Il diritto della paura. Oltre il principio di precauzione 8815138838, 9788815138835

A fronte del crescente clima di paura e delle sempre più frequenti domande sociali di protezione, i governi dei paesi oc

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Il diritto della paura. Oltre il principio di precauzione
 8815138838, 9788815138835

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Il diritto della paura Oltre il principio di precauzione

a Richard Thaler

I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull’insieme delle attività della Società editrice il M ulino possono consultare il sito Internet: www.mulino.it

ISB N

978-88-15-13883-5

Edizione originale: Law s o f Fear. Beyond thè Precautionary Pnnciple, Cam­ bridge, Cambridge University Press, 2005. Copyright © 2005 by Cass R. Sunstein. Copyright © 2010 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tradu­ zione di Umberto Izzo. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qual­ siasi forma o mezzo - elettronico, meccanico, reprografico, digitale - se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d ’Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.m ulino.it/edizioni/fotocopie

INDICE

Prefazione all’edizione italiana Introduzione

p.

7 11

PARTE PRIMA: I PROBLEMI

I.

Precauzioni e paralisi

25

II.

Oltre il principio di precauzione

53

III.

G li scenari peggiori

91

IV.

L a paura come un incendio che divampa

125

PARTE SECONDA: LE SOLUZIONI

V.

Riformulare il principio di precauzione e gestire la paura

151

VI.

Costi e benefici

177

VII.

Democrazia, diritti e ridistribuzione

203

VIII. Il paternalismo libertario

237

IX.

Paura e libertà

275

Conclusioni. Paura e follia

301

Indice dei nomi

309

PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA

ATTEN ZIO N E: LE PRECAUZIONI PO TREBBERO N U O CERE ALLA TUA SALUTE!

Sono molto onorato dalla pubblicazione dell’edizione italiana del Diritto della paura. I problemi posti dalle paure collettive e dal principio di precauzione si dimostrano universali nell’espe­ rienza umana. Certo, ogni decennio vede apparire problemi mai affrontati prima e ciascun paese ha le sue preoccupazioni. E tuttavia degno di nota il fatto che le questioni di fondo si rivelino trasversali rispetto al variare del tempo e dei luoghi. Da quando II diritto della paura è stato scritto, nel dibattito pubblico di molti paesi due argomenti hanno tenuto banco: la guerra in Iraq e il cambiamento climatico. A lungo scettica sul principio di precauzione, l’amministrazione Bush ha giustificato la guerra in Iraq facendo leva su quel principio. Il presidente Bush non ha certo potuto sostenere che gli Stati Uniti «sapes­ sero» che Saddam Hussein possedeva armi di distruzione di massa. Tuttavia ha potuto sostenere che gli Stati Uniti «avessero ragione di ritenere» che Saddam Hussein aveva, o presto avrebbe avuto a disposizione, queste armi, e che la guerra si giustificava come una misura precauzionale. Assistiamo qui alla nascita di una nuova idea che si presta a giustificare molte pratiche che nuove non sono: l’idea di una guerra precauzionale. Esattamente nello stesso periodo, in molti hanno invocato a gran voce l’adozione di misure aggressive per porre sotto controllo il cambiamento climatico. Costoro hanno sostenuto che è necessario ridurre immediatamente in modo significativo le emissioni di gas inquinanti, e non necessariamente perché «sappiamo» che il cambiamento climatico si rivelerà catastrofico, ma perché «abbiamo ragione di ritenere» che si verificheranno danni gravi e potenzialmente catastrofici. E vero, oggi è assodato che il mondo dovrebbe adottare misure per ridurre le emissioni di gas inquinanti; nessuno può seriamente mettere in dubbio questa affermazione. Ma, nel contesto del cambiamento climati/

co, quanti invocano il principio di precauzione sostengono che per evitare il rischio di una catastrofe dobbiamo agire in modo molto aggressivo, e dobbiamo cominciare a farlo subito. Non è difficile individuare i problemi che l’idea di una guerra precauzionale reca con sé. Le guerre fanno molti morti. Gli effetti di una guerra sono imprevedibili; l’esito finale può rivelarsi peggiore di quello atteso e, se anche si rivelasse buo­ no, la probabilità di guerre future potrebbe aumentare a causa della guerra combattuta oggi. Se il mondo fosse preoccupato per i rischi posti da un dato paese (l’Iraq oggi; l’Iran o la Co­ rea del Nord domani?), e intendesse adottare precauzioni nei confronti di questo paese, l’idea di una guerra precauzionale ci metterebbe in difficoltà per una semplice ragione: a pericoli e a potenziali catastrofi siamo sempre esposti, che si scelga o meno di fare la guerra. Questa conclusione non significa che le guerre non vadano combattute se si tratta di contrastare minacce incombenti. Non significa che i pubblici decisori avveduti non debbano guar­ dare tutti gli aspetti del problema sotteso alla loro decisione. Costoro, infatti, devono chiedersi cosa si può guadagnare e cosa si può perdere sia nel caso in cui si agisca sia nel caso in cui non si faccia nulla, valutando altresì tutte le conseguenze legate all’assumere una qualsiasi posizione intermedia fra l’azione e l’inazione. Una guerra precauzionale può rivelarsi inaccettabilmente pericolosa. A prima vista il problema del cambiamento climatico sembre­ rebbe radicalmente diverso, e nel libro ho sostenuto che sarebbe del tutto sensato che il mondo raggiunga un accordo per ridurre le emissioni di gas inquinanti. Ma anche qui i rischi stanno su entrambi i corni del dilemma decisionale: che si faccia o non si faccia nulla, una guerra precauzionale al cambiamento climatico comporterebbe i suoi pericoli. Il punto chiave è che se oggi tutte le nazioni imponessero restrizioni aggressive all’emissione di gas inquinanti il costo dell’energia rincarerebbe in modo drammatico, la crescita economica subirebbe un deciso stop e il numero delle persone povere o disoccupate aumenterebbe notevolmente. La povertà e la disoccupazione non fanno bene alla salute, perciò una conseguenza possibile dell’adozione di una politica parti­ colarmente aggressiva nei confronti del cambiamento climatico sarebbe quella di determinare molti decessi. 8

Si considerino alcuni fatti che oggi non possono più essere messi in discussione. La Cina è nel mondo il paese che emette la maggiore quantità di gas inquinanti, e se la tendenza attuale continuerà le emissioni cinesi presto sopravanzeranno (e non di poco) quelle degli Stati Uniti e quelle dell’Unione Europea. Se la Cina (assieme al resto dei paesi in via di sviluppo) non è vincolata quale parte di un accordo internazionale per la riduzione delle emissioni dei gas inquinanti, è probabile che qualsiasi restrizione prevista in questo accordo abbia scarsi effetti sul cambiamento climatico. Ma la terra di mezzo si sta rifiutando di accettare limiti internazionali alle emissioni di gas, e le ragioni sono chiare: la Cina è un paese povero che ha come priorità la crescita economica e ha paura che restrizioni severe alla possibilità di emettere gas inquinanti rechino danni assai gravi alla propria popolazione. Con riferimento ai gas inquinanti, la Cina pensa che il principio di precauzione sia pericoloso, perché imporrebbe sacrifici concreti a cittadini che sono già in difficoltà. Non intendo sostenere che la Cina faccia bene a rifiutarsi di accettare un accordo sulla limitazione delle emissioni dei gas inquinanti. Un accordo su scala mondiale sarebbe certa­ mente nell’interesse del mondo intero. Sostengo piuttosto che, per sapere cosa fare, dobbiamo misurare gli esiti potenziali e le loro probabilità di verificazione, e ciò sia con riferimento alla scelta di agire, sia a quella di non agire, come pure con riguardo a qualsiasi condotta che si collochi fra questi estre­ mi decisionali. E del tutto sensato che la Cina si renda conto che, se l’emissione di gas inquinanti genera rischi, sottoporre a controllo questo fenomeno determina altri rischi, ed è sem­ plicemente troppo ottimistico pensare che si possano risolvere i problemi legati al cambiamento climatico senza spendere un sacco di soldi. Come nel caso della guerra precauzionale, così per la guerra precauzionale contro il cambiamento climatico: sia gli individui sia le nazioni devono poter allargare il loro campo visuale e mettere a fuoco tutti gli aspetti della situazione, senza concentrarsi soltanto su uno. Si dice spesso che la gente è «accecata dalla paura». Molte pagine di questo libro sono dedicate a indagare come la paura comprometta in modo decisivo la nostra capacità di vedere. Quando abbiamo paura di un esito orribile, spesso ci fissiamo su 9

quanto sia orribile quell’esito senza chiederci quali probabilità abbia di verificarsi. Quando un evento negativo si è verificato in un recente passato è facile che si esagerino le probabilità che quell’evento (o qualcosa di simile) si verifichi nuovamente. Accade spesso che un rischio mai sperimentato prima ci faccia paura, anche se, alla prova dei fatti, rischi che ci sono fami­ liari possono rivelarsi assai peggiori. Quando le precauzioni si dimostrano pericolose ciò di solito accade perché ci fissiamo a tal punto su un dato rischio che dimentichiamo di prestare attenzione ai rischi generati dalle precauzioni che adottiamo. Certo, si tratta di stare attenti, ma abbiamo comunque un’opportunità straordinaria ed esaltante. Nelle nostre esistenze quotidiane, nelle nostre famiglie, nelle nostre attività lavorati­ ve, nei nostri paesi possiamo fare molto per ridurre i pericoli complessivi, in modo da rendere le nostre esistenze migliori e più longeve. C a s s R . S u n s t e in

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IN TRO D U ZIO N E

Questo libro parla «di paura, democrazia, razionalità e diritto. A volte le persone hanno paura quando non dovrebbero, altre volte non ne hanno quando invece farebbero bene ad averne. Nei paesi democratici il diritto risponde alle paure della gente. Ciò fa sì che il diritto possa essere sospinto in direzioni sbagliate 0 addirittura pericolose. I temi trattati in questo volume attra­ versano innumerevoli problemi rilevanti, fra cui il riscaldamento globale, l’ingegneria genetica, l’energia nucleare, la biodiversità, 1 pesticidi, le trasfusioni di sangue, la sicurezza alimentare, la clonazione, le sostanze chimiche tossiche, il crimine e perfino il terrorismo e gli sforzi per combatterlo. Il «panico del rischio» gioca un ruolo determinante all’interno di gruppi sociali, città e persino nazioni.

1. Deliberazione e teoria In che modo un governo democratico dovrebbe rispondere alle paure della collettività? Che legame corre fra la paura e il binomio diritto/politiche pubbliche? Credo che questi inter­ rogativi possano essere correttamente affrontati tenendo ferme due idee di portata generale. La prima: i governi che funzionano bene aspirano a essere democrazie deliberative , che rispondono agli elettori e tengono periodicamente elezioni, facendo sì che i pubblici amministra­ tori prestino grande attenzione alle esigenze della collettività. In quest’ottica, rispondere alle paure collettive è una reazione tanto inevitabile quanto positiva. Ma questa risposta va coniugata con l’impegno a deliberare in modo ragionato e argomentato. Se la gente ha paura di un rischio trascurabile, una democrazia deliberativa non può semplicisticamente rispondere precipitan-

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dosi a contrastare quel rischio. Essa, invece, impiega le proprie istituzioni per dissipare la paura della collettività, che (in ipotesi) appaia destituita di fondamento. Perciò le democrazie deliberative evitano la tentazione, tipica dei regimi populisti, di inseguire in modo cieco le paure della collettività quando queste si rivelano prive di consistenza, preferendo impiegare i propri meccanismi istituzionali per filtrare le paure collettive. Gli stessi meccanismi entrano in gioco se le persone mostrano di non aver paura di un rischio che invece si mostra fondato. Quando ciò accade, una democrazia deliberativa agisce, che la collettività lo chieda o meno. In questa prospettiva, un sistema democratico ben fun­ zionante fa affidamento sulla scienza e sulla parola degli esperti, rifiutando di seguire un populismo d’accatto. Naturalmente, la scienza può essere incapace di fornire risposte e gli esperti pos­ sono sbagliare. Naturalmente, i valori della collettività devono alla fine essere in grado di giocare un ruolo rilevante. Forse la collettività teme in modo particolare i rischi che gravano su aree già povere; forse i cittadini sono particolarmente preoccupati per i rischi che appaiono catastrofici e incontrollabili. In una democrazia, i valori riflessivi della gente prevalgono. Ma sono i valori, e non gli errori sui fatti, a essere cruciali. La mia seconda idea è che le democrazie ben funzionanti spesso si sforzano di raggiungere accordi teorizzati in modo incompleto1. Specialmente quando queste democrazie sono eterogenee, esse tentano di risolvere i conflitti sociali ricer­ cando il consenso non su teorie generalissime intorno a ciò che è giusto o è bene fare, ma intorno a pratiche e principi concreti su cui persone che hanno opinioni diverse hanno la possibilità di convergere. I cittadini delle società libere sono in disaccordo sui temi di fondo. Lo sono sull’esistenza di Dio, sulla relazione fra libertà e uguaglianza, sul ruolo dell’utilità e dell’efficienza, sulla reale natura del valore della ragionevolezza. Di fronte a queste visioni contrastanti, la miglior cosa da fare è evitare che la nazione si occupi di un tema altamente contro­ verso, per cercare soluzioni tali da permettere a persone che la pensano in modo diverso di riuscire a trovare un accordo. In una battuta: le società ben funzionanti fanno in modo che ’ Promuovo e sviluppo questa idea in C.R. Sunstein, Legai Reasoning and Politicai Conflict, New York, Oxford University Press, 1996.

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la collettività raggiunga un accordo quando esso è necessario; invece, quando raggiungere un accordo appare impossibile, fanno sì che l’accordo non appaia necessario. Questo concetto è assai rilevante per rispondere al problema di come gestire le paure della collettività. A volte si ritiene che il problema imponga al governo di rispondere a interrogativi attinenti alla sua missione fondamentale, per esempio ragionare in modo più approfondito sulla natura e sul significato della vita umana. Quando la collettività è divisa sul modo in cui affrontare i rischi legati al cibo geneticamente modificato, o al terrorismo, o ai pesticidi, o al riscaldamento globale, ciò accade sia perché si registrano differenze in merito ai fatti sottesi a questi rischi, ma anche perché fra le persone esistono differenze che attengono a questioni fondamentali. Per quanto possibile, la mia idea è che si debba cercare di eludere quest’ultimo tipo di differenze. Le de­ mocrazie deliberative funzionano meglio se evitano di confrontarsi con i temi di fondo e tentano di ottenere consenso da individui che sono in disaccordo o sono insicuri su come risolvere i temi di fondo. Credo che con riguardo alla paura sia spesso possibile ottenere esattamente questo tipo di consenso. Ma cos’è la paura? Nel corso del libro assumo che la paura dipenda da un certo tipo di valutazione che ci porta a con­ cludere che siamo in pericolo2. Qualcuno può aver paura di passare molte ore al sole solo perché ritiene che, così facendo, si esporrebbe al rischio di sviluppare un tumore alla pelle. Altri hanno paura di stringere la mano a una persona affetta da Aids, convinti che stringere una mano determini un rischio di contagio. Altri ancora sono terrorizzati dalla prospettiva del riscaldamento globale, persuasi che da esso promani un rischio grave per tutta l’umanità. Naturalmente, le credenze che ali­ mentano la paura possono, o non, essere giustificate. Possedere un certo tipo di inclinazioni è una conditio sine qua non della paura? Molti ritengono che, senza una percezione di un certo tipo, la gente non possa avere paura davvero: forse la paura umana non esiste se mancano reazioni fisiologiche identificabili. Si conviene che il cervello abbia una regione caratteristica, l’amigdala, 2 Si veda M.C. Nussbaum, Upheavals of Thought, New York, Cambridge University Press, 2002; trad. it. L'intelligenza delle emozioni, Bologna, Il Mulino, 2004.

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che governa certe emozioni e che è particolarmente importante per la sensazione della paura3. Queste reazioni fisiologiche e le zone del cervello ove avvengono permettono di rispondere assai rapidamente ai pericoli, in un modo che, mentre aumenta le nostre chance di sopravvivenza, può però indurci a nutrire pau­ re eccessive rispetto a pericoli improbabili. Ovviamente queste risposte rapide danno vantaggi evolutivi. Tali assunti si riveleranno molto importanti nello svolgi­ mento di alcune delle argomentazioni che intendo avanzare in questo libro, specie quelle che riguardano la tendenza dell’uomo a trascurare le probabilità di verificazione di eventi negativi. Ma per gran parte di esse, tali assunti di partenza possono essere accettati senza che ciò implichi sposare una concezione particolarmente controversa di ciò che la paura rappresenta davvero. 2.

P recauzion i e razionalità

Il mio punto di partenza è il «principio di precauzione», che in Europa identifica ormai un punto di partenza obbligato per ragionare sulla salute, sulla sicurezza e sull’ambiente. Il principio di precauzione sta ricevendo una considerazione crescente a livello mondiale, essendo ormai assurto a protagonista di innumerevoli dibattiti internazionali su come riflettere in tema di rischi, salute e ambiente. Il principio ha assunto un ruolo persino nella riflessione sulle strategie volte a gestire il terrorismo, sulla «guerra preventi­ va» e sul rapporto fra sicurezza e libertà. Nel difendere le ragioni della guerra in Iraq del 2003, il presidente George W. Bush ha invocato una specie di principio di precauzione, sostenendo che di fronte all’incertezza l’azione militare fosse giustificata: «Se aspettiamo che i rischi si materializzino appieno, avremo aspet­ tato troppo a lungo»4. In un’altra occasione egli ha affermato: 5 Si veda J.E. LeDoux, The EmotionalBrain, New York, Simon & Schuster, 1996; trad. it. Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2003. 4 Si veda Complete Text of Bush’s West Point Address (3 giugno 2002), www.newsmax.com/archives/articles/2002/6/2/81354.shtml (i riferimenti ai siti Internet sono stati mantenuti come appaiono nell’edizione originale e come l’autore li aveva verificati nel 2004 prima di licenziare l’opera, N.d.T.).

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«Ritengo essenziale che, quando si avverte una minaccia, ci si occupi di questa minaccia prima che essa diventi imminente»5. Ciò che colpisce è che questo modo di pensare in sostanza non è dissimile da quello seguito dagli ambientalisti preoccupati dal riscaldamento globale, dal cibo geneticamente modificato e dai pesticidi. Rispetto a questi problemi, sono in molti a ritenere che di fronte all’incertezza sia appropriato agire, intervenendo sul piano regolamentare, piuttosto che rimanere inerti. H principio di precauzione assume molte vesti. In ciascuna di esse, l’idea sottostante è che chi stabilisce le regole debba adottare qualche misura per neutralizzare danni potenziali, anche se i meccanismi causali appaiono poco chiari e anche se non è possibile sapere se i danni si verificheranno per davvero. Il principio di precauzione merita una particolare attenzione per due ragioni. Anzitutto, esso identifica il punto di partenza di dibattiti assai concreti sulle no­ zioni di pericolo, paura e sicurezza. In secondo luogo, il principio di precauzione solleva una serie di affascinanti interrogativi teorici sul modo di formulare le decisioni a livello individuale e collet­ tivo in contesti di rischio e incertezza. Per quest’ultima ragione il principio è intimamente connesso ai dibattiti contemporanei sulla paura e sulla razionalità, e più precisamente sull’idea che gli individui e le società seguano, o dovrebbero seguire, modelli di comportamento razionale. La mia prima tesi è che nella sua forma più rigorosa il principio di precauzione sia letteralmente incoerente, e per una ragione precisa: i rischi sono ovunque, quale che sia il contesto sociale preso in considerazione. Si tratta perciò di un principio paralizzante, poiché vieta di attuare le stesse misure che esso consiglia di adottare. Poiché i rischi sono dappertutto, il principio di precauzione vieta non solo di agire prontamente o di rimanere totalmente inerti, ma anche qualsiasi posizione intermedia che si intenda assumere rispetto a questi due atteggiamenti estremi. Si pensi a cosa dovrebbero fare le società di fronte ai problemi dell’ingegneria genetica, dell’energia nucleare e del terrorismo. Il principio di precauzione sembra imporre misure aggressive, concepite per tenere sotto controllo i rischi che promanano da queste attività. Ma, una volta adottate, queste misure si porreb5 Si veda R. Eggleston, Bush Defends War (9 febbraio 2004), www. globalsecurity.org/wmd/library/news/iraq/2004/02/iraq-040209-rferl01.htm.

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bere in contraddizione col principio, perché ciascuna di esse creerebbe di per sé nuovi rischi sociali e individuali. Ne consegue che molte persone, descritte come «avverse al rischio», in realtà non lo sono affatto. Si tratta piuttosto di persone sensibili ad alcuni particolari rischi, e non ai rischi in genere. Chi ha paura del rischio di volare potrebbe benissimo trascurare il rischio di guidare. Chi evita i rischi iatrogeni associati alle cure mediche probabilmente trascura i rischi legati alla scelta di lasciare che la natura compia il suo corso; chi ha paura dei rischi connessi ai pesticidi è probabile che mostri indifferenza per i rischi recati dal cibo organico. Perché allora molti sono convinti che il principio di precau­ zione possa indicare la strada da seguire? Ritengo che il princi­ pio diventi operativo e dia l’illusione di offrire una guida solo perché la capacità cognitiva dell’uomo possiede alcune specifiche caratteristiche. Gli esseri umani, le culture e le nazioni sovente individuano uno o alcuni rischi sociali considerati «salienti», per ignorarne altri. Fondamentale in tal senso è la cosiddetta euristica della di­ sponibilità, un fondamentale fenomeno cognitivo grazie al quale la gente compie la valutazione dei rischi. Quando manca una conoscenza statistica, le persone considerano rilevante un rischio, se è possibile che vengano alla mente situazioni in cui quel rischio diventa significativo. La percezione del rischio individuale e per­ sino culturale può in parte essere spiegata in questo modo. Ne consegue che, mentre non può esistere un principio di precauzione di portata generale, specifici, «piccoli», principi di precauzione, che ampliano i margini di sicurezza con riferimento ad alcuni rischi, possono operare e in effetti sono all’opera in molte società. Come intendo dimostrare, il principio di precauzione potrebbe essere riformulato a guisa di principio anticatastrofe, concepito per essere applicato in speciali frangenti, quando non è possibile assegnare probabilità a rischi potenzialmente catastrofici. 3. Struttura del libro Questo libro è diviso in due parti: la prima riguarda i proble­ mi che si pongono con riferimento ai giudizi individuali e sociali rispetto al rischio; la seconda è dedicata all’identificazione delle 16

soluzioni che possono essere date a questi problemi. I capitoli I e II approfondiscono le tesi che ho appena riassunto in questa introduzione. I capitoli III e IV ampliano le argomentazioni di tipo culturale e cognitivo cui ho accennato, in una duplice direzione, anzitutto esplorando la tendenza umana a immaginare gli scenari peggiori e poi cercando di comprendere le influenze sociali sul comportamento e sulle credenze dell’uomo. Il punto di partenza del capitolo III è che un incidente ammantato di salienza può instillare nella gente più paura di quanto la realtà delle cose giustificherebbe. Eventi mediatici (un attacco terroristico, un episodio di contagio del morbo della mucca pazza, un’apparente concentrazione di casi di leucemia in un’area ove si registra un’intensa presenza di antenne per telefoni cellulari) possono indurre la gente a credere che il rischio sia molto più grande di quanto non sia in realtà. Ma la parte più ampia del mio discorso verterà sul probability neglect, un fenomeno cognitivo che induce le persone a concentrare l’attenzione sugli scenari peggiori, senza considerare adegua­ tamente le probabilità che lo scenario peggiore possa davvero inverarsi. Specialmente quando le emozioni sono messe in gioco intensamente, gli scenari peggiori tendono a mettere in secondo piano le analisi sulle dimensioni reali del rischio. Il capitolo IV illustra come la paura sia un fenomeno so­ ciale che si manifesta attraverso interazioni sociali. Per questo motivo, nel contesto di un’analisi della paura, mi soffermo sulle dinamiche sottese a due fenomeni: quello delle «cascate sociali» e quello della «polarizzazione di gruppo». Attraverso il primo, la gente presta attenzione alle paure determinate da altri, in un modo che può determinare il diffondersi assai rapido della convinzione, magari non rispondente al vero, che un rischio sia piuttosto serio (oppure, e la cosa è ugualmente negativa, che non lo sia affatto). Come molte altre emozioni, la paura può essere contagiosa e le «cascate» aiutano a spiegare perché. Attraverso la polarizzazione di gruppo le interazioni sociali inducono gli individui raccolti in un gruppo a essere più sensibili alla paura di quanto non lo siano se considerati singolarmente. È ormai assodato che quanti fanno parte di un gruppo che delibera in merito a un dato problema spesso finiscono per assumere posizioni più estreme di quelle che sostenevano prima che la deliberazione cominciasse. E per 17

questo motivo che i gruppi possono dimostrare di avere più paura di quanta ne avessero i singoli componenti del gruppo prima della deliberazione. La comprensione delle cascate sociali e della polarizzazione di gruppo aiuta a mettere a nudo l’idea assai discussa del «panico morale». Infatti, le paure sociali a cui sto alludendo finiscono sovente per identificarsi con il panico morale; e quando il panico morale prende piede, spesso finisce per intervenire un principio di precauzione. La seconda parte del volume descrive alcune soluzioni applicabili ai problemi determinati da una paura collettiva mal riposta. Il capitolo V trae alcune indicazioni di carattere positivo dalla sfida lanciata al principio di precauzione. In esso abbozzo i caratteri di un principio anticatastrofe espressamente concepito per gestire situazioni di incertezza e di grave danno potenziale. Fuori dal contesto catastrofale, esploro inoltre la rilevanza dell’irreversibilità, sottolineando la necessità di adottare margini di sicurezza individuati sulla base di una considerazione ampia e non circoscritta della posta in gioco. Mi occupo inoltre di analizzare in che modo le istituzioni pubbliche debbano gestire la paura. I capitoli VI e VII approfondiscono gli impieghi e i limiti dell’analisi costi-benefici. Ritengo che il confronto fra costi e benefici abbia un vantaggio significativo sul principio di precau­ zione, in quanto, rispetto a quest’ultimo, l’impiego dell’analisi costi-benefici permette di allargare il campo di osservazione attraverso cui valutare i rischi. L’analisi costi-benefici deve però fare i conti con un pro­ blema non secondario: se intesa in un certo modo, essa può indurre a trascurare i pericoli che non abbiano una consistenza verificata con sufficienti margini di certezza. Ne consegue che un’analisi costi-benefici sensata deve tener conto dei danni anche solo speculativi, senza limitarsi a considerare i soli danni che possono essere oggetto di prova. Ma come trasformare i rischi nel loro equivalente pecuniario? Come può essere sensato ritenere che un rischio di decesso pari ad 1/100.000 valga 50 dollari, piuttosto che il doppio o la metà di questa somma? Uno degli obiettivi più importanti che perseguo nel discutere questo problema è ripercorrere le fondamenta teoriche dell’analisi costi-benefici, così come oggi è praticata, per dimostrare che assegnare un valore monetario ai rischi è un’operazione molto 18

più sensata e intuitiva di quanto possa sembrare a prima vista. Ma, nel far ciò, evidenzio come le pratiche oggi correnti scontino un grave problema, poiché impiegano un valore uniforme per rischi statisticamente equivalenti, anche se la stessa teoria che informa il modo in cui l ’analisi costi-benefici è oggi praticata imporrebbe in realtà di tener conto di uno spettro di valori più ampio. Q uesto perché la gente non risulta indifferente alle distinzioni qualitative tra i rischi; anche quando i rischi sul piano statistico appaiono equivalenti, essi non sono valutati dalle persone allo stesso modo. Il capitolo VII analizza questioni ancor più importanti che attengono all’analisi costi-benefici. L a mia tesi è che in certi casi sia necessaria una deliberazione democratica su cosa si deve fare piuttosto che un’aggregazione di costi e benefici, e questo assunto solleva gravi dubbi sulla tenuta dell’analisi costi­ benefici in determinati contesti. Ritengo anche che, nel decidere cosa fare, i regolatori debbano focalizzare la loro attenzione su chi viene aiutato e chi viene danneggiato, un problem a su cui l’analisi costi-benefici non può dirci nulla. Ma tali considera­ zioni non devono essere lette in modo tale da concludere che questo metodo di analisi debba essere scartato. Esse piuttosto richiamano la nostra attenzione sul fatto che la valutazione dei costi e dei benefici ci dice molto meno di quanto noi abbiam o bisogno di sapere. Il capitolo V ili mette in luce i casi nei quali la gente omette stupidamente di adottare precauzioni. Piuttosto che un eccesso di paura, in questo caso il problema è una paura insufficiente. Una possibile risposta è il «paternalismo libertario», ovvero un approccio che indirizza le persone in direzioni che ne promuovono il benessere senza sacrificare la loro libertà di scelta. Sul piano teorico, l’assunto dal quale muove questa idea è che spesso la gente mostra di non avere preferenze stabili o ben strutturate. Sul piano empirico, l’idea muove dall’assunto che è possibile essere libertari (nel senso di rispettare le scelte personali) e nel contempo accettare il paternalismo (attraverso approcci che indirizzino le persone verso direzioni capaci di incrementare il loro benessere). Q uando le paure spingono gli individui in direzioni sbagliate, il paternalismo libertario può rappresentare un valido correttivo. Il capitolo IX mette a fuoco il rapporto fra paura e libertà.

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Di fronte al terrorismo e alle minacce alla sicurezza nazionale, limitare le libertà civili può diventare una reazione probabile, specialmente quando la maggioranza che approva queste restri­ zioni non è chiamata a sopportarne il costo. Invero una sorta di principio di precauzione è spesso richiamato per giustificare limitazioni della libertà che appaiono indifendibili. La mia tesi è che le corti possono ridurre i rischi determinati dall’eccesso di paura in tre modi. Il primo e più importante di essi è che le corti devono chiedere un’esplicita autorizzazione legislativa per legittimare qualsiasi restrizione della libertà, senza che queste limitazioni siano legittimate solo perché l’esecutivo guarda a esse con favore. In secondo luogo, le corti dovrebbero sottoporre a uno scrutinio particolarmente severo quelle restrizioni delle libertà che determinano vantaggi e svantaggi in modo asimme­ trico, imponendo pesi che gravano solo su gruppi di individui facilmente identificabili invece che sulla collettività nel suo complesso. In terzo luogo, le corti dovrebbero adottare regole o presunzioni che riflettano ciò che potrebbe essere definito un «bilanciamento di secondo livello», concepito per correggere il rischio di errore che accompagna il bilanciamento specifico.

4 . Approcci e strategie In questo libro non intendo pervenire a conclusioni defi­ nitive sul modo di gestire specifici pericoli. Naturalmente ho la mia opinione su molti di essi. Credo, per esempio, che i campi elettromagnetici pongano rischi di minore importanza, e che sul punto la gente si sia dimostrata molto più propensa alla paura di quanto appaia giustificato alla luce delle evidenze scientifiche disponibili. Al contrario, le nazioni del mondo dovrebbero assumere misure molto più aggressive per ridurre il consumo di tabacco, che determina milioni di decessi pre­ venibili ogni anno (di cui quasi mezzo milione di morti nei soli Stati Uniti). Molto più di quanto si faccia, specialmente nei paesi poveri, dovrebbe essere fatto per controllare la diffusione dell’Hiv/Aids. Credo anche che dovrebbero essere adottate misure significative per affrontare il problema del riscaldamento globale, motivo per cui l’atteggiamento antinterventista assunto daH’ammini­ 20

strazione Bush in materia è da considerarsi più che infelice. Il riscaldamento globale minaccia di determinare rischi assai gravi e i paesi ricchi hanno un particolare obbligo di ridurre questi rischi, sia perché ne sono largamente responsabili, sia perché sono i soli che possono allocare risorse per far fronte al problema. Grande attenzione dovrebbe essere prestata alle promesse legate all’impiego di fonti di energia alternative, che pongono rischi minori di quelli associati all’energia nucleare o ai combustibili fossili. Un rischio sociale significativo e troppo spesso trascurato è associato all’esposizione solare, che determina il tumore alla pelle, un fatto che non è ancora riuscito a modi­ ficare il comportamento della gente in misura sufficiente. In termini di orientamento generale ritengo che non abbia alcun senso opporsi in linea di principio alla regolamentazione pubblica, oppure sostenere che la deregolamentazione costituisca una risposta appropriata al problema dell’eccesso di paura nella collettività. Naturalmente un eccesso di regolamentazione può essere riscontrato in molti campi, ma anche una regolamen­ tazione insufficiente rappresenta un problema assai grave. In molti settori la regolamentazione pubblica appare indispensa­ bile, specialmente nel contesto della salute, della sicurezza e in quello ambientale. Niente di ciò che viene detto in questo libro dovrebbe essere inteso per sostenere il contrario. Credo anche che nel compiere le scelte regolative una valutazione dei costi e benefici sia inevitabile. Per tanti pro­ blemi, una forma di analisi di questo tipo è molto più utile del principio di precauzione. Ciò detto, non credo che l’efficienza economica debba costituire l’unico paradigma da seguire nel conformare le decisioni regolative. Anzi, farlo mi sembrerebbe un’idea assurda. L’efficienza economica cerca di soddisfare le preferenze che la gente manifesta misurando la disponibilità a pagare, e questa non è una base sufficiente per orientare il diritto e le politiche regolative. A volte i problemi regolativi impongono di rivalutare le preferenze delle persone, evitando di procedere a una loro mera aggregazione, senza contare che i problemi distributivi finiscono per avere un peso assai rile­ vante. In ogni caso, nel libro sottopongo a critica l’idea della «disponibilità a pagare» ( Willingness to Pay, da qui in avanti Wtp), che rappresenta un assioma dell’analisi economica dei problemi regolativi. Se le persone che dispongono di un basso

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reddito sono incapaci di (e perciò non sono disponibili a) pagare qualcosa per ridurre un rischio, non ne consegue autom aticamente che le istituzioni pubbliche e private debban o rifiutarsi di intervenire. Misure speciali dovrebbero essere adottate p er venire incontro alle esigenze delle persone che si trovano in un particolare stato di bisogno. Tutti questi argom enti avran­ no spazio nella discussione che faremo nelle prossim e pagine. Cominciamo con il problema della precauzione.

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PARTE PRIMA

I PROBLEMI

CAPITOLO PRIMO

PRECAUZIONI E PARALISI

Ovunque nel mondo si registra un interesse crescente nei confronti di un’idea semplice per gestire il rischio: in caso di dubbio, segui il principio di precauzione1. Evita di prendere decisioni che possono implicare il rischio di danni. Finché la sicurezza non è raggiunta, sii cauto e non attendere che si rendano disponibili prove certe in merito alla consistenza dei rischi prima di agire in precauzione. In una battuta: meglio sicuri che dispiaciuti. Nella vita di ogni giorno moniti di questo tipo appaiono assolutamente sensati, perché sembrano appartenere alla razionalità quotidiana dell’uomo. La gente acquista allarmi antincendio e polizze assicurative. Indossa cinture di sicurezza e caschi per moto, anche se mol­ to probabilmente non sarà coinvolta in un incidente. Perché mai un regolatore razionale non dovrebbe seguire lo stesso approccio? Molti, specialmente in Europa, la pensano così. E ormai comune affermare, circa la gestione sociale dei rischi, che Eu­ ropa e Stati Uniti si differenziano sulla base di un solo tratto distintivo: l’Europa rispetta il principio di precauzione, gli Stati 1 La letteratura in proposito è assai vasta. Si vedano per un inquadra­ mento generale P. Harremoès, D. Gee, M. MacGarvin, A. Stirling, J. Keys, B. Wynne e S. Guedes Vaz (a cura di), The Precautionary Principle in thè 20tb Century. Late Lessons from Early Warnings, London, Earthscan, 2002; A. Trouwborst, Evolution and Status of thè Precautionary Principle, The Hague, Kluwer Law International, 2002; T. O’Riordan e J. Cameron, Interpreting thè Precautionary Principle, London, Cameron May, 2002; J. Tickner (a cura di), Environmental Science and Preventive Public Policy, Washington, Island Press, 2002; C. Raffensperger e J. Tickner (a cura di), Protecting Public Policy and thè Environment. Implementing thè Precautionary Principle, Washington, Island Press, 1999. Un’utile analisi dei problemi che il principio di precauzione incontra in Europa è in G. Majone, What Price Safety? The Precautionary Principle and Its Policy Implications, in «Journal of Common Market Studies», 40, 2002, p. 89.

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Uniti no: . In questa prospettiva, gli europei tendono a rispetta­ re un «margine di sicurezza» nell’assumere decisioni collettive, preoccupandosi di proteggere i cittadini contro rischi che non possono essere valutati con margini di certezza. Al contrario gli americani sono riluttanti a adottare precauzioni, esigendo l’inequivoca prova del danno per giustificare un intervento regolativo. Queste affermazioni possono apparire plausibili alla luce del fatto che sul piano comparativo gli Stati Uniti sembrano essere meno preoccupati dei rischi legati al riscaldamento globale e alla trasformazione genetica degli alimenti; in questi campi gli europei guardano con favore alle precauzioni, mentre gli americani sono propensi a intervenire solo di fronte a prove che dimostrino l’esistenza del pericolo. Ma la situazione muta se si prendono in considerazione le minacce alla sicurezza nazionale. Nel caso della guerra in Iraq, gli Stati Uniti (e l’Inghilterra) hanno seguito una specie di principio di precauzione, mentre altre nazioni (soprattutto la Francia e la Germania) hanno richiesto una prova inequivoca del pericolo. Ma, per la più parte delle minacce alla sicurezza e alla salute, molta gente concorda nel ritenere che l’Europa è «precauzionale», mentre gli Stati Uniti non lo sono. Ritengo che questa contrapposizione a tinte forti tra Europa e Stati Uniti sia falsa e persino illusoria. E semplicemente errato affermare che gli europei sono più propensi alla precauzione degli americani. Sul piano empirico, nessuno dei due è «più precauzio­ nale» dell’altro. Gli europei non sono più avversi al rischio degli americani. Sono più avversi a particolari rischi. Come quelli legati al riscaldamento globale. Ma anche gli americani hanno le loro preoccupazioni. Agli albori del XXI secolo, per esempio, molti americani si sono dimostrati particolarmente «precauzionali» nei confronti del rischio associato a una politica di regolamentazione molto aggressiva, temendo che l’adozione di costose misure per combattere il riscaldamento globale e altri problemi ambientali potessero creare disoccupazione e aumentare i costi dell’energia, inclusa la benzina. Che questa paura sia giustificata o meno, si tratta di un atteggiamento altamente precauzionale. 2 Per alcuni dettagli tecnici in merito si vedano J.S. Applegate, The Precautionary Preference. An American Perspective on thè Precautionary Principle, in «Human & Ecological Risk Assessment», 6, 2000, p. 413; PH. Sand, The Precautionary Principle. A European Perspective, in «Human & Ecological Risk Assessment», 6, 2000, p. 445.

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Il mio argomento più generale, la tesi centrale di questo capitolo, è concettuale. Il vero problema del principio di pre­ cauzione nella sua forma più stringente è l’incoerenza; conce­ pito per indicare una strada da seguire, si rivela incapace di offrire una guida, perché mette all’indice le stesse misure di cui imporrebbe l’adozione. Le misure regolative che il principio induce a adottare generano nuovi rischi, per cui il principio vieta ciò che contemporaneamente impone di fare. Pertanto mi prefiggo di mettere in discussione il principio di precauzione non perché lo ritenga fuorviarne, ma perché, preso a valore facciale, esso non indica strade da seguire. Il principio rischia di rivelarsi paralizzante, proibendo sia l’adozione di misure regolative sia l’inerte mantenimento dello status quo, come pure qualsiasi altra politica di gestione del rischio che si collochi fra questi estremi. Può esserci di aiuto solo se facciamo finta di non vedere molti aspetti delle situazioni associate al rischio e focalizziamo l’attenzione su una parte circoscritta della posta in gioco. Questa sorta di cecità autoindotta è ciò che fa apparire il principio capace di offrire una guida; e fra breve avrò modo di soffermarmi più estesamente sulle ragioni che inducono gli individui e le società a essere selettivi rispetto ai rischi. Naturalmente abbiamo buone ragioni per condividere le finalità che hanno indotto molti ad abbracciare il principio di precauzione. In ultima analisi avrò modo di osservare che esistono numerosi settori nei quali una versione modificata del principio di precauzione può rivelarsi utile, inclusa la gestio­ ne di danni potenzialmente catastrofici le cui probabilità di verificazione non possano in alcun modo essere stimate. Un principio anticatastrofe merita di essere accolto dalla società. Si consideri qui un’affermazione sobria e sensata che leggiamo nel Biennial Report on Sàentific Priorities della International Joint Commission: «il principio di precauzione, a volte definito come principio della prudente cautela, è un imperativo etico volto a prevenire danni catastrofici che hanno una credibile probabilità di essere determinati da scelte che compiamo oggi»3. Nella 3 International Joint Commission, Biennial Report on Scientific Priorities, 1996, p. 89, citato in C. Raffensperger, P.L. DeFur, lnterpreting thè Precautionary Principle. Rigorous Science and Solid Ethics, in «Human & Ecological Risk Assessment», 5, 1999, p. 933, in particolare p. 935.

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seconda parte del libro cercherò di ricostruire il principio di precauzione in questi termini generali. Ma il principio antica­ tastrofe è molto più circoscritto e più mirato dell’idea generica di precauzione, che invece intendo mettere in discussione nelle pagine che seguono.

1.

lì pritìàpio di precauzione

Ho già detto che il principio di precauzione gode di largo consenso a livello intemazionale4. Da qualche decennio esso è divenuto un punto di riferimento delle politiche regolative5. Il principio è stato richiamato in un numero crescente di procedi­ menti giudiziali, innanzi alla Corte internazionale di giustizia, al Tribunale internazionale per il diritto del mare, e all’Appellate Body deirOrganizzazione mondiale del commercio, così come è stato impiegato dalle corti municipali di molti paesi, fra cui la Corte suprema dell'India e quella del Canada. Alcuni si sono spinti a sostenere che il principio di precauzione sia ormai as­ surto fra i principi consuetudinari del diritto internazionale6. Negli Stati Uniti il principio di precauzione ha ricevuto una prestigiosa adesione da parte del «New York Times Magazine», che nel 2001 lo ha inserito nella lista delle più importanti idee dell'anno7. In una vena assai meno celebrativa, il «Wall Street Journal» ha invece sferrato un attacco frontale al principio di precauzione, ritenendolo «un neologismo ambientalista, invocato per far premio sulle prove scientifiche e consentire la messa A Si veda Trouwborst, Evolution and Status of thè Precautionary Principle, eit. 5 Per un’utile analisi si vedano D. Freestone e E. Hey, Origins and Development of thè Precautionary Princtple, in D. Freestone e E. Hey (a cura di), The Precautionary Principle and International Lau>} The Hague, Kluwer Law International, 1996, p. 3; J.B. Wiener, Precaution, Risk, andMultiplicity , mano­ scritto inedito, 2004; Id., Precaution in a Multirisk World, in D.D. Paustenbach, (a cura di), Human and Ecological Risk Assessment, New York, John Wiley & Sons, 2002, p. 1509. 6 Si veda O. Mclntyre e T. Mosedale, The Precautionary Principle as a Norm of Cjistomary International Law , in «Journal of Environmental Law», 9, 1997, p. 221; in generale si veda Trouwborst, Evolution and Status o f thè Precautionary Principle, eit. 7 M. Pollan, The Year in Ideas, A to Z: Precautionary Principle, in «The New York Times», 9 dicembre 2001, p. 92.

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al bando di cose che non piacciono come le biotecnologie, la tecnologia wireless, le emissioni di idrocarburi»8. Sul piano giuridico, il primo impiego di un principio di precauzione in senso lato sembra ricorrere nella legge svedese sulla protezione dell’ambiente del 19699. Nello stesso torno di anni, la politica ambientale tedesca veniva concepita nel segno del Vorsorgeprinzip, una sorta di antesignano del principio di precauzione10. Con riferimento ai rischi, l’atteggiamento tedesco è stata descritto come incline a ritenere che la «pre­ cauzione» rappresenti un’idea che favorisce l’interventismo, che si fonda su «un’interpretazione della precauzione assai lata e versatile»11. Negli Stati Uniti le corti federali, senza mai fare esplicito riferimento al termine, hanno fatto propria una nozione di precauzione in alcuni importanti precedenti, legit­ timando (o imponendo l’adozione di) misure regolative sulla base di considerazioni ispirate alla cautela12. Il principio di precauzione ha giocato un ruolo rilevante nell’ambito di accordi e trattati intemazionali, al punto da appa­ rire oggi ubiquo. Diverse versioni del principio possono essere rinvenute in almeno 14 documenti intemazionali13. Nel 1982 la 8 Citato in C. Gollier e N. Treich, Deciston-Maktng under Scientific Uncertainty: The Economici of thè Precautionary Principle, in «Journal of Risk & Uncertainty», 27, 2003, p. 77. 9 Si veda P. Sandin, Dimensions of thè Precautionary Principle, in «Human & Ecological Risk Assessment», 5, 1999, p. 889. 10 Cfr. J. Morris, Defining thè Precautionary Principle, in J. Morris (a cura di), Rethinking Risk and thè Precautionary Principle, Oxford, ButterworthHeinemann, 2000, p. 1. 11 O ’Riordan e Cameron, Interpreting thè Precautionary Principle, eit. 12 Si vedano per esempio American Trucking Association v. EPA, 283 F3d 355 (D.C. Cir. 2002); Lead Industries v. EPA, 647 F.2d 1130 (D.C. Cir. 1980). 13 Si veda I. Goklany, The Precautionary Principle. A Criticai Appraisal of Environmental Risk AssessmentyWashington, Cato Institute, 2001, p. 3. Per un catalogo si veda www.biotech-info.net/treaties_and_agreements.html. E invero in questo caso sembra all'opera un effetto cascata, con influenze informative e reputazionali che inducono in molti casi a impiegare il principio di precauzione in modo casuale, quasi che omettere di prestare omaggio al principio possa apparire una presa di posizione radicale. Per il semplice motivo che il principio di precauzione è stato impiegato così spesso, è probabile che quanti negoziano gli accordi intemazionali si persuadano che sia probabilmente sensato impiegarlo ancora. E poiché così tante persone identificano il principio di precauzione con un forte impegno per la tutela dell’ambiente (si veda per esempio Raffensperger e Tickner, Protecting Public Policy and thè Environment, eit.), qualsiasi paese

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Carta mondiale della Natura delTOnu sembra aver offerto il primo riconoscimento del principio a livello internazionale, nel suggerire che, quando «potenziali reazioni avverse non sono completamente studiate, le attività non dovrebbero essere portate avanti»14. La legislazione ambientale europea ha nel tempo rivelato la crescente influenza della versione tedesca del principio di precauzione. La dichiarazione ministeriale di chiusura della Conferenza economica per l’Europa delle Nazioni Unite del 1990 recita: Per perseguire uno sviluppo sostenibile le politiche devono ispirarsi al principio di precauzione [...]. Quando esistono minacce di danni gravi o irreversibili, l’assenza di piena certezza scientifica non deve essere considerata un motivo valido per posporre l’adozione di misure volte a prevenire la degradazione am bientale15.

Il trattato di Maastricht sull’Unione Europea adottato nel 1992 prevede che con riguardo all’ambiente la politica della Ue «dovrà essere basata sul principio di precauzione»16. Fra il 1992 e il 1999 non meno di 27 risoluzioni del parla­ mento europeo hanno fatto esplicito riferimento al principio17. L’idea della precauzione è stata invocata in un buon numero di importanti controversie fra l’Europa e gli Stati Uniti riguardanti la messa al bando europea degli organismi geneticamente mo­ dificati e degli ormoni della carne bovina. Nel febbraio 2000 il principio di precauzione è stato esplicitamente adottato in una comunicazione della Commissione europea, unitamente a una serie di linee guida applicative18. Il principio di precauche respinga il principio rischia di essere esposto al pubblico ludibrio nell’arena internazionale. Per una trattazione generale sulle cascate informative, ove le decisioni formulate da altri recano informazioni su ciò che è sensato fare, si veda D. Hirschleifer, The Blind Leading thè Blind. Social Influences, Fads, and Informational Cascades, in M. Tommasi e K. Ierulli (a cura di), The New Eco­ nomici of Human Behavior, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, pp. 188-189. Sui condizionamenti reputazionali si veda T. Kuran, Private Truths, Public Lies, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1995. 14 Cfr. Goklany, The Precautionary Principle, eit., p. 4. 15 Ibidem, p. 5. 16 Trattato dell’Unione Europea, art. 174 (ex art. 130r), come emendato nel 1997. 17 D. Vogel, Risk Regulation in Europe and thè United States, Berkeley (Calif.), Haas Business School, 2002. 18 Cfr. http://europa.eu.int/comm/dgs/health_consumer/library/press/ press38_en.html.

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zione appare persino nel trattato che adotta una costituzione per l’Europa: La politica dell’Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni dell’Unione. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente e sul principio «chi inquina paga»19.

2.

Debole e forte

Che cosa esattamente implica o impone di fare il principio di precauzione? Ne esistono più di 20 definizioni, e fra loro nessuna è compatibile con l’altra20. Possiamo immaginare un continuum interpretativo. A un estremo le versioni deboli, che nessuna persona ragionevole si sentirebbe di criticare. All’estremo opposto le versioni forti, che imporrebbero un ripensamento globale della politica regolativa. Le versioni più prudenti e deboli suggeriscono, in modo sensato, che l’assenza di prove decisive in merito al danno non debba giustificare il rifiuto di regolare. I controlli possono essere giustificati anche se non siamo in grado di stabilire un legame causale certo, per esempio, fra l’esposizione a basso livello ad alcune sostanze cancerogene e gli effetti negativi sulla salute umana. Così, la dichiarazione di Rio del 1992 recita: «in pre­ senza di minacce di danni gravi o irreversibili, la mancanza di di certezza scientifica non può essere addotta quale motivazione per rinviare l’attuazione di misure economicamente efficienti per prevenire il degrado ambientale»21. La dichiarazione mi­ nisteriale della II conferenza internazionale sulla protezione del mare del Nord, tenutasi a Londra nel 1987, è dello stesso tenore: «per proteggere il mare del Nord dai possibili effetti 19 Trattato che adotta una costituzione per l’Europa, art. III-229 (scrivendo nel 2004 l’autore si riferiva al testo contenuto nel progetto di una costituzione per l’Unione Europea, poi rimasto invariato nel trattato di Lisbona, nel quale il testo su menzionato è trasfuso nel II comma delTart. 191, N.d.T.). 20 Si veda Morris, Defining thè Precautionary Principle, eit., pp. 1-19; Wiener, Precaution, Risk, and Multiplicity, eit. 21 Citata in B. Lomborg, The Skeptical Environmentalist, New York, Cambridge University Press, 2001; trad. it. L’ambientalista scettico. Non è vero che la terra è in pericolo, Milano, Mondadori, 2003, p. 354.

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dannosi delle sostanze più pericolose, appare necessario un principio di precauzione che imponga di agire per controllare le emissioni di queste sostanze anche prima che un nesso causale sia dimostrato da prove scientifiche incontrovertibili»22. Non diversamente, la convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico offre una prosa ispirata alla cautela: In presenza di minacce di danni gravi o irreversibili, l’assenza di una piena prova scientifica non può essere invocata per posporre l’adozione di misure [regolative], considerando che le politiche e le misure adottate in tema di cambiamento climatico dovrebbero essere economicamente giustificate in modo da garantire benefici globali al minor costo possibile23.

L’assai reclamizzata dichiarazione di Wingspread, adottata al termine di un congresso ambientalista tenutosi nel 1998, si spinge oltre: Quando un’attività determina minacce di danno alla salute umana o all’ambiente, misure precauzionali dovrebbero essere prese anche se alcune relazioni di causa ed effetto non sono ancora acciarate sul piano scientifico. In situazioni del genere è chi ha interesse a esercitare l’attività in questione, e non la collettività, a dover sopportare l’onere della prova24.

La prima frase della citazione appena riportata è più aggres­ siva della dichiarazione di Rio, perché non si limita a prendere in considerazione le minacce di danno grave o irreversibile. E invertendo l’onere della prova, la seconda frase va ancora più in là. Naturalmente tutto dipende da cosa dovranno dimostrare in concreto coloro che sono investiti da quest’onere probatorio. In Europa il principio di precauzione è a volte interpretato in una versione ancor più forte, che evoca l’importanza di costruire «un margine di sicurezza per ogni fase del processo decisionale»25. Secondo una prima definizione, il principio di precauzione va inteso nel senso che «una data azione deve essere intrapresa per correggere un problema non appena si rendano disponibili prove 22 Cfr. Morris, Defining thè Precautionary Principle, eit., p. 3. 25 Si veda Goklany, The Precautionary Principle, eit., p. 6. 24 Ibidem, p. 5. Una versione ancora più forte viene patrocinata in Raffensperger e DeFur, lnterpreting thè Precautionary Principle, eit., p. 934. 25 Citato in Lomborg, Lambientalista scettico, trad. it. eit., p. 355.

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attestanti che un danno potrebbe verificarsi, e non dopo che il danno si sia verificato»26. «Potrebbe verificarsi» è la formula cru­ ciale. In una versione altrettanto forte del principio, si dice che: Il principio di precauzione impone che, quando sussiste un rischio di un danno significativo alla salute o all’ambiente, anche se destinato a manifestarsi a scapito delle generazioni future, e quando sussiste incertezza scientifica con riguardo alla natura del danno o alla sua probabilità di verificazione, dovrebbero prendersi decisioni in modo da impedire che tali attività siano svolte, a meno che (e fino a quando) prove scientifiche non dimostrino che il danno non si verificherà2'.

L’espressione «non si verificherà» sembra richiedere, a quanti siano interessati a condurre una data attività, di fornire la prova che tale attività non determini alcun rischio, un onere probatorio spesso impossibile da soddisfare. Il protocollo di Cartagena sulla biosicurezza, adottato in seguito alla conferenza sulla diversità biologica del 2000, sembra anch’esso accogliere una versione forte del principio28. La dichiarazione finale della I conferenza europea sui «mari a rischio» afferma che, se «il “peggiore scenario possibile” legato alla conduzione di una data attività è grave abbastanza, allora anche un piccolo margine di dubbio sulla sicurezza di quella attività è motivo sufficiente per sospenderne l’esercizio»29. 3. La precauzione in pratica: un rapido sguardo all’Europa Come ho già osservato, è opinione diffusa che in Europa si guardi con favore a questa o quella versione del principio di precauzione, poiché la Commissione europea ha provveduto a adottare ufficialmente il principio30. Ma la prassi europea è più 26 Cfr. www.logophilia.com/Wordspy/precautionaryprinciple.asp. 27 Testimonianza del dottor Brent Blackwelder, presidente di Friends of thè Earth, innanzi al Senate Appropriations Committee, Subcommittee on Labor, Health, and Human Services, del 24 gennaio 2002. 28 Si veda Goklany, The Precautionary Principle, eit., p. 6. 29 Dichiarazione finale della I conferenza europea sui «mari a rischio», Appendice I, Copenaghen, 1994. 30 Commissione europea, Comunicazione della Commissione sul Principio di Precauzione, Brussels, 2 febbraio 2000, http://europa.eu.int/comm/dsg/ health_consumer/library/press/press38_en.html.

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complessa'1. Solo per fare un esempio, « l’Europa si è rivelata più precauzionale con riguardo agli ormoni dei bovini, mentre gli Stati Uniti si sono dimostrati più precauzionali nei confronti del morbo della mucca pazza (Bse) con riferimento alle sue possibilità di trasmissione sia per via alimentare sia attraverso le trasfusioni di sangue»32. Le nazioni europee hanno assunto un approccio estremamente precauzionale nei confronti del cibo geneticamente modificato33, ma gli Stati Uniti si sono dimostrati più aggressivi nel controllare i rischi associati alle sostanze cancerogene presenti negli additivi alimentari34. Se si guarda ai rischi legati ai luoghi di lavoro e allo svolgimento delle attività lavorative, il diritto statunitense appare molto più precauzionale di quello svedese35. Non voglio avventurarmi qui in un’analisi dettagliata, ma è ragionevole ritenere che nella prassi i singoli paesi possano essere collocati su un ideale continuum della precauzione. Ogni nazione è precauzionale rispetto ad alcuni rischi e non ad altri; e il fatto che uno Stato dichiari di aver adottato il principio di precauzione serve solo a nascondere questa verità incontrovertibile36. Non di meno, la crescente importanza del principio in Europa merita d’essere analizzata più da presso, 31 Si veda una discussione illuminante in Wiener, Precaution, Risk, and Multiplicity, eit.; J.B. Wiener e M.D. Rogers, Comparing Precautions in thè United States and Europe, in «Journal of Risk Research», 5, 2002, p. 317. 32 Ibidem, p. 323. 33 Si veda D. Vogel e D. Lynch, The Regulation o f GMOs in Europe and thè United States. A Case Study of Contemporary European Regulatory Politics, Publication of thè Study Group on Trade, Science and Genetically Modified Foods, 5 aprile 2001, www.cfr.org/pub3937/david_vogel_diahanna_lynch/ the_regulation_of_gmos_in _europe_and_the_united_states_a_casestudy_ of_contemporary_european_regulatory_politics.php; Symposium, Are thè US and Europe Headingfor a Food Fight Over Genetically Modified Food?, 2001, http://pewagbiotech.org./events/1024/; T. Gilland, Precaution, GM Crops, and Farmland Birds, in Morris, Rethinking Risk and Precautionary Principle, eit., p. 84, in particolare pp. 84-88. 34 Si veda R. Merrill, FDA's Implementation of thè Delaney Clause. Repudiation of Congressional Choice or Reasoned Adaptation to Scientific Progress?, in «Yale Journal on Regulation», 5, 1988, p. 1. 35 Si veda S. Kelman, Regulating America, Regulating Sweden. A Com­ parative Study of Occupational Safety and Health Policy, Cambridge (Mass.), Mit Press, 1981. 36 Wiener e Rogers, Comparing Precautions in thè United States and Europe, eit.

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non foss’altro che per il ruolo centrale assunto dall’idea della precauzione nel dibattito pubblico. Il principio è stato infatti menzionato dozzine di volte dalle corti dell’Unione Europea, giocando spesso un ruolo chiave nell’orientare la decisione finale37. L’avvocato generale presso la Corte europea di giu­ stizia ha affermato in un suo parere ufficiale che il principio di precauzione trova applicazione «quando ancora nessuna minaccia concreta è stata dimostrata, ma si rendono dispo­ nibili i primi indizi scientifici dell’esistenza di un possibile rischio»38; egli ha inoltre affermato che il principio richiede che i rischi siano ridotti «al più basso livello ragionevolmente immaginabile»39. Ma le corti europee devono ancora scegliere fra una versione debole e una versione forte del principio di precauzione. Nelle sentenze si possono rinvenire aperture nei confronti di entrambe le versioni e la giurisprudenza in materia ha mostrato rimarchevoli oscillazioni. Si considerino alcuni esempi eloquenti. L’Unione Europea ha messo al bando l’antibiotico virginiamicina nel mangime animale per la possibilità che il suo impiego possa generare batteri resistenti trasmissibili all’uomo40. Il di­ vieto è stato impugnato di fronte al Tribunale europeo di primo grado, lamentando il fatto che mancassero prove atte a giustifi­ carlo. Il Tribunale, tuttavia, ha ritenuto il divieto legittimo. Si è statuito che un additivo può essere proibito «anche quando non sia stata condotta una valutazione del rischio, quando le prove della resistenza batterica siano limitate o assenti, quando non ci sia un’attuale necessità di impiegare tali antibiotici per la cura della salute umana», nonostante la raccomandazione 37 Si veda G.E. Marchant e K.L. Mossman, Arbitrary and Capridous. The Precautionary Principle in thè European Union Courts, Washington, American Enterprise Institute, 2004, che offre molti dettagli sul modo in cui il principio di precauzione viene implementato nella giurisprudenza europea. 38 Caso C-236/01, Monsanto Agricoltura Italia v. Presidenza del Consiglio dei Ministri, 2003, parere dell’avvocato generale, par. 108, http://eur-lex.europa. eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:6200lC0236:IT:HTML. 39 Caso T-13/99, Pfizer Animai Health 5.A v. Consiglio, 1999, ECR II1961 (Celex n. 699 B 00113), 1999, ordinanza del presidente del Tribunale di prima istanza, par. 76, http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.d o?uri=CELEX:61999B0013(01):IT:HTML. 40 Caso T-13/99, Pfizer Animai Health SA. v. Consiglio, Tribunale europeo di primo grado, 11 settembre 2002, in «Raccolta», 2002, II, p. 3305, http://eur-lex. europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:61999A0013:IT:HTML

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di diverso avviso espressa in merito dal Comitato scientifico per la nutrizione animale della Ue (lo Scan)41. Invocando 1 idea della precauzione, il Tribunale ha ribadito come non sia necessaria la disponibilità di prove conclusive in merito alla reale consistenza del rischio. Nel caso in questione, non v era prova che la resistenza dei batteri si sarebbe sviluppata, ovvero che i batteri resistenti si sarebbero dimostrati nocivi per l'uomo. Ma il Tribunale ha ritenuto legittimo il divieto in base ad argomenti precauzionali. Una decisione non dissimile ha avuto per oggetto la zinco-bacitracina, un altro antibiotico impiegato nei mangimi animali42. Il Tribunale di primo grado ha ribadito che non era necessario condurre una valutazione del rischio ufficiale, anche se il rischio era basato su evidenze speculative e lo Scan si era espresso contro il divieto. «E sufficiente che il rischio esista, che gravi preoccupazioni siano state espresse nella letteratura scientifica e nei rapporti di varie conferenze e istituzioni e che, ove tale trasmissione dovesse realmente aver luogo, essa possa avere gravi conseguenze sulla salute umana»43. Il Tribunale ha riconosciuto che «una misura preventiva non può essere adeguatamente giustificata da un approccio puramente ipote­ tico ai rischi, fondato su mere congetture prive di validazione scientifica»44. Ma le prove su cui il collegio ha fondato la sua decisione si riducevano a un rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità che raccomandava di interrompere la somministrazione agli animali di antibiotici attraverso i mangimi se il medesimo antibiotico «può essere usato come medicinale di impiego umano»45. In questo caso, quindi, si può dire che si sia celebrata una sorta di «vendetta della precauzione». Più in generale, il Tribunale di primo grado ha affermato che ogni scelta regolativa deve «rispettare il principio secondo cui la tutela della salute pubblica, della sicurezza e dell’ambiente 4! J. Wiener, Whose Precaution After All? A Comment on thè Comparison and Evoluitoti of Kisk Kegulatory Systems, in «Duke Journal of Comparative & International Law», 13, 2003, p. 207, in particolare p. 217. 42 Caso T-70/99, Alpharma Inc. v. Consiglio, Tribunale europeo di primo grado, 11 settembre 2002, in «Raccolta», 2002, II, p. 3495, http://eur-lex. europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:61999A0070:IT:HTML. Ibidem, par. 150. M Ibidem, par. 156. 45 Ibidem, par. 192.

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deve prevalere sugli interessi economici»46. E il presidente del Tribunale di primo grado ha aggiunto che è appropriato ritirare dal mercato prodotti potenzialmente dannosi «fino a quando non sia definitivamente dimostrato che non espongono a rischi presenti e futuri la salute umana»47. Con riferimento al principio di precauzione, la Corte europea di giustizia ha mostrato più cautela del Tribunale di primo grado. L’Italia ha messo al bando il mais geneticamente modificato contenente fra le 0,04 e le 0,30 parti per milione di proteine transgeniche48, anche se l’Istituto superiore di sanità italiano aveva concluso che le prove scientifiche disponibili dimostra­ vano l’assenza di rischi per gli esseri umani e gli animali49. La Corte di giustizia ha stabilito che, per poter ritenere legittimo il divieto emanato dallTtalia, fosse necessario addurre almeno qualche prova in merito al fatto che consumare il mais mettesse a repentaglio la salute umana. «Il rischio deve essere adeguatamente supportato da prove scientifiche»50. La Corte è stata chiara (e su questo principio il Tribunale di primo grado concorda): la mera possibilità del pericolo non è sufficiente. Con riguardo alla riduzione dei rischi associati all’encefa­ lopatia spongiforme bovina (Bse), o «morbo della mucca paz­ za», si registrano cinque sentenze delle corti europee, le quali però non seguono un modello decisionale uniforme. Alcune respingono l’idea di una carne totalmente esente da rischi e sottolineano che il principio di precauzione non implica il raggiungimento di un livello di rischio pari a zero51. Queste 4b Caso T-74/00, Artegodan GmbH v. Commissione, Tribunale europeo di primo grado, 26 novembre 2002, in «11 foro amministrativo - Consiglio di Stato», 2002, p. 2771, http://eur-lex.europa.eu/LexUriSew/LexUriServ. do?uri=CELEX:62000A0074;IT:HTML 47 Caso T-13/99, Pfizer Animai Health 5.-4. v. Consiglio, 1999, eit» par. 76. ^ Caso C-236/01, Monsanto Agricoltura Italia v. Presidenza del Consiglio dei Ministri, 2003, Corte europea di giustizia, conclusioni dell'avvocato generale Alber, 13 marzo 2003, in «Diritto e giurisprudenza agraria e dell'ambiente», 2003, p. 551, http://eur4ex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ\do?uri=CELEX :6200lC0236:IT:HTML 49 Ibidem, par. 27. 30 Ibidem, par. 138. 51 Caso C-241/01, National Farmers’ Union l\ Secrétariat Général du Gouvernernent Fran^aise, Corte europea di giustizia» conclusioni dell'avvocato generale Mischo, in «Raccolta», 2002, p. 9079, http://eur-lex.europa.eu/ LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:6200lC0241:IT:HTML

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pronunce mostrano di voler tollerare i rischi in modo da non pregiudicare le normali relazioni commerciali fra le nazioni. Ma altre decisioni sembrano affermare che nessun rischio può essere accettato52. I veri problemi, cui ancora non si è data risposta, consisto­ no nell'indicare cosa esattamente debba essere dimostrato per giustificare l'intervento regolativo, e verificare se altri rischi, che si accompagnano al rischio principale indagato, possano o debbano essere presi in considerazione come parte deU’indagine relativa a ciò che si deve fare. Le corti europee devono ancora chiarire se il principio di precauzione debba venire applicato in modo da essere sensibile alla possibilità che ponendo sotto controllo un rischio inevitabilmente si determina l’aumento di altri rischi 55. Su queste domande chiave il diritto europeo deve ancora esprimersi. Ecco allora che un interrogativo chiave, rilevante a livello globale: come risolvere questi problemi? 4. Sicuri e dispiaciuti? Ho già osservato che le versioni deboli del principio di precauzione sono inattaccabili e importanti54. Tutti i giorni la gente fa qualcosa per evitare pericoli che sono lungi dall’essere certi. Non passeggiamo in zone moderatamente pericolose di notte; facciamo esercizi per tenerci in forma; ci dotiamo di allarmi antifumo; indossiamo le cinture di sicurezza; possiamo anche decidere di evitare i cibi grassi (e i carboidrati). Governi assennati disciplinano rischi che, su scala individuale come su quella aggregata, sono ben lontani dal concretizzarsi al 100 per cento. Un individuo potrebbe ignorare un rischio di morte pari a 1/500.000 perché quel rischio è incredibilmente piccolo, ma se esso riguarda 100 milioni di cittadini, lo stato farebbe meglio a prendere seriamente in considerazione quel rischio. 52 Marchant e Mossman, Arbitrar? and Capricious, eit., pp. 54-63. 33 ìbidem, pp. 52-54. 54 Si veda W.D. Montgomery e A.E. Smith, Global Climate Change and thè Precautionary Principle, in «Human & Ecological Risk Assessment», 6, 2000, p. 399.

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La versione debole del principio di precauzione ribadisce un truismo, che in linea teorica non può essere messo in discussione e che dal punto di vista pratico serve essenzialmente a evitare che il pubblico sia confuso o che gruppi di pressione interessati richiedano che, per poter intervenire sul piano regolativo, sia necessario disporre della prova incontrovertibile del danno, un requisito che nessuna società dotata di razionalità accetta. Questa funzione non è poco importante. Quasi un quinto degli americani si è professato d’accordo con la seguente affermazione: «fino a quando non saremo sicuri che il riscaldamento globale è davvero un problema, non dovremmo prendere alcuna misu­ ra che possa implicare un costo»55. Un’affermazione assurda. Adottare qualche misura può sicuramente apparire giustificato «prima di essere sicuri che il riscaldamento globale sia davvero un problema». Nella misura in cui il principio di precauzione serve a contrastare la tendenza a richiedere la certezza del danno prima di cominciare a intervenire sul piano regolativo, l’impiego del principio va caldeggiato. Poiché le versioni più deboli del principio non sono criti­ cabili, e appaiono persino banali, non mi soffermerò oltre su di loro. Per il momento consideriamo il principio nella sua acce­ zione forte, quella che invita a adottare misure regolative ogni volta che sussiste un possibile rischio per la salute, la sicurezza o l’ambiente, anche se le prove in merito rimangono speculative e i costi associati alla regolamentazione appaiono elevati. Per evitare conclusioni assurde, l’idea di «rischio possibile» va in­ terpretata in modo da richiedere una certa soglia di plausibilità scientifica. Per giustificare l’intervento regolativo nessuno ritiene sufficiente che qualcuno, da qualche parte, affermi la necessità di prendere seriamente in considerazione un dato rischio. Ma in base al principio di precauzione (almeno per come lo intendo io) la soglia di rischio che si chiede di dimostrare è minima e una volta che questa è dimostrata opera una sorta di presunzione a favore del controllo regolativo. Credo che tale interpretazione del principio di precauzione coincida con quella offerta da alcuni dei più accesi fautori del principio stesso e che, con modifiche relativamente modeste, 55 Cfr. www.pipa.org/OnlineReports/GlobalWaming/buenos_aires_02.00. html#l.

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questa interpretazione sia coerente con numerose formulazioni giuridiche del principio. Le versioni più forti del principio fini­ scono per riflettere punti di vista che alla prova dei fatti nessuno sarebbe disposto a sostenere seriamente. Comprendere quali siano i difetti del principio permette di capire meglio come procedere di fronte al rischio e alla paura, in un modo che ridefinisce il principio di precauzione per metterlo in condizione di conseguire i salutari obiettivi perseguiti dai suoi sostenitori. Per quale motivo il principio di precauzione, interpretato nella sua versione più forte, esibisce una tale capacità di sedu­ zione? A prima vista la risposta parrebbe semplice, perché il principio esprime alcune verità importanti. Certamente dob­ biamo riconoscere che una piccola probabilità (poniamo 1 su 25.000) di un danno grave (poniamo un milione di morti) merita un attento scrutinio. Per eliminare un rischio del genere vale la pena spendere un sacco di soldi. Una critica economicamente orientata potrebbe però osservare che le nostre risorse sono limitate e che, se investiamo risorse ingenti per prevenire danni le cui probabilità di verificazione appaiono molto teoriche, non allochiamo le nostre risorse in modo oculato. E questa infatti una delle critiche più banali rivolte al principio di precauzione56. Se adottassimo misure costose per far fronte a tutti i rischi, per quanto improbabili, ci impoveriremmo assai rapidamente. In questa prospettiva il principio di precauzione «preluderebbe a un futuro assai cupo»57. E farebbe piazza pulita di tecnologie e strategie che agevolano la vita delFuomo, rendendola più comoda, più sana e più longeva. Si consideri in questa prospettiva un sondaggio condotto nel 2003, nel quale si chiedeva a un gruppo di scienziati: «quali sono le più rimarchevoli scoperte e conquiste scientifiche, mediche o tecnologiche del passato che secondo lei non avrebbero avuto luogo ove al tempo fosse stato vigente il principio di precauzione? La preghiamo di elencarne una o più d’una»58. Ne è derivata una lista comprendente gli aeroplani, l’aria condizionata, gli antibiotici, le automobili, il cloro, il vaccino per la peste, la 56 Si veda J.D . Graham, Decision-AnalyticRefinements o f thè Precautionary Pnnciple, in «Journal of Risk Research», 4, 2001, p. 127. 57 Si veda Morris, Defining thè Precautionary Principle , eit., p. 17. 58 Si veda S. Starr, Science, Risk, and thè Price o f Precaution , www.spikedonline/Articies/00000006DD7A.htm.

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chirurgia a cuore aperto, la radio, la refrigerazione, il vaccino antitubercolare e i raggi X. Un esperto di statistica genetica ha risposto: «ai tempi della loro invenzione, i treni, gli aeroplani e gli antibiotici non avrebbero potuto essere inventati». Un professore di genetica molecolare dei vegetali ha offerto questa lista: «la pastorizzazione, l’immunizzazione, l’uso di sostanze chimiche e dell’irradiazione per lo sviluppo delle varietà di grano». Per certi versi questa obiezione appare sicuramente con­ vincente, ma omette di considerare qualcosa che ha a che fare con il comportamento umano59. In alcuni contesti, la rego­ lamentazione è una forma di assicurazione o, se si vuole, un modo di dotare una porta di particolari congegni di sicurezza. Si considerino le seguenti opzioni. Vorreste avere: a) una perdita certa di 20 dollari, oppure b) Pi per cento di possibilità di perdere 1980 dollari? In termini di valore atteso, b ), che rappresenta un perdita statistica pari a 19,80 dollari, è un po’ meno peggio di a); ma molte persone preferirebbero scegliere la perdita certa di 20 dollari. La gente non ama andare incontro a piccoli rischi di subire grosse perdite, perciò si assicura e prende particolari precauzioni per prevenire danni gravi, anche se in base all’ana­ lisi del valore atteso queste scelte non sarebbero giustificate. La prospect theory, o «teoria del prospetto», che offre una spiegazione assai valida del comportamento umano, mette in luce come gli individui temono in modo particolare i danni gravi che hanno basse probabilità di occorrenza. Se il governo si uniforma alle valutazioni della gente comune, esso mostrerà il medesimo tipo di avversione al rischio esibito dalla gente. Il fatto che una perdita certa venga preferita a un danno a bassa probabilità di occorrenza e di minor valore atteso aiuta a spiegare il modo di prendere le decisioni in svariati campi, inclusa la politica estera. Ciò suggerisce che una società democratica, che segua le credenze dell’opinione pubblica, finirà per sviluppare una forma di avversione al rischio nei confronti di danni gravi con bassa probabilità di occorrenza. Ne risulta un’indicazione che 59 Si veda D. Kahneman e A. Tversky, Prospect Theory. An Analysis of Decision under Risk, in Id. (a cura di), Choices, Values, and Frames, Cambridge, Cambridge University Press, 2000, p. 17.

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va nella direzione consigliata dal principio di precauzione. Ma né la prospect thcory né l’avversione al rischio consentono di difendere le versioni forti del principio. Vediamo perché.

5. Perché il principio di precauzione è paralizzante La tentazione di osservare che il principio di precauzione è irrimediabilmente vago si rivela piuttosto forte. Di quanta pre­ cauzione abbiamo bisogno? Il principio di per sé non lo dice. Ancora: si è tentati di osservare (e lo abbiamo già fatto) che il principio è insensibile al problema dei costi. Alcune precauzioni semplicemente non meritano di essere adottate. Ma il problema più serio è un altro. Il vero problema è che il principio non offre una guida, non tanto per il fatto d ’essere sbagliato, ma perché esso inibisce qualsiasi condotta, anche l’attuazione di una politica regolativa. Mette al bando le stesse misure che impone di adottare. Gli uomini di scienza che hanno criticamente osservato come il principio avrebbe messo al bando gli aerei, gli antibiotici, la refri­ gerazione e molto altro ancora, erano in errore. Hanno attribuito al principio una coerenza molto maggiore di quella che ha. Se, come ovvio, gli aerei, gli antibiotici e la refrigerazione riducono rischi, non è chiaro allora che il principio (non impone di adottare, ma piuttosto) vieta di adottare divieti in via regolativa? Per meglio comprendere il problema è utile ancorare il discorso a qualche esempio concreto: 1. La modificazione genetica di sostanze alimentari è ormai una pratica piuttosto diffusa60. I suoi rischi non sono ancora noti con precisione. C e chi teme che la modificazione genetica possa determinare gravi danni ambientali e grandi rischi alla salute umana, ma altri ribattono che la modificazione ^genetica permetterà di produrre alimenti più nutrienti con notevoli van­ taggi per la salute dell’uomo. 2. Gli scienziati non sono d ’accordo sui pericoli associati al riscaldamento globale, ma in generale si concorda sul fatto che il riscaldamento sia in atto61. E possibile che nel 2100 60 Cfr. A. McHughen, Pandora’s Picnic Basket, New York, Oxford Uni­ versity Press, 2000. 61 Per una discussione sul tema si vedano R.A. Posner, Catastrophe: Risk and Response, New York, Oxford University Press, 2004, p. 43 ss.; Lomborg, 42

questo trend determini un aumento della temperatura media pari a 4 o 5 °C (questa la stima più alta prodotta in occasione della conferenza internazionale sul cambiamento climatico); che tale aumento si traduca in una perdita economica pari o superiore a 3 trilioni di dollari; e che ne consegua un numero notevole di morti per malaria. Il protocollo di Kyoto richiede­ rebbe alle nazioni più industrializzate di ridurre le emissioni di C 0 2 al 92-94 per cento dei livelli del 1990. Molte ricerche indicano che ridurre in modo significativo queste emissioni comporterebbe grandi benefici, ma gli scettici ribattono che i costi legati alla diminuzione delle emissioni ridurrebbero il benessere di milioni di persone, specialmente fra i ceti meno abbienti. 3. Molti hanno paura del nucleare, ritenendo che le cen­ trali atomiche determinino una serie di rischi per la salute e la sicurezza, fra cui la possibilità di eventi catastrofici. Ma una nazione, se non ricorre al nucleare, potrebbe essere indotta a fare affidamento sui combustibili fossili e in particolare sulle centrali a carbone. Impianti di questo tipo determinano a loro volta rischi, inclusi quelli associati al riscaldamento globale. La Cina, per esempio, ha puntato sul nucleare in modo da ridurre le emissioni di C 0 2 e una serie di problemi legati all’inquinamento62. 4. Nei primi anni del X X I secolo una delle questioni am­ bientali più dibattute negli Stati Uniti riguarda la regolamen­ tazione dei livelli massimi di arsenico ammissibili nell’acqua L’ambientalista scettico, trad. it. eit., p. 261 ss.; W.D. Nordhaus e J. Boyer, Warming thè World: Economie Models of Global Warming, Cambridge (Mass.),

Mit Press, 2000, p. 168. 62 Si veda L. Zhong, Note: Nuclear Energy. China’s Approach Totvard Addressing Global Warming, in «Georgetown International Environmental Law Review», 12, 2000, p. 493. Naturalmente è possibile invocare la necessità che le nazioni riducano la loro dipendenza da impianti alimentati a carbone o da energia atomica e si orientino verso alternative preferibili sul piano ambientale, come l’energia solare. Per una trattazione generale si vedano G. Boyle (a cura di), Renewable Energy. Power for a Sustainable Future , Oxford, Oxford University Press, in collaborazione con Open University, 1996; A. Collinson, Renewable Energy, Austin (Tex.), Steck-Vaughn Library, 1991; D.E. Arvizu, Advanced Energy Technology and Climate Change Policy Implications, in «Florida Coastal Law Review», 2, 2001, p. 435. Ma queste alternative pongono a loro volta problemi di fattibilità e di costi. Si veda Lomborg, L'ambientalista scettico, trad. it. eit., pp. 121-150.

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potabile. Fervono infuocati dibattiti sui precisi livelli di rischio associati alla presenza di basse quantità di arsenico nell’acqua, ma, in base all’ipotesi peggiore, più di 100 vite potrebbero essere sacrificate ogni anno nella vigenza dello standard di 50 parti per miliardo che l’amministrazione Clinton intendeva riformare. Nel contempo, il proposto standard di 10 parti per miliardo costerebbe più di 200 milioni di dollari l’anno, con la possibilità che, una volta applicato, non salvi più di 6 vite l’anno. 5. Esiste un potenziale conflitto fra la protezione dei mammiferi acquatici e le esercitazioni militari. La Marina statunitense, per esempio, effettua numerose esercitazioni e ciò può mettere a repentaglio la vita dei mammiferi marini. Le attività militari negli oceani possono certamente causare danni rilevanti, ma decidere di sospendere queste attività nei casi in cui esse minacciano di arrecare un danno potrebbe pregiudicare la capacità di reazione militare, o almeno questo è quanto sostiene il governo63. Che tipo di guida offre il principio di precauzione in casi del genere? Si è tentati di rispondere - ed è la risposta che si tende a dare - che il principio richiede severi controlli sull’arsenico, sull’ingegneria genetica alimentare, sulle emissioni inquinanti, sui pericoli cui sono esposti i mammiferi marini e sul nucleare. In tutti questi casi, esiste la possibilità di danni gravi e non sono disponibili pareri scientifici decisivi che dimostrino come la probabilità di danno sia vicina allo zero. Se l’onere della prova viene fatto gravare su chi è interessato a condurre l’attività o il processo in questione, il principio di precauzione sembrerebbe imporre un onere impossibile da soddisfare. E ciò a prescindere dal fatto che il principio di precauzione, interpretato come ob­ bligo a intervenire in queste circostanze con una regolamenta­ zione stringente, si riveli sensato. Poniamoci però una domanda ancor più importante: questa attività regolativa più stringente è davvero imposta dal principio di precauzione? La risposta è no. In alcuni di questi casi, sarebbe agevole notare che l’adozione di regole più severe si porrebbe in contraddizione 63 Si veda la testimonianza del viceammiraglio Charles W. Moore, Deputy Chief of Naval Operations for Readiness and Logistics, innanzi al House Resources Committee, Subcommittee on Fisheries Conservation, Wildlife and Oceans, del 13 giugno 2002.

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con lo stesso principio di precauzione64. Il motivo più semplice dell’impasse è che questa regolamentazione priverebbe la società di importanti benefici e, di conseguenza, determinerebbe danni che altrimenti non si verificherebbero. In alcuni casi, la rego­ lamentazione elimina i «benefici-opportunità» legati alla scelta di dare il via a un’attività o un processo, determinando decessi che sarebbero prevenibili. Se questo è vero, è difficile pensare che la scelta di regolamentare sia precauzionale. Si consideri il «drug lag» che si verifica tutte le volte che le autorità governative adottano un approccio altamente precauzionale nei confronti dell’immissione in commercio di nuovi farmaci e medicine. Se le autorità insistono nel seguire questo approccio, tuteleranno la collettività dal rischio di danni iatrogeni derivanti da farmaci non sufficientemente testati, ma nel contempo impediranno alla collettività di ottenere i benefici potenziali prospettati da questi stessi farmaci. E precauzionale richiedere che i farmaci siano sottoposti a un lungo processo di controlli prima dell’immissione in commercio, o lo è fare il contrario? Con riferimento ai farmaci per prevenire l’insorgere dell’Aids, i fautori della precauzione hanno chiesto alle autorità governative di abbassare la soglia dei controlli preimmissione in commercio, in nome della tutela del bene della salute. E, a tal proposito, va detto che con riguardo ai farmaci innovativi gli Stati Uniti sono più precauzionali della maggior parte dei paesi europei. Ma, impedendo che questi farmaci innovativi giungano sul mercato, gli Stati Uniti finiscono per non prendere precauzioni nei confronti delle patologie che potrebbero essere arginate se si adottassero procedure più spedite di autorizza­ zione al commercio dei farmaci. Si pensi al mai sopito dibattito sull’attitudine di alcuni anti­ depressivi a determinare un piccolo rischio di tumore al seno65. Un approccio precauzionale potrebbe apparire quello di avvisare i consumatori della potenziale cancerogenicità di questi antide­ 64 Una buona trattazione si trova in Graham, Decision-Analytic Refinements of thè Precautionary Principle, eit., pp. 135-138. 65 Si vedano J.P. Kelly et al., Risk of Breast Cancer According to Use of Antidepressants, Phenotbiazines, and Antihistamines, in «American Journal of Epidemiology», 150, 1999, p. 861; C.R. Sharpe et al., The Effects ofTricycltc Antidepressants on Breast Cancer Risk, in «British Journal of Cancer», 86, 2002, p. 92.

