Il diritto nell'età della tecnica
 9788895152660

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Natalino Irti

Il diritto nell’età della tecnica

Editoriale Scientifica

1. p. g ro s si, La proprietà e le proprietà nell’officina dello storico, 2 0 0 6 R o d o tà , Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, 2 0 0 7

2 . s.

UMiVERSiTrt DEGLI STUD! DI MACE ÌÀ'TA DIPARTIMENTO DI DIRITTO PUBBLICO E TEORIA DEL GOVERNO

(Tramite G.A.S.B.) INV. N.

.............DEL

PRO PR IETÀ LETTERARIA RISERVATA ISBN 978-88-95152-66-O © Editoriale Scientifica srl 2007 80138 Napoli via San Biagio dei Librai, 39

Indice

9

PRIMA LEZIONE

Tecno-diritto 21

SECONDA LEZIONE

Geo-diritto 35

TERZA LEZIONE

Bio-diritto 47 Per un’autobiografìa giuridica (dal concettualismo al nichilismo) 67 Indice dei nomi

Nasce, questo libriccino, per l’intimante amicizia di Francesco De Sanctis. Vi si raccolgono tre lezioni, tenute, lo scorcio dell’a­ prile 2007, nella Facoltà giuridica di San Paolo (e perciò denominabili ‘lezioni brasiliane’); ed un profilo autobio­ grafico, che narra il cammino di un cinquantennio o poco meno. Roma, 6 luglio 2007

Per un’autobiografia giuridica è già in II salvagente della forma, Laterza, Roma-Bari, 2007, pp. 3-16. La seconda lezione, Geo-diritto, può anche leggersi in Norme e luoghi. Problemi di geo-diritto, Laterza, Roma-Bari, nuova ed. 2006, pp. 131 ss.

Tecno-diritto

unusquisque tantum juris habet, quantum potentia valet Le parole famose di Baruch Spinoza (Tractatus politicus, II, 8; III, 2) colgono la natura propria del diritto. In tutti i fenomeni giuridici - dai più semplici ed ele­ mentari ai più solenni e complessi, dall’accordo fra privati alle norme legislative e costituzionali -, in tutti, noi in­ contriamo un rapporto di volontà. Una volontà esige che altri abbia una data condotta, e dunque che altri voglia in un certo modo. Il diritto è dominio sulla volontà altrui: dei governanti sulla volontà dei governati, del creditore sulla volontà del debitore, del proprietario sulla volontà di tutti i consociati (erga omnes, appunto), del giudice sulla volontà delle parti in causa, e così seguitando. Altrui vo­ lontà sono chiamate all’obbedienza, cioè ad accogliere in sé un volere dominante, ed a tradurne il contenuto in attuosa realtà. Ma perché una volontà sovrasta l’altra? e perché quest’ultima prende la direzione segnata dalla prima? Una volontà v a l e più dell’altra. Il valore non le giunge dal­ l’alto, da una delega metafisica o trascendente, ma da se stessa, dalla sua determinata storicità. La volontà domi­ nante ‘potentia valef, vale per potenza, per capacità diret­ tiva e coercitiva. La potenza istituisce il valore; il valore è

misura della potenza (... tantum ... quantum ...). Il valore è mera fatticità della potenza. Tre parole, ricavate dalla frase spinoziana, e decisive nella filosofia di Nietzsche, ci permettono di afferrare il diritto: volontà, potenza, valore. La volontà si esprime e svolge in potenza, e così fonda il proprio valore. Il sog­ getto "tantum juris habet’, ha una misura di diritto pari alla misura di valore, ossia al grado della volontà di potenza: ‘quantum potentia valet’. Non c’è diritto senza questa vo­ lontà, senza questa capacità di dominare le scelte altrui. Appunto l’a l t r o , il governato o il debitore dei nostri esempi, si trova dinanzi a molteplici strade e possibilità di azione; ma l’una di esse è sorretta da un volere, che lo so­ vrasta e domina, ed egli la sceglie ed esegue. L’obbedienza nasce sempre da un calcolo di forze, soggiace a un dominio imperativo. Diritto è una potenza del dirigere, del segnare il cammino all’altrui volontà. Non un teorico o filosofo del diritto (i quali, come pure i giuristi positivi, hanno passo grave e lento), ma un intellettuale irregolare, un errabondo del pensiero, Walter Benjamin, ha affermato la natura crudele della legge. Le pagine Per la critica della violenza, raccolte in Angelus novus, ci dicono che la violenza istituisce, mantiene, depone diritto: non c’è fenomeno giuridico nel quale non si esprima e svolga la violenza. Anche sul contratto, con­ cluso dalle parti in pacifica quotidianità, si allarga l’ombra della violenza, il “diritto - scrive Benjamin —di ricorrere, in qualche forma, alla violenza contro l’altra, nel caso che questa dovesse violare il contratto”. La violenza è energia creatrice e distruttrice, ma, quando pure demolisca un vecchio ordine o abbatta un sistema di norme, essa su­ scita nuovo diritto, e lo difende dinanzi ad altri interessi e volontà, ossia contro una diversa violenza, che ha in sé

la medesima capacità distruttiva e creativa. La storia del diritto coincide appieno con la storia ciclica della vio­ lenza. 2. Il volere, da cui nasce e si svolge il diritto, mira a raggiungere uno scopo.Volontà di scopo —potrebbe dirsi —, che sceglie mezzi e strumenti adatti. Già questo è un primo incontro con la tecnica, se per tecnica intendiamo Yadeguazione dei mezzi alfine, il non restare al di qua né an­ dare al di là del risultato atteso. L’energia normativa non va sciupata e neppure risparmiata, ma messa a razionale servi­ zio dello scopo. La tecnica del diritto è appunto in questa commisura­ zione, nel chiedere alla volontà altrui non meno e non più del sacrificio necessario. L’analisi economica del di­ ritto, venuta in moda ai nostri giorni, solleva un vecchio e secolare problema. E appena da soggiungere che la ra­ zionale scelta dei mezzi nulla ha da vedere con la razionale scelta dei fini, il fine offre il criterio per calcolare la razio­ nalità dei mezzi, ma non c’è alcun criterio per calcolare la razionalità dei fini. Qui, nel preferire l’uno all’altro fine, o nell’ordinarli secondo un prima e un dopo, si agita la storia dell’uomo: fedi religiose, visioni del mondo, ideologie politiche, interessi economici. Conflitti si ac­ cendono e si spengono, alleanze si concludono e si sciol­ gono: e alleanze e conflitti lasciano traccia nella storia delle legislazioni. 3. Ma tecno-diritto non indica (o non vuole soltanto indicare) la tecnica del diritto, il razionale impiego di mezzi in vista di un fine. E piuttosto la parola, con cui descriviamo la situazione del diritto nel nostro tempo, il rapporto della potenza giuridica con altre potenze. C ’è fra esse

un tratto comune: la consapevole volontà di dominare cose e uomini, natura e storia. Volontà, non mai sazia e placata, che trascorre di scopo in scopo, e non riconosce alcun vincolo prima di sé e sopra di sé. Questa volontà è l’essenza propria della tecnica. Non nel vecchio e incolore significato di scelta di mezzi coe­ renti al fine, ma di volontà dominatrice del mondo, di quel mondo che è intorno a noi e di cui noi stessi facciamo parte. La tecnica è potenza che usa il mondo, e perciò lo calcola, lo governa, lo manipola. Tutte le diagnosi e defini­ zioni della tecnica —quali, da filosofi e storici e sociologi, sono state proposte nel secolo XX —, tutte gravitano su questa insaziata volontà di dominio, che si crea il proprio mondo, sovrapponendolo e im-ponendolo alla realtà ‘data’. Di qui l’antitesi o dualismo fia naturale e artificiale, fra le cose come sarebbero prima e le cose come sono dopo l’intervento della tecnica, fra l’originaria ingenuità e la cal­ colante riflessione. E propriamente artificiale è il mondo della tecnica, cioè ‘fatto con arte’, con metodi e abilità suggeriti dalla scienza, e con l’ausilio di mezzi meccanici. La ‘in-naturalità’, così dolorosamente avvertita nelle descrizioni del nostro tempo, non è altro dal dominio tecnico, è la stessa tecnica che si svela nella sua misura planetaria. Ed anche codesto è tratto comune al diritto, il quale, mercè co­ mandi e divieti, crea il proprio mondo, un mondo di vo­ lontà ed azioni, che nulla ha di originario e naturale. Su­ prema e pura è l’artificialità del diritto, di questo suo giu­ dicare le azioni (lecite o illecite, obbligatorie o libere), di questo segnare inattesi cammini alla volontà altrui. 4. Il problema è ora di capire se la tecnica sia una po­ tenza unitaria, che tutto accoglie e risolve in sé, o se essa

si distingua in diversi campi e prenda molteplici vesti. La volontà di dominio - chi appena rifletta —si svolge in molteplici forme, e queste si trovano ora strette in ac­ cordi, ora levate Luna contro l’altra in aspri conflitti. Me­ ditiamo, a modo d’esempio, sull’ipotesi che la scienza ab­ bia scoperto una sostanza medica, la quale sia reputata profittevole dalle imprese farmaceutiche, ma avversata e tenuta per illecita dal diritto vigente. Qui la tecnica as­ sume diverse forme, e schiera in battaglia tre autonome potenze: medicina, economia, diritto. Esse, pur ricono­ scendosi nella volontà di dominio che tutte le anima e sospinge, si trovano opposte e discordi. L’esito della lotta non è prevedibile; non sappiamo se il diritto, cioè la po­ tenza politico-giuridica, sarà capace di attuare il proprio divieto e di recarlo in esecuzione contro riluttanti vo­ lontà, o se invece verrà battuto dalle altre potenze e pie­ gato all’alleanza con medicina ed economia. Si è detto ‘potenza politico-giuridica’, poiché il di­ ritto, almeno nella secolare storia d’Occidente, esprime la volontà politica, le scelte di coloro che assumono il go­ verno della cosa pubblica. Dalla politica il diritto non può uscire, da questa o quella politica (liberale o autoritaria, conservatrice o progressista); e, quando sembra che se ne sciolga e se la scrolli di dosso, è soltanto per abbracciare un’altra politica e consegnarsi ad essa. Si sono avvicen­ dati, nel secolo appena concluso, i profeti del destino (da Weber a Rathenau, a Schmitt), gli spiriti capaci di so­ spingere lo sguardo oltre il confine, e ci parlarono di eco­ nomia, o politica, o tecnica come destino del mondo. Non guardarono né parlarono invano, poiché coglievano le potenze in campo, e le descrivevano nell’alterno vin­ cere o soccombere, primeggiare o asservirsi alle altre. Il destino non si lascia racchiudere in una parola, ed è piut-

