Il diritto alla felicità: storia di un’idea
 8842086150,  9788842086154

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Storia e Società

© 2008, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2008

Antonio Trampus

Il diritto alla felicità Storia di un’idea

Editori Laterza

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel marzo 2008 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8615-4

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

PREFAZIONE In una fredda stanza del castello di Dux, in Boemia, in un giorno imprecisato nell’inverno del 1797, con un piatto di maccheroni su un lato della tavola e un bicchiere di latte sull’altro, Giacomo Casanova, ormai vecchio di settantadue anni, chiudeva la prefazione alle sue memorie annotando: «molto spesso ho visto la felicità cadermi addosso in conseguenza di un gesto imprudente che avrebbe dovuto condurmi al precipizio [...], ma ho anche visto grandi disgrazie nascere da una condotta misurata e saggia». La felicità, spiega Casanova, non è prevedibile né programmabile; ne parliamo quindi in forma di rinvio, come di qualcosa che non è veramente di questo mondo, come di un’occasione che potrà verificarsi in un futuro più o meno lontano. Cerchiamo però continuamente di capirne la formula, e molti si affannano a proporci le loro ricette, a conferma del fatto che il tema è sempre attuale e continua ad incuriosire e ad appassionare intere generazioni. Questo libro è un tentativo di spiegare come la felicità sia stata immaginata nell’età moderna, fino a diventare una pratica culturale e politica. Dinanzi ad un mondo in movimento, segnato dalle grandi scoperte geografiche e scientifiche e dai ritmi della storia sempre più accelerati, la felicità non è stata più considerata solo una promessa, legata a un futuro preordinato e fuori dalla portata dell’individuo, ma è diventata una ricerca, che presuppone quindi la libertà della persona e la responsabilità delle sue scelte. Questa ricerca coincide con il sogno di un mondo migliore, che l’uomo ha cercato di costruire espandendo la propria sfera di autonomia, fino a trasformare

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Prefazione

il perseguimento della felicità in un’espressione chiave della modernità. Per ricostruire tale percorso ho scelto di concentrare l’attenzione sul periodo che va dall’Umanesimo al Romanticismo, privilegiando quei momenti di svolta che meglio aiutano a capire come il contesto sociale, politico ed economico abbia progressivamente modificato la percezione della felicità. L’arte, la letteratura, la musica e la filosofia svelano in che modo il sogno di un mondo migliore sia stato inseguito analizzando il rapporto tra anima e corpo, tra pubblico e privato, tra morale e politica, tra ricchezza e povertà, fino all’intreccio con la storia costituzionale dell’Occidente. A partire dal Settecento la ricerca della felicità è stata vista come un diritto di libertà, e come tale introdotta in molte costituzioni moderne, dalla Corsica all’America, dalla Francia al Giappone. È stata intesa anche come un dovere di impegnarsi nella società e come un principio di orientamento per l’azione dei governi. Quando infine l’uomo si è smarrito in questa ricerca, la libertà e la felicità si sono trasfigurate in immagini di tragedia, come appare in molte opere dell’arte figurativa, del teatro e della letteratura. Ringraziamenti Amici e colleghi mi hanno offerto suggerimenti e occasioni di riflessione preziose su temi generali o sul contenuto specifico dei singoli capitoli: desidero ringraziare in particolare Antonella Barzazi, Shaul Bassi, Rosa Caroli, Patrizia Delpiano, Vincenzo Ferrone, Marina Magrini, Marco Presotto, Sophus A. Reinert, Bonaventura Ruperti, Francesca Viano. Devo all’Editore, che ha seguito il lavoro sin dalle fasi iniziali, osservazioni che mi sono state utili nel corso della stesura del lavoro. Desidero infine ringraziare Marta Del Zanna per l’accurata rilettura del testo.

IL DIRITTO ALLA FELICITÀ STORIA DI UN’IDEA

AVVERTENZA Le pagine che seguono introducono uno studio più ampio sulle origini del costituzionalismo settecentesco e illuministico, nell’ambito del quale il diritto alla ricerca della felicità assume un significato importante. Lo spunto è nato da un ciclo di lezioni che ho tenuto presso la Facoltà di lingue e letterature straniere dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, e molti stimoli mi sono giunti perciò anche dal confronto intenso e vivace con gli studenti, con le loro domande e le loro curiosità. Per consentire al lettore un accesso più immediato alle fonti pubblicate originariamente in lingua straniera ho preferito utilizzare le traduzioni più recenti in italiano. La collocazione delle fonti d’archivio è resa riconoscibile, infine, attraverso le seguenti abbreviazioni: AMC ASF ASV AV BNM BPU BRT BSC BUP HHStA HRC KB StOA

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I CHE COS’È LA FELICITÀ? Parlando a Parigi dinanzi alla Convenzione nazionale, qualche anno dopo la Rivoluzione francese, Louis-Antoine-Léon de Saint-Just proclamò con enfasi che «la felicità è un’idea nuova in Europa». In un certo senso aveva ragione, ma solo in parte: l’espressione apparteneva da poco al linguaggio costituzionale americano ed europeo, ma la felicità aveva già una lunga storia, segnata da profonde trasformazioni. La parola stessa, felicità, ci riporta ad un passato assai remoto: alla felicitas del mondo romano e prima ancora a felix, cioè «prosperoso», «ubertoso», «abbondante di frutti». Nella cultura latina erano felices gli arbores, cioè gli alberi che davano molti frutti (Livio), mentre era infelix la terra non adatta alla coltivazione del grano (Virgilio). La medesima radice fe- può essere ritrovata in parole come fecundus, fetus, foemina e filius, e si capisce quindi perché gli antichi rappresentassero la felicità anche sotto forma di salute e di fecondità, maschile e femminile. I greci la chiamavano eudaimonía, dove la radice eu- significa «buono», «bene», e daimon invece «demone», «genio», per indicare una persona «fortunata» in quanto «posseduta da un buon genio», come avviene nella buona sorte assegnataci da un dio1. La felicità è dunque un augurio ma anche un’aspettativa, la speranza in qualcosa che dovrà realizzarsi e che in una certa misura è anche previsto. Questi concetti riemergono frequentemente nel corso del tempo, coinvolgendo culture e popoli molto differenti tra loro, che vi imprimono nuovi significati a partire dai diversi contesti sociali, economici e politici2. Molte que-

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Il diritto alla felicità. Storia di un’idea

stioni riguardanti la felicità riaffiorano attraverso i secoli e fanno intravedere un filo rosso che giunge sino alla contemporaneità. Ancora oggi ci domandiamo se è morale essere felici, se la ricchezza fa la felicità, se la felicità è privata e individuale oppure pubblica. La cultura dell’età moderna si è però posta in seguito un obiettivo ulteriore, cercando di trasformare il sogno della felicità in realtà politica, o quantomeno di creare le opportunità perché ciò avvenisse. Già nel 1755, molto prima della nascita degli Stati Uniti d’America, il popolo della Corsica si era ribellato contro il dominio della repubblica di Genova dichiarando di voler costruire la «felicità della Nazione». Vent’anni dopo i coloni americani elencarono la ricerca della felicità tra i diritti naturali e inalienabili dell’uomo, assieme alla vita e alla libertà. In Italia vennero seguiti dal principe Pietro Leopoldo, che nel 1779 scrisse un progetto di costituzione per la Toscana, proponendosi di garantire la felicità ad ogni membro della società. I rivoluzionari francesi, dopo il 1789, pensarono di averla finalmente conquistata e lo ribadirono nelle loro costituzioni. Ancora oggi possiamo ritrovare il diritto al perseguimento della felicità espresso solennemente nell’articolo 13 della costituzione giapponese, entrata in vigore nel 1947. È morale essere felici? Queste esperienze sono state accompagnate da grandi dilemmi, non sempre interamente risolti. Ci si interroga ad esempio se è morale essere felici, se cioè il desiderio e il diritto alla ricerca della felicità debbano corrispondere ai dettami della natura, della religione o della società. Questo dubbio dipende dal fatto che, per gran parte della cultura occidentale, la felicità è qualcosa di non presente e, quando esiste, è precaria e instabile. La transitorietà e la non definitività sembrano una caratteristica ineludibile dell’esperienza umana e per questo c’è chi afferma che, di fronte alle chimere suggerite dal paradiso del consumo, l’uomo contemporaneo ha trasformato la felicità in uno

I. Che cos’è la felicità?

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scopo esistenziale, non rinunciabile e necessariamente aderente allo scorrere concreto della vita di tutti i giorni. Altrimenti era per gli antichi: la transitorietà e la non definitività erano considerate positivamente, e la questione della felicità coincideva con il tema della riuscita nella propria vita, con la possibilità di realizzare ciò che si desiderava, anche quando questo obiettivo si presentava ancora poco chiaro. La felicità consisteva inoltre nell’adempimento di doveri nei confronti degli altri e nella fiducia in una compensazione futura, in un’altra vita, tra il bene e il male conosciuti in terra. Temi simili sono presenti, sin dalle sue origini, anche nella cultura cristiana, che prospetta la promessa di un’eterna felicità ultraterrena, facile per i poveri e difficilissima per i ricchi. È la parabola del ricco Epulone e del povero Lazzaro, narrata nel vangelo di Luca. C’era un uomo ricco che gozzovigliava e dava grandi banchetti, mentre il povero Lazzaro coperto di piaghe cercava inutilmente di sfamarsi raccogliendo le briciole che cadevano dalla tavola. Morti entrambi, il povero venne portato dagli angeli nel seno di Abramo, mentre il ricco venne mandato nell’inferno. E quando il ricco si rivolse ad Abramo per ottenere lenimento dalle fiamme con un po’ d’acqua, Abramo gli ricordò che aveva già ricevuto la sua parte di beni durante la vita, laddove Lazzaro aveva ricevuto invece la sua parte di mali; perciò in quel momento il ricco veniva tormentato e Lazzaro consolato (Lc. 16, 19-31). Questo spiega perché i dizionari di teologia non usino molto la parola felicità, preferendovi espressioni come beatitudine, bene, paradiso3. Ma il senso della parabola è chiaro. Dio premia il giusto e punisce il peccatore, e ciò suggerisce una simmetria per cui al peccato corrisponde l’infelicità e alla giustizia la felicità. I padri della Chiesa, in secoli successivi, hanno ripreso questo schema, spiegando come sia costante una centralità dell’anima, perché è il presupposto di ogni bene specifico, e la felicità consiste nel godimento che l’anima prova nella sua perfezione. I piaceri e i godimenti quotidiani, che sono beni di poco valore, rappresentano un ostacolo al raggiungimento della vera felicità, che è perfezione dell’anima ottenuta attraverso la contempla-

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Il diritto alla felicità. Storia di un’idea

zione di Dio. Come insiste diffusamente san Tommaso d’Aquino, la felicità è una relazione personale con Dio, è una verità immutabile anche se nascosta, dal momento che l’uomo è destinato ad un fine che lo supera e che è il bene supremo. Nel Medioevo europeo la dimensione metafisica della felicità continua a rimanere fondamentale, e il trasferimento del meraviglioso nell’immaginario diventa parte di un linguaggio che giustifica, nel mondo terreno, il rifiuto del piacere e la dimensione del peccato4. Il linguaggio dell’arte segue il ritmo di queste riflessioni ed associa per lungo tempo la felicità al paradiso perduto, al giardino dell’Eden e quindi ad un luogo non reale, ma che può essere immaginato: piante lussureggianti, cascate di fiori, rami di rose bianche che simboleggiano la purezza, o rosse, che ricordano la passione di Cristo e dei martiri, fanno da cornice a figure angeliche o alla Vergine Maria5. Hieronymus Bosch, celebre pittore fiammingo vissuto a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento, rappresenta la felicità attraverso Il giardino delle delizie, un trittico conservato al Museo del Prado di Madrid: costruzioni fantastiche si alternano ad animali mitici tratti dai bestiari medievali; al centro della composizione è rappresentata la lussuria, sotto forma di fontana della giovinezza, circondata da figure nude di uomini e amanti. Tra un profluvio di simboli alchemici, di colori e di bagliori, spicca il disegno del cristallo e del vetro, allegoria del proverbio secondo cui «la felicità è come un vetro, presto s’infrange». Solo successivamente i soggetti mutano, come nel Trionfo di Galatea, dipinto da Raffaello all’inizio del Cinquecento, o più tardi ancora nelle scene di svago dipinte da Fragonard e da Goya, per giungere alle forme sinuose dei corpi ritratti da Degas e Renoir. I ricchi sono felici? La felicità non è programmabile, ci ricorda Casanova6, ma anche il suo legame con la ricchezza è sempre precario. Che la ricchezza non faccia la felicità ci viene ripetuto da sempre, almeno da quando Erodoto, cinquecento anni prima di Cristo, scrisse il

I. Che cos’è la felicità?

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primo libro di storia di tutti i tempi e dedicò alcune pagine a raccontare la storia di Creso, il più ricco fra tutti i re. Narra infatti che il saggio Solone, noto come grande legislatore e artefice della democrazia ad Atene, nel corso dei suoi viaggi era giunto nella Lidia e qui si fece ricevere dal re Creso, ammirò lo sfarzo della reggia, la ricchezza del tesoro e lo splendore della corte. Creso allora, compiacendosi dello stupore che aveva suscitato, domandò a Solone quale fosse l’uomo più felice incontrato nei suoi viaggi, con la segreta speranza che la scelta cadesse proprio su di lui. E invece Solone gli citò in primo luogo un padre di famiglia morto in guerra, spendendo l’onore per difendere la propria città; poi due giovani forti e belli che avevano ottenuto dagli dei il massimo che un uomo possa desiderare, cioè di addormentarsi e di morire nel sonno. Quanto alla ricchezza, spiegò a Creso, essa consente solo di affrontare meglio gli imprevisti della vita e di soddisfare un maggiore numero di desideri: ma è accompagnata dall’assillo dell’insicurezza, dal timore che svanisca e fino alla morte nessuno può considerarsi davvero autosufficiente7. La felicità non dipende quindi dalla ricchezza in sé, ma dalla capacità dell’uomo di trarre soddisfazione attraverso il proprio lavoro e le proprie attività, che producono ovviamente benessere. Ce lo ricordano oggi anche i testi di microeconomia, quando affermano che la felicità può essere identificata con il grado di soddisfazione personale derivante dalla quantità di beni che ciascuno consuma in base alla propria capacità di reddito. Si è felici quanto più si consuma e questo indipendentemente dall’età delle persone, come marketing e pubblicità cercano continuamente di suggerire8. È sempre vero? Gli economisti tentano di capirlo attraverso lo studio della relazione tra l’età delle persone e la loro felicità, utilizzando la teoria del ciclo vitale, che nel 1985 valse il Nobel per l’economia a Franco Modigliani. L’età, infatti, ha un’importanza cruciale per quanto riguarda la produzione del reddito, che da giovani è più alto e da anziani diminuisce, ma non è altrettanto determinante per quanto riguarda i consumi e il grado di soddisfazione che ne deriva, che tenderebbero a rimanere costanti nel tempo. Esistono quindi giovani, adulti e anziani tutti

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consumatori, cioè tre categorie altrettanto importanti nella dinamica della produzione di beni e di servizi. Se la propensione al consumo rimane sostanzialmente invariata nel tempo, non lo è invece la predisposizione alla felicità. Come emerge da indagini sulla popolazione americana svolte tra il 1975 e il 2000, la relazione tra età e felicità formerebbe una curva a U. Siamo più felici – così viene detto – da giovani e da anziani, mentre il picco minimo si colloca intorno ai 45-55 anni. La crisi di mezza età potrebbe rappresentare quindi la fase della vita in cui si attenuano le illusioni utopiche rispetto alle aspirazioni giovanili, per far subentrare il realismo della maturità, che è anche un processo di selezione tra ciò che consideriamo effettivamente raggiungibile e ciò che non lo è9. Sarà dunque anche vero che i giovani di oggi sono relativamente più felici dei loro coetanei di venti e trent’anni fa, ma non è affatto detto che da anziani saranno più infelici; forse è per questo che «la tramontana della vita» non è tanto l’epoca dell’infelicità quanto la stagione nella quale «s’addolciscono le ansietà e le passioni dei malcontenti», come scriveva un piemontese da Parigi nel 1661, commentando la vecchiaia del temuto cardinale Mazzarino10. Felicità pubblica e felicità privata L’obiettivo della felicità sembra dunque quello di aumentare le condizioni di benessere, attenuando il senso del dolore e dissolvendo le debolezze insite nell’uomo. Ciò non basta tuttavia a capire se siamo più felici vivendo da soli o piuttosto in società. Quanto influisce la collettività su una prospettiva individuale di vita felice? L’isolamento può essere deprimente, ma può essere salutato anche con sollievo, come suggerisce Ibsen nell’Anitra selvatica, che pone la felicità all’interno di una soffitta, luogo lontano e protetto dal quotidiano. Un modo nuovo di riflettere su questi temi è giunto dagli studi che tentano di distinguere il concetto di felicità soggettiva da quello di felicità oggettiva, facendo ricorso agli strumenti offerti dalla statistica, dalla demografia, dalle scienze matematiche e

I. Che cos’è la felicità?

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mediche. Oggi disponiamo persino di un Mah, acronimo per Measure of aggregate happiness (Indice cumulativo di felicità nazionale), cui si affianca il World database of happiness (Archivio mondiale della felicità), che consente di compilare classifiche dei paesi più felici, in base a parametri che vanno dal livello di benessere allo sviluppo della nazione, dal reddito all’indebitamento pubblico, dal prodotto interno lordo al tasso di disoccupazione. La felicità è diventata materia di studio nelle università americane, dove gli esperti di neuroscienze affettive analizzano la plasticità della mente, notando la concentrazione delle sensazioni piacevoli nella corteccia cerebrale sinistra piuttosto che in quella destra, dove si generano invece depressione, ansia e paura. In Olanda, all’università Erasmus di Rotterdam, si insegnano elementi di Social conditions for human happiness (Condizioni sociali per la felicità umana) e viene pubblicata una rivista scientifica sulla felicità intitolata «The journal of happiness». La convinzione che si possa misurare la felicità dell’individuo, entro una scala aritmetica, è ormai talmente diffusa che famosi periodici americani usano classificarla, così come si fa per la ricchezza e per gli uomini più invidiati del pianeta. Tuttavia, come effettuare il calcolo sembra sia ancora motivo di disaccordo. Si ritiene che la felicità oggettiva sia misurabile attraverso un insieme di dati scientificamente rilevabili, dati essenzialmente di natura fisiologica e che derivano dallo studio delle onde cerebrali, della fisiologia, della clinica medica e di altri indicatori tecnici. Invece la felicità soggettiva viene studiata ricorrendo ad interviste e all’autovalutazione, cioè distribuendo questionari le cui risposte consentono di attribuire punteggi di soddisfazione. Tutto ciò deve però fare i conti con alcune variabili importanti, che possono andare dalle distorsioni mnemoniche alla tendenza a formulare giudizi calibrati in base a regole prefissate o a convenzioni sociali. Napoleone in esilio a Sant’Elena confessò al suo medico personale, Barry O’Meara, che i giorni più felici della sua vita erano stati quelli tra i sedici e i vent’anni e che invece non lo erano stati affatto quelli all’apice della sua potenza. Ma, probabilmente, intervistato a vent’anni, il giovane Bonaparte non avrebbe affatto dichiarato di aver già vissuto la fase

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più bella della propria vita. La memoria e l’esperienza producono un effetto distorsivo, che ci mostra come il concetto soggettivo di felicità muti costantemente nel tempo e venga condizionato dall’ambiente e dallo svolgersi degli avvenimenti. Lo confermano indagini effettuate negli Stati Uniti d’America a partire dagli anni Novanta del Novecento riguardanti l’autovalutazione. Non meno del 62% della popolazione riporta un punteggio di soddisfazione medio-alto, e analoghe ricerche in Svizzera hanno mostrato un uguale grado di soddisfazione della vita, rivelando come l’aumento di questo dato non sia direttamente legato all’età, ma sia fortemente influenzato da una serie di circostanze che dipendono dalle politiche sul territorio, dal livello di partecipazione degli abitanti alla vita pubblica e così via. Che il tasso di felicità soggettiva non sia legato all’aumento della ricchezza è confermato indirettamente da altre ricerche svolte in Giappone: confrontando dal 1958 al 1991 l’aumento del reddito, misurato in termini di prodotto interno lordo (cresciuto all’incirca di sei volte), si è visto che il livello di soddisfazione della vita è rimasto sostanzialmente invariato e costante, a dimostrazione del fatto che dipende, più che dalla ricchezza, dal contesto sociale e culturale11. Ecco perché le teorie della felicità possono poi sfociare nel paradosso, come avviene laddove si afferma un «diritto all’infelicità», ad esempio quello rivendicato dai gruppi minoritari, che da una parte chiedono la tutela, ma dall’altra non desiderano la piena integrazione e agiscono come per evitarla12. La felicità ha infine un suo linguaggio, che ogni società adatta alle proprie esigenze, generando fenomeni talora molto curiosi. In Cina, ad esempio, la felicità e la buona sorte sono rappresentate dai pipistrelli; niente di più lontano dall’immaginario occidentale, dove questi animali vengono associati alle tenebre e alle forze del male. Una celebre incisione di Francisco Goya del 1797, custodita al Museo del Prado di Madrid, s’intitola illuministicamente Il sonno della ragione genera mostri e ci fa vedere un uomo, assopito nell’oscurità, dal cui sonno si librano incombenti pipistrelli. Nella scrittura ideografica cinese, invece, il simbolo del pipistrello è espresso da un monosillabo

I. Che cos’è la felicità?

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(fu) il cui suono è identico a buona sorte (fu), e le due parole vengono così accomunate dalla pronuncia, tant’è che due pipistrelli indicano la «doppia felicità» e molti pipistrelli indicano le molte felicità, cioè la longevità, la ricchezza, la salute, la virtù e la buona morte13. Per ricostruire la storia della felicità, e per mostrare come l’uomo moderno sia riuscito a trasformarla in una ricerca, occorre quindi tenere conto di tutte queste variabili e tornare al significato delle parole, ai diversi linguaggi utilizzati, alle sue diverse rappresentazioni nel corso dei secoli.

II L’ANIMA E IL CORPO Sconvolti da una violenta tempesta e dagli elementi naturali, alcuni uomini fanno naufragio su un’isola incantata ritrovandosi con le vesti asciutte, sotto un sole splendente e al cospetto di una natura piena di fascino. Sono vittime della magia di Prospero; tra i naufraghi figura Gonzalo, l’anziano e fidato consigliere del re di Napoli, che immagina di poter diventare un giorno sovrano dell’isola e di amministrarla secondo le regole della felicità: Nel mio stato governerei eseguendo tutto contrariamente agli usi. Non ammetterei nessun genere di commercio. Di magistrati, neanche il nome. Le lettere, sconosciute. Ricchezze, povertà, qualunque servitù, più niente. Contratti successioni, confini delimitazioni di terre, colture, vigneti: niente. Non uso di metallo, non grano, non vino, non olio. Niente lavoro. Gli uomini, tutti in ozio, tutti. E anche le donne ma innocenti e pure. Sovranità nessuna. […] Tutto in comune. Dev’essere la Natura a produrre, senza fatica o sudore1.

II. L’anima e il corpo

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Così William Shakespeare racconta nella Tempesta, il dramma rappresentato nel 1611 e considerato uno dei testi più significativi della sensibilità moderna, la storia di Prospero, duca di Milano. Spodestato dal fratello, re di Napoli, è approdato su un’isola selvaggia dove con intelligenza e bontà libera le forze nuove della natura realizzando un’armonia che è simbolo del buon governo; e quando sulla stessa isola naufraga il fratello usurpatore, accompagnato da Gonzalo, l’intera vicenda si conclude nel perdono e nella vittoria della giustizia. Troviamo in queste pagine tutti gli ingredienti tipici della letteratura fantastica: il trauma del capovolgimento della vita rispetto al ritmo quotidiano; il naufragio come separazione dalla realtà; la sfida verso il nuovo e l’ignoto, che è alimentata dai racconti di viaggio e di esplorazione, ma che è anche un cammino di conoscenza; la fragilità della condizione umana dinanzi alla natura, l’impossibilità di controllare gli eventi rispetto ad ogni pretesa di superiorità. La felicità di Gonzalo è la speranza di poter costruire un mondo migliore e Shakespeare ce lo spiega elencando tutto quello che, a suo parere, corrompe l’innocenza dell’uomo: politica, commercio e ricchezza. La profondità della lirica shakespeariana continuerebbe però a sfuggirci, se non ci avventurassimo in una ricerca sulle sue origini. Il piacere, da peccato a virtù L’uomo dell’età moderna, tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, definisce se stesso confrontandosi con gli antichi, e vive una serie di trasformazioni che mettono progressivamente in crisi le certezze e i punti di riferimento offerti, sino ad allora, dalle rassicuranti prospettive della cultura classica e cristiana. Dagli antichi ha ereditato almeno due grandi interpretazioni della felicità. La prima insiste sul coinvolgimento tanto dell’anima quanto del corpo, perché proprio quest’armonia può concedere all’uomo una condizione di appagamento e di pace. Concepire la natura umana come unione di anima e corpo si-

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Il diritto alla felicità. Storia di un’idea

gnifica respingere la differenza tra la vita e la morte, tra la dimensione terrena e quella ultraterrena. La felicità del corpo, raggiungibile attraverso la virtù ed i meriti personali, può in questo senso coincidere con la felicità dell’anima, che è promessa dalla fede, ma va coltivata anche in vita, facendo affidamento sulla fortuna e sulla buona sorte, circostanze imprevedibili ed esterne all’uomo. Epicuro, il massimo rappresentante di questo pensiero, spiega diffusamente nell’Epistola a Meneceo (nota anche come Lettera sulla felicità) che il piacere vero è assenza di dolore, sia del corpo sia dell’anima, e consiste quindi in uno stato di quiete assoluta. La serenità dell’anima e l’armonia del corpo possono essere paragonate all’imperturbabilità di un bambino, che segue liberamente i bisogni semplici ed elementari. L’uomo adulto, che vuole essere anche virtuoso e felice, ha una vita più complicata, e impara che esistono vari tipi di desideri: quelli naturali e necessari, legati ai bisogni primari (come mangiare e bere), che devono essere senz’altro assecondati e il cui mancato soddisfacimento procura il dolore dell’astinenza; vi sono poi quelli naturali ma non necessari, come l’assunzione di bevande o di cibi più raffinati, che non modificano sensibilmente la percezione dell’appetito, che viene lenito infatti ugualmente da un cibo semplice o da uno raffinato. Ciò significa che i desideri vanno assecondati solo nella misura in cui servono effettivamente ad alleviare sensazioni di dolore, facendo attenzione a non modificare l’equilibrio interiore provocando disfunzioni ed assuefazione. Vi sono, infine, i desideri non naturali e non necessari, che nascono dalla vita in società e sono assenti in natura: non hanno alcuna funzione lenitiva contro il dolore e vanno perciò accuratamente allontanati, come le ricchezze, gli onori e il potere. L’uomo è quindi felice – conclude Epicuro – solo nel momento in cui non sente altri desideri se non quelli naturali e necessari e sa come evitare il dolore che gli provocano, mantenendosi entro una dimensione stabile della felicità in armonia con la natura. Quando noi avremo ciò, ogni tempesta dell’anima si placherà, non avendo allora l’essere animato alcuna cosa da appetire come a lui man-

II. L’anima e il corpo

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cante, né altro da cercare con cui rendere completo il bene dell’anima e del corpo. È allora infatti che abbiamo bisogno del piacere, quando soffriamo perché esso non c’è; quando non soffriamo non abbiamo bisogno del piacere. È per questo che noi diciamo che il piacere è principio e termine estremo di vita felice2.

L’effetto è certamente terapeutico: questa morale dei piaceri fa capire che la felicità è non solo un’assenza di dolore, ma anche una condizione di normalità e di tranquillità, uno star bene messo al sicuro dall’irrompere di desideri nuovi, ed inutili, prodotti dagli artifici della società e dalla politica. La cura del corpo è una cura per l’anima, che la pone al riparo dai timori, dalle sofferenze e dai dolori. Il saggio rimarrà allora lontano anche dalla politica e dalla vita pubblica, che è rovina della felicità, e preferirà invece prendersi cura di sé valorizzando le amicizie e le relazioni che servono al soccorso reciproco e ad un buon vivere3. Se l’epicureismo rinuncia al controllo sulla vita, nel senso che si limita ad assecondare la natura, diversa è la prospettiva offerta dall’altra grande corrente di pensiero dell’antichità, quella dello stoicismo e di Seneca, che nei primi anni della nostra era ne diviene uno degli interpreti più conosciuti. La brevità della vita, che è anche il titolo di un suo celebre saggio, insegna che nel mondo tutto è precario, anche i piaceri; l’anima e il corpo sono separati, tanto che, rispetto all’ideale epicureo, la persona appare come un essere fondamentalmente dimezzato. L’uomo è quindi saggio quando impara che è inutile rincorrere le proprie passioni e fabbricare sempre modi nuovi per sprecare l’esistenza. La vita si divide in tre tempi: passato, presente, futuro. Di essi il presente è breve, il futuro incerto, il passato sicuro. Solo su questo la fortuna ha perduto il suo potere, solo questo non può essere ridotto in balìa di nessuno [...] Il presente è brevissimo, tanto breve che ad alcuni sembra inesistente; infatti è sempre in corsa, scorre e precipita; finisce prima di giungere, e non tollera soste più che l’universo o le stelle, il cui incessante movimento non resta mai al medesimo punto4.

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Non bisogna inseguire la felicità o ricercarla in sé, con il rischio di perdersi nella confusione dei desideri; occorre invece tenere a freno le passioni, avere un animo saldo, una mente perfetta che comprende e fissa i propri limiti. Felice è l’uomo che quotidianamente basta a se stesso, che è contento della parte migliore di sé e vive ogni momento in forma compiuta e ogni giorno come se fosse una vita intera. Stolto è invece l’uomo che spera di allontanare permanentemente il dolore dalla propria vita, convinto che alla sua completezza manchi sempre qualcosa5. Con l’avvento del cristianesimo i termini del problema mutano: la vita terrena è vista non come condizione per la felicità attuale, ma come un percorso di privazioni preordinato alla beatitudine, che è compenso per l’anima donato da Dio, mentre il benessere del corpo viene degradato a semplice piacere. L’immagine statica della felicità non risulta sostanzialmente modificata, nel senso che rimane sempre qualcosa di preordinato dalla Provvidenza e sottratto alla disponibilità dell’uomo, ma l’anima viene disgiunta dal corpo e questa separazione trasforma la felicità in una promessa, in un viaggio nel tempo che l’uomo deve compiere nel tentativo ideale di tornare ad una condizione originaria, che è quella di Adamo nel paradiso perduto. La speranza in un mondo futuro è già essa stessa felicità, perché apparentemente si viene posti in una condizione di tensione tra l’essere attuale e quanto viene promesso, ma in realtà vi è la certezza di poter tornare – in un’altra vita e una volta rimossa la colpa originaria, fonte del dolore e dell’infelicità – nel giardino delle delizie in cui Dio aveva posto l’uomo sin da principio. Il tempo del paradiso All’ideale filosofico della tranquillità e della quiete, caro agli antichi, si affianca quindi la ricerca cristiana di beatitudine e di perfezionamento, che aiuta nel cammino per ritrovare il paradiso. Le passioni, spiega sant’Agostino, hanno unicamente la funzione di alimentare le speranze, così come i timori servono a orientare gli uomini nella scelta tra il bene e il male. Di fronte a

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un’umanità dolente, che desidera la felicità pur non possedendola e non avendola mai veramente vissuta, viene svelato l’errore della filosofia classica, che serviva solo a diminuire l’infelicità; l’unico rimedio all’inquietudine e al dolore diventa il riposo del nostro cuore in Dio, fonte di amore, di bellezza, di armonia6. Se la felicità è una promessa, deve quanto meno poter essere poi prevista, soprattutto nel momento in cui la fede viene messa alla prova dinanzi alla difficoltà della vita, a tragedie personali o collettive, come possono essere state, nel Medioevo e nella prima età moderna, le carestie, le epidemie e le guerre. La speranza nel paradiso richiede infatti che l’aldilà possa anche essere immaginato e per questo, sin dai primi secoli del cristianesimo, la promessa viene trasfigurata in profezie e visioni, che insistono sul premio dato all’uomo di fede come ricompensa e riscatto per la durezza delle prove della vita, diversamente dalle punizioni, riservate a chi si è dedicato alla ricerca dei soli piaceri terreni. Si tratta di un argomento assai delicato, fonte di incertezze e dubbi. Lo rivela la storia del sogno; per i primi cristiani assume un significato mistico: è liberazione dell’anima dal corpo, contatto con Dio (anche nella forma suprema dell’estasi), ma ben presto diventa eresia, perché pretende di rivelare il futuro, che appartiene soltanto a Dio. L’uomo del Medioevo, allora, non può più sognare il paradiso ma può immaginarlo, come luogo di beatitudine e di giustizia, grazie al linguaggio di artisti e poeti7. L’intento pedagogico di queste rappresentazioni è almeno pari a quello di Martin Lutero che, un centinaio d’anni dopo, per spiegare il paradiso alla figlia Maddalena lo descrive come un luogo dove può trovare «un mucchio di mele, pere, zucchero, prugne e così via», mentre il figlio più piccolo, Giovanni, lo crede «un piacevole, splendido, incantevole giardino affollato di bambini che indossano giacchette d’oro e colgono sotto gli alberi frutti buonissimi: mele, pere, ciliegie e prugne gialle e blu. Essi cantano e sono felici. Ed hanno anche dei bei cavallini»8. La Commedia di Dante riflette, da questo punto di vista, un evidente intento didascalico, poiché mette in primo piano il rapporto tra il carattere delle persone e le scelte compiute da ciascuno nel corso della propria vita. Tra l’inferno, che è il luogo in cui

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si trovano quanti hanno orientato in modo sbagliato i propri desideri, e il paradiso, che è il luogo della beatitudine, viene posto il purgatorio, metafora di un percorso di espiazione e redenzione rimasto interrotto nella vita terrena, che può essere completato con l’aiuto della preghiera dei vivi. In questo ideale viaggio, persino all’interno del paradiso, che è una conquista individuale ed esalta la virtù e la spiritualità di ogni individuo, sembrano esistere differenti gradi di godimento della felicità, rappresentati dalla diversa posizione occupata da ciascuna anima. Dante, infatti, domanda subito a Piccarda, l’anima di una beata incontrata nel cielo più basso e quindi più lontano da Dio, se coloro che lì sono felici non avrebbero potuto esserlo maggiormente stando più vicini al Signore; e lei stessa risolve il dubbio, spiegando che la volontà di Dio è già per loro felicità, ed è anche fonte di pace9. I due mondi del piacere, quello del corpo e quello dell’anima, sembrano allora irrimediabilmente separati, come lo è il pensiero epicureo rispetto a quello cristiano. Corpo e anima seguono destini diversi e l’uomo perde così anche la sua centralità dinanzi al disegno provvidenziale, che non può in alcun modo controllare. Ne è interprete estremo Ignazio di Loyola, che ha trascorso una vita da militare rimanendo ferito durante l’assedio di Pamplona del 1521 e che poi ha abbracciato la vita religiosa per diventare il fondatore della Compagnia di Gesù. Dinanzi agli orrori del «secolo di ferro», attraversato da dissidi religiosi e conflitti armati, scrive e rielabora i suoi esercizi spirituali, che consentono al credente di ritrovare la vera fede, indicandogli le prove da superare, le tecniche per meditare e i modi per esaminare la propria coscienza, contemplare e pregare: «non è infatti il troppo sapere che soddisfa e appaga l’anima, ma il sentire e il gustare le cose interiormente», scrive ribadendo più volte il concetto; «quando togliamo il superfluo, ciò non è penitenza, ma temperanza. È penitenza quando togliamo dal necessario, e più lo facciamo, più grande e migliore essa è, purché le forze non ne siano alterate ed essa non cagioni una seria malattia». Il corpo diviene prigione dell’anima che anela alla libertà e ad unirsi in Dio: «la mia anima [è] racchiusa in questo corpo corrotto e tutta la natura umana co-

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me esiliata in questa valle in mezzo a bruti animali. Dico tutta la natura umana, intendendo l’insieme di anima e corpo»10. Disorientamento e follia Sembra quindi che sugli antichi gravi una condanna di immoralità senza appello. In realtà, nel lungo tramonto del Medioevo che accompagna la nascita dell’età moderna, il giudizio sugli antichi comincia ad essere sfumato dalla cultura dell’Umanesimo e del Rinascimento, che indaga sulle fonti, ridefinisce i problemi, riscopre le identità. Epicuro ne beneficia, nel senso che viene gradualmente riscattato e la vera natura dell’uomo, composta unitariamente da anima e corpo, viene riscoperta perché serve a restituire un essere intero e non dimezzato, compatibile con l’ideale cristiano di una vita dedicata al sommo bene, in cui le opere terrene diventano utili alla gloria di Dio. Si può rivendicare un ambito naturale per la ricerca della felicità senza affermare qualcosa di irreligioso o anticristiano, basta solo comprendere il modo in cui questa ricerca va compiuta. «L’anima desidera stare col suo corpo, perché, sanza li strumenti organici di tal corpo, nulla può oprare né sentire» scrive con disarmante semplicità Leonardo da Vinci su una carta del Codice Atlantico alla fine del Quattrocento o all’inizio del Cinquecento11. Non è però un’operazione semplice: Dante, che aveva conosciuto Epicuro attraverso gli scritti di Cicerone, lo aveva collocato con i suoi seguaci nell’Inferno «tra l’anime più nere», che «l’anima col corpo morta fanno». Il disegno del Creatore, o meglio il suo vero disegno, è al centro del dibattito. Come può essere che Dio abbia voluto per l’uomo una vita di infelicità se in realtà gli ha predestinato un quadro di letizia? Le argomentazioni addotte dalla filosofia dei pagani per spiegare la sofferenza, l’infelicità della vita, il vantaggio della morte, non sono forse una rappresentazione ingannevole delle vere volontà del Creatore? Il mondo di Adamo era in realtà un mondo felice, nel quale l’uomo era lieto perché aveva la possibilità di interpretare se stesso e di migliorare o degenerare il proprio essere. «Po-

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trai degenerare negli esseri inferiori, ossia negli animali bruti; o potrai, secondo la volontà del tuo animo, essere rigenerato negli esseri superiori, ossia nelle creature divine», così Pico della Mirandola racconta, nel Discorso sulla dignità dell’uomo (1487), il dialogo di Dio con Adamo dopo la creazione12. La riabilitazione dell’uomo, delle sue passioni e dei suoi istinti, non più repressi come una malattia dell’anima e come tentazione diabolica, si accompagna alla rinnovata fiducia nella persona, nella sua immaginazione, nella sua curiosità. La cultura umanistica vede nell’amore, nell’apprezzamento per il piacere e per la bellezza, le basi per un riscatto dal Medioevo. Si è aperto «un tempo felicissimo», scrive Erasmo da Rotterdam nel 1516 ad un amico, pochi anni dopo aver pubblicato l’Elogio della pazzia (1509), un testo provocatorio e geniale nel paradosso. L’idea gli è venuta, come scrive nella dedica a Tommaso Moro (Thomas More), rientrando in Inghilterra dopo un viaggio in Italia, mentre il suo cavallo procedeva pigramente e lui cercava ogni mezzo per non doversi perdere in chiacchiere con rozzi illetterati. Rimuginando così, «e parendomi quel tempo poco adatto ad una seria meditazione, mi saltò in mente di celebrar per gioco l’elogio della pazzia». Ed eccone il risultato. Come spiega infatti in quelle pagine, non è la ragione, che si ferma all’apparenza delle cose, a muovere il mondo, ma la follia, cioè la capacità di ciascuno di assecondare e promuovere innumerevoli forme di autoinganno, che servono ad alimentare le illusioni, a rendere sopportabile la vita, a sfruttare quella poca felicità che abbiamo a disposizione. La vita è spinta quindi dall’energia dei desideri, dall’entusiasmo dell’anima, che ci aiutano nella speranza dell’amore cristiano che è a sua volta una follia, la follia di Dio. Le apparenti certezze della ragione, le forme di controllo offerte dalla mente e dalla società, non fanno che estraniare l’uomo dalle follie del suo mondo, rendendolo prigioniero delle convenzioni, dei doveri e dei compiti che gli sono stati assegnati. Chi è più felice degli animali, che non sono obbligati a seguire alcuna disciplina ma assecondano liberamente la follia? «Non vedete» – scrive Erasmo – «che passano un’esistenza molto più felice quelli che si allontanano di più da ogni disciplina,