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pressivi. Ma non assumere antidepressivi può essere a sua volta un fattore di rischio, certamente di tipo psicologico e in certi casi anche tisico (perché il malessere psicologico si associa talvolta a problemi tisici). Oppure si pensi alla decisione dell’Unione Sovietica di evacuare e riposizionare sul territorio più di 270.000 persone in risposta ai rischi determinati dal fallout radioattivo di Cernobyl. Non è chiaro se alla luce di tutte le circostanze del caso questo enorme progetto di smobilitazione apparisse giustificato sul piano della tutela della salute: «si sarebbe do­ vuto condurre un confronto fra i costi psicologici e terapeutici implicati dall'adozione di questa misura sulla popolazione tra­ sferita (ansia, disordini psicosomatici, depressioni e suicidi) e il danno che sarebbe stato evitato»66. Più in generale, un governo assennato avrebbe potuto decidere di ignorare i rischi di piccola entità associati a un basso livello di esposizione a radiazioni, osservando che adottare quella risposta precauzionale avrebbe generato paure tali da sopravanzare qualsiasi beneficio per la salute conseguibile adottando quella stessa misura67. O si pensi alla questione più generale che attiene a come gestire gli agenti tossici, incluse le sostanze cancerogeniche, che hanno un basso livello di potenziale. Causano effetti dannosi? In mancanza di prove scientifiche inequivoche, potrebbe appa­ rire «precauzionale» assumere che determinino effetti dannosi e pertanto ipotizzare, di fronte all’incertezza, che la curva che indica l’effetto dell’esposizione a una data quantità di agente tossico sia lineare e che non esistano soglie totalmente sicure se non in caso di assenza di esposizione68. Negli Stati Uniti questo è l’assunto dal quale muove la Environmental Protection Agency. Ma si tratta davvero di un approccio che può dirsi precauzionale senza margini di ambiguità? Molte prove scientifiche sembrano suggerire che un certo numero di agenti 66 M. Tubiana, Radiation Risks in Perspective. Radiation-Induced Cancer among Cancer Risks, in «Radiation and Environmental Biophysics», 39, 2000, n. 1, p. 3, in particolare pp. 8-10. 67 Ibidem. Per evidenze di segno opposto in un contesto assai rilevante, si veda L. Hardell et al., Further Aspects on Cellular and Cordless Telephones and Brain Tumors, in «International Journal of Oncology», 22, 2003, p. 399 (ove si discutono le prove scientifiche relative airassociazione eziologica fra telefoni cellulari e tumori). 68 Tubiana, Radiation Risks in Perspective, eit., in particolare pp. 8-9.

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tossici, dan n osi ad alti livelli di esposizione, sono invece b e n e­ fici, se assunti a basse d o s i69.

In tal modo, la cosiddetta «ormesi» è un modello di risposta all’esposizione a una dose, nel quale un basso dosaggio determi­ na effetti benefici che sono invece inibiti da dosaggi maggiori. Di fronte a un fenomeno di ormesi, l’adozione da parte delle autorità pubbliche di un modello di risposta alle dosi fondato su una curva lineare, che non prevede soglie sicure di esposizione alla sostanza, è suscettibile di determinare effetti negativi in termini di mortalità e morbilità. Quale approccio al problema della risposta alla dose è davvero precauzionale? Porsi la domanda non significa prendere posizione sulla possibilità che alcuni, molti o tutti gli agenti tossici siano benefìci o dannosi, se presi a piccole dosi. Serve però a chiarire che, se l’esposizione a bassi livelli può essere nel contempo benefica e dannosa, allora il principio di precauzione diventa paralizzante. Il principio richiede l’impiego di un modello di risposta ai dosaggi lineare, privo di soglie di sicurezza, ma nel contempo condanna l’impiego di questo stesso modello. Per questa e per altre ragioni si è sostenuto che un ricorso poco meditato al principio di precauzione minaccia di aumentare e non già di diminuire i rischi associati al consumo di alimenti70. Si pensi al caso degli alimenti geneticamente modificati. Molti ritengono che impedire la modificazione genetica possa determi­ nare un numero elevato di decessi e una piccola probabilità di causarne molti di più. Questo perché la modificazione genetica sembra prospettare la possibilità di produrre alimenti in modo più economico e con migliori risultati in termini di salubrità del prodotto, per esempio ottenendo un «riso golden» capace di recare grandi benefici nei paesi in via di sviluppo. Non sto sostenendo che la modificazione genetica sia probabilmente in grado di conseguire questi benefici, o che i benefici della mo­ dificazione genetica superino i rischi associati a questa pratica. 69 Si veda E.J. Calabrese e L.A. Baldwin, Hormesis: The Dose Response Revolution, in «Annual Review of Pharmacology and Toxicology», 43, 2003, p. 175; E.J. Calabrese e L.A. Baldwin, The Hormetic Dose-Response Model is More Common than thè Threshold Model in Toxicology, in «Toxicological Sciences», 71, 2003, p. 246. 70 J.C. Hanekamp et al., Chloramphenicol, Food Safety, and Precautionary Thinking in Europe, in «Environmental Liability Journal», 6, 2003, p. 209.

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Voglio solo dire che, se prendiamo alla lettera il principio di precauzione, esso viene contraddetto sia che si regoli, sia che non lo si faccia. Quale che siano davvero i benefici del cibo geneticamente modificato, il ricorso al principio di precauzione può determinare risultati palesemente assurdi in termini di regolamentazione. Nel 2002 il governo statunitense donò migliaia di tonnellate di grano al governo dello Zambia, che però rifiutò il dono, ritenendo che il grano potesse contenere sementi geneticamente modificate71. Alla base del rifiuto vi era il principio di precauzione. Un gruppo di scienziati e di economisti dello Zambia aveva visitato una serie di aziende agricole e di industrie di produzione di sementi negli Stati Uniti, concludendo che il principio imponesse di rifiutare il grano offerto in dono, in mancanza di studi che facessero chiarez­ za sui rischi alla salute determinati dagli alimenti geneticamente modificati. Alcuni rappresentanti del governo dello Zambia mo­ strarono preoccupazione per il fatto che i beneficiari degli aiuti piantassero i semi, con l’effetto di contaminare l’export di grano verso l’Unione Europea. Gli Stati Uniti si offrirono di molare il grano in farina (onde impedire la semina accidentale dei semi), ma il governo africano rimase fermo nel suo rifiuto. Secondo la Food and Agricolture Organization delle Nazioni Unite (Fao), il rifiuto ha lasciato 2,9 milioni di persone a rischio di soffrire la fame; uno «scenario prudente» dell’Oms calcolava che almeno 35.000 abitanti dello Zambia sarebbero morti di fame se non fosse stato reperito più grano. Rifiutare di accettare il grano si è rivelata davvero una mossa precauzionale? L’esempio mostra che la regolamentazione a volte contraddice il principio di precauzione perché determina rischi sostitutivi, nella forma di pericoli che si materializzano o aumentano in conseguenza dell’adozione di una data scelta regolativa72. Si consideri il caso del Ddt, spesso messo al bando o sottoposto a regolamentazioni assai stringenti al fine di ridurre i rischi per gli uccelli e gli esseri 7] J. Bohannon, Zambia Rejects GM Corn on Scientists’ Advice, in «Sci­ ence», 298, 8 novembre 2002, p. 1153, (disponibile airindirizzo www.bio, utexas.edu/courses/stuart/zambiareject.pdf. 72 Si veda la discussione in merito ai risk-risk tradeoff in J. Graham e J. Wiener, Risk vs. Risk, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1995; C.R. Sunstein, Health-Health Tradeoffs, in Id., Risk and Reason, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, pp. 133-152.

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umani. Il problema di questi divieti è che, così facendo, nei paesi in via di sviluppo viene eliminato lo strumento più efficace per combattere la malaria, e si finisce per mettere a repentaglio, in ultima analisi, la salute pubblica73. O si pensi al tentativo della Environmental Protection Agency di bandire l’amianto74, un di­ vieto che potrebbe apparire giustificato, o che addirittura si rende necessario, in base al principio di precauzione. Le difficoltà, nella prospettiva del principio di precauzione, stanno però nel fatto che anche i sostituti dell’amianto non sono privi di rischi. Il problema è pervasivo. Nel caso dell’arsenico, la diret­ trice della Environmental Protection Agency ha espresso la preoccupazione che una regolamentazione aggressiva, a causa dei suoi costi elevati, avrebbe potuto indurre la gente a evitare l’utilizzo degli acquedotti locali, favorendo il consumo di acqua prelevata da pozzi privati, in cui si riscontrano livelli elevati di inquinamento da arsenico75. Se così fosse, una regolamentazione sempre più stringente dei livelli di arsenico negli acquedotti contrasta con il principio di precauzione tanto quanto una regolamentazione meno severa. Si tratta di una situazione pressoché standard, perché i benefici-opportunità e i rischi sostitutivi rappresentano la regola e non l’eccezione76. Ma ci si può spingere oltre. Esistono molte prove secon­ do cui una regolamentazione che implichi costi elevati possa mettere a repentaglio la vita e la salute77. Si è rilevato come in 73 Goklany, The Precautionary Principle, eit., pp. 13-27. 74 Si veda Corrosion Proof Fittings v. EPA, 947 F.2d 1201 (5* Cir. 1991). 75 «Ma abbiamo assistito a casi, specialmente sulla costa occidentale e nel Midwest, dove l’arsenico è presente in natura fino a oltre 700 parti per mi­ liardo, e i costi per porvi rimedio hanno costretto le società di gestione degli acquedotti a chiudere i battenti, lasciando gli utenti nell’impossibilità di approv­ vigionarsi di acqua potabile, se non attraverso pozzi scavati nel terreno. Così facendo questa gente ha consumato acqua che era persino peggiore di quella che riceveva dall’acquedotto prima dell’intervento regolativo»; così si esprime Christine Todd Whitman, dirttrice dell’Environmental Protection Agency, in una intervista rilasciata a Robert Novack e Al Hunt, Cnn Evans, Novak, Hunt & Shields, Cable News Network, il 21 aprile 2001. 76 Si noti anche che qualche regolamentazione avrà benefici ancillari, riducendo rischi diversi da quelli che la sua introduzione mirava a contra­ stare. Per un’utile discussione in merito si veda S.J. Rascoff e R.L. Revesz, The Biases o/Risk Tradeo/f Analysis, in «University of Chicago Law Review», 69, 2002, p. 1763. 77 R. Keeney, Mortality Risks Induced by Economie Expenditures, in «Risk Analysis», 10,1990, p. 147; R. Lutter e J.F. Morrall III, Health-Health Analysis.

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termini statistici ogni 7 milioni di dollari di spesa una vita vada perduta78; un altro studio porta la cifra a 15 milioni di dollari79. Un terzo studio sostiene che la popolazione appartenente ai ceti meno abbienti sia particolarmente vulnerabile a questo effetto, perché una regolamentazione che impoverisce la fascia corrispondente al 20 per cento più povero della popolazione determina una mortalità doppia rispetto a quella registrabile ove la regolamentazione impoverisca la fascia corrispondente al 20 per cento più ricco della popolazione80. Di certo, il fenomeno e i meccanismi che lo determinano sono al centro di un acceso dibattito81. Non intendo assumere che particolari cifre rispondano alla realtà, né intendo sostenere che esistano prove inconfutabili in merito all’esistenza di una re­ lazione fra mortalità e costi legati alla regolamentazione. In questa sede è sufficiente osservare che c’è gente ragionevole che crede a questa relazione. Ne consegue che una spesa multimilionaria in dollari per adottare una precauzione determina - nell’ipotesi peggiore - notevoli effetti negativi per la salute, con una spesa di 200 milioni di dollari che può arrivare a causare la perdita di un numero fra le 20 e le 30 vite umane. Ciò rende arduo implementare il principio di precauzione (non solo quando la regolamentazione rimuove i beneficiopportunità o introduce, ovvero aumenta, rischi sostitutivi, ma anche) in tutti i casi in cui la regolamentazione presenta costi significativi. Se così fosse, il principio di precauzione, per questa stessa ragione, revoca in dubbio l’opportunità di molti esempi di regolamentazione. Se il principio milita contro qualsiasi azione che implichi un minimo rischio di determinare un danno grave, dovremmo allora essere assai restii a spendere molti soldi per ridurre i rischi, per la semplice ragione che la A New Way to Evaluate Health and Safety Regulation, in «Journal of Risk & Uncertainty», 8, 1994, n. 1, p. 43, in particolare p. 49, tab. 1. Si veda Keeney, Mortality Risks Induced by Economie Expenditures eit. 79 Si veda R.W. Hahn et al.> Do Federai Regulations Reduce Mortality?, Washington, American Enterprise Institute, 2000. 80 Si veda K.S. Chapman e G. Hariharan, Do Poor People Have a Stronger Relationship hetween Income and Mortality than thè Rich? Implication of Panel Data for Health-Health Analysis, in «Journal of Risk & Uncertainty», 12, 1996, p. 51, in particolare pp. 58-63. 81 Si veda Lutter e Morrall III, Health-Health Analysis, eit., p. 49, tab. 1.

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regolamentazione stessa comporta a sua volta rischi. È in questo senso che il principio di precauzione appare paralizzante: esso induce a osteggiare sia la regolamentazione, sia l’assenza di regolamentazione, così come qualsiasi altra linea di condotta che si collochi fra questi due estremi. Dovrebbe adesso apparire più agevole comprendere quanto accennavo poco sopra, e cioè che, a onta del loro «entusiasmo formale» per il principio di precauzione, i paesi europei non sono «più precauzionali» degli Stati Uniti. Anche solo sul piano logico, le società, come gli individui, non possono comportarsi in modo iperprecauzionale nei confronti di tutti i rischi. Ogni società e ogni individuo devono selezionare i rischi cui prestare una particolare attenzione. In questa prospettiva, la selettività delle precauzioni non solo è un fenomeno che può essere verifi­ cato sul piano empirico, ma appare una conseguenza obbligata sul piano teorico-concettuale. Mettendo a confronto l’Europa e gli Stati Uniti, Jonathan Wiener e Michael Rogers hanno sottoposto questo assunto a una verifica empirica82. All’alba del XXI secolo, per esempio, gli Stati Uniti sembrano seguire un approccio altamente precau­ zionale nei confronti dei rischi associati alle discariche di rifiuti pericolosi o al terrorismo, ma non si pongono allo stesso modo nei confronti dei rischi legati al riscaldamento globale, all’in­ quinamento dell’aria all’interno degli edifici, alla povertà, alle diete squilibrate e all’obesità. Sarebbe davvero prezioso provare a verificare quali paesi si rivelano particolarmente precauzionali e nei confronti di quali rischi, e anche misurare il cambiamento di queste preferenze nel corso del tempo. Uno studio compa­ rativo fra i singoli paesi, commissionato dall’Agenzia federale tedesca per la protezione dell’ambiente, arriva a concludere che esisterebbero due schieramenti nell’ambito dei paesi più industrializzati: i cosiddetti «paesi precauzionali» (Germania, Svezia, Paesi Bassi e gli Stati Uniti) e i cosiddetti «paesi della protezione» (Giappone, Francia e Gran Bretagna)83. Si tratta di una conclusione che non mi pare plausibile. L’uni­ verso dei rischi è troppo vasto per consentire di dar credito a 82 Si veda Wiener e Rogers, Comparing Precautiom in thè United States and Europe, eit. 83 Si veda Sand, The Precautionary Principle. A European Perspective, eit., p. 448.

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tassonomie del genere. Questo per il semplice motivo che nessun paese è precauzionale «in generale» e che, inevitabilmente, ogni paese adotta precauzioni costose solo nei confronti di pericoli che si mostrano particolarmente salienti o ricorrenti. Il problema che affligge il principio di precauzione è la sua vocazione a suggerire erroneamente che le nazioni possano e debbano adottare una forma di avversione al rischio generale. Non ritengo che le precauzioni siano un errore, e nemme­ no che sia impossibile ricostruire il principio di precauzione su basi più sensate. Per ora il mio unico intento è dimostrare che il principio identifica un modo grezzo e a volte perverso di promuovere finalità desiderabili, e che esso, preso a valore facciale, si rivela paralizzante e, perciò, di nessun aiuto.

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CAPITOLO SECONDO

OLTRE IL PRINCIPIO DI PRECAUZIONE

Molti ritengono che il principio di precauzione possa offrire una valida guida sul piano operativo. Ma in che modo può farlo? A mio avviso il principio può essere concretamente implemen­ tato se, e solo se, chi lo mette in pratica si cala una benda sugli occhi, ovvero solo se focalizza l’attenzione su alcuni aspetti della questione regolativa, sottovalutando o omettendo di considerar­ ne altri. Il che innesca un altro interrogativo: in cosa consiste la benda che rende possibile applicare il principio? Quando l’attenzione della gente è selettiva, perché è selettiva proprio in quel modo? Credo che in larga misura la risposta a questo interrogativo possa essere formulata con l’ausilio dell’economia comportamentale e della psicologia cognitiva. Cinque aspetti sono particolarmente pertinenti: • l’euristica della disponibilità, che fa apparire alcuni rischi assai vicini a inverarsi, siano essi reali o meno; • la sottostima delle probabilità, che induce le persone a concentrare le proprie preoccupazioni sulle ipotesi peggiori, anche se assai improbabili; • l’avversione alle perdite, che fa provare avversione nei confronti di una perdita rispetto allo status quo\ • l’attitudine a credere nella benevolenza della natura, che ammanta di un alone di sospetto tutte le decisioni e i processi che hanno matrice umana; • la sottovalutazione degli effetti sistemici, ovvero l’incapa­ cità di tener conto del fatto che i rischi fanno parte dei sistemi e che gli interventi correttivi effettuati su questi sistemi possono generare a loro volta nuovi rischi. Gli uomini politici e i gruppi di interesse sfruttano i mecca­ nismi sottesi a questi fenomeni, facendo sì che l’attenzione della gente si rivolga ora nell’una ora nell’altra direzione. Considerati nel loro insieme, tali meccanismi dimostrano come le bende di 53

cui discutiamo non siano imprevedibili o casuali, ma assumano sempre la stessa struttura. Oltre ad avere la caratteristica di essere universali, queste caratteristiche della cognizione umana offrono il vantaggio di spiegare le differenze che possono riscontrarsi fra culture e fra paesi diversi. Se, per esempio, a Londra si serba memoria di fatti salienti riguardanti la mucca pazza, mentre ciò non avviene a New York, i londinesi saranno molto più preoccu­ pati della mucca pazza di quanto non lo siano i newyorchesi. Se è noto che si sono verificate patologie determinate dalla presenza di discariche di sostanze pericolose abbandonate in California, ma non a Berlino, ecco che i californiani saranno molto più sensibili al problema delle discariche abbandonate di quanto non lo siano i berlinesi. Ciò accade anche se la natura del rischio resta sostanzialmente identica nelle varie località. Cominciamo la nostra analisi dall’euristica della disponibilità. 1. L’euristica della disponibilità E ampiamente dimostrato che, quando le persone analiz­ zano i rischi, si servono di alcune euristiche, o regole fondate sull’esperienza, che servono a semplificare il proprio campo d’indagineLe euristiche tipicamente funzionano attraverso un processo di «sostituzione attributiva», grazie a cui le persone sono in grado di dare una risposta a una domanda difficile, sostituendola con una più semplice2. Dovremmo avere paura del nucleare, del terrorismo, delle molestie verso i minori o dei pesticidi? Quando le persone adoperano l’euristica della disponibilità, la magnitudine del rischio viene misurata chie­ dendosi se qualche esempio relativo al problema con il quale ci si confronta può balzare subito alla mente3. Se alla gente riesce di pensare subito a uno di questi esempi, sarà molto 1 Si veda D. Kahneman, P. Slovic e A. Tversky, judgment under Uncertainty. Heuristic and Biases, Cambridge, Cambridge University Press, 1982. 2 Si veda D. Kahneman e S. Friederick, Representativeness Revisited. Attnbute Substitution in Intuitive Judgement} in T. Gilovich, D. Griffin e D. Kahneman (a cura di), Heuristics and Biases. The Psychology of Intuitive judgement, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, p. 49, in parti­ colare p. 53. 3 Si veda Tversky e Kahneman, ]udgement under Uncertainty, eit., p. 3, in particolare pp. 11-14.

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più probabile che abbia paura di quanto non accada nel caso in cui invece non venga alla mente un esempio significativo. L’euristica della disponibilità mette a nudo il modo di operare del principio di precauzione, spiegando perché alcuni pericoli saranno messi all’indice mentre altri saranno trascurati. Per esempio, «una classe di casi i cui esempi siano più facil­ mente rievocabili sembrerà più numerosa di una classe di casi i cui esempi appaiano meno facilmente richiamabili alla mente»4. Si consideri un semplice esperimento nel quale viene mostrata una lista di personaggi famosi di entrambi i sessi a un campione di persone, per poi chiedere loro se nella lista mostrata ricorressero più nominativi di uomini o di donne. Dopo aver visionato liste con nominativi di personaggi maschili particolarmente famosi, gli intervistati ritenevano che nel complesso gli uomini fossero più numerosi, mentre, dopo aver visionato liste con nominativi di donne molto celebri, gli intervistati affermavano che le persone di sesso femminile erano più numerose5. Ciò dimostra come la familiarità possa influenzare la dispo­ nibilità dei fatti. Un rischio che appaia familiare, come quello associato al fumo, sarà considerato più grave di un rischio meno familiare, come quello legato all’eccessiva esposizione ai raggi solari. Ma anche la salienza non è meno importante. Per esempio, l’impatto che l’aver assistito all’incendio di una casa produce sulla capacità soggettiva di formulare stime sul futuro in merito alla probabilità che si verifichi il medesimo evento è con ogni probabilità maggiore dell’impatto prodotto dall’aver letto del verificarsi di un incendio su un quotidiano locale6.

Parimenti, eventi accaduti di recente avranno un impatto maggiore di eventi che risalgono più indietro nel tempo. In larga misura ciò aiuta a spiegare il comportamento legato ai rischi, incluso il modo di decidere sull’adottare precauzioni. L’acquisto di polizze assicurative per la copertura dei rischi associati ai disastri naturali è grandemente influenzato dalle esperienze recenti della gente7. Le persone che abitano in zone 4 Ibidem, p. 11. 5 Ibidem. 6 Ibidem. 1 P. Slovic, The Perception of Risk, London, Earthscan, 2000, p. 40.

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soggette sul alluvioni sono molto meno propense ad acquistare una copertura assicurativa se nel recente passato non si sono verificate alluvioni. All'indomani di un terremoto, la domanda di assicurazione per i danni legati a eventi sismici cresce im­ provvisamente, salvo declinare costantemente da quel momento in poi in modo proporzionale al regredire della salienza dei ricordi associati all’evento. Va osservato che l’impiego dell’euristica della disponibilità in questi contesti non appare affatto irrazionale*. Sia l'assicurazione sia le misure precauzionali possono essere costose, e ciò che è appena accaduto appare il più delle volte la guida migliore verso ciò che nuovamente accadrà. Il problema è che l’euristica della disponibilità può indurci a commettere gravi errori, alimentando paure eccessive per qualcosa o inducendo a trascurare qualcos’altro. L'euristica della disponibilità aiuta a comprendere il modo di operare del principio di precauzione per un semplice motivo: talvolta un certo rischio, che è ritenuto meritevole di interventi precauzionali, appare disponibile sul piano cognitivo, mentre altri rischi, fra cui quelli generati dall’intervento regolativo, non lo sono. Per esempio, è assai facile rendersi conto che l’arsenico è una sostanza potenzialmente pericolosa: è ben noto che l’arsenico è un veleno, se è vero che il termine ricorre nel titolo di un film ormai classico che mette in scena un avvele­ namento: Arsenico e vecchi merletti. Al contrario, per rendersi conto che la regolamentazione dell’arsenico nell’acqua potabile può indurre le persone a impiegare alternative meno sicure dell’acqua degli acquedotti occorre compiere un’operazione mentale relativamente complessa. In molti casi nei quali il h Kahneman e Tversky enfatizzano che le euristiche da loro identificate «sono estremamente efficienti e di solito effettive», ma anche che esse «p os­ sono condurre a errori sistematici e preventivabili»; cfr. Tversky e Kahneman, Judgment under Uncertainty, eit., p. 20. Gerd Gigerenzer, fra gli altri, ha evidenziato come alcune euristiche possano funzionare assai bene; cfr. G. Gigerenzer, P.M. Todd e Abc Group, Simple Heuristics that Make Us Smart, New York, Oxford University Press, 1999; G. Gigerenzer, Adaptive Thinking. Rationality in thè Reai World, New York, Oxford University Press, 2000; egli ha impiegato questa affermazione per rispondere a quanti hanno richiamato l’attenzione sugli errori riconducibili all’impiego delle euristiche e ai biases. In questa sede non intendo prendere posizione sul dibattito che ne è seguito. Anche se molte euristiche funzionano bene (soprattutto nella vita quotidiana) un governo assennato può fare molto di più che limitarsi semplicemente a prestare affidamento sul loro modo di funzionare.

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principio di precauzione sembra offrire una guida, ciò avviene perché alcuni dei rischi rilevanti appaiono subito disponibili, mentre altri rischi risultano a mala pena visibili. Si consideri a questo proposito il fatto che, mentre di norma le preoccupazioni che la collettività nutre per i rischi appaio­ no in sintonia con la reale evoluzione dei rischi nel tempo, quando invece si determinano situazioni di «panico», indotte da raffigurazioni particolarmente vivide del pericolo, questo rapporto viene alterato9. In certi momenti, durante gli anni settanta e ottanta, negli Stati Uniti si sono registrati picchi di preoccupazione per il fenomeno dei suicidi fra gli adolescenti, per l’herpes, per i figli nati fuori dal matrimonio e per l’Aids, picchi che in realtà non riflettevano reali aggravamenti del pro­ blema al centro della preoccupazione sociale. La disponibilità, indotta da «un caso particolarmente allarmante o da un nuovo riscontro, amplificato dagli organi di informazione», ha giocato un ruolo determinante nell’alimentare queste paure collettive10. A volte tali preoccupazioni hanno innescato reazioni precau­ zionali ingiustificate, come accadde quando alcuni genitori rifiutarono di mandare i figli a scuola se qualche compagno aveva manifestato i sintomi dell’herpes. Ma qual è il fattore che in concreto determina la dispo­ nibilità? In un saggio particolarmente interessante si è tentato di verificare gli effetti determinati dalla facilità con la quale è possibile proiettare la propria immaginazione sul modo in cui si percepisce la valutazione del rischio11. Lo studio chiedeva ai partecipanti all’esperimento di assumere informazioni su una patologia (l’Hyposcenia-B) che «si stava diffondendo» nel campus teatro dell’esperimento. In una delle ipotesi prospettate, i sinto­ mi appartenevano all’esperienza quotidiana ed erano facilmente immaginabili, perché riguardavano dolori muscolari, perdita di energia e frequenti mal di testa molto intensi. In un’altra ipotesi, i sintomi erano generici e diffìcilmente raffigurabili, perché veniva 9 Si veda G. Loewenstein e J. Mather, Dynamic Processes in Risk Perception , in «Journal of Risk & Uncertainty», 3, 1990, p. 155. 10 Ibidem , p. 172. 11 Cfr. S J . Sherman, et al., Imaging Can Heighten or Lotver thè Perceived Likelihood of Contracting a Disease. The Mediatìng Effect of Ease of Imagery, in Gilovich, Griffin e Kahneman, Heuristics and Biases. The Psychology o f Intuitive Judgement, eit., p. 82.

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prospettata un’infiammazione epatica, una disfunzione del sistema nervoso e un generico senso di disorientamento. Ai partecipanti cui erano state sottoposte le due diverse ipotesi veniva chiesto di immaginare di essere stati affetti dalla malattia per tre settimane e di scrivere una dettagliata descrizione su ciò che in quella condi­ zione avrebbero avvertito. Dopo di che, costoro erano chiamati a quantificare in una scala a 10 punti la probabilità d’aver contratto la malattia. Il risultato più importante dell’esperimento è stato che i giudizi relativi a questa probabilità risultavano molto diversi nei due scenari, perché l’aver sofferto di sintomi facilmente raffi­ gurabili rendeva le persone molto più inclini a ritenere di avere, con ogni probabilità, contratto la malattia. 11 minimo che può dirsi è che l’euristica della disponibi­ lità non opera in un vuoto sociale. Ciò che appare facilmente «disponibile» ad alcuni individui, gruppi, culture e anche a un’intera nazione, non è disponibile a tutti. Molti di coloro che invocano una legislazione per disciplinare la detenzione di armi da fuoco hanno in mente, prontamente «disponibili», casi di incidenti in cui una normativa del genere avrebbe evitato decessi non necessari; molti di coloro che invece si oppongono a una legislazione del genere pensano a situazioni nelle quali, se le persone interessate avessero potuto disporre di armi, avrebbero sventato aggressioni criminali12. Tornerò su questo problema nel capitolo IV. Per il momento, il mio intento è dimostrare che l’euristica della disponibilità spesso accompagna il ricorso al principio di precauzione, enfatizzando l’importanza di prendere precauzioni contro alcuni, ma certo non tutti, i rischi che si fronteggiano. 2. Trascurare le probabilità L’euristica della disponibilità può determinare una stima inaccurata delle probabilità. Ma a volte le persone rinunciano tout court a effettuare anche piccole stime delle probabilità, specialmente quando sono in gioco emozioni forti. In casi del genere, variazioni su larga scala delle probabilità avranno poca 12 Si veda D.M. Kahan e D. Braman, More Statistics, Less Persuasion. A Cultural Theory of Gun-Risk Perceptions, in «University of Pennsylvania Law Review», 151, 2003, p. 1291.

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importanza, anche se queste variazioni avrebbero senza dubbio meritato un’attenzione particolare. Il fenomeno attiene sia alla speranza sia alla paura; anche immagini particolarmente vivide di buoni risultati possono far scemare l’attenzione per le pro­ babilità. Le lotterie hanno successo in parte per questa ragione. Ma l’applicazione del principio di precauzione ha a che fare con la paura e non con la speranza. La mia tesi è che in alcune circostanze il principio di precauzione appare praticabile perché il problema delle probabilità viene trascurato e fra i diversi possibili esiti le persone focalizzano la propria attenzione sugli esiti che hanno una particolare presa emotiva. A questo punto dovrebbe risultare agevole cogliere il nesso che lega il fatto di trascurare le probabilità al principio di precau­ zione. Se le probabilità vengono trascurate, specialmente quando sono in gioco le emozioni, allora il principio si manifesterà sul piano operativo facendo sì che la collettività nutra preoccupazioni eccessive per alcuni pericoli che hanno basse probabilità di inve­ rarsi. Si pensi al ben noto confronto fra i decessi determinati dalla canicola estiva e quelli determinati dagli incidenti aerei. Questi ultimi suscitano molto più allarme nell’opinione pubblica, sia per l’euristica della disponibilità sia perché, per alcuni, l’evento in sé assume una particolare salienza, ma non le sue probabilità di veri­ ficazione. Con riguardo alla modificazione genetica degli alimenti o al riscaldamento globale opera lo stesso fenomeno: alcuni sono indotti a focalizzare la propria attenzione sugli scenari peggiori e così a ritenere che il principio di precauzione, semplicemente applicato, richieda controlli regolativi particolarmente aggressivi. Attenzione: non sto asserendo che questi controlli siano un errore; anzi, riguardo al riscaldamento globale essi appaiono giustificati. Mi limito a sostenere che il principio di precauzione sembra offrire una guida in parte perché il problema delle probabilità viene trascurato. Per comprendere il modo di operare del principio di pre­ cauzione è importante considerare che la visualizzazione o l’im­ maginazione giocano un ruolo assai rilevante nel conformare il modo in cui la collettività reagisce ai rischi13. Quando l’immagine di un esito negativo si rivela facilmente accedibile, le persone 13 Si veda P. Slovic et a l , Violence Risk Assessment and Risk Communica­ tions in «Law & Human Behavior», 24, 2000, p. 271.

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diventano molto preoccupate del relativo rischio, anche se le sue probabilità di verificazione sono rimaste invariate. Si consideri che. quando si chiede quanto sarebbero disposte a pagare per assicurarsi contro il rischio di incidenti aerei determinati dal «terrorismo», le persone si dichiarano disposte a pagare più di quanto non si dichiarino disposte a fare se la domanda rivolta loro attiene all'assicurazione per un tipo qualsiasi di disastro aereo14. La spiegazione più immediata per questo curioso risultato è che il termine «terrorismo» evoca immagini assai vivide di disastri, prevalendo sulle valutazioni fondate sulle probabilità. Si consideri ancora che, quando le persone discutono in merito a un rischio a bassa possibilità di verificazione, la loro preoccupazione cresce anche se la discussione verte principalmente su rassicurazioni che appaiono credibili per il fatto che le probabilità di verificazione del danno siano davvero infinitesimali15. Ciò perché discutere rende di per sé più facile visualizzare il rischio e perciò aumenta i timori a esso correlati. Affronterò questo fenomeno in maggior dettaglio nel capitolo III. In molte circostanze è il diritto stesso a rappresentare un modo di rispondere alla paura di un esito negativo senza prestare particolare attenzione al problema delle probabilità, quasi si trattasse di una versione del principio di precauzione in pratica. Così, per esempio, la messa al bando della carne di bovini trattati con gli ormoni della crescita adottata dalla Comunità Europea ha rivelato quanto importante sia il ruolo giocato dalle paure collettive nella regolamentazione del rischio16. L’Appellate Body della World Trade Organization ha accertato che il divieto comunitario violava l’articolo 5.1 dell’accordo sulle misure sanitarie e fitosanitarie (accordo S p s)17, il quale impone ai membri della Wto di giustificare qualsiasi regolamentazione 14 Si veda E.J. Johnson et al., Framing, Probability Distortions, and Insur­ ance Decisioni, in «Journal of Risk & Uncertainty», 7, 1993, n. 1, p. 35. 15 Si veda A.S. Alkahami e P. Slovic, A Psychological Study o f thè Inverse Relationship between Perceived Risk and Perceived Benefit, in «Risk Analysis», 14, 1994, n. 6, p. 1086, in particolare p. 1094. 16 Per una discussione illuminante in merito si veda H. Chang, Risk Regula­ tion, Endogenous Public Concerns, and thè Hormone Dispute. Nothing to Fear except Fear Itself?, in «Southern California Law Review», 77, 2004, p. 743. 17 Report of thè Appellate Body, EC Measures Concerning Meat and Meat Products (Hormones), WT/DS48/AB/R, 16 gennaio 1998 (adottato il 13 febbraio 1998), www.worldtradelaw.net/reports/wtoab/ec-hormones(ab).pdf.

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in materia di misure sanitarie e di sicurezza facendo riferimento a una valutazione del rischio di taglio scientifico. In tal modo l’Appellate Body ha respinto il tentativo della Ue di difendere la propria posizione invocando le paure nutrite dai consumatori in merito alla sicurezza della carne trattata con gli ormoni. In quel contesto le paure erano reali, ma trascuravano il problema della probabilità.

3 . Avversione alle perdite e familiarità La gente tende a essere avversa alle perdite, un fenomeno che si riflette nel fatto che rispetto allo status quo una data perdita viene percepita in modo più negativo di quanto in­ vece appaia desiderabile, rispetto al medesimo status quo, un guadagno pari alla perdita prospettata18. Immaginare la pos­ sibilità di perdere ciò di cui oggi disponiamo suscita davvero paura, in un modo assai più intenso della piacevole sensazione associata alTimmaginare che un giorno potremo avere più di quanto oggi disponiamo. Il che, forse, è un bene. Il problema nasce quando le decisioni individuali e sociali sottostimano il guadagno potenziale legato al mantenimento dello status quo e si focalizzano sulle possibili perdite, in un modo che nel complesso finisce per aumentare i rischi e diminuire il benessere collettivo. Per capire come funzioni l’avversione alle perdite si con­ siderino alcuni esperimenti, ormai classici, che riguardano il cosiddetto effetto dotazione19. A un primo gruppo di persone erano stati inizialmente consegnati (in dotazione) alcuni beni, quali tazze di caffè, barrette di cioccolato e binocoli. Era poi stato chiesto loro quanto avrebbero voluto essere pagati 18 Si vedano R.H. Thaler, The Psychology of Choice and thè Assumptions of Economici, in Id., Quasi Rational Economia, New York, Russell Sage Founda­ tion, 1991, p. 137, in particolare p. 143; D. Kahneman, J.L. Knetsch e R.H. Thaler, Experimental Tests of thè Endowment Effect and thè Coase Theorem, in «Journal of Politicai Economy», 98, 1990, n. 6, p. 1325, in particolare p. 1328; C. Camerer, Individuai Decision Making, in J.H. Kagel e A.E. Roth (a cura di), The Handbook of Experimental Economia, Princeton (N.J.), Princeton University Press, 1995, p. 587, in particolare pp. 665-670. 19 Si veda Thaler, The Psychology o f Choice and thè Assumptions of Economics, eit.

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per privarsene. A un secondo gruppo di persone, om ogeneo al primo, a cui non erano stati dati quegli stessi beni, si era chiesto quanto sarebbero stati disposti a pagare per ottenerli. Le persone inizialmente dotate dei beni li hanno valutati molto più delle persone che inizialmente non li avevano ricevuti in dotazione. E interessante osservare come questo effetto non venga riscontrato se si utilizza denaro: le persone sanno che un dollaro vale un dollaro. Ma, in caso di beni non agevolmente convertibili in valori monetari, l'esperimento permette di osser­ vare il manifestarsi di un notevole effetto dotazione. Alla base di questo effetto vi è l'avversione alle perdite: le persone sono molto più inclini a essere dispiaciute dalla prospettiva di una perdita di quanto possano essere rallegrate dalla prospettiva di un guadagno di pari importo. Ne consegue che, contrariamente a quanto insegna la teoria economica tradizionale, le persone non attribuiscono ai costi implicanti una perdita patrimoniale diretta il medesimo valore che si attribuisce ai costi legati alla mera perdita di opportunità. Da ciò discende un corollario evidente, che attiene alla paura e alla regolamentazione del rischio: le persone saranno particolarmente sensibili alle perdite che comporta qualsiasi nuo­ vo rischio, o l’aggravamento di un rischio esistente, ma saranno molto meno sensibili ai benefici sacrificati dall’introduzione di una nuova regolamentazione. Credo che l’avversione alle per­ dite possa spesso rivelarsi utile per comprendere ciò che rende operativo il principio di precauzione. Spesso i costi-opportunità della regolamentazione sono registrati appena, quando non sono totalmente ignorati, mentre le perdite patrimoniali che riflettono i costi dell’attività o del prodotto al centro dell’at­ tenzione regolativa appaiono integralmente visibili. D i fatto si tratta di una forma di status quo bias. Ciò che già si ha diventa il paradigma in base al quale misurare le perdite e i guadagni, e rispetto allo status quo una perdita appare molto più negativa di quanto sembri positivo un guadagno di pari importo. Se l’avversione alle perdite è all’opera, si può predire che il principio di precauzione tenderà a far risaltare le perdite determinate da un qualche nuovo rischio, mentre indurrà a sottovalutare i benefici persi in conseguenza dei controlli intro­ dotti per contrastare quel medesimo rischio. Torniamo adesso agli scienziati persuasi che il principio di precauzione avrebbe 62

impedito l’awento degli aerei, degli antibiotici e dei frigoriferi. Costoro devono aver ritenuto che il principio implichi una forma di avversione alle perdite, che fa sì che il principio si applichi ai rischi creati dai nuovi processi, ma non alla riduzione dei rischi che si accompagna all’introduzione di quegli stessi processi. Oppure pensiamo alla grande attenzione riservata negli Stati Uniti ai rischi legati all’insufficienza dei controlli propedeutici all’immissione in commercio di nuovi medicinali, e alla scarsa sensibilità per i rischi associati al fatto che a seguito dell’inaspri­ mento di questi controlli i medicinali giungono tardivamente sul mercato. Se teniamo fuori dal nostro campo di osservazione i benefici-opportunità, il principio di precauzione ci apparirà una guida valida, a dispetto delle obiezioni che gli ho rivolto. Nel contempo, i benefici-opportunità trascurati possono evidenziare i gravi problemi che implica l’impiego del principio di precau­ zione. E esattamente ciò che accade nel caso della modificazione genetica delle sostanze alimentari. Lo stesso problema si mani­ festa quando il principio di precauzione è invocato per mettere al bando la clonazione riproduttiva. Molte persone registrano i possibili danni della clonazione in modo più vivido di quanto non accada con i potenziali benefici che la messa al bando di questa pratica riproduttiva impedirebbe di conseguire. Ma ritenere che l’avversione alle perdite sia l’unico fattore sotteso all’applicazione del principio pone un problema evi­ dente: la regolamentazione che il principio sembra imporre è spesso suscettibile di determinare vere e proprie perdite rispetto allo status quo. In casi del genere le perdite non possono es­ sere evitate. Si pensi al riscaldamento globale. Naturalmente molta gente teme i rischi associati a questo fenomeno, non solo perché essi appaiono gravi, ma anche perché implicano una perdita rispetto alla situazione attuale. Al tempo stesso, anche le spese necessarie per porre sotto controllo il fenomeno determinano perdite. Molti di coloro che si professano scettici sull’opportunità di porre sotto controllo le emissioni di C 0 2 puntano l’indice sulle perdite associate a questi controlli; i paladini dell’opportunità dei controlli mettono invece l’accen­ to sulle perdite attese ove i controlli non siano adottati. Ciò che sto sostenendo è che, quando il principio di precauzione sembra offrire una guida, ciò spesso accade perché le perdite identificabili appaiono particolarmente salienti. 63

L’avversione alle perdite è strettamente connessa a un altro riscontro cognitivo: le persone sono molto più disponi­ bili a tollerare i rischi fam iliari rispetto ai rischi non fam iliari, anche se entrambi appaiono statisticamente equivalen ti 20. Per esempio, i rischi associati alla guida non suscitano particolari preoccupazioni anche se, solo negli Stati Uniti, 10.000 persone muoiono ogni anno sulle strade. Si tratta di rischi considerati parte della nostra esistenza quotidiana. Al contrario sono in molti a nutrire preoccupazioni per rischi che ci appaiono nuovi, come quelli associati agli alimenti geneticamente m odificati, a sostanze chimiche di nuova concezione o al terrorismo. Q ue­ sta differenza può in parte spiegarsi col convincimento che, di fronte a nuovi rischi, non possiamo assegnare probabilità ai relativi pericoli, e ciò consiglia di usare prudenza. M a la propensione degli individui e della società a focalizzare l’at­ tenzione sui nuovi rischi prevale su questa convinzione. Essa rende operativo il principio di precauzione, enfatizzando, senza sufficienti ragioni, solo un sottoinsieme dei pericoli che sono realmente in gioco.

4. Il mito della natura benigna A volte il principio di precauzione manifesta i suoi effetti incorporando la credenza che spesso la natura sia benigna, a differenza dell’intervento dell’uomo, che è suscettibile di ge­ nerare rischi, come accade per l’idea secondo cui il principio di precauzione impone di disciplinare in m odo stringente i pesticidi o le sostanze alimentari geneticamente modificate. L’essere persuasi della bontà della natura si unisce alla fissazione per l’avversione alle perdite. Molte persone temono che ogni intervento umano potrà determinare perdite rispetto allo status quo e ritengono che queste perdite debbano essere considerate assai rilevanti, mentre i guadagni vanno guardati con sospetto o, come minimo, sono considerati meno importanti. Spesso l’avversione alle perdite e il dogma della benignità della natura vanno a braccetto: lo status quo diventa il metro di giudizio in base al quale misurare ogni eventuale variazione. Molti consi­ 20 Si veda Slovic, The Perception o f R isk, pp. 140-143.

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derano i processi che interferiscono con il corso della natura come una problematica «degradazione)», mentre eventuali guadagni o miglioramenti associati a tali processi appaiono, a parità di condizioni, molto meno importanti. Ma la tensione verso il mito di una natura benigna è piuttosto diffusa, al punto da sopravanzare la stessa avversione alle perdite. Per esempio, «l’intervento dell’uomo sembra avere un ruolo di amplificatore nei giudizi sulla rischiosità e sulla possibilità che il cibo sia veicolo di contagio», anche se «il numero di vite perdute a causa di disastri naturali è maggiore dei decessi determinati da disastri provocati dall’uomo»21. Gli studi dimostrano che la gente sovrastima i rischi di cancerogenidtà dei pesticidi, mentre sottostima quelli legati ai fattori che in natura determinano il cancro. Le persone sono persuase dall’equazione natura = sicurezza, al punto che preferiscono l’acqua naturale a quella trattata, anche se le due acque risultano avere una composizione chimica identica22. La credenza nella benevolenza della natura gioca un ruolo rilevante nell’operatività del principio di precauzione, specie agli occhi di quanti vedono nella natura una sintesi di armonia ed equilibrio. Molti dei fautori del principio mostrano di nutrire una speciale preoccupazione per le nuove tecnologie. La maggior parte delle persone è persuasa che le sostanze chimiche natu­ rali siano più sicure di quelle artificiali23 (ma la gran parte dei tossicologi non è dello stesso avviso). In questa prospettiva» il principio impone cautela tutte le volte che qualcuno interviene sul mondo naturale. E ciò non è privo di un fondo di verità: la natura è fatta di sistemi e intervenire sui sistemi può produrre gravi problemi. Ma questo modo di intendere il principio di precauzione deve fare i conti con un grave problema. Non è detto che ciò che è naturale sia sicuro24. Si consideri in questa luce l’idea piuttosto familiare che predica l’esistenza di un «equilibrio della natura». Per qualcuno 21 Cfr. P. Rozin, Technological Stigma. Some Perspecttves Jrom thè Study o f Contagion, in J. Flynn, P. Slovic e H. Kunreuther (a cura di), Risk, Media, and Stigma: Understanding Public Challenges to Modem Science and Technol­ ogy, London, Earthscan, 2001, p. 31, in particolare p. 38. 22 Ibidem. 21 Si veda Slovic, The Perception of Risk, eit., p. 291. 24 Si veda J.P. Collman, Naturally Dangerous, Sausalito (Calif.), University Science Books, 2001.

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questa idea è semplicemente falsa25. Una «rivoluzione» scientifica ha dimostrato che la natura «è caratterizzata dal cambiamento e non dalla costanza», e che «i sistemi ecologici naturali sono dinamici», laddove i cambiamenti desiderabili «sono quelli in­ dotti dall'azione dell'uomo»26. Quale che sia la verità, la natura è spesso teatro di distruzione, malattie, uccisioni e morte. Per cui non si può sostenere che l'attività dell’uomo sia necessariamente o sistematicamente più distruttiva di quanto non lo sia quella della natura. Né può ritenersi assodato che i prodotti naturali siano più sicuri di quelli fabbricati dall’uomo27. Gli alimenti biologici, cui va il favore di molta gente persuasa della loro salubrità e sicurezza e attorno ai quali ruota un giro d ’affari pari a 4,5 miliardi di dollari solo negli Stati Uniti, secondo un’opinione sono «ben più rischiosi da consumarsi di quanto non siano alimenti coltivati con sostanze chimiche sintetiche»28. La convinzione secondo cui il principio di precauzione induca a dubitare dei pesticidi, ma non degli alimenti biologici, è pro­ babilmente dovuta al fatto che la gente registra che i rischi per la salute determinati dall’allontanarsi dalla «natura» meritino particolare preoccupazione. Naturalmente, alcuni dei rischi più gravi sono causati dalla natura. Niente è più naturale che esporsi ai raggi del sole, un’attività che sono in pochi a temere. Eppure questa esposizione è associata all’insorgere di tumori alla pelle e di altre patologie, e causa gravi problemi sanitari che (sfortuna­ tamente) non hanno offerto il destro per invocare il principio di precauzione. Il fumo di tabacco uccide 400.000 americani ogni anno, anche se il tabacco è un prodotto naturale. Tutto ciò non risolve questioni specifiche, che dipendono da complesse valutazioni di fatti e valori. Ma la falsa credenza secondo cui la natura sia sempre benigna aiuta a comprendere perché si ritiene, erroneamente, che il principio di precauzione sia di così grande aiuto. 25 Si veda D.B. Botkin, Adjusting Law to Nature’s Discordant Hannonies, in «Duke Environmental Law & Policy Forum», 7, 1996, p. 25, in particolare p. 27. 26 Ibidem, p. 33. 27 Collman, Naturally Dangerous, eit. 28 Botkin, Adjusting Law to Nature’s Discordant Harmontes, eit., p. 31-

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5 . «System neglect» L’ultimo aspetto che intendo toccare è per certi versi il più importante. La mia tesi è che molto spesso le persone trascu­ rano l’effetto sistemico che può essere determinato anche da un singolo intervento. Si tende a pensare che un cambiamento all’interno di una situazione sociale riguarda solo il problema interessato dal cambiamento, ma resta privo di effetti su altri versanti. Il fenomeno del system neglect, così inteso, è parte del più generale fenomeno che induce a trascurare la necessità di valutare comparativamente le varie situazioni (il tradeoff neglect), un fenomeno in base al quale le persone non riescono a rendersi conto della frequente necessità di confrontare tutte le variabili di una data situazione. Ma il tradeoff neglect è solo una parte del problema. Quando il principio di precauzione sembra offrire una guida e quando determina una risposta sbagliata, ciò accade il più delle volte perché chi se ne serve è vittima dell’incapacità di considerare le conseguenze sistemiche del proprio intervento. Le prove più eloquenti di questo fenomeno ci sono offerte dallo psicologo tedesco Dietrich Dòmer, il quale ha messo a punto una serie di esperimenti assai ingegnosi per verificare se le persone sono in grado di ridurre i rischi sociali29. Gli esperimenti di Dòmer avvengono via computer. Viene chiesto ai partecipanti di ridurre i rischi fronteggiati dagli abitanti di una certa regione del mondo. I rischi possono riguardare l’inquinamento, la povertà, la mancanza di assistenza sanitaria, l’inadeguatezza dei metodi di fertilizzazione del grano, le ma­ lattie del bestiame, la carenza di acqua, o un eccesso di caccia e pesca. Grazie alla magia del computer, molte politiche di intervento sono disponibili a colpi di mouse: migliori cure per il bestiame, programmi di immunizzazione per l’infanzia, scavare più pozzi eccetera. I partecipanti sono chiamati a scegliere fra queste misure. Quando una particolare iniziativa viene scelta, il computer elabora una proiezione di ciò che è verosimile accada nella regione interessata, prima nel breve periodo e poi nell’arco di alcuni decenni. 29 Cfr. D. Dòmer, The Logic of Failure. Recogniztng and Avoiding Error in Complex Situations, New York, Metropolitan Books, 1996.

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In questi esperimenti è data la possibilità che i partecipanti conseguano un successo pieno. Alcune iniziative sono effettiva­ mente in grado di migliorare la situazione in modo efficace e persistente. Ma molti dei partecipanti all’esperimento, anche i più avveduti e preparati professionalmente, finiscono per produrre calamità. Ciò accade perché si concentrano su un problema isolato, senza verificare gli effetti complessi e sistemici che ogni singolo intervento produce. Si può ritenere prioritario aumentare il numero del bestiame; ma, una volta che si decide di farlo, si determina un grave rischio legato all’eccesso di bestiame nei pascoli, senza che si riesca a prevedere l’insorgere del proble­ ma. Si può comprendere appieno la necessità di scavare più pozzi per ottenere più acqua, ma non si riescono a prevedere gli effetti energetici e ambientali determinati dalle escavazioni, che poi mettono a repentaglio la provvista di derrate alimentari. Solo di rado chi partecipa agli esperimenti è in grado di vedere lontano nella strada che decide di percorrere, per comprendere i molteplici effetti dei singoli interventi all’interno del sistema e valutare l’ampio spettro di conseguenze che da questi interventi derivano. I giocatori che hanno successo sono quelli che assu­ mono iniziative misurate e reversibili, oppure quelli che sono in grado di acquisire una visione complessiva dei singoli effetti, onde evitare errori grossolani. Perde chi si rivela incapace di considerare che i rischi fanno parte di un sistema. Come funzionerebbe il principio di precauzione se fosse invocato nel contesto degli esperimenti di D òrner? Dovreb­ be essere facile avvedersi che, mentre la versione debole del principio potrebbe essere di qualche utilità, le sue versioni più forti non offrirebbero alcun aiuto. Sono semplicemente troppi i rischi contro cui si dovrebbero assum ere precauzioni. Le precauzioni non possono essere prese contro tutti i rischi, non solo per l’importante (ma non poi così interessante) problema rappresentato dalla limitatezza delle risorse disponibili, ma per il semplice fatto che tentare di reagire a un qualsiasi rischio è a sua volta suscettibile di generare nuovi rischi. Il mondo reale della paura e del rischio offre un numero infinito di esempi a supporto di questa affermazione. Il principio di precauzione intanto sembra offrire una guida, perché in realtà si stanno trascurando gli effetti di sistema negativi, con la connessa necessità di prendere precauzioni nei loro confronti. 68

Howard Margolis ha addotto argomentazioni simili per spiegare perché gli esperti valutano il rischio in modo diverso dalla gente comune, con lo specifico intento di spiegare quando e perché la gente comune tende a pensare «meglio sicuri che dispiaciuti»30. Così facendo, Margolis ha evidenziato le basi cognitive del principio di precauzione, pur senza affrontare l’idea in modo esplicito. L’intento di Margolis era quello di mettere in luce alcune apparenti anomalie che caratterizzano il modo di pensare della gente comune rispetto ai rischi. Perché si ritiene che rischi anche minimi associati ai pesticidi debbano essere oggetto di regolamentazione, se rischi della stessa entità, derivanti dall’impiego dei raggi X, appaiono tollerabili? Perché la gente è così allarmata dai rischi legati al nucleare, quando molti esperti concordano nel ritenere che questi rischi siano bassi, più bassi invero dei rischi determinati da fonti di energia alternative come le centrali a carbone, nei cui confronti si avan­ zano relativamente poche obiezioni? Quando, di preciso, l’idea della precauzione appare particolarmente attraente e quando, invece, essa appare ossessiva e di scarso aiuto? Margolis risponde che le persone a volte sono preda di una specie di illusione ottica che, mentre induce a concentrare la propria attenzione sugli effetti dannosi associati a una data attività o processo, fa sì che non si riescano a vederne i bene­ fici. In presenza di questo fenomeno, le persone pensano al «meglio sicuri che dispiaciuti». Altrimenti, riescono a percepire una sorta di fungibilità tra effetti dannosi e benefìci, e sono in grado di effettuare quell’operazione di bilanciamento tipica degli esperti. Margolis offre un magnifico esempio a supporto di questa conclusione. In un primo tempo la rimozione dell’amianto dagli edifìci scolastici di New York venne accolta in modo positivo. Erano stati gli stessi genitori degli alunni a invocarla a gran voce, anche se, secondo gli esperti, lasciare le cose come stavano avrebbe implicato un rischio statistico assai basso (pare che il rischio che un bambino contraesse un cancro a causa dell’amianto presente nella coibentazione degli edifici fosse tre volte minore di quello di essere colpito da un fulmine). Ma quando fu reso noto che 30 H. Margolis, Dealing with Risk, Chicago, University of Chicago Press, 1996. 69

le operazioni di rimozione avrebbero comportato la chiusura delle scuole per alcune settimane, determinando una serie di inconvenienti per i genitori, l'opinione di questi ultimi mutò e la rimozione dell'amianto parve a tutti una pessima idea. Non appena i costi della rimozione furono ben inquadrati, i genitori si comportarono in modo molto simile agli esperti e i rischi legati all'amianto parvero tollerabili: statisticamente contenuti e tali che, in seguito a una valutazione comparativa, valeva la pena sfidarli. Il principio di precauzione spesso opera perché appare visibile solo una facciata del conto profitti e perdite, e fa sì che le persone si comportino come i genitori prima dell’avvio della rimozione dell’amianto, quando si percepiva la possibilità del pericolo, ma non si vedevano i problemi creati dalla sua riduzione. Un altro esempio particolarmente significativo sono le registra­ zioni delle opinioni espresse dagli americani sul problema della protezione ambientale alla fine degli anni novanta. Circa il 63 per cento si professava d’accordo con la seguente affermazione: «la protezione dell’ambiente è talmente importante che i limiti e gli standard ambientali non possono mai essere ritenuti eccessivi, per cui continui miglioramenti in campo ambientale vanno per­ seguiti senza preoccupazioni di costo»31. E, sempre nella stessa prospettiva generica, il 59 per cento appoggiava il trattato di Kyoto sul riscaldamento globale, che era avversato solo dal 21 per cento degli intervistati32. Ma, nello stesso torno di tempo, il 52 per cento degli americani affermò che avrebbero rifiutato di appoggiare il trattato di Kyoto sul riscaldamento globale, se ciò avesse significato imporre un costo suppletivo mensile di 50 dollari nel bilancio di ogni famiglia americana m edia33. E solo l’i l per cento avrebbe mantenuto il suo appoggio al trattato se ciò si fosse tradotto in una spesa mensile pari o superiore ai 100 dollari34. Com’è possibile spiegare una forte maggioranza di intervistati che si dichiara a favore di «miglioramenti in campo ambientale [...] senza preoccupazioni di costo» e nel contempo una decisa maggioranza che rifiuta gli stessi miglioramenti quando i costi si 31 Si veda The Program on International Policy Attitudes, Americani on thè Global Warming Treaty, www.pipa.org/OnlineReports/GlobalWarming/ glob_warm_treaty.html, riquadro 15. 32 Ibidem . 33 Ibidem , riquadro 16. 34 Ìbidem.

fanno elevati? La risposta risiede nel fatto che le persone, in effetti, non sono propense a spendere un ammontare di denaro infinito per perseguire miglioramenti ambientali. Quando i costi vengono posti chiaramente sul piatto della bilancia, la gente comincia a soppesare costi e benefici. Si possono fare tanti altri esempi. Molti sono particolarmente preoccupati per i rischi associati alla diossina, una sostanza che si candida a far funzionare il principio di precauzione ma, fra costoro, pochi sono preoccupati per il rischio statisticamente equivalente connesso aU’aflatossina, una sostanza cancerogena che si trova nel burro di arachidi. Il motivo per cui l’aflatossina non suscita preoccupazioni nell’opinione pubblica è in parte dovuto al fatto che gli oneri associati alla messa al bando delTaflatossina appaiono talmente elevati da essere inaccettabili. In troppi si ribellerebbero a una regolamentazione severa del burro di arachidi, che per generazioni ha costituito la colonna portante della colazione dell’americano medio. Si pensi in questa prospettiva alle misure adottate per ri­ durre il rischio legato al terrorismo. Appare tanto lievemente controintuitivo quanto ragionevole preconizzare che le persone che viaggiano spesso si mostrino pronte a pagare meno, in termini di dollari e tempo perduto, per ridurre un basso rischio di disastri aerei. Uno studio molto interessante ha riscontrato esattamente questa predizione35. E anche sensato ipotizzare che, se alla gente fosse detto da fonti attendibili che eliminare i pesticidi comporta seri problemi di salute - per esempio perché la frutta o la ver­ dura non trattate con i pesticidi veicolano pericoli particolari -, la percezione del rischio da pesticidi percepita crollerebbe im­ mediatamente e risulterebbe difficile invocare il principio di pre­ cauzione a fondamento di una regolamentazione severa di queste sostanze. Piuttosto, sarei propenso a credere che la percezione del rischio diminuirebbe anche se la gente fosse informata del fatto che eliminare i pesticidi ha l’effetto di far aumentare in modo significativo il costo delle mele e delle arance. 35 Si veda M. Harrington, People's Willingness to Aceept Airport Security Delays in Exchange for tesser Risk, 28 gennaio 2002, pp. 6-7 (manoscritto inedito, posseduto dall’autore, che descrive come i dodici intervistati che avevano dovuto subire ritardi significativi fossero meno propensi a pagare per ottenere una sicurezza aeroportuale aggiuntiva rispetto ai ventiquattro intervistati che invece non avevano sperimentato quei ritardi).

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La conclusione è che il principio di precauzione spesso ap­ pare utile perché gli analisti del rischio concentrano la propria attenzione sul rischio indagato e non sugli effetti, sistemici in termini di rischio, dell'essere precauzionali, e nemmeno sulle conseguenze in termini di rischio associate alla stessa riduzione del rischio. 1 regolatori razionali, naturalmente, pensano ai sistemi e non ai colpi sparati a caso. E quando si converrà che i rischi fanno inevitabilmente parte di sistemi, il principio di precauzione diventerà molto meno utile. 6.

Difese e aspetti positivi del principio

I fautori del principio di precauzione non sono disposti ad ammettere che il principio possa essere impiegato solo perché esistono difficoltà cognitive; avrebbero sicuramente molto da dire contro questa affermazione. Le repliche immaginabili pos­ sono essere classificate in due categorie. La prima tenderebbe a mettere in risalto le finalità, importanti e positive, evidentemente perseguite dai fautori del principio, finalità che appaiono però collegate al principio in modo piuttosto grezzo. Poiché si tratta di una connessione assai sommaria, il principio non può essere giustificato facendo riferimento a queste finalità. Un secondo e più promettente gruppo di repliche tenderebbe invece a reagire cercando di rifinire il senso del principio. Cominciamo allora dagli aspetti positivi del principio. 6.1. Distribuzione È possibile difendere il principio di precauzione facendo leva su argomenti distributivi? Negli Stati Uniti il Clean Air Act fa suo un approccio altamente precauzionale, imponendo di perseguire un «adeguato margine di sicurezza» e quindi di adottare interventi regolativi di fronte all’incertezza. Al tempo stesso il Clean Air Act distribuisce grandi benefici ai ceti sociali più poveri e ai membri delle minoranze, benefici in proporzione più grandi di quelli distribuiti ai ceti più ricchi36. Nel contesto 36 Si vedano M.E. Kahn, The Beneficiaries o f Clean A ir Act Regulation, in «Regulation», 24, 2001, n. 1, p. 34.

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internazionale, un’azione aggressiva per contrastare il cambia­ mento climatico andrebbe maggiormente a beneficio dei paesi poveri anziché di quelli ricchi37. In parte ciò è dovuto al fatto che l’agricoltura, assai vulnerabile al cambiamento climatico, conta solo per il 2 per cento del prodotto nazionale lordo dei paesi ricchi, mentre produce il 50 per cento del prodotto nazionale lordo dei paesi poveri. Almeno nel contesto del riscaldamento globale, il principio di precauzione potrebbe essere invocato per prevenire conseguenze che graverebbero su quanti sono nella posizione peggiore per sopportarle. È assolutamente sensato enfatizzare la distribuzione dei rischi nel contesto di un paese o nello scenario intemazionale; e gli effetti distribuitivi del riscaldamento globale rappresentano uno degli argomenti più forti a favore di una regolamentazione particolarmente aggressiva delle emissioni di gas inquinanti nell’atmosfera mondiale38. Ma in molte circostanze il principio di precauzione, per come è applicato, sortirebbe effetti distri­ butivi perversi. Si pensi al Ddt. La messa al bando del Ddt, spesso difesa invocando il principio di precauzione, appare giustificata solo nei paesi ricchi. Ma un divieto del genere è suscettibile di avere, e di fatto sta avendo, effetti nefasti in più di un paese povero, dove il Ddt rappresenta il modo più economico ed efficace per contrastare malattie gravi, fra cui soprattutto la malaria39. Infatti la regolamentazione del Ddt è al tempo stesso imposta e proibita dal principio di precauzione, almeno se quest’ultimo viene inteso nella sua accezione più forte; e argomenti distributivi militano fortemente a favore della possibilità di consentirne l’impiego. Un esempio simile 37 Si vedano, per esempio, J. Aldy, P. Orszag eJ. Stigliz, Climate Change. Att Agenda for Global Collettive Action, manoscritto inedito, 2001; B. Lom­ borg, The Skeptical Environmentalist, NewYork, Cambridge University Press, 2001; trad. it. L’ambientalista scettico. Non è vero che la terra è in pericolo, Milano, Mondadori, 2003, pp. 296-309. 38 Si noti, tuttavia, che con riguardo ai paesi poveri non è chiaro se il riscaldamento globale identifichi una priorità così impellente, alla luce delle molte necessità di questi paesi, necessità che potrebbero essere soddisfatte dalle nazioni più ricche. Si vedano Lomborg, Vambientalista scettico, trad. it. eit., pp. 326-329; I. Goklany, The Precautionary Principle. A Criticai Appraisal of Environmental Risk Assessment, Washington, Cato Institute, 2001, pp. 71-88. 39 C.R. Sunstein, Risk and Reason, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, p. 14; A. Wildavsky, Bui Is It True? A Citizen's Guide to Environmental Health and Safety Issues, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1995, p. 61.

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potrebbe essere ottetto dalla modificazione genetica delle sostanze alimentari: secondo alcune proiezioni, i benefici di questa pratica appaiono suscettibili di andare a vantaggio dei poveri e non dei ricchi40. Il principio di precauzione sembra richiedere l’introduzione di limiti stringenti all'aflatossina, una nota sostanza cancerogena che arriva in Europa e in America dall’Africa. Ma gli standard della Comunità Europea su questo punto sono così severi da esser stati concepiti per prevenire un decesso l’anno in tutta l'Unione Europea. Si tratta di un numero assai piccolo in astrat­ to, che diventa poi assolutamente trascurabile se lo si confronta col fatto che ogni anno nei paesi dell’Unione 33.000 persone muoiono di cancro al fegato41. E questa stessa precauzione determina costi reali, poiché impone perdite significative sui coltivatori africani, le cui possibilità di esportare alimenti sono gravemente compromesse dalla vigenza degli standard Ue. Ecco, dunque, un caso ove il principio di precauzione m ostra effetti distribuitivi perversi. I problemi distributivi, invero, dovrebbero essere parte di un sistema di regolamentazione del rischio, ma il principio di precauzione è un modo grezzo, indiretto, e a volte perverso di tener conto delle preoccupazioni distributive.

6.2. Distorsioni I paladini del principio di precauzione potrebbero repli­ care che i valori ambientali vengono sistematicamente ignorati nell’ambito dei processi di produzione delle regole, oppure che a tali valori non viene dato il giusto peso, sì che il principio aiuta a correggere pregiudizi sistematici che affliggono il processo regolativo. David Dana, per esempio, ha difeso il principio di precauzione circa il rilievo che esso si candiderebbe a correg­ gere i pregiudizi cognitivi che inducono le persone a non agire abbastanza contro i rischi ambientali42. In questa prospettiva sarebbe fuorviante attaccare il principio per i difetti che rivela 40 Goklany, The Precautionary Principle, eit., p. 55. 41 Si veda G. Majone, What Price Safety? The Precautionary Principle andIts Policy Implications, in «Journal of Common M arket Stu dies», 40, 2002, 106. 42 D. Dana, A Behavioral Economie Defense o f thè Precautionary Principiai in «Northwestern University Law Review», 97, 2003, p. 1315.

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quando viene analizzato alla luce della psicologia cognitiva. Al contrario, il principio dovrebbe essere ritenuto in grado di esprimere una risposta ponderata a quegli stessi difetti. Per quanti avanzano questa argomentazione, il primo pro­ blema da risolvere è la miopia: le persone spesso focalizzano la propria attenzione sull’immediato, omettendo di considerare le conseguenze sul lungo periodo, in un modo che può danneg­ giare i loro stessi interessi. I responsabili delle scelte regolative pubbliche sono spesso influenzati dalla gente comune; e in ogni caso non sono diversi dalla gente comune. Fuorviati dal principio di precauzione, i pubblici regolatori potrebbero rive­ larsi incapaci di intervenire su rischi che non si invereranno, o che nel breve periodo non sembrano destinati a inverarsi. Un secondo problema è che molte persone sono irrealisticamente ottimiste43. Circa il 90 per cento dei guidatori ritiene di gui­ dare in modo più sicuro del guidatore medio e di essere meno esposto al rischio di venir coinvolto in un incidente grave44. Si ritiene di essere meno soggetti degli altri alla possibilità di divorziare, di soffrire di malattie cardiache, di essere licenziati e molto altro ancora45. I consulenti finanziari professionisti sovrastimano notevolmente le probabilità di guadagno, e gli studenti delle facoltà di economia sovrastimano quello che sarà l’importo del loro primo stipendio e il numero di offerte di lavoro che riceveranno dopo la laurea. Oltre a ritenere che la nostra guida è più sicura di quella altrui, tendiamo a sottostima­ re, in termini assoluti, la nostra probabilità di essere coinvolti in gravi incidenti automobilistici46. Il fatto che non si acquisti una copertura assicurativa per il rischio di alluvioni e terremoti conferma che la gente professa un ottimismo eccessivo47. A causa dell’eccesso di ottimismo, molti rischi a bassa in­ tensità non vengono percepiti. A ciò si aggiunga che le persone 45 Si veda S.E. Taylor, Positive lllusions. Creative Self-Deception and thè Healthy Mind, New York, Basic Books, 1989, pp. 9-12. 44 Si veda ibidem, p. 10. 45 Si veda N.D. Weinstein, Unrealistic Optimism about Susceptibility to Health Problems, in «Journal of Behavioral Medicine», 10, 1987, n. 5, p. 481. 46 Cfr. C. Jolls, Behavioral Economie Analysis of Redistributive Legai Rules, in C.R. Sunstein (a cura di), BehavioralLaw and Economics, Cambridge, Cambridge University Press, 2000, p. 291. 47 ìbidem.

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tendono a ridurre la dissonanza cognitiva trattando a volte i rischi come se fossero minimi, o tali da meritare d ’essere ignorati48. Quando le persone pensano di essere «al sicuro», anche se si confrontano con un rischio statistico, sono soggette alla tentazione di evitare l’ansia che deriva dal comprendere Finevitabilità dei rischi. Gli stati sono naturalmente condizionati dalle preferenze e dalle credenze dei propri cittadini. Forse gli stati trascurano di considerare le prospettive di lungo periodo e talvolta si rivelano troppo ottimisti nei confronti di pericoli reali. In tal caso, il principio di precauzione potrebbe apparire un correttivo sensato. Per alcuni rischi questa pragmatica difesa del principio non appare implausibile: il principio di precauzione, applicato in una visuale limitata, indubbiamente può produrre qualche buon risultato. Ma, alla resa dei conti, difendere il principio in questi termini non appare sensato. Il motivo è sem plice: tali argomentazioni difensive ignorano il problem a chiave, ovvero che adottare precauzioni contro qualche rischio quasi sempre genera altri rischi. Perché gli stessi argomenti cognitivi usati per giustificare la guerra in Iraq o un’aggressiva regolamentazione degli alimenti geneticamente modificati non militano contro la guerra in Iraq o contro un’aggressiva regolam entazione degli alimenti geneticamente modificati? N on potrebbe essere che quella guerra e quella regolamentazione siano stati propiziati dall’aver trascurato gli effetti nel lungo periodo e da un eccesso di ottimismo? In breve, gli argomenti cognitivi impiegati per difendere il principio di precauzione incontrano due problemi. Il primo è che i valori ambientali spesso si trovano ai due poli della controversia. E lo stesso è certamente vero per la salute e per la sicurezza, come dimostra l’esempio dell’eccessiva durata dei test richiesti per l’immissione in commercio dei farmaci, i qua­ li, mentre riducono i rischi iatrogeni dei medicinali, privano i malati dell’accesso a farmaci potenzialmente salvavita. Quando AH Si veda G.A. Akerlof e W.T. Dickens, The Economie Consequences o f Cognitive Dissonance, in G.A. Akerlof, An Economie Theorist’s Book of Tales, Cambridge, Cambridge University Press, 1984; trad. it. L e conseguenze economiche della dissonanza cognitiva, in Racconti di un N obel d ell’economia. Asimmetria informativa e vita quotidiana, Milano, Università Bocconi Editore,

2003, p. 125, in particolare pp. 126-131.

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i rischi e i valori ambientali stanno ai due corni del problema, i pregiudizi cognitivi non possono essere impiegati per suffragare una particolare linea di azione. Il secondo problema è che, anche quando i valori ambientali stanno da una parte sola, gli interessi e i valori che stanno dall’altra parte potrebbero essere ignorati a causa della tendenza umana a eccedere nell’ottimismo e a non considerare le prospettive di lungo periodo. Come vedremo, i pregiudizi cognitivi sono una componente importante del diritto della paura, ma non giustificano il principio di precauzione.

6.3. Democrazia Si può essere tentati di difendere il principio di precauzio­ ne con argomentazioni che fanno leva sulla democrazia, per considerarlo uno strumento atto a strutturare la deliberazione democratica, che rafforza il ruolo assunto dai valori dei citta­ dini nella regolamentazione del rischio. Per esempio, Carolyn Raffensperger e Katherine Barrett hanno sostenuto che, «so­ prattutto, il principio di precauzione è fortemente basato sul processo democratico». Secondo loro, la mancanza di un processo democratico è stata una delle principali fonti delle controversie divampate sulle sementi e gli alimenti geneticamente modificati. Ciò, alla luce del principio di precauzione, non solo è eticamente inaccettabile, ma individua una procedura assai debole per assum ere decisioni nei confronti di una tecnologia che oggi (in modo volontario o no) riguarda milioni di persone e molte altre specie di esseri viventi su questa terra49.

Sebbene la valutazione del rischio «possa fornire qualche indicazione sul potenziale di danno sotteso a una particolare fonte di pericolo», la società civile è la meglio attrezzata per soppesare «i rischi, i benefici, e le alternative praticabili»50. Così Raffensperger e Barrett enfatizzano il «dialogo fra scienza e società» propiziato dal principio di precauzione51. 49 C. Raffensperger e K. Barrett, In Defense of thè Precautionary Principle, in «Nature Biotechnology», 19, 2001, p. 811. 50 L. Auberson-Huang, The Dialogue between Precaution and Risk, in «Nature Biotechnology», 20, 2002, p. 1076. 51 Nello stesso senso si veda J.A. Tickner e C. Raffensperger, The Pre-

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Uno studioso europeo ha difeso il principio da una posi­ zione simile, sostenendo che esso offre un modo per gestire il «problema della psicologia di m assa»'’2. L’opinione pubblica diffida della scienza dopo le tragedie del talidomide, della mucca pazza e di Chernobyl. In ciascuno di questi casi gli scienziati si professarono convinti che non vi fossero rischi e la gente credette loro. In tali circostanze, il principio di precauzione fornisce uno strumento per legittimare attività e processi che altrimenti sarebbero potuti essere inaccettabili. Anche quando la paura del pubblico nei confronti delle nuove tecnologie si mostra irrazionale, gli scienziati e i responsabili delle scelte pubbliche non possono ignorarla. Almeno qualche versione del principio di precauzione sembrerebbe offrire un compromesso fra la scienza e la democrazia, rassicurando la collettività in merito alla sicurezza di una nuova tecnologia e facendo sì che «per gli allarmisti sia più difficile bloccare l’introduzione di una nuova tecnologia». E certamente corretto enfatizzare la centralità della delibe­ razione democratica nella regolamentazione del rischio, e anche sottolineare la necessità di rispondere alle preoccupazioni della collettività, senza commettere l’errore di banalizzarle. Un pro­ cesso di valutazione del rischio, che pur permette di calcolare i numeri relativi ai danni attesi, non è una base sufficiente per compiere una scelta democratica, anche quando viene corredata da tabelle che illustrano doviziosamente i costi e i benefici attesi. E necessario conoscere la distribuzione dei benefici e dei costi, così come è necessario disporre di una descrizione dei danni attesi in termini sia qualitativi sia quantitativi. L e persone sono legittimamente interessate a sapere se i rischi sono distribuiti in modo iniquo, se sono potenzialmente catastrofici, e se sono assunti in modo volontario, un punto questo su cui tornerò a tempo debito. E se un’opinione pubblica capace di riflettere vuole prendere misure speciali per contrastare determinati ri­ schi, ha il pieno diritto di farlo; assumere margini di sicurezza è assolutamente sensato. Ma nessuno di questi argomenti permette di difendere il cautionary Principle. A Framework for Sustainable Business Decision-Making, in «Environmental Policy», 5, 1998, p. 75. 52 Cfr. M. Iaccarino, A Cost/Benefit Analysis about thè Precautionary Principle, in «Embo Reports», 6, 2000, p. 454.

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principio di precauzione sul piano della democrazia. Il principio ha il limite di essere troppo vago e astratto, e troppo incoerente, per fornire una base sensata, idonea a strutturare la discussione democratica. Che cosa accadrebbe se un’opinione pubblica democratica dovesse decidere di sfidare alcuni rischi, ritenendo che valga la pena correrli? Che cosa accadrebbe se i cittadini rifiutassero di prendere precauzioni tout court? Piuttosto che pretendere che si possa adottare una posizione generale a favore della precauzione, è molto meglio insistere sull’importanza di tutelarsi contro quei danni che maggiormente preoccupano un’opinione pubblica informata e capace di riflettere. 6.4. Diritti Secondo alcuni, gli esseri umani hanno il diritto di non andare incontro a certi rischi e a certi danni. Se un’impresa espone i membri di una comunità a un rischio di mortalità significati­ vo, si verifica una violazione dei loro diritti; se quel rischio si avvera, la rivendicazione di una violazione dei diritti ha ancor maggiore consistenza. In questa sede non è necessario soffermarsi sul fondamento dei diritti. Ciò che conta è che il principio di precauzione potrebbe apparire difendibile in quanto strumento di tutela dei diritti, quale che sia il loro fondamento. Muovendo da una differente prospettiva, mi soffermerò sul punto nel capitolo VII. Per adesso ci si può limitare a notare che esiste, sia pur in termini poco definiti, una relazione fra principio di precauzione e teoria dei diritti, qualunque essa sia. Immaginiamo che il principio sia invocato per bandire l’im­ piego del Ddt nei paesi poveri, o per implementare controlli stringenti sui campi elettromagnetici, o per lanciare guerre preventive contro paesi che siano sospettati in modo credibile di proteggere i terroristi. In tutti questi casi, il semplice far ricorso al principio di precauzione potrebbe essere considerato una violazione di diritti, e lo sarebbe senz’ombra di dubbio se, nella fattispecie, i rischi si trovassero su entrambi i corni della decisione. Gli argomenti fondati sui diritti indubbiamente giustificano un certo tipo di misure regolative, incluse alcune tipologie di precauzioni. Ma non possono di per sé giustificare il principio di precauzione.

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6.5. Falsi negativi e falsi positivi A volte i paladini del principio sostengono di essere con­ fortati dall'intento di invertire «il tipo di errori che si preferi­ sce fare»5’. Si afferma che la maggiore preoccupazione degli scienziati sia quella di evitare «falsi positivi», e cioè di evitare di riscontrare un danno quando il danno in realtà non esiste. E invece i pubblici regolatori dovrebbero essere indotti a com­ mettere errori di tipo «falso negativo», evitando di ritenersi al sicuro quando il danno in realtà esiste. Un primo argomento a conforto di questa conclusione è che un errore falso positivo «sia più facilmente correggibile - attraverso ulteriori test - di quanto non sia un falso negativo, che potrebbe avere come esito un danno irreversibile»54. In una della più classiche analisi sulla precauzione, Talbot Page ha sostenuto una tesi assai simile, sottolineando come le conseguenze sociali dei falsi negativi e dei falsi positivi potrebbero non essere simmetriche: il danno atteso da una tecnologia rischiosa potrebbe rivelarsi ben maggiore del danno atteso, o dei benefici vanificati, dal rifiuto di sviluppare una di queste tecnologie55. Perciò Page ha sostenuto l’opportunità di prendere decisioni precauzionali sulla base di tre principi che appaiono intuitivamente desi­ derabili: 1) essere avversi al rischio di conseguenze incerte, ma particolarmente dannose; 2) essere riluttanti a formulare decisioni definitive, precludendosi la possibilità di cambiare idea in futuro; 3) essere sensibili all’equità intergenerazionale quando i benefici appaiano immediati, ma i rischi sono imposti su quanti non sono ancora nati. In alcune circostanze appare certamente sensato preoccu­ parsi per i falsi positivi; e i principi di Page meritano attenta considerazione. Ma il problema associato a questo tipo di difesa del principio di precauzione è che un danno irreversibile può essere causato sia da falsi positivi sia da falsi negativi, quando, per esempio, i falsi positivi inducono il governo a non fornire cibo, medicine o fonti energetiche che possono salvare vite 53 Si veda Raffensperger e DeFur, Interpreting thè Precautionary Prin■ cip le, eit., p. 937. 54 Ibidem. 55 T. Page, A Generic Vieto ofToxic Chemicals and Similar Risks, in «The Ecology Law Quarterly», 7, 1978, p. 207.

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umane. Spesso l’irreversibilità risiede su entrambi i fronti. La morte stessa è irreversibile, e se i governi impiegano l’idea della precauzione per eliminare o ridurre iniziative che salvano vite umane, allora l’enfasi sui falsi positivi, che induce a ritenere che un danno esista anche quando non esiste, determinerebbe a sua volta danni irreversibili. Non c’è ragione di muovere dal presupposto che le nuove tecnologie creino più danni che be­ nefici potenziali. A volte ciò può essere vero, altre volte no. 7.

Repliche alle critiche e possibili miglioramenti del principio

Forse il principio di precauzione può essere rielaborato e ricostruito in un modo che tenga conto delle critiche che ho fin qui evidenziato e che al tempo stesso faccia tesoro delle importanti intuizioni che hanno reso l’idea della precauzione così seducente. Nella seconda parte del libro proverò a farlo. Per il momento si considerino tre possibili miglioramenti, concepiti come difese del principio in linea generale. 7.1. Bilanciamento, avversione al rischio e assicurazione: costi certi vs benefici incerti Forse non è vero che il principio di precauzione sia refrat­ tario al bilanciamento. Forse lo si può intepretare come un principio che implica una forma di bilanciamento, con una pre­ ferenza per l’avversione al rischio. Forse l’essenza del principio risiede nel creare un «margine di sicurezza» nelle decisioni che mettono in gioco la salute, la sicurezza e l’ambiente, in modo da andare oltre le prove apparentemente disponibili in merito all’assenza di danni, onde proteggere la collettività contro peri­ coli che appaiono possibili, anche se ancora non possono essere dimostrati. Si ipotizzi, per esempio, che da un investimento in denaro, consistente ma non enorme, possa prevenire un rischio che nella migliore delle ipotesi non si rivelerebbe grande, ma che nella peggiore potrebbe rivelarsi enorme. In circostanze del genere una spesa consistente, che ci si sobbarcasse in nome della precauzione, potrebbe rivelarsi giustificata. Se questo argomento fosse avanzato per difendere le versioni 81

deboli del principio di precauzione, non ci sarebbe nulla di male, perche l'argomentazione mette a fuoco un aspetto importante. Ma se essa viene impiegata per difendere la versione torte del princi­ pio. si finisce per perdere di vista un problema fondamentale. Un «margine di sicurezza» può essere invocato per tutelarsi contro alcuni rischi o contro alcuni aspetti legati a situazioni suscettibili di generare rischi. Ma non può essere invocato per difendersi contro tutti i rischi, per il motivo che ho già evidenziato: i rischi si trovano ovunque. Non è plausibile difendere il principio di precauzione ritenendolo una forma di bilanciamento ispirata aU’awersione al rischio, per il semplice motivo che si può essere avversi solo ad alcuni rischi, non all’intero universo dei rischi. Se si comprende davvero il meccanismo dell’avversione al rischio, ciò che emerge non è il principio di precauzione, ma una più banale disponibilità ad acquistare una «assicurazione regolativa», nella forma di un certo margine di sicurezza contro rischi la cui entità non può essere stabilita. Più questi rischi assumono dimensioni catastrofiche, più aumenta l’importanza del margine di sicurezza, come verificheremo in maggior dettaglio nel capitolo V.