tosto in questo gioco di potenze, sicché nessuna può det­ tar legge alle altre e tutte debbono rimettersi all’esito della storia, all’hegeliano tribunale del mondo. 5. L’asserita autonomia della politica, che è poi autono­ mia del diritto rispetto alle altre potenze terrene, rifiuta ogni illusione o minaccia tecnocratica. Non c’è ‘esperto’ o ‘competente’ che sia in grado di surrogarsi alla lotta poli­ tica e di determinare il contenuto delle norme giuridiche. Il tecnocrate o burocrate, il quale compia o suggerisca una certa scelta giuridica, fa, e non può non fare, la propria po­ litica. L’anti-politica, così consueta negli ambienti econo­ mici e finanziari, è soltanto una forma della politica, un suo dissimularsi dietro tavole statistiche o calcoli di costi e benefici. La scelta degli scopi appartiene alla politica; burocrati e tecnici possono soltanto soccorrere nella scelta dei mezzi, ossia per stabilire la razionale coerenza di questi con quelli. I problemi della convivenza, del nostro trovarci in­ sieme con gli altri, sono suscettibili di molteplici risposte: ciascuna dettata da visioni del mondo o fedi religiose o ideologie. Non c’è alcun criterio sovrastante, che, nella sua obiettiva e pacifica neutralità, consenta di scegliere fra Luna e l’altra risposta, e dunque sia accessibile e fruibile dagli ‘esperti’ della politica. Rimane la lotta fra opposte e discordi soluzioni, il contrasto fra partiti, il gusto settario dell’intransigenza, la capacità di sacrificio: insomma, quel groviglio di idee e di passioni che siamo soliti raccogliere sotto il nome di politica. Soltanto il ‘profano’ può deci­ dere sulle controversie fra tecnici; soltanto alla politica spetta la determinazione dei fini: l’ideale di tecnicità —ri­ petiamo con Hans Kelsen —“è stato in ogni tempo una delle più potenti ideologie dell’autocrazia”. Se la politica

abdica, non subentra la tecnica, ma un’altra politica dissi­ mulata dietro lo speciabsmo dei ‘competenti’ e degli ‘esperti’. Dire che il diritto è tecnica, cioè forma di volontà di potenza, è dire che esso è politica, ed esprime il rapporto tra governanti e governati. E perciò rifiutare le ingenuità o scaltrezze tecnocratiche, le quali, confondendo la funzio­ nale scelta dei mezzi con la storica scelta dei fini, surro­ gherebbero le aspre e crudeli lotte della politica con ‘di­ battiti’ ‘convegni’ ‘tavole rotonde’ di ‘esperti’ e ‘compe­ tenti’. 6. Si è detto di sopra che la volontà di potenza, que­ sto slancio vitale al dominare e usare, assume forme mol­ teplici e diverse. Il diritto (e qui si torna al principio del nostro discorso) è una tra le forme di volontà di potenza: non si esercita e svolge sulle cose o sulla natura animale o vegetale, ma sulla volontà stessa dell’uomo. Il diritto vuole che altri voglia in un certo modo, è volontà dominatrice di un’altra volontà, alla quale impone uno specifico con­ tenuto. Dove un grande filosofo del Novecento, Giovanni Gentile, scrive che “il diritto può ben dirsi la natura nel mondo della volontà”, intendiamo che il diritto tratta l’altrui volontà nella guisa stessa con cui la tecnica tratta la natura. Il diritto ‘naturizza’ la volontà, e la calcola e manipola come un ente del mondo esterno. Codesto è propriamente tecno-diritto, la tecnica nella forma del diritto, volontà di dominio sulle volontà altrui. C ’è qualcosa di terribile e di empio: mentre le al­ tre forme di tecnica si rivolgono alla natura - ed anche a quella parte della natura che è il corpo umano —qui, nel diritto, la volontà mira a determinare il contenuto del volere stesso. La regola è dettata da una volontà; il regolato

è un’altra volontà. La tecnica s’installa fra le volontà umane. 7. In ciò, che diciamo il regolato, la materia su cui si svolge la tecnica del diritto, ricadono anche le altre forme della tecnica, ossia, per venire a linguaggio più semplice e schietto, volontà di scienziati e di imprendito­ ri, campi del sapere e dell’economia. Le quali forme non si lasciano docilmente signoreggiare, ma esprimono la loro forza e la oppongono al diritto. Può aprirsi così una lotta aspra e grandiosa, che spesso si allarga ad altre po­ tenze: fedi religiose, circoli di cultura, sette mistiche, agi­ tazioni popolari. Il diritto trova dinanzi a sé tecnica ed economia in­ sieme alleate: la tecno-economia, dove la scienza offre alle imprese nuovi metodi e scoperte, e le imprese sollecitano e sorreggono le ricerche della scienza. La tecno-econo­ mia vuole farsi, essa stessa, normativa, e determinare il contenuto del diritto. Le norme giuridiche, emanate dal potere politico (quale che si sia, autoritario o democra­ tico), sono accettate o ricusate secondo che favoriscano o alterino il funzionamento del mercato. L’economia di mercato prende il luogo del vecchio diritto naturale, e, al pari di questo, si eleva a giudice del diritto positivo, e ne tutela la conservazione o ne promuove la riforma. Il re­ golato rovescia, o si prova a rovesciare, il rapporto con il regolante, e a darsi da sé la propria regola. Le leggi natu­ rali dell’economia, resuscitando 1 pallidi fantasmi del di­ ritto naturale, tendono a collocarsi al di là e al di sopra del potere giuridico-politico. Perché lotte fra partiti, urto di visioni della società e della vita, e dividersi e scontrarsi, se dalle leggi naturali dell’economia sono deducibili le giuste e opportune nor-

me del diritto? se codesto ufficio può affidarsi al neutrale e pacificante lavoro di ‘esperti’ e ‘competenti’? Torna così l’ingenuo o scaltro ‘ideale di tecnicità’, e le tecnocrazie si apprestano a sostituire parlamenti e governi rappresenta­ tivi. Ecco la potenza, che oggi il diritto trova di fronte o di contro a sé, e con cui si apre la partita decisiva. 8. La tecno-economia presenta un carattere, che è inatteso e nuovissimo nella storia dell’uomo. Potrebbe chiamarsi la s p a z i a l i t à , il suo espandersi e dilagare senza alcun termine, la sua s-confinatezza. La rete telema­ tica, priva di luoghi e di ancoraggi geografici, ne è il sim­ bolo più sicuro e compiuto. Mentre la potenza politicogiuridica si tiene ancora entro la confinatezza, e parla e agisce nel linguaggio della t e r r i t o r i a l i t à , la tecnoeconomia distende sul globo il suo proprio spazio. Sono i temi del geo-diritto, e verranno presi ad esame in altra di queste lezioni brasiliane. Qui deve soltanto dirsi che il diritto, vissuto per lun­ ghi secoli entro i confini degli Stati, si trova stupito e smarrito. Come inseguire e catturare i fenomeni della tecno-economia? come rendersi pari o simili nella vo­ lontà di dominio planetario? È in possesso del diritto (ed anzi ne è sua natura profonda) il carattere di artificialità, che ora si rivela come arma sollecita e audace. L’artificia­ lità, sciogliendosi a mano a mano da vincoli terrestri e tra­ dizioni storiche, è anche in grado di oltrepassare i confini e d’istituire una spazialità giuridica. Gli accordi fra Stati e la creazione di enti e organismi e autorità sovra-nazionali volgono a questo scopo. L’antico nomos, a dirla con Cari Schmitt, stringeva il diritto ai luoghi, alla storica determi­ natezza di una od altra comunità; il nuovo nomos, se vuole

co-estendersi insieme alla tecno-economia, e prendere la sua stessa misura, deve sciogliersi da quei vincoli e sfruttare appieno l’intriseco carattere di artificialità. 9. Il tecno-diritto è una tra le forme di volontà di po­ tenza, uno dei ‘centri di forza’, che lottano per il dominio del mondo. ‘Tecno’, poiché esso è agitato da quel dè­ mone, vibrante di quella insaziata energia, da cui proven­ gono anche le altre potenze. Se scienze e tecniche natu­ rali usano e manipolano le cose d’intorno —l’aria, l’acqua, la terra, e lo stesso corpo dell’uomo -, il diritto ha la su­ prema ambizione di impiegare per propri scopi le volontà altrui. Questa è l’indole eterna del potere politico-giuridico, cioè di un potere ordinativo del nostro vivere insieme. Il tecno-diritto si precisa come tecno-politica, e l’impe­ gno storico del diritto come responsabilità della politica. Chi ha salutato con gioia il tramonto delle ideologie non sapeva (o sapeva fin troppo bene) che quei luoghi non sa­ rebbero rimasti per sempre vuoti, e che altre potenze, l’e­ conomia e la tecnica, li avrebbero sùbito riempiti. Ora che la coscienza dell’illusione o dell’inganno sembra matura, può levarsi Yappello alla politica: che riprenda nelle proprie mani il destino dell’uomo, e restauri, con ciò stesso, il do­ minio del diritto. L’appello sarà mai ascoltato? Tutti siamo in attesa.

SECONDA LEZIONE

Geo-diritto

1. Ci chiediamo perché il problema dello spazio ab­ bia assunto così grave e inattesa importanza negb studi e nella pratica del diritto. Occorre incominciare da lontano. Siamo educati o abituati a ragionare in base a un criterio: lo Stato eser­ cita la propria sovranità su una porzione della superficie terrestre. La sovranità si esprime massimamente in forma di legge. Il territorio misura la signoria giuridica dello Stato. Si profila così una dimensione spaziale del diritto, cor­ relativa alla dimensione spaziale dello Stato. Il territorio determina l’àmbito dell’uno e dell’altro. Le norme giuri­ diche —è da ricordare —vigono nel tempo e nello spa­ zio: hanno sempre bisogno di un ‘quando’ e di un ‘dove’. Esse sono emanate modificate abrogate, e perciò presen­ tano una durata, più o meno breve, più o meno lunga. Ma insieme hanno bisogno di una determinazione spaziale, cioè di un campo di vigenza, comunale regionale nazionale e via seguitando. La norma giuridica è sempre norma in un certo luogo e per un dato tempo. 2. Abbiamo detto che il territorio calcola la dimensione spaziale di Stato e diritto. Ma che cosa è propriamente il