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non accettando per guida e maestra che la natura? C’è nulla di più felice o di più ammirevole delle api? Eppure non hanno neppure tutti i cinque sensi!». E ancora: «Quant’è più invidiabile la vita delle mosche e degli uccelli, che vivono alla giornata, seguendo il solo istinto di natura! Purché, s’intende, lo permetta l’insidia dell’uomo!». Spostando allora l’attenzione dagli animali all’uomo, apparirà evidente che sono più felici gli stolti, non i saggi: «fra i mortali, ben lungi dalla felicità si trovano quelli che vanno in cerca della saggezza. Essi sono, si vede, doppiamente dissennati, ché, nati uomini, dimenticando la loro condizione di uomini e aspirando a vivere da dèi immortali, a mò dei giganti muovono guerra alla natura, e le scienze sono le loro macchine da guerra». Assecondare quindi la follia è come assecondare la natura, ed è il vero modo per essere felici; persino la felicità celeste, cioè la promessa di beatitudine, diventa una forma di follia, perché allora «l’uomo sarà tutto fuori di sé e sarà felice per non altro motivo che, posto fuori di se stesso, subirà qualcosa di ineffabile da parte di quel sommo bene che tutto attrae e rapisce in sé»13. La voce di Erasmo, oggi considerata tra le espressioni più moderne della cultura umanistica, di una dottrina della libertà propugnata da un critico moderato del proprio tempo, viene tuttavia poco ascoltata dai contemporanei, che vivono un’epoca di radicalizzazione religiosa sempre più profonda. Nella percezione di molti, soprattutto nell’Europa cattolica, egli è fonte di scandalo per le coscienze, poco coerente dal punto di vista confessionale, troppo aperto e composito. Letto in chiave luterana, il suo pensiero – come i suoi scritti, totalmente proibiti dall’Inquisizione dal 1559 – appare «degno del fuoco», da immolare su uno di quei tanti roghi purificatori che accomunano nel loro destino streghe e cataste di libri pericolosi14. Un racconto romanzesco Opposto alla follia di Erasmo e alla felicità celeste, che appare sempre distante e irraggiungibile, c’è il mondo terreno, una

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realtà fortemente scossa dalle grandi trasformazioni del primo Cinquecento. Le scoperte geografiche immettono in Europa grandi quantità di oro e argento, provocando un effetto inflativo e una diminuzione del potere d’acquisto delle monete. Le migliorate condizioni sanitarie determinano un incremento della popolazione e della domanda di derrate, con la conseguente crescita dei loro prezzi. Aumentano i salari, ma quadruplicano i costi dei prodotti alimentari; la differenza tra ricchi e poveri diviene più netta e, soprattutto in Inghilterra, gli abitanti delle città e i piccoli contadini e proprietari terrieri, detentori di ridottissimi appezzamenti, riescono appena a sopravvivere. Questa sconfortante situazione è ben presente a Tommaso Moro, grande amico di Erasmo che proprio in casa sua ha scritto parte dell’Elogio della pazzia, a lui dedicata. Destinato a diventare cancelliere di Enrico VIII nel delicatissimo momento delle trattative per ottenere il divorzio da Caterina d’Aragona e sposare Anna Bolena, Moro è in quell’epoca ancora vicesceriffo di Londra. L’Utopia, pubblicata nel 1516, è il suo racconto di un’isola che non c’è ma che è anche un buon luogo (la parola utopia, di origine greca, può essere fatta derivare sia da eu-topos, cioè «buon luogo», sia da ou-topos, cioè «non luogo»). Viene inaugurato così un intero genere letterario, destinato a rimanere nel tempo e ad appassionare anche i posteri, che scoprono come si possa scrivere di politica anche in un racconto così romanzesco15. Utopia è un’isola in cui vive un popolo felice, la cui storia è fittiziamente raccontata da Raffaele Itlodeo, un viaggiatore al seguito di Amerigo Vespucci capitato lì quasi per caso. Vi sono cinquantaquattro città ampie e magnifiche, vaste campagne con case fornite di tutti gli attrezzi agricoli, nelle quali si trasferiscono a turno le famiglie che abitano nelle città. Questo mondo immaginario è sopravvissuto ad una serie di catastrofi, e le regole di Utopia oppongono alle ingiustizie della società europea e cristiana le giuste leggi che regolano una comunità dei beni, nella quale la dimensione dell’individuo e le relazioni sociali si esprimono attraverso il rifiuto della proprietà privata e della corruzione. Sono stati aboliti i diritti feudali e l’avidità dei signori è stata frenata. Moro intreccia un fitto dialogo

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con Raffaele, chiedendogli come sia possibile conciliare una vita dove tutto è in comune con la natura umana, intrinsecamente egoistica, portata all’individualismo e al profitto. Raffaele gli risponde descrivendo l’organizzazione degli Utopiani, che attorno alla proprietà comune hanno organizzato una piccola quota di lavoro agricolo, che spetta a tutti i cittadini a turno trasferiti in campagna e che serve al mantenimento del bene comune. Ogni altra attività, dalle arti alle professioni e al gioco, può essere poi liberamente sviluppata da ognuno in base alle proprie inclinazioni, senza il bisogno di prevaricare sugli altri attraverso la ricchezza o segni esteriori. Utopia appare quindi come un luogo armonioso e piacevole, giustamente isolato affinché rimanga inaccessibile, cui si accede solo per un’insenatura la cui imboccatura è così pericolosa, a causa dei banchi di sabbia e degli scogli, che per superarla occorre la guida di un Utopiano. È l’isola dove è stato eliminato il significato impropriamente attribuito ai beni e alle ricchezze, e dove ciascuno raggiunge la felicità attraverso le proprie azioni, differenziate in base alle esigenze di ogni individuo. L’uomo non è più schiavo del bisogno, non deve praticare un percorso di penitenza e sofferenza, non è vittima dell’ingiustizia e degli interessi privati, ma vive in una repubblica di uguali, colta, razionale e onesta. Come spiega chiaramente Moro, i governanti non obbligano i cittadini a compiere di malavoglia fatiche superflue, visto che la costituzione del loro Stato è rivolta a questo unico fine primario: che il maggior tempo possibile, compatibilmente con le necessità comuni, sia sottratto al servizio del corpo e consacrato alla libertà e alla cultura dell’animo di tutti i cittadini. Questo essi ritengono che sia ciò che rende felice la vita16.

Ne abbiamo un’ulteriore conferma quando Raffaele spiega quali sono gli argomenti preferiti nei discorsi degli Utopiani e la funzione da loro attribuita alla religione: Non discutono mai sulla felicità senza tirare in campo alcuni princìpi derivati dalla religione e da una filosofia che si avvale del raziocinio,

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perché ritengono che, in difetto di ciò, la ragione da sola sia debole e monca per indagare cosa sia la vera felicità [ed è] per questa via che essi sono giunti a concludere, dopo aver assiduamente analizzata e soppesata la questione, che tutte le nostre azioni, comprese quelle dettate dalla virtù, in ultima istanza sono dirette a conseguire la felicità17.

Il racconto di Moro produrrà nel tempo innumerevoli imitatori; a tradurlo in Italia è Ortensio Lando, curiosa figura di medico e soldato, che lo fa pubblicare a Venezia, nel 1548, con il titolo La Republica nuovamente ritrovata, del governo dell’isola Eutopia, nella qual si vede nuovi modi di governare stati, reggier popoli, dar leggi a i senatori, con molta profondità di sapienza. Alla fama dell’autore contribuisce però anche la sua tragica fine: dopo aver rifiutato di prestare giuramento a Enrico VIII, autoproclamatosi capo della Chiesa anglicana, Moro viene infatti imprigionato e giustiziato e la sua testa mozzata esposta per un mese sul ponte di Londra. Così la sua immagine profetica andrà a confondersi con quella del martire, santo nella Chiesa anglicana e poi anche – per volontà di Giovanni Paolo II – in quella cattolica, nonché patrono dei politici. Adamo e il Nuovo Mondo Moro cerca quindi di rimediare al disorientamento dell’uomo moderno offrendogli il progetto di una società ideale. La solitudine e lo spaesamento derivano, tuttavia, anche da altri fattori, come il confronto o la scoperta dell’altro, un’alterità fino a poco tempo prima ignota, che spinge a misurarsi con il proprio io e con la propria storia. Le esplorazioni geografiche, l’incontro con nuove civiltà, la scoperta di popoli primitivi allargano l’orizzonte geografico, sradicando punti di riferimento consolidati, e il disorientamento cresce. Il discorso sull’alterità è tutto giocato sul filo dell’ambiguità: presuppone situazioni nuove che si conoscono appena, che si vogliono indagare, ma che si prestano proprio per questo a idealizzazioni e a racconti di fantasia.

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La scoperta di popolazioni sconosciute, non contaminate dalla civiltà occidentale, costituisce per tre secoli uno dei temi più presenti nella letteratura europea, tormentata da interrogativi ricorrenti: i selvaggi rappresentano l’uomo primitivo? Sono buoni o cattivi? Sono felici? Ancora alla fine del Settecento, sbarcando nella Nuova Olanda, l’odierna Australia, James Cook osserverà che gli indigeni «sono molto più felici di noi europei; totalmente ignari non soltanto del superfluo, ma anche delle comodità tanto ricercate in Europa, sono felici perché non ne conoscono l’uso. Vivono in una tranquillità che non è turbata dall’ineguaglianza delle condizioni»18. È una visione idilliaca e assieme ottimista, frutto di una riflessione che ha compiuto già molta strada. L’uomo del Cinquecento non vi è ancora giunto e vive alla ricerca di una nuova geografia: «il mondo è piccolo», scrive Cristoforo Colombo nel 1503 in una delle sue relazioni, precisando: «intendo dire che non è così grande come si afferma». Questo mondo che si rimpicciolisce allarga però sempre più la mente, a mano a mano che le conoscenze si espandono. Per tutto il corso del Cinquecento e del Seicento l’Europa viene invasa da libri che narrano dei viaggi oltreoceano, compiuti da esploratori che sono anche uomini d’arme o mercanti, e che offrono descrizioni vere, verosimili o fantasiose di terre e società lontane, più belle, più ricche, più felici. La lettura di questi testi, che vanno dalle esplorazioni di Pigafetta e Magellano a quelli di Pizarro, di Francis Drake e di Abel Tasman, l’olandese scopritore della Tasmania nel 1642, estrae l’uomo europeo dal proprio contesto, che è spesso considerato quello dell’infelicità, e lo proietta altrove, lungo un percorso di viaggio che è spesso «grande e meraviglioso»19, ma che è anche di penitenza e redenzione dal male, così come lo era stato quello di Adamo ed Eva dopo la cacciata dal paradiso. La partenza rompe i legami del viaggiatore-lettore con la realtà in cui vive, una realtà di peccati e tentazioni. Il viaggio è tormento ed espiazione, come una cura per l’anima. L’arrivo è l’approdo ad un mondo migliore, puro e felice20. Lo ricorda, in un contesto totalmente diverso, anche il codice di pellegrinaggio buddista, chiamato Aitareya Brahmana: «Non c’è felicità per colui che non

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viaggia; vivendo nella società umana, spesso l’uomo migliore diventa un peccatore [...]. Dunque andate viaggiando»21. Tuttavia è l’arrivo a provocare maggiore sconcerto; si incontrano uomini inermi, miti e socievoli, vicini a quell’ideale stato di natura che i filosofi vagheggiano sin dall’antichità: selvaggi buoni che vivono in un mondo apparentemente felice, simile al mitico Eden, a lungo cercato e mai trovato. Si scopre, e si idealizza, un mondo in cui tutti sembrano uguali per natura, da contrapporre alle disuguaglianze che corrodono l’Europa; ci si imbatte in uomini di cui la Bibbia non parla, e ciò costringe ad ardite elucubrazioni di teologi, filosofi e storici, che si impegnano a dimostrare la possibile discendenza degli Amerindi da Adamo, rendendola compatibile con il racconto delle Scritture. C’è quindi curiosità e soprattutto preoccupazione nel dover attribuire un senso e una collocazione alle cose nuove rispetto a quelle già conosciute. Non siamo ancora di fronte ad interessi di tipo antropologico (l’antropologia come scienza nascerà nel XIX secolo): gli sforzi per comprendere il nuovo sembrano finalizzati ad una critica spietata nei confronti del Vecchio Continente, della sua decadente civiltà, della corruzione dei costumi, della ferocia determinata dai conflitti di religione e da quelli di conquista, insomma di tutto ciò che un ambasciatore del tempo definisce «li sdegni, l’offese, la diffidenza, la divisione di religione, l’ambizione e l’inimicizia dei grandi», in sintesi «una disperazione universale»22. Il selvaggio deve rimanere allora necessariamente ingenuo, buono e felice, anche quando dalle Americhe e dall’arcipelago australe cominciano a giungere, assieme a racconti idilliaci, testimonianze di vere o presunte atrocità compiute dai nativi. Michel de Montaigne, magistrato a Bordeaux e poi insignito gentiluomo di camera del re di Francia, ne dà una prova: maestro del paradosso, spettatore ormai disincantato delle guerre di religione e del massacro della notte di San Bartolomeo, dedica il trentunesimo dei suoi Saggi (1580) ai Cannibali. Non gli interessa che i selvaggi siano effettivamente o meno cannibali. Il punto è che, di qualsiasi atrocità si rendano colpevoli, queste non possono essere più gravi di quelle che compiono gli euro-

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pei in casa propria e in nome della religione. Il concetto di barbarie è quindi relativo, dipende dal punto di osservazione; gli europei hanno violentato la natura e «abbiamo tanto sovraccaricato la bellezza e la ricchezza delle sue opere con le nostre invenzioni, che l’abbiamo soffocata del tutto. Tant’è vero che, dovunque riluce la sua purezza, essa fa straordinariamente vergognare le nostre vane e frivole imprese». Pertanto «quello che noi vediamo per esperienza in quei popoli» oltrepassa «non solo tutte le descrizioni con cui la poesia ha abbellito l’età dell’oro», ma anche «tutte le sue immagini atte a raffigurare una felice condizione umana»23. C’è un solo rimedio per uscire dal labirinto del quotidiano ed è l’isolamento, il distacco dalla realtà come forma di autoprotezione. Occorre ricostruire una forma di identità che costringa a non interrogarsi su che cosa significa essere felici. «Bisogna giudicare la nostra felicità solo dopo la morte», prosegue Montaigne, sostenendo che le nostre esperienze possono essere valutate solo in prossimità della morte, ultimo atto della commedia umana. Tutto il resto può essere simulazione, ma tra noi e la morte non ci può essere finzione: «nel giudicare della vita altrui, io guardo sempre come è avvenuta la fine; e tra le principali cure della mia c’è che avvenga bene, cioè quietamente e senza strepito»24. Montaigne rimane un punto di riferimento per i suoi successori e proprio utilizzando questo saggio William Shakespeare costruisce una parte della Tempesta. Le magie compiute da Prospero sull’isola incantata diventano la metafora della violenza colonizzatrice sul continente americano ad opera di coloro che riproducono meccanismi di peccato e infelicità del Vecchio Continente e imbruttiscono il giardino dell’Eden, la terra promessa che era stata immaginata. Il dramma riflette anche le tensioni politiche, sociali e religiose del tempo, tipiche dell’Inghilterra elisabettiana, soffocata prima dallo scontro fra cattolici e protestanti nella lotta per la successione al trono, poi dal processo e dalla decapitazione di Maria Stuarda, infine dal conflitto con la Spagna che invia l’«Invencible armada». La trama di Shakespeare fa dissolvere la favola che offriva una cornice alle

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illusioni di un uomo, che si ritrova così di fronte alla morte, all’imprevedibilità del destino, alla forza degli elementi della natura. Qualcosa di simile ritorna nell’opera di Cervantes, lo scrittore e poeta spagnolo che scrive il Don Chisciotte dopo una vita avventurosa da militare e poi da prigioniero dei turchi. Nell’ultima sua novella, intitolata Le traversie di Persile e Sigismonda, frutto di una lunga elaborazione alla corte di Valladolid e pubblicata postuma dalla vedova nel 1616, si narra la storia di due innamorati che, attraverso varie vicissitudini, superano una serie di prove prima di raggiungere la felicità, che è recupero della loro identità e della loro fede. Ancora una volta il peregrinare diventa simbolo della difficoltà nel poter scegliere la propria vita e il proprio amore, della prudenza e della virtù che si acquistano con l’esperienza, della felicità come salute del corpo e salute dell’anima25. Un manuale per l’uomo politico Per orientarsi in questi viaggi ideali alla ricerca della felicità occorrono anche guide e manuali. A questo genere appartiene il saggio Della perfettione della vita politica (1579), scritto pochi anni dopo la celeberrima battaglia di Lepanto, l’evento che proietta sullo scenario mondiale la potenza veneziana. L’autore è Paolo Paruta, che riesce a spostare l’attenzione verso la politica e spiega che la felicità non consiste «nel dominare molti popoli», bensì «nel reggere con giustizia et conservare in pace et in tranquillità i sudditi». Paruta si rivolge all’uomo politico, impegnato a dirigere «tutti gli suoi studi et pensieri alla guerra», con l’effetto di essere sviato «da quel dritto cammino» che dovrebbe invece condurre ad una politica di neutralità e di felicità. Paruta conosce l’Europa ed è fine diplomatico; poco più che ventenne ha accompagnato il nuovo ambasciatore veneziano in Germania, fermandosi a Trento dove si sta svolgendo il Concilio. Poi è stato uomo di governo a Venezia e ambasciatore a Roma. È anche letterato, frequentatore e fondatore di

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accademie e abituato alla corte del papa, presso il quale svolge un’ambasceria straordinaria. Spirito acuto, non manca di esprimere giudizi pungenti, come quando nota che «sotto il nome della libertà ecclesiastica usano spesso molti una immoderata licenza di parlare e di operare, con pochissimo riguardo della dignità de’ principi, confidando in quel rispetto che apporta alle loro persone il carattere sacro e la riverenza della Religione»26. Sembra anche destinato a diventare doge, ma la morte lo coglie relativamente presto, a cinquantotto anni. L’opera di Paruta è letta abitualmente nel contesto delle trasformazioni politiche del secondo Cinquecento e del dibattito sul repubblicanesimo veneziano. Della perfettione della vita politica è però allo stesso tempo un manuale di buon governo e un trattato sulla felicità, che ci presenta l’autore come filosofo morale, che riflette la tensione fra la vita contemplativa e quella d’azione, fra l’uomo di studi e l’uomo di governo, che è anche la sua personale condizione. Da tutto ciò nasce un immaginario dialogo ambientato a Trento nel 1562, nell’ultimo periodo del Concilio, dove l’ambasciatore veneziano ha invitato nel proprio palazzo monsignori e nobiluomini, tutti intorno ad un tavolo riccamente apparecchiato, per trattenersi in conversazione. Grande è la meraviglia, spiega Paruta, nel constatare che tutti desiderano la felicità, ma la vogliono raggiungere per strade diverse, che sono tortuose proprio a causa della nostra ignoranza. Per comprendere che cosa essa sia, bisogna ripartire dall’antico invito a conoscere se stessi, le proprie capacità e virtù. Solo allora possiamo comprendere che l’uomo è composto da anima e corpo, da ragione e sentimento; quindi, la felicità non può che essere una mescolanza di ciò che produce il bene dell’uno e dell’altro elemento27. Applicando questa riflessione alla vita quotidiana, che è fatta di pensiero e di azione, scopriamo che non si può sottrarre l’individuo alla vita civile e pubblica per ridurlo allo stato contemplativo e solitario; lo si renderebbe imperfetto e lo si trasformerebbe in un essere dimezzato, com’era per la cultura stoica. Allo stesso modo, non bisogna neppure credere che la felicità sia semplicemente privazione del dolore o una vita di ricchezze28. Paruta sa bene che la felicità «civile», cioè quella

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dell’uomo in società, richiede anche il possesso di beni, ma sostiene che non bisogna farsi condizionare dall’ansia di possedere, e che essere felici non è movimento, ma quiete e stabilità. La vita dell’uomo virtuoso, che è anche prudente, diventa perciò quella in cui riesce a conciliare due modi diversi di vivere, attivo e contemplativo; il primo lo rende perfetto nella sua natura di animale sociale e ragionevole; il secondo gli consente di raggiungere la perfezione della mente. Entrambi, se opportunamente coltivati, lo avvicinano infine alla somma felicità, cioè all’amore di Dio29. Come raggiungerla? Molti pensano, scrive Paruta, che la felicità dell’uomo in terra dipenda esclusivamente dalle ricchezze o da una lunga vita. In realtà ricchezze, onori, salute e fortuna hanno senso solo se essa è sufficientemente lunga per goderne, mentre invece è sempre più breve di quanto vorremmo, e comunque soggetta all’imprevedibilità del destino. Troppe persone vivono nell’eccessiva preoccupazione di conservarla, o nel costante timore di perderla: «per molte esperienze trovo riuscirmi vero: che chiunque di vivere ha troppa cura, poca ne ha di ben vivere»30. L’uomo deve quindi procurare di mantenere una vita aperta ai rapporti sociali, dedicandosi alla cura dell’anima e perfezionando virtù, onore e nobiltà; deve spendersi per il bene comune, ricercare la vera amicizia e non preoccuparsi di accumulare ricchezze perché, se è vero che rendono più comoda la quotidianità, non bastano ad orientarla, e di per sé esse non sono né buone né cattive, ma lo divengono a seconda dell’uso che ne facciamo. Si affacciano però interrogativi inquietanti: quale tipo di governo assicura meglio la felicità? La monarchia o la repubblica? E se scegliessimo il repubblicanesimo, che suggerisce una condizione di uguaglianza fra i cittadini, come dovrebbe essere organizzata la vita politica? La comunità dei beni rende veramente l’uomo felice? Su questo punto Paruta, in tacita polemica con Moro, risponde negativamente, perché la comunità dei beni rischia di deprimere le virtù individuali, rende gli uomini pigri e incapaci. E, ammesso anche che sia utile in nome dell’uguaglianza, per introdurla senza punire le capacità del

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singolo bisognerebbe instaurarla per legge e in un luogo dove non esiste nulla, altrimenti si produrrebbero solo disordini, spogliando dei beni coloro che già li possiedono31. La vera felicità consiste allora nella libertà, cioè nella possibilità di compiere autonomamente le scelte che ci riguardano, nel diritto inalienabile a «nascere et vivere in città libera [...]: un dono datoci da Dio, di cui niuna forza humana è possente di spogliarci»32. Felicità significa anche porsi al servizio della collettività, pur se la vita pubblica è piena di noia e di fatiche. L’uomo politico ha dei compiti ben precisi: impedire la tirannide, nemica della libertà e dell’umana felicità; eliminare ogni forma di servitù, «ripugnante alla legge della natura»; e inoltre «grandemente importa alla felicità dell’uomo la qualità dello Stato, sotto cui egli vive soggetto; perché le buone leggi formano i buoni governi et similmente istituiscono bene i cittadini»33. Corpo umano e corpo politico Le pagine fin qui ricordate mostrano come la cultura dell’età moderna cerchi di superare il dualismo tra anima e corpo, recuperando parte del messaggio degli antichi e spostando gradualmente l’attenzione verso il rapporto tra l’uomo e la società, cioè verso il problema della politica. Questo tentativo si svolge a più livelli, non solo nelle opere dei filosofi che cercano di rivalutare l’epicureismo. Lo possiamo riconoscere anche in alcune pagine sull’educazione del principe, stese intorno al 1580 e probabilmente destinate ad un membro di casa d’Asburgo, conservate tra i manoscritti della corte sabauda. Vi viene esposto un ragionamento semplice ed efficace su come trattare i sudditi e sull’opportunità di dare loro più facilmente possibile udienza, basato su uno studio della natura umana: l’individuo, infatti, è presentato come un microcosmo, teoricamente bastante a se stesso; ma siccome per sua natura è socievole, non può vivere da solo e provvedere autonomamente ai propri bisogni, necessita quindi di qualcuno che con prudenza governi e provveda per lui e per i suoi simili. Come il corpo ha bisogno di un’anima che lo

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governi, anche gli uomini che formano un corpo politico hanno bisogno di un’anima, che è il principe: egli deve perciò provvedere ed avere cura del proprio popolo, così come ogni individuo ha cura per il proprio corpo, e non può farlo se non ne conosce a fondo bisogni e necessità. Un buon sovrano deve perciò saper ascoltare e concedere facilmente udienza ai sudditi, solo così potrà essere «nel suo regno come dio nel mondo e l’anima nel corpo»34. Sono parole che sembrano riassumere in termini politici l’intera esperienza umanistica e appaiono singolarmente vicine a quelle della Lettera a Diogneto, un’apologia manoscritta della prima metà del II secolo, pubblicata appena nel 1592 da un dotto grecista, Henri Estienne: «come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. 2. L’anima è diffusa in tutte le parti del corpo e i cristiani nelle città della terra. 3. L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo. L’anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile; i cristiani si vedono nel mondo, ma la loro religione è invisibile»35. Un altro caso particolarmente interessante è offerto da Francesco Sansovino, figlio del più noto architetto Jacopo; editore, commentatore di classici e tipografo, ancor giovane pubblica un breve saggio dal titolo L’edificio del corpo humano, nel quale brevemente si descrivono le qualità del corpo dello huomo et le potentie dell’anima (1550). Si tratta di una sintesi particolarmente interessante della cultura umanistica perché Sansovino combina il linguaggio filosofico con quello artistico e medico, applicandoli alla meccanica del corpo umano e utilizzando le nozioni di architettura che ha appreso dal padre. E spiega lui stesso di aver intitolato proprio per questi motivi la sua operetta «edificio» e non «anatomia» del corpo umano. Nel leggerla dobbiamo pensare di trovarci in piazza San Marco a Venezia, avendo alle spalle il palazzo Ducale e di fronte la libreria Sansoviniana, il maestoso edificio costruito su disegno di suo padre Jacopo a partire dal 1537 per accogliere la biblioteca Marciana. Il corpo umano, racconta Sansovino, è un edificio di cui possiamo offrire la pianta e che si presenta ai nostri occhi come l’insieme di colonne, cornici e altre componen-

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ti che fanno ornamento agli edifici. La testa è «una fortezza nella città perché, come il principe abitando in quella sede vede l’operationi del popolo, così la maggior parte dell’anima alberga nel capo [e] nota l’operationi che sotto di lei, cioè che nel corpo, si fanno»36. All’interno della testa è il cervello, «intorno al quale non altramente ch’a signore furono collocati quasi fidelissimamente pronti servidori i sensi, acciocché quelli adoperando, desse il debito cibo alla imaginatione, alla memoria e al senso comune»; e qui «l’anima infonde nelle sue caverne lo spirito, il quale da a sensi il sentimento e il governo»37. Scendendo, troviamo poi il cuore, «dal calor di questo del qual si può dir che sia profondissimo mare, [e] tutte l’altre membra ricevon la vita, essendo che egli con lo spirito dona lor lume, il qual lume non è altro ch’il caldo suo proprio [...] Egli è parimenti ricettacolo degli affetti» ed è formato da due parti, l’una «circondata da leve materia cioè dallo spirito, quell’altra da materia più grave ch’è il sangue»38. Il ragionamento poi prosegue: «Essendo il cerebro sede della ragione, la quale è dominatrice della irascibile e concuscibil parte dell’anima, ha havuto la meravigliosa providenza di Dio, ottima et nobil parte nello huomo, ch’è nel capo, fondamento et principio del tutto»39. Il libretto di Sansovino avrebbe dovuto essere, in realtà, solo il primo di una serie di contributi che l’autore annunciava («seguitano altri libri delle cose dell’anima»), accompagnati anche da disegni del padre e che però non vennero pubblicati. L’interesse che suscitò nei contemporanei è documentato dall’esemplare che si conserva nel fondo antico della biblioteca universitaria di Padova, le cui pagine presentano fitte note manoscritte di Girolamo Muzio (1496-1576), scrittore e letterato vissuto, oltre che a Padova, anche a Ferrara, Pesaro e Urbino. Si tratta di annotazioni che sottolineano, più da filosofo che non da medico, alcuni passaggi ritenuti significativi: «arterie et vene. Istrumenti et canali per li quali possa correre il spirito con il sangue, dal quale esala l’humido sottile, il quale si nutrisce il spirito consumandolo, come fa il fuoco acceso in una lampada piena di oglio»40. O ancora: «Come si forma il parlar humano. A

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Il diritto alla felicità. Storia di un’idea

mezo della lingua istrumento dell’anima con la quale divide et compone la voce formando parole»41. Un ultimo esempio di come si cerca di risolvere il controverso rapporto tra anima e corpo proviene da Torino, dove Francesco Stabile, un medico nato a Potenza, pubblica il dialogo Della felicità (1586), diviso in otto giornate «dove si tratta della vita felice, e discorrendo per ogni sorte di stato e vita, si conclude che in nessuna si trova la vera felicità, né vera contentezza, e si manifesta in cosa ella consiste». Il ragionamento, assai simile al contenuto di un analogo manoscritto secentesco conservato tra le carte della famiglia bolognese Ranuzzi42, è ambientato in terra di Provenza, nei giardini di un monastero ricco di piante, fiori, alberi da frutto, di profumi e di bellissime fontane, che ricordano molto da vicino le raffigurazioni pittoriche dell’Eden. Tutta la prima parte serve a dimostrare – secondo lo schema ormai classico della teologia cristiana – che le ricchezze non fanno la felicità, che la vita terrena non è felice e non dipende dalla forma di governo, giacché, tanto in una repubblica quanto in una monarchia, l’uomo rimane infelice. La vera felicità consiste solo nella beatitudine concessa da Dio dopo la morte del corpo43. Qualcosa di simile a quanto spiega in versi il tipografo fiammingo (ma originario di Tours) Christophe Plantin (1514-1589), intitolando un sonetto, scritto in francese, La felicità di questo mondo: Avere una casa comoda, di proprietà e bella, un giardino tappezzato di pergole odorose, frutta, eccellente vino, poco affanno e pochi bambini, possedere soltanto, senza maldicenze, una donna fedele. Non avere debiti, amore, né processi e questioni, né conflitti con alcun parente, accontentarsi di poco e non sperare nulla dai Grandi, ispirare tutti i propri disegni su un giusto modello. Vivere con franchezza e senza ambizione, dedicarsi senza scrupoli alla devozione, domare le passioni e renderle obbedienti. Conservare lo spirito libero e il giudizio forte, recitare il proprio rosario coltivando le viti, e attendere dolcemente la propria morte.

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L’ingresso nell’età moderna corrisponde quindi, come abbiamo visto in queste pagine, alla riconciliazione dell’uomo con se stesso e al superamento delle paure che lo accompagnavano dal Medioevo. L’idea della felicità entra a far parte di un lungo processo di secolarizzazione, grazie al quale l’anima e il corpo non vengono più considerati irrimediabilmente contrapposti; il controllo delle passioni cede il posto alla libertà dei sentimenti, nell’intimità come nella vita pubblica.

III ISOLE E CITTÀ FELICI C’è anche però chi vive una situazione opposta a quella raccontata da Plantin, nel senso che, non avendo la possibilità di rifugiarsi nella quiete domestica, è costretto a misurarsi con la vita pubblica: «Debbo di continuo perorare cause in tribunale, ascoltare le arringhe altrui, pronunciare lodi arbitrali, rendere sentenze come giudice; mi tocca conferire con questo per ragioni d’ufficio, con quello per affari; dopo aver speso fuori di casa per gli altri quasi l’intera giornata, dedico alla famiglia quello che m’avanza sicché per me, cioè per gli studi, non rimane un bel nulla. Infatti, quando ritorno a casa, mi tocca chiacchierare con mia moglie, far le sgridate ai figli, discorrere con la servitù»1. Sono parole di Tommaso Moro, l’autore della già citata Utopia, il racconto che trasferisce la felicità nello spazio pubblico e politico, immaginando un’isola di fantasia posta nel mezzo dell’Oceano. I lettori di Moro sono però esigenti e vogliono sapere in quale parte del mondo si trovi quest’isola, perché si aspettano un racconto quanto più possibile verosimile e veritiero. In qualunque modo la si voglia raccontare, quindi, la felicità ha bisogno di essere rappresentata e in una società poco alfabetizzata, come quella europea della prima età moderna, la potenza delle immagini rimane sempre il modo migliore per restituire efficacemente il significato delle parole. È per questo motivo che Moro accompagna l’Utopia, nell’edizione definitiva, con illustrazioni che la raffigurano in tutti i suoi particolari. L’isola felice, per apparire raggiungibile almeno idealmente, non deve essere né sel-

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vaggia né disabitata, bensì conosciuta, abitata e organizzata in forma di città2. La cultura dell’Umanesimo e del Rinascimento ha bisogno di contrapporre alla rappresentazione del paradiso, come luogo irreale della felicità, quella di un altro luogo che è sì ideale, ma deve poter essere immaginato: occorre dunque descriverlo fisicamente e offrire al lettore tutti gli elementi che consentano di percepirlo come una mèta avvicinabile; per questo viene proposta una straordinaria sintesi tra l’isola e la città, che è lo spazio politico più familiare all’interno del quale è possibile organizzare la felicità. L’isola offre, intuitivamente, tutte le caratteristiche necessarie: è un luogo fisico separato dalle terre circostanti perché circondato su ogni lato dall’acqua, conservando le sue specificità; non è raggiungibile con i mezzi che ordinariamente consentono lo spostamento via terra, ma solo con imbarcazioni, più insicure, esposte ai pericoli della sorte, che suggeriscono l’idea del rischio e dell’avventura. L’isola, inoltre, ha una sua dimensione mitica: già Platone (427-347 a.C.), nei Dialoghi, aveva descritto un’isola – la perduta Atlantide – simile al paradiso terrestre, dove tutto abbondava e la vita era felice, ma che era sprofondata a seguito di un enorme cataclisma. E gran parte dell’altra sua importante opera, la Repubblica, è dedicata alla descrizione di una comunità ideale fondata su regole di giustizia, di moderazione e di virtù e collocata nella mitica isola di Avilion3. Lo spazio della città ideale Le città sono il luogo attraverso il quale l’uomo del Quattrocento e del Cinquecento può riflettere più facilmente sul rapporto con la politica. In esse la frequentazione tra le persone è più intensa, è più forte l’esigenza di organizzare la vita collettiva, di creare regole che consentano l’affermazione dell’io e il rispetto degli altri. Dobbiamo anche immaginare un paesaggio che, nella prima età moderna, è profondamente diverso da quello attuale: lo spazio urbano è spesso ancora cinto da mura e la differenza con

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il territorio circostante viene percepita visivamente, e in modo anche brusco, sotto forma di un vero e proprio confine, che è la divisione fra città e campagna, un limite allo stesso tempo fisico, economico e sociale. Non a caso, nella maggior parte delle lingue europee il contado viene definito con espressioni che ricordano l’idea della separazione, del limite, del dominio politico esercitato dall’area urbana (territorio, suburbio, campagna e, ad esempio in spagnolo, término)4. La città appare quindi come un’isola rispetto alla campagna che la circonda, come possiamo vedere nelle tante immagini dell’arte, a partire dal Trecento con Simone Martini. L’insistenza sul tema della città, negli autori che descrivono isole felici, si spiega dunque facilmente alla luce di queste considerazioni. Nell’isola di Utopia, Moro colloca addirittura «cinquantaquattro città ampie e magnifiche, pressoché uguali di lingua, comuni, istituzioni e leggi, tutte identiche nel tracciato e dovunque simili nell’aspetto, per quanto il sito lo consente. Le più vicine tra loro distano ventiquattro miglia, ma nessuna è tanto isolata, che da essa non si possa raggiungere a piedi un’altra città con un giorno di cammino»5. In esse regnano uguaglianza, ordine, armonia, suggerite anche dalle celebri immagini di città ideale dipinte nel clima rinascimentale promosso da Federico di Montefeltro, ritenute a lungo opera di Luciano Laurana ma attribuibili, secondo studi recenti, a Leon Battista Alberti, consigliere di Federico e già autore di un’opera sulle teorie dell’architettura. L’arte cede il posto al sapere matematico e prospettico e l’architettura diventa protagonista, perché essa stessa genera spazi che sono rigorosamente organizzati. La città diventa così il luogo di totale armonia tra uomo e spazio, tra essere e natura, secondo un linguaggio che accomuna la filosofia all’arte, alla matematica e all’architettura, e che è praticato da intellettuali come Piero della Francesca e lo stesso Alberti6. È l’Europa delle città. Migliorano le condizioni materiali ed economiche, aumentano i mezzi finanziari, evolve la tecnica, e un po’ ovunque si comincia a riorganizzare e a progettare lo spazio urbano, che per dar luogo a una città felice deve corrispon-

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dere ai canoni ideali della perfezione; l’arte, da questo punto di vista, non deve più solo rappresentare la realtà, descriverla cioè in termini rassicuranti, ma deve mostrare come sia possibile intervenire sulla realtà stessa modificandola, mettendo a nudo le leggi meccaniche e matematiche che consentono di adattare lo spazio a misura dell’uomo7. La città ideale e felice, urbanisticamente ordinata e razionale, è anche una città salubre e la salute è una componente della felicità, sin dai tempi più antichi. La cultura del Rinascimento e dell’Umanesimo tiene particolarmente presente questo aspetto, soprattutto dopo le epidemie di peste del Trecento e del Quattrocento; non sempre è possibile edificare città nuove, ma si apre l’epoca delle grandi opere sanitarie, della costruzione di ospedali e lazzaretti, dell’istituzione un po’ ovunque di funzionari di sanità con compiti di polizia sanitaria e politica8. Combattere le malattie e le epidemie significa combattere la povertà e l’abbandono, l’emarginazione e la disoccupazione, la carestia e ogni altra situazione causa dell’infelicità umana. Segno di questo fervore è anche il rinnovato interesse per l’architettura antica, documentato ad esempio dalla versione italiana del De architectura di Vitruvio, realizzata a Venezia nel 1565 da monsignor Daniele Barbaro, che non è una semplice traduzione, quanto un tentativo più profondo di capire il pensiero di Vitruvio e i princìpi che stanno alla base dell’ordine, della simmetria e del decoro nell’architettura antica9. Mondo savio e mondo pazzo Esistono anche altre tipologie di città felice. Tra il 1552 ed il 1553 il fiorentino Anton Francesco Doni pubblica un’opera intitolata I Mondi. Doni ha tentato la carriera di stampatore ed è stato collaboratore del tipografo veneziano che ha curato la prima traduzione dell’Utopia di Moro (e conosce evidentemente anche le opere di Erasmo). Vive a Venezia, impegnato assiduamente nelle attività dell’Accademia Pellegrina, di cui è segretario. Il suo saggio consiste in un dialogo immaginario tra due mondi, quello

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savio e quello pazzo, che discutono di una città ideale e felice «fabbricata in tondo perfettissimo a guisa d’una stella». In essa, secondo la tradizione inaugurata da Moro, la ragione regola le passioni, l’amore per il denaro, la religione e l’organizzazione del lavoro fin nei minimi dettagli. Viene riproposta un’idea di divisione sociale del lavoro, di distribuzione dei beni, di controllo sulle attività dei cittadini, organizzata in base a spazi rigidamente geometrici tanto da domandarsi quale sia, di fronte ad una razionalità esasperata fino all’eccesso, la vera differenza tra un mondo savio e uno pazzo: «aveva la città in ogni strada due arte, come a dire da un canto tutti i sarti, dall’altro tutte le botteghe di panno. Un’altra strada, da un canto speziali, all’incontro stavano tutti i medici; un’altra via calzolai che facevano scarpe, pianelle e stivali, dall’altro tutti i cuoiai; da un’altra fornai che facevano pane e, al dirimpetto, mulini che macinavano a secco». La città immaginata da Doni è fatta a forma di stella, espressione del nuovo ordine sociale, con al centro un tempio e «questo tempio aveva cento porte, le quali, tirate a linea come fanno i raggi d’una stella, venivano diritti alle mura della Città, la quale aveva similmente cento strade. Onde chi stava nel mezzo del tempio e si voltava tondo veniva a vedere in una sola volta la città»10. Proprio in quello stesso anno Francesco Patrizi, nato a Cherso e formatosi a Padova, riprende l’idea dell’isola per i suoi discorsi dedicati alla Città felice (1553) e riparte dall’analogia umanistica tra la società umana e il corpo fisico, attribuendo alla città felice funzioni fisiologiche che si esprimono nel suo ordinamento politico e sociale: deve prendersi cura dei corpi degli uomini che l’abitano perché essa stessa è un corpo, che serve al nutrimento dell’anima e consente di raggiungere la felicità, intesa come esperienza di vita compiuta, come «abondanza del vivere e del vestire» e come buon governo. L’uomo per Patrizi è una creatura portata naturalmente a vivere in società, per formare una famiglia, per procreare e istituire forme di solidarietà all’interno di quella che chiama «l’ottima repubblica», governata da buone leggi e dalla concordia generata dall’uguaglianza dei cittadini. Ogni persona vi trova una sua collocazione, finalizza-

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ta al benessere comune, ogni mestiere assume la medesima dignità all’interno di una gerarchia sociale molto attenuata, saggiamente governata da alcuni sacerdoti-sapienti11. La città felice non è però soltanto legata al filo dell’utopia; è anche il risultato di una riflessione profondamente connaturata alla cultura umanistica, che è allo stesso tempo politica e scientifica e usa frequentemente l’analogia tra la società umana e il corpo, suggerendo un confronto tra le funzioni politiche e quelle fisiologiche. La città di Patrizi è un corpo politico, il cui ordinamento serve sia alla cura dei corpi interni che la compongono, cioè gli uomini, sia alla cura dell’anima, rappresentata dai sacerdoti-sapienti. Si tratta di una rappresentazione suggerita già in passato da Aristotele, secondo il quale l’anima governa il corpo e la felicità è una virtù perfetta, forma di vita compiuta. I beni, la salute e la forza servono alla cura dell’anima proprio come la società umana, per essere felice e per raggiungere la beatitudine, deve assicurare continuità e robustezza della vita corporea12. La città diventa quindi un luogo di sperimentazione politica; serve a conservare l’individuo e a conservare la specie, garantendo sicurezza al nuovo ordine sociale. Non a caso, immaginata o immaginaria, è spesso anche una città-fortezza13. L’alternativa possibile: la felicità di Venezia Accanto a tante isole fantastiche, esiste però un luogo reale, sulla terra, dove poter essere felici? La cultura del Cinquecento inventa un mito singolarissimo della città felice che è Venezia, creata «sovra il più inquieto degli elementi»14, serenissima e nobilissima. I superlativi si sprecano, ma ben qualificano una città che ha tutte le caratteristiche fisiche dell’utopia e dei luoghi separati dal resto del mondo: perché è un’isola, perché la sua irrazionale dimensione urbana è completamente differente da quella di altre città conosciute, perché è costretta sempre alla difesa, dalla fondazione avvenuta dopo la calata dei barbari sino al presente, su cui incombe la minaccia turca.