7.2. Perdite irreversibili, opzioni e due tipi di errori Alcune delle più sofisticate difese del principio di precau­ zione mettono l’accento sull’irreversibilità, mutuando argomenti dalla teoria delle opzioni nei mercati azionari56. In quel contesto un candidato investitore dispone di vari metodi per attribuire un valore alla sua capacità di acquistare, se vorrà, un’azione a un dato prezzo in un dato frangente temporale. La situazione diverge dalla tipica decisione implicata nell’acquisto di titoli azionari, ove il candidato investitore deve attribuire un valore a una prospettiva di guadagno futura. Sottesa all’acquisto di un’opzione è l’idea che nel tempo la capacità di calcolare una prospettiva di guadagno tenderà ad aumentare, ragion per cui 56

Si veda C. Gollier e N. Treich,

Decision-Making under Scientific Uncertainty. The Economics o f thè Precautionary Principle, in «Journal of Risk

& Uncertainty», 27, 2003, p. 77, in particolare p. 84, per una definizione di irreversibilità impiegata nell’approccio fondato sulle opzioni reali finanzia­ rie. Si veda ancora ibidem, pp. 87-91, per le varie distinzioni fra esternalità azionarie, irreversibilità ambientale e irreversibilità del capitale.

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si attribuisce valore al fatto di avere la possibilità di prendere la decisione più tardi possibile57. È abbastanza plausibile che un valore simile esista anche nel contesto regolativo. Quando si assume una decisione regolativa, si tentano di stimare i costi e i benefici che la decisione determinerà in futuro. Se, ritardando la scelta, si è capaci di ottenere una stima più accurata, allora il fatto di poter assumere la decisione regolativa più in là nel tempo assume un valore (obbligato)58. Questo (obbligato) livello di precauzione, congelando lo status quo in attesa che si ricavino maggiori informazioni col passar del tempo, sembra essere in linea di principio giustificato59. Il passaggio chiave della lettura del principio di precauzione alla luce dell’analisi delle opzioni è che l'incertezza e l’irreversi­ bilità dovrebbero determinare un processo decisionale sequen­ ziale. Si ipotizzi che il problema stia nella scelta di preservare un’area floro-faunistico in assenza di informazioni relative al valore dell’area. Man mano che l’informazione si rende dispo­ nibile, potremo scegliere un approccio che tenda a influenzare il processo decisionale in modo da privilegiare l’obiettivo di una maggiore flessibilità. Se lo sviluppo «implica un’irreversibile trasformazione dell’ambiente, e di conseguenza una perdita irreversibile sotto il profilo della possibilità che la conservazione dell’area rechi benefici», appare ragionevole aspettare, onde poter contare su maggiori «informazioni in merito ai costi e i benefici delle alternative rilevanti»60. E ragionevole pensare che, 57 C.S. Park, e H.S.B. Herath, Exploiting Uncertainty - Investment Op­ portunities as Reai Options. A New Way ofThinking in Engineering Economici,

in «Engineering Economics», 45, 2000, p. 1, in particolare pp. 3-4. 58 Così argomentano Gollier e Treich (Decision-Making under Scientific Uncertainty, eit., p. 88): «L’indicazione fondamentale è che la prospettiva di ricevere informazioni in futuro induce ad assumere una posizione più flessibile oggi. Il ragionamento intuitivo è chiaro: scegliere una posizione inflessibile mette a rischio il valore dell’informazione. Perciò, con l’aumen­ tare dell’informazione, diminuiscono gli incentivi a rimanere flessibili e ad avvantaggiarsi di questa flessibilità». 59 Cosi scrivono S. Farrow e H. Hayakawa (Investing in Safety. An Analytical Precautionary Principle, in «Journal of Safety Research», 33,2002, p. 165, in particolare pp. 166-167): «Tuttavia, un nuovo tipo di analisi condotto nel settore privato - l’analisi delle opzioni reali - suggerisce di adottare un livello obbligato di precauzioni» (citazioni omesse). 60 Si veda K. Arrow e A. Fisher, Environmental Preservation, Uncertainty and lrreversibility, in «Quarterly Journal of Economics», 88, 1974, p. 312, in particolare pp. 313-314.

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se la distruzione è irreversibile, la scelta di p re se rv a re l’area si riveli giustificata se ciò d eterm in a una m a g g io re flessib ilità a vantaggio dei posteri.

In alcuni contesti questo argomento giustifica misure speciali di protezione dell'ambiente; come per esempio nel caso del riscaldamento globale. Ma l’argomento non giustifica il principio di precauzione. Al più, esso suggerisce che in certi casi, ove si prospettino perdite irreversibili da una parte, ma reversibili dall’altra, i responsabili della regolamentazione, come la gente comune, dovrebbero essere inclini a pagare qualcosa per far sì che le opzioni restino disponibili nel tempo. Ma il principio di precauzione ha uno spettro di applicazioni ben più ampio, non limitandosi a venire in rilievo solo in situazioni nelle quali la perdita è da una parte reversibile e dall’altra irreversibile. Si pensi alla guerra in Iraq, a un approccio estremamente precauzionale nei confronti dell’immissione in commercio di nuovi farmaci e agli Ogm. In tutti questi casi, l’irreversibilità consegue sempre, quale che sia la decisione presa. 7.3. Rischio, incertezza e ignoranza Finora ho ragionato come se i problemi ambientali e gli altri problemi fonti di rischio riguardassero pericoli la cui probabilità di verificazione possa essere accertata, come se fosse possibile affermare che la mortalità legata a una certa attività sia pari a un decesso su 100.000, o almeno si collochi in una dimensione compresa fra (poniamo) 1/20.000 e 1/500.000, con riferimento a una popolazione esposta pari a (poniamo) 10 milioni persone. Ma è possibile prospettare casi nei quali gli analisti non sonò in grado di specificare nemmeno un intervallo di probabilità. Ecco che i responsabili della regolamentazione (non diversamente dalla gente comune) spesso agiscono in una situazione di incertezza (nella quale gli esiti possono essere identificati, ma nessuna probabilità può essere calcolata), e non in una situa­ zione di rischio (nella quale gli esiti possono essere identificati assegnando a ciascuno di essi una probabilità)61. E a volte agi­ 61 Si vedano F.H. Knight, Risk, Uncertainty, and Pro/it, Boston, Houghton Mifflin, 1933; trad. it. Rischio, incertezza e profitto, Firenze, La Nuova Italia,

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sco n o in con dizion i di ign oran za , laddove i responsabili della regolam en tazione sono incapaci di specificare sia la probabilità di eventi negativi sia la loro natura, e nem meno conoscono la m agn itu d in e dei danni a cui possono andare in con tro62. N elle situazion i caratterizzate da incertezza la difesa del principio di p recau zio n e p u ò essere articolata in m odo più raffinato. Q u a n d o la con oscen za disponibile consente ai respon sabili d ella regolam en tazion e di identificare gli esiti, ma non perm ette di asse g n are a ciascun o di questi esiti la relativa p robabilità di verificazion e, viene di n orm a seguito il «p rin cip io m axim in ». O vv ero: scegli la linea di azione che prospetta il m igliore fra gli scen ari p e g g io r i63. F o rse il principio di precauzione p uò essere in teso com e una form a di principio m axim in, che richiede ai re sp o n sa b ili della regolam entazione di identificare il p eggiore scen ario fra le varie opzioni, selezionando il caso che p ro sp etta lo scen ario che ap p are m eno peggiore. F o rse il prin cipio m a ­ xim in p o tre b b e avallare m olte delle p ro p o ste applicative che rig u ard an o il p rin cip io di precauzione, per esem pio im ponen do l ’ad o z io n e d i m isure aggressive volte a contrastare il riscald a­ m en to glo b ale. Im m aginiam o che queste m isure determ inino u na serie d i oneri, m a che, anche nell’ipotesi peggiore, l ’im patto di q u esti o n eri non sia negativo quanto il peggiore degli scenari a sso c iab ili al riscaldam en to globale. F o rse che i governi non d o v re b b e ro attivarsi per contrastare il p eggiore degli scenari p e g g io ri? E infatti il presiden te G eo rge W. B u sh ha d ifeso la g u erra in Ir a q evocan d o esattam ente qu esto ragionam ento: «im m ag in ia m o quei 19 dirottatori [responsabili degli attacchi d e ll’ 11 settem b re] con altre armi e piani, questa volta forniti I960; P. Davidson, Is Probability Theory Relevant for Uncertainty? A PostKeynesian Perspective, in «Journal of Economie Perspectives», 5, 1991, n. 1, p. 129. Vi è chi obietta che l’incertezza non esiste, perché per i decisori è sempre possibile produrre stime probabilistiche, proponendo una serie di lotterie sui possibili esiti; ma sul piano epistemologico queste stime risultano prive di credenziali se non sono fondate su una teoria o su ripetute esperien­ ze passate, e molti problemi legati al rischio, come quelli che riguardano il riscaldamento globale, appartengono a questo genere di problemi. 62 Sull’ignoranza e sulla precauzione si veda P. Harremoès, Ethical Aspects of Scientific Incertitude in Environmental Analysis and Decision Making, in «Journal of Cleaner Production», 11, 2003, p. 705. 63 Per un’utile discussione in merito si veda J. Elster, Explaining Technical Change. A Case Study in thè Philosophy of Science, Cambridge, Cambridge University Press, 1983, pp. 185-207.

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da Saddam Hussein. Basterebbe introdurre in questo paese una fiala, un bomboletta e una carretta per creare un giorno di orrore come nessuno di quelli che abbiamo sperimentato finora». In questa prospettiva, misure costose per la riduzione del rischio possono essere difese se eliminano il più grave dei peggiori scenari possibili. Questa non è una soluzione implausibile. A volte la cosa migliore da fare è identificare (e intervenire su) gli scenari peggiori. Su questo avrò molto da dire nella seconda parte del libro. Ma, se adottata a difesa del principio di precauzione, questa argomentazione incappa in tre obiezioni. La prima e la più importante è che il principio di precauzione non è il principio maximin. Se quest’ultimo implica quanto abbiamo detto, allora dovremmo discutere di questo principio in modo diretto, valutandolo nel quadro delle sue alternative. L’attenzione per il principio di precauzione tende a celare tali problemi. La seconda obiezione è che il principio di precauzione, se difeso in questi termini, potrebbe impedire di assegnare le priorità in modo razionale, per il semplice motivo che condurrebbe i governi a investire le proprie risorse in attività che prospetta­ no rischi incerti, invece che in attività che prospettano rischi meglio conosciuti. La terza obiezione è che i rischi che adesso appaiono ottenebrati dall’incertezza domani potranno rientrare fra i rischi conosciuti, per il semplice fatto che nel tempo la conoscenza si evolve. E infatti uno dei principali scopi di un sistema di protezione dell’ambiente ben funzionante è produrre nuove informazioni in merito ai rischi potenziali, incluse le probabilità del danno. In alcune circostanze, acquisire nuove informazioni è molto meglio che agire per contrastare lo scenario peggiore, almeno quando questo stesso intervento determina pericoli nel campo dell’incertezza e del rischio. La mia conclusione è che il principio di precauzione non può essere difeso facendo riferimento a situazioni che minac­ ciano rischi catastrofici che non possono essere oggetto di stima. Ma, se si considerano queste situazioni, quando esse si verificano appare giustificato adottare particolari precauzioni. Con riferimento alle minacce terroristiche appare sensato adot­ tare una sorta di principio di precauzione contro pericoli la cui probabilità non può essere quantificata, che però sono tali da rivelarsi devastanti in caso di verificazione. Con riferimento 86

al riscaldamento globale, il rischio di catastrofe, se non può essere bollato come insignificante, giustifica l’adozione di pre­ cauzioni costose. Si potrebbe anche adottare una forma speciale di principio maximin, una sorta di principio anticatastrofe, concepito specificatamente per gestire rischi potenzialmente catastrofici in condizioni di incertezza. Ma anche in questo caso è bene stare attenti. Alcune misure, volte a ridurre il rischio di catastrofe, potrebbero simultaneamente far aumentare altri rischi catastrofici. Il che è quanto molta gente pensa sia suc­ cesso nel caso della guerra in Iraq. E anche se le misure non comportano rischi di catastrofe, è importante conoscere il loro costo. Un paese non desidera investire tutte le sue risorse nella prevenzione di rischi potenzialmente catastrofici. 8. Verso più ampie prospettive di indagine Non ho indicato alcun particolare sostituto per il principio di precauzione. Ma nessuno degli argomenti finora esaminati va nella direzione delle tesi avanzate da Aaron Wildavsky, uno scienziato politico influente, particolarmente interessato alla regolamentazione del rischio, anche lui professatosi contrario al principio di precauzione64. Secondo Wildavsky, la nozione di «precauzione» dovrebbe essere abbandonata in favore del principio di «resilienza», il quale si costruisce attorno alla convinzione che la natura e la società siano capaci di assorbire shock anche forti, e che in realtà i veri pericoli sono più piccoli di quanto temiamo. Dal principio di «resilienza» preconizzato da Wildavsky discende che la gente dovrebbe preoccuparsi assai meno di quanto in realtà fa per i rischi associati (per esempio) all’arsenico, al riscaldamento globale e alla distruzione dello strato di ozono. Sfortunatamente, il principio di «resilienza» non è migliore di quello di precauzione. Alcuni sistemi dimostrano resilienza, altri no. Se un ecosistema o una società sono, o non, «resilien­ ti», non è questione che possa essere decisa in astratto. In ogni caso, la resilienza è questione di gradi. Tutto dipende dai fatti. Il «principio di resilienza» dovrebbe venir considerato un’eu64 Si veda Wildavsky, But Is It True?, eit., p. 433.

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ristica che favorisce l’inazione di fronte ai pericoli di danno associati al cambiamento tecnologico. Come molte euristiche, il principio di resilienza funzionerebbe bene in tante circostanze, ma potrebbe anche indurci a commettere errori sistematici, e persino errori fatali. Un approccio più felice riconoscerebbe che un’ampia varie­ tà di eventi avversi può derivare dall’inazione, dall’intervento regolativo e da ogni altro comportamento che si collochi fra queste due opposte linee di condotta. Un approccio del genere si sforzerebbe di considerare tutti questi possibili eventi avversi e non solo un sottoinsieme di essi. Un approccio del genere perseguirebbe in modo esplicito finalità distributive, per esem­ pio facendo in modo che si chieda ai paesi ricchi - i maggiori responsabili del problema del riscaldamento globale - di pagare i paesi poveri per indurli a ridurre le emissioni gassose o per attrezzarsi ad affrontare i relativi rischi. Q uando le società sfi­ dano il rischio di catastrofe, e anche solo rischi non suscettibili di stima probabilistica, è meglio agire che restare immobili e sperare. Un approccio sensato cercherebbe di correggere, e non di assorbire, le varie limitazioni cognitive di cui la gente soffre quando pensa ai rischi. Il tentativo di tracciare un corretto quadro di insieme dell’universo dei pericoli dovrebbe anche servire a diminuire il rischio che gruppi di interesse possano perpetrare manipolazioni. Di certo, generare allarme nella collettività sulla base di informazioni poco credibili rappresenta di per sé un danno, che è suscettibile di determinare nuovi danni, possibilm ente nella forma di effetti a catena su larga scala65. Un approccio sensato al rischio tenterebbe di ridurre le paure della collettività anche se appaiono prive di fondamento. Il mio scopo fin qui non è stato quello di negare questo fatto, ma di offrire una spiegazione al fascino altrimenti misterioso del principio di precauzione, identificando le strategie che lo rendono applicabile. A livello individuale è difficile dire che tali strategie siano prive di sen­ so, specialmente per le persone che non dispongono di molte informazioni o che fanno del loro meglio, mettendo a fuoco 65 Si veda una trattazione sull’amplificazione sociale del rischio in Siovie, The Perception o f Risk, eit.; nonché in N. Pidgeon, R.E. Kasperson e P. Slovic (a cura di), The Social Amplification o f Risk, New York, Cambridge University Press, 2003.

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solo un aspetto del problema. Ma per i governi il principio di precauzione non appare sensato, per la semplice ragione che, allargando il campo di osservazione del principio, diventa evi­ dente che esso si rivela incapace di indicare la strada da seguire. Certo, i paesi razionali dovrebbero assumere precauzioni. Ma senza adottare il principio di precauzione. E nella seconda parte del libro vedremo cosa dovrebbero fare. Adesso invece esploriamo lo speciale potere degli scenari peggiori, i quali spesso inducono a adottare precauzioni eccessive.

CAPITOLO TERZO

GLI SCENARI PEGGIORI

Si considerino i seguenti problemi: • Alcune persone abitano in un quartiere situato in pros­ simità di una discarica di rifiuti pericolosi. Nel quartiere inizia a verificarsi un numero elevato e inusuale di decessi e malat­ tie. Molti abitanti del quartiere temono che il fenomeno sia attribuibile alla discarica. I pubblici amministratori cercano di offrire rassicurazioni sul fatto che appare estremamente bassa la probabilità che il sito determini effetti negativi per la salute. Le rassicurazioni sono accolte con scetticismo e sfiducia. • Un aereo passeggeri in volo fra Londra e Parigi è preci­ pitato recentemente. Sebbene le ragioni del disastro non siano note, molti temono che si tratti di terrorismo. Nelle settimane successive, tante persone che altrimenti volerebbero prefe­ riscono prendere il treno o posticipare i loro viaggi. Alcuni fra costoro sono pronti a riconoscere che il rischio statistico di incidenti aerei è minimo. Tuttavia, si rifiutano di prendere l’aereo, anche per non sperimentare l’ansia che dovrebbero affrontare una volta in volo. • Un’agenzia governativa deve decidere se imporre l’eti­ chettatura degli alimenti geneticamente modificati. Secondo gli esperti consultati dall’agenzia, le sostanze alimentari geneticamente modificate, in quanto tali, pongono rischi insignificanti all’ambiente e alla salute umana. Molti consumatori, però, non sono dello stesso avviso. L’immagine della modificazione genetica suscita forti emozioni, e la scelta di imporre l’etichet­ tatura è ritenuta suscettibile di produrre notevoli effetti sulle scelte dei consumatori, sebbene gli esperti siano convinti che il pericolo sia trascurabile. Come comprendere il comportamento umano in casi del ge­ nere? La mia risposta principale, ovvero la tesi di questo capitolo, è che quando sono in gioco emozioni intense, la gente tende a 91

mettere a fuoco il risultato negativo e non le sue probabilità di verificazione. La gente non misurerà le probabilità che il danno si verifichi. Enfatizzerà le ipotesi peggiori. N e discen dono gravi effetti distorsivi, sia per gli individui sia per le società. A livello individuale, il fenom eno del probability neglect rende indifferenti a rischi di piccola entità, ma statisticamente esistenti, e determina preoccupazioni eccessive, oltre che modi­ fiche nel comportamento non giustificate. L o stesso fenomeno influisce negativamente sul diritto e sulla regolamentazione. Come vedremo, i governi, non diversam ente dagli individui, possono trascurare il problem a della probabilità, in un modo che può indurre a trascurare rischi reali o a spendere somme cospicue senza conseguire benefici, o quasi. V edrem o inoltre che la comprensione del fenom eno cognitivo del probability neglect aiuta a capire in che m odo i governi p o sso n o aumentare o ridurre le preoccupazioni che la collettività nutre nei confronti dei pericoli. I terroristi sfruttano questo fenom eno; e lo stesso fanno gli ambientalisti e gli am m inistratori delegati delle grandi società. I politici populisti, così com e quelli che perseguono i propri interessi personali, si servono del probability neglect per attirare attenzione su problem i che non sem pre m eritano di es­ sere presi in considerazione a livello collettivo. Sarà opportuno cominciare la nostra disamina con un inquadram ento generale sui giudizi individuali e sociali in tema di rischi.

1.

Cognizione

In una prospettiva che muove dal tradizionale modo di intendere la razionalità, le probabilità sono molto importanti nel determinare le reazioni ai rischi; le emozioni, in quanto tali, non devono essere misurate autonomamente, perché si ritiene che non abbiano un ruolo degno di nota. Naturalmen­ te, la gente può essere avversa al rischio oppure propensa al rischio. Può essere, per esempio, che si sia disposti a pagare 100 dollari per eliminare il rischio pari a 1/10.000 di perdere 9.000 dollari: è un chiaro esempio di avversione al rischio, perché si pagano 100 dollari per eliminare un rischio che ne vale 90. Molte persone sono propense all’azzardo e sarebbero pronte a pagare 101 dollari per avere una possibilità su mille 92

di vincere 100.000 dollari. Ma i più mostrano di prendere sul serio le variazioni delle probabilità, e sarebbe incomprensibile se la gente si rivelasse pronta a pagare 100 dollari per eliminare un rischio pari a 1/1.000 di perdere 900 dollari, e nello stesso tempo acconsentisse a spendere 100 dollari per neutralizzare un rischio pari a 1/100.000 di perdere 900 dollari. Per molti versi non è poi così rilevante sapere se le decisioni legate al rischio vengono determinate dalle emozioni o da qualcos’altro. Ho enfatizzato il fatto che, in difetto di informazioni statisti­ che, le persone si affidano ad alcune euristiche, o regole fondate sull’istinto, che servono a semplificare il campo di indagine; fra le varie euristiche quella della disponibilità probabilmente si rivela la più importante per comprendere la paura. Per il diritto e per la regolamentazione, il problema è che l’euristica della disponibilità può indurre a commettere gravi errori in punto di fatto, determinando reazioni eccessive a rischi trascurabili che però appaiano disponibili sul piano cognitivo, o reazioni inade­ guate a gravi rischi che non appaiono altrettanto disponibili sul piano cognitivo. Quando le persone impiegano le euristiche per semplificare la propria indagine sulla sussistenza dei pericoli, gli errori diventano probabili, ma ciò non dipende necessariamente dal ruolo svolto dalle emozioni. La cognizione è anche al cuore della prospect theory, una teoria che prende le distanze dalla teoria della utilità attesa per spiegare come si assumono le decisioni al cospetto dei rischi1. Ai nostri fini, è particolarmente significativo notare come la prospect theory permetta di spiegare sia il gioco d’azzardo sia l’assicurazione. Quando l’azzardo prospetta una piccola probabi­ lità di arricchimento, la maggior parte delle persone, chiamate a scegliere, rifiutano un guadagno certo pari a X, preferendo un azzardo che ha un valore atteso minore di X. Quando l’azzardo prospetta una piccola probabilità che si verifichi una catastrofe, le cose cambiano. In tal caso la maggior parte delle persone preferisce una perdita certa di X a un azzardo che prospetta un valore atteso minore di X. Se si assume che la razionalità obbedisca alla teoria del valore atteso, allora la gente mostra di allontanarsi dalla razionalità se, quando i valori in gioco si fanno 1 Si veda D. Kahneman e A. Tversky, Prospect Theory. An Analysis ofDecision under Risk, in Id. (a cura di), Choices, Values, and Frames, Cambridge, Cambridge University Press, 2000.

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elevati, attribuisce un valore eccessivo a esiti che appaiono poco probabili. E invero è agevole avvedersi del fatto che la prospect theory tende a enfatizzare il fenomeno del probability neglect. Ma nel fornirci queste indicazioni sul comportamento umano, essa non affida un ruolo significativo alle emozioni. 2. Emozioni Nessuno dubita, tuttavia, che in molti campi le persone non attribuiscano soverchia rilevanza al variare delle probabilità e che le emozioni influiscano notevolmente sui giudizi e sulle decisioni2. Di fronte ad alcuni eventi a bassa probabilità di occorrenza, le emozioni avvertite o preavvertite pensando al migliore o al peggiore dei possibili esiti aiutano a orientare la nostra scelta. Chi acquista i biglietti della lotteria spesso proietta la sua fantasia sullo scenario positivo che gli si schiuderebbe in caso di vincita. Rispetto al rischio di un danno, molti dei nostri modi di parlarne suggeriscono emozioni forti: panico, isteria, terrore. La gente può rifiutare di volare non perché in quel momento ha paura, ma perché si prefigura la sensazione di ansia che proverà e vuole evitarla. Spesso la gente decide nel modo in cui decide perché immagina che in futuro potrebbe rimpiangere di non aver preso quella decisione. Lo stesso accade con la paura. Sapendo che si avrà paura, si può decidere di non recarsi in Sudafrica o Israele, anche se si sarebbe assai felici di visitare quei paesi e anche se, riflettendo, ci si rende conto che la propria paura non obbedisce completamente alla razionalità. Le prove addotte dalle scienze sociali in merito risultano piut­ tosto specifiche3. L’indicazione è che, in molti casi, le persone tenderanno a ignorare l’esistenza di significative differenze in termini di probabilità tutte le volte che l’esito della propria scelta appare «cognitivamente ricco», quando cioè l’esito non 2 Cfr. G. Loewenstein et a l R i s k as Feelings, in «Psychological BuUetin», 127, 2001, p. 267; E. Posner, Law and thè Emotions, in «Georgetown Law Journal», 89, 2001, p. 1977, in particolare pp. 1979-1984. 3 Si veda Y. Rottenstreich e C. Hsee, Money, Kisses, and Electronic Shocks. On thè Affective Psychology o f Risk, in «Psychological Science», 12, 2001, p. 185, in particolare pp. 186-188; Loewenstein et a l R i s k as Feelings, eit., pp. 276-278.

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solo prospetta una grave perdita, ma appare suscettibile di produrre emozioni intense, come la paura. Di certo, distinguere fra cognizione ed emozione è complesso e controverso4. Nel campo dei rischi, e nella maggior parte degli altri contesti, le reazioni emozionali sono fondate sul pensiero; esse non sono quasi mai estranee alla sfera cognitiva. Quando un’emozione negativa si associa a un certo rischio - i pesticidi o il nucleare, per esempio -, un ruolo chiave è svolto dall’attività cognitiva5. Ai fini della nostra analisi non appare necessario prospettare tesi particolarmente controverse sull’emozione della paura. L’unica indicazione è che, quando le emozioni sono in­ tense, risulta più difficile effettuare calcoli, o almeno quel tipo di calcoli che ci permettono di compiere una valutazione del rischio che non si limiti a tener conto della gravità dell’evento finale, ma che sia capace di considerare quante siano le proba­ bilità che l’evento si verifichi. 4 Per le diverse opinioni si vedano R. De Sousa, The Rationality of Emotion, Cambridge (Mass.), Mit Press, 1987; J. Elster, Alchemies of thè Mind, Cambridge, Cambridge University Press, 1999; M.C. Nussbaum, Upheavals of ThoughtyNew York, Cambridge University Press, 2002; trad. it. L'intelligenza delle emozioni, Bologna, Il Mulino, 2004. 5 Alcune ricerche indicano che il cervello ospita dei settori speciali ove prendono luogo le emozioni, e che alcuni tipi di emozioni, incluse le reazio­ ni in qualche modo legate alla paura, possono essere sollecitate prima che vengano minimamente coinvolti settori maggiormente cognitivi; si veda J.E. LeDoux, The Emotional Brain, New York, Simon & Schuster, 1996; trad, it. Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2003. Chi avverte un rumore improvviso e inaspettato prova paura prima ancora che abbia modo di identificare la fonte del rumore, si veda R.B. Zajonc, On thè Primacy of Afféet, in «American Psychologist», 39, 1984, p. 117; Id., Feeling and Thinking. Preferences Need No Inferences, in «American Psychologist», 35, 1980, p. 115. Le persone che hanno ricevuto iniezioni endovenose di procaina, una sostanza che stimola l’amigdala, avvertono sensazioni di panico, si veda D. Servan-Schreiber e W.M. Perlstein, Selective Limhic Activation and Its Relevance to Emotional Disorders, in «Cognition & Emotion», 12, 1998, p. 331. Nel corso di esperimenti condotti su esseri umani, la stimolazione elettrica dell’amigdala determina sensazioni di paura e di presentimenti negativi, anche se non ne esistono le ragioni, inducendo le persone ad affermare, per esempio, che si sentono come se qualcuno stesse dando loro la caccia: si veda J. Panksepp, Mood Changes, in PJ. Vinken, G.W. Bruyn, H.L. Klawans e J.A.M. Frederiks (a cura di), Handhook of Clinical Neurology, voi. XLV, New York, Elsevier, 1985. Non è vero, tuttavia, che la paura negli esseri umani sia in genere precognitiva o non cognitiva, e anche se lo fosse in alcuni casi, non è chiaro se la paura non cognitiva possa essere suscitata dalla maggior parte dei rischi legati alla vita di ogni giorno.

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Muovendo dalle prove disponibili in merito, e nel contempo sviluppandole, intendo esplorare un fenomeno generale: in molti campi le persone spesso focalizzano la propria attenzione sul ca­ rattere positivo o negativo dell’esito analizzato, e prestano invece (troppa) poca attenzione alle probabilità che l’evento, positivo o negativo che sia, si verifichi. Il probability neglect è particolarmente intenso quando ci si concentra sul peggiore dei casi possibili, oppure quando si è soggetti a forti emozioni. Quando emozioni del genere si manifestano, le persone non attribuiscono sufficiente importanza alle probabilità che il «peggiore dei casi» si verifi­ chi davvero. Il che è un problema, perché non è propriamente razionale ritenere che l’I per cento di possibilità che un evento nefasto si verifichi sia equivalente, o quasi, al 99 per cento o al 10 per cento di possibilità che il medesimo evento si realizzi. Poiché la gente è esposta al probability neglect, e poiché trascurare le probabilità non è pienamente razionale, quanto sto descrivendo revoca in dubbio l’idea, ampiamente diffusa, secondo cui di fronte ai rischi la gente comune mostrerebbe di possedere una sorta di «razionalità più ricca», migliore di quella degli esperti6. Il più delle volte gli esperti concentrano la loro attenzione sul numero di vite umane che sono in gioco, e per questa ragione, a differenza della gente comune, sono particolarmente sensibili alla questione della probabilità. Dovremmo riflettere sul fenomeno del probability neglect alla luce di un approccio «a doppio processo», come quello che recentemente ha ricevuto un’attenzione particolare nel campo della psicologia7. Secondo questo approccio la gente adopera due sistemi cognitivi. Il sistema di tipo I è rapido, intuitivo 6 Si veda C.P. Gillette e J.E. Krier, Risk, Court, Agencies, in «University of Pennsylvania Law Review», 138, 1990, p. 1027, in particolare pp. 1061-1085 (ove si difende l’idea delle razionalità in competizione). Non intendo negare che in determinate circostanze la gente comune presti attenzione razionalmente a valori che gli esperti non tengono in considerazione. Ciò che voglio dire è che nella misura in cui le persone comuni tendono a focalizzare la propria attenzione sul possibile carattere nefasto degli esiti, ma non sulle probabilità di verificazione di questi esiti, esse pensano in modo meno chiaro di quanto facciano normalmente gli esperti, che invece tendono a concentrare la propria attenzione sulla possibilità di verificazione statistica del fenomeno osservato. 7 Si vedano in generale J.P. Forgas, K.D. Williams e W. von Hippel (a cura di), Social judgements, New York, Cambridge University Press, 2003; S. Chaiken e Y. Trope (a cura di), Dual-Process Theories in Social Psycbology, New York, Guilford Press, 1999; D. Kahneman e S. Friederick, Representativeness

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e incline agli errori; il sistema di tipo II è più deliberativo, calcolatore, procede più lentamente e appare maggiormente propenso a non commettere errori. Il pensiero che si serve delle euristiche ha le sue radici nel sistema di tipo I, e a certe condizioni può venir modificato dal sistema di tipo di II8. Il sistema di tipo I è quindi quello nel quale si sviluppa l’impiego dell’euristica della disponibilità, come accade quando si formula un giudizio rapido e intuitivo sulla gravità di un dato rischio, perché viene subito in mente un caso nel quale quel rischio si è avverato. Il giudizio intuitivo può essere corretto da una valutazione più deliberativa, tale da suggerire che in realtà il rischio è piuttosto basso. Lo stesso accade con il probability neglect: quando ci si concentra sull’esito senza curarsi del pro­ blema della probabilità, si sta usando il sistema I in un modo che richiede l’intervento correttivo del sistema II. Nel richiamare l’attenzione sul probability neglect non intendo sostenere che la maggior parte delle persone, il più delle volte, sia indifferente al fatto che le probabilità di ve­ rificazione di un dato evento possano variare grandemente. Grandi oscillazioni in tal senso possono fare (e spesso fanno) la differenza, ma quando entrano in gioco le emozioni questa differenza in termini di probabilità appare molto più piccola di quanto in realtà sia. Non intendo nemmeno sostenere che il probability neglect sia insensibile alle circostanze. Infatti, se i costi che discendono dal fatto di trascurare le probabilità sono messi in chiara evidenza, le persone mostrano più sensibilità al problema. Persino le forze del mercato possono contrastare gli effetti del probability neglect, se è verosimile che a un rischio pari a (poniamo) 1/10.000 sia attribuito un «prezzo» diverso da quello attribuito a un rischio pari a (poniamo) 1/1.000.000, Revisited. Attribute Substitution in Intuitive Judgement, in T. Gilovich, D. Griffin e D. Kahneman (a cura di), Heuristics and Biases. The Psychology of Intuitive Judgement, Cambridge, Cambridge University Press, 2002. 8 Si veda ibidem. Non si deve pensare che i due sistemi siano collocati in spazi fisici diversi, anzi essi potrebbero essere considerati alla stregua di euristiche ( ! ), cfr. ibidem. Esistono tuttavia alcune prove che diversi settori del cervello siano associati ai sistemi di tipo I e di tipo II. Si veda la discussione sulla paura in LeDoux, II cervello emotivo, trad. it. eit., pp. 107-142; e una trattazione più generale in M. Lieberman, Reflexive and Reflective Judgement Processes. A Social Cognitive Neuroscience Approach, in Forgas, Williams e Hippel (a cura di), Social Judgments, eit.

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anche se le persone nei sondaggi mostrano una relativa indif­ ferenza a queste variazioni dell’entità del rischio. Alla luce di quanto detto vorrei mettere in evidenza due implicazioni. Anzitutto, la differenza fra i livelli di probabilità spesso influenza il comportamento umano molto meno di quanto sarebbe lecito attendersi, specie quando a entrare in gioco sono le emozioni. In secondo luogo, la richiesta di intervento regolativo che la collettività rivolge alle autorità governative può venire fortemente condizionata dal fenomeno del probability neglect, per cui diventa possibile che i responsabili della regolamentazione si attivino per disciplinare in modo stringente un problema, perché forti reazioni emotive fanno sì che la collettività diventi insensibile all’idea che di fronte a infimi livelli di probabilità i pericoli si reifichino assai difficilmente. Quando un esito negativo è assai saliente ed è in grado di suscitare forti emozioni, al governo viene chiesto di fare qualcosa comunque, anche se la probabilità che l’evento negativo accada appaiono molto basse. Politici di ogni schieramento, invocando l’attenzione sul «caso peggiore», mostrano di saper sfruttare il fenomeno del probability neglect.

3. «Probability neglect»: il fenomeno base Ma davvero alla gente importa qualcosa della probabilità? Naturalmente sì: un rischio pari a 1/100.000 è assai meno problematico di un rischio pari a 1/100. Ma il più delle volte le persone mostrano una spiccata attitudine a non attardarsi a fare i conti con la questione della probabilità. Molti studi di­ mostrano che spesso, mentre cercano informazioni rilevanti, le persone non provano nemmeno a informarsi sulle probabilità. Uno studio, per esempio, ha riscontrato che, nella decisione di acquistare un garanzia suppletiva per beni di consumo, i con­ sumatori per motivarsi all’acquisto non mostrano un’attitudine spontanea a tener conto delle probabilità di aver bisogno di una riparazione9. Un altro esperimento mostra come, investiti dalla necessità di prendere decisioni manageriali suscettibili di creare rischi particolari, solo alcuni tra i partecipanti si erano degnati 9 Cfr. R.M. Hogarth e H. Kunreuther, Decision Making under Ignorance, in «Journal of Risk & Uncertainty», 10, 1995, p. 15.

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di chiedere informazioni in merito alle probabilità10. Ancora, si consideri uno studio che ha coinvolto bambini e adolescenti, ai quali veniva chiesto: Susan e Jennifer stanno litigando sull’opportunità di indossare le cinture di sicurezza in auto. Susan dice che si dovrebbero indossare [...]. Jennifer sostiene il contrario. Jennifer dice di aver sentito di una donna coinvolta in un incidente nel quale l’auto era caduta in un lago e dove la donna non era riuscita a uscire in tempo dall’auto perché indossava la cintura [...]. Cosa ne pensate?11

Nel rispondere alla domanda molti soggetti non hanno pensato nemmeno un istante alle probabilità. Uno scambio andò così: R. B e’, in quel caso non credo che tu debba indossare la cintura. D. (intervistatore ) Ma come faresti a sapere quando «quel caso» si verifica? R. B e’, spero proprio non succeda! D. E allora, dovresti o non dovresti indossare le cinture? R. B e’, te lo dico proprio, dovremmo metterci la cintura. D. Perché? R. Solo in caso di incidente. Non ti fai tanto male come quando non indossi la cintura. D. Ok, e che mi dici di quei casi, quando la gente resta intrappo­ lata? R. Non penso che in quei casi si debbano indossare le cinture12.

Queste risposte possono sembrare bizzarre e idiosincratiche, ma è ragionevole supporre che in numerose occasioni sia i bambini sia gli adulti passino da uno scenario negativo all’altro senza mettere a fuoco il problema della probabilità. Molti studi riscontrano che, nell’ambito di soglie di rischio non elevate, il fatto che siano riscontrati livelli di probabilità anche notevolmente divergenti fra ciascun rischio non influisce più di tanto sulle decisioni. Il dato contrasta apertamente con quanto predicato dalla teoria della razionalità, secondo cui, per conseguire 10 Cfr. O. Hober et al., Active Information Search and Complete Informa­ tion Presentation in Naturalistic Risky Decision Tasks, in «Acta Psychologica», 95, 1997, p. 15. 11 Si veda J. Baron, Thinking and Deciding, Cambridge, Cambridge Uni­ versity Press, 20013, pp. 246-247. 12 Cfr. ibidem.

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un'ulteriore riduzione di rischi già ridotti, la gente dovrebbe ma­ nifestare una disponibilità a pagare proporzionale all’entità della riduzione dei rischi in tal modo conseguibile15. Forse questo tipo di riscontri riflette il tatto che la gente comprende implicitamente che, in circostanze del genere, la probabilità rilevante è «bassa, ma non è pari a zero», e che ulteriori distinzioni sono di scarso aiuto, anche perché sono un po' troppo complicate per essere comprese (cosa significa davvero un rischio di 1/100.000? Che differenza fa, per un individuo, rispetto a un rischio pari a 1/40.000 o 1/600.000?). Nell'ambito di uno studio assai brillante, Howard Kunreuther e i suoi coautori hanno riscontrato che i partecipanti all’esperimento non riuscivano a fare distinzioni fra rischi pari rispettivamente a 1/100.000, 1/1.000.000 e a 1/10.000.00014. Nel medesimo studio si riscontravano differenze poco significative nel modo in cui venivano percepiti rischi corrispondenti, rispettiva­ mente, a 1 in 650, 1 in 6.300 e 1 in 68.000. In un saggio davvero rivelatore, Kunreuther e i suoi coautori hanno riscontrato che quanto la gente riesce a stimare rispetto alla probabilità che un evento accada non ha praticamente nessuna relazione con la Wtp che la gente manifesta quando valuta se dotarsi di una protezio­ ne assicurativa, anche in una situazione realistica nella quale i partecipanti all’esperimento avevano impiegato denaro reale15. Lo studio ha verificato che esiste una relazione fra il livello di preoccupazione che le persone affermano di nutrire e la Wtp che esse manifestano; ma né il primo né la seconda sembrano risentire del fatto che siano riscontrate grandi differenze in merito alla probabilità di una perdita. Lo studio appena descritto era stato concepito «relazionalmente», ovvero per misurare le reazioni fra i partecipanti aH’esperimento; questi ultimi erano chiamati a considerare solo un rischio, senza che venisse chiesto loro di considerare più 13 P.S. Corso et al., Valuing Mortality - Risk Reduction. Using Visual Aid to Improve thè Validity of Contingent Valuation, in «Journal of Risk & Uncertainty», 23, 2001, n. 2, p. 165, in particolare pp. 166-168. 14 H. Kunreuther et al., Making Low Probabilities Useful, in «Journal of Risk & Uncertainty», 23, 2001, n. 2, p. 103, in particolare p. 107. 15 Si veda H. Kunreuther et al., Probability Neglect and Concern in Insurance Decisioni with Low Probabilities and High Stakes, Working Paper del Risk M anagem en t and Decision Processes Center, Wharton School, Philadelphia, aprile 2004, http://opim.wharton.upenn.edu/risk/downloads/rain%20%20 paper% 20% 20apr01.pdf. 100

rischi nello stesso momento. Quando rischi a bassa probabilità vengono analizzati isolatamente, e non sono valutati congiuntamente, si manifesta un problema di «valutabilità»16. Di per sé una bassa probabilità non è particolarmente significativa per la maggior parte delle persone; ma praticamente chiunque è capace di rendersi conto che un rischio pari a 1/100.000 è peggiore di un rischio pari a 1/1.000.000. Il che è vero per la maggior parte delle persone: in caso di decisioni isolate, focalizzate volta per volta su un singolo rischio a bassa probabilità di verificazione, il modo in cui si valutano rischi quantitativamente differenti non fa registrare grandi variazioni. Ma una serie di esperimenti - concepiti «introspettivamen­ te», ossia per valutare ciò che accade all’interno di ciascun individuo - hanno simultaneamente esposto i partecipanti a più rischi che avevano, ciascuno, una diversa probabilità di avverarsi. Anche in questo caso le differenze in termini di probabilità hanno mostrato di avere scarsi effetti sull’esito delle decisioni. Un esperimento precedente ha misurato quanto i partecipanti sarebbero stati disposti a pagare (la Wtp) per ridurre i rischi di fatalità legati ai viaggi. Il riscontro più importante fu che per ridurre il rischio di fatalità di 7/100.000 la Wtp media riscon­ trata era più alta solo del 15 per cento della Wtp media rilevata per ridurre il rischio di 4/100.00017. Uno studio successivo ha riscontrato che, in caso di danni gravi, la Wtp per ottenere l’eliminazione di un rischio pari a 12/100.000 superava solo del 20 per cento la Wtp registrata quando si trattava di eliminare un rischio pari a 4/100.00018. Risultati del genere non sono così rari. Jordan Lin e Walter Milon hanno provato a misurare quanto si sia disposti a pagare per ridurre il rischio di contrarre malattie attraverso il consumo di ostriche19. I partecipanti si 16 Si veda C. Hsee, Attribute Evaluability. Its Implications for Joint-Separate Evaluation and Beyond, in D. Kahneman e A. Tversky (a cura di), Choices, Values, and Frames, Cambridge, Cambridge University Press, 2000, p. 543, in particolare pp. 547-549. 17 M.W. Jones-Lee et al., The Value ofSafety. Results of a National Sample Survey, in «The Economie Journal», 95, 1985, p. 49. 18 M.W. Jones-Lee et al., Valuing thè Prevention ofNon-Fatal Road Injuries, in «O xford Economie Papers», 47, 1995, p. 676. 19 C.T.J. Lin e J.W. Milon, Contingent Valuation of Health Risk Reductions for Shellfish Products, in J.A. Caswell (a cura di), Valuing Food Safety and Nutrition, Boulder (Col.), Westview Press, 1995, p. 85.

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sono dimostrati abbastanza insensibili al variare delle probabilità di ammalarsi. Un esperimento simile ha riscontrato differenze solo modeste nella Wtp misurata in relazione a variazioni an­ che notevoli della probabilità di verificazione di danni legati all'esposizione a residui dei pesticidi impiegati sulle verdure tresche '0. Un'anomalia simile è stata registrata nel corso di uno studio riguardante le discariche pericolose, quando si è addirittura riscontrato che la Wtp diminuiva all’aumentare della quota di riduzione di rischio di fatalità comunicata ai partecipanti aU'esperimento!21 Ci si potrebbe soffermare ancora a lungo su studi che dimostrano come, con riguardo alla categoria degli eventi a bassa probabilità di verificazione, la gente si mostri insensibile a variazioni di rischi anche significative. Non è facile fornire una spiegazione razionale di questa scarsa sensibilità; conven­ zionalmente si predica che la Wtp per piccole riduzioni di rischi debba grosso modo essere proporzionale all’entità della riduzione che viene così conseguita22. Ma per quale motivo la gente non sembra pensarla così? Una spiegazione ragionevole è che la maggior parte delle persone semplicemente non sa come valutare, in astratto, le basse probabilità. Un rischio pari a 7/100.000 sembra tanto «piccolo» quanto un rischio pari a 4/100.000. E vero che queste cifre possono essere valutate meglio se vengono messe a confronto fra loro; chiunque preferirebbe un rischio pari 4/100.000 a un rischio di 7/100.000, e il fatto di poter valutare questi rischi in modo congiunto e simultaneo migliora la loro valutabilità. Ma anche quando è chiaro cosa preferire, entrambi i rischi continuano ad apparire «piccoli», ragion per cui non è affatto certo che alla valutazione relativa alla differente entità di rischi a bassa probabilità corrisponda un incremento proporzionale della Wtp. Studi particolarmente creativi hanno provato a risolvere il problema del probability neglect servendosi di supporti visivi23, 20 Y.S. Eom, Pesticide Residue Risk and Food Safety Valuation. A Random Utility Approach, in «American Journal of Agriculture Economics», 76, 1994, p. 760. 21 V.K. Smith e W.H. Desvouges, An Empirical Analysis of thè Eco­ nomie Value o f Risk Changes, in «Journal of Politicai Economy», 95, 1987, p. 89. 22 Cfr. Corso et a l , Valuing Mortality - Risk Reduction, eit., pp. 166-168. 23 Si veda ibidem.

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oppure offrendo a chi partecipava agli esperimenti informazioni assai ricche, con scenari comparativi illustrati su scala probabili­ stica 24. Senza questi interventi, non sorprende che le differenze in termini di basse probabilità di rischio non stiano particolarmente a cuore alla gente. Per la maggior parte di noi, il più delle volte, la differenza rilevante - fra, poniamo, 1/100.000 e 1/1.000.000 - è estranea al nostro modo di decidere, e la nostra esperienza non ci consente di essere attrezzati per cogliere queste differenze. 4. Sicuro o insicuro? A proposito di soglie e di certezza Si può vedere una forma di probability neglect anche nel fatto che la gente sembra considerare le situazioni «sicure» o «insicure», senza avvedersi che il vero problema risiede nella probabilità che il danno si verifichi. Si consideri questa discus­ sione riguardante gli effetti dei disastri naturali: Uno dei patti che gli esseri umani stipulano fra loro per preservare il proprio benessere mentale consiste nel condividere l’illusione di essere al sicuro, anche quando il mondo che li circonda non sembra offrire elementi tangibili a supporto di questa conclusione. Chi è sopravvissuto a un disastro è pronto a sovrastimare i pericoli della situazione che ha vissuto, anche solo per compensare il fatto di aver sottostimato quegli stessi pericoli in passato; ma dò che è peggio, molto peggio, è che costoro in molti casi finiscono per vivere in uno stato di apprensione pressoché costante, perché hanno smarrito quella virtù umana che consiste nella capacità di rimuovere i segni del pericolo dalla propria visuale25.

Ciò che più colpisce in questo caso è la netta distinzione fra la gente comune, che «condivide l’illusione di essere al sicuro», e i sopravvissuti al disastro, che «in molti casi finiscono per vivere in uno stato di apprensione pressoché costante». Naturalmente, essere «al sicuro» è una questione di gradi. Non esiste un mo­ mento preciso nel quale le situazioni scattano dalla «sicurezza» al «pericolo». Se la gente comune «condivide l’illusione di essere al sicuro», il motivo è in parte attribuibile al fatto che molti rischi 24 Cfr. Kunreuther et al., Making Low Probabilities Useful, eit. 25 K.T. Erikson, Everythìng in its Path. Destruction of Community in thè Buffalo Creek Flood, New York, Simon & Schuster, 1976, p. 234. 103

a basso livello non vengono nemmeno registrati. Come abbiamo visto, gli esseri umani a volte tendono a essere irrealisticamente ottimisti; si cercano di ridurre le dissonanze cognitive trattando certi rischi come se fossero assai piccoli, tanto da meritare d’essere ignorati26. Pensando di essere al sicuro anche quando in realtà si è esposti a un rischio statisticamente rilevante, le persone cercano di gestire le emozioni (avvertite in quel momento o prefigurate nel futuro) per evitare l’ansia che deriva dal fatto di rendersi conto della inevitabilità del rischio. A livello individuale la decisione di trascurare i rischi a basso livello di probabilità non appare certo irrazionale. Non dispo­ niamo delle informazioni che ci permetterebbero di realizzare accurate valutazioni sul rischio, e quando la probabilità risulta davvero molto bassa è assolutamente sensato trattarla come se fosse pari a zero. La categoria dell’«essere al sicuro» è certamente assai grezza. Tuttavia per la maggior parte della gente, il più delle volte, si rivela assolutamente sensato ignorare sia i rischi a bassa probabilità sia i casi peggiori, agendo come se la categoria dell’essere al sicuro sia quella davvero rilevante. Naturalmente, i responsabili della regolamentazione dovrebbero far di meglio, non foss’altro per il fatto di avere a che fare con popolazioni assai estese. Un rischio che si fa benissimo a ignorare a livello individuale (poniamo 1/500.000) può meritare molta attenzione se finisce per riguardare 200 milioni di persone. Come suggerisce anche il passo citato, i rischi possono apparire all’improwiso, inducendo la gente a ritenere che, se un tempo era al sicuro, ora non lo è più. Negli Stati Uniti gli attacchi dell’ 11 settembre offrono una riprova piuttosto ovvia di quanto detto, poiché per un breve periodo hanno indotto le persone a credere che gli aeroporti e altri luoghi aperti al pubblico fossero insicuri, e oggi continuano ad alimentare la preoccupazione collettiva che nel complesso il paese sia «a rischio». E invero gli attacchi dell’ 11 settembre sembrano aver aumentato i timori della gente per molti rischi mortali, 26 Si veda G.A. Akerlof e W.T. Dickens, The Economie Consequences o f Cognitive Dissonance, in G.A. Akerlof, An Economie Theorist’s Book of Tales, Cambridge, Cambridge University Press, 1984; trad. it. Le conseguenze economiche della dissonanza cognitiva, in Racconti di un Nobel dell'economia. Asimmetria informativa e vita quotidiana, Milano, Università Bocconi Editore, 2003, pp. 126-131.

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non solo per quelli legati al terrorismo. Il terrorismo ha reso gli adolescenti statunitensi più propensi a ritenere che la vita sia rischiosa27. Naturalmente una forma di probability neglect è all’opera tutte le volte che collochiamo un rischio nella ca­ tegoria del «sicuro» e dell’«insicuro». E il desiderio di sentirsi «al sicuro» a far sì che la gente valuti rischi che hanno una consistenza statistica pari a zero. Studi sperimentali sembrano confermare questa conclusione. Con riguardo alla decisione di assicurarsi contro pericoli a bassa probabilità di verificazione, le persone mostrano due tipologie di reazioni28. Quando è quantificato sotto una certa soglia, le persone considerano il rischio come se in concreto fosse pari a zero, dimostrando poca o nessuna disponibilità a investire per assicurarsi contro il relativo danno. Ma quando il rischio viene quantificato al di sopra di una certa soglia, le persone diventano propense a investire parecchio per assicurarsi, pagando premi che eccedono largamente il valore atteso del rischio. Questa risposta bimodale appare in linea con l’indicazione, invero intuitiva, secondo cui alcuni rischi non sono ben inquadrati, mentre altri, statisticamente non molto più consistenti, lo sono e determinano modifiche nei comportamenti. Si consideri che secondo uno studio quando le persone sono informate del fatto che la probabilità di morire a seguito di un incidente stradale è pari solo a 0,00000025 per viaggio ben il 90 per cento di loro afferma che in tal caso non indosserebbe le cinture di sicurez­ za, un riscontro che appare in linea con la valutazione (invero comprensibile) che induce a concludere che una probabilità così piccola sia equivalente a zero29. Il ruolo delle soglie si riallaccia a un aspetto della prospect theory, mettendo in risalto quanto conti la certezza per le decisioni della gente30. Le persone sono disposte a pagare relativamente poco per ottenere un piccolo aumento in termini di sicurezza, ma sarebbero pronte a pagare molto di più se quel 27 Si veda B.L. Halpem-Felsher e S.G. Millstein, The Effects of Terrorism on Teens’ Perception ofDying, in «Journal of Adolescent Health», 30, 2002, p. 308. 28 Si veda D.L. Coursey et al., Insurance for Low Probability Hazards. A Bimodal Response to Unlikely Events, in «Journal of Risk & Uncertainty», 7, 1993, p. 95. 29 Si veda Baron, Tbinking and Deciding, eit., p. 255. 30 Si veda Kahneman e Tversky, Prospect Theory, eit.; H. Margolis, Dealing With Risk, Chicago, University of Chicago Press, 1996, pp. 83-84.

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quid di sicurezza in più fosse l’ultimo, tale cioè da eliminare ogni residua traccia del rischio. Una riduzione dello stato di rischio da 0,4 a 0,3 susciterà molto meno entusiasmo di una riduzione del rischio da 0,1 a zero; per cui le persone sono disposte a pagare molto meno per ottenere la prima riduzione di quanto invece siano disposte a pagare per la seconda. Questo riscontro, che è comunemente descritto come «effetto certezza», è coerente con l’assunto secondo cui le persone sono insensibili alle variazioni del rischio quando questo esprime basse proba­ bilità, preferendo il più delle volte chiedersi se si trovano nel territorio del «sicuro» o in quello dell’«insicuro». Dal problema generale legato al fatto di trascurare le diffe­ renze fra rischi che hanno basse probabilità di verificarsi passia­ mo adesso al ruolo particolare che le emozioni forti assumono nel distogliere l’attenzione dal problema delle probabilità, sia quando queste sono basse sia quando lo sono un po’ meno. La mia tesi principale è che, se entrano in gioco emozioni forti, variazioni su larga scala sul piano delle probabilità mostreranno di avere sorprendentemente poco peso, anche quando queste variazioni sarebbero sicuramente apparse rilevanti se le emozioni non fossero state coinvolte. Il punto più generale è che, quando sono in gioco le emozioni, il fenomeno del probability neglect si amplifica enormemente; ed è per questo che gli scenari peggiori hanno un potere straordinario. Il che vale per la speranza come per la paura. Anche immagini vivide di risultati particolarmente positivi mettono fuori gioco considerazioni attinenti alle pro­ babilità. Le lotterie hanno successo anche per tale ragione. Si consideri questo resoconto di cronaca: Non sapevano realmente cosa significasse giocarsi a sorte una possibilità su 76 milioni. I grandi sogni sono più facili dei grandi azzardi; per essere precisi, nell’estrazione delle 11 di sera esiste una sola possibile combinazione vincente su 76.275.360 [ ...] . Clarence Robinson, manager della catena Macy, replicò: «U n o in 76 milioni, giusto? E solo un numero. V in cerò !»31.

Ma il nostro argomento è la paura, non la speranza. 31 Cfr. I. Shapira, Long Lines, Even Longer Odds, Looking for a Lucky Number? How About 1 in 76,275,360?, in «Washington Post», 12 aprile 2002, p. B l.

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5. Una dimostrazione semplice La tesi base sul probability neglect ha ricevuto la sua più evidente conferma empirica da uno studio davvero sorprendente che indagava quanto le persone fossero disposte a pagare per evitare di subire un elettroshock32. Scopo principale dello studio era esplorare la rilevanza assunta dalla probabilità in quei contesti decisionali che possono definirsi «carichi di emozioni». L’espe­ rimento mirava a verificare se, in contesti che determinano forti emozioni, il variare della probabilità di danno mostra di avere maggiore o minore rilevanza di quanto non accada in contesti relativamente immuni da emozioni. Nel contesto a «emozioni forti» venne chiesto ai partecipanti di immaginare che si sarebbero sottoposti a un esperimento con la possibilità di essere coinvolti in un «breve, doloroso, ma non pericoloso, elettroshock». Nel contesto relativamente scevro da emozioni ai partecipanti venne detto che l’esperimento avrebbe comportato la possibilità di dover pagare una multa pari a 20 dollari. Ai partecipanti venne chiesto di indicare quanto sarebbero stati disposti a pagare per evitare di partecipare all’esperimento proposto loro. Ad alcuni partecipanti fu detto che esisteva l’I per cento di possibilità di andare incontro all’esito negativo (perdere 20 dollari o subire l’elettroshock); ad altri fu detto che la probabilità era del 99 per cento; e ad altri ancora del 100 per cento. Il risultato principale del test fu che le variazioni delle probabilità influivano su quanti fronteggiavano una perdita re­ lativamente immune alle emozioni (la multa di 20 dollari) molto più di quanto non accadesse con riferimento alle persone poste di fronte alla prospettiva, ben più ricca di implicazioni emotive, di subire l’elettroshock. Nel caso della multa, la differenza in termini di somma media che si era disposti a pagare fra l’ipotesi dell’ 1 per cento e quella del 99 per cento di probabilità era, come previsto, notevole e in linea con quanto postulato dal modello predittivo standard: un dollaro per evitare il rischio dell’ 1 per cento e 18 dollari per evitare un rischio del 99 per cento. Nel caso dell’elettroshock, invece, la differenza in termini di probabilità modificava di poco la media della disponibilità 32 Cfr. Rottenstreich e Hsee, Money, Kisses, and Electronic Shocks, eit., pp. 176-188.

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a pagare: 7 dollari per evitare un rischio dell’ l per cento, 10 dollari per evitare un rischio del 99 per cento! Apparentemente, le persone sono pronte a pagare somme significative per evitare una piccola probabilità di un pericolo che cattura sul piano emozionale, e questa disponibilità a pagare non sem bra essere destinata a cambiare molto al variare delle probabilità.

6.

Una dimostrazione più complessa

Per analizzare il ruolo giocato dalle probabilità e dalle emo­ zioni nel conformare le risposte rispetto ai rischi ho allestito un esperimento, chiedendo a 83 studenti di giurisprudenza deH’Università di Chicago di indicare la som m a più elevata che sarebbero stati disposti a pagare per ridurre i livelli di arsenico presenti nell’acqua potabile. L e dom ande avevano un alto livello di realismo, essendo relative a decisioni che la Environmental Protection Agency aveva dovuto prendere realmente, e riguardavano inform azioni su costi e benefici tratte dalle cifre reali che l’agenzia aveva im piegato nel suo processo decisionale. I partecipanti erano divisi a caso in quattro gruppi, ciascuno corrispondente ai quattro diversi scenari contem plati dall’espe­ rimento. Nel primo veniva chiesto ai partecipanti di indicare la massima somma che sarebbero stati disposti a pagare per evitare un rischio di contrarre un tum ore pari a 1/1.000.000. Nel secondo scenario la dom anda era la stessa, ma il rischio di contrarre un tumore era pari a 1/100.000. N el terzo scenario la domanda era la stessa che nel primo, ma il tum ore era descritto in termini particolarmente vividi, come «m olto raccapricciante e molto doloroso, man mano che il cancro procede divorando gli organi interni del corpo». Nel quarto scenario, la dom anda era uguale a quella posta nel secondo, ma la descrizione del tumore ricalcava i termini del terzo scenario. In ciascuno scenario, ai partecipanti veniva chiesto di indicare la propria disponibilità a pagare scegliendo fra le seguenti opzioni in dollari: 0, 25, 50, 100, 200, 400, 800 o più. Si noti che la descrizione del tumore negli scenari altamente emozionali era concepita in modo da offrire poche informazioni utili aggiuntive, risolvendosi semplicemente in una descrizione 108

Tab. 3.1. Disponibilità a pagare (in dollari) per conseguire l'eliminazione dei rischi legati all'arsenico Probabilità

Descrizione non emozionale

Descrizione emozionale

Disponibilità a pagare complessiva

1/1.000.000 1/100.000 Complessiva

71,25 (25) 194,44 (100)

132,95 (100) 241,30 (100) 188,33 (100)

103,57 (50) 220,73 (100) 161,45 (100)

129,61 (100)

Nota: medie (mediane fra parentesi).

comune a molti decessi determinati da tumori, anche se a qual­ che partecipante all’esperimento sarà sembrata la descrizione di una morte particolarmente orrenda. L a mia ipotesi principale era che negli scenari altamente emozionali le variazioni in termini di probabilità avrebbero mostrato una rilevanza molto minore di quanto non sarebbe accaduto negli scenari non emozionali. Più specificatamente, era previsto che le differenze in termini di probabilità avreb­ bero determinato effetti scarsi o nulli nei contesti altamente emozionali, e che invece queste differenze avrebbero avuto un’importanza reale negli scenari non emozionali. La previsione appariva in evidente contraddizione con quanto predicato dalla teoria della utilità attesa, in base alla quale una persona nor­ malmente avversa al rischio dovrebbe essere disposta a pagare per lo meno 10 volte X per eliminare un rischio 10 volte più probabile di un rischio per eliminare il quale la stessa persona dichiara di esser pronta a pagare X. Un altro dei risultati che ci si aspettava dall’esperimento era che a una differenza pari al decuplo delle probabilità - quella corrente fra 1/1.000.000 e 1/100.000 - non avrebbe corrisposto una differenza equivalente in termini di disponibilità a pagare. I risultati dell’esperimento sono illustrati nella tabella 3.1. I risultati riscontrati fra coloro che hanno risposto nel primo scenario vanno nella direzione prevista33. Di fronte a una descrizione non emozionale, aumentare le probabilità moltiplicandole per un fattore pari a 10 ha determinato un in” I dati sono stati analizzati impiegando un’Anova 2 x 2 (Probabilità x Emozionalità della descrizione) per le medie complessive, e usando i t-test nell’ambito di ciascuna categoria.

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cremento statisticamente significativo nella Wtp media, da 71,25 a 194,44 dollari. Ma al cospetto di una descrizione altamente emozionale il medesimo incremento in termini di probabilità ha determinato un incremento in termini di Wtp molto minore, da 132,95 a 241,30 dollari, tale da non raggiungere la soglia della significatività statistica. Pertanto, mentre moltiplicare la probabilità per un fattore pari a 10 ha fatto salire la Wtp in entrambi gli scenari, l’effetto registrato è stato pari a più del doppio nello scenario meno emozionale (un incremento del 173 per cento nella Wtp media) rispetto a quanto è avvenuto nello scenario più em ozionale (un increm ento dell’81 per cento). A causa del numero limitato del cam pione di soggetti coinvolti nell'esperimento la differenza fra questi due tassi di incremento non appare statisticamente significativa, ma il ri­ sultato è nondimeno assai interessante, perché appare in linea con altri riscontri simili. Anche la seconda ipotesi ha ricevuto conferma. L’aumenta­ re delle probabilità si è riflesso in una significativa differenza complessiva in termini di Wtp m edia, da 103,57 a 220,73 dollari. In linea con i risultati di altri esperim enti condotti sul fenomeno del probability neglect, il variare delle probabilità ha dimostrato di avere un debole effetto sulla Wtp. Eloquente­ mente, aumentare 10 volte il rischio ha prodotto un aumento pari a poco più del doppio nella Wtp m edia (un aumento del 113 per cento). Va ricordato che in questo esperimento i so­ fisticati studenti di giurisprudenza dell’Università di Chicago hanno dimostrato di essere molto più sensibili alle informazioni relative alla probabilità di quanto è risultato in altri studi; ma anche considerando questo, la sensibilità alle probabilità si è rivelata molto minore di quanto avrebbe indotto a predire la teoria tradizionale. Da questo esperimento si ricava un’altra indicazione degna di nota. Rendere la descrizione del tumore più emozionale è bastato per influire sulla Wtp media com plessiva, innalzandola da 129,61 a 188,33 dollari. E ciò svela che il semplice dipingere l’esito in termini più emozionali determina un effetto che, quanto a valori registrati, è pari alla metà di quello conseguito aumen­ tando di dieci volte la probabilità reale del rischio prospettato ai partecipanti a ll’esperimento. Tuttavia, voglio soprattutto mettere in risalto che, quando le dom ande sono state arti­ 110

colate in modo da suscitare forti emozioni, le differenze in termini di probabilità hanno mostrato di avere scarsi effetti sulla Wtp, effetti assai meno significativi di quando invece le domande sono state articolate in termini meno emozionali. Ed è questo il tipo di probability neglect che voglio mettere ora in evidenza.

7. Altre evidenze Il manifestarsi del probability neglect allorché entrano in gioco emozioni forti è un fenomeno riscontrato in molti studi34. Si considerino per esempio gli esperimenti concepiti per testa­ re i livelli di ansia che precedono la somministrazione di un doloroso elettroshock a intensità variabile, destinato a comin­ ciare dopo un conto alla rovescia di durata predeterminata. In questi studi l’intensità dello shock descritta ai partecipanti all’esperimento ha mostrato di avere un effetto significativo sulle reazioni psicologiche. Ma le probabilità di verificazione dello shock hanno mostrato di non averne. «Evidentemente, il mero pensiero di ricevere uno shock si è rivelato sufficiente per allarmare i soggetti, e la precisazione relativa alle probabilità di riceverlo sul serio ha influito ben poco sui livelli di allarme»35. Uno studio simile chiedeva ai partecipanti di indicare la somma più alta che sarebbero stati disposti a pagare per effettuare investimenti rischiosi, che prospettavano probabilità diverse e misure diverse di perdita o guadagno36. Fortunatamente per la teoria standard della razionalità, i massimi prezzi di acquisto apparivano influenzati sia dall’entità delle probabilità della perdita o guadagno prospettati sia dalla quantificazione di questi esiti (si consideri che per la maggior parte dei parteci­ panti l’esperimento non suscitava emozioni particolari perché erano in gioco solo soldi). Tuttavia - ed è questo un rilievo fondamentale - i livelli di preoccupazione registrati nel corso dell’esperimento non sono apparsi influenzati più di tanto dalle variazioni delle probabilità. Pertanto in questo studio le 34 Per una visione di insieme si veda Loewenstein et al., Risk as Feelings, eit., p. 276. 35 Ibidem. 36 Ibidem.

Ili

probabilità hanno influito sui com portamenti, ma non sulle emozioni. Il riscontro ha una sua autonoma im portanza. Anche se non influenza il comportamento, sperim entare uno stato di preoccupazione non è molto piacevole. E nella m aggior parte delle ipotesi con cui ci stiamo confrontando, le emozioni forti eliminano le preoccupazioni per le probabilità, per cui sia le preoccupazioni sia il com portam ento finiscono per esserne influenzati. Numerosi studi hanno tentato di verificare se le variazioni in termini di probabilità si rivelano più im portanti quando si ha a che fare con rischi che hanno il potere di evocare emozioni o quando invece si tratta di rischi neutri sul piano emozionale3'. L’ipotesi è che alcuni rischi a bassa probabilità di verificazione, come quelli associati alle radiazioni da scorie nucleari, producono indignazione, mentre ciò non accade per altri rischi a bassa probabilità di verificazione, come quelli associati all’esposizione al radon. L’ipotesi ha ricevuto riscontri decisivi: una grande differenza in termini di probabilità mostra di non produrre soverchi effetti in una situazione caratterizzata da «forte indignazione», laddove si è potuto verificare che le persone reagiscono nello stesso m odo a rischi pari a 1/100.000 o pari a 1/1.000.00038. In contesti « a bassa indignazione», invece, le differenze in termini di probabilità hanno mostrato un’influenza significativa sul m odo in cui la gente percepiva la minaccia e decideva di agire per contrastarla. Ancor più sorprendente è riscontrare che, dopo essere stati informati del fatto che le scorie nucleari (indignazione intensa) e il radon (indignazione modesta) prospettavano un rischio identico, i partecipanti all’esperimento hanno riportato di aver percepito una minaccia molto maggiore nel caso del nucleare, accom pa­ gnata da una volontà assai più forte di fare qualcosa contro la minaccia stessa39. E infatti, « l’effetto dell’indignazione ha mostrato di avere lo stesso effetto che avrebbe avuto sugli inter­ 37 P. Sandman et a l. , Communications to Reduce R isk Underestimation and Overestimation, in «Risk Decision & Policy», 3, 1998, p. 93; P. Sandman et al., Agency Communication, Community Outrage, and Perception o f Risk. Tbree Simulation Experiments, in «Risk Analysis», 13, 1993, p. 589. 38 Si veda Sandman et a l., Communications to Reduce R isk Underestimation and Overestimation, eit., p. 102. 39 Ìbidem, p. 106.

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vistati l’essere informati del fatto che in termini di probabilità il rischio fosse aumentato di 4.000 volte»40. I tentativi di comunicare il significato delle differenze in termini di livelli di rischio, illustrando termini di confronto con livelli di rischio normale, hanno rivelato di ridurre l’effetto indignazione. Ma anche dopo questi tentativi, l’indignazione continuava a manifestare un effetto pari a quello che avrebbe avuto il fatto di sapere che il rischio era aumentato di 2.000 volte. Per contrastare gli effetti delle emozioni forti si rende necessaria molta informazione. La gente non è refrattaria a questa informazione. Ma quando sono in gioco le emozioni, occorre agire con estrema precisione per fare in modo che le persone tengano in considerazione le probabilità41. Si ricordi che le visualizzazioni o l’immaginario hanno un ruolo importante nel conformare il modo in cui la gente risponde ai rischi42. Non va dimenticato che, quando si chiede quanto si sarebbe disposti a pagare per assicurarsi contro il rischio di incidenti aerei provocati dal «terrorismo», le persone si dichiarano pronte a pagare di più di quanto non siano disposte a fare nel caso in cui la domanda rivolta loro attenga indistintamente all’assicu­ razione per qualsiasi tipologia di disastro aereo43. Quando entra in gioco il fenomeno del probability neglect, non si ha a che fare con l’euristica della disponibilità. Quest’ul­ tima, infatti, non induce le persone a trascurare le probabilità, ma a rispondere al problema delle probabilità trasformando una domanda difficile (qual è il rischio statistico?) in una facile (mi vengono in mente esempi salienti?). Ciò che qui mi 40 Ibidem. 41 Ibidem, pp. 106-107. Si consideri in particolare la seguente osservazio­ ne: «quando la gente è turbata da una situazione di rischio a basso livello di probabilità di verificazione, ma altamente allarmante, le spiegazioni che provengono dalla fonte che genera il problema e in cui non si ha fiducia non sono di grande aiuto; parimenti il mero fatto di fornire dati circa la probabilità del rischio non aiuta, anche se la fonte dei dati gode di una certa fiducia. Sono invece possibili notevoli riduzioni nella percezione della minaccia e nelle intenzioni di intervento quando una fonte neutrale di cui si ha fiducia offre un dato di confronto o la possibilità di relazionarsi a una scala di rischio, a comparazioni di rischio o a uno standard di condotta» {ibidem). 42 Si veda P. Slovic et al ., Violence Risk Assessment and Risk Communica­ tions in «L aw & Human Behavior», 24, 2000, p. 271. 43 Si veda E.J. Johnson et a l, Framing, Probability Distortions, and Insur­ ance Decisions, in «Journal of Risk & Uncertainty», 7, 1993, n. 1, p. 35.

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prem e sottolineare non è che In visualizzazione fa app arire un evento più probabile di quanto non sia (anche se nella realtà ciò accade spesso), ma che la visualizzazione ren de il problem a delle probabilità meno rilevante di quan to d o v reb b e essere, e in taluni casi lo rende addirittura irrilevante. In teoria, la distinzione tra l’im piego deH'euristica della d isp o n ib ilità e il m anifestarsi del fenom eno del probability neglect dovrebbe essere chiara. In pratica è sp esso difficile sap ere se è l'euristi­ ca della disponibilità o il probability neglect a condizionare il com portam ento. In entram bi i casi, ciò che accad e è che gli scenari peggiori stanno m anifestando un effetto eccessivo sia sul pensiero sia sul com portam ento. Le reazioni emotive ai rischio e il probability neglect sono inoltre responsabili del cosiddetto «bias allarm istico»44. Quando

sono poste al cospetto di due descrizioni diverse del medesimo pericolo, le persone tendono a preferire la descrizione che appare più allarmistica. In uno studio paradigmatico, W. Kip Viscusi sottoponeva ai partecipanti informazioni provenienti da due fonti: il governo e le imprese. Ad alcuni dei partecipanti veniva offerto un quadro di informazioni sul pericolo, nel quale il governo affermava che vi erano basse probabilità di rischio, mentre le imprese paventavano un rischio ad alta probabilità di verificazione. Ad altri partecipanti veniva offerto un quadro informativo esattamente opposto, con l’informazione allarmistica prospettata dal governo e quella minimizzatrice dalle imprese. Il risultato più notevole è stato che i partecipanti hanno considerato «l’informazione prospettante un rischio maggiormente elevato più informativa di quella che invece sminuiva il rischio»45. E questo esito era confermato a prescindere dalla fonte dell’informazione: se il governo o le imprese. Perciò le persone dimostrano «una simmetria irrazionale: gli intervistati sopravvalutavano il peso delle valutazioni che prospettano un rischio elevato»46. La ra­ gione principale di questo esito sta nel fatto che l’informazione, quale che sia il suo contenuto, induce le persone a focalizzare la propria attenzione sugli scenari peggiori (è anche possibile che la gente non si fidi né del governo né delle imprese e si convinca 44 «T h e 45 46

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W.K. Viscusi, A larm ist D ecisioni with D ivergent R isk Inform ation, in Economie Journal», 107, 1997, p. 1657, in particolare pp. 1657-1659. ìbidem , p. 1666. Ibidem, p. 1668.

che la situazione reale corrisponde allo scenario peggiore fra quelli prospettati da entrambi). Da ciò si ricava un’indicazione inequivoca in termini di policy: potrebbe non rivelarsi opportuno offrire alle persone un ventaglio troppo ampio e discordante di informazioni, ove alcune sono rassicuranti e altre lo sono meno. E molto verosimile che il risultato di questa informazione di­ scordante sarebbe quello di spaventare la gente.

La conclusione più sensata è che con riguardo al rischio di danni, immagini vivide e fotografie reali di un disastro possono espungere dallo schermo altri tipi di pensieri, inclusa l’idea cruciale che le probabilità che il disastro si avveri siano dav­ vero poche. «Se qualcuno è predisposto alla preoccupazione, non viene tranquillizzato dal fatto di sapere che esistono vari livelli di rischiosità, a meno che non si riesca a dimostrare che il danno è assolutamente impossibile, cosa che di per sé appare impossibile»47. Con riguardo alla speranza, chi gestisce i casinò e le lotterie nazionali è perfettamente consapevole del funzionamento del meccanismo che alimenta questo fenomeno. Si tratta di giocare sulle emozioni della gente, in modo da far sì che le persone mettano assieme immagini vivide di vittoria e benessere. Con i rischi le compagnie di assicurazioni e i grup­ pi di ambientalisti fanno esattamente lo stesso. Il che spiega perché «preoccupazioni sociali sui pericoli, come il nucleare e l’esposizione a dosi minime di sostanze chimiche, non riescono a essere fugate dal sopraggiungere di informazioni che illustrano quanto siano piccole le probabilità che si avverino le temute conseguenze di questi pericoli»48. In presenza di certe condizioni il fenomeno del probability neglect influenza il giudizio individuale, ed è verosimile che, nelle medesime circostanze, ciò accada anche per il governo e il diritto. Le autorità pubbliche rispondono alla domanda di diritto avanzata dalla collettività. Se la gente insiste a chiedere che il governo intervenga contro i rischi, è probabile che il governo lo faccia. Se la gente manifesta reazioni inusitatamente intense a catastrofi che hanno basse probabilità di verificarsi, è 47 Si veda J. Weingart, Waste Is a Terrible Thing to Mind, Trenton (N.J.), Center for Analysis of Public Issues, 2001, p. 362. 48 Si veda P. Slovic et al., The Affect Heuristic, in T. Gilovich, D. Griffin e D. Kahneman (a cura di), Heuristic and Biases. The Psychology of Intuitive ]udgement, Cambridge, Cambridge University Press, 2002.

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probabile che il governo agisca di conseguenza. Naturalmente i gruppi di interesse non sono estranei a questo gioco. Quando i loro interessi sono messi in pericolo, è lecito attendersi che essi sfruttino le emozioni della gente, enfatizzando in parti­ colare gli scenari peggiori. E anche gli interessi egoistici dei membri del governo non sono irrilevanti. Se è più probabile che i rappresentanti delle istituzioni siano rieletti nel caso in cui sottostimino i rischi, affermando che la gente è essenzial­ mente «al sicuro», allora il fenomeno del probability neglect verrà sfruttato nell’interesse dell’inazione regolativa. Se invece la probabilità di essere rieletti è più alta quando i rischi agitano i pensieri della gente, ecco che i rappresentanti delle istituzioni si affretteranno a enfatizzare i rischi. Alcune voci critiche nei confronti del presidente George W. Bush hanno avanzato l’ipo­ tesi che la sua amministrazione abbia esagerato la necessità di «una guerra contro il terrorismo», anche perché l’esagerazione si rivelava funzionale ai propri interessi politici. Comunque possa essere risolta la questione, una porzione considerevole della legislazione e della regolamentazione contro il rischio può essere spiegata facendo riferimento al fenomeno del probability neglect. Si considerino i seguenti esempi: 1. All’indomani del verificarsi di effetti negativi per la salute che si ritenevano causati dalla discarica di rifiuti pericolosi ab­ bandonata di Love Canal, nello stato di New York, il governo rispose con un intervento assai aggressivo volto a bonificare i siti di discariche pericolose abbandonate, senza nemmeno degnarsi di verificare quali fossero le probabilità che si sarebbero veri­ ficate malattie se non si fosse intervenuto. Precedenti tentativi di rassicurare la popolazione in merito alle basse probabilità di danno non avevano sortito praticamente nessun esito49. Quando i dipartimenti della salute locali diffusero gli esiti di studi controllati che dimostravano come l’ipotesi fosse poco suffragata dalle prove, la mossa non fugò le preoccupazioni della gente, perché i dati «non significavano nulla»50. I dati 49 Si veda T. Kuran e C.R. Sunstein, Availability Cascades and Risk Regulation, in «Stanford Law Review», 51, 1999, p. 683, in particolare pp. 691-698, (ove si descrive il crescere della paura per i rischi per la salute in occasione dell’incidente di Love Canal). 50 L.M. Gibbs, Love Canal: The Story Continues , Stony Creek (Conn.), New Society Publishers, 1998, p. 25.

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semmai acuirono le paure: «una donna divorziata madre di tre figli guardò il foglio di carta che conteneva cifre e diagrammi e scoppiò a piangere istericamente: “Non mi sorprende che i miei bambini siano malati. Morirò? Che succederà ai miei piccoli?”» 51. Problemi di questo genere contribuirono all’ema­ nazione di una nuova legislazione che non teneva conto della necessità di computare le probabilità di conseguire significativi benefici sanitari o ambientali. Ancora oggi, nelle decisioni che riguardano le bonifiche di siti inquinati, il governo americano non sem bra intenzionato ad agire tenendo nella giusta consi­ derazione le probabilità di evitare danni significativi52. 2. Durante una campagna informativa altamente reclamiz­ zata volta a dimostrare il collegamento causale fra l’Alar, un pesticida, e i tumori infantili, la pressione per un intervento regolativo da parte del pubblico non venne attenuata dalle informazioni più prudenti rese note dall’Epa, che attestavano la bassa probabilità di contrarre il tumore di cui si parlava53. 3. Nella tarda estate del 2001 immagini particolarmente vi­ vide di attacchi di squali sulle coste degli Stati Uniti suscitarono un allarme collettivo per i nuovi rischi cui apparivano esposti i bagnanti sulle coste oceaniche54. Un motore di ricerca permette di reperire non meno di 940 riferimenti ad attacchi di squali fra il 4 agosto 2001 e il 4 settembre 2001, con 130 riferimenti alla espressione « l’estate dello squalo». Ciò accadeva nonostante 51 Ibidem. 52 Si veda J.T. Hamilton e W.K. Viscusi, Calculating Risks? The Spatial and Politicai Dimensions o f Hazardous Waste Policy, Cambridge (Mass.), Mit University Press, 1999, pp. 91-108 (ove si discute il fatto che il governo non ha interesse per la dimensione della popolazione interessata dal fenomeno). 53 Si veda R.V. Percival et al., Environmental Regulation. Law, Science, and Policy, New York, Aspen, 20034, p. 524. 54 Si veda H. Kurtz, Shark Attacks Spark Increased Coverage, in «Washington Post O n-Line», 5 settembre 2001, www.washingtonpost.com/wp-dyn/articles/ A 44720-200lSep5.htm l: «un esperto in tema di fauna marina ha affermato ieri notte nel corso di “N bc Night News” che muore più gente a seguito di punture di api e calabroni, o di morsi da parte di serpenti o alligatori, di quanto non accada a causa di attacchi di squali. Ma le api non fanno audience. Sono piccole creature spiacevoli, ma il loro aspetto non è abbastanza terroriz­ zante. Con la colonna sonora del film Lo squalo sullo sfondo, i media hanno trasform ato quest’estate nell’estate dello squalo. E non importa se il numero degli squali sia diminuito rispetto all’anno scorso. Loro ci sono, sono cattivi e potrebbero venire a divorarvi nella spiaggia dove fate il bagno».

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la probabilità incredibilmente bassa che uno squalo attaccasse un essere umano, e nonostante l’assenza di prove attendibili in merito al preteso incremento del num ero di attacchi degli squali nell’estate del 2001. C om ’era facile prevedere, divampò un acceso dibattito sull’opportunità di em anare nuove leggi per mettere sotto controllo il problem a, e alla fine la legislazione entrò in vigore, con specifiche disposizioni che punivano chi avesse dato da mangiare agli squali. L a paura collettiva mostrò di essere impermeabile al fatto che il rischio generato dal gettare in acqua cibo per gli squali era davvero infimo. 4. Gli incidenti terroristici sono perfetti per suscitare il fe­ nomeno del probability neglect. Si consideri per esempio la fobia per l’antrace che si impadronì degli Stati Uniti nell’ottobre 2001, la quale si fondava sul verificarsi di un ristrettissimo numero di incidenti. Solo quattro persone morirono di infezione e una dozzina circa si ammalarono. La probabilità di essere infettati era estremamente bassa. Non di meno la paura impazzava, calamitando l’attenzione della gente sulle terribili caratteristiche dell’infezione da antrace, ma non sulle probabilità che l’infezione colpisse un cittadino americano. H governo non fu da meno, investendo ingenti risorse per contrastare il rischio di infezioni da antrace. Le istitu­ zioni private reagirono allo stesso modo, suggerendo alle persone di usare una cautela straordinaria nell’aprire la corrispondenza, anche se il rischio statistico appariva minimo. Ciò non significa sostenere che in quel caso un intenso program m a precauzionale fosse ingiustificato. Le istituzioni pubbliche e private si confron­ tavano con un grave problema sanitario di cui si ignoravano le probabilità di verificazione, perciò rispondere fu appropriato. Ma il mio punto è che la paura collettiva si rivelò sproporzionata rispetto a ciò che la determinava, e lo stesso problem a interessò la risposta regolativa a questa paura.