territorio? e come si isola e individua sulla piatta superfi­ cie del globo? I dizionari della nostra lingua ne indicano l’ètimo nel latino ‘terra’. Non so se sia esatto, ma preferisco seguire la pagina di un grande giurista: “ Territorium deriva da terreo o territo. Jus terrendi si trova usato come sinonimo di jus imperii. Il significato letterale di territorium, come la desi­ nenza stessa rivela, è àmbito di signoria” (Tomaso Perassi, in Scritti giuridici, I, Milano, 1958, p. 103 nota 8). Il territo­ rio ci appare come il luogo in cui il potere atterrisce e suscita spavento; in cui il signore detta norme e minaccia sanzioni. Ciò, che costituisce un territorio e lo fa luogo di una data signoria, è il confine. Non c’è territorio senza confini. La superficie terrestre, in un’alba originaria e primor­ diale, si presenterebbe piatta liscia indistinta. Uni-forme, di una sola ed unica forma, poiché non ci sono ancora le plurime e diverse forme, introdotte dalla storia umana. Il confine (ancorché coincida con limiti naturali: corsi di fiumi, giogaie di monti, rive di laghi ecc.) è sempre inna­ turale: creatura della storia, che spezza l’originaria uni-formità e determina l’individualità dei luoghi. 3. Il confine svolge duplice funzione: escludente e inclu­ dente. Esso esclude, poiché divide e separa il mio e l’altro. Altro è ciò che è di là dal confine: l’arcano, il misterioso, il pericolo. Ci sono caratteri profondi e affini tra proprietà e sovranità. L’esclusività è comune ad ambedue. L’art. 832 del codice civile italiano, raccogliendo secolare tradizione, definisce la proprietà come “diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”. In difesa della pro­ prietà, l’art. 950 prevede l’azione di regolamento di con­ fini; e l’art. 951 l’azione per apposizione di termini, cioè

dei segni materiali e visibili onde il mio si distingue dal­ l’altro. Parimenti esclusiva è la sovranità statale. Non è con­ cepibile un concorso di sovranità, una pluralità di signo­ rie sul medesimo territorio. Qui vige Yaut-aut, o la sovra­ nità di uno Stato o la sovranità di un altro Stato. Se guar­ diamo gli Stati dall’alto, quasi spettatori di un paesaggio, essi ci appaiono l’uno accanto all’altro; se invece - come sempre accade nella nostra esperienza di cives —ci collo­ chiamo all’interno di uno Stato, questo è unico ed esclu­ sivo. Nel valutare le nostre azioni, nel giudicarne legalità o illegalità, non possiamo adottare punti di vista diversi e discordanti, ma un solo ed unico punto di vista: quello, appunto, dello Stato, a cui vogliamo e sentiamo di appar­ tenere. 4. Il confine, esercitando la funzione includente, sta­ bilisce unità e identità di ciò che è dentro. Lingua costumi tradizioni concorrono nell’individuare questo luogo, e nel separarlo dagli altri. Così si determina Vappartenenza, il sentirsi parte di un tutto, di quel mondo in cui i con­ fini ci chiudono e rinserrano. Il simbolo dell’inclusione — simbolo, come ha mo­ strato Tullio Gregory, denso di sacralità e di mistero —è la ‘porta’: porta della città o della casa, limite oltre il quale vive l’altro. Questi viene dafuori, forestiero, e chiede di pas­ sare la porta o l’aggira o l’abbatte con violenza di guerra. Escludere o includere - le due funzioni del confine —si richiamano con profonda reciprocità: qui nascono le idee di dentro e fuori, di appartenenza ed estraneità. 5. Il territorio statale anche segna l’estensione di politica e diritto. Nel ‘dentro i confini’ si agitano le lotte fra partiti

e si determinano gli orientamenti della politica. Qui si esprime la cittadinanza come partecipazione al destino di un popolo, o, più semplicemente, ai problemi di una col­ lettività organizzata. In questo luogo pure nascono le norme giuridiche. La lotta politica conosce, al pari di ogni altra, vincitori e vinti; e i primi stabiliscono la disciplina giuridica degli interessi. Dietro qualsiasi ordinamento giuridico c’è sem­ pre una presa di potere. Nello Stato territoriale, come si è venuto formando nella storia moderna d’Europa, il po­ tere politico-giuridico è, anch’esso, stretto nei confini, spazialmente definito.

6. Questa rappresentazione —tutta costruita intorno a uno spatium terminatimi, cioè ad un luogo di politica e di­ ritto, isolato e identificato dai confini —; questa rappresen­ tazione viene lacerata e sconvolta da due immani potenze. Le quali non conoscono termini, non hanno patria, si espandono ovunque. Potenze della s-confinatezza, che si chiamano tecnica ed economia, e che, insieme congiunte e alleate, generano la tecno-economia del nostro tempo. L’essenza della tecnica, come volontà di sfruttare e ma­ nipolare il mondo; e l’essenza dell’economia (parliamo - è ovvio —dell’economia di mercato), come insoddisfatta e indefinita volontà di profitto; queste essenze, o forme della volontà, rifiutano la chiusura dei confini e la determina­ tezza dei luoghi. Esse sono radicalmente a - t o p i c h e , senza luogo, e perciò possono diffondersi e impiantarsi ovunque. “La civilizzazione - leggiamo in una pagina pre­ corritrice di Giacomo Leopardi - tende naturalmente a propagarsi, e a far sempre nuove conquiste, e non può star ferma, né contenersi dentro alcun termine, massime in quanto all’estensione ...”.

I traffici economici ignorano i confini. Mentre le tribù sono in guerra, tra l’una e l’altra, nel buio della notte, si aggirano i mercanti, che offrono beni e nego­ ziano, e si sentono fuori da qualsiasi patria. Bene ha scritto Piero Zanini, in un libro ricco e suggestivo sui ‘Si­ gnificati del confine’: “La terra di nessuno è ciò che sta tra le due sponde, tra i margini di due paesi, di due spazi dif­ ferenti. È il luogo dove la norma, la regola che il confine stabilisce non vale più, la terra selvaggia dove ognuno deve badare a se stesso e tutto diventa possibile”. Il ‘do­ vunque’ dell’economia è (o aspira ad essere) un’indefinita terra di nessuno. Nel ‘dovunque’ della tecno-economia (dove imperano, insaziate e sempre insoddisfatte, volontà di profitto e volontà manipolatrice del mondo) gli indi­ vidui perdono ogni identità di cittadini, ogni vincolo di appartenenza terrestre. Essi si distinguono soltanto per di­ versità di funzioni, per la parte —potremmo dire - svolta da ciascuno nei meccanismi tecnici o nelle attività di mercato. La funzione non richiede individualità, ed anzi teme e rifiuta attriti soggettivi e psicologici. Il ‘funzio­ nare’ è garantito da prestazioni anonime e fungibili: nei grandi magazzini, nei rapporti di massa, ed ora anche in campi professionali in cui vigevano prestigio dei singoli e onore di ceto, da per tutto intorno a noi si aggira la sper­ sonalizzata ‘efficienza’, priva di volto e di nome. La rete telematica è il simbolo estremo dell’alleanza tec­ no-economica: spazio artificiale senza confini, non luogo, dove la volontà di profitto, sradicata e de-territorializzata, si esprime oltre gli Stati e oltre il diritto degli Stati. Si de­ termina così un divario, una ‘sfasatura’, di estensione: tec­ nica ed economia non sono co-estensive a politica e diritto: quel­ le, indefinitamente spaziali; questi, definitamente territo­ riali.

7. Il problema della co-estensività, oggi venuto in piena luce, fu già colto da ingegni penetranti e presaghi. Come non ricordare il libro di Fichte, risalente al 1800, Lo Stato secondo ragione 0 lo Stato commerciale chiuso? Il grande filo­ sofo sospinge alle estreme conseguenze il principio di terri­ torialità: nulla può uscire dai confini dello Stato: lo Stato - egli scrive - si chiuda completamente ad ogni commercio con l’estero, e formi d’ora in poi un corpo commerciale così separato, come finora ha formato un se­ parato corpo giuridico e politico”. Vietata la moneta co­ mune, non ammesso il commercio del cittadino con lo straniero, lo Stato si chiude in se stesso; economia politica di­ ritto tornano a co-estendersi, e tutti assumono l’identica misura spaziale:’’... uno stato secondo ragione —chiarisce Fichte — è appunto uno stato commerciale chiuso, come è, del re­ sto, uno stato chiuso rispetto alle leggi e agli individui che 10 compongono”. Abbiamo ricordato il pensiero di Fichte, non già per specifiche soluzioni o proposte di soluzione, ma per la lu­ cida consapevolezza del problema: come rendere co­ estensive forze che hanno una diversa misura spaziale? come ricondurre ad unità la confinatezza di politica e di­ ritto e la s-confinatezza della tecno-economia? 8. Una soluzione del problema è in ciò: che la tecno­ economia scelga, essa, il suo proprio diritto; e che gli Stati offrano, quasi in una ‘corsa al ribasso’, i rispettivi or­ dinamenti. Le imprese, poste dinanzi al mercato degli ordini giuridici, scelgono l’ordine più vantaggioso e conveniente. 11 ‘dove giuridico’ è determinato dalle imprese, che pos­ sono ben moltiplicarli o combinarli: l’uno, per acquisire risorse finanziarie; l’altro, per il costo della manodopera; e poi, ancora, uno diverso, per benefici fiscali o emissioni di

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bonds; e l’ultimo, infine, per la disciplina del fallimento. Il ‘dovunque’ del mercato globale permette alle imprese di scegliere - in ragione di diverse fasi dell’attività econo­ mica —una pluralità di sedi giuridiche. Il mercato degli ordini giuridici non sorge spontaneo e naturale. Esso trova fondamento in una decisione politica, quella, appunto, di favorire la volontà di profitto e di la­ sciare alle imprese la scelta della sede giuridica. Si tratta, come è ovvio, di una decisione abdicativa, con cui la classe politica rinuncia a governare l’economia, e si fa governare da essa. 9. Altra soluzione (soluzione — si ripete — del pro­ blema della co-estensività) è nel dominio imperiale di uno Stato, il quale, non soltanto occupi mercati sempre più vasti, ma pure istituisca un nuovo ordine. Il principio, a cui tutti gli altri si riconducono, è nella sicurezza, nella garan­ zia di funzionamento dei mercati. La difesa della sicurezza degrada ogni nemico a criminale, e converte la guerra in operazione di polizia. La potenza im­ periale non dichiara guerra ad altri Stati (com’era in uso nelle cancellerie diplomatiche degli ultimi secoli), ma provvede senz’altro - in linea preventiva o repressiva - a difendere la propria sicurezza. La co-estensione è raggiunta attraverso il dominio po­ litico-militare di un grande spazio, il quale, a ben vedere, non minaccia la territorialità dello Stato egemone, ma piutto­ sto la dilata e allarga. Il nuovo ordine accompagna l’aper­ tura dei mercati, e li protegge contro minacce ideologi­ che e religiose, economiche e finanziarie. io. Viene, da ultima, la soluzione degli accordi intersta­ tuali, cioè delle intese con cui una pluralità di Stati —eia-

