontà e di coraggio, è un modello di perfezione, quasi un Eldorado di virtù e d’amore nel ricordo del fratello di Homer (Van Johnson), che morirà in guerra ma lascerà il suo posto ad un commilitone orfano, subito ricevuto a Itaca come un figlio. Homer va a scuola ed è bravo (vince la corsa ad ostacoli), ma lavora anche nell’ufficio tele123

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COMMEDIA ANNI QUARANTA

grafico soffrendo molto quando deve portare i telegrammi alle famiglie dei caduti; sua sorella (Donna Reed) è gentile con i soldati di passaggio (uno è un giovane Robert Mitchum), li accompagna in cinema sempre pienissimi, con lunghe code davanti agli ingressi a tutte le ore del giorno (il che è storicamente vero), ma senza che mai nessuno fraintenda la sua disponibilità o sia sfiorato dal desiderio. Tutto accade in funzione di quella guerra che non si vede mai ma si ha continuamente presente; tutto è giusto e ben accetto, anche la morte di una persona cara. Anzi alla fine persino loro, i morti, appaiono contenti, quali fantasmi, quando vedono il combattente orfano entrare con Homer nella casa dove sono vissuti e dove resterà sempre vivo il loro ricordo. Meno commosso e più spregiudicato in parternza, anche se poi rientra pienamente nella propaganda dell’epoca, è Pratically Yours (Sinceramente tua, 1944) di Mitchell Leisen (Paramount), dove un eroe di guerra (Fred Mac Murray) lancia, prima di morire, un messaggio a una Peggy che in realtà è la sua cagnetta, ma che tutti credono una collega (Claudette Colbert), subito oggetto di particolari attenzioni quale fidanzata dell’eroe caduto. Il quale invece è vivo e vegeto e allora i due decidono di continuare nella finzione, di perpetuare un equivoco di cui i «media» si sono ormai impossessati, funzionale alla Patria in guerra. Scontato che la finzione si trasformi in realtà, che i due infine si innamorino; ma è abbastanza originale l’importanza che radio, cinegiornali e stampa hanno nel film come responsabili della storia d’amore: anche il primo bacio si ha quando serve per una fotografia da mettere su un manifesto intitolato «Ritorno a casa». La più bella tra le commedie direttamente ispirate alla guerra è comunque The Clock (L’ora di New York, titolo televisivo, 1945) di Vincente Minnelli (MGM). Un movimento di gru sulla grande stazione di New York, all’inizio, serve ad immergerci in una folla dalla quale, con movimento contrario, usciremo alla fine, e che ci porta ad incontrare il giovane soldato Joe (Robert Walker) nel momento in cui conosce, del tutto casualmente, Alice (Judy Garland). La commedia sarà tutta sul caso e sul tempo: Alice sta rientrando a New York un po’ in anticipo rispetto al solito; Joe ha soltanto del tempo da perdere, solo in una metropoli che non conosce ma che non sembra interessargli molto. Lei lo accompagna al museo, ma Arte e Storia non li coinvolgono; invece li coinvolge il tempo, perché lei ha un appuntamento, ma poi ci rinuncia e 124

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COMMEDIE E GUERRA

accetta di uscire con Joe, sia pure arrivando al luogo dell’incontro con mezz’ora di ritardo; si tratterebbe comunque solo del breve flirt con un soldato in licenza se Alice non perdesse, dopo la passeggiata al Central Park (al quale allora evidentemente si poteva accedere anche di sera senza pericoli), l’autobus notturno, cosa che dà il via ad una serie di sequenze certo ricordate dallo Scorsese di After Hours (Fuori orario, 1986). Passando così la notte con un lattaio che si offre di dare loro un passaggio, fanno colazione a casa sua (e la moglie del lattaio contesta l’idea che caso e tempo impediscano un amore stabile, cioè un matrimonio), decidono di sposarsi, ma si perdono e scoprono, con angoscia, di ignorare reciproci cognomi e indirizzi. Si ritrovano, ancora casualmente, superano impedimenti burocratici, riescono infine a sposarsi, ma in tutta fretta, e subito devono lasciarsi il mattino dopo, in un addio alla stazione pieno di promesse e di speranza: l’idea della guerra è sempre presente, sebbene non se ne parli, ed è sempre il caso a trionfare, il caso e quanto viene determinato da esso nel tempo. Sono passati due giorni ed è stata scolvolta, sia pure positivamente, l’esistenza di due persone individuate e poi abbandonate nella folla: l’amore in questa commedia di guerra, è soltanto dono del caso e corsa contro il tempo.

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COMMEDIE FANTASTICHE

Come troviamo, verso la fine degli anni Quaranta, melodrammi che rispondono anche alle caratteristiche indicate da Todorov per definire il genere Fantastico76, quali ad esempio Il fantasma e la signora Muir o Il ritratto di Jennie, ci sono, già da prima, delle commedie che si trovano alla confluenza di due generi mettendo in scena magie, fenomeni ultraterreni, streghe e folletti. Se commedie fantastiche erano già certamente Topper (La via dell’impossibile, 1937) o, ancora prima, The Ghost Goes West (Il fantasma galante, 1935), realizzato in Inghilterra da René Clair, c’è da osservare che per quanto sia discutibile che tutto il cinema di Clair appartenga sempre al Fantastico77 è però indubbio che almeno due dei suoi film del periodo americano, cioè degli anni di guerra, siano tra le migliori commedie fantastiche mai fatte. In I Married a Witch (Ho sposato una strega, 1942) (Paramount) l’amore è superiore ad ogni magia e incantesimo: infatti la strega (Veronica Lake) sceglie di diventare donna normale contro la volontà del padre stregone; anzi nell’epilogo la vediamo madre di molti figli, preoccupata solo perché una sua bambina gioca a cavallo della scopa... Tutto il film è disincantato, permeato da un’ironia già evidente nella scena di prologo, ambientata nel Seicento, quando durante il rogo delle streghe c’è un «intervallo» e passano uomini a vendere mais assortito agli spettatori. Wallace (Fredric March) è già stato affascinato dalla strega (che non vediamo) e la sua famiglia riceve la maledizione di essere per sempre tiranneggiata da mogli-arpie: c’è dunque una serie di scenette relative ai secoli futuri con le conseguenze della maledizione (ad esempio, durante la Guerra Civile, un March truccato alla Lincoln che scappa ad arruolarsi per sfuggire alla moglie). Nell’epoca

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Tzvetan Todorov, La letteratura fantastica, Milano, Garzanti, 1977. Sui rapporti tra il cinema di Clair e il Fantastico così come è teorizzato da Todorov, cfr. Giovanna Grignaffini, René Clair, Firenze, La Nuova Italia, 1979, pp. 77-83. 77

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COMMEDIE FANTASTICHE

contemporanea la strega ha i capelli biondi della Lake e impedisce a Wallace di sposarsi, prima facendosi «salvare» da lui, poi volandogli in camera a cavallo di una scopa la notte antecedente il matrimonio. La strega però, perfida amica di un gatto nero, si innamora solo a causa di un filtro preparato per l’uomo e bevuto inconsciamente, momento che prelude alla sua trasformazione in donna. Nonostante lo sceneggiatore «esperto» della Paramount (Robert Pirosh) e la derivazione da un romanzo americano, è innegabile che il film mantiene il carattere francese del suo autore funzionando come un vaudeville 78. Più «americana» invece, forse grazie ad una sceneggiatura firmata anche da Dudley Nichols, la seconda commedia fantastica di Clair in quegli anni, It Happened Tomorrow (Accadde domani, 1943) (United Artists), dove un giornalista riceve dall’«Aldilà», tramite un vecchietto appena morto, il giornale del giorno dopo. Ma di commedie fantastiche ce ne sono tante nel periodo, e anzi possiamo considerare questo quasi un genere particolare degli anni Quaranta, perché né prima né dopo lo si ritrova con tanta frequenza: da Here Comes Mr. Jordan (L’inafferrabile Signor Jordan, 1941) di Alexander Hall (Paramount), dove un uomo muore «per sbaglio» e dunque è rimandato sulla terra a vivere nel corpo di un altro; a A Guy Named Joe (Joe il pilota, 1943) di Victor Fleming (MGM), in cui c’è il fantasma di un pilota morto durante un’azione di guerra, e che ha però più attinenze con il film bellico e in certe parti anche con il Melodramma; a It’s a Wonderful Life (La vita è meravigliosa, 1946) di Frank Capra (RKO) dove un angelo scende sulla terra per impedire un suicidio e convincere colui che vorrebbe non essere mai nato di come in realtà la sua vita sia stata importante 79; a The Canterville Ghost (Il

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Ivi, p. 96. Su La vita è meravigliosa si veda la recente lettura di Paolo Vecchi in «Filmcritica», n. 271, gennaio-febbraio 1988, e anche quanto scrive Robert B. Ray in A Certain Tendency of the Hollywood Cinema cit., che ne fa, in modo convincente, opera emblematica di tutto il cinema americano «classico». Un po’ lento e a volte ripetitivo nella prima parte, il film prende quota soprattutto nella seconda, nella lunga sequenza della sera della vigilia di Natale che si articola in due parti ben distinte, dovute appunto alla «concessione» fatta al protagonista George (James Stewart), quella di vedere il mondo come sarebbe stato senza di lui. E il mondo reale è molto più bello dell’altro: è tutto gioia e solidarietà, sotto la neve, sfociando nel finale in 79

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COMMEDIA ANNI QUARANTA

fantasma di Canterville, 1944) di Jules Dassin (MGM), versione della novella di Oscar Wilde aggiornata alla guerra in corso; a Down to Earth (Bellezze in cielo, 1947) ancora di Alexander Hall (Columbia), dove il rapporto è invece con il Musical, e dove Rita Hayworth fa la dea Tersicore che scende sulla terra per ballare in uno show e naturalmente si innamora, scegliendo di diventare donna. Come la Tersicore della Hayworth vorrebbe comportarsi una Venere impersonata da Ava Gardner in One Touch of Venus (Il bacio di Venere, 1948), di William Seiter (Universal); dapprima racchiusa in una statua (che dovrebbe essere greca antica, ma comprata dal padrone di un grande magazzino americano...), prende vita dopo un rombo di tuono ed ama un semplice impiegato-decoratore (Robert Walker) che a malapena sa chi è Venere. Ci sono canzoni di Kurt Weill, ma il film resta una commedia, soprattutto in quanto l’amore non vi è mitizzato, non è visto come sublime e impossibile sebbene si tratti di una dea con un comune mortale: non potendo Venere trasformarsi in donna, il giovane impiegato vede passare, quando lei è stata richiamata all’Olimpo, una ragazza identica che gli dice di chiamarsi Venere; il che non appare tanto un miracolo quanto un «riconoscimento» dell’oggetto amoroso in termini quasi psicanalitici. La Gardner poi, di solito mitizzata interprete di melodrammi, qui è proprio personaggio da commedia persino un po’ ridicolo (come quando, in toilette da gran sera, cade sul sedere per terra). Commedia fantastica alla Capra, con qualcosa di Ford, è The Luck of the Irish (L’isola del desiderio, 1948) di Henry Koster (20th Century Fox): a Capra è riferibile il tema del giornalista (Tyrone Power) che rinuncia a successo e ricchezza al servizio di un uomo politico corrotto per seguire la sua vocazione di scrittore «puro»; di Ford è la mitizzazione della landa sperduta irlandese dove il protagonista trova la ragazza del cuore. Ma lì c’è anche una figura di folletto che possiede il segreto

cui tutto il paese salva l’azienda di George, sequenza opportunamente citata da Ettore Scola in Splendor (1989). Il messaggio che gli lascia l’angelo, prima che la campanella dell’albero di Natale suoni per significare la «promozione» alle ali, è in realtà un messaggio americano, di Twain. E le certezze ora conquistate da George trovano in quel libro lasciatogli dall’angelo la prova che il soprannaturale esiste, che il Cielo è lì a vegliare sugli uomini e a proteggerli.

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COMMEDIE FANTASTICHE

della felicità: il vero oro della vita non è l’oro (e infatti quando il giornalista insegue il successo il doblone datogli dal folletto si trasforma in pietra), ma onestà, coerenza, vero amore ecc. Il folletto è proprio magico, anche quando va a New York come cameriere del protagonista (e lo fa incontrare nella metropolitana con la ragazza irlandese), però è anche molto buffo, un po’ ladro, beone, disordinato (come cameriere è una frana) e tale insomma da far restare il film (l’attore è quel Cecil Kellaway che faceva il padre stregone in Ho sposato una strega) nell’ambito della commedia, sia pure commedia fantastica.

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IL MELODRAMMA FINO AGLI ANNI SESSANTA

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PADRI E FIGLI

Con gli anni Cinquanta, nonostante la sempre più massiccia introduzione del colore e l’invenzione del grande schermo, che servono a contrastare il successo crescente della televisione, ha inizio quella fase di trasformazione dei sistemi della vecchia Hollywood che condurrà tra l’altro, verso la fine degli anni Sessanta, alla crisi irreversibile dei generi tradizionali. Le antiche certezze incominciano ad essere messe in discussione, la psicanalisi è ormai di dominio comune e, per quanto riguarda il Melodramma, le frustrazioni sessuali diventano primarie rispetto alla sublimazione del sentimento, mescolandosi spesso, tra l’altro, con il discorso del rapporto tra le generazioni, in particolare quello tra genitori e figli adolescenti. Potremmo anzi affermare che le più grandi storie d’amore non corrisposto del Melodramma filmico anni ’50 sono quelle che ci presentano dei ragazzi frustrati da padri o troppi moralisti e tutti d’un pezzo, o al contrario brutalmente immorali e incapaci di capire la sensibilità dei loro figli. Inutile aggiungere che, in entrambi i casi, il problema sessuale è sempre della massima importanza. Si consideri ad esempio East of Eden (La valle dell’Eden, 1955) di Elia Kazan (Warner Bros) dal romanzo di Steinbeck: più che il riferimento biblico (esplicitato alla fine dallo sceriffo con l’equiparazione tra Cal e Caino) c’è qui un discorso sull’accettazione del sesso come accettazione della realtà e dunque una condanna della sessuofobia del padre (Raymond Massey), originata dalle sue troppo rigide convinzioni religiose. La differenza tra Cal (James Dean) e il fratello è in fondo quella espressa da Abra (Julie Harris), la ragazza, nella scena al Luna Park: Abel, il prediletto dal padre, guarda alla donna come a un angelo e come un angelo pensa nel ricordo la madre, che crede morta. Invece lei morta non è, è solo fuggita non reggendo il perbenismo religioso del marito; e, forse per reazione, ora gestisce un bordello, come ha scoperto Cal, il figlio che le assomiglia, che ha con le ragazze rapporti da cui Abra è incuriosita e che finisce per attrarla molto più del 133

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IL MELODRAMMA FINO AGLI ANNI SESSANTA

troppo spirituale fratello. Però Cal ha anche bisogno dell’amore del padre, che invece lo respinge. È Abra stessa alla fine, dopo che Cal ha sconvolto il fratello con la rivelazione della verità e che il padre, dal dolore, ne ha avuto un ictus, a chiedere al vecchio di dare al figlio qualche segno di affetto perchè lui possa essere «normale». Tutti i gesti di Cal sono gesti di ribellione contro il rifiuto affettivo del padre (esemplare la scena delle stecche di ghiaccio sprecate) e solo un’accettazione da parte di lui potrà dare al giovane equilibrio e maturità, come pare accadere nella scena finale quando il vecchio gli sussurra all’orecchio qualcosa che non sentiamo e Cal si trasforma nel suo infermiere. In realtà Cal al padre si era dedicato anche prima, lo aveva salvato dalla rovina economica, ma ne aveva avuto quell’ennesimo più grave rifiuto che porta alla scena, molto tipica dei film dell’epoca e di Kazan in particolare, in cui il ragazzo infine esplode e, attraverso il prediletto Abel, «uccide» il padre, con Dean bravissimo a passare dalle espressioni e dagli atteggiamenti del giovane infantile e bisognoso d’affetto a quelle urlate e nevrotiche alla Brando. Di tutt’altro tipo, anzi opposta, l’incomprensione di un padre insensibile per un figlio destinato a diventare scrittore in Tea and Simpathy (Tè e simpatia, 1956) di Vincente Minnelli (MGM), dalla commedia di Robert Anderson. Lungi dal rifiutarlo come «peccatore», qui il padre è preoccupato soprattutto dalla scarsa virilità del figlio, lo vede «diverso» ed è contento quando lo cacciano dal «college» perché lo hanno trovato in casa di una puttana. In realtà il giovane Tom (John Kerr) dalla puttana è andato, su consiglio di un compagno che cerca di salvargli l’«onore»; ma pur limitandosi a un bacio ha provato tale disgusto da avere una crisi isterica, davanti alle risa della donna, e da minacciare il suicidio. È la scena madre di un dramma un po’ alla Tennessee Williams: figlio di genitori divorziati, Tom preferisce la musica allo sport, legge poesie, porta i capelli un po’ lunghi (per l’epoca) e, peggio, viene visto dai compagni ricamare sulla spiaggia insieme alle signore (ma è un caso). Incomincia dunque nei suoi confronti una vera e propria persecuzione che si scatena soprattutto durante la rituale, un po’ barbara, caccia alle matricole in pigiama. In realtà Tom ha solo bisogno di una persona che lo capisca, com’è Laura (Deborah Kerr), moglie di un ottuso professore di ginnastica, con la quale il ragazzo può fare discorsi culturali e confidarsi e che, lo si intuisce subito, è destinata ad amarlo «immolandosi» perché lui riacquisti fiducia nella 134

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PADRI E FIGLI

sua virilità. Così dieci anni dopo Tom tornerà al «college» ormai scrittore di successo, sposato, e Laura, che gli lascia una lettera toccante, non ci avrà neppure rimesso il matrimonio, pur avendola lui rappresentata nel suo romanzo. Come in altri film di Minnelli qui il più virile è colui apparentemente meno virile, ma il padre, al contrario di quello de La valle dell’Eden, vorrebbe dal figlio una accettazione anche immorale della realtà (sesso), piuttosto che una morale coerenza con se stesso. In Autumn Leaves (Foglie d’autunno, 1956) di Robert Aldrich (Columbia) c’è tanta psicanalisi che, come del resto in Tè e simpatia dove Laura è certo per Tom una figura materna, il melodramma parte dalle difficoltà create da una differenza d’età tra gli amanti per raccontare poi un difficile rapporto del protagonista Burt (Cliff Robertson) col padre traditore. Millicent (Joan Crawford), matura dattilografa, è rimasta sola per assistere un vecchio padre e passa in un certo senso da quello a un figlio quando incontra Burt, di cui si innamora e che infine, nonostante la differenza d’età, accetta di sposare. Però Burt è strano, si contraddice: salta fuori che era già sposato e che tutte le sue turbe nascono dall’avere sorpreso la moglie in intimità col padre, oltre che dalla solita esperienza di guerra. Quando li rivede, Burt dà fuori e quasi uccide la povera Millicent; ma dopo un periodo di cure in clinica, nonostante il medico dica che non l’amerà più perché lei rappresentava solo un sostituto della madre, l’uomo tornerà da Millicent. Fra tanti padri sciagurati nei confronti dei figli troviamo, nel cinema americano degli anni Cinquanta, un solo caso di madre vittima, ed è in All That Heaven Allows (Secondo amore, 1955) di Douglas Sirk (Universal), ove la protagonista (Jane Wyman) è una vedova che i figli ormai adulti, un maschio e una femmina, vogliono resti tale: significativa è la sequenza del Natale, quando le regalano un televisore nel quale lei, seduta davanti al teleschermo spento, specchia la sua solitudine. La donna comunque accetterebbe il ruolo impostole dai figli e dalla società perbenista della cittadina di provincia se non apparisse un giovane giardiniere (Rock Hudson) che non è soltanto richiamo sessuale per una donna più vecchia di almeno dieci anni («che bel maschio si è presa» commentano le amiche invidiose) ma è anche equiparato al Walden di Thoreau, cioè al rapporto con la natura, com’è esplicitato dalla scena in cui la vedova prende il libro e ne legge un passo. Si scatena lo scandalo, i figli litigano con la madre, lei 135

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IL MELODRAMMA FINO AGLI ANNI SESSANTA

si decide a lasciare il giardiniere; ma dopo grandi sofferenze e un incidente quasi mortale la «natura» ha la meglio sul perbenismo e sull’egoismo dei figli. È sempre comunque il rapporto col padre ad interessare di più il cinema hollywoodiano dell’epoca, anche perché il teatro di Tennessee Williams era ormai una moda culturale molto consolidata e lì le difficoltà con l’altro sesso mascherano spesso un problema omosessuale di cui non si poteva ancora parlare esplicitamente. In Cat on a Hot Tin Roof (La gatta sul tetto che scotta, 1957) di Richard Brooks (MGM) ad esempio, la bellissima Maggie (Elizabeth Taylor) ha un bel togliersi e infilarsi le calze davanti al marito Brick (Paul Newman), nella prima scena, implorandolo di amarla ancora; lui si mostra schifato e sprezzante e cerca solo la bottiglia. Lo fa da quando, veniamo poi a sapere, ha perso un caro compagno di squadra, del cui suicidio colpevolizza Maggie, che sarebbe a un certo punto diventata sua amante (invece secondo la versione della donna lei si sarebbe negata e lui avrebbe cercato la morte per questo, oltre che per avere perso l’amicizia di Brick). Ma tutto ciò emerge in una scena madre che, non casualmente, Brick ha col vecchio padre (Burl Ives), ricco e grasso possidente del Sud che rinfaccia al figlio di non sapere affrontare la realtà. Brick risponde accusando il padre di non averlo mai amato, però intanto scopre che il vecchio ha avuto un rapporto affettivo bellissimo col suo genitore, vagabondo e buono a nulla ma tanto capace di dare affetto, e allora finisce per distruggere la gigantografia di se stesso atleta, lì nella cantina tra tanti oggetti vecchi, cioè il suo amore «inutile» per l’amico, surrogato dell’amore paterno, e il suo atteggiamento adolescenziale. A questo punto padre e figlio si aiutano reciprocamente a salire le scale (il padre ha una malattia inguaribile, mentre Brick si è rotto una caviglia nella scena di prologo) in termini realistici e simbolici insieme: con il temporale, è passata l’incomprensione tra i due e anche Maggie non verrà più rifiutata dal marito perché lui è riuscito a risolvere il suo problema nodale. Ancora un padre del Sud maschilista e prepotente, ma senza che le soluzioni siano trovate se non quando è troppo tardi (e in questo senso il film rispetta di più le convezioni di genere, mentre nei casi precedenti, lo abbiamo visto, non si rinunciava mai ad un happy end) in Home from the Hill (A casa dopo l’uragano, 1960) uno dei migliori melodrammi realizzati da Vincente Minnelli (MGM). Il padre (Robert 136

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PADRI E FIGLI

Mitchum) qui ha ben due figli maschi, uno legittimo, Theron (George Hamilton), e uno illegittimo, Rafe (George Peppard). La carenza affettiva è naturalmente da parte di Rafe, trattato più o meno come un servo, ma la ribellione arriva, proprio per questo, da parte di Theron, dato che tra i due c’è un forte legame di solidarietà e d’affetto molto sottolineato dalla regia (il modo in cui Rafe lo copre quando Theron si addormenta; l’abbraccio finale, quando Theron fugge dopo aver ucciso l’assassino del padre e Rafe gli dà, simbolicamente, la sua giacca). Il film racconta, in fondo, la sostituzione di Rafe a Theron, sostituzione che si ha, tragicamente, a più livelli: come uomo di Libby, che Theron ha respinto senza sapere di averla messa incinta e che Rafe sposa; come padre del loro bambino; come figlio accettato dal possidente, che prima di morire chiede di Rafe, anche se non fa in tempo a chiamarlo «figlio»; come membro effettivo della famiglia nella scena finale, quando Rafe si incontra al cimitero con la madre di Theron (Eleanor Parker) e scopre che sulla pietra tombale del padre il suo nome appare, accanto a quello del fratello, quale «amato figlio». C’è anche in questo film una duplice ricerca d’amore paterno: Rafe, per quanto più generoso e mite del padre, ha il suo stesso gusto per la caccia e la stessa capacità di affrontare la realtà, ma è respinto in quanto frutto di «uno sfogo di libidine in un pagliaio»; Theron invece, coi suoi golfini e mocassini e pantaloni chiari, è il protetto della madre e disprezza il padre, che la tradisce, salvo poi arrivare ad uccidere per vendicarlo diventando «uomo». Il più fortunato melodramma filmico sul rapporto tra genitori e figli intrecciato con una parziale liberalizzazione del discorso sul sesso è A Summer Place (Scandalo al sole, 1959) di Delmer Daves (Warner Bros). Qui la passione, proprio in senso sessuale, si identifica con l’idea di mare e di estate (ci sono spesso, dopo incontri amorosi, inquadrature di onde che si frangono sugli scogli, accompagnate dalla musica piacevole di Steiner a tutta orchestra) e viene vista come una forza alla quale i due giovani e un padre e una madre più aperti, nelle rispettive coppie parentali, non riescono ad opporsi. Il che porta a un duplice «scandalo» (i due genitori «aperti», che già sono stati amanti in gioventù ma non si sono sposati per disparità sociale soggiaciono ancora alla passione e divorziano dai rispettivi coniugi; i due ragazzi, dal canto loro, mettono in cantiere un figlio pur essendo ancora in età scolare) che sembra alternativamente dar ragione ai due genitori rigida137

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IL MELODRAMMA FINO AGLI ANNI SESSANTA

mente sessuofobi, retrivi e anche falliti. Ma il finale vedrà un abbraccio con lacrime di commozione tra i due figli e i genitori «peccatori», cioè comprensivi, che sono il padre per la ragazza e la madre per il ragazzo. Ma con Scandalo al sole, il cui successo di pubblico porta alla realizzazione di una serie di melodrammi omologhi tutti interpretati da Troy Donahue e diretti da Delmer Daves (Vento caldo, Qualcosa che scotta, Gli amanti devono imparare), siamo ormai alle soglie di un decennio che vedrà insieme la crisi del Melodramma (e di altri generi della produzione americana) e la «rivoluzione sessuale».