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Gli utopisti, che immaginano tante città felici quanti sono i modelli di società possibili, possono quindi sostituire alle loro visioni un luogo concreto, rifugio dalle tragedie del proprio tempo affollato da guerre e fame. Venezia diventa il paradigma della città felice, un «porto tranquillo di quiete», come scrive il letterato e filosofo Bernardino Tomitano, soprattutto quando i grandi della terra si combattono. Ecco allora che la felicità «non consiste nella grandezza dello imperio, ma sì bene nel vivere con tranquillità e pace universale», afferma il fiorentino Donato Giannotti, autore di un Libro della repubblica de’ viniziani (1526). Giannotti vive l’epoca della crisi dello Stato fiorentino dopo il crollo della repubblica popolare e riflette sugli stessi avvenimenti che ispirano Guicciardini e Machiavelli. È anche viaggiatore e diplomatico, e si reca a Venezia per raccogliere informazioni sul funzionamento della Serenissima e per elogiarne la libertà e la stabilità interna, garantita da una costituzione mista, che combina elementi della monarchia con quelli della repubblica. Dinanzi al declino delle libertà fiorentine, la «repubblica de’ vinitiani» gli pare un esempio di virtù politica, superiore persino alla grandezza di Roma15. Parole simili scrive il già ricordato Francesco Sansovino, che in una lettera a Filippo Magnavini tesse l’elogio di Venezia «città nobilissima e singolare», nella quale l’uomo è «del tutto felicissimo», proprio in quanto padrone «assoluto di sé medesimo et della sua facoltà, senza tema di essere spogliato, o tiranneggiato». A Venezia «finalmente ogni uno, per la parte sua, gode et è partecipe di quella piena contentezza che si può desiderare da qualsivoglia mortale in qualsivoglia cosa di questo mondo». E se la laguna può apparire al lettore, abituato alle città fortificate delle utopie cinquecentesche, priva di forme di difesa, Sansovino si premura di osservare che «se l’altre città guardano et conservano i loro cittadini con le mura, con le torri et con le porte», questo luogo è forse ancora più sicuro, «per non esser posto in terraferma da gli assalti terrestri, et sicuro per non esser nella profondità del mare da i maritimi assalti». Venezia è felice anche perché è una città salubre, almeno ai tempi di Sansovino:

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l’aria è grandemente buona [...] purgata dal flusso et reflusso dell’acqua la quale crescendo, ogni sei ore, solleva et scemando conduce via ciò che ci è di corrotto o di immondo. Oltre a ciò la moltitudine de i fuochi risolve i vapori maligni et i venti soffiano liberamente e scopertamente per tutto la rendono più chiara et salubre. Si aggiunge a questo la salsedine, che essendo per natura più calda et meno humida, genera una temperie molto uguale et soave. Onde perciò si vede, con maraviglia dei forestieri, gran copia di vecchi di grandissima età, pieni di carne, diritti, robusti et di reverenda apparenza per la canizie e per la bellezza de i corpi16.

Ma Sansovino fa di più: pubblica, sotto il titolo Del governo de i regni e delle repubbliche (1578), un’antologia di testi che descrivono le diverse forme di governo allora conosciute e suggerisce un confronto diretto tra Venezia, descritta attraverso il cardinale Gasparo Contarini come «santissima et ordinatissima più che tutte l’altre delle quali si habbia hoggi memoria», e l’isola d’Utopia narrata da Moro, «governata da ottime leggi, et ridotta in somma pace et in felicità, acciocché gli uomini imparassero dalla sua piacevolissima fittione di trovar il vero modo di viver bene et felicemente»17. Molto più autorevolmente e realisticamente Jean Bodin, in quello stesso periodo, scrive che i veneziani hanno sempre evitato le occasioni di guerra come la peste, caratterizzando la loro repubblica per giustizia, pace e tranquillità. Diversamente da altri paesi d’Europa, che hanno il problema di creare una sovranità «indivisibile» e «perfetta», e che devono raggiungere il rango di potenza, Venezia ha rinunciato ormai ad una politica di conquista, per trasformarsi in custode di valori e di buone leggi, e – come sottolineano enfaticamente i veneziani stessi – per offrire l’esempio di «un giusto governo»18.

La città del Sole e la città di Cristo Il Seicento vede l’invenzione di altre città ideali, che nascono dal confronto con un elemento di grande importanza: la re-

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ligione. Ingegno precocissimo, arrestato dall’Inquisizione nel 1594 con l’accusa di eresia e costretto a trascorrere gran parte della sua vita tra le carceri romane e napoletane, Tommaso Campanella lega indissolubilmente il proprio nome al mito della città felice. Campanella è un frate calabrese, appartenente all’ordine dei domenicani, critico verso il malgoverno spagnolo e le ingiustizie sociali, fautore dell’abolizione della proprietà privata e di una democrazia di tipo comunistico e teocratico. Viene accusato di aver ispirato una congiura volta alla liberazione del paese dal dominio spagnolo, che è stata però scoperta e alla quale è seguito un processo in cui, fingendosi pazzo, riesce a salvare la vita in cambio del carcere perpetuo. Proprio agli anni della prigionia risale La città del Sole, scritta in italiano nel 1602 e diffusa inizialmente in forma manoscritta grazie ai legami mantenuti per lettera, dal carcere, con molti dotti dell’Europa del tempo, come i luterani Tobia Adami e Johann Valentin Andreä. A loro si deve una prima pubblicazione del testo, in versione latina, fatta stampare a Francoforte nel 1623. Anche la città del Sole si trova su un’isola, che Campanella fa scoprire a un nocchiero di Cristoforo Colombo attraverso il racconto di una città fantastica che da un grande colle si estende alla pianura, divisa in sette gironi, ciascuno con il nome di un pianeta, e con quattro porte di accesso, ciascuna rivolta verso un diverso punto cardinale. Capo civile e religioso della città è il «grande Metafisico», che comanda una società di Solari dedita alla comunione dei beni e delle donne, che condivide luoghi di riunione, di abitazione, l’alimentazione e perfino il modo di vestire, che per tutti è di colore bianco. Ancora una volta, uno dei princìpi che regola questa società è la comunità dei beni e Campanella ne spiega i motivi molto chiaramente, quando illustra le conseguenze di un’eccessiva povertà o di una soverchia ricchezza: «Dicono che la povertà grande fa gli uomini vili, astuti, ladri, insidiosi, fuorusciti, bugiardi, testimoni falsi; e le ricchezze insolenti, superbi, ignoranti, traditori, disamorati, presumitori di quel che non sanno. Però la comunità tutti li fa ricchi e poveri: ricchi perché ogni cosa hanno e possiedono; poveri perché non s’attaccano a servire alle cose, ma ogni cosa serve a loro»19. Al-

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la domanda se i Solari siano cristiani, il nocchiero di Colombo risponde che obbediscono solo alla legge di natura, e ciò li avvicina al cristianesimo, quando lo si voglia considerare come l’unione tra legge naturale e sacramenti; ed effettivamente, alla base di questa idea, c’è un comunitarismo apostolico che ricalca forme di vita monastica basate su solidarietà, frugalità e disinteresse. Un altro importante aspetto di questa società felice è la salute: i Solari bevono con moderazione, i giovani non conoscono il vino fino a diciannove anni e da quell’età in poi, fino ai cinquanta, come le donne, lo bevono solo diluito con l’acqua; inoltre, «mangiano, secondo la stagione dell’anno, quel che è più utile e proprio, come disposto dal capo medico che li cura». E poi si prendono cura del corpo, lavandosi e usando aromi, unguenti ed essenze aromatiche e riuscendo così a prevenire una lunga serie di malattie che affligge la società di primo Seicento e che l’autore si premura di elencare: podagra, catarro, sciatiche, coliche, infiammazioni, spasmi, morbi venerei, tisi, asma, febbri varie20. La società immaginata da Campanella è comunque una società fortemente controllata, dove i bambini sin dalla più tenera età sono sradicati dalla famiglia per essere inseriti in forme di vita comunitarie e in percorsi educativi comuni, sorvegliati da pubblici ufficiali. Ciò rivela la grande preoccupazione dell’autore per la fragilità della natura umana e dei sentimenti, costantemente soggetti alla pressione delle passioni e dell’amor proprio. Sono veramente felici i Solari? Campanella usa volentieri il paradosso, spiegando che, nonostante vivano in una condizione che chiunque giudicherebbe felice, si sentono in realtà infelici, perché «nel mondo c’è gran corruttela, e gli uomini si reggono follemente e non con ragione; e i buoni patiscono e i tristi reggono; benché chiamano infelicità quella loro, perché è annichilirsi il mostrarsi quel che non sei». Il lettore si trova così dinanzi ad un mondo alla rovescia, dove chi pensa di essere felice vive una realtà di disuguaglianze e sofferenze; e i Solari, che abitano un mondo di armonia ed uguaglianza, ritengono che tutto dipenda da un grande cataclisma che ha scambiato nell’umanità virtù e follia. Veramente felice rimane solo il cristiano, convinto

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che tutto questo grande scompiglio sia avvenuto non per colpa diretta dell’uomo ma per il peccato di Adamo, che di generazione in generazione ricade da padre in figlio21. Amico di Campanella, il luterano Andreä riprende una parte di queste idee nella sua opera su Cristianopoli, stampata a Strasburgo nel 161922, immaginando un governo cittadino in forma aristocratica e sapienziale, ma eliminando però la figura del «grande Metafisico» immaginata da Campanella, che poteva ricordare troppo da vicino un papa. Andreä in gioventù ha pubblicato anche un testo destinato ad acquistare un’enorme rilevanza nella cultura esoterica europea, cioè Le nozze chimiche di Cristiano Rosacroce (1616), fondamentale nella cosiddetta tradizione rosacrociana, una letteratura intrisa di profetismo e alchimia, e piena di attese per l’avvento di un secolo aureo e di un mitico liberatore, che avrebbe dovuto avviare una palingenesi, un rinnovamento finale del mondo a partire dalla Germania riformata, coronata dal ritorno di Cristo e dalla caduta del pontefice romano. La repubblica di Andreä si trova anch’essa su un’isola, chiamata Cafarsalama, il cui nome di origine ebraica significa «pace e salvezza». In essa la religione ha fondato la città dei giusti, Cristianopoli appunto, dove possono vivere soltanto coloro che si ispirano ai valori cristiani e all’esempio della vita di Cristo. All’interno delle mura le abitazioni sono semplici, senza arredi, essenziali, perché la rinuncia al superfluo serve ad elevare l’individuo. Tutta l’atmosfera è pervasa da un senso di spiritualità che trasforma la felicità in un ideale di povertà, di misura e di uguaglianza in Dio23. Alla base vi è il principio della libertà cristiana caro al luteranesimo e inteso come liberazione dall’oppressione e dagli errori. La riforma della Chiesa e dello Stato diventa quindi il filo conduttore che conduce alla liberazione dalla tirannide, attraverso l’instaurazione di un principato cristiano che eserciti il potere politico in spirito di fratellanza. Andreä si pone un compito preciso, che è di tipo evangelico: riportare la legge morale predicata dalla riforma protestante in un mondo che recalcitra e tende a rifugiarsi nell’utopia. Il mo-

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dello di società immaginato da Campanella appare insufficiente a realizzare il verbo cristiano, perché ai suoi occhi è troppo improntato al naturalismo. Rispetto alla città del Sole, dove tutti i membri della società vivono un regime comunitario rigido sotto la vigilanza di ufficiali incaricati di garantire che nessuno abbia più di quanto merita e che ciascuno abbia ciò di cui ha bisogno, Andreä sottolinea che non è un merito essere costretti per legge ad accontentarsi di ciò che è dovuto, mentre è vero merito saper rinunciare a ciò che ci spetta per amore di Dio. La città felice di Cristo diventa una sorta di Gerusalemme celeste: si regge su tre princìpi fondamentali cioè scienza, costumi e religione, ed è governata non dalla legge degli uomini, che impone l’uguaglianza e la comunità dei beni, ma dalla legge di Dio e delle beatitudini, poiché il potere spirituale vince ogni potere temporale. La Nuova Atlantide La svolta verso la modernità, nel senso di una secolarizzazione più decisa e di una separazione della teologia dalla politica, inizia con la Nuova Atlantide di Bacone (Francis Bacon). L’autore ha letto la Città del Sole, nell’edizione latina del 1623, ma non sappiamo se conoscesse anche la Cristianopoli di Andreä. Certo è che l’Atlantide («nuova» rispetto al mito narrato da Platone) è molto diversa rispetto a Cristianopoli, conservativa ed evangelica, testimone del divino, che vede la felicità nella fede. Bacone abbraccia la modernità e la proiezione nel futuro, trova la felicità non nella fede ma nel sapere e scommette sulle promesse delle scoperte scientifiche e della tecnologia, che trasformano il sogno del paradiso in una possibilità per l’uomo di liberarsi dal peccato e dall’ignoranza attraverso la ragione e il sapere. Quando inizia la stesura della Nuova Atlantide, nel 1624, Bacone ha già raggiunto e superato l’apice della carriera: è stato Lord cancelliere d’Inghilterra, ma ha subìto l’accusa di corruzione ed è caduto in disgrazia agli occhi del re. Il mondo che immagina non può coincidere quindi con la società coeva, vittima delle faide politiche e religiose, ma è un desiderio, un progetto

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da realizzare. Anche per questo motivo il primo editore si preoccupa di presentare il saggio come una favola. Tuttavia la Nuova Atlantide non è un’isola immaginaria, di pura fantasia, ma è immaginata, nel senso che viene descritta realisticamente con grande dovizia di particolari, utilizzando come base i resoconti di viaggio degli esploratori e dei missionari. L’utopia compie allora un salto di qualità; non si tratta semplicemente di una nuova isola che si aggiunge alle tante già utopicamente raffigurate, ma diventa una ricerca storica e assieme politica, in cui l’autore si addentra confutando il racconto di Platone sulla civiltà di Atlantide, considerata irrimediabilmente perduta. La sua eredità invece è stata raccolta nell’isola di Bensalem (questo è il nome dato dai nativi alla Nuova Atlantide); remota, difficilmente raggiungibile, sconosciuta al resto del mondo, è una terra felice, alla quale un saggio re vissuto novecento anni prima aveva dato buone e giuste leggi per perpetuare una situazione felice. E questo re, «riflettendo infine alle felici e prospere condizioni di questo paese, tanto che se potevano in mille modi peggiorare, non vi era un solo modo per farle migliorare ancora, ritenne opportuno in vista dei nobili ed eroici intenti da lui perseguiti di limitarsi a perpetuare la situazione felice di allora, per quanto è possibile alla umana previdenza. E perciò, fra le altre leggi fondamentali di questo regno, egli impose gli interdetti e le proibizioni all’ingresso degli stranieri [...] temendo novità e mescolanza dei costumi»24. La società di Bacone è una società doviziosa, che possiede mezzi a profusione, usati per pubblico beneficio senza limitazioni per alcuno, e che consegue l’indipendenza dal lavoro, inteso come obbligo ripetitivo e mortificante, sostituendolo con un’attività gratificante per l’individuo. L’uomo può tornare allora a controllare la natura che lo ha sempre dominato, riscattandosi dall’umiliazione patita dopo il peccato originale. Sullo sfondo, il discorso di Bacone rimane ancorato a un contesto più familiare, biblico e profetico, prefigurando l’avvento di un’età felice, che appare sempre più vicina grazie all’esplorazione di terre nuove e ai progressi nella ricerca scientifica. Per questo, metaforicamente, l’accademia di Atlantide riscopre i libri perduti di re Salomo-

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ne e si riappropria del sapere e della scienza dinanzi a un Dio che non può sentirsi offeso se l’uomo ha appreso il modo di riscattarsi dalla paura di soccombere alle forze ostili che lo circondano. Come raccontano gli Atlantici, è il millennio prossimo venturo quello che riserva all’uomo la fede nella scienza e nella natura25. La cultura del Seicento conosce relativamente poco la Nuova Atlantide, ma assai meglio i Saggi morali, pubblicati da Bacone in inglese nel 1597, che nella sola penisola italiana, dopo la prima traduzione del 1618, vedono ben dieci edizioni, ristampate anche grazie a contatti personali dell’autore con i suoi amici, primo fra tutti Fulgenzio Micanzio, il collaboratore e successore di Paolo Sarpi. I saggi, progressivamente rifatti e ampliati, diventano una guida per l’uomo attraverso il mondo delle passioni, con cui insegnare prudenza e virtù e dispensare consigli di lunga vita e rimedi all’infelicità. Tipico è il caso di quello intitolato Dell’amicizia, ove si può leggere un’appassionata spiegazione di che cos’è la felicità a partire da un ragionamento, apparentemente stravagante, che riguarda la solitudine. L’uomo è spesso molto più solo di quanto crede, anche quando è in compagnia, perché una folla non significa compagnia: i visi possono essere come una semplice galleria di quadri e la conversazione solo suono che si ripete. Erasmo da Rotterdam, riprendendo gli antichi negli Adagia, aveva scritto non a caso: «una grande città, una grande solitudine». L’uomo solitario è quindi infelice, e la sua condizione può migliorare solo attraverso l’amicizia, che è sollievo e sfogo delle passioni represse e soffocate nel cuore e medicina per l’anima26. In viaggio con i cigni Come già evidenziato, i progressi della scienza rappresentano una delle grandi novità del secolo e costituiscono un formidabile veicolo narrativo quando si tratta di immaginare società migliori; per questo, il mondo della luna si presenta già carico di aspettative agli occhi dei letterati europei. Ad inaugurare il genere in epoca moderna è l’Ariosto, che nel XXXIV canto del-

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l’Orlando furioso (1516) narra il viaggio compiuto sulla luna da Astolfo per recuperare il senno perduto di Orlando, paladino di Carlo Magno. Poco più di un secolo dopo è lo scienziato Keplero a scrivere il racconto di un viaggio sulla luna, intitolato Somnium e apparso postumo nel 1634. Il più famoso è però forse L’uomo sulla luna (1638), destinato ad un grandissimo successo. Lo scrive Francis Godwin, vescovo di Llandaff e sostenitore del sistema copernicano. Narra la storia di Domingo Gonsales, che tra il settembre 1599 e il marzo 1601, trovandosi con il servitore Diego su un’isola deserta, cerca di lasciarla costruendo una macchina volante e addestrando alcuni uccelli locali. Il viaggio di Gonsales inizia quindi con un lento progresso verso il volo umano, con un atto di fiducia nelle possibilità offerte dalla tecnologia e dalla scienza, per cui l’alzarsi in volo diventa la sua felicità e appare metaforicamente anche come una forma di emancipazione dell’individuo rispetto alla natura. Una volta lasciata l’isola, che si trova nelle Canarie, Gonsales raggiunge la luna a bordo della sua macchina volante trainata da ganzas, una razza particolare di cigni selvatici originari proprio del nostro satellite. Lì, accanto a grandi mari lunari che riflettono la luce del sole, scopre una società ideale nella quale non esistono né malattie né criminalità, dove la primavera è perpetua e ogni ferita guarisce prodigiosamente. Gli abitanti sono di statura gigantesca, possono vivere anche più di mille anni, sono assai devoti a una religione simile al cristianesimo e parlano un linguaggio di suoni e melodie; quando sulla luna nasce un essere malvagio, viene prontamente allontanato e spedito sulla terra. Gonsales si impegna in appassionate discussioni con i filosofi e i matematici della luna, utilizzando una strategia che serve chiaramente a illustrare come si svolge un duello intellettuale, in cui si possono rovesciare le teorie altrui contrapponendo di continuo alle astrattezze dei Lunari le prove dell’esperienza27. Tra i meriti di Godwin c’è anche di aver ispirato Cyrano de Bergerac, autore nel 1648-1650 di due viaggi filosofici intitolati rispettivamente Gli stati ed imperi del Sole e Gli stati ed imperi della Luna, che sono non solo un attacco alla società politica realmente esistente ma anche un esperimento di fantascienza. La cri-

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tica feroce contro il sistema culturale del suo tempo, contro l’aristotelismo e il potere clericale, contro tutto ciò che sopravvive di vecchio, inclusa l’idea che la terra e l’uomo siano al centro dell’universo, viene condotta utilizzando gli strumenti offerti dalla nuova scienza, dall’astronomia e dalla filosofia. Negli Stati ed imperi del Sole s’immagina di giungere nel paese degli uccelli, che vivono in condizioni di uguaglianza ed eleggono democraticamente un re che resta in carica solo sei mesi ed è revocabile dalla collettività in qualsiasi momento. I giudici si riuniscono solo quando il tempo è sereno, perché altrimenti farebbero torto all’accusato con il loro malumore. La pena più grave è la morte per tristezza e il reato più grave è l’incapacità di fare amicizia. Nell’altro viaggio, l’autore s’immagina di volare verso la luna e di «atterrare» sul paradiso terrestre, dove incontra il popolo dei Lunari e personaggi simbolici del mito, tra cui il demone di Socrate, sua guida e ispiratore. Lì vi è anche una città radiosa, che è una città ideale-razionale, in cui la ragione riesce a regolare spazio e costumi riattribuendo un primato all’uomo rispetto alla natura. Nella città lunare vi sono case «mobili», che si spostano grazie a mantici e vele per andare incontro a un clima migliore, e case «sedentarie», che si possono avvitare al suolo per resistere alle intemperie. Nel mondo della luna i costumi e i comportamenti sociali sono ispirati a purezza e uniformità; non mancano istituzioni di governo, anche se rette in base a regole opposte rispetto a quelle della terra (i figli tiranneggiano i padri, la guerra è basata su una parità assoluta dei contendenti), ma non esistono superstizione e intolleranza religiosa28. L’utopia al potere Il decennio che segue l’epoca di Cyrano, la fine della monarchia inglese e la rivoluzione di Cromwell segna la definitiva trasformazione dell’avventura utopica nello spazio britannico e continentale, trasformandola da racconto letterario in progetto politico. Non occorre più immaginare isole e città lontane: per l’Inghilterra e per l’immaginario europeo si apre una nuova era,

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quella della costruzione del repubblicanesimo, della trasformazione dell’utopia in realtà istituzionale, della piena realizzazione di libertà ed uguaglianza. Quando James Harrington scrive La repubblica di Oceana, pubblicata nell’ottobre 1656 e dedicata a Cromwell, la rivoluzione costituzionale è ormai avvenuta. Benché Oceana sia presentata come un’isola nell’Oceano, faticheremmo nel volervi cercare tutte le indicazioni geografiche e fisiche che avevano contraddistinto la letteratura precedente. Non è più necessario, e la repubblica di Oceana può essere benissimo identificata dal lettore nel Commonwealth di Cromwell. L’opera assume quindi tutte le caratteristiche di una vera e propria teoria generale del governo, nella quale sono tratteggiate le istituzioni, la costituzione, le leggi fondamentali che servono a costruire una società nuova e migliore, attraverso un confronto serrato con i modelli politici dai quali ci si intende differenziare. Così avviene rispetto al modello degli antichi, virtuoso ma ormai trascorso; così pure rispetto alla repubblica cittadina di Venezia, tanto lodata da Giannotti, che ha il limite di essere «formata da una sola città [e] potrebbe diventare tumultuosa, in quanto l’ambizione del potere sarebbe affare di ognuno»29. In Oceana vigono altre regole, regole di libertà e di uguaglianza: «la perfezione di un governo sta in un equilibrio tale nella sua struttura che nessun uomo o uomini, in esso o sotto di esso, possa aver interesse o, avendone l’interesse, il potere di turbarlo con moti sediziosi». E questo equilibrio è il risultato di un movimento virtuoso simile al processo vitale, secondo un’immagine che conosciamo dalla cultura umanistica: «la vita consiste nel movimento e il moto di una repubblica non sarà mai fluido se non è circolare». Così «il parlamento è il cuore, che consistendo di due ventricoli, pieno l’uno di materia più densa e l’altro di materia più sottile, succhia e pompa il sangue vitale di Oceana attraverso un circolo perpetuo». Oceana ha naturalmente la sua città, che si chiama Emporium, «divisa in due parti, l’una riguarda il governo nazionale, l’altra il governo urbano o della città in senso stretto», e della quale Harrington descrive dettagliatamente l’ordinamento politico, secondo uno schema che punta a dimostrare, lungo l’intera opera, la

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naturale solidità del sistema repubblicano in un’ottica di aperto confronto con i sostenitori del re30. Il lavoro di Harrington, destinato a diventare una guida per i riformatori inglesi e cent’anni dopo anche per i coloni americani, consente di leggere in chiave diversa una serie di scritti che, fra ipotesi utopiche e tendenze mistiche, accompagnano nel mondo anglosassone del secondo Seicento una forte riscoperta della religiosità. Visioni profetiche si alternano così a testi devozionali, come quello di Richard Allestree, sull’Arte della felicità, pubblicato nel 1675 a Oxford e destinato a oltre venti edizioni fino a tutto il Novecento, o come la mappa di Joseph Moxon che vent’anni dopo ricostruisce una geografia dell’Eden collocandolo in un luogo preciso, presso l’incrocio fra il Tigri e l’Eufrate, in una terra oggi tormentata dalle guerre ma che era stata la culla della civiltà e la parte più ricca dell’antico regno di Babilonia, casa felice dell’umanità31. Con l’avvicinarsi della fine del XVII secolo si riaffacciano prospettive millenaristiche, che preannunciano l’avvento della Nuova Gerusalemme descritta nella Bibbia (Is. 65, 17-19), ove il popolo di Dio potrà ritornare redento dal peccato e felice. Nel Nuovo Mondo, nell’America delle colonie, dove l’uomo è messo alla prova da una natura ostile, dalla lontananza della civiltà e degli affetti, questi richiami vengono ulteriormente amplificati dalla cultura puritana e protestante, come fa il poeta Richard Steere che ritorna sul rapporto tra felicità e amore di Dio per spiegare come «coloro che condannano l’allegra e disinvolta fruizione dei godimenti terreni lo fanno per la seguente ragione: tutti gli onori, le ricchezze e i piaceri effimeri sono vani, incerti, brevi e caduchi; e al paragone delle gioie celesti non sono degni della più piccola considerazione ma debbono piuttosto essere sdegnosamente disprezzati»32. È difficile capire questi testi se non si tiene conto della portata storica e sociale della grande emigrazione nel continente americano del Seicento. Masse di contadini e di artigiani abbandonano le contee inglesi dell’ovest e dell’est, centri dell’industria tessile e del puritanesimo ma colpite da gravi problemi economici. Il puritanesimo offre una con-

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vincente spiegazione morale di quanto sta accadendo, una giustificazione provvidenziale delle difficoltà, una sicurezza ed una speranza in un mondo e in una società migliori33. Da questo punto di vista il suo messaggio si può saldare con quello del protestantesimo e del cattolicesimo barocco tedesco che, attraverso opere come quelle del cappuccino Martin von Cochem o di Johann Meyfart, introducono il regno di Dio e la città celeste, la Nuova Gerusalemme appunto, come un luogo reale, riconoscibile da ogni uomo e tale da dare al paradiso un carattere materiale e sensoriale, quasi fosse osservabile dalla terra34. Ritorna così, in veste moderna, l’ultimo grande mito della città ideale, la Gerusalemme immaginata come città della rigenerazione, secondo una tradizione che, partendo dall’Apocalisse di Giovanni, percorre tutta la cultura occidentale sino all’Umanesimo. Secondo Giovanni, la Gerusalemme celeste, la città di Cristo che verrà ricostruita sulla terra, deve essere perfettamente quadrata, senza alcun edificio all’interno ma piena solo di simbologie geometriche, numeriche e alfabetiche. Uno spazio che, nei secoli successivi, viene progressivamente riempito di elementi presi a prestito dalla realtà urbana del Medioevo, come torri, un castello, una cattedrale, case, il palazzo municipale. In tutte le raffigurazioni medievali la città celeste appare come una qualsiasi città murata dell’Europa del tempo, con il suo intrico di strade e affastellamento di edifici e case: una città migliore, alternativa alle città esistenti e riconoscibile per l’uomo del tardo Medioevo e della prima età moderna35. Da qui in poi la Gerusalemme celeste è destinata a compiere un lungo percorso nella cultura occidentale fino agli scritti mistici di Emanuel Swedenborg della metà del Settecento, e più oltre ancora, sino alla cultura dei mormoni e dei testimoni di Geova. Un mondo in movimento C’è un filo rosso che collega tutte le rappresentazioni di isole e di città sin qui ricordate, ed è l’idea dell’uomo che non vive più isolato ma in società, che ha fiducia nel progresso scientifi-

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co e nella politica. Il mondo è ora in movimento, come una geografia che si allarga in coincidenza con i viaggi e le scoperte geografiche e con la sete di sapere dell’uomo. Il ritmo della velocità che viene impresso tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento conosce un’accelerazione sempre maggiore; l’uomo moderno viaggia e lo fa sia attraverso i racconti di viaggio e di esplorazione, sia nella realtà. Personaggi come Moro, Montaigne, Bacone sono essi stessi viaggiatori, che narrano delle proprie esperienze. Montaigne è autore di un diario del viaggio compiuto in Italia nel 1580 e nel 1581 in cui percorre la penisola a dorso di mulo, spinto da quell’inquietudine e da quella curiosità intellettuale che portano a esplorare il mondo e a «sfregare», come lui scrive, il proprio cervello contro quello degli altri. Più tardi anche Thomas Hobbes, John Milton e John Locke saranno viaggiatori e contribuiranno a diffondere nella cultura moderna questa pratica come esperienza di rigenerazione dell’uomo36. Del tutto analogo è il volo aereo che, dal Seicento in poi, conosce una fortuna sempre più ampia, secondo una tradizione letteraria che lo fa apparire equivalente alla navigazione, così come le ali corrispondono ai remi. Le scoperte legate al cannocchiale e la pubblicazione del Sidereus Nuncius di Galileo, avvenuta nel 1610, inaugurano una nuova rivoluzione del pensiero che rende più concrete le aspettative e la fiducia nel progresso scientifico, scatenando nuovi entusiasmi. La scienza compie viaggi celesti seguendo le rotte dei cannocchiali, e lo stesso Sidereus di Galileo può essere letto come una sorta di giornale di bordo, che conduce il lettore verso luoghi sconosciuti così come il diario di Colombo documentava l’impresa delle tre caravelle37. Anche Campanella paragona la scoperta di nuovi cieli e pianeti alla scoperta del Nuovo Mondo, ripreso dal contemporaneo Gabriello Chiabrera che accosta appunto Colombo «trovatore di nuove terre» a Galileo «discopritore di nuove stelle». E Francesco Bacone, riferendosi al cannocchiale, scrive di «quegli altri specchietti che con memorabile sforzo inventò Galileo, per mezzo dei quali è possibile entrare in più stretti rapporti con i corpi celesti, installandovi l’occhio come per una navigazione»38.

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Di Bacone il pubblico dell’epoca legge il saggio Sul viaggiare, scritto nel 1612, un vero e proprio manuale su come e perché si viaggia, imitato quasi testualmente un secolo e mezzo più tardi da Diderot in apertura del suo Viaggio in Olanda: si parte per «curiosità», cioè – secondo il significato antico del termine – per conoscere usi e costumi dei popoli, forme di governo e magistrature, per scoprire patrimoni artistici e differenti sistemi culturali. Si acquista una «esperienza», che consiste nella capacità di tesaurizzare ed elaborare criticamente le conoscenze raggiunte. «Quando un viaggiatore ritorna a casa, non abbandoni completamente i paesi dove ha viaggiato [...] e il suo viaggio appaia piuttosto nel suo discorso che nel suo abito o nei suoi gesti: e nel discorso, egli sia piuttosto prudente nelle risposte, che pronto a raccontar storie. E sia evidente che non cambia i modi del suo paese per quelli dei luoghi forestieri; ma soltanto, semini alcuni fiori di ciò che ha imparato all’estero in mezzo ai costumi del suo paese»39. Annota infine l’uomo della strada: «Chi va e torna, fa buon viaggio. Chi va cercando quello che non debbe, spesso gl’accade quello che non vorrebbe»40. Amsterdam, la nuova Venezia Nell’estate del 1618, un ambasciatore veneziano nelle Province Unite scrive al Senato di aver ritrovato in quelle terre, circondate dalle acque, «l’immagine della già nascente Venezia». Il riferimento è ad Amsterdam, una città che sta crescendo a ritmi vertiginosi grazie ad una serie di condizioni sociali, politiche ed economiche particolarmente vantaggiose. La rapida espansione commerciale e l’incredibile aumento demografico fanno crescere la popolazione dai 30.000 ai 115.000 abitanti tra il 1567 ed il 1630; nello spazio di quasi un secolo la città passa da un’economia di tipo protezionistico ad un regime di libera concorrenza. Una straordinaria convergenza di istituzioni, di uomini, di circostanze politiche favorevoli, insieme ad una notevole fioritura artistica portano così Amsterdam al centro dell’attenzione mondiale41. È una città speciale, in quanto si trova in mezzo all’ac-

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qua come Venezia pur non essendo un’isola separata dalla terraferma; ed è particolare anche perché tutti hanno la consapevolezza, in Europa, che sta nascendo grazie ad una serie di circostanze irripetibili, commercialmente e politicamente. C’è ancora un motivo che la rende affascinante, e non sta tanto nello sfruttamento delle acque, cosa che la rende molto simile a Venezia anche nel mito42, quanto nel fatto che, a differenza della città lagunare, Amsterdam non rimane legata al piccolo nucleo medievale, urbanisticamente disordinato e irrazionale, ma nasce come città nuova. Un’ordinanza sull’edilizia del 1565, tanto moderna da essere destinata a rimanere in vigore fino all’Ottocento, prevede infatti determinate proporzioni tra lunghezza, larghezza delle strade e dimensioni dei terreni edificabili; impone un gabinetto per ogni appezzamento e istituisce persino speciali funzionari municipali preposti al controllo di ogni singolo palo di fondazione delle case. Il grande disegno urbanistico è dovuto per la maggior parte a Daniel Stalpaert (1615-1676), l’architetto e ingegnere che immagina una topografia per cerchi concentrici cui deve corrispondere una precisa distribuzione sociale e produttiva. Lungo i tre grandi canali monumentali vengono collocate le maggiori aziende e le case dei mercanti più ricchi e, a mano a mano che si procede verso l’esterno, seguono le abitazioni della piccola borghesia e degli artigiani. L’iniziativa della costruzione viene poi lasciata ai singoli, ma sempre entro un ordine prestabilito: i canali devono essere larghi dai 24 ai 26 metri e separati dagli edifici da una sponda pavimentata a tre corsie. Ciascun edificio, generalmente diviso in cinque piani, ciascuno di tre luci, occupa un’area larga circa 8 metri, mentre tra il retro di un edificio e l’altro deve rimanere una distanza minima di 50 metri, per cui alla fine ogni edificio si ritrova ad avere anche uno spazio verde di circa 8 metri per 25. Un singolo lotto di terreno può essere coperto da costruzioni per non più del 56%, il che crea un rapporto quasi equivalente tra parti edificate e aree verdi. Quest’impresa urbanistica e topografica viene immortalata da una lunghissima serie di stampe che sembrano rappresentare la città ideale finalmente realizzata. E infatti il progetto non è

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ispirato solo da criteri di ordine e di razionalità, quindi di utilità pratica, ma richiama esplicitamente anche una filosofia della natura e dell’arte che riprende in parte i classici (da Vitruvio sino a Leon Battista Alberti) e in parte l’immaginario mondo baconiano43. Gli scrittori e poeti olandesi che celebrano la città, più che descriverla come una seconda Roma o Venezia, la presentano come la nuova Arcadia dell’Olanda settentrionale (Noordhollandsche Arcadia)44, come la città-giardino che ricostruisce l’Eden perduto e dove può trovare dimora quel nuovo tipo di uomo felice che in età moderna è il cittadino-mercante, il mercator sapiens lodato in una famosa predica da Kaspar van Baerle45. La società olandese, che vive il suo «secolo d’oro» nei commerci e nelle arti, entra così in una dimensione stabile e felice che farà a lungo da sfondo per la letteratura europea. Verso la metà del Seicento, dunque, una nuova fase del discorso sulla felicità si è ormai aperta: non investe più l’individuo considerato isolatamente, preda della dialettica tra anima e corpo, ma coinvolge il suo rapporto con la società, all’interno di un più ampio processo di secolarizzazione, che tende sempre di più a spostare il dibattito sulla felicità verso il terreno della politica.