8.

«Probability neglect», «razionalità rivale» ed elaborazione duale

Perché, quando si è di fronte a un rischio, l’opinione degli esperti appare divergere da quella espressa dalla gente comu­ ne? Molti ritengono che ciò sia dovuto al fatto che la gente comune possiede una «razionalità rivale». In questa prospettiva 118

gli esperti si preoccupano delle statistiche, e soprattutto del numero di vite umane in gioco55. Al contrario, la gente comune tiene conto di tutta una serie di fattori qualitativi che possono far sì che certi rischi diventino una particolare fonte di preoc­ cupazione. L a gente tiene a distinguere se a un dato rischio ci si espone volontariamente, se si tratta di rischi potenzialmente controllabili, se essi sono distribuiti in modo iniquo, se sono particolarmente terrificanti, e così via. Agli occhi di quanti ritengono che la gente comune disponga di una razionalità rivale, gli esperti appaiono ottusi, fissati come sono su numeri ragionieristici56. In questa prospettiva, che è suggerita con par­ ticolare eloquenza dal teorico del rischio Paul Slovic, gli esperti e la gente comune mostrano di possedere «razionalità rivali» e ciascun «lato [delle razionalità] deve rispettare i suggerimenti e l’intelligenza dell’altro»57. C ’è molto di vero nella tesi avanzata da Slovic, in base alla quale le persone comuni tengono conto di fattori che le mere cifre nascondono. Per le persone non è indifferente sapere se i rischi si accompagnano a particolari dolori e sofferenze, o se queste ultime appaiono distribuite in modo iniquo. E sensato chiedersi se i rischi sono assunti volontariamente o se in qual­ che m odo sono controllabili. Se i costi per evitare i rischi sono molto elevati, il governo dovrebbe prodigarsi con sforzi speciali per ridurre i relativi rischi; se un rischio si concentra solo sulla povera gente, o sui membri delle classi sociali più povere, il governo dovrebbe considerare attentamente il problema. E inve­ ro sarebbe ottuso soffermarsi solo sul numero di vite in gioco. Ma da sola l’idea di una razionalità rivale non è sufficiente a spiegare perché gli esperti e la gente comune pensano ai rischi in m odo diverso. Spesso gli esperti sono a conoscenza di cose che la gente comune ignora. E quando rispetto agli esperti le persone appaiono molto più (o molto meno, ma ai fini del nostro discorso non fa differenza) preoccupate per gli attacchi degli squali, per il nucleare o per il terrorismo, ciò è in larga misura dovuto al fenomeno del probability neglect. Perciò è una forma di irrazionalità e non un diverso insieme di valori 55 Si veda P. Slovic, The Perception o f Risk , London, Earthscan, 2000, pp. 219-223. 56 Si vedano Gillette e Krier, Risk, Court, Agencies, eit., pp. 1071-1085. 57 Slovic, The Perception o f Risk, eit., p. 231.

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a contribuire a spiegare perché gli esperti e la gente comune effettuano le proprie valutazioni in modo differente. Questa indicazione è strettamente connessa a un importante postulato, prospettato da Slovic, in base al quale la cosiddetta affect keuristic sarebbe responsabile del fatto che la gente nutre preoccupazioni per alcuni rischi e non per altri58. Quando le persone sviluppano emozioni fortemente negative nei confronti di un processo o di un prodotto - per esempio il nucleare, gli Ogm, l’arsenico, il Ddt -, è probabile che esse non si soffer­ mino a lungo sul problema delle probabilità e che reagiscano in modo eccessivo. Qui c’è irrazionalità, non razionalità rivale. Quando le persone sviluppano una percezione mentale posi­ tiva particolarmente intensa nei confronti di un processo, di un’attività o di un prodotto —e in alcuni gruppi ciò può essere vero per le bevande alcoliche, il prendere il sole, le sigarette, il curarsi con le erbe o per gli alimenti biologici -, è probabile che non pensino ai rischi, anche se le probabilità di danno non sono basse. Persino qui si tratta di irrazionalità. Infatti, Vaffect heunstic aiuta a spiegare molte cose sul modo in cui l’uomo compie le sue valutazioni sui prodotti, sulle attività, e anche sugli uomini politici, sugli insegnanti, su chi sta cercando lavoro, sulle possibilità di investimento e sulle automobili. La mia idea su questo problema è che il probability neglect spiega perché gli esperti e la gente comune mostrano di pensare diversamente ai pericoli sociali, il che genera nuovi dubbi su come la gente comune valuta i rischi. E vero, naturalmente, che anche gli esperti adoperano le proprie euristiche e soffrono delle proprie distorsioni59. Certo essi non sono immuni ai problemi cognitivi che affliggono 58 Si veda Slovic et al., The Affect H euristic, eit. (Slovic definisce affect heuristic la specifica qualità, che un individuo percepisce in termini di positività o di negatività, i) sperimentata sulla base di uno stato percettivo (cosciente o meno) e ii) capace di assegnare a uno stimolo una qualità positiva o negativa. Tenendo conto del fatto che nella lingua inglese i termini affect ed emotion esprimono sfumature semantiche che il corrispondente termine italiano «emozione» finisce per confondere, si è scelto di rinunciare a rendere nella nostra lingua l’espressione affect heuristic, N .d.T.). ” Si veda S. Rampton e J. Stauber, Trust Us, We’re E xp erts!, New York, Jeremy P. Tarcher/Putnam, 2001; trad. it. F id ati! G li esperti siam o noi. Come la scienza corrotta minaccia il nostro futuro, San Lazzaro di Savena, Nuovi mondi media, 2004, passim e in particolare pp. 204-207, per un’analisi parti­ colarmente allarmante, ove l’autore esplora il collegamento tra i fondi destinati

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qualsiasi essere umano quando pensa ai rischi. Il punto non è se gli esperti hanno sempre ragione. Il punto è che, quando la gente comune non è d’accordo con gli esperti, ciò non accade perché fra loro esistono giudizi di valore in competizione, ma perché la gente comune è più esposta degli esperti al rischio di esser preda del probability neglect. Ho già detto che questo fenomeno andrebbe considerato alla luce dell’idea della cosiddetta «elaborazione duale», un concetto assai recente nel campo della psicologia, inclusa la psicologia della paura e la psicologia dei giudizi morali. Si ricordi che in base alle teorie dell’elaborazione duale alcune operazioni cognitive, che riguardano il sistema di tipo I, sono rapide, associative e intuitive, mentre altre, che riguardano il sistema di tipo II, sono lente, complesse e spesso basate sul calcolo o su considerazioni statistiche. In molti casi, un’elabo­ razione immediata di questo tipo funziona assai bene, come quando in un bosco ci si imbatte in un orso, oppure quando un energumeno armato di coltello ci si para davanti in un vicolo buio (e immediatamente ci fa scappare). Ma i governi, e gli individui che prendono decisioni in contesti che consentono di deliberare, possono far di meglio.

9.

Osservazioni sui media e sull’eterogeneità

Da quanto si è detto fin qui, dovrebbe essere chiaro che le fonti di informazioni assumono un ruolo importante nel processo che alimenta la paura, per il semplice motivo che sono fonti di esempi di situazioni nelle quali il caso peggiore si è effettivamente verificato. Nel campo del crimine, si tratta di un’acquisizione ormai consolidata60. La copertura massmediatica di crimini assai inusuali suscita nelle persone paure per crimini che molto difficilmente finiranno per coinvolgerle. Quando i quotidiani e le riviste enfatizzano i decessi determinati dal terrorismo o dalla mucca pazza, dovremmo attenderci un significativo incremento alla ricerca da parte delle imprese private e i risultati (sulla carta oggettivi) delle ricerche così svolte; si veda anche Slovic et al., The Affect Heuristic, eit., p. 311, per riscontri in tema di «distorsione da affiliazione». 60 Si veda J. Best, Random Violence. How We Talk ahout New Crimes and New Victimes, Berkeley, University of California Press, 1999.

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dei timori nella collettività, non solo per effetto deU’euristica della disponibilità, ma anche perché sul piano della probabilità le persone da sole non saranno in grado di operare le correzioni necessarie. A questo punto si impone un importante caveat. Se i quotidiani, i giornali e i programmi televisivi enfatizzano alcuni danni associati a rischi assai remoti, è probabile che le preoccupazioni della collettività si collochino fuori scala rispetto alla realtà. E dunque legittimo attendersi che le paure possano cambiare nel tempo. Ed è anche facile immaginare come le paure collettive possano presentare notevoli differenze da paese a paese, se le piccole differenze iniziali registrabili su scala in­ ternazionale vengono acuite dall’azione dei media. E anche vero che sia gli individui sia le società mostrano di essere soggetti al fenomeno del probability neglect in modo non omogeneo. Alcuni individui tengono conto delle informazioni relative alle probabilità, anche se il contesto è uno di quelli che tipicamente può mettere in gioco le emozioni. Altri invece trascurano comunque le informazioni relative alle probabilità, avendo la tendenza a focalizzare la propria attenzione sullo scenario peggiore (oppure su quello migliore, per quanto si va dicendo qui è lo stesso). L’esperimento che ho condotto con gli studenti con riferimento all’arsenico dimostra come, quando si tratta di tener conto delle probabilità, i comportamenti delle persone siano molto eterogenei. E verosimile che quanti sono particolarmente insensibili all’informazione sulle probabilità non siano particolarmente dotati in molti settori, per esempio che non siano a loro agio con i mercati; è probabile che quanti invece sono particolarmente sensibili a quel tipo di informa­ zione facciano fortuna esattamente per quel motivo. Forse il fenomeno ha a che fare con la demografia, ma è noto che alcuni gruppi sociali mostrano una minore sensibilità per certi rischi per la salute rispetto ad altri gruppi, come è dimostrato dal fatto che le donne e gli afroamericani mostrano di nutrire una paura particolare per i pericoli ambientali61. Questi diversi livelli di preoccupazione possono in parte derivare dal fatto che alcuni gruppi sono meno soggetti di altri al fenomeno del probability neglect. A livello sociale le istituzioni possono giocare un ruolo deci61 Si veda Slovic, The Perception o f Risk, eit., pp. 396-402.

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sivo, facendo sì che la suscettibilità al fenomeno del probability neglect aumenti o diminuisca. Una democrazia deliberativa do­ vrebbe tentare di dotarsi di istituzioni capaci di essere immuni agli allarmi collettivi del breve periodo. Tornerò su questo argomento nella seconda parte del libro. Adesso analizzare) un altro aspetto del problema.

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CAPITOLO QUARTO

LA PAURA COME UN INCENDIO CHE DIVAMPA

La cognizione umana non opera all’interno di un vuoto sociale. Quando un particolare incidente è «disponibile» sul piano cognitivo, ciò di norma risulta determinato da influenze sociali. In molti casi, quando le emozioni fanno sì che la gente sia soggetta al fenomeno del probability neglect, è assai probabile che giochi un ruolo l’allarme che altri manifestano. Quando i cittadini si fissano sullo scenario peggiore, i processi sociali probabilmente sono all’opera per far sì che ciò accada. Ovviamente sia il governo sia i mass media fanno in modo che alcuni rischi appaiano particolarmente salienti. Richiamiamo alla mente l’affermazione fatta dal presidente George W. Bush: Im m agin iam o quei 19 dirottatori [responsabili degli attacchi dell’11 settem bre] con altre arm i e piani, questa volta fomiti da Saddam Hus­ sein. B a ste re b b e introdurre in questo paese una fiala, un bomboletta, una carretta p er creare un giorno di orrore come nessuno di quelli che ab b iam o sperim en tato finora.

Gli ambientalisti, sia quelli interni sia quelli esterni al governo, operano in modo non dissimile, tentando di foca­ lizzare l’attenzione della collettività su eventualità di danno potenzialmente catastrofiche. I gruppi privati ben organizzati hanno un ruolo chiave nel mettere in moto le preoccupazioni della collettività. Ma dire ciò significa portarsi molto avanti nella nostra storia. Cominciamo da un esempio. 1.

Cecchini

Nell’autunno del 2002 due cecchini uccisero 10 persone nella regione di Washington. Le vittime erano scelte su base assolutamente casuale. Fra loro uomini e donne, giovani e an125

ziani, bianchi c afroam ericani. N atu ralm en te ciascu n o di questi om icidi fu una tragedia; ma le gesta dei cecchini produsse^ effetti su milioni di altre persone. M olti cittadini temevano che la prossim a volta sarebbe toccato a loro. L a paura, assurda o sensata che tosse, si im padron ì della cap itale del paese. \ com portam enti m utarono in m od o dram m atico.

Da quando un killer ha cominciato a scegliere a una a una le sue vittime fra la gente, attività quotidiane come fare acquisti, far benzina tagliare l'erba del prato di casa sono diventate potenzialmente mor­ tali. Pur di stare a tutti i costi al riparo dai colpi fatali, gli abitanti di Washington hanno cambiato il luogo dove fanno la spesa, i tempi in cui riempiono le loro auto, il modo in cui fanno attività fisica. Alcuni indossano perfino giubbotti antiproiettile [...]. Per i residenti è difficile sapere cosa fare per proteggersi1. M olti si spingevano fino in V irginia p er fare il pieno. Si considerino i seguenti esem p i di ap p licazio n e concreta del principio di precauzione. • N um erosi distretti scolastici decisero di sottoporre le loro classi al «codice b lu », in base al quale gli studenti devono stare alTintemo degli edifici scolastici e non possono uscire dal campus per pranzare o fare attività sportiva. F u ron o quasi un milione i bam bini e i ragazzini interessati da questo provvedimento. • In diverse scuole gli esam i della session e di prove di profitto del m ese di ottobre furon o annullati. • I tornei ricreativi di calcio per i bam bin i delle elementari, il tennis delle ragazze del liceo, la pratica deH’hockey e del b aseb all furono annullati o rinviati. • A W inchester, nello stato della V irginia, tutti i cam peggi scolastici furono annullati. • In una cinquantina di b ar della catena Starbu ks n e ll’area interessata dal fenom eno furono rim ossi i tavolini a l l ’aperto. • Il provveditorato agli studi della contea di Prince G eorge annullò a tem po indeterm inato tutti gli eventi atletici in pr°" gram m a. • A W ashington la federazione calcio, con più di 5.00U giocatori iscritti fra i 4 e i 19 anni di età, annullò le partite e le federazioni giovanili del M aryland e della Virginia furono 1 Cfr. wAVw.jondube.com/resume/msnbc/snipersshadow.htm.

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esortate a seguire l’esempio dei distretti scolastici, che nella maggior parte dei casi avevano annullato tutti gli eventi ricreativi program m ati all’aperto. • M olta gente smise di frequentare palestre dotate di grandi finestre con affaccio stradale, alcuni inservienti di stazioni di servizio presero a indossare giubbotti antiproiettile durante il lavoro o a ripararsi dietro le porte delle auto a cui facevano benzina. M a c ’è qualcosa che non torna negli incredibili effetti de­ terminati dalle azioni dei cecchini. Per gli abitanti della zona i cecchini causarono un aumento del rischio davvero trascurabile. La zona era abitata da 5 milioni di persone. Se i cecchini avessero deciso di uccidere una persona ogni tre giorni, il rischio stati­ stico giornaliero fronteggiato da ciascun abitante sarebbe stato pari a meno di uno su un milione, mentre su base settimanale sarebbe stato pari a meno di tre su un milione. Si tratta, come si vede, di rischi minimi, molto più piccoli di rischi associati a tante attività che svolgiamo quotidianamente, nei cui confronti la gente non esprime la benché minima preoccupazione. Su base giornaliera il rischio da cecchino era inferiore a quello, pari a uno su un milione, associato al bere 30 bottiglie di soda dietetica con saccarina, al guidare per 100 miglia, al fumare due sigarette, all’effettuare dieci viaggi in aereo, al coabitare con un fum atore per due settimane, al vivere a Denver invece che a Philadelphia per quaranta giorni, e al mangiare 35 fette di pane fresco 2. Alcune delle misure precauzionali adottate, come recarsi in Virginia per fare il pieno, quasi certamente generavano rischi superiori a quelli associati agli attacchi dei cecchini. Gli autom obilisti erano molto più esposti al rischio di ferirsi o di morire a seguito di un incidente stradale che a quello di essere colpiti dai cecchini. Certo, la mia valutazione del rischio statistico potrebbe essere messa in discussione. Forse a quel tempo vi era qualcuno esposto a un rischio particolare, che sul piano razionale aveva motivo di ritenere che il rischio da lui fronteggiato fosse più elevato di 2 R. Wilson e E.A.C. Crouch, Risk-Benefit Analysis, Cambridge (Mass.), Harvard Center for Risk Analysis, 2001, pp. 208-209. Il rischio di vivere a Denver deriva dai livelli di radiazioni appena più elevate del normale cui si è esposti; il rischio legato al mangiare pane fresco è legato al fatto che in esso è presente una piccolissima quantità di formaldeide.

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quanto io ho qui postulato. Ma se anche si ammette questo, il rischio reale non poteva avere un’intensità tale da giustificare gli alti livelli di ansia e paura che si registrarono nella circostanza, che per molte persone rasentarono l’isteria. Forse qualcuno dei comportamenti precauzionali poteva apparire razionale se si considera che in molti casi il costo dei com portam enti stessi non era particolarmente elevato. Ma la dimensione dell’allarme non poteva essere giustificata in base alla dimensione del rischio. Perché allora così tanta gente a W ashington ha avuto paura e ha provveduto a modificare i suoi com portam enti nel periodo degli attacchi dei cecchini? La discussione fin qui svolta fornisce qualche argomento per rispondere. Intensamente pubblicizzati e facilmente disponibili, gli incidenti del caso fecero sì che mol­ ta gente ritenesse che il rischio fosse più alto di quanto fosse in realtà. Si ricordi che le paure collettive spesso «esplodono improvvisamente»3, anche se non si riscontrano apprezzabili cambiamenti nei livelli reali di rischio, quando episodi partico­ larmente vividi catturano l’attenzione della collettività. E il meno che si possa dire è che l’idea di essere uccisi da un cecchino mentre ci si trova a una stazione di servizio o in un parco giochi è emotivamente ricca, specie nel periodo in cui i giornali e le tv danno estremo risalto a omicidi realmente avvenuti. Appare perciò ragionevole spiegare gli effetti degli attacchi dei cecchini in base a una qualche combinazione di euristica della dispo­ nibilità e di probability neglect. M a una spiegazione di questo tipo, che mette a fuoco soltanto la cognizione individuale, non riesce a dar conto di qualcosa di importante. Un numero infi­ nito di rischi appaiono in linea di principio «disponibili»; e un numero infinito di rischi possono, sem pre in linea di principio, esibire quel tipo di salienza capace di determinare il probability neglect. Ovviamente, la disponibilità dei rischi, e i rischi a cui il probability neglect si associa, variano a seconda dei contesti. In molte comunità i rischi associati al sesso non protetto (che uccide decine di migliaia di americani ogni anno) difettano di salienza. Ma in altre comunità quei rischi appaiono salienti. I rischi associati al nucleare sono disponibili agli americani, ma lo sono meno ai cittadini francesi, che risultano essere meno 3 Si veda G. Loewenstein e J. Mather, Dynamic Processes in Risk Percep­ tion, in «Journal of Risk & Uncertainty», 3, 1990, p. 155.

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preoccupati da questi rischi. Gli americani non temono più di tanto i rischi associati agli Ogm, anche se in teoria quei rischi potrebbero essere (resi) disponibili. Si pensi al problema della violenza associata alla disponi­ bilità di armi. Vi sono casi in cui la presenza di armi è causa di numerose uccisioni, come pure casi in cui la presenza delle armi ha permesso a cittadini rispettosi della legge di proteg­ gersi da attacchi di criminali4. Oppure si consideri il seguente dilemma: per una donna che subisce un’aggressione sessuale reagire aggressivamente per autodifesa aumenta o diminuisce i rischi? In alcuni casi, resistere ha impedito la violenza. In altri ha condotto a un assassinio5. Quali casi sono particolarmente disponibili? Anche le valutazioni degli esperti sembrano essere guidate da uno o dall’altro insieme di istanze disponibili6. Negli Stati Uniti le discariche di rifiuti pericolosi non costituivano una fonte saliente di rischi fino al 1980 o giù di lì, quando l’episodio di Love Canal improvvisamente fece sì che questo tipo di disca­ riche diventasse motivo di viva preoccupazione. Nel tempo la disponibilità può variare in modo radicale. In ogni caso, alcuni rischi statisticamente notevoli non sono in grado di determinare molta paura. In diverse comunità, i rischi associati al consumo di tabacco (che uccide centinaia di migliaia di americani ogni anno) non appaiono per nulla salienti. Perché? La questione implica la necessità di tener conto della di­ mensione culturale e sociale della paura e della percezione del rischio7. Il che ovviamente appare particolarmente vero nel caso della disponibilità. In molti casi di pericoli ad alta visibilità, ma a bassa probabilità di verificazione, come il tiro dei cecchini, gli attacchi di squali, e i rapimenti di ragazzine, le fonti di dispo­ nibilità non sono oscure. I mass media mettono a fuoco questi rischi, le persone si trasmettono vicendevolmente le loro paure 4 Si veda D.M. Kahan e D. Braman, More Statistic, Less Persuasion. A Cultural Theory of Gun-Risk Perceptions, in «University of Pennsylvania Law Review», 151, 2003, p. 1291. 5 Si veda B. Fischoff, Heuristic and Biases in Application, in T. Gilovich, D. Griffin e D. Kahneman (a cura di), Heuristics and Biases. The Psychology of Intuitive Judgement, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, p. 730, in particolare pp. 733-734. 6 Ibidem. 7 Sui problemi di tipo culturale si veda M. Douglas e A. Wildavsky, Risk and Culture, Berkeley, University of California Press, 1982.

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e preoccupazioni, la diffusa ondata di paura e preoccupazione a sua volta alimenta l’attenzione dei media e la spirale continua fino a quando la gente non decide che è tempo di passare a un'altra preoccupazione (per questo motivo la sindrome del «passaparola», diffusa in molte società, deriva dall’interazione fra la disponibilità e le influenze sociali). 11 più delle volte, tuttavia, ciò che appare disponibile e saliente ad alcuni non lo è per altri. Per esempio, molti di coloro che accolgono il principio di precauzione richiamano l’attenzione sui casi nei quali il governo si è rivelato incapace di disciplinare un rischio ambientale, esigendo nella circostanza la prova incontrovertibile dell’assenza di rischio, con la conseguenza di determinare ma­ lattie e morte. Per costoro, gli incidenti disponibili implicano la necessità di adottare forti precauzioni di fronte a una situazione di incertezza. Tuttavia molti altri, che invece appaiono scettici nei confronti del principio di precauzione, ricordano casi nei quali il governo ha mostrato di reagire in m odo eccessivo a rischi scientificamente poco attendibili, con l’effetto di dar corso a grandi spese per conseguire vantaggi inconsistenti. Per costoro gli incidenti disponibili giustificano la necessità di non agire di fronte all’incertezza. Quali casi saranno disponibili e a chi? In ogni caso le persone esibiscono diverse tipologie di predi­ sposizioni. Queste predisposizioni giocano un ruolo importante nel determinare quali delle numerose possibilità potranno ap­ parire salienti. Se si è predisposti a temere gli Ogm, è più pro­ babile che si sia pronti a selezionare e a ricordare incidenti nei quali è entrato in gioco il rischio di causare danni associato alla modificazione genetica. Se si è predisposti alla paura da campi elettromagnetici, si presterà particolare attenzione a presunti incidenti nei quali i campi elettromagnetici sembrano aver pro­ dotto una elevata incidenza di forme tumorali. Se si è predisposti a ritenere che la maggior parte delle paure alimentate dai mass media siano false o esagerate, si tenderanno a identificare casi nei quali le paure collettive si sono rivelate prive di fondamento. Certo, la disponibilità aiuta a determinare le credenze, ma a loro volta anche le credenze aiutano a determinare le disponibilità. Le credenze e le disponibilità sono reciprocamente endogene. Quando le forze sociali e culturali interagiscono con la salienza in modo da produrre preoccupazione per un certo tipo di problemi invece che per un altro, le predisposizioni si rivelano cruciali. 130

Per predire i comportamenti e verificare in che modo il diritto possa assecondare scopi condivisi, analizzando quale ruolo possa a tal fine essere legittimamente svolto dal paternali­ smo, è necessario conoscere le modalità con cui le forze sociali interagiscono con la cognizione individuale. E invero il diritto può a volte accentuare gli effetti rilevanti; accade per esempio che se si attua una risposta regolativa rapida e aggressiva a un rischio disponibile e saliente, la risposta rende il rischio ancora più saliente e disponibile. Se i responsabili delle scelte regolative mettono a fuoco un dato rischio, costoro possono sfruttare i processi cognitivi sottesi a questo rischio per amplificare la preoccupazione sociale. Nell’evidenziare questi argomenti voglio richiamare l’attenzione sull’importanza di inquadrare la paure nel contesto delle dinamiche sociali, fra cui le manipolazioni autocoscienti dei flussi di informazione.

2. Cascate A volte la disponibilità e la salienza si diffondono per mezzo di «convogli» o «cascate», grazie a cui sembra che aneddoti particolarmente evocativi o esempi pregnanti possano rapida­ mente passare da un individuo all’altro8. Invero un processo di questo tipo ha giocato un ruolo rilevante nel caso dell’attacco dei cecchini nella regione di Washington, nel caso della paura di Love Canal, nel dibattito sul morbo della mucca pazza e in molti altri casi di processi sociali che determinano paura e che a volte producono diritto. Si consideri un caso di scuola. Andrew viene a conoscen­ za di un evento pericoloso, che trova rivelatore o illustrativo (l’evento potrebbe riguardare un crimine, il terrorismo, i pe­ sticidi, pericoli ambientali o minacce alla sicurezza nazionale). Andrew ne parla con Barry, il quale per parte sua tenderebbe a non considerare l’evento particolarmente informativo, ma che, venendo a conoscenza della reazione di Barry, comincia a 8 C. Heath et al., Emotional Selection in Memes. The Case o/Urban Legends, in «Journal of Personality and Social Psychology», 81, 2001, p. 1028; C. Heath, Do People Prefer to Pass Along Good or Bad News? Valence as Relevance as Predictors ofTransmission Propensity, in «Org&nizational Behavior & Human Decision Processes», 68, 1996, p. 79.

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credere che l'evento sia particolarm ente rivelatore, e che ci si trovi di fronte a una seria minaccia. A sua volta C arol, che di per sé sarebbe incline a non enfatizzare il rischio, dopo aver ascoltato le opinioni condivise da A ndrew e Barry, comincia ad aver paura. A questo punto D eborah avrà bisogn o di rac­ cogliere molte informazioni da sé per respingere quella che ormai è diventata la convinzione di Andrew, Barry e Carol9. Per quanto sia un caso di scuola, l’esem pio ci dice che, una volta che diverse persone com inciano a considerare un esempio alla stregua di una prova, molte altre person e posson o venire influenzate dalla loro opinione, dando vita ai cosiddetti effetti cascata. Ed è in parte per questa ragione che esem pi vividi, diffondendosi attraverso interazioni sociali, giocano un ruolo nelle decisioni relative all’acquisto di una copertura assicurativa contro i disastri n aturali10. Fra i medici che quotidianam ente devono gestire rischi, le «cascate» sono piuttosto diffuse.

Il livello delle conoscenze della maggioranza dei medici non può essere considerato pari a quello dei medici che svolgono la ricerca più avanzata nel proprio campo; il loro inevitabile fare riferimento a ciò che i colleghi più aggiornati hanno fatto o stanno facendo finisce per causare molti errori chirurgici o patologie iatrogene11. Così un articolo apparso sul prestigioso «N e w England Journal of M edicine» analizza le cosiddette «p ato lo gie dovute all’attaccare il proprio carro al con voglio», al cui cospetto sembra che i medici «si com portino com e scoiattoli, fissandosi in un modo tanto episodico quanto im bevuto di un cieco e contagioso entusiasm o sulla diagnosi di certe patologie o sulla prescrizione di certe terapie, perché con fidan o nel fatto che in quel momento tutti i colleghi stiano facen do c o s ì» 12. Alcune 9 Si veda D. Hirschleifer, The Blind Leading thè Blind. Social Influences, Fads, and Informational Cascades, in M. Tommasi e K. Ierulli (a cura di), The New Economia of Human Behavior, Cam bridge, Cam bridge University Press, 1995, pp. 193-194. 10 Si veda J. Gersen, Strategy and Cognition. Regulating Catastrophic Risk (manoscritto inedito, 2001). 11 Cfr. Hirschleifer, The Blind Leading thè Blind, eit., p. 204. 12 J.F. Burnham, Medicai Practice à la Mode. How Medicai Fashions De­ termine Medicai Care, in «N ew England Journal o f M edicine», 317, 1987, p. 1220, in particolare p. 1221.

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pratiche m ediche, come la tonsillectomia, «sembrano essere state adottate inizialmente senza che fosse possibile disporre di una solida base scientifica a loro giustificazione», e il fatto che si riscontrino notevoli differenze nella frequenza con la quale le tonsillectom ie (e altre procedure terapeutiche) sono prescritte offre una riprova convincente del fatto che le «ca­ scate» sono all’o p e ra 13. Un tratto distintivo delle cascate sociali è che le persone che vi partecipano, nel momento stesso in cui lo fanno, stanno simultaneamente amplificando il medesimo segnale sociale dal quale a loro volta loro sono state influenzate. Con la loro stessa partecipazione, i partecipanti a una cascata contribuiscono ad aumentare le dimensioni della cascata stessa, rendendo più probabile che altre persone si uniscano a questo meccanismo sociale. Purtroppo le cascate possono indirizzare le persone in direzioni sbagliate, come accade quando i primi che mettono in m oto il meccanismo innescano paure sociali che non hanno riscontro nella realtà. Nell’esempio che ho illustrato, Andrew mostra di avere una grande influenza sul modo in cui il nostro piccolo gruppo di soggetti orienta il suo giudizio, anche se magari Andrew ha innescato il meccanismo senza fondare il proprio giudizio su informazioni precise in merito all’evento rilevante. Barry, Carol e Deborah potrebbero aver posseduto informazioni proprie, tali forse da dimostrare che con riferi­ mento a quell’evento non ci si dovrebbe preoccupare più di tanto. M a, a meno che abbiano un alto grado di convinzione in ciò che sanno, i tre amici saranno inclini a seguire il giudizio di chi li ha preceduti. Ciò che appare paradossale è che se la maggior parte delle persone si mette al traino degli altri, ecco che il fatto che poche o molte persone condividano una certa paura non aumenta il livello di informazione sul fenomeno che alimenta quella paura. I più stanno infatti rispondendo a segnali lanciati da altri, senza rendersi conto che gli altri stanno facendo esattamente la stessa cosa. Naturalmente questo processo può essere corretto, ma a volte ciò avviene troppo tardi. N el cam po dei rischi sociali, le «cascate della disponibi15 Si veda S. Bikhchandani et al., Learning front thè Behavior of Others. Conformity, Fads, and lnformational Cascades, in «Journal of Economie Perspectives», 12, 1998, n. 3, p. 151, in particolare p. 167.

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lità» sono alla baso di molte credenze c o lle ttiv e l4. Un evento saliente, che colpisce le persone perché ap p are disponibile, tende a replicarsi e a creare effetti cascata sem pre più intensi non appena l'evento stesso diventa d ispon ibile a un numero crescente di persone. 11 fenom eno è ulteriorm ente amplificato dal fatto che i resoconti suscettibili di generare paura ad alto impatto emotivo hanno una particolare p rob ab ilità di venire d iffu si1S. Poiché influenze sociali differen ti p o sso n o essere all'opera in differenti com unità, le variazioni su base locale sono inevitabili, con esempi diversi che diventano salienti in ciascuna comunità. Di conseguenza queste variazioni - per esem pio fra New York e l’O hio, o fra l’Inghilterra e gli Stati Uniti, o fra la Germania e la Francia - p o sso n o dip en dere da coincidenze, ovvero da piccole o grandi fattori casuali, piuttosto che da differenze culturali di am pio respiro. G iu d iz i disomogenei nell’ambito di differenti gru p p i sociali, fon dati su differenti esempi disponibili, devono la loro origine a p rocessi sociali di questo tipo. L e diverse reazioni che si riscontrano negli Stati Uniti e in Francia in m erito all’energia nucleare possono in larga misura spiegarsi in tal m odo. E q u an do alcuni gruppi focalizzano la propria attenzione su ep iso d i che dimostrano come la disponibilità di arm i aum enti la violenza, mentre altri gruppi mettono in evidenza casi in cui la m edesim a disponibi­ lità mostra di aver dim inuito la violenza, è assai verosimile che ciò sia determ inato dall’operare di cascate della disponibilità. «M olti tedeschi ritengono che bere acqua d o p o aver mangiato ciliegie possa essere m ortale; e ritengono che m ettere ghiaccio nelle bibite sia poco salutare. G li inglesi invece amano bere acqua fresca dopo le ciliegie, m entre gli am ericani adorano le bevande g h ia cc ia te »16. Si consideri a questo fine uno studio com parativo condotto sul m odo in cui il rischio associato al terrorism o e alla Sars M Si veda T. Kuran e C.R. Sunstein, Availability Cascades and Risk Regulation, in «Stanford Law Review», 51, 1999. 15 Si veda Heath et a l, Emotional Selection in Memes, eit. 16 Si veda J. Henrich et al., Group Report: What Is The Role of Culture in Bounded Rationality? , in G . Gigerenzer e R. Selten (a cura di), Bounded Rationality. The Adaptive Toolbox, C am bridge (M ass.), Mit University Press, 2001, pp. 353-354, per una stimolante analisi del tema svolta in connessione al problema delle scelte in materia di cibo.

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veniva percepito in diversi paesi17. Gli americani percepivano nel rischio da terrorismo una minaccia assai più grave; mentre la percezione dei canadesi era esattamente opposta. Gli americani stimavano la probabilità di subire un danno grave dovuto al terrorism o in una misura pari all’8,27 per cento, circa quattro volte più di quanto non stimassero la probabilità di risentire di un danno legato alla Sars (2,18 per cento). I canadesi stimavano la probabilità di subire un danno grave legato alla Sars nel 7,43 per cento, una misura significativamente più alta di quanto non accadesse nel caso del danno da terrorismo (6,04 per cento). Eloquentem ente, le quantificazioni del rischio relative alla Sars erano irrealisticamente elevate (specie quelle stimate dai canadesi), poiché la migliore stima del rischio di contrarre la Sars, in base a dati relativi alla realtà canadese, era pari allo 0,0008 per cento (e le probabilità di morire in conseguenza della contrazione del morbo pari allo 0,0002 per cento). Per ovvie ragioni i rischi oggettivi legati al terrorismo sono molto più difficili da calcolare, ma anche ammettendo che ogni anno gli Stati Uniti subissero un attacco della magnitudine di quello subito l ’ i l settembre, il rischio di morte per ciascun cittadino americano sarebbe pari allo 0,001 per cento, una cifra sicu­ ramente speculativa viste le circostanze, ma non implausibile come punto di partenza. C osa determina le differenze riscontrate su scala nazionale e le percezioni del rischio generalmente esagerate? Una risposta prom ettente ci viene offerta dalle cascate della disponibilità. Negli Stati Uniti i rischi legati al terrorismo hanno ricevuto una enorme (per non dire di più) attenzione, che ha prodotto una continua sensazione di minaccia. Ma non si sono veri­ ficati incidenti legati alla Sars, e l’attenzione dei media si è limitata a riportare eventi accaduti fuori dal paese, che hanno prodotto un certo grado di salienza, comunque molto infe­ riore a quello generato dal terrorismo. In Canada è accaduto l’inverso. Il notevole livello di discussione pubblica sui casi di Sars, accom pagnato da esempi immediatamente disponibili, ha 17 Si veda N. Feigenson et al., Perceptions ofTerrorism andDisease Risks. A Cross-National Comparison, paper inedito, presentato nel panel Fear and Risk Assessment in Times ofDemocratic Crisis, nell’ambito dd meeting annuale delia Law & Society Association, svoltosi a Chicago il 27-30 maggio 2004.

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determinato una percezione gonfiata dei numeri, al punto da superare la percezione degli stessi numeri relativi al terrorismo (un rischio certamente dotato di salienza in C anada, così come nella maggior parte dei paesi occidentali all’indom ani dell’11 settembre). In questo come in altri casi la disponibilità e gli effetti cascata aiutano a spiegare le differenze registrate nella comparazione a livello internazionale. Cosa determina il modo in cui le persone percepiscono il proprio rischio di aver contratto l’H iv? Perché esistono individui e categorie di individui che sem brano essere completamente insensibili a questo rischio, mentre altri soggetti e altre categorie di soggetti appaiono quasi ossessionati da questo stesso rischio? Uno studio condotto presso le popolazioni rurali del Kenya e del Malawi indica che le interazioni sociali giocano un ruolo cruciale in tal sen so 18. G li autori dello studio hanno riscontrato che la percezione del rischio è strettamente connessa a dibattiti che «sono spesso alimentati dall’osservare o dal venire a cono­ scenza di un caso di una persona che si è ammalata o è morta di A id s» 19. Le persone «in teoria sanno come il virus dell’Hiv si trasmette e come la sua trasmissione possa essere prevenuta», ma sono poco consapevoli «della opportunità e della effettività rivestita a tal fine dal fatto di mutare le proprie abitudini sessuali come raccomandato dagli esp erti»20. L e percezioni del rischio di contagio da H iv sono in larga misura il riflesso del funziona­ mento di reti sociali, laddove notevoli modifiche nelle credenze e nei comportamenti sono indotte dal fatto che si interagisca con persone che sul problem a manifestano un elevato livello di preoccupazione. G li effetti delle reti sociali sono pertanto asimmetrici, con esiti sostanziali che appaiono determinati dal fatto di «avere un partner nella rete sociale che viene percepito come un soggetto che manifesta un notevole livello di preoccu­ pazione per l’A ids». G li autori non fanno riferimenti espliciti agli effetti cascata, ma i loro riscontri sono compatibili con la conclusione che, con riferimento all’Aids, le percezioni del rischio siano strettamente connesse a tali effetti. In questa luce possiam o com prendere meglio l’importante 18 Si veda J.R. Behrman et a i , Social Networks, H w /A ids, and Risk Perceptions (18 febbraio 2003), disponibile all’indirizzo http://ssrn.com . 19 Ibidem, p. 10. 20 Ibidem, p. 18.

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e dibattuta idea del «panico morale»21. A volte le società, o gruppi airinterno di società, cominciano improvvisamente ad avere paura di qualche minaccia morale che percepiscono pro­ venire da dissidenti religiosi, stranieri, immigranti, omosessuali, bande giovanili e consumatori di droghe. Come si diffonde il panico morale? Ancora una volta le cascate danno una risposta a questo interrogativo. La maggior parte delle persone aderisce al panico morale non perché ha un proprio motivo per temere quella data minaccia morale, ma in risposta alla paura mani­ festata da altri. È verosimile che molti di noi si domandino: come è possibile che così tanta gente si sbagli? Specialmente se la minaccia può essere raffigurata facendo ricorso a un esempio facilmente disponibile, a un esempio che ci sembra capace di illustrare una tendenza più generale, noi ci tuffiamo nella cascata. Le cascate sociali sono spesso veicolo di ondate di panico morale. La paura, alimentata da influenze sociali, è il fattore che determina questo fenomeno.

3. La polarizzazione di gruppo Esiste un fenomeno strettamente correlato a quello appena visto. Quando persone che la pensano in modo simile deliberano fra loro, finiscono tipicamente per accettare una posizione più estrema di quella che sostenevano all’inizio della deliberazione22. Si tratta di un processo noto come polarizzazione di gruppo. Si considerino alcuni esempi. • D opo un pubblico dibattito i cittadini francesi diventano più critici riguardo agli Stati Uniti e alla sua politica sugli aiuti economici23. • Un gruppo di donne moderatamente femministe, dopo un dibattito accoglie una posizione maggiormente femminista24. 21 Si veda E. G oode e N. Ben-Yehuda, Moral Panics. The Social Construction of Deviance, Oxford, Blackwell, 1994. 22 Si veda C.R. Sunstein, Why Societies Need Dissent, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 2003. 23 R. Brown, Prejudice: Its Social Psychology, Cambridge (Mass.), Black­ well, 1995; trad. it. Psicologia sociale del pregiudizio, Bologna, Il Mulino, 1997. 24 Si veda D .G. Myers, Discussion-Induced Attitude Polariiation, in «Hu­ man Relations», 28, 1975, p. 699.

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• Dopo averne discusso, uomini bianchi inclini a dimostrare pregiudizi razziali danno risposte più negative alla domanda se il razzismo dei bianchi sia responsabile delle condizioni sociali degli afroamericani nelle città statunitensi25. • Dopo averne discusso, uomini bianchi non inclini a mo­ strare pregiudizi razziali danno risposte più positive se viene posta loro la stessa domanda appena ricordata, ovvero si rivelano più propensi a ritenere che sia il razzismo dei bianchi a essere responsabile delle condizioni sociali degli afroamericani nelle città statunitensi26. • Le giurie propense a riconoscere danni punitivi di solito liquidano un danno finale la cui quantificazione appare signi­ ficativamente più elevata degli importi medi delle liquidazioni formulate dai singoli componenti della giuria prima di delibe­ rare27. • I giudici federali nominati dai presidenti repubblicani mostrano di assumere posizioni estrem am ente conservative quando giudicano nell’ambito di un collegio formato solo da giudici di nomina repubblicana, posizioni molto più conserva­ tive di quanto invece non accada se la deliberazione coinvolge anche giudici di nomina democratica. L o stesso accade nel caso dei giudici di nomina democratica, che assum ono posizioni estremamente progressiste quando giudicano in un collegio composto solo da giudici di nomina dem ocratica28. La polarizzazione di gruppo è destinata inevitabilmente a produrre i suoi effetti quando si ha a che fare con la paura. Se individui diversi temono il riscaldamento globale o il terro­ rismo, e comunicano fra loro, è probabile che in conseguenza del dibattito la loro paura aumenti. Se altri individui ritengono che probabilmente l’energia nucleare è sicura, dopo averne discusso la loro convinzione risulterà fortificata, fino al punto 25 D.G. Myers e G.D. Bishop, The Enhancement of Dominant Attitudes in Group Discussion, in «Journal of Personality and Social Psychology», 20, 1971, p. 386. 26 Si veda ibidem. 21 Si veda C.R. Sunstein, R. Hastie, J.W. Payne, D.A. Schkade e W.K. Viscusi, Punitive Damages. How Juries Decide, Chicago, University of Chi­ cago Press, 2002. 28 Si veda C.R. Sunstein et al., Ideological Voting on Federai Courts of Appeals. A Preliminary lnvestigation, in «Virginia Law Review», 90, 2004, p. 301.

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che arriveranno a ritenere che il nucleare non desta preoccu­ pazione. Se un dato gruppo è dominato dall’isteria per una certa tipologia di rischio, mentre altri gruppi ritengono che quel rischio sia inesistente, è probabile che questa radicale diversità di opinioni dipenda dalla polarizzazione di gruppo. Perciò la polarizzazione di gruppo offre un’altra spiegazione del fatto che gruppi, comunità locali e addirittura paesi possano mostrare di avere paure di diverso tipo. Le discussioni all’inter­ no del gruppo possono indurre i berlinesi a nutrire paure che non preoccupano i newyorchesi, e viceversa; così i cittadini di Londra possono nutrire paure che non interessano ai parigini, anche se nel primo caso il pericolo non appare più grande di quanto non sia nel secondo caso. Sono quattro le principali spiegazioni del fenomeno della polarizzazione di gruppo, tutte oggetto di approfondite indagini scientifiche.

3.1. Argomenti persuasivi La prima spiegazione, che mette a fuoco il ruolo degli ar­ gomenti persuasivi, è fondata su un’intuizione che appartiene al senso comune: qualsiasi posizione individuale su un problema dipende in buona parte da quale degli argomenti presentati all’interno del gruppo si rivela convincente. I giudizi delle persone tendono a uniformarsi alle posizioni più persuasive e sostenute in modo più convincente nella discussione interna al gruppo, considerato quale collettività. Poiché un gruppo composto da individui che hanno paura elaborerà un cospicuo numero di argomenti che giustificano queste paure, la discussione all'interno del gruppo indurrà alla fine ciascuno ad avere una paura mag­ giore di quella che si nutriva prima della discussione. Lo stesso accade all’interno di gruppi composti da individui persuasi che un dato rischio sia esagerato. Se la maggior parte degli individui all’interno di un gruppo tende a ridimensionare la minaccia del riscaldamento globale, l’orientamento finale degli argomenti di­ scussi all’interno del gruppo tenderà mediamente ad abbracciare la conclusione che la minaccia sia infondata. E le persone che compongono il gruppo seguiranno questa tendenza.

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3.2. Comparazioni sod ali La seconda spiegazione, che riguarda la com parazione sociale, muove dall'assunto che le persone desiderano essere considerate con favore dagli altri membri del gruppo, così come si desidera avere una considerazione di sé favorevole. Quando vengono a conoscenza delle convinzioni espresse da altri, le persone tendono a modificare le proprie convinzioni in base alle credenze dominanti all'interno del gruppo. Se la m aggior parte dei membri del gruppo appaiono propensi a punire le manife­ stazioni di paura, ecco che gli altri m em bri terranno conto di questo fatto, modificando le proprie opinioni di conseguenza. Le persone possono desiderare, per esempio, di m ostrarsi favorevoli all’adozione di misure aggressive per prevenire il terrorism o o il riscaldamento globale; di conseguenza le afferm azioni fatte in pubblico da costoro possono cam biare quando vengono a conoscenza di ciò che pensano gli altri m em bri del gruppo. L a polarizzazione di gruppo è alimentata da influenze sociali che inducono le persone a rimanere silenti per non alterare la posizione dominante all’interno del gruppo. A ll’interno dei gruppi sia la paura sia la m ancanza di paura p osson o essere il prodotto di com parazioni sociali.

3.3. La convinzione di avere ragione induce a ll’estremismo L a terza spiegazione prende le m osse d all’osservazione che le persone che professano opinioni estrem iste tendono a essere più convinte di avere ragione, e che, man m ano che le persone acquisiscono questa convinzione, assum ono posizioni sempre più estrem e29. Alla base di questa osservazione c ’è un’idea semplice: se manchi di convinzione e non sei sicuro di ciò che pensi tenderai a esprim ere un ’opinione m oderata. M a quando altre persone condividono le tue opinioni, è probabile che tu tenda a diventare più convinto del fatto che le tue opinioni siano giuste, e perciò a m uovere in direzioni ancor più radi­ cali. Se le persone all’interno di un gru p p o tendono ad avere 29 Si veda R.S. Baron et al., Social Corroboration an d O pinion Extremity, in «Journal of Experimental Social Psychology», 32, 1996, p. 537.

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paura, la tendenza sarà amplificata per il semplice fatto che gli argom enti che supportano la paura tenderanno ad apparire più fondati in conseguenza delle interazioni che avvengono in seno al gruppo. In un ampio spettro di contesti sperimentali, le opinioni delle persone hanno mostrato di diventare più estreme per il sem plice fatto che esse venivano condivise all’intemo del gruppo, e perché le persone diventavano più convinte dopo aver saputo che la loro opinione era condivisa dagli altri.

3.4. Il contagio emotivo G li individui sono assai sensibili alle emozioni degli altri30. Chi è circondato da persone depresse è probabile che diventi depresso; chi è attorniato da persone entusiaste e piene di energia è probabile che a sua volta si senta pieno di energia ed entusiasta. I meccanismi particolari che alimentano il contagio emotivo non sono ancora pienamente chiariti, ma la paura è il prim o esem pio di un’emozione che diventa contagiosa. E pertanto possibile predire che un gruppo di persone impaurite 10 diventeranno sempre più a seguito delle conversazioni che avvengono all’interno del gruppo. L a polarizzazione di gruppo indubbiamente prende a ve­ rificarsi in connessione con l’euristica della disponibilità e il probability neglect. Si ipotizzi, per esempio, che diverse persone discutano del m orbo della mucca pazza o di una recente ondata di attacchi da parte di cecchini, o di casi recenti che hanno riguardato rapimenti di ragazzine, o di situazioni nelle quali il governo ha erroneamente ignorato una grave minaccia prove­ niente da un paese estero. Se riportati alla mente, gli esempi specifici avranno una forte probabilità di essere memorizzati. E se il gruppo ha una predisposizione a pensare che quello o quell’altro rischio siano gravi, le dinamiche sociali faranno sì che 11 gruppo tenda a ritenere che l’esempio è altamente rivelatore. E probabile che una predisposizione iniziale alla paura risulti aggravata dopo una deliberazione collettiva. All’interno dei gruppi la tendenza alla paura finisce per autoamplificarsi. 30 Si veda E. Hatfield, J.T. Cacioppo e R.L. Rapson, Emotional Contagion, Cambridge, Cambridge University Press, 1994.

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Si consideri in questa luce il rapporto redatto dalla Com­ missione del Senato sulle attività di intelligence nel 2004, ove si è concluso che il fatto che la Cia fosse convinta che l’Iraq costituisse una grave minaccia per gli Stati Uniti ha indotto questo organismo a trascurare di sottoporre a verifica le possibili alternative, ovvero di utilizzare le informazioni di cui la stessa Cia disponeva31. Vittima della polarizzazione di gruppo nel par­ ticolare contesto della paura, l’agenzia governativa ha mostrato «la tendenza a rifiutare le informazioni che contraddicevano le proprie convinzioni» in merito al fatto che l’Iraq disponesse di armi di distruzione di m assa32. Il che riecheggia in modo sor­ prendente le conclusioni raggiunte al termine dell’inchiesta che nel 2003 fece luce sugli errori della Nasa, laddove il Collegio di investigazione sul disastro della navicella Columbia ha riferito esplicitamente le responsabilità dell’incidente all’esistenza di una cultura negativa in seno alla Nasa, in base alla quale si faceva troppo poco per ottenere informazioni. Nelle parole del Collegio, la Nasa mancava di «meccanismi atti a controllare e a riequilibrare le posizioni espresse all’interno dell’ente stesso»33, mentre l’istituzione esercitava pressioni sui propri componenti affinché fosse seguita una «linea di p artito»34. Il risultato fu un processo di polarizzazione che indusse a rifiutare di ritenere importanti quei rischi che invece si rivelarono assai gravi.

4. Mass media, gruppi di interesse e uomini politici Fin qui il nostro discorso ha riguardato le interazioni fra gli individui, sul presupposto che essi siano tutti uguali. Ma è chiaro che nel mondo reale alcune voci sono più importanti di altre, specialmente in riferimento alla disponibilità e alla salienza. In particolare, il comportamento e le preoccupazioni mostrate dai mass media giocano un ruolo assai rilevante. Molte «epidemie», che sono percepite come tali, in realtà non lo sono 31 http://intelligence.senate.gov/. 32 Ìbidem, p. 6. 33 Si veda Report o f thè Columbia Accident lnvestigation Board, disponibile all’indirizzo www.nasa.gov/columbia/home/CAIB_Voll.html, p. 12. 34 Cfr. ibidem, p. 102.

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affatto, ma sono il portato della copertura mediatica di alcuni incidenti capaci di attirare attenzione, che invece non sono affatto rappresentativi. E probabile che l’attenzione riservata a questi incidenti generi disponibilità e salienza, determinando stime inaccuratamente elevate della probabilità, e nel contempo una certa dose di probability neglect. E, di fronte a un’attenzione me­ diatica ossessiva, crescerà la domanda di una risposta da parte del diritto. Nel contesto degli attacchi dei cecchini di Washington, l’intensa copertura mediatica risultò essere la principale fonte della paura sociale, facendo sì che ingenti risorse pubbliche e private fossero allocate per contrastare quel rischio. E naturale chiedersi allora perché i media focalizzino la loro attenzione su alcuni rischi piuttosto che su altri. Una prima risposta viene da questa opinione del 2002: Q uale che siano le critiche è un fatto che il regno del terrore stia stimolando una dom anda crescente per i network delle tv via cavo. Infatti, i livelli della dom anda sono oggi ai vertici da quando si sono verificati gli attacchi dell’ 11 settembre 2001. Alla fine della settimana scorsa il canale F o x News ha ottenuto una audience superiore del 27 per cento rispetto a quella del mese precedente; mentre la crescita della Cnn è del 29 per cento e quella della Msnbc del 24 per cento3;>.

Perciò la copertura mediatica riflette il proprio personale tornaconto economico. Fatti eclatanti, anche se non rappre­ sentativi, sono suscettibili di attrarre attenzione, aumentando gli ascolti. Spesso il risultato è quello di distoreere i giudizi relativi alla probabilità di verificazione degli eventi. Finisce così per instaurarsi un circolo vizioso che unisce l’euristica della disponibilità agli incentivi dei media, nel quale ciascuno dei due aggrava l’altro, con effetti negativi per la comprensione da parte del pubblico. Consapevoli dell’importanza della copertura mediatica, gruppi portatori di interessi privati ben organizzati sono estre­ mamente attivi nel far sì che l’attenzione della collettività sia catturata da particolari rischi. Alcuni di questi gruppi sono animati da finalità altruistiche, altri invece perseguono esclu­ sivamente il proprio interesse. Una tattica consolidata è dare 35 J. Neuman, In a Snipers Grip. Media s Role in Drama Debated, in «Los Angeles Tim es», 24 ottobre 2002, parte I, p. 16.

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pubblico rilievo a un incidente che possa suscitare disponibilità e salienza. Gli stessi terroristi rappresentano un esem pio estremo e nefasto di questo m odo di procedere, in quanto impiegano attacchi ad alta visibilità per convincere le persone «che non v’è luogo dove possano sentirsi al sicuro». Molti altri esempi sono meno negativi e a volte persino positivi. Si pensi alla discarica abbandonata di rifiuti pericolosi di Love Canal, poi utilizzata per prom uovere le bonifiche dei siti di altre discariche, oppure al disastro della Exxon Valdez, impiegato dal Sierra Club e da altre organizzazioni ambienta­ liste per promuovere l’adozione di precauzioni più stringenti contro le perdite di petrolio in mare. D im ostrando una buona conoscenza del meccanismo dell’euristica della disponibilità, i gruppi di pressione privati si im padroniscono di alcuni incidenti selezionati, per dare loro risalto in m odo da renderli salienti per la collettività. In tutti questi esem pi l’im piego di casi particolari si rivela necessario per indirizzare la pubblica opinione e i legi­ slatori nelle giuste direzioni. Certam ente i processi sociali che interagiscono con la salienza e la disponibilità collettiva possono indurre ad attuare le riforme dove ciò appare necessario. Ma in questo caso non esistono garanzie che ciò accada, specie se le influenze sociali inducono le persone a ingigantire il problema, o piuttosto a ignorare il problem a della probabilità. I politici sono coinvolti nello stesso m eccanism o di base. Perché è tale, la voce di un politico influente ottiene di essere amplificata. Q uando un rappresentante del governo illustra un incidente alla collettività, è probabile che u n ’imm agine simile e illustrativa dell’incidente stesso si diffonda in m odo incon­ trollato. L’emanazione di un provvedim ento legislativo urgente può di per sé prom uovere la disponibilità; se la legge reagisce ai problemi determinati dalle discariche di rifiuti pericolosi, o dai «crimini odiosi», la collettività finisce per ritenere che questi problemi siano subito disponibili. G li attacchi terrori­ stici dell’ 11 settembre 2001 sarebbero apparsi eclatanti quale che fosse stata l’enfasi assegnata loro dal presidente George W. Bush. Ma il presidente e il suo entourage alla C asa Bianca hanno fatto riferimento agli attacchi un num ero infinito di volte, spesso in modo da enfatizzare la verità di minacce molto distanti e la necessità di far fronte a spese assai cospicue per contrastarle (inclusa la guerra in Iraq del 2003, propiziata da

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discorsi presidenziali che illustravano vividi racconti di danni catastrofici). Non v’è dubbio che la salienza di questi attac­ chi abbia giocato un ruolo importante, atto a influenzare il comportamento politico, e che questo ruolo non possa essere compreso senza fare riferimento alle influenze sociali.

5. Predisposizioni Tutto quanto detto fin qui però non ci offre ancora una visione completa. Le credenze e le opinioni sono il prodotto della disponibilità, e le influenze sociali determinano sia la disponibilità sia la salienza. Ma, come ho suggerito, ciò che appare disponibile è anche il prodotto di credenze e opinioni preesistenti, sia a livello individuale sia sociale. Perché alcune persone ricordano ed enfatizzano incidenti in occasione dei quali l’incapacità di adottare precauzioni ha determinato un grave danno ambientale? Una probabile spiegazione risiede nel fatto che queste persone sono predisposte a promuovere la protezione ambientale. E perché altre persone ricordano ed enfatizzano incidenti in occasioni dei quali le misure a salvaguardia dell’ambiente hanno comportato costi elevati e pochi benefici? Una ragione plausibile è che queste persone tendono a contrastare i controlli ambientali. Qui si verifica una sorta di intersezione fra l’euristica della disponibilità e il confirmatory bias, «la tendenza a cercare informazioni che confermino le nostre ipotesi e valutazioni iniziali»36, una tendenza di cui gli esperti hanno trovato evidenze nell’ambito dei giudizi, che ho richiamato qualche pagina fa, formulati dalla Cia e dalla Nasa. Naturalmente le predisposizioni non sono una scatola nera e non cadono dal cielo. Sono determinate da fattori precisi. Fra cui la disponibilità e la salienza. Ragion per cui si realizza un com plesso insieme di interazioni, dove l’euristica aiuta a costruire le predisposizioni, che a loro volta sono responsabili per il m odo in cui le euristiche operano nel mondo reale. Tutto questo accade a livello sociale e non solo individuale, con le 36 Si veda E. Aronson, The Social Animai, New York, Freeman, 1995; trad. it. L animale sociale , Milano, Apogeo, 2006.

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predisposizioni che non si m ostrano mai statiche. Q uando le persone sono all'interno di un gruppo p red isp osto in una certa direzione, gli esempi salienti saranno piuttosto diversi da quelli che appaiono salienti in un gruppo che ha una predisposizione opposta. In questo caso la polarizzazione di gruppo riveste molta importanza. Più in generale, orientamenti culturali differenti possono gio­ care un ruolo rilevante nel determinare cosa appaia disponibile. Per esempio, gli Stati Uniti sono un paese m olto disomogeneo, e per certi fini è plausibile ritenere che regioni diverse del paese o gruppi diversi al suo interno abbiano culture diverse. In seno alle comunità afroam ericane i casi che appaiono disponibili sono spesso assai diversi da quelli delle com unità a prevalen­ za di bianchi. Fra singoli paesi, le differenze posson o essere ancor più notevoli, anche perché le visioni del m ondo diverse giocano un ruolo dominante. E ciò che vale per gli individui vale anche per le nazioni. Com e le predisposizioni sono in parte una funzione della disponibilità, così la disponibilità è in parte una funzione delle predisposizioni. L e influenze sociali operano a entrambi i livelli, influenzando ciò che risulta disponibile e anche m odificando l’orientam ento delle predisposizioni. Il problem a è che sia gli individui sia le società posson o finire per avere paura di rischi che non esistono o sono trascurabili e nel contempo trascurare pericoli reali. La mia trattazione dei problem i determ inati dalla paura è pressoché conclusa. A bbiam o visto che nelle sue form e più ri­ gorose il principio di precauzione risulta incoerente, rivelandosi capace di offrire una guida solo in ragione di alcune caratteri­ stiche identificabili della cognizione umana. Si è parimenti visto che gli scenari peggiori hanno un effetto distorsivo sulla cogni­ zione umana, producendo spesso un eccesso di paura per eventi poco probabili. Le influenze sociali, inclusi gli effetti cascata e la polarizzazione di gruppo, possono aum entare o diminuire la paura. N e risulta una situazione nella quale le persone spesso si rivelano preda di paure infondate, mentre ostentano sicurezza per situazioni che pongono pericoli reali. Cosa può essere fatto a livello individuale e sociale per ri­ solvere questi problemi? Se vogliamo perseguire una concezione deliberativa della democrazia, non dovrem mo essere né populisti

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né tecnocratici. Il diritto e la politica non dovrebbero riflettere gli errori di cui la gente è vittima; le democrazie non dovrebbero seguire meccanicamente le paure dei cittadini o, all’opposto (per quanto ci interessa qui è lo stesso), la loro mancanza di paura. N essuna delle cose che ho detto dev’essere letta come un tentativo di celebrare le virtù delle regole poste da una élite tecnocratica. Come ho osservato, i cittadini compiono distinzioni qualitative fra rischi che sul piano quantitativo appaiono identici, e quando i loro valori riflessivi sono alla base di queste distinzioni qualitative i giudizi dei cittadini meritano rispetto. Torniam o allora al tema delle precauzioni.

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PARTE SECONDA

LE SOLUZIONI

CAPITOLO QUINTO

RIFORM ULARE IL PRINCIPIO DI PRECAUZIONE E GESTIRE LA PAURA

Sono stato decisamente critico nei confronti del principio di precauzione, ma nessuno dubita seriamente che adottare precau­ zioni possa avere un senso. Una valutazione degli scopi positivi del principio di precauzione prelude alla riformulazione dell’idea che è alla base del principio, in modo da prendere sul serio le preoccupazioni di quanti ne sono fautori. Questa riformulazione considera tre dimensioni. La prima riguarda i rischi catastrofici. La seconda i danni irreversibili. La terza considera i margini di sicurezza nei confronti di rischi che, seppur potenzialmente non catastrofici, pongono specifici motivi di preoccupazione. Dopo aver discusso i principi che ne risultano, esplorerò in che modo il governo può gestire la paura collettiva sia quando essa si rivela eccessiva sia quando si dimostra insufficiente. 1. Catastrofe Quando i cittadini fronteggiano rischi catastrofici per i quali le probabilità di verificazione non possono essere oggetto di stima, appare sensato che essi adottino un principio anticatastrofe. Se i responsabili della regolamentazione operano in condizioni di incertezza, costoro fanno la cosa migliore se seguono il maximin, identificando i peggiori fra i possibili scenari, per poi scegliere un approccio che li prevenga. Ne consegue che, se misure aggressive sono giustificate per ridurre i rischi associati al riscaldamento globale, una delle ragioni che giustifica una tale scelta è che questi rischi sono potenzialmente catastrofici e che la scienza contempo­ ranea non consente di assegnare probabilità di verificazione agli scenari peggioril. Il maximin è una regola decisionale appropriata ' Si veda R. A. Posner, Catastrophe: Risk andResponse, New York, Oxford University Press, 2004, pp. 50-58 e 155-165.

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tutte le volte che sussista incertezza, ma nel contesto regolativo appare particolarmente importante quando si ha a che fare con la possibilità di esiti estremamente infausti. Per comprendere queste affermazioni occorre tornare un po’ suoi nostri passi e analizzare il maximin più in dettaglio. È sensato di solito attivarsi per eliminare il peggiore degli scenari possibili? Si pensi al caso di un reporter, che oggi vive a Los Angeles, a cui viene detto che può scegliere fra due incarichi. Nel primo caso può recarsi in un paese, poniamo l’Iraq, nel quale vi è un alto tasso di terrorismo. Nel secondo egli può recarsi a Parigi per dar conto del sentimento antiamericano diffusosi in Francia. L’incarico in Iraq, nella prospettiva del nostro reporter, porta a due risultati: a) potrebbe vivere l’esperienza più interessante e più proficua della sua vita professionale; b) potrebbe venire ucciso. L’incarico a Parigi è anch’esso, a sua volta, foriero di due risultati: egli a) potrebbe vivere un’esperienza interessante, anche molto divertente; oppure b) potrebbe sentirsi solo e avere nostalgia di casa. Non è certo insensato per il reporter scegliere l’incarico a Parigi, sul rilievo che il peggiore degli scenari possibili insito nella scelta è di gran lunga migliore rispetto a quello che invece gli si prospetta in Iraq. Ma il maximin non sempre è un criterio decisionale sensato. Si postuli adesso che il reporter abbia la possibilità di scegliere se andare a Parigi o rimanere a Los Angeles, e si postuli anche che sul piano personale e professionale per lui andare a Parigi sia molto meglio. Avrebbe poco senso che il nostro reporter invocasse il ma­ ximin e rimanesse a Los Angeles, considerando la possibilità che l’aereo per Parigi possa precipitare. E facendo leva su un esempio del genere che John Harsanyi sostiene che il maximin debba essere respinto perché foriero di irrazionalità, e persino di follia: Se si prende il maximin sul serio non si dovrebbe attraversare la strada (dopo tutto si potrebbe essere investiti da un auto); non si do­ vrebbero attraversare ponti (dopo tutto potrebbero crollare); non ci si dovrebbe sposare (potrebbe finire tutto in modo disastroso) eccetera. Se davvero qualcuno si comportasse in questo modo, non tarderebbe a finire in manicomio2. 2 Si veda J.C. Harsanyi, Morality and thè Theory of Rational Behavior, in A. Sen e B. Williams (a cura di), Utilitarianism and Beyond, Cambridge, Cam­ bridge University Press, 1982; trad. it. La morale e la teoria del comportamento razionale, in Utilitarismo e oltre, Milano, Il Saggiatore, 1984, p. 39.

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Potremmo anche usare le argomentazioni di Harsanyi per contestare l’impiego del maximin nella scelta fra l’Iraq e Pari­ gi. Forse che il nostro reporter non dovrebbe prefigurarsi la probabilità di essere ammazzato in Iraq, invece di identificare semplicemente lo scenario peggiore? Il maximin, in fondo, non è forse una forma di probability neglect? Si ipotizzi che il rischio di morte in Iraq risulti essere pari a 1/1.000.000, e che la scelta dell’Iraq appaia molto migliore sul piano personale e professionale della scelta di recarsi a Parigi. E plausibile ritenere che il reporter debba scegliere come meta l’Iraq in­ vece di fissarsi ossessivamente sulla peggiore eventualità che 10 possa colpire. Fin qui, dunque, la critica rivolta al maximin da Harsanyi sembra fondata. Ma, nelle argomentazioni di Harsanyi e anche nell’analisi condotta dal reporter sulla scelta fra l’Iraq e Parigi, manca qualcosa di importante: i rischi si trovano su tutti i lati delle situazioni rilevanti. Rimanendo a Los Angeles, il reporter potrebbe finire ucciso da una gang di criminali di strada, per cui il maximin non giustifica la scelta di rimanere negli Stati Uniti. E, diversamente da quanto si inferisce dalle argomen­ tazioni di Harsanyi, il maximin non significa che la gente non debba attraversare le strade, guidare sopra un ponte e sposarsi. Perché evitare di fare queste tre cose genera di per sé scenari peggiori (inclusi morte e disastri). Harsanyi, infatti, commette lo stesso errore in cui incorrono quegli scienziati che temono che il principio di precauzione non avrebbe permesso di sviluppare gli aeroplani o gli antibiotici. Per implementare 11 maximin o un ordine teso a adottare precauzioni, abbiamo bisogno di identificare tutti i rischi rilevanti e non solo un sottoinsieme di essi. Tuttavia, l’obiezione più generale al maximin resta valida. Se le probabilità possono essere assegnate ai vari esiti, non ha senso seguire il maximin quando il caso peggiore appare altamente improbabile e quando le opzioni alternative sono sia molto migliori sia molto più probabili. Ne consegue che il nostro reporter farebbe bene a scartare il maximin e a recarsi a Parigi, anche se il peggiore scenario associato alla scelta di Parigi è peggiore di quello legato alla scelta di rimanere a Los Angeles, se gli esiti realisticamente probabili sono molto mi­ gliori a Parigi. Non sto suggerendo che per essere razionale il

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reporter debba calcolare i valori attesi, m oltiplicando gli esiti immaginabili per le loro probabilità di accadim ento per poi decidere di conseguenza. La vita è breve, la gente ha da fare, e certo non appare irrazionale creare un margine di sicurezza per proteggersi dai disastri. Tuttavia se la probabilità di un accadimento molto negativo è davvero piccola, il maximin ci appare poco sensato. Ma è sempre così? Come ho suggerito, il maximin può invece apparire molto sensato in circostanze di incertezza più che in quelle di mero rischio. Si supponga che la situazione sia tale che il reporter non possa assegnare probabilità al verificarsi di una morte terribile a Parigi, perché nella capitale francese una malattia contagiosa si sta diffondendo a un tasso mai verificatosi prima; se così fosse, egli farebbe bene a scegliere di rimanere a Los Angeles. In un tentativo assai illuminante di riformulare il principio di precauzione, Stephen Gardiner3 invoca l’argomento formulato da Joh n Rawls, in base al quale quando si è al cospetto di «rischi gravi», e quando le probabilità non possono essere assegnate al verificarsi di questi rischi, il maximin è la regola di giudizio più appropriata, almeno se il soggetto cui è rimessa la scelta « è poco interessato da ciò che potrebbe guadagnare in più dello stipendio minimo che egli può essere certo di percepire seguendo la regola del maximin»4. Adattando l’argomento rawlesiano in tema di giustizia distri­ butiva al settore ambientale, Gardiner ritiene che il maximin, e dunque il nocciolo duro del principio di precauzione, si giustifichi 1) al cospetto di eventi potenzialmente catastrofici; 2) laddove le probabilità non possano essere assegnate; e 3) quando la perdita conseguibile adottando il maximin appaia relativamente indifferente. Gardiner aggiunge, in modo sensato, che per giustificare il maximin le minacce potenzialmente catastrofiche devono soddisfare una soglia minima di plausibilità. Se infatti possono essere scartate in quanto irrealistiche, allora il maximin non dovrebbe essere seguito. Gardiner ritiene che il problema del riscaldamento globale possa essere utilmente analizzato in questi > Si veda S.M. Gardiner, A Core Precautionary Principle, in «Journal of P o litic a i P h ilo so p h y » , 14, 2006, n. 1, p p . 33-60. 4 Si veda J. Rawls, A Theory of]ustice, Cambridge, Cambridge University Press 1971> trad. it. Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, 1983.

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termini e che esso configuri un buon esempio di applicazione del maximin. Mi sem bra che questa argomentazione si collochi sulla strada giusta, ma le sue conclusioni, così come sono formulate, rischiano d ’essere banali, soprattutto a causa della terza con­ dizione prim a ricordata. Se gli individui e le società possono eliminare un pericolo incerto di catastrofe praticamente a costo zero, è evidente che quel rischio deve essere eliminato. Ma nel m ondo reale raramente ci si imbatte in problemi così linearmente formulati (e, se mai succedesse, non pensateci su e seguite il m axim in!). Nei dilemmi della vita reale, l’eli­ minazione dei pericoli di catastrofe connotati da incertezza implica sia costi sia rischi. Nel contesto del riscaldamento globale, per esem pio, è implausibile affermare che i respon­ sabili delle scelte regolative possano o debbano preoccuparsi «molto poco, al limite» per ciò che potrebbe essere perso seguendo il maximin. Se avessimo seguito il maximin per il riscaldamento globale, spenderemmo moltissimo per ridurre le em issioni di gas inquinanti, e il risultato sarebbe quasi certamente quello di avere fatto salire i prezzi del petrolio e dell’energia, determinando, con ogni probabilità, un aumento della disoccupazione e della povertà. Ma la tesi di Gardiner può esserci di qualche aiuto nei casi non banali? Se opportunamente rielaborata, io credo di sì e per una sem plice ragione: la condizione 3) è troppo stringente e dovrebbe essere abbandonata. Anche se i costi sottesi alla scelta di seguire il maximin sono importanti, e anche se chi decide appare molto preoccupato dalla prospettiva di sostenere questi costi, è sensato seguire il maximin quando ci si trova al cospetto di pericoli incerti di catastrofe. La domanda più difficile in questo caso è: quali costi vale la pena sostenere in nome del m axim in? Si consideri un caso piuttosto semplice: i rischi catastrofici associati al riscaldamento globale potrebbero essere eliminati se ogni paese' della terra contribuisse con 2 milioni di dollari a un fondo destinato a combattere questi rischi. Di certo un costo del genere sarebbe accettabile. E invero si è sostenuto: che il riscaldamento globale comporta rischi catastrofici le cui probabilità di verificazione non posso­ no essere calcolate con alcun margine di verosimiglianza; che i costi associati al porre un freno alle emissioni sono molto 155

più semplici da calcolare; e che per queste ragioni adottare precauzioni aggressive contro il riscaldamento globale può in linea di principio essere una soluzione sen sata5. Si consideri adesso un caso assai diverso: i rischi catastrofici associati al riscaldamento globale potrebbero essere eliminati solo se ogni paese del mondo contribuisse con una quantità di risorse tale da ridurre lo standard di vita del 50 per cento a livello mondiale, con un corrispondente tasso di aumento della povertà globale. Se il riscaldamento globale pone davvero un rischio incerto di catastrofe totale, la logica formale del maximin parla a favore di questa straordinaria riduzione delle condizioni di vita a livello mondiale; ma non è chiaro se seguire questa logica si rivelerebbe davvero ragionevole. Per incorrere in costi di questo ordine di grandezza si potrebbe voler richiedere che il pericolo di catastrofe superi una data soglia minima, e che esista una probabilità dimostrabile, e nemmeno troppo bassa, che il rischio catastrofico si realizzi. Sembrerebbe un’opzione molto più sensata prendere misure meno costose per il mo­ mento e impegnarsi in ricerche ulteriori allo scopo di ottenere informazioni che permettano di sapere di più sulle probabilità che l’esito catastrofico si verifichi. Per comprendere questo punto, e i più generali problemi posti dal maximin, si immagini un individuo o una società privi delle informazioni che consentono di assegnare le probabilità di verificazione di una serie di pericoli con esiti catastrofici; e si supponga che il numero di questi pericoli sia pari a venti, cento o mille. Si ipotizzi ancora che l’individuo o la società del caso siano in grado di assegnare una probabilità (in una dimensione dall’ l al 90 per cento) a un numero equivalente di altri pericoli con esiti qualificabili come negativi e molto negativi, ma mai tali da essere catastrofici. Si postuli, infine, che ciascuno di questi pericoli possa essere eliminato a un costo elevato, ma tale che, una volta sostenuto, non rappresenti un danno che possa essere considerato molto grave o catastrofico. Il principio maximin suggerirebbe al nostro individuo o alla nostra società di investire moltissimo per eliminare ciascuno di 5 Si veda W.D. Montgomery e A.E. Smith, Global Climate Change and thè Precautionary Principle, in «Human & Ecological Risk Assessment», 6, 2000, p. 399.

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questi venti, cento, mille pericoli potenzialmente catastrofici. Ma, una volta che questa enorme quantità di risorse fosse inve­ stita anche solo sul primo di tali pericoli, potrebbe non rimanere nulla per contrastare pericoli terribili, anche quelli che magari hanno il 90 per cento di probabilità di verificarsi. Di fronte a un numero consistente di pericoli, alcuni classificabili come rischi, altri contraddistinti da incertezza, il maximin sembra essere incompatibile con l’esigenza di fissare una scala razionale di priorità. Potremmo perfino ipotizzare che, se si decidesse di seguire il maximin, un individuo o una società scarsamente informati finirebbero per essere condannati a una condizione di povertà e sofferenza, o anche peggio6. Certo, non posso evidenziare in questa sede tutti i complessi risvolti di quanto sto dicendo. Ma ritengo che un principio anticatastrofe, applicabile a pericoli di catastrofe non stimabili e quindi incerti, debba avere un ruolo sia nella vita reale sia nel diritto, almeno quando i costi per ridurre questi pericoli non siano immensi e quando sostenere tali costi non distolga risorse da problemi più pressanti. Il principio anticatastrofe non è il principio di precauzione; ha un ambito più limitato. Nondimeno, esso merita di giocare un ruolo nelle scelte regolative, incluse quelle che riguardano il riscaldamento globale, richiedendo in modo ragionevole di adottare da subito misure significative (ma non immensamente costose), accompagnate da ulteriori ricerche volte a ottenere una migliore compren­ 6 Questa obiezione riceve indiretta conferma sul piano empirico dal fatto che, quando si chiede di decidere in merito alla distribuzione di beni e ser­ vizi, la maggior parte delle persone dimostra di non seguire i due principi di cui la letteratura filosofica maggiormente discute, ovvero: l’utilità media, a cui Harsanyi guarda con favore, e il principio di differenza rawlesiano (il quale ammette le ineguaglianze solo se si traducono in un vantaggio per i meno abbienti); cfr. N. Frohlich e J.A. Oppenheimer, Choosing Justice. An Experimental Approach to Ethical Theory, Berkely, University of California Press, 1992. Invece, le persone scelgono l’utilità media con un tetto limite, ovvero preferiscono un approccio che massimizza il benessere complessivo, col limite che nessun membro della società possa cadere sotto una soglia minima di decenza. Insistendo su un minimo assoluto di benessere per tutti, le per­ sone massimizzano al di sopra di quella soglia. La loro avversione al rischio li porta a fissare pragmaticamente una soglia limite minima. L’analogia non è precisa, ma qualcosa di simile può operare nel contesto delle precauzioni contro i rischi. Un individuo o una società assennata non sarebbero disposti a impiegare il criterio del maximin se ciò imponesse di scendere sotto una soglia minima di benessere.

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sione delle probabilità di verificazione del disastro associato al fenom eno del riscaldamento globale.

Quattro qualificazioni appaiono importanti. Primo, il princi­ pio anticatastrofe deve essere reso sensibile a un ampio spettro di rischi sociali; non avrebbe senso adottare determinate misure per evitare una catastrofe se, a loro volta, quelle stesse misure determinassero rischi catastrofici. Se una guerra preventiva, volta a ridurre alla fonte i rischi legati al terrorismo, determina Fincremento di quegli stessi rischi da un’altra fonte, allora il principio anticatastrofe è indeterminato. Secondo, l’impiego del principio dovrebbe essere particolarmente sensibile all’idea della effettività dei costi, la quale chiede ai responsabili delle scelte regolative di perseguire i propri fini scegliendo le misure meno costose. Nel contesto del riscaldamento globale esistono molti metodi attraverso i quali ridurre i rischi rilevanti. Sia le istituzioni nazionali sia quelle internazionali dovrebbero sce­ gliere quei metodi che assicurano una riduzione dei costi. Lo stesso è vero se si considerano i tentativi di contrastare i rischi del terrorismo. Terzo, bisogna prendere in considerazione le esigenze distributive. Il principio dovrebbe essere applicato in modo da ridurre il fardello imposto su quanti sono meno attrezzati per sopportarlo. Nel caso del riscaldamento globale è particolarmente sentita l’esigenza di far sì che i cittadini dei paesi poveri non debbano essere chiamati a sostenere costi per contribuire alla soluzione di un problema di cui i cittadi­ ni delle nazioni più ricche appaiono i principali responsabili. Se una politica antiterrorismo imponesse oneri particolari a carico dei membri di minoranze razziali e religiose - si pensi alla profilazione razziale -, vale la pena considerare altre po­ litiche che possano ridurre o eliminare questi oneri. Quarto, i costi, di per sé, contano. L’ambito delle precauzioni non può ragionevolmente essere scisso dalle spese a esse associate. In casi come quelli che sto analizzando, laddove lo scenario peg­ giore è davvero catastrofico e dove le probabilità non possono essere assegnate, appare sensato assicurarsi un ampio margine di sicurezza.

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2. Danni irreversibili: una nota ambivalente Il principio di precauzione è spesso invocato in caso di rischi di danno irreversibile7. Come abbiamo visto, il termine «irreversibile» compare in molte descrizioni di ciò che il princi­ pio sembra essere concepito per evitare. L’intuizione in questo caso è immediata e seducente: per prevenire danni che sono effettivamente irreparabili dovrebbero essere adottate misure maggiori di quelle che si adottano per prevenire danni che con un certo costo sono invece riparabili. Di fronte a un danno irreversibile e a uno reversibile, la considerazione del «valore dell’opzione» suggerisce che vale la pena spendere qualcosa per preservare la futura flessibilità, pagando un premio per evitare un danno irreversibile. Ma l’enfasi sulla irreversibilità sconta un grave problema, che attiene all’ambiguità dell’idea che ne sta alla base. Ogni decesso, di ogni creatura vivente è irreversibile, e quanti in­ vocano l’irreversibilità non estendono la nozione di danno irreversibile a tutti i rischi legati alla mortalità. Ciò che è vero per le creature viventi è vero anche per un blocco di roccia o per un frigorifero; se vengono distrutti, vengono distrutti per sempre. E poiché il tempo ha una dimensione lineare, ogni decisione, se considerata sotto questa luce, è irreversibile. Se gioco a tennis oggi alle 11, questa decisione non è reversibile, perché ciò che avrei potuto fare a quell’ora sarà perduto per sempre. Se il governo costruisce una nuova autostrada nello stato di New York a maggio, quella particolare decisione sarà irreversibile, anche se l’autostrada può essere sostituita o eli­ minata. Se un particolare atto è «irreversibile» a seconda di come esso viene caratterizzato, allora ogni atto, se lo conside­ riamo in senso stretto, per ciò che davvero esso è, ci appare per definizione letteralmente irreversibile. Quanti sono preoccupati dall’irreversibilità hanno in mente qualcosa di più preciso e circoscritto. Costoro pensano a cose come un’alterazione su larga scala delle condizioni ambientali, che sia tale da imporre a quanti ne sono esposti cambiamenti di vita di tipo permanente o quasi. Ma, pur così intesa, l’irre­ 7 Per un’utile discussione tecnica in inerito si veda C. Gollier e N. Treich, Decision-Making under Scientific Uncertainty. The Economia ofthè Precautionary Principle, in «Journal of Risk & Uncertainty», 27, 2003, p. 77.

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versibilità non è ancora una ragione sufficiente per adottare un approccio altamente precauzionale. Quanto meno, il mutamento irreversibile deve essere in senso peggiorativo e deve anche possedere un certo livello di intensità. Un cambiamento davvero minuscolo della temperatura globale, anche se permanente, non giustificherebbe costose precauzioni, se appare benigno o se determina solo danni limitati. L’idea dell’irreversibilità è davvero importante per due ordini di ragioni. La prima, a cui si è fatto riferimento nel ca­ pitolo I, può ricavarsi da un’analogia con il mercato azionario e suggerisce che vale la pena investire risorse su determinate precauzioni, aspettando che emergano maggiori informazioni prima di incorrere in un danno notevole e irreversibile. La seconda e ancor più importante ragione riguarda la relazione che si instaura fra l’irreversibilità e il danno catastrofico. Se un danno che appare catastrofico può effettivamente essere prevenuto o bloccato a costi ragionevoli, non si tratta affatto di un danno catastrofico; se invece questo danno è letteralmente irreversibile o estremamente costoso da riparare, ecco allora entrare in gioco direttamente il principio anticatastrofe. Per quanti ritengono che l’estinzione di una specie sia una tragedia, la protezione delle specie a rischio rappresenta il tentativo di evitare una catastrofe. Il punto non è che la morte di un singolo animale sia reversibile, poiché non lo è. Il punto è invece che, secondo un’opinione largamente condivisa, l’estinzione di una specie identifica un danno catastrofico, mentre la morte di un singolo animale appartenente a una data specie non lo è. Po­ tremmo concludere che, tutte le volte che un danno irreversibile merita un’attenzione speciale, tale da imporre l’applicazione del principio anticatastrofe o di una qualsiasi precauzione speciale, ciò accade per la sua intensità o gravità, e non per il fatto che il danno appare irreversibile.