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EROTICHE OSSESSIONI

Abbiamo visto come nel Melodramma filmico americano degli anni Cinquanta basato sulle incomprensioni dei padri nei confronti dei figli la vita sessuale di questi ultimi fosse quasi sempre motore del dramma. Ma c’è da notare che, anche prescindendo da problemi generazionali ed educativi, il Melodramma si presenta, nel dopoguerra, molto diverso proprio nella rappresentazione del sesso. Incominciamo ad esempio da un film del ’53 di King Vidor, Ruby Gentry (Ruby fiore selvaggio), (20th Century Fox): se si lega al precedente Duello al sole dello stesso autore nel tema della disuguaglianza sociale quale causa d’ostacolo al rapporto amoroso (ma senza le ulteriori complicanze determinate dalla diversità razziale) e in qualche altro particolare (la donna brava a sparare), c’è però da rilevare una ben maggiore dose di spregiudicatezza. Ruby (Jennifer Jones) non è sedotta, né vittima di false promesse; va tranquillamente, per sua libera scelta, con Boake (Charlton Heston) nella capanna del bosco, così come va a caccia con lui, finché l’uomo non le dice, senza tanti preamboli, che deve lasciarla per sposare una donna ricca. È solo per riavere il suo amore, proprio in senso fisico, che anche Ruby si adatta a un matrimonio di convenienza, diventa ricca e, restata vedova, rovinerebbe economicamente Boake se lui non si decidesse a ridarle quanto essa chiede. A questo punto il film sembrerebbe trasformarsi in una commedia: e invece c’è un finale tragico rifatto su quello di Duello al sole ma, data la diversità del film, dato che non avrebbe senso una vendetta da parte di Ruby, ottenuto inserendo una un po’ improbabile figura di fratello che, per scrupoli morali, insegue gli amanti e, mentre si avvoltolano sensualmente nel fango di una palude, uccide l’uomo venendo poi a sua volta fatto fuori dalla sorella. Uno stravolgimento in chiave sessuale della fiaba di Cenerentola, e proprio per questo una sua trasformazione da commedia a melodramma, è costituita da The Barefoot Contessa (La contessa scalza, 1954) di Joseph L. Mankiewicz, (United Artists) dove Maria (Ava Gardner) è vissuta sì scalza nella cenere (le scarpe, simbolo della costrizione sociale, 139

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le fanno orrore), ma sempre cercando protezione, e sesso, con uomini del popolo; salvo poi, diventata da danzatrice diva del cinema di grande successo, incontrare un «principe», il conte Torlato-Favrini (Rossano Brazzi) disposto a sposarla e innamorato di lei, ma impotente. Se l’amore impossibile è stato visto come un tema primario di Mankewicz80, il film rientra però perfettamente negli schemi di genere (dopo una prima parte sul mondo del cinema assimilabile ad opere come È nata una stella) in quanto l’impossibilità di partenza (raccontata con un dialogo in camera da letto la prima notte di nozze, con sinistre luci gialle nell’immagine e la risata corale della servitù festeggiante in giardino nel sonoro) si complica in un rapporto con l’autista, nel desiderio di Maria di dare comunque un erede al marito, e infine nel duplice delitto, sotto la pioggia, quando il conte uccide entrambi gli amanti. Dunque non siamo solo all’interno del Melodramma ma addirittura nel Noir, con due delitti per gelosia e finale allontanamento del conte tra i carabinieri, inquadrato a partire dalla statua della «Cenerentola» che non ha trovato chi le infilasse la scarpetta, che è rimasta scalza perché il suo sogno non poteva trovare riscontro nella realtà, costituita per lei da una dicotomia insuperabile tra sesso «nel fango», scalza, e sistemazione con tutti i crismi ma senza sesso, cioè con la costrizione delle scarpe. La figura dell’impotente, assolutamente sconosciuta al Melodramma hollywoodiano degli anni Trenta (come quella dell’omosessuale, quale Mankiewicz avrebbe voluto fare il conte de La contessa scalza)81 riappare in un altro film di poco posteriore, sempre interpretato da Ava Gardner: The Sun Also Rises (Il sole sorgerà ancora, 1957) di Henry King, dal romanzo di Hemingway. Qui il mistero non è svelato subito: prima vediamo Jake (Tyrone Power) con una donna e pensiamo solo che non gli piaccia; poi, sempre a Parigi, in un locale (ma la ricostruzione della Parigi anni Venti è fatta male e anche i costumi firmati dalle Fontana sono brutti e senza tempo) arriva Brett (la Gardner) e capiamo che tra lei e Jake c’è stato qualcosa. Prendono un taxi, lei parla dei molti uomini che ha avuto e sembra che la evidente

80 Cfr. Edoardo Bruno, L’enigma della Contessa e la poetica di Mankiewicz, in L’insospettabile Joseph Leo Mankiewicz, Venezia, La Biennale, 1987. 81 Cfr. L’insospettabile Joseph Leo Mankiewicz cit., p. 219.

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EROTICHE OSSESSIONI

riluttanza di lui sia dovuta all’immoralità della donna, la quale tra l’altro gli chiede di baciarla e gli dice di essere andata a Vienna solo per cercare, invano, di dimenticarlo. Si spostano in un altro locale, Brett si unisce ad altri uomini e, con le lacrime agli occhi, si stordisce nella danza, mentre Jake va a casa, si sdraia sul letto e parte finalmente un flash-back che ci spiega la situazione: Brett era infermiera in un ospedale in Italia dove Jake è stato, ferito, durante la guerra (come in Addio alle armi) e dove gli hanno detto che sarebbe rimasto impotente. Dopo di che Brett va a Pamplona con un amante (Mel Ferrer), raggiunta dal fidanzato (Errol Flynn) e li tradisce entrambi con un giovane torero col quale fugge telegrafando poi a Jake di venirla a prendere. Gli dice, nella scena finale, che proprio non riesce a surrogarlo e che una soluzione ci dovrebbe pur essere; l’uomo risponde «penso che ci dovrebbe essere» ma il film si chiude lì e tutto resta come in partenza. Anche in Written on the Wind (Come le foglie al vento, 1956) di Douglas Sirk (Universal) troviamo una donna, Marylee (Dorothy Malone), che non riuscendo ad avere l’amore di Mitch (Rock Hudson) in quanto lui la considera come una sorella, reagisce andando a rimorchiare uomini; cioè come le protagoniste dei due melodrammi più o meno contemporanei citati in precedenza. In questo bel film di Sirk il sesso è posto in termini simbolici in contrasto col danaro: così è certo un simbolo fallico il modellino di pozzo petrolifero che Marylee accarezza nelle immagini di chiusura82, dopo che, morto il fratello (Robert Stack), ha visto Mitch partire felice con la cognata (Lauren Bacall), che sposerà. Il modellino, simbolo del potere della famiglia derivato dai pozzi di petrolio, è lo stesso che non casualmente appare anche nel ritratto del padre morto, dietro di lei. È il potere della ricchezza che Marylee dapprima ha respinto, cercando di surrogare il fallo di Mitch con quello di altri uomini, e «uccidendo» così suo padre (non a caso la morte del padre, per infarto, si ha quando Marylee viene riportata a casa dopo essere stata sorpresa in un bar malfamato ed è montata in alternanza con le immagini di lei che, in vestaglia rossa, balla Temptation). Alla fine però Marylee deve accontentarsi di quel simulacro, del potere della ricchezza, frustrata nel sesso come in un

82 Non a caso Jon Halliday ha scelto proprio questa inquadratura per la copertina del suo Sirk on Sirk, London, Secker & Warburg, 1971.

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certo senso lo è stato il fratello, che a causa della scarsa vitalità degli spermatozoi ha creduto la moglie infedele provocando la sua stessa rovina. L’autore più ossessionato dal problema del sesso nella cultura americana di questi anni è, lo abbiamo detto, Tennessee Williams: molti suoi drammi vengono portati sullo schermo negli anni Cinquanta anche prima de La gatta sul tetto che scotta, a cominciare da A Streetcar Named Desire (Un tram che si chiama desiderio, 1951) di Elia Kazan (Warner Bros), e spesso assumono, nella trasposizione filmica, le forme del Melodramma. Più che impossibile in quanto sublime, l’amore appare in queste opere cosa divorante, distruttiva, come quella pianta carnivora che ha il nome di Venere in quella giungla un po’ angosciosa che è il «giardino di Sebastian» in Suddenly Last Summer (Improvvisamente l’estate scorsa, 1959) di Joseph L. Mankiewicz (Columbia). Di rapporti amorosi in realtà poi non si parla, in questo dramma di Williams, se non per quanto riguarda il rapporto un po’ morboso tra Violet (Katharine Hepburn) e il figlio Sebastian, già morto, che come molti indizi ci fanno sospettare (il grande quadro di San Sebastiano nel suo studio) era omosessuale, sebbene ciò, confermato dal racconto finale di Catherine (Elizabeth Taylor), da lui indotta ad indossare un costume trasparente per essere «richiamo» per i ragazzi della spiaggia, non sia mai detto esplicitamente nel film. Ciò che più importa è comunque che questa condizione di cui si tace (nel ’59 era ancora tabù per il cinema) è così ossessionante, vista come ingiustizia della natura, che l’immagine di Dio è, nel racconto di Violet, la parabola dei falchi e delle tartarughe: i falchi che si precipitano sui piccoli delle tartarughe, appena i gusci si sono dischiusi sulla spiaggia, rovesciandoli per cibarsi della loro carne tenera; è qualcosa di tremendo e ineluttabile che si realizza nella sequenza finale, dove Sebastian è identificato con le tartarughe e i ragazzi, che con la loro musica selvaggia lo inseguono per le stradine bianche del paese, diventano i falchi. Si arriva a parlare di cannibalismo, ma Williams e Mankiewicz si guardano dall’esplicitare i motivi di tanta crudeltà: unica traccia resta una battuta di Catherine, che ricorda come suo cugino Sebastian parlasse dei popoli quasi fossero piatti di un menu. Irraggiungibile e distruttivo il sesso è visto anche in The Fugitive Kind (Pelle di serpente, 1961) di Sidney Lumet (United Artists) dove Lady (Anna Magnani) non più giovane, insoddisfatta e sposata a un uomo 142

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malato vede arrivare Val (Marlon Brando), giovane e bello, come un «Orfeo disceso» (è il titolo del dramma originale), dato che era cantante, e se ne innamora follemente, sebbene dapprima non voglia ammetterlo e Val glielo faccia riconoscere a ceffoni dopo averla incantata con un’allegoria, assimilabile a quella di Improvvisamente l’estate scorsa in cui si parla di uccelli azzurri dalle ali trasparenti che volano più alti dei falchi e non possono toccare terra se non per morire. Val porta la vita al «fico sterile» Lady, mettendola incinta, ma neppure questa Euridice riesce ad uscire dal suo inferno, perché muore per mano del perfido marito, mentre Val trova le sue Baccanti negli uomini intolleranti e invidiosi del Sud, come spesso accade ai bei giovani di Williams. Come sta per accadere (ma il film non segue il testo teatrale e sceglie l’happy end) al Chance (Paul Newman) di Sweet Bird of Youth (La dolce ala della giovinezza, 1962) di Richard Brooks (MGM), dove il giovane ha qualità amatorie eccezionali, che gli fanno fare una certa carriera e che soprattutto gli legano indissolubilmente la figlia di un uomo politico molto contrario al loro amore. Anche Chance dice di voler essere come un uccello, un gabbiano (non è probabile che Williams voglia dare a «bird» una connotazione sessuale); mette incinta l’amata, ma il padre la fa abortire e tenta di punire la troppo trionfante sessualità di Chance minacciando di castrarlo (cosa che accade nella versione teatrale). Nel film invece il giovane perde la diva di cui era il gigolò e che gli aveva promesso una carriera nel cinema, ma ottiene in compenso l’amore della ragazza, il cui padre, mentre fuggono insieme, riesce solo a lanciare loro dietro, impotente, il suo bastone. La frustrazione del desiderio sessuale conduce due giovani quasi alla follia in Splendor in the Grass (Splendore nell’erba, 1961) di Elia Kazan (Warner Bros), melodramma un po’ atipico (la sceneggiatura è del drammaturgo William Inge) in quanto, diversamente dal solito, c’è nel finale una «realistica» sistemazione dei due innamorati con altri partners. Però lo «splendore», citato da una poesia di Woodsworth, è il momento giovanile di amour fou che vivono Bud (Warren Beatty), figlio di un ricco petroliere, e la compagna di scuola Deanie (Natalie Wood), figlia di un modesto bottegaio. Entrambi vengono pesantemente inibiti dai genitori: lei dalla madre, che teme che il «buon partito» non la sposerà più «dopo», lui dal padre, che impone la laurea prima del matrimonio, consigliando al figlio di sfogarsi intanto con 143

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ragazze facili. Esasperata proprio in termini di melodramma è, dopo queste premesse abbastanza comuni, l’evoluzione dell’intreccio: lui sta persino male, non potendo avere il rapporto, e deve andare da un medico; lei, quando vede Bud accoppiarsi infine con una ragazza facile, prima tenta di darglisi, poi tenta il suicidio e non riuscendole nessuna delle due cose finisce in una clinica per malattie nervose. A questo punto, sebbene il crollo di Wall Street che rovina il petroliere si presenti quasi come un «deus ex machina» sociale, gli equilibri sono rotti: Deanie, che in abito scarlatto e tagliandosi i capelli aveva simbolicamente tentato di superare le sue inibizioni col risultato di cadere quasi nella follia, si fidanza con un medico della clinica e, indossato un altro non meno simbolico abito bianco, va a dire addio a Bud, trasformato in contadino e già sposato con figli, in una sequenza finale che, come lo stesso Kazan riconosce 83, ha una gran giustezza di toni. Ancora Williams (ma come dice La Polla molto trasformato rispetto all’atto unico da cui fu tratta la sceneggiatura)84 e il cinema di Kazan (colori, luci, ambienti e la presenza di Natalie Wood fanno pensare a Splendore nell’erba) sono alla base di This Property Is Condemned (Questa ragazza è di tutti, 1966) di Sidney Pollack, che però si inserisce molto più decisamente nel Melodramma recuperandone un archetipo come La signora dalle camelie. Il legame più apparente è il fatto che Alva (Natalie Wood) muoia di tisi, come racconta nell’epilogo la sorellina Willie sia pure mettendo il fatto in rapporto con l’universo dei media («Non è stato come in quel film dove lei moriva circondata da tutti i suoi amanti» dice; e quando esce con l’innamorato dalla proiezione di One Way Passage, Alva si augura che, rivisto, il film possa finire diversamente, al che l’uomo replica che in tal caso non la farebbe più piangere e dunque non le piacerebbe più); ma ci sono anche riferimenti più sottili, come il fatto di far entrare in scena la Wood

83 Cfr. Kazan par Kazan. Entretiens avec Michel Ciment, Paris, Stock, 1973, p. 224: «... C’est à mon avis de tous mes films celui qui a le plus de maturité dans son dénouement. Quand elle rend visite au garcon et qu’il est marié, il y a là quelque chose de très beau que je ne comprend pas vraiment. Cela va plus loin que tout ce que j’ai fait; c’est venu comme ca. Ce n’est pas une fin heureuse dans les termes de la mythologie hollywoodienne, mais c’en est une en termes de vie réelle...». 84 Franco La Polla, Sydney Pollack, Firenze, La Nuova Italia, 1978.

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EROTICHE OSSESSIONI

con un vestito simbolicamente rosso (come quello di Splendore nell’erba), ma con appuntata alla spallina una camelia bianca. Abbandonata dal padre (e per ciò il film si apparenta anche a quelli di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente), Alva, desiderata da tutti e posseduta da molti, tenta di surrogarne col sesso l’amore e vive di sogni, senza riuscire ad acquisire il senso della realtà che cerca di darle Owen (Robert Redford). Tenta di sfuggire alla sua condizione, ma come dimostra il movimento di macchina a spirale quando va verso la città85, la fuga è illusoria. Resta, dopo la sua morte, il mito della fuga, del viaggio, legato ad una frustrazione sentimentale impossibile da sanare.

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Ivi, p. 31.

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RAPPORTI INTERRAZZIALI

Le inquietudini sociali degli anni del dopoguerra, che portano ad una più spregiudicata, anche se a volte ossessiva, trattazione del tema sessuale nel cinema di consumo, trovano riscontro soprattutto nel problema della convivenza tra razze diverse, problema vecchio quanto la storia degli Stati Uniti in realtà, ma raramente affrontato dalla produzione hollywoodiana. E come non a caso il Western si rinnova proprio negli anni Cinquanta, ponendosi per la prima volta in termini abbastanza sinceri il problema dei pellerossa (al quale corrisponde naturalmente, nella realtà, soprattutto quello dei neri), come troviamo storie di frontiera in cui uomini bianchi si innamorano di principesse indiane (da Broken Arrow di Daves del ’51 a The Last Hunt di Brooks del ’56 sono almeno quattro o cinque i western con questo tema) ci sono nello stesso periodo dei melodrammi ove l’impedimento è costituito soprattutto dalla differenza di razza. Uno di quelli di maggiore successo fu certo Love Is a Many Splendored Thing (L’amore è una cosa meravigliosa, 1955) di Henry King (20th Century Fox), storia dell’amore tra un giornalista americano (William Holden), sposato, e una dottoressa eurasiatica (Jennifer Jones) che lui incontra ad Hong Kong. Contrari al loro rapporto si dimostrano non solo i bianchi della comunità inglese, ma anche i cinesi, come è dimostrato dall’episodio del ritorno in famiglia della protagonista. L’opposizione più forte è comunque quella della moglie del giornalista, che non vuole concedere il divorzio per cui l’amore tra i due diventa scandaloso e la dottoressa viene cacciata dall’ospedale inglese ove lavora prima che l’innamorato, inviato speciale in Corea, sia infine ucciso. Però il rapporto interraziale non è per nulla drammatizzato (se si esclude una scena in cui la protagonista si lamenta che le mezzosangue siano sempre considerate donne immorali) e anzi il tono del film è esasperatamente romantico, grazie soprattutto alla canzone omonima, famosissima, ripresa di continuo, a piena orchestra o con qualche strumento soltanto, nella colonna sonora. E dato che il film è 146

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RAPPORTI INTERRAZZIALI

in Cinemascope a colori gli incontri più importanti tra i due innamorati avvengono su una collina dietro l’ospedale, posto molto panoramico perché si vede sotto tutta Hong Kong. Qui si affacciano anche i motivi tipici del genere: la prima volta lei arriva trafelata e non vede lui; sta già preoccupandosi quando l’amato sbuca dal crinale e ci sono sorrisi e gesti con le mani; lì fanno un interessante discorso sulla reincarnazione, sul loro ritrovarsi in un’altra vita, magari col sesso cambiato (basta che cambino tutti e due) o in corpi di animali; lì si incontrano l’ultima volta con un addio che è tutto una previsione nefasta (sebbene l’indovino abbia pronosticato lunga vita insieme); lì infine lei ritorna dopo che lui è morto: ci sono le stesse inquadrature della prima volta, compreso l’apparire dell’uomo dal crinale, che essendo però solo nel ricordo di lei, si dissolve. Ma la stessa farfalla che si era posata accanto al giornalista al momento in cui era scoppiata la bomba fatale, si posa, nella scena finale, accanto alla donna, che rievoca le parole dell’amato sulla loro grande fortuna, quella di avere conosciuto la «cosa meravigliosa», cioè l’amore, esperienza non di tutti. E se non ci sono più i fantasmi degli anni Trenta, la presenza della farfalla è comunque un richiamo dei discorsi sull’aldilà. Ancora un americano (Marlon Brando), questa volta militare, innamorato di un’asiatica, una giapponese (Yoko Tani) in Sayonara di Joshua Logan (id., 1956) (Warner Bros) dove c’è ancora la canzone, ancora paesaggi a colori, ma un po’ più di dramma (un collega del protagonista e la moglie giapponese finiscono per suicidarsi) e dove Brando appare a suo agio soltanto nei momenti più ironici, non certo quando contempla, sulla spiaggia, il «matrimonio» di due scogli. Il problema negro invece emerge, sia pure timidamente, in tre delle quattro storie amorose che si intrecciano in Island in the Sun (L’isola nel sole, 1957) di Robert Rossen (20th Century Fox). Due delle storie sono a lieto fine: quella della signorina (Joan Collins) di buona famiglia di piantatori, la quale, incinta del figlio del governatore inglese, rifiuta di sposarlo quando scopre di avere sangue nero nelle vene; ma poi è liberata da una confessione di adulterio della madre, per cui, meglio bastarda che negra per un sedicesimo, può infine salire col marito su un aereo per Londra; lo stesso aereo che prendono uno scrittore, già aiutante del governatore, e la moglie nera (Dorothy Dandridge), per la quale l’uomo, avendo infranto col suo matrimonio le regole sociali, ha dovuto lasciare il posto. Vedono invece soltanto 147

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IL MELODRAMMA FINO AGLI ANNI SESSANTA

passare sopra le loro teste l’aereo dell’happy end un uomo politico di colore (Harry Belafonte) e la signorina bianca (Joan Fontaine) con lui sulla roccia a picco sul mare, nella sequenza di chiusura: si amano fin dall’infanzia, si stimano, ma, come nel Western contemporaneo non si vede quasi mai un film in cui sia l’uomo ad essere pellerossa, nei rapporti interrazziali, tanto meno era ancora concepibile, nel cinema hollywoodiano, che un maschio nero potesse amare una donna bianca. Infatti non c’è una sola scena d’amore: soltanto discussioni di problemi seri e magari, quando lui la porta a vedere la «sua» isola, una canzone insieme a un coro di pescatori. La Fontaine è visibilmente ben più attempata di Belafonte, tanto che non si capisce come abbiano potuto giocare insieme da piccoli; però non è questo il motivo per cui lui non la vuole sposare, né perché, come gli viene rimproverato, ama troppo il potere, la sua carriera politica: è solo, dice, per non sentirsi chiamare da lei, una volta o l’altra, «negro» in tono insultante. Anche un diverso dipo di rapporto interraziale, un’amicizia, può risolversi nei toni del Melodramma: in Something of Value (Qualcosa che vale, 1957) di Richard Brooks (MGM), l’amore del giovane proprietario terriero (Rock Hudson) per la sua terra va collegato a quello per il compagno di giochi nero, e poi dipendente, Kimani (Sidney Poitier), che con la terra africana si identifica. Come in Novecento (1976) di Bertolucci (che può aver ispirato) l’attaccamento alla terra viene a coincidere con quello per un compagno diverso: nel film italiano sarà diversità soprattutto sociale; qui invece razziale, e culturale in senso più lato. Come in Novecento, è il «signore» ad amare di più: non si dà pace quando Kimani scompare e stenta molto a credere che si sia unito ai rivoluzionari Mau Mau; lo va a cercare più volte, rischia la vita e si rifiuta di ucciderlo quando lo vince nella lotta; inoltre, se pure non vi sono allusioni omosessuali come in Bertolucci, il matrimonio va in crisi dopo la sparizione di Kimani. Il quale alla fine muore, ma dopo una scena di riconciliazione con dettaglio ripreso due volte, tra lo stupore degli astanti, della mano che il bianco offre e il nero finalmente stringe. Qualche nota melodrammatica dovuta alle differenze razziali c’era stata del resto anche in Giant (Il gigante, 1956) di George Stevens (Warner Bros) sebbene in storie minori (il figlio che sposa un’india), mentre l’«impossibilità» tematicamente più importante, quella dell’amore di 148

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RAPPORTI INTERRAZZIALI

Jett (James Dean) per Leslie (Elizabeth Taylor), moglie del «padrone» (Rock Hudson), si basa piuttosto sulle differenze culturali e sul sentimento costante e tenace della donna per il marito, nonostante il contrasto tra la sua aperta mentalità dell’Est e le chiusure «texane» dello sposo. L’ultimo successo, tra i melodrammi interrazziali, è probabilmente The World of Suzie Wong (Il mondo di Suzie Wong, 1960) di Richard Quine (Paramount) ove un architetto americano (Willian Holden) pianta tutto per andare a Hong Kong a fare il pittore, e quando il film incomincia lo vediamo su un traghetto, intento a fare schizzi di quanto lo colpisce. Naturalmente è un pretesto narrativo per farlo incontrare con Suzie (Nancy Kwan), che gli si presenta come una ragazza ricca e illibata e che invece poi ritrova tra le prostitute dell’albergo di infimo ordine in cui va ad alloggiare (continuando peraltro a vestire come un perfetto uomo d’affari), una specie di bordello per marinai. La ragazza cinese gli interessa però soltanto come soggetto da ritrarre, mentre lei incomincia presto a perseguitarlo per avere con lui rapporti d’altro tipo. Per quanto Suzie gli danzi davanti in modo seducente, per quanto gli si offra gratis, per quanto tutti, dal portiere dell’albergo alle altre prostitute, «tifino» per lei, l’architettopittore non vuole «contaminare» la sua arte e viene il sospetto che ci sia anche un po’ di disprezzo razzista. Solo dopo che Suzie è stata lasciata da un inglese che, in crisi matrimoniale, l’aveva presa come amante, il pittore Robert cede alla passione che subito avvampa, pur messa in crisi dalla scarsità di danaro e quindi dalla proposta della ragazza di tornare a lavorare, tanto «senza amore è come un abbraccio»; al che sdegno dell’uomo, offese, sparizione di Suzie, pentimento e ricerca, cataclisma, morte del bambino segreto della cinesina e finalmente uscita di scena dei due innamorati con trionfo della colonna sonora e panoramica sulla baia di Hong Kong di notte. All’happy end da commedia, dopo la sequenza patetica del funerale del bambino secondo il rito cinese, non è forse estraneo il fatto che, avviatisi agli anni Sessanta, i problemi razziali conosceranno un ben più forte inasprimento e anche il cinema di Hollywood potrà affrontarli (Indovina chi viene a cena di Kramer è del ’67) senza i camuffamenti degli schemi di genere.