IV RAGIONE E IMMAGINAZIONE Il 24 aprile 1617 un avvenimento scuote profondamente tutta Europa. Concino Concini, il favorito di Maria de’ Medici che dopo la morte di Enrico IV ha assunto un potere quasi assoluto – mentre Luigi XIII è ancora minorenne – viene accusato di essere un tiranno e ucciso davanti al palazzo del Louvre. Il suo cadavere viene violato all’indomani della sepoltura al grido di «viva il re, il tiranno è morto»; viene mutilato, privato della testa, della mano destra, del membro virile – tutti considerati simboli del potere – e quindi bruciato. È il rituale del linciaggio, che si usa dal Medioevo come simbolo della detronizzazione, come metafora di una comunità che depone gli strumenti della ragione e realizza ciò che ha sempre immaginato: si appropria del corpo di chi comanda, e quindi simbolicamente del potere, con un atto esattamente contrario all’intronizzazione, all’investitura del re contraddistinta dalla vestizione, dalla consegna delle insegne, dalla presentazione al popolo e dalla processione rituale1. L’ansia dell’uomo moderno L’episodio coincide con altri eventi che un po’ ovunque in Europa agitano il quadro politico e con la guerra dei Trent’anni (1618-1648), il conflitto destinato a insanguinare l’Europa per tutta la prima metà del Seicento. In quest’epoca di forte instabilità per la storia europea cresce un giovane inglese, nato proprio nell’anno della tentata invasione dell’Inghilterra da parte

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dell’«Invencible armada» (1588), che si forma a Oxford, dove ottiene il baccellierato delle arti (il titolo accademico corrispondente al primo grado universitario) per dedicarsi poi al mestiere di precettore privato: è Thomas Hobbes. Sarà «la bestia nera del suo tempo», autore di una serie di opere politiche che vanno dagli Elementi di legge naturale e politica (1640), al De cive (1642), al Leviatano (1651), sino al De homine (1658). Prima ancora che filosofo della politica, Hobbes è un uomo profondamente legato al proprio contesto storico, scandito dalla guerra civile, dalla rivoluzione che detronizza Carlo I Stuart, dalla repubblica di Cromwell degenerata in dittatura, dalla restaurazione della monarchia con Carlo II. L’Inghilterra non è più la «felice e floridissima monarchia» ancora descritta dall’ambasciatore Vincenzo Gussoni nella sua relazione al doge di Venezia del 1635; attraversa ora «molte civili turbolenze», una «burrascosissima» guerra civile e tanti «precipitosi travagli»2. È un tempo di lutti, del quale sarebbe rimasto macabro ricordo la testa di Cromwell, staccata dal corpo dopo la riesumazione del 1661 e infilata per quasi venticinque anni su un palo dinanzi all’abbazia di Westminster. Hobbes ha letto Bodin, Sarpi e altri italiani, direttamente o in traduzione (quella del testo di Paruta, ad esempio, appare in inglese nel 1657)3. La sua preoccupazione è prima di tutto quella di salvare la società inglese dalla dissoluzione, dall’autodistruzione, ristabilendo le condizioni per la pace e la sicurezza. Ma come riuscirvi? Prima ancora di individuare la prognosi occorre fare una diagnosi, indagare nuovamente sulla vera natura dell’uomo e sulle cause delle sue inquietudini. Ne esce un’immagine della vita rappresentata come una corsa senza fine, metafora dell’uomo moderno dominato dall’ansia, insicuro nelle sue mète, in eterna tensione verso ciò che non possiede e non conosce: «lo sforzarsi, è l’appetito; il mancar d’energie, la sensualità. Guardare gli altri che stanno dietro, è gloria. Guardare quelli che stanno davanti, è umiltà. Il perdere terreno per guardarsi indietro, vanagloria. L’essere trattenuti, odio. Tornare indietro, pentimento. L’essere in fiato, speranza. L’essere affaticato, disperazione».

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La forza delle passioni produce torsioni dell’animo e i sentimenti esplodono: «Cadere all’improvviso, è disposizione al pianto. Vedere un altro cadere, disposizione al riso. Veder sorpassare uno che non avremmo voluto, è compassione. Vedere uno, che non avremmo voluto, sorpassare gli altri, indignazione». Finché il corpo esaurisce le forze: «seguir d’appresso un altro, è amare. Spingere colui che così segua d’appresso, carità. Farsi male per troppa furia, è vergogna. Essere superato continuamente, è infelicità. Superare continuamente quelli davanti, è felicità. E abbandonare la pista, è morire»4. Sono parole tratte dagli Elementi di legge naturale e politica, scritti da Hobbes tra il 1637 e il 1640, quando già in Scozia è iniziata la rivolta contro il re inglese e contro il tentativo di imporre la liturgia anglicana, mentre Carlo I è costretto a convocare e riconvocare il Parlamento (detti appunto il «corto» e il «lungo» Parlamento, perché durati rispettivamente venti giorni e tredici anni), nell’estremo tentativo di ottenere risorse finanziarie per contrastare gli oppositori. La ricerca della felicità diventa quindi movimento, raggiungimento di un fine o di una mèta, come del resto annota anche l’uomo della strada: «la vita fugge e non s’arresta un’hora / e la morte vien dietro à gran giornata», si legge in quegli stessi anni nell’Album amicorum del medico Bernardo Paludano5. In Hobbes ritorna anche, ma in modo nuovo, la nota questione del rapporto tra corpo e anima, non attraverso una discussione teologica ma grazie a un’indagine naturalistica: mentre i piaceri del senso si esauriscono nel presente e nell’immediatezza, quelli della mente possono spaziare nel tempo, dando vita ad aspettative e speranze. Desiderare è allora già di per sé un piacere, il piacere dell’attesa, ed ecco che il senso dell’inquietudine, trattenuto e controllato dall’epicureismo, diventa forza propulsiva dell’immaginazione, edonismo che si espande. Ma, si domanda Hobbes, qual è la mèta che si intende raggiungere? Esiste un bene assoluto, qualcosa di corrispondente a quanto gli antichi immaginavano in termini di felicità e i cristiani di beatitudine? In realtà, risponde, «vediamo che quanto più gli uomini ottengono ricchezze, onori e altro potere, tan-

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to più il loro appetito continuamente cresce; e quando essi sono giunti all’estremo grado di un potere, ne perseguono qualche altro». Ogniqualvolta il ritmo della corsa aumenta e la nostra mèta appare raggiungibile, essa in realtà si allontana e l’ansia viene nuovamente alimentata, in un moto che sembra non aver fine6. C’è una causa in tutto questo, ed è insita nell’uomo; per spiegarla Hobbes scrive il De cive, che viene completato nel novembre 1641, quando ormai anche i cattolici irlandesi si sono ribellati contro il governo inglese, massacrando trentamila protestanti. L’uomo è ancora una volta il punto di partenza per una riflessione che cerca di di scoprire le cause dell’instabilità della sua natura. Per Hobbes ogni individuo è un corpo in movimento, stimolato continuamente dal desiderio provocato dagli oggetti esterni, mentre la ragione ha il solo scopo di indicare i mezzi più idonei a raggiungere il fine indicato dalle passioni. La fisiologia e la neurologia mostrano che gli oggetti agiscono sul corpo attraverso i sensi e, di conseguenza, attraverso il sistema nervoso sul cervello. La percezione produce così un’immagine degli oggetti che confluisce nella memoria, il grande deposito di esperienze da cui si forma il pensiero. Corpo, sensazioni, percezioni e nervi sono quindi i trasmettitori di movimenti che generano un’immagine che raggiunge il cuore, dove incontra un altro movimento, quello vitale, che garantisce la conservazione dell’individuo. Quando questi due movimenti si accordano viene prodotto il piacere; diversamente, si percepisce un dolore. Le esperienze, infine, insegnano che l’uomo impara a desiderare o a respingere gli oggetti proprio in base ai movimenti, positivi o negativi, che essi possono generare. L’immaginazione svolge quindi una funzione fondamentale, perché consente di acquisire l’idea degli oggetti desiderabili, che rimangono impressi nella memoria e servono continuamente a riaccendere le passioni, alimentando un ciclo perpetuo. Prima ancora di chiedersi che cosa sia la felicità, Hobbes si interroga perciò su cosa sia l’uomo e su quali siano i suoi biso-

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gni; e lo fa attingendo alla cultura scientifica del proprio tempo, che è anch’essa prodotto di tensioni e lacerazioni. Egli ha conosciuto in Italia Galileo, condannato dalla Chiesa per le sue tesi eretiche; a Parigi Cartesio, critico feroce delle istituzioni scolastiche che, dopo aver saputo della condanna di Galileo, ha rinunciato a diffondere proprio il pensiero; e poi Gassendi, professore di astronomia al Collegio reale di Parigi; è anche amico di Marin Mersenne, frate dell’ordine dei minimi (quelli che ai voti tradizionali aggiungono l’impegno a non mangiare carne né latticini). La descrizione che Hobbes fa dell’uomo in chiave fisiologica è frutto della sua curiosità scientifica e richiama alla mente le tavole anatomiche presenti negli studi dei medici e degli scienziati iatromeccanici (per i quali la fisiologia comprendeva solo lo studio delle reazioni fisiche), sperimentalisti e galileiani, dove il corpo umano è descritto come una macchina le cui funzioni possono essere misurate meccanicamente7. Non è un dettaglio irrilevante: molti conosceranno Hobbes, soprattutto nei primi anni della sua attività, più come scienziato dell’uomo che come filosofo della politica. La riflessione poi prosegue, poiché questa natura dell’uomo si riflette non solo all’interno del corpo, ma anche all’esterno; ognuno è spinto dalla ricerca di ciò che ritiene utile e necessario e possiede quindi per natura un diritto proprio, che non può essere sottoposto a limiti e che esige l’uso esclusivo dei beni. Dalla corsa all’appropriazione dei beni nascono i contrasti tra gli uomini, e perciò la società civile e le leggi prodotte dall’accordo generale devono porre un freno all’azione di tutti contro tutti, a questo istinto naturale che è allo stesso tempo anche fonte di un’ansia perenne di infelicità. Esiste una sola forza che potrebbe spingere gli uomini a rinunciare ai propri desideri ed è la paura, o timore della morte. Il De cive circola all’inizio in forma manoscritta e solo nel 1646 comincia a diffondersi più largamente attraverso un editore olandese. Il successo sarà graduale, ma costante, e in breve tempo l’opera verrà accolta come una delle più lucide analisi dell’età moderna.

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La tirannia dei desideri Il Leviatano (1651) completa questo quadro. Hobbes è a Parigi, dove vive aiutato dai sostenitori del re in esilio, speranzosi che la sua opera possa servire a sostenere le ragioni del principe. La creatura che dà il titolo al libro, scritto, a differenza degli altri apparsi in latino, interamente in inglese, è il mostro mitologico noto alla letteratura fenicia e alla Bibbia sotto forma di rettile primordiale, nemico dell’ordine e fautore del caos. Hobbes lo trasforma in una figura umana in preda ai desideri pulsanti e lo proietta sullo scenario politico (il sottotitolo recita infatti La materia, la forma e il potere di uno stato ecclesiastico e civile), fino a farlo apparire come una creatura gigante e mostruosa, composta di tante piccole figure di esseri umani, sovrastante la terra e le colline che fanno da sfondo al paesaggio. L’uomo descritto nel Leviatano è ancora una creatura in preda all’incertezza e alla tensione, almeno fino a quando una passione riesce a prendere il sopravvento sulle altre e la volontà segue l’ultimo appetito. Impegnato in una corsa al soddisfacimento dei desideri, l’uomo aspira anche alla conquista di posizioni sempre migliori, proiettando di continuo nuovi scenari di felicità ma vivendo proprio per questo nell’incertezza e nell’inquietudine. La tranquillità dell’animo evocata dagli antichi si è completamente dissolta, e dall’orizzonte è scomparsa pure la prospettiva di Dio, o almeno l’idea rassicurante di un destino provvidenziale. Tutto si riduce a relazioni di potere tra gli individui, che dimostrano come «la felicità è il continuo progredire del desiderio da un oggetto all’altro». Alla fine, il solo uomo veramente felice è il tiranno-Leviatano, che non conosce ostacoli ai propri desideri, a dimostrazione che il dispotismo si annida nel carattere di tutti gli individui. Anche la vita in società non è altro che l’astrazione e la proiezione di queste pulsioni della natura e, se non ci fosse il timore di un potere coercitivo forte, il carattere dell’uomo si manifesterebbe in maniera selvaggia e nessuna legge potrebbe controllare più il sistema di relazioni costruito per incanalare le passioni, lasciando l’individuo nel «continuo pericolo di morte violenta» e in una vita «solitaria, pove-

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ra, sofferta, brutale e breve»8. L’uomo civile quindi non è migliore dell’uomo naturale, né più felice, ha solo una maggiore coscienza della propria insicurezza e della precarietà dell’ordine sociale. Come si può essere quindi più felici? Attraverso una ricerca individuale, che però può confliggere con quella di ogni altra persona? O piuttosto rimanendo entro una forma di socialità controllata, ove la legge orienta i desideri, indicando le mète raggiungibili? La sola cosa certa è che alla fine conviene sempre abbandonare lo stato naturale, dove «chiunque può essere legittimamente spogliato e ucciso da chiunque altro», e preferire quello civile, in cui «ciascuno [può] godere con sicurezza di un diritto limitato». Hobbes stesso metterà in pratica queste idee, trascorrendo una rispettata vecchiaia all’ombra della monarchia parlamentare, per morire alla veneranda età di novantadue anni. L’immoralità dei sensi È difficile non riconoscere quindi nel clima cupo della guerra dei Trent’anni, nel fragore delle armi che accompagna tutta la prima metà del secolo, i motivi per cui quasi ossessivamente gli intellettuali europei indagano sulle passioni dell’uomo, scavano sulle loro origini, si sforzano di riaffermare il dominio della mente sugli istinti e sul corpo. Invocare la ragione significa sollevare l’uomo da una natura feroce e infida, da cui rischia di venire continuamente riassorbito. A questa riflessione si dedica anche Cartesio, che già nel lungo carteggio con Elisabetta di Boemia, principessa del Palatinato, si sofferma ampiamente sulla felicità, cercando di decifrare il significato dell’espressione vivere beate, tanto cara a Seneca. Riesce così a distinguere abbastanza chiaramente tra l’uso della virtù, che serve a renderci felici dandoci contentezza dello spirito e soddisfazione interiore, e l’uso della ragione, che serve non tanto a frenare le passioni quanto a educare i desideri, a formulare giudizi chiari e corretti su ciò che è bene, selezionando tra gli oggetti del desiderio: infatti «il desiderio è sempre buono

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quando segue una vera conoscenza; allo stesso modo, quand’è fondato su qualche errore, non può mancare d’essere cattivo». A questa ricerca egli dedica l’ultima sua opera, Le passioni dell’anima (1649), apparsa l’anno prima della morte, in cui ritorna sullo studio dell’uomo e del suo corpo, da cui derivano le passioni, e della sua anima, libera e immortale, collegata al corpo dalla ghiandola epineale (posta all’interno del cranio per regolare l’attività endocrina). Le passioni (come la meraviglia, l’amore, l’odio, il desiderio, la tristezza e la gioia) appaiono per natura tutte buone, e spingono l’uomo alla perfezione individuale, a migliorarsi; il controllo e il buon uso di queste passioni ci conduce ad uno stato di soddisfazione per il perfezionamento raggiunto e la felicità non diventa altro che la testimonianza interiore di questo risultato. Più o meno negli stessi anni, trascorsa ormai la stagione umanistica, un nuovo impulso alla riscoperta dell’epicureismo giunge proprio da uno degli amici di Hobbes, il francese Pierre Gassendi, scienziato e filosofo ammiratore di Galileo, che scrive nel 1647 una sorta di biografia di Epicuro (De vita et moribus Epicuri libri octo) con lo scopo di reintrodurre il suo pensiero nella cerchia dei dotti, per presentarlo come esempio di saggezza antica e maestro di un’intera scuola. Gassendi sintetizza un’intera stagione culturale. Non è più sufficiente la promessa di beatitudine di cui parla la Chiesa: occorre indicare anche la via per una felicità terrena, che consenta di vivere secondo natura accettando la condizione in cui l’uomo è stato posto dalla volontà di Dio. Non si tratta di rilegittimare l’edonismo, ma di provare a definire uno stato di felicità compatibile con i dilemmi dell’esistenza. Gassendi, che parte da un’indagine sulla fisiologia umana molto simile a quella di Hobbes, identifica la felicità in un’assenza di movimento, che è la tranquillità dell’anima. In questa condizione l’uomo è felice perché è sicuro dei propri mezzi, si procura piaceri moderati e li gode con calma: e proprio per questo motivo l’individuo, che pure è spinto dall’amore del piacere e dall’amore di sé, preferisce accordarsi con i propri simili, pur di conservare la vita e il diritto a progredire nel proprio benessere.

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La scienza ha aperto così la strada ad un percorso che rimette in gioco la filosofia degli antichi; Epicuro era stato pur sempre colui che aveva intuito anche la funzione della gravità dei corpi e l’identità della materia della terra con quella degli altri pianeti. Ricollocato al centro del dibattito scientifico, il filosofo antico può rientrare in quella parte della cultura classica compatibile con gli insegnamenti del cristianesimo, una volta separato dai suoi falsi seguaci. Ma è un’operazione che non passa inosservata, e da subito la Chiesa si mobilita contro questi pensieri «perniciosissimi alla repubblica letteraria e alla sincerità della religione», tra i quali ben presto ricadranno anche «le scelleratezze dell’Hobbes»9 e poi quelle «d’un altro mostro d’empietade aristotelica, cioè a dire di Benedetto Spinosa, giudeo di nascita, ma di professione ateista»10. Le parole degli inquisitori stabiliscono, come si vede, una continuità tra il pensiero di Gassendi e di Hobbes, aggiungendovi anche quello di un nuovo protagonista dell’Europa secentesca, cioè Baruch (Benedetto) Spinoza. La razionalità delle passioni Come Cartesio e Hobbes, anche Spinoza riprende infatti una visione fondamentalmente stoica dell’essere umano, basata sul fatto che ogni uomo vive una tensione autoconservativa ed esprime un desiderio senza limiti, che oltrepassa il confine di un’ideale stabilità. Discendente da un’antica famiglia di ebrei portoghesi emigrata in Olanda, Spinoza viene scomunicato ed espulso dalla comunità nel 1656 per le sue posizioni eretiche e da allora si dedica all’attività di molatore di lenti da occhiale, conducendo una vita modesta e rifiutando nel 1673 una cattedra universitaria per non porsi al servizio di un’istituzione e perdere la libertà di pensiero. La sua posizione è singolare: seguace del razionalismo, identifica la sostanza con Dio e considera ogni fenomeno fisico e spirituale come sua manifestazione, introducendo una visione panteistica che, non a caso, gli procurerà l’accusa di ateismo da parte sia dei cattolici sia dei protestanti.

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Questa visione meccanicistica è applicata anche all’uomo, le cui passioni fa derivare da un’originaria tendenza all’autoconservazione, mostrando come l’idea della sua libertà sia dunque soltanto illusoria. L’opera più importante di Spinoza è l’Etica, nella quale spiega in che cosa consista la condizione di felicità del saggio e mostra come il bene e il male non siano altro che idealizzazioni del piacere e dell’utile, e come l’unica forma di libertà sia la possibilità della conoscenza razionale. Mentre scrive queste pagine ha certamente presente il Leviatano di Hobbes, e in questo orizzonte si iscrive la sua idea secondo cui lo Stato rappresenta l’uscita da una condizione naturale di guerra perpetua tra gli uomini, così come l’attribuzione del monopolio della violenza legittima al sovrano è la contropartita per la pace e la sicurezza sociale. Il filosofo insiste sul fatto che la felicità è un bene da godere collettivamente, che l’orizzonte personale e individualistico è parte di un insieme di relazioni. Le passioni hanno, secondo Spinoza, il medesimo effetto delle imperfezioni nelle lenti da cannocchiale, in quanto come queste producono distorsioni, errori di prospettiva e di valutazione; la percezione è quindi sempre parziale e individuale, e solo l’immaginazione consente inizialmente di orientare i desideri, di stabilire i nessi giusti tra idee confuse. L’errore si attenua tanto quanto l’intelletto riesce a instradare il desiderio naturale. Spinoza si propone, insomma, di utilizzare al meglio la potenza delle passioni. In un sistema di relazioni sociali, l’obiettivo che ciascuno persegue individualmente deve massimizzarsi nel rapporto con gli altri uomini, a condizione che riesca ad abbandonare il punto di vista prettamente passionale ed egoistico che lo oppone all’altro. Che cos’è allora per lui la felicità? Tutto si risolve nelle possibilità che l’uomo ha di porsi al di sopra delle proprie tendenze individualistiche. La felicità non può essere allora che collettiva, un luogo in cui ciascuno è al riparo dal proprio dolore ma anche dagli effetti dell’infelicità altrui. Nella politica tutto ciò determina la superiorità etica della democrazia; sul piano della dimensione intellettuale la felicità conduce al massimo grado di conoscenza che l’essere umano può raggiungere, corrisponden-

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te al dominio intellettuale di se stesso e di tutte le cose, «il più alto compiacimento della mente che possa darsi»11. Nelle pagine del Trattato teologico-politico (1670), l’opera che più di ogni altra attira su Spinoza l’accusa di ateismo, questi concetti sono ulteriormente sviluppati: la felicità e la tranquillità di chi coltiva l’intelletto naturale dipendono principalmente non dal dominio della fortuna (cioè dall’ausilio esterno di Dio), ma dalla sua interna virtù (cioè dall’ausilio interno di Dio), poiché vigilando, agendo, decidendo con senno, costui provvede per il meglio alla propria conservazione12.

I veri filosofi ripongono la vera felicità nella sola virtù e tranquillità dell’animo e non pretendono che la natura si conformi ai loro desideri, perché sono essi a conformarsi alla natura. Sanno infatti con certezza che Dio dirige la natura secondo leggi universali, e non esigono che lo faccia secondo le leggi particolari della natura umana; sanno quindi che Dio tiene conto di tutta la natura, e non solo del genere umano13.

Questa è la virtù dell’uomo-filosofo, che ama l’umanità come l’amerebbe Dio se fosse una persona, e che ha perciò una responsabilità nei confronti della collettività. L’uomo ignorante rimane invece prigioniero dei desideri, condannato ad essere perpetuamente inquieto e a non raggiungere il compiacimento dell’anima. Proprio nel Trattato teologico-politico Spinoza mostra come tutto ciò può essere riassunto sul piano politico: la via individuale alla ricerca della felicità, che è l’utilità, può essere rafforzata da un patto comune tra gli uomini, che la trasforma in una pratica collettiva all’interno della forma di governo più razionale in cui può evolversi, cioè la democrazia. È difficile infatti accettare l’idea che siano invece l’obbedienza e la sottomissione – cardini delle religioni rivelate – le vie di accesso alla salvezza e alla beatitudine eterna. In una democrazia, quindi, ciascuno potrà accedere ad una felicità adeguata alle proprie capacità e prospettive di vita14.

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Il Paradiso perduto A margine di questo dilemma tra fede e ragione, ma legato prepotentemente al problema della ricerca della felicità, si colloca il Paradiso perduto (1667). È ormai cieco John Milton quando pubblica il suo capolavoro, destinato ad affascinare un secolo e mezzo più tardi i poeti romantici e considerato, dal punto di vista letterario, un vero e proprio passaggio dalla tradizione rinascimentale a quella moderna. Milton costruisce una rappresentazione della felicità legata al mito dell’amore, offrendo al lettore due mondi perfetti: da un lato il Cielo, regno di Dio e degli angeli (ma non dei santi, coerentemente con la cultura puritana), pieno di luce e di magnificenza, fonte dell’esistenza terrena, del tutto simile alle immagini della città celeste che si possono rintracciare nell’arte e nella letteratura. Separato da questo c’è il paradiso terrestre, costruito da Adamo ed Eva secondo l’immagine del paradiso-giardino, pieno di fiori e di alberi rigogliosi, ricco di frutta e di prati verdi irrigati da fontane. Ciò che accomuna i due mondi è la somiglianza dei piaceri che vi si provano, dei rapporti d’amore spirituale e fisico. L’Eden terrestre descritto da Milton, il suo paradiso perduto, è quello in cui l’amore, spirituale e fisico, rimane estraneo ad egoismo e lussuria. L’amore fisico, inteso anche come contatto reale, terrestre, libero, puro, perfetto, creato da Dio, non è dissimile dall’amore spirituale e celeste. Anzi, l’angelo Raffaele risponde esplicitamente ad Adamo, curioso di capire come ciò sia possibile: a te basti sapere che siamo felici, e senza amore non c’è felicità. Qualsiasi cosa pura tu godi attraverso il tuo corpo (e tu sei stato creato puro) anche noi la godiamo intensamente, e non troviamo ostacolo di membra, giunture, membrane, barriere che ci impediscano.

L’uomo, dinanzi a Dio, non è mai solo né infelice come ricorda il protagonista del poema al cospetto della visione celeste: ‘Quale felicità veramente c’è nella solitudine? Chi può godere da solo, ovverosia come trovare la felicità nel godere ogni cosa?’. Questo

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mi permisi di dire. E la Visione splendida come per un sorriso ancora più splendente così mi rispose: ‘Cos’è quella che chiami solitudine? Non è forse la terra colma di tutte le più varie creature viventi, e anche l’aria, e tutte al tuo comando pronte a venire da te per giocare? E non è forse vero che ne conosci il linguaggio e i costumi? Sanno anche loro, e ragionano in modo apprezzabile. Trova con quelle il tuo passatempo, e governale; perché il tuo regno è vasto’. In questo modo parlò il Signore dell’universo, e sembrò essere un ordine15.

Radicato saldamente nel protestantesimo e nella teologia puritana, Milton rimedia così all’esistenza infelice, creando il mito di un Eden perduto nel quale cameratismo e rapporti sessuali sono essenziali alla felicità e non sono ridotti a semplice simbolo dell’amore dell’anima per Dio16. Il Paradiso perduto non deve però essere letto soltanto come un’opera poetica; è anche un inno alla libertà di pensiero, alla libertà religiosa e assume un significato ancora più pregnante se consideriamo che venticinque anni prima Milton era stato uno dei protagonisti della battaglia parlamentare inglese e autore di numerosi pamphlets per dimostrare che la libertà religiosa è parte della politica e serve, quindi, a esprimere la libertà del suddito. Contro coloro che affermano l’identità tra Chiesa e Stato, Milton sostiene, invece, che il vero ufficio dell’ecclesiastico è unicamente quello di insegnare la fede, non di invadere il campo della politica. Ponendo l’accento sull’importanza della libertà individuale, intende ribadire la funzione del Parlamento e del popolo nelle decisioni politiche. Il re, capo della Chiesa e dello Stato, per esercitare una supremazia deve necessariamente rispettare le leggi fondamentali ed appoggiarsi al consenso del corpo politico. Tutto ciò appare confermato, secondo Milton, dal fatto che Dio ha attribuito a ognuno la capacità di attingere con l’intelletto alla Verità. Ancora nel 1644, pubblicando l’Areopagitica, un appello alla libertà di stampa, Milton auspica un’evoluzione del regime presbiteriano in senso democratico, sostenendo l’assoluta parità del clero e del laicato all’interno della chiesa, di fronte ad

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una giurisdizione ecclesiastica che è da considerarsi soltanto «una pura falsificazione tirannica dei prelati»17. Divertimenti accademici La cultura delle accademie è un curioso termometro di tutti questi dibattiti. Dentro i loro rassicuranti spazi, gli intellettuali erigono una repubblica delle lettere, luogo di un’idealizzata uguaglianza che però spetta soltanto a pochi privilegiati. Tra di loro i temi della felicità, del repubblicanesimo, dell’uguaglianza assumono spesso un tono giocoso, per non dire ironico. Giovanni Bonifacio da Rovigo, che si sente più oratore d’occasione che avvocato – come la sua professione invece richiederebbe –, è autore ad esempio di scherzi letterari come La repubblica delle api (1627), «con la quale si dimostra il modo di ben formare un novo governo democratico», che rimane però tale solo di nome e nel quale vige comunque come obbligatoria la religione cattolica. Francesco Fulvio Frugoni, nel suo Del cane di Diogene... quinti latrati, cioè il tribunale della critica (1687), descrive invece la dura vita dell’uomo che vive a corte e ha rinunciato ad una vita appartata, «felice», «santa», «beata» per scegliere invece l’infelicità della politica «tra le angustie, le inquietudini, le sciagure» che costringono ad essere «affannosi, solleciti, palpatosi, faccendoni»18. Il tema viene poi largamente ripreso anche attraverso il confronto tra il ricco infelice e il povero felice, come avevano già ribadito Gabriele Fiamma («La povertà è vicina a Dio, le ricchezze lontane») e Paolo Arese, vescovo di Tortona, secondo cui nell’imminenza della morte, dovendo abbandonare i propri beni, «i ricchi sentono spasimi e dolori horrendissimi» mentre i poveri sono «tutti allegri, tutti giulivi e festanti»19, o come nota ancora l’anonimo autore di alcuni versi che lamentano come «el ciel non mi volse dar oro ne argento»20. L’Italia accademica (1688) è il titolo dell’opera del riminese Giuseppe Malatesta Garuffi, che si presenta come un vero e proprio catalogo di accademie e di accademici con i rispettivi

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nomi d’arte e l’indicazione delle specifiche attività. Da Garuffi apprendiamo l’esistenza delle varie accademie di Felici, di Eccitati, di Desiosi, di Infaticabili, di Sereni e persino di Umoristi21. Il romano Giuseppe Berneri, segretario fino alla morte dell’Accademia degli Infecondi, è autore di innumerevoli opere sceniche e comiche (per la verità assai poco apprezzate dai contemporanei perché giudicate noiose e scialbe), tra cui il Meo Patacca ovvero Roma in festa. A lui si deve anche La felicità ricercata (1673), presentata come «opera drammatica ideale». In un profluvio di ornamenti poetici barocchi, l’autore ambienta i dialoghi nella reggia della bellezza, facendo parlare una serie di personaggi: l’ambizione e il lusso, ciascuno con il proprio seguito di paggi e trombettieri; la bellezza, che guarda se stessa con grande orgoglio; la scienza, che studia dall’alto di uno scanno avendo ai piedi la miseria; l’ozio, che si fa portare da due servi seduto su una sedia; la fatica, che porta gerle e ceste pesanti; la pazzia, che si muove ballando e cantando; lo scherzo, mascherato da nano. In un torbido intreccio amoroso, tutti si cercano e si amano tra loro: la bellezza è innamorata del lusso, la fatica è ammaliata dall’ozio, la pazzia si invaghisce dello scherzo. Nel profondo, però, tutti sono innamorati della felicità, che desiderano come compagna, amante, amica, ma che nessuno riesce a vedere. La felicità, che è un protagonista nascosto, è un oggetto del desiderio, a lungo cercato ma non trovato, e compare soltanto nel terzo e ultimo atto, con l’abito di una pellegrina, che vaga errante e solitaria in silenzio; tutti la vedono e non riescono a toccarla né a raggiungerla22. Non trasmettono un messaggio particolarmente profondo le lunghe pagine di Berneri, ma ci danno una significativa conferma del fatto che la felicità continua ad essere considerata inafferrabile, quasi compiaciuta degli uomini che trascorrono l’intera vita nella sua ricerca. Una rassicurante mediocrità Mentre gli accademici italiani sono impegnati nei loro divertimenti eruditi, a Oxford e a Londra un giovane intellettuale rac-

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coglie materiale per uno studio sull’intelletto umano. È John Locke, che almeno dal 1661, nel turbinio che accompagna il crollo della repubblica di Cromwell e la restaurazione della monarchia con Carlo II, comincia a intrecciare un dialogo indiretto con Hobbes (li separano due generazioni) i cui esiti vengono pubblicati appena dopo l’ultima rivoluzione, quella «gloriosa» del 1688, con il titolo di Saggio sull’intelligenza umana (1690). Figlio di un avvocato, Locke studia e poi insegna a Oxford, per diventare segretario del conte di Shaftesbury, di lì a poco Lord cancelliere, e quindi suo collaboratore quando viene nominato presidente del consiglio del re. È anche studioso di medicina e medico dello stesso Shaftesbury; il loro destino rimane strettamente legato, anche quando il suo mentore cade in disgrazia e viene accusato di tradimento (1682). I sospetti cadono anche su Locke, costretto all’esilio in Olanda; tornerà in patria nel 1689 al seguito di Guglielmo d’Orange, per rientrare nella vita pubblica con la carica di consigliere per il commercio nelle colonie23. Locke ha un obiettivo esplicito: vuole indagare sulla distanza che separa la felicità reale da quella immaginaria, sulle sue cause e sui modi per abbreviarla. Hobbes, che lo ha preceduto nello studio della natura dell’uomo, fornisce evidentemente un aiuto. E infatti Locke dà per scontato che nella natura dell’uomo esistano due princìpi fondamentali, il desiderio di felicità e l’avversione per il dolore. Su un altro punto ha le idee chiare: il piacere, la felicità e il bene coincidono, al di là della varietà di gusti e di caratteri, per cui è inutile ossessionarsi nella ricerca di un bene supremo, come quello vagheggiato dagli antichi o dal cristianesimo, del quale sfuggono l’essenza e la natura. La mente dell’uomo, inoltre, gli appare come una tabula rasa, su cui l’esperienza iscrive progressivamente tutte le cognizioni necessarie allo svolgimento della vita. Ogni azione umana, ogni volontà nasce da un disagio, che è il disagio del desiderio. Il senso dell’inquietudine torna ad aleggiare nelle sue pagine, nelle quali riconosce che proprio questo muove l’uomo e che, d’altra parte, è questa la volontà di Dio che lo ha creato come essere bisognoso, dipendente dai desideri, soggetto a fame e a sete, per spingerlo a lavorare, a produrre, a migliorare la propria

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condizione24. Il destino dell’uomo è di impegnarsi nelle opere e nel lavoro, per liberarsi dai bisogni, dalla necessità e dalla dipendenza. Ed è per questo che tende naturalmente a raggiungere il massimo piacere possibile, che coincide con l’eliminazione del massimo disagio presente: «felicità e infelicità sono i nomi di quegli estremi, dei quali non conosciamo i più lontani confini [...] abbiamo tuttavia delle impressioni molto vivaci di certi gradi di entrambe, impressioni fatte sopra di noi da molti esempi di diletto e gioia da un lato, e di tormento e dolore dall’altro»25. La novità consiste nel fatto che Locke, con questo ragionamento, sgombra il campo dall’ipotesi di un bene assoluto e pone ciascun uomo di fronte alla responsabilità di individuare come suo bene ciò che considera parte della propria felicità. D’altra parte, l’autore attenua il significato dell’inquietudine, nel senso che incoraggia l’individuo a perseguire i beni ordinari che garantiscono una felicità più immediata, ma moderata e costante: «perciò, quando ogni disagio sia stato rimosso, una misura moderata di bene basta a contentare gli uomini al presente; e un piacere di modesta intensità, in un succedersi di godimenti ordinari, costituisce una felicità di cui essi riescono ad esser contenti»26. La condizione migliore per la persona che non voglia rimanere vittima dei desideri, dei bisogni e dell’infelicità è quindi uno stato di mediocrità, inteso come susseguirsi costante di piaceri medi e moderati. E a ciò arriva usando la ragione, capendo che una felicità perfetta ed eterna esiste solo in un’altra vita; la stessa ragione permette poi anche di scegliere se perseguire un bene apparente ed un piacere immediato, oppure indirizzare il costante desiderio di felicità verso la costruzione di un progetto di vita, che aiuti a scegliere tra gli oggetti di desiderio più immediati e quelli invece da ricercare in un più lungo periodo, nella ragionevole speranza di raggiungere il bene vero. Proprio in questa capacità e possibilità di scegliere risiede, secondo Locke, la vera libertà dell’uomo; le passioni violente sono il nemico più grande per la sua libertà perché ne offuscano ed attenuano la capacità di giudizio, mettendone in luce fragi-

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lità e insicurezze. L’uomo da solo è quindi capace di usare tutti gli strumenti a sua disposizione per raggiungere la felicità; se rimane infelice ciò dipende solo dai suoi errori di giudizio e di valutazione riguardo al bene o al male presenti, in relazione a un bene o a un male futuri. In questa sua ricerca l’uomo non è lasciato però completamente da solo ma è guidato dalla morale, cioè da una regola di condotta che gli consente di discernere ciò che è giusto da ciò che è ingiusto, in base alla prospettiva della punizione divina e alla riflessione che questa suscita nell’uomo. La morale, una morale ispirata da Dio, aiuta quindi a capire che la scelta non va operata nei confronti di qualsiasi piacere o dolore, ma in relazione alla speranza di una promessa di felicità eterna e nel timore di un’infelicità infinita. La morale diventa un criterio per orientare il comportamento umano e quello della società politica. Partendo dallo studio del corpo umano, Locke arriva così a spiegare come la ricerca della felicità non è soltanto una necessità interiore, ma ha anche una funzione sociale e civile: l’uomo, nel momento stesso in cui usa la ragione per massimizzare il piacere e ridurre il dolore, valutandone le conseguenze in base ad un principio morale, trasforma questa ricerca in una fonte di obbligazione. La minaccia della punizione divina lo spinge ad un comportamento virtuoso, gli consente di scegliere tra il bene e il male; e, se applichiamo queste regole di comportamento alla vita politica, risulta che «il bene e il male morale sono soltanto la conformità o la discordanza delle nostre azioni volontarie rispetto a qualche legge», mentre «quel bene o male, quel piacere o pena, che conseguono dalla nostra osservanza o infrazione della legge per decreto del legislatore è ciò che chiamiamo compenso o punizione»27. Se la ricerca della felicità diventa efficace ottemperando a delle regole, queste in che cosa consistono? Locke ne individua di tre tipi, che permettono di distinguere le azioni giuste da quelle non giuste e sono la legge divina, la legge civile e la legge di reputazione. La prima coincide con la legge di natura, che è voluta da Dio, da un legislatore superiore, che l’uomo può riconoscere usando la ragione, comprendendo cioè di essere stato

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creato per glorificarlo con le proprie azioni e il proprio lavoro, di aver ricevuto tutto quanto gli occorreva per essere felice, e di essere fatto per vivere in una società in cui può intrattenere rapporti con altri uomini, che gli consentono di soddisfare i bisogni fondamentali. Nel momento stesso in cui gli uomini riconoscono in questo tipo di legge l’esistenza di Dio capiscono anche i vantaggi della virtù e della felicità pubblica per ottenere la felicità personale. La legge civile è invece la regola imposta dalla comunità a coloro che vi fanno parte, e serve all’uomo per capire se la sua azione è giusta o sbagliata; è forse ancora più pregnante di quella divina, poiché serve a proteggere direttamente la vita, la libertà e i beni di ciascuno. Le ricompense e le punizioni che ne conseguono sono sempre immediate. È questa stessa comunità che ha il potere di togliere la vita, la libertà e i beni a chi disobbedisce, punendo i reati eventualmente commessi. Esiste infine la legge di reputazione o dell’opinione. Prima ancora di quella civile, e diversamente da quella naturale e divina, questo tipo di legge determina reputazione o discredito, imponendo una regola di condotta che fa considerare virtù le azioni lodevoli e vizio quelle considerate riprovevoli dalla comunità. Ogni sistema di relazioni umane fa sorgere perciò una serie di regole morali che determinano stima o biasimo e forniscono un primo correttivo alle inclinazioni naturali dell’uomo28. La felicità si trasforma così definitivamente in una ricerca, in un percorso che l’uomo può compiere liberamente dentro la società, guidato da una serie di regole morali che possono essere prepolitiche, come la legge divina e la legge di reputazione, o politiche come la legge civile; in questo modo è capace di affrontare le proprie inclinazioni naturali e di giudicare la rettitudine morale delle proprie azioni. Individuato il modello teorico, esiste nella realtà l’uomo felice? Locke, come tutti i filosofi, muove dall’osservazione di ciò che lo circonda e dal contesto del proprio tempo. E pensa di poter individuare l’uomo felice in colui che è riuscito a evolversi rispetto allo stato di natura, che ha il dominio di se stesso ed è in grado di esprimere il proprio spazio di libertà nella società del tempo, possedendo beni propri e partecipando alla vita pubblica.