scuno nell’esercizio della propria sovranità - s’ingegna di catturare la tecno-economia e di collegarne le vicende a singoli e specifici luoghi. Mentre le imprese mirano a scegliere, esse, la sede dei rapporti giuridici, qui è il diritto che determina la sede giuridica degli affari. Non il mercato degli ordini giuridici, ma l’ordine giuridico del mercato: ordine, rag­ giunto dagli Stati nell’esercizio della sovranità e garantito dalla loro forza coercitiva. Alla soluzione fichtiana dello ‘Stato commerciale chiu­ so’; al dominio politico-militare dell’impero; gli accordi inter-statuali contrappongono pluralità di territori e uniformità di disciplina giuridica. I territori restano diversi e molteplici, come molteplici e diversi sono gli Stati; ma la disciplina giuridica si fa uni-forme, ossia prende il medesimo conte­ nuto. Pluralità, a ben vedere, di diritti identici. li. La soluzione degli accordi interstatuali (le altre due, dello ‘Stato commerciale chiuso’ e del dominio im­ periale, potrebbero dirsi intra-statuali), quella soluzione esige che il diritto assuma un alto grado di artificialità. Il punto è di straordinaria importanza. Il rapporto profondo, che Cari Schmitt ha denominato ‘nomos della terra’, congiunge il diritto a luoghi storicamente determi­ nati. La genesi del diritto è in un ordine concreto, nella primeva occupazione e distribuzione di terra. Le norme vengono dopo. Il diritto ha un’esistenza terrestre; è un modo di ordinare lo spazio. “Il nomos - scrive Schmitt nel grande libro del 1950 —è pertanto la forma immediata nella quale si rende spazialmente visibile l’ordinamento politico e sociale di un popolo ...’’.Terra popolo diritto si costituiscono in concreta unità spaziale. Ma come può il diritto, legato alla storicità di un po­ polo e alla determinatezza di un luogo, inseguire e cattu-

rare gli affari della tecno-economia, i quali non hanno né patria né confini? come può la regola rendersi conforme al re­ golato? Non c’è altro modo che il dolore dello s-radicamento, l’assunzione dell’artificialità come essenza costitutiva del diritto. L’artificialità, l’arte-fatto, è il carattere fondamentale della tecno-economia, della volontà, cioè, di manipolare il mondo e di conseguire indefiniti profitti. Se la norma giuridica si scioglie dal vincolo terrestre, dalla connes­ sione genetica con singoli luoghi; se essa si riconduce per intero alla volontà dell’uomo; allora si pone in grado di fronteggiare la tecno-economia. Di affrontarla, non già da un piano diverso, ma sul suo stesso piano, che è quello di vo­ lontà, s-radicamento, s-confinatezza. 12. Lo spazio giuridico acquista così un nuovo e inaudito significato. Ancora si parte e si ritorna al territo­ rio degli Stati (di quegli Stati, appunto, che hanno con­ cluso accordi di ‘uni-formizzazione’), ma Vuniformità di disciplina esige il sacrificio dell’identità storica del diritto. Lo spazio non è più il luogo originario e costitutivo, ma il semplice campo di vigenza di una norma. Lambito (di­ rebbe Hans Kelsen) di validità geografica del diritto. Am­ bito, arbitrario e artificiale, deciso e stabilito dalla volontà umana. L’alto grado di artificialità, rendendo il diritto fra­ terno all’essenza della tecno-economia, restaura la co-esten­ sione fra politica diritto economia. La politica, che non voglia piegarsi alla volontà di profitto ed offrire gli ordini giuri­ dici al calcolo di vantaggio o svantaggio delle imprese; che si tenga lontana e dalla chiusura fichtiana e dal do­ minio imperiale; non ha altra strada da quella degli ac­ cordi inter-statuali. E, dunque, ha bisogno di profonda e lucida coscienza dell’artificialità giuridica, di volontà capace

di stabilire lo spazio applicativo del diritto. Soltanto s-radicandosi, sciogliendosi dai confini territoriali, la volontà normativa può raggiungere quel grado di artificialità, che, per l’identica essenza di regola e regolato, le per­ metta di dominare o orientare la tecno-economia. Quanto più il diritto rimane legato, in suoi modi e contenuti, alla genesi terrestre, al nomos storico, tanto meno esso è in grado di pareggiare l’orizzonte globale della tecno-economia. Quanto più, invece, si distacca dai luoghi originari, e prende caratteri di artificialità, tanto più entra, per così dire, nella medesima natura della tecno­ economia e acquista il potere di orientarla o governarla. La s-confinatezza del regolato (degli interessi, cioè, che sono materia di disciplina giuridica) esige e invoca la sconfinatezza della regola; e quest’ultima, per raggiungere tale grado di corrispondenza e adeguazione, deve affrancarsi dall’abbraccio terrestre, dal fondo originario del nomos. Il diritto — in forza di accordi inter-statuali —scende, per così dire, sui territori dei singoli Stati, e detta regole uni­ formi, le quali sono dimentiche di ogni ordine e connes­ sione storica. Bene ha notato Massimo Cacciari: “La li­ bertà commerciale, finanziaria, economica che fa di ogni luogo e di ogni tempo una ‘globale Zeit’, sta in irrime­ diabile conflitto col positivismo del diritto collegato allo Stato”. La soluzione di questo conflitto non esige l’oltrepassamento o l’abbandono del positivismo giuridico (e che altro mai sarebbe pronto a sostituirlo ed a prenderne il luogo?), ma piuttosto il suo estremo e radicale impiego. Soltanto l’artificiahtà del diritto, come prodotto dell’u­ mano volere, arbitrario e incondizionato, può sciogliere il rapporto fra norma e fondo terrestre. Soltanto essa può determinare, di volta in volta, la dimensione spaziale del diritto.

G e o -d ir itto

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C ’è un’alternativa ineludibile: o il diritto, fedele alle antiche radici, si ritira nell’ombra, spaurito e inerme di­ nanzi all’immane potenza della tecno-economia, la quale sceglierà, essa, la sede giuridica dei singoli affari; o il di­ ritto, nelle forme del dominio imperiale o degli accordi inter-statuali, sarà capace di raggiungere quella potenza e di piegarla alla propria disciplina. Altro il giurista non può dirvi; altro il giurista non sa prevedere.

TERZA LEZIONE

Bio-diritto

I . Che cosa era propriamente ‘vita’ nel diritto di ieri? Una semplice durata, un tratto di tempo fra il nascere e il morire. Il diritto non andava più indietro della nascita, non andava più oltre della morte. I ‘momenti’ dell’una e dell’altra tracciavano confini sacri e inviolabili. Quando il diritto era nella necessità di superarli, ricorreva a metafore e finzioni:1conceptus pro jam nato habetur’, il concepito si ha già per nato: si ha, cioè si tiene, si considera, si vuole che sia nel mondo giuridico. Nascere e morire appartenevano alla natura, dati in una realtà esterna, che al diritto s’im­ poneva nella sua incontrovertibile oggettività. Un sentimento di mistero avvolgeva principio e fine della vita: il numinoso incombeva, che fosse gioia della nascita o angoscia del morire. Il diritto se ne stava in ter­ mini segnati dalla natura, da potenze creatrici e distruttrici che si svolgevano fuori da ogni umana volontà. La ‘inte­ grità della vita , difesa da norme del diritto penale e innal­ zata a principio di moderna civiltà, ancora indica questo tutto, questa originaria interezza, che nessuno osi violare e colpire. La ‘integrità della vita’, in cui si rispecchia e ri­ frange la stessa dignità della persona, è integrità di ogni e qualsiasi corpo: non del mio o del tuo corpo, ma del corpo come indissociabile e congiunto a ciascuno di noi.

Il diritto di ieri, nel disegno di proteggere la vita umana, tutela e difende il corpo, perché l’uomo è (o è an­ che) il suo corpo, questa cosa fisica e tangibile, che le po­ tenze distruttrici ricacciano nel nulla. Il diritto ha come la posizione d’uno spettatore, di fronte a cui si svolga il tea­ tro del nascere e del morire. Esso può poco o nulla: sten­ dere reti di protezione intorno al mistero di ciascun indi­ viduo. 2. La tecnica non si ferma dinanzi alla vita, né al na­ scere e morire, né al corpo dell’uomo. Essa domina il mondo, e piega tutto ciò che ci è d’intorno ai propri in­ definiti scopi. Questo dominio riduce ogni cosa a sem­ plice oggetto, a materia di calcolo, di controllo razionale, di capacità manipolativa. Non c’è nulla che non sia fattibile e producibile, non c’è nulla che non possa esser sottratto alle ombre del mistero. La tecnica rifiuta il caso e il destino, cioè le oscure forze a cui l’uomo soggiaceva nel nascere e morire. Il corpo assume un diverso significato, prende una nuova posizione nel mondo. Paul Valéry, che fu saggista acutissimo e osservatore implacabile del nostro tempo, ci viene in soccorso con una pagina di Variété. Dove egli di­ stingue tre corpi: il primo è il-mio-corpo, la cosa presente, che ci appartiene ed a cui noi apparteniamo; il secondo scrive Valéry —“è quello che è visto dagli altri, ed è anche quello che noi vediamo, più o meno, in uno specchio o in un ritratto”. E poi si dà il terzo corpo, che sta lì come in­ sieme di parti, fatto a pezzi, e ricomposto ad unità soltanto nel pensiero. Ecco, il terzo corpo di Valéry è propriamente il corpo della tecnica, la quale non conosce il-mio-corpo, né la visione che altri abbia di esso, ma considera il corpo, il corpo di qualsiasi uomo, come semplice oggetto. Il corpo

della tecnica è la struttura fisica di una specie biologica, che il mondo ci presenta accanto alle altre strutture animali e vegetali. 3. L’oggettivazione del corpo raggiunge il grado più alto. Il corpo della tecnica è il corpo di nessuno: non il corpo mio o tuo, di uno o di altro, ma il corpo in sé, nella sua ogget­ tiva e indifferente neutralità. Ricerche, risultati scientifici, applicazioni mediche, riguardano un corpo senza titolare, così come senza titolari sono le cose uscite dalle industrie e le merci non ancora immesse nel congegno degli scambi. Tutte appartengono al regno del fattibile, di ciò che l’uomo è in grado, da sé solo, di manu-facere, di trarre dal nulla o di ricacciare nel nulla. Pensiamo a quale straordinario e terribile muta­ mento! La vita, dinanzi a cui l’uomo si fermava tra mera­ viglia e angoscia, tra senso del mistero e occulte paure, è ormai un ‘manufatto’, una cosa del mondo che egli è in grado di produrre. La parola decisiva ed essenziale, ‘pro­ durre’, oltrepassa i vecchi confini, e si spinge fino a in­ cludere la vita umana, la vita di quell’uomo che così è in­ sieme produttore e prodotto. L’empietà della tecnica si svela nella sua audace grandezza: strappa la vita al caso e al de­ stino, e la consegna al sapere calcolante dell’uomo. Na­ scere e morire non sono più soltanto dell’uomo, ma ap­ partengono all’uomo; non sono più un semplice accadere, ma un risultato del v o l e r e . Accadere e volere si profilano in un’antitesi radicale. La vita è strappata al regno del puro accadere, di eventi che l’uomo trova fuori di sé e dinanzi a sé, e che perciò rinviano ad altro (sia un Dio creatore o una legge intrin­ seca alla specie o un enigmatico destino). Non c’è biso­ gno di ‘altro’, poiché l’uomo ha preso la vita nelle pro-

prie mani di artefice, e la pone accanto a tutte le cose, da lui calcolabili e producibili. La sua volontà di dominio prende il luogo che in altre epoche tenevano il caso, l’i­ natteso, l’incomprensibile. Come nella vita sociale il caso, che decretava l’appartenenza ad una od altra classe e per­ ciò segnava l’intero cammino del singolo, è circoscritto o eliminato con misure economiche o con intensa mobilità di uffici e funzioni; così esso è discacciato dalla vita indi­ viduale; e l’una e l’altra vengono governate da una calco­ lante volontà. 4.