3. Margini di sicurezza I margini di sicurezza non devono certo essere applicati solo ai rischi catastrofici; essi appaiono ragionevoli in molti contesti. Ma come selezionare i margini di sicurezza? II primo passo è notare che i responsabili delle scelte rego160

lative dovrebbero prestare attenzione (proprio come i comuni cittadini) sia alla probabilità di verificazione del danno sia alla sua entità. Se questo ordine di grandezza è elevato, allora i «re­ golatori» non hanno bisogno di molte prove in merito al fatto che il danno appaia probabile. Un rischio pari a 1 su 10.000 di un evento che determini 10.000 morti deve essere preso molto seriamente. Che l’esito possa qualificarsi catastrofico, 0 non, è sempre appropriato soppesare sia le probabilità sia l’entità del danno. Questa semplice verità può essere di aiuto per distinguere i casi in cui l’applicazione del principio di precauzione è sensata dai casi in cui essa non lo è. Fra i casi di applicazione insensa­ ta: non esistevano buone ragioni per invocare il principio nel contesto dei rischi di tumore ritenuti associati all’impiego dei telefoni cellulari. Per ciascun utilizzatore di cellulari il rischio di danno è incredibilmente basso o persino inesistente8. Fra 1 casi sensati di applicazione del principio: i rischi associati ai bassi livelli di arsenico nell’acqua potabile (50 parti per mi­ liardo) erano sufficientemente elevati da rendere ragionevole che gli Stati Uniti adottassero precauzioni ulteriori (adottare un valore soglia pari a 10 parti per miliardo) sotto l’egida del principio di precauzione. Oppure si ipotizzi che la scienza contemporanea permetta di raggruppare gli esiti dannosi attesi in classi di probabilità generali e approssimative, ove, per esempio, un danno di piccola entità corrisponda a una percentuale di verificazione del 30 per cento, un danno moderato al 40 per cento di probabilità, un danno grave al 35 per cento di probabilità e un danno ca­ tastrofico al 5 per cento di probabilità. E supponiamo ancora che nel tempo si possano ottenere maggiori informazioni su queste probabilità. Se così fosse, potremmo scegliere di adottare certe precauzioni adesso, seguendo il principio «agisci e poi informati». Le misure che adotteremmo ora non sarebbero le stesse che noi sceglieremmo di adottare ove i peggiori esiti si rivelassero maggiormente probabili, ma in ogni caso queste misure dovrebbero essere concepite in modo da consentirci di prevenire gli esiti peggiori, ove col tempo apprendessimo che 8 Si veda A. Burgess, Cellular Phones, Public Fears, and a Culture of Precaution, Cambridge, Cambridge University Press, 2004.

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questi esiti sono più probabili di quanto avessim o inizialmente pensato \ In tale prospettiva, la considerazione per ciò che ci appare ancora ignoto non significa che i regolatori debbano fare poco, ma che costoro dovrebbero agire gradualm ente nel tempo, adottando le precauzioni che rappresentano una sorta di assicurazione contro l’eventualità che il danno si mostri più grave di quanto oggi sia possibile stim are alla luce delle conoscenze esistenti rispetto tanto alla sua probabilità di veri­ ficazione quanto alla sua entità attesa.

Ma l’attenzione per le probabilità di verificazione e l’entità del danno non è ancora abbastanza. Come minimo appare necessario identificare lo strumento regolativo attraverso cui agire in precauzione. Una elevata probabilità di danno grave potrebbe giustificare l’imposizione di un divieto assoluto sulla conduzione o sullo svolgimento dell’attività o del processo in questione, vale a dire ciò che potremmo definire un principio di precauzione proibente. Diversamente, una bassa probabilità di danno meno grave potrebbe far apparire giustificato con­ durre ulteriori ricerche o ottenere ulteriori informazioni. Nei confronti di molti rischi appare sensato seguire un «principio di precauzione della rivelazione informativa», ovvero un principio che richieda a quanti generano rischi di rivelare alla collettività le informazioni di cui dispongono. Considerare le probabilità del rischio, la sua entità e la lista dei diversi strumenti regola­ tivi è un passo necessario per identificare le migliori scelte da adottare. Per ognuna di queste opzioni un margine di sicurezza può essere scelto in conformità alle informazioni disponibili e all’entità del danno atteso ove l’evento si verifichi. Ma, anche in questa fase, l’indagine resta gravemente in­ completa. E infatti necessario anche conoscere i rischi e i costi legati allo strumento regolativo prescelto. Se le precauzioni fossero a costo zero, dovremmo adottarle tutte senza esitazione. Si consideri la seducente nozione di prudent avoidance , la quale impone di evitare pericoli oggetto anche di mere congetture, se ciò può realizzarsi a basso costo. Ma se introducessero un’elevata probabilità che un grave danno possa realizzarsi, le precauzioni 9 Montgomery e Smith, G lobal Clim ate Change and thè Precautionary Principle, eit., pp. 409-410. Si veda anche S. Farrow e H. Hayakawa, Investing in Safety. An Analytical Precautionary Principle, in «Journal of Safety Research», 33, 2002, p. 165.

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sarebbero messe al bando dalla stessa idea di precauzione. Fio enfatizzato quanto sia importante possedere una visione a com passo allargato quando si pensa ai pericoli, una visione che richieda sia ai regolatori sia ai cittadini di considerare i problemi posti dalla riduzione di un singolo insieme dei possibili rischi. Ma questa idea non condanna la nozione dei margini di sicurezza; essa piuttosto richiede ai regolatori di identificare i rischi particolari che stanno ricevendo particolare attenzione, spiegando per quale motivo nei confronti di quegli stessi rischi l’adozione di margini di sicurezza appare appropriata. Si ipotizzi, per esempio, che il rischio di contrarre tumori a causa dell’esposizione al sole non sia trascurabile e che i costi legati alla riduzione di questo rischio consistano nell’utilizzare schermi per la luce solare o semplicemente di stare lontano dall’esposizione alla luce del sole in certe ore della giornata. Sarebbe difficile contestare un margine di sicurezza in questo caso. O ppure si ipotizzi che il rischio di un attacco terroristico negli aeroporti non possa essere neutralizzato, e che i costi di riduzione rispetto a tale rischio siano le misure di sicurezza diventate usuali negli Stati Uniti all’indomani delTll settembre. Secondo stime plausibili, vale la pena sostenere questi costi anche se non sono affatto trascurabili. Si pensi invece alla guerra capitanata dagli Stati Uniti per detronizzare Saddam Hussein in Iraq. Persone ragionevoli potrebbero giustificare la guerra in base a «m argini di sicurezza». I costi molto elevati, in termini di vite perdute e di denaro, associati a questa guerra avrebbero potuto essere giustificati se solo consideriamo i rischi a cui la popolazione dell’Iraq sarebbe stata esposta se il regime del terrore di Saddam fosse continuato. Ma altre persone al­ trettanto ragionevoli temono che la guerra stessa contribuisca a incrementare i rischi del terrorismo, specialmente perché essa alimenta sentimenti antiamericani e quindi favorisce il reclutamento di terroristi, dando loro motivo per compiere atti omicidi. Q uando i rischi stanno da tutte e due i corni del problema, l’idea dei «margini di sicurezza» non può risolvere da sola le controversie su cui risiede. In ogni caso, il vero problema non è se dotarsi di un margine di sicurezza, ma quanto grande questo margine di sicurezza debba essere e nei confronti di quali rischi il margine di sicurezza debba trovare applicazione. Per i rischi associati al 163

terrorismo, un ampio margine di sicurezza militerebbe a favore di un divieto generalizzato della navigazione aerea nei cieli degli Stati Uniti, un divieto i cui costi sarebbero ovviamente troppo elevati (e che a sua volta genererebbe numerosi altri rischi). Per i rischi associati all’inquinamento atmosferico e al riscaldamento globale, vietare le centrali a carbone sarebbe una mossa necessaria se i margini di sicurezza fossero fissati in modo sufficientemente elevato, ma di questi tempi un divieto del genere si rivelerebbe troppo costoso (e a sua volta sarebbe lontano dall’essere privo di rischi). Sia per gli individui sia per le società i margini di sicurezza sono scelti in base a un attento processo di valutazione dei costi e dei rischi che essi comportano.

4. L’analitica della precauzione Dovremmo a questo punto essere in grado di compren­ dere come le applicazioni del principio di precau 2Ìone contro particolari rischi possano essere descritte alla luce di quattro importanti fattori: a) il livello di incertezza che sollecita la risposta regolativa, b ) la magnitudine del danno atteso che giustifica questa risposta, c) gli strumenti prescelti nel caso in cui il principio trovi applicazione (strumenti come gli obblighi di disclosure o di adozione di certi standard tecnologici, ovvero proibizioni tout court), e d) il margine di sicurezza che trova applicazione al cospetto del d u b b io 10. Nessun individuo assennato ritiene che un’attività debba essere vietata solo perché presenta qualche rischio di danno; in questo senso una versione assolutista del principio di pre­ cauzione, mentre può avere occasionalmente qualche influenza nella p rassi11, difetta di giustificazioni teoriche anche agli occhi di chi la propone12. Un qualche livello minimo di prova dovrebbe essere richiesto prima di adottare onerose misure 10 Cfr. P. Sandin, Dimensions o f thè Precautionary Principle , in «Human & Ecological Risk Assessment», 5, 1999, p. 889. 11 Si veda J.S. Gray, Statistici and thè Precautionary Principle, in «Maritime Pollution BuÙetin», 21, 1990, p. 174. 12 Secondo P. Sandin et al ., Fi ve Charges against thè Precautionary Principle, in «Journal of Risk Research», 5, 2002, p. 287, in particolare pp. 290-291.

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dirette a evitare i rischi, quanto meno nella forma di sospetti scientificamente fondati, ovvero di prove che suggeriscono la presenza di un rischio grave. Ma la magnitudine del danno atteso è molto importante. L’esigenza di disporre di prove scientifiche dovrebbe essere meno intensa se il danno atteso nell’ipotesi che il rischio si concretizzi appare particolarmente grave. Possiam o anche identificare un ventaglio di strumenti regolativi13. Per esempio, un «principio di precauzione sup­ portante più ricerca» direbbe che, al cospetto di una pur mi­ nima ragione di preoccupazione, la prima misura da adottare sul piano precauzionale dovrebbe essere quella di finanziare maggiori ricerche sul problem a14. Il «principio di precau­ zione della disclosure informativa» direbbe che, di fronte a un dubbio, chi espone altre persone a rischi potenziali deve rivelare loro l’informazione rilevante su quei rischi. Il dibattito sull’etichettatura degli Ogm riguarda questa forma di principio di precauzione. Un «principio di precauzione dell’incentivo economico» vorrebbe che, di fronte al dubbio, quanti generano un possibile rischio siano tenuti al pagamento di una tassa o di una tariffa che corrisponda alla migliore valutazione che la collettività fa dei costi associati a quello stesso rischio. Per ogni strumento regolativo esiste un corrispondente principio di precauzione. Naturalmente l’idea del «margine di sicurezza» conosce molte possibili accezioni, in un continuum che va da un piccolo margine, concepito per reagire a rischi solo ipotizzati e in ogni caso non catastrofici, a un grande margine di sicurezza concepito per i casi peggiori che si possano immaginare. Si possono fare molti passi in avanti se si considera sin­ golarmente ciascuna delle versioni dinamiche del principio. Un principio di precauzione della disclosure informativa può apparire sensato nell’ipotesi in cui esista qualche probabili­ tà di danno, senza che le probabilità siano troppe elevate e sempre che l’entità del danno atteso sia lontana dall’apparire catastrofica. Un principio di precauzione della proibizione, 13 R.B. Stewart, Environmental Regulatory Decisionmaking under Uncertainty, in «Research in Law & Economics», 20, 2002, p. 71, in particolare p. 76. 14 Si veda J.D . Graham, Decision-Analytic Refinements of thè Precaution­ ary Principle, in «Journal of Risk Research», 4, 2001, p. 127, in particolare pp. 135-138.

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con un ampio margine di sicurezza, si giustificherebbe se le prove relative al danno fossero chiare e se l’esito apparisse particolarmente nefasto. Si consideri sotto questa luce la comunicazione della Commissione europea sul principio di precauzione, in parte sensata, ma spesso vaga e confusa l\ La comunicazione esorta a «considerare il principio nell’ambito di un approccio strut­ turato all’analisi del rischio», che include «la valutazione del rischio, la gestione del rischio, e la comunicazione del rischio». Per cui le misure fondate sul principio non devono essere cie­ camente precauzionali, non devono essere discriminatorie sul piano applicativo e devono essere coerenti con misure simili adottate in passato. La Commissione sottolinea anche che le misure precauzionali devono essere proporzionali al livello di tutela prescelto, oltre che «fondate sull’esame dei benefici e dei costi potenziali dell’azione e della inazione (inclusa, quando appropriato, un’analisi costi-benefici di taglio economico)». L’idea di una risposta proporzionale riflette la circostanza che il rischio «raramente può essere ridotto a zero» («rara­ mente» è certamente una sottostima). Il riferimento all’analisi costi-benefici riconosce in modo assai sensato la rilevanza di considerazioni di tipo non economico, incluso il livello di accettabilità di un dato rischio da parte della collettività. Ma non è così semplice combinare l’analisi costi-benefici con il principio di precauzione. Cosa fare se i costi attesi della rego­ lamentazione sono superiori ai benefici attesi da quella stessa misura regolativa? Forse la Commissione intende dire che anche in quel caso l’azione si giustifica in nome della precauzione? Sempre? Il più delle volte? Una risposta positiva è suggerita dal fatto che la Commissione sostiene «che la tutela della sa­ lute ha la precedenza su considerazioni economiche»16. Il che appare di scarso aiuto per due ragioni. In primo luogo, tutto dipende dalla sua misura; un modesto miglioramento della salute pubblica non giustificherebbe un enorme esborso di denaro (forse una spesa pari a cento milioni di dollari sarebbe ragionevole per evitare qualche piccolo problema sanitario?). 15 Commissione europea, Comunicazione della Commissione sul principio di precauzione, Brussels, 2 febbraio 2000, http://europa.eu.int/comm/dsg/ health_consumer/library/press/press38_en.html. 16 Ibidem, p. 4.

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In secondo luogo, spese ingenti possono a loro volta produrre effetti negativi per la sanità pubblica (come abbiamo visto nel capitolo I). Se il governo impone di spendere grosse quantità di denaro per la riduzione di un rischio, esiste quanto meno il rischio di un significativo incremento della disoccupazione e della povertà, ed entrambi questi fenomeni determinano un aumento di malattie e decessi. Nel valutare se intraprendere un’azione precauzionale la Commissione enfatizza anche l’importanza di una valutazione scientifica dei potenziali eventi avversi legati all’azione17. Invero, si ritiene che ricorrere al principio di precauzione presupponga «l’identificazione dei potenziali effetti negativi», unitamente a «una valutazione scientifica» che evidenzi eventuali dati imprecisi o poco significativi18. Così facendo la Commissione mostra di non ritenere che il principio possa essere invocato in mancanza di prove. La Comunicazione della Commissione lascia insoluti molti interrogativi, come ho cercato di evidenziare. Ma nella misura in cui considera il principio di precauzione come un elemento che richiede di prestare attenzione a rischi significativi, quando i costi associati al controllo di questi rischi non sono eccessivi o manifestamente sproporzionati, essa offre una buona base di partenza. Abbiamo gli elementi per comprendere in che modo andare oltre questa base di partenza e per ripensare il principio di precauzione anche a prescindere dell’esistenza di rischi incerti di catastrofe. Margini di sicurezza sono ragionevolmente im­ piegati per rischi che sollecitano le massime preoccupazioni, almeno se quei margini non generano di per se stessi danni 0 rischi rilevanti. Se un dato prodotto o una data attività generano rischi reali, ma non offrono benefici apprezzabili in concreto, abbiamo ottimi motivi per metterli al bando. 1 compiti sono quelli di identificare l’intero universo dei rischi rilevanti, specificare lo strumento regolativo appropriato, e scegliere margini di sicurezza strettamente aderenti al rischio messo a fuoco e tali da non trascurare gli ulteriori rischi che possono associarsi alla riduzione del rischio considerato. Si tratta di compiti che possono a volte rivelarsi insolubili, ma 17 Ibidem , p. 13. 18 Ibidem , p. 14.

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in molti casi un’attenzione anche minima ai problem i fondamentali che sono associati a questi compiti può preludere alla soluzione di dilemmi che impegnano sia i privati cittadini sia intere nazioni.

5.

Gestire la paura attraverso gli obblighi di «disclosure»

Negli ultimi decenni in molti hanno mostrato entusiasmo per l’idea che chi genera un pericolo deve informare la gente dei rischi creati, in modo da promuovere consapevolezza invece che ignoranza, propiziando scelte più informate. Nel mondo delle politiche regolative l’obbligo di trasmettere informazioni sembra spesso un’opzione migliore di quanto non sia la scelta dell’autorità regolativa di rimanere inerte ovvero di specifi­ care standard destinati a essere obbligatoriamente seguiti dai destinatari del comando regolativo, poiché la scelta regolativa basata sull’informazione appare meno intrusiva e lascia le persone libere di scegliere ciò che desiderano. Nel contesto dei prodotti farmaceutici e delle cure mediche, i pazienti sono spesso informati riguardo a eventi che hanno basse probabilità di verificazione, fra cui gli esiti peggiori possibili, e ciò anche se il rischio dell’esito disastroso appare davvero infimo. In generale non è forse meglio comunicare alla gente i pericoli a cui va incontro, quale che sia la probabilità di verificazione del danno temuto? Considerare da vicino la natura della paura induce, però, a valutare gli obblighi di informazione con grande cautela. Si supponga per esempio che i responsabili delle politiche regola­ tive propongano di etichettare i prodotti contenenti Ogm, per fare in modo che i consumatori sappiano cosa acquistano. O si ipotizzi che sempre i regolatori richiedano alle società che gestiscono gli acquedotti di informare i consumatori sui livelli di arsenico presenti nell’acqua che bevono dai loro rubinetti, livelli che nelle società democratiche generalmente vanno da un massimo di 25 parti per miliardo a un minimo di 5 parti per miliardo. E ragionevole ritenere che queste scelte finirebbero per causare molti più problemi di quanti contribuirebbero a risolverne. Il problema non è solo che le persone potrebbero mal interpretare la comunicazione dei rischi, considerando le 168

probabilità di essere esposte al pericolo molto maggiore di quanto non siano in realtà. Il problema è anche che questa informa­ zione potrebbe gravemente allarmare la gente, determinando varie tipologie di danni, senza dare ai destinatari del messaggio nessuna informazione realmente utile. Se le persone ignorano le probabilità, possono fissarsi sull’esito negativo, in un modo che determina ansia e stress, ma non modifica i comportamenti e non migliora la comprensione del problema. Sarebbe molto meglio comunicare alle persone non solo il rischio, ma anche il significato dell’informazione relativa alla probabilità, per esempio offrendo raffronti con altri rischi affrontati nella vita quotidiana. Ma se il rischio è basso, e appartiene a quel genere di rischi che di solito non turbano il sonno delle persone ragionevoli, è davvero importante imporre la comunicazione di informazioni che verosimilmente susciteranno alti livelli di allarme? Naturalmente la questione è tale da mettere in gioco delicati problemi attinenti alla relazione fra il rispetto dell’autonomia degli individui e la preoccupazione per il loro benessere. Per alcuni, un individuo ha il diritto di conoscere i rischi a cui è esposto. Forse la comunicazione di rischi a bassa probabilità di verificazione può giustificarsi in base al valore dell’autonomia personale, anche se questa comunicazione può determinare ansia e stress. Ma se le persone sono esposte al probability ne­ glect, e se davvero parliamo di rischi realmente poco probabili, è del tutto evidente che il valore dell’autonomia finisce per giustificare la comunicazione di un’informazione che non sarà recepita in modo utile. Come minimo, qualsiasi comunicazione che valga la pena effettuare dovrebbe essere accompagnata dal tentativo di consentire alle persone di contestualizzare il rischio che viene loro comunicato. Questa conclusione si riallaccia alle responsabilità civiche che gravano su quanti disseminano informazioni sui rischi, fra cui i rappresentati del governo, i mass media e quanti tentano di far sì che le leggi vadano in una direzione piuttosto che in un’altra. Alla luce del fenomeno del probability neglect e dell’operare dell’euristica della disponibilità, non è difficile determinare drastiche inversioni di rotta nelle valutazioni della collettività, alimentando drammaticamente la paura. Un’af­ fermazione riguardante il peggiore degli scenari possibili può alterare in modo notevole il comportamento e le opinioni della

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gente. A volte questi cambiamenti vengono giustificati come un modo di indurre una sorta di compiacenza, o di fatalismo, rispetto a rischi reali. Ma è a dir poco indesiderabile sfruttare i meccanismi psicologici per accendere le preoccupazioni della collettività quando i rischi appaiono statisticamente infimi.

6. Incrementare la paura? Si ipotizzi che il governo si prefigga di incoraggiare la gente a concentrare la propria attenzione su rischi che oggi sono generalmente ignorati. In tal caso sarebbe poco proficuo offrire maggiori informazioni sulle probabilità sottese a questi rischi, mentre sarebbe vincente fare appello alle emozioni delle persone, in modo da catalizzarle sui casi peggiori, soprattutto diffondendo vividi racconti e immagini eloquenti sugli scenari che generano allarme. Per il fumo di sigarette, l’abuso di alcol, la guida imprudente e l’abuso di droghe, ciò è esattamente quel­ lo che le autorità governative cercano di fare periodicamente. Non deve sorprendere che alcuni fra i più riusciti tentativi di ridurre il consumo di sigarette facciano appello alle emozioni della gente; per far sì che le persone si convincano che fumando diverranno i gonzi delle case produttrici di tabacco, oppure danneggeranno soggetti innocenti19, alcuni di questi tentativi sono accompagnati da immagini assai vivide di malattie e decessi causati dal fumo. Strategie di questo tipo possono correggere un ottimismo ir realistico, che è la prima causa della tendenza a trascurare rischi che invece richiederebbero di essere presi seriamente in considerazione. A causa del probability neglect, al governo non dovrebbe riuscire molto difficile fomentare le paure della collettività. Il terrorismo produce effetti esattamente per questo motivo. Ma il punto solleva seri problemi di natura etica. I cittadini dovrebbero essere trattati dal governo con rispetto, non come oggetti da spostare nella direzione che si preferisce. E sensa­ to insistere sul fatto che il governo non debba manipolare o ingannare le persone sfruttando la loro incapacità di pensare 19 Si veda L.K. Goldman e S.A. Glantz, Evaluation o f Antismoking Ad­ vertising Campaigns, in «Journal of American Medicai Association», 279, 1998, p. 772.

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ai rischi in m odo corretto. Uno scettico potrebbe ritenere che impiegare a questo fine gli scenari peggiori o immagini dram­ matiche di danni rappresenti una manipolazione inaccettabile. Ma nella misura in cui è responsabile del proprio operato di fronte al voto democratico e si impegna a disincentivare le persone dall’esporsi a gravi rischi reali, un atteggiamento del genere da parte del governo in linea di principio non dovrebbe incontrare obiezioni. Le case produttrici di tabacco, come altri soggetti che per motivi economici o per altri tornaconti voglio­ no indurre le persone a esporsi a rischi, cercano di lavorare sulle emozioni della gente. Nella misura in cui la libertà di espressione è garantita, al governo dovrebbe essere concesso di rispondere colpo su colpo. Naturalmente il problema non sempre è di facile soluzione. Con riferimento alle lotterie degli stati, i governi statali impiegano immagini che evocano facili vincite per indurre le persone a spendere soldi per acquistare biglietti il cui reale valore economico è assai prossimo allo zero. Questa strategia, tesa a sfruttare il probability neglect sul terreno della speranza, solleva indubbiamente problemi di natura etica. L a mia idea è che il governo faccia bene a fare appello alle emozioni della gente solo quando cerca di suscitare preoccupazioni in merito a rischi reali. Esiste anche una strana asimmetria fra l’incrementare e il diminuire la paura: un incidente particolarmente vivido o uno scenario peggiore sono capaci di produrre alti livelli di paura, ma gli stessi tentativi, quando sono diretti a rassicurare, producono effetti assai meno efficaci. Se oggi la gente è allarmata da un pericolo a bassa probabilità di verificazione, esiste qualcosa che il governo possa fare per diminuire questa preoccupazione? E difficile che il governo possa riuscire nell’impresa se si limita a enfatizzare le basse probabilità che il pericolo venga a esistenza. La migliore strategia in un caso del genere è probabilmente questa: cambia argomento. Ho già osservato come il dibattito in merito a rischi che hanno basse probabilità di realizzazione tenda ad aumentare le preoccupazioni della collettività, anche se è volto a offrire rassicurazioni. Forse il modo più efficace per ridurre la paura di un rischio a basso indice di inveramento è semplicemente quello di parlare d’altro, lasciando che il tempo faccia il resto. Si ricordi a questo riguardo che all’indomani degli attacchi terroristici dell’ 11 settembre il presidente Bush non ha 171

tentato di mettere in risalto come sul piano statistico i rischi che un evento simile si ripetesse fossero bassi, ma ha esortato a considerare il fatto di prendere un aereo come una sorta di gesto patriottico, che avrebbe impedito ai terroristi di ottenere ciò che volevano. Questo tentativo probabilm ente non ridusse la percezione che la gente aveva dei rischi, ma, focalizzando l’attenzione sul «significato» del prendere un aereo, molto probabilmente ha influito sui com portam enti della gente.

7.

Tecnocrati e populisti

Ma in che modo il diritto e il governo dovrebbero rispon­ dere al panico che un’intensa reazione emozionale a un rischio a bassa probabilità di verificazione suscita nella collettività? Distinguiamo due possibili posizioni. Il tecnocrate vorrebbe ignorare l’irrazionalità della collettività, per rispondere alla paura solo nella misura in cui essa si rivelasse saldam ente ancorata alla realtà. Il populista vorrebbe rispondere alle preoccupazioni della collettività, per il semplice fatto che sono preoccupazio­ ni della collettività. Secondo me, entrambe le posizioni sono troppo ingenue. Supponiamo di concordare sul fatto che il governo non debba essere preda del probability neglect o di paure in altro modo eccessive, e che sia insensato, com e regola generale, investire ingenti risorse dei contribuenti per ridurre rischi che non si verificheranno mai. Se così fosse, una società democratica dovrebbe fare i conti con un problem a piuttosto ovvio, per­ ché i politici eletti democraticamente sono sem pre fortemente incentivati a rispondere a paure eccessive, anche emanando leggi che non possono trovare giustificazione in nessun tipo di spiegazione razionale. La migliore risposta passa attraverso l’istruzione e l’informazione. Il governo non dovrebbe piegarsi alla domanda di regolamentazione avanzata dalla collettività se non esistono buone ragioni per farlo. Il ragionamento sottolinea l’importanza di assicurare agli specialisti un ruolo importante in seno al processo regolativo. Se è probabile che la domanda collettiva per un intervento regolativo sia distorta da paure ingiustificate, un ruolo decisivo dovrebbe essere affidato a esperti dell’amministrazione, meno esposti a 172

queste reazioni emotive, i quali sono nella migliore posizione per valutare se questi rischi sono reali. Naturalmente, gli esperti potrebbero sbagliare. Ma se istituzioni altamente rappresenta­ tive, rispondendo a paure collettive, possono andare incontro a errori, allora appare più che opportuno creare istituzioni che abbiano un elevato grado di isolamento. I governi democratici dovrebbero rispondere ai valori, non agli errori della gente. Ma questa posizione solleva di per sé alcuni intricati problemi. Si ipotizzi che le persone siano molto preoccupa­ te da un rischio che ha una piccola o anche una minuscola probabilità di verificazione: attacchi di squali, antrace nella posta, atti terroristici sugli aerei. Se il governo è convinto di conoscere i fatti, e se le persone mostrano di essere molto più preoccupate di quanto i fatti potrebbero giustificare, il governo dovrebbe intervenire sul piano regolativo per rispondere alle preoccupazioni della gente? O le dovrebbe ignorare, ritenen­ do irrazionali queste preoccupazioni? Si consideri dapprima l’analogia con l’individuo. Anche se la paura della collettività si mostra di per sé irrazionale, potrebbe certamente essere razionale che le persone tengano conto di quella paura per determinare i propri comportamenti. Se ho paura di volare, posso ben decidere di evitare di volare, perché la mia paura renderebbe quell’esperienza piuttosto terrorizzante, non solo durante il volo, ma anche prima. Se la paura esiste, ma non posso eliminarla, la decisione più razionale si rivela quella di non volare. Le persone fobiche spesso fanno la cosa migliore cercando di evitare le proprie fobie. Lo stesso accade a livello sociale. Si ipotizzi, per esempio, che le persone abbiano paura dell’arsenico nell’acqua potabile e che invochino misure per essere rassicurate sul fatto che i livelli di arsenico non sono pericolosi. Si ipotizzi anche che i rischi associati ai correnti livelli di arsenico siano infinitesimali. E davvero così evidente che il governo dovrebbe rifiutarsi di fare ciò che la gente vuole che faccia? La paura è per ipotesi reale. Se la gente ha paura che l’acqua che beve «non è sicura», ciò significa che le persone, anche solo per questo motivo, stanno sperimentando un danno significativo. In molti campi paure largamente diffuse contribuiscono ad alimentare una serie di problemi aggiuntivi. Possono, per esempio, far sì che la gente si mostri riluttante a intraprendere certe attività, come pren173

dere aerei o consumare certi alimenti. I costi che ne risultano possono essere estremamente elevati; il terrore generato dal morbo della mucca pazza è un esempio che ha prodotto danni per milioni dollari. Per quale motivo il governo non dovrebbe cercare di ridurre la paura, nel tentativo di generare vantaggi per il benessere collettivo? La risposta più semplice a questo interrogativo è che, se il governo è capace di informare e educare le persone, questo è ciò che dovrebbe cercare di fare. Non dovrebbe dilapidare risorse se non per misure che abbiano come effetto ridurre la paura. Ma la risposta più semplice è troppo semplice. Se l’informazione e l’istruzione funzioneranno è un problema empirico. Se non avranno effetto, il governo dovrebbe rispondere, esattamente come fanno gli individui, a paure che sono reali e che in ipotesi appaiano difficili da eliminare. Si supponga per esempio che il governo possa adottare a costi contenuti una procedura tale da ridurre un piccolo rischio a zero e, cosa altrettanto importante, tale da essere percepita dalla collettività come una procedura capace di conseguire questo obiettivo. E evidente che il gover­ no dovrebbe adottare tale misura, che potrebbe rivelarsi più efficace e meno costosa dell’istruzione e dell’informazione. Si ricordi infatti che la paura è un costo sociale, che a sua volta è suscettibile di generare altri costi sociali. Se, per esempio, le persone hanno paura di volare, l’economia ne risentirebbe in vari modi; lo stesso accadrebbe se la gente avesse paura di spedire o ricevere la posta. La riduzione di paure anche prive di basi reali è un bene sociale, non foss’altro che per gli «effetti domino» potenzialmente enormi che esse possono determinare20. Nel contempo vi sono alcune complicazioni di ordine pra­ tico. Se il governo prova a ridurre la paura regolamentando l’attività da cui essa promana, questa scelta potrebbe anche finire per intensificare quella stessa paura, per il solo fatto di lasciar intendere alla gente che quell’attività merita d’essere regolata. Per un esempio sul filo dell’analogia si torni al di­ battito sull’opportunità di imporre l’etichettatura obbligatoria degli alimenti contenenti Ogm. Le etichettature obbligatorie potrebbero segnalare l’esistenza di pericoli che non esistono. 20

Si veda N. Pidgeon, R.E. K asperson e P. Slovic (a cura di), The Social

Amplification o f Risk, New York, Cam bridge University Press, 2003.

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A volte la paura che accompagna il probability neglect dimi­ nuisce nel tempo, man mano che l’esperienza sposta l’attività o il processo dalla categoria cognitiva delT«insicuro» a quella del «sicuro». Una strategia regolativa potrebbe impedire che questo processo (che appare positivo, quando il rischio è dav­ vero basso) abbia luogo. In tal caso l’inazione regolativa può apparire la scelta preferibile. Anche quando appare evidente che il governo debba inter­ venire, restano sul tappeto molti interrogativi. In che modo e quanto il governo deve rispondere? La risposta dipende dalla misura della paura e dai costi della risposta. Se le persone han­ no molta paura, una risposta decisa è ovviamente agevole da giustificare. Se il costo della risposta è assai elevato, il rifiuto di intervenire potrebbe apparire sensato. E necessario conoscere quante cose positive e quanti danni determinerà la risposta in questione. Ciò che voglio sottolineare è che la paura della collettività è una preoccupazione indipendente, e può di per se stessa rappresentare un costo elevato, determinando gravi costi collaterali. Se la paura collettiva non può essere alleviata senza riduzione del rischio, allora il governo dovrebbe ragio­ nevolmente preoccuparsi di ridurre il rischio.

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CAPITOLO SESTO

COSTI E BENEFICI

L’analisi costi-benefici è divenuta uno strumento sempre più diffuso per valutare e gestire i rischi sociali. Essa è spesso invocata in alternativa al principio di precauzione. Invece di «prendere precauzioni» alla cieca, si sostiene, i responsabili delle scelte regolative dovrebbero mettere a confronto i benefici della regolamentazione con i suoi costi, scegliendo l’opzione che massimizza i benefici netti. Questo approccio è spesso giustificato in base ad argomenti di efficienza economica. In base a esso i responsabili della regolamentazione dovrebbero agire se i benefici legati alla misura in questione sono maggiori dei suoi costi, e non in caso contrario. Non sono d’accordo con questa tesi. L’efficienza è rilevante, ma non è l’unico obiettivo della regolamentazione. I cittadini di una società democratica potrebbero decidere di proteggere le specie in via di estinzione o le aree incontaminate, anche se farlo non si rivelasse efficiente. E se le fasce più povere della popolazione traessero benefìci dalla tutela offerta loro dalla re­ golamentazione, potrebbe valere la pena di implementare questa tutela, anche se le fasce più ricche della popolazione perdessero qualcosa in più di quanto andasse a vantaggio dei poveri. Credo che gli argomenti fin qui analizzati creino i pre­ supposti per considerare con favore un’analisi costi-benefici cognitiva, ovvero un’analisi costi-benefici che non dipenda dall’efficienza economica tout court, ma che sottolinei la pos­ sibilità che una spiegazione in termini di costi e benefici può offrire una risposta ai problemi che gli esseri umani incontrano quando si relazionano ai rischi. Se l’euristica della disponibilità induce le persone a stimare le probabilità in modo erroneo, allora l’analisi costi-benefici può dare alle persone un’idea più accurata del danno in difesa del quale viene invocata tutela. Se il probability neglect spinge le persone a mettere a fuoco 177

gli scenari peggiori trascurando le probabilità che essi si veri­ fichino, allora enfatizzare i costi e i benefici permette di capire meglio la posta in gioco. Se le persone sono poco propense a valutare i prò e i contro, allora l’analisi costi-benefici è un correttivo naturale a questa tendenza. Per la modificazione genetica delle sostanze alimentari, il riscaldamento globale, l’inquinamento dell’acqua potabile e per molto altro ancora è importante soppesare, con le modalità migliori che ci sono consentite, cosa si guadagnerà e cosa andrà perduto seguendo le varie opzioni disponibili. Una spiegazione dei costi e dei benefici è un ingrediente importante nell’analisi del rischio. Dovrebbe essere vista non come un bieco calcolo aritmetico vincolante, ma come un metodo utile a dimostrare cos’è in gioco nelle scelte. E una modalità importante per gestire la paura collettiva, creando una sorta di sistema II suscettibile di correggere le euristiche e i pregiudizi del sistema I. Non sto sostenendo che l’analisi costi-benefici debba dominare le decisioni regolative. Questo tipo di analisi non stabilisce una regola attraverso la quale prendere le decisioni. I cittadini di una società democratica possono scegliere di agire anche se i costi eccedono i benefici, ma, se decidono di farlo, dovrebbero farlo dopo aver ricevuto il tipo di informazioni che l’analisi costi-benefici può mettere a loro disposizione. E se scelgono di imporre costi sproporzionatamente elevati rispetto ai benefici attesi, i responsabili della regolamentazione devono spiegare i motivi della loro scelta. Ma che relazione corre fra il principio di precauzione e l’ana­ lisi costi-benefici? Come abbiamo visto, la Commissione europea ha fatto suo il principio, ma ha anche sottolineato che l’analisi costi-benefici deve avere un ruolo nell’applicazione del principio. Tuttavia, nel sostenere questo, la Commissione ha aggiunto che la salute deve essere considerata prioritaria rispetto al denaro. Ho già rilevato in senso critico che una tale affermazione appare comicamente inutile. Se la salute fosse promossa solo un poco, non dovrebbero essere spese enormi quantità di denaro, tenendo conto che quel denaro potrebbe essere speso per altri problemi di salute, e che spese troppo ingenti possono a loro volta causare problemi di salute. Ritengo che sarebbe meglio accogliere l’analisi costi-benefici, tenendo ferma l’idea che le precauzioni, specie quelle destinate a contrastare le grandi catastrofi, debbano giocare

178

un ruolo nell’applicazione di questo tipo di analisi. Il principale vantaggio dell’analisi costi-benefici sul principio di precauzione è che, invece di offrire una visuale limitata, essa mette a disposizione un campo di osservazione assai ampio. Naturalmente i critici dell’analisi costi-benefici obiettano che senza precauzioni gli analisti finiranno per trascurare rischi che in seguito si riveleranno gravi. L’obiezione coglierebbe nel segno se l’analisi costi-benefici richiedesse la prova e la certez­ za del beneficio prima di poterlo considerare tale nell’ambito dell’analisi. Ma i migliori analisti non richiedono né la prova né la certezza. Loro sanno che, se esiste una chance pari a 1/1.000 di salvare 50.000 vite, il valore atteso della regolamen­ tazione è 50 vite, non zero. Essi sanno, inoltre, che i cittadini possono voler costruire un margine di sicurezza nell’ambito di regolamentazioni concepite per tutelarsi da danni ingenti con modeste probabilità di verificazione, sicché un rischio pari a 1/1.000 di 50.000 morti può meritare maggiore attenzione di un rischio pari a 1/100 di 5.000 morti. Nessun aspetto dell’analisi costi-benefici può risolvere i problemi valutativi. Coloro che impiegano questo strumento non respingono l’idea dei «margini di sicurezza». Cercano di valutare i costi e i benefici in modo da migliorare la cognizione individuale e sociale dei rischi. Altrove ho provato a spiegare perché sul piano cognitivo si debba favorire l’analisi costi-benefici1. Qui voglio mettere a fuoco un altro problema, che spesso è invocato da quanti nutrono scetticismo per l’analisi costi-benefici. Cosa implica davvero l’analisi costi-benefici? Come possiamo ricavare somme di denaro per valutare i rischi sociali? Come valutiamo la vita e la paura? Il mio principale obiettivo è fare qualche passo in avanti nella comprensione di questi problemi. L’idea di fondo è che i governi devono assegnare valori monetari ai rischi tenendo presente i valori monetari che la gente comune assegna a questi ultimi. Ritengo questa idea molto condivisibile e coerente. Ma sono anche persuaso che le pratiche correnti soffrano di due gravi problemi, i quali derivano dalla medesima teoria che dovrebbe giustificare le attuali pratiche. Anzitutto, rischi che sul piano statistico appaiono identici non sono considerati dalle persone 1 Si veda C.R. Sunstein, Risk and Reason, Cambridge, Cambridge Uni­ versity Press, 2002. 179

in modo identico. Le persone percepiscono una differenza fra un rischio pari a 1/100.000 di morire per Aids, per un incidente aereo, per Alzheimer, per cancro o per un incidente sul lavoro. In secondo luogo, persone e gruppi differenti valutano i rischi in modo diverso l’uno dall’altro. Ci sono persone che esibiscono un’intensa avversione a rischi che invece altri considerano con tranquillità. Le persone anziane non pensano ai rischi come fanno i giovani; ed esistono differenze in base alla razza, al sesso e al ceto sociale. Queste obiezioni non revocano in dubbio la teoria su cui riposano le pratiche correnti (di analisi costi-benefici), ma suggeriscono che, se la teoria è giusta, è necessario che queste pratiche siano modificate in modo piuttosto radicale. In breve, mi propongo di prendere la teoria attuale in modo molto serio, più serio di quanto sia considerata da quanti la im­ piegano oggigiorno. Naturalmente molti professano scetticismo nei confronti di questa teoria, essendo convinti che essa offra un punto di partenza sbagliato per concepire politiche di gestione dei rischi ambientali e sociali2. Affronterò queste argomentazioni e i problemi teorici fondativi nel prossimo capitolo. Guardiamo adesso come l’analisi costi-benefici viene praticata oggigiorno. 1. Il mondo reale dell’analisi costi-benefici: cosa fanno le agenzie e perché E ormai una prassi consolidata che le agenzie regolative assegnino valori monetari alle vite umane. Negli Stati Uniti la Environmental Protection Agency impiega un valore unifor­ me per la vita statistica {Value for Statistical Life, da qui in in avanti Vsl): 6,1 milioni di dollari3. Si consideri la tabella 6.1, che illustra le pratiche delle agenzie dal 1996 al 2003. 2 Si veda F. Ackerman e L. Heinzerling, Priceless: On Knowing thè Price of Everything and thè Value of Nothing, New York, New Press, 2004. 3 Si veda 66 Fed. Reg. 6979, 7012 (22 gennaio 2001). Nella normativa emanata nel luglio 2003 in materia di etichettatura degli acidi grassi, la Food and Drug Administration ha impiegato un Vsl pari a 6,5 milioni di dollari: si veda 68 Fed. Reg. 41434, 41489 (11 luglio 2003); nella proposta di regola­ mentazione del 13 marzo 2003 in tema di ingredienti e integratori dietetici, la medesima agenzia ha indicato un Vsl pari a 5 milioni di dollari: si veda 68 Fed Reg. 12158,12229-12230 (13 marzo 2003), ove questo valore è impiegato per ricavare il valore giornaliero di una vita statistica.

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Tab. 6.1. Valori della vita impiegati dalle varie agenzie regolative statunitensi, 1996-2003 Agenzia

Tipo di regolamentazione e data di emanazione

Department of Tran­ sportation/Federai Motor Carrier Safety Administration

Requisiti di sicurezza per operatori di piccoli veicoli a motore adibiti a trasporto passeggeri impiegati nel commercio interstatale (12 agosto 2003 , 68 FR 47860-01) Department of Health Etichettatura alimentare: acidi & Human Services/ grassi nell’etichettatura dei valori Federai Drug Adminis­ nutrizionali, affermazioni riguardan­ tration ti i valori nutritivi e affermazioni riguardanti la salute (11 luglio 2003, 68 FR 41434-01) Controllo dei monocitogeni della Department of AgriI-Listeria nei prodotti a base di carne culture Food Safety & bovina e pollo pronti per essere Inspection Service consumati (6 giugno 2003, 68 FR 34208-01) Department of Health & Requisiti di etichettatura relativi a farmaci antibatterici sistemici a uso Human Services/Federai umano Drug Administration (6 febbraio 2003, 68 FR 6062-01) Rapporto al Congresso sui costi Office of Management e benefici della regolamentazione & Budget federale (3 febbraio 2003, 68 FR 5492-01) Controllo sulle emissioni causate Environmental Protecdai motori a scoppio non impie­ tion Agency gati su veicoli per la circolazione stradale e impiegati a fini ricreativi (marini e terrestri) (8 novembre 2002, 67 FR 68242-01) Principale regolamentazione Environmental Protecnazionale dell’acqua potabile: tion Agency arsenico, chiarimenti per imple­ mentare le regole e nuove fonti contaminanti (22 gennaio 2001, 66 FR 6976-01) Environmental Protection Agency

Controllo dell’inquinamento dell’aria determinato da nuovi autoveicoli: requisiti per i motori a grande potenza e controllo dei solfuri del gasolio venduto sulle autostrade (18 gennaio 2001, 66 FR 5002-01)

Valore della vita statistica considerato ($) 3 milioni

6,5 milioni

4,8 milioni

5 milioni

5 milioni

6 milioni

6,1 milioni

6 milioni

181

Agenzia

Tipo di regolamentazione e data di emanazione

Environmental Protection Agency

Controllo dell’inquinamento dell’aria determinato da nuovi autoveicoli: requisiti delle emissioni di veicoli a motore Tier 2 e requisiti per il con­ trollo dei solfuri della benzina (10 febbraio 2000, 65 FR 6698-01)

5,9 milioni

Environmental Protection Agency

Riscontro di significativa contribu­ zione e determinazione delle regole riguardanti la petizione basata sulla Section 125 volta a ridurre il trasposto di ozono interstatale (18 gennaio 2000, 65 FR 2674-01)

5,9 milioni

Environmental Protection Agency

Requisiti finali per le sostanze pericolose inquinanti dell’aria e per i combustibili nello smaltimento di sostanze pericolose (30 settembre 1999, 64 FR 52828-01)

5,6 milioni

Environmental Protection Agency

Principale regolamentazione nazio­ nale dell’acqua potabile: disinfettan­ ti e prodotti della disinfestazione (16 dicembre 1998, 63 FR 69390-01)

5,6 milioni

Department of Trans­ portation/Federai Aviation Agency

Requisiti per la responsabilità finanziaria per le attività di lancio autorizzate (26 agosto 1998, 63 FR 45592-01)

Department of Health & Human Services/Federai Drug Administration

Requisiti di qualità per le mammo­ grafie (28 ottobre 1997, 62 FR 55852-01)

2-3 milioni

Department of Health & Human Services/Federai Drug Administration

Regolamentazione limitante la ven­ dita e la distribuzione di sigarette e tabacco senza fumo per proteggere bambini e adolescenti (28 agosto 1996, 61 FR 44396-01)

2,5 milioni

Department of Agriculture Food Safety & Inspection Service

Riduzione degli agenti patogeni; analisi dei pericoli e sistemi di controllo dei punti critici (Haccp) (25 luglio 1996, 61 FR 38806-01)

1,6 milioni

Department of Trans­ portation/Federai Aviation Agency

Impiego dei simulatori di volo nell’addestramento, valutazione e controllo dei piloti nei centri di addestramento (2 luglio 1996, 61 FR 34598-01)

2,7 milioni

Consumer Product Safety Commission

Requisiti per l’etichettatura di container per il commercio di carbone da legna (3 maggio 1996, 61 FR 19818-01)

Consumer Product Safety Commission

Dispositivi per i fuochi d ’artificio dotati di grandi tubi multipli (26 marzo 1996, 61 FR 13084-01)

182

Valore della vita statistica considerato ($)

3 milioni

5 milioni

3-7 milioni

La prima domanda è chiedersi in che modo le agenzie ri­ cavano valori monetari di questo genere. La risposta deriva da due tipi di prove. La prima e più importante di esse riguarda i mercati reali, dai quali possono ricavarsi informazioni sui livelli di risarcimento richiesti per affrontare determinati rischi4. Sui luoghi di lavoro e per i beni di consumo, una sicurezza aggiuntiva ha un certo costo; le prove del mercato vengono ricercate per identificare quel prezzo5. Il secondo tipo di prove è ottenuto da studi di valutazione contingente nei quali viene chiesto alla gente quanto sarebbe disposta a pagare per ridurre alcuni rischi stati­ stici6. Il valore di 6,1 milioni di dollari identificato dall’Epa è il prodotto di studi relativi a rischi sui luoghi di lavoro, con i quali si è tentato di determinare quanto vengono pagati i lavoratori per accettare pericoli che aumentano la mortalità7.1 rischi rilevanti oscillano di solito da 1/10.000 a 1/100.000. Il calcolo del Vsl è determinato dalla semplice aritmetica. Si ipotizzi che i lavoratori Tab. 6.2. Studi sul valore della vita Studio

Metodo

Kniesner e Leith (1991)

Mercato del lavoro

0,7 milioni

Smith e Gilbert (1984)

Mercato del lavoro

0,8 milioni

Dillingham (1985)

Mercato del lavoro

1,1 milioni

Marin e Psacharopoulos (1982)

Mercato del lavoro

3,4 milioni

V.K. Smith (1976)

Mercato del lavoro

5,7 milioni

Valore della vita statistica ($)

Viscusi (1981)

Mercato del lavoro

7,9 milioni

Leigh e Folsom (1984)

Mercato del lavoro

11,7 milioni

Leigh (1987)

Mercato del lavoro

12,6 milioni

Garen (1988)

Mercato del lavoro

16,3 milioni

Fonte: United States Environmental Protection Agency, Guidelines{or Preparing Economics Analyses, Washington, United States Printing Office, 2000, p. 89.

4 Si veda W.K. Viscusi, Fatai Tradeoffs. Public and Private Responsibilities for Risky New York, Oxford University Press, 1992. 5 Una visione d ’insieme utile e completa si trova in W.K. Viscusi e J.E. Aldy, The Value of Statistical Life. A Criticai Review of Market Estimates Throughout thè World, in «Journal of Risk & Uncertainty», 27, 2003, p. 5. 6 Si veda, per esempio, J.K . Hammitt e J.-T. Liu, Effects ofDisease Type and Latency on thè Value o f Mortality Risk, in «Journal of Risk & Uncer­ tainty», 28, 2004, p. 73. 7 Si veda Viscusi, Fatai Tradeoffs, eit.

183

debbano essere pagati 600 dollari in media per affrontare un rischio di 1/10.000. Se così fosse, il valore di una vita statistica dovrebbe essere determinato in 6 milioni di dollari. Per uno sguardo ad alcune delle due dozzine di studi su cui le agenzie fanno correntemente affidamento, si consideri la tabella 6.28. Naturalmente sono molti i dubbi che potrebbero essere sollevati sul modo in cui questi studi vengono impiegati dalle agenzie regolative9. La cosa più evidente è che gli studi rivelano una significativa eterogeneità nelle cifre cruciali, che spazia dagli 0,7 milioni, in dollari del 1991, a 16,3 milioni di dollari. L’Epa ha adottato la cifra di 6,1 milioni di dollari perché rappresenta la cifra media degli studi considerati. Ma si corre il rischio di essere arbitrari facendo affidamento su una media, specie se non si ha motivo di credere che lo studio rilevante sia il più accurato. Infatti, una considerazione più generale dei dati relativi al Vsl innesca dubbi ulteriori, individuando differenze ancora maggiori fra le cifre considerate. Alcuni studi riscontrano semplicemente che non esiste alcun differenziale risarcitorio, e indicano un Vsl pari a zero (il meno che si possa dire è che questo appare un valore implausibilmente basso per essere impiegato a fini di policy) 10. Altri addirittura rilevano che i lavoratori non appartenenti al sindacato ricevono differenziali risarcitori negativi, ovvero che i lavoratori sono pagati di meno per fronteggiare un certo rischio di mortalità11. Un altro studio riscontra che gli afroamericani non ricevono un particolare differenziale risarcitorio, per cui il loro Vsl specifico sarebbe pari a zero12. D ’altro canto, è anche 8 Si veda United States Environmental Protection Agency, Guidelines for Preparing Economics Analyses , Washington, United States Printing Office, 2000, p. 89. 9 Per una rassegna di questi problemi si vedano R.W. Parker, Grading thè Government , in «University of Chicago Law Review», 70, 2003, p. 1345; e R.H. Frank, C.R. Sunstein, Cost-Benefit Analysis and Relative Position , in «University of Chicago Law Review», 68, 2001, p. 323. 10 Si veda P Dorman e P. Hagstrom, Wage Compensation for Dangerous Work Revisited , in «Industriai & Labor Relations Review», 52, 1998, n. 1, p. 116 (gli studi qui discussi esaminano le dinamiche di costo salariale per i lavori rischiosi, N .d.T). 11 Viscusi e Aldy, The Value o f Statistical L ife , eit., p. 44. 12 J.D. Leeth e J. Ruser, Compensating Wage Differentials for Fatai and Nonfatal Injury Risk hy Gender and Race , in «Journal of Risk & Uncertainty», 27, 2003, p. 257.

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possibile rinvenire studi che si concludono elaborando un Vsl che non è inferiore di quelli elencati nella tabella 6.1, bensì maggiore; si pensi al riscontro in base al quale le persone che scelgono lavori poco rischiosi avrebbero un Vsl pari a 22 milioni di dollariB. La rassegna più completa riscontra che la maggior parte degli studi indicano una cifra che oscilla dai 3,8 milioni dol­ lari ai 9 milioni di d o llari14. Questo differenziale fra le stime è piuttosto stretto, in un modo che si mostra funzionale alle decisioni d e ll’agenzia; per molti tipi di regolamentazione l’esito finale della valutazioni costi-benefici non sarà influen­ zato dalla scelta di impiegare come riferimento 3,8 oppure 9 milioni di dollari. Ma quel differenziale lascia ancora uno spazio significativo alla discrezionalità, in un modo che può avere im plicazioni significative sul piano politico e giuridico. Si consideri il fatto che il valore monetizzato di un programma che salva 200 vite può oscillare fra i 760 milioni e 1,8 miliardi di dollari; si consideri anche il fatto che l’altamente pubbli­ cizzata regolam entazione dell’arsenico concepita dall’Epa non supererebbe un ’analisi costi-benefici se si considerasse un Vsl di 3,8 milioni, ma lo passerebbe agevolmente se si prendesse a riferimento un Vsl di 9 milioni di dollari15. La constatazio­ ne più sem plice è che la varietà degli esiti mette in dubbio l’affidabilità di qualsiasi cifra. Si aggiunga che la maggior parte degli studi su cui l’Epa si basa elabora dati risalenti agli anni settanta. Da allora si è registrata una significativa crescita della ricchezza nazionale, al punto da suggerire che qualsiasi Vsl ricavato da dati degli anni settanta sia troppo basso. Naturalmente le persone più ricche sono disposte a pagare di più, a parità di condizioni, per ridurre i rischi statistici. Uno studio riscontra come all’inizio del X X secolo il Vsl fosse pari a 150.000 dollari attuali, meno di un 13 Viscusi e Aldy, The Value o f Statistical Life , eit., p. 23. 14 Ibidem , p. 18. 15 Si veda C.R. Sunstein, The Arithmetic o f Arsenic, in Id., Risk and Reason , eit., p. 153. La stima dei costi legati alla regolamentazione era pari a circa 200 milioni di dollari, mentre i suoi benefici in termini monetari erano calcolati in una somma di circa 190 milioni di dollari. Dovrebbe essere facile rendersi contro che un Vsl pari a 3,8 milioni di dollari renderebbe impossibile difendere la regolamentazione in questione, mentre un Vsl di 9 milioni di dollari renderebbe impossibile criticarla.

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ventesimo della cifra che quantifica il Vsl un secolo d o p o 16. Si può ragionevolmente assumere che l’impiego di dati degli anni settanta da parte dell’Epa ha determinato una significa­ tiva sottovalutazione del valore monetario della vita preso in considerazione, in quanto la cifra di 6,1 milioni di dollari non adotta correttivi per considerare la crescita della ricchezza nazionale intervenuta nel frattem po17. In linea di principio, l’incapacità di tener conto di questo dato è un grave errore. Il valore attualizzato potrebbe rivelarsi molto più a lto 18. Ma è ancora più importante sottolineare come le cifre rilevanti possano essere ritenute attendibili solo nella misura in cui non siano il prodotto della mancanza di informazione e della razionalità limitata delle persone che hanno compiuto le scelte da cui quelle cifre sono tratte. Si ipotizzi per esempio che i lavoratori non conoscano il rischio che fronteggiano o che la loro scelta sia determinata dall’euristica della disponibilità o da un optimistic bias. Se così fosse, i responsabili della regola­ mentazione, nel compiere le loro valutazioni, non dovrebbero impiegare un riscontro in base al quale i lavoratori sono pagati 60 dollari per sfidare un rischio pari a 1/100.000, perché si può ipotizzare che quella cifra non rifletta una valutazione ponderata e razionale effettuata da lavoratori informati. Tor­ nerò su questi rilievi nel prossim o capitolo. L e pratiche attuali 16 Si veda Viscusi e Aldy, The Value of Statistical Life , eit., p. 22. 17 L'Epa ha aggiornato i numeri rilevanti all’inflazione, ma non ha operato altre modifiche. 18 Si veda D.L. Costa e M.E. Kahn, The Rising Price of Nonmarket Goods, in «American Economie Review», 93, 2003, p. 227, in particolare p. 229, tabella 1, ove si indica un valore attualizzato alla data della pubblicazione pari a 12 milioni di dollari. Per alcune evidenze in merito al fatto che gli importi correntemente impiegati sono troppo bassi, cfr. W.K. Viscusi, Racial Differences in Labor Market Values of Statistical Life , in «Journal of Risk and Uncertainty», 27, 2003, p. 239, in particolare p. 252, tabella 5, il quale riscontra valori che arrivano a 15,1 milioni di dollari nel caso di individui maschi di razza bianca. Nel contesto della regolamentazione delParsenico, PEpa nel corso della sua analisi della sensibilità ha osservato che una modifica opportuna aumenterebbe il Vsl dagli attuali 6,1 a 6,7 milioni di dollari, cfr. 66 Fed. Reg. 6979, 7012 (22 gennaio 2001). Per evidenze recenti che attri­ buiscono alla vita il valore (in milioni di dollari) pari a rispettivamente 4,7 (per la media delPintero campione), di 7 (per gli operai di sesso maschile) e di 8,5 (per quelli di sesso femminile), cfr. W.K. Viscusi, The Value of Life. Estimates with Risks by Occupation and Industry, in «Economie Inquiry», 42, 2004, p. 29.

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non sono fondate sull’assunto che tutti o la maggior parte dei lavoratori compiano scelte informate, ma sul fatto che i pro­ cessi del mercato assicurino il giusto «prezzo» per vari livelli di sicurezza. Mettete a confronto i prezzi del sapone, dei cereali e dei telefoni: la maggior parte dei consumatori non dispongono di una piena informazione e molti di loro impiegano euristiche fuorviami, ma la concorrenza di mercato produce una struttura dei prezzi che appare sensata, almeno il più delle volte. Assumiamo (senza necessariamente essere d’accordo) che i problemi del caso possano essere risolti, e che si possa identificare una cifra, poniamo 6 milioni di dollari, che riflette davvero le valutazioni della gente. Dovrebbe essere evidente che, se anche fosse vero, sarebbe gravemente fuorviante trarre la seguente con­ clusione: il valore di una vita statistica è pari a 6 milioni di dollari. Sarebbe molto più preciso dire che per rischi pari a 1/10.000, la Wtp nella popolazione rilevante è pari a 600 dollari, o che per rischi pari a 1/100.000 la Wtp media è 60 dollari. Se fossero vere, queste affermazioni, in base a ragionamenti che attendono d’esser verificati, si rivelerebbero particolarmente utili a fini regolativi. Ma, anche a uno sguardo superficiale, possiamo riscontrare come questi numeri non possano essere invocati a supporto di un Vsl insensibile a differenze sul piano delle probabilità. Si ipotizzi che le persone siano disposte a pagare 60 dollari per ridurre un rischio pari a 1/100.000. Questo non significa che la gente sia disposta a pagare 6 dollari per ridurre un rischio pari a 1/1.000.000, ovvero 6.000 dollari per ridurre un rischio pari a 1/1.000, o ancora 60.000 dollari per ridurre un rischio pari a 1/100. E plausibile ritenere che la Wtp delle persone per ridurre un rischio statistico non sia lineare19. AU’awicinarsi delle probabilità alla soglia del 100 per cento, le persone diven­ tano disposte a pagare una quantità di denaro che aumenta in modo non lineare fino al 100 per cento del proprio salario; più il rischio si avvicina a una stima dello zero per cento, più la Wtp si avvicina in modo non lineare allo zero. Per un rischio pari a 1 su un milione, per esempio, molta gente ragionevolmente potrebbe non essere disponibile a pagare alcunché, considerando il rischio in modo non consequenziale. 19 Si veda R. A. Posner, Catastrophe. Risk and Response, New York, Oxford University Press, 2004, pp. 166-171.

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Perciò l’affermazione che il Vsl è pari a 6,1 milioni dollari è solo una scorciatoia per dire che le persone sarebbero disposte a pagare da 600 a 60 dollari per eliminare rischi che vanno da 1/10.000 a 1/100.000. Poiché è questo l’am bito dei rischi con i quali molte agenzie si confrontano, un simile riscontro è altamente informativo. Per le finalità qui perseguite si tratta di un dato cruciale. Il problema - che sviluppo in questo capitolo - è che il Vsl inevitabilmente varierà a seconda dei rischi e delle persone. Cominciamo con il verificare la variabilità dei rischi.

2. Rischi Come anticipato, il dato empirico dal quale viene ricavata la cifra di 6,1 milioni di dollari è relativo ai rischi fronteggia­ ti dai lavoratori sul luogo di lavoro, e ho osservato che, se anche questo dato può essere generalizzato, esso comunque non potrebbe giustificare un Vsl calcolato senza tener conto della probabilità del rischio. M a c ’è un aspetto che assume un’importanza pratica ancor maggiore. Un rischio di morire in un incidente sul lavoro pari a 1/100.000 potrebbe certamente produrre una Wtp diversa da quella derivante dalla prospettiva di sfidare un rischio (sempre pari a 1/100.000, ma) di morire di cancro a causa dell’inquinamento atm osferico, che a sua volta potrebbe evidenziare una Wtp diversa rispetto a quella determinata dalla volontà di evitare un rischio pari a 1/100.000 di morire in un incidente aereo dovuto a un attacco terroristico; e quella cifra potrebbe risultare ancora diversa da quella ricavata da chi debba dimostrare la sua disponibilità a pagare per evitare un rischio pari a 1/100.000 di morire a causa di un gatto delle nevi difettoso. E la stessa teoria su cui si fonda l’attuale modo di impiegare il Vsl da parte del governo statu­ nitense a giustificare una semplice conclusione: il Vsl dovrebbe essere ricavato specificatamente in base ai vari rischi e non essere considerato in misura identica per rischi statisticamente (ma non qualitativamente) equivalenti. L’im piego di un valore unitario produce errori significativi.

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2.1. D ati Cominciamo col notare che la stessa categoria degli incidenti sul lavoro nasconde importanti differenze. Ogni economia si compone di diversi ruoli occupazionali e di diverse imprese, e un Vsl uniforme non potrebbe ricavarsi da ciascuno di essi. Invero, uno studio recente riscontra differenze significative fra ruoli occupazionali e imprese, con i lavoratori dell’industria che mostrano un Vsl più alto di altri20. E inevitabile che una gamma assai am pia e com posita di valori emergerebbe dall’effettua­ zione di studi che analizzassero separatamente gli operatori di macchina, i manager, gli addetti alle vendite, gli odontotecnici, gli addetti alla pulizia delle attrezzature, le guardie giurate, i segretari, e indubbiam ente valori differenti potrebbero essere riscontrati all’interno delle diverse categorie. Si aggiunga che molti rischi sorvegliati dall’Epa sono quali­ tativamente diversi dai rischi sui luoghi di lavoro che l’agenzia ha utilizzato per generare il Vsl impiegato correntemente. Due differenze sono particolarmente importanti. Anzitutto, gli studi sui rischi sul lavoro riguardano incidenti e non tumori, e nelle decisioni dell’E p a spesso sono i rischi di tumore a essere presi in considerazione. Esistono prove significative in merito al fatto che il rischio associato ai tumori produce una Wtp maggiore di quella registrata per altre tipologie di rischio21. Per esempio, James H am m itt e Jin-Tan Liu hanno riscontrato come a Taiwan la Wtp per eliminare il rischio di tumore sia più alta di circa un terzo rispetto a quella registrata per eliminare un rischio di una m alattia simile cronica e degenerativa22. Alcuni studi che offrono valutazioni contingenti indicano che per prevenire il cancro le persone sono disposte a pagare il doppio di quanto sarebbero disposte a pagare per eliminare il rischio di una morte istan tanea23. La gente dunque sembra nutrire una paura particolare per i tumori, e sembra disposta a pagare di più per 20 Viscusi, The Value o f Life, eit., pp. 39-41. 21 Si veda R. Revesz, Environmental Regulation, Cost-Benefit Analysis, and thè Discounting of Human Lives, in «Columbia Law Review», 99, 1999, p. 941, in particolare pp. 962-974. 22 Si veda Hammitt e Liu, Effects ofDisease Type and Latency on thè Value of Mortality Risk, eit. 23 Si veda ibidem.

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prevenire una morte determinata dal cancro anziché per una morte istantanea non annunciata, o un decesso da malattia cardiaca24. Il «prem io da tum ore» potrebbe essere determinato dalla sua natura «terrorizzante». E am piam ente assodato che i rischi particolarmente terrorizzanti producon o una specifica preoccupazione sociale, anche se esprim ono un valore di veri­ ficazione statistica equivalente a quello di altri rischi. Certo, le prove di cui d ispon iam o in m erito a questo problema non appaiono prive di am biguità. Uno studio sulle esposizioni al rischio legate al luogo di lavoro non riscontra un Vsl significativamente m aggiore nel caso dei rischi di tum ore25. Ma quello studio assum eva che i tum ori legati alla esposizione relativa al luogo di lavoro contassero per il 10-20 per cento di tutti i decessi da tumore, una stima che probabilm ente è troppo alta. Se l’esposizione ai tum ori legata al luogo di lavoro fosse alla base del 5 per cento di tutti i decessi per tum ore - una proporzione più realistica - , allora il Vsl ricavato dal rischio di tumore potrebbe quantificarsi in 12 milioni di dollari, circa il doppio dell’importo correntem ente utilizzato dall’Epa. In linea di principio gli im porti del Vsl dovrebbero essere ricavati con riferimento a rischi specifici; e disponiam o di informazioni sufficienti per ipotizzare che i rischi di tum ore producano un Vsl straordinariam ente elevato. La seconda fondam entale differenza fra i rischi relativi al luogo di lavoro e i rischi con i quali l’E p a si confronta riguarda il fatto che questi ultimi appaiono particolarm ente involontari e incontrollabili26. D iversam ente dai rischi legati agli incidenti sul lavoro, la m aggior parte dei rischi legati alFinquinamento non sono assunti volontariam ente in cam bio di una somma ricevuta a titolo di retribuzione27. Se si vive in una città mol­ 24 Si veda G .S. Tolley et al., State-of-the-Art Health Values, in G .S. Tolley, R. Fabian (a cura di), Valuing Health for Policy, Chicago, Chicago University Press, 1994, pp. 339-340. 25 Si veda Viscusi e Aldy, The Value o f Statistical Life, eit., p. 22. Nello stesso senso si veda W.A. Magat et al., A Reference Lottery Metric for Valuing Health, in «Management Science», 42, 1996, p. 1118, ove non si riscontrano differenze fra le valutazioni relative alla morte a seguito di tumore e quelle relative alla morte causata da incidente stradale. 26 Si veda Ackerman e Heinzerling, Priceless, eit. 27 Naturalmente è possibile mettere in dubbio l’idea che i rischi legati al luogo di lavoro siano assunti su base volontaria e in cambio di una retribu­

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to inquinata, non è affatto sicuro che per il rischio corso si stia ricevendo qualcosa in cambio. Una letteratura piuttosto cospicua indica che i rischi non accettati volontariamente, spa­ ventosi, incontrollabili e potenzialmente catastrofici, possono determ inare livelli di preoccupazione sociale straordinaria­ mente e le v a ti28. Se così fosse, le cifre tratte avendo riguardo al rischio di incidenti sul lavoro finiscono per sottovalutare in m odo sostanziale la disponibilità a pagare per i benefici regolativi con seguibili attraverso l’intervento dell’Epa e delle altre agenzie regolative. L e im plicazioni di quanto detto vanno ben oltre la distin­ zione fra incidenti sul luogo del lavoro e rischi ambientali. Per esempio, le persone sembrano disposte a pagare molto di più per la sicurezza dell’aria anziché per la sicurezza sulle autostrade29. Ne consegue che il Vsl impiegato dalla Federai Aviation Administration dovrebbe essere più alto di quello adoperato dalla N ational H ighw ay Traffic Safety Administration. Curiosamente la prim a delle agenzie menzionate impiega un Vsl che appare particolarm ente b a sso 30. Alcune malattie determinerebbero un Vsl più alto di quanto non sarebbe dato ricavare considerando altre malattie. Un rischio pari a 1/100.000 di morire del morbo di Alzheim er quasi sicuramente porterebbe a ricavare un Vsl maggiore di quanto non farebbe il medesimo rischio statistico di m orire di un attacco di cuore; il rischio pari a 1/50.000 di morire di A ids non evidenzierebbe un Vsl pari a quello rica­ vabile da un rischio pari a 1/50.000 di morire per un difetto dell’apparato frenante della propria autovettura. La maggior parte delle persone pagherebbe di più per ridurre il rischio di m orire a seguito di un infarto che si sviluppa lentamente di quanto non pagherebbero per ridurre il rischio di morire di un zione. Per esem pio, molti lavoratori probabilmente non conoscono i rischi a cui vanno incontro. Inoltre, quanti abitano in una città o che in altro modo sfidano rischi di carattere involontario possono evitarli incorrendo in un certo costo. L a distinzione che sto tracciando qui attiene al tipo piuttosto che al grado di rischio; cfr. C.R. Sunstein, Bad Deaths, in «Journal of Risk & Uncertainty», 14, 1997, p. 259. 28 Si veda P. Slovic, The Perception of Risk, London, Earthscan, 2000. 29 Si veda F. Carlsson et al., Is Transport Safety More Valuable in thè Air?, W orking Papers in Economics, Goteborg University, Department of Economics, 2002, p. 84. 10 Si veda supra, pp. 181-182, tab. 6.1.

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infarto fulminante. Se solo avessimo gli strumenti per ricavarli, esisterebbero tanti Vsl particolari medi tratti dalla popolazione per i rischi legati alla mortalità da incidente aereo, ai tumori determinati dall’inquinamento atmosferico, agli incidenti stra­ dali, ai giocattoli difettosi, al cancro indotto dalla presenza di sostanze cancerogene nell’acqua potabile. Sono stati condotti studi sull’uso delle cinture di sicurezza, sulla sicurezza delle automobili, sui rivelatori di fuoco dome­ stici e altro ancora, e questi studi riscontrano un’eterogenea gamma di cifre, che vanno dai 770.000 dollari (rivelatori di fumo, studio basato su dati degli anni settanta) ai 9,9 milioni di dollari (rischio di morte associato alle cinture di sicurezza e ai caschi per motociclisti)31. E all’interno di ciascuna di queste categorie emergerebbero senza dubbio ulteriori distinzioni. Il rischio di morte associato ai tumori non è sem pre lo stesso; le persone informate sicuramente distinguerebbero fra i tumori il cui decorso è caratterizzato da lunghi periodi di sofferenza e quelli che ne sono privi. Se siamo davvero interessati a costruire un Vsl dalla Wtp è ottuso utilizzare una cifra uniforme, che tratti allo stesso modo tutti i rischi di mortalità statisticamente identici.

2.2. Prassi e volontarietà Tali rilievi critici non sono totalmente estranei alle prati­ che regolative correnti. Nel contesto della regolamentazione dell’arsenico l’Epa ha tenuto conto di alcuni di questi rilievi32. L’analisi compiuta dall’agenzia ha così evidenziato la necessità di aumentare il valore del Vsl del 7 per cento per tener conto della mancanza di volontà e della im possibilità di controllare questo rischio33. Con tale revisione, unita all’aumento legato all’incremento della ricchezza nazionale nel tempo, il valore di una vita statistica sale da 6,1 milioni a 7,2 milioni di dollari34. E si ha ragione nel ritenere che anche questa cifra sia troppo bassa. Richard Revesz ritiene che «il valore legato all’evitare 31 Si veda Viscusi e Aldy, The Value o f Statistical L ife , eit., p. 25. 32 Si veda Sunstein, The Arithmetic o f Arsenic, in Id., Risk and Reason, eit. 33 Si veda 66 Fed. Reg. 6979, 7014 (22 gennaio 2001).

34 Ibidem.

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una morte determ inata da un rischio cancerogeno a cui non si è esposti volontariamente dovrebbe stimarsi quattro volte di più del valore di evitare un incidente fatale istantaneo occorso sul luogo di la v o ro »35. Se adottiamo questo approccio con riferimento al caso dell’arsenico, il Vsl schizza da 6,1 a 24,4 milioni dollari. N on sto sostenendo che 24,4 milioni dollari sia la cifra giusta, bensì solo rilevando come indubbiamente il Vsl debba essere quantificato in base al rischio specifico. E im portante non pensare che esista una rigida dicotomia fra il rischio cui non si è esposti volontariamente, e che non può essere controllato da comportamenti del soggetto su cui ricade, e il rischio cui ci si espone volontariamente e che si può controllare con il proprio comportamento36. Si tratta in realtà di un continuum, privo di nette cesure fra i vari punti della linea, per cui sarebbe erroneo ritenere che i rischi possano essere collocati alternativamente in una delle due categorie. Il rischio di viaggiare in aereo è incontrollabile? Lo pensano in molti, m a la decisione di prendere un aereo è pur sempre nella sfera di controllo di chi la compie. Ai rischi associati al respirare l’aria di L os Angeles si è esposti involontariamente? La risposta sem brerebbe positiva, ma le persone possono scegliere se vivere o non vivere in quella città. La morte de­ terminata dalla collisione di un asteroide sul suolo terrestre può apparirci il paradigm a dell’involontarietà, collocandosi esattamente agli antipodi della morte occorsa a seguito di un volo in deltaplano. Ma, esattamente, per quale motivo? Nel decidere se a un rischio ci si espone volontariamente o se un rischio è sottoposto al proprio controllo, i criteri di fondo sembrano essere due: anzitutto, se i soggetti esposti al rischio ne sono consapevoli; inoltre, se per le persone evitare il rischio risulti costoso e com unque difficoltoso. Quando i rischi sono interpretati in questi termini diventa evidente che alcuni sono peggiori di altri, anche se la loro probabilità di verificazione appare identica. Il che appare sufficiente per concludere che il Vsl non può essere uniforme per tutti i differenti rischi.

35 Si veda Revesz, Environmental Regulation, Cost-Benefit Analysis, and thè Discounting o f Hum an Lives, eit., p. 982. ,b Si veda Sunstein, Bad Deaths, eit.

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3. Versone Anche quando i rischi sono identici, le persone rivelano valori e preferenze differenti. La cifra di 6,1 milioni di dol­ lari è una media: si tratta della media di una serie di medie. Ma chiunque concorda sul fatto che nei luoghi di lavoro e altrove la Wtp individuale è altamente variabile. Una parte della variabilità è dovuta ai differenti gradi di avversione che le persone manifestano nei confronti di rischi differenti. Per­ sone diverse hanno paure diverse. Alcuni nutrono un’estrema preoccupazione per i rischi legati ai pesticidi, altri focalizzano la propria paura sui voli aerei. Alcune di queste differenze sono dovute alle credenze individuali (circa i livelli di rischio esistenti), altre sono invece determinate dai gusti e dai valori personali. Così, le persone che già risultano esposte ad alti livelli di rischio dovrebbero essere meno disponibili a pagare per evitare un rischio aggiuntivo pari a 1/100.000 di quanto invece non siano le persone che vivono essendo già esposte a rischi elevati. Quanti vivono in un paese povero o in aree povere, dove l’aspettativa di vita è più bassa, riveleranno pre­ occupazioni minori rispetto a un rischio pari a 1/100.000 di quanto non sarà manifestato da persone che vivono in luoghi dove l’aspettativa di vita è più alta. Se un dato campione di popolazione fronteggia 30 rischi di mortalità pari a 1/10.000 o più elevati, questo campione dovrebbe esibire un Vsl più basso con riferimento a un nuovo rischio pari a 1/100.000 di quanto non accada nel caso di una popolazione che fronteggia rischi meno gravi37. La differenza fra il Vsl di persone che vivono nei paesi ricchi e il Vsl di quanti vivono nei paesi poveri, di cui si parlerà in seguito, è in parte dovuta al fatto che questi ultimi di norma sfidano quotidianamente rischi ben più gravi. La Wtp varia anche in funzione dell’età. Saremmo facili profeti affermando che, a parità di condizioni, le persone anziane dimostrerebbero una Wtp minore e quindi determinerebbero un Vsl minore, per il semplice fatto di essere consapevoli di avere meno anni da vivere. Uno studio per esempio riscontra come il Vsl ricavato da una persona di 48 anni sia inferiore del 10 per 37 Si veda L.R. Eeckhoudt e J.K. Hammitt, Background Risks and thè Value of a Statistical Life, in «Journal of Risk & Uncertainty», 23, 2001, p. 261. 194

cento a quello di una persona di 36 anni; un altro studio attesta che le persone sotto i 45 anni di età rivelano un Vsl 20 volte maggiore di persone di età superiore ai 65 anni38. Un’analisi approfondita rivela che il picco del Vsl si riscontra intorno ai 30 anni, resta costante per circa 10 anni, e poi comincia a de­ clinare, al punto che il Vsl per un sessantenne è circa la metà di quello di un trentenne39. Questi riscontri pongono problemi particolari nel caso di coloro che hanno meno di 18 anni; come dovrebbe comportarsi il governo se è vero che fra l’infanzia e i 15 anni di età le persone mostrano un Vsl trascurabile, per il semplice fatto che non posseggono denaro? Certo, sarebbe implausibile utilizzare nei loro confronti un Vsl molto ridotto, ma quale cifra dovrebbe essere impiegata? E perché? Su questo problema si sono registrati scarsi progressi40, se è vero che il governo americano ha continuato a utilizzare per i bambini la medesima cifra impiegata per qualsiasi altra persona41. Ma se per un attimo mettiamo da un canto la vexata quaestio dei bambini, ecco che la dottrina prevalente suggerisce di attribuire un valore minore al Vsl delle persone che sono più avanti negli anni rispetto al Vsl di quanti hanno ancora molti decenni da vivere, e questa differenza dovrebbe trovare eco nelle politiche regolative42. Nella medesima prospettiva, molti analisti hanno osservato che la politica regolativa dovrebbe tener conto non delle vite statistiche, ma degli anni di vita statistica (Value of Statistical Life Years, da qui in avanti Vsly)43. Si ipotizzi che questo suggerimento sia corretto. Se così fosse, le vite statistiche 38 Si veda Viscusi e Aldy, The Value of Statistical Life, eit., p. 51. Per evidenze di segno contrario, si veda C.R. Sunstein, Lives, Life-Years} and Willingness to Payy in «Columbia Law Review», 104, 2004, p. 205. 39 Si veda J. Aldy e W.K. Viscusi, Age Variations in Workers Value of Sta­ tistical Life, 2003, consultabile all’indirizzo www.nber.org/papers/wl0199. 40 Per una visione di insieme che finisce per essere molto provvisoria e indeterminata si veda United States Environmental Protection Agency, Children’s Health Valuation Handbook, Washington, United States Printing Office, 2003. 41 Si veda ibidem, pp. 3-12 e 3-13, facendo riferimento a United States Environmental Protection Agency, Guidelines for Preparing Economie Analyses, Washington, United States Printing Office, 2003. 42 Si veda Sunstein, Lives, Life-Years, and Willingness to Pay, eit. 43 Si veda ibidem.

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dei giovani dovrebbero valere di più di quelle degli anziani. Nel 2003 l’interesse m anifestato dal governo am ericano per il metodo Vsly suscitò veementi proteste nell’opinione pubblica per ciò che appariva una sorta di «sco n to per la morte degli anziani», secondo una proposta che, con riferimento a un ultrasettantenne, avrebbe portato a valutare un dollaro solo 58 centesim i44. Ma se si assum e che una persona con più di settant’anni è disposta a pagare in m edia il 58 per cento di quanto le persone infrasettantenni sono disposte a pagare, allora la teoria che è alla base delle pratiche correnti giustifica esattamente questa disparità. Se la teoria è giusta, allora una disparità fra persone anziane e persone giovani appare perfettamente sensata nella m isura in cui le cifre relative alla Wtp la giustificano. Ma, cosa ancor più im portante, quanti hanno poco da perdere dimostreranno un Vsl molto più ridotto di quanto non sia misurabile nel caso di persone benestanti. L a Wtp dipende dalla capacità di pagare e, quando questa capacità è ridotta, naturalmente la Wtp lo sarà altrettanto. Per questa ragione il Vsl di chi dispone di un reddito annuale di 50.000 dollari sarà inferiore rispetto a chi ha un reddito di 150.000 dollari. Le persone appartenenti alla prima categoria potrebbero essere disposte a spendere non più di 25 dollari per ridurre un rischio pari a 1/100.000, mentre gli appartenenti all’altra categoria potrebbero essere disposti a pagare fino a 100 dollari. Se così fosse, il governo non dovrebbe chiedere a chiunque di pagare 100 dollari; decidere in tal senso danneggerebbe quanti non sono disposti a pagare quella somma, per il sem plice motivo che ciò richiederebbe loro di pagare più di quanto costoro ritengono valga la pena pagare. Un Vsl uniforme, del tipo correntemente impiegato dal governo, minaccia di «superproteggere» i poveri, in un modo che potrebbe rivelarsi dannoso per loro, e al tem­ po stesso di «sottoproteggere» i ricchi, in un m odo che molto probabilmente si rivela dannoso per loro (tornerò su questo problema assai scottante nel prossim o capitolo). Come puro riscontro empirico ci si aspetterebbe che i lavo­ ratori appartenenti al sindacato ricevano un com penso maggiore per esporsi al rischio, e gli studi quasi sempre dimostrano che i 44 Si veda ibidem.

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lavoratori iscritti al sindacato esibiscono un Vsl più alto, riscon­ trando valori che arrivano a 12,3, a 18,1, e perfino a 44,2 milioni di dollari45. Allo stesso modo ci si aspetterebbe di riscontrare grandi differenze fra le nazioni, con un Vsl più alto nei paesi ricchi piuttosto che in quelli poveri. E infatti esistono studi che riscontrano un Vsl pari a soli 200.000 dollari per Taiwan, 500.000 dollari per la Corea del Sud e 1,2 milioni di dollari per l’India, ma 21,7 e 19 milioni di dollari rispettivamente per il Canada e l’Australia46. Si consideri a fini illustrativi la tabella 6.341. N egli Stati Uniti le fasce più ricche della popolazione dovrebbero dim ostrare un Vsl più elevato di quello ricavabile dalle fasce a minor reddito. Se un programma governativo fosse concepito per contrastare rischi alla salute in quartieri ricchi, il Vsl dovrebbe essere superiore a quello della media della popolazione; se i destinatari dell’intervento regolativo fossero concentrati in zone povere, il Vsl dovrebbe essere inferiore. Q ueste possibilità non sono prese in considerazione dalle agenzie nel compiere l’analisi costi-benefici. E che dire riguardo alle categorie molto più controverse della razza e del sesso? Studi recenti rivelano differenze notevoli. Impiegando dati raccolti fra il 1996 e il 1998 relativi ai luoghi T ab . 6.3. I diversi Vsl fra le nazioni

Nazione e anno dello studio Giappone (1991) Corea del Sud (1993) Canada (1989) India (1996/1997) Taiwan (1997) Australia (1997) Hong Kong (1998) Svizzera (2001) Regno Unito (2000)

Vsl (in milioni di $ Usa del 2000) 9,7 0,8 3,9-4,7 1,2-1,5 0,2-0,9 11,3-19,1 1,7 6,3-8,6 19,9

Fonte: ricavato sulla base di W.K. Viscusi, J.E. Aldy, The Value of Statistical Life. A Criticai Review of Market Estimates Throughout thè World, in «Journal of Risk & Uncertainty», 27, 2003, p. 5, in particolare p. 45.