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Dalla natura alla politica Per capire quale significato la cultura del Seicento attribuisce alla libertà dell’uomo dobbiamo calarci nella mentalità dell’epoca, trasferendovi tutto il nostro spirito e la nostra immaginazione. Senza esagerare, però, altrimenti si diventa come quel celebre autore che – come ci ricorda nel 1639 Gabriel Naudé, bibliotecario del cardinale Richelieu e di Mazzarino – prima di scrivere un trattato sul cavallo si rinchiuse in una camera mettendosi a quattro zampe, soffiando, nitrendo, sgambettando, provando il trotto, il galoppo, la corvetta e cercando in tutti i modi di imitare l’oggetto del suo saggio29. Quando Locke scrive del rapporto tra legge e morale ha in mente un destinatario delle sue riflessioni, che non è l’uomo comune, vittima degli istinti e schiavo della propria condizione sociale, ma colui che per mezzo della ragione può raggiungere il primato sulla natura, che è in grado di agire razionalmente a vantaggio non solo proprio ma anche dei suoi simili. Quest’idea va perfezionandosi nel Secondo trattato sul governo pubblicato in inglese nel 1690 – pochi mesi dopo la rivoluzione e la proclamazione della dichiarazione dei diritti (Bill of Rights) e dell’atto di tolleranza (Toleration Act) – e quasi immediatamente tradotto in francese. L’opera è il risultato delle battaglie politiche contro l’assolutismo monarchico e dell’impegno personale di Locke nell’ambito del partito whig, contrattualista e repubblicano, che inaugura la lunga stagione della monarchia parlamentare e costituzionale. La raggiunta pacificazione nazionale si riflette nell’immagine della natura utilizzata da Locke per fare da sfondo al trattato; una natura vista come uno stato di pace, di benevolenza, di assistenza e di reciproca conservazione, in cui gli uomini vivono insieme secondo ragione. Ma non tutti sono ugualmente portati verso questi sentimenti e molti, anzi, sono mossi prima di tutto dall’amore di sé, da forme di egoismo, che possono degenerare in comportamenti immorali e in conflitti con i propri simili. Per uscire da questa situazione di incertezza, per affermare il principio di autoconservazione, per impedire la degenerazione degli

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istinti e la precarietà del possesso e dei beni, l’uomo abbandona quindi lo stato di natura e forma una società. In natura è certamente libero, ma volentieri accetta di introdurre limitazioni alla propria libertà per allontanare l’inquietudine e i timori di un’esistenza precaria, conscio della necessità, dei vantaggi e dell’utilità offerti dalla società, che si governa in base alle tre leggi già note, quella della natura, quella civile e quella di reputazione30. Il quadro risulta ora completo: l’uomo, che in natura è tendenzialmente spinto alla ricerca del piacere e della felicità privata, nel costante pericolo di cadere vittima degli istinti e delle tentazioni egoistiche, supera la propria condizione assecondando i richiami della socialità e della morale, che coincidono con un disegno più generale, terreno e ultraterreno, di vita felice. Ed è spinto a ciò, utilitaristicamente, proprio dal desiderio di mantenere il controllo su ciò che possiede, all’interno di una comunità pacifica. Solo così potrà essere e vivere felice, sicuro di sé e della propria situazione; ogni altra forma di governo od organizzazione della società diventa perciò ingiusta e degenera in usurpazione, che è l’uso di un potere sottratto arbitrariamente ai giusti detentori, o in tirannide, che è l’esercizio di un potere assolutamente illegittimo, senza alcun titolo. Se qualcuno dubita della verità di tutto ciò, sottolinea Locke, basterà andare a rileggere il discorso fatto al Parlamento da Giacomo I nel 1603, dove afferma che come sovrano si sente di anteporre «sempre il bene del pubblico e dello Stato intero a qualsiasi mio fine particolare e privato, sempre ritenendo che la prosperità e il bene dello Stato siano il mio sommo bene e la mia somma felicità terrena: e in questo un sovrano legittimo differisce assolutamente da un tiranno»31. Si tratta di un principio divenuto poi cardine del giusnaturalismo moderno, sul quale richiamerà l’attenzione persino Casanova nelle sue riflessioni filosofiche, ricordando che «l’adempimento di quei taciti patti che ogni sovrano contrae con li suoi sudditi e la non coartata docilità di questi nell’eseguir i decreti da quello emanati sono li fondamenti che costituiscono la felicità delle nazioni»32. Ne consegue che quando la società si trova dinanzi ad un governo divenuto usurpatore o tirannico,

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spiega Locke nell’ultimo capitolo destinato a ispirare cent’anni dopo i coloni americani, ha il diritto di rovesciare il sovrano, sostituendo ad un potere arbitrario un governo giusto, liberamente costituito33.

Lo sfondo libertino La riflessione sulla libertà può assumere quindi sfumature diverse e non stupisce dunque che venga intesa più come libertà dell’intellettuale che non come libertà dell’uomo comune. Nell’Europa del Seicento circola una nuova definizione, usata per indicare tutti gli autori che riflettono sul proprio tempo liberandosi dai condizionamenti politici e religiosi: sono i «libertini», espressione che deriva dal latino per designare originariamente gli schiavi affrancati e ora invece coloro che si sono emancipati dal peso della tradizione. Esistono un «libertinaggio dei costumi» e un «libertinaggio dello spirito», ma in entrambi i casi il termine suona come un’accusa, che rimanda a obiettivi polemici e vuole isolare e identificare tutti i critici della religione, del sistema esistente, delle convenzioni sociali e politiche, e coloro che incoraggiano il neonaturalismo, nel senso che considerano lecito assecondare ogni desiderio naturale poiché, essendo tale, non può apparire cattivo. Lo scandalo è in realtà solo intellettuale; lo dimostra infatti l’illustre medico Guy Patin, che descrive una di queste conventicole: il signor Naudé, bibliotecario del cardinale Mazzarino, intimo amico del signor Gassendi così come Gassendi è amico mio, ha preso accordi perché domenica prossima tutti e tre, ma solo noi tre, andiamo a cenare e a dormire nella sua casa di Gentilly e che facciamo bagordi. Ma Dio sa di quali bagordi siamo capaci! Naudé beve regolarmente solo acqua e non ha mai assaggiato il vino. Gassendi è così delicato di salute che non oserebbe mai bere; anzi, è convinto che, se lo facesse, avrebbe bruciori a non finire [...]. Quanto a me, posso solo gettare polvere sugli scritti di questi grandi uomini. Bevo molto poco. Nondimeno faremo bagordi, ma bagordi filosofici.

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Viceversa, prosegue Patin, «ci siamo scrollati di dosso la superstizione, ci siamo sbarazzati di tutti gli scrupoli, che sono tiranni della coscienza, e forse arriveremo quasi in paradiso». Questo significa essere libertini: mantenere un atteggiamento di scetticismo rispetto ad ogni verità, astenersi dal giudicare, essere diffidenti nei confronti di ogni dogmatismo, utilizzare il metodo del dubbio34. Ne sono seguaci Montaigne, Naudé, Gassendi, Cyrano de Bergerac e Spinoza, secondo una geografia dai contorni indefiniti e incerti, ma assai chiara nella mente degli avversari, che non mancano di far pagare un alto prezzo a quanti assumono gli atteggiamenti pubblici più anticonformisti ed irriverenti, come era accaduto all’inizio del Seicento al francese Théophile de Viau e all’italiano Giulio Cesare Vanini, condannati rispettivamente al rogo e all’esilio. Dentro il libertinismo c’è un po’ di tutto. Ad esaltare lo scetticismo di Montaigne, con esiti anche paradossali nella sfiducia delle capacità umane, provvede Blaise Pascal, matematico e fisico, inventore della macchina calcolatrice convertitosi dal 1654 al giansenismo (dal nome di Cornelis Otto Jansen, vescovo di origine olandese conosciuto con il nome latinizzato di Giansenio), la corrente religiosa fortemente intrisa di rigore cristiano e di pensiero agostiniano. Critico della morale corrente, da lui giudicata troppo lassista, e delle rigidità della gerarchia ecclesiastica, Pascal enuncia nei suoi Pensieri, pubblicati postumi nel 1669, il paradosso dell’uomo e della sua ragione, affermando che la grandezza della persona consiste nella sua capacità di riconoscersi miserabile e di accettare di essere debole come un giunco, anche se pensante. Riprendendo quasi alla lettera l’idea di sant’Agostino, secondo cui l’amore per Dio è incompatibile con quello per se stessi, giunge ad affermare che «bisogna amare solo Dio e odiare solo se stessi», evitando di cercare la felicità dentro di sé, perché è pura illusione. Cercarla all’esterno, nei piaceri, non serve molto, perché diventa puro divertimento e porta solo a distrarsi dalla consapevolezza di ciò che siamo: «la felicità non è né in noi, né fuori di noi. È in Dio, sia fuori che dentro di noi»35. L’uomo deve piuttosto seguire l’infelicità, rifuggendo dai piaceri della carne, della mente e dell’orgoglio,

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puntando sull’unica idea che c’è un Dio che ci ama di fronte all’annichilimento dell’io e delle sue pretese36. Alla fine del Seicento gran parte della cultura europea condivide ormai l’idea che la felicità non consiste più in qualcosa di già prestabilito, e per ciò stesso rassicurante e prevedibile, ma appare come una ricerca dell’uomo, con contenuti decisamente politici. A partire da questo momento gli sforzi si concentreranno quindi nel tentativo di capire se esistono regole, formule o criteri di orientamento che possano aiutare in quest’indagine. La cultura libertina andrà stemperandosi nel passaggio verso il nuovo secolo e i suoi esiti saranno destinati a ricadere altrove, per riaffiorare nei settori più tormentati del mondo dei Lumi.

V PAROLE E IDEE NUOVE «Il dottor Lloyd, vescovo di Worcester, mi disse a Oxford che tutte le persone erano d’accordo sulla tesi che [...] la distruzione dell’Anticristo avverrà almeno nell’anno dell’era cristiana 1736. A quel tempo Roma dovrà essere data alle fiamme, il papato distrutto e Gerusalemme ricostruita. A questi eventi dovranno seguire la distruzione (o almeno l’umiliazione) dell’impero francese e la conversione della Francia dal papismo»1. Così il 4 marzo 1703 David Gregory annota una delle profezie del vescovo inglese William Lloyd, celebre per l’accuratezza e la precisione delle sue previsioni. Il tono apocalittico, che mescola religione e politica, ben fa comprendere il clima che si torna a vivere nei primissimi anni del Settecento. È il tempo della crisi della coscienza europea, che apre a una nuova epoca, quella della città degli uomini, protagonisti in un mondo avido di cambiamenti2. Virtù e moderazione Se la felicità è misura della ragione e dell’immaginazione, che in qualche caso può portare fino alla mortificazione dei desideri, esiste un modello di uomo che possiede queste caratteristiche? A quali regole di comportamento deve attenersi chi insegue virtù e felicità? La lettura delle biografie scritte nel corso del Seicento offre una quantità di casi che sembrano voler dimostrare la perfetta coincidenza, nei filosofi, tra lo stile di vita e il

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messaggio delle loro opere. Qualche esempio ce lo conferma, come quello di Paolo Sarpi, teologo e difensore di Venezia dinanzi all’interdetto scagliato da papa Paolo V e poi scomunicato. Nel profilo scritto poco dopo la morte (1623) dall’amico Fulgenzio Micanzio (uno dei corrispondenti di Bacone), la figura di Sarpi si aggira per Venezia tra il caotico fervore dei commerci e dei popoli con la saggezza e le virtù degli antichi, che sono «scienza et umiltà, prudenza e mansuetudine, ritiratezza et ufficiosità, serietà e dolcezza, argutezza e non pontura, brevità e chiarezza». La biografia sottende un evidente messaggio politico verso coloro che non hanno compreso il pensiero sarpiano, ma ha l’indubbio effetto di sottolinearne la morale quasi laica e intrisa di stoicismo. Il teologo si trasfigura nell’immagine del penitente e dell’asceta, «et era la sua vita la più affaticata e stentata che religioso potesse fare», tanto che «la maggior parte del tempo se la passava con un poco di pane brustolato su le bragie». Il distacco dalla realtà e il rifugio negli studi diventano difesa dal dolore e dal pessimismo, perché Sarpi sa che «la sola intrinseca felicità bastar non può» ed anche «tanto è più perfetta quanto della estrinseca meno bisogna»3. Singolare davvero questo ritratto, anche perché appare molto somigliante alla posteriore descrizione di un altro fustigatore dei costumi, Spinoza, fatta da Colerus alla fine del Seicento: il suo modo di parlare e di vivere era quieto e riservato. Sapeva davvero bene come controllare le proprie passioni. Nessuno lo vide mai triste o su di giri. Era in grado di controllare e dominare la sua collera e il suo scontento, segnalandoli con un cenno e una singola parola, oppure alzandosi e andandosene per paura che la passione avesse la meglio su di lui [...] non soltanto le ricchezze non lo tentavano, ma temeva poco le odiose conseguenze della povertà. Anche nell’estremo bisogno, era generoso, distribuendo quel poco che riceveva dalla prodigalità degli amici con tale liberalità da dare l’impressione di vivere nell’agio4.

Un ritratto simile fa di Blaise Pascal la sorella, autrice di una biografia pubblicata nel 1686. Pascal si è posto su una linea diversa rispetto alla morale laica di Spinoza e di Sarpi, ma viene accomunato a loro da una dimensione stoica della felicità:

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non gli era possibile non usare i sensi; ma, quando era per necessità costretto a dar loro qualche piacere, aveva una destrezza meravigliosa a distoglierne lo spirito perché non vi prendesse parte [...]. Non aveva voluto permettere che si facesse nessuna salsa né ragoût, né che gli si offrissero arance né agresto, né alcunché eccitasse l’appetito, benché amasse naturalmente tutte queste cose. Aveva regolato, dall’inizio del suo ritiro, la quantità di cibo che occorreva per i bisogni del suo stomaco [...] non ha avuto meno cura nel praticare l’altra massima che si era proposto, di rinunciare ad ogni sorta di superfluo, che è una conseguenza della prima. Si era ridotto a poco a poco a non aver più tappezzerie nella sua camera [...] si era privato della superfluità delle visite e, anzi, non volle vedere persona alcuna5.

Il rigore e le privazioni del corpo sembrano allora l’unica regola per l’uomo virtuoso che vuole essere felice, quasi fossero una ricetta per migliorare il suo essere. Armonia e felicità Esistono però altre soluzioni, come quella che riconduce corpo, anima, istinti e passioni a un insieme armonico, secondo un ordine prestabilito dalla natura che può essere anche contemplato da Dio. Su questo tema lavora, sin dalla sua tesi di baccellierato, un giovane protestante tedesco, che ne fa il punto nodale di tutta la sua riflessione. Si chiama Gottfried Wilhelm Leibniz. Prima ancora di essere conosciuto e discusso in tutt’Europa, è un giovane studioso assetato di sapere che si muove per le strade di Parigi, stringe sempre nuove amicizie e cerca libri che soddisfino la sua curiosità intellettuale. Viene a sapere dell’Etica di Spinoza, il testo clandestino che circola ancora manoscritto perché ritenuto da tutti pericoloso. Nell’autunno 1675 Spinoza stesso riceve notizie di un amico che «dice di aver incontrato a Parigi un uomo di grande dottrina, versato in varie scienze e libero dai volgari pregiudizi della teologia, chiamato Leibniz, con il quale si è legato in intima amicizia, trattandosi di uno che come lui si sforza di procedere sulla via della perfezione intellettuale, stimando che nulla sia più degno e utile. Dice che è assai esercitato nelle disci-

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pline morali e che non è mosso a parlare da nessun altro affetto che non sia il dettame della ragione. E continua dicendo che è versatissimo negli studi fisici e specialmente metafisici di Dio e dell’anima; e conchiude infine che egli sarebbe ben degno che gli venissero comunicati, con vostra licenza, i vostri scritti»6. Quando scrive i suoi primi saggi, negli anni Sessanta e Settanta del Seicento, Leibniz conosce già l’opera di Spinoza, ed è combattuto tra l’ammirazione e la critica. Già nel 1670 ha espresso forti riserve sul Trattato teologico-politico, giudicandolo un libro «insopportabilmente impudente» e dichiarando, pochi mesi più tardi, di essere «rattristato dal fatto che un uomo tanto colto sia caduto, a quel che sembra, così in basso. La critica che egli fa dei libri sacri si basa sul Leviatano di Hobbes, ma è facile capire come essa sia sovente errata. Testi di questo tipo tendono a minare la religione cristiana»7. Spinoza, probabilmente, ne è venuto a conoscenza e ciò spiega la diffidenza che ricambia: «quel Leibniz di cui scrive penso di averlo conosciuto per lettera [...]. Reputo tuttavia imprudente di confidargli così presto i miei scritti». La precauzione è inutile. Per altre vie, Leibniz riesce comunque a conoscerne i contenuti: «il libro di Spinoza tratterà di Dio, della mente, della felicità o dell’idea di un essere umano perfetto, del rafforzamento della mente, del rafforzamento del corpo ecc.»8. Ecco perché occorre ritornare su questi temi, approfondirli, analizzarli, e Leibniz lo fa nei Nuovi saggi sull’intelletto umano (1705), adottando un titolo mutuato evidentemente da Locke, autore del Saggio sull’intelligenza umana. Afferma il filosofo tedesco: La felicità è uno stato durevole di piacere […] il piacere è una conoscenza, un sentimento della perfezione, non solo in noi ma anche in altri [...]; amare significa trovare piacere nella perfezione altrui. [...] I piaceri dei sensi che più si avvicinano ai piaceri dello spirito e sono i più puri e più sicuri sono quelli della musica e quelli della simmetria, gli uni delle orecchie, gli altri degli occhi [...]: si è felici quando si ama Dio [...], ma non si potrebbe amare Dio senza conoscere le sue perfezioni e la sua bellezza9.

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Nel corso degli anni Settanta del Seicento gran parte della sua riflessione si muove ancora lungo la falsariga del confronto con Spinoza, anche quando tenta di distinguere tra piacere e gioia (laetitia) e tra dolore e tristezza (tristitia), che differenzia in base alla durevolezza degli stati d’animo rispetto alla brevità delle percezioni istantanee. Alla base della sua riflessione pone quindi il concetto di armonia. Di che cosa si tratta? In senso letterale, è un principio di coerenza, una consonanza di suoni vocali o strumentali, un equilibrio di elementi considerati nel loro insieme. Per Leibniz è il modo di essere di ogni cosa, uomo compreso, è il suo ordine interno e la sua tendenza alla perfezione e alla connessione col Tutto; riguarda quindi anche l’intero universo, inteso come manifestazione infinita di Dio. Muovendo dalla cultura protestante, egli esalta così l’importanza della persona, facendone il centro energetico di ogni azione. Ciò che unisce gli individui tra loro è proprio questa forza armonica, che rende ognuno un punto di osservazione capace di esprimere a modo suo l’intero universo. Ciascuno è poi segnato da un proprio destino, che rende comprensibile ogni fatto della vita e si iscrive in un progetto più generale ispirato dalla potenza di Dio. Per spiegare cos’è la libertà individuale Leibniz usa una metafora musicale; la libertà dell’uomo è analoga a quella di un musicista all’interno di un’orchestra, che non può deviare dal ritmo comune ma può interpretare la sua parte; ed è simile anche «a quella che ci sarebbe tra diverse orchestre o cori che eseguano separatamente le loro parti e siano collocate in modo che non si vedano e neppure si odano e che, nondimeno, possano accordarsi seguendo le loro note, ciascuno le proprie, di modo che chi li ascolta vi trova un’armonia meravigliosa e molto più sorprendente che se vi fosse una connessione tra loro»10. Il riferimento alla musica non è casuale, perché denota un interesse più generale per il rapporto fra musica, teoria dell’armonia e proporzioni matematiche che riemerge costantemente e serve a dimostrare che nella società umana, come appunto in un’orchestra, le dissonanze sono rapportate naturalmente ad un insieme armonico, come le ombre alla luce11. All’armonia ri-

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conduce pure, allargando la riflessione, il problema dell’origine delle lingue, immaginando la loro dipendenza da un unico e originario linguaggio universale, che consente a tutti di comprendersi e di comunicare. Su questo avrebbe potuto essere d’accordo anche il duca di Sandwich, ambasciatore inglese alla corte spagnola ma poco portato per lo studio delle lingue, tanto da inventarne una personale. Narra infatti il suo collega veneziano di averlo incontrato nel giugno 1666 e di essersi sentito chiedere «in che lingua poteva senza l’intervento dell’interprete esporsi meco: risposi che mi rincresceva non essere in tal occasione dell’inglese in alcuna notizia, ma che o spagnolo, o francese, o latino rimettevo all’arbitrio di Sua Eccellenza. Egli di niuna godendo perfetto il possesso, di tutti si valse tolendo in prestito ora dall’una ora dall’altra le parole e li moti secondo l’urgenza»12. Il curioso episodio sembra confermare che, al di là delle diversità linguistiche, può esistere veramente un’attitudine naturale alla comunicazione. Se passiamo a confrontare questa teoria dell’innatismo con le idee di Locke, le differenze diventano evidenti: mentre il pensatore inglese considera la mente dell’uomo come una tabula rasa, Leibniz afferma invece che la mente possiede idee innate, anche se non perfezionate: è come un marmo che possiede venature nascoste. Solo chi lavora con lo scalpello, usando pazienza e mestiere, riuscirà a scoprirle, ma possono rimanere occulte anche per tutta la vita, conosciute soltanto da Dio, l’unico ad avere cognizione di ogni più piccolo punto di vista dell’universo13. Quando però vengono svelate, queste idee servono a orientare l’esperienza e le potenzialità dell’individuo, assecondando l’unità dell’armonia prestabilita affinché siano attratte dalla causa finale della loro perfezione. In questo senso può essere letto il saggio di Leibniz Sulla felicità, interessante anche per la sua storia redazionale. Si tratta di un testo incompiuto, risalente al 1695 circa e nato con tutta probabilità da un tentativo di arginare, nella cultura tedesca, la diffusione di temi quietistici, cioè di quelle dottrine a sfondo mistico che suggerivano un abbandono totale e contemplativo del fedele dinanzi a Dio, con la rinuncia a qualsiasi atto o immagine intelligibile. Contro questa prospettiva, le pagine di Leibniz

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intendono rivendicare un atteggiamento più sereno verso la quotidianità e l’intrinseca superiorità dell’intelletto rispetto all’annullamento in Dio voluto dai quietisti. Il testo è steso sotto forma di dialogo tra due personaggi, Carino e Teofilo, che discorrono fittamente di questi temi: A causa di un’inutile curiosità, la mente umana si disperde in futilità. In ultima analisi, tutti desiderano il bene, ma del vero bene se ne curano pochi. I più pensano solo occasionalmente alle questioni più importanti, e poi subito ricadono, a causa del ribollire delle passioni, negli interessi del volgo e non è facile che abitino con se stessi, o che si rivolgano a Dio. Così quelli che errano smarriti nella vita, agiscono come per caso e perciò non trovano, così come non cercano, la via per la felicità. Per me la Saggezza non è altro che la scienza della felicità. La Felicità la definisco come una condizione di durevole gioia. La Gioia come una grande predominanza del piacevole, o nel senso che mancano i dispiaceri o che essi appaiono piccoli in confronto al piacevole. Il piacevole e il molesto consistono in sensazioni particolari e possiamo dunque al tempo stesso avvertire piacere e dolore, in ragione della varietà delle sensazioni e degli oggetti [...]. La piacevolezza infine consiste nel sentimento di perfezione.

In conclusione, bisogna tendere soltanto a quei piaceri trasparenti e sinceri che non consistono nella sola sensazione ma anche nella comprensione intellettuale delle perfezioni, che chiamiamo ‘piaceri dell’animo’ e nei quali è manifesto che non possono nascondersi dei mali. E proprio questi piaceri nascono sicuri e costanti, e possono prepararci una gioia duratura: per loro tramite s’arriva correttamente alla felicità14.

Il dialogo si arresta dopo poco, quando Carino inizia a domandare come l’uomo può avere il controllo su se stesso, come può conquistare una durevole gioia di fronte alla casualità delle vicende umane e a che cosa può servirgli dunque una scienza della felicità se non si possiedono gli strumenti per adoperarla. Qui Teofilo, cioè il filosofo, dovrebbe iniziare a spiegare questi

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fenomeni, ma abbandona invece il discorso, senza approfondire il tema, e il testo si interrompe. Quali considerazioni ne possiamo trarre? La felicità appare come uno stato di tensione, che non produce però necessariamente un disagio: l’inquietudine, formata da piccoli desideri inconsapevoli su cui la ragione non ha il completo controllo, sollecita il perfezionamento dell’individuo e quindi spinge alla ricerca della felicità; i piaceri dell’intelletto, collegati ai piaceri della perfezione, sono sempre superiori alla preoccupazione per il benessere fisico e per la reputazione sociale, che rischiano di offuscarli. D’altra parte, la vera felicità, intesa come forma della perfezione, non potrà ovviamente essere mai raggiunta: «la nostra felicità quindi non consisterà mai e non deve consistere in una gioia completa, nella quale non vi sarebbe più nulla da desiderare e che renderebbe stupido il nostro spirito, ma in un progresso perpetuo verso nuovi piaceri e nuove perfezioni»15. Amore di Dio e amore di sé Il disagio manifestato da Leibniz di fronte alla diffusione di correnti religiose interne al cristianesimo, che rivendicano maggiore rigore e senso morale, si accompagna al disagio che pervade in quell’epoca l’area francese. Il mondo cattolico continua ad essere inquieto, stretto fra l’appello alla ragione dei libertini e le tendenze moralizzatrici dei giansenisti. Pascal, come già ricordato, vive una profonda religiosità, rafforzata dalla fede dei miracoli. Oltre ad essere sopravvissuto ad un incidente stradale, assiste personalmente, il 24 marzo 1656 a Port-Royal, al miracolo della Santa Spina, che coinvolge sua nipote, da tempo sofferente per una fistola lacrimale inoperabile: dinanzi a una spina della corona di Cristo guarisce prodigiosamente e la notizia fa il giro di tutta la Francia. Colpito da questi eventi, Pascal combatte tutte le storture della religione in nome di un cristianesimo più autentico e intimamente spirituale, attaccando – come fa nelle celebri Lettere provinciali uscite nel 1656-1657 – la morale lassista dei gesuiti, l’università della Sorbona in cui inse-

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gnano, e gli abusi dei casisti, cioè dei teologi esperti nel risolvere i casi di coscienza. Nei Pensieri (1670), una raccolta di riflessioni filosofiche e religiose, si ritrova gran parte delle sue meditazioni, tutte orientate a capire la grandezza e la miseria dell’uomo dinanzi alla verità cristiana, che impone una denigrazione dell’io quando non è finalizzato all’unione con Dio: «gli stoici dicono: ‘Rientrate in voi stessi, è lì che troverete la vostra quiete’. E ciò non è vero. Gli altri dicono: ‘Uscite al di fuori; cercate la felicità, divertendovi’. E ciò non è vero. Vengono le malattie. La felicità non è né in noi, né fuori di noi. È in Dio, sia fuori che dentro di noi»16. Meglio allora abbracciare l’infelicità, come propone san Giovanni (1 Gv. 2, 16) e sfuggire ai desideri che spingono l’uomo alla ricerca dei piaceri della carne, della mente e dell’orgoglio: «Se l’uomo fosse felice, lo sarebbe tanto più quanto meno si fosse perso nel divertimento, come i Santi e Dio. Sì; ma non è forse essere felici il poter essere allietati dal divertimento? No, perché esso viene da altra fonte e dal di fuori; e quindi è dipendente, e perciò suscettibile di essere turbato da mille accidenti, che rendono inevitabili le afflizioni»17. Dunque, ciò che dipende da eventi esterni, come tutto quello che proviene dal divertimento, non è felicità, ma motivo di afflizione. D’altra parte, la felicità non deriva nemmeno dall’io, dalla nostra intima volontà: «l’io è degno di odio [...] ha due qualità: è ingiusto in sé, in quanto si fa centro di tutto; è scomodo agli altri, in quanto li vuole asservire; infatti ogni io è il nemico di tutti gli altri e vorrebbe esserne il tiranno»18; bisogna, come insegna sant’Agostino, «amare solo Dio, e odiare solo se stessi», perché «se c’è un Dio bisogna amare solo lui e non le creature effimere»19. È un modo per annichilire l’individualità, considerando l’uomo come essere miserevole, che nasce da una profonda sfiducia nella bontà di Dio, e che proprio per questo verrà criticata da Shaftesbury, nipote del già noto Lord cancelliere ai tempi di Carlo II. Ma la posizione di Pascal non è isolata: tutta la cultura del giansenismo francese condanna in quegli anni l’amore di sé. Pierre Nicole nel suo saggio La carità e l’amor proprio spiega

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che «l’uomo corrotto non solo ama se stesso, ma si ama senza limiti e senza misura; egli non ama che sé, rapporta tutto a sé. Egli desidera per sé ogni sorta di beni, di onori, di piaceri, e non ne desidera che per se stesso. Egli fa di sé il centro di tutto; vorrebbe dominare su tutto e vorrebbe che tutte le creature non fossero occupate che ad accontentarlo, a lodarlo, ad ammirarlo». La società e le relazioni tra gli uomini sono guidate hobbesianamente dall’amor proprio, che è lo strumento utilitaristico con il quale gli individui hanno creato il commercio, gli scambi, la politica, al solo fine di affermare la propria grandezza e superiorità. Mentre invece la società dovrebbe essere mossa da sentimenti di carità, cioè dall’amore per Dio, da una morale cristiana che si fa virtù sociale20. Uno dei primi esponenti del giansenismo francese, JeanFrançois Sénault, già nel suo trattato sull’uso delle passioni (1641) aveva spiegato chiaramente che è la morale «che forma i filosofi e epura i loro spiriti, li rende capaci di considerare le meraviglie della natura; ed è quella che istruisce i politici, e insegna loro a governare gli stati governando le loro passioni». Questa morale, per essere utile, non può che essere cristiana, e le virtù che guidano le nostre passioni devono essere animate dalla carità per soddisfare i loro doveri21. Contro l’opinione di Seneca, le passioni non sono di per sé considerate né positive né negative, ma devono essere orientate attraverso la Grazia, altrimenti rischiano di divenire seme del vizio. Per Sénault senza la Grazia non esiste, insomma, alcuna salvezza dall’amore di sé, come ricorda qualche anno più tardi nell’Uomo criminale, ovvero la corruzione della natura22. E laddove la mancanza dell’amore di Dio lascia un vuoto, questo vuoto tende sempre a riempirsi dell’amore di sé, debordante e pervasivo. La cultura dell’inquietudine ormai si intreccia sempre più spesso con istanze di ordine religioso e politico che spingono a riflettere sul significato di carità e solidarietà, e inducono a ripensare le teorie della sovranità. La Francia di fine Seicento e di primo Settecento coincide con gli ultimi anni di regno di Luigi XIV e con un’opposizione sempre crescente al suo assolutismo. Il giansenismo, nato come movimento teologico e condannato

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per eresia con la bolla Cum occasione da papa Innocenzo X nel 1653, diventa una corrente politica, culturale e ideologica che si scaglia contro l’autoritarismo della Curia romana e contro l’infallibilità del papa, per affermare invece l’indipendenza della chiesa nazionale francese e il diritto di coscienza in materia di fede. Diventa anche, in certi casi, un modo per contestare il potere assoluto del re, che si fa scudo della Chiesa e che non a caso definisce i giansenisti «repubblicani», un termine che, pur non designando esattamente un rivoluzionario, indica comunque un oppositore politico ed assume un intrinseco valore dispregiativo. Quando invece l’orientamento giansenista coincide con gli interessi dei sovrani e con le loro pretese giurisdizionaliste, allora le simpatie convergono anche attraverso l’opera dei giuristi, che iniziano a delineare una società governata dalla «luce della ragione», secondo «regole comuni della giustizia e dell’equità», come spiega Jean Domat, scrittore e giurista molto legato a Pascal. Il discorso sulla felicità assume quindi un significato nuovo: sempre intriso del rigore agostiniano, impone però che ciascuno possa partecipare in un qualche modo ai beni e alle ricchezze, che sono fatti per tutti. Bisogna pensare e provvedere a tutti i membri della società e questo deve diventare un compito primario anche del principe, che s’incarica di occuparsi della «pubblica felicità». Benevolenza e socialità L’uomo è quindi parte del tutto, e può legittimamente guardare a se stesso e realizzarsi se si pone in relazione con il resto della società. Quest’idea, che potrebbe sembrare solo un principio etico, acquista però ben altro significato se guardiamo a quanto sta avvenendo nella cultura politica del tempo. La società europea sta vivendo profonde trasformazioni economiche e riflette sui fondamenti della politica e sulla costruzione del consenso attorno al potere sovrano. A questo compito si accinge anche il giusnaturalismo moderno che, come denota il termi-

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ne stesso, ricerca nelle regole della natura l’origine e il contenuto delle leggi civili. Sin dal 1625, l’olandese Ugo Grozio (Huig de Groot) rilancia l’idea secondo cui l’attitudine alla vita in società è tipica della natura umana, e da questa stessa natura sorgono tutte le norme su cui si regge la comunità politica: il patto che obbliga reciprocamente gli uni agli altri per garantirsi la sicurezza (patto di obbligazione), quello di sottomissione alla legge (patto di soggezione) e via via tutte le leggi positive basate su criteri di utilità e di razionalità. Riprendendo queste idee, nel 1672, Richard Cumberland critica lungamente l’immagine hobbesiana dell’individuo come creatura antisociale, introducendo l’idea secondo cui il collante di ogni relazione consiste in una propensione naturale alla «benevolenza universale»: un’attitudine a voler migliorare se stessi attraverso il perseguimento del bene comune, che la ragione deve necessariamente assecondare, in quanto orientata alla realizzazione della felicità naturale23. Questa idea della benevolenza – che un secolo dopo avrebbe attirato l’attenzione degli illuministi italiani24 – diventa il mezzo migliore per realizzare la propria felicità: il bene del singolo non può che essere concepito «in subordine alla felicità di tutta la comunità». Infatti «la felicità del tutto dipende da quella di ciascuna delle singole parti; comandata la prima si comanda necessariamente l’ultima; e nessuno potrebbe procurare la felicità degli altri, dimenticando la sua»25. Un ragionamento analogo fa Samuel Pufendorf, che svolge un ruolo di mediazione tra la cultura continentale e l’esperienza di Cumberland, pubblicando proprio in quello stesso anno (1672) la prima edizione del proprio capolavoro sul diritto naturale. Si tratta di un’opera che parte da premesse hobbesiane, tra cui il principio naturale di autoconservazione dell’uomo (amor sui), ma che nella seconda edizione (1684) introduce una serie di aggiunte e di varianti tratte direttamente dal saggio di Cumberland e finalizzate ad accentuare la critica a Hobbes26. Il cardine della trattazione sta nell’assunto che l’uomo è necessariamente un «essere socievole, se vuole conservarsi in vita e usufruire di tutte quelle comodità che competono alla sua condizione, cioè è necessario che si unisca con i suoi simili e si com-

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porti in modo non solo da non dar loro occasione di offenderlo, ma anche in modo che essi abbiano un motivo per servirlo e fare i suoi interessi»27. L’uomo si evolve dallo stato di natura a quello di società in base all’indole del genere umano, che consiste in benevolenza, pace e carità. La ragione dunque chiaramente detta a colui cui stia a cuore la propria salvezza e conservazione che non può rinunciare a occuparsi degli altri. Perché infatti la nostra incolumità e felicità dipende in gran parte dalla benevolenza e dall’aiuto degli altri, e la natura degli uomini è tale che essi, in cambio dei benefici ricevuti, ne vogliano restituire di simili; mentre, se questo non accade, depongono ogni intenzione di far del bene; pertanto nessuno sano di mente può prefiggersi come scopo la conservazione della propria vita, senza rispettare anche quella degli altri. Piuttosto, quanto più amerà se stesso razionalmente, tanto più si darà da fare perché gli altri lo amino28.

Questo ragionamento prosegue in un saggio successivo alla prima edizione sui doveri dell’uomo e del cittadino (1673), dove Pufendorf spiega che il progresso sociale dell’individuo, il suo perfezionamento, non rappresenta tanto l’evoluzione di un’inclinazione naturale ma è piuttosto uno sviluppo delle sue possibilità di vita, cioè il frutto di un calcolo delle implicazioni reciproche tra uomo e uomo29.