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I «REMAKES»

Con gli anni Cinquanta, nonostante la struttura dello Studio System sia ancora solida e il cinema di genere non conosca quella crisi che sorgerà, irreversibile, poco oltre la metà del decennio successivo, si assiste al progressivo diffondersi nella produzione americana del fenomeno dei remakes, cioè il rifacimento di vecchi film, fenomeno sempre esistito ma più specifico dei momenti difficili (e infatti ancora più evidente negli anni Ottanta, quando la televisione avrà vinto definitivamente la sua guerra) 86. In quanto genere tra i più fortunati del vecchio cinema, il Melodramma presenta numerosi remakes, che sostanzialmente rispettano non solo i soggetti ma anche gli intrecci, però con qualche «aggiornamento» interessante. Può succedere ad esempio che, ambientato nel contemporaneo dopoguerra, il film abbia molto più successo della prima versione, come è con A Place in the Sun (Un posto al sole, 1951) di George Stevens (Paramount) tratto da quel romanzo di Dreiser, Una tragedia americana, che già Von Sternberg aveva realizzato nel ’31, sempre per la Paramount, con lo stesso titolo del libro (era la sceneggiatura alla quale aveva lavorato Ejzensˇtejn a Hollywood). Molto si deve, nel film di Stevens, alla fortunata combinazione divistica: Montgomery Clift era l’attore ideale per dare a Clyde, qui ribattezzato George, sensibilità moderna, postbellica, con un po’ di nevrosi; ed Elizabeth Taylor centrava, bellissima, il suo primo ruolo un po’ sexy dopo le carinerie da ingenua della MGM. E la regia sfrutta le qualità degli attori, ad esempio con una serie di primissimi piani ravvicinati nella scena della rivelazione dell’amore tra i due. D’altra parte il cambiamento di ambientazione permette soluzioni linguistiche come quella della notizia della morte di Alice data da una radio portatile in primo piano mentre sul

86 Sul fenomeno del «remake» nel cinema degli anni Ottanta si veda il n. 39 di «Cinema & Cinema», aprile-giugno 1984.

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I

«REMAKES»

fondo i ricchi fanno lo sci d’acqua e la voce dello speaker a tratti è coperta dal motore dei motoscafi. Agli schemi di genere si avvicina forse soltanto la scena di addio in carcere, quando Angela (la Taylor) va a trovare George prima dell’esecuzione e, tutta vestita di nero, continua a tormentare, durante il dialogo straziante, un fazzoletto che tiene in mano. Mentre poi George va verso la sedia elettrica, l’ultima inquadratura ci presenta, in sovrimpressione con Clift e come nel ricordo del personaggio, i primissimi piani citati, cioè il momento più felice dell’amore rievocato in punto di morte. Un brutto romanzo, e un film omonimo diretto da John Sthal nel ’35 (ma tradotto in italiano Aldilà delle tenebre) sono all’origine di Magnificent Obsession (Magnifica ossessione, 1954) che Douglas Sirk rifà per la Universal in Technicolor e forse perciò trasformando da scrittore in pittore il personaggio che dà a Bob (Rock Hudson) l’«ossessione» del titolo, cioè evangelici insegnamenti sull’amore per il prossimo, con l’obbligo di fare il bene restando nascosti. Egoista e responsabile sia pure involontariamente della morte del marito di Helen (Jane Wyman), quando la donna a causa sua perde anche la vista in un incidente, Bob si trasforma, le si presenta sotto falso nome e nasce dunque l’amore, che in questo melodramma è cecità, non conoscenza. Invece che a Parigi, come in Sthal, Helen va a farsi curare in Svizzera (per l’origine tedesca di Sirk, ovviamente) e la scena del riconoscimento, preparata da un’altra in cui Helen, disperata e sola nella stanza, pare pensi al suicidio, si risolve con musica e coretto per sottolineare la grande gioia dell’amore finalmente svelato quando entra Bob. Tutto succede poi come nella prima versione (che aveva lanciato il giovane Robert Taylor, accanto a Irene Dunne): dopo una serata romantica con festa tirolese al villaggio e ballo lento al suono dei violini, lui le chiede di sposarlo e lei sparisce, il giorno dopo, senza lasciare tracce. Allora Bob diventa un grande medico, fotografato sulle riviste, e riesce a ritrovare Helen solo anni dopo, quando lei è in punto di morte: non soltanto la guarirà, ma, operandola, le farà riacquistare la vista. A suo agio nel ruolo di cieca (forse in quanto era già stata sordomuta in Johnny Belinda, per cui aveva avuto l’Oscar, e zoppa in Zoo di vetro) la Wyman porta la sua sventura con la stessa dignità ed eleganza della Dunne, ma con molte più battute «spiritose». I colori brillanti di Russel Metty e la presenza di Rock Hudson resteranno costanti in tutta una serie di melodrammi della Universal negli anni successivi, spesso 151

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IL MELODRAMMA FINO AGLI ANNI SESSANTA

pure diretti da Sirk, nati grazie all’incredibile successo di questo e più pregevoli quasi sempre (Come le foglie al vento e Secondo amore soprattutto, di cui s’è parlato). Dunque il piatto «remake» di un melodramma anni Trenta rende possibili alcuni tra i più significativi melodrammi degli anni Cinquanta. Ancora un melodramma di Sthal degli anni Trenta, precisamente del ’34, è rifatto da Sirk nel ’59 per la Universal: Imitation of Life (Lo specchio della vita, in entrambe le versioni); ove le modifiche sono ugualmente poche, la più importante delle quali è però che Lora (Lana Turner), la protagonista, fa l’attrice, non l’industriale «regina delle frittelle» come nell’altro film, in cui il suo spirito di iniziativa e la sua intraprendenza industriale premiate dalla fortuna erano forse da rifarsi a quegli anni di New Deal. Qui invece la scelta del lavoro contro quella amorosa avviene soltanto per ambizione, come Lora stessa dice in un dialogo con la figlia; e d’altra parte nel finale, chiariti i problemi (madre e figlia amano lo stesso uomo) la donna può anche sposarsi, diversamente da come accadeva in Sthal, e dedicarsi più alla famiglia rinunciando all’arte. Per quanto riguarda il rapporto tra la protagonista e la cameriera di colore invece c’è da dire che il secondo film è più coraggioso: nel primo infatti la donna forniva la ricetta delle fritelle e diventava una socia d’affari; nel secondo resta una cameriera, sebbene amata e sebbene tutti piangano alla fine al suo commovente funerale; e poi Sirk introduce una scena proprio sul razzismo quando la figlia dalla pelle chiara viene picchiata a sangue e lasciata nella vuota strada notturna dal boy-friend che è venuto a sapere da altri che lei è in realtà una di razza diversa. A un suo successo degli anni Trenta, Love Affair (Un grande amore, 1939), Leo Mc Carey si riferisce con An Affair to Remember (Un amore splendido, 1957) (20th Century Fox), produzione in Cinemascope a colori con Cary Grant (al posto di Charles Boyer) e Deborah Kerr (al posto di Irene Dunne) che innamorati con problemi sono divisi da un grave incidente ma si ritroveranno in un happy end da commedia (come tutta da commedia è, nel remake, la prima parte dell’innamoramento sul transatlantico). Canzoni, bambini, situazione al limite dell’assurdo e un finale «natalizio» con la protagonista priva dell’uso delle gambe ritrovata dall’innamorato che proprio allora scopre quel suo «segreto», abbondano in un film i cui tassi di sentimentalismo sono decisamente superiori alla media delle produzioni contemporanee. 152

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«REMAKES»

Più varianti dovute alle trasformazioni storiche e culturali degli anni Cinquanta, rispetto agli anni Trenta, troviamo in The Rains of Ranchipur (Le piogge di Ranchipur, 1955) di Jean Negulesco (20th Century Fox), remake de La grande pioggia: essendo ormai, nel frattempo, l’India diventata indipendente, il lord inglese (Michael Rennie) va dalla Maharani solo per comprare uno stallone; il rapporto tra lui e la moglie Edwina (Lana Turner) è esplicitato subito cinicamente in un dialogo in treno, salvo poi essere smentito, tutto questo cinismo (lei gli dice di averlo sposato solo per il titolo e lui replica di averlo fatto non solo per i soldi ma perché essendo lei l’essere più malvagio e perverso che conoscesse era sicuro di non farla soffrire), dalla vicenda che segue. Infatti a Ranchipur Edwina occhieggia subito il medico indiano (Richard Burton), ma neanche dopo che sono andati a vedere quadri nel palazzo da soli succede quello che pareva succedere, con un vecchio amico, nell’altro film, e ci vuole un cobra, durante la scena della caccia, perché lei abbia una crisi isterica e si butti tra le braccia del medico, professandogli poi il suo grande amore poco dopo quando lui le ha salvato il marito dalla tigre. Seguono terremoto, inondazione e pestilenza; l’uomo si dedica alla salvezza del suo popolo e, nonostante gli dicano che Edwina sta per morire, non va neanche a trovarla. La trasformazione più consistente è però nel finale: Edwina non muore, ma guarisce, e ci resta malissimo quando sa che l’amante era stato avvisato; decide dunque di ripartire col marito lasciando l’altro alla sua «missione»; dopo che la Maharani ha espresso a Edwina tutto il suo disprezzo (e non si capisce perché), c’è un dialogo d’addio in cui il medico si dichiara disperato e la definisce la donna più buona e generosa mai incontrata. Col che, dato l’amore per la moglie confessato dal lord in una scena precedente, tutto il melodramma non ha avuto, in fondo, che la funzione di mostrare come anche il matrimonio più infelice possa essere salvato; e infatti il film non chiude come l’altro sull’immagine trionfante del medico-principe, ma su quella dei coniugi che partono pacificati. Nel ’58 Selznick pensò di rifare, soprattutto per la moglie Jennifer Jones che come abbiamo visto era stata protagonista di alcuni melodrammi significativi, un A Farewell to Arms (Addio alle armi) che con maggiori pretese di realismo rispetto a quello di Borzage venne a girare in Italia con la regia di Charles Vidor (20th Century Fox); ma il desiderio di «autenticità» (esterni veri e attori italiani a fare gli italiani) porta a un 153

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risultato che suona più falso della prima versione girata in studio (si pensi solo alla scelta di Alberto Sordi nel ruolo del cappellano militare, involontariamente ridicolo, soprattutto quando fa cantare i feriti durante il bombardamento). Henry è Rock Hudson, altra star del Melodramma in quegli anni; l’amore con Catherine (la Jones) scoppia a prima vista, e c’è subito un rapporto fisico, nella serra dove si sono rifugiati per la pioggia, perchè lei identifica Henry col fidanzato morto, del quale viene inquadrato, «dopo», il frustino-ricordo abbandonato a terra. Quando lui parte per il fronte, Catherine va a salutarlo facendosi largo tra la folla dei soldati, in mezzo ai quali poi c’è un bacio, come in cento altri melodrammi di guerra. Dopo Caporetto e la diserzione di Henry i due fuggono in barca, come nel romanzo, da Stresa, e arrivano in una Svizzera in cui, tra mucche con campane al collo e gente molto gentile, se la passano bene, da turisti ricchi. Nonostante i dialoghi, sempre lunghi e dolciastri, non si capisce perché non si sposino ed è addirittura ridicola la motivazione datane da Catherine quando dice che, essendo in gravidanza avanzata, si rifiuta di far sapere a tutti che è ancora nubile. Come nel romanzo, Catherine muore di parto e Henry se ne va solo sotto la pioggia, ricordando le frasi e i momenti del loro rapporto ma senza promesse di ricongiungimento nell’aldilà. Con gli anni Sessanta i remakes scadono ancor più di qualità; anche Vincente Minnelli, riprendendo un grande successo del muto con The Four Men of the Apocalipse (I quattro cavalieri dell’Apocalisse, 1961) (MGM) cerca di «aggiornare» la vicenda trasponendola dalla Prima alla Seconda Guerra Mondiale con inserimento di nazisti e membri della Resistenza, ma, nonostante gli entusiasmi della critica francese, non riesce a superare lo iato storico-culturale con un cinema, e un’epoca, ormai decisamente lontani. È comunque soprattutto alla Universal, dato il successo delle produzioni di Ross Hunter (tra cui i melodrammi di Sirk di cui s’è detto) che si tentano i remakes dei soggetti più invecchiati e improponibili fin oltre la metà degli anni Sessanta. Il romanzo Back Street di Fannie Hurst ad esempio aveva già avuto due versioni filmiche, una nel ’32 e una nel ’41, quando Hunter ne decise una terza, diretta da David Miller e uscita in Italia col titolo Il sentiero degli amanti (1961). L’«impedimento» di partenza qui è persino ridicolo: si tratta di una donna (Susan Hayward) innamoratasi, durante la guerra, di un marine (John 154

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I

«REMAKES»

Gavin) sposato con due figli, ma disposto a portarla con lui divorziando dalla moglie, come decide all’ultimo momento proprio quando sta per partire: lo comunica all’amata telefonandole dall’aeroporto, ma cade la linea, la donna parte per raggiungerlo, ma resta senza benzina, lui non riesce a comunicare la decisione alla sorella di lei perché trova la linea sempre occupata e insomma la protagonista arriva che l’aereo sta già partendo e rimane piangente dietro una rete. Questo scherzo del caso (come se non esistessero poi posta e telefoni) farà soffrire i personaggi tutta la vita. Infatti lei diventa una stilista famosa, lui un importante uomo d’affari e si rincontrano continuamente, per caso, per strada o al ristorante, nonostante la donna faccia di tutto per sfuggirlo, facendosi trasferire a Roma e a Parigi, ma quando vede con che razza di arpia lui è sposato, perfida alcolizzata e anche infedele, accetta di diventare la sua amante. In un atelier parigino (ma contrariamente ad altri melodrammi del periodo gli esterni sono sempre California camuffata mentre gli interni sono i soliti di questa serie Universal, tinte pastello e design di cattivo gusto) avviene lo scontro tra le due donne, cui segue un incidente provocato dalla perfida moglie che costa la vita a lei e al marito, lasciando alla protagonista solo la possibilità di un abbraccio coi due piccoli orfani, scena che si rispecchia nella foto dello scomparso in divisa da marine, nell’inquadratura finale. Nonostante il livello piuttosto basso, Il sentiero degli amanti ebbe un certo successo, cosa che indusse Ross Hunter a ritentarci producendo questa volta la sesta versione di un melodramma teatrale francese di Alexandre Bisson già trasposto sullo schermo nel ’14, nel ’16, nel ’20, nel ’29 e nel ’37: Madame X (id., 1966) di David Lowell Rich, in cui venne inserita, rispetto alle versioni precedenti, la figura di una perfida suocera che odia la protagonista (Lana Turner) dal momento che il figlio la sposa. È colpa sua se la donna, trascurata dal marito, politico che viene chiamato a Washington anche la sera di Natale mentre sta giocando col trenino insieme al figlioletto, è indotta a tradirlo per un play-boy; ma soprattutto è lei che la ricatta dopo che, volendo lasciare l’amante, lo ha incidentalmente visto morire: o lei sparirà fingendo di essere morta durante una crociera o ci saranno il processo e lo scandalo. Lei sceglie di sparire e, con una toccante scena di addio al figlio, il film si trasforma in un melodramma sulla frustrazione della maternità. Si mette a girare l’Europa, cioè la vediamo seduta con lo sguardo perso nel vuoto e in sovrimpressione ci 155

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sono treni in corsa; il peggio è la vigilia di Natale, quando vaga sotto la neve come pazza dopo aver abbracciato, credendolo il figlio, un bambino visto per strada; morirebbe assiderata, come un personaggio ottocentesco, se non venisse raccolta da un concertista che subito si innamora e vorrebbe sposarla. Ma lei fugge e si degrada nell’alcool e nelle bettole fino ad uccidere un vecchio laido che ha scoperto la verità e vorrebbe indurla a ricattare il marito, diventato nel frattempo vicepresidente degli Stati Uniti. A difenderla, si trova, guarda caso, proprio il figlio ormai cresciuto, il quale, ignaro di tutto, prova per lei una misteriosa tenerezza. Madame X muore prima del verdetto della giuria, ma mentre spira ha accanto il figlio, che forse ha capito e che comunque la bacia, per cui, con commento musicale a tutta orchestra, lei può morire felice. Se si pensa che questo film è stato realizzato a due anni dal ’68 si può capire perchè tutto un sistema di produzione stesse per entrare in una crisi dalla quale si sarebbe risollevato solo con trasformazioni profonde, con un abbandono definitivo delle vecchie storie e soprattutto dei modi di raccontarle (i remakes degli anni Ottanta saranno infatti altra cosa).

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STORIE COLORATE

Se rifare i vecchi film non fu quasi mai un modo efficace per contrastare la crisi incombente a causa del diffondersi della televisione, lo fu invece, dal punto di vista commerciale, il ricorrere alle grosse produzioni in costume, su grande schermo e soprattutto a colori, cioè a quanto lo spettatore non poteva ricevere direttamente a casa sua, dato che, come si sa, sul piccolo schermo televisivo egli trovava allora soltanto immagini in bianco e nero. C’era un genere, il Kolossal, proprio della produzione hollywoodiana ed atto a soddisfare queste esigenze; ma, come in parte abbiamo già visto, raccontando la vita privata, cioè sentimentale, dei personaggi storici famosi, il Kolossal tendeva a volte ad assumere gli intrecci del melodramma, poiché si poneva spesso il problema del rapporto tra desideri individuali e necessità politiche. L’opera di trasformazione rispetto ad una corretta resa del materiale storico in funzione degli schemi di genere subisce a volte modifiche ulteriori per avvicinarsi di più alla cultura media dell’epoca (che per quanto riguarda il pubblico è sempre molto bassa) o per rendere il tutto più edificante, come accade ad esempio nella Salomè (id., 1953) di William Dieterle (Columbia). Il personaggio del Vangelo qui, interpretato da una Rita Hayworth non più giovanissima, figura cacciata da Roma da Tiberio imperatore in quanto desiderata in sposa da un suo nipote e indegna di entrare nella famiglia imperiale perché «barbara»; viaggia sulla nave di Ponzio Pilato per tornare a casa in Palestina e lì imbastisce un flirt con l’eroico guerriero Claudio (Stewart Granger), unico a contrastare i suoi capricci da diva (non solo vuole la cabina di Pilato, ma anche acqua dolce per il bagno) e segretamente amico di Giovanni Battista. La libidine di Erode (Charles Laughton) nei confronti della figliastra è evidente dal primo momento; Erodiade (Judith Anderson) pensa di sfruttare la cosa a fini politici perché vedrebbe volentieri sua figlia sul trono: dunque le propone la famosa danza che vuole dire anche darsi al re; al che Salomè rifiuta sdegnata e va a rifugiarsi tra le braccia di Claudio, salvo poi vedere il Battista 157

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in carcere e, subito convertita, pensare ad usare la seduzione in cambio della libertà per il sant’uomo. Ma la perfida Erodiade la precede e ne chiede la testa; ai due innamorati, ben d’accordo nell’idea che è ora di porre un freno alle carneficine e alla lussuria dei Romani, non resta che andare a sentire il discorso delle «beatitudini» di Gesù; ci sono miracoli e si prepara per Pilato, che ha confessato a Claudio la sua frustrazione di essere governatore dove non diventerà mai famoso, il suo momento di notorietà. Grande schermo e colori, anche se ricostruzione ambientale meno esotica e minor impiego di masse, in Desirée (id., 1954) di Henry Koster (20th Century Fox) su un amore di Napoleone per la figlia di un commerciante di stoffe divenuta poi regina di Svezia, film che presenta come unico pregio Marlon Brando nel ruolo del protagonista. Anche qui, come già in Maria Walewska, il sogno di Napoleone è solo quello di creare gli Stati Uniti d’Europa e l’ambizione è negativa soprattutto perché lo allontana da Desirée (Jean Simmons) che è stata il suo unico vero amore e riesce, lei sola, a convincerlo ad arrendersi dopo Waterloo, ricevendone la spada, nell’ultima scena del film. Anche la decisione di non sposarsi della regina Elisabetta I di Inghilterra è motivata da un unico grande amore frustrato di gioventù in Young Bess (La regina vergine, 1953) di George Sidney (MGM), dove Bess (Jean Simmons) vede l’ammiraglio del cuore (Stewart Granger) prima sposo felice dell’ultima moglie, finalmente vedova, di Enrico VIII (Charles Laughton che ritorna a fare il suo ruolo forse più famoso), poi, morta anche la dolce rivale (Deborah Kerr), giustiziato per le calunnie di un perfido ministro. Elisabetta, il cui potere non è bastato a salvare l’amato, sale al trono, alla fine, con il cuore spezzato per sempre e la promessa di fedeltà eterna all’uomo con cui l’abbiamo vista, ragazzina, solcare il mare facendo grandi progetti sia per l’Inghilterra che per loro due. Ancora la Corte inglese, ma a fine Settecento, in Beau Brummel (Lord Brummel, 1954) di Curtis Bernhardt (MGM), ove si racconta però soprattutto l’amicizia, finita male e con recupero solo in punto di morte, secondo uno schema da Melodramma appunto, tra Brummel (Stewart Granger) e il principe di Galles (Peter Ustinov), a cui il dandy insegna non solo a vestirsi ma a ribellarsi al troppo invadente primo ministro Pitt; mentre resta in fondo subordinata la storia del grande amore impossibile tra l’avventuriero e la lady (Elizabeth Taylor) promessa a un grande del Regno. 158

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STORIE COLORATE

In Diane (Diana la cortigiana, 1955) di David Miller (ancora produzione MGM, dato che lo Studio punta molto, in quegli anni, su questo tipo di film) la sceneggiatura di Christopher Isherwood cerca di ricostruire con una certa correttezza la Corte, francese in questo caso e cinquecentesca, di Francesco I (Pedro Armendariz) e poi di Enrico II (Roger Moore), ma senza rinunciare agli schemi di genere. Per cui, se il rapporto con Diana di Poitiers (Lana Turner) è soprattutto una «educazione» prima individuale e poi politica, con il giovane principe edotto sull’arte italiana, sulle buone maniere, e infine anche sull’arte di governare dalla contessa amata ma sposa di un altro, d’altra parte le mire di potere della regina Caterina de’ Medici (Marisa Pavan) sono assolutamente subordinate al suo amore infelice, non ricambiato, per il marito. E se i suoi figli chiamano Diana «zia» e come tale la trattano, se persino il popolo considera Diana la sua regina, Caterina, morto il re in torneo, può anche permettersi di avere uno scambio di vedute con la rivale e di perdonarla, dato che il vero oggetto del contendere non era il potere, ma l’amore di Enrico. Apice e insieme tonfo di questo modo di affrontare la storia con gli intrecci del Melodramma e in funzione del lusso di scenografie e costumi a colori sul grande schermo, è naturalmente quel Cleopatra (id., 1963) di Joseph L. Mankiewicz che fece quasi fallire la 20th Century Fox perché costò molto più di quanto riuscì ad incassare, che non ebbe nessun apprezzamento da parte della critica e che è rimasto un po’ il film emblematico della decadenza di Hollywood. Remake in un certo senso dell’omonimo kolossal di De Mille del ’34, quello di Mankiewicz presenta nella prima parte il rapporto tra Cleopatra (Elizabeth Taylor) e Cesare (Rex Harrison) in termini più spregiudicati e ironici, forse anche a causa del testo teatrale di Shaw, sebbene anche qui con cadute come quel «I’m sorry» di Cesare dopo l’incendio della biblioteca di Alessandria, quando Cleopatra gli corre addosso furiosa con un pugnale in mano, che, commenta spiritosamente Arbasino87, fa pensare piuttosto a un cameriere che abbia rovesciato il vino, o come l’occhiolino che lei gli fa quando scende dalla grande sfinge al trionfo-varietè di Roma. Ma il tono è spesso volutamente scherzoso (fatta incoronare regina da Cesare, Cleopatra gli lancia un

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Cfr. Alberto Arbasino, Grazie per le magnifiche rose, Milano, Feltrinelli, 1965, p. 285.