45 Si veda Viscusi e Aldy, The Value of Statistical Life, eit., p. 45. 46 Si veda ibidem, pp. 27-28. 47 Si veda ibidem, pp. 26-27. 197

di lavoro, John D. Leeth e John Ruser hanno riscontrato che il Vsl delle donne va dagli 8,1 ai 10,2 milioni di dollari, mentre il Vsl degli uomini spazia dai 2,6 ai 4,7 milioni di dollari48. Leeth e Ruser rilevano che gli uomini di origine ispanica dimostrano un Vsl lievemente maggiore degli uomini di razza bianca (5 contro 3,4 milioni di dollari)49 e, cosa particolarmente curiosa, che gli afroamericani non ricevono un compenso per i rischi legati al luogo di lavoro, ragion per cui esprimono un Vsl pari a zero50. Impiegando dati relativi ai rapporti di lavoro registrati dal 1992 al 1997 Viscusi ha anche riscontrato una disparità significativa fra le diverse razze, sebbene le sue cifre siano piuttosto diverse da quelle registrate da Leeth e R user51. Nello studio di Viscusi il Vsl più alto viene fatto registrare da uomini di razza bianca, mentre il più basso da afroamericani di sesso maschile, con le donne sia bianche sia afroamericane collocate fra questi due estremi. In relazione alle singole categorie distintive Viscusi rileva che il Vsl complessivo degli individui di razza bianca è pari a 15 milioni di dollari, mentre lo stesso dato relativo agli afroamericani si ferma a 7,2 milioni di dollari52. Per le donne bianche il Vsl complessivo è pari a 9,4 milioni di dollari, cui fanno riscontro i 18,8 milioni di dollari per gli uomini di razza bianca, mentre per le donne e gli uomini afroamericani il dato è rispettivamente 6,9 e 5,9 milioni di dollari. Un altro studio di Viscusi rileva un Vsl pari a 7 milioni per gli operai di ses­ so maschile e di 8,5 milioni di dollari per gli operai di sesso femminile53. Le differenze riscontrate fra Leeth e Ruser, da una parte, e Viscusi, dall’altra, restano un mistero. Ai nostri fini, il dato da sottolineare è che differenze di tipo dem ografico nel Vsl sono la norma e vengono riscontrate da entrambi gli studiosi.

4fi Si veda Leeth e Ruser, Compensating Wage Differentials for Fatai and Honfatal Injury Risk by Gender and Race, eit., p. 266. 49 ìbidem , p. 270. 50 ìbidem, p. 275. 51 Si veda Viscusi, Racial Differences in Labor M arket Values o f Statistical Life, eit. p. 252. 52 ìbidem. 55 Si veda Viscusi, The Value o f Life, eit., p. 39. 198

4.

Teoria e pratica

Se assem bliam o i dati appena analizzati, possiamo verificare come non esista un solo Vsl, bensì un numero molto alto di essi, calibrato in m odo da corrispondere a ciascuno dei rischi che ognuno di noi affronta. Una politica regolativa che tenesse conto davvero della Wtp cercherebbe di garantire a ciascun individuo il livello di tutela corrispondente a quanto egli è disposto a pa­ gare per ridurre ogni specifico rischio. Cercare di tener conto della Wtp è l’obiettivo a cui si uniformano le pratiche regola­ tive correnti. A prescindere da problemi di amministrazione in concreto, questo obiettivo implica perseguire il massimo livello di individualizzazione dello strumento del Vsl. Come esperimento teorico si ipotizzi che un regolatore onnisciente possa facilmente determinare la Wtp di ogni indi­ viduo in m odo corrispondente a ciascun rischio statistico che quell’individuo affronta, e possa calibrare il livello di protezione regolativa offerta in concreto a quella persona in funzione della sua Wtp. In circostanze del genere il regolatore in relazione a ogni singolo rischio dovrebbe offrire a ciascun individuo una tutela non maggiore e non minore della Wtp dimostrata da quell’individuo per quel rischio (se la Wtp di un individuo è bassa perché chi la esprime è povero, potranno essere immagi­ nate misure ridistributive a suo favore, ma quell’individuo non dovrebbe essere costretto a comprare più sicurezza di quanto non sia disposto a pagare; si tratta di un problema su cui avrò m odo di tornare). In base a questo approccio, i benefici regolativi sarebbero considerati alla stregua di qualsiasi bene scambiato sul mercato, fra cui il bene della sicurezza stessa: si pensi all’acquisto di allarmi antifumo e di automobili Volvo. Ho sottolineato come la maggior parte delle persone incontri seri problemi nel gestire i rischi, perché difetta di informazioni e ha una razionalità limitata. Il regolatore onnisciente risolverebbe questi problemi, dando alle persone esattamente ciò che esse desiderebbero ove questi problemi fossero risolti. Se tutto ciò fosse possibile, allora la teoria correntemente applicata sarebbe implementata in modo perfetto. In tal caso ne conseguirebbe che, con una piena individualizzazione, la Wtp complessiva risulterebbe minore per le persone povere piuttosto che per le persone ricche, più bassa nel caso degli 199

afroamericani piuttosto che in quello dei bianchi, e (probabil­ mente) minore per gli uomini piuttosto che per le donne. Ma in questo esperimento teorico il governo non porrebbe in essere alcuna discriminazione se (per esem pio) prendesse le sue deci­ sioni regolative sulla base di un Vsl elevato, ove il programma regolativo riguardasse al 95 per cento individui di razza bianca, e sulla base di un Vsl più basso, ove il program m a riguardasse al 55 per cento individui afroamericani. Una tale differenza non sarebbe altro che il prodotto dell’aggregazione di Vsl pienamente individuali, un’aggregazione indistinguibile da quelle che oggi sono espresse dalla m aggior parte dei m ercati tradizionali, fra cui quelli delle autom obili o degli altri beni di consumo. E un fatto, per esempio, che le persone meno ricche guidano in media auto meno sicure di quelle utilizzate dai più ricchi. Naturalmente, se si prende sul serio questo esperimento teorico, sorgono due problem i pratici. Il prim o è che non conosciam o la Wtp di ciascun individuo e che da un punto di vista pratico è im possibile rilevare questa informazione. Il secondo è che spesso i benefici regolativi sono beni collettivi, ovvero beni che non p osson o essere goduti da un singolo individuo senza nel contem po essere goduti da altri. Nel caso deH’inquinamento atm osferico, per esem pio, non è possibile rendere l’aria meno inquinata per qualcuno senza renderla meno inquinata per molti o per tutti. N ella regolamentazione dell’inquinamento dell’aria o dell’acqua l’individualizzazione è una scelta sem plicemente im praticabile. Tutti questi problem i creano ostacoli fatali all’anelito di perseguire una piena individualizzazione della W tp (e quindi del Vsl) nell’ambito del processo regolativo. M a non si tratta di ostacoli insormontabili se si considera il più m odesto obiettivo di perseguire una maggiore individualizzazione del meccanismo regolativo. Come minimo, e m ettendo da parte i problemi più controversi, nell’effettuare l ’analisi costi-benefici differenti atteggiamenti sociali nei confronti di rischi differenti possono venire presi in considerazione. Per esem pio, le agenzie potreb­ bero essere incoraggiate a considerare nell’am bito delle proprie analisi regolative i risultati delle ricerche relative ai rischi di tu­ more, le quali mettono in evidenza cifre che risultano partendo da diversi assunti, le quali a loro volta determ inano valori più elevati associati ai decessi per tumore. In aggiunta, le disparità

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esistenti in m ateria di Vsl possono essere mappate nell’ambi­ to delle diverse stime prodotte dalle agenzie, in modo da far obbedire le differenze esistenti fra le varie agenzie a canoni di razionalità invece che al mero arbitrio. Se, per esempio, il rischio di morte associato a un dato incidente sul lavoro determina un valore della vita inferiore a quello che si ottiene valutando il rischio di m orte relativo a determinati prodotti di consumo, allora la O ccupational Safety and Health Administration (Osha) potrebbe tenere conto di un Vsl più basso di quello adottato dalla Consum er Product Safety Administration (Cpsc). Non sarebbe difficile immaginare un programma di ricerca nell’am­ bito del quale i vari responsabili delle scelte regolative possano cercare di ricavare una quantità di informazioni molto maggiore sul Vsl sotteso ai diversi rischi. Andare in questa direzione non porrebbe particolari problemi dal punto di vista etico. Sarebbe invece molto più controverso il tentativo di far sì che le agenzie adottino Vsl differenti in ragione della circostanza che l’azione regolativa riguardi una fascia della popolazione più o meno ricca. M a quanto meno, e senza tracciare distinzioni verosimilmente odiose, le agenzie dovrebbero parametrare il Vsl ai cambiamenti fatti registrare nel tempo dalla ricchezza nazio­ nale, onde definire valori più alti di quelli che si otterrebbero semplicemente tenendo conto dell’inflazione. Oppure si ipotizzi che l’azione regolativa riguardi gli immigrati che lavorano nel settore agricolo, i quali dovrebbero dimostrare un Vsl meno elevato. Studi recenti tentano di stimare la relazione fra reddito e Vsl, consentendo alle agenzie di operare i dovuti correttivi54. E quando la fascia di popolazione interessata dall’azione rego­ lativa è relativamente affluente, l’agenzia potrebbe decidere di adottare un Vsl più elevato. Per il m om ento non sto abbracciando questo approccio; bensì solo evidenziando come un approccio di tal genere appaia coerente con la teoria che il governo mostra di seguire quando compie le proprie scelte regolative. Focalizziamo adesso l’at­ tenzione sui problem i più generali a cui tale approccio rende necessario dare una risposta. E giusta la teoria che oggigiorno viene seguita? E quali sono i suoi punti deboli? ,4 Si veda Viscusi e Aldy,

The Value o f Statistical Life, eit.

201

CAPITOLO SETTIMO

DEM OCRAZIA, DIRITTI E RIDISTRIBUZIONE

In base a quale argomento si giustifica l’idea che per mettere a punto le decisioni regolative si debba prendere in considerazio­ ne la reale disponibilità a pagare (Wtp) manifestata dalla gente? Anzi, perché mai attribuire importanza alla Wtp? Se tentiamo di convertire la riduzione del pericolo in equivalenti monetari, perché la Wtp dovrebbe assumere rilievo? Forse che le persone non hanno il diritto di essere protette da (alcuni) rischi quale che sia la loro Wtp? E, più in generale, che relazione corre fra una democrazia deliberativa e l’analisi costi-benefici? Spero che la discussione fin qui condotta sulla paura abbia cominciato ad abbozzare una prima risposta a questi interroga­ tivi. Si ipotizzi che una misura regolativa costi 200 milioni di dollari l’anno e che possa salvare 20 vite umane, per esempio riducendo le soglie massime di arsenico consentite nell’acqua potabile dalla misura di 50 parti per miliardo a 10 parti per miliardo (per la regolamentazione dell’arsenico si tratta di dati realistici). Se ci si rifiutasse di convertire in equivalente mone­ tario ciò che una regolamentazione del genere consentirebbe di risparmiare, sarebbe praticamente impossibile dotarsi di un sistema di regolamentazione coerente. Una scelta regolativa po­ trebbe valutare una vita 10 milioni di dollari, un’altra 2, un’altra 40 e un’altra ancora 200.000 di dollari. Naturalmente, stime differenti sarebbero giustificate se derivassero dalla natura del rischio o dalla popolazione interessata, e naturalmente abbiamo bisogno di una spiegazione per giustificare l’adozione di una data misura di equivalente monetario piuttosto che di un’altra. Ma se non proviamo a impiegare un qualche tipo di equivalen­ te monetario siamo esposti alla casualità e all’incoerenza, per non parlare del rischio di esser preda dell’azione di potenti gruppi di interesse. E chiaro, e l’ho sottolineato più volte, che all’aritmetica dei numeri non va riservata l’ultima parola. Ma 203

per migliorare la coerenza di program m i regolativi che altri menti finirebbero per essere governati da una mistura di paure collettive, sottovalutazioni sistematiche e influenze esercitate da gruppi di interesse, gli equivalenti monetari hanno almeno il merito di produrre informazioni utili. Gli scettici potrebbero a questo punto obiettare che sono molti i rischi che non possiam o stimare con sufficienti mar­ gini di precisione. Con riferimento alle sostanze tossiche, per esempio, le estrapolazioni relative alle potenzialità di danno a bassi livelli di esposizione sono spesso puram ente speculative. Anche se si è in possesso di dati epidem iologici relativi ai rischi legati ad alti livelli di esposizione, le curve di risposta all’esposizione a dosi via via più basse non sono certo immuni da dubbi. Siamo proprio sicuri che il livello dei danni attesi declini in modo direttamente proporzionale al livello di dosi a cui si è esposti? Siamo certi che le basse esposizioni non siano benefiche per la salute umana, com e in effetti a volte è stato dimostrato che sono? L a scienza può produrre solo un ventaglio di possibili esiti. N el caso di altri problem i, come per esempio quello del riscaldamento globale, è il novero stesso dei possibili esiti a essere dibattuto. Forse operiam o in situazioni di incertezza o persino di ignoranza, e ciò rende impossibile nutrire una qualche fiducia in una stima dei danni non fondata su valori monetari. Sarebbe un errore sottovalutare i gravi problem i sottesi all’identificazione dei danni che possiam o aspettarci da molti rischi sociali. Il problem a del terrorism o m ette in crisi la valu­ tazione costi-benefici, e lo stesso accade per molti altri pericoli, siano essi naturali o determinati dall’uomo. M a, nonostante ciò, in molti contesti è possibile specificare i livelli dei danni attesi, se è vero che le nostre conoscenze in proposito vanno conti­ nuamente aumentando. L’im piego dell’analisi costi-benefici, in molte zone del mondo, è di per sé una riprova del fatto che questa attività può essere perseguita. Per il momento faccio riferimento a situazioni nelle quali posson o essere identificati livelli ragionevoli dei danni attesi. Q uale ruolo dovrebbe gio­ care la Wtp in questi casi?

204

I. / «casi facili» Com inciam o dalle situazioni che rappresentano i «casi tacili» per l’applicazione della Wtp. Per semplicità, muoviamo dall’ipotesi di una società nella quale le persone fronteggiano una serie di rischi, ciascuno stimato in 1/100.000, e nella quale ciascun individuo non solo è adeguatamente informato, ma è disponibile a pagare esattamente (niente di più e niente di meno) 60 dollari per scongiurare uno qualsiasi di tali rischi. Assumiamo, inoltre, che il costo per neutralizzare questi rischi (la cui quantificazione è in ciascun caso pari a 1/100.000) sia largamente variabile, spaziando da una somma vicina allo zero per alcuni a molti miliardi per altri. Ipotizziamo, infine, che il costo per eliminare uno qualsiasi di questi rischi sia intera­ mente sopportato da quanti sono destinati a trarre beneficio dalla eliminazione del rischio. Alla luce di questa (importante) serie di assunti, la regolamentazione non fa altro che imporre all’utente l’equivalente di una tariffa; per esempio, le bollette dell’acqua addebitate agli utenti rifletteranno interamente i costi necessari per eliminare il rischio (pari a 1/100.000) di contrarre un tum ore dall’arsenico presente nell’acqua potabile. Se il costo individuale è pari a 100 dollari, ciascuna bolletta dell’acqua verrà aumentata esattamente di tale importo. Alla luce di questa serie di assunti, gli argomenti in favore dell’im piego della Wtp appaiono plausibili e irrefutabili. La regolamentazione può essere considerata uno scambio imposto che segnala alle persone che devono acquistare certi benefici in cambio di un certo costo. Per quali motivi il governo dovrebbe costringere la gente a pagare per cose che non desidera? Se le persone vogliono pagare solo 60 dollari per eliminare un rischio pari a 1/100.000, perché il governo dovrebbe imporre loro di pagare 61 o più dollari? Sempre stando alla nostra ipotesi, uno scam bio im posto i cui termini non coincidano con i desideri della gente m etterebbe le persone in una posizione peggiore di quella in cui esse altrimenti si troverebbero. Naturalmente si p otreb be ribattere che in queste circostanze le persone dovrebbero ricevere gratuitamente il benefìcio; un sussidio, invece di uno scam bio forzato, sarebbe nel loro interesse. Tornerò a breve su questo punto. Per ora si può osservare che la regolamentazione non è un sussidio, perché, alla luce

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degli assunti dai quali m uovo, la gente paga esattam ente per il beneficio che riceve. A prim a vista, in base a questi p re su p p o sti, è difficile con­ testare l’im piego della dispon ibilità a pagare (W tp) e del valore della vita statistica (Vsl). Se si intende valutare la regolam enta­ zione, non è rilevante che la distribuzion e del reddito esistente sia iniqua, o che i ceti più poveri siano, in sen so figurato, costretti a fronteggiare certi rischi. Il rim edio alla distribuzio­ ne iniqua e a questa form a di coercizione non è costringere le persone ad acquistare benefici regolativi a condizioni che esse riterranno inaccettabili. Si ipotizzi che, poich é non sono abbastan za ricche, alcune p erson e sian o d isp o ste a pagare solo 20 dollari per elim inare un rischio pari a 1/100.000; si ipotizzi che se il loro reddito rad d o p p iasse, costoro sarebbero disponibili a investire fino a 50 dollari. Se anche fosse così, il governo non farebbe un favore a questi cittadini costringendoli a pagare una som m a che pagh ereb b ero solo ove disponessero di un m aggior reddito. A dottiam o ad esso assun ti m eno artificiali e assum iam o che la p o p o la zio n e in te ressata d alla rego lam en tazio n e sia più sim ile alla p o p o la z io n e del m o n d o reale, ovvero che 1) essa m ostri di p o ssed ere un elevato g rad o di variabilità nella W tp per evitare rischi statisticam en te equivalenti e che 2) gli individui m anifestino fra loro gran di differenze nella p rop en sion e a evitare rischi fra lo ro diversi. C om inciam o dalla variabilità con la quale i rischi son o valutati: le persone sono disponibili a p agare non più di 50 d ollari p er evitare il rischio pari a 1/100.000 di m orire in un in ciden te stradale, ma sono dispon ibili a p agare fino a 100 dollari p er evitare un rischio pari a 1/100.000 di m orire di tum ore. F are b b e bene il governo a prendere in con siderazion e la loro disponibilità a pagare? Io pen so di sì, alm eno se (com e p o stu lato nei «casi facili») le persone sono destinate a p agare p er i benefici che stanno ricevendo. Se il governo im p iegasse una W tp pari a 75 dollari per entram be le tipologie di rischio, costringerebbe le persone a pagare più di quanto esse d esid eran o per evitare i rischi associati agli incidenti stradali, e m eno di quanto esse desiderino per elim inare il rischio asso ciato ai tum ori. Per quale motivo il governo dovreb b e agire così? E se l ’argomento apparisse convincente in questo esem pio, esso an drebbe seguito

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in num erosi casi in cui la Wtp e il Vsl mostrano di variare al cospetto di rischi diversi. Passiam o adesso alle differenze individuali. Farebbe bene il governo a prendere in considerazione il fatto che individui differenti m anifestano una differente disponibilità a pagare per evitare rischi statistici? A prima vista la risposta sembrerebbe essere positiva; anche queste differenze andrebbero considerate. Se i cittadini di New York sono disposti a pagare più di quelli del M ontana per ridurre il rischio associato all’arsenico nell’ac­ qua potabile, i responsabili della regolamentazione dovrebbero attenersi a questo dato, almeno se le persone che esprimono diversa disponibilità sono state adeguatamente informate. In questo com e in altri casi il governo non aiuta la gente se la costringe a pagare più di quanto essa intenda pagare per ot­ tenere un certo beneficio sociale. Se gli individui manifestano preferenze e tolleranze diverse rispetto ai rischi, il governo dovrebbe riconoscere questo dato. Possiam o osservare come l’impiego della Wtp, in base agli assunti da cui abbiamo preso le mosse, sia fortemente condizio­ nato da due diversi ordini di considerazioni. La prima riguarda il benessere, la seconda l’autonomia individuale. Ho già evidenziato come, nella prospettiva del benessere, la gente non dovrebbe essere costretta a pagare più di quanto non ritenga opportuno per ridurre i rischi, perché le proprie scelte sono la miglior guida per perseguire il proprio benessere (almeno in via presuntiva, ma vedremo che il quadro si complicherà nel prossimo capitolo). Inol­ tre, alle persone dovrebbe essere concesso di impiegare le proprie risorse nel m odo che preferiscono, per il semplice motivo che esse meritano d ’essere trattate con rispetto. Il governo non rispetta l’autonomia delle persone se dice loro di investire i propri soldi nella riduzione di un particolare rischio pari a 1/50.000, invece di allocare quei soldi nell’acquisto di cibo, assistenza sanitaria, case o in attività ricreative. Ai cittadini liberi deve essere concesso di investire i propri soldi come meglio essi credono. Q uesta idea non può essere messa in discussione finché consideriam o una popolazione che manifesta preferenze e valori non omogenei. Le cose cambiano se invece si utilizza il medesimo argom ento per affermare che il governo dovrebbe impiegare nei confronti dei cittadini più ricchi una Wtp più elevata di quella applicata nei confronti dei cittadini più po207

veri. Si assuma per esempio che, per ridurre un rischio pari a 1/50.000, le persone abbienti siano disposte a pagare più del doppio di quanto non siano disposte a pagare persone molto più povere. Se è la disponibilità a pagare che conta, i responsabili delle scelte regolative dovrebbero prendere in considerazione questo dato e usare un Vsl più elevato per i programmi regolativi volti a tutelare le persone più abbienti. E ciò non perché i poveri valgano meno dei ricchi. M a perché nessuno, povero o ricco che sia, dovrebbe essere costretto a pagare più di quanto sia disposto a fare per la riduzione dei rischi. A dispetto delle apparenze, questa idea esprime un proprio canone di uguaglianza. Com e nei mercati, così per le scelte di policy: la gente non deve pagare più di quanto non sia disposta a fare per ottenere benefici sociali. Se i ceti meno abbienti non desiderano pagare per la ridu­ zione di un rischio rilevante, la risposta appropriata non è un acquisto forzato, ma un sussidio. Si ipotizzi, per esempio, che ciascun componente di un gruppo di persone relativamente poco influenti, che individualmente guadagnano in m edia meno di 30.000 dollari all’anno, sia disponibile a pagare solo 25 dollari per eliminare un rischio pari a 1/100.000, pari a circa la metà - supponiamo - dei 50 dollari che rappresentano la disponibi­ lità a pagare media di un rappresentante della popolazione in generale. Sarebbe opportuno che i responsabili delle politiche regolative imponessero a ciascun cittadino, com presi quelli appartenenti al gruppo povero cui si è accennato, di pagare 50 dollari? In linea di principio, se il governo si preoccupa davvero di garantire il benessere e l’autonomia dei suoi cittadini, esso dovrebbe imporre scambi solo nella misura in cui questi ultimi li ritengano accettabili. Forse, però, la riduzione del rischio do­ vrebbe essere garantita gratuitamente alle fasce meno abbienti della popolazione, rendendo questi cittadini più sicuri e meno spaventati, senza imporre loro un conto da pagare. E spesso questa è la soluzione giusta: in molti contesti il governo deve fare esattamente così. Ma l’argomento che affrontiamo in queste pagine è la regolamentazione, non i sussidi, e con riferimento alla regolamentazione la Wtp esso ha molto da dire. Qualcuno potrebbe ritenere che il caso facile, quello nel quale i beneficiari della riduzione del rischio pagano esatta­ mente per ciò che ricevono, sia implausibile e irrealistico. Ma 208

in molti casi è esattamente così. I costi della regolamentazione dell’inquinamento atmosferico non sono pienamente sopportati da tutti i beneficiari della regolamentazione1. Ma nel caso della regolamentazione in materia di infortuni sul lavoro la situazio­ ne è assai diversa. Almeno negli Stati Uniti la retribuzione dei lavoratori non iscritti al sindacato è ridotta al dollaro, in modo da scontare quasi perfettamente il valore atteso dei benefici che i lavoratori stessi ricevono2. Poiché i programmi di sicurezza sociale per i lavoratori aumentano la sicurezza, i lavoratori finiscono per pagare in termini di riduzione salariale ciò che ricevono in termini di miglioramento della propria salute. Una cosa simile accade con la regolamentazione dell’acqua potabile. Il costo che comporta questa regolamentazione è passato ai consumatori nella forma di bollette più salate. Perciò il caso semplice che abbiamo formulato trova una serie di analogie nel mondo reale.

2.

Obiezioni

Sono molte le obiezioni che si possono muovere alla mia tesi favorevole all’impiego della Wtp nei casi semplici. Esse indicano la necessità di effettuare alcune precisazioni e in alcuni casi inducono a ripensare l’argomentazione troppo diretta che abbiamo usato per suffragare la tesi.

2.1. Preferenze adattative, privazioni e «miswanting» La prim a obiezione potrebbe enfatizzare la possibilità che le preferenze delle persone si siano adattate alle opportunità esistenti, incluse le privazioni3. Forse la gente esibisce una bassa Wtp per i beni ambientali, inclusi i miglioramenti in termini di salute pubblica, semplicemente perché le persone 1 M .E. Kahn, The Beneficiaries o f Clean Air Act Regulation, in «Regulation», 24, 2001, p. 34. 2 P.V. Fishback e S.E. Kantor, A Prelude to thè Welfare State, Chicago, Chicago University Press, 2000. 3 Si vedano J. Elster, Sour Grapes, Cambridge, Cambridge University Press, 1983; trad. it. L'uva acerba. Versioni non ortodosse della razionalità, Milano, Feltrinelli, 1989; M. Adler e E. Posner, Implementing Cost-Benefit Analysis When Preferences Are Distorted, in «Journal of Legai Studies», 29, 2000, p. 146.

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hanno finito per adattarsi all’esistenza di una serie di fattori negativi sul piano ambientale, fra cui i rischi per la salute. Forse la Wtp della gente riflette lo sforzo di ridurre una dissonanza cognitiva, sposando la conclusione che i rischi siano più bassi di quanto siano in realtà4. Per generalizzare questo tipo di obiezioni potrem m o dire che la gente soffre di miswanting, ovvero di un fenom eno che induce a volere cose che non promuovono il proprio benessere, rifiutando ciò che invece lo prom uoverebbe5. Se così fosse, la Wtp perderebbe alcune delle giustificazioni che la sorreggon o, perché ciò starebbe a significare che nel prendere le proprie decisioni le persone non mirano a migliorare il proprio ben essere6. E se il governo fosse ragionevolmente sicuro che le persone non intendono pagare per ottenere beni da cui trarrebbero grandi benefici, allora esso dovrebbe sem plicem ente smettere di far ricorso alla Wtp. In alcuni contesti, questa obiezione mette in scacco l’eco­ nomia neoclassica e quanti nutrono un incondizionato entu­ siasmo per la libertà di scelta. L’autonom ia viene considerata separatamente dal benessere. Si assum a che le persone non vogliano la riduzione del rischio perché ritengono che il rischio sia inevitabile, o perché le loro preferenze si sono adattate a condizioni ingiuste o pericolose. In tal caso le preferenze espresse delle persone non rifletterebbero la loro autonomia. In altre parole, l’idea dell’autonomia richiede non solamente di rispettare qualsiasi preferenza che le persone mostrano di avere, 4 Si veda G.A. Akerlof e W.T. Dickens, The Economie Consequences o f Cognitive Dissonance, in G.A. Akerlof, An Economie Theorist’s Book of Tales, Cambridge, Cambridge University Press, 1984; trad. it. L e conseguenze economiche della dissonanza cognitiva, in Racconti d i un N obel dell'economia. Asimmetria informativa e vita quotidiana, Milano, Università Bocconi Editore,

2003, pp. 126-131. 5 D.T. Gilbert e T.D. Wilson, Miswanting: Some Problems in thè Forecasting o f Future Affective States, in J.P. Forgas (a cura di), Feeling and Thinking. The Role o f Affect in Social Cognition, Cambridge, Cambridge University Press, 2000 , p. 178; T.D. Wilson e D.T. Gilbert, Affective Forecasting, in «Advances in Experimental Social Psychology», 35, 2003, p. 345. 6 Per una discussione di taglio generale si vedano D. Kahneman, A Psychological Perspective on Economics, in «American Economie Review», 93, 2003, n. 2, p. 162; D. Kahneman et al., Back to Bentham ? Exploration of Experienced Utility, in «Quarterly Journal of Econom ics», 112, 1997, p. 375, in particolare pp. 379-380.

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ma anche le condizioni sociali che permettono alle preferenze di essere sviluppate in modo da non riflettere la coercizione o l’ingiustizia. Con riguardo ad alcuni rischi, le preferenze rilevanti non sono autonome; si consideri il fatto che molte donne sono esposte al rischio di violenza maschile in situazioni nelle quali esse stesse sono convinte di non poter rimediare alla situazione, per cui finiscono per adattarsi. Questo problem a ha una serie di implicazioni per molti aspetti della politica di regolamentazione del rischio. Tuttavia, nel contesto della regolamentazione ordinaria esso appare di interesse più teorico che concreto. Di solito parliamo di misure regolative che hanno come obiettivo la riduzione di rischi di basso livello (poniamo 1/100.000). Il più delle volte non v’è ragione di ritenere che l’impiego di una Wtp informata (poniamo 100 dollari) sia il prodotto di preferenze adattative. Quando invece non è così, il giudizio sul caso facile deve essere rivisto.

2.2. Informazioni inadeguate e razionalità limitata U n’obiezione strettamente legata a quella appena conside­ rata potrebbe mettere in risalto l’assenza di informazioni e la razionalità limitata. Come ho sottolineato più volte, la gente incontra problem i di non poco conto nel valutare gli eventi a bassa probabilità di verificazione. Se le persone non sanno quanto potrebbero guadagnare attraverso la regolamentazione, la loro Wtp si rivelerà invariabilmente troppo bassa. Forse l’euristica della disponibilità indurrà le persone a sottovalutare certi rischi. Se non riescono a ricordarsi di un caso nel quale una data attività ha determinato malattie o morte, le persone potrebbero essere inclini a concludere che il rischio è trascu­ rabile anche se in realtà così non è. Oppure, può darsi che la stessa euristica, com binandosi con il probability neglect, induca la gente a esagerare i rischi, producendo una Wtp enormemente gonfiata rispetto alla realtà delle cose. E se la gente non è in grado di com prendere il significato di concetti come «uno su 50.000», o di rispondere in modo statistico alla esibizione di prove relative a rischi statistici, ecco che fare affidamento sulla Wtp diventa particolarm ente problematico. In circostanze che possono essere immaginate, quanto abbiamo appena ricordato

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è una difficoltà reale, che pone seri ostacoli all’impiego della Wtp e del Vsl. Forse però la Wtp delle persone riflette uno sconto ecces­ sivo sui futuri benefici per la salute. Se i lavoratori ignorano il futuro, o applicano un tasso di sconto implausibilmente ele­ vato ai guadagni e ai benefici che riceveranno in futuro, allora esistono valide ragioni per ignorare la loro Wtp. Nel contesto del riscaldamento globale, per esempio, il fatto che il danno si collochi in una prospettiva temporalmente distante può indurre a manifestare una preoccupazione insufficiente per un rischio potenzialmente catastrofico. Lo stesso può dirsi per rischi meno drammatici che la gente affronta nella vita quotidiana. I giovani fumatori prestano probabilmente troppo poca attenzione ai danni alla salute causati da fumo. Quanti scelgono di mangiare male e di fare poco esercizio fisico spesso non riescono a con­ siderare gli effetti del loro comportamento sul lungo periodo. I problemi di autocontrollo giocano un ruolo importante nella razionalità limitata e se una Wtp esigua rivela l’incapacità di attribuire il giusto peso al futuro, allora si ha motivo per di­ sapplicare la Wtp. Tutto questo è possibile. Sono molti, tuttavia, i casi nei quali la Wtp non è il risultato di informazioni inadeguate e la raziona­ lità limitata non induce le persone a commettere errori. Quando invece ciò accade, dovremmo adottare alcuni correttivi.

2.3. Diritti Un’obiezione di natura completamente diversa metterebbe capo ai diritti delle persone. Forse le persone hanno il dirit­ to di non essere esposte a rischi di una certa magnitudine e l’impiego della Wtp viola questo diritto. Infatti, è pienamente ragionevole affermare che, quale che sia la loro Wtp, gli esseri umani dovrebbero avere il diritto di non essere soggetti a rischi maggiori di una determinata soglia. Si immagini, per esempio, che persone poco abbienti vivano in un luogo dove ogni anno il rischio di morire a causa dell’inquinamento dell’acqua è pari a 1/20; è assolutamente sensato dire che il governo dovrebbe ridurre questo rischio anche se queste persone fossero disposte a pagare solo un dollaro per eliminarlo e i costi di tale riduzione

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fossero pari a due dollari per individuo. In concreto, ciò dimo­ stra che i diritti dipendono dalle risorse disponibili. Il fatto che le persone possano far valere i propri diritti nei confronti del governo dipende dalla quantità di risorse disponibili, e perciò tutti i legittimi argomenti che le persone possono invocare per ottenere protezione sono inevitabilmente condizionati dal livello di risorse di cui la società dispone. Ma assumiamo, per semplicità, che i rischi superiori a una certa soglia implichino tout court una violazione dei diritti dei soggetti che a essi sono esposti. Si potrebbe aggiungere che le persone hanno il diritto di non essere soggette all’imposizione di un danno cagionato con dolo o colpa grave, quale che sia la loro Wtp. Se un’impresa assoggetta gli abitanti di una città a un grave pericolo con dolo o senza nutrire la benché minima preoccupazione per il benes­ sere di costoro, i diritti di quei cittadini sono stati violati anche se la Wtp da essi manifestata si fosse rivelata bassa. I sistemi giuridici ben funzionanti fanno sì che i responsabili paghino per i danni che cagionano. Alcuni sistemi giuridici prevedono la responsabilità oggettiva per i danni. Nell’ottica di una rivendicazione astratta dei diritti delle persone, queste obiezioni appaiono assolutamente sensate. Qualcosa sarebbe profondamente sbagliato se le persone fos­ sero esposte a gravi rischi e se una bassa Wtp impedisse loro di far qualcosa per contrastarli. E sarebbe anche peggio se il governo impiegasse la bassa Wtp dimostrata da queste persone per giustificare la propria inazione di fronte al profilarsi di quei rischi. Sarebbe ridicolo concludere che la Wtp debba servire per determinare l’impiego appropriato dei sussidi da parte del governo; una politica ridistributiva non riesce a tener conto della Wtp della gente (sarebbe sensato che il governo distribuisse alla povera gente un assegno di 100 dollari solo perché i desti­ natari dell’assegno sarebbero disposti a pagare 100 dollari per quell’assegno?). Senza contare che in molti casi le persone sono esposte a rischi il cui livello è tale da rappresentare senz’ombra di dubbio una violazione dei loro diritti. In molti casi, tuttavia, non entrano in gioco rischi di questo tipo; nel nostro caso sono rischi di modesta entità statistica. Se anche si trattasse di una questione di diritti, la risposta più appropriata non sarebbe quella di costringere le persone ad acquistare una protezione non voluta, ma di garantire un sus­ 213

sidio che consenta loro di ottenere gratuitamente il beneficio (o che consenta loro di ricevere il beneficio a un prezzo che sia per loro accettabile). Ho sottolineato che il governo dovrebbe fornire determinati beni attraverso la forma del sussidio. Con riguardo al caso semplice e in base agli assunti che ci siamo dati in partenza, si tratta di un problema di regolamentazione. E finché si tratta di questo, l’impiego della Wtp non viola i diritti di nessuno. E con riguardo a quanti commettono un illecito? E giusto ribadire che un’impresa debba essere chiamata a rispondere quando, intenzionalmente o con colpa grave, risulti avere esposto qualcuno a un danno, anche se costui ha dimostrato una bassa Wtp (in tale contesto non provo nemmeno a giustificare questa conclusione; basti qui dire che essa può essere difesa sposando argomenti sia utilitaristici sia deontologici, per cui si tratta di una conclusione che in qualche modo finisce per giovarsi di un accordo teorizzato in modo incompleto). Ma possiamo spingerci molto più in là. Un sistema giuridico ragionevole ben può im­ porre alle imprese di internalizzare i costi sociali legati alle loro attività, imponendo di risarcire i danni che abbiano causato, anche se tali danni non siano stati cagionati intenzionalmente o con colpa grave. Fra i teorici della responsabilità civile ferve un acceso dibattito in merito, e anche in questo caso è possi­ bile giustificare la responsabilità facendo leva su una serie di teorie7. Ma il mio argomento è la regolamentazione e non la riparazione attuabile attraverso il sistema della responsabilità civile. Senza dubbio i responsabili delle scelte regolative do­ vrebbero vietare l’inflizione del danno con dolo o colpa grave. Ma sarebbe curioso affermare che le persone abbiano diritto di essere chiamate a pagare per la riduzione dei rischi più di quanto esse siano disponibili a pagare, almeno se si assume che siano adeguatamente informate. Se le persone sono disposte a pagare solo 25 dollari per eliminare un rischio pari a 1/100.000, fare riferimento ai loro «diritti» non è in grado di giustificare la conclusione che il governo debba imporre una regolamentazione che costi loro 75 dollari. 7 Si veda R.A. Epstein, A Theory o f Strict Liability, in «Journal of Legai Studies», 2, 1973, p. 151; R. Posner, Economie Analysis o f Law, New York, Aspen, 20036, pp. 38-45.

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2.4. Democrazia contro mercati Una differente obiezione richiamerebbe l’attenzione sul fatto che le persone sono cittadini e non meri consumatori; e si batterebbe affinché le scelte regolative vengano prese dopo che i cittadini abbiano avuto modo di deliberare fra loro in merito alle proprie preferenze e ai propri valori. La tesi contraria agli scambi imposti considera le persone alla stregua di consumatori, trattando le decisioni prese in merito alla sicurezza in modo non dissimile dalle decisioni prese con riferimento a qualsiasi bene. Per alcune decisioni questo approccio muove da un presupposto errato. Ho già avuto modo di sottolineare che un buon sistema costituzionale è una democrazia deliberativa e non una macchina programmata per massimizzare la ricchezza. Molte valutazioni sociali dovrebbero essere effettuate da cittadini in esito a un dibattito deliberativo svoltosi fra loro invece di essere condotte limitandosi ad aggregare le scelte individuali dei consumatori. Si considerino alcuni esempi: • Nel contesto della discriminazione razziale e sessuale le società ragionevoli non aggregano la Wtp della gente. Il livello di discriminazione lecito non viene determinato impie­ gando le prove ottenute dal mercato o da studi di valutazione contingente volti a misurare quanto la gente sarebbe disposta a pagare per discriminare (o per non subire discriminazioni). Anche se quanti sono inclini a discriminare fossero disposti a pagare moltissimo per evitare di associarsi a soggetti che fanno parte di gruppi di minoranze razziali, questa discriminazione è vietata. Attraverso il processo politico, i cittadini hanno deciso che certe forme di discriminazione sono illecite, quale che sia la Wtp palesata dalla gente in merito al problema. • Il divieto di molestie sessuali non deriva dall’aver verifi­ cato quanto la gente sarebbe disposta a pagare per introdurre questa misura regolativa. Molti molestatori sarebbero pronti a pagare molto per avere il privilegio di molestare impunemente, e in circostanze che possono essere immaginate sarebbero pronti a pagare più di quanto la possibile vittima sarebbe disposta a pagare per prevenire la molestia. A dispetto di ciò le molestie sono proibite e su ciò la Wtp non ha voce in capitolo. • La protezione delle specie in pericolo non viene effettuata in base alla Wtp aggregata. Se e quando proteggere gli esem215

plari delle specie anim ali p ro tette è un p ro b le m a m orale che va risolto attraverso una d iscu ssio n e d em o cratica e non ricor­ rendo a sim ulazioni sulla sovran ità del co n su m ato re. Qualcuno p otreb b e essere d isp o sto a p agare p arecch io p e r recare danno alle specie in pericolo, alm eno se quel dan n o si ren de necessario per poter condurre attività di sv ilu p p o , m a la W tp di queste persone non viene co n sid erata nella valu tazion e giuridica che stabilisce ciò che con cretam ente p o tre b b e ro fare. • L e legislazione che b an d isce la cru d eltà sugli animali e che im pone doveri di protezion e attiva a van taggio degli esseri um ani non deriva da niente che ab b ia a che fare con la Wtp, ma da determ inazioni di natura m orale. Q u a n d o la legge impone di p roteggere gli anim ali da sofferen ze in giustificate, non ha im portanza che i destin atari di q u esta regolam en tazion e (per esem pio, i lab oratori delle università) sian o d isp o sti a pagare cifre con siderevoli p er evitare di so g g iace re alla regola. N atu­ ralm ente, i costi associati alla regolam entazione p o sso n o giocare lo stesso ruolo nella decision e d a cui d ip e n d e l ’adozion e della regola. M a il giudizio m orale sottostan te alla regola è fortemente radicato in una convinzione (attinente alla n ecessità di evitare sofferenze agli anim ali) che nulla ha a che fare con la Wtp. N el sottolin eare i lim iti di q u alsiasi a p p ro c c io volto a indi­ viduare nelle «p re fe re n z e » il fo n d am en to di q u alsiasi politica regolativa, A m artya Sen ha o sserv ato che « le d iscu ssion i e gli scam bi di idee e perfin o i dibattiti p o litici con trib u iscon o alla form azione e alla revisione dei v a lo r i» 8. S e co n d o Sen, nello specifico con testo della p rotezion e d e ll’am bien te le soluzioni ci richiedono di «p ro c e d e re oltre la m era ricerca delle migliori m odalità di esp ression e di p referen ze in d ivid u ali date, come pure delle proced u re più accessibili p er l ’effettu azion e di scelte basate su quelle p re fe re n z e »9. Q u este osservazion i so n o tan to fo n d am e n tali quan to cor­ rette. In dividuan o alcuni gravi lim iti legati a ll’im p iego della W tp. M a è im p ortan te non leggere in q u e ste osservazioni più di quanto esse con ten gan o. N el g estire le scelte in tema di sicu rezza e salu te leg ate alle n o stre vite p e rso n a li non 8 A. Sen, Rationality an d Freedom , C am bridge (M ass.), H arvard University Press, 2002; trad. it. R azio n alità e libertà, B ologna, Il M ulino, 2005, p. 228. 9 ìbidem , p. 231.

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muoviam o da valori e preferenze statiche. Il più delle volte le nostre scelte son o il prodotto di una riflessione, anche se ci stiam o co m p ortan d o da consumatori. La riflessione e la deliberazione, inclusa la deliberazione che svolgiamo con altri individui, non son o mai assenti dai meccanismi decisionali che operan o aH’interno di un mercato. Di certo, le questioni morali non p o sso n o essere risolte aggregando le disponibilità a pagare esp resse da ciascun individuo. In alcune circostanze le preferenze delle persone, anche se misurate in termini di Wtp, si collocano fuori dal terreno morale e, come tali, non meritano di essere prese in considerazione per conformare le scelte regolative. Inoltre, a volte le persone non intendono pagare più di tanto per beni che hanno forti giustificazioni morali, com e il benessere degli animali. In circostanze del genere il m odello del m ercato diventa inapplicabile e la Wtp non riesce a offrire indicazioni significative. M a cosa accade se si ha riguardo al caso facile che abbiamo descritto poco sopra? Bisogna chiedersi, infatti, se gli argomenti che abbiam o evidenziato inducono a ritenere che il governo debba infischiarsene delle scelte individuali in tema di spesa volta all’elim inazione di rischi a bassa intensità, anche quando queste scelte appaian o adeguatamente informate. Nel contesto della tutela d ell’am biente in generale è importante andare oltre «la m igliore espression e delle preferenze individuali esistenti». Ma ciò non significa che alle persone debba essere imposto di pagare (poniam o) 100 dollari per eliminare un rischio di mortalità pari a 1/100.000, ove le stesse persone siano dispo­ nibili a pagarne solo 75. Se la Wtp delle persone riflette una mancanza di inform azioni o un’insufficiente deliberazione, diventa im portante richiamare l’attenzione delle persone, sia nel governo sia altrove, su questa circostanza. E in alcuni casi potrebbe essere opportun o correggere una bassa Wtp, ove si accerti che q u est’ultima è determinata da errori fattuali o di altra natura. M a questi argomenti non devono essere interpretati come un’obiezione di taglio generale al caso facile, per suggerire che il governo dovrebbe imporre alle persone di ridurre i rischi statistici a costi che le stesse persone ritengano eccessivi.

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2.5. Probabilità molto basse e rischi catastrofici Si ipotizzi che ogni individuo negli Stati Uniti fronteggi ogni anno un rischio di mortalità pari a 1/10.000.000, e che, se questo rischio individuale si concretizzasse, ucciderebbe tutti gli abitanti del paese. Si tratta in termini statistici di un nume­ ro di morti attese pari a 26 l’anno, il quale implica un costo annuale misurabile in più di 158 milioni dollari, se si assume un costo della vita statistica pari a 6,1 milioni di dollari. Ma se tentassimo di registrare quanto ogni singolo individuo sarebbe disposto a pagare per evitare un rischio pari a 1/10.000.000 è verosimile che otterremmo una cifra molto vicina allo zero. Quanto saresti disposto a spendere per sottrarti a un rischio pari a 1/10.000.000? Se la tua risposta è «niente» sei in linea con la maggior parte delle persone. E se la maggioranza delle persone la pensa veramente così, ciò significa che il rischio (che abbiamo postulato essere pari a 1/10.000.000 e che riguarda tutti gli abitanti degli Stati Uniti) determina 26 decessi attesi l’anno e un costo annuale prossimo allo zero, un risultato assai singolare se si considera che stiamo parlando di un rischio pari a 1/10.000.000 non che ciascun americano possa morire, ma che tutti gli americani possano morire10. Questo risultato non sembra costituire un’anomalia. E dav­ vero sensato ritenere che la prevenzione di 26 morti non valga nulla o quasi? Una risposta positiva sembrerebbe obbligata, ove si muova da una prospettiva totalmente ispirata alla Wtp della gente. Ma assegnare un valore vicino allo zero alla prevenzione di dozzine di morti appare piuttosto implausibile. In casi del genere il ricorso alla Wtp sconta gravi problemi. Ma non è tutto: tale conclusione, seppur critica, ancora sottovaluta il problema. In questo caso si tratta di un rischio potenzialmente catastrofico. Come detto, se quella probabilità su 10.000.000 si realizzasse tutti gli americani morirebbero. Anche se per fronteggiare un rischio di questa dimensione le persone denunciano una Wtp vicina allo zero, non sembra giusto ritenere che il paese non debba investire alcunché per prevenire un rischio del genere. Il che è peraltro vero per tutte le precauzioni contro rischi di 10 Per un’utile discussione in merito si veda R.A. Posner, Catastrophe: Risk and Reponse, New York, Oxford University Press, 2004, pp. 165-170.

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catastrofe a bassa probabilità di verificazione: precauzioni di una certa intensità sono giustificate anche se i numeri della Wtp non le fanno apparire tali. Al cospetto di cifre del genere il problema è che, se si interroga il comportamento umano, quest’ultimo non rifletterà il «premio da catastrofe» o un «premio da sterminio», che invece emergerebbe se fosse pos­ sibile misurarlo con modalità diverse. La gente può non voler investire nulla per evitare un rischio pari a 1/10.000.000, ma se viene detto loro che questo rischio incombe su tutti gli abitanti del paese, i quali, ove esso si avverasse, morirebbero tutti, è probabile che le persone finirebbero per esprimere una Wtp ben più elevata. Forse potremmo esprimere cifre più elevate di Wtp se ci venissero poste le domande corrette. Ma parte del problema risiede nel fatto che la Wtp non è un metodo adeguato quando è impiegata per misurare le risposte sociali alle catastrofi, forse perché le persone non sono abituate a effettuare scelte con riguardo a rischi di tal genere. Ritengo che questa sia una valida obiezione all’impiego di un Vsl (basso o vicino allo zero) nel contesto dei rischi catastrofici, anche se le cifre relative alla Wtp paiono giustificare quel Vsl. Come ha dimostrato Richard Posner, si tratta di un argomento importante quando il governo è chiamato a considerare come rispondere a rischi remoti di danni catastroficin. Ma si tenga pre­ sente che l’obiezione sconta i limiti intrinseci che le sono propri. Essa infatti non trova applicazione nella stragrande maggioranza dei casi nei quali il Vsl viene effettivamente impiegato. In quei casi abbiamo a che fare con rischi che vanno da 1/10.000 a 1/100.000 e non viene in rilievo una catastrofe di grandi proporzioni. Ecco dunque un limite all’impiego della Wtp, anche se, come visto, si tratta di un limite tutto sommato circoscritto. 2.6. Effetti nei confronti di terzi Un’ultima obiezione punta l’indice sugli effetti che la Wtp produce nei confronti di terzi. Se persone estranee alla base di calcolo della Wtp sono danneggiate e se il loro benessere non è preso in considerazione, allora il metodo di calcolo alla base 11 Si veda ibidem.

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della Wtp è incompleto. Si assuma, per esempio, che i lavoratori siano retribuiti con 60 dollari per fronteggiare un rischio pari a 1/100.000 e che, ove il rischio dovesse inverarsi, ciò determine­ rebbe un danno agli amici e ai famigliari del lavoratore. Il loro danno non verrebbe considerato. E ciò è un problema. Questo problema ne mette in luce un altro più generale, che viene sciaguratamente trascurato se si considera il modo in cui oggi la Wtp viene impiegata. Le agenzie considerano la Wtp delle persone per eliminare rischi statistici senza prendere in considerazione il fatto che anche altri soggetti - specialmente famigliari e amici stretti - sarebbero disposti a pagare qualcosa per eliminare quei rischi. John potrebbe non volere pagare più di 25 dollari per eliminare un rischio che lo riguarda pari a 1/100.000, ma sua moglie Jane potrebbe volere a sua volta investire 25 dollari per eliminare il rischio che grava su John; se dovessimo aggiungere la Wtp che gli amici e i parenti di John sarebbero disposti a pagare a vantaggio di quest’ultimo, la Wtp totale potrebbe facilmente superare i 100 dollari. Si tratta di un problema reale se si considera il modo in cui la Wtp è correntemente impiegata. Ma nel caso semplice assumiamo che non esistano effetti nei confronti di terzi. L’argomento in favore dell’impiego della Wtp, in base agli assunti dai quali muoviamo, è che il governo non dovrebbe costringere le persone ad acquistare beni nei quali queste ultime non ritengono che valga la pena investire. Almeno a prima vista si tratta di un argomento forte, se si considerano i rischi statistici del tipo di cui si sta trattando in questa sede. Quando invece sono in gioco effetti nei confronti di terzi, le pratiche attraverso le quali la Wtp è correntemente impiegata generano stime davvero troppo basse. La risposta appropriata è aumentare queste stime.

3.

Differenze demografiche, differenze internazionali

3.1. Ricchi e poveri Si assuma che le persone meno abbienti siano disposte a pagare solo 20 dollari per eliminare un rischio statistico pari a 1/100.000, e che le persone ricche siano pronte a pagare

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60 dollari. N e conseguirebbe che il Vsl sarebbe più basso per i poveri piuttosto che per i ricchi, e che una politica di regolamentazione che si fondasse esclusivamente sulla Wtp determinerebbe un Vsl più elevato per i ricchi (6 milioni di dollari) che per i poveri (2 milioni di dollari). Si tratta di una conseguenza iniqua e ingiusta per i ceti più poveri? In base agli assunti da cui muoviamo, no. Come ho già sottolineato, il governo non dovrebbe costringere le persone appartenenti ai ceti meno abbienti a spendere più di quanto esse siano disposte a pagare per eliminare i rischi statistici. Scambi forzosi di questo tipo non solo non fanno bene ai meno abbienti, ma arrecano loro qualche danno (naturalmente i sussidi dovrebbero essere oggetto di un ’analisi diversa). Si è tentati di giustificare un Vsl uniforme, che non distingua fra ricchi e poveri, perché ciò avallerebbe una forma di «equità del rischio», trattando tutti allo stesso modo e ridistribuendo risorse a vantaggio della povera gente. Ma si tratta di un errore. Una Wtp uniforme, desunta (supponiamo) dalla media della popolazione, non ha effetti ridistributivi nei confronti dei poveri più di quanto non faccia qualsiasi forma di scambio forzoso. Se il governo vuole aiutare i ceti più poveri, non deve imporre loro di acquistare beni a un prezzo che corrisponde a quanto i ricchi sarebbero disposti a pagare per acquistare quegli stessi beni. Il governo non impone alla gente di acquistare Volvo, anche se le Volvo ridurrebbero il rischio statistico da incidente stradale. Se il governo imponesse a tutti di acquistare Volvo, non realizzerebbe una ridistribuzione desiderabile. E non aiuterebbe di certo le persone meno abbienti. Adottare un Vsl uniforme è un p o ’ come adottare una politica che imponga a tutti di acquistare una Volvo. 3.2. Paesi ricchi, paesi poveri Quanto ho appena detto ha implicazioni significative per la regolamentazione globale dei rischi. H o sottolineato che i cittadini dei paesi poveri dimostrano un Vsl più basso dei cittadini dei paesi ricchi. M uovendo da questo tipo di dati, alcuni studi sugli effetti del riscaldamento globale valutano le vite dei cittadini dei paesi ricchi più delle vite dei cittadini dei paesi poveri e perciò,

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quando considerano i costi associati ai decessi attesi, riscontrano costi monetari molto più alti per la morte dei cittadini dei paesi ricchi di quanto non accada nel caso di decessi di cittadini dei paesi poveri12. Nel secondo rapporto del 1995, l’International Panel on Climate Change ha calcolato che una vita perduta in un paese industrializzato vale 1,5 milioni di dollari, mentre in un paese in via di sviluppo solo 150.000 dollari13. Queste valu­ tazioni sono state oggetto di numerose critiche. John Broome, per esempio, ha osservato che, seguendo questo approccio, una vita americana vale 10 o 20 vite indiane, una conclusione che egli reputa «assurda»14. Perciò alcuni analisti e lo stesso International Panel hanno preferito elaborare un Vsl mondiale uniforme quantificato in un milione di dollari, una scelta che appare piuttosto arbitraria e potenzialmente dannosa sia per i cittadini dei paesi ricchi sia per quelli dei paesi poveri. Di certo la distinzione fra il valore della vita nei paesi indu­ strializzati ( 1,5 milioni di dollari) e nei paesi in via di sviluppo (150.000 dollari) è al tempo stesso assurda e crudele. Il problema genera dilemmi di non poco conto e l’indicazione di un valore uniforme potrebbe non aiutare nessuno. Bisogna addentrarsi in qualche risvolto più complesso del problema. 12 Si veda www.ipcc.ch/pub/reports.htm. 13 Si veda ibidem. 14 Si veda J. Broome, Cost-Benefit Analysis and Population, in «Journal of Legai Studies», 29, 2000, p. 953, in particolare p. 957, ove si osserva che questa conclusione è un prodotto di ciò che egli definisce «una funzione dell’utilità fondata sul denaro per rappresentare le preferenze di una persona» (ibidem). Nel caso facile, personalmente ritengo che una funzione fondata sul denaro non sia assurda e credo che non lo sia nemmeno nei casi difficili; cfr. infra. Si veda anche la discussione svolta nell’ambito dell’International Panel on Climate Change, Climate Change 2001, disponibile all’indirizzo www.grida.no/climate/ ipcc_tar/wg3/302.htm: «nei paesi poveri il Vsl è generalmente più basso di quanto non sia nei paesi ricchi, ma numerosi analisti ritengono inaccettabile imporre valori diversi per una politica che deve avere finalità internazionali e che deve essere decisa dalla comunità internazionale. In queste circostanze, gli analisti impiegano un Vsl medio e lo applicano a ogni paese. Naturalmente questo importo non corrisponde a quanto gli individui pagherebbero per la riduzione del rischio, ma si tratta di un valore corretto sulla base dell’equità, ove un peso maggiore è attribuito alla Wtp di gruppi a basso reddito. Sulla base dei Vsl degli Usa e della Ue, nonché di un sistema di bilanciamento che appare estremamente attraente in termini di politiche governative per la distribuzione del reddito, il Vsl medio a livello mondiale viene stimato in quasi 1 milione di euro (circa 1 milione di dollari ai tassi di cambio del 1999)».

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3.3. Valori astratti? Qual è il costo monetario di (poniamo) 10.000 decessi in tutto il mondo dovuti al riscaldamento globale, decessi che comprendono 9.000 morti nei paesi in via di sviluppo e 1.000 morti nei paesi industrializzati? La discussione che abbiamo fin qui svolto suggerisce che non è dato rispondere in astratto a questa domanda in modo ragionevole; è prima necessario sapere a che cosa serve una risposta del genere. Se (fuori da un qualsiasi contesto particolare) fosse chiesto di stimare il costo monetario di un certo numero di decessi nel 2020, la migliore risposta sarebbe non rispondere, oppure rispondere con una risata. La valutazione appropriata del Vsl e le sue variazioni fra i vari paesi dipendono dall’uso che si vuol fare del Vsl stesso. Se le varie cifre sono destinate a identificare il valore monetario attuale delle vite umane, per ipotizzare che gli esseri umani in Canada valgono molto più che in Argentina o che le persone povere valgono molto meno di quelle ricche, queste cifre non sono solo ridicole, ma offensive. Ma possiamo andare oltre. Si ipotizzi che le varie cifre siano lette per suggerire la quantità di denaro appropriata che le istituzioni di beneficenza, sia pubbliche sia private, dovreb­ bero spendere per ridurre il rischio di mortalità. In tal caso queste cifre non avrebbero alcun senso. Ammettiamo che una persona povera di un paese povero intenda pagare un dollaro per eliminare un rischio pari a 1/10.000, mentre una persona ricca di una nazione ricca sia disposta a pagare 100 dollari per eliminare lo stesso rischio. Sarebbe assurdo utilizzare questo riscontro per sostenere che un’agenzia internazionale dovrebbe allocare risorse al paese ricco invece che al paese povero. Per afferrare meglio il problema, immaginate che vi sia chiesto di scegliere fra la partecipazione a due programmi: a) il programma A eliminerebbe (con un costo che per voi sarebbe pari a 500 dollari) un rischio pari a 1/10.000 cui sono sottoposte 50 persone in Costarica, ciascuna delle quali è però disposta a pagare 2 dollari per eliminare quello stesso rischio; b) il programma B (anche qui con un costo prospettato a vostro carico di 500 dollari) eliminerebbe un rischio pari a 1/50.000 cui sono sottoposte 50 persone ricche che vivono a 223

Berlino, ciascuna delle quali è disposta a pagare 350 dollari per eliminare quello stesso rischio. A parità di condizioni è assurdo pensare di preferire la messa in sicurezza dei berlinesi, anche se il loro Vsl è molto più elevato. Questo perché il programma A ha una priorità molto maggiore, in quanto aiuterebbe persone che versano in condizioni di povertà estrema. Ciò che è vero a livello indivi­ duale è vero anche nel confronto fra nazioni. 3.4. Il Vsl nei paesi poveri Chiediamoci adesso cosa dovrebbero fare non le istituzioni di beneficenza, ma i governi. Immaginiamo il governo di un paese povero alle prese con la scelta della politica migliore per ridurre i rischi sul lavoro. Almeno in base agli assunti che ho fin qui formulato nel caso semplice, questo governo farebbe bene a cominciare utilizzando il Vsl verosimilmente basso dei suoi cittadini. Se i cittadini di quel paese rivelano una Wtp pari a 2 dollari per eliminare rischi pari a 1/10.000, allora il loro governo non farebbe una buona cosa chiedendo loro di pagare 50 o 10 dollari. E questa la prospettiva che rende ragionevole la variazione di Vsl fra i paesi, laddove i cittadini dei paesi poveri presentano un Vsl più basso di quelli dei paesi ricchi. Qui non si tratta di dire che i cittadini dei paesi poveri valgono meno di quelli di altri paesi. Si tratta di una posizione assai pragmatica, in base alla quale nei casi semplici i responsabili delle politiche regolative impiegano un Vsl più elevato nei paesi ricchi, per­ ché si tratta del modo migliore di rispettare l'autonomia degli individui, migliorando le loro situazioni. Questo rilievo ha importanti implicazioni sul versante degli standard internazionali di lavoro. Si può essere tentati di sostenere che i lavoratori dei paesi poveri, per esempio Cina e India, debbano ricevere la stessa tutela che ricevono i lavoratori statunitensi. Per quale motivo un lavoratore di Pechino dovrebbe sottostare a un rischio di morte significativamente più alto del suo collega di Los Angeles? In linea di principio e in generale non esistono risposte soddisfacenti a questa domanda. Ma, se si guarda al problema in termini di politica regolativa, la risposta è netta. La distribuzione di reddito globale è quella che è, con gli abitanti di Pechino che 224

sono assai meno ricchi di quelli di Los Angeles. E finché le cose staranno così, un sistema che conceda ai lavoratori cinesi la stessa tutela garantita ai lavoratori statunitensi non fa gli interessi dei lavoratori cinesi, se assumiamo che il costo di quella tutela sia sostenuto dai lavoratori stessi. Chiedere a un lavoratore cinese di avere la stessa tutela di un lavoratore statunitense equivale a imporre uno scambio forzoso in termini che sarebbero rifiutati da un lavoratore cinese. L’idea che i lavoratori dei paesi poveri debbano godere della «stessa» tutela dei lavoratori dei paesi ricchi è radicata in una euristica morale che predica che tutte le vite umane abbiano lo stesso valore, un’euristica che di norma funziona, ma che in certi casi gira a vuoto. E si noti, ancora una volta, che le tesi che supportano l’impiego della Wtp non implicano che si debba essere soddi­ sfatti del modo in cui oggi la ricchezza è distribuita. Possiamo ritenere che l’attuale distribuzione della ricchezza sia ingiusta e che debba essere notevolmente modificata. E questo, infatti, è quello che penso. Ma il problema degli scambi forzosi è che non servono affatto per modificare il modo in cui la ricchezza è distribuita. Essi piuttosto peggiorano la situazione delle persone povere, imponendo loro di utilizzare le limitate risorse di cui dispongono per ottenere qualcosa che non desiderano. 4. I casi difficili: distribuzione e benessere C ’è un’ovvia dose di artificiosità negli assunti dai quali muove il caso facile. La cosa più importante è che le persone non sempre sostengono integralmente i costi sociali dei benefici regolativi che ricevono. A volte pagano solo una frazione di questi costi e a volte non pagano nulla. In tali casi l’analisi di­ venta molto più complessa. Nel contesto della regolamentazione in tema di inquinamento atmosferico, per esempio, esistono una serie di effetti distribuitivi, e nel complesso le persone povere e i membri di minoranze sembrano guadagnare da questa situazione15. U n’analisi in termini di efficienza fondata sulla Wtp potrebbe non delineare un quadro adeguato degli effetti che in termini di benessere sociale vengono prodotti 15 Si veda Kahn, The Beneficiaries o f Clean Air Act Regulation, eit.

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dalla regolamentazione dell’inquinamento. Se le persone povere ricevono la parte più notevole dei benefici, il loro guadagno in termini di benessere potrebbe far apparire trascurabile la perdita di benessere sostenuta da quanti pagano in conseguenza di questa regolamentazione, e l’im piego della Wtp potrebbe non rispecchiare in m odo adeguato questa circostanza. Il mo­ tivo per cui la Wtp della gente povera è basso non risiede nel fatto che costoro non stanno ricevendo benefici dal programma regolativo, anzi, ne ottengono moltissimi. L a loro Wtp è bassa solo perché non hanno abbastanza denaro. L a loro autonomia non viene com prom essa se viene concesso loro un beneficio per il quale essi non pagano che una parte dei costi. Tutto sommato, un program m a che distribuisce grandi benefici ai ceti più poveri e impone costi diffusi sul resto della popolazione può prom uovere il benessere sociale. Si assum a che in certi casi questa conclusione sia errata e che, in realtà, il program m a in questione riduca il benessere sociale considerato in termini aggregati. Se anche fosse così, un’analisi fondata sugli effetti in termini di benessere potrebbe non essere risolutiva sul da farsi, perché i guadagni sul piano distributivo vanno considerati attentamente. Se le fasce povere della popolazione guadagnano parecchio, im plem entare il pro­ gramma potrebbe essere opportuno anche se i ceti più abbienti perdono più di quanto quelli poveri guadagnano. Si ricordi che il governo non deve funzionare come una macchina aggregante. Perciò l’im piego della Wtp diventa particolarm ente complesso quando i beneficiari pagano solo una parte dei benefici che ricevono. Illustrerò il punto con qualche esem pio. Si immagini che i beneficiari di una prop osta di regola­ mentazione sulla sicurezza dell’acqua potabile siano disposti a pagare solo 80 dollari per eliminare un rischio alla salute veicolato dall’acqua pari a 1/50.000; che il costo individuale per eliminare un rischio pari a 1/50.000 sia in realtà 100 dollari, ma che per ogni dollaro di questo costo i beneficiari dell’in­ tervento regolativo in questione pagano solo 70 centesimi. La situazione dei beneficiari li rende più ricchi di 10 dollari di quanto sarebbe stato se costoro avessero pagato l’intera somma che avrebbero desiderato pagare. I rimanenti 30 centesimi su ciascun dollaro potrebbero essere pagati dalle compagnie di gestione dell’acquedotto nella form a di m ancati profitti, o dai

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dipendenti della com pagnia nella forma di riduzioni salariali, ovvero di minori posti di lavoro. In questo esempio il costo della regolamentazione sopravanza i benefici ed è inefficiente. Ma, nell’ipotesi che stiamo facendo, la regolamentazione migliora la condizione nella quale si sarebbero trovati i beneficiari in caso di mancata adozione della regola stessa. Se viene impiegato il criterio della Wtp, il fatto che i costi monetizzati eccedano i benefici monetizzati assume un rilievo decisivo. Ma l’analisi è molto più difficile rispetto ai casi facili. La regolamentazione in questione non potrebbe apparire giustificata nel complesso? In base a quali assunti i numeri della Wtp dovrebbero essere considerati decisivi? L’assunto fondam entale è che il governo dovrebbe per­ seguire l ’efficien za econom ica, almeno nel contesto della regolamentazione, e che per far ciò che facciamo dovremmo aggregare i benefici e i costi della regolamentazione rompendo gli indugi solo se i benefici risultano maggiori dei costi. Quando il governo presta ascolto ai numeri della Wtp, agisce come una macchina m assim izzatrice, aggregando tutti i benefici e i costi che risultano in base al criterio della Wtp. Ma si tratta di una concezione m olto discutibile e a mio parere assurda di ciò che il governo dovrebbe fare. Infatti essa segna il passaggio da un criterio paretiano relativamente indiscusso, in base al quale si cerca di m igliorare la posizione di almeno una persona senza peggiorare la situazione di nessuno, a un molto più discuti­ bile criterio di Kaldor-H icks, che valuta le scelte regolative alla luce della seguente domanda: chi vince guadagna più di quanto perdon o i soccom benti? 16 II criterio di Kaldor-Hicks è a volte descritto com e se realizzasse una superiorità paretiana potenziale, perché induce a domandarsi se, in linea di principio, i vincitori sono in grado di compensare i perdenti e se, dopo averlo fatto, rim anga un’eccedenza. Il problema naturalmente è che la superiorità paretiana è solo potenziale. E alla fine ci sono quelli che vincono e quelli che perdono. N ei casi difficili, i vincitori in termini monetari guadagnano meno di quanto perdono i soccombenti e perciò si conclude che la regolam entazione non trova giustificazione. In base 16 Si tratta solo di una versione di quel criterio, perché esso misura il benessere in equivalenti monetari.

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a ll’assu n to che ho a p p e n a ric o rd a to , la rego lam e n tazio n e è invero in efficien te p e r d efin izio n e, p e rch é i c o sti so ciali sono p iù alti dei b en efici sociali. M a si tra tta di u n a regolam en ­ tazione in g iu stificata? Q u e sto non è a ffa tto ch iaro . Il prim o p ro b lem a è che la W tp m isu ra i g u a d a g n i e le p erd ite in term ini m on etari e non in term in i di b e n e sse re . E p ossib ile che nei casi d ifficili i vin cen ti c o n se g u a n o p iù b e n e ssere di quan to ne p e rd a n o i so cc o m b e n ti: la W tp n o n o ffre risposte a q u esto p ro b le m a. Il se c o n d o p ro b le m a è d istrib u tiv o . Si ip o tizzi che la re g o la m e n ta z io n e n o n a p p a ia d e sid e ra b ile p erch é in term in i a g g re g a ti e ssa risu lta d im in u ire il b en essere co m p lessiv o . M a si a ssu m a an ch e ch e q u a n ti g u a d a g n a n o da q u e sta rego lam en tazio n e g o d a n o di v a n ta g g i m in o ri rispetto a co lo ro che p e rd o n o in co n se g u e n z a d e lla m e d e sim a rego­ lam en tazion e. Se, p e r e se m p io , q u a n ti risu lta n o d isp o sti a p ag are 80 d o llari so n o n o tev o lm en te p o v e ri, e q u an ti invece fin isco n o p e r p a g a re il resto d e i c o sti d ella regolam en tazion e so n o n o tev o lm en te ricchi, la re g o la m e n taz io n e p o tre b b e giu ­ stificarsi a d isp e tto d ella p e rd ita ch e e ssa p r o s p e tta in term ini di b e n e sse re co m p lessiv o . U n a tip ica ob iezion e in q u e sto scen ario è che, se si ha di m ira un effetto ridistrib u tivo, e sso non d o v re b b e essere per­ segu ito attraverso la regolam en tazion e, m a attrav erso la leva fiscale, che rap p re sen ta certam en te un m e to d o p iù efficiente p er riallocare riso rse a v an taggio di chi h a b iso g n o *7. Com e regola gen erale q u esta o b iezio n e a p p a re corretta. E meglio dare i so ld i direttam en te ai p o v eri p iu tto sto che cercare di determ in are un effetto rid istrib u tiv o attrav erso lo strum ento

17 Si vedano, p er esem pio, L . K ap low e S. Sh avell, W hy thè L e g a i System Is L e ss E fficien t than thè In com e T ax in R e d istrih u tin g In co m e, in «Journal

o f L egai S tu d ies», 23, 1994, p. 667 («la rid istrib u zio n e attraverso le regole giuridiche non offre vantaggi rispetto la rid istrib u zio n e attrav erso il sistema fiscale e tipicam ente risulta m eno efficien te di q u e st’u ltim o »); S. Shavell, A N o te on Efficiency vs. D istrih u tio n a l E q u ity in L e g a i R u le m a k in g , in «A m e­ rican E con om ics Review (P ap ers & P ro c e e d in g s)», 71, 1981, p. 414 (ove si descrive in che m odo la tassazio n e sul re d d ito p u ò rim ed iare a regole di respon sabilità inefficienti e rid istrib u ire il re d d ito ); D .A . W eisbach , Should L e g a i R u les B e U sed to R e d istrib u te In c o m e ?, in «U n iv ersity o f Chicago Law Review », 70, 2003, p. 439, in p a rtic o la re p p . 4 3 9 -4 4 0 («il sistema fiscale è uno strum ento m igliore delle regole g iu rid ich e p e r ridistribuire il red dito»).

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molto più im p reciso della regolam entazione. Ma si assum a che la ridistrib u zion e fiscale non esista. In tal caso, nonostante la sua inefficienza, la regolam entazione nei casi difficili non può essere scartata.

5. I casi difficili com e i casi fa c ili? E siste un m otivo p e r trattare i casi difficili allo stesso modo dei casi facili? U n m otivo c ’è ed è ottimistico: forse tutto alla fine trova il su o equ ilibrio e si aggiusta. Forse nessun gruppo sarà agevolato o d an n eggiato in m odo sistematico e il sistema fiscale verrà im p iegato a fini ridistributivi. Nel mondo reale potrem m o anche ipotizzare che una indagine che tenti di mi­ surare il b e n e ssere facen d o a m eno della W tp sia estremamente difficile, se non im p o ssib ile, da m ettere in pratica. E, se si ritengono le im p ortan ti considerazioni di taglio ridistributivo, potrebbe segu irn e una guerra fra gruppi di interesse, invece che una d istrib u zio n e a quanti versano in stato di bisogno. Più m odestam ente potrem m o concludere che le agenzie dovrebbero in linea gen erale p ersegu ire l’efficienza, ponendo il Vsl alla base delle p ro p rie decision i, m a dovrebbero nel contempo far sì che i riscontri distrib u tivi abbian o un ruolo correttivo, per esempio stabilendo che, lad d o v e si prospettin o notevoli guadagni a van­ taggio delle p e rso n e m eno abbienti, la regolamentazione possa essere p o rtata avanti anche se non appare giustificata sul piano dell’analisi costi-benefici. Q uello che voglio segnalare è che una valutazione degli effetti (che si ritiene saranno) determinati dalle varie alternative è im portante per prendere decisioni sensate, che i benefici attesi dovreb bero essere com putati in termini monetari, che la W tp rap p re sen ta un punto di partenza e non un punto di arrivo, e che un a com prensione degli effetti distributivi della regolam entazione è suscettibile di m odificare le conclusioni che altrim enti p o tre b b e ro raggiungersi, con l’effetto di dare il via libera o b lo cc are i controlli regolativi tenendo conto degli effetti che q u esti ultim i si ritiene possano avere sui membri più vulnerabili d ella società. T en en d o a m en te quanto appena detto torniamo al Vsl. N el caso facile la ridistribuzion e che ne risulta è certamente perversa, p e rch é è m olto probabile che uno scambio forzato,

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alla luce degli assunti da cui muove l’ipotesi del caso facile, finisca per danneggiare le persone a cui viene imposto. Ma nei casi più difficili non è possibile affermare che i beneficiari della regolamentazione saranno danneggiati, ove il governo dovesse impiegare un valore del Vsl superiore a quello effettivo. Tutto dipende dagli effetti distributivi della regolamentazione. Se i be­ neficiari di quest’ultima sono ricchi, un Vsl elevato determinerà una ridistribuzione perversa, ove i soccombenti siano collocati nel punto più basso della scala dei redditi. Si può ipotizzare un risultato del genere nel caso di un programma regolativo in tema di inquinamento che protegge quanti visitano aree resi­ denziali particolarmente costose. Ma se a esser beneficiari sono i poveri, e se i costi sono sostenuti dai ricchi, un Vsl elevato andrebbe nell’interesse di quanti hanno bisogno. Un esempio è dato dai programmi regolativi concepiti per contrastare l’in­ quinamento, che tutelano in particolare gli abitanti delle città. Possiamo quindi respingere la convinzione di quanti, aderendo strettamente ai dettami dell’economia neoclassica, ritengono che stime accurate del Vsl fondate sulla reale Wtp dovrebbero sempre rappresentare l’unico punto di riferimento della politica regolativa. Ma allo stesso modo possiamo respingere le convin­ zioni degli scettici, i quali ritengono che una Wtp uniforme, proprio perché insensibile alle distinzioni fra gli individui, sia la soluzione migliore per ragioni distributive. Torniamo in questa prospettiva all’impiego del Vsl nelle nazioni povere. Si ipotizzi che in tali paesi il Vsl sia quantificato in 100.000 dollari. Se i governi impiegassero un Vsl di 6 milioni di dollari, ritenendo che i propri cittadini non debbano essere valutati meno di quelli dei paesi ricchi, le conseguenze sarebbero quasi certamente dannose sul piano sociale. Nei casi facili gli scambi forzati si rivelerebbero incredibilmente dannosi per le persone destinate a essere aiutate dall’azione regolativa. Anche nei casi difficili, dove i beneficiari pagano solo una parte dei costi, una nazione che si comportasse in questo modo finirebbe per spendere troppe risorse sulla riduzione dei rischi (o, per essere più precisi, di quel rischio che si trovi a essere collocato in cima all’agenda del regolatore). Ne discenderebbero livelli di regolamentazione tali da avere effetti nefasti sui livelli delle retribuzioni e sui livelli di occupazione (in queste circostanze non sorprende che spesso siano i lavoratori delle nazioni ricche 230

e non quelli delle nazioni povere a protestare per far sì che i lavoratori dei paesi poveri ottengano maggiori tutele; i lavora­ tori dei paesi ricchi sarebbero i principali beneficiari di queste misure, perché esse finirebbero per proteggerli indirettamente dalla concorrenza dei lavoratori dei paesi poveri, mentre que­ sti ultimi sarebbero i veri perdenti di tale azione regolativa). L’inefficienza di un Vsl troppo elevato sarebbe avvertita in modo acuto e in molte forme. Ma se i costi della riduzione del rischio fossero pagati da soggetti terzi, per esempio dai paesi ricchi, ecco allora che i cittadini dei paesi poveri sarebbero aiutati, anche se la riduzione del rischio fosse basata su un Vsl eccessivo. Naturalmente, essi sarebbero quasi certamente aiutati di più se ricevessero benefici in contanti invece che in natura. Ma se la ridistribuzione in termini puramente monetari non è possibile, i benefici regolativi forniti gratuitamente o per una frazione del loro costo reale rimangono una benedizione. 5. Il riscaldamento globale In che m odo allora una istituzione mondiale come l’International Panel on Climate Change dovrebbe valutare in termini monetari i costi dei rischi a cui la popolazione mon­ diale è esposta? Com e ho avuto modo di suggerire, la risposta dipende dallo scopo della valutazione, dal tipo di problema al quale si intende dare risposta. Non esiste un buon metodo, indipendente dal contesto nel quale è destinato a operare, per calcolare i costi aggregati del cambiamento climatico globale nel 2050; e a dire il vero la dom anda appare ridicola, perché essa, semplicemente, non ha senso. Una domanda molto più ragio­ nevole è chiedersi se abbia senso per una particolare nazione accettare uno specifico m odo di affrontare il problema come per esem pio il protocollo di K yoto18. A livello nazionale una valutazione dei costi e dei benefici del protocollo di Kyoto non 18 Si veda W.D. N ordhaus e J. Boyer, Warming thè World. EconomieModels o f G lobal Warming, C am bridge (M ass.), Mit Press, 2000, p. 168 («infine, il protocollo di Kyoto ha conseguenze distributive significative [...]. La parte del leone nel sop p o rtare i costi spetta agli Stati Uniti. E invero gli Stati Uniti sono un netto perdente, mentre in confronto il resto del mondo riceve un beneficio dal protocollo di Kyoto»).

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è molto diversa da una valutazione costi-benefìci di qualsiasi altra regolamentazione. Per gli Stati Uniti, i costi stimati del protocollo di Kyoto sembrano essere più elevati dei benefici da esso attesi. I costi attesi sono pari a 325 miliardi di d o llari19, una somma che varrebbe la pena spendere se i benefici attesi per gli Stati Uniti fossero di entità paragonabile a quella cifra. Ma i benefici complessivi del protocollo di Kyoto sono trascurabili per il semplice fatto che l’obbligo di ridurre le emissioni porrebbe un freno assai lieve al riscaldamento globale, in parte perché il protocollo non tocca le emissioni rapidamente crescenti dei paesi in via di sviluppo20. Nei soli Stati Uniti i benefici quasi certamente non giustificano i costi21. Con riferimento al mondo nella sua globalità il quadro è più com posito, con l’Europa che sembra giocare il ruolo del soggetto che ha più da guadagnare dall’accordo22. Ma anche con riferimento al mondo nella sua interezza, il protocollo di Kyoto sem bra prospettare più costi che benefici, e questo è vero anche se viene considerata la probabilità di verificazione di rischi remoti, ma catastrofici. L’unica cosa da aggiungere in questo caso è che la scienza del riscaldamento globale è molto controversa, per cui, se accettiamo che questo sia territorio dell’incertezza invece che del rischio, e se focalizziamo l’attenzione sugli scenari peggiori, allora il protocollo di Kyoto potrebbe giustificarsi come una mossa ragionevole che va nella direzione dell’innovazione tecnologica e di riduzioni delle emissioni molto più sostenute. Per le nazioni ricche naturalmente gli argomenti spesi per perseguire la riduzione del riscaldamento globale sono rafforzati dal fatto che i danni del riscaldamento globale saranno avvertiti in misura molto più sensibile nelle nazioni povere e anche dal fatto che le nazioni ricche hanno certamente giocato la parte del leone nel creare le condizioni che rendono il riscaldamento globale un grave problema. Perciò è ragionevole sostenere che gli Stati Uniti dovrebbero aderire agli accordi internazionali contro il riscaldamento globale, anche se il paese è destinato a perdere più di quanto abbia da guadagnare da tale decisione. 19 20 21 22

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Si veda ibidem, p. 161. Ibidem, Ibidem, Ìbidem,

p. 152. pp. 130-131. p. 162.

Il problema con il protocollo di Kyoto è che, in base alle stime che appaiono più ragionevoli, esso combina a livello globale costi estremamente elevati con benefici relativamente bassi, anche se il problema del riscaldamento globale viene preso seriamente23. Il perché è presto detto: le concentrazioni atmosferiche di emissioni gassose hanno un effetto cumulativo. Il biossido di carbonio, la principale emissione gassosa, può rimanere nell’atmosfera per centinaia di anni. Ragion per cui anche una drastica riduzione delle emissioni correnti potrà solo rallentare l’incremento del riscaldamento globale, ma non lo ridurrà. Un approccio sensato che va oltre il protocollo di Kyoto porrebbe sotto controllo le emissioni di gas inquinanti nei paesi in via di sviluppo come negli altri paesi, in modo da aumentare i benefici globali attesi, e impiegherebbe il commercio di diritti di emissione, unitamente ad altre strategie, per ridurre i costi complessivi. Per questa via sarebbe possibile raggiungere accordi validi per affrontare il problem a del cambiamento climatico24. Se un trattato mondiale includesse un sistema completo per lo scambio di diritti di emissione, il costo economico del sistema di controlli sarebbe ridotto di molti miliardi di dollari. Pertanto sarebbe sensato adottare un approccio che, nel confronto col protocollo di Kyoto, aumenti i benefici della regolamentazio­ ne e nello stesso tem po ne diminuisca i costi. Nella misura in cui i controlli sulle emissioni nei paesi in via di sviluppo imponessero su questi paesi un onere particolarmente gravoso, le nazioni ricche dovrebbero contribuire a pagare il conto di questa misura regolativa. E forse il caso di adottare misure più radicali? Le nazioni più ricche dovrebbero fare qualcosa di propria iniziativa? Richard Posner suggerisce brutalmente che gli Stati Uniti dovrebbero regolare in modo aggressivo le emissioni di carbone, prevedendo una tassa sul carbone, per il semplice motivo che ciò stimole­ rebbe l’innovazione tecnologica, con l’effetto di garantire una riduzione delle emissioni estremamente significativa, obiettivo che egli ritiene debba essere considerato il fine ultimo della regolamentazione25. Posner ritiene che i rischi potenziali del 2) Si veda ibidem. M Si veda R.B. Stewart e J.B . Wiener, Reconstructing Climate Policy, Washington, Aei Press, 2003. 25 Si veda Posner, Catastrophe , eit.