Verità e perfezione Verità è un’altra parola che circola sempre più spesso. Con quale significato? A spiegarlo provvede una figura discussa, e a tratti osteggiata, di sacerdote e scienziato: Nicolas de Malebranche, figlio di un segretario del re di Francia e autore nel 1674 di un’opera in più volumi dal titolo programmatico La ricerca della verità, che gli attira polemiche teologiche, accuse di quietismo e di panteismo. La verità, secondo Malebranche, consiste in una ricerca, che egli stesso compie a ritroso tornando allo studio dell’anima, del corpo e delle passioni, per abbandona-

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re lo scetticismo tipico di autori come Montaigne e Pascal, che avevano considerato incompatibile la ricerca di sé con quella di Dio. Tutto ciò che l’umanesimo aveva prospettato più di un secolo prima si realizza ora nella cultura cattolica grazie a Malebranche: egli cerca di superare la frattura tra corpo e anima, studiando l’uomo come un intreccio di tensioni, di emozioni e passioni, per rivalutare l’inquietudine, che non viene più vista pessimisticamente come un elemento destabilizzante, ma come un segno della volontà di Dio, che determina ogni movimento, sia nel corpo sia nell’anima. I movimenti del corpo appaiono quindi paralleli al moto dell’anima, e tutti sono ispirati da Dio (secondo un’idea che fa derivare da sant’Agostino e dalla sua concezione della presenza di Dio nell’uomo come guida della sua ragione). Pertanto, tutte le tensioni e le inquietudini non possono che essere fondamentalmente buone e positive. Solo a questo punto è possibile liberarsi dal peso della tradizione, che vede in questi fenomeni qualcosa di fondamentalmente punitivo, per tentare di fornirne invece una lettura ottimistica. Come Malebranche torna a ribadire, «l’amore di sé è il principio di tutte le nostre affezioni» ed è un sentimento positivo da cui derivano anche il desiderio di conservazione e la felicità; mentre invece l’amor proprio è solo «amore sregolato che abbiamo per noi stessi», quindi una degenerazione dell’amore di sé che porta a cercare i piaceri, l’orgoglio e la vanità30. L’analisi è di particolare efficacia: anima e corpo sono necessariamente uniti tra di loro e, considerati assieme, anche al verbo di Dio; da ciò discendono le facoltà dell’uomo di pensare, di immaginare, di volere, cioè di guidare sia i movimenti dell’anima sia quelli del corpo. «Le passioni dell’anima» – scrive riprendendo Cartesio – «sono impulsi dell’autore della natura che ci portano ad amare il nostro corpo e tutto quello che può essere utile alla sua conservazione; come le inclinazioni naturali sono impulsi dell’autore della natura che ci portano soprattutto ad amarlo come sommo bene e come nostro prossimo senza rapporto con il corpo»31. Rivalutare l’inquietudine, vista come uno stimolo dato da Dio per perfezionare se stessi, l’amore di sé e la curiosità, intesa

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come ricerca di qualche bene nuovo o lontano, serve quindi a sottolineare la volontà di bene che guida intrinsecamente la ricerca umana della felicità. Non c’è nulla di sbagliato a orientare queste inclinazioni naturali verso il perfezionamento di se stessi, perché è proprio ciò che Dio vuole. Naturalmente possiamo farne usi diversi: uno limitativo e autoconservativo, finalizzato al benessere momentaneo, alla ricerca dei semplici piaceri; l’altro, qualitativamente più elevato, finalizzato ad un obiettivo superiore, al perfezionamento di sé, a quello che Malebranche chiama «amore dell’essere» che si realizza in Dio. A proposito di entusiasmo L’amore di sé non è dunque qualcosa di immorale? Dipende da come viene affrontato e discusso. Di questo problema si occupa Anthony Ashley Cooper, terzo conte di Shaftesbury. Autore di numerosi saggi, pubblica nel 1709 i Moralisti, che suscita in Leibniz una profonda impressione, sia per la piacevolezza del testo, sia per la consonanza delle idee. Shaftesbury parte dall’analisi dell’amore di sé per spiegare che non si tratta di semplice edonismo o egoismo, ma di desiderio di perfezione, di entusiasmo per il meglio. L’uomo si iscrive all’interno di una cornice assai più vasta che è quella dell’universo perfetto; se guarda a se stesso, esaurendo quest’attività nel suo orizzonte chiuso, avrà una percezione delle cose parziale ed effimera, nonché imperfetta. Se guarda a sé rapportandosi con l’infinitezza dell’universo, di cui è parte, allora potrà capire la meravigliosa perfezione della natura: perciò «appare naturale che l’anima particolare cerchi la propria felicità in conformità con quella universale, e si sforzi di rassomigliarle nella sua estrema semplicità ed eccellenza»32. Shaftesbury compie così un ulteriore passo in avanti. Riesce a togliere il discorso sulla felicità dall’ambito dell’edonismo e a collocarlo definitivamente su un piano differente, che è quello di un sistema morale per l’uomo, in cui sono presenti sia l’amore di sé, sia la tensione verso la felicità altrui, come due facce di

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una stessa medaglia. Nel Saggio sulla virtù, che circola manoscritto e viene pubblicato senza il suo permesso in Olanda nel 1699 da John Toland, scrive infatti che l’uomo è per natura socievole, buono, mansueto, portato a distinguere tra il giusto e l’ingiusto e a trovare un equilibrio armonioso tra l’inclinazione al bene proprio e quella al bene pubblico. Questo «senso naturale del giusto e dell’ingiusto» è quello che si chiama «senso morale», cioè un criterio per orientare le azioni senza bisogno di ricorrere a sanzioni divine che correggano l’agire umano33. Come spiegare allora il desiderio del piacere che accompagna ogni uomo? Anche qui viene in soccorso il naturale istinto alla socievolezza. Tutti, infatti, anche le persone maggiormente egoiste, desiderano condividere i propri beni con qualcuno e ne traggono piacere. Se provassimo a fare una contabilità di quanto ci giunge attraverso i piaceri e quanto invece dalla stima degli altri, ci accorgeremmo che l’insieme compone quasi i nove decimi della nostra felicità. In conclusione, tutti gli uomini sono animati dal desiderio «entusiasta» di vivere in armonia con l’universo; la felicità e il bene del singolo sono benefici anche per l’umanità intera, diventando a propria volta fonte di felicità. La naturale propensione a vivere in società produce una forza espansiva e una forma di felicità che si espande per cerchi concentrici, come un sasso lanciato in uno stagno, attraverso i vari ambiti della socialità entro i quali l’uomo cresce: la famiglia, la comunità, la patria e l’umanità. Un’applicazione di questa teoria è espressa da Shaftesbury nella Lettera sull’entusiasmo, pubblicata nel 1708 e subito oggetto di un vivace dibattito cui partecipano Jean Le Clerc, Leibniz e poi molti altri. L’entusiasmo è inteso letteralmente come un sentimento intenso di esaltazione, che si esprime, nella realtà della sua epoca, soprattutto in forma di fanatismo religioso. Contro questa tendenza e ogni forma di religiosità irrazionale, contro la superstizione mascherata da religione e propagandata dai nuovi profeti, egli propone un entusiasmo «ragionevole», che utilizza l’ironia per evitare che si finisca verso un’irrazionale perdita del senso del limite. Per i contemporanei il riferimento è chiaro: gli entusiasti, nel senso proprio del termine, sono i

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fanatici che pretendono di essere direttamente ispirati da Dio. Più in generale, sono tutti coloro che nell’Inghilterra della seconda metà del Seicento combinano forme di millenarismo popolare con toni profetici, e vedono nel colpo di Stato di Guglielmo d’Orange del 1688 l’avvio della distruzione dell’Anticristo, identificato talora nel deposto re Stuart e talora nel re di Francia. Si comprende quindi perché vengano visti con diffidenza dallo stesso clero anglicano, che considera gli «entusiasti sfrenati» come fonte di sovversione, come una minaccia per il governo civile e religioso. Preferiscono ammettere, piuttosto, un’ideologia come il newtonianesimo: le spiegazioni logico-empiriche dell’universo, che Newton aveva contrapposto alle ipotesi arbitrarie, diventano un modello di conoscenza che viene esteso, più o meno arbitrariamente, alla vita etica e politica, per offrire una nuova visione del mondo e della società caratterizzata da stabilità e ordine34. L’intera opera di Shaftesbury appare quindi come un inno alla libertà religiosa e civile, contro ogni forma di fanatismo. Questa libertà richiede che l’entusiasmo venga depurato da ogni elemento perturbatore, come può essere ad esempio la malinconia, troppo spesso alimentata artificialmente dalla religione: v’è sempre la malinconia ad accompagnare l’entusiasmo. Si tratti d’amore o di religione – in entrambi alberga l’entusiasmo – nulla può porre freno al dilagare del male che recano, se non si allontana la malinconia e lo spirito non ritrova la libertà di ascoltare quanto può dirsi sul ridicolo che accompagna ogni eccesso, in qualunque senso. Fu già saggezza di paesi prudenti lasciare che la gente fosse pazza a volontà, senza punire seriamente ciò che meritava soltanto un sorriso.

E infatti è il modo melanconico di trattare la religione quello che, secondo la mia opinione, la rende così tragica e fa sì che nel mondo ne nascano così atroci tragedie [...] Il modo melanconico in cui la religione ci è stata insegnata, ci rende incapaci di pensare ad essa con spirito sereno. Noi ricorriamo alla fede soprattutto nella sventura, nelle malattie, nel dolore, quando la mente è turbata e l’animo è commosso. E mai noi siamo così

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inadatti a pensare ad essa, come in quei momenti gravi e oscuri. Noi non saremo mai in condizione di contemplare ciò che è sopra di noi, finché non saremo in grado di guardare dentro di noi e di esaminare con calma la natura della nostra mente e delle nostre passioni. Altrimenti noi vedremo nella divinità sdegno, furie, vendetta e terrore, avendo nell’animo nostro turbamenti e paure; avendo perduto, nel dolore e nell’ansia, gran parte della calma e dell’equilibrio propri del nostro carattere35.

Shaftesbury utilizza così la teoria della felicità per curare l’inquietudine di fine Seicento e per frenare il ritorno al fanatismo religioso. L’uomo moderno non deve più vivere angosciosamente il problema della salvezza dell’anima, ma concentrarsi su ciò che realmente lo differenzia dagli antichi: il fatto cioè di non vivere più in uno stato di quiete e stabilità, ma di essere messo continuamente alla prova in un mondo che cambia, con sempre maggiore velocità.

La salute dell’anima Cento anni visse Bernard de Fontenelle (1657-1757), scienziato e accademico francese, ammiratore di Cartesio e dell’epicureismo, protagonista della celebre querelle sugli antichi e i moderni, il dibattito sorto all’interno dell’Académie française tra quanti sostenevano una visione dell’arte come imitazione degli antichi e quanti invece affermavano che i classici non erano insuperabili e anche gli autori moderni erano capaci di trovare nuove forme artistiche36. Fontenelle anticipa alcuni temi ripresi poi appena alla metà del Settecento, pubblicando dapprima, nel 1683, i Dialoghi sui morti e poi un Trattato sulla libertà dell’anima (1700), in cui propone una filosofia della natura fondata sulla constatazione che l’uomo non può essere mai completamente padrone della propria vita e non è libero di essere altro che ciò che è. Quindi «la felicità è come la salute», e l’unica cosa che possiamo fare è usare la ragione per evitare di concepire una felicità puramente immaginaria.

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Intorno al 1690 ha scritto anche un breve trattato Sulla felicità, pubblicato solo nel 1724 e divenuto poi la base per una celebre voce dell’Enciclopedia. L’esordio è illuminante: «ecco una materia interessante, di cui tutto il mondo parla, che i filosofi, soprattutto antichi, hanno trattato diffusamente ma che in fondo è trascurata». E segue una definizione: «intendo qui per felicità una condizione, una situazione di cui si desidera la durata senza cambiamenti: e in questo la felicità è differente dal piacere, che non è altro che un sentimento piacevole, ma breve e passeggero, che non potrà mai essere una condizione duratura, a differenza del dolore che può avere invece il privilegio di esserlo». È sbagliato quindi misurare la felicità attraverso i piaceri, perché ci troveremmo dinanzi a situazioni molto diverse tra loro. Vi sono alcuni che beneficiano di pochi piaceri, e quindi li avvertono più intensamente, e vi sono quelli che invece ne vivono molti senza sentirli interamente. È dunque felice solo l’uomo che riesce a fissare una propria condizione di stabilità, e che si comporta in modo da conservare questo stato senza uscirne. Il problema è che non sempre gli uomini sanno agire in questo senso; «incapaci di discernere e di scegliere, spinti da una cieca impetuosità, attirati da oggetti che non vedono se non attraverso mille nubi, trascinati gli uni dagli altri senza sapere dove vanno, gli uomini formano una moltitudine confusa e tumultuosa, che sembra non aver altro disegno se non quello di agitarsi senza fine [...]. Sono completamente in balia della sorte». Il punto è che la felicità dipende in gran parte da cause esterne all’uomo, secondo un’idea cara allo stoicismo e a Seneca37. C’è solo una piccola parte di felicità che deriva da noi stessi e dall’uso del nostro intelletto. Bisogna quindi consentirle di entrare nell’anima, facendo piazza pulita dei mali immaginari, del corpo e dello spirito, e delle circostanze altrettanto immaginarie che sembrano aggravarli. Quali? Ad esempio il convincimento che l’uomo è inconsolabile, che alla vanità debba essere sostituita l’afflizione, che solo dal dolore sia possibile trarre la gloria. E soprattutto bisogna liberarsi dall’idea di attendersi sempre una felicità maggiore; siamo abituati a ricevere con indifferenza

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i beni assegnati dalla natura e dalla sorte, quasi fossero dovuti. E consideriamo invece i mali come un’ingiustizia, che sopportiamo con fastidio. Ma il principio, spiega Fontenelle, deve essere rovesciato: i mali sono l’ordinario, e dobbiamo riconoscerli come un effetto naturale, mentre il bene è assai raro e dobbiamo considerarlo un’eccezione gradita, in nostro favore, della regola generale. Ed ecco allora la conclusione: «il segreto più grande della felicità è di vivere bene con se stessi»; questa è la qualità dell’uomo virtuoso, che viene collocato dalla sorte in una condizione di mediocrità e stabilità, senza la quale la felicità e la virtù sarebbero continuamente precarie. I piaceri dell’immaginazione Il discorso sulla felicità intercetta sempre più spesso, come si vede, la dimensione morale, che tuttavia è mutevole perché corrisponde a costumi via via nuovi. Felicità e morale, quindi, non sono più idee legate ad una dimensione etica, filosofica e religiosa immutabile, ma vengono rapportate a dinamiche economiche e sociali inedite, che costringono a punti di osservazioni differenti. Tracce di questa consapevolezza si possono ritrovare persino negli interventi dei predicatori, come rivelano le parole del gesuita Louis Bourdaloue, che dai pulpiti di Parigi tiene sermoni accorati recitandoli, secondo quanto si racconta, con grande teatralità e ad occhi chiusi: «io dico che l’acquisto delle ricchezze, nella pratica del mondo, è comunemente un’occasione di ingiustizia o, se volete, che il desiderio di acquistare ricchezze, quando non è regolato dallo spirito cristiano, è una disposizione prossima all’ingiustizia [...] dico che il cattivo uso delle ricchezze alimenta nell’animo l’amore del piacere e fomenta la concupiscenza della carne»38. Le parole sembrano antiche, adatte al tono classico dei trattati di morale cristiana: in realtà possiamo notare che in luogo di espressioni come «possesso di beni» e «proprietà» si comincia a insistere sempre più spesso sulla parola «ricchezza», che proprio nel caso di Bourdaloue ricorre

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continuamente. È un segnale del cambiamento in atto: il tema dei piaceri e della loro moralità comincia ad essere calato più direttamente nel contesto economico-politico e commerciale di primo Settecento. La riflessione sulla felicità non serve più a giudicare una condizione intima dell’uomo, ma a misurarsi con un mondo governato sempre più spesso da interessi economici. Riflessioni non dissimili si ritrovano in un autore come Fénelon, educatore dal 1689 dei nipoti di Luigi XIV, che in più occasioni si lamenta del mancato contenimento del lusso, in quanto finisce «per arricchire i mercanti [...]. Si corrompono con questo lusso i costumi di tutta la nazione». Nel 1699, pubblicando Le avventure di Telemaco, descrive gli effetti della sproporzione fra le ricchezze, riprendendo una metafora molto simile a quella utilizzata quarant’anni prima, sotto il profilo politico, da Hobbes per raffigurare il Leviatano: «Una grande città affollata di artigiani occupati a rammollire i costumi con le delizie della vita, mentre è circondata da un reame povero e mal coltivato, rassomiglia a un mostro la cui testa è di una grandezza enorme, e il cui corpo estenuato e privo di nutrimento non è per niente proporzionato a questa testa»39. L’attenzione per la ricchezza e per il lusso serve a riorientare il problema del rapporto tra morale e felicità. Da questo momento in poi il dibattito sulla felicità comincia a diventare un segnale del tentativo di emancipazione dell’uomo, soprattutto dal punto di vista economico, rispetto ad una società nella quale il talento e il merito occupano ancora troppo poco spazio. Il paese dove più si discute di questi temi è, ancora una volta, l’Inghilterra, e per una ragione molto semplice: Londra, con Parigi, è una delle poche metropoli europee, dove la ricchezza tende a concentrarsi sempre più, dove il lusso diventa visibile attraverso la moda, l’arte e la la musica, grazie allo straordinario afflusso di artisti e scienziati, all’attività dei teatri, allo sviluppo dei commerci. Fioriscono dibattiti sul gusto, inteso come una particolare forma di relazione tra l’arte e chi ne gode, espressa non attraverso avidità e desiderio ma attraverso il sentimento e le emozioni. Il vescovo Berkeley pubblica nel 1713 sul «Guardian» una

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serie di articoli in cui ridefinisce il rapporto tra piaceri, natura e ragione, spiegando: tra i piaceri naturali comprendo quelli che soddisfano completamente sia la parte razionale che quella sensuale della nostra natura. E tra i piaceri che toccano i nostri sensi, sono da stimarsi naturali solo quelli che rientrano tra i dettami della ragione, la quale è riconosciuta come un ingrediente della natura umana altrettanto necessario dei sensi. E, in verità, qualunque tipo di eccesso non può senz’altro venire considerato un piacere, tanto meno un piacere naturale.

Venendo poi alla ricchezza, è evidente che un desiderio che ha come oggetto il denaro attiene alla sfera della fantasia; così sono il desiderio di distinzione esteriore, che non delizia i sensi né ci rende utili per il genere umano; e il desiderio di qualcosa semplicemente perché è nuovo o straniero. Gli uomini che sono incapaci di un debito esercizio delle loro qualità superiori sono spinti a occupazioni come queste da un’inquietudine della mente e dal fatto che gli appetiti dei sensi vengono facilmente soddisfatti40.

Il lessico ci è gia noto, ma il linguaggio è nuovo e sta diventando quello di una moderna società dei consumi. A diffonderlo ci pensa un periodico di straordinario successo, lo «Spectator» di Joseph Addison e Richard Steele, pubblicato in 635 fascicoli tra il 1711 ed il 1714 ad un prezzo estremamente economico (un penny). Giunge a tirare tremila copie e poi viene continuamente ristampato per tutto il corso del secolo, diventando una delle letture preferite da un pubblico, non soltanto inglese, che si allarga sempre di più. Benjamin Franklin lo utilizzerà come modello di bella prosa e Voltaire per migliorare la sua conoscenza dell’inglese. Nelle pagine dello «Spectator» si svolgono ampie discussioni sugli argomenti più attuali. Ad esempio sul tema della gentilezza (politeness), che viene ad affiancare quello della benevolenza e che è considerata una qualità fondamentale per intrattenere relazioni, per capire se stessi e la propria posizione nel mondo. Secondo le definizioni allora correnti, la gentilezza è un

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sistema di condotta che consente di affrontare la vita moderna in società e implica quindi necessariamente l’uscita dell’uomo dall’isolamento, la fine dell’egoismo e il piacere di stare in compagnia. Proprio nello «Spectator» si spiega anche la differenza tra vera e falsa felicità. La vera felicità è quella di chi rifugge le cerimonie e gli onori, preferendo l’amicizia e la conversazione di un gruppo scelto di amici. Mentre invece la falsa felicità è quella di coloro che ritengono di avere gli occhi del mondo su di sé e attendono soddisfazione dagli applausi delle corti, dei teatri e delle assemblee politiche, senza prendersi cura della propria esistenza41. Quando Richard Steele si rivolge ai propri lettori, chiedendo contributi per il giornale, li considera proprio un’ideale compagnia di amici spinti da sentimenti di felicità, formata cioè da «tutti i tipi di persone, studiosi, cittadini, cortigiani, gentiluomini di città o di campagna, e a tutti i cicisbei, i libertini, gli spiritosi, i moralisti, le oche, le casalinghe, a tutte le specie di persone argute, uomini e donne, di qualunque distinzione sociale». Tutti sono in grado di coltivare i «piaceri dell’immaginazione», soprattutto le persone che si sono emancipate economicamente e che non devono dipendere dagli altri: un uomo di immaginazione raffinata ha accesso a moltissimi piaceri che le persone ordinarie non sono in grado di provare. Può conversare con un dipinto e godere della compagnia di una statua. Trova segreto ristoro in una descrizione e spesso prova più soddisfazione alla vista di campi e prati di quanta altri ne provino al loro possesso. Gli dà, in verità, una specie di proprietà su tutto ciò che vede, e fa sì che i lati più rozzi e incolti della natura siano d’aiuto ai suoi piaceri: cosicché egli guarda il mondo, per così dire, sotto un’altra luce e vi scopre un gran numero di attrazioni che la maggioranza degli uomini non percepisce42.

Parole che vedranno d’accordo cinquant’anni più tardi anche il giovane Cesare Beccaria, autore per il periodico «Il Caffè» di un articolo pure intitolato I piaceri dell’immaginazione, con evidenti riprese dalla cultura britannica43.

VI LA FAVOLA DELLE API Il 16 luglio 1687 il pittore scozzese Thomas Penson, da poco sbarcato a Rotterdam, assiste accompagnato da un interprete ad un sermone lungo un’ora e mezza nella basilica di Sint Laurent, la chiesa principale della città; al termine della funzione, quando i fedeli ormai si sono allontanati, si trattiene a osservare le pietre tombali collocate sul pavimento e nota con sorpresa che, nella maggior parte dei casi, non ricordano membri della nobiltà, ma recitano piuttosto: «qui giace B. W., mercante etc.», oppure «qui riposa Adrian... capitano marittimo etc.», e sono ornate non da armi o simboli nobiliari ma da sculture di navi, da insegne del mestiere e delle arti1. Nella città di Erasmo Lo stupore di Penson, frammisto alla diffidenza per una lingua che non conosce, è una reazione molto diffusa in quell’epoca dinanzi alla società olandese. Vari anni prima l’inglese Fynes Morison, commentando nel corso del suo viaggio il carattere degli abitanti delle Province Unite, aveva già notato che «sono diventati così eccessivamente ricchi e potenti con la loro industria e l’arte nel commercio da rappresentare un insulto e si credono ormai arbitri dei sovrani e dei paesi loro vicini»2. La rivalità anglo-olandese, conseguenza di una secolare lotta delle Province Unite per l’indipendenza economica e politica sullo scacchiere europeo, ha favorito la gelosia degli inglesi per que-

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sto popolo industrioso, ribadita in un famoso discorso dal primo Lord Shaftesbury (il nonno dell’autore già altre volte ricordato), che in Parlamento aveva consigliato di distruggere l’Olanda riprendendo l’antico invito delenda est Carthago e suscitando profonda impressione e indignazione anche a distanza di molti anni3. Ciò nonostante, l’atteggiamento degli inglesi nasconde anche una certa ammirazione. Gli olandesi sono visti come un popolo allegro e sorridente, e il loro paese come quello felice per definizione; e loro stessi fanno di tutto per propagandare quest’immagine. Alla metà del Seicento Aernout van Overbeke, la cui famiglia vanta un’amicizia con Grozio, raccoglie un’incredibile quantità di storielle, facezie e barzellette nei suoi Aneddoti, ossia storie giocose4. E non è il solo: tutta la cultura del «secolo d’oro» adotta l’etichetta della felicità, presentando nell’arte e nella letteratura lo stereotipo dell’«olandese sorridente»5. L’arrivo dei viaggiatori a Rotterdam, poi, non è dovuto al caso, e nemmeno solo a interessi commerciali. «Questa è la città del famoso Erasmo», esclama Lord William Fitzwilliam il 28 giugno 1663, senza aver ancora veduto né il porto, né la Borsa. Proprio la memoria di Erasmo, raffigurato al centro della piazza del mercato da una grande statua tuttora esistente, capolavoro di Hendrick De Keyser (1622) – che ce lo presenta con un lungo abito nero, il cappello mitrato e intento a leggere un libro – contribuisce a rendere Rotterdam una piccola Atene. La città, agli occhi del viaggiatore di fine Seicento e di primo Settecento, rappresenta il punto di incontro tra filosofia e commercio, saggezza e virtù, dove emergono e si ricompongono le contraddizioni della modernità. Un amalgama assai più evidente rispetto ad Amsterdam, che è sì la città di Spinoza, ma anche quella che lo ha allontanato costringendolo a un lungo vagare nel resto del paese. Rotterdam attira il viaggiatore anche perché è una «bibliopoli», una città di libri e di stampatori, che ormai supera in produzione persino Venezia. Qui hanno trovato asilo gli ugonotti, i calvinisti francesi allontanati dopo la revoca dell’editto di Nantes (1685). Qui ora vive «il filosofo di Rotterdam», cioè Pierre

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Bayle, fuggito anche lui dalla Francia ed entrato in rapporti di amicizia, proprio sulle rive della Mosa, con il quacchero Benjamin Furly, un altro esule che ospiterà in casa sua per un anno Shaftesbury e che lo porrà in contatto con Locke. La «scuola erasmiana», in questa particolare città, si fonde con una società nuova basata sulla tolleranza religiosa e sullo sviluppo dei commerci, e diventa così la palestra per la generazione di pensatori che si affaccia al XVIII secolo6. Bayle dà subito scandalo, attirando su di sé l’ira e il rimprovero di Leibniz, con la pubblicazione proprio a Rotterdam nel 1697 del Dizionario storico-critico. Lì introduce due voci, Manichei e Pauliciani, nelle quali cerca di superare l’antico dibattito su piacere e dolore, affermando provocatoriamente la positività del male e la sua presenza fisica, morale e ineliminabile nel mondo: «Poiché se nulla avviene senza una causa e se ciò che è buono non può mai essere causa di qualche male, allora è necessario che nella natura ci sia un principio e una causa del male, allo stesso modo che ce n’è una per il bene»7. Contro la Scolastica medievale, ma criticando anche Spinoza, Bayle assume una posizione netta: contesta l’affermazione secondo cui appartiene all’infinita bontà divina permettere che ci siano dei mali e di farne derivare dei beni8, perché non esime Dio da ogni responsabilità. Permettere significa infatti rendere possibile l’esistenza di qualcosa che Dio stesso, nel suo immenso potere, potrebbe negare e, stando così le cose, se non lo fa o è malvagio lui stesso o è assolutamente impotente dinanzi al male9. Perché preoccuparsi del male, se l’obiettivo deve essere quello di tracciare un cammino di felicità dell’uomo? La spiegazione è in realtà molto semplice: l’uomo moderno diventa libero, o almeno scopre come può diventarlo, affrancandosi dai condizionamenti religiosi e sociali, e si accorge anche che questa sfera di libertà comprende la possibilità di realizzare il male, un male che ora non può più imputare esclusivamente a Dio. Se consideriamo poi che la sua libertà di azione aumenta in relazione allo sviluppo economico, alla possibilità di agire sempre più liberamente nel mercato, disancorandosi dagli antichi legami e dai punti di riferimento tradizionali, possiamo compren-

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dere come tutto ciò possa diventare un motivo di disorientamento e di angoscia. Tale concetto è spiegato diffusamente da un altro olandese, contemporaneo di Spinoza e ispiratore di Bayle, cioè Lambert van Velthuysen, un autore molto apprezzato dalla cultura del primo Settecento perché è il primo a formulare – contro Hobbes – una teoria della libertà che mostra come si possano contemperare gli interessi individuali con quelli della società, secondo un ordine che nasce essenzialmente dalle necessità del mercato economico. Esiste infatti un diritto naturale dell’uomo al possesso, un diritto su ogni cosa, in perfetta sintonia con l’ordine morale, con la tendenza all’autoconservazione e con il benessere collettivo. L’unico limite è che questo diritto al possesso non deve avere per oggetto il prossimo. La libertà e l’agire in libertà dell’uomo devono rispettare il principio del neminem laedere, cioè non devono estendersi al punto di provocare il male o un danno ai propri simili. Se lo Stato riesce a svolgere un ruolo di garanzia, promuovendo le aspirazioni dei singoli cittadini ma rimanendo vincolato al loro giudizio, l’uomo potrà essere condotto verso una vita felice10. Le api e l’alveare In un dibattito che è stato prevalentemente etico e politico, irrompe alla fine del nuovo secolo un vero e proprio outsider della cultura, che è medico e scrive sulle api: Bernard de Mandeville, nato a Dordrecht e formatosi poi a Leida. Perché le api? Tutta l’età moderna è affascinata da questi piccoli insetti e dallo studio della loro organizzazione sociale: «Io l’ho vedute a’ miei dì mille volte / su le spoglie di rose e di viole / (di cui zeffiro spesso il rivo infiora) / affisse bere, e solcar l’acqua intanto / l’ondanti foglie: che ti par di vedere / nocchieri andar sopra barchette in mare». Così recitano gli endecasillabi di Giovanni Rucellai, nunzio in Francia e protonotario apostolico, autore nel 1524 di Del sito che conviene alle api, ispirato al quarto libro delle Georgiche di Virgilio. Il poema è tra i primi

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testi moderni a descrivere dettagliatamente la morfologia esterna delle api e la loro organizzazione comunitaria, secondo una moda inaugurata undici anni prima dallo spagnolo Gabriele Alonso de Herrera, che ha dedicato loro un intero libro della sua opera sull’agricoltura. In Slesia Jacob Nickel pubblica nel 1568 un saggio sull’apicoltura destinato a rimanere per lungo tempo un punto di riferimento in materia. Galileo Galilei dona nel 1624 un microscopio al principe Federico Cesi, fondatore dell’Accademia dei Lincei, che lo usa per esaminare le api, raffigurandole su un disegno che dona al papa; poi lo stesso principe inizia a raccogliere i suoi disegni e le sue osservazioni per farne un testo, intitolato Apiarium (1625), che ancora oggi è conservato a palazzo Corsini. Più o meno negli stessi anni il rodigino Giovanni Bonifacio, come già ricordato in precedenza, scrive La repubblica delle api e Bernardino Mariscotti, chiamato «il Notturno» nell’Accademia bolognese dei Gelati e già noto per opere teatrali come La selva dei mirti e La montagna fulminata, pubblica Le api riverite. Azione drammatica11. In effetti, lo studio delle api non ha soltanto uno scopo naturalistico, ma presenta anche risvolti politici, come si può leggere già in Aristotele. Nella Politica aveva paragonato gli uomini alle api, spiegando che l’uomo è un animale sociale perché avverte una naturale pulsione a vivere aggregato con i propri simili, realizzando tipi di comunità sempre più allargate che confluiscono infine nella polis, cioè nell’organizzazione cittadina politicamente più perfetta: non, quindi, una semplice somma dei singoli individui tenuti insieme in modo ordinato, ma una piena realizzazione dell’istinto aggregativo della specie, che consente così una vita felice12. Aristotele aveva però notato un’altra cosa: anche le api sentono la medesima pulsione aggregativa verso forme di comunità complesse e organizzate, come l’alveare, in cui ciascun membro svolge una funzione che assolve ad uno scopo comune. E, come gli uomini, anche le api e in generale tutti gli animali sono in grado di distinguere il piacere dal dolore e riescono a comunicare tra loro. Che cosa differenzia quindi gli uomini dalle api? La risposta, per il filosofo greco, sta nella specificità dell’uomo che consiste nel logos, cioè nella facoltà ti-

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picamente umana di poter spiegare, ragionare e argomentare: la natura ne ha dotato l’uomo, e lui solo, affinché potesse esprimere l’utile e il dannoso, il giusto e l’ingiusto, il bene e il male, formulando quindi un criterio di valutazione rispetto a un concetto morale che è il senso della giustizia intrinseco alla comunità politica13. Si tratta di un tema che conosce larghissima fortuna per tutto il corso dell’età moderna, tanto che ancora nel 1740 Jean-Baptiste Simon, pubblicando Il governo ammirevole, ovvero la repubblica delle api, scrive che gli uomini potrebbero essere effettivamente come le api, se regnassero tra di loro un’amicizia reciproca e fraterna, una stretta unione, un’intelligenza armoniosa quale si può ammirare nelle api e che rende loro la vita felice; e solo se deponessero l’ambizione per il vile interesse, l’amor proprio, la presunzione, la vanità e il desiderio smisurato e insopportabile, e si applicassero esclusivamente a soccorrersi reciprocamente nelle pene e nelle afflizioni e a sopportarsi gli uni e gli altri con carità14.

Quattro anni dopo, nella sua Storia naturale delle api, Gilles-Augustin Bazin spiega nuovamente che quella delle api «è la vita di un popolo industrioso, laborioso, infaticabile, strettamente obbediente alle sue leggi, lungimirante ed economo, la cui passione dominante è la prosperità e il bene della famiglia»15.

Melanconia e disturbi nervosi Nella vita quotidiana Mandeville non si occupa di api ma svolge la professione di medico. Proviene da un’importante famiglia di politici e medici e si laurea nel 1691 a Leida, frequentando la grande scuola di medicina nella quale si forma anche il celebre Herman Boerhaave16. Sin da giovane si distingue per un approccio innovativo alla clinica moderna, richiamandosi al magistero del dalmata Giorgio Baglivi, professore alla Sapienza di

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Roma e membro della Royal Society, il primo a cercare di riportare lo studio dei fenomeni clinici – attraverso la sua Prassi medica – ai princìpi di Ippocrate contro il metodo cartesiano17. Poco dopo la laurea Mandeville si trasferisce definitivamente a Londra. La capitale inglese vive il clima della restaurazione monarchica dopo la «gloriosa rivoluzione», che ha portato sul trono proprio un principe olandese, lo statolder Guglielmo d’Orange con il nome di Guglielmo III; ma è anche una monarchia profondamente rinnovata rispetto a quella assolutista degli Stuart, ed è ormai saldamente ancorata alle garanzie costituzionali fornite dall’accordo fra re e Parlamento attraverso il sistema del governo misto. A Londra Mandeville inizia a specializzarsi nello studio e nella cura delle malattie nervose e dei disturbi allo stomaco, per pubblicare più tardi, nel 1711, un trattato sui disturbi isterici e ipocondriaci. La scelta è indovinata, perché nel corso del Seicento le malattie nervose diventano nell’area britannica un vero e proprio fenomeno sociale, superando i limiti di un problema solamente medico e trasformandosi in una vera e propria «moda», associata al tema della melanconia e chiamata, proprio per questo, «la malattia inglese». L’argomento coinvolge così non solo medici e scienziati, ma anche teologi, filosofi e moralisti, intrecciandosi con questioni ancora aperte come lo statuto scientifico della medicina e i rapporti tra religione e magia, anima e corpo, ragione e passioni18. L’ipotesi di Mandeville è che queste malattie abbiano una causa organica e dipendano essenzialmente dal cattivo funzionamento dello stomaco; ma, a loro volta, i disturbi dello stomaco dipendono da fattori psicologici, come ad esempio l’eccesso negli studi, o da fattori sociali, come una vita troppo rilassata e priva della preoccupazione per il proprio sostentamento. In altre parole, egli considera le malattie ipocondriache e isteriche come vere e proprie piaghe sociali, tipiche delle persone che non hanno una vita sufficientemente impegnata nei problemi della quotidianità. Nella sua pratica medica e nella sua opera viene esposta anche, per la prima volta, una nuova terapia dei disturbi nervosi, fondata sulla parola e sul rappor-

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to dialogico tra medico e paziente. Mandeville dedica grande attenzione alla personalità del malato, alla quale riserva un’intera sezione del suo lavoro, per sostenere che l’attenzione per la vita e le lamentele del paziente, per le sue ossessioni e fantasie, rimane l’unica vera cura per queste malattie. Ciò non esclude che il malato stesso, una volta responsabilizzato, possa curare da solo la propria ipocondria, esercitando l’uso della ragione «fino a recuperare la salute», soprattutto nelle malattie che riguardano l’immaginazione19. Il riferimento alla dimensione sociale della malattia nervosa assume anche una rilevanza più ampia: l’ipocondria dell’uomo è vista infatti come un equivalente dell’ipocondria politica, cioè della tendenza a lamentarsi senza una vera ragione dei propri governanti e delle condizioni politiche e sociali. In questo processo l’immaginazione, l’errore e l’autoinganno svolgono un ruolo fondamentale, e permettono di capire molte dinamiche sociali. Tutta l’opera di Mandeville si baserà perciò su uno studio della morale profondamente ancorato a basi scientifiche, ad un’anatomia dell’uomo-paziente, che gli permetterà di abbandonare definitivamente qualsiasi spiegazione teologica, come quella basata sull’assenza del libero arbitrio, che ritroviamo nel giansenismo e in Bayle stesso20. Assieme alla medicina, Mandeville ha però anche un’altra passione, di tipo letterario. Fa esordio in questo campo nel 1703, traducendo in inglese le favole di La Fontaine, e prosegue l’anno dopo pubblicando una raccolta di poesie burlesche intitolata Il tifone, ovvero le guerre tra gli dei e i giganti. L’attività si intensifica con gli anni e lo porta a scrivere una serie di dialoghi satirici e a collaborare con la rivista «The Female Tatler», confermando la sua attitudine alla narrativa, alla composizione in versi e alla comunicazione con il pubblico. L’alveare scontento Mandeville è vicino alla cultura whig ed ha certamente presente la delicata situazione internazionale del tempo, caratteriz-

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zata dalla forte rivalità anglo-francese che rischia di indurre gli inglesi al disimpegno dinanzi a strategie commerciali sempre più aggressive21. In questo clima, nel 1705, pubblica la prima parte di quella che diverrà la sua opera più nota, La favola delle api. L’esordio consiste in una favola in versi, relativamente breve, intitolata L’alveare scontento, ovvero i furfanti resi onesti, alla quale solo nelle successive versioni aggiunge note di commento e approfondimenti. L’autore stesso racconta cosa accadde appena dopo la pubblicazione della prima edizione: «fu stampata in un libretto da sei penny intitolato L’alveare scontento, ovvero i furfanti resi onesti, e subito dopo fu ristampata senza permesso, e venduta per le strade in un foglio da mezzo penny. Fin dalla prima pubblicazione di essa, ho incontrato diverse persone che, fraintendendone volontariamente o per ignoranza l’intento, sostenevano che lo scopo di essa fosse una satira della virtù e della moralità, e che fosse interamente scritta per incoraggiare il vizio. Questo mi fece decidere, nel caso fosse ristampata, di informare in qualche modo il lettore circa il vero intento con cui questo piccolo poema fu scritto»22. Perché un alveare dovrebbe essere scontento? Che cosa aveva suscitato tanto scalpore nel pubblico? Dobbiamo provare a rileggere L’alveare scontento cercando di immedesimarci in un abitante di Londra, che l’aveva acquistato su un foglio volante per mezzo penny. La favola racconta di un grande alveare, industrioso, ben governato, ricco, guidato da un re giusto, rispettoso delle leggi costituzionalmente stabilite, nel quale le api si comportano come gli uomini: operose e ingegnose, fanno prosperare l’alveare cercando di soddisfare i desideri propri e le vanità altrui. Alcune, con grandi capitali e poca fatica, fanno affari assai remunerativi, altre invece sono condannate a mestieri duri e faticosi che consentono a malapena di sopravvivere. Altre ancora svolgono attività che non richiedono né apprendistato né capitali, ma solo sfrontatezza, come quella dei ladri, dei truffatori, dei parassiti, dei ciarlatani; questi soggetti sono considerati da tutti dei furfanti, ma alla fine non vengono puniti e rimangono uguali ai seri e agli industriosi, tanto che, alla fine,

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«tutti i commerci e le cariche avevano qualche trucco, nessuna professione era senza inganno». Questo non è soltanto l’atteggiamento più diffuso verso il lavoro, le arti e la chiesa, ma anche verso il governo: «molti che lavoravano per il proprio benessere, derubavano la stessa corona che difendevano: le pensioni erano basse, ma il tenore di vita alto, e tuttavia si vantavano della loro onestà. Ogni volta che distorcevano il diritto, chiamavano il loro espediente ingannevole una gratifica; e quando la gente comprese il loro gergo, cambiarono l’espressione in emolumento, non volendo essere concisi e chiari in nulla che riguardasse il guadagno». Nonostante tutte le ingiustizie e le iniquità, nonostante tutti si lamentino, nulla cambia ma anzi ognuno, tacendo, asseconda questa situazione, maledice gli insuccessi, gli imbrogli e i politici, invocando che venga ristabilita almeno un po’ di onestà: «così ogni parte era piena di vizio, ma il tutto era paradiso». «Questa» – prosegue Mandeville – «era l’arte politica, che reggeva un insieme di cui ogni parte si lamentava. Essa, come l’armonia nella musica, faceva accordare nel complesso le dissonanze. Le parti direttamente opposte si aiutavano a vicenda, come per dispetto»23. Finché, un bel giorno, Giove si indigna, libera l’alveare dalla frode, e l’onestà riempie il cuore delle api: i prezzi tenuti sino ad allora artificiosamente alti iniziano a scendere, i debitori cominciano a pagare spontaneamente, i mestieri vengono esercitati solo dalle api competenti, le spese inutili vengono evitate, i funzionari vivono solo del loro stipendio e senza ruberie. Virtù e parsimonia trasformano l’alveare, che comincia però a perdere la sua gloria: scompare il bell’aspetto, vanno via coloro che spendevano grandi somme, ma anche quelli che sopravvivevano grazie a loro. Crollano i prezzi della terra e delle case, gli artigiani non trovano più lavoro, chi andava all’osteria la evita e così gli osti perdono il lavoro. Quanti si vestivano alla moda scelgono abiti modesti, e i tessitori vanno in fallimento; diminuiscono orgoglio e lusso ma chiudono anche le manifatture. Alla fine solo in pochi restano nell’alveare e costoro non sono in

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grado di resistere agli assalti esterni, finché soccombono e muoiono; le poche api superstiti trovano l’ultimo rifugio nella cavità di un albero e considerano ormai che anche il riposo è vizio, ma sono felici di essere diventate oneste. La favola si conclude con una morale: «smettetela dunque con i lamenti; soltanto gli sciocchi cercano di rendere onesto un grande alveare [...]. Frode, lusso e orgoglio devono vivere finché ne riceviamo i benefici: la fame è una piaga spaventosa, senza dubbio, ma chi digerisce e prospera senza di essa?». E ancora: «il vizio diventa benefico quando è sfrondato e contenuto dalla giustizia [...]. La semplice virtù non può fare vivere le nazioni nello splendore; chi vuole fare tornare l’età dell’oro, deve tenersi pronto per le ghiande come per l’onestà»24. I furfanti resi onesti Per un lettore frettoloso, come poteva essere l’uomo della strada nel primo Settecento, la favola è effettivamente appagante fino al fraintendimento, perché sembra giustificare molte ingiustizie presenti nella società. È più felice un alveare scontento, ma ricco e opulento, o un alveare virtuoso che persegue la via della moderazione e della frugalità? Se consideriamo che l’immagine non è puramente ipotetica, ma costituisce per Mandeville una rappresentazione della società del suo tempo, siamo anche in grado di capire che questo dilemma è diretta conseguenza di una realtà economica in rapidissima trasformazione, come quella inglese a cavallo tra Seicento e Settecento25. Il pensiero di Mandeville segue queste trasformazioni e subisce un’evoluzione, anche in conseguenza delle critiche che gli vengono mosse e che spiegano i rifacimenti della sua opera fino alla versione finale del 1729. Nella versione del 1714 ritroviamo uno studio dell’individuo in società, che viene condotto come se l’autore dovesse esaminare un corpo umano, muovendo dal presupposto che le leggi e la forma di governo sono per la società civile quello che l’anima è per ogni creatura.