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cuscino, con una pedata, perché le si inginocchi davanti), sebbene si faccia tragico nella scena delle Idi di marzo che la regina, dopo aver scongiurato l’amante di non andare in Senato, vede «in diretta» nel fuoco magico di una fattucchiera. Dove invece si entra in pieno melodramma, come già in De Mille, è nell’amore con Antonio (Richard Burton), specie nella parte finale quando gli eventi precipitano. Dopo il disastro di Azio, nella cripta con la tomba di Cesare (in Egitto?), Cleopatra rimprovera l’amante di non reagire, di piangersi addosso, lo prende a sberle e lui la stende al tappeto; ma poi, visto che tutto è stato per amore, solo per seguirla lui ha abbandonato la battaglia (e questo è storicamente vero), si riconciliano e Antonio parte per l’ultimo scontro annusando e mettendosi sotto la corazza un fazzoletto di lei, nero. Ancora sconfitto, si pianta una spada nella pancia (con la famosa battuta di invidiare a Rufio le sue lunghe braccia) credendo che Cleopatra sia morta, e invece lo issano nella tomba dove può chiederle un bacio come «ultimo respiro». Dopo di che, spirato l’amante, Cleopatra si fa portare un cestino, ci mette dentro la mano, dice di vedere la sua vita come un sogno e di stare andando verso un altro sogno, esplicato dall’ultima battuta: – Antonio aspettami! –. Si cerca dunque un recupero, nel finale di questo famoso kolossal, anche col motivo dell’amore oltre la morte, motivo che certo non ha niente a che fare con la tragedia di Shakespeare. Però quello che negli anni Trenta commuoveva le platee, negli anni Sessanta suonava falso e, nonostante la pubblicità gratuita della stampa che dette molto risalto alla vicenda amorosa nata sul set tra i protagonisti, non riuscì a trasformare il film in un grande successo.

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SCRITTORI E MUSICISTI

Insieme ai melodrammi storici, dove il Potere si oppone al libero esplicarsi dei sentimenti, troviamo negli anni Cinquanta una serie di melodrammi che prendono a soggetto il contrasto tra vita sentimentale e totale dedizione alla creatività da parte di un artista. Qualunque sia la conclusione, positiva o meno per quanto concerne la vita privata dei personaggi, è però un fatto che la rappresentazione dell’attività artistica è sempre meno critica rispetto a quella del mondo politico, che per essere reso accettabile ha bisogno spesso di grosse alterazioni. September Affair (Accadde in settembre, 1950) di William Dieterle (Paramount) assomiglia abbastanza a Intermezzo (id., 1939) di Gregory Ratoff (Selznick) a sua volta derivato da un successo svedese: anche qui la protagonista femminile fa la pianista; la musica vi ha grande importanza sia come eseguita dal personaggio (più volte il concerto di Rakmaninoff poi così ben usato in termini parodistici da Wilder in Quando la moglie è in vacanza), sia come «leit-motiv» (la canzone September Song di Kurt Weill); e anche qui il protagonista, dopo lo sbandamento amoroso, torna alla famiglia legittima. In più c’è una vera e propria pubblicizzazione turistica dell’Italia, con inquadrature mirate a far conoscere al pubblico americano le bellezze più ovvie di Roma, Napoli, Pompei, Capri e Firenze e l’ideuzza un po’ pirandelliana di far perdere alla pianista (Joan Fontaine) e all’industriale (Joseph Cotten), legati da attrazione reciproca se pur casuali compagni di viaggio e troppo a lungo soffermatisi su una canzone e un piatto di spaghetti in trattoria, di far perdere loro provvidenzialmente un aereo che poi cadrà. Scoprono che il loro nome figura nella lista dei morti e la tentazione, dato che nel frattempo è scoppiato l’amore, è troppo forte: faranno i «Mattia Pascal» vivendo insieme a Firenze in una villa lussuosa dalla quale si domina la città. Lui fugge da una moglie che non ama più e che non vuole concedergli il divorzio; lei è solo una maestra di piano, ma deve costruirsi la carriera per diventare grande concertista. Siccome c’è un figlio di mezzo, la pianista, che intanto ha ottenuto un suc161

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cesso trionfale a New York, aiuta l’uomo a scegliere il ritorno in famiglia dicendogli che il loro amore è stato bellissimo (tanto favorito da vino e paesaggi italiani), però è stato una «illusione». Se la sistemazione famigliare non è proprio compatibile con la donna concertista, che se vuole la gloria non potrà avere tempo per marito ed eventualmente figli, lo stesso problema pare porsi anche ad un uomo, se fa seriamente lo scrittore, come appare da The Snows of Kilimanjaro (Le nevi del Kilimangiaro, 1952) di Henry King (20th Century Fox) dove il protagonista è Gregory Peck ma allude a Hemingway, da cui è tratto il soggetto. Gravemente ammalato in Africa, dove è andato per la caccia grossa, l’uomo ripercorre momenti salienti della sua vita, che sono soprattutto quelli relativi alla prima moglie Cinzia (Ava Gardner) incontrata in un caffè nella Parigi tra le due guerre. Nella capitale francese, tutta fioraie e bambini che giocano in strada, oltre che appunto caffè dai baristi amicissimi, lui ha vissuto con la donna un matrimonio felice scrivendo il suo primo libro, l’unico «autentico»; poi però lo ha preso la smania del viaggiare, legata alla sua professione, Cinzia non ha voluto creargli problemi essendo incinta e così non glielo ha detto e si è buttata giù dalle scale di un albergo per abortire. A questo punto si è rotto l’incantesimo: vanno in Spagna, come lui desiderava, ma lei si sente in colpa, lo scrittore riceve la proposta di fare il reporter di guerra, discutono, c’è un ballerino che occhieggia Cinzia e probabilmente la donna se ne va con lui, giusto mentre il marito va a fare un telegramma di rinuncia al reportage, e insomma sembra già di vedere la futura, altra produzione Zanuck da Hemingway Il sole sorgerà ancora, solo che là, come abbiamo visto, la Gardner se ne va con un torero (e pare lo facesse anche nella realtà). Con la moglie però, sparisce per lo scrittore l’ispirazione: va in Costa Azzurra, scrive libri di grande successo ma che non lo soddisfano, diventa l’amante di una scultrice ma pensa sempre a Cinzia e finalmente riceve una sua lettera affrettandosi a raggiungerla in Spagna, dove c’è la guerra civile, cosa che non facilita il loro ritrovamento. L’uomo si mette a combattere e ne è premiato: durante un’azione si rovescia un’autoambulanza, sotto c’è proprio Cinzia, gravemente ferita, i due fanno a tempo a baciarsi ancora prima che lei muoia; lo scrittore la rivedrà solo nell’immaginazione, ubriaco, ballare nel caffè dove l’ha incontrata. Ricorda tutto in Africa dove, nelle luci notturne sempre gialle e azzurrine della foto di Shamroy, ascolta le scenate di 162

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SCRITTORI E MUSICISTI

gelosia della seconda moglie (Susan Hayward), che se non riesce a fargli dimenticare Cinzia però lo salva dalla morte (simboleggiata da una iena) e dunque lo scrittore potrà forse ricominciare con lei una nuova vita. Ancora uno scrittore americano, Charles (Van Johnson), al quale tutte le vicende importanti accadono in un bar parigino, in The Last Time I Saw Paris (L’ultima volta che vidi Parigi, 1954) di Richard Brooks (MGM), il cui soggetto è tratto questa volta da Fitzgerald. Anche qui Charles rievoca l’amore per una moglie morta, Helen (Elizabeth Taylor), bruna bellezza incontrata e baciata tra la folla esultante quando con i suoi commilitoni è entrato a Parigi, quindi sposata, e felice con lei per quanto un po’ pazzerella (passava le giornate fuori casa a fare cose come il bagno in una fontana) e sebbene lui non avesse fortuna con i suoi scritti. I veri problemi sono incominciati con la scoperta del petrolio in un loro terreno del Texas e dunque con la ricchezza: non più bisognoso di lavorare, Charles, depresso per i continui fallimenti, si è messo a bere dandosi a rally automobilistici con una bionda. Helen ha tentato di indurlo a tornare negli Stati Uniti, cioè alla «serietà», sottraendolo a tutte le frivolezze parigine, ma poi, vista la sordità del marito, ha pensato di lasciarlo per un campione di tennis; il quale però cercava solo un’avventura: Helen, chiusa fuori di casa da Charles ubriaco, ha preso la pioggia, è andata all’ospedale e ne è morta. Con strazio del consorte, che va in America, diventa finalmente scrittore di successo e torna a Parigi solo per prendere con sé la figlioletta, consegnatagli al solito bar (dove la mettevano persino quando Helen non poteva badarle, essendo il barista tanto amico) dalla cognata, perfida con Charles finora solo perché innamorata di lui e incapace di perdonargli di avergli preferito la sorella. Anche qui, come in Accadde in settembre e come in L’amore è una cosa meravigliosa, la canzone di Kern che dà titolo al film è sfruttata in tutti i modi possibili dalla colonna sonora. Se dunque gli scrittori di questi melodrammi filmici hanno sostanzialmente bisogno di una moglie morta e di molte avventure all’estero prima di tornare a casa e di riprendere la loro attività proficuamente, molti guai passano anche i musicisti di Rhapsody (Rapsodia, 1954) di Charles Vidor (MGM) proprio a causa di una vita sentimentale che continua ad essere inconciliabile con la loro arte. La distrazione degli artisti di questo film è Louise (Elizabeth Taylor), figlia viziata di un ricco fran163

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cese che aspetta a pranzo tra gli altri, nella prima scena, Matisse e Rubinstein; ma lei non si ferma perché sta partendo per Zurigo col violinista Paul (Vittorio Gassman), il quale mentre viaggiano tra le montagne della Svizzera in auto pensa visibilmente a un pezzo che sentiamo nella colonna sonora, cioè è un musicista vero, non smette mai di lavorare, nonostante Louise sia lì ad accarezzargli un orecchio mentre suona il violino o, peggio, a trascinarlo a sciare in un giorno di sole (ma lui, tutto vestito da sci, si esercita un po’ in camera). Come ha detto il padre a Louise, arte e matrimonio proprio non si conciliano: Paul incomincia a suonare male, dunque trascura la fidanzata e subito ottiene il successo; ma allora questo gli basta, Louise tenta il suicidio e la salva un pianista americano, James (John Ericson) col quale la storia si ripete: cioè lui la sposa, ma si rovina come pianista, cosa che verifica Paul quando torna a cercare il suo solo amore. Per dimostrare a Paul che aveva torto, Louise porta il marito a Zurigo (chissà perché tutti solo lì, per diventare grandi musicisti), lo costringe a una disciplina ferrea e lo fa diventare un grande pianista, annunciandogli che lo lascierà per Paul proprio la sera del concerto. Nonostante questo (o forse proprio per questo?) James esegue benissimo il solito concerto di Rakmaninoff, che Louise ascolta rapita, nascosta, con gli occhi pieni di lacrime. Paul capisce e se ne va e James, diversamente da lui, dopo il trionfo pensa solo alla moglie, che infatti lo aspetta sul palcoscenico deserto. Il tema del contrasto tra arte e vita matrimoniale, intesa come vita «normale», non poteva naturalmente non essere affrontato da Vincente Minnelli, che con Some Came Running (Qualcuno verrà, 1959) (MGM) realizza un melodramma partendo da un romanzo di James Jones: Dave (Frank Sinatra) non riesce ad accettare il perbenismo della piccola città natale dove torna dopo anni, scrittore famoso ma in crisi, né tantomeno la mentalità della professoressa Gwen (Martha Hyer) che lo capisce ma non lo ama, perché lui beve e va a donne. Mentre lo ama ma non lo capisce la puttanella Ginny (Shirley Mac Laine) che, rifiutato duramente da Gwen, Dave sposa e che si sacrifica morendo per lui. Gwen però lo ha aiutato a ritrovare fiducia in se stesso come artista e a pubblicare un nuovo romanzo. Nel film di Minnelli dunque, e certo non a caso, il problema è più complesso: non si tratta di scelte sentimentali o matrimoniali che tarpano le ali all’artista, ma di un contrasto tra l’irrazionalità da cui egli trae la sua materia d’espressione (il mondo dell’al164

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SCRITTORI E MUSICISTI

cool – dato che tutti i personaggi sembrano bere in modo liberatorio –, del sesso e del gioco) e quella razionalità che sarà anche perbenismo e ipocrisia ma che sola gli permette di controllare i suoi mezzi e dunque di esprimersi. E nonostante l’apparente conciliazione del ritrovarsi di tutti i personaggi al funerale di Ginny, nella scena finale, è chiaro che Gwen rifiuterà ancora Dave e che, dunque, i due mondi restano, per Minnelli, inconciliabili. Concetto a cui lo stesso autore resta fedele in quello che fu il suo ultimo melodramma e uno degli ultimi del cinema hollywoodiano «classico»: The Sandpiper (Castelli di sabbia, 1965) (MGM). Anche qui il mondo della pittrice Laura (Elizabeth Taylor) è inconciliabile, nonostante l’amore, con quello del pastore protestante Edward (Richard Burton). Non essendoci tuttavia forse un soggetto abbastanza solido dietro, o, più probabilmente, essendo finiti i tempi del cinema di genere anche per un regista che ne aveva saputo assumere proficuamente le formule come Minnelli, il film, tra l’altro appesantito da una Taylor ingrassata e un po’ ridicola, fu un insuccesso, tale da rendere comprensibile che Minnelli non lavorasse più fino al ’70.

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LA COMMEDIA FINO AGLI ANNI SESSANTA

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PRINCIPESSE E NUOVE CENERENTOLE

Abbiamo visto come il modello di Cenerentola nella commedia cinematografica possa rovesciarsi facendo della protagonista una donna socialmente superiore, in genere miliardaria, alla quale però l’uomo povero sa imporsi grazie alle sue virtù. Era lo schema narrativo di Accadde una notte e lo è ancora di una commedia molto vicina al film di Capra, (al quale in partenza era destinata, come ricorda Guido Fink nella sua recente monografia su Wyler) sebbene rinunci all’happy end in quanto la protagonista, principessa erede al trono, non potrebbe permettersi di sposare un giornalista. In Roman Holiday (Vacanze romane, 1953) di William Wyler (Paramount) il giornalista (Gregory Peck) in cerca di scoop fa conoscere la «realtà» non dell’America della Depressione, ma della Roma anni Cinquanta alla principessa fuggitiva (Audrey Hepburn), molto più dolce e indifesa della ragazza di Capra; ma il film è affine al Melodramma non tanto per la soluzione finale (con una commossa scena d’addio) o per l’uso delle musiche, quanto per il significato dell’insieme. Per la principessa infatti l’esperienza «impossibile», sognata, è, paradossalmente, la vita comune, una banale vita matrimoniale accanto al suo Cenerentolo. Lo straordinario invece, quanto è zona del sogno per lo spettatore, è la normalità per il personaggio: dunque come nei film di Capra del New Deal qui si dà come meraviglioso il quotidiano, che tuttavia diventa irraggiungibile, come gli amori del Melodramma. La principessa di Wyler, premiata con l’Oscar, diventa comunque subito Cenerentola, a riprova dell’interscambio dei ruoli, nel film del nuovo maestro della Commedia filmica, Billy Wilder: Sabrina (id., 1954) (Paramount), dove il modello della fiaba è seguito esplicitamente, tanto che l’inizio si riferisce al «cartoon» Cinderella (Cenerentola, 1949) di Walt Disney, col «c’era una volta...» della colonna sonora cui si accompagnano le inquadrature della dimora ricchissima, coi giardini, i campi da tennis, le piscine e le auto che servono ad inserire, intenti al lavaggio di una di queste, l’autista e sua figlia Sabrina (Audrey Hepburn). Innamorata di uno dei due figli del padrone di casa, David (Wil169

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liam Holden), la ragazza ne spia le avventure amorose e tenta, disperata, il suicidio, per cui viene mandata dal padre a Parigi, su consiglio di tutta la servitù sempre molto solidale; quando ne ritorna, trasformata dalla haute couture come dall’incantesimo della fata, subito suscita l’interesse di David. I camerieri e le cameriere in queste scene hanno un po’ la stessa funzione dei topolini e degli uccellini nel film di Disney, specie quando la salutano contenti mentre, invitata finalmente al ballo dei padroni, sta danzando con David. Tutto andrebbe per il meglio se non ci si mettesse il fratello Larry (Humphrey Bogart) che fa di tutto perché David lasci Sabrina e sposi la figlia di un magnate col quale si vuole firmare un grosso contratto. Sembra a questo punto che Wilder voglia smascherare il modello narrativo scelto: David accetta cinicamente il matrimonio di convenienza; Sabrina riconosce che, in fondo, a Parigi ha imparato solo a vestirsi – ma, anche qui, non si toccano gli aspetti economici legati alla fruizione dell’alta moda –; e il padre autista dice che il mondo è come una Limousine: c’è chi viaggia davanti, chi dietro, e c’è un finestrino in mezzo. Però il modello finisce per essere riproposto dall’insorgere imprevisto di un sentimento tra Sabrina e Larry che alla fine, invece di allontanare la ragazza, parte con lei per l’Europa. Certo, quando è l’uomo ad essere Cenerentolo, la soluzione tradizionale crea qualche problema, come dimostra la commedia-musical Latin Lovers (Amanti latini, 1953) di Mervyn Le Roy (MGM), in cui la cosa più interessante è l’idea del soggetto, il fatto che l’arcimiliardaria (Lana Turner) vede la sua ricchezza come un ostacolo da superare perché il giovane brasiliano (Ricardo Montalban) di cui è innamorata non vorrà certo sposarla, per dignità. Invece l’uomo sembra essere molto felice della ricchezza di lei, non capisce i suoi problemi e anzi si infuria quando la sente intenzionata ad alienare, come «regalo» di fidanzamento, tutto il suo patrimonio. L’happy end ci sarà lo stesso, con una soluzione abbastanza originale e spiritosa, nella sua assurdità, se il film la valorizzasse invece di perdersi nei colori di una Rio da cartolina: la donna, che vuole sentirsi amata solo per se stessa, darà sì via tutti i suoi soldi, ma li donerà al giovane amato. Soluzione impossibile, naturalmente, per una principessa, come ribadisce The Swan (Il cigno, 1956) di Charles Vidor (MGM) tratto dalla commedia omonima di Molnar: anche la principessa Alessandra (una Grace Kelly già fidanzata al principe di Monaco) rinuncia all’amore che 170

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PRINCIPESSE E NUOVE CENERENTOLE

prova per un giovane precettore (Louis Jourdan) perché, come le dice il futuro consorte principe ereditario (Alec Guinness) lei è come un cigno, bello e altero quando va nel lago lontano dalla riva, ma ahimè simile a un altro volatile, a un’oca, quando cammina sulla terra; infatti tale è apparsa a tutti Alessandra nel suo goffo modo di comportarsi col precettore, che prima ha usato per far ingelosire il principe e per cui ha creduto, dopo, di provare qualcosa di diverso dalla pietà proponendogli una romantica fuga. Insomma gli esseri superiori come i principi, dice il film, non sono soggetti alle leggi degli altri uomini, pena fallire rovinosamente. Come nella rinuncia, nella separazione di Vacanze romane, anche qui il «principio di realtà» diventa quello di sposare il principe ereditario salendo al trono con lui, come da sempre deciso ai vertici del Potere; certo, senza il desiderio che di solito spinge verso l’«amplesso fuori scena» i personaggi della Commedia. Le Cenerentole invece sono gratificate prima di tutto sul piano amoroso: la loro saggezza e la loro virtù (da fiaba) è proprio questa: riuscire non solo a conquistare ma, soprattutto, ad innamorarsi del «principe». La cui «superiorità» a volte può essere implicita, legata al nazionalismo degli autori, come accade in Houseboat (Un marito per Cinzia, 1958) di Melville Shavelson (Paramount) dove Cinzia (Sophia Loren), bella italiana figlia di un direttore d’orchestra evidentemente famoso, viene impiegata dal vedovo americano Tom (Cary Grant) come cameriera e governante dei suoi bambini. Per gran parte del film lui non la prende neanche in considerazione come possibile moglie e accetta invece le attenzioni della cognata snob; solo quando alcuni amici insultano Cinzia sospettando «servizi» d’altro genere al padrone Tom invita la ragazza a una festa del Golf Club, ma mettendola in guardia contro l’ambiente, per cui Cinzia «fa» proprio la cameriera e poi l’«italiana» e dunque si mette a cantare, tirando le scarpe addosso al suo «principe» quando viene a sapere che si è fidanzato con la cognata. È prevedibile che Tom la raggiunga e la scena del matrimonio tra loro, con molto partecipata presenza dei figli che adorano Cinzia, chiude il film. Una delle ultime Cenerentole della Hollywood «classica» è certo la sua ultima diva, Marilyn Monroe, nella commedia-musical Let’s Make Love (Facciamo l’amore, 1960) di George Cukor (20th Century Fox), in cui la star interpreta il ruolo di Amanda, un’attricetta che si innamora di un 171

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miliardario in incognito (Yves Montand), suo collega in uno spettacolo nel ruolo di se stesso. Mondo affascinante in cui molto vale il talento naturale, come sempre in Cukor, il teatro qui offre spunti di ironia sul metodo Stanislavskji (ancora autoironia dell’attrice?) come è evidente nella scena in camerino quando l’uomo rivela ad Amanda di essere il miliardario e lei l’interpreta come eccessiva identificazione dell’attore col suo personaggio. Amanda persiste nel suo inganno perché possa restare Cenerentola fino alla fine (e i suoi trascorsi infelici sono un tratto autobiografico costante nei ruoli della Monroe), ingenua e innamorata fino a quando si trova davanti alla sua grande fortuna. Ma con la Monroe, più ancora che con Audrey Hepburn, il pubblico si trovava comunque di fronte a una personalità che era venuta ad innovare, a rappresentare qualcosa per l’intero genere88; e soltanto perché Facciamo l’amore è in fondo uno dei suoi film più deboli il personaggio può essere inserito in una tipologia abbastanza comune senza che l’attrice, se non in momenti sporadici (ad esempio il «confronto» che in un’inquadratura Cukor ne fa con la Garbo), si sovrapponga ad esso.