La vita, liberata dal caso e dal destino, esce dall’ori­ ginaria naturalità, e, in certo modo, si fa storia degli uo­ mini. Non appartiene più alla natura, a un immutabile re­ gno che l’uomo può soltanto guardare e conoscere, ma al processo del sapere e agli scopi del volere. Se chiamiamo ‘natura’ una data immagine del mondo —l’immagine delle fedi religiose e della tradizione cristiana —, allora il corpo della tecnica è propriamente anti-natura, artificialità del ‘manu-facere’ che si sostituisce al corso spontaneo delle cose. Non senza ragione un filosofo italiano, tra i mag­ giori del tempo nostro, Emanuele Severino, ha scelto per titolo d’uno dei suoi ultimi libri l’astratta radicalità del verbo Nascere. Che non è ormai un dato di natura, evento esterno, che ‘capita’ all’uomo come gli ‘capiterà’, un giorno o l’altro, di morire, ma è un risultato tecnico, una costruzione voluta ed eseguita da noi stessi. E proprio Severino nota di passata che questo fabbri­ care e distruggere la vita ha qualcosa d’innocente. L’inno­ cenza della tecnica - ci sembra di chiarire - , che scioglie il corpo dal destino individuale, e l’osserva e studia nella sua oggettiva nudità, senza macchia di peccato e di cor­ ruzione. L’innocenza del produttore, che mira a fabbricare e

a distruggere in modo perfetto: e u - g e n e t i c a ed e u ­ t a n a s i a dicono, mercé l’avverbio greco en, la cura ese­ cutiva della tecnica, lo scrupolo del ‘far bene’ inizio e fine della vita. E l’avverbio risuona ancora nella parola ‘benes­ sere’, che è altro dalla vecchia e umile ‘salute’: salute è uscire dalla malattia o difendersi contro la minaccia al­ l’integrità fisica; ‘benessere’ è una condizione dell’essere, ra­ zionalmente calcolata e tecnicamente perseguita. La sa­ lute non basta più; occorre il benessere, che in sé racco­ glie anche il ben-nascere e il ben-morire, il nascere sani e il morire senza sofferenza. Bisogna ‘bene’, cioè con perfe­ zione tecnica, trarre l’uomo dal nulla e restituirlo al nulla. Codesto è il compito della tecnica, la quale non s’inter­ roga (né essa saprebbe domandarsi né rispondere) che cosa mai ci sia dietro il nulla originario e dopo il nulla fi­ nale. La tecnica non può uscire da se stessa. 5.

Che ne è del diritto, mentre la tecnica s’impossessa del nascere e morire umano? Del diritto, che, sciolto or­ mai da vincoli religiosi e metafisici, tutto si risolve nella volontà impositrice dell’uomo? Basta così domandare per avvedersi che bio-tecnica e diritto appartengono, e Luna e l’altro, al mondo dell’u­ mana volontà, e sono, ambedue, forme di volontà di po­ tenza. E inutile che circa questo punto si rinnovi la di­ mostrazione, già offerta in altro discorso brasiliano: se la bio-tecnica volge a dominare la vita fisica dell’uomo, il diritto, dal suo canto, ne stringe e vincola la stessa vo­ lontà. Lì, il dominio sul corpo; qui, il dominio sulla volontà, af­ finché essa si orienti e scelga in un dato modo. Nella po­ sizione e im-posizione di norme si esprimono le forze storiche della politica, e ideologie e fedi e interessi che nella politica si raccolgono ed agiscono.

Bio-tecnica e bio-diritto sono potenze della nostra epoca. Non c’è alcun criterio sovrastante, che permetta di decidere fra l’una e l’altro, che —fuori da un dato e storico diritto positivo - consenta di giudicare lecite o illecite le singole scoperte e applicazioni della bio-tecnica. Soltanto un diritto non-positivo, cioè non posto né im-posto dalla volontà umana; non creatura della storia, ma rivelato al di là e al di sopra del tempo; soltanto un tale diritto sarebbe in grado, una volta per sempre, di tracciare il confine tra le­ cito e illecito, e di dire il sì e il no a singoli impieghi della bio-tecnica. Ma il diritto, di cui l’uomo moderno di­ spone, è tutto consegnato alla volontà, non riconosce vincoli obbliganti, non attribuisce qualifiche perenni e immutabili. Allora il rapporto è propriamente —come già si diceva —rapporto fra due potenze, fra bio-tecnica e forza politico-giuridica. 6. La quale non può starsene più entro gli antichi ter­ mini e accogliere dal di fuori il nascere e morire. La g i u r i d i f i c a z i o n e de l b ì o s è inevitabile. La vita, nella sua elementare fisicità e corporeità, esige regole, fa appello alla decisione politica, varca impetuosa i confini del diritto. Non un giurista (i giuristi vanno con passo grave e lento), ma un sensibilissimo sismografo dell’età nostra, Ernst Jiinger, già nel i 98 i vedeva nelle nuove forme di procreazione “sintomi di una svolta del mondo”, e annotava: “Le leggi possono soltanto agire da barriera o scavare un letto alla corrente. Ma che cosa sono mai le leggi quando una nuova formazione proietta la sua ombra? Lo si può constatare nei giuristi e nella loro mancanza di ri­ ferimenti cui appellarsi. Ciò che in questo caso va affron­ tato e risolto non potevano prevederlo né i codici di di­ ritto civile né quelli di diritto penale. In gioco, infatti,

non vi è solo un cambiamento nel quadro del diritto, quello per esempio dello stato civile, ma un evento bio­ logico dalle conseguenze imprevedibili” (An der Zeitmauer, trad. it. Al muro del tempo, Milano, 2000, pag. 233). ‘Agire da barriera’ o ‘scavare un letto alla corrente’: l’alternativa di Jiinger implica, nell’uno e nell’altro modo, che il diritto prenda posizione, e dunque che assuma la vita, il nascere e il morire, come cosa propria, come eventi non ricevuti dall’esterno, ma previsti e disciplinati da norme. Non più appartenenti all’ordine spontaneo della natura, ma all’ordine artificiale del diritto. I codici civili si restringevano ai ‘momenti’ del nascere e del morire, del venir, la ‘persona giuridica’, dal nulla e del tornare al nulla. Essenziale quel breve intervallo, che è il vivere del­ l’uomo fra altri uomini e con altri uomini. I problemi della bio-tecnica sospingono il diritto sui termini estremi, sui confini già tenuti per invalicabili. I modi del nascere e i modi del morire diventano materia di diritto, e acquistano la necessaria rigidità di forme giuridi­ che. Questo ha di proprio il diritto: che, nell’atto di toc­ care esperienze di studio o di vita, le converte in forme, in quei modelli astratti e generah, che solo permettono di dominare l’irripetibile varietà delle cose e di protendersi verso il futuro. Giuridificazione significa riduzione in forme. 7. Questo è il punto, in cui bio-tecnica e bio-diritto si ritrovano nello stesso e identico orizzonte. Se l’una as­ sume il corpo in fisica oggettività, l’altro ne considera modi e forme, anch’essi oggettivi, distaccati dalle singole e irripetibili individualità. Il processo di oggettivazione è co­ mune ad ambedue le potenze, alle immani energie che mirano a governare le cose e gli uomini. Il corpo, nel suo

nascere e morire, nel suo durare in vita, non è questo o quel corpo, il mio o il tuo, ma il corpo in sé, nella sua calcolabile e manipolabile oggettività. La riduzione ad oggetto, a cosa tra le cose, è insepara­ bile da bio-tecnica e da bio-diritto. Non più l’individuo intero, corpo e pensiero, fisicità e spiritualità, ma la res extensa, una materia sperimentabile e regolabile, su cui si esercita, in un modo o nell’altro, la volontà dell’uomo. Il nascere e il morire diventano così eventi calcolabili: dalla razionalità scientifica, che ne segue e determina lo svi­ luppo; dalla razionalità giuridica, che, superati gli antichi confini, li converte in forme astratte, in modelli di azioni e schemi generali. Il corpo non è più la dimora di qual­ cos’altro, abitata per breve ora e poi lasciata verso altri re­ gni: è il tutto della scienza, ed è il tutto del diritto. Per un singolare rovesciamento, non sfuggito alle analisi più acute della modernità, l’estremo soggettivismo — questo sciogliersi da vincoli fisici e religiosi, e consegnarsi alla volontà dell’uomo —si capovolge in estremo oggettivi­ smo. La volontà riduce uomini e cose a oggetti, a terreno di energie calcolanti e manipolanti. Se la vita mi sta di­ nanzi come oggetto, allora essa si disgiunge dal suo por­ tatore, dall’uomo concreto e determinato, e si fa semplice materia di tecnica e di regole giuridiche. 8. La rottura con la tradizione, la discontinuità dei tempi, ha note di tragedia. Il nascere, che era un pro-venire, un giungere dal passato e affacciarsi, passando dal­ l’oggi, verso il futuro, è ormai un evento tecnologico. Il mistero è risolto, si conosce tutto prima; e prima è tutto interrompibile, correggibile, manipolabile. La bio-tecnica priva di significato il padre e la madre, o, meglio, li rive­ ste di un significato in-naturale, che nulla ha da vedere con

l’antico rapporto di filiazione. Ciò che sembrava impen­ sabile è accaduto: non c’è più un diritto di conoscere il proprio padre o la propria madre. Ambedue possono ri­ manere ignoti, eppure il nato avrà un padre e una madre, che non saranno più naturali, ma determinati dall’artifi­ cialità del diritto, da un diverso criterio d'imputazione del figlio ai genitori. È che eventi soffusi di mistero —vita, corpo, nascere, morire —sono ormai dissacrati e ridotti a calcolata ogget­ tività. Essi non ci vengono più dati dal di fuori e dall’alto (da qualcosa che chiamavamo divinità o destino), ma sono da noi prodotti: non li troviamo, ma li facciamo. Questa in­ saziata volontà di produrre si è estesa dalle cose agli uo­ mini, riconducendo il corpo tra le cose fattibili. Un pic­ colo classico della filosofia stoica, il Manuale di Epitteto, si apre con la distinzione fra ‘le cose che dipendono da noi e quelle che non ne dipendono’. Il corpo è elencato in quelle cose, che —come volge, in elegantissimo latino, An­ gelo Poliziano —“nostra opera non sunt”. Ma la tecnica ha rotto la rigidità di questa antitesi, e fatto del corpo un ‘no­ strum opus’, una cosa producibile. Anch’esso dipende da noi. Il diritto non può starsene come un curioso spetta­ tore, né delegare ad altre potenze la guida degli uomini. I tempi esigono una presa di posizione. La scelta fra ‘agire da barriera’ o ‘scavare un letto alla corrente’ è affidata alla responsabilità politico-giuridica: non c’è alcun criterio di ferma e immutabile verità. Si accendono, intorno a queste domande, conflitti di fedi religiose, di ideologie, di visioni del mondo. Nessuno è in grado di scorgere il futuro. Al giurista spetta l’umiltà del silenzio.