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E come coloro che studiano l’anatomia dei cadaveri possono vedere che gli organi più importanti e le molle più delicate, immediatamente necessarie a tenere in movimento la nostra macchina, non sono dure ossa, forti muscoli e nervi, né la pelle bianca e liscia che li ricopre in modo così bello, ma fini e sottili membrane e piccoli canali che l’occhio ineducato non coglie o considera trascurabili; così coloro che esaminano la natura dell’uomo, astraendo dall’arte e dall’educazione, possono osservare che ciò che lo rende un animale socievole non è desiderio di compagnia, buon carattere, pietà, affidabilità e altre grazie di bell’aspetto, ma che le qualità più vili e odiose sono i talenti più necessari per renderlo adatto alle società più grandi e, secondo il mondo, più felici e fiorenti.

Il linguaggio apparentemente semplice, franco e immediato, le metafore del corpo umano, l’uso di parole ed espressioni che tante volte abbiamo ritrovato negli autori dei secoli precedenti, dissimulano una questione importante, che è quella della modernità, rappresentata dal ritmo incalzante delle società mercantili. L’ironia di Mandeville viene rivolta dapprima nei confronti di tutti coloro che teorizzano la virtù e l’uso ipocrita di una morale laica o cristiana, che pretendono di fare appello all’autocontrollo, alla costrizione e alla repressione della natura umana dinanzi a un mondo che offre invece sempre nuovi mezzi per appagare i desideri. Un bersaglio immediato è Shaftesbury, assieme a tutti i moralisti, ma il ragionamento punta ad un obiettivo più importante, che è quello di separare il problema della produzione della ricchezza dal discorso sulla morale ereditata dalla tradizione occidentale. Si tratta di un pensiero da sempre presente a filosofi e teologi: come conciliare la morale con la ricchezza? È meglio continuare a confrontarsi con i canoni della morale classica, fondati su moderazione e prudenza, e quindi giudicare una società ricca e opulenta come immorale, per condannarla alla povertà, all’inerzia e all’infelicità? Oppure è utile puntare sul benessere della società, favorendone lo sviluppo e l’espansione, e quindi immaginare un nuovo tipo di virtù e di morale? Queste riflessioni di Mandeville nascono prima di tutto dall’osservazione dei luoghi in cui è cresciuto e vive, cioè l’Olanda

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e l’Inghilterra. La storia del commercio europeo del secondo Seicento non è solo quella della concorrenza anglo-olandese, ma anche dell’incredibile ascesa delle Province Unite, dove importazioni ed esportazioni salgono vertiginosamente e la bilancia commerciale registra costantemente un saldo attivo, almeno fino al primo decennio del Settecento26. Il confronto tra Inghilterra e Olanda si gioca del resto anche su altri scacchieri, quali la politica, la conformazione del territorio, la religione. L’Inghilterra è estesa e governata da una monarchia, costituzionalmente temperata; l’Olanda ha un territorio piccolo ed è una repubblica, anche se con tendenze principesche, poiché la carica dello statolder, il comandante militare e rappresentante dello Stato, tende a diventare ereditaria all’interno della famiglia d’Orange. Nell’immaginario europeo, però, queste differenze sembrano corrispondere ad una logica ben precisa, legata ad una tradizione più antica secondo cui solo in un paese territorialmente piccolo è possibile realizzare un modello repubblicano tendenzialmente democratico, mentre invece in uno Stato grande sono più forti le spinte verso il sistema monarchico e forme di governo dispotiche27. Per portare esempi a sostegno delle proprie affermazioni, soprattutto nelle note aggiunte alla seconda edizione, Mandeville utilizza proprio i casi inglese e olandese. Così avviene quando spiega quali sono le virtù di una società frugale e felice, che non sia economicamente e psicologicamente depressa, ma colta, civile e aperta al confronto con altri paesi. L’esempio scelto è quello dell’Olanda: «ciò che ha reso questo trascurabile pezzetto di terra così importante fra le grandi potenze d’Europa, è stata la saggezza politica nel posporre ogni cosa al commercio e alla navigazione, la libertà di coscienza illimitata di cui [gli olandesi] godono e l’attenzione costante con cui hanno fatto uso di tutti i mezzi più efficaci per incoraggiare e accrescere il commercio in generale». Un confronto con l’Inghilterra rende evidente ogni differenza, ove si consideri che l’Olanda è un territorio piccolo, senza terra sufficiente per sfamare tutta la popolazione, abituata a vivere con poco e a spendere le scarse risorse per difendersi dai nemici esterni e dalla furia delle acque, innalzando costo-

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si argini, dighe, pompe «e altre cose di cui devono assolutamente fare uso se non vogliono finire affogati». Mandeville ricorda la disastrosa situazione economica delle Province Unite descritta nel 1673 da William Temple28 e ha presenti i grandi progressi compiuti da quell’epoca. Contesta però il fatto che i due casi, quello inglese e quello olandese, possano essere assimilabili dinanzi a tante diversità. Si tratta di due modelli economici e sociali ugualmente virtuosi: «perché [quello olandese] dovrebbe essere un modello ad altri, che oltre ad avere una situazione migliore, sono più ricchi all’interno, e per lo stesso numero di abitanti hanno un territorio dieci volte più esteso? Noi e gli olandesi compriamo e vendiamo sugli stessi mercati e a questo riguardo possiamo dire che i nostri punti di vista siano gli stessi; ma per il resto, gli interessi e le ragioni politiche fra le due nazioni riguardo alla loro economia privata sono molto diversi. Il loro interesse è di essere frugali e di spendere poco [...], il nostro interesse è di mangiare molto per sostenere l’agricoltore e per migliorare la nostra terra»29. L’autore ci ha portato così al cuore del problema che intende sviscerare: che cosa hanno in comune queste società mercantili? Quali sono i meccanismi che ne consentono un funzionamento virtuoso? E quali gli strumenti per rendere felici le rispettive popolazioni? Contro politici e impostori Mandeville tenta di sciogliere questi interrogativi proprio nella seconda edizione della favola, che è in realtà un vero e proprio rifacimento, alla quale viene dato il titolo divenuto poi definitivo: La favola delle api, ovvero vizi privati, pubblici benefici (1714). Rispetto a nove anni prima, l’opera cambia sensibilmente fisionomia: contiene, di seguito al poema, un saggio intitolato Ricerca sull’origine della morale e poi, in chiusura, una serie di lunghe Note, che servono a chiarire i passi più controversi del poema. È evidente che l’autore sta mettendo a fuoco il nucleo centrale della sua tesi: ciò che deve guidare il comporta-

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mento virtuoso delle api nell’alveare, come dell’uomo in società, non è un insieme di regole predeterminate dalla morale, dalla religione o dalla politica e quindi immodificabili, ma deve essere un criterio ispirato dall’etica della competizione, dalle esigenze di una società non più immobile, ma industriosa e commercialmente attiva. Occorre rifondare quindi la virtù morale. Mandeville prova a spiegare meglio il suo ragionamento. L’uomo è stato condotto dalla Provvidenza sulla via della felicità terrena, indipendentemente dalle sue debolezze e dai suoi difetti, senza che gli sia chiesto di possedere una virtù innata, di controllare se stesso, o di essere razionalmente buono e altruista: «anche l’uomo più umile deve riconoscere che la ricompensa di un’azione virtuosa, che è la soddisfazione che segue ad essa, consiste in un certo piacere che si procura contemplando il proprio valore»30. Il problema del conflitto tra interesse egoistico e altruismo (o benevolenza, o carità, secondo il lessico adottato dai vari autori) è quindi fondamentalmente falso, o comunque mal posto. Qui viene messo a nudo l’errore dei filosofi, dimostrando che la storia della morale è essenzialmente una storia dell’impostura, cioè un’invenzione della religione e della politica, che hanno piegato le passioni naturali dell’uomo allo scopo esclusivo di consentire a pochi eletti, sacerdoti e politici appunto, di esercitare un dominio sulla società ordinata. I legislatori sono riusciti a convincere gli uomini, al solo scopo di istituire e di controllare la società, che potevano trarre il maggiore beneficio vincendo i desideri e servendo l’interesse pubblico, senza nemmeno prospettare loro l’ipotesi che questo stesso obiettivo potesse essere raggiunto soddisfacendo invece i propri desideri e assecondando i propri interessi. Per convincere gli uomini che questa fosse la strada giusta, i politici e i sacerdoti hanno inventato un premio immaginario, puramente ideale, e cioè i concetti di onore e di infamia, presentati come il massimo bene e il massimo male, divenuti criteri-guida nei comportamenti e base per una morale che doveva servire a distinguere il giusto dall’ingiusto: «i primi elementi della moralità, introdotti da abili politici per rendere gli uomini utili gli uni agli altri e docili, furono inventati soprattutto affinché

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l’ambizioso potesse ricavarne il maggiore beneficio e governare grandi numeri di uomini con la maggiore facilità e sicurezza»31. L’uomo moderno ha quindi ereditato una falsa rappresentazione della morale ed è stato indotto a ritenere che il giusto e l’ingiusto debbano essere determinati da agenti esterni e non dall’interesse proprio, sottomettendosi all’approvazione o a un giudizio sociale di condanna orientata ad arte dai politici. È rimasto prigioniero delle convenzioni, del giudizio degli altri, dimenticando quanto suggeriva la saggezza antica, che invitava a non curarsene attraverso l’adagio popolare: «A pochi caro / a molti incognito / a nessuno odioso»32. Solo apparentemente l’individuo esercita il controllo sulle proprie passioni e il dominio su di sé in vista del perseguimento del bene comune, ma in realtà non è mai libero e non riesce ad esprimere la propria natura e le proprie capacità. Finché viveva in un contesto protetto, come era quello della società immobile del Medioevo e della prima età moderna, forse non se ne rendeva conto. Ora invece si ritrova in una società mercantile, dinamica e in movimento, nella quale non riesce ad esprimere la propria forza espansiva e quindi aumentano le contraddizioni, il senso di impotenza e di frustrazione, la consapevolezza di essere prigioniero delle convenzioni e l’infelicità. Liberato dalla falsa idea della morale, l’uomo può accorgersi che proprio gli elementi ritenuti cattivi e odiosi, come l’amore di sé e l’egoismo, possono spingerlo verso la socializzazione; e sono proprio i desideri, la vanità e l’orgoglio a permettergli di migliorare la propria condizione, di superare ogni ostacolo e di fornirsi di mezzi come i mestieri, le arti, le tecniche di governo e le leggi necessari ad affrontare questo progresso continuo. È quindi la predilezione di se stesso (self-liking, una parola chiave che ricorre in tutta l’opera) il motore dell’agire individuale e di tutti i meccanismi sociali, e produce spirito di emulazione, senso di soddisfazione e appagamento nella persona33. Questa predilezione di se stesso è tipica dell’uomo (non la si ritrova, secondo Mandeville, negli animali) e di un sistema sociale complesso ed evoluto, perché dipende in gran parte dalla gratificazione che gli giunge dalla società stessa, al punto che –

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quando questa viene a cessare – può spingerlo al suicidio. Come ogni passione, serve quindi ad aumentare o a diminuire il grado di felicità. «Persino l’invidia e la vanità servono all’industria», troviamo scritto nell’Alveare scontento, intendendo per invidia – come è spiegato nelle Note – «quel tratto ignobile della nostra natura che ci fa soffrire e languire a causa di ciò che consideriamo una felicità per gli altri»; «un composto di dolore e d’ira», inseparabile dalla natura umana, che spinge però a migliorare se stessi e a voler superare gli altri: «in che modo strano ci governano le nostre passioni! Invidiamo un uomo perché è ricco, e lo odiamo. Ma se diveniamo suoi uguali, ci calmiamo, e alla sua minima apertura, ne diventiamo amici. E se poi finiamo con l’essere superiori a lui, possiamo avere pietà delle sue disgrazie»34. Vizi privati e pubblici benefici Si è quindi più felici in una società mercantile piccola e parsimoniosa, come quella olandese, o in una estesa e opulenta, come può essere quella inglese? Per rispondere a questa domanda – e dimostrare che si tratta di un falso problema – Mandeville si affida ad un ragionamento che lega la natura dell’uomo, con le sue passioni e le sue virtù, alle dinamiche di un paese economicamente sviluppato, e ne analizza i bisogni. Sullo sfondo ci sono già le prime teorie popolazioniste, poi approfondite da Malthus, secondo cui la tendenza universale della popolazione di un paese è di crescere ad un tasso geometrico. Viceversa l’offerta di cibo può crescere solo in modo aritmetico e, poiché non riesce a mantenere il ritmo della crescita della popolazione, i redditi individuali tendono a diminuire sino ad arrivare al livello di sussistenza. Nelle società piccole, con una limitata estensione del territorio, con forme di organizzazione politica meno complesse e con una popolazione numericamente contenuta, possiamo ritrovare un’economia più semplice. Ciò dipende principalmente dalla qualità dei bisogni: in una società di dimensioni ridotte

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i bisogni dell’uomo sono soprattutto primari e di basso livello (come nutrirsi, difendersi e così via), poiché gli uomini sono «buoni e pacifici, disposti a essere poveri pur di stare tranquilli». Quanto più la società si ingrandisce, tanto più i bisogni si fanno complessi. D’altra parte, in una società che possiede solo bisogni primari c’è anche un basso livello di consumi, che crescono invece quanto più i bisogni si fanno complessi. Il quadro va così delineandosi attraverso la contrapposizione fra due modelli di società mercantili: in quello semplice, che insiste su un territorio ristretto, il ritmo dell’economia è legato essenzialmente ai bisogni primari e a un basso livello di consumi, gli scambi sono ridotti e il denaro è di scarsa utilità. Perciò è sufficiente che ogni membro agisca individualmente per soddisfare le proprie necessità e innescare così un ciclo virtuoso, poiché il benessere del singolo coincide con quello del gruppo. È sufficiente inoltre un’organizzazione politica semplificata, come può essere il sistema repubblicano o democratico, così come avveniva anticamente nelle piccole città-Stato greche. I vizi non sono allora forme di egoismo, bensì strumento di sopravvivenza, quindi virtù private che si tramutano automaticamente in pubblici benefici. In una società complessa, più numerosa e insediata su un territorio più vasto, in cui i legami di dipendenza reciproca sono più articolati, non basta più soddisfare le necessità individuali, ma occorre provvedere anche ad una serie di bisogni secondari o complessi (come ad esempio l’organizzazione del lavoro), che impegnano la collettività nel suo insieme, vista non come semplice somma degli individui ma come una società fondata su reciproci obblighi e diritti. Occorre perciò un’organizzazione politica più raffinata, che garantisca il buon funzionamento della società e contemperi l’aspirazione del singolo con le esigenze della collettività. Le società grandi, scrive Mandeville, si presentano come «un corpo politico nel quale l’uomo, tolto da una forza superiore, è divenuto una creatura disciplinata capace di realizzare i suoi fini lavorando per quelli altrui». Anche in questo caso le virtù private diventeranno pubblici benefici, ma occorrerà uno sforzo ulteriore per aiutare l’uomo a non ricadere

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nell’egoismo dei vizi e per trasformare le sue passioni in virtù. Sono necessari quindi un buon uso della politica e il perseguimento del bene comune, anche se ciò può richiedere l’infelicità del singolo. Ognuno realizzerà i propri fini lavorando per gli altri, e solo in questo modo i vizi privati porteranno a pubblici benefici. Come possiamo notare, Mandeville si libera così del problema classico della morale, per aprire la strada ad un’etica della competizione che permetta all’uomo di orientarsi in una società avviata al consumo; più questa società diventa complessa, più frequentemente potrà capitare che l’obiettivo della felicità pubblica venga spostato in avanti e sia chiesto al singolo di rinunciare ad una parte del proprio appagamento individuale in vista del benessere collettivo. D’altra parte, solo in questo modo un paese potrà espandersi economicamente e diventare più ricco e più dinamico all’interno di un sistema virtuoso. La questione del lusso «Fin dalla prima edizione di questo libro, parecchie persone mi hanno attaccato con dimostrazioni della rovina sicura cui il lusso eccessivo non può non condurre tutte le nazioni. A costoro ho dato subito risposta, mostrando i limiti entro cui confinavo il lusso.»35 Così Mandeville affronta, nelle pagine introduttive della seconda edizione della Favola delle api, una delle conseguenze più scottanti del suo lavoro. Il ragionamento fatto in precedenza può infatti apparire coerente rispetto al rapporto tra l’uomo e la società. Che cosa succede però quando la quantità dei beni eccede il livello di sussistenza? Qui emerge la questione del lusso, cioè di quella parte della ricchezza che va al di là dei bisogni dell’individuo, siano essi semplici o complessi, e il problema della morale si riaffaccia. Il lusso è giustificabile rispetto all’interesse generale o no? È moralmente accettabile? Deve essere assecondato oppure controllato e represso, come già facevano gli antichi attraverso le cosiddette leggi suntuarie?

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Il discorso si riapre e dà avvio ad un dibattito enorme, che accompagnerà tutta la cultura settecentesca fino alla Rivoluzione francese. Per Mandeville il lusso non è un fenomeno di costume e ha effettivamente implicazioni morali; ma bisogna analizzarlo con cura perché i suoi effetti sono diversi a seconda che si tratti del privato o del pubblico: «È un’idea comune che il lusso sia rovinoso per la ricchezza dell’intero corpo politico, come lo è per quella di ogni singola persona che se ne renda colpevole, e che la frugalità nazionale arricchisca un paese allo stesso modo in cui quella meno generale accresce la proprietà delle famiglie private»36. È vero che il lusso può portare alla rovina di una persona o della sua famiglia, ma questa rovina rappresenta pur sempre un indice di consumi avvenuti, e quindi di arricchimento e di beneficio per gli altri. D’altra parte, una grande società mercantile, che si espande, deve rendere possibile la moltiplicazione dei vizi e dei consumi, e proprio questo motiva l’individuo a promuovere il proprio interesse, a soddisfare i propri desideri e quindi ad arricchire anche gli altri. Allora il lusso deve essere assecondato, perché – nonostante si tratti pur sempre della concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi e quindi di un male morale – può rappresentare uno stimolo all’emulazione, a migliorare se stessi, ad accelerare il ritmo economico che si sta imprimendo nella società, aumentando la concorrenza e quindi favorendo il riconoscimento del merito e delle capacità individuali37. «A questa emulazione e a questo continuo sforzo di superarsi a vicenda si deve se dopo tanti cambiamenti di moda, che ne hanno fatte affermare di nuove e riproposte di vecchie, vi è sempre un plus ultra per i più ingegnosi. È questo, o almeno la conseguenza di questo, a dare lavoro ai poveri, a spronare l’industria e a incoraggiare il bravo artigiano a cercare nuovi progressi.»38 Solo allora i «vizi privati, attraverso l’accorta amministrazione di un politico capace, possono diventare benefici pubblici». A questo punto, per promuovere la felicità individuale e collettiva ci sarà bisogno di un governo forte e di un’amministrazione efficace, che sappiano condurre una sana politica economica e rimediare alle debolezze della società.

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Echi e discussioni Pochi libri riuscirono a provocare sin dal primo momento discussioni così accese come La favola delle api. All’inizio, le critiche rimasero affidate al mormorio della gente ma poi, con l’apparire della seconda edizione, furono giornali come l’«Evening Post» e il «The London Journal» a ospitare interventi e attacchi di segno più disparato. L’accento cadeva soprattutto sulla nuova e strana idea della morale che usciva dalle pagine di Mandeville e sulla natura dell’uomo descritta in termini così impulsivi, anche se non mancavano coloro che intravedevano, soprattutto nella prima parte relativa al poema sull’alveare, un tesi cospiratoria per introdurre nel popolo idee pericolose e malsane, nonché una sfiducia generalizzata nei governanti39. Una misura dell’eco, anche positiva, riscossa dalla Favola delle api è data certamente dalla quantità di scrittori che ne trassero ispirazione, tra cui figura anche Daniel Defoe – l’autore del Robinson Crusoe – che in più occasioni allude agli scritti di Mandeville40. Fu per chiarire meglio le sue idee e per accattivarsi le simpatie delle autorità, che Mandeville si accinse a pubblicare nel 1720 alcuni Pensieri sulla religione, la chiesa e la felicità nazionale, destinati però a minore fortuna. L’opera si presenta come una presa di posizione in favore della monarchia parlamentare, ispirata probabilmente dal dibattito che vedeva contrapposti i sostenitori degli Hannover a quelli del pretendente Stuart: proprio questi contenuti più esplicitamente politici possono probabilmente spiegare perché i Pensieri non vennero inseriti nelle successive edizioni della Favola delle api. La nostra attenzione viene però richiamata dal fatto che, nell’ultimo dei tre saggi che compongono questo libro, Mandeville affronta direttamente il tema della felicità pubblica, prendendo spunto da un passo della favola in cui aveva giudicato infelice quel popolo la cui costituzione dipende esclusivamente dalle qualità e dalla coscienza di ministri e politici, e non dalla virtù dei cittadini. Nei Pensieri sviluppa ulteriormente questa considerazione, osservando che la felicità di un paese come la Gran

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Bretagna – fortunato per la posizione, il clima, la ricchezza del suolo, l’operosità degli abitanti e il buon senso dei suoi regnanti – non dipende tanto dall’insieme di questi elementi, ma dalla sua costituzione, dalle leggi e dalle libertà che lo compongono. Solo la consapevolezza di ciò rende l’inglese un uomo libero, permettendogli di capire in cosa si differenzia dagli svizzeri e dagli olandesi, tiranneggiati a suo dire dai magistrati cittadini41. Se la popolazione inglese ha coscienza della propria libertà, allora questo non potrà che rimanere il criterio fondamentale per la politica del re e per la scelta dei suoi ministri. Un altro elemento che forma la felicità nazionale ed è fondamento della costituzione, prosegue Mandeville, è il rapporto stretto fra libertà e proprietà42. Qui egli si appropria evidentemente dell’eredità lockiana e si dimostra un vero esponente della cultura whig, proclamando enfaticamente che solo la Gran Bretagna ha veramente conquistato in Europa, con la «gloriosa rivoluzione», l’appellativo di Eutopia (eu-topos, il buon posto in cui vivere)43. Nella lunga tradizione di lettori e di commentatori della Favola delle api merita un posto particolare il salernitano Antonio Genovesi, fondatore dell’economia politica nel Settecento italiano, che mette in luce una questione nevralgica trascurata da Mandeville nell’assumere come modelli di riferimento la società olandese e quella inglese. Quasi quarant’anni dopo l’edizione definitiva della favola, Antonio Genovesi nelle Lezioni di commercio o sia di economia civile (1765-1767), si pone alcuni problemi cruciali, interrogandosi se il criterio enunciato da Mandeville per le società mercantili si adatti anche ad una società feudale, com’è ancora quella italiana, e meridionale in particolare. Si tratta di capire che cosa succede se incoraggiamo il lusso, quando la maggior parte delle proprietà è in mano di pochi, e chi può consumare il superfluo in una società generalmente povera. Incoraggiando la liberalizzazione del mercato non aumenteremmo la sproporzione fra ricchi e poveri, senza beneficio per lo Stato? Genovesi è parte della cultura meridionale italiana (rappresentata, tra gli altri, da suoi allievi, come Francesco Longano), che critica in Mandeville e in successivi autori come Jean-

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François Melon il collegamento così netto fra progresso e mercato. Lusso, passioni e interessi rischiano infatti di disarticolare definitivamente, e non di riformare, la società di Antico Regime. Per questo motivo, dopo la metà del Settecento, si adopereranno per spostare l’attenzione dal lusso – che rimanda alla dimensione della produzione economica – al consumo, su cui si misurano le vere disuguaglianze. E tuttavia proprio quest’attenzione per l’opera di Mandeville conferma che ci troviamo dinanzi ad un vero interprete della modernità e ad un punto decisivo di svolta, anche rispetto ad autori più celebrati, come Spinoza, il cui nome veniva spesso evocato ma le cui opere erano in realtà assai poco conosciute al contrario di Mandeville, di cui ben poco si sapeva come persona, ma i cui scritti circolavano molto e venivano intensamente tradotti e discussi. Dinanzi ad una modernità che ora non è più solo trasformazione della politica ma anche nascita del mercato, Mandeville stravolge definitivamente gli schemi consolidati e pone l’uomo e l’intellettuale dinanzi ad un bivio: meglio fare della felicità un discorso morale o piuttosto una scienza? La formula «vizi privati, pubblici benefici» apre la strada ad una nuova teoria della sociabilità che, a seconda degli sviluppi, può portare a conseguenze profondamente differenti sul piano politico ed economico ma che, proprio per questo, è già in sé rivoluzionaria, perché implica un’emancipazione dell’uomo rispetto a modelli di società più antichi e pone il problema di come poter misurare la felicità.

VII COME MISURARE LA FELICITÀ Si può misurare la felicità? Economisti e fautori delle neuroscienze ne sono oggi convinti, senza avere inventato in realtà nulla di nuovo. A partire da Mandeville diventa evidente che, per non tornare a confrontarsi con un concetto di morale riferito alla religione, occorre considerare la felicità come qualcosa di misurabile, di oggettivato, come una scienza. Già dal primo Settecento rivendicare la scientificità di questo discorso serve a risolvere l’antico problema di come distinguere la felicità dal piacere e il piacere dal dolore, utilizzando una scala gerarchica basata su gradi di purezza, di intensità e di durata che consentono di fare una diagnosi rigorosa sul rapporto tra il bene e il male, di stabilire qual è il tasso di felicità di ciascuno e come possa essere aumentato o diminuito. Il Settecento, tempo dei Lumi e della ragione, è anche il secolo della grande passione per le scienze, per la fisica, la meccanica, la chimica e la matematica, basti pensare alle scoperte sull’elettricità (e ricordare gli esperimenti di Benjamin Franklin). Contemporaneamente, si assiste alla grande diffusione dell’aritmetica e del calcolo, che diventano temi sempre più discussi dagli intellettuali, dalle società letterarie e dalle riviste accademiche, che stampano ad ogni numero nuovi risultati ottenuti con il calcolo differenziale ed integrale, diffondendo una moda che arriva a coinvolgere anche personaggi lontani da un vero impegno scientifico. Persino Giacomo Casanova, generalmente noto in campo letterario solo come autore della Storia della mia vita, si appassiona di questioni matematiche fino a pubblicare una se-

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rie di opuscoli sulla duplicazione del cubo (o problema deliaco), che consiste nel riuscire a trovare lo spigolo di un cubo il cui volume sia doppio di quello di un cubo dato1. L’aritmetica della felicità Uno dei primi esempi di quali vantaggi si possano ricavare dall’applicazione della matematica ad altre discipline è quello dell’aritmetica politica. Sin dal 1683 William Petty, uno dei fondatori della Royal Society, pubblica un’opera intitolata Aritmetica politica, considerata precorritrice dell’economia politica e della macroeconomia. Destinato a influenzare profondamente gli studiosi del secolo successivo, il testo suggerisce per la prima volta di utilizzare indicatori macroeconomici per analizzare il grado di sviluppo di una società, l’efficacia del sistema fiscale, il funzionamento dello Stato, i vantaggi e gli svantaggi della circolazione monetaria, tutte teorie già utilizzate qualche anno prima da un amico di Petty, Sir Peter Pett, in un saggio intitolato Il futuro felice dell’Inghilterra2. Dopo di lui Charles Davenant, noto anche per avere analizzato il concetto di equilibrio di potenze nelle relazioni internazionali, tenta di descrivere in termini quantitativi la società inglese, spiegando i diversi ritmi di espansione del commercio britannico in base ad una suddivisione del paese in aree geoeconomiche3. Secondo Davenant l’aritmetica politica non è altro che «l’arte di ragionare attraverso le cifre su cose aventi attinenza con il governo», resa possibile grazie a studi sistematici e metodi quantitativi, come l’indagine sull’andamento demografico. Muovendo da questo assunto, è possibile dunque dedurre modelli di crescita per un’economia nazionale e per immaginare, quindi, un modello di società in cui la felicità è data da una ridistribuzione delle risorse e da un’attenuazione delle disuguaglianze. La matematica e il calcolo possono condurre pertanto a risultati curiosi se applicati a questioni che ne sono apparentemente lontane, come la felicità. Il tema è intercettato da Francis Hutcheson, professore di filosofia morale a Glasgow consi-

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derato tra i primi esponenti dell’Illuminismo scozzese, cioè della corrente di pensiero che dopo l’Atto di unione con l’Inghilterra (Union Act, 1707) si propone di rinnovare la società scozzese emancipandola dalla cultura dei clan per avviarla verso un processo di secolarizzazione e di modernizzazione economica e sociale che conduce a David Hume, Adam Ferguson e Adam Smith. Nel 1725, poco tempo prima dell’edizione definitiva della Favola delle api, Hutcheson pubblica una Ricerca sull’origine delle nostre idee di bellezza e di virtù, con un lungo sottotitolo secondo l’uso erudito e pomposo del tempo, che si presenta come uno studio dell’estetica e suona come una difesa di Shaftesbury contro l’immoralità di Mandeville (contro il quale venticinque anni dopo scriverà un’esplicita confutazione). La tesi di fondo e le critiche sono in realtà piuttosto deboli: la preoccupazione per una lettura di Mandeville in chiave hobbesiana porta Hutcheson a sottolineare nell’uomo un’attitudine altruistica, una natura filantropica che si esprime attraverso un «senso interno» particolare, che si aggiunge ai cinque sensi maggiormente conosciuti. Questo senso interno è la facoltà che consente di provare piacere quando siamo in presenza di qualcosa di bello, alla quale si aggiunge un sentimento morale, altrettanto innato, che ci spinge al bene comune indipendentemente da ogni intenzione. Tutto ciò caratterizza la «simpatia», il sentimento del bene comune che l’uomo prova verso i propri simili e che riprende l’idea della benevolenza cara a Shaftesbury e a Cumberland. Non è affatto necessario trovare allora, come vuole Mandeville, un compromesso tra l’agire egoistico e l’agire altruistico. La vera felicità nasce dalla virtuosità delle azioni, che consiste essenzialmente nella preoccupazione disinteressata per la felicità altrui. L’uomo felice è quindi l’uomo virtuoso, che sa trarre piacere dal proprio carattere che deve essere generoso, altruista, disinteressato e orientato verso gli altri. È il senso morale che guida la ragione verso le azioni che tendono «alla massima e più estesa felicità di tutti gli agenti razionali a cui può giungere il nostro influsso». Stabilito questo, possiamo anche calcolare la virtuosità delle azioni, tenendo conto delle loro motivazioni e ri-

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cordando che questo calcolo non ha lo scopo di massimizzare il piacere privato, ma serve a misurare il grado di moralità di un’azione che, chiaramente, varia a seconda delle circostanze. Ne consegue che l’azione migliore sarà quella «che procura la maggiore felicità possibile per il maggior numero di persone; mentre la peggiore è quella che, in modo simile, produce sofferenza»4. Come notano gli studiosi dell’opera di Hutcheson, le prime edizioni del suo saggio erano accompagnate, in corrispondenza di queste affermazioni, da una nutrita serie di considerazioni e algoritmi matematici, che vennero poi opportunamente omessi a partire dalla quarta edizione, quando l’autore (o l’editore) si rese conto che troppa matematica avrebbe finito per indispettire il lettore. Rimane la curiosità di capire in che cosa consiste la maggiore felicità possibile. Per Hutcheson si tratta di un bene naturale strettamente legato ad un senso morale, e non deve tenere conto dell’utilità che può derivare all’uomo dalle sue azioni. Il calcolo serve unicamente ad estrarre la quota di questo valore morale in ogni azione rispetto ad una scala graduata in base alla benevolenza, all’amore per la collettività, all’amore per il tutto, grazie a una formula complessa che tiene conto anche dell’interesse egoistico dell’uomo e del bene pubblico, conseguenze naturali delle sue azioni5. Solo nel capitolo finale dell’opera, dedicato agli esiti delle idee morali, ai diritti e ai doveri, alienabili e inalienabili, Hutcheson affronta questioni più strettamente politiche. Se la virtù è la forma più alta di felicità e questa virtù si basa sulla benevolenza, allo stesso modo dell’intenzione, che è un libero volere, allora solo un popolo capace di esprimere le proprie libertà sarà veramente felice. In realtà il ragionamento non viene poi sviluppato e il rapporto tra felicità e libertà rimane ancorato ad un fondamento moralistico che impedisce di far decollare la riflessione6. La fama di Hutcheson rimarrà affidata alla formuletta della «massima felicità divisa per il maggior numero», che avrà larga eco nella seconda metà del secolo, pur se totalmente avulsa dal contesto in cui era stata originariamente pensata.

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La fisica delle passioni Ancora oggi gli studiosi di psicologia ricorrono spesso all’esempio dell’ostrica, protetta dal suo duro guscio, che non può mai essere ferita perché è isolata da tutto, ma non può nemmeno essere creativa, perché non riesce a raggiungere ciò che desidera e deve aspettare che le cose vengano a lei. L’argomento è tratto direttamente da Aristotele, che nell’Anima aveva usato proprio questo mollusco per spiegare che cosa differenzia tra loro gli esseri viventi, anche quando hanno in comune determinate capacità legate ai sensi. L’ostrica, infatti, come gli uomini, possiede il senso del tatto, perché quando percepisce qualche oggetto ne riceve uno stimolo immateriale che può memorizzare, facendo esperienza di piacere e dolore. Solo l’uomo però possiede l’intelletto, che gli consente di porre la sensazione in relazione con la fantasia e l’immaginazione7. L’esempio dell’ostrica ritorna duemila anni dopo in uno scrittore assai meno noto, Louis-Jean Lévesque de Pouilly, autore nel 1736 di una raccolta di scritti sull’amore e sull’amicizia intitolata Teoria sui sentimenti piacevoli (poi ampliata negli anni successivi), nella quale utilizza ampiamente il modello di felicità legato all’idea della perfezione tanto cara a Leibniz, Malebranche e Shaftesbury, per tentare di trasferirlo su una scala di valori razionale. Lévesque de Pouilly è stato professore di filosofia, ma si è ritirato in campagna per diventare luogotenente generale (una sorta di sindaco) della città di Reims e dedicarsi alla sua grande passione, la matematica. È uno dei primi a commentare in Francia i princìpi di filosofia naturale di Newton. La Teoria di Lévesque de Pouilly, presentata come una branca della fisica, dovrebbe servire a dimostrare, tra l’altro, che il discorso sulla felicità può collocarsi in un contesto governato da leggi meccaniche e fisiche, tenendo però presente che il sentimento interiore dell’uomo è invece sempre finalisticamente orientato verso Dio. Il saggio non conosce la fortuna delle opere degli scozzesi e degli inglesi, che sono generalmente ormai note e diffuse e di cui più d’uno reclama la traduzione, come ci ricordano in Italia i gior-

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nali toscani e il napoletano Antonio Genovesi8. Tuttavia verrà utilizzato per stendere la voce Felicità dell’Enciclopedia, perché spiega con grande chiarezza che ogni individuo può cercare di raggiungere una determinata quota di felicità attraverso un buon uso delle proprie qualità. Un primo livello deriva infatti dall’uso moderato delle facoltà naturali e degli organi del corpo umano, che provoca piacere e sensazioni armoniose9; ad un livello superiore si colloca invece la percezione intellettuale dell’armonia attraverso tutti i prodotti dell’«entusiasmo», cioè le gioie che derivano dalla conoscenza, dalla visione delle opere d’arte, dalla musica e così via. C’è, sullo sfondo, un’idea secondo cui il piacere e la felicità non sono semplicemente godimento passivo delle cose ma un risultato del nostro agire. La vera felicità è allora una commistione tra le sensazioni fisiche e i piaceri dell’anima, cioè una facoltà tipica dell’uomo, che si guarderebbe bene dal desiderare, appunto, «la felicità di un’ostrica»10. L’uomo macchina Sono molti i motivi per considerare il 1748 un anno importante nella storia europea: ad Aquisgrana viene firmata la pace che pone fine alla guerra di successione austriaca tra Spagna, Baviera, Austria e Prussia, consolidando l’ascesa internazionale di quest’ultima; vengono scoperte le rovine di Pompei; Montesquieu pubblica Lo spirito delle leggi; Adam Smith inizia l’insegnamento a Edimburgo; muoiono il matematico Johann Bernoulli e lo storico napoletano Pietro Giannone. In mezzo a tutti questi eventi, il 7 febbraio 1748 arriva a Berlino Julien Offray de La Mettrie, medico e chirurgo militare francese, inseguito dalle polemiche scatenate un po’ ovunque con la stampa l’anno prima di un suo saggio, L’uomo macchina, e dalle ire delle autorità olandesi, che hanno visto pubblicare il libretto nel loro paese. Viene a Berlino perché lì può trovare la protezione del suo maestro, Pierre-Louis Moreau de Maupertuis, matematico e scienziato illustre, chiamato da Federico il Grande a presiedere l’Accademia prussiana delle scienze.