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riscaldamento globale siano eccezionalmente gravi e certamente catastrofici, e che alla luce delle attuali conoscenze scientifiche non ci possa permettere di liquidare questi rischi, bollandoli come altamente improbabili. Come molti altri, Posner ritiene che il riscaldamento globale prospetti un problem a di incertez­ za. Se Posner ha ragione su questo punto, la sua conclusione appare pienamente sensata. Ritengo però che essa incontri due problemi. Il primo è che dobbiam o saperne di più sugli effetti di una pesante tassa sul carbone. Uno studio condotto dalla Warthon School, per esempio, ha previsto che, in caso di adesione al protocollo di Kyoto, gli Stati Uniti vadano incontro a costi estremamente elevati26, fra cui la perdita di 2,4 milioni di posti di lavoro e una perdita del Pnl pari a 300 miliardi di dollari, con un costo medio annuale stimato in 2.700 dollari per nucleo famigliare, incluso un aumento del costo del carburante pari a 65 centesimi il gallone, oltre al raddoppio dei costi delle bollette per l’energia e l’elettricità. Queste cifre sono quasi sicuramente gonfiate, se si considera che l’innovazione tecnologica sicuramente finirebbe per contenere le spese. Ma Posner sem bra proporre misure molto più rigorose di quelle previste dal protocollo di Kyoto e come tali estremamente costose, con una serie di effetti col­ laterali, specialmente per le fasce di popolazione più povere, le quali non potranno far fronte facilmente a un significativo aumento dei costi dell’energia. Si tratta di una spesa che può valer la pena fronteggiare solo se Posner è nel giusto quando afferma che gli effetti catastrofici del riscaldamento globale non possono considerarsi trascurabili. Ma la mia interpretazione delle prove fin qui disponibili mi porta a dire che Posner è nel torto, e che è molto improbabile che si verifichi un danno di natura veramente catastrofica. Certo, un’azione internazionale nei confronti del riscaldamento globale deve essere intrapresa, ma un programma regolativo da parte degli Stati Uniti che incentivi in modo aggressivo l’adozione di nuove tecnologie per contrastare il problema non è così semplice da giustificare. Sarebbe molto meglio cominciare con accordi meno ambiziosi, e tuttavia capaci di evolversi verso modelli più aggressivi man mano che la tecnologia progredisce. 26 Si veda www.api.org/globalclimate/wefastateimpacts.htm.

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Non sono certo uno specialista delle prove scientifiche che fanno da sfondo al problem a del riscaldamento globale, e non sto cercando in questa sede di risolvere nessuna disputa particolare. La mia conclusione principale è che all’interno di un paese, l’adozione di Vsl differenti è perfettamente sensata, e che le risposte ai quesiti relativi alla valutazione del Vsl de­ vono essere strettamente commisurate alle finalità ultime cui guardano tali quesiti. La discussione in tema di analisi costi-benefici ha toccato numerosi argomenti e sarà utile per tirare le somme sui pro­ blemi di fondo. Il merito principale dell’analisi che abbiamo svolto è quello di dare un senso più concreto della reale posta in gioco, in m odo da poter rispondere sia a una paura ecces­ siva sia a una paura insufficiente. Come minimo, è importante elaborare un’analisi non esclusivamente fondata sui dati mone­ tari in ordine agli effetti attesi sia nel caso in cui si decida di implementare una data azione regolativa, sia nel caso in cui si decida di non farlo. Q uesti effetti dovrebbero essere convertiti in equivalenti monetari, non per creare delle camicie di forza governate dall’aritmetica, ma per dare una struttura all’analisi, promuovendone la coerenza. La Wtp fornisce un punto di partenza, specialm ente nei casi facili, ma non va considerata l’unico criterio dirimente. Margini di sicurezza dovrebbero essere adottati per tutelarsi contro rischi più problematici. E se le fasce più svantaggiate della popolazione vedono schiudersi un particolare beneficio a proprio vantaggio dall’adozione di una data scelta regolativa, può rivelarsi sensato selezionare quell’opzione anche se l’analisi costi-benefici consiglierebbe altrimenti.

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CAPITOLO OTTAVO

IL PA T ER N A LISM O LIBERTARIO

Per intraprendere un’analisi costi-benefici i responsabili delle scelte regolative devono conoscere molte cose. Spesso non sapranno abbastanza per produrre un’analisi di cui potersi fidare. Che fare in casi del genere? A volte un principio anti­ catastrofe appare molto sensato, ma (per fortuna) il campo di applicazione di questo principio è circoscritto. In questo capitolo mi propongo di delineare un approccio alternativo, concepito espressamente per gestire le ipotesi in cui le persone non hanno paura a sufficienza, e tuttavia tale da poter essere impiegato anche quando le persone manifestano una paura eccessiva.

1. Sui risparmi e sulle scelte Cominciamo con due studi sui comportamenti in materia di risparmio. • Confidando di aumentare i risparmi dei lavoratori, molti datori di lavoro hanno adottato una semplice strategia. Inve­ ce di chiedere ai lavoratori di scegliere di partecipare a un piano pensionistico, il cosiddetto piano 401(k )1, presumono che i lavoratori vi vogliano partecipare, per cui questi ultimi saranno inseriti automaticamente nel piano a meno che non manifestino espressamente una diversa volontà. Questo semplice cambiamento della regola di default ha determinato un enorme aumento delle iscrizioni al piano pensionistico2. Questo capitolo è stato scritto in collaborazione con Richard Thaler. 1 La cifra 401 (k) fa riferimento alla corrispondente sezione deìlTnternal Revenue Code statunitense che dà il nome a questo programma pensionistico, un benefit garantito ai dipendenti del settore privato sulla base di una contribuzione da parte datoriale (N .d.T ). 2 Si vedano J.J. Choi et a l., Defined Contribution Pensions. Pian Rules, Participant Choices, and thè Path o f Least Resistance, in «Tax Policy and thè

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• Invece di m odificare la regola di default, alcuni datori hanno proposto ai lavoratori una scelta innovativa: allocare una frazione dei propri futuri aum enti retributivi a un piano di risparmio. Un folto numero di lavoratori ha accettato di speri­ mentare il piano, e solo in pochi hanno poi scelto di uscirne. Ne è seguito un notevole aum ento della percentuale di coloro che hanno scelto un piano di risp arm io3.

I libertari innalzano il vessillo della libertà di scelta e deplo­ rano il paternalismo. I paternalisti sono scettici sulla libertà di scelta senza limiti e deplorano il libertarismo e la sua dottrina della libertà di scelta. L’idea del paternalismo libertario appare quindi, a tutti gli effetti, una contraddizione in termini. Se teniamo presente i due studi appena descritti, tuttavia, questa opinione comune comincia a dissolversi. E possibile proporre una forma di paternalismo dai tratti rispettosi della libera scelta che può essere accettata da quanti sono fermamente impegnati a garantire la libertà di scelta. E invero il paterna­ lismo libertario fornisce la base per comprendere e ripensare una serie di temi del diritto contemporaneo, inclusi gli aspetti legati al benessere e alla sicurezza dei lavoratori, alla tutela dei consumatori e alla famiglia4. In molti settori, le persone difettano di preferenze chiare, stabili e ben strutturate. Ciò che costoro scelgono di fare appare fortemente influenzato dai dettagli del contesto nel quale effettuano le loro scelte, per esempio dalle regole di default, dagli effetti di framing (ovvero, dalle parole con cui sono descritte le possibili opzioni) e dai punti di partenza. Questi condizionamenti derivanti dal contesto rendono poco chiaro il significato stesso del termine «preferenze». Economy», 16, 2002, p. 67, in particolare p. 70; B.C. Madrian e D.F. Shea, The Power of lnertia in 401 (k) Participation and Saving Behavior, in «Quarterly Journal of Economics», 116, 2001, p. 1149, in particolare pp. 1149-1150. 3 Si veda R. Thaler e S. Benartzi, Save More Tomorrow. Using Behavioral Economics to Increase Employee Saving, in «Journal of Politicai Economy», 112, 2004, 164. 4 La difesa del paternalismo libertario è strettamente legata agli argomenti impiegati a supporto del «paternalismo asimmetrico», discussi in modo assai chiaro in C. Camerer et al., Regulation for Conservatives: Behavioral Economics and thè Case for «Asymmetric Paternalism», in «University of Pennsylvania LawReview», 151,2003, p. 1211, in particolare p. 1212, ove si insiste affinché i governi considerino una forma debole di paternalismo, che cerca di aiutare coloro che commettono errori, e che nel contempo proietta minimi costi su coloro che sono pienamente razionali.

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Si consideri la scelta circa l’opportunità di sottoporsi a un intervento chirurgico. E molto più probabile che le persone in procinto di sostenere un intervento chirurgico si sentano dire: «il 90 per cento di quanti subiscono l’intervento 5 anni dopo sono vivi», che «il 10 per cento di quanti si sottopongono all’intervento 5 anni dopo sono morti»5. Quali sono allora le preferenze dei pazienti con riferimento a questo intervento chirurgico? Col tempo il confronto ripetuto con esperienze del genere può eliminare l’effetto framing, ma persino i medici non sfuggono a questo effetto. Oppure torniamo al problema del risparmio pensionistico. E ormai assodato che, se il datore chiede ai suoi lavoratori di compiere una scelta a favore del risparmio, in presenza di una regola di default che attribuisce il 100 per cento della retribuzione al reddito immediato, il livello di risparmi sarà molto più basso di quanto sarebbe se il datore adottasse un programma di risparmio a iscrizione automatico che permette al lavoratore di uscirne se lo desidera. È allora davvero possibile affermare che i lavoratori abbiano preferenze ben definite sulla misura del loro risparmio pensionistico? E questo semplice esempio potrebbe essere esteso a molte altre situazioni. Come il problema del risparmio illustra, le caratteristiche strutturali che le regole giuridiche e quelle organizzative assu­ mono hanno una notevole influenza sulle scelte delle persone. I paternalisti libertari sostengono che queste regole debbano essere selezionate ponendosi l’obiettivo esplicito di migliorare il benessere delle persone che da esse sono destinate a essere influenzate. L’aspetto libertario di queste strategie risiede nel tener fermo il principio generale che, se scelgono di farlo, alle persone deve essere consentito di sottrarsi a un particolare as­ setto regolativo. Prendendo a emblema una celebre espressione, i paternalisti libertari si battono affinché la gente sia lasciata «libera di scegliere»6. Per cui non difendono alcun approccio che limita le scelte individuali. L’aspetto paternalistico consi­ 5 Si veda D.A. Redelmeier, P. Rozin e D. Kahneman, Understanding Patients’ in «Journal of American Medicai Association», 270, 1993, p. 72, in particolare p. 73. 6 Si veda M. Friedman e R. Friedman, Free to Choose. A Personal State­ ment, New York, Harcourt Brace Jovanovich, 1980; trad. it. Liberi di sce­ gliere, Milano, Longanesi, 1981. Di certo sarebbe possibile immaginare una Decisions. Cognitive and Emotional Perspectwes,

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ste nel sostenere che per le istituzioni pubbliche e private sia legittimo cercare di influenzare il comportamento della gente anche quando manchino effetti nei confronti di soggetti terzi. In quest’ottica, una politica diventa «paternalistica» se cerca di influenzare le scelte delle persone a cui si rivolge in un modo che migliora la situazione di chi prende le scelte. In alcuni casi gli individui prendono decisioni che abbassano il loro benessere, decisioni che non verrebbero prese se le persone disponessero di informazioni complete, di abilità cognitive illimitate e non difettassero di autocontrollo. Perciò il paternalismo libertario si propone di correggere sia l’eccesso sia la mancanza di paura. Il paternalismo libertario è una tipologia di paternalismo relativamente debole e non intrusiva, perché le scelte non sono limitate o annullate. Nella sua configurazione più prudente il paternalismo libertario impone costi trascurabili a quanti deci­ dono di non seguire l’opzione prescelta. Tuttavia l’approccio va considerato paternalistico, perché quanti pianificano le scelte a livello pubblico o privato non cercano di indovinare le scelte che le persone effettueranno, e sono consapevoli di perseguire l’obiettivo di fare in modo che la gente compia scelte che possano aumentare il benessere. Alcuni libertari avranno poco o niente da obiettare al paternalismo perseguito da istituzioni private, perché la loro preoccupazione principale è che il diritto e il governo possano diventare paternalisti. Ma gli stessi argomenti che giustificano il paternalismo privato volto ad aumentare il benessere possono applicarsi al governo. Ne consegue che l’antipaternalismo dogmatico di molti esperti di diritto e di politica fa i conti con un problema reale. Si tratta di un dogmatismo che poggia su un assunto infondato e su due idee errate. L’assunto infondato è quello secondo cui quasi tutte le persone, quasi sempre, compiono scelte che corrispondono al loro migliore interesse o che, quantomeno, risultano essere sempre migliori di quelle che altri potrebbero compiere in vece dell’interessato. Si tratta di un’affermazione che o è tautologica, e quindi poco interessante, oppure va sottoposta a verifica. Ed è meglio considerarla verificabile e falsa, anzi smaccatamente comprensione più profonda del libertarismo, che tenti di minimizzare le influenze sulla libera scelta, o di massimizzare senza restrizioni la libertà di scelta. Ma come verrà detto infra, è spesso impossibile evitare di influenzare la libertà di scelta.

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falsa. Infatti nessuno può ritenere che sia vera se ci riflette su. Si assuma che uno scacchista alle prime armi debba sfidare un giocatore esperto. E prevedibile che il principiante perda, perché avrà compiuto scelte non ottimali, scelte che con qual­ che utile consiglio avrebbero facilmente potuto essere corrette. Più in generale, la bontà delle scelte compiute dalle persone è per molti versi una questione empirica, il cui esito è probabile possa variare a seconda dei contesti. In prima approssimazione è ragionevole affermare che la gente compie scelte migliori nei contesti nei quali ha maturato esperienza e dove dispone di buone informazioni (poniamo, scegliere il gusto dei gelati), che in contesti nei quali non ha esperienza e dispone di un cattivo quadro informativo (poniamo, decidere in merito a un intervento chirurgico o a possibili investimenti). La prima idea errata è che esistano valide alternative al pa­ ternalismo. In molte situazioni, un’organizzazione o un agente devono prendere decisioni che avranno effetto sul comporta­ mento di altri soggetti. In queste situazioni non esiste alternativa a un qualche tipo di paternalismo, almeno nella forma di un intervento che produce effetti su ciò che la gente sceglie. Le preferenze degli individui, in certi settori e nell’ambito di un certo spettro di possibilità, sono influenzate dalle scelte fatte dai pianificatori. E ciò è vero sia con riguardo ai soggetti privati sia a quelli pubblici, cioè sia quanti concepiscono le regole giuridiche sia quanti si interfacciano ai consumatori. Come esempio semplice, si consideri un settore immune (di regola!) a problemi legati alla paura: le mense situate nell’ambito di certe istituzioni. La mensa deve prendere una lunga serie di decisioni, fra le quali che tipo di cibo servire, quali ingredienti usare e in quale ordine strutturare le scelte offerte all’utenza. Assumiamo che il direttore della mensa noti che i clienti hanno la tendenza a preferire le pietanze poste all’inizio del bancone del self-service. In che modo il direttore dovrebbe decidere l’ordine di presentazione delle pietanze? Per semplificare, si considerino alcune strategie alternative che il direttore potrebbe adottare per sciogliere il suo dilemma: 1. potrebbe selezionare le scelte che, considerando tutti i vari aspetti, ritiene siano idonee a mettere il cliente nella situazione migliore; 2. potrebbe effettuare una scelta a caso; 241

3. potrebbe scegliere le pietanze che ritiene rendano i clienti più obesi possibile; 4. potrebbe offrire ai clienti ciò che sceglierebbe per sé. L'opzione numero 1 appare paternalistica, ma chi sceglie­ rebbe 1opzione 2 e 3 ? L’opzione 4 è quella che molti oppositori del paternalismo preferirebbero, ma essa è molto più difficile da implementare di quanto non appaia a prima vista. Posti al cospetto di un certo numero di possibilità, i consumatori spesso difetteranno di preferenze particolarmente radicate, nel senso di preferenze di cui si è fermamente convinti e che preesistono alle scelte compiute dal direttore in merito all'ordine da dare alle varie pietanze. Se il modo di disporre le alternative ha effetti significativi sulle scelte fatte dai clienti, allora è evidente che le «preferenze» di questi ultimi formalmente non esistono. Naturalmente, le pressioni del mercato disciplineranno le scelte dei direttori di mensa che devono fare i conti con la con­ correnza. Se ci sono molte mense, è difficile che abbia successo una mensa che offra un cibo sano, ma terribilmente disgusto­ so. I libertari ispirati al mercato potrebbero sostenere che le mense debbano tendere a massimizzare i profitti, selezionando i loro menu nel modo che riesce ad aumentare i profitti. Ma la massimizzazione del profitto non è uno scopo appropriato per le mense che in qualche misura si vedono riconoscere un pri­ vilegio monopolistico, come le mense situate nelle scuole, negli alloggi universitari o negli uffici di alcune società. E anche nel caso delle mense che sfidano la concorrenza si riscontrerà che a volte il successo di mercato non deriva dall’aver indovinato le preferenze della gente, ma dall’offrire beni e servizi che nel complesso, alla prova dei fatti, si rivelano capaci di promuovere il benessere delle persone. I consumatori potrebbero essere sorpresi da ciò che finiscono per preferire, e invero le loro preferenze possono mutare in conseguenza del consumo. E in qualche caso, la disciplina imposta dalle pressioni del mercato concederà comunque al direttore un ampio margine di manovra, perché le preferenze della gente non sono rigidamente confor­ mate nei vari settori rilevanti. La lezione, con riguardo alla paura, è chiara. Se la gente ha paura quando non dovrebbe averne, un’istituzione privata potrebbe strutturare le opzioni rilevanti in modo tale da tener lontane le persone da decisioni che mostrino di far capo a paure 242

ingiustificate. Per esempio, gli ospedali potrebbero presentare le varie opzioni terapeutiche in modo da indurre le persone a scegliere le terapie chiaramente migliori, anche se una piccola probabilità di fallimento potrebbe spaventare qualche paziente, indirizzan­ dolo verso scelte meno promettenti (sul problema è opportuno giustapporre un caveat all’idea dell’autonomia del paziente: alcuni pazienti subiranno un’influenza eccessiva dal fatto di venire a sapere che, su 10.000 pazienti sottopostisi a una data operazione, uno o due di loro sono andati incontro a gravi complicanze). E se le persone non hanno paura quando farebbero bene ad averne, un’istituzione privata dovrebbe usare accorgimenti tali da fare in modo che la gente stia alla larga da situazioni che prospettano rischi reali. Nel contesto del risparmio, per esempio, i datori di lavoro potrebbero tutelare le persone dalla loro incapacità di computare gli effetti delle decisioni sul lungo periodo. Ciò non soddisferà quei libertari che, pur essendo pronti ad accettare questa conclusione per le istituzioni private, si oppon­ gono ai tentativi del governo di influenzare le scelte in nome del benessere sociale. Lo scetticismo nei confronti del governo potreb­ be fondarsi sul fatto che i governi sono meno esposti (ovvero non sono affatto esposti) alla disciplina espressa dalle dinamiche del mercato. Oppure questo scetticismo potrebbe fondarsi sul fatto di ritenere che, mossi dai propri interessi di bottega, i pianificatori del governo tendano a fare ciò che preferiscono^ strutturando le situazioni in modo che i cittadini facciano ciò che i responsabili delle scelte regolative (o i potenti gruppi di interesse lobbistici) vogliono. Per il governo, i rischi di commettere errori e di ecce­ dere sono reali e a volte gravi. Ma i governi, non diversamente dalle mense (che spesso sono gestite dal governo), devono for­ nire punti di partenza di un tipo o di un altro, e questa scelta drastica è inevitabile. Come vedremo, tale scelta viene effettuata ogni giorno attraverso le regole del contratto e della responsa­ bilità extracontrattuale, in un modo che inevitabilmente finisce per condizionare alcune preferenze e alcune scelte. In questa prospettiva, la posizione radicalmente antipaternalista non è di aiuto e non conduce da nessuna parte. La seconda idea errata è che il paternalismo vada sempre a braccetto con la coercizione. Come illustra l’esempio della mensa, la scelta dell’ordine in base al quale offrire le pietanze non espone nessuno a coercizione, e tuttavia qualcuno potrebbe

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preferire alcune pietanze ad altre in base a motivi che risultano paternalistici (nel senso associato all’uso del termine in queste pagine). Si leverebbero forse obiezioni se in una m ensa di una scuola elementare la frutta e l’insalata fossero collocate prima dei dessert e se il risultato fosse quello di aum entare il consumo di mele a scapito del consumo di dolci? L e cose muterebbero in modo sostanziale se gli utenti della m ensa fossero adulti? Poiché in tale circostanza nessuna coercizione viene in rilievo, alcuni tipi di paternalismo dovrebbero essere ritenuti accet­ tabili anche dal più ardente libertario. A quei detrattori del libertarismo che guardano con sospetto la libertà di scelta e che preferirebbero puntare tutto sul benessere sociale, si può rispondere che i pianificatori paternalisti p osson o fare causa comune con i libertari loro nemici adottando politiche volte a promuovere il benessere senza com prim ere la libertà di scelta. Ai pianificatori troppo sicuri di sé si può replicare che i rischi di adottare programmi regolativi confusi o mal motivati si ri­ ducono se alle persone viene offerta l’opportunità di rifiutare le soluzioni preferite dal pianificatore. Una volta compreso che alcune decisioni organizzative sono inevitabili, che non si può fare a m eno di una certa dose di paternalismo, e che le alternative al paternalism o (come scegliere opzioni che peggiorino la situazione della gente) non sono desiderabili, possiamo dismettere (in quanto da ritenersi ormai poco interessante) il dilemma circa l’essere o il non es­ sere paternalistici e possiamo concentrarci su un problem a più costruttivo, che attiene a come scegliere fra le varie possibilità di influenzare le scelte delle persone.

2. La razionalità delle scelte Il fatto di presumere che le scelte individuali debbano essere rispettate è spesso difeso affermando che le persone sono bravis­ sime a compiere le proprie scelte, o almeno che lo fanno meglio di chiunque altro dovesse decidere per loro 7. M a si hanno scarse 7 Tale presunzione viene (di solito, ma non sempre) fondata su questa affermazione. Alcuni degli argomenti standard impiegati contro il paternalismo si fondano non sulle conseguenze, ma sull’autonomia, sulla convinzione che la gente abbia il diritto di fare le proprie scelte anche se sono sbagliate. Così il

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prove empiriche a supporto di questa affermazione, almeno se proposta in una forma così generale. Si consideri la piaga dell’obe­ sità. La percentuale di persone affette da obesità negli Stati Uniti si avvicina al 20 per cento, e più del 60 per cento degli americani sono considerati sovrappeso. Esistono prove inconfutabili del fatto che l’obesità determina gravi rischi per la salute, rivelandosi frequentemente causa di morti premature8. È quasi fantascienza affermare che ciascuno di noi stia scegliendo la dieta ottimale, o una dieta preferibile a quella che sarebbe individuata in base ai consigli di terze persone. Naturalmente la gente razionale non è solo preoccupata per la salute, ma considera il gusto, e sarebbe ingenuo sostenere che tutti coloro che sono sovrappeso non si stanno comportando in modo razionale. E invece il professarsi convinti che tutti o quasi tutti gli americani stiano scegliendo in modo ottimale la loro dieta che appare indifendibile. Ciò che è vero per le diete è vero anche per molti altri comportamenti legati al rischio, inclusi il fumo e l’alcol, che insieme producono ogni anno più di 500.000 morti premature negli Stati Uniti9. In saggio di J.S. Mill, On Liberty (1859), citato in H.B. Acton (a cura di), Utilitarianism, On Liberty, Considerations on Representative Government, London, J.M. Dent & Sons, 1972, p. 69; trad. it. Sulla libertà, Il Saggiatore, 1997, è un misto di tesi fondate sull’autonomia e di tesi consequenzialiste. U nostro discorso ha particolarmente a cuore il benessere e le conseguenze, sebbene come si dirà infra, a volte la libertà di scelta è un elemento costitutivo del benessere. Il rispetto per l’autonomia è adeguatamente preso in considerazione dall’aspetto libertario del paternalismo libertario, come verrà discusso infra. 8 Si veda, per esempio, E.E. Calle et al., Body-Mass Index andMortality in a Prospective Cohort o f U.S. Adults, in «New England Journal of Medicine», 341, 1999, n. 15, p. 1097, ove si riscontra l’aumento del rischio di morte per qualsiasi causa fra la popolazione obesa. Si veda anche National Institute of Diabetes and Digestive and Kidney Diseases, Understanding Adult Obesity, NIH Pub. n. 01-3680, ottobre 2001, www.niddk.nih.gov/health/nutrit/pubs/ unders.htm#Healthrisks, ove si riscontrano connessioni fra l’obesità e i tumori, il diabete, le malattie vascolari, la pressione alta e gli infarti. 9 Si veda C.R. Sunstein, Risk and Reason, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, pp. 8-9, ove si fa riferimento a J.M. McGinnis e W.H. Foege, Actual Causes ofD eath in thè United States, in «Journal of American Medicai Association», 270, 1993, p. 2207. Per una trattazione interessante si veda J. Gruber, Sm okin gs «Internalities», in «Regulation», 25, 2002/2003, n. 4, p. 52 in particolare pp. 54-55, ove si riscontra il mancato collegamento fra il desiderio dei fumatori di ottenere gratificazione nel breve periodo, e il loro desiderio di godere di buona salute nel lungo periodo, e si sostiene che il prelievo fiscale sulle sigarette può aiutare i fumatori a esercitare l’autocontrollo necessario a promuovere i propri interessi di lungo periodo.

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queste circostanze le scelte delle persone non possono ragione­ volmente essere considerate in ogni settore il m odo ottimale per promuovere il loro benessere. Invero molti fumatori, bevitori e grandi mangiatori sono pronti a pagare altre persone per essere aiutati a scegliere modelli di consumo migliori. A un livello più scientifico, le ricerche condotte negli ultimi tre decenni da psicologi ed economisti hanno sollevato numerosi dubbi in merito alla razionalità di molti giudizi e decisioni adot­ tate dalle persone. Abbiamo visto che im piegando le euristiche la gente è sistematicamente indotta a commettere errori, e che le persone compiono scelte diverse a seconda del m odo in cui un problema viene presentato lo ro 10. Le persone inoltre sbagliano a fare previsioni che siano coerenti con il teorema di Bayes n, dimostrano rovesciamenti di preferenze (ovvero, preferiscono A a B e B ad A ) u, e soffrono di problem i di autocontrollo13. E possibile porsi domande su alcuni di questi riscontri, e pensare che le persone sappiano dimostrarsi più brave quando scelgono nel mondo reale che in contesti di laboratorio. Ma anche gli studi condotti su scelte reali evidenziano gli stessi problemi, anche 10 Si vedano C.F. Camerer, Prospect Theory in thè Wild. Evidence from thè Field, in D. Kahneman e A. Tversky (a cura di), Choices, Values, and Frames, Cambridge, Cambridge University P ress, 2000, p. 288, in partico­ lare pp. 294-295; E.J. Johnson et a l., Eraming, Probability Distortions, and Insurance Decisions, in Kahneman e Tversky (a cura di), Choices, Values, and Frames, eit., p. 224, in particolare p. 238. Si tenga presente anche la crescente letteratura sulla incapacità che le person e dim ostrano nel pre­ dire le proprie reazioni emotive agli eventi, una letteratura che potrebbe certamente rivelarsi funzionale alle tesi del patern alism o libertario. Si veda T.D. Wilson e D.T. G ilbert, Affective Forecasting, in «A dvances in Experimental Social Psychology», 35, 2003, p. 345. 11 Si veda D.M. Grether, Bayes' Rule as a Descriptive Model. The Representatweness Heuristic, in «Quarterly Journal of E conom ics», 95, 1980, p. 537. Il teorema di Bayes spiega come modificare le credenze iniziali sulla proba­ bilità di verificazione di una particolare ipotesi alla luce di nuove evidenze. Si veda J. Baron, Thinking and Deciding, C am bridge, C am bridge University Press, 20003, pp. 109-115, il quale offre una spiegazione matematica e illustra esempi di applicazione del teorema. 12 Si veda R.H. Thaler, The Winners Curse. Paradoxes and Anomalies of Economie Life, New York, Free Press, 1992, pp. 79-91. N el contesto giuridico si veda C.R. Sunstein et alP re d ictab ly Incoherent Judgm ents, in «Stanford Law Review», 54, 2002, p. 1153. 13 Si veda S. Friederick, G. Loewenstein e T. O ’D onoughue, Time Discounting and Time Preference. A Criticai Review, in «Jo u rn al o f Economie Literature», 40, 2002, p. 351, in particolare pp. 367-368.

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quando la posta in gioco è alta14. Si ricordi che la decisione di dotarsi di una polizza assicurativa contro i disastri naturali non è determinata dall’esito di un’analisi sistematica costi-benefici, ma del verificarsi di eventi disastrosi in tempi recenti15. Se nel passato recente non si sono registrate alluvioni, le persone che vivono in territori pianeggianti soggetti a inondazioni sono molto meno inclini ad acquistare un’assicurazione. Riscontri di questo tipo non stanno a significare che le scelte delle persone di solito sono sbagliate o che altri possono scegliere meglio di noi. Dimostrano piuttosto che, anche quando la posta in gioco è alta, le persone a volte non compiono le scelte ottimali. In ogni caso qui non si sta parlando di bloccare le scelte, ma di sviluppare strategie che indirizzino le persone verso direzioni capaci di promuoverne il benessere, garantendo loro nel contempo la libertà di scelta. I riscontri in tema di razio14 Per evidenze in merito al fatto che le euristiche e i biases sono all’opera nel mondo reale, anche quando ci sono di mezzo i dollari, si vedano W.F.M. De Bondt e R.H. Thaler, Do Security Analysts Overreact?, in «American Eco­ nomie Review», 80, 1990, n. 2, p. 52 (ove si dimostra che gli analisti finanziari reagiscono eccessivamente ai dati del mercato e producono previsioni che sono o troppo ottimistiche o troppo pessimistiche); R.J. Shiller, Irrational Exuberance, Princeton (N .J.), Princeton University Press, 2000, pp. 135-147, ove si analizzano i biases dell’anchoring e delToverconfidence nei comportamenti di mercato; C.F. Camerer e R.M. Hoghart, The Effects of Financial Incentives in Experiments. A Review o f Capital-Labour-Production Framework, in «Journal of Risk & Uncertainty», 19, 1999, p. 7 (ove si riscontra che gli incentivi economici non hanno mai eliminato anomalie o irrazionalità persistenti). Si veda anche C.F. Camerer, Behavioral Game Theory. Experiments in Strategie ìnterraction, Princeton (N.J.), Princeton University Press, 2003, pp. 60-62 (ove si riscontrano gli scarsi effetti prodotti dal fatto di aumentare la posta in gioco neiram bito di ultimatum game concepiti per testare l’ipotesi che le persone siano egoiste, e ove si soggiunge: «se avessi percepito un dollaro tutte le volte che un economista ha affermato che aumentare la posta in gioco fa sì che il cosiddetto ultimatum behavior diventi egoista, disporrei di un jet privato pronto a decollare per me 24 ore al giorno»). 15 Si veda P. Slovic, H. Kunreuther e G.F. White, Decision Processes, Rationality and Adjustments to Naturai Hazardsy 1974, in P. Slovic, The Perception o f R isk, London, Earthscan, 2000, p. 14 (ove si spiega che l’euristica della disponibilità «è potenzialmente una delle idee che più ci aiutano a compren­ dere le distorsioni che sono probabilmente destinate a verificarsi nella nostra percezione dei disastri naturali»). Si veda anche H. Kunreuther, Mitigating Disaster Losses through Insurance, in «Journal of Risk & Uncertainty», 12, 1996, p. 171, in particolare pp. 174-178 (ove si spiega perché gli individui sono incapaci di adottare precauzioni efficienti sul piano dell’analisi costi-benefici o di assicurarsi volontariamente contro il verificarsi di disastri naturali).

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nalità limitata e i problemi di autocontrollo sono sufficienti a farci capire che vale la pena di esplorare queste strategie. Naturalmente, molte persone non considerano la libertà di scelta un modo per promuovere il benessere, ma un fine in se stesso; queste persone non dovrebbero sollevare obiezioni nei confronti di approcci che, mentre prom ettono di migliorare la vita della gente, preservano quella libertà.

3. Il paternalismo è inevitabile? Qualche anno fa la legge in materia di imposte sui redditi fu modificata in modo da permettere che i lavoratori potessero pagare il parcheggio fornito loro dal datore di lavoro dedu­ cendo il pagamento dal reddito prima del prelievo fiscale. In precedenza questo prelievo poteva avvenire solo sul reddito al netto delle tasse. L’Università di Chicago inoltrò ai dipendenti una circolare sulla novità legislativa e adottò questa misura: al dipendente che non lo avesse comunicato all’ufficio retribuzioni, le deduzioni per il parcheggio sarebbero state effettuate sul reddito prima del prelievo del fiscale invece che dopo. In altre parole, l’Università di Chicago decise che l’opzione di default sarebbe stata pagare il parcheggio con il proprio reddito prima del prelievo fiscale, ma i lavoratori potevano scegliere altrimenti e pagare dal loro reddito al netto delle tasse. Chiamiamo questa scelta piano A. L’ovvia alternativa, il piano B, sarebbe stata quella di comunicare ai dipendenti la novità legislativa infor­ mandoli che, se avessero voluto sfruttare la nuova opportunità, avrebbero dovuto restituire un modulo col quale esprimevano la propria scelta. L’unica differenza fra i due piani è la regola di default. In base al piano A la regola di default è la nuova regola, mentre per il piano B è lo status quo. In che modo l’università dovrebbe scegliere fra queste diverse regole di default? E evidente che tutti i lavoratori preferiscono pagare il parcheggio con il proprio reddito al lordo del prelie­ vo fiscale invece che al netto di esso. Poiché i risparmi sono sostanziali (il costo del parcheggio arriva a 1.200 dollari l’anno) e il costo legato alla restituzione del m odulo è trascurabile, la tradizionale teoria economica predica che la scelta dell’università non sia importante. In base a uno qualsiasi dei piani, i lavoratori 248

sceglierebbero (attivamente in base al piano B, o di default in base al piano A) di dedurre il parcheggio dall’imponibile. Nella vita reale, tuttavia, se l’università avesse adottato il piano B, è ragionevole opinare che molti dipendenti dell’università, specialmente i membri del consiglio di facoltà, avrebbero ancora quel modulo sepolto da qualche parte sotto le carte della propria scrivania e starebbero continuando a pagare notevolmente di più il proprio parcheggio con denaro corrisposto al netto delle tasse. In breve, il piano di default ha avuto un notevole effetto sul comportamento. Spesso quel piano si rivela particolarmente radicato e risulta difficile abbandonarlo. L’idea che i piani di default abbiano effetto sui risultati è comprovata da numerosi esperimenti che hanno documentato il bias dello status quo16. La regola esistente, che promani da un’istituzione privata ovvero dal governo, è spesso particolar­ mente radicata. Questo fenomeno si può illustrare facendo menzione dello studio dei meccanismi di iscrizione automatica nell’ambito dei programmi pensionistici, noti come 401 (k)17. La maggior parte di questi programmi impiegano un meccanismo di entrata non automatica. Quando i lavoratori diventano idonei a partecipare, ricevono una serie di informazioni e un modulo di adesione che va compilato per aderire al programma. In base al meccanismo alternativo di iscrizione automatica, i lavoratori ricevono le stesse informazioni, ma viene detto loro che, se non esprimono il loro rifiuto, saranno iscritti nel programma (con regole di default in merito ai tassi di risparmio e al colloca­ mento degli investimenti che, salvo diversa volontà espressa dal lavoratore, troveranno applicazione). Nelle imprese che offrono un «conguaglio» (il lavoratore partecipa alla contribuzione datoriale in base a una data formula, che entro certi limiti può arrivare al 50 per cento), la maggior parte dei lavoratori alla fine si iscrive al programma, ma in base al meccanismo dell’ar­ ruolamento con iscrizione automatica le iscrizioni avvengono molto prima. Per esempio, Brigitte Madrian e Deninis F. Shea 16 Si vedano D. Kahneman, J.L. Knetsch e R.H. Thaler, The Endowment Effect, Loss Aversion, and Status Quo Bias: Anomalies, in «Journal of Economie

Perspectives», 5, 1991, n. 1, p. 193, in particolare pp. 197-199; W. Samuelson e R. Zeckhauser, Status Quo Bias in Decision Making, in «Journal of Risk & Uncertainty», 1, 1988, p. 7. 17 Cfr. supra, p. 237, note 1 e 2 e testo corrispondente.

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hanno riscontrato che il tasso di iscrizione iniziale sale dal 49 per cento all’86 per cento1S, e Jam es J. Choi e i suoi coautori hanno riscontrato risultati sim ili19. Il meccanismo di iscrizione automatica va forse considerato paternalistico? E se così fosse, dovrebbe essere considerato una sorta di invadente intromissione nelle preferenze del lavoratore? Le migliori risposte a questi due interrogativi sono rispettivamente un sì e un no. Se i datori pensano che la maggior parte dei lavoratori, se si sofferm asse a valutare l’opzione e non smarrisse il modulo di iscrizione, preferireb­ be aderire al programma previdenziale 401(k), ecco allora che, optando per il meccanismo di iscrizione automatica, essi finirebbero per agire in modo paternalistico, nel senso che cercherebbero di indirizzare le preferenze dei lavoratori verso scelte ottimali. Ma poiché nessuno sarebbe costretto a fare alcunché, questo indirizzam ento d o v reb b e essere considerato a prova di critica anche da parte dei più accesi libertari. Il lavoratore deve scegliere un pacchetto di regole, e 18 Si veda Madrian e Shea, The Power o f Inertia in 401(k) Participation and Saving Behavior, eit., pp. 1158-1159. 19 Si veda Choi et al., Defined Contribution Pensions, eit., pp. 76-77 (ove si riscontra come in tre diverse società il tasso di iscrizione, dei lavoratori sei mesi dopo essere stati assunti, in seguito all’adozione del piano automatico di iscrizione era rispettivamente aumentato dal 26,4 al 93,4 per cento; dal 35,7 al 85,9 per cento; dal 42,5 al 96 per cento). Come fenomeno aggiuntivo, la nuova regola di default aveva avuto anche un effetto significativo sul tasso di contribuzione prescelto, si veda Madrian e Shea, The Power o f Inertia in 401(k) Participation and Saving Behavior , eit., pp. 1162-1176. Il tasso di contribuzione di default (pari al 3 per cento) tendeva a restare invariato; la maggioranza dei lavoratori conservava quel tasso anche se il livello di con­ tribuzione era scelto solo dal 10 per cento dei lavoratori assunti prima che il piano di iscrizione automatica fosse applicato (cfr. ibidem , pp. 1162-1163). Il medesimo risultato è stato riscontrato per quanto riguarda Pallocazione di default dell'investimento: mentre meno del 7 per cento dei lavoratori sce­ glievano di allocare il 100 per cento del proprio investimento nei fondi del mercato monetario, una sostanziale maggioranza (75 per cento) dei lavoratori manteneva quel tipo di allocazione dopo che essa era diventata la regola di default (cfr. ibidem, pp. 1168-1171). Nel complesso, la percentuale dei lavoratori che rimanevano attaccati alla regola di default (partecipazione al piano pensionistico con un livello di contribuzione pari al 3 per cento della retribuzione che veniva investito al 100 per cento in un fondo del mercato monetario) era pari al 61 per cento, ma solo F i per cento dei lavoratori sce­ glieva le medesime condizioni prima che esse fossero adottate come regola di default (cfr. ibidemy pp. 1171-1172).

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qualsiasi programma scelga finisce per condizionare le scelte dei lavoratori. Non esistono leggi di natura secondo cui, in assenza di una scelta positivamente compiuta dai lavoratori, nei programmi previdenziali vada a finire lo zero per cento delle retribuzioni. Poiché entrambi i programmi alterano le scelte, nessuno di essi, più dell’altro, può essere ritenuto una sorta di criticabile intromissione. I lettori scettici, che insistono sulla libertà di scelta, potreb­ bero essere tentati di pensare che esista una soluzione per questo dilemma. I datori potrebbero evitare di scegliere un meccani­ smo di default se richiedessero ai lavoratori di compiere una scelta positiva, sia essa affermativa o negativa, rispetto al piano previdenziale. Chiamiamo questa opzione lo scegliere imposto. I medici e i responsabili delle scelte regolative, avendo a che fare con soggetti che in alcuni casi hanno paura e in altri casi non hanno tanta paura dei rischi, potrebbero semplicemente dire alle persone: siete obbligate a scegliere. Indubbiamente l’essere costretti a esprimere la propria scelta appare in alcuni contesti un’opzione attraente, ma a una riflessione un po’ più approfondita dimostra che non sempre si tratta dell’opzione migliore. Infatti, lo stesso richiedere che i lavoratori debbano fare una scelta reca in sé i germi del paternalismo. Alcuni lavoratori (e alcuni pazienti) potrebbero non volere dover fare una scelta (o potrebbero fare la scelta di secondo ordine di non dover compiere la scelta). Perché i datori dovrebbero costringerli a scegliere? Per alcuni versi, lo «scegliere imposto» tributa omaggio alla libertà di scelta, ma non interpreta il desiderio di quanti vorrebbero non dover scegliere; anzi, a questi ultimi può persino apparire irritante e forse inaccettabile. In alcune circostanze lo scegliere imposto non sarebbe appropriato. In alcuni contesti è semplicemente troppo costoso (in termini sia di denaro che di tempo) chiedere a ciascuno di esplicitare il proprio giudizio individuale. Resta in ogni caso sul tappeto un interrogativo empirico: che effetti ha il fatto di essere obbligati a scegliere? Choi e i suoi coautori hanno riscontrato che lo scegliere imposto aumenta il numero delle adesioni riscontrate quando vige un meccanismo che rimette la scelta di aderire alla mera volontà dell’interessato, e arriva a determinare il medesimo numero di iscrizioni al programma che si riscontra nel caso in cui è in 251

vigore una regola di adesione autom atica (con la possibilità di optare diversamente)20. Altri scettici potrebbero opinare che i datori potrebbero e dovrebbero evitare il paternalism o facen do ciò che la maggio­ ranza dei lavoratori vorrebbe che i datori facessero. In base a questo approccio, una regola di default p u ò evitare il paterna­ lismo se riesce a fare in m odo che siano seguite le preferenze dei lavoratori. A volte questa appare una soluzione plausibile e ottimale; come abbiamo visto le analisi di valutazione del rischio correntemente impiegate cercano di fare esattam ente ciò. Ma cosa accade nei casi in cui molti o la m aggior parte dei lavora­ tori non hanno preferenze stabili o ben form ate, e cosa accade se quindi le scelte dei lavoratori finiscono inevitabilm ente per essere conformate dal tipo di regola di default vigente? In questi casi è sterile chiedersi cosa sceglierebbe la m aggior parte dei lavoratori. Le scelte che i lavoratori com pirann o dipenderanno dal modo in cui il datore inquadra e contestualizza queste scelte. Le «preferenze» in quanto tali del lavoratore in circostanze del genere semplicemente non esistono. I risparmi sono un buon esem pio di un settore nel quale è probabile che le preferenze siano m al definite. Pochi nuclei famigliari hanno le conoscenze o la tendenza a calcolare il loro tasso di risparmio ottimale nell’arco di una vita, e anche se effet­ tuassero un calcolo del genere i risultati dip en derebb ero in larga misura da assunti sui tassi di redditività e l’aspettativa di vita. Alla luce di ciò, il com portamento attuale risulta m olto sensibile alle caratteristiche strutturali del program m a di risparm io.

4. Il governo I libertari entusiasti potrebbero essere d isp o sti a ritenere valide queste osservazioni, accettando il tentativo di soggetti privati di indirizzare le scelte delle p erson e verso quelle che 20 Si confronti Choi et al., Defined Contribution Pensions, eit., p. 86 (ove si nota che il 78 per cento dei lavoratori ai quali era stato offerto di iscriversi a un programma che vincolava al risparmio i futuri aumenti di stipendio avevano accettato, e il 62 per cento aveva accettato ed era rimasto nel pro­ gramma anche quando aveva ottenuto tre aumenti) con ibidem, p. 77 (ove si dimostra come in tre diverse società i tassi di iscrizione a programmi di

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appaiono le giuste soluzioni. La pressione del mercato e il nove­ ro spesso assai am pio delle possibili opzioni potrebbero essere ritenuti elementi sufficienti a mettere al riparo da criticabili tentativi di condizionamento. Ma qui ho voluto porre l’accento sulla inevitabilità del paternalismo, e in questa prospettiva gli stessi argomenti finora passati in rassegna si attagliano ad alcune scelte fatte dal governo nel conformare le regole giuridiche.

4.1. Regole di default Regole di default di qualche tipo sono inevitabili, e il più delle volte queste regole condizioneranno scelte e preferenze. Con le parole di un saggio ormai classico: Un m inim o di intervento da parte dello stato è sempre necessario [...] in caso di incidente automobilistico, quando una vittima viene lasciata là dove è caduta, non è perché Dio ha deciso così. Ma è perché lo stato ha attribuito al danneggiarne un entitlement che lo legittima a essere esente da responsabilità, e sarebbe pronto a intervenire per impedire che gli amici della vittima, ove fossero più forti, possano pretendere un risarcimento da colui che ha causato il danno21.

Se le regole con le quali il diritto attribuisce gli entitlement sem brano invisibili e appaiono un modo semplice per tutelare la libertà di scelta è perché risultano talmente ragionevoli e naturali da non apparire un’allocazione giuridica. Ma così non è. Q uan do una regola di default condiziona le preferenze e il com portam ento, essa ha il medesimo effetto delle presun­ zioni con le quali i datori di lavoro gestiscono i programmi previdenziali. Si tratta di un effetto spesso inevitabile e nel contem po im portante. Fino a quando le persone potranno negoziare sulla configurazione della regola di default, è corretto dire che il sistem a giuridico sta tutelando la libertà di scelta e che in tal senso sta obbedendo a ideali libertari. risparmio contemplanti la possibilità di uscire dal programma sei mesi dopo l’assunzione del lavoratore erano, rispettivamente, pari al 93,4 per cento, 85,9 per cento e 96,0 per cento). 21 Cfr. G. Calabresi e A.D. Melamed, Property Rules, Liability Rules, and Inalienability. One Vieto o f thè Cathedral, in «Harvard Law Review», 85, 1972, p. 1089, in particolare pp. 1090-1092.

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I

consumatori, i lavoratori e le persone sposate, per esem­ pio, sono circondati da una rete di allocazioni giuridiche che rappresentano il contesto nel quale gli accordi vengono presi. Con riferimento al diritto del lavoro, e in base alla libertà contrattuale, si può presumere che i lavoratori debbano essere soggetti al licenziamento «in base alla volontà del datore» (come accade negli Stati Uniti), oppure che debbano essere tutelati da un diritto implicito a essere licenziati solo «per giusta causa» (come accade in Europa). Si può presumere che abbiano diritto alle ferie, o no. Si può presumere che debbano essere tutelati da misure di sicurezza, oppure che il datore sia libero di investire in sicurezza nella misura in cui ciò risponde alle pressioni del mercato. In tutti i casi, il sistema giuridico deve stabilire se i lavoratori debbano «comprare» certi diritti dai datori o se debba accadere il contrario. L’intervento del diritto, in questa impor­ tante prospettiva, non può essere evitato. Lo stesso accade per i consumatori, per le persone che hanno contratto matrimonio e per tutti coloro che sono parte di una relazione giuridica. Il più delle volte lo sfondo giuridico è rilevante, anche se i costi transattivi sono pari a zero, perché esso influenza le scelte e le preferenze. In questo contesto, non diversamente da quello privato, una forma di paternalismo appare inevitabile. Con riferimento alle assicurazioni, e con modalità che riguarda­ no da vicino la paura, un esperimento naturale ha dimostrato che la regola di default può rivelarsi molto «radicata»22. Lo stato del New Jersey ha istituito un sistema nel quale il programma assicurativo di default predisposto per gli automobilisti prevedeva, fra le altre cose, un premio relativamente basso, accompagnato dalla perdita del diritto di agire in giudizio. Agli acquirenti delle polizze era concesso di modificare la regola di default, con la possibilità di acquistare il diritto di agire in giudizio scegliendo un programma che contemplasse questo diritto unitamente al pagamento di un premio più elevato. Diversamente, lo stato della Pennsylvania offriva un programma di default che contemplava il pieno diritto di agire in giudizio, accompagnato da premi relativamente più elevati. Gli acquirenti delle polizze potevano scegliere di passare a un altro piano, «vendendo» il più ampio diritto di agire in giudizio per 22 Si veda Camerer, Prospect Theory in thè Wild, eit., pp. 294-295; Johnson et al., Framing, Probability Distorsions, and Insurance Decisions, eit., p. 238.

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pagare un premio più contenuto. In entrambi i casi l’assetto sotteso alla regola di default mostrò la tendenza a essere conservato. Una decisa maggioranza accettò la regola di default in entrambi gli stati, con solo circa il 20 per cento degli automobilisti del New Jersey che acquistarono il pieno diritto di agire in giudizio, a fronte di circa il 75 per cento degli automobilisti della Pennsylvania che scelsero di conservare quel diritto. Non ve ragione per ritenere che i cittadini della Pennsylvania abbiano preferenze sistematicamente diverse da quelle dei cittadini del New Jersey. La ragione ultima dei diversi risultati risiede nella configurazione della regola di default. E invero esperimenti controllati riscontrano i medesimi risultati, dimostrando che il valore del diritto ad agire in giudizio risulta molto più alto quando quest’ultimo viene presentato nell’ambito di un pacchetto di default. Per fare un altro esempio, un effetto sostanziale dovuto a una regola di default giuridica fu riscontrato nel corso di uno studio sulle reazioni di un gruppo di studenti di giurisprudenza alle differenti norme in vigore nei vari stati americani in materia di ferie nell’ambito degli studi legali23. Lo studio era concepito in modo da apparire ragionevolmente realistico, coinvolgendo nei fatti un gruppo di soggetti che erano realmente toccati dai problemi impiegati per costruire l’esperimento. La maggior parte degli studenti di giurisprudenza trascorre molto tempo nel corso dei propri studi a fantasticare sulla propria futura retribuzione, sui periodi di ferie di cui godrà e al rapporto che ci sarà fra questi due elementi. Lo studio contemplava due scenari. Nel primo, la legge statale garantiva due settimane di ferie e agli studenti veniva chiesto di stabilire la propria Wtp mediana (in termini di salario ridotto) per godere di due settimane di ferie aggiuntive. In questa situazione il valore mediano della Wtp risultava 6.000 dollari. Nel secondo scenario la legge statale contemplava una garanzia obbligatoria e non disponibile per due settimane di ferie, ma prevedeva anche a vantaggio dei di­ pendenti (inclusi gli associati della law firm) il diritto di ottenere altre due settimane di ferie che poteva essere «consapevolmente e volontariamente negoziato». Perciò il secondo scenario era esattamente lo stesso del primo, con la differenza che la regola 23 Si veda C.R. Sunstein, Switching thè Default Rule, in «New York Uni­ versity Law Review», 77, 2002, p. 106, in particolare pp. 113-114.

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di default riconosceva altre due settimane di ferie. N el secondo scenario veniva chiesto agli studenti di im m aginare quanto sa­ rebbero stati disposti a pagare i datori per acquistare il diritto alle due settimane aggiuntive di ferie. D a sola, la m odifica della regola di default induceva gli studenti a indicare un valore più che doppio rispetto a quello espresso nell’altro scenario, con una Wtp mediana che risultava pari a 13.000 dollari. Possiamo immaginare infinite variazioni sul tema. Per esempio, il diritto potrebbe autorizzare una situazione nella quale i dipendenti devono scegliere se aderire a un piano pensionistico, oppure imporre ai datori di prevedere un piano di adesioni automatiche, consentendo ai lavoratori di scegliere diversamente. Entrambi i sistemi rispetterebbero il diritto di scelta dei lavoratori e apparirebbero libertari sotto questo pro­ filo. Nella medesima prospettiva, il sistem a giuridico potrebbe non riconoscere il diritto di essere tutelati dalla discriminazione per motivi di età nelle assunzioni, consentendo ai lavoratori dipendenti (attraverso contrattazioni individuali o collettive) di negoziare per acquistare quel diritto. In alternativa, il diritto potrebbe riconoscere ai lavoratori una garanzia di non discri­ minazione, disponibile in via contrattuale. In tutti questi casi è verosimile che la scelta di un approccio piuttosto che dell’altro abbia effetti sulle scelte dei lavoratori. E questa l’accezione nella quale il paternalismo appare inevitabile, sia esso attuato dal governo o dalle istituzioni private.

4.2. Ancore Quando sottolineo l’assenza di preferenze ben strutturate non mi riferisco solo alle regole di default. Si pensi al ruolo cruciale che le «ancore», o punti di partenza, assum ono negli studi di valutazione contingente, che rappresentano una metologia assai importante per valutare beni regolativi come un incremento della sicurezza e della tutela am bientale24. Questi 24 Si veda, per esempio, I.J. Bateman e K .G . Willis (a cura di), Valuing Environmental Preferences, Oxford, O xford University Press, 1999. Ma si veda P.A. Diamond e J.A. Hausman, Contingent Valuation Debate. Is Some Number Better than No Number?, in «Journal o f Econom ie Perspectives», 8, 1994, p. 45, in particolare pp. 49-52 (ove si sostiene che, con riguardo

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studi, che sono im piegati quando non è possibile disporre di valutazioni di m ercato, si prefiggono di domandare alle persone la loro «disp on ibilità a pagare» o, più precisamente, quanto sono disposte a p agare per conseguire un dato beneficio regolativo. Poiché lo sco p o ultimo è quello di determinare ciò che le persone vogliono davvero, gli studi di valutazione contingente sono un tentativo di far em ergere, e non già di influenzare, i valori delle persone. Il paternalism o, nel senso del tentativo di condizionare le preferenze e le scelte, in questo caso non dovrebbe giocare alcun ruolo. M a è estrem am ente difficile per chi realizza gli studi di valutazione contingente, evitare di costruire i medesi­ mi valori che gli studi dovrebbero scoprire25. Il motivo è che, nei contesti in cui questi studi sono impiegati, le persone non dispon gon o di preferenze ben formate, e perciò non è chiaro se la gente p o ssie d a valori molto definiti, tali da poter davvero essere riscon trati da questo tipo di studi. D i conseguenza una qualche form a di paternalism o appare pressoché inevitabile: i valori riferiti dalle persone spesso saranno condizionati, almeno nell’am bito di una certa scala di grandezze, da come vengono pred isp oste le dom ande. L a p ro v a p iù lam pante di questo effetto è fornita da uno studio sulla dispon ibilità a pagare per ridurre i rischi dei decessi e dei ferim enti che ogni anno avvengono sulle strade26. Gli autori di quello stu d io provaron o a ricavare la disponibilità a pagare m assim a e m inim a per ottenere miglioramenti della sicurezza. Alle p erson e veniva presentato un rischio statistico e una somma di d en aro iniziale, e veniva poi chiesto se erano sicuramente ai beni pubblici, le indagini sulla valutazione contingente non riescono a misurare in m odo accurato le preferenze in termini di disponibilità a pa­ gare); « A s k a Silly Q u e stio n ...» : Contingent Valuation o f Naturai Resourse D am ages, in «Harvard Law Review», 105, 1992, p. 1981 (ove si critica la valutazione contingente come metodologia idonea ad accertare i danni alle risorse naturali, sul rilievo che essa produce risultati distorti che determinano oneri risarcitori iniqui). 25 Si veda J.W. Payne, J.R. Bettman e D.A. Schkade, Measuring Constructei Preferences. T ow ard a Building Code , in «Journal of Risk & Uncertainty», 19, 1999, p. 243, in particolare p. 266. 26 Si veda M. Jones-Lee e G. Loomes, Private Values and Public Poltcy, in E.U. Weber, J. Baron e G. Loomes (a cura di), Conflict and Tradeoffs in D ecision M ak in g , Cambridge, Cambridge University Press, 2001, p. 205, in particolare pp. 208-212.

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disposte o sicuramente non disposte a pagare quella somma per eliminare quel rischio, oppure se non ne erano «sicuri». Se erano certi di voler pagare quella somma, la quantità di denaro veniva aumentata fino al punto in cui il soggetto intervistato affermava di non essere più disposto a perdere quella somma per quel beneficio. Se invece si professavano incerti, la somma veniva aumentata o diminuita a seconda dei casi, fino a che le persone intervistate finivano per identificare il proprio massimo e il proprio minimo. Gli autori non stavano cercando di testare gli effetti delle «ancore»; al contrario, erano sensibili al problema delYanchoring solo perché «erano stati avvisati» del possibile insorgere di un problema con la metodologia che avevano adottato, perché le persone «avrebbero potuto essere indebitamente influenzate dalla prima quantità di denaro presentata lo ro »27. Per ovviare a questo problema, lo studio divise a caso le persone intervistate in due sottogruppi. Nel primo la somma presentata inizialmente era pari a 25 sterline inglesi, nel secondo la somma era elevata a 75 sterline. Gli autori confidavano che l’effetto anchoring sarebbe stato modesto, senza determinare conseguenze signi­ ficative su i valori minimi e massimi. Ma questa aspettativa non fu corrisposta. Per qualsiasi livello di rischio prospettato, la disponibilità a pagare minima si rivelò più alta, quando il punto di partenza era pari a 75 sterline, di quanto fosse la massima disponibilità a pagare quando il punto di partenza risultava pari a 25 sterline! Per esempio, una riduzione del rischio annuale di morte pari a 4 su 100.000 determinava una massima di­ sponibilità a pagare di 149 sterline nel caso in cui il punto di partenza era 25 sterline, ma una minima disponibilità a pagare di 232 sterline quando il punto di partenza era 75 sterline (e una disponibilità massima, in questo caso, pari a 350 sterline). La conclusione più sensata è che le persone appaiono incerte circa i valori appropriati da attribuire e che, quali che siano tali valori, le ancore manifestano un effetto che a volte può risultare sorprendentemente rilevante. Non è chiaro in che modo quanti sono interessati a ricava­ re (e non già a condizionare) i valori dagli individui possano rimediare a questo problema. Forse i dati che provengono 27 Ibidem, p. 210.

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dal mercato del lavoro, simili a quelli di cui ho discusso nei precedenti capitoli, determinano una disciplina delle decisioni adeguata, perché riflettono valori che possono essere impiegati realmente. E chiaro che, nei settori nei quali sono condotti studi di valutazione contingente, le persone spesso mancano di preferenze ben definite, e i punti di partenza finiscono per avere importanti conseguenze sul comportamento e sulla scelta. 4.3. «Framing» Nel contesto pervaso dalla paura in cui hanno luogo le decisioni mediche, gli effetti di framing sono rilevanti. Appa­ rentemente la maggior parte delle persone non possiede chiare preferenze circa il modo in cui valutare un intervento medico che dopo un certo numero di anni ha un tasso di sopravvivenza del 90 per cento (a fronte di un 10 per cento di decessi). Un effetto simile è stato riscontrato con riferimento agli obblighi nei confronti delle future generazioni, un argomento politicamente assai dibattuto28. Una serie di studi piuttosto influenti ha riscontrato che le persone attribuiscono alla vita delle persone della generazione corrente un valore molto maggiore di quello attribuito alla vita di chi apparterrà alle prossime generazioni29. Ma risulta che altre descrizioni dello stesso problema producono risultati significativamente diversi30. Qui, come in altri conte­ sti, non è chiaro se le persone hanno davvero preferenze ben formate, tali da poter essere impiegate nell’ambito dell’analisi giuridica. 28 Si veda S. Friederick, Measuring Intergenerational Time Preference. Are Future Lives Valued Less?, in «Journal of Risk & Uncertainty», 26,2003, p. 39 (ove si riscontra come le preferenze temporali intergenerazionali possano essere condizionate in modo notevole dal tipo di domanda specifica che viene posta all’intervistato). 29 Si veda M.L. Cropper, S.K. Aydede e P.R. Portney, Preference for Live Saving Programs. How thè Public Discounts Time and Age, in «Journal of Risk & Uncertainty», 8, 1994, p. 243; M.L. Cropper, S.K. Aydede e P.R. Portney, Rates o f Time Preference for Saving Lives, in «American Economie Review», 82, 1992, p. 469, in particolare p. 472. ,0 Si veda Friederick, Measuring Intergenerational Time Preference, eit., p. 50 («molte delle procedure di elicitazione qui testate indicano che le vite future non sono state prese in considerazione»).

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Queste considerazioni si applicano in m olti settori. Per esempio, è difficile che le persone possano com piere una valuta­ zione immune da condizionamenti di contesto sull’opportunità che il governo fondi la sua politica regolativa sul m etodo del valore di una vita statistica (Vsl) o del valore degli anni vita statistici (Vsly). La valutazione delle persone sarà parecchio influenzata dal modo in cui viene descritta loro la scelta31. Qui, come altrove, le preferenze e i valori non preesistono al framing, ma sono piuttosto il prodotto del fram ing.

5. Perché è difficile evitare che la scelta sia condizionata da altri fattori Per quale preciso motivo le regole di default, i punti di partenza e gli effetti di framing hanno u n ’influenza così no­ tevole? Rispondere alla dom anda im plica effettuare alcune distinzioni.

5.1. L’effetto consiglio Di fronte all’incertezza sul da farsi, le persone tendono a fare affidamento su due euristiche fra loro correlate: fai ciò che fa la maggior parte della gente o fai ciò che la gente informata fa (i coniugi divorziati spesso seguono questa euristica). L e perso­ ne investite da una scelta potrebbero pensare che il valore (o il programma) di default in qualche m odo finisca per esprimere una di queste due euristiche. In molti contesti, qualsiasi punto di partenza esprime un certo contenuto informativo e finisce così per influenzare le scelte che saranno com piute. Quando una regola di default influenza il com portam ento, ciò può ac­ cadere perché essa viene considerata una fonte di informazioni sul modo in cui la gente di norma organizza i propri affari. Si noti che nel contesto del risparmio, le persone possono avere una leggera preferenza per questo o quell’investimento, ma la preferenza iniziale può essere vinta dall’osservazione che la mag­ 31 Si veda C.R. Sunstein, Lwes, Life-Years, and Willingness to Pay, in «Columbia Law Review», 104, 2004, p. 205.

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gior parte delle persone non segue quella scelta di investimento. Alcuni lavoratori potrebbero ritenere, per esempio, di non dover aderire a un program m a pensionistico 401 (k), manifestando la preferenza a non farlo, ma questa idea e questa preferenza potrebbero cam biare dopo aver rilevato che il datore ha reso automatica l’adesione al programma. Con riferimento ai risparmi, il program m a di investimento di default prescelto esprime agli occhi di molti dipendenti una certa legittimazione, forse perché appare loro com e il prodotto di una riflessione consapevole su cosa è più sensato che la maggior parte delle persone faccia.

5.2. L’effetto inerzia Un diversa spiegazione fa invece riferimento all’inerzia32. E probabile che qualsiasi modifica della regola di default o del punto di partenza implichi una certa azione. Anche un’azione banale, com e riem pire un m odulo e consegnarlo, può dar luogo a errori dovuti a lapsu s di memoria, pigrizia, procrastinazio­ ni. M olte person e aspettano fino all’ultimo per depositare la propria richiesta di rim borso tasse, anche quando sono sicure che riceveranno il rim borso. Il potere dell’inerzia deve essere considerato com e una forma di razionalità limitata.

5.3. L’effetto dotazione Una regola di default potrebbe determinare un effetto dotazione «p u ro ». E ben noto che le persone tendono a va­ lutare i beni allocati inizialmente a loro più di quanto non accada quando i beni sono inizialmente allocati altrove33. Ed è ben noto che in molti casi la regola di default determinerà ,2 Si veda Madrian e Shea, The Power ofltiertia in 40l(k) Participation and Savtng Behavior , eit., p. 1171 (ove si nota come, in presenza di un programma di iscrizione automatica, gli individui diventino «risparmiatori passivi» e «non fanno nulla per discostarsi dal tasso di contribuzione di default previsto dal programma»). 35 Si vedano in generale R. Korobkin, Status Quo Bias and Contract Default Rules, in «Cornell Law Review», 83,1998, p. 608; R.H. Thaler, Quasi Rational Economics, New York, Russell Sage Foundation, 1991.

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un effetto dotazione. Q uando si ha a che fare con un effetto dotazione, l'allocazione iniziale fatta da istituzioni pubbliche o private condiziona le scelte delle persone per il sem plice fatto che essa condiziona le loro valutazioni.

5.4. Preferenze poco definite In molti contesti le preferenze delle persone sono poco definite e poco chiare. Si assum a, per esem pio, che alle persone vengano proposte varie opzioni per l’assicurazione contro i rischi gravi o per i programmi di sicurezza sociale. L e persone potrebbero essere in grado di com prendere la prop osta e la confusione potrebbe essere evitata. Tuttavia, potreb bero non possedere una ben definita preferenza a favore di (o contro) un programma simile, però appena più rischioso e con un va­ lore atteso leggermente più alto. In queste circostanze le loro preferenze potrebbero essere direttam ente determ inate dal programma di default, per il sem plice m otivo che le persone difettano di preferenze ben strutturate a cui attingere per modificare i punti di partenza di default. In situazioni che ci risultano poco familiari è assai difficile che esistano preferen­ ze ben strutturate. E probabile che nello studio in materia di sicurezza delle autostrade la scala dei valori derivi dalla poca familiarità con il contesto, la quale fa sì che le persone non dispongano di preferenze chiare da cui ricavare numeri. Gli effetti di framing sulle preferenze tem porali a livello intergene­ razionale confermano che le persone non posseggono preferenze ben strutturate sul modo in cui bilanciare gli interessi delle future generazioni con quelli dei contem poranei.

6. Il inevitabilità del paternalismo Ai nostri fini scegliere fra le varie spiegazioni non appare particolarmente importante. Il dato cruciale è che gli effetti sulle scelte individuali possono rivelarsi inevitabili. Il più delle volte, naturalmente, la cosa migliore da fare non è quella di bloccare le scelte. Tuttavia, è importante sottolineare che la posizione antipaternalista è incoerente, per il sem plice m otivo che non

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v e modo di evitare che il paternalismo influisca sulle scelte e sulle decisioni. Per il libertario militante l’obiettivo, di fronte a questi effetti, è quello di tutelare la libertà di scelta. E poiché gli effetti di fram ing sono anch’essi inevitabili, è insensato e inade­ guato affermare che, quando la gente difetta delle informazioni rilevanti, la migliore risposta è quella di fornire le informazioni mancanti. Per essere effettivo, ogni sforzo teso a informare la gente deve essere fondato sulla comprensione di come la gente pensa davvero. Il modo in cui le cose vengono presentate fa un’enorme differenza: le diverse conseguenze comportamentali di informazioni che altrimenti sarebbero identiche dipendono dal modo in cui le informazioni vengono presentate. Questo assunto ha carattere generale. Di fronte a rischi per la salute, il fatto di presentare le informazioni in modo assai preciso potrebbe finire per rivelarsi controproducente, perché le persone tentano di controllare le proprie paure decidendo di non pensare al rischio tout court. Nell’ambito di studi em­ pirici, «fra messaggi contenenti informazioni identiche alcuni sembrano funzionare meglio di altri, e [...] qualcuno di essi ha persino dimostrato di essere controproducente»34. Quando le campagne di informazione si rivelano fallimentari, ciò accade perché spesso questi sforzi «innescano misure difensive contro­ producenti»35. Perciò l’approccio più efficace va molto oltre la mera comunicazione e combina «un messaggio che induce paura circa le conseguenze dell’inazione con un messaggio ottimistico sull’efficacia del programma di prevenzione proposto»36. Il punto solleva questioni interessanti e complesse su come promuovere il benessere. Se l’informazione accresce notevol­ mente le paure della gente, essa finirà per ridurre il benessere, sia perché la paura non è piacevole, sia perché la paura produce una serie di effetti domino che determinano costi sociali. L’unico suggerimento in questo caso è che, se le persone difettano di informazioni, occorre prestare grande attenzione al modo in cui l’informazione viene elaborata. Se questa attenzione manca, M A. Caplin, Fear as a Policy Instrument, in G. Loewenstein, D. Read e R. Baumeister (a cura di), Time and Decision. Economie And Psychological Perspectives on Intertemporal Choice, New York, Russell Sage Foundation, 2003, p. 441, in particolare p. 443. ^ Ibidem, p. 442. k> Ibidem, p. 443.

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è facile che comunicare l’informazione possa rivelarsi inutile o controproducente. E, nella misura in cui gli ideatori delle strategie informative prendono in considerazione come pensa la gente e tentano di indirizzarla verso direzioni desiderabili, gli sforzi compiuti da costoro avranno sempre, inevitabilmente, una dimensione paternalistica.

7. Oltre l’inevitabile (ma difendendo sempre la libertà di scelta) L’inevitabilità del paternalismo si rende particolarmente evidente quando chi pianifica deve scegliere i punti di partenza o le regole di default. Ma se spostiamo l’attenzione sul benessere della gente è ragionevole chiedersi se il pianificatore debba andare oltre l’inevitabile, e rivendicare di essere un libertario. Nel campo del comportamento dei lavoratori, possono imma­ ginarsi molti esempi sul tema. I lavoratori dipendenti possono essere iscritti automaticamente nei programmi 401 (k), con il diritto di uscirne, ma i datori possono richiedere che, prima che la decisione di uscire dal programma divenga effettiva, il diritto venga esercitato dopo un periodo di riflessione, magari dopo aver consultato un consulente. Richard Thaler e Shlomo Benartzi hanno proposto un metodo per aumentare i contributi ai programmi 401(k) in grado di superare il test della libertà di scelta37. In base al programma Save M ore Tomorrow, i la­ voratori sono invitati a iscriversi a un programma nel quale i loro contributi al piano pensionistico vengono aumentati tutti gli anni in cui il lavoratore consegue un aumento. D opo essersi iscritti al programma, i lavoratori vi rimangono finché non decidono di uscirne o finché raggiungono il massimo tasso di risparmio. Nella prima società che ha deciso di impiegare questo tipo di programma, i lavoratori che hanno aderito hanno visto aumentare il loro tasso di risparmio dal 3,5 all’ 11,6 per cento in poco più di due anni (un aumento pari al triplo). Pochissimi lavoratori hanno scelto di uscire dal piano. Si tratta di un felice esempio concreto di paternalismo libertario. A questo punto dovrebbe essere chiaro che la differenza fra il paternalismo libertario e il paternalismo tout court non 37 Si veda Thaler e Benartzi, Save More Tomorrow, eit., p. 164.

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è né semplice né drastica. Il paternalista libertario insiste nel preservare la scelta, mentre il paternalista puro vuole impe­ dirla. Ma in tutti i casi, il vero problema è il costo connesso all’esercizio della scelta, e in merito si registra un continuum piuttosto che una dicotomia netta. Un paternalista particolar­ mente entusiasta della libertà di scelta desidera far sì che la gente possa ottenere i risultati che preferisce senza incorrere in costi (costui può essere definito un paternalista libertario). Diversamente, un paternalista che confida molto nei propri giudizi sul benessere può desiderare di imporre costi reali alle persone quando, nella sua visione paternalistica, egli ritiene che queste ultime vogliano seguire preferenze che non sono nel loro migliore interesse (anche costui può essere definito un paternalista libertario). R ifiutando entrambi gli atteggiamenti, un paternalista puro proverebbe semplicemente a impedire certe scelte. Ma si noti che ognuno di questi tentativi equivarrà in pratica a un tentativo di imporre costi elevati a chi prova a fare queste scelte. Si consideri una legge che obbliga a indossare le cin­ ture di sicurezza. Se la legge prevede una pesante sanzione amministrativa in caso di violazione dell’obbligo e la legge viene applicata, essa è contro la libera scelta anche se qualche trasgressore potrà esercitare la sua libertà di scelta al costo della sanzione pecuniaria. Più il costo della sanzione pecunia­ ria attesa si avvicina a zero, più la legge si avvicina alla libertà di scelta. Il paternalismo libertario che stiamo descrivendo e difendendo in queste pagine cerca di fare in modo che, come regola generale, la gente possa facilmente evitare l’opzione suggerita dal paternalista.

8. Esem pi e generalizzazioni M olte iniziative proposte di questi tempi nel campo del rischio si ispirano al paternalismo libertario. Alcune di queste previsioni rendono necessario rivelare informazioni, altre mo­ dificano le regole di default, altre ancora tutelano la libertà contrattuale, ma impongono limiti procedurali o sostanziali su quanti tentano di andare in una direzione che, a giudizio del pianificatore, va contro il loro benessere.

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8.1. Diritto del lavoro In base all Vige Discrimination in Employment Act (Adea), i lavoratori dipendenti possono disporre dei propri diritti quando vanno in pensione ’s. Quindi il diritto a non essere discriminati che la legge garantisce loro non impedisce di affermare i valori della libera scelta a tutela della libertà contrattuale. Ma si presu­ me che il lavoratore abbia conservato il diritto, a meno che non sia dato riscontrare un atto di disposizione del diritto «consa­ pevole e volontario». Per assicurarsi che l’atto sia consapevole e volontario, l Adea prescrive una serie di ostacoli di carattere procedurale. Così, l'atto di disposizione deve esplicitamente riferirsi ai «diritti o alle azioni fondate» sull’Adea; il lavoratore deve essere informato per iscritto dell’importanza che assume il consulto con un avvocato prima di dar corso all’atto dispo­ sitivo; al lavoratore devono essere concessi «almeno 21 giorni per valutare l’opportunità dell’atto»; e il contratto che dispone del diritto del lavoratore deve prevedere almeno 7 giorni entro i quali è consentito al lavoratore di recedere dal contratto con­ cluso. L Adea ha senza dubbio un carattere paternalistico, nella misura in cui modifica la regola di default in modo da favorire il lavoratore e stabilisce una serie di limiti procedurali per evitare che il lavoratore disponga del suo diritto senza essere informato in modo adeguato. Al tempo stesso, l’Adea va oltre l’inevitabile livello minimo di paternalismo imponendo limitazioni che au­ mentano significativamente gli oneri del lavoratore intenzionato a disporre del suo diritto. Ma l’Adea tutela la libertà di scelta e così soddisfa il criterio della libera scelta. Il diritto del lavoro offre molti altri esempi. Il Model Em­ ployment Termination Act modifica la regola standard statuni­ tense, la quale prevede che il lavoratore possa essere licenziato senza motivo e senza causa alcuna39. In base al Model Act è riconosciuto ai lavoratori il diritto di essere licenziati solo in base a una causa. Ma il Model Act rispetta il principio della libera scelta, consentendo ai datori di lavoro e ai lavoratori di disporre di questo diritto sulla base di un accordo per cui il 18 29 USC § 626(0(1) (2000).^ w Si veda Model Employment Termination Act , riprodotto in M. A. Rothstein e L. Liebman, Statutory Supplement, Employment Lato. Cases and Materials, New York, Foundation Press, 2003\ p. 21 i.

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datore si impegna a corrispondere un’indennità di fine rapporto ove il licenziamento non avvenga per motivi legati alla scarsa produttività del lavoratore. L’indennità deve corrispondere a una mensilità per ogni anno di durata del rapporto di lavoro. Questo limite alla facoltà di disporre del diritto è sostanziale c in tal senso appare piuttosto diverso dai limiti procedurali previsti dall’Adea; pertanto appare meno rispettoso del prin­ cipio della libera scelta di quanto sarebbe potuto essere. Ma in ogni caso la libertà di scelta è preservata. Un’importante disposizione del Fair Labor Standards Act appartiene alla medesima categoria40. In base a questa norma, i lavoratori possono disporre del loro diritto a non lavorare per più di 40 ore alla settimana, ma solo in cambio di una retribu­ zione che è determinata da una disciplina federale (pari a una volta e mezzo il salario orario del lavoratore). Anche in questo caso, come per il Model Act, viene imposta una limitazione sostanziale al diritto dei lavoratori di scegliere diversamente dall’assetto di default. 8.2. Tutela del consumatore Nel diritto in materia di tutela dei consumatori, il più ovvio esempio di paternalismo libertario riguarda i periodi di ripensamento che sono imposti prima di prendere determi­ nate decisioni41. La ratio sottesa a queste misure è che nella concitazione del momento i consumatori potrebbero prendere decisioni ponderate male o imprudenti. Alla base di ciò vi sono preoccupazioni legate sia alla razionalità limitata sia all’auto­ controllo limitato. Un periodo obbligatorio di ripensamento per le vendite porta a porta, come quello previsto dalla Federai Trade Commission nel 1972, fornisce un esempio semplice42. In base alla regola della Commissione, le vendite porta a porta devono essere accompagnate da un avviso in forma scritta volto a informare gli acquirenti del loro diritto di recedere dall’acquisto entro 3 giorni dalla conclusione del contratto. ■“ Si veda 29 USC § 207(f) (2000). 41 Si veda una trattazione utile in Camerer et al., Regulation for Cornervatives, eit., pp. 1240-1242. Ai 16 CFR § 429.1 (a) (2003).

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Alcune legislazioni statali prevedon o p erio d i o b b ligato ri di attesa prima che le persone p ossan o ottenere una sentenza di divorzio43. Si potrebbero facilmente im m aginare restrizioni simili per la decisione di contrarre m atrim onio, e infatti alcuni stati statunitensi hanno seguito questa s tr a d a 44. C on sap evoli che le persone possono agire im pulsivam ente o in m od o che poi potrà indurre a pentirsi della propria decisione, i resp on sabili delle politiche regolative non im pediscon o le decision i delle persone, ma prevedono un periodo durante il quale le p erson e possano riflettere ponderatamente. Si noti a questo p ro p o sito che i pe­ riodi di ponderazione obbligatori sono particolarm en te indicati e tendono a essere im posti quando coesiston o due condizioni: 1) le persone prendono una decisione che è p er loro inusuale e per la quale, pertanto, difettano di p regresse esperienze; 2) le emozioni tendono a giocare un ruolo im portante nella decisione. Sono queste le circostanze - caratterizzate rispettivam ente da razionalità limitata e da autocontrollo lim itato - nelle quali i consumatori sono particolarmente esp osti al rischio di effettuare scelte di cui in seguito potranno pentirsi.

8.3. Generalizzazioni È adesso possibile delineare alcune sp ecifich e categorie di interventi paternalistici: il patern alism o m inim o, le scelte imposte, i limiti procedurali e quelli sostanziali. Il paternalismo minimo. Il paternalism o m inim o è una form a di paternalismo che si realizza quan do un p ian ificatore (pubblico o privato) prevede una regola di default o un pu n to di partenza con l’obiettivo di influenzare i com portam en ti. N ella misura 43 Si veda per esempio, Cai. Fam. Code § 2339(a) (ove si richiede il trascor­ rere di un termine di 6 mesi prima che il decreto divorzile diventi irrevocabile); Conn. Gen. Stat. § 46b-67(a), ove si richiede un termine di attesa di 90 giorni dal deposito prima che un ricorso divorzile possa diventare procedibile. Per una trattazione generale si veda E.S. Scott, Rational Decisionmaking about Marriage and Divorce, in «Virginia Law Review», 76, 1990, p. 9. 44 Si veda Camerer et al., Regulation for Conservatives, eit., p. 1243 (ove si citano norme che «costringono i potenziali sposini ad attendere un breve periodo di tempo dopo che la loro licenza è stata emanata prima che essi possano veder confermato il proprio vincolo matrimoniale»).

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in cui decidere in m odo diverso dalla regola di default non comporta (o quasi) costi, il paternalismo minimo è una formula che si avvicina molto al libertarismo. Si tratta della forma di paternalismo che ho descritto in termini di inevitabilità. Scelte imposte. N on sapendo quali scelte promuoveranno il benessere, un pianificatore potrebbe rifiutare le regole di default 0 i punti di partenza e costringere le persone a scegliere espli­ citamente (la strategia della scelte imposte). Questo approccio presenta delle analogie con le regole di default che servono a promuovere la comunicazione di informazioni nell’ambito del diritto dei contratti, onde trasmettere ai paciscenti un forte incentivo a rivelare ciò che desiderano45. Nella misura in cui 1 pianificatori costringono le persone a scegliere, che queste ultime lo vogliano o meno, le azioni dei pianificatori assumono una dimensione paternalistica. «Scegliere è opportuno sia per la libertà sia per il benessere» ritengono alcuni, e questo a prescindere dal fatto che la gente sia d ’accordo con loro! Lim iti procedurali. Una forma un p o ’ più aggressiva di pater­ nalismo si verifica quando la regola di default è accompagnata da limiti procedurali concepiti per fare in modo che ogni decisione che si discosti dalla regola di default sia pienamente volontaria e razionale. Quando vigono limiti procedurali, la decisione di discostarsi dalla regola di default non è priva di costi. L a m isura del costo e l’aggressività del paternalismo naturalmente dipendono dal modo in cui sono formulati i limiti. L a giustificazione dei limiti dipenderà dall’esistenza di gravi problem i di razionalità limitata o di autocontrollo limitato. In caso affermativo, i limiti sono giustificati non perché il pianificatore non sia d ’accordo con le scelte delle persone, ma perché caratteristiche identificabili della situa­ zione del caso fanno ritenere probabile che quella decisione sarà sbagliata. Q ueste caratteristiche possono includere un contesto poco fam iliare, la mancanza di esperienza e il rischio di im pulsività. 45 Si veda I. Ayes e R. Gertner, Filling Gaps in Incomplete Contracts. An Economie Theory of Default Rules, in «Yale Law Journal», 99, 1989, p. 87, in particolare p. 89.

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Limiti sostanziali. Un pianificatore potrebbe im porre limiti sostanziali, consentendo alle persone di rifiutare l’assetto di default, ma non in base a qualsiasi condizione che le persone scelgano. In questo approccio, il pianificatore seleziona le condi­ zioni in base alle quali sarà consentito alle parti di andare nella direzione che essi preferiscono. L a m isura dell’allontanamento dal paradigma libertario sarà espressione della differenza fra le condizioni giuridicamente specificate e le condizioni sulle quali le parti troverebbero l’accordo. Anche in questo caso la giustificazione del limite dipende dalla razionalità limitata e dall’autocontrollo limitato.