Per u n ’autobiografia giuridica (dal concettualismo al nichilismo)

“D ove si vada, chi lo sa? A tnala pena si ricorda d ’onde si è v enuti”

Goethe

i .‘Concettuale’ può dirsi il metodo che dominava gli studi giuridici a metà degli anni Cinquanta. Tutte le di­ scipline procedevano per teorie particolari e teorie gene­ rali. Si saliva dalle prime alle seconde; si scendeva da que­ ste a quelle. I concetti giungevano dalla tradizione, eredi­ tati di scuola in scuola, sempre meglio definiti e disposti. Chi conosce i concetti possiede perciò il metodo, l’unico ed esclusivo metodo, capace di ‘trattare’ qualsiasi norma e di ricondurla entro le mura del sistema. Il metodo è indipendente dal proprio oggetto, scende dall’alto dei secoli, e monda la norma da ogni impurità storica. Positivismo e concettualismo possono entrare in urto e apparire discordi: altro è riduzione del diritto a norme stabilite dalla vo­ lontà (divina o umana che sia); altro è vincolo logico-si­ stematico della tradizione, da cui le norme non debbono discostarsi ed a cui sempre vanno ricongiunte. Dove pro­ prio non riesca, soccorrono le provvide categorie —an­ cora altri concetti! —di norme speciali ed eccezionali. La tradizione ha una potenza costrittiva. Consegnati di generazione in generazione, forti di tutto ciò che sta dietro e prima di noi, i concetti sembrano raccogliere ed esprimere 1’‘essenza’ dei singoli istituti. L’esperienza di al­ tre epoche e di remote civiltà —la quale, poiché è storica,

non sarebbe in grado di sottrarsi alla rovina del tempo — viene come fermata, e acquista l’incorruttibile rigidità della ‘natura’. Così il concettualismo si fa più stringente del positivismo: anche le volontà emanatrici di norme sottostanno a qualcosa che, accaduto in un lontano ieri, vincola e condiziona l’oggi. 2. È, questo, il senso della ‘scuola storica’ del diritto, e dell’antitesi savignyana fra dottrina e legislazione. Storica, sì, poiché isola, e innalza a modello, l’esperienza del di­ ritto romano; ma a-storica, quando protegge il passato dal divenire, cioè dal principio che pure lo fece e determinò. Ed è il senso, echeggiante a tratti nello stesso Novecento, e, così, nella pagina di Cari Schmitt, che vede il sapere giuridico “schiacciato fra teologia e tecnica” e addita la salvezza nel ritorno a Savigny. Il ceto dei giuristi si configura allora come l’austero custode della tradizione, vigile nel raffrenare e soffocare le eresie legislative. Esso, raccogliendo il lascito del passato, detiene la verità del diritto e la oppone al caos delle vo­ lontà normative. Ma questo caos è la storia dell’oggi, figlia del tempo non meno e non più del diritto romano. Qui, come dimentiche e spaurite, si arrestano tutte le profes­ sioni di storicismo e relativismo. Le norme, che si disco­ stino dalla tradizione e che non si lascino ricondurre ad essa, sono trattate per ‘errori’, per sviamenti storici, da cui la dottrina ci tutela e salvaguarda. 3. I concetti, ai quali pur si demanda così grave com­ pito difensivo, sono, a lor volta, terreno di disputa. O, forse, di apparente disputa. La controversia novecentesca fra ‘giu­ risprudenza dei concetti’ e ‘giurisprudenza degli interessi’ non ha mai colpito la necessità metodologica dei concetti,

ma ne ha piuttosto discusso il modo di formazione. Che, per l’una, è deduttivo e strutturale, tutto racchiuso nell’inda­ gine su come le norme siano fatte, e quali corollari logici se ne possano e debbano ricavare; e, per l’altra, induttivo e funzionale, attento agli interessi in gioco, ed al perché una norma sia emanata, e quali scopi essa si proponga di con­ seguire e riesca a raggiungere. Se appena si considerano le opere dei giuristi più eminenti a metà degli anni Cinquanta, e rimasti solitari nei decenni successivi, Emilio Betti e Francesco Carnelutti, ci avvediamo che l’analisi degli interessi reca sempre a concetti, e che storia e anti-storia, vincoli di tradizione e audacia di novità, s’intrecciano in ogni loro pagina. La dottrina è sempre rappresentata e vissuta come garante di unità sistematica, quasi messa a difesa di un’eredità con­ cettuale, che la frenesia legislativa non è in grado di de­ molire o disperdere. Il metodo teleologico rimane me­ todo concettuale, ancorché teorie, particolari e generali, siano costruite in base al criterio di scopo, e dunque pro­ cedendo per astrazione dal basso verso l’alto. 4. L’indirizzo analitico-linguistico, programmatica­ mente enunciato da Norberto Bobbio nel 1950, e venuto quasi in moda di studio negli anni successivi, sostenne e invigorì il metodo concettuale. Distaccandolo sì dalla tra­ dizione, ma appoggiandolo alla convenzione, la quale finiva per risolversi nel linguaggio dei giuristi, a cui, purificate e semplificate, erano ricondotte tutte le norme. La teoria analitica conferiva dignità di pensiero al metodo con­ sueto dei giuristi, sollevandoli così dal ‘complesso d’infe­ riorità’, sempre o bene spesso sofferto nei riguardi degli studiosi di scienze naturali. Risultato, raggiunto nel segno dell’anti-storia, cioè, da un lato, strappando le norme dal

processo di formazione, e assumendole nella loro estrin­ seca datità, e, dall’altro, riducendo il soggetto interpre­ tante a manovratore di regole linguistiche. Il metodo concettuale ne uscì rafforzato, più sicuro nel fondamento teorico, più agile e destro nell’individuare e classificare significati linguistici. L’autore di que­ ste pagine —stretto fra storia e dogma nel saggio d’esor­ dio Dal diritto civile al diritto agrario (1962) —non isfuggì al fascino del metodo concettuale, e ne dette qualche prova nei lavori monografici su Disposizione testamentaria rimessa all’arbitrio altrui (1967) e La ripetizione del negozio giuridico (1970). Poi, chiamato da Mario Allara a succe­ dere nella cattedra torinese, e venuto in consuetudine d’amicizia con Uberto Scarpelli, la teoria analitica del linguaggio gli parve garante di strenuo rigore e di sobria razionalità: donde si svolsero i Due saggi sul dovere giuridico (1972) e la scolastica Introduzione allo studio del diritto pri­ vato (1973). 5. Se si torna con la memoria a quegli anni lontani, e alla fervide convinzioni che animavano il nostro lavoro, si trova la fede in una razionalità a-storica, capace di sottrarsi alla furia del tempo, e perciò di dominare e arginare ogni sviamento di norme. Fede in un’eredità di concetti, che, giunti a noi dal passato e autorevoli per tradizione di scuole, esigono bensì puliture e affinamenti, ma perman­ gono nel tempo e rispecchiano ‘essenze’ e ‘nature’ di isti­ tuti giuridici. Ogni norma, per eretica e arbitraria che sia, può soggiacere al trattamento di questo metodo, e tor­ nare nell’alveo razionale. Ma già allora si percepiva, con inquieto dubitare, che la fede in una presupposta razionalità determinava lo smar­ rimento dell’oggetto, e soffocava il divenire nella gabbia di

uno statico concettualismo. Si spiega perciò che, accanto a lavori intonati nel metodo universitario, si percorressero sentieri di storia, e si ricostruisse il cammino: appunto, un cammino, il quale passa d’epoca in epoca, e non s’arresta, e si spinge oltre verso un dove ignoto. Nell’atmosfera su­ scitata da Paolo Grossi, e dai suoi Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, nacque così la vena di ricerca, mai conclusa ed esaurita, che è raccolta in Scuole e figure del diritto civile (1982; nuova ed., 2002) e La cultura del diritto civile (1990). 6. Che cosa rivela — al di là di dati personali, che hanno scarsa o punta importanza —questa ansia storio­ grafica, questo guardare indietro nel corso del tempo? se il nostro lavoro è garantito da una vincolante razionalità, onde distinguiamo vero e falso, assoluto e relativo, perché interrogare il passato e affrontare il rischio della storia? Il metodo concettuale determina (si direbbe con echi filosofici) Voblio dell’oggetto, cioè la dimenticanza che il sa­ pere giuridico è sapere circa il contenuto di norme, e che queste non sono nella disponibilità degli studiosi, ma di volontà capaci di emanarle e di esigerne esecuzione. L’in­ dagine storiografica, mostrando l’intrinseco rapporto fra dottrina e testi normativi, e dunque la funzione servile adempiuta dai concetti, destituisce questi ultimi dal rango di universalità, li relativizza, li immerge nella caducità. L’antitesi fra storia e anti-storia, tra mutevole fluire di norme e fissità di dogmi, sembrò sciogliersi nella rag­ giunta coscienza di processi legislativi, che, per loro im­ peto, andavano sconvolgendo anche le antiche e solenni strutture dei codici. Le leggi speciali ed eccezionali, da sempre note a teoria e pratica del diritto, si rivelano, sullo scorcio degli

anni Settanta, per quel che effettivamente sono. Non brevi parentesi, destinate a chiudersi con il ritorno al co­ dice; non misure d’emergenza, legate a gravità di fatti; non sviluppi di principi e criteri generali; ma un divenire ossessivo, irrispettoso di qualsiasi coerenza e vincolo siste­ matico. Il saggio su L’età della decodificazione (1978) mo­ strava perciò un duplice senso: fenomenologico, poiché de­ scriveva il movimento legislativo, e ne segnalava circo­ stanze storiche e profili teorici; metodologico, poiché ne traeva un’indicazione di lavoro, annunciando il ritorno alla mera esegesi e l’eventuale scoperta di micro-sistemi legislativi. L’indagine storica aveva posto in piena luce l’instabi­ lità dell’oggetto ed esasperato il contrasto con il metodo di una vincolante razionalità. Il rapporto doveva esser ro­ vesciato: non dal metodo all’oggetto, ma dall’oggetto al metodo. Che poi significa disponibilità a mettere in crisi qualsiasi nozione, che appaia rifiutata o modificata dalla norma; a sacrificare lasciti antichi, ormai inidonei a cogliere il senso dei testi; insomma, un’apertura problematica al nuovo, al diverso, all’inatteso. La tesi dei micro-sistemi offriva solo un’estrema speranza. 7. Il tema della decodificazione costringeva a pensare la norma come un prodotto, qualcosa che gli uomini, e soltanto gli uomini, sono in grado di fare. Il diritto usciva così da ogni splendore di verità, ed entrava nel buio tu­ multo delle volontà. Il diritto non soggiace ad alcun vin­ colo religioso o metafisico; non ha, prima di sé e sopra di sé, condizioni obbliganti; nessuna norma è interdetta, tutte le norme sono possibili. E come riuscirebbe mai il metodo, o il ceto dei giuristi, a fronteggiare la produ­ zione di norme ed a restaurare criteri di razionalità siste-