88 Lo stesso George Cukor, pur affermando che non era riuscito ad avere con la Monroe un rapporto di intesa, per quanto fosse una donna dolce di carattere, dice che essa come attrice possedeva «this absolute, unerring touch with comedy», pur non essendo affatto divertente nella vita reale. Cfr. Gavin Lambert, On Cukor, New York, Putman, 1972, p. 175.

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L’IMMAGINE DI MARILYN

Non fu subito chiaro che Marilyn Monroe potesse diventare una grande interprete di commedie, come non lo fu subito che avesse la potenzialità di una star. Costruito gradualmente in piccole parti, anche di commedia ma non esclusivamente tali, preannunciato nel suo primo vero ruolo da protagonista col drammatico Don’t Bother To Knock (La tua bocca brucia, 1952) che, visto a posteriori, ha premesse quasi inquietanti89, il personaggio di Marilyn Monroe alla 20th Century Fox, già abbastanza significativo in Monkey Business (Il magnifico scherzo, 1952) di Howard Hawks, riceve consacrazione nella Commedia, dopo l’esplosione del successo di Niagara (id., 1953), altro film drammatico, quando l’attrice è per la seconda volta diretta da Hawks in Gentlemen Prefer Blondes (Gli uomini preferiscono le bionde, 1953). Più commedia con canzoni che musical vero e proprio, questo film presenta Lorelei Lee, il personaggio inventato per il romanzo omonimo da Anita Loos come assatanato di ricchezza, ignorante e molto sexy, con una aggiunta di ingenuità infantile, nel professare le sue ciniche teorie, che è dovuta soltanto all’attrice che lo interpreta, la Monroe appunto. Quando dice all’amica Dorothy (Jane Russell) che vuole insegnarle come gli uomini ricchi siano altrettanto facili da amare di quelli poveri e come sia pretesa assurda volerli anche alti e belli, recitate da Marilyn Monroe queste battute assumono un tono di infantilismo innocente, come se non avessero poi tanto a che fare col sesso (e infatti i due miliardari che lei incontra sulla nave sono, non a caso, un bambino e un vecchio) e fossero invece soprattutto una specie di autorassicurazione e compensazione affettiva. Così Lorelei, definita «mostruosa» dal futuro suocero, non lo è in quanto subito disposta a confessare la sua debo-

89 Rimando alla lettura del film fatta nel mio libro Il racconto del film, Bari, Laterza, 1983, pp. 87-88.

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LA COMMEDIA FINO AGLI ANNI SESSANTA

lezza: quando lui la accusa di voler sposare il figlio per i suoi soldi, Lorelei risponde «non per i suoi, ma per i suoi», cioè quelli del padre, e recitata da Marilyn la battuta resta comica ma quasi priva di spregiudicatezza. E poi c’è il tema dell’amicizia di Dorothy che la protegge, l’aiuta e la tutela così che Lorelei diventa sempre più simile a Marilyn, quella che il pubblico incomincia a riconoscere e intuisce fragile, nonostante tutto lo spiritoso cinismo della Loos che pure le sta a pennello perché concorre alla costruzione di un personaggio da commedia apparentemente smanioso solo di danaro e di sesso, posti ancora come equivalenti, ma in fondo bisognosa soprattutto di affetto protettivo. Su questo contrasto giocheranno tutte le successive commedie interpretate dalla diva: in How To Marry a Millionaire (Come sposare un milionario, 1953) di Jean Negulesco, la Monroe surclassa facilmente la diva in decadenza Betty Grable e tiene testa alla più esperta Lauren Bacall (che d’altra parte gioca sui toni dell’eleganza sofisticata) riproponendosi fortemente ancora sexy e però insieme autoironica. Questa volta non per la spudoratezza del personaggio ma per una debolezza proprio fisica, fonte di una serie di gag, la forte miopia sempre celata a causa della vanità femminile che teme l’effetto negativo di un paio d’occhiali. La piccola menomazione fisica serve a «umanizzare» e rendere simpatica una bellezza persino eccessiva. Infatti, unica delle tre protagoniste, non sceglierà un uomo bello ma un uomo «buffo», però miope come lei e capace di liberarla del suo complesso assurdo. La sua indossatrice Pola porta vestiti tutti tesi a valorizzarla (volpi bianche, l’abito da sera ciliegia, il costume da bagno scarlatto), sogna un aereo tutto d’oro e un maragià che la copra di gioielli, ma sposa un ometto decisamente brutto e senza danaro perché le dice che sta bene con gli occhiali. Nella prima commedia interpretata con la regia di Billy Wilder The Seven Year Itch (Quando la moglie è in vacanza, 1955) il suo personaggio è ancora ambiguo in quanto disponibile (è tutta contenta quando scopre la vera al dito del protagonista che così non avrà «quella idea fissa» di sposarla), ma insieme innocente, come dimostrano sia la scena famosa della grata della metropolitana con l’aria che le fa alzare le gonne, sia il modo in cui chiede all’uomo di dormire a casa sua senza nessun sottinteso sessuale. Ma sempre in lei le continue componenti sessuali (la fotografia di nudo, il racconto della «vergogna», nuda in 174

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L’IMMAGINE DI MARILYN

bagno davanti all’idraulico, perché senza smalto sulle unghie) sono quasi esorcizzate dall’immagine dell’attrice, che si pone come una bambola sempre un po’ stupida e ingenuamente scherzosa, come ben dimostra, con mimica centratissima, il primo piano della Monroe dopo la «scoperta» e la discesa dalla scala interna dell’appartamento. È l’uomo, invece, a vederla maliarda (come nel «sogno» del concerto di Rakmaninoff) o infida (quando mosso dal complesso di colpa immagina che lo accusi in TV); si tratta invece di una ragazza semplice, mitizzata tuttavia alla fine da Wilder con la famosa trovata metalinguistica così significativa per Michel Ciment90: il protagonista, nella finzione filmica, dice «forse è Marilyn Monroe», usa un paradosso; ma lo spettatore sa che una volta tanto non si tratta di immaginazione, la «ragazza» è Marilyn Monroe, e nonostante le smitizzazioni del personaggio l’immagine della diva ne esce potenziata. Proprio in quanto è la massima star dell’epoca la ragazza resta inaccessibile al protagonista, che nel finale parte per raggiungere la moglie e la lascia sorridente con la mano alzata in segno di saluto. In Bus Stop (Fermata d’autobus, 1956) di Joshua Logan, invece, la perdita dell’innocenza, il burrascoso passato sessuale della protagonista, diventa una delle componenti della fragilità del personaggio, Chérie, cantante in un locale d’infimo ordine. Innocente, anzi del tutto vergine, è Beau (Don Murray) il cow-boy che si mette in testa di sposarla, con le buone o con le cattive, per cui la rapisce e si convince a lasciarla libera solo dopo essere stato preso a pugni; ma a questo punto anche Chérie lo ama e c’è un bel dialogo di spiegazione girato tutto in primissimi piani con la Monroe che per la prima volta nel film spoglia il personaggio di ogni ironia dandogli invece molta commozione. Del resto Chérie è in tutte le scene una giusta fusione di fragilità, pallore ed erotismo a volte ridicolo, come nella scena in cui canta, volutamente male, ove alle strizzatine d’occhio e ai gesti sensuali si accompagnano movimenti goffi. Nel finale lei si avvolge voluttuosa nel giaccone offertole da Beau e il gesto ci annuncia che la commedia è finita, cioè va verso il solito «amplesso»; all’attrice, che come nel film precedente alza la mano in segno di saluto, dietro il finestrino dell’autobus, la sorte riservava un non troppo felice incontro con Laurence Olivier in The Prince and the Showgirl (Il principe e la ballerina, 1957) (Warner Bros) e poi il ritorno a Billy Wilder per una delle commedie più perfette di tutta la storia del genere. 90

Cfr. Michel Ciment, Sept réflexions sur Billy Wilder, in «Positif», n. 127, mai 1971.

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AMBIGUITÀ DI WILDER

Ormai riconosciuto maestro di commedie, Billy Wilder dalla fine degli anni Cinquanta sviluppa come primario quel tema del travestimento e dell’ambiguità sessuale collegata, proprio del genere teatrale da secoli, già importante per lui a partire da Frutto proibito 91. Oltre alle commedie di cui abbiamo parlato, troviamo una scena interessante su questo tema in una commedia drammatica del ’53, Stalag 17 (id.) (Paramount): è la scena in cui, nella baracca del campo di prigionia tedesco, gli uomini stanno festeggiando il Natale e si mettono a ballare tra loro. Stosh (Robert Strauss), che è innamorato di Betty Grable, ha un po’ bevuto e crede di vederla nell’amico che si è messo della stoppa in testa; gli fa dunque una vera e propria dichiarazione d’amore cui l’amico reagisce dapprima compiaciuto e divertito, credendolo uno scherzo, salvo poi accorgersi che l’altro sta farneticando e proclamare la sua identità maschile: Stosh a questo punto manifesta la sua delusione e lo respinge. Siamo dunque ancora a monte di quella sorprendente soluzione, espressa da una famosa battuta («nessuno è perfetto») che chiuderà il capolavoro dell’ambiguità sessuale realizzato da Wilder: Some Like It Hot (A qualcuno piace caldo, 1959) (United Artists). Il tema si annuncia già dalla scena in cui, vittime dello scherzo di una segretaria, Joe (Tony Curtis) e Jerry (Jack Lemmon) si offrono all’orchestra femminile e Jerry si professa subito disposto al travestimento. Dopo la strage di San Valentino la decisione di travestire sé e l’amico è dovuta, come ogni altra decisione nel film, a Joe, e nelle scene successive la comicità della commedia nasce essenzialmente dai suoi sforzi per tenere a bada Jerry che, in mezzo a tante donne, si sente «come un bambino in una pasticceria»; Joe gli fa ripetere «sono una donna» dato che lui sta per dimenticare la sua falsa identità nella scena della cuccetta

91 Su questo punto si veda il saggio di Vittorio Giacci, Mascheramenti (Da una sequenza di «The Major and the Minor») in «Filmcritica», n. 329-330, novembre-dicembre 1982.

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AMBIGUITÀ DI WILDER

con Sugar (Marilyn Monroe) quando le promette una «sorpresa». Il suo disprezzo, in questa parte, va agli uomini come «esseri pelosi e pieni di mani»; poi all’albergo in Florida entra in scena l’anziano milionario e mentre Joe riacquista un’identità maschile, ma falsamente impotente, per sedurre Sugar, Jerry dopo la serata col milionario sembra orientato decisamente verso un’identità femminile, sia pure per interesse, annunciando all’amico di essersi fidanzato e non mutando atteggiamento quando Joe gli fa osservare che è una cosa impossibile, che c’è un problema: il problema è la madre del milionario, risponde, ma darà il suo consenso perché lui non fuma. A questo punto l’amico deve convincerlo a ripetersi «sono un uomo», con evidente rovesciamento e insieme reiterazione, a fini comici, della battuta precedente. È abbastanza significativo, nell’equilibrio dei personaggi, che Joe prevarichi decisamente Jerry fin dall’inizio (gli fa perdere lo stipendio alle corse dei cani; gli sottrae la serata sullo yacht e poi ancora gli prende il braccialetto dono di «fidanzamento»); vestito da donna, lui suscita solo le avances del giovane lift dell’hotel, che peraltro respinge con decisione; mentre la femminilissima presenza di Marilyn Monroe è fondamentale, come riconosce lo stesso Wilder 92, per scatenare la virilità di entrambi i «travestiti»: Jerry nella prima parte, sin da quando la «protegge» mentre rischia di essere licenziata, e Joe, con molta maggiore convinzione, nella seconda parte. La scena finale, sul motoscafo, contiene una rivelazione simmetrica: in un caso, tra Joe e Sugar, porta la conclusione classica della Commedia, con la donna che replica «non mi importa» alle confessioni dell’uomo; mentre nel secondo caso c’è una specie di parodia del primo con il «non mi importa» del milionario alle confessioni vere e false insieme di Jerry («fumo molto» e «ho vissuto tre anni con un sassofonista») fino alla battuta geniale già ricordata, che segue allo smascheramento completo («sono un uomo») e che capovolge l’aspettativa del pubblico dando al film, sia pure in termini comici, un’ambiguità non più implicita ma esplicita93.

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Cfr. Alessandro Cappabianca, Billy Wilder, Firenze, La Nuova Italia, 1976, p. 6. Secondo Cappabianca invece non si tratterebbe di discorso ambiguo, «ma del configurarsi del testo filmico come lavoro (messa in scena) dell’ambiguità stessa, dell’instaurarsi d’un universo «travestitico-polisessuale» in cui i ruoli si scambiano e si alternano nell’intermittenza della rimozione omosessuale e della fantasmatizzazione fallica». Cfr. Ivi, p. 65. 93

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LA COMMEDIA FINO AGLI ANNI SESSANTA

Ancora coadiuvato da Diamond per la sceneggiatura, Wilder realizza l’anno dopo una commedia drammatica fra le sue migliori, The Apartment (L’appartamento, 1960) (United Artists) ove è motore dell’azione comica l’«eccesso di adattamento»94 del personaggio principale C.C. Baxter (Jack Lemmon) nella prima parte, per cui egli arriva non solo alla perdita della dignità ma anche proprio al sacrificio delle esigenze elementari (deve alzarsi dal letto e uscire fuori per lasciare la casa a un superiore e anche quando sta male riesce solo con una complessa operazione di spostamenti a poter usufruire del suo letto). Naturalmente il sacrificio di cedere l’appartamento per incontri clandestini è in funzione della carriera, ma non compensa mai, nel film, la solitudine cui Baxter è condannato, espressa soprattutto dalla lunga sequenza della vigilia di Natale, quand’egli tra l’altro scopre che è proprio la ragazza dell’ascensore (Shirley Mac Laine), a lui non indifferente, l’amante del dirigente superiore. Preso in un ingranaggio sociale dal quale sembra incapace di uscire, il giovane trova la soluzione nella scelta sentimentale a scapito della carriera, scelta che verrà premiata dall’amore della ragazza. Adattando una commedia preesistente, Wilder torna al tema del travestimento, finalizzato in questo caso al possesso amoroso, con Irma la Douce (Irma la dolce, 1963) (United Artists), dove Nestor (Jack Lemmon) è un poliziotto che si innamora della prostituta Irma (Shirley Mac Laine) e, diventato quasi per caso suo protettore, entra a vivere nella Parigi di piccoli bar, alberghi equivoci e mercati costruita dallo scenografo Trauner, in cui non c’è posto per un rapporto di coppia «normale», cioè esclusivo, perché per Irma sarebbe disonorevole che il suo protettore lavorasse mentre da parte sua Nestor non può accettare che lei vada con altri uomini. Il travestimento è appunto l’assurda soluzione di Nestor, che di notte lavora ai mercati e di giorno si trasforma in un fantomatico lord inglese cliente esclusivo di Irma sebbene impotente. Poiché inevitabilmente Irma finisce per «tradire» Nestor con il lord, a lui non resta che «uccidere» la sua creatura facendone sparire gli abiti nella Senna, con complicazioni un po’ assurde fino al prevedibile finale matrimoniale con Nestor ancora poliziotto e Irma onesta cassiera. Però Wilder e Diamond inseriscono un epilogo che non era

94

Cfr. Maurizio Grande, Billy Wilder, Milano, Moizzi, 1978, p. 46.

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AMBIGUITÀ DI WILDER

nella commedia originale di Breffort: durante le nozze, mentre Irma, da tempo incinta, si sente male e partorisce in sagrestia una bambina, il barista-tuttofare amico e confidente di Nestor (una parodia di quei baristi francesi rappresentati nei melodrammi?) ritorna in chiesa e vede, seduto a uno dei banchi, proprio il «lord» di cui la donna s’era innamorata. (In Brefford invece la donna partorisce due figli, di cui uno assomiglia a Nestor e l’altro all’«amante». Cfr. «Sipario», n. 152, dicembre 1958). Assimilabile a Quando la moglie è in vacanza (per le fantasie morbose del protagonista e per l’aspetto fisico di lui, che non è bello ma intenerisce la bionda sexy) e ad Irma la dolce (per il gusto del travestimento, che non basta tuttavia a placare la gelosia patologica del protagonista), la successiva commedia di Billy Wilder Kiss Me Stupid (Baciami stupido, 1964) (United Artists) deriva da un testo teatrale di Anna Bonacci, L’ora della fantasia, già portata sullo schermo da Mario Camerini nel ’52 col titolo Moglie per una notte dove però, particolare significativo, la moglie non tradiva. Nel film di Wilder invece lo scambio tra prostituta assunta a fingersi moglie (Kim Novak) e moglie vera (Felicia Farr) è completo e totale: il marito (Ray Walston) finisce per essere geloso anche di colei che paga per sedurre il cantante (Dean Martin) al quale vuole vendere una canzone, e lo caccia giacendo lui con Polly «la bomba»; mentre il cantante, in cerca di una donna, finisce per stare con la moglie vera del protagonista. La prima parte, con le fantasie morbose del maestro di piano geloso del lattaio e del dentista fino all’aggressione vera e propria all’allievo perché ha portato a sua moglie un mazzo di fiori, è quella che fa pensare a Quando la moglie è in vacanza; poi si passa alla commedia degli equivoci con una falsa interpretazione della realtà, da parte della moglie, che si rivelerà essere quella vera (il marito passa dalla finzione con Polly all’adulterio). Lo scambio, il travestimento, avvengono qui, più cinicamente che in Irma la dolce, con sacrificio della virtù (significativo che moglie e prostituta si incontrino al mattino e che la prima dia a Polly il denaro ricevuto per la notte d’amore mentre l’altra le rende la vera) sia pure, quasi lubicianamente, sacrificio per nulla sofferto, anche se la scena dell’incontro tra la moglie e il cantante fu probabilmente tagliata95 perché il film provocò alla sua uscita grande scandalo, soprattutto da parte dei cattolici.

95 È quanto si legge in Axel Madsen, Billy Wilder, London, Secker & Warburg, 1968, p. 138.

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LA COMMEDIA FINO AGLI ANNI SESSANTA

Con la commedia successiva The Fortune Cookie (Non per soldi... ma per denaro, 1966) (United Artists) più che travestimento abbiamo una truffa vera e propria e l’ambiguità, come in A qualcuno piace caldo ma in termini non farseschi, si traspone su un piano sessuale, sia pure sublimato, recuperando tutto un patrimonio culturale americano, quello identificato nella letteratura da Leslie Fiedler96 come fastidio dell’uomo per il rapporto coniugale stabile, cioè per l’integrazione sociale, e sogno di una vita libera con un compagno, magari di colore. Il cronista sportivo Harry (Jack Lemmon) infatti, succube di una moglie indegna e terribile, da cui è stato tradito e abbandonato, e plagiato dapprima dal cognato Willie (Walter Matthau), che macchina una truffa per trarre vantaggio da un suo incidente, ritrova i valori dell’esistenza grazie all’amicizia del giovane nero giocatore di rugby. Tutta la commedia gioca su due motivi contrapposti: uno è quello della disonestà, della bassezza morale dell’avvocaticchio senza scrupoli teso comunque al guadagno; l’altro è quello dell’atleta Boom-Boom che, sentendosi responsabile della (falsa) invalidità di Harry avendolo investito durante una partita, arriva quasi ad autodistruggersi per il dolore. Ma Harry, quando capisce che la moglie è tornata da lui solo per interesse, smette di stare al gioco e sceglie l’amicizia del giovane, con una scena finale, quando lo raggiunge a giocare nello studio deserto, che appare quasi una rappresentazione in termini filmici del discorso di Fiedler. Non per soldi... ma per denaro, film di non grande successo, fu anche l’ultimo di Wilder nel decennio: le sue opere degli anni Settanta, cioè dopo la crisi di Hollywood, saranno molto diverse.

96 Cfr. Leslie Fiedler, Amore e morte nel romanzo americano cit. e anche Il ritorno del pellerossa, Milano, Rizzoli, 1972.

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ULTERIORI APOLOGIE DEL MATRIMONIO

Abbiamo detto come la Commedia sia sempre, di per sé, esaltazione del legame matrimoniale. È questo un tema che, a parte i film di Wilder trattati, non vediamo decadere neppure nella Hollywood già stanca degli anni Sessanta. Anzi possiamo dire che rispetto a certi film di dieci anni dopo è forse più critico Father of the Bride (Il padre della sposa, 1950) di Vincente Minnelli (MGM), in cui Stanley (Spencer Tracy) rievoca le vicende che hanno condotto al matrimonio della figlia (Elizabeth Taylor) incominciando da quando lei nomina sempre un ragazzo e il padre cerca di immaginare quale può essere tra quelli che bazzicano per casa, scena che subito suggerisce, dato che nessuno dei «candidati» gli va bene, la chiave della commedia, assimilabile a melodrammi contemporanei già ricordati, e cioè il rapporto un po’ gelosamente edipico che lega Stanley alla figlia. Ma tutte le inquietudini e le preoccupazioni e poi la sarabanda dei preparativi della cerimonia, con le ansie, i litigi e le spese inutili, non avevano mai trovato una rappresentazione così puntuale ed esclusiva in un film, che praticamente non è fatto d’altro se si eccettua appunto il rapporto tra padre e figlia, esplicitato soprattutto nel dialogo in cucina della notte precedente il matrimonio (dopo il sogno-incubo di Stanley di non riuscire ad arrivare all’altare) e nel mancato saluto di Stanley alla figlia dopo averla «consegnata» al marito, frustrazione compensata prima, alla fine della cerimonia, da un sorriso radioso della ragazza, poi da una telefonata che giunge al padre quando già gli sposi sono partiti per il viaggio di nozze. In The Mating Season (La madre dello sposo, 1951) di Mitchell Leisen (Paramount) invece rientriamo nel tipo di commedia con protagonisti già sposati e intreccio volto all’esaltazione di questo loro status, sia pure con risvolti un po’ fiabeschi alla Capra, dato che la madre dello sposo (Thelma Ritter) per rendere più solido il matrimonio di lui con una ragazza socialmente superiore, finge di essere una cameriera e sta a servizio dalla nuora (Gene Tierney) senza rivelarsi se non quando ogni problema è stato risolto. 181

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Anche i soggetti più «spregiudicati» in questi anni non fanno che ribadire la sacralità del legame matrimoniale, che esclude qualunque possibilità sessuale al di fuori in termini molto rigidi: in The Moon is Blue (La vergine sotto il tetto, 1953) di Otto Preminger (United Artists), ad esempio, non è dato oggi comprendere che cosa abbia potuto creare tanto scandalo quando fu realizzato, perché, sebbene si parli sempre di sesso (e sia la ragazzina a fare domande all’architetto incontrato per caso) non succede proprio nulla in quel campo non solo per la ragazzina che com’era prevedibile sposa l’architetto (William Holden), ma neppure, a quanto pare, per una fidanzata precedente dell’uomo caratterizzata dall’attrice (Dawn Adams) in termini decisamente sexy. E neppure se due divorziano sono poi tanto liberi, almeno secondo una commedia come Phffft (Phffft... e l’amore si sgonfia, 1955) di Mark Robson (Columbia) ove gli ex-coniugi si trovano malissimo da soli e soprattutto, nonostante le occasioni, non hanno mai il coraggio di un altro rapporto e tutto si limita a comprare un’auto sportiva, a farsi crescere i baffi e a prendere lezioni di ballo per il marito (Jack Lemmon), che rifiuta per ben due volte le grazie di una Kim Novack giovane e disponibile; a rinnovarsi il guardaroba e, ancora, a prendere lezioni di ballo, per la moglie (Judy Holliday), che invita a casa ma poi caccia un amico scapolo. Il ricongiungimento alla fine, il «remarriage», sarebbe scontato in ogni modo. Se si pone il problema già trattato e attuale per l’America anni Cinquanta (e invece ancora lontano, allora, per noi) della conciliazione tra matrimonio e lavoro per la donna, la soluzione è sempre in favore del primo. Così in Lucy Gallant (id., 1955) di Robert Parrish (Paramount) la protagonista (Jane Wyman) fa fortuna con un atelier di moda e per tutto il film respinge l’amore di un ranchero (Charlton Heston) che vorrebbe sposarla a condizione però che lasci il lavoro; e alla fine Lucy sarà disposta a farlo (anche perché nel frattempo i conti sono andati in rosso). Ben più decisa e determinata nella conciliazione tra lavoro e matrimonio è la ragazza (Debbie Reynolds) che farà capitolare lo scapolo irriducibile (Frank Sinatra) in The Tender Trap (Il fidanzato di tutte, 1956) di Charles Walters (MGM): accetta infatti di lavorare in uno show solo fino a una data precisa, in cui è sicura che avrà già trovato marito e dunque si ritirerà per dedicarsi tutta alla famiglia. Si preoccupa dei mobili di casa 182