9. Obiezioni Gli integralisti delTantipaternalismo, e forse qualcun altro, avranno qualcosa da obiettare. Si considerino tre possibili obiezioni. La prima è che il paternalismo libertario im bocca una china scivolosa. Una volta riconosciuta la possibilità che le regole di default in tema di risparmi o di code nelle mense siano concepite in modo paternalistico, p otreb b e sembrare impossibile rinunciare a interventi gravemente offensivi della libertà di scelta. I critici potrebbero ravvisare - al cospetto di paure eccessive o insufficienti - una esplosione di forme di paternalismo inaccettabilmente intrusive: dall’im posizione ai motociclisti dell’obbligo di indossare il casco, alla previsione di periodi di attesa obbligatori prima di perfezionare un acquisto, ai divieti di fumare, a intrusive riforme del sistem a sanitario di vario genere, facilmente immaginabili. D i fronte al rischio di eccedere, non sarebbe meglio evitare del tutto di imboccare questa china scivolosa? Si possono dare tre risposte. Anzitutto, in m olti casi non esistono alternative praticabili al paternalism o in senso debole. Pertanto, i pianificatori almeno qualche piccolo passo sulla chi­ na scivolosa devono farlo. Si ricordi che il paternalism o, nella forma di effetti che condizionano il com portam ento, spesso è inevitabile. In questi casi la china non può essere evitata. In secondo luogo, l’anelito libertario che caratterizza il paternali­ smo libertario, nel richiedere di garantire il diritto di scegliere 270

diversamente, rende la china assai meno scivolosa di quanto possa sem brare. N ella misura in cui gli interventi paternalistici possono essere facilm ente evitati da quanti decidono di sceglie­ re di testa propria, i pericoli enfatizzati dagli antipaternalisti sono depotenziati. In terzo luogo, quanti agitano l’argomento della china scivolosa riconoscono l’esistenza di un problema di autocontrollo, almeno con riguardo ai pianificatori. Ma se persino i pianificatori, fra cui i burocrati e i manager delle risorse um ane, soffrono di problemi di autocontrollo, allora è molto verosim ile che anche il resto delle persone sia esposto a questo problem a. Una seconda e diversa forma di obiezione fa leva su un profondo senso di sfiducia sul fatto che il pianificatore (spe­ cie quello operante in ambito governativo) abbia la capacità di com piere scelte sensate. Anche quanti ritengono che gli individui di norm a scelgono in modo razionale guardano con grande scetticism o a qualsiasi proposta che faccia affidamen­ to sulle scelte razionali dei burocrati. Questo scetticismo si fonda su una serie di convinzioni: che i burocrati difettino della disciplina che proviene dalle forze del mercato; che gli incentivi che prom uovono il benessere degli individui derivino dall’interesse personale; che gruppi di pressione ben organizzati possano condizionare le scelte dei burocrati a proprio vantaggio. N aturalm ente i pianificatori sono esseri umani, sono razional­ mente lim itati e sono soggetti a influenze indebite. Tuttavia i pianificatori um ani sono costretti a compiere scelte, e cercare di far sì che costoro provino a migliorare il benessere delle persone è certam ente meglio che non farlo o fare il contrario. Im ponendo sui program m i regolativi un controllo fondato sul criterio della libera scelta, i responsabili delle scelte regolative possono istituire una forte salvaguardia contro programmi mal ponderati o giustificati in modo inadeguato. Nella misura in cui l’interesse individuale di ciascuno assurge a una forma assai salutare di controllo sui pianificatori, la libertà di scelta diventa un correttivo importante. Una terza obiezion e proviene dal versante opposto. I paladini del paternalism o, galvanizzati dai riscontri che com­ provano i problem i di razionalità limitata e di autocontrollo degli in dividu i, p o treb b ero sostenere che in molti settori l’esortazione a seguire il paternalismo libertario possa rivelarsi 271

troppo limitante. Almeno se si mette a fuoco esclusivamente o soprattutto il benessere, potrebbe apparire chiaro che in certe circostanze le persone non dovrebbero godere della libertà di scelta per la semplice ragione che esse sceglierebbero in modo inadeguato. Per quale motivo si dovrebbe insistere sul pater­ nalismo libertario, in quanto contrapposto a un paternalismo privo di particolari qualificazioni o addirittura palesemente contrario alla libera scelta? L’obiezione solleva complessi problemi assiologici e fattuali, e non è questa la sede adatta per addentrarsi in un difficile territorio filosofico. Ma anche qui si possono abbozzare tre risposte. Anzitutto, i pianificatori sono uomini e pertanto il vero confronto va instaurato fra decisori dalla razionalità limitata con problemi di autocontrollo e pianificatori, che, a loro volta, hanno a che fare con la razionalità limitata e con problemi di autocontrollo. Appare dubbio che questo confronto possa es­ sere operato in astratto. In secondo luogo, il diritto di scegliere diversamente rappresenta una salvaguardia contro pianificatori confusi o mal motivati, e in molti contesti questa salvaguardia è fondamentale, anche se essa potenzialmente può rivelarsi dannosa. In terzo luogo, niente di quanto si è detto fin qui intende negare la possibilità di imporre, in date circostanze, costi significativi su quanti decidono di seguire un proprio corso di condotta, o anche la possibilità di arrivare a negare completamente quella libertà. L’unico requisito richiesto è che, quando non si registrano effetti nei confronti di terze parti, in via generale debba operare una presunzione a favore della libertà di scelta, tale da esser vinta solo quando sia possibile dimostrare che la scelta compiuta dall’individuo sia contraria al benessere di quest’ultimo.

10. Il benessere, la scelta e la paura

Lo scopo di questo capitolo è stato descrivere e formulare argomenti a favore del paternalismo libertario, un approccio che preserva la libertà di scelta e nel contempo incoraggia le istituzioni pubbliche e private a indirizzare le persone verso scelte che ne possano migliorare il benessere. Sul piano em­ pirico la tesi principale è che in molti contesti le preferenze 272

delle persone sono labili e poco definite, e perciò i punti di partenza e le regole di default possono rivelarsi particolarmente radicati e di difficile modificabilità. In tali contesti non aiuta affermare che i responsabili delle scelte regolative «debbano semplicemente rispettare le preferenze delle persone». Ciò che le persone preferiscono, o almeno che scelgono, è determinato dai punti di partenza e dalle regole di default. Sia le istituzioni pubbliche sia quelle private dovrebbero mirare a evitare effetti casuali, poco attenti, arbitrari o dannosi, onde determinare una situazione che renda probabile promuovere il benessere delle persone, adeguatamente definito. Spesso le paure della gente prevalgono sulla realtà, spesso la gente non si preoccupa di rischi piuttosto gravi. Sfortuna­ tamente, oggigiorno molte decisioni sono il prodotto di regole di default che producono effetti sul comportamento che non sono mai stati vagliati con attenzione. I correttivi più ragione­ voli non devono essere volti a impedire le opzioni, ma devono concedere agli esseri umani il beneficio del dubbio. Il paterna­ lismo libertario non è solo una possibilità concettuale, ma un concetto che pone le basi per ripensare molti settori del diritto pubblico e privato.

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CA PITO LO NONO

PAURA E LIBERTÀ

Le libertà civili sono a rischio quando la sicurezza di una nazione è m essa repentaglio? Si consideri uno scenario del tutto plausibile. N el mezzo di minacce che provengono dall’esterno, sono prevedibili reazioni eccessive da parte della collettività. Semplicemente a causa della paura, la collettività e i suoi leader favoriranno misure precauzionali che fanno poco per tutelare la sicurezza, e che compromettono importanti manifestazioni di libertà. N ella storia degli Stati Uniti, l’internamento degli ame­ ricani di origini giapponesi durante la seconda guerra mondiale è forse l’esem pio dotato di maggiore salienza, ma ne esistono molti altri. Si pensi, per esempio, alla sospensione d é l’Habeas Corpus ordinata da Abraham Lincoln durante la guerra civile, alle limitazioni alla libertà di espressione imposte a scapito dei dissidenti durante la prima guerra mondiale, all’applicazione della legge marziale nelle Hawaii da parte dell’amministrazione Roosevelt nel 1941 e alle paure comuniste durante il maccartismo. In molti ritengono che alcune delle misure prese dall’ammini­ strazione Bush all’indomani degli attacchi dell’ 11 settembre rientrino nella stessa categoria di fondo. E davvero necessario, in base a una qualche forma di principio di precauzione, tenere i sospetti terroristi rinchiusi in prigione a Guantanamo? E per quanto tem po? Per il resto della loro vita? Per sp iegare in che modo le paure collettive possono determinare ingiuste intrusioni nelle libertà civili, metterò a fuoco le due fonti di errore che alimentano queste intrusioni: l’euristica della disponibilità e il probability neglect. Se capiamo questi due fenom eni, possiamo comprendere meglio i fattori che alim entano le intollerabili restrizioni alle libertà civili. Ma esiste un fattore aggiuntivo, che rende necessario passare dal­ le dinam iche psicologiche a quelle politiche. Nel reagire alle minacce alla sicurezza, spesso il governo preferisce imporre

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restrizioni alla libertà di tipo selettivo piuttosto che restri­ zioni generalizzate. La selettività determina gravi rischi. Se le restrizioni sono selettive, la maggioranza delle persone non ne avvertirà il peso, con la conseguenza che gli ordinari controlli politici sulle restrizioni alle libertà ingiustificate non saranno attivati. In queste circostanze, la paura collettiva per i rischi alla sicurezza nazionale può facilmente determinare precauzioni che comprimono le libertà civili in modo eccessivo. Le conseguenze per la libertà dovrebbero essere chiare. Se una minaccia esterna viene identificata come tale, è possibile che la gente metta a fuoco lo scenario del caso peggiore, senza considerarne la (bassa) probabilità di verificazione. Il rischio è ancora più elevato quando un sottogruppo identificabile diventa il destinatario delle restrizioni alla libertà del caso. Il risultato saranno misure che non trovano giustificazione nella realtà. L’internamento degli americani di origine nipponica durante la seconda guerra mondiale è stato indubbiamente il prodotto di un fenomeno di probability neglect. La percezione assai vivida di uno scenario peggiore - la collaborazione dei nippoamericani con i nemici della nazione, che avrebbe potuto preludere a una Pearl Harbour californiana - propiziò la decisione di assumere una misura che finì per andare ben al di là di quanto poteva essere opportuno fare per rispondere alla minaccia del tempo. Ciò che appare necessario, allora, è un insieme di salvaguardie che tutelino da ingiustificate restrizioni della libertà, Nelle democrazie costituzionali alcune di queste salvaguardie sono apprestate dalle corti, di solito grazie all’interpretazione dei diritti sanciti nella costituzione. Il problema è che spesse le corti difettano delle informazioni relative al se e al quande la compressione delle libertà civili trova giustificazione. I civii libertarian trascurano questo problema1, essendo inclini a ritene­ 1 II civil libertarianism è una corrente del pensiero politico americano che enfatizza la supremazia dei diritti individuali e delle libertà personali su qual­ siasi forma di autorità, siano esse di matrice pubblica o privata. La duttilità del concetto a cui il civil libertarianism si ispira fa sì che sotto la sua egida si raccolgano libertari più o meno conservatori, cfr. per approfondimenti P Zanotto, Il movimento libertario americano dagli anni sessanta a oggi: radia storico-dottrinali e discriminanti ideo logico-politiche, monografia del Diparti­ mento di Scienze storiche, politiche e sociali deirUniversità di Siena, 2001 www.unisi.it/ricerca/dip/gips/document/monografie/mon_02.pdf (N.d.T.).

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re che l’interpretazione della costituzione non dovrebbe subire modifiche anche al cospetto di una intensa paura della colletti­ vità. Si tratta di un’idea implausibile. La legittimità dell’azione del governo dipende dalla forza degli argomenti che esso può invocare a suo favore. Se la sicurezza nazionale è davvero in pericolo, gli argomenti inevitabilmente sembreranno, e spesso saranno, molto più forti. Nel contesto della regolamentazione della sicurezza e della salute in generale, ho ribadito che l’analisi costi-benefici può essere un correttivo, seppur parziale, contro la paura insufficiente o quella eccessiva. Quando la sicurezza nazionale è minacciata, l’analisi costi-benefici diventa assai meno promettente, perché di solito le probabilità di un attacco non possono essere oggetto di stima. Ma ciò non significa che le corti non possano giocare un ruolo costruttivo. Propongo tre possibilità. Primo, le corti dovrebbero chiedere che le restrizioni alle libertà civili siano autorizzate dal potere legislativo, e non solo dal potere esecutivo. Secondo, le corti dovrebbero sottoporre a scrutinio speciale le misure che restringono la libertà di chi appartiene a minoranze ben definite, per il semplice motivo che le normali salvaguardie di matrice politica non sono attendibili quando le restrizioni imposte dalla legge non colpiscono la collettività in generale. Terzo, un bilanciamento caso per caso condotto dalle corti potrebbe finire per legittimare eccessive restrizioni della liber­ tà, cosicché nel mondo reale regole chiare e presunzioni ben definite, grazie alla loro rigidità, potrebbero alla fine rivelarsi migliori del bilanciamento operato dalle corti. 1. Cattivi bilanciamenti: una spiegazione semplice La comprensione delle dinamiche della paura aiuta a com­ prendere perché gli individui e il governo spesso reagiscono in modo eccessivo ai rischi alla sicurezza nazionale. Se i mass media mettono a fuoco uno o più incidenti, la paura collettiva potrebbe rivelarsi notevolmente sproporzionata rispetto alla realtà. E se uno o più incidenti non solo sono salienti, ma anche capaci di suscitare forti emozioni, è possibile che la gente dimentichi di pensare alle probabilità. Sia le istituzioni pubbliche sia quelle private reagiranno in modo esagerato. Ciò è quanto è accaduto

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quasi certamente negli Stati Uniti in occasione degli attacchi all’antrace del 2001, quando isolati incidenti hanno indotto le istituzioni pubbliche e private a esagerare una minaccia che sul piano delle probabilità appariva assai ridotta. Naturalmente è possibile che questi incidenti siano un segnale premonitore delle cose che verranno. E potrebbero anche porre fine a una specie di torpore collettivo, inducendo le persone a prestare attenzione a pericoli erroneamente sottovalutati. La mia unica osservazione è che, se si considera come funziona la cognizione umana, è difficile che questo risultato positivo sia garantito; ed è invece probabile che l’aumento della paura collettiva si mostri ingiustificato. Si postuli adesso che in qualsiasi situazione esista sempre una qualche sorta di bilanciamento fra sicurezza e libertà civili. Si postuli, cioè, che il grado di appropriatezza di un’intrusione nel campo della libertà sia una funzione della maggiore sicurezza che deriva da quella intrusione. Il problema è che, se le persone hanno più paura di quanto dovrebbero averne, esse tenderanno a tollerare intrusioni nel campo delle libertà che non sarebbero giustificate se la paura non fosse sproporzionata. Si ipotizzi che esista un punto di equilibrio ottimale fra le diverse variabili rilevanti. Se così fosse, allora l’euristica della disponibilità e il probability neglect, combinandosi con le influenze sociali, pro­ durrebbero inevitabilmente un equilibrio meno che ottimale, ovvero un equilibrio tale da sacrificare ingiustamente la libertà in nome della sicurezza. Nel contesto delle minacce alla sicu­ rezza nazionale è agevole predire che i governi finiranno per sacrificare le libertà civili senza adeguate giustificazioni. La storia offre innumerevoli esempi in tal senso2. Si tratta di applicazioni particolarmente problematiche del principio di precauzione, che, in assenza di reali necessità, compromettono la libertà in nome di un rischio esagerato. 2. Pessimi bilanciamenti: limitazioni selettive Nel contesto della sicurezza nazionale, e invero in chiave più generale, una chiara comprensione degli effetti di una paura eccessiva deve tener conto di importanti «distinguo». Possiamo 2 Limitandosi ai soli Stati Uniti, si veda G.R. Stone, Perilous Times, New York, Norton, 2004.

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immaginare limitazioni alla libertà che si applicano a tutti o alla maggior parte delle persone, come un inasprimento generale delle procedure di sicurezza per i controlli sui passeggeri negli aeroporti, oppure una misura che assoggetta chiunque, cittadini e non, a uno speciale controllo governativo quando si ha a che fare con sostanze che potrebbero essere impiegate per atti di bioterrorismo. Al contrario, possiamo immaginare limitazioni della libertà che si applicano solo ad alcuni o a pochi, come nel caso delle limitazioni imposte ai nippoamericani, delle schedature razziali, o del confino dei combattenti nemici a Guantanamo. Q uando le limitazioni si applicano a tutti o alla maggioranza delle persone, è ragionevole pensare che le salvaguardie di tipo politico possano esercitare un valido controllo su un’azione governativa ingiustificata. Se il peso della limitazione è largamente diffuso fra la popolazione, è improbabile che si riveli accettabile, a meno che la maggioranza delle persone sia convinta che esistano buone ragioni per mantenere in piedi la restrizione. Nel caso di limitazioni davvero pesanti, le persone non saranno convinte della loro opportunità, a meno che una buona ragione sia evidente o sia in qualche modo offerta loro (metto da un canto la possibilità che a causa del meccanismo descritto le persone tendano a pensare che un buon motivo per il mantenimento della limitazione esista anche quando in realtà non c’è). Ma se la limitazione è a carico esclusivo di un ben definito sottogruppo, il controllo politico è messo fuori gioco. Le intrusioni volte a limitare la libertà potranno essere imposte anche se appaiono difficilmente giustificabili. Quanto detto può essere icasticamente riassunto richia­ mando un passo di Friedrich von Hayek sulla mie of law. Scrive Hayek: Se ogni divieto e ogni ordine è tale per tutti, senza eccezioni (salvo quelle che provengono da un’altra norma generale) e se persino l’autorità non ha alcun potere speciale oltre il potere di applicare la legge, poco di quanto ragionevolmente si può voler fare è probabile che sia vietato.

Pertanto, «m algrado ciò sono relativamente innocue, pur se irritanti, molte restrizioni imposte letteralmente a tutti [...] rispetto a quelle che possono essere imposte solo a pochi». Così, è «significativo che molte restrizioni su quelle che con­ 279

sideriamo nostre faccende private (si pensi alla legislazione suntuaria) sono state di solito im poste solo a un ristretto gruppo di persone o si sono rese applicabili, come nel caso del priobizionismo, solo perché lo stato si riservava il diritto di accordare deroghe»3. In breve, Hayek richiama l’attenzione sul fatto che il rischio di oneri ingiustificati aumenta in modo drammatico se le limitazioni sono selettive e se la maggioranza delle persone non ha motivo di preoccuparsene. Ciò è parti­ colarmente importante nelle situazioni ove la paura collettiva determina limitazioni alle libertà civili. E verosimile che, se le misure che discendono dalla paura im pongono loro di soppor­ tare conseguenze gravose, le persone si interroghino a fondo sulla serietà dei fatti che giustificano la loro paura. Se invece la paura eccessiva non reca con sé. costi, perché saranno altri a doverne sopportare gli oneri, ecco che la mera esistenza di un «rischio» e la mera percezione di una paura sembreranno fornire una giustificazione utile a limitare le libertà.

3. Il «dimenticare» il bilanciamento e la libertà In questa prospettiva torniamo al tentativo di Howard Margolis di spiegare perché gli esperti e le persone comuni reagiscono in modo così diverso di fronte a certi rischi4. Ho già ricordato la tesi di Margolis, il quale è convinto che a volte le persone mettano a fuoco solo i pericoli legati a una data attività e non i suoi benefici, e pertanto concludono: «meglio sicuri che dispiaciuti». E questo a volte l’atteggiamento mentale dei paladini delle precauzioni. Ma in altri casi sono i benefici dell’attività e non i suoi pericoli a essere ben presenti nella testa delle persone, casi nei quali le persone pensano «nessun rischio, nessun guadagno». In casi del genere le precauzioni appaiono letteralmente prive di senso. In altri casi ancora, sia i benefici sia i rischi sono bene in evidenza e le persone valutano i rischi mettendo a confronto i benefici con i costi. 3 F.A. von Hayek, The Constitution o f Liberty, Chicago, University of Chicago Press, 1960; trad. it. La società libera, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007, pp. 327-328. 4 Si veda H. Margolis, Dealing with Risk, Chicago, University of Chicago Press, 1996, pp. 71-143.

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Di fronte a violazioni delle libertà civili, un grave problema si verifica quando i benefici della riduzione del rischio sono visibili mentre le violazioni non lo sono; e questo è inevitabile nei casi in cui il peso di tali violazioni grava su sottogruppi ben identificabili di persone. Diventa dunque naturale in questa prospettiva che quanti hanno a cuore le libertà civili tentino di promuovere un’iden­ tificazione em patica con i soggetti esposti al rischio o tentino di far credere alle persone già paurose che sono in pericolo. L’obiettivo è m ettere in evidenza gli oneri o i costi, in modo da allargare, anche solo facendo lavorare l’immaginazione, la classe di soggetti che viene gravata dall’azione governativa. I civil libertarian hanno spesso citato le riflessioni del pastore Martin N iem òller sulla G erm ania degli anni quaranta: Prima vennero a cercare i socialisti, e io non dissi niente perché non ero socialista. P o i vennero a cercare i sindacalisti, e io non dissi niente perché non ero un sindacalista. Poi vennero a cercare gli ebrei, e io non dissi niente perché non ero ebreo. Poi vennero a prendere me, e non c ’era più nessuno che potesse parlare per me.

In m olte situazioni, la lezione che parrebbe potersi trarre da questo an ed d oto appare quantomeno dubbia sul piano empirico. Se « lo r o » vennero per qualcuno, non ne consegue autom aticam ente che «lo ro » alla fine verranno per me. Tutto dipende dalla natura del «lo ro » e del «m e». Ma l’aneddoto è psicologicam ente arguto, perché tenta di inculcare in chi lo ascolta la pau ra che i rischi di un governo che inganna non possano facilm ente essere controllati. Il pericolo di una violazione ingiustificata delle libertà civili è particolarm ente grave quando vittima della violazione può essere considerato un gruppo identificabile facilmente isolabile da «n oi». L a creazione di stereotipi su un gruppo diventa si­ gnificativamente più frequente quando le persone versano in uno stato di paura; quando le persone sono indotte a pensare alla loro m orte sono più inclini a pensare e agire in base a stereotipi fon dati sul g ru p p o 5. Riscontri sperimentali di questo 5 Si veda W. von H ippel et a l ., A ttitudinal Process vs. Content: The Role of Information Processing B ias in Social Judgement and Behavior, in J.P. Forgas, K.D. Williams e W. von H ippel (a cura di), Social Judgements, New York, Cambridge University Press, 2003, p. 251, in particolare p. 263.

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tipo offrono conforto all'idea intuitiva per la quale, quando le persone hanno paura, sono m olto più inclini a tollerare u n ’azio­ ne governativa che riduca la libertà dei m em bri di un qualche «gruppo diverso». E, se questo accade, le risposte alla paura collettiva nella forma di violazioni della libertà non saranno sottoposte ai normali controlli politici che in vece intervengono quando le maggioranze sono coinvolte, sia in senso negativo sia positivo, da violazioni di questo tipo. L’idea sem plice sottesa a questo ragionamento è che le azioni intese a violare la libertà è più probabile che risultino giustificate q uand o chi appoggia la misura è colui che ne sconta le conseguenze. In quel caso, il processo politico esprime una tutela intrinseca contro le limitazioni della libertà ingiustificate. In ogni caso, è un fatto che il governo abbia bisogno di qualche m etod o p er cautelar­ si da reazioni eccessive ai rischi sociali, fra cui le lim itazioni ingiustificate alle libertà civili.

4.

Proteggere la libertà

Si potrebbero trarre argomentazioni da quanto ho appena detto per giustificare il fatto che le corti assumano un ruolo aggressivo per tutelare le libertà civili, anche quando la sicurez­ za nazionale sia minacciata. M a in tal caso sorgono numerose complicazioni reali. Le istruzioni contenute nel libro di Lom borg ci fanno notare che l’euristica della disponibilità e il probability neglect potrebbero indurre le persone non a esagerare i rischi, ma a prendere sul serio pericoli che in preceden za si erano tra­ scurati, prestando attenzione a pericoli che in passato non erano inseriti nell’agenda della collettività. N el contesto ambientalista, questa argomentazione appare corretta; gli incidenti che vengo­ no subito alla mente possono aiutare a m obilitare persone che in passato hanno sofferto di torpore e indifferenza. G li stessi processi cognitivi che determinano una paura eccessiva possono servire a contrastare una paura insufficiente. Lo stesso potrebbe essere vero per i rischi alla sicurezza nazionale. E invero, il fatto che prim a d e ll’ 11 settem bre le misure di sicurezza negli aeroporti fossero particolarm ente lasche è stato senza dubbio determ inato dalla «indisponibili­ tà» cognitiva di attacchi terroristici pregressi. L a distorsione

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della disponibilità determinata dall’euristica della disponibilità è accompagnata dalla distorsione della indisponibilità, che è anch’essa determinata dalla medesima euristica: se un incidente non viene alla mente, ci si può attendere che gli individui e le istituzioni adottino precauzioni insufficienti, anche dopo aver percepito il grido di allarme dagli esperti (così come si è detto sia accaduto con riferimento alla mancanza di rigorose misure di sicurezza prima degli attacchi dell’ 11 settembre). Il proba­ bility neglect può determinare una paura intensa per rischi a bassa probabilità. Ma quando i rischi non attirano l’attenzione, possono finire per essere considerati equivalenti a zero, anche se essi, in realtà, meritano un’attenzione particolare. Ho sottolineato che il più delle volte la paura collettiva è bipolare: o il rischio appare significativo oppure semplicemente non esiste. Il meccanismo che ho esaminato aiuta a spiegare le reazioni isteriche eccessive, ma può anche offrire un correttivo alla distorsione indotta dal trascurare le probabilità. Esiste inoltre un risvolto istituzionale. Le corti non sono, è il meno che si possa dire, nella migliore posizione per sapere se le limitazioni alle libertà civili sono giustificate. Esse difet­ tano di quella competenza sui fatti che permetterebbe loro di effettuare una valutazione accurata dei pericoli. E difficile che esse dispongano della competenza necessaria a valutare se la liberazione di una dozzina di prigionieri a Guantanamo possa determinare un rischio non trascurabile di attacco terroristico. E più che possibile che un atteggiamento giuridicamente aggressivo a tutela delle libertà civili, nel corso di una guerra, renda le cose peggiori invece che migliori. In ogni caso, le corti sono tradizionalmente riluttanti a interferire con le limitazioni alle libertà civili che godono del supporto della collettività; a loro non piace «bloccare» le limitazioni che godono di ap­ provazione sia da parte governativa sia da parte dei cittadini6. Un’importante pronuncia della Corte suprema degli Stati Uniti nel 2004 ha espresso un principio fondamentale: se un gruppo di individui viene privato della libertà, costoro hanno diritto a un processo che verifichi se la loro detenzione è legittima7. 6 Si veda W. Rehnquist, A ll thè Law s but One, New York, Knopf, 1998. 7 Si vedano H am di v. Rumsfeld, 124 S. Ct. 1633 (2004); Rasul v. Bush , 124, S. Ct. 2686 (2004).

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Si tratta di un principio estremamente importante. Ma anche, tutto sommato, modesto. Credo che le corti possano e debbano approcciare i pro­ blemi rilevanti attraverso una lente istituzionale che presti particolare attenzione alle dinamiche politiche sottese a que­ sti problemi. A tal riguardo vorrei sottolineare tre punti. Il primo e più importante è che le limitazioni alle libertà civili non dovrebbero essere consentite, a meno che esse non godano di una chiara legittimazione legislativa. Q ueste limitazioni non dovrebbero essere consentite se promanano solo dal potere esecutivo. Il secondo punto è che per offrire tutela contro ingiustificate reazioni alla paura, le corti dovrebbero guardare con maggior sospetto limitazioni della libertà che non hanno conseguenze sull’intera collettività e che invece finiscono per gravare su gruppi identificabili. Il terzo e ultimo punto è che i principi costituzionali dovrebbero riflettere un bilanciamento di secondo livello, estrinsecandosi in regole e presunzioni di taglio più generale invece che in bilanciamenti del singolo caso concreto. Questo perché, esposte alle pressioni del momento, le corti sono inclini a riscontrare che il bilanciamento del singolo caso vada a favore del governo, anche quando non dovrebbe essere così.

5. Il principio dell’autorizzazione inequivoca Per molti anni i servizi segreti di Israele hanno praticato alcune forme di coercizione fisica, a volte descritte come atti di tortura, contro sospetti terroristi. Secondo i servizi israeliani, si ricorreva a queste pratiche solo in casi estremi e com e estrema ratio, quando veniva ritenuto necessario per prevenire attività terroristiche e significative perdite di vite umane. Tuttavia, pratiche che potevano essere ricomprese nel significato del termine «tortura» venivano esercitate, e non infrequentemente. Queste pratiche furono impugnate innanzi alla Corte suprema di Israele, perché ritenute in contrasto con la legge fondamentale del paese. Il governo replicò che non doveva essere permesso ad astrazioni teoriche fondate sui diritti umani di avere la meglio sulle necessità del mondo reale, vietando una pratica che in certe circostanze appariva davvero essenziale per preve­ 284

nire uccisioni di massa in un’area del mondo spesso teatro di attività terroristiche. Secondo il governo, la coercizione fisica si giustificava alla luce di queste circostanze. Una pronuncia giudiziale che avesse deciso altrimenti sarebbe apparsa una forma di attivismo ingiustificato, quasi insolente. Nel giudicare il caso, la Corte suprema di Israele rifiutò di pronunciarsi sulle questioni più importanti8. Rifiutò di decidere se le pratiche dei servizi segreti avrebbero potuto essere considerate illegittime ove fossero state espressamente autorizzate dal potere legislativo. Tuttavia la Corte ritenne tali pratiche illegittime. L’argomentazione principale della Corte fu che, se avesse ritenuto legittime queste pratiche coercitive, ciò non avrebbe potuto essere perché i servizi segreti, con la loro ristretta competenza amministrativa, avevano ritenuto che le stesse fossero legittime. Come minimo, le pratiche avrebbero dovuto essere legittimate dal parlamento nazionale, dopo un approfondito dibattito democratico sulla specifica questione. «Questo è un problem a che va risolto dal potere legislativo che rappresenta i cittadini. Questa volta non prendiamo alcu­ na posizione sul problema. E lì che le varie questioni devono essere soppesate e bilanciate». Vale la pena soffermarsi su questo brano chiave della moti­ vazione. Invece di affrontare e risolvere il problema principale, la Corte fa affidamento sul deficit democratico che affligge un giudizio espresso esclusivamente dall’organismo dei servizi segreti. Il meno che si possa dire è che i componenti di quell’or­ ganismo non rappresentano un’ampia porzione della società. E assai probabile che le persone che lavorano nei servizi segreti condividano opinioni e punti di riferimento. Quando queste persone deliberano fra loro, è molto probabile che ciò si ac­ compagni a un fenomeno di polarizzazione di gruppo; invece di metterle alla prova, i membri del gruppo vedranno probabil­ mente rafforzarsi le proprie credenze pregresse, il tutto molto probabilmente a scapito dei diritti umani. Un dibattito più ampio, con un più ampio spettro di opinioni, è una precondi­ zione necessaria per dare il via libera a pratiche coercitive del 8 Si veda Association for Civil Rights in Israel v. The General Security Service (1999), Supreme Court of Israel: Judgment Concerning thè Legality of thè General Security Service’s Interrogation Methods, in «International Legai Material», 38, 1999, p. 1471.

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tipo di cui stiamo discutendo. La Corte suprem a di Israele ha richiesto una chiara autorizzazione legislativa per legittimare una specifica compressione della libertà; ha insistito sul fatto che una semplice autorizzazione da parte dell’esecutivo, sotto l’egida di una previsione di legge vaga o am bigua, non fosse abbastanza. Possiamo assumere che questa decisione avalli il principio generale per il quale il potere legislativo deve esplicitamente autorizzare violazioni delle libertà civili particolarmente con­ troverse. La ragione di questa salvaguardia è quella di tutelare contro limitazioni delle libertà civili inadeguatam ente ponde­ rate, e insistere che la salvaguardia politica, nella forma di un consenso da parte di un potere diverso dall’esecutivo, sia una condizione minima e necessaria per legittimare le limitazioni alle libertà civili. Il rischio specifico è che la polarizzazione di gruppo che avviene airinterno dell’esecutivo conduca a adottare misure che non sono state sottoposte a un dibattito sufficientemente allargato. E più probabile che la deliberazione nell’ambito del potere legislativo sia capace di assicurare che le limitazioni alla libertà siano adottate quando sono davvero giustificate. Proprio per la sua dimensione e per la naturale eterogeneità delle sue componenti, è verosimile che il potere legislativo sia rappresentato da individui che prenderanno la parola per quanti sono soggetti alla misura restrittiva del caso, ed è per questo che il processo legislativo ha qualche possibilità di offrire quella tutela che Hayek identifica con la rule o f law. In questo modo il requisito di una inequivoca autorizzazione legislativa ingloba l’idea dei pesi e contrappesi al servizio dei diritti individuali, non attraverso drastiche proibizioni dell’at­ tività governativa, ma richiedendo che i poteri dello stato che approvano le misure siano due e non uno solo. Per un confronto piuttosto ironico, si consideri l’ampiamente pubblicizzato memorandum sulla tortura redatto nel 2002 per conto della Casa Bianca dall’Ufficio per la consulenza giuridica del Dipartimento della Giustizia statunitense. L’aspetto più ri­ levante del memorandum è rappresentato dal fatto di sostenere che, in qualità di comandante in capo delle forze armate, il presidente degli Stati Uniti ha l’autorità per torturare i sospet­ ti terroristi, così da rendere costituzionalmente inaccettabile che il Congresso metta al bando la pratica della tortura. Se la 286

Corte suprem a di Israele ritiene che una chiara autorizzazione legislativa è necessaria per legittimare la tortura, il Dipartimento della G iustizia degli Stati Uniti conclude che un chiaro divieto legislativo è insufficiente per mettere al bando la tortura9. Ma la tesi del D ipartim ento della G iustizia non è stata ben argo­ mentata, ed è m olto difficile che la Corte suprema, o un arbitro indipendente, p o ssa accogliere questa posizione. Negli Stati Uniti un buon m odello è fornito dall’importante precedente K ent v. D ulles, deciso durante la guerra fred d a10. In quell’occasione alla C orte suprem a fu chiesto di decidere se il segretario di stato poteva rifiutare il passaporto a Rockwell Kent, un cittadino am ericano iscritto al partito comunista. Kent sostenne che il rifiuto costituiva una violazione dei suoi diritti costituzionali e pertanto doveva essere posto nel nulla. La Corte decise di rifiutare di pronunciarsi sulla questione. Affermò invece che, com e m inim o, qualsiasi rifiuto di rilasciare un passaporto su b asi politiche doveva essere specificatamente autorizzato dal C on gresso. L a C orte pertanto annullò la deci­ sione del segretario di stato perché il C ongresso non risultava aver esplicitam ente autorizzato l’esecutivo a negare il passaporto in casi del genere. Kent v. D ulles è stato seguito da m olti altri casi che hanno statuito che l’esecutivo non può introm ettersi in campi costi­ tuzionalmente sensibili, a m eno che il potere legislativo l’abbia esplicitamente autorizzato a farlo. C iò che posso aggiungere qui è che, a causa del rischio di paure eccessive, si tratta di un approccio salutare tutte le volte che le limitazioni alle libertà civili derivano da m inacce esterne, reali o percepite. Se viene richiesta l’autorizzazione del parlam ento, quando si ritiene che il potere esecutivo ab b ia violato le libertà civili le corti devono rispondere a una sem plice dom anda: il potere legislativo ha specificam ente autorizzato l’esecutivo a com piere la violazione che adesso viene im pugn ata in sede giudiziale? N aturalm ente richiedere un ’autorizzazione specifica non è Di certo la posizione del Dipartim ento della Giustizia era stata affermata con un certo livello di approssim azione, avanzando la tesi che il divieto della tortura sancito dal C ongresso «avrebbe potuto» essere incostituzionale con riferimento gli interrogatori sul cam po di battaglia; ma l’impressione generale è che probabilm ente il divieto debba essere considerato incostituzionale. 10 Kent v. D u lle s , 357 U .S. 116 (1958).

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una panacea. È possibile che il potere legislativo, esso stesso eccessivamente tim oroso, consenta al presidente di fare qual­ cosa che non trova giustificazione sul piano dei principi. È anche possibile che il potere legislativo om etta di autorizzare l’esecutivo ad agire in circostanze nelle quali agire appare giu­ stificato o persino indispensabile. Ciò che tengo a sottolineare è che, come regola generale, il requisito d ell’autorizzazione da parte del potere legislativo è un buon m odo per ridurre i pericoli rilevanti, i pericoli di una tutela eccessiva o insuffi­ ciente dai rischi che minacciano la sicurezza.

6.

Uno scrutinio speciale per le limitazioni selettive alla libertà

Ho sottolineato che la paura collettiva può indurre il Congres­ so a reagire in modo eccessivo. Si tratta di un rischio particolar­ mente serio quando sono gruppi identificabili e non la collettività allargata a dover sopportare una restrizione delle libertà. Si consideri a tal proposito un passaggio illuminante di una celebre opinion del giudice della C orte suprem a Robert Jackson: L’onere della prova deve stabilmente gravare su chi vuole per­ suaderci a impiegare la due process clause per annullare una legge o un provvedimento amministrativo. Anche il suo previdente im piego contro i provvedimenti comunali spesso im pedisce a qualsiasi entità amministrativa - sia essa a livello statale, com unale o federale - di avere a che fare con la condotta in questione, perché la due process clause può essere applicata anche nei confronti delle am m inistrazioni statali o federali. L’annullamento di una legge o di un atto amministrativo in base al due process rende ingestite e ingestibili condotte che a molti potrebbero apparire questionabili11.

L’invocazione della equal protection clause, d ’altro canto, non impedisce alle istituzioni governative di qualsiasi livello di avere a che fare col tema in questione. E ssa significa so­ lamente che il divieto o la regola devono avere un impatto più ampio. Ritengo che sia un bene che i comuni, gli stati e il governo federale debbano esercitare i loro poteri in m odo da 11 Railway Express Agency v. New York, 336 U.S. 106, 112-113 (1949) (Jackson, J., concurring).

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non discriminare fra i loro amministrati, se non in base a una ragionevole differenziazione fondata sullo specifico argomento toccato dalla regolamentazione in questione. Questa uguaglianza non costituisce solo una giustizia astratta. I padri della Costi­ tuzione sapevano, e oggi non dobbiamo dimenticarlo, che per tutelarsi da un’attività governativa arbitraria e irragionevole non v’era migliore garanzia concreta che fare in modo che i principi di diritto imposti dagli amministratori a una minoranza fossero imposti a tutti. Per converso, niente apre la strada in modo più effettivo ad azioni arbitrarie di quanto non faccia il consentire agli amministratori di individuare e scegliere solo alcuni fra quanti saranno esposti alla legislazione, sì da sfuggire alla risposta politica che sarebbe rivolta loro ove un maggior numero di persone fossero state esposte a quella misura. Le corti non possono adottare una misura migliore per assicurarsi che le leggi siano giuste che non quella di fare in modo che le leggi rispondano a un canone di uguaglianza in sede applicativa. Il giudice Jackson nella sua opinion esprime due concetti. Il primo è che, quando decide (in base alla due process clause) che una data condotta non può essere oggetto di regolamenta­ zione, una corte sta intervenendo in modo pesante sul processo democratico, rendendo quella condotta essenzialmente «non regolamentabile». Si consideri, per esempio, una decisione che abbia l’effetto di ritenere che determinate misure di sicurezza, applicabili erga om nes (poniamo) negli spazi pubblici, siano inaccettabili perché interferiscono indebitamente con il diritto alla privacy. Il secondo concetto è che quando una corte dichiara illegittima l’azione governativa in base al criterio di uguaglianza, essa in realtà si limita a chiedere al governo di allargare l’am­ bito applicativo dei suoi divieti, facendo in tal modo scattare i controlli politici contro imposizioni ingiustificate. Si consideri, per esempio, una decisione che abbia l’effetto di ritenere che determinate m isure di sicurezza, applicabili solo alle persone che hanno la pelle nera, sono inaccettabili perché non assicu­ rano la parità di trattamento fra gli individui. Innovando di poco le argomentazioni di Jackson, possiamo intravedere un possibile approccio che le corti possono im­ piegare per gestire i casi nei quali sia lamentata un’illegittima interferenza con le libertà civili. Se il governo impone un onere su tutta la cittadinanza, o su un campione casuale di cittadini, 289

l'atteggiamento giudiziale appropriato è quello di mostrare deferenza al governo (almeno se la libertà di espressione, il diritto di voto e di associazione politica non vengono messi in discussione; l’eccezione per questi diritti si giustifica alla luce del fatto che il processo democratico non può funzionare bene se questi diritti sono compromessi). Se il governo impone un onere a ciascun cittadino, è improbabile che lo faccia se non ha una buona ragione per farlo, una ragione che non si basa solo sulla paura, si ricordi la tesi di Hayek sulla m ie o f law. Ma se il governo impone un peso su una sottoclasse identificabile di cittadini, deve accendersi un segnale di allarme. Le corti dovrebbero sottoporre quell’onere a un attento scrutinio. Naturalmente queste affermazioni di massima non risol­ vono i casi reali; tutto dipende dalla particolare natura che la questione di incostituzionalità assume. Ma prestare attenzione ai rischi di selettività fornisce un’indicazione appropriata. Nell’importante caso Korematsu, che mise in discussione la costituzionalità dell’internamento dei nippoamericani durante la seconda guerra mondiale, la Corte avrebbe dovuto essere molto più scettica nei confronti delle argomentazioni avanzate dal governo, perché l’internamento selettivo e razzista era immune da controlli politici sulle ingiustificate intrusioni sulla libertà12. La maggior parte degli americani non aveva nulla da temere da una pratica del genere. Le stesse considerazioni valgono per la cosiddetta war on terrorism contemporanea. Negli Stati Uniti, molte delle limitazioni rilevanti sono state circoscritte agli stranieri, in un modo che davvero determina un rilevantissimo rischio di fare il passo più lungo della gam ba; e l’esempio più eclatante è offerto dai detenuti della baia di Guantanam o. Gli stranieri non sono cittadini e non votano, per cui mancano di potere politico. Se sono trattati male o sono soggetti ad abusi, i normali controlli politici non sono disponibili. Quando la legislazione vigente lascia margini di dubbio, le corti dovrebbero prestare notevole attenzione alla legittimità delle giustificazioni impiegate dal governo per imporre pesi su soggetti che non sono in grado di tutelarsi attraverso il processo politico. E per questo motivo che occorre salutare con favore il fatto che la Corte Suprema insista affinché i cittadini stranieri, 12 Korematsu v. United States, 323 U.S. 214 (1944).

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im pugnando la p ro p ria detenzione, possano avere accesso alle corti federali per con testare la legittim ità del trattam ento che viene loro riservato 13. Si co n sid eri a q u e sto rig u ard o una delle osservazion i meno ortod osse che il presidente B ush ha avanzato a difesa dell’idea che i com battenti nem ici possano essere sottoposti alla giurisdizione di tribunali m ilitari speciali. Il presidente Bush ha afferm ato che, quale che sia la procedura applicata loro, i convenuti ricevereb bero in questi tribunali un trattamento comunque più equ o di quello che costoro hanno riservato agli americani assassin ati nel corso degli attacchi dell’ 11 settembre. Il fatto è che questa afferm azione è una petizione di principio, nel senso che p re su p p o n e che i convenuti siano effettivamente coinvolti negli attacchi d ell’ 11 settem bre. E cco un ’illustrazione del m odo in cui la p au ra e la sete di vendetta possono deter­ minare in giustificate violazioni delle libertà civili. E d è triste constatare che il p ro cu rato re generale Jo h n Ashcroft abbia ripetuto l’errore qualche anno dopo, afferm ando che le decisioni della C orte su p rem a del 2004 hanno concesso «nuovi diritti ai terroristi», se si p en sa che la questione chiave era anzitutto stabilire se i detenuti fo ssero davvero terroristi.

7. Bilanciam ento e bilanciam ento di secondo livello Finora ho p resu p p o sto un contesto semplice, assumendo che in qualsiasi situazione esista una qualche form a di bilanciamento fra la sicurezza e le libertà civili, una sorta di equilibrio otti­ male. Con-l’aum entare della m inaccia aum entano gli argomenti che militano a favore della violazione delle libertà civili. Se il rischio è gran de, il govern o pu ò, per esem pio, aumentare le perquisizioni negli aerop orti, assicurare che i luoghi pubblici siano presidiati dalla polizia, con frequenti richieste di docu­ menti ai p assan ti; con sen tire ai tribunali militari di giudicare quanti siano sospettati di attività terroristica; detenere in carcere individui so sp ettati di essere terroristi; e autorizzare compor­ tamenti da p arte della polizia che non sarebbero permessi in circostanze norm ali. 15 Si veda Rasul v. Bush, 124 S. Ct. 2686 (2004).

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In base all’approccio fondato sul bilanciamento, tutto di­ pende dal fatto che la paura rilevante si riveli giustificata. Che dimensioni ha il rischio? Se riteniamo di dover trovare un buon equilibrio fra le variabili rilevanti, allora la paura eccessiva ine­ vitabilmente determinerà un problema grave, perché induce a sacrificare la libertà per proteggere la sicurezza. Questo approc­ cio alla relazione fra libertà e sicurezza è normale e intuitivo, ed effettivamente una cosa del genere a me sembra sostanzialmente corretta. Ma essa non è priva di complicazioni. Per esempio, potrebbe esistere un nocciolo di diritti che il governo non può comprimere, per i quali il bilanciamento non appare appropriato. Si pensi alla tortura. Alcuni ritengono che la tortura non possa essere giustificata in nessuna circostanza; che non sia sufficiente a giustificarne l’impiego anche la più fondata paura collettiva. In un certo senso, questa argomentazione poggia sulla convinzione che una valutazione delle conseguenze non possa in alcun caso autorizzare questo tipo di intrusione. Io credo che in tale forma l’argomentazione corrisponda a una sorta di euristica morale, che però è troppo rigida, persino fanatica14. E davvero sensato mettere al bando la tortura quando la tortura è l’unico mezzo per proteggere migliaia di persone da morte certa? Si assuma che una bomba stia per esplodere, uccidendo migliaia o cen­ tinaia di migliaia di persone, e che appaia ragionevole ritenere che senza ricorrere alla tortura la bom ba finirà per esplodere. In questo caso la tortura non sarebbe moralmente accettabile? Non sarebbe imposta sul piano morale? La messa al bando della tortura può agevolmente essere considerata una euristica morale, che di norma funziona bene, ma che prevedibilmente si rivelerà fallace. Ma un’altra forma, più plausibile, dell’argomentazione è di taglio utilitaristico: un divieto assoluto della tortura, che proibisce il bilanciamento nei casi individuali, può rivelarsi giustificato in base a una specie di bilanciamento di secondo livello. Potrebbe concludersi non che la tortura in linea di principio non è mai giustificata, ma che, a meno che la tortura non sia completamente messa al bando, il governo la utilizzerà nei casi in cui essa non è giustificata; che solo raramente i 14 Si veda C.R. Sunstein, M oral Heuristics, in «Behavioral and Brain Sci­ ences», 28, 2005, n. 4, pp. 531-542.

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benefici della tortura risultano rilevanti; e che nel complesso autorizzare la tortura in casi straordinari determina più danni che benefici. E se così è, potrem m o adottare una totale messa al bando della tortura, anche quando la paura collettiva è ai massimi livelli ed è interam ente giustificata. E nella maggior parte delle situazioni della vita reale ritengo che questa messa al bando sia del tutto giustificata. È possibile interpretare altri diritti in modo simile? Si con­ sideri il tema del diritto alla libertà di espressione negli Stati Uniti, e la relazione fra la paura e le restrizioni della libertà di espressione. D urante la guerra fredda, il governo tentò di regolamentare le m anifestazioni del pensiero che, secondo il proprio giudizio, avrebbero potuto aumentare la diffusione del comuniSmo nel paese. L o Smith Act emanato nel 1946 contemplò come reato il fatto com m esso da chiunque «intenzionalmente appoggi, incoraggi, professi o insegni il dovere, la necessità, l’opportunità o la appropriatezza di far cadere o altrimenti di­ struggere qualsiasi governo negli stati con forza o violenza, o per mezzo dell’assassinio di qualsiasi funzionario di quel governo». Nel caso Dennis v. United States, il governo incriminò alcune persone per aver organizzato il partito comunista degli Stati Uniti, un’organizzazione accusata di insegnare e professare la caduta del governo degli Stati Uniti con la fo rz a 15. L a Corte suprema ritenne che la costituzionalità dello Smith Act dipendesse dalla circostanza che l’opinione in questione «determ inasse un “chiaro ed evidente p erico lo ” di tentare di realizzare o di realizzare la condotta vietata». N el suo passaggio più analitico e importante, la Corte concluse che il test fondato sul requisito del «chiaro ed evidente pericolo» non significava che il pericolo dovesse essere davvero chiaro ed evidente. E ssa negò «che prima che il governo possa agire, q u est’ultimo deve attendere fino a quando il colpo di stato sta quasi per essere eseguito, i piani sono ormai pronti e il segnale di attacco è atteso». Q uando un gruppo sta tentando di indottrinare i suoi adepti in vista del loro impiego in un’azione, «il governo deve agire». Si noti qui la stretta connessione esistente fra il ragionamento seguito dalla Corte, il principio di precauzione e la dottrina della guerra preventiva del presidente Bush. Al cospetto di minacce 15 Dennis v. United States, 341 U.S. 494 (1951).

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alla sicurezza nazionale, il presidente Bush ha ritenuto plausibile affermare che, se un paese attende fino a che il rischio è «im ­ minente», esso potrebbe scoprire che ormai è troppo tardi per intervenire; e lo stesso viene predicato dai paladini del principio di precauzione. E lo stesso magari accade per certe cospirazioni, anche per cospirazioni fondate essenzialmente sulle opinioni. Seguendo il celebre giudice della Corte d ’appello Learned Hand, la Corte del caso Dennis affermò che il test del chiaro ed evidente pericolo presupponeva una forma di bilanciamento, senza richiedere l’elemento della imminenza. «In ciascun caso [le corti] devono chiedersi se la gravità del “m ale” , scontata per il suo grado di improbabilità, giustifichi la com pressione della libertà di opinione necessaria a evitare il pericolo». L a Corte affermò che avrebbe «adottato questa formulazione della regola». E così decidendo la Corte ritenne legittime le incriminazioni. Essa riconobbe che non si era verificata alcuna insurrezione. M a il test fondato sul bilanciamento autorizzava l’incriminazione penale alla luce della «natura infiammabile delle condizioni del mondo, del verificarsi di insurrezioni simili in altri paesi, e della natura episodica delle nostre relazioni con i paesi con cui [gli imputati] erano in ultima analisi ideologicamente in sintonia». Il caso Dennis considera il test fondato sul chiaro ed evidente pericolo come un’ipotesi specifica di bilanciamento, almeno nei casi che possono propiziare un danno potenzialm ente catastro­ fico; si potrebbe perfino ritenere che la corte abbia accolto un principio anticatastrofe, percependo la situazione in termini di incertezza invece che di rischio. Ma in molti si sono dichiarati scettici sul bilanciamento del caso specifico, che non è più in sintonia con il diritto costituzionale. Invece, la C orte suprem a ritiene che l’idea del pericolo chiaro ed evidente richieda che il pericolo sia allo stesso tempo probabile e imminente, in un modo che finisce per respingere esplicitamente il pensiero precauzio­ nale i6. Questo approccio è piuttosto diverso dal bilanciamento richiesto dalla celebre formula del giudice Learned H a n d 17. Non richiede alle corti di «scontare» il male per le sue probabilità di verificazione, un approccio che consentirebbe di disciplinare 16 Si veda Brandenburg v. Ohio , 395 U.S. 444 (1969). 17 La quale predica notoriamente che una Corte debba riscontrare la negligence ogniqualvolta il costo delle precauzioni adottabili dal danneggiante appaia

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la libertà di e sp ressio n e se un m ale estrem am ente grave avesse (poniam o) il 20 p e r cen to di p ossib ilità di verificarsi. E anche se un risch io avesse il 70 p er cento di possibilità di verificarsi, e fosse p ertan to d a riten ersi «p ro b a b ile » , la regolam entazione della libertà di e sp re ssio n e non sareb b e accettabile a m eno che il rischio sia im m inente. E invero, la regolam entazione potrebbe non essere lecita anche se il risch io di un danno grave non può essere p lau sib ilm en te calcolato. Il governo deve, in pratica, attendere fino a che il verificarsi del dann o sia probabile e stia per accadere: u n ’o p in io n e con divisa dai m olti detrattori della «gu erra p re v e n tiv a», i q u ali riten gon o che un paese non possa dichiarare un a gu e rra a un altro p ae se a m eno che la minaccia avvertita d a q u e st’ultim o non sia «im m in en te». C om e d o b b ia m o far co esistere un app ro ccio fondato sul bilanciam ento con un diverso ap p ro c cio che richiede sia la p ro­ babilità sia l’im m in en za del d an n o ? A prim a vista, l’approccio seguito dalla C o rte su p rem a nel caso D ennis sem bra preferibile, almeno in un a p ro sp e ttiv a con seq u en zialista. Se un rischio ha solo il 10 p e r cen to di p ro b a b ilità di verificarsi, m a se 100.000 persone m o rissero nel caso in cui e sso si verificasse, il governo non d o v reb b e sem p licem en te atten dere fino a quando non sia troppo tardi. N el con testo am bientalista, il bilanciam ento è sicu­ ramente p re fe rib ile a un a regola che rich ieda sia la probabilità sia l’im m inenza d el dan n o. N el caso del riscaldam en to globale non dovrem m o atten d ere il gio rn o in cui il dann o ci sarà ormai addosso. E così, non diversam en te, p e r le m isure di sicurezza volte a rid u rre il risch io di crim ini o di atti terroristici. Vale la pena di in vestire riso rse sign ificative, se le prove disponibili rivelano l ’e sisten za di un risch io reale, anche se non appare così p ro b a b ile che i dan n i p iù gravi si verificheranno. Che dire, allora, a fav o re dei requisiti della probabilità e dell’im m inen za? F o rse non ci fid iam o di nessun bilanciere. Forse i req u isiti so n o u n a risp o sta al fatto che si ritiene che l’approccio segu ito d alla C o rte nel caso D ennis determ inerebbe una regolam en tazion e e ccessiv a della libertà di pensiero. Se il nostro b ilan ciam en to è d avvero p reciso , dovrem m o bilanciare. inferiore all’entità del danno scontata per la probabilità di verificazione del danno stesso; si veda F. Parisi, voce Learned Hand formula of Negligence, in Digesto delle discipline privatistiche, X, Torino, Utet, 1993, pp. 436 ss. (N.d.T).

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Ma laddove la libertà di espressione non è popolare, o quando le persone ne hanno paura, il governo potrebbe ben conclude­ re che la «gravità del “male", scontata per le sue probabilità di verificazione», giustifichi una regolamentazione, anche se in realtà così non è. Per tutte queste ragioni, i requisiti della probabilità e dell'imminenza hanno giustificazioni istituzionali ragionevoli, avendo a che fare con gli incentivi e gli orientamenti dei funzionari del governo e degli stessi cittadini. Nel contesto della libertà di espression e vanno tenute presenti considerazioni di altro tipo. L a disapprovazione pubblica per il contenuto delle espressioni - delle idee che vengono divulgate - potrebbe sfociare in un giudizio per il quale l'espressione è suscettibile di recare danno anche se la reale motivazione della censura non è tanto il danno, ma il fatto di non essere d’accordo con le idee sottese all’espressione censurata1S. E se il danno non è imminente, una discussione ulteriore, piuttosto che la censura, appare il rim edio più ap­ propriato. Finché rimane tempo per la discussione pubblica e il dibattito, la migliore risposta a espressioni che sembrano determinare un rischio è, di solito, parlarne di più. Il requisito dell'imminenza rappresenta la conferma di questa idea. In tale prospettiva, il test fondato sul requisito del pericolo chiaro ed evidente, richiedendo sia la probabilità sia l’imminenza, riflette una specie di bilanciamento di secondo livello, che non si fida delle valutazioni immediate sul rischio e sui danni, e che impo­ ne al governo di soddisfare un onere della prova assai arduo. Così difeso, il test non rifiuta in linea di principio l’idea di un bilanciamento e non insiste sul fatto che l’am bito di protezione della libertà debba rimanere immutabile anche se l’intensità della minaccia alla sicurezza muta. Il test si limita a riconoscere che probabilmente il nostro bilanciamento in concreto non funziona, e che dobbiamo dotarci di strumenti in grado di rimediare ai nostri stessi errori di bilanciamento, specie quando è probabile che la paura collettiva ci induca in errore. Come ho suggerito, un divieto generale di praticare la tortura può comprendersi in termini simili. L’argom ento non ha bisogno di essere quello che la tortura non può mai essere difesa facendo riferimento alle sue conseguenze: se l’unico 18 Per una serie di evidenze si veda Stone, Perilous Times, eit.

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modo per scongiurare una catastrofe è torturare un terrorista, torse la tortura è giustificata. Una giustificazione più sensata per bandire la tortura è che un governo con licenza di torturare lo farà anche quando la tortura non è giustificata, e che i costi sociali legati al bandire la tortura alla fine non raggiungono i benefici sociali legati a questa scelta. Non sto sostenendo che questo giudizio sia necessariamente corretto. In circostanze che possono essere giustificate, la tortura è infatti giustificata. Quello che sto sostenendo è che una tutela intensa delle libertà civili e dei diritti civili è spesso difesa meglio se la si considera una salvaguardia contro una paura o un’isteria di massa che potrebbero indurre a adottare misure ingiustificabili in base a un bilanciamento. In un certo senso, i governi sensati «superproteggono» le libertà, rispetto al livello di protezione che le libertà riceverebbero nell’ambito di un sistema di bilanciamento caso per caso (ottimale). Poiché nel mondo reale è improbabile che si realizzi un bilanciamento ottimale, una tutela affidata alle regole è un ragionevole second best. Una protezione intensa della libertà di pensiero è stata giustificata sul rilievo che le corti dovrebbero assumere una «prospettiva patologica», ovvero una prospettiva adatta ai periodi nei quali, a causa della drammaticità del momento, la collettività e dunque il sistema giudiziario possono esse­ re tentati di avallare restrizioni della libertà indifendibili19. L’argomento è che il diritto alla libertà di opinione si fonda su tutele legislative forti, che evitano il bilanciamento e che talvolta proteggono opinioni che non meriterebbero tutela. Il fine della «prospettiva patologica» è quello di istituire tutele che funzionino quando la libertà è sotto assedio ed è più a rischio. La prospettiva patologica determina però un ovvio problema: potrebbe accadere che, quando la libertà è sotto assedio, ciò accada perché appare necessario per la collettività. Perciò la prospettiva patologica corre il rischio di proteggere la libertà in m odo eccessivo. Ma se questo argomento è corretto, v’è ragione di credere che la paura collettiva, alimentata dagli scenari peggiori, ponga oneri selettivi su quanti sono incapaci di difendersi da soli. In questi casi, la cosa migliore che il diritto 19 Si veda V. Blasi, The Pathological Perspective and thè First Amendment, in «Columbia Law Review», 85, 1985, p. 449.

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costituzionale può fare, invece di impiegare il bilanciamento, è utilizzare regole o presunzioni che autorizzino il governo a comprimere le libertà solo a seguito di una inoppugnabile dimostrazione della necessità di farlo.

8. Paura e libertà In questo capitolo mi sono proposto di mettere a nudo alcuni meccanismi che possono indurre una collettività che ha paura a invocare una specie di principio di precauzione per determinare ingiustificate restrizioni delle libertà civili. L’euri­ stica della disponibilità e il probability neglect spesso inducono le persone a ingigantire i rischi rispetto alla realtà, e pertanto ad accettare strategie per la riduzione del rischio che determi­ nano danni notevoli, recando pochi benefici. Q uando il peso delle limitazioni volute dal governo è sopportato da minoranze identificate invece che dalla maggioranza, il rischio di un’azione ingiustificata aumenta in modo notevole. L’internamento dei nippoamericani durante la seconda guerra m ondiale è solo un esempio particolarmente saliente di un rischio del genere. Pertanto le precauzioni possono rivelarsi peggiori degli errori, dimostrandosi a un tempo crudeli e ingiuste. Cosa fare per rispondere a questi problem i? H o suggeri­ to tre possibilità. Primo, le corti non dovrebbero consentire all’esecutivo di comprimere le libertà civili senza autorizzazione legislativa. Secondo, le corti dovrebbero prestare una certa deferenza alle compressioni della libertà che colpiscono tutti o la maggior parte delle persone, mentre dovrebbero essere molto più scettiche quando il governo restringe le libertà di un gruppo immediatamente identificabile di persone. Terzo, le corti dovrebbero evitare di condurre un bilanciamento fra libertà e sicurezza con riferimento al caso specifico, mentre dovrebbero sviluppare principi che riflettano una sorta di bilanciamento di secondo livello, che tenga presente il rischio di una paura eccessiva. E improbabile che queste tre strategie garantiscano tutta la tutela invocata dai libertari. Ma quando il rischio per la sicurez­ za nazionale è reale, le corti sono riluttanti a essere aggressive come accade nei casi normali. Quando questi rischi sono reali, 298

alcune violazioni della libertà sono tanto inevitabili quanto desiderabili. L o scopo è sviluppare approcci che contrastino il rischio che la paura collettiva possa determinare restrizioni della libertà ingiustificate, senza autorizzare le istituzioni che sono incaricate di proteggere la libertà ad assumere un ruolo per il quale esse non sono adatte.

CONCLUSIONI

PAURA E FO LLIA

Per sua stessa natura, la paura è selettiva. C ’è chi ha paura di volare e non ha paura di guidare. Altri temono di essere curati, ma non temono i rischi della mancata cura. Ci si guarda dai rischi legati allo scarso esercizio fisico, ma si trascurano i pericoli di un’eccessiva esposizione al sole. Siamo sensibili al rischio terrorismo, ma non al rischio associato al consumo di tabacco. Sfortunatamente non è possibile agire in precauzione in modo deciso contro tutti i rischi. Coloro che mostrano di avere più paura e sono più determinati a evitare i pericoli, spesso finiscono per aumentare la propria esposizione al rischio. Con riferimento a queste dinamiche, le nazioni non si comportano in m odo diverso. Quando i governi affermano di adottare misure precauzionali, potrebbero in realtà finire per aumentare i rischi, anziché ridurli. Qualsiasi guerra preventiva, e la guerra iniziata nel 2003 contro l’Iraq in particolare, può rappresentare un esempio di quanto appena detto. E così, allo stesso modo, può essere per le limitazioni ambientali destinate a porre sotto controllo il cibo geneticamente modificato, o a indurre le imprese a impiegare sostituti meno sicuri, o a incre­ mentare in m odo drammatico il prezzo dell’energia. Per queste ragioni ho criticato il principio di precauzione, almeno se si concepisce questa idea come un imperativo che suggerisce una regolamentazione aggressiva di rischi la cui verificazione appare improbabile. Tale idea è letteralmente incoerente, per il semplice fatto che la regolamentazione stessa determina il sorgere di nuovi rischi. Se il principio di precau­ zione dà l’impressione di offrire una guida, ciò accade solo perché i meccanismi cognitivi dell’uomo e le influenze sociali fanno risaltare certi pericoli più di altri. Quando, per esempio, il ricordo di un particolare incidente appare «disponibile», nel senso che ci balza alla mente, la gente tende a preoccuparsi 301

molto più di quanto dovrebbe. Può così accadere che le pre­ cauzioni più stringenti vengano prese nei confronti dei rischi più disponibili. E in mancanza di un esempio vivido che possa associarsi a un particolare rischio, la gente potrebbe dimostrarsi immune alla paura, ed esporsi a un pericolo reale. La selettività della paura è aggravata dal probability neglect, un fenomeno cognitivo che induce a trascurare le probabilità, facendo sì che la gente concentri la sua attenzione sugli scenari peggiori, senza considerare le probabilità che tali scenari si veri­ fichino realmente. Trascurare le probabilità è un problema serio, perché induce a individuare priorità mal riposte. Le influenze sociali, poi, acuiscono il problema. Se quanti sono inclini alla paura comunicano soprattutto fra loro, a dispetto della realtà questa paura finirà per aumentare. E se quanti non sono inclini alla paura parlano fra loro del fanatismo di chi è preoccupato del riscaldamento globale, dell’asbesto o delle malattie del lavoro, costoro diverranno ancor meno sensibili alla paura, anche se i pericoli sottesi a queste paure sono seri e reali. Esiste un rimedio a tutto ciò? I regolatori assennati gestiscono la paura impiegando l’istruzione e le informazioni. L’analisi costi­ benefici è uno strumento assai utile, per il semplice fatto che permette di comprendere la posta in gioco, ossia ciò che viene guadagnato e ciò che viene perduto in conseguenza dell’intervento regolativo. Se un intervento regolativo costa molto e prospetta pochi miglioramenti per la salute o l’ambiente, non v’è ragione di adottarlo. Nel contempo, il risultato di un’analisi costi-benefici non deve essere considerato decisivo. Forse i beneficiari dell’in­ tervento sono poveri, mentre quelli che ne subiscono i costi sono ricchi; se così fosse, l’intervento sarebbe giustificato a dispetto dell’esito dell’analisi costi-benefici. Ho enfatizzato il fatto che la gente è composta di cittadini, e non di meri consumatori, e che la loro capacità di riflettere e fare valutazioni può spingerli a favorire politiche che non si uniformano ai dettami dell’analisi costi-benefici. Inoltre, il principio di precauzione ha qualcosa da dire quando la gente è esposta a un rischio potenzialmente catastrofico le cui probabilità di verificazione non possono essere stimate. Per questo ho suggerito che un principio anticatastrofe merita di giocare un ruolo nella politica regolativa. Il paternalismo libertario appresta un correttivo assai pro­ mettente al duplice problema di una paura insufficiente o di 302

unii paura eccessiva. In un num ero im precisato di settori, sia le

istituzioni private sia quelle pubbliche possono indirizzare gli individui in direzioni migliori senza sacrificare la libertà di scelta degli individui. A volte le nostre scelte determinano situazioni che peggiorano la nostra vita. Sp esso le nostre preferenze sono il prodotto di punti di partenza o di regole di default. Muovendo da punti di partenza migliori, gli individui possono essere aiutati a fare scelte m igliori alla luce delle proprie preferenze. Quando è eccessiva, la paura collettiva può determinare restrizioni della libertà illegittime. N elle nazioni democratiche del X X secolo la paura collettiva ha condotto a carcerazioni ingiustificate, irragionevoli intrusioni di polizia, discriminazioni religiose e razziali, abu so e tortura da parte di pubblici uffi­ ciali, censure. In breve, la paura pu ò determ inare alcune fra le più grottesche violazioni dei diritti umani. Il pericolo per la libertà aum enta se un gru p p o identificabile diventa oggetto dalle com pressioni della libertà, senza che queste colpiscano la maggioranza. In tali circostanze le corti possono fare tre cose utili. Primo, p o sso n o im porre al legislatore di autorizzare in modo espresso e specifico qualsiasi limitazione della libertà. Secondo, p o sso n o vagliare in m odo estrem am ente severo le limitazioni che colpiscono solo un gruppo specifico di cittadini. Terzo, posson o adottare regole e principi intesi a schivare il pe­ ricolo di sacrificare libertà in ragione di un qualche impossibile «bilanciam ento» di interessi. La paura è una com ponente inelim inabile della vita dell’uo­ mo. Spesso ci indica la strada giusta. L e nazioni, non diversamente dagli individui, sono inclini a seguirla. M a, nelle società democratiche, i governi non capitolano alle paure dei propri cittadini, né ritengono che una generica idea di precauzione possa offrire indicazioni utili sul da farsi. I governi democratici tengono in considerazione sia i fatti sia le paure. Poiché rispettano la libertà e l’autogoverno, e poiché vogliono migliorare la vita degli uomini, i governi dem ocratici ascoltano attentamente ciò che la gente ha da dire. M a, per la stessa ragione, stanno bene attenti a fare in m odo che le leggi e le politiche riducano, e non replichino, gli errori a cui è esposta la gente che soccom be alla paura.

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Ringraziamenti Q uesto libro trae origine dalle Seeley Lectures che ho tenuto presso l’Università di C a m b rid g e nel m arzo 2004, in un periodo dominato dalla salienza di m olti avvenim enti suscettibili di instillare paura, fra cui il terrorism o, la gu erra in Iraq, il riscaldam ento globale, il crimine, la mucca pazza, l’inqu inam en to delle acque, la m odificazione genetica degli alimenti. Il sog g io rn o a C am brid ge mi ha offerto l ’opportunità di toccare con m ano la grande diversità che contraddistingue il modo in cui il rischio e la paura ven gon o considerate in Am erica e in Europa, e anche le n otevoli d ifferen ze che sul tema si possono riscontrare fra i singoli paesi del v e cc h io continente. Sono assai grato per le numerose manifestazioni di cortesia che ho ricevuto durante il mio soggiorno a Cambridge. P e r la lo ro ospitalità, il loro calore umano e il loro sup­ porto, desidero ringraziare in m od o particolare G areth Stedman Jones, Tim Lew ens, M iri R u b in e D a vid Runcim an. D urante il mio soggiorno, un seminario ten u to all'U n iversity C ollege di Londra organizzato da Ronald D w o rk in e S tep h en G u est, m i è stato di grande aiuto per mettere a fu o co le id ee che ho raccolto nei capitoli V I e VII. Sono anche grato al resp on sab ile d ell’editm g del libro presso Cambridge University Press, R ich ard Fisher, per i m eravigliosi consigli ricevuti nella stesura del m an oscritto. P er un superbo lavoro di assistenza nella ricerca rin grazio V ik to ria L ovei, R ob Park, A ndrei Sawicki, Sarah Sulkowsky e Sm ita Singh. H o lavorato a questo volum e per diversi anni, e versioni preliminari di diversi cap itoli del lib ro sono apparsi com e Beyond thè Precautionary Principle, in «U n iversity o f P ennsylvania L aw Review», 151, 2003, p. 1003; Probability Neglect: Emotions, Worst Cases, and thè Law, in «Yale Law Journal», 112, 2002, p. 81; Fear and Liberty, in «Social Research», 2004; Valuing Life: A Plea for Disaggregation, in «Duke Law Journal», 2004; e con R ichard Thaler, Libertarian Paternalism Is Not an Oxymoron, in «University o f C h ic a g o L a w Review », 70, 2003, p. 1159. Il lettore interessato a una version e p iù tecnica di m olte delle tesi svolte nel libro può con su ltare questi saggi. In ogni caso, le versioni preliminari sono state riviste in m o d o sostanziale, soprattutto per tener conto dei

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commenti e dei suggerimenti che ho ricevuto a Cambridge e da molti di coloro che hanno letto i saggi. Ho presentato singole parti del manoscritto alla University of Pennsylvania Law School, al John F. Kennedy School of Government presso la Harvard University, alla New School for Social Research presso la Chicago University, e sono grato alle persone che hanno preso parte a questi eventi per le utili critiche che hanno mosso e per i suggerimenti che mi hanno offerto. Per i loro commenti e le loro osservazioni ringrazio in modo particolare Cary Coglianese, Elizabeth Emens, Carolyn Frantz, Robert Goodin, Daniel Kanhemann, Howard Margolis, Martha Nussbaum, Eric Poster, Richard Poster, Paul Slovic, David Strass, Adrian Vermuele, W. Kip Viscusi, e Jonathan Wiener. Un ringraziamento speciale va a Emens, Frantz, Nussbaum, E. Posner, R. Posner, Adam Samatha, Strass e Vermuele, per aver commentato l’insieme del manoscritto. Il libro è dedicato a Richard Thaler, grande amico e collega che ha saputo insegnarmi molto sull’economia comportamentale, sulla razionalità e sulle precauzioni.

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IN D ICE DEI NOMI

IN D IC E DEI NOMI

Ackerman, Frank, 180n, 190n Acton, H.B., 245n Adler, Matthew, 209n Akerlof, George A., 76n, 104n, 2 1 0 n Aldy, Joseph E., 73n, 183n-186n, 190n, 192n, 195n, 197 e n, 2 0 1 n Alkahami, A.S., 60n Applegate, John S., 26n Aronson, Elliott, 145n Arrow, Kenneth, 83n Arvizu, Dan E., 43n Ashcroft, John, 291 Auberson-Huang, Lillian, 77n Aydede, Sema K., 259n Ayes, Ian, 269n Baldwin, Linda A., 4 7 n Baron, Jonathan, 99n, 105n, 246n, 257n Baron, Robert S., 140n Barrett, Katherine, 77 e n Bateman, Ian, 256n Baumeister, Roy, 263n Behrman, Jere R., 136n Benartzi, Shlomo, 23 8 n, 264 e n Ben-Yehuda, Nachman, 137n Best, Joel, 1 2 In Bettman, James R., 257n Bikhchandani, Sushil, 133n Bishop, George D., 138n Blackwelder, Brent, 33n Blasi, Vincent, 297n Bohannon, John, 48n Botkin, Daniel B., 6 6 n Boyer, Joseph, 43n, 23 In Boyle, Godfrey, 43n Braman, Donald, 58n, 129n Broome, John, 2 2 2 e n Brown, Rupert, 137n

Bruyn, G.W., 95n Burgess, Adam, 16In Burnham, John F., 132n Bush, George Herbert Walker, 7 1 4 2 1 , 85, 116, 125, 144, 171, 275,’ 291, 293, 294 Cacioppo, John T., 141n Calabrese, Edward J., 47n Calabresi, Guido, 253n Calle, Eugenia E., 245n Camerer, Colin, 61n, 238n, 246n, 247n, 254n, 267n, 268n Cameron, James, 25n, 29n Caplin, Andrew, 263n Carlsson, Fredrik, 191n Caswell, Julie A., lOln Chaiken, Shelly, 96n Chang, Howard, 60n Chapman, Kenneth S., 50n Choi, James J., 237n, 250 e n, 251, 252n Collinson, Alan, 43n Collman, James P., 65n, 6 6 n Corso, Phaedra S., lOOn, 1 0 2 n Cropper, Maureen L., 259n Crouch, Edmund A.C., 127n Costa, Dora L., 186n Coursey, Donald L., 105n Dana, David, 74 e n, Davidson, Paul, 84n De Bondt, Werner F.M., 247n DeFur, Peter, 27n, 32n, 80n De Sousa, Ronald, 95n Desvouges, William H., 1 0 2 n Diamond, Peter A., 256n Dickens, William T., 76n, 104n, 210n Dorman, Peter, 184n

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Dorner, Dietrich, 67 e n, 68 Douglas, Mary, 129n Eeckhoudt, Louis R., 194n Eggleston, Roland, 15n Elster, Jon, 85n, 95n, 209n Eom, Young Sook, 102n Epstein, Richard A., 214n Erikson, Kai T., 95 n Fabian, Robert, 190n Farrow, Scott, 83n, 162n Feigenson, Neal, 135n Fischoff, Baruch, 129n Fishback, Price V., 209n Fisher, Anthony, 83 n Flynn, James, 65n Foege, William H., 245n Forgas, Joseph R, 96n, 97n, 210n, 281n Franck, Robert H., 184n Frederiks, J.A.M., 95n Freestone, David, 28n Friederick, Shane, 54n, 96n, 246n, 259n Friedman, Milton, 239n Friedman, Rose, 239n Frohlich, Norman, 157n Gardiner, Stephen M., 154 e n, 155 Gee, David, 25n Gersen, Jacob, 132n Gertner, Robert, 269n Gibbs, Lois Marie, 116n Gigerenzer, Gerd, 56n, 134n Gilbert, Daniel T., 210n, 246n Gilland, Tony, 34n Gillette, Clayton R, 96n, 119n Gilovich, Thomas, 54n, 57n, 97n, 115n, 129n Glantz, Stanton A., 170n Goklany, Indur, 29n, 30n, 32n, 33n, 49n, 73n,74n Goldman, Lisa K., 170n Gollier, Christian, 29n, 82n, 83n, 159n Goode, Erich, 137n Graham, John D., 40n, 45n, 48n, 165n Gray, J.S., 164n Grether, David M., 246n Griffin, Dale, 54n, 57n, 97n, 115n, 129n Gruber, Jonathan, 245n Guedes Vaz, Sofia, 25n

310

Hagstrom, Paul, 184n Hahn, Robert W., 50n Halpern-Felsher, Bonnie L., 105n Hamilton, James T., 117n Hammitt, James K., 183n, 189 e n 194n Hand, Learned, 294 Hanekamp, J.C., 47n Hardell, Lennhart, 46n Hariharan, Govind, 50n Harremoés, Poul, 25n, 85n Harrington, Matthew, 7 In Harsanyi, John C., 152 e n, 153, 157n Hastie, Reid, 138n Hatfield, Eiaine, 14 In Hausman, Jerry August, 256n Hayakawa, Hiroshi, 83n, 162n Hayek, Friedrich A. von, 279, 280 e n, 286, 290 Heath, Chip, 13 In, 134n Heinzerling, Lisa, 180n, 190n Henrich, Joseph, 134n Herath, Hemantha S.B., 83n Hey, Ellen, 28n Hippel, William von, 96n, 97n, 281n Hirschleifer, David, 30n, 132n Hober, Oswald, 99n Hogarth, Robin M., 98n Hsee, Christopher, 94n, lOln, 107n Hunt, Al, 49n Hussein, Saddam, 7, 86, 125, 163 Iaccarino, Maurizio, 78n Ierulli, Kathryn, 30n, 132n Jackson, Robert, 288 e n, 289 Johnson, Eric J., 60n, 113n, 246n Jolls, Christine, 75n Jones-Lee, Michael, lOln, 257n, 258n Kahan, Dan M., 58n, 129n Kahn, Matthew E., 72n, 186n, 209n, 225n Kahneman, Daniel, 41n, 54n, 56n, 57n, 61n, 93n, 96n, 97n, lOln, 105n, 115n, 129n, 210n, 239n, 246n,249n Kagel, John H., 61n Kantor, Shawn Everett, 209n Kaplow, Louis, 228n Kasperson, Roger E., 88n, 174n

Ralph, 49n, 50n

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S ’jack L., 61n, 249n t Frank H-, 84n ^ nhkin Russell, 261n £ jI m e s E .,9 6 n ,1 1 9 n Kunreuther, Howard, 65n, 98n, 100 e n 103n, 247n Kuran, Timur, 30n, 116n, 134n Kurtz, Howard, 117n K

LeDoux, Joseph, 14n, 95n, 97n Leeth, John D „ 184n, 198 e n Lieberman, Matthew, 97n Liebman, Lance, 266n Lin, C.T. Jordan, 101 e n Lincoln, Abraham, 275 Liu, Jin-Tau, 183n, 189 e n Loewenstein, George, 57n, 94n, 11 In, 128n, 246n, 263n Lomborg, Biorn, 3 In, 32n, 42n, 43n, 73n, 282 Loomes, Graham, 257n Lutter, Randall, 49n, 50n Lynch, Diahanna, 34n MacGarvin, Malcolm, 25n McGinnis, J. Michael, 245n McHughen, Alan, 42n Mclntyre, Owen, 28n Madrian, Brigitte C „ 238n, 2 4 9 ,250n,

261n JJagat, Wesley A., 190n M a lT ’ GiAndomenico, 25n, 74n Mar iant’T ary’ 35n’ 38n e8° ’ Howard, 69 e n, 105n, 280

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Morris, Julian, 29n 3in « 40n ’ iln > 32n. 34n, Mosedale, Thomas, 28n Mossman, Kenneth, 35n 3 Rn Myers, David G„ 1 3 7 ?ijÌS Neuman, Johanna, 143n Niemòller, Martin, 281 Nordhaus, William D 43n ?3i„ Novack, Robert, 49n ’ ^ Nussbaum, Martha C„ 13n, 9 5 n O ’Donoughue, Ted, 246n Oppenheimer, Joe A., 157n O’Riordan, Tim, 25n, 29n Orszag, Peter, 73n Page, Talbot, 80 e n Panksepp, Jaak, 95n Park, Chan S., 83n Parker, Richard W., 184n Paustenbach, Dennis D., 28n Payne, John W., 138n, 257n Percival, Robert V., 117n Perlstein, William M., 95n Pidgeon, Nick, 88n, 174n Pollan, Michael, 28n Portney, Paul R., 259n Posner, Eric, 94n, 209n Posner, Richard A., 42n, 151n, 187n, 214n, 218n, 219 e n, 233 e n, 234 Raffensperger, Carolyn, 25n, 27n, 29n, 32n, 77 e n, 80n Rampton, Sheldon, 120n Rapson, Richard L., 14In Rascoff, Samuel J., 49n Rawls, John, 154 e n Read, Daniel, 263n Redelmeier, Donald A., 239n Rehnquist, William, 283n Revesz, Richard L., 49n, 189n, »

193n

n,

Robinson, Clarence, 106

Rogers, Michael, 34n, 51 e n Roth, Alvin E., 61n Rothstein, Mark A., 266n Rottenstreich, Yuval 94n, I07n Rozin, Paul, 65n, Ruser, John, I84n, 198 e n

311

Samuelson, William, 249n Sand, Peter H., 26n, 5 In Sandin, Per, 29n, 164n Sandman, Peter, 112n Schkade, David A., 13 8n, 257n Scott, Elizabeth S., 268n Selten, Reinhard, 134n Sen, Amartya, 152n, 216 e n Servan-Schreiber, David, 95n Shapira, Ian, 106n Sharpe, C.R., 45n Shavell, Steven, 228n Shea, Dennis F., 238n, 249, 250n, 261n Sherman, Steven J., 57 n Shiller, Robert J., 247n Slovic, Paul, 54n, 55n, 59n, 60n, 64n, 65n, 88n, 113n, 115n, 119 e n, 120 e n, 121n, 122n, 174n, 191n, 247n Smith, Anne E., 38n, 156n, 162n Smith, V. Kerry, 102n Starr, Sandy, 40n Stauber, John, 120n Stewart, Richard B., 165n, 233n Stigliz, Joseph, 73n Stirling, Andy, 25n Stone, Geoffrey R , 278n Sunstein, Cass R , 12n, 48n, 73n, 75n, 116n, 134n, 137n, 138n, 179n, 184n, 185n, 191n-193n, 195n, 245n, 246n, 255n, 260n, 292n

Todd, P.M., 56n Todd Whitman, Christine, 49n Tolley, George S., 190n Tommasi, Mariano, 30n, 132n Treich, Nicolas, 29n, 82n, 83n, 159 n Trope, Yaacov, 96n Tubiana, Maurice, 46n Tversky, Amos, 4 In, 54n, 56n, 93n lOln, 105n, 246n

Taylor, Shelley E., 75n Thaler, Richard H., 61n, 238n, 246n, 247n, 249n,261n, 264 e n Tickner, Joel A., 25n, 29n, 77n

Zanotto, Paolo, 276n Zajonc, Robert B., 95n Zeckhauser, Richard, 249n Zhong, Ling, 43n

312

Vinken, Pierre J., 95n Viscusi, W. Kip, 114 e n, 117n, 138n 183n-186n, 189n, 190n, 192n, 195nJ 197 e n, 198 e n, 201n Vogel, David, 30n, 34n Weber, Elke U., 257n Weingart, John, 115n Weinstein, Neil D., 75n Weisbach, David A., 228n Wiener, Jonathan, 28n, 3 In, 34n, 36n, 48n, 51 e n, 233n Wildavsky, Aaron, 73n, 87 e n, 129n Williams, Bernard, 152n Williams, Kipling D., 96n, 97n, 281n Willis, Kenneth G., 256n Wilson, Richard, 127n Wilson, Timothy D., 210n, 246n White, Gilbert F., 247n Wynne, Brian, 25n