matica? Quel metodo si rivela per quel che è: il metodo, non del diritto di oggi, ma del diritto di ieri. Le norme sono fattibili dalla volontà umana, che non le trova nella natura o nelle cose, ma le chiama in vita o le respinge dalla vita. Il diritto della modernità è tutto nei processi di produzione, nei congegni alacri e operosi, che non sostano in alcuna ora del giorno, e sempre pongono o depongono norme. Due grandi figure del Novecento giuridico, Hans Kelsen e Cari Schmitt, hanno gettato luce di pensiero su questi fenomeni. La ‘decisione’ di Schmitt dice che la norma, ciascuna norma, è una scelta fra possibi­ lità, e che, nel preferire l’una all’altra, si riversano relazioni di amico a nemico, sguardi sul mondo, interessi econo­ mici. Ma il fluire continuo di decisioni, di immediate ri­ sposte alle circostanze storiche, determinerebbe il caos dell’occasionalismo (così lo denominò l’acutissimo Lo­ with), e non garantirebbe la normalità della vita. È gloria imperitura di Kelsen e della scuola viennese di aver chiuso la produzione normativa entro l’edificio a gradi (Stufenbau), riconducendo la dispersa pluralità a unità, il caos a ordine. Kelsen ci insegna che le decisioni normative attraversano vie già stabilite, e assumono le ca­ ratteristiche di procedure, cioè di previste sequenze di atti. Ecco allora emergere, con insopprimibile evidenza, il pro­ blema della forma. Il positivismo - o, se si preferisce, la ter­ rena positività delle norme - ha il sopravvento sul con­ cettualismo: sbarazzandosi di ogni tradizione, e pronta a sacrificare qualsiasi lascito teorico, la vita del diritto finisce a identificarsi con le procedure produttive. Il frammenti­ smo —una norma qua, una là, che si urtano e contraddi­ cono; norme di fonti diverse e di contenuto discorde; norme precarie, appena emanate, e sùbito o modificate o abrogate; l’ossessiva ansietà di cambiamento —, tutto un

paesaggio sconvolto e disfatto, va in cerca di un punto sta­ bile e continuo, e trova ordine nella forma del produrre. Appunto produzione procedurale, che si svolge nelle forme, e dalle forme riceve nuova e profonda razionalità. Questi problemi assumevano l’importanza biografica, di cui si può trovar traccia in Testo e contesto (1996) e negli Studi sul formalismo negoziale (1997). 8. Il ‘salvagente della forma’ (per dirla con un poeta novecentesco) viene in soccorso anche del diritto e dei giuristi. Ormai sono nudi, e gettati in deserta solitudine: decapitati i re, morti gli dèi, piegata la natura al dominio degli uomini. Forme e procedure, sciolte da qualsiasi vin­ colo e condizione, insensibili al merito dei contenuti, ga­ rantiscono la razionalità del produrre. Poiché tutti i conte­ nuti sono versabili nelle procedure (come tutti i beni nella rete degli scambi: donde il saggio del 1998 L’ordine giuridico del mercato), i congegni di produzione nulla di­ cono, né possono dire, intorno alle scelte normative e agli scopi perseguiti. La nuova razionalità sta nel regolare fun­ zionamento della macchina produttrice. Mentre il concettualismo si sovrapponeva all’oggetto, e, trascendendo la storica datità delle norme, le innalzava e nobilitava nella luce della tradizione, il moderno forma­ lismo riguarda l’oggetto e il suo proprio costituirsi. Non questa o quella norma, non l’uno o l’altro contenuto, ma le forme produttrici, indifferenti alla materia regolata ed agli scopi prescelti, e perciò esatte e precise nella loro fun­ zionalità. Il diritto perde la razionalità dei contenuti, e guadagna la pura razionalità della forma. I contenuti sono abbandonati a passioni e interessi, fedi e ideologie; ma questo caos, questo agitarsi rissoso di volontà, si compone - deve comporsi - nelle forme procedurali.

Alla verità del messaggio divino, dell’eterna natura e della ragione umana, subentra la validità della procedura. E, se pure il diritto si fa s-radicato e s-confinato (come appare in Norma e luoghi del 2001), e perciò si scioglie dalla fe­ condità terrestre del nomos, ad esso rimane la garanzia della forma. Nulla è più naturale, nulla giunge dalla tradizione, ma tutto è artificiale e costruito dalla volontà. Il valere del diritto è nel volere, che sia capace di attraversare i canali delle procedure (nomodotti) e di calarsi nelle forme della posizione giuridica. Queste forme e procedure sono l’effettiva posta nella lotta fra partiti politici e fra gruppi economici. Chi le conquista e manovra, è signore del diritto, e vi esprime la propria volontà di potenza. L’assenza di vincoli esterni, la caduta di condizioni obbliganti, l’apertura a qualsiasi scel­ ta, consegnano il diritto alle volontà più forti e risolute. Il dominio della forma è dominio del diritto. 9. Il lungo e vacillante cammino, durato circa un quarantennio, sembrava sul punto di raggiungere una provvisoria conclusione. Spenta la fede nella razionalità a-storica, richiamato il metodo entro la specifica identità dell’oggetto, quest’ultimo si rivelava come un facere pro­ priamente ed esclusivamente umano. Nulla lo trascende, lo vincola, lo condiziona. ‘Produzione’ è la terribile pa­ rola, che esprime la possibilità dell’essere e del non essere di qualsiasi norma, il venire dal nulla e il tornare nel nulla. Non c’è salvazione se non nella forma, nei conge­ gni procedurali, in cui sono immesse brute materie, e da cui escono norme costrittive di umane volontà. La forma appare come l’ultimo ed unico centro, intorno al quale può raccogliersi il mondo del diritto. Ma “manca il fine; manca la risposta al ‘perché?’”: il frammento postumo di

Nietzsche descrive la situazione e segna l’apertura al ni­ chilismo giuridico. Che non significa assenza, ma indefinita e incondi­ zionata molteplicità di scopi; non riposo della volontà, ma continuo animarsi e urtarsi, e vincere e soccombere. Il diritto, non più vincolato a una direzione, può volgersi verso ogni dove, sempre arbitrario e inatteso. Né significa anti-concettualismo, ma disponibilità, dinanzi a singoli testi, all’abbandono e alla rinascita, alla rinuncia e alla ri­ scoperta. Nessuno è in grado di prevedere il contenuto di norme future, e dunque di calcolare l’impiego di uno od altro concetto. Il giurista non è assicurato né dalla tradi­ zione né dalla continuità del ‘metodo’. io. L’itinerario sembra paradossale. La storia serve a confutare il concettualismo, che avanza pretesa di uni­ versalità, e chiede di esser applicato — appunto, come metodo —in ogni tempo e in ogni luogo. Lo storicismo, esaltando l’individualità di qualsiasi accaduto, e tutto immergendo nello sviluppo del tempo, mostra l’indefi­ nito fluire di norme e il mutevole uso dei concetti. In questa corrente affiora soltanto un punto d’appoggio: le forme procedurali, 1 dispositivi di produzione e distru­ zione. Così lo storicismo ci conduce al formalismo, all’effi­ cienza meccanica degli apparati. Anche Friedrich Meinecke indica, tra 1 fattori che tessono la tela della storia, “quello che produce il regolare, il tipico e il ricorrente nei popoli, negli Stati e nelle culture”. La storia, dopo aver demolito i piani di salvezza religiosi e terreni, si rac­ chiude per intero nella forma normativa: essa non reca né parola dell’alto, né vincoli del passato; non prescrive con­ tenuti, ma tutti accoglie nei congegni di produzione. E

non potrebbe diversamente, poiché ciascun contenuto ha, al pari di qualsiasi altro, determinatezza storica, e in questa trova la propria intrinseca razionalità. La concezione mondana del diritto —che non è chia­ mato a svolgere leggi superiori, e solo si affida all’urto delle volontà —, non conosce alcun ‘dove’ né senso unita­ rio e complessivo. Il formalismo, incapace per sua indole di offrire garanzia di senso e di additare risultati dello svi­ luppo, si rivela così nel carattere nichilistico. La tragedia dello storicismo giunge a compimento: scioltosi da pre­ supposti metafisici e religiosi, riconosciuta l’irripetibile singolarità dei fatti (onde essi non sono ordinabili in ge­ rarchie, e tenuti l’uno migliore o peggiore dell’altro), il di­ ritto si scopre come nuda volontà di potenza [alle inquie­ tudini di Carlo Antoni, volte a ritrovare dentro lo storici­ smo i ‘valori’ universali dell’uomo, è dedicato il remoto saggio su La restaurazione del diritto di natura (1959)]. il. La volontà di potenza, espressa nella determina­ zione normativa dell’altrui condotta, si misura con diversi e molteplici rivali. Se tecnica designa l’organizzata e fun­ zionale volontà di dominio (di dominio sulle cose e sugli uomini), allora il diritto è specie o forma della tecnica. Anch’esso predispone mezzi in vista di scopi; anch’esso governa e manipola il mondo esterno, cioè il mondo delle altrui volontà. A questo punto l’incontro con la fi­ losofia di Emanuele Severino appariva inevitabile [e già si preannunciava nel saggio Le ragioni delle leggi e la legge della ragione (1980)].Vi è un’interiore e ineludibile neces­ sità del pensiero. Il colloquio si apre a Catania il febbraio 2000; è pieno e disteso, l’anno successivo, nel libriccino laterziano (Dialogo su diritto e tecnica); prosegue a Venezia, e a tutt’oggi si rinnova in occasioni diverse.