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ancor prima di avere scelto l’uomo adatto e l’argomento decisivo a favore dello scapolo è che lui sta bene sulla poltrona da lei scelta per il soggiorno. Che poi questo sia in fondo il miglior destino possibile anche per l’uomo, è quanto il film, e la commedia da cui è tratto, cercano di dimostrare. Persino i miti erotici, identificati all’epoca con Parigi e con la Francia, non valgono di fronte a una sana prospettiva matrimoniale secondo The Perfect Furlough (In licenza a Parigi, 1958) di Blake Edwards (Universal), in cui il soldato americano (Tony Curtis) relegato in una base artica sogna le lussurie francesi, salvo poi non combinare niente quando riesce ad andare in Francia perché si innamora di una collega (Janet Leigh) raccomandatagli d’altra parte anche dai «semplici» contadini eccellenti sia nel produrre vino che, pare, nel filosofeggiare sull’amore. Il matrimonio è poi il giusto premio alla rinuncia al soprannaturale, come già in Ho sposato una strega, nella molto simile commedia fantastica Bell, Book and Candle (Una strega in paradiso, 1958) di Richard Quine (Columbia), simile più che altro come spunto di partenza, dato che anche qui la strega (Kim Novack) è proprio autentica e l’amore è magia, incantesimo. L’uomo (James Stewart) naturalmente vi soggiace, ma i guai incominciano quando vuole che la donna lo sposi: decisa a provare una nuova esperienza, la strega non riesce tuttavia a raggiungere la sospirata condizione di donna normale fino a quando l’amato, conosciuta la verità e liberatosi dall’incantesimo, non la lascia, cosa che la fa finalmente piangere, esperienza per lei finora impossibile e tale da far fuggire di colpo il suo gatto nero, strumento di malefici. Con il trucco cambiato, e col negozio di nere maschere africane trasformato in uno di bianche conchiglie, la protagonista è pronta a diventare una moglie dolcissima. Si avvicinavano intanto gli anni Sessanta e non tutte le commedie hollywoodiane ribadivano gli stessi vecchi concetti: ad esempio apparirebbe strana, se non sapessimo che deriva da una commedia inglese e in Inghilterra è girata oltre che ambientata, la presenza tra le produzioni americane di un film come The Grass is Greener (L’erba del vicino è sempre più verde, 1960) di Stanley Donen (Universal), dove un miliardario americano (Robert Mitchum) riesce in dieci minuti a far perdere la testa e a sconvolgere l’esistenza a una nobile castellana inglese (Deborah Kerr) moglie felice di un lord (Cary Grant) tanto intelli183

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gente e «superiore» da affrontare con flemma il tradimento della consorte (è esplicito, nella sequenza del soggiorno a Londra della lady, che lei va a letto con l’americano, cosa sorprendente per una commedia del tempo), ma inducendola, con un accorto stratagemma, a non lasciarlo alla fine, quando ritornano i due bambini della coppia e la serenità famigliare si ricompone. Molto più all’interno della problematica del genere tuttavia, che come è stato più volte notato vede il matrimonio quale principio di integrazione sociale97, la commedia tutta americana che Blake Edwards trae da un romanzo di Truman Capote Breakfast at Tiffany’s (Colazione da Tiffany, 1961) (Paramount): il problema se la protagonista Holly (Audrey Hepburn) sia o meno matta, quello posto dal produttore allo scrittore (George Peppard), è in realtà se e fino a che punto la ragazza sia capace di integrazione. Lei stessa si definisce per due volte un animale selvaggio; il mito di Tiffany che le dà calma e sicurezza e dove si fa portare quando è depressa, non è in fondo che sublimazione del suo desiderio di una vita «normale», cioè matrimoniale, da lei rifiutata fino alla fine. Già fuggita da un marito vecchio, si finge spregiudicata, ma poi si innamora dello scrittore (sebbene lui di Tiffany possa offrirle solo un anellino) e lo accetta, nella scena finale sotto la pioggia, insieme al gatto già abbandonato e simbolo di radicamento. Anche gli abiti di Givenchy acquistano, in questa luce, una funzione narrativa, aldilà della loro piacevolezza: Holly non è in grado di essere cliente di Tiffany soprattutto perché preferisce una asociale libertà all’integrazione con tutti i suoi limiti, però veste come se quella integrazione fosse da lei stata raggiunta. Falsamente drammatico ma in realtà commedia che viene da un amplesso fuori scena e poi va, come tutte le commedie, verso un altro amplesso sempre tra gli stessi partner ma con la non lieve differenza che il secondo è quello «vero», matrimoniale, è Love With the Proper Stranger (Strano incontro, 1963) di Robert Mulligan (Paramount). La spregiudicatezza del tema è che tra la commessa (Natalie Wood) e il

97 Si veda ad esempio quanto scrive Maurizio Grande nel suo Abiti nuziali e biglietti di banca, Roma, Bulzoni, 1986, libro sulla commedia all’italiana che tuttavia, nel capitolo La società della commedia, contiene osservazioni interessanti per un discorso sulla Commedia come genere e dunque anche su quella americana.

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suonatore (Steve Mac Queen) c’è stato un rapporto sessuale, sebbene (ed è significativo) lui manco la riconosca quando, all’inizio, lei va a dirgli di essere incinta chiedendo solo un dottore che la faccia abortire. Di questo antefatto però quasi non si parla: solo a un certo punto la ragazza lo definisce un esperimento che le ha dato soltanto «paura e disgusto». Quando entrano in scena le figure dei genitori, italoamericani cordiali e generosi, è facile prevedere che l’aborto per cui i due stanno raccogliendo i soldi (era ancora illegale) non avrà luogo: lui balza dentro la squallida stanza dove il fattaccio sta per compiersi e prende lei tra le braccia. Però la ragazza rifiuta di sposarlo perché l’uomo si professa contrario in teoria al matrimonio e ci saranno corteggiamenti e litigi fino a quando lui va ad aspettarla in strada con un cartello che dice «meglio sposato che morto». Rozzamente, superficialmente, gli anni Sessanta si sentono anche in commedie minori come Strange Bedfellows (Strani compagni di letto, 1964) di Melvin Frank, (Universal) dove il soggetto è ancora quello dei due coniugi divorziati che fingono di tornare insieme per ragioni di opportunità (lui perderebbe un posto importante) salvo poi scoprire che non possono fare a meno l’uno dell’altra, ma dove le cause di contrasto sono soprattutto le posizioni politicamente reazionarie del marito (Rock Hudson), al quale si oppone una moglie (Gina Lollobrigida) artista un po’ presessantottina che protegge uno scultore sovietico e va a dimostrare davanti all’ambasciata degli Stati Uniti (il film si svolge a Londra). In Sex And The Single Girl (Donne vi insegno come si seduce un uomo, 1964) di Richard Quine (Warner Bros) c’è invece soltanto una peraltro poco graffiante parodia della psicanalisi nei suoi contenuti più ovvi (il complesso di Edipo), che si risolve nell’esaltazione della verginità e del matrimonio. Il problema è se la «single girl» («ragazza nubile» in italiano) del titolo, una psichiatra autrice di un libro sul sesso, sia vergine o meno: è quanto si incarica di appurare il giornalista (Tony Curtis) di una rivista scandalistica, fingendosi un vicino di casa in crisi con la moglie e simulando con la terapista un’impotenza che ci fa pensare, e non solo per la presenza di Curtis, a A qualcuno piace caldo, film del resto più volte citato nei dialoghi. I due si sposeranno e anche per l’altra coppia l’unione tornerà ad essere felice. Il film successivo di Quine, regista prolifico e interessante, in questi anni, How to Murder Your Wife (Come uccidere vostra moglie, 185

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1965) (United Artists), sembrerebbe al contrario molto critico nei confronti del matrimonio: vi troviamo infatti un disegnatore di fumetti (Jack Lemmon) che vive benissimo da scapolo con un maggiordomo (Terry Thomas) non solo molto efficente ma preoccupato soprattutto di salvaguardargli il celibato, tanto che, quando il padrone sposa, ubriaco, una bionda greca (Virna Lisi, evidentemente italiana nell’originale) uscita da una torta, il maggiordomo si sveglia balzando sul letto come se presentisse una sciagura; e infatti, poi non riesce a convivere con la nuova padrona e si licenzia, continuando tuttavia ad incontrarsi col disegnatore in segreto, quasi fossero amanti clandestini, per studiare, prima nei fumetti e poi nella realtà, un modo per liberarsi della donna, che è disordinata, opprime il marito con un affetto soffocante e non lo lascia mai dormire perché guarda, a letto, la TV per imparare la lingua. Che l’ossessione della televisione venga accostata, nel cinema di questi anni, all’insofferenza per il matrimonio, potrebbe risultare interessante, specie considerando quelle scene in tribunale in cui il protagonista, accusato di avere messo in pratica le sue fantasie omicide, cerca di convincere l’avvocato che il matrimonio non è uno stato naturale ma un’invenzione delle donne e chiede alla giuria di assolverlo perché è ora che i maschi della terra si liberino dall’oppressione delle mogli. Però, nonostante le premesse misogine, il film poi capovolge completamente il discorso e non solo il disegnatore è felicissimo che la moglie, fuggita a causa dei suoi fumetti aggressivi, torni da lui, ma finisce per sposarsi persino il maggiordomo. Ogni spregiudicatezza è solo apparente anche in Any Wedsneday (Tutti i mercoledì, 1966) di Robert Ellis Miller (Warner Bros), tratto da un’opera teatrale, in cui insolitamente per una commedia hollywoodiana, troviamo una ragazza (Jane Fonda) che dopo il corteggiamento di un anno da parte di un miliardario sposato (Jason Robards jr.) accetta di vivere in un appartamento dove l’uomo, fingendo con la moglie di andare fuori città, la incontra una volta alla settimana. Quando entra in scena un manager giovane, capiamo come andrà a finire (sebbene con complicazioni inutili, per ribadire il solito concetto, quali il presentare l’uomo attempato che, ottenuto il divorzio, tradisce l’amante con la vecchia moglie). Che Hollywood sia in decadenza è dimostrato dal basso livello dei vari aspetti del film; e anche, in fondo, dal fatto che i temi sessuali, quelli un tempo taciuti o, nel caso più spregiudicato (Lubitsch), soltanto allusi, sono qui trattati abbastanza apertamente, quasi fosse, questa, una commedia italiana. 186

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LA CRISI: RIGUARDANDO AGLI ANNI TRENTA

Come dice Franco La Polla, negli anni Sessanta «Hollywood... sta vivendo una regressione verso le proprie scaturigini»98. Il fenomeno, già analizzato per il Melodramma, è forse ancora più visibile per la Commedia in quanto non si tratta soltanto di remakes ma proprio di ripresa di linguaggio, a volte di scene intere o di situazioni, oppure di film fatti à la manière de. E il periodo della sua storia che lo Studio System in crisi guarda con più frequenza è, a cominciare dalla seconda metà degli anni Cinquanta, quello in cui Hollywood aveva raggiunto forse il suo apice di prestigio internazionale e cioè il decennio o poco più che va dall’avvento di Roosevelt alla Presidenza fino alla Guerra. Se nessuno ha parlato di remake per una commedia come Designing Woman (La donna del destino, 1957) di Vincente Minnelli (MGM), nato da un soggetto di Helen Rose, la costumista che vi si sarebbe in parte riprodotta, è però indubbio che l’idea del giornalista sportivo (Gregory Peck) in contrasto con l’ambiente della moglie (Lauren Bacall) nasce dal precedente fortunato de La donna del giorno di Stevens (del ’41), sebbene poi il discorso di Minnelli verta piuttosto sulla differenza tra i due mondi e i due lavori che non sul fatto che la donna dovrebbe starsene a casa per seguire la sua natura, come accadeva nell’altro film. E se le numerose commedie interpretate da Doris Day negli stessi anni, diciamo dal successo di Pillow Talk (Il letto racconta, 1959) di Michael Gordon (Universal) fino a Caprice (id., 1967) di Frank Tashlin (20th Century Fox) sono tra le più caratteristiche del periodo, nella loro esaltazione della verginità e del matrimonio – la più significativa è probabilmente That Touch of Mink (Il visone sulla pelle, 1962) di Delbert Mann (Universal) in cui alla matura protagonista si copre la

98 Cfr. Franco La Polla, Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood, Bari, Laterza, 1987, p. 244.

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LA COMMEDIA FINO AGLI ANNI SESSANTA

pelle di chiazze al solo pensiero di avere un rapporto sessuale con lo scapolo che poi riuscirà a far capitolare – non è tuttavia un caso che ci stia tranquillamente, nel gruppo, un film, come Move Over, Darling (Fammi posto, tesoro, 1963) di Michael Gordon, remake di My Favorite Wife (Le mie due mogli, 1940) (RKO) e già messo in produzione dalla 20th Century Fox nel ’62 e poi interrotto per la morte di Marilyn Monroe. Qui infatti la Day interpreta il ruolo di una moglie che, anche sola per anni su un’isola deserta con un uomo giovane, resta fedele al marito, nel frattempo risposatosi credendola morta ma pronto a tornare con lei. Il remake in questo caso si mimetizza perfettamente con la produzione contemporanea, sia pure nella scarsità di risultati. Troviamo però anche i casi in cui sono vecchi maestri, ormai superati e prossimi a ritirarsi, che ripropongono i loro successi di un tempo. Ad esempio per Frank Capra A Pocketful of Miracles (Angeli con la pistola, 1961) (United Artists) rappresenta insieme la ripresa del suo Signora per un giorno, del ’33, e l’ultima opera: è la favola in cui i gangsters di Dave the Dude (Glenn Ford) si fingono gran signori ed hanno persino l’appoggio delle autorità politiche per favorire il matrimonio della figlia di una mendicante (Bette Davis). Saranno state le difficoltà di realizzazione di cui Capra dà notizia nell’autobiografia, ma nasce il sospetto che l’incapacità del film di sollevarsi al livello delle commedie anni Trenta del suo autore dipenda proprio da un anacronismo, dall’impossibilità di proporre una fiaba filmica di quell’epoca all’inizio degli anni Sessanta, per quanto Edward Everett Horton riesca ancora a tratteggiare una figura di maggiordomo in modo mirabile e sebbene i colori certo aiutino nel dare un tono da favola a questa New York natalizia ricostruita in studio, con il lusso dell’albergo, i mendicanti storpi nelle strade, i gangsters e le ballerine. Howard Hawks invece non arriva proprio al remake di un suo film, ma si autocita e cita un’altra vecchia commedia di successo in Man’s Favorite Sport (Lo sport preferito dall’uomo, 1962) (Universal), decisa ripresa della commedia anni Trenta. La scena iniziale, con l’incontro tra i due protagonisti prima per la strada a San Francisco e poi al parcheggio, è quasi uguale a quella di Susanna! del ’38, sebbene non ci sia il campo da golf; e del resto molto simile è la fabula: una donna si inserisce sempre più nella vita di un 188

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LA CRISI: RIGUARDANDO AGLI ANNI TRENTA

uomo fino a fargli perdere lavoro e fidanzata, ma alla fine rivelandosi per lui la moglie ideale. Però gli anni sono passati, Hawks è invecchiato e il film è fiacco; l’idea della gara di pesca, molto importante nel film, col protagonista (Rock Hudson) che dovrebbe essere un esperto e invece non ha mai pescato, deriva da un’altra famosa commedia di cui abbiamo parlato, La donna del giorno di Conway, del ’36; però così dilatata in tre giornate, sempre con lo stesso gag (il protagonista che riesce sempre casualmente a prendere il pesce più grosso) è ripetitiva e perde ogni efficacia. Direttamente da Susanna! deriva anche il gag del vestito che si strappa e dell’uscita di scena dei personaggi appiccicati perché la gente non se ne accorga; e ci sono sottintesi sessuali ancora più pesanti, come la «parodia di castrazione»99 del braccio ingessato e poi liberato dalle due donne, o quella del protagonista che deve imparare a tenere in mano i pesci. La fiacchezza del film comunque è imputata dall’autore ad un taglio di quaranta minuti voluto dalla Universal che, paradossalmente, lo avrebbe reso più lento100. La cosa forse più originale è l’inserimento non diegetico in bianco e nero di due treni che si scontrano su un binario quando i due protagonisti si baciano. Non precisamente un remake, ma un evidente riferimento alle commedie di un tempo sui ladri gentiluomini, con grande lusso d’ambienti parigini (il Ritz, già ampiamente usato da Wilder nel «lubicciano» Love in the Afternoon – Arianna, 1957) si può considerare How to Steal a Million (Come rubare un milione di dollari e vivere felici, 1966) di William Wyler (20th Century Fox) che nasce forse in seguito al succeso della commedia gialla Charade (Sciarada, 1964) di Stanley Donen (Universal), riproponendone la protagonista, Audrey Hepburn, sempre vestita da Givenchy, e l’ambientazione a Parigi, ma senza il plot giallo con scoperta finale dell’assassino, né certe situazioni da brivido. Qui si tratta solo del furto di una Venere falsa operato dalla figlia di un geniale falsario, perché il padre non venga scoperto, aiutata da un investigatore che lei crede un ladro gentiluomo: il tutto tra ville antiche, musei raffinati e grandi alberghi.

99

Cfr. Serge Daney, Vieillesse du Meme, in «Cahiers du Cinéma», n. 230, jiullet 1971. Cfr. Peter Bodganovich intervista Howard Hawks, in Il cinema di Howard Hawks, Venezia, La Biennale, 1981, p. 251. 100

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LA COMMEDIA FINO AGLI ANNI SESSANTA

Non un remake, ma la realizzazione di un film che Chaplin avrebbe voluto girare nel ’36 per Paulette Goddard101, è poi A Countess from Hong Kong (La contessa di Hong Kong, 1967), ultimo film del grande autore (Universal), messo in scena senza cambiare nulla del copione di trent’anni prima e databile in realtà solo per le acconciature e gli abiti delle attrici. Il discorso vorrebbe essere anticonformista, una difesa della «contessa» prostituta (Sophia Loren) più sincera e rispettabile di tante signore della buona società e per la quale è giusto che un uomo politico americano (Marlon Brando) rinunci alla carriera. I toni però sono stanchi, Brando e la Loren cercano invano di essere spiritosi mimando gag di altri tempi, e il continuo aprirsi e chiudersi di porte sul transatlantico ove l’azione si svolge fa più pensare a Labiche che a Lubitsch. Insomma, a parte i casi dei vecchi maestri che chiudono in questi anni la loro carriera (e sono tanti, perché in generi diversi, realizzano il loro ultimo film entro il decennio ancora George Stevens, John Ford, Lewis Milestone e Raoul Walsh, per non parlare di King Vidor, che non lavora più dopo il ’59) è indubbio che si pone qui storicamente una cesura, di fronte al diffondersi sempre più forte di una cultura nuova e di nuovi fermenti sociali. Il vecchio cinema di genere tenta di superare il momento da una parte adeguandosi linguisticamente al nuovo sempre più trionfante universo della televisione, dall’altra, appunto, cercando di far rivivere i suoi momenti migliori. Saranno entrambi tentativi destinati al fallimento; perché per risorgere il cinema americano avrà bisogno non solo di nuovi talenti (Coppola, Spielberg, Scorsese, ecc.), ma di guardare in tutt’altro modo ai suoi generi tradizionali. E anche il discorso amoroso non si svolgerà più nei termini, ben codificati e distinti, del Melodramma e della Commedia.

101

Cfr. David Robinson, Chaplin. La vita e l’arte, Venezia, Marsilio, 1987, p. 519.

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POSTFAZIONE

Riprendere in mano un libro dopo quasi vent’anni (la prima edizione risale al 1990) comporta evidentemente una serie di problemi: il mondo è cambiato, il cinema è cambiato e la prospettiva critica pure. E siamo nell’ambito dell’ovvio, senza bisogno di discussioni. Tuttavia, nel caso di Il discorso amoroso, che nasceva dopo una serie di miei altri lavori tutti più o meno impostati sui generi nel cinema americano, mi trovo ancora abbastanza d’accordo con quanto scrivevo allora ed ho dunque scelto di mantenere inalterato il testo. Certo, in alcuni casi i miei giudizi sarebbero parzialmente diversi: ad esempio la lettura di un capolavoro della “screwball comedy” come Bringing up Baby (Susanna, 1938) di Howard Hawks presenta delle riserve che oggi, dopo tante ulteriori visioni del film, non avrei più, ritenendola da ogni punto di vista una delle opere più compiute dell’intera storia del cinema americano. E inoltre certe annotazioni (ad esempio quella sul Central Park di New York a proposito del film di Minnelli The Clock) sono riferibili ad una realtà storicamente superata (in questo caso paradossalmente di nuovo più vicina a come viene rappresentata nel film rispetto a com’era negli anni in cui ne scrivevo). Ma nel complesso mi è parso che l’insieme reggesse; e d’altra parte su questi problemi e sui film di questo periodo felice del cinema americano sono tornato ancora più volte negli ultimi vent’anni: certe cose le ho sviluppate, come l’importanza del costume, specie per quanto riguarda gli abiti femminili e dunque il rapporto con la moda, nella commedia cinematografica, in un lungo saggio per l’Enciclopedia della Moda Treccani uscito nel 2005; altre le ho riprese in una nuova prospettiva, sia in Film della memoria (Marsilio 2005), sia, ancor più, nella trattazione del “sogno d’amore” che costituisce un capitolo centrale del più recente Sogni in celluloide (Marsilio 2008) che con l’altro citato viene a costituire una specie di dittico nato molto in base alle teorizzazioni di Proust (anche se, com’è noto, il grande scrittore francese non parla di cinema, che non amava). 191

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IL DISCORSO AMOROSO

Nel frattempo naturalmente sono usciti molti altri testi sull’argomento, di cui si darà breve sintesi nella bibliografia. Nel 1995 ad esempio è apparso negli Stati Uniti un libro non tradotto in italiano di un autore, Stanley Cavell, il cui contributo precedente sulla commedia Pursuits of Happiness (uscito poi anche in Italia nel 1999 col titolo Alla ricerca della felicità) avevo tenuto ben presente nel mio lavoro. Contesting Tears è il testo sul quale voglio un po’ soffermarmi perché, unico tra tutti quelli consultati, riprende la stessa trattazione comparata tra melodramma filmico e commedia da me seguita in Il discorso amoroso. Sono ben lungi dal pensare che Cavell possa avere visto il mio libro, sappiamo come oltre oceano si ignori la bibliografia non tradotta in inglese, ma c’è comunque corrispondenza nell’analizzare come molto uniti e interdipendenti due generi importanti del cinema americano di solito studiati separatamente e nati da fonti culturali diverse. L’autore, che è prima di tutto un teorico della filosofia e soltanto in seconda istanza uno studioso di cinema, parla di “melodramma della donna sconosciuta”, cioè di una tipologia particolare del genere, come nel libro precedente aveva parlato di un tipo particolare di commedia, quella da lui definita del “rimarriage” (poco efficacemente tradotto con “rimatrimonio” nella versione italiana edita da Einaudi). Cavell afferma che ci sono forti relazioni tra i due generi, con derivazione dall’uno all’altro (sarebbe il melodramma a derivare dalla commedia) e con alcuni aspetti contrastanti anche nei particolari, ad esempio nella presenza delle figure parentali, così che troviamo sempre un padre della protagonista come personaggio importante delle commedie hollywoodiane da lui analizzate e troviamo invece una madre (con padre spesso assente) nei melodrammi. Ci sarebbe a suo parere (in tal caso divergente dal mio) una visione negativa del matrimonio: che nel melodramma è negato, reso impossibile, mentre nella commedia si rompe prima di portare all’amicizia stabile tra uomo e donna in cui consiste appunto il “remarriage”. È comunque esplicitato (pag. 14) che vi sia “interazione tra i due generi”. Nelle sue analisi Cavell si riferisce sempre a fonti di grande peso e di lunga tradizione culturale, come la Bibbia, soprattutto il libro della Genesi, o come le commedie di Shakespeare. Di una simile problematica, soprattutto del rapporto uomo-donna (o meglio donna-uomo) si è molto occupata negli Stati Uniti in ambito di teoria del cinema la critica femminista, ma Cavell ne riconosce l’influenza, per quanto lo riguarda, solo per l’ultimo capitolo di Contesting Tears, 192

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POSTFAZIONE

quello sul film Stella Dallas di Vidor. Si riferisce spesso invece al libro di Peter Brooks L’immaginazione melodrammatica (dal quale anch’io ero partito e che mi pare ancora un testo fondamentale sull’argomento) affermando che il melodramma è stato molto sottovalutato e molto meno studiato rispetto a commedia e tragedia. E per lui i melodrammi filmici che analizza (soprattutto Letter from an Unknow Woman, Now Voyager e appunto Stella Dallas) sarebbero una derivazione dalla commedia, con sostituzione della figura materna a quella paterna. Nelle commedie la donna non è mai madre ma conquista la felicità col “rimatrimonio”, che è la stessa cosa del matrimonio stabile, perpetuo. Nel melodramma invece la donna è quasi sempre madre (magari di un figlio non suo, come accade in Now Voyager) ed ha sempre una madre presente come personaggio. In Now Voyager (Perdutamente tua, 1942) la protagonista passa attraverso una vera e propria metamorfosi per liberarsi dell’autorità materna. Troviamo in ogni caso sacrificio della donna, lacrime e aspirazione alla libertà personale. Che è qualcosa di diverso dalla “felicità” alla quale infine si giunge nelle commedie. Cavell commenta a proposito la famosa battuta finale di Perdutamente tua: “Non chiedere la luna” dice la protagonista (Bette Davis) all’amato che non sposerà “Abbiamo già le stelle”; dove la frase idiomatica della prima parte della battuta è trasformata in qualcosa di meno ma insieme anche di più, come d’altronde, sia pure con sfumatura diversa, già notavo nel mio libro. In questi melodrammi, afferma Cavell, la ricerca della madre da parte della donna corrisponde a quella del padre da parte dell’uomo in altri generi cinematografici. E naturalmente l’angolazione è sempre molto psicanalitica, oltre che filosofica. In un altro studio americano, Film/Genre di Rick Altman uscito nel 1999 (ma edizione italiana Vita e Pensiero 2004) si parla di “woman’s film” come teorizzato da Molly Haskell e si dice che questo è stato negli anni Ottanta una specie di sineddoche per tutti gli altri generi; anche lui lo colloca insieme alla commedia romantica tra i generi “femminili” e in un grafico (pag. 67 dell’edizione originale) pone in rapporto di derivazione diretta la commedia, la commedia romantica, il “romance” e infine il musical, che è il genere più e meglio studiato da Altman. Segue gli studi americani, in Italia, Veronica Pravadelli che in La grande Hollywood (Marsilio 2007) torna sul rapporto tra melodramma e commedia proponendo una periodizzazione del cinema americano “classico” diversa da quella da me accettata nel libro in base alle teorie di David 193

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IL DISCORSO AMOROSO

Bordwell, Janet Staiger e Kristin Thompson pubblicate nel 1985, cioè da un quinquennio quando scrivevo. Per Pravadelli infatti si può definire “classico” solo il cinema della seconda metà degli anni Trenta, non quello dal 1917 al 1960 circa, come là indicato. Ma se è vero che tra l’inizio degli anni Trenta e la fine degli anni Cinquanta del Novecento vi sono “sensibili cambiamenti”, stile e modi di produzione appaiono, come sostiene Bordwell, più simili che trasformati. Ci sono certamente cambiamenti dal punto di vista tematico, relativi alle evoluzioni della storia e del costume, ma lo Studio System, la strutturazione in generi e la concezione del divismo restano gli stessi, così che le innovazioni stilistiche (ad esempio quelle fondamentali degli anni Quaranta di cui si parla nel libro) sono sì molto significative ma non tali da giustificare una periodizzazione diversa. Che film come Accadde una notte o Ombre rosse rappresentino l’apogeo della scrittura classica può essere vero; meno che il melodramma attivi negli anni Quaranta una “operazione sovversiva” che, in base alla Feminist Film Theory, rivoluziona un po’ tutte le prospettive. Innegabile e ormai acquisita l’importanza delle teorizzazioni di Laura Mulvey sulla centralità dello sguardo nell’esperienza cinematografica; ma è quanto meno discutibile l’affermazione che tutto il cinema classico sia costruito per il solo piacere visivo dello spettatore maschile. Secondo Bordwell, Staiger e Thompson il lungo periodo da loro considerato è detto classico perché vi è una sostanziale stabilità del modello formale con pronto assorbimento delle innovazioni tecnologiche e tecniche (sonoro, colore, profondità di campo) che restano subordinate alla narrazione, costituita da eventi legati soprattutto da un rapporto di causa-effetto. D’altra parte anche secondo Tom Gunning gli elementi di stabilità prevalgono sui cambiamenti e su “film aberranti” come quelli di Von Sternberg. Pravadelli sostiene che un limite di Bordwell sarebbe quello di privilegiare la descrizione a scapito della interpretazione, cioè, detto in altri termini, dei processi identificativi dello spettatore. L’idea di classicità di Bordwell deriva probabilmente da quella del francese André Bazin, che vedeva il cinema americano come un’arte classica retta da un sistema, piuttosto che costruita da singole personalità d’autore. Però per Bazin, come sappiamo, innovazioni stilistiche quali la profondità di campo e il pianosequenza avrebbero inficiato, dagli anni Quaranta, la forma classica, senza peraltro che neanche lui tenesse presente, come nella prospettiva femminista di Mulvey o in quella di Raymond Bellour, l’orizzonte del desiderio, cioè il 194

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POSTFAZIONE

soggetto guardante. Alcune conclusioni sui generi restano comunque immutate: anche per Pravadelli la commedia sofisticata è il modello della classicità, con il rapporto d’amore visto come soluzione esistenziale ideale. Il conflitto di “gender”, quello tra l’uomo e la donna, vi è strutturale, sebbene sia in parte falsato dall’ambientazione altoborghese che ne invalida un po’ la carica eversiva. Poi, appunto, il “woman’s film” degli anni Quaranta ha messo in scena la femminilità come problema sia individuale (e qui la prospettiva è psicanalitica) sia sociale (come, aggiungo, già individuava Michael Wood nel suo L’America e il cinema pubblicato in edizione italiana nel 1979). Secondo Pravadelli, che fornisce analisi di film molto dettagliate ed efficaci (si pensi ad esempio a quella di Perdutamente tua, titolo come si vede ritornante ed essenziale per ogni discorso sul melodramma filmico quasi come, aggiungo, Lettera da una sconosciuta) e secondo alcune più recenti prospettive critiche, il mélo non sarebbe un genere ma un metodo di rappresentazione alternativo a quello classico: il registro melodrammatico e “attrazionale” caratterizzerebbe il cinema più innovativo degli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso, così che anche il “family melodramma” (anche da me trattato a proposito degli anni Cinquanta) mostrerebbe che il controllo della “libido” ha effetti devastanti e che la sua libera espressione è necessaria all’ordine sociale, cosa, a mio parere, più verificabile nel trasformato cinema americano degli anni Sessanta, quando, appunto, il cinema “classico” innegabilmente finisce. Bibliografia Altman Rick, Film/Genere, Milano,Vita e Pensiero, 2004 Bordwell David, Thompson Kristin, Cinema come arte, Milano, Il Castoro, 2003 Campari Roberto, Cinema. Generi, tecniche, autori, Milano, Mondadori, 2002 Campari Roberto, Film della memoria, Venezia, Marsilio, 2005 Campari Roberto, Sogni in celluloide, Venezia, Marsilio, 2008 Cavell Stanley, Alla ricerca della felicità, ed. it. Torino, Einaudi, 1999 Cavell Stanley, Contesting Tears. The Hollywood Melodrama of the Unknown Woman, Chicago, University Press, 1996 Fink Guido, Gaio e tragico! Breve e interminabile. Le frontiere della commedia in Gian Piero Brunetta (a cura di) Storia del cinema mondiale. Gli Stati Uniti, Torino, Einaudi, 1999, vol. II 195

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IL DISCORSO AMOROSO

Gundle Stephen, L’età d’oro dello Star System, ivi La Polla Franco, Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood, Milano, Il Castoro, 2004 (ed. aggiornata) Muscio Giuliana, Cinema: produzione e modelli sociali e culturali negli anni Trenta, in Gian Piero Brunetta (a cura di) Storia del cinema mondiale. Gli Stati Uniti, cit. Pravadelli Veronica, Eccesso, spettacolo, sensazione. Sul melodramma e Come le foglie al vento, in Giulia Carluccio e Federica Villa (a cura di) Il corpo del film. Scritture, contesti, stile, emozioni, Roma, Carocci, 2006 Pravadelli Veronica, La grande Hollywood, Venezia, Marsilio, 2007

196

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INDICI

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INDICE DEI NOMI

Adams Dawn 182 Adrian 28, 49, 87, 110 Albini Walter 118 n. Alcott Louisa May 98 Aldrich Robert 135 Allen Woody 80 Allyson June 98 Altman Rick 193 Ameche Don 60, 104 Anderson Judith 157 Anderson Maxwell 41 Anderson Robert 134 Andrews Dana 83 Arbasino Alberto 159 Aristotele 9 Armendariz Pedro 159 Arnold Edward 71, 72 Arthur Jean 48, 70 Arzner Dorothy 37 Astor Mary 37 Atsher Nils 17 Atwell Lionel 28 Austen Jane 112 Ayres Lew 92 n. Bacall Lauren 174, 187 Banton Travis 24 Barrie James M. 61 Barry Philip 58, 61 Barrymore John 60, 75 Barrymore Lionel 28 Barthes Roland 22 Bazin André 194 Beatty Warren 143 Belafonte Harry 148

Bellour Raymond 194 Belton John 47 n., 49 n. Bentley Eric 8 n. Bergman Ingrid 80, 81, 82 Bergson Henry 10, 110 Berman Pandro S. 31 n. Bernhardt Curtis 87, 93, 158 Bertolucci Bernardo 148 Bettelheim Bruno 10, 53 Bianchino Gloria 118 n. Binetti Rosina 20 Bisson Alexandre 155 Blondell Joan 75 Blyth Ann 91 Bogart Humphrey 34, 80, 170 Bogdanovich Peter 189 Boland Mary 113 Boleslawski Richard 29 Bonacci Anna 179 Bordwell David 11 n., 194, 195 Borzage Frank 16, 20, 47, 48, 49, 74, 153 Bourget Jean-Loup 47 n. Boyer Charles 30, 42, 48, 115, 152 Brackett Charles 60, 69 Brando Marlon 143, 147, 158, 190 Brazzi Rossano 98, 140 Breffort Alexandre 179 Brennan Walter 73 Brent George 33, 39 Bréton André 18 Bromfield Louis 38 Brontë Charlotte 93, 94 Brontë Emily 20, 21, 93 Brooks Peter 7, 8, 9, 10, 193 Brooks Richard 136, 143, 146, 148, 163

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INDICE DEI NOMI

Brown Clarence 27, 38, 42, 49, 82, 123 Brunetta Gian Piero 195, 196 Bruno Edoardo 140 n. Buñuel Luis 17 Burton Richard 153, 160, 165 Bush Niven 95 Buttafava Giovanni 24 n. 26 n. Cagney James 75, 119 Cain James 90 Cˇajkovkij Piotr I. 105 Camerini Mario 117, 179 Campari Roberto 195 Capote Truman 184 Cappabianca Alessandro 177 n. Capra Frank 16, 37, 54, 64, 68, 70, 71, 72, 73, 105, 119, 127, 128, 169, 188 Cassini Oleg 118 Cavell Stanley 55, 57, 58, 103, 106, 110, 192 Chandler Raymond 90 Chaplin Charles 47, 190 Chatman Seymour 113 n. Chevalier Maurice 66 Chopin Fryderyk 86 Churchill Winston 45 Ciment Michel 144 n., 175 Clair René 126, 127 Clift Montgomery 150 Cocteau Jean 22 Cohn Harry 70 Colbert Claudette 40, 54, 60, 83, 113, 124, 144 Collins Joan 147 Colman Ronald 116 Comuzio Ermanno 91 n. Connolly Myles 70 Conway Jack 56, 189 Cooper Gary 16, 17, 18, 19, 38, 63, 67, 70, 72, 73, 74, 81, 82, 121 Coppola Francis Ford 190 Costello Dolores 93 Cotten Joseph 83, 91, 93, 97, 161 Coward Noel 67 Cowl Jane 15

Crain Jeanne 106 Crawford Joan 38, 49, 54, 64, 83, 84, 86, 87, 91, 135 Cremonini Giorgio 27 n. Cromwell John 31, 82 Crosby Bing 116 Cukor George 28, 57, 58, 62, 64, 66, 69, 83, 86, 87, 105, 110, 111, 171, 172 Cummings Robert 114 Curtis Tony 176, 183, 185 Curtiz Michael 80, 91 Dandridge Dorothy 147 Daney Serge 189 Darnell Linda 88, 94, 104, 107 Dassin Jules 128 Daves Delmer 137, 138, 146 Davis Bette 31, 32, 33, 34, 35, 84, 85, 86, 87, 91, 119, 188, 193 Daniels William 22 Day Doris 187, 188 Dean James 133, 149 Debussy Claude 97 De Havilland Olivia 43, 94, 114, 121 De Mille Cecil B. 40, 61, 160 De Rougemont Denis 8, 10 Del Ruth Roy 75 Diamond I.A.L. 178 Dieterle William 97, 157, 161 Dietrich Marlene 22, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 31, 32, 40, 68 Disney Walt 73, 74, 169 Donahue Troy 138 Donen Stanley 183, 189 Dos Passos John 28 Douglas Kirk 107 Douglas Melvyn 49, 68, 69, 87, 110 Douglas Paul 107 Dreiser Theodore 150 Dumas Alexandre 28, 39 Dunne Irene 63, 82, 103, 151 Duvignaud Jean 7 n. Eames John Douglas 61 n., 95 n.

200

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INDICE DEI NOMI

Gilbert John 25 Gish Lilian 92 n. Giusti Marco 62 n. Givenchy Hubert de 184, 189 Goddard Paulette 64, 190 Goldwyn Samuel 17, 20 Gordon Michael 187, 188 Gordon Ruth 106 Goulding Edmund 25, 34 Grable Betty 174, 176 Grande Maurizio 108 n., 178 n., 184 n. Granger Stewart 157, 158 Grant Cary 57, 58, 61, 62, 63, 103, 121, 152, 171, 183 Grignaffini Giovanna 126 Guinness Alec 171 Gundle Stephen 196

Eddy Nelson 19 Edwards Blake 183 Ejzensˇtejn Serghei M. 90 n., 150 Elsaesser Thomas 9 Ericson John 164 Essoe Gabe 36 n. Everson William H. 81 e n. Farr Felicia 179 Faulkner William 38 Ferrer Mel 141 Fiedler Leslie 73, 180 Fink Guido 67 n., 74, 104, 169, 195 Fitzgerald Francis Scott 20, 163 Fitzmaurice George 22 Flaubert Gustave 98 Fleming Victor 36, 43, 127 Flynn Errol 32, 141 Fonda Henry 33, 83, 109, 121 Fonda Jane 186 Fontaine Joan 81, 96, 116, 148, 161 Ford Glenn 87, 89, 188 Ford John 41, 190 Forster Edward M. 113 Francis Kay 15, 67 Frank Melvin 185 Franklin Sidney 15, 38 Freud Sigmund 8, 116 Frye Northrop 8, 10, 40, 112 Gable Clark 36, 44, 49, 54, 55 Garbo Greta 22, 23, 25, 26, 27, 30, 31, 36, 40, 42, 69, 110, 111, 172 Gardner Ava 128, 139, 140, 162 Garfield John 90 Garland Judy 124 Garmes Lee 24 Garnett Tay 15, 56, 90 Garson Greer 112, 113 n. Gassman Vittorio 164 Gavin John 155 Ghezi Enrico 62 n. Giacci Vittorio 176 n. Giacovelli Enrico 9 n., 67 n.

Hall Alexander 127, 128 Halliday Jon 141 n. Hamilton George 137 Harding Ann 19 Harlow Jean 36, 54 Harris Julie 133 Harrison Rex 97, 104, 159 Haskell Molly 193 Hathaway Henry 18, 62 Haver Ronald 27, 29 Hawks Howard 38, 56, 60, 75, 109, 121, 173, 188, 191 Hay James 117 n. Hayes Helen 16 Hayward Susan 154, 163 Hayworth Rita 88, 128, 157 Hecht Ben 20, 67 Heflin Van 90 Hegel Georg Wilhelm F. 9 Hellman Lillian 38, 85 Hemingway Ernest 140, 162 Henreid Paul 80, 85, 94 Hepburn Audrey 169, 172, 184, 189 Hepburn Katharine 37, 41, 57, 58, 59, 62, 105, 106, 120, 142 Heston Charles 139, 182

201

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INDICE DEI NOMI

Hichens Robert 29 Higham Charles 93 n. Hitchcock Alfred 103 Hitler Adolf 45 n. Holden William 146, 149, 170, 182 Holliday Judy 182 Hopkins Miriam 34, 67 Horton Edward Everett 67 Howard Leslie 32, 44 Hudson Rock 135, 141, 148, 149, 151, 154, 185, 189 Hunter Ross 154, 155 Hurst Fannie 154 Huston John 85 Hutton Betty 123 Huxley Aldous 112 Hyer Martha 164 Inge William 143 Isherwood Cristopher 159 Ives Burl 136 Jefferson Thomas 73 Johnson Van 123, 163 James Jones 164 Jones Jennifer 83, 95, 97, 98, 113 n., 115, 139, 146, 154 Jordan René 18 n. Jourdan Louis 171 Kané Pascal 62 Kanin Garson 106, 120 Kaufman George S. 116 Kazan Elia 133, 134, 142, 143, 144 Keighley William 119 Kellaway Cecil 129 Kellogg Robert 7 n., 10 Kelly Grace 170 Kern Jerome 163 Kerr Deborah 134, 152, 183 Kerr John 134 King Henry, 140, 146, 162 Knight Eric 81 Kobal John 15

Korda Alexander 45, 46 Koster Henry 128, 158 Kramer Stanley 149 Krasna Norman 114 Kulik Karol 45 n., 46 Kwan Nancy 149 Kyrou Ado 18 n. Labiche Eugène 190 La Cava Gregory 55 Lake Veronica 126, 127 Lambert Gavin 111 n., 172 La Polla Franco 61 n., 79, 144, 187, 196 Laughton Charles 157, 158 Leigh Janet 183 Leigh Vivien 44, 45, 79 Leisen Mitchell 60, 124, 181 Lemmon Jack 176, 178, 180, 182, 186 Leonard Robert Z. 19, 112 Le Roy Mervyn 43, 79, 80, 98, 170 Lincoln Abraham 71, 115, 126 Lisi Virna 186 Litvak Anatole 32, 81 Lodge John 26 Logan Joshua 147, 175 Lollobrigida Gina 185 Lombard Carole 55, 75, 103 Loos Anita 173 Loren Sophia 171, 190 Louis Pierre 28 Loy Myrna 39, 56 Lubitsch Ernst 29, 66, 67, 68, 69, 74, 104, 115, 186, 190 Ludwig II di Baviera 19 Lukàcs Gyorgy 7 n. Lumet Sidney 142 Lupino Ida 18, 93 Mac Arthur Charles 20 Mac Carey Leo 63, 152 Mac Crea Joel 113 Mac Daniel Hattie 44 Mac Donald Jeannette 19, 66 Mac Laglen Victor 24

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INDICE DEI NOMI

Mac Laine Shirley 164, 178 Mac Murray Fred 59, 124 Madsen Alex 179 Magnani Anna 142 Malone Dorothy 141 Mamoulian Rouben 17, 25, 88 Mankiewicz Joseph L. 49, 94, 97, 106, 107, 116, 120, 139, 140, 142, 159 Mann Delbert 187 March Fredric 27, 38, 41, 43, 67, 75, 126 Marill Alvin H. 20 Marquand John P. 116 Marshall Herbert 38, 59, 67, 68, 84 Martin Dean 179 Mason James 98 Massey Raymond 133 Mathè Rudolf 114 Matisse Henry 164 Matthau Walter 180 Maugham Somerset 31, 84 Mayer Louis B. 123 Mc Queen Steve 185 Menandro 108 Metty Russel 151 Milestone Lewis 90, 190 Milland Ray 75, 108 Miller David 154, 158 Miller Robert E. 186 Minnelli Vincente 98, 124, 134, 135, 136, 154, 164, 165, 181, 187, 191 Mitchum Robert 124, 137, 183 Molnar Ferenc 59, 170 Monroe Marilyn 57 n., 110, 171, 172, 173, 174, 175, 177, 188 Montalban Ricardo 170 Montand Yves 172 Montgomery Robert 103 Moore Roger 159 Mulligan Robert 184 Mulvey Laura 194 Murfin Jane 15, 112 Murphy Patterson 71 Murray Don 175 Muscio Giuliana 196

Nash Smith Henry 95 n. Negulesco Jean 92 n., 153, 174 Newman Paul 136, 143 Nichols Dudley 81, 127 Novack Kim 179, 182, 183 Novarro Ramon 22 Nugent Elliott 121 Oberon Merle 20, 38, 63 O’Brien Margaret 98 Oliver Edna May 113 Olivier Laurence 20, 45, 57 n., 113, 175 Ophüls Max 96 O’Sullivan Maureen 112 Parker Eleanor 137 Parrish Robert 182 Pasolini Pier Paolo 89 Pavan Marisa 159 Peck Gregory 95, 162, 169, 187 Peppard George 137, 184 Place J.A. 41 Plauto 108 Poitier Sidney 148 Pollack Sidney 144 Potter H.C. 63 Powell William 15, 55, 56 Power Tyrone 39, 43, 56, 81, 88, 117, 128, 140 Pravadelli Veronica 193, 194, 195, 196 Preminger Otto 83, 94, 182 Price Vincent 94 Proust Marcel 191 Quine Richard 149, 183, 185 Quirk Lawrence J. 34 n. Rains Claude 71, 80, 85 Rakmaninoff Serghei V. 161, 164, 174 Raphelson Samson 68 Rapper Irving 85 Rathbone Basil 27 Ratoff Gregory 161 Rattigan Terence 57 n. Ray Robert B. 11 n., 127

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INDICE DEI NOMI

Reagan Ronald 34 Redford Robert 145 Reed Donna 124 Remarque Eric Maria 20 Rennie Michael 153 Reynolds Debbie 182 Rich David Lowell 155 Richards Jeffrey 70 Riskin Robert 70 Ritchie Donald 59 Ritter Thelma 181 Robards Jason jr. 86 Robertson Cliff 135 Robinson David 190 n. Robson Flora 20 Robson Mark 182 Rodin Auguste 57 Rogers Ginger 83, 108, 114 Romero Cesar 28 Rooney Mickey 123 Roosevelt Eleanor 120 Roosevelt Franklin D. 17, 36, 71, 115, 120 Rose Helen 187 Rossen Robert 147 Rossini Gioacchino 104 Rozsa Miklòs 45 Rubinstein Arthur 164 Ruggles Wesley 61 Russel Jane 173 Salizzato Claver 53 n. Sand George 97, 111 Saroyan William 123 Sarris Andrew 25 n., 26, 28 Saville Victor 95 Schatz Thomas 53 Schmidt Lothar 66 Scholes Robert 7 n., 10 Scola Ettore 128 n. Scorsese Martin 125, 190 Seiter William 128 Selznick David O. 27, 29, 30, 31, 82, 83, 95, 97, 153 Seton Anya 94