La filosofia severiniana - collocando il pensiero del divenire al centro della storia occidentale, e mostrando che la tecnica è la suprema potenza di questo distruggere e produrre - risponde anche agli interrogativi più ansiosi del giurista. Il quale vede intorno a sé, ed anzi nel suo proprio oggetto di studio, soltanto nascere e morire di norme, cioè norme che erano niente prima di nascere e tornano niente dopo il morire. Questa “affermazione della nientità del non-niente” - ci dice Severino —è ni­ chilismo. La pagina del filosofo, e ciò che ne spiega il fa­ scino singolare, è sempre diagnosi del nostro tempo: non sol­ tanto impegno speculativo, ma un assiduo guardare, un’a­ cutezza di quotidiano spettatore. Il dialogo con Severino è certo alle radici di Nichili­ smo giuridico (2004), dove il problema della produzione normativa è spinto verso conseguenze estreme. Se vuote sono le stanze del cielo, se dèi e natura rimangono silen­ ziosi, allora il diritto, consegnandosi al volere umano, è un ininterrotto nascere e morire. La norma, ciascuna norma, è posta sotto il segno del nulla. Ma il diritto nota il giurista —non si dissolve nel generale dominio della tecnica, nella severiniana capacità di indefiniti scopi, poiché è, esso stesso, forma di volontà di potenza, e sta accanto o contro altre, e di tempo in tempo vince o soc­ combe. Il paesaggio storico è occupato da una pluralità di tecniche, specie o forme di quella suprema volontà che domina cose ed uomini. Il diritto è forma di volontà di potenza: unusquisque tantum juris habet, quantum potentia valet (Spinoza, Tractatus politicus, II, 8): sceglie propri scopi, impiega propri mezzi. 12. La lunga strada rivela linee più sicure. Come sem­ pre, tutto era già all’inizio. L’antitesi fra storia e anti-storia, tra mutevolezza di norme e stabilità di concetti, do-

veva prima giungere al grado più aspro, e poi sciogliersi in nuova unità. Con L’età della decodificazione (1978) si scopre qualcosa di semplice ed elementare: che l’oggetto determina il metodo; che all’oggetto di questo nostro tempo non può applicarsi il metodo di ieri, cioè il me­ todo di altro tempo e di altro oggetto. Quante volte le norme, presentandosi frammentarie e solitarie, rifiutino la pretesa del sistema, l’esegesi non rimane fase iniziale del metodo giuridico, ma combacia interamente con esso. La storia, considerando le norme come ‘creature del tempo’ (per dirla splendidamente con Dilthey), e così piegando il metodo a servizio del precario e dell’effi­ mero, tutto relativizza e immerge nella caducità. Non c’è un punto storico, che ci consenta di guardare dall’alto, di opporre un accaduto ad altri accaduti, di distinguere e giudicare. Le norme si dispongono tutte sul medesimo piano, in una sorta di piatta orizzontalità. Le norme sono misura di altrui volontà; nulla è misura delle norme. Il diritto, risolvendosi in apparato produttore di norme, solleva, unico ed esclusivo, il problema della vali­ dità procedurale: se esse siano emanate secondo le regole di funzionamento della macchina. La storia —o, meglio do­ vrebbe dirsi, la considerazione storiografica - rompe il dominio del concetto sull’oggetto, del metodo sulla ma­ teria di studio; relativizza le norme; scopre l’essenza di un formalismo produttivo, capace di ‘lavorare’ qualsiasi con­ tenuto; e giunge così al pieno e perfetto nichilismo. Il di­ ritto, ormai separato dall’ordine cosmico e dalla sapienza divina, si getta nelle braccia di volontà terrene, che lo traggono dal nulla e lo risospingono nel nulla. Legandosi alla finitezza del tempo, il diritto esperisce tutte le possi­ bilità dell’essere e del non essere. Il finissimo Pietro Piovani definì il formalismo come

‘contenutismo deluso’ e ‘giusnaturalismo capovolto’. Espressioni che bene descrivono stati d’animo e fragilità psicologiche - così, nostalgie, smarrimenti, deserto di gui­ de nell’agire, ed altri ancora —, ma che tralasciano il fon­ do del problema. Poiché nessun contenuto è interdetto o vincolante, e tutti oscillano fra essere e non essere, le for­ me procedurali appaiono quasi un punto stabile, un cen­ tro nella perdita di antichi centri. L’espressionismo inse­ gna che il caos si placa in geometria di forme. 13. Al ‘contenutismo deluso’, cioè a condizioni d’a­ nimo deboli ed erranti, si collega il giornaliero appello ai ‘valori’. La parola ha umiliato e discacciato tutte le altre, che pure manifestavano nobili attese e bisogni: ideali, vi­ sioni del mondo, progetti di società, utopie salvatrici, ane­ liti religiosi. Soltanto il valore ha valore; soltanto il valore (non si ripeteranno qui le critiche definitive di Heidegger e Schmitt) può surrogare le idee della metafisica, e con­ trapporre bene a male, assoluto a relativo, giusto a ingiusto. Ma i valori, di cui nessuno ha cura di indicarci né il ‘dove’ né i modi d’intuizione o percezione, sono, per poco che si rifletta, costruiti dalla volontà, la quale innalza un pro­ prio contenuto e lo riempie della propria energia. Così, un certo contenuto, elevato a criterio di misura, si fa giudice di altri contenuti, e li assolve o condanna secondo il grado di affinità o le alleanze del momento. “I valori e il loro variare stanno in rapporto con la crescita di potenza di chi pone i valori”: l’aforisma di Nietzsche chiarisce che il valore sorge da un atto di posizione, e che esso tanto più vale quanto più cresce in potenza chi ha deciso di stabilirlo. Il weberiano conflitto di valori non è altro dalla lotta, combattuta nella storia, fra ideologie politiche e vi­ sioni religiose e interessi economici. Ciascuno di questi

‘valori’ ha pretesa di verità ed esclusività, appunto perché interessi e ideologie e fedi, innalzati fuori dalla storia, la guardano poi dal disopra, e giudicano il conforme e il difforme, e separano chi sta da una parte e chi dall’altra. I valori (ad usare parole di Ernst Troeltsch) si rivelano co­ me formule discriminanti, armi usate per “l’annulla­ mento morale dell’avversario”. In Nichilismo giuridico, la lotta è sempre tra pari, poiché nessuna volontà può riser­ varsi superiorità di rango, e nessuna è liquidata in base ad un criterio che dall’alto tutte giudichi e misuri. 14. La normatività giuridica, questa pura possibilità di essere o non essere, questa contingentia juris, trova, accanto a sé e di fronte a sé, altre volontà, tutte tese ad affermarsi e attuarsi nel mondo delle cose e degli uomini. Gli scopi, perseguiti da colui che impone norme, si agitano in con­ flitto o in alleanza con altri scopi. Sta dinanzi la tecno-economia, il regno, s-radicato e sconfinato, del produrre e scambiare merci. Il suo oriz­ zonte è planetario, supera ogni frontiera di Stato, si espande nel ‘dovunque’ della rete telematica. Ma la nor­ ma, al fine di guidare l’azione degli uomini e di coercirne la volontà, ha bisogno di un ‘dove’ fermo e determinato. Donde il problema delle relazioni tra Norma e luoghi (2001), e la stringente ineludibilità del geo-diritto. Qui non c’è nomos, fondamento terrestre, che generi e nutrisca di­ ritto; ma mera artificialità di norme, sostenute dalla po­ tenza di uno o più Stati. Poiché questi conservano il mo­ nopolio della forza (né mostrano di volervi abdicare), non c’è accordo fra singoli, né patto fra imprese, che da ultimo non ricorra ad essi e non faccia appello alla loro protezione. Accade talvolta che gli scopi della tecno-eco­ nomia —il mai sazio desiderio di profitto —siano assunti

come scopi di una data norma, o insieme di norme; al­ lora la lotta si placa, le potenze si ricongiungono, e la po­ litica si ritrae intimidita e silenziosa. Tutto aperto è invece il conflitto con le scienze na­ turali, che, considerando il corpo dell’uomo come ele­ mento del mondo esterno, e perciò nulla di diverso da qualsiasi altro ‘fattibile’ e ‘producibile’, hanno ormai affer­ rato nel loro abbraccio il nascere e il morire. Le norme giuridiche, ferme per tradizione di secoli dinanzi al mi­ stero del venire dal nulla e del tornare nel nulla, sono in necessità di prender posizione. Il bio-diritto, la ‘giuridificazione del bios’ (2005), è al centro del nostro pensiero. Scendono in campo visioni del mondo, fedi religiose, credule speranze, attese di felicità. Il diritto non custodi­ sce la risposta; non c’è vincolante misura di lecito e ille­ cito. La sua forma è a disposizione del vincitore, cioè di quella forza che, soverchiando le altre o piegandole a pro­ prio servizio, deciderà del nostro nascere e morire. La pa­ gina precorritrice di Ernst Jiinger ha già sollevato l’inter­ rogativo: “Le leggi possono soltanto agire da barriera o scavare un letto alla corrente. Ma che cosa sono mai le leggi quando una nuova formazione proietta la sua om­ bra?”. 15. In commiato da questa ‘autobiografia minima’, leggiamo in Severino: “Perché, una volta che ci si pone nella storia —ossia nel processo di creazione e distruzione dell’essere delle cose —perché non si deve poter rivolgere l’attività produttrice-distruttrice anche al mondo delle persone, ponendole come mezzi e strumenti ordinati alla realizzazione del progetto che ha la forza di prevalere su­ gli altri ... ?”. La proposizione del filosofo - nella quale ritorna la camusiana loi de l’efficacité - dice l’essenza del

diritto: della volontà normativa, rivolta a dirigere e coercire l’altrui condotta, perseguendo scopi imprevedibili e incondizionati.Volontà libera da presupposti, poiché nulla le sta prima e di sopra (anche le costituzioni, prese nel vortice dell’essere e del non essere, si rivelano ‘creature del tempo’). Non abbiamo paura del nichilismo, della virtù libera­ trice del divenire: esso esalta la responsabilità della deci­ sione; popola il mondo di scopi e di volontà militanti; prescrive al giurista di chinarsi sull’oggetto; consuma il peso della tradizione e fa risplendere la purità della forma. Il cammino, che ebbe inizio a metà degli anni Cinquanta (cari e lievi nella memoria), non può non proseguire. Ma all’orizzonte il giurista non scorge uscite di sicurezza. Roma, 5 aprile 2006

Indice dei nomi

Allara M ., 52 A ntoni C., 59 Benjamin W , 12 Betti E., 51 Bobbio N ., 51 Cacciari M ., 32 Carnelutti E, 51 Dilthey W , 61 Epitteto di Ierapoli, 45 Fichte J.G., 28 Gentile G., 17 Goethe J.W. von, 49 Gregory T., 25 Grossi P., 53 Heidegger M ., 62 J linger E., 42, 43, 64 Kelsen H ., 16, 31, 55 Leopardi G., 26 Low ith K., 55 M einecke E, 58 Nietzsche E, 12, 58, 62 Perassi T , 24 Piovani R, 62 Poliziano A., 45 R athenauW ., 15 Savigny F.C. von, 50

Scarpelli U., 52 Schmitt C , 15, 19, 30, 50, 55, 62 Severino E., 40, 59, 60, 64 Spinoza B., l i, 60 Troeltsch E., 63 Valéry P , 38 W eber M ., 15 Zanini R, 27