Shakespeare William 40 Shamroy Leo 162 Shavelson Melville 171 Shaw George Bernard 40, 159 Shearer Norma 15, 43, 64, 111 Sheridan Anne 121 Sherman Vincent 86 Sherwood Robert 79 Sidney George 158 Simmons Jean 158 Sinatra Frank 164, 182 Sinclair Robert 117 Siodmak Robert 90 Sirk Douglas 135, 141, 151, 152, 154 Sklar Robert 16, 31, 36, 71, 73 Sordi Alberto 154 Sorlin Pierre 44 Sothern Ann 106 Spielberg Steven 190 Stack Robert 141 Stahl John 89, 151, 152 Staiger Janet 11 n., 194 Stanislavskji Kostantin S. 172 Stanwick Barbara 17, 72, 90, 109, 121 Steinbeck John 133 Steiner Max 44, 137 Sten Anna 17 Sternberg Joseph Von 22, 24, 26, 28, 29, 40, 150, 194 Stevens George 59, 103, 120, 148, 150, 187, 190 Stewart James 58, 127 n., 183 Strauss Robert 176 Stroheim Eric Von 27 Sturges Preston 59, 104, 109, 113, 114, 123 Sullavan Margaret 20, 59 Tani Yoko 147 Tarkington Booth 93 Tashlin Frank 187 Taylor Elizabeth 136, 142, 149, 150, 151, 158, 159, 163, 165, 181 Taylor Robert 20, 28, 79, 111, 151

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INDICE DEI NOMI

Thompson Kristin 11 n., 194, 195 Thomas Terry 186 Thoreau Henry David 135 Tierney Gene 89, 94, 97, 104, 117, 118, 181 Tobin Yann 89 Todorov Tzvetan 126 Tolstoi Lev N. 18, 27 Tone Franchot 20, 38 Tracy Spencer 47, 49, 56, 58, 59, 105, 106, 120, 181 Trauner Alexandre 178 Troiano Felice 17 n. Truffaut François 69 Turner Lana 90, 95, 152, 153, 155, 159, 170 Twain Mark 128 n. Ustinov Peter 158 Van Dyke W.S. 43, 54 Vecchi Paolo 127 Veidt Conrad 86 Velázquez Diego Rodríguez de Silva y 88 Verdi Giuseppe 28, 39 Vermilye Jerry 31 n., 33 Vidor Charles 88, 153, 163, 170 Vidor King 17, 91, 92, 95, 139, 190, 193 Visconti Luchino 90 Wagner Richard 105 Walker Alexander 25 n., 42 n., 110 n. Walker Robert 83, 124, 128

Walsh Raoul 190 Walston Ray 179 Walters Charles 182 Warner Jack 31 Warren Austin, 7 n. Warthon Edith 34 Weill Kurt 128, 161 Welleck René, 7 n. Welles Orson 93 Wellington Arthur 120 Wellman William 75, 76 West Mae 61, 62 Wilcoxon Henry 40 Wilde Cornel 89, 114 Wilde Oscar 128 Wilder Billy 29, 60, 69, 90, 94, 108, 116, 117, 122, 169, 170 Williams Tennessee 134, 142, 143, 144, 161 Woodsworth Samuel 143 Wood Michael 84, 89, 195 Wood Natalie 143, 144, 184 Wood Sam 81 Wyler William 16, 20, 21, 33, 59, 84, 85, 169, 189 Wyman Jane 92 n., 135, 151, 182 Young Loretta 47, 54, 56, 117 Young Robert 20, 38, 49 Zagarrio Vito 53 n. Zanuck Darryl 162 Zaring Stone Grace 16 Zweig Stephan 43, 96

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INDICE DEI FILM

A casa dopo l’uragano (Home From the Hill) 136 Accadde domani (It Happened Tomorrow) 127 Accadde in settembre (September Affair) 161, 163 Accadde una notte (It Happened One Night) 37, 54, 119, 169, 196 Addio alle armi (A Farewell to Arms, 1932) 16, 21, 47 Addio alle armi (A Farewell to Arms, 1958) 153 L’age d’or 17 Al tuo ritorno (I’ll Be Seeing You) 83 Aldilà delle tenebre (Magnificent Obsession) 151 Alessandro Nevsky (Alexandr Nevskji) 90 n. L’amante immortale (Daisy Kenyon) 83 L’amante indiana (Broken Arrow) 146 Gli amanti devono imparare (Lovers Must Learn) 138 Amanti latini (Latin Lovers) 170 Amanti senza domani (One Way Passage) 15, 16, 144 L’amaro tè del generale Yen (The Bitter Tea of General Yen) 16 Ambra (Forever Amber) 94 L’amore è notivà (Love Is News) 56, 116 L’amore è una cosa meravigliosa (Love Is a Many Splendored Thing) 146, 163 Un amore splendido (An Affair to Remember) 152 Amore sublime (Stella Dallas, 1937) 193 Angeli con la pistola (A Pocketful of Miracles) 188

Angelo (Angel) 68, 108, 115 L’angelo delle tenebre (The Dark Angel) 37 L’anima e il volto (A Stolen Life) 87 Anna Karenina (id.) 27 L’appartamento (The Apartment) 178 Appassionatamente (Devotion) 93 A qualcuno piace caldo (Some Like It Hot) 62, 122, 176, 180 Argento vivo (Bombshell) 36 Arianna (Love in the Afternoon) 189 Arriva John Doe (Meet John Doe) 71 Avorio nero (Anthony Adverse) 43 Avventura all’Avana (Her Cardboard Lover) 111 Baciami stupido (Kiss Me Stupid) 179 Il bacio di Venere (One Touch of Venus) 128 Bellezze in cielo (Down to Earth) 128 Le bianche scogliere di Dover (The White Cliffs of Dover) 82 Blonde Crazy 75 Buddy Buddy (id.) 116 Capriccio spagnolo (The Devil Is a Woman) 28, 32 Caprice (id.) 187 Casablanca (id.) 80 Castelli di sabbia (The Sandpiper) 165 Il castello di Dragonwyck (Dragonwyck) 94 Catene (Smilin’ Through) 15 Cenerentola (Cinderella) 169 Il cielo può attendere (Heaven Can Wait) 104

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Il cigno (The Swan) 170 Cleopatra (id.) 1934 40 Cleopatra (id.) 1963 159 Colazione da Tiffany (Breakfast at Tiffany’s) 184 Colpo di fulmine (Ball of Fire) 60, 121 Come le foglie al vento (Written on the Wind) 141, 152 Come rubare un milione di dollari (How To Steal a Million) 189 Come sposare un milionario (How to Marry a Milionnaire) 174 Come uccidere vostra moglie (How To Murder Your Wife) 185 La commedia umana (The Human Comedy) 123 La contessa di Hong Kong (The Countess of Hong Kong) 190 La contessa scalza (The Barefoot Contessa) 139, 140 La costola di Adamo (Adam’s Rib) 105, 107, 120 La dama e il cowboy (The Cowboy and the Lady) 63 Da quando te ne andasti (Since You Went Away) 82, 123 Desiderio (Desire) 68, 74 Desirée (id.) 158 Diana la cortigiana (Diane) 159 Il diavolo è femmina (Sylvia Scarlett) 62, 108 Disonorata (Dishonored) 24, 68 La dolce ala della giovinezza (Sweet Bird of Youth) 143 La donna che voglio (Mannequin) 49 La donna del destino (Designing Woman) 187 La donna del giorno (Libeled Lady) 56, 189 La donna del giorno (Woman of the Year) 120, 187 La donna di platino (Platinum Blonde) 54

La donna è mobile (Forsaking All Others) 55 Donne (Women) 63 Donne vi insegno come si seduce un uomo (Sex and The Single Girl) 185 Duello al sole (Duel in the Sun) 95, 139 È arrivata la felicità (Mr. Deeds Goes to Town) 70 È nata una stella (A Star Is Born) 140 L’erba del vicino è sempre più verde (The Grass Is Greener) 183 L’eterna illusione (You Can’t Take It With You) 73 Facciamo l’amore (Let’s Make Love) 171, 172 Falena d’argento (Cristopher Strong) 37 Fammi posto, tesoro (Move Over, Darling) 188 Il fantasma di Canterville (The Canterville Ghost) 127, 128 Il fantasma e la signora Muir (The Ghost and Mrs. Muir) 97, 126 Il fantasma galante (The Ghost Goes West) 126 Femmina folle (Leave Her To Heaven) 89 Fermata d’autobus (Bus Stop) 175 Il fidanzato di tutte (The Tender Trap) 182 La figlia del vento (Jezebel) 33 La fiamma del peccato (Double Indemnity) 90 Foglie d’autunno (autumn Leaves) 135 Fra le tue braccia (Cluny Brown) 115 Frutto proibito (The Major and the Minor) 108, 109, 111 n., 176 Fuori orario (After Hours) 125 La gatta sul tetto che scotta (Cat on a Hot Tin Roof) 136, 142 Il gigante (Giant) 148 Il giardino dell’oblio (The Garden of Allah) 29

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Gilda (id.) 88, 89 Go West, Young Man 62 Grand Hotel (id.) 25 Il grande amore (The Old Maid) 34, 35 Un grande amore (Love Affair) 152 La grande pioggia (The Rains Came) 37, 153 Ho sognato un angelo (Penny Serenade) 103 Ho sposato una strega (I Married a Witch) 126, 128, 183 L’impareggiabile Godfrey (My Man Godfrey) 55, 66, 114 L’imperatrice Caterina (The Scarlet Empress) 26, 40 Improvvisamente l’estate scorsa (Suddenly Last Summer) 142, 143 L’inafferrabile signor Jordan (Here Comes Mr. Jordan) 127 Incantesimo (Holiday) 58 Incatenata (Chained) 49 Infedelmente tua (Unfaithfully Yours) 104 In questa nostra vita (In This Our Life) 32 Indovina chi viene a cena? (Guess Who’s Coming To Dinner) 149 In licenza a Parigi (The Perfect Furlough) 183 Intermezzo (id.) 161 Io ero uno sposo di guerra (I Was a Male War Bride) 121 Io ti aspetterò (The Sisters) 32 Irma la dolce (Irma la Douce) 178, 179 L’isola del desiderio (The Luck of Irish) 128 L’isola nel sole (Island in the Sun) 147 Joe il pilota (A Guy Named Joe) 127 Johnny Belinda (id.) 92 n., 151 Lady Eva (The Lady Eve) 109, 123

Lady Hamilton (That Hamilton Woman) 45, 79 Lettera a tre mogli (A Letter To Three Wives) 106, 107, 120 Lettera da una sconosciuta (Letter from an Unknow Woman) 95, 96, 97, 193, 195 Il letto racconta (Pillow Talk) 187 Lord Brummel (Beau Brummel) 158 Lucy Gallant (id.) 182 Madame Bovary (id.) 98 Madame X (id.) 155 La madre dello sposo (The Mating Season) 181 Magnifica ossessione (Magnificent Obsession) 151 Il magnifico scherzo (Monkey Businness) 173 Mancia competente (Trouble in Paradise) 67, 74 Margherita Gauthier (Camille) 28, 42, 85 Maria Antonietta (Marie Antoinette) 43 Maria di Scozia (Mary of Scotland) 41 Maria Walewska (Conquest) 42 Un marito per Cinzia (Houseboat) 171 Marocco (Morocco) 22 Maschio e femmina (Male and Female) 61 Mata Hari (id.) 22, 36 Matrimonio in quattro (The Marriage Circle) 66 Le mie due mogli (My Favorite Wife) 188 Il miracolo del villaggio (The Miracle of Morgan Creek) 123 Moglie per una notte 179 Il mondo di Suzie Wong (The World of Suzie Wong) 149 Montecarlo (id.) 66 Mr. Smith va a Washington (Mr. Smith Goes to Town) 71 Le nevi del Kilimangiaro (The Snows of Kilimanjaro) 162

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Niagara (id.) 173 Ninotchka (id.) 69, 110 Non c’è tempo per l’amore (No Time for Love) 114 Non per soldi... ma per denaro (The Fortune Cookie) 180 Non sono un angelo (I’m No Angel) 61 Non tradirmi con me (Two-Faced Woman) 110 Notte di nozze (The Wedding Night) 17 Novecento 148 Nulla sul serio (Nothing Sacred) 75

Il ponte di Waterloo (Waterloo Bridge) 79 Il postino suona sempre due volte (The Postman Always Rings Twice) 90 Un posto al sole (A Place in the Sun) 150 Prima pagina (The Front Page) 121 Primavera (Maytime) 19 Primo amore (Alice Adams) 59 Il principe e la ballerina (The Prince and the Showgirl) 57, 175 Provaci ancora, Sam (Play It Again, Sam) 80

Ombre malesi (The Letter) 84 Ombre rosse (Styecoach, 1939) 196 Un’ora d’amore (One Hour With You) 66 L’ora di New York (The Clock) 124, 191 L’orgoglio degli Amberson (The Magnificent Amberson) 93 Orgoglio e pregiudizio (Pride and Prejudice) 112 Orizzonte perduto (Lost Horizon) 71 L’orribile verità (The Awful Truth) 63 Ossessione 90 Ossessione del passato (The Shining Hour) 48 L’ottava moglie di Barbablù (Bluebeard’s Eight Wife) 60, 69

Qualcosa che scotta (Susan Slade) 138 Qualcosa che vale (Something of Value) 148 Qualcuno verrà (Some Came Running) 164 Quando la moglie è in vacanza (The Seven Year Itch) 161, 174, 179 I quattro cavalieri dell’Apocalisse (The Four Men of the Apocalypse) 154 Quel meraviglioso desiderio (That Wonderful Urge) 117 Questa ragazza è di tutti (This Property Is Condemned) 144

Il padre della sposa (Father of the Bride) 181 Partita a quattro (Design for Living) 67, 69 Peccato (Beyond the Forest) 91 Pelle di serpente (The Fugitive Kind) 142 Per chi suona la campana (For Whom the Bell Tolls) 81 Perdutamente tua (Now Voyager) 85, 193, 195 Phffft... e l’amore si sgonfia (Phffft) 182 Piccole donne (Little Women) 98 Piccole volpi (Little Foxes) 85 Pinocchio (id.) 73 Le pioggie di Ranchipur (The Rains of Ranchipur) 153

Rapsodia (Rhapsody) 163 La regina Cristina (Queen Christina) 25, 26, 36, 40 La regina vergine (Young Bess) 158 Resurrezione (We Live Again) 17 Il ritratto di Jennie (Portrait of Jennie) 97, 126 Ritrovarsi (The Palm Beach Story) 113, 123 Rivalità eroica (Today We Live) 37 Il romano di Mildred (Mildred Pierce) 91 Il romanzo di Thelma Jordan (Thelma Jordan) 90 La rosa del Sud (So Red the Rose) 33 Ruby fiore selvaggio (Ruby Gentry) 139 Sabrina (id.) 169

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Salomé (id.) 157 Sangue e arena (Blood and Sand) 88 Sayonara (id.) 147 Scandalo a Filadelfia (Philadelphia Story) 58 Scandalo al sole (A Summer Place) 137, 138 Lo schiaffo (Red Dust) 36, 37 Schiavo del passato (The Late George Apley) 116 Sciarada (Charade) 189 Secondo amore (All That Heaven Allows) 135, 152 Sentieri selvaggi (The Searchers) 97 Il sentiero degli amanti (Back Street) 154, 155 Shangai Express (id) 25 Signora per un giorno (Lady for a Day) 188 La signora del venerdì (His Girl Friday) 121 La signora di mezzanotte (Midnight) 60, 108 La signora Skeffington (Mr. Skeffington) 86 Il signore e la signora Smith (Mr. and Mrs. Smith) 103 Sinceramente tua (Pratically Yours) 124 Sogno di prigioniero (Peter Ibbetson) 18 Il sole sorgerà ancora (The Sun Also Rises) 140, 162 Sono un disertore (This Above All) 81, 82 Lo specchio della vita (Imitation of Life) 152 Splendor 128 n. Splendore nell’erba (Splendor in the Grass) 143, 145 Lo sport preferito dall’uomo (Man’s Favorite Sport) 56, 188 Sposa contrassegno (The Bride Came C.O.D.) 119 Stalag 17 (id.) 176 Lo Stato dell’Unione (State of the Union) 105

Strani compagni di letto (Strange Bedfellows) 185 Lo strano amore di Marta Ivers (The Strange Love of Martha Ivers) 90 Strano incontro (Love With the Proper Stranger) 184 Una strega in paradiso (Bell, Book and Candle) 183 Sua altezza è innamorata (Princess O’Rourke) 114 Susanna! (Bringing Up Baby) 56, 57, 109, 188, 189, 191 Tè e simpatia (Tea and Simpathy) 134, 135 Un tram che si chiama desiderio (A Streetcar Named Desire) 142 Tramonto (Dark Victory) 34 Tre camerati (Three Comrades) 20, 47 La tua bocca brucia (Don’t Bother to Knock) 173 Tutti i mercoledì (Any Wedsneday) 186 L’ultima caccia (The Last Hunt) 146 L’ultima volta che vidi Parigi (The Last Time I Saw Paris) 163 Gli uomini preferiscono le bionde (Gentlemen Prefer Blondes) 173 L’uomo che amo (History Is Made at Night) 48 L’uomo dei miei sogni (It Had To Be You) 114 L’uomo questo dominatore (The Male Animal) 121 Vancaze romane (Roman Holiday) 169, 171 La valle dell’Eden (East of Eden) 133, 135 Il valzer dell’imperatore (The Emperor Waltz) 116 Ventesimo secolo (Twentieth Century) 75 Vento caldo (Parrish) 138

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La vergine sotto il tetto (The Moon Is Blue) 182 Via col vento (Gone With the Wind) 30, 43, 44, 79 La via dell’impossibile (Topper) 126 Viale fiammingo (Flamingo Road) 91 n. Vicino alle stelle (A Man’s Castle) 47 Le vie della fortuna (The Good Fairy) 59

Il visone sulla pelle (That Touch of Mink) 187 La vita è meravigliosa (It’s Wonderful Life) 127 La voce nella tempesta (Wuthering Heights) 16, 20 Volto di donna (A Woman’s Face) 86 Zoo di vetro (The Glass Menagerie) 151

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cinema/studio collana diretta da Orio Caldiron

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22.

Roberto Campari, Il discorso amoroso. Melodramma e commedia nella Hollywood degli anni d’oro (esaurito). Effetto Greene. Graham Greene e il cinema, a cura di Paolo Bertinetti, Gianni Volpi. Sergio Raffaelli, Il cinema nella lingua di Pirandello. Maurizio Del Ministro, Il testo come sopravvivenza. La storia al cinema. Ricostruzione del passato/interpretazione del presente, a cura di Gianfranco Miro Gori. Vittorio Giacci, François Truffaut. Le corrispondenze segrete, le affinità dichiarate. Schermi di guerra. Cinema italiano 1939-1945, a cura di Mino Argentieri. Jean Renoir, Il passato che vive, a cura di Claude Gauteur. Ernesto G. Laura, Quando Los Angeles si chiamava Hollywood. Cinema americano tra le due guerre. La musica del cinema, a cura di Enzo Kermol, Mariselda Tessarolo. Ciro Ascione, La grande bottega degli orrori. Le ossessioni commerciabili di Stephen King. Anna Lo Giudice, L’automatica del vero. Saggi di letteratura e cinema. Jacques Aumont, Michel Marie, L’analisi dei film. Roberto De Gaetano, Il cinema secondo Gilles Deleuze. Alberto Negri, Ludici disincanti. Forme e strategie del cinema postmoderno. Roberto De Gaetano, Passaggi. Figure del tempo nel cinema contemporaneo. Valentina Ruffin, Patrizia D’Agostino, Dialoghi di regime. La lingua del cinema degli anni trenta. Anita Trivelli, L’altra metà dello sguardo. Bruno Torri, Il sentimento della forma. La visione e il concetto. Scritti in omaggio a Maurizio Grande, a cura di Roberto De Gaetano. Lorenzo Pellizzari, Critica alla critica. Contributi a una storia della critica cinematografica italiana. Sara Marcucci, Lolita, analisi di un’ossessione.

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23. Fabio Rossi, Le parole dello schermo. Analisi del parlato di cinque film dal 1948 al 1957. 24. Mauro Di Donato, Tim Burton. Visioni di confine. 25. Francesca Colais, Il cinema nero africano dalla parola all’immagine. 26. Orio Caldiron, Il paradosso dell’autore. 27. Maurizio De Benedictis, Più luce! Immagini di registi, dive e rivoluzioni. 28. Valerio Zurlini, Gli anni delle immagini perdute (in preparazione). 29. Roberto De Gaetano, Il corpo e la maschera. Il grottesco nel cinema italiano. 30. Tullio Kezich, Primavera a Cinecittà. Il cinema italiano alla svolta della «Dolce vita». 31. Alberto Farassino, Fuori di set. Viaggi, esplorazioni, emigrazioni, nomadismi. 32. Virgilio Tosi, Breve storia tecnologica del cinema. 33. Shakespeare al cinema, a cura di Isabella Imperiali. 34. Cinematecnica. Percorsi critici nella fabbrica dell’immaginario, a cura di Fabrizio Borin e Roberto Ellero. 35. Gian Piero Brunetta, Avventure nei mari del cinema. 36. Renzo Renzi, La bella stagione. Scontri e incontri negli anni d’oro del cinema italiano. 37. Cesare Zavattini, Uomo, vieni fuori! 38. Corrado Alvaro, Aria di cinema (in preparazione). 39. Mino Argentieri, L’occhio del regime. 40. Grazia Paganelli, Erich von Stroheim. Lo sguardo e l’iperbole. 41. Edgar Reitz, La notte dei registi. Il cinema tedesco in venticinque interviste, a cura di Alessandro Tinterri e Veronika Wiethaler. 42. Maria Adelaide Frabotta, Il governo filma l’Italia. 43. Alberto Cattini, Strutture e poetiche nel cinema italiano. 44. Flavio De Bernardinis, Campi di visione. 45. Virgilio Tosi, Joris Ivens. Cinema e utopia. 46. Bruno Di Marino, Interferenze dello sguardo. La sperimentazione audiovisiva tra analogico e digitale. 47. Valerio Caprara, Sentieri selvaggi. Cinema americano 1979-1999 – I. 1979-1984. 48. Valerio Caprara, Sentieri selvaggi. Cinema americano 1979-1999 – II. 1985-1989. 49. Valerio Caprara, Sentieri selvaggi. Cinema americano 1979-1999 – III. 1990-1994. 50. Valerio Caprara, Sentieri selvaggi. Cinema americano 1979-1999 – IV. 1995-1999. 51. Carlotta Iacobacci, Faccia a faccia. Woody Allen sulle tracce di Ingmar Bergman. 52. Orio Caldiron, Pietro Germi, la frontiera e la legge.

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53. Giuliana Muscio, Piccole Italie, grandi schermi. Scambi cinematografici tra Italia e Stati Uniti 1895-1945. 54. Le fortune del melodramma, a cura di Orio Caldiron. 55. Vittorio Renzi, La forma del vuoto. Il cinema di Joel e Ethan Coen. 56. Ivelise Perniola, Oltre il neorealismo. Documentari d’autore e realtà italiana del dopoguerra. 57. Leonardo De Franceschi, Hudud! Un viaggio nel cinema maghrebino. 58. Matilde Hochkofler, Anna Magnani. Lo spettacolo della vita. 59. Ennio Bíspuri, Ettore Scola, un umanista nel cinema italiano. 60. David Bruni, Il cinema trascritto. Strumenti per l’analisi del film. 61. Elio Petri, Scritti di cinema e di vita, a cura di Jean A. Gili. 62. Sebastiano Lucci, Val Lewton. Ho camminato con le ombre. 63. Sabrina Perucca, Il cinema d’animazione italiano oggi. 64. Vito Zagarrio, L’immagine del fascismo. Il dibattito su cultura e cinema nel regime dagli anni Settanta ai Duemila. 65. Alle origini del Neorealismo. Giuseppe De Santis a colloquio con Jean A. Gili, a cura di Jean A. Gili e Marco Grossi. 66. Toni D’Angela, Raoul Walsh o dell’avventura singolare. 67. Luca Roveri, Il cinema contro di Michael Moore. 68. Fabio Andreazza, Identificazione di un’arte. Scrittori e cinema nel primo Novecento italiano. 69. Christian Uva, Impronte digitali. Il cinema e le sue immagini tra regime fotografico e tecnologia numerica. 70. Gianni Olla, Alla ricerca del cinema proustiano. Film, sceneggiature, linguaggi, autori. 71. Paolo Jachia, Francis Ford Coppola: Apocalips Now. Un’analisi semiotica (in preparazione). 72. Michele Guerra, Gli ultimi fuochi. Cinema italiano e mondo contadino dal fascismo agni anni Settanta (in preparazione). 73. Sergio Miceli, Musica e cinema nella cultura del Novecento (in preparazione).

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Finito di stampare nel mese di gennaio 2010 da IRIPRINT Coordinamento tecnico CENTRO STAMPA di Meucci Roberto CITTÀ DI CASTELLO (PG)

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