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La Mettrie si è costruito una fama di eretico, di ateo e di materialista; nato a Saint-Malo, ha studiato medicina a Leida con Boerhaave poi, rientrato in Francia, ha conosciuto e frequentato Maupertuis, divenendone una sorta di allievo spirituale. Le sue prime riflessioni mediche sulla fisiologia e sulla circolazione sanguigna, frutto di osservazioni condotte su se stesso durante alcuni attacchi febbrili, lo portano a pubblicare nel 1745 la Storia naturale dell’anima, in cui afferma che ogni fenomeno fisiologico deve essere considerato un cambiamento organico nel cervello e nel sistema nervoso, giungendo alla conclusione che l’intera teoria di Cartesio sul dualismo fra anima e corpo (due elementi che trovavano un punto di raccordo nella ghiandola pineale) deve essere respinta e che l’anima va considerata un’entità materiale, concreta, dotata di sensibilità e, come tutte le cose materiali, destinata a perire. La reazione è immediata e il Parlamento di Parigi condanna subito l’opera, costringendo La Mettrie all’esilio in Olanda dove, a Leida, pubblica, nascondendosi dietro l’anonimato, L’uomo macchina. Non è tutta farina del suo sacco: in realtà prende molto da un’opera che il fratello di Maupertuis, Moreau de Saint-Ellier, aveva già pubblicato nel 1738 con il titolo Trattato sulla comunicazione delle malattie e delle passioni11. La Mettrie approfondisce però ulteriormente l’idea, e la porta alle estreme conseguenze, scrivendo quello che verrà considerato un manifesto del materialismo poiché, secondo lui, «certo si può, anzi si deve, ammirare le ricerche perfettamente inutili di tanti grandi geni: i Cartesio, i Malebranche, i Leibniz, i Wolff, ecc.; ma qual frutto, ditemi, si è ricavato dalle loro profonde meditazioni e da tutto il complesso delle loro opere? Cominciamo dunque e vediamo, non già che cosa è stato pensato, ma che cosa bisogna pensare, per raggiungere l’equilibrio nella nostra vita». Il discorso di La Mettrie non sembra puramente teorico; sette anni prima il «meccanico» Jacques Vaucanson, ispettore generale delle manifatture del regno di Francia, ha presentato all’Accademia delle Scienze di Lione il progetto per la costruzione di un automa in grado di imitare l’uomo in tutte le funzioni vitali, come la circolazione del sangue, la respirazione, la dige-

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stione, i movimenti dei muscoli e dei nervi e così via. «L’autore ritiene» – spiegano i documenti dell’Accademia – «che potrà, per mezzo di questo automa, fare esperienze sulle funzioni animali e trarre induzioni per conoscere i differenti stadi della salute umana, per rimediare così ai suoi mali. Questa macchina ingegnosa, che rappresenterà un corpo umano, potrà infine servire per una dimostrazione in un corso di anatomia»12. Che tutto ciò sia realizzabile appare verosimile dato che Vaucanson è già noto per aver costruito altri automi: un uomo che suona il flauto, capace di eseguire dodici diversi pezzi musicali; un suonatore di tamburino; e inoltre quello forse più famoso (e oggi perduto), cioè un’anatra, un capolavoro composto di oltre quattrocento pezzi che può mangiare, bere, digerire e persino defecare e che viene esibito anche a Milano all’inizio dell’Ottocento. La Mettrie gioca quindi sull’effetto che può produrre l’associazione tra la nascente passione per gli automi e il suo uomo macchina. Infatti, osserva, «l’uomo è una macchina così complessa che è impossibile farsene di primo acchito un’idea chiara, e conseguentemente poterla definire. Perciò tutte le ricerche condotte dai più grandi filosofi a priori, cioè cercando di servirsi per così dire delle ali dell’ingegno, sono state vane. Così, soltanto a posteriori, cioè cercando di districare e scoprire l’anima attraverso gli organi del corpo, è possibile, non dico già scoprire all’evidenza la natura stessa dell’uomo, ma raggiungere il maggior grado di probabilità possibile sull’argomento». Per capire allora cosa sia l’anima e a che cosa serva basta un esempio concreto: Prendete un soldato esausto: egli russa nella sua trincea, insensibile al rumore di cento cannonate! La sua anima non sente nulla, il suo sonno è una perfetta apoplessia. Una bomba sta per farlo a pezzi; sentirà forse meno di un insetto che si trovi ad essere schiacciato. Viceversa, un uomo in preda alla gelosia, all’odio, all’avarizia o all’ambizione, non trova in alcun modo riposo. Il luogo piú tranquillo, le bevande piú fresche e piú rilassanti, tutto è inutile per chi non riesce a liberare il suo cuore dal tormento delle passioni. L’anima e il corpo si addormentano insieme. A mano a mano che il movimento del sangue si calma, un dolce sentimento di pace e di tranquillità si diffonde in

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tutta la macchina; l’anima si sente mollemente appesantita insieme alle palpebre e si rilassa insieme alle fibre del cervello; essa diviene così a poco a poco come paralitica, insieme a tutti i muscoli del corpo. Questi non riescono più a sostenere il peso del capo; questo a sua volta non può più sostenere il peso del pensiero; nel sonno l’anima è come inesistente.

Se ne deduce che l’anima non è dunque che una parola vuota alla quale non corrisponde alcuna idea, e di cui un uomo ragionevole non deve servirsi se non per designare la parte pensante in noi. Una volta ammesso il minimo principio di movimento, i corpi animati hanno tutto quanto loro occorre per muoversi, sentire, pensare, pentirsi, e in una parola comportarsi, sia nella vita fisica che in quella morale che ne dipende13.

L’editore e autore di successo Elie Luzac, in apertura della prima edizione dell’Uomo macchina, invita il lettore a non sorprendersi del coraggio dimostrato con la pubblicazione di un’opera così ardita, perché certamente un altro stampatore non si sarebbe fatto maggiori scrupoli di coscienza14. E, forse, proprio per attenuare l’impatto negativo sul pubblico, dà alle stampe immediatamente dopo anche un proprio testo, intitolato significativamente L’uomo più che una macchina; si tratta di un libretto, scritto sull’onda delle prime polemiche sorte in Olanda, in cui Luzac cerca di spiegare che l’opera di La Mettrie non deve essere accusata troppo semplicisticamente di materialismo, in quanto sottintende pur sempre una differenza tra l’uomo macchina – che è comunque un essere capace di formarsi differenti idee su diverse situazioni – e la pura materia15. Il discorso sulla felicità Poco dopo il suo arrivo a Berlino, dove entra a far parte dell’Accademia delle Scienze grazie ai buoni uffici di Maupertuis, La Mettrie pubblica L’uomo pianta e una traduzione del De vita beata di Seneca, con un ampio commento che viene intitolato Anti-

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Seneca e che diverrà noto anche come Discorso sulla felicità (1748). La tesi fondamentale è che la felicità dell’uomo non è data né dal suo temperamento né dalle sue passioni, o dall’anima, ma unicamente dalla sua «organizzazione» interna, cioè dalla disposizione degli organi nel corpo, secondo un’idea che era già stata proposta, in qualche misura, da Pierre Bayle16. Ciò significa che molti uomini hanno una naturale disposizione alla felicità (in relazione anche alla loro robustezza fisica), mentre altri hanno una naturale inclinazione alla sofferenza. In ogni caso, nessun fattore esterno, si tratti dell’educazione o di altre circostanze sociali e politiche, può influenzare le inclinazioni naturali, se non superficialmente17. Paradossalmente, quindi, anche il criminale che è coerente con le proprie azioni, dato che le sente naturalmente, è una persona felice, proprio perché non si fa influenzare da alcuna valutazione esterna di ordine morale o sociale e sarà «più felice di un altro che, dopo una bella azione, si pentirà di averla fatta e così ne perderà tutto il valore. Tale è il meraviglioso potere della tranquillità che nulla può turbare». Così il parricida, il ladro, l’incestuoso, a differenza di coloro che sono prigionieri delle convenzioni, non si troveranno a dover combattere con i rimorsi della riflessione e saranno capaci di disprezzare, così come la vita, anche la riprovazione e l’odio pubblico. La Mettrie supera quindi la questione del calcolo puramente teorico dei piaceri e dei dolori, e pretende di trasformare la felicità in una scienza ancorata alla fisiologia, per il semplice fatto che dipende dalla costituzione naturale dell’uomo e dal modo in cui viene stimolato il sistema nervoso18. Così il rimorso deve essere eliminato perché non ha alcun fondamento scientifico, ed è in realtà null’altro che una morale artificiale che tenta di condizionare il potere dell’organismo. Tutti possono allora raggiungere la felicità, basta liberarsi dalle convenzioni sociali; devono farlo soprattutto «gli schiavi della superstizione, questi piccoli geni che non si accorgono dove compare la verità». Le leggi degli uomini possono servire, piuttosto, ad educare la virtù, a distribuire il piacere puntando sulle lusinghe, sulle ricompense, sulla vanità dell’uomo. Si possono rafforzare l’efficacia delle norme e la coesione sociale, ri-

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cordando però sempre che le regole morali non hanno alcuna relazione con la felicità, come vorrebbe invece il fanatismo dei teologi che tentano di trasformare l’uomo in qualcosa di innaturale. Su questo punto La Mettrie è caustico: un secolo così illuminato come il nostro, in cui la natura è così conosciuta, che non ci lascia più nulla da desiderare, ci ha dimostrato finalmente in mille modi e senza possibilità di replica, che esiste una sola vita e una sola felicità. La prima condizione della felicità è di sentire e la morte ci toglie ogni sentimento. La falsa filosofia potrebbe anche prometterci, come la teologia, una felicità eterna, offrendoci delle belle chimere. La vera filosofia, ben differente e più saggia, non ammette che una felicità temporanea, semina le rose e i fiori lungo i nostri passi e ci insegna a coltivarli19.

La matematica delle emozioni Maupertuis, presidente dell’Accademia, mentre assiste alla pubblicazione del Discorso e alle nuove polemiche che ne derivano, si rifiuta di condannare L’uomo macchina e il suo autore. Scrivendo all’amico Albrecht Haller preferisce sottolineare in La Mettrie l’amore per il paradosso, continuando a definire l’allievo un ingegno capace, anche se dotato di «pericolosa immaginazione»20. La vera risposta viene con il Saggio di filosofia morale, che Maupertuis pubblica sul finire del 1749, senza peraltro riuscire ad attenuare i toni della polemica: sono i teologi – spiega – a voler impedire troppo imperiosamente la facoltà di ragionare, e i filosofi pretendono di catechizzarci e di sostituirsi ai teologi parlandoci di Dio. Gli stessi filosofi, inoltre, introducono nel nostro cervello una grande confusione, accomunando il piacere e la felicità e cadendo in un mare di sofismi e di contraddizioni. E le loro invettive contro i piaceri dei sensi non nascono da altro che dalla freddezza del cuore21. Lo scienziato, invece, si trova nella più grande libertà di pensiero e scrittura, perché deve obbedire solo alla ragione. Mau-

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pertuis incarna perfettamente questa condizione: uomo geniale e bizzarro, è stato chiamato a presiedere l’Accademia di Scienze di Berlino per rinnovarne i programmi e intensificare le relazioni con gli intellettuali di tutt’Europa. Matematico e fisico noto ovunque per i suoi studi di astronomia e cosmologia, ha compiuto un famoso viaggio scientifico in Lapponia per approfondire alcune ricerche astronomiche e per dirimere la lunga controversia tra cartesiani e newtoniani sull’origine dell’universo22. Anche Maupertuis parte dallo studio dei piaceri, ma lo fa unicamente per spiegare che quelli del corpo sono una percezione positiva, che giunge all’anima attraverso l’uso dei sensi; è quindi una percezione che l’anima evidentemente preferisce provare, piuttosto che evitare. I veri piaceri sono invece soltanto due: la pratica della giustizia e il concetto della verità, così come le pene dell’anima corrispondono alla mancanza dell’una o dell’altro. La questione più importante riguarda però la possibilità di misurare felicità e infelicità, piacere e dolore, e qui ritorna la competenza dello scienziato, che utilizza la nozione di «durata». La durata della percezione positiva, il tempo per cui essa si protrae, è infatti ciò che chiamiamo «momento felice», e costituisce l’unità di base da cui partire per misurare la felicità. L’intensità del piacere sarà accompagnata da un segno positivo (+), mentre quella del dolore da un segno negativo (-). Possiamo valutare così ogni sensazione attraverso criteri oggettivi come la durata, l’intensità, la misura e la grandezza del piacere e del dolore; solo allora potremo giungere alla conclusione che «la felicità è la somma dei piaceri che rimane dopo che abbiamo sottratto la somma dei mali». Ecco quindi la formula per il calcolo della felicità: consideriamo che i momenti felici non si misurano soltanto in base all’intensità ma anche rispetto alla durata, e che lo stesso avviene per l’infelicità e il dolore. Non basta però confrontare la sola durata o la sola intensità: un’intensità doppia e una durata breve possono essere uguali a un’intensità breve ma a una durata doppia, come facilmente ci suggerisce la riflessione sul dolore fisico (un dolore breve ma molto intenso può essere simile a un dolore lieve ma prolungato nel tempo). Il cal-

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colo dei momenti felici o dolorosi sarà quindi il prodotto dell’intensità del piacere o del dolore per la loro durata. Come spiega Maupertuis, esistono strumenti che consentono di misurare la durata delle sensazioni, indipendentemente dalla nostra immaginazione e dall’illusione che possiamo crearci. Più difficile è misurarne l’intensità, che rimane eminentemente soggettiva; tuttavia è indubbio, egli afferma, che abbiamo sempre una certa percezione dell’intensità e, almeno istintivamente, agiamo e scegliamo in base ad essa. Possiamo dedurne, quindi, che il bene è la somma di momenti felici, il male la somma di momenti dolorosi, tenuto conto della rispettiva intensità e durata. Quindi, la felicità è la somma dei beni che restano una volta sottratti i mali, mentre invece il dolore è la somma dei mali che restano dopo la sottrazione di tutti i beni; felicità e dolore dipendono dalla compensazione che ciascuno di noi compie nel suo intimo fra queste sensazioni. La sola difficoltà derivante da questo calcolo dipende dalla posizione che il bene e il male possono occupare nel tempo, poiché vi sono beni presenti e beni futuri che occorre considerare all’interno del computo. Sappiamo infatti per esperienza che spesso la previsione di un bene o di un male futuro, di cui però abbiamo l’intima convinzione, li fa appararire quasi come presenti e perciò tendiamo a considerarli parte della nostra felicità o infelicità attuale, benché non producano ancora realmente alcun effetto positivo o negativo. Rimane difficile considerare il modo, chiaramente soggettivo, con cui ognuno valuta l’intensità del bene e del male, che può variare da persona a persona e a seconda delle circostanze. Può accadere infatti che qualcuno ritenga vantaggioso sopportare un male per gioire di un bene futuro, oppure astenersi da un bene per evitare un male successivo. Queste valutazioni sono evidentemente molto difficili e dipendono dalla prudenza di ciascuno; proprio perché esiste così poca gente prudente, e tutte le persone sono tra loro diverse, il calcolo della felicità è sempre complicato e manca una formula universale. Se analizziamo l’intera vita della persona ci rendiamo conto che di norma la somma dei mali supera quella dei piaceri; l’uo-

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mo, orientato a soddisfare i propri desideri e ad immaginarne sempre di nuovi, tende naturalmente a sottovalutare l’intensità e la durata di quelli attuali, per passare a obiettivi successivi che attenuano la positività dell’istante realmente vissuto. Pensare alla felicità come a un bene futuro significa ammettere implicitamente che non l’abbiamo ancora raggiunta e siamo quindi infelici. Una dimostrazione di tutto ciò viene dall’analisi dei divertimenti o della loro funzione: giocare a scacchi o leggere, e in generale tutte le occupazioni sia frivole sia serie – osserva Maupertuis –, non sono altro che segnali dei nostri tentativi per distrarci dal quotidiano, per fornire un liquore all’anima in tumulto, affinché si dimentichi dei tormenti che ci affliggono23. Felicità e suicidio Che cosa succede quando nella vita il saldo tra bene e male, tra piacere e dolore, rimane invariabilmente negativo? Maupertuis si pone questo problema e passa a discutere il contenuto dei piaceri e dei dolori, spiegando anzitutto che possono essere entrambi di due tipi, cioè del corpo o dell’anima. Occorre però fare attenzione: i primi non sono solo quelli direttamente collegati alle sensazioni fisiche, ma anche quelli di natura intellettuale che possono dipendere dal benessere del corpo, come ad esempio la ricchezza e il denaro, fonte di una vita comoda e agiata. Il piacere che un uomo prova nell’aumentare la propria ricchezza, o il dolore che prova al pensiero di vederla svanire, non sono quindi percezioni dell’anima, ma sensazioni fisiche, legate al vantaggio che riteniamo di procurarci o di perdere. Se riconduciamo anche i piaceri intellettuali a quelli del corpo rimangono due soli piaceri dell’anima, quelli che Maupertuis aveva indicato all’inizio della sua riflessione, cioè il sentimento di giustizia e la contemplazione della verità. La giustizia o, meglio, l’agire secondo giustizia, è la sensazione che si ottiene quando si adempie ad un dovere; la verità è invece la percezione che si avverte quando si è soddisfatti dell’evidenza delle cose. Perché distinguere i piaceri del corpo da quelli dell’anima?

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Perché quelli dell’anima sono duraturi e costanti, e il loro riprodursi ne aumenta l’intensità; l’anima li sente in tutta la loro estensione e ne esce fortificata. È vero che possono essere anche molto intensi, ma l’uomo saggio sa come evitarli e ha la possibilità di dominarli con la ragione, soprattutto quando agisce preventivamente per evitare che si verifichino24. L’uomo può quindi migliorare la propria condizione e trasformare un bilancio negativo dei piaceri e dei dolori in un saldo positivo; il desiderio di felicità è un principio universale che guida tutti gli uomini, ci suggerisce le regole di condotta da osservare e consente di riconoscere le verità che ci circondano, al di là delle fantasie, dell’immaginazione e delle false rappresentazioni. In mancanza di questo, l’unico rimedio resterebbe quello offerto dalla cultura stoica che, di fronte alla prospettiva di vita sopraffatta dal male, suggeriva di privarci di ogni piacere per eliminare i mali, fino a togliersi la vita. Questo ragionamento introduce un tema scabroso e molto discusso per tutto il corso del Settecento, cioè quello della liceità del suicidio. Per la cultura cristiana si tratta da sempre di un atto da condannare, perché è un tentativo di sottrarsi alla volontà di Dio, il solo che può disporre della vita, e agli obblighi verso la società. Tuttavia, soprattutto a partire dall’Inghilterra, comincia a diffondersi una letteratura che giustifica il suicidio in base alla tradizione stoica, quindi ad una morale diversa da quella cristiana, presentandolo come una forma di libertà dell’individuo, che può scegliere che cosa fare della propria vita. Il giovane Montesquieu e altri autori, come il piemontese Alberto Radicati di Passerano, spiegano tra gli anni Venti e Trenta che la natura, tanto benevola da favorire la felicità dell’uomo, non potrebbe consentirgli di soffrire senza ragione e perciò gli ha permesso di sottrarsi al dolore quando diventa insopportabile. Nella stessa epoca il medico inglese George Cheyne mostra come la causa della tendenza al suicidio risieda essenzialmente nel sistema nervoso, quindi proprio nella natura umana25. Il rapporto tra suicidio e libertà, destinato ad assumere una dimensione eroica nella letteratura del Classicismo e del Romanticismo, non esclude che il porre fine volontariamente alla

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propria vita venga considerato, indipendentemente da ogni riflessione religiosa, una forma di viltà, di mancanza di coraggio. Tuttavia, si domanda già La Mettrie, «quando la vita è assolutamente priva di ogni bene e invece è assediata da una quantità di mali terribili, è proprio necessario attendere una morte ignominiosa?»26. Non diversa è l’opinione di Maupertuis che, proprio per giustificarla, spiega nella prefazione alla seconda edizione del Saggio di filosofia morale: Mi è stato rimproverato di aver parlato troppo favorevolmente del suicidio. Considerandolo indipendentemente dalla fiducia e dalla speranza in un’altra vita, l’ho ritenuto un rimedio utile e permesso; considerandolo da cristiano, lo vedo come l’azione più criminale e insensata. E tutto questo mi pare così evidente che non so cos’altro aggiungere per aumentarne l’evidenza. Se non c’è niente al di là di questa vita, allora spesso conviene porvi fine; ma il dolore della nostra condizione presente, al posto di farci cercare il rimedio per toglierla di mezzo, ci dimostra al contrario che siamo destinati ad una vita più felice, la cui speranza ci rende quella attuale sopportabile27.

C’è evidentemente sempre un fondo di ottimismo, legato alla fiducia che la vera condizione dell’uomo sia una forma di stabilità, alla quale viene continuamente riportato.

Per riordinare la questione: l’Enciclopedia L’accelerazione del dibattito nel biennio 1748-1749 dimostra in modo inequivocabile che l’uomo dell’Illuminismo ha sempre meno voglia di parlare di morale e sempre più desiderio di discutere della felicità. Lo noterà persino Niccolò Fraggianni, insigne giurista con incarichi di alta responsabilità nel governo napoletano, che consegna a Gianrinaldo Carli, amico di Pietro Verri e di Cesare Beccaria, la «malinconica riflessione» secondo cui «non vi è mai stato tempo, in cui tanto si sia scritto dietro a materie pertinenti a morale» mentre contemporaneamente «si calpestano le massime di virtù e di onore»28.

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Basta scorrere la corrispondenza del già citato Elie Luzac per rimanere impressionati dalla rapidità e dall’intensità con cui circolano ormai, in tutt’Europa, libri, manoscritti, idee ed autori. Lo stesso Luzac pubblica un Saggio sulla libertà di produrre i propri sentimenti, con una fantasiosa indicazione del luogo di stampa: «Nel paese libero, per il bene pubblico 1749. Con privilegio di tutti i veri filosofi». L’occasione nasce da una difesa della libertà di espressione, dopo gli attacchi all’Uomo macchina e al suo editore, ma il ragionamento è più complesso e articolato, fino a diventare un’aperta denuncia dei limiti e delle costrizioni imposti dalla morale e dalle convenzioni sociali29. Se l’uomo è libero ed è un essere ragionevole, allora è anche in grado di esprimere propri sentimenti e opinioni: «è facile dire e provare che la libertà dell’uomo trova un limite, posto tanto dalla natura dell’universo quanto da colui che l’ha creato, in ciò che è dannoso per la società. Ma come possiamo determinare ciò che è dannoso per la società? Come possiamo capire ciò che fa progredire il bene pubblico e quello che invece gli fa torto?»30. Con una curiosa operazione intellettuale che recupera uno dei testi più noti del giusnaturalismo secentesco, cioè il trattato sui diritti e i doveri dell’uomo scritto da Pufendorf in latino e tradotto da Barbeyrac in francese, Luzac rivendica il diritto dell’uomo di seguire il proprio convincimento, anche se è effetto di un movimento erroneo della coscienza, per concludere che nessuno, nemmeno i sovrani e neppure in nome del bene pubblico, può porre limiti all’autodeterminazione dell’individuo31. Il subbuglio è grande, come dimostrano le contraddizioni dell’Enciclopedia, un’impresa editoriale dalla genesi lunga e complicata, ma rivoluzionaria nel suo genere perché ha l’ardimento di riordinare tutto il sapere umano in base ad un criterio alfabetico, quindi puramente razionale32. Nel secondo volume, stampato nel 1752, compare la voce sulla Felicità che non è scritta da alcuno di coloro che se ne è occupato fino a quel momento, bensì dall’abate Pestré, un compilatore assai meno conosciuto. Dopo tante polemiche, è venuto forse il momento di trattare l’argomento in termini più neutri e secondo un’impostazione maggiormente condivisa. Per redigere questa voce l’abate

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torna quindi in parte all’antico, riprendendo temi dello stoicismo, di Epitteto e Marco Aurelio, ma tiene presenti anche i testi di Fontenelle che, nel rispetto dell’impostazione cattolica, viene considerato ormai «un tecnico della felicità», cioè come colui che riesce a contemperare la dimensione morale con il razionalismo insito nel problema della misurazione del piacere33. Secondo Pestré la felicità «indica uno stato, una situazione di cui si desidererebbe la durata senza mutamento; in questo la felicità è diversa dal piacere, che è un sentimento gradevole, ma breve e passeggero, e non può mai essere uno stato». Misura e durata si affacciano quindi nell’Enciclopedia, ma il tema viene subito ricondotto al terreno della morale: una situazione di piacere continuo è inverosimile, perché la vita terrena non è mai uno stato tranquillo ed è continuamente intervallata da momenti lieti e momenti tristi. Dunque, la vera felicità, intesa come condizione di tranquillità dell’animo, è comprensibile solo all’interno di una scala gerarchica, alla cui sommità si pone esclusivamente la felicità dell’anima, alla quale può avvicinarsi chi – seguendo l’esempio di Cristo – trova il piacere nella moderazione, nella carità e nella temperanza. Per trovare traccia dei dibattiti più recenti bisogna spostarsi verso altre voci dell’Enciclopedia, come Passioni e Piacere, che presentano la stessa struttura della precedente, riprendendo però ampiamente anche Lévesque de Pouilly e contribuendo ad aumentare l’eclettismo dell’intera opera. Alla voce Società, scritta direttamente da Diderot, troviamo invece una spiegazione assai più chiara: «L’intera economia dell’umana società si basa su questo principio generale e semplice: ‘Io voglio essere felice, ma io vivo con uomini che, come me, vogliono ugualmente essere felici, ciascuno per loro conto; cerchiamo i mezzi di procurare la nostra felicità procurando la loro, o quanto meno senza mai nuocervi’». Qui troviamo riassunta non soltanto l’idea secondo cui la saggezza di ognuno è la sicurezza di tutti, ma persino la formula di Hutcheson della maggior felicità possibile per il maggior numero di uomini. Non dobbiamo stupirci di questo andamento discontinuo. Il dibattito sulla felicità costringe ad una serie di contraddizioni,

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ad aggiustamenti progressivi, riconoscibili persino all’interno delle opere di uno stesso autore, come nel caso di Diderot. Nell’arco di pochi anni, egli passa infatti dall’identificazione tra felicità e stato di natura, presente nel Supplemento al viaggio di Bougainville (1771), all’idea che viceversa la felicità debba essere identificata solo nella civiltà. In un altro caso, scrivendo allo scultore Étienne-Maurice Falconet, considera la felicità come una forma di espansione dell’essere nel tempo e nello spazio, come un assecondare i movimenti della natura, secondo un’idea umanistica; nell’Enciclopedia, invece, definisce la felicità come una condizione di assoluta immobilità simile all’estasi34. Felicità e diritto C’è un altro modo per misurare la felicità considerandola come una scienza, ed è legato alla cultura giuridica, alla possibilità di trasformarla in uno strumento regolatore dei rapporti sociali e della vita politica, in particolare grazie al diritto naturale. Già dal Seicento, giuristi come Grozio e Pufendorf si sono posti il problema di come rendere la società felice, sempre però a partire da considerazioni di tipo filosofico. Montesquieu in vari punti dello Spirito delle leggi, pubblicato nello stesso anno dell’Uomo macchina (1748), riprende gran parte di queste riflessioni, soprattutto per collegarle al problema della migliore forma di governo. Ecco quindi che «l’amore della democrazia è anche l’amore della frugalità. Dovendo infatti ciascuno avervi la stessa felicità e gli stessi vantaggi, vi deve godere gli stessi piaceri e formare le stesse speranze; cosa che non si può pretendere che dalla frugalità generale». E ancora: «il buon senso e la felicità dei privati consistono molto nella mediocrità del loro ingegno e delle loro ricchezze. Una repubblica in cui le leggi avranno formato molta gente mediocre, composta di persone sagge, si governerà saggiamente; composta di persone felici, sarà felicissima»35. Si tratta di considerazioni che devono molto agli antichi e alla cultura aristotelica, perché si fondono con un’idea della morale legata allo stoicismo: la felicità degli uomini consi-

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ste nel praticare i doveri sociali, non è nulla di immediato e di calcolabile, e quindi evidentemente non può nemmeno diventare un obiettivo dei governi e della legislazione. Nei Pensieri (1746) egli spiega, inoltre, che solo la felicità dell’esistenza è superiore ad ogni possibile somma di godimenti, raccontando di aver visitato le prigioni di Livorno e di Venezia e di avervi trovato uomini felici, capaci cioè di accontentarsi di quello che hanno e di goderne in modo completo36. Diderot criticherà duramente l’ipocrisia di Montesquieu; è evidente però che in queste pagine la questione della felicità non è ancora collegata in modo diretto al mondo del diritto, nel senso che non viene trasformata in una regola di condotta ma rimane un principio di filosofia politica, ed è vista come un criterio utile a orientare la formazione delle leggi o la definizione dei diritti dell’uomo. Viene affermata invece l’esistenza di un dovere alla felicità, che è un dovere sociale, sia in quanto impegno del singolo a migliorare la società e il benessere collettivo, sia in quanto compito dei governi nel promuovere la felicità «pubblica»: un’idea che non assume il rango di principio universale, ma che si adatta alla natura di ogni territorio, al carattere dei popoli, alle condizioni economiche. Su questa linea si pongono i maggiori teorici del diritto naturale, a partire da Ephraim Gerhard, che già nei suoi Lineamenti di diritto naturale (1712) nota come è chiaro, a partire dall’esperienza, che l’uomo cerca e deve cercare di raggiungere la sua felicità e di conservarla. Quindi la giurisprudenza naturale deve essere trattata a partire dai princìpi della sapienza. Quanti sono i mezzi per il raggiungimento della felicità, altrettante sono le norme delle azioni umane e altrettante sono le specie di moralità37.

Nel 1747 il giurista svizzero Jean-Jacques Burlamaqui, nei Princìpi del diritto naturale, dichiara che «l’osservanza delle leggi naturali fa la felicità della società e degli uomini», e tenta di rifondare una teoria della morale ispirata a criteri non più religiosi ma laici, che possono diventare principio generatore di ogni costituzione e di ogni sistema di governo: «Si chiama moralità il rapporto delle azioni umane colla legge che n’è la re-

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gola e si chiama morale l’insieme delle regole che dobbiamo seguire nelle nostre azioni». Quindi, «la moralità delle nostre azioni dipende dalla conformità o dalla loro opposizione a queste medesime leggi»38. A collegare la questione della felicità con il tema delle buone leggi provvede Elie Luzac che, oltre ad essere autore ed editore, ha svolto la professione di avvocato e pubblica numerosi scritti giuridici tra cui il saggio La felicità, ossia nuovo sistema di giurisprudenza naturale, apparso a Berlino nel 1754. Benché non si tratti di un testo di grande originalità quanto piuttosto di una sintesi del dibattito allora in corso, questo lavoro attira l’attenzione perché nasce proprio dalle discussioni con Maupertuis e rappresenta un tentativo di trasformare il discorso sulla felicità in regole concrete, nell’ambito di una nuova scienza della legislazione. Luzac utilizza sapientemente la sua profonda conoscenza dell’opera di Leibniz, di Grozio e dei maggiori teorici del diritto naturale, fino a Christian Wolff, per ricavare dal giusnaturalismo un catalogo dei diritti e dei doveri, basato sul presupposto che l’individuo ha la capacità di distinguere ciò che gli è proprio rispetto a quello che gli è estraneo e, quindi, ha anche la capacità di pensare e di agire autonomamente attraverso regole generali39. L’uomo passa continuamente da una condizione all’altra, dal piacere al dolore, ma possiede la naturale percezione del giusto e dell’ingiusto, del bene e del male, e questo gli consente di agire di conseguenza e di compiere atti volontari (che esprimono la sua condizione di libertà), destinati a migliorare la propria condizione. La sua libertà, che si esprime nei diritti, cioè nella facoltà di compiere o di omettere un’azione, trova un criterio di orientamento attraverso i doveri, che sorgono quando esiste una ragione per cui l’uomo deve compiere un determinato atto. Qual è il criterio che deve orientare le nostre azioni? L’uomo desidera il bene e non il male, ed è quindi naturalmente spinto ad accrescere la felicità propria e degli altri; questo principio deve guidare le sue azioni, in armonia con quanto dispone la legge naturale che è una legge universale. E questo è anche il compito della società e del governo, cui devono ispirarsi le leggi. L’uomo, perciò, è in grado di misurare la bontà delle leggi civi-

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li, misurandone e verificandone la coerenza rispetto all’obiettivo della felicità e ai fondamenti del diritto naturale. In modo speculare, ha anche diritti, che non sono naturali ma che acquisisce nella società civile esercitando la sua volontà, e che gli consentono di esprimere la sua libertà, cioè di scegliere la sua strada verso il conseguimento della felicità40. L’attenzione dedicata all’argomento dai giusnaturalisti è assai più rilevante di quanto potremmo essere indotti a pensare. Riconoscere che alla felicità si collegano doveri e diritti naturali significa sottrarre questo tema al fluttuante e contrastato dominio dell’etica, per attribuirgli un posto nell’ambito dei criteri che devono ispirare il riconoscimento delle leggi fondamentali di una società e di uno Stato. Il diritto alla felicità si avvia così a completare la sua trasformazione: non è più legato a un destino provvidenziale, che sfugge alla disponibilità dell’individuo, ma viene presentato sempre più spesso come un obiettivo da conquistare, nel quadro di una riflessione più ampia sulle libertà dell’uomo. Non dipende più da una concezione astratta della morale, ma viene trattato come una scienza, esatta e verificabile in base a criteri oggettivi o, comunque, sempre meno frequentemente soggettivi e dipendenti dall’arbitrio di pochi. Questa stessa strada viene indicata, in un contesto completamente diverso e maggiormente permeato della cultura cattolica, da Antonio Genovesi che nel proemio agli Elementi di commercio, le lezioni tenute all’università di Napoli tra il 1756 e il 1758, spiega la differenza tra la morale di Dio e quella dell’uomo. Esiste infatti una morale cristiana contemplatrice «della prima causa e dell’eterna felicità», e poi esiste un’altra morale che riguarda «i nostri comodi e la presente felicità nostra». Quest’ultima è una vera e propria scienza, che può essere distinta, al suo interno, in quella parte che studia come l’uomo può trasformare gli istinti naturali in virtù, ed allora si chiama etica; in quella che lo esamina in quanto capo della famiglia e amministratore delle sue ricchezze, ed allora si chiama economia; e, infine, in quella che lo studia come capo del popolo e suo regolatore, ed allora si chiama politica41.

VIII LA PAURA DEL MALE La mattina del 1° novembre 1755 un terremoto violentissimo, oggi valutabile intorno al nono grado della scala Richter, colpisce Lisbona, città di 275.000 abitanti e capitale del Portogallo. Il mare si ritira lasciando le rive e i moli a secco, comprese le barche ormeggiate; poco dopo un’onda alta 15 metri si abbatte sulla città, e nelle ore successive scoppiano anche numerosi incendi. L’epicentro è proprio vicino alla costa, e il sisma si espande interessando un’area di undici milioni di chilometri quadrati, colpisce il Marocco, distrugge Algeri e Marrakech, viene avvertito in Olanda e in Svezia, in tutta l’Africa settentrionale, nelle Antille e a Barbados. Quando lentamente le notizie cominciano a diffondersi, quel poco che si apprende rafforza le preoccupazioni; più di un mese dopo, il 12 dicembre, Antonio Niccolini scrive da Pisa a Gianrinaldo Carli informandolo che «le nuove del tremoto di Lisbona che si è fatto sentire da Kingsale in Irlanda sin qua in Italia, ed in Livorno stesso, sono terribili. Si crede che l’effetto di esso sarà fatalissimo alla piazza di Londra, a Genova, Firenze e Lucca. Il tempo ci istruirà maggiormente»1. Si conteranno alla fine 90.000 morti solo a Lisbona, almeno 10.000 in Marocco, ovunque distruzioni e lutti. I filosofi e la catastrofe Non è certo la prima volta che la violenza della natura si impone sull’uomo, costringendolo a fermare la sua corsa e a ri-

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flettere sul presente. La storia è piena di eventi simili e il Settecento non fa eccezione. Nel gennaio 1703 un forte terremoto distrugge L’Aquila e Norcia, provocando la morte del 22% della popolazione; dieci mesi dopo (26 novembre) inglesi e olandesi subiscono un terribile uragano, talmente violento da non poter essere comparato nemmeno «con il più rabbioso carattere di una persona cattiva» e da venire ricordato ancora venticinque anni più tardi da Jean Le Clerc, che ne analizza le conseguenze economiche e sociali sullo sviluppo dei Paesi Bassi2. Per tutto il secolo fenomeni simili continueranno a ripetersi – il più grave fra tutti è il terremoto della Calabria del 4 febbraio 1783 con 60.000 morti – colpendo l’immaginario collettivo degli europei. Dinanzi alle raffigurazioni di Lisbona, simbolo di uno dei paesi più impegnati nella difesa del cattolicesimo, ormai rasa al suolo, e ai racconti di gazzette e di viaggiatori, i protagonisti dell’età dei Lumi sono costretti a ripensare alla felicità in modo nuovo. Avvertono l’irrimediabile precarietà dell’esistenza terrena e i limiti della volontà umana. Di fronte a tanto dolore come si può avere fiducia nella Provvidenza? E come si può credere nella potenza rigeneratrice della natura, che appare invece come una matrigna? Come può l’uomo impegnarsi nella ricerca della felicità se poi tutta la sua esistenza è così precaria ed instabile? La catastrofe insegna all’uomo del Settecento, ormai rassegnato all’inutilità di una visione provvidenzialistica, che anche l’agire umano incontra dei limiti dinanzi all’imprevedibilità della natura. Molti si arrovellano su questo punto, da Voltaire, che dedica all’evento un celebre poema, a un giovanissimo Beccaria che compone alcuni versi Sciolti [sul terremoto di Lisbona]. Fiorisce un’ampia letteratura sui terremoti, sui disastri naturali e sulle loro cause, che tenta di darvi una spiegazione su base esclusivamente sperimentale e fisica, rimuovendo qualsiasi ipotesi su un’origine divina. Lo sviluppo delle ricerche sull’elettricismo suggerisce ipotesi bizzarre: taluno suppone che la causa dei terremoti risieda in scariche elettriche sotterranee, altri invece la individuano nell’impatto di una scarica elettrica dalle nuvole al terreno; altri ancora, osservando il comportamento di uomini e

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animali in occasione dei fenomeni sismici, immaginano una relazione tra il presunto ordine interno della natura e la mancanza di equilibrio dei fluidi elettrici. Lo stesso Alessandro Volta, osservando strani fuochi in occasione dei terremoti, vi ipotizza un innesco elettrico. Cambia anche il linguaggio: fino a quest’epoca il termine catastrofe veniva ancora usato prevalentemente nell’ambito della drammaturgia per indicare il brusco scioglimento dell’intreccio teatrale, la fine della narrazione, mentre ora viene trasferito definitivamente sul piano scientifico e politico per significare una trasformazione brusca e improvvisa, il passaggio da uno stato ad un altro che diventa irreversibile. Rinunciare all’idea di un destino provvidenziale significa però non soltanto far trionfare la scienza, ma dare anche ragione a intellettuali come Bayle, che già molti anni prima si erano posti il problema dell’origine del male. Si potrebbe anche accettare l’idea che il male non ha più un’origine divina ma, se così fosse, l’uomo dovrebbe tornare a riflettere sulle sue paure e sulle conseguenze delle proprie azioni3. Un nido di malinconia Prevale, sino a questo periodo, l’idea che l’avvenimento catastrofico si lega al rapporto tra il bene e il male, e che i mali naturali sono punizioni divine per quelli morali dell’uomo, secondo una prospettiva totalizzante tipica della cultura occidentale ma assente, invece, nella tradizione orientale. La paura rafforza quest’idea e fenomeni come i fulmini e i terremoti sono considerati manifestazioni di questo disegno punitivo, che coincide con un progetto divino4. Proprio per questo l’età moderna, da Hobbes a Spinoza e anche oltre, si interroga lungamente sull’origine della religione, dividendosi tra quanti la ritengono un elemento naturale e quanti la considerano invece una forma di impostura, cioè un’invenzione dell’uomo, una costruzione politica fondata sulla paura e sull’ignoranza, che ha lo scopo di spiegare la causa prima dei fe-

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nomeni naturali, atmosferici e cosmici, suggerendo timore e venerazione. Il problema dell’incapacità dell’uomo di dare una spiegazione razionale alle proprie paure e ai propri bisogni5 è costante nella cultura sei-settecentesca e viene rafforzato dalla crisi della coscienza europea. Anche per rispondere a questa crisi, Ludovico Antonio Muratori – storico ed erudito modenese e uno dei più significativi rappresentanti della cultura cattolica del tempo – pubblica nel 1749 la sua ultima opera, intitolata Della pubblica felicità, che in un certo senso rappresenta il punto d’approdo della riflessione cattolica, destinata a rimanere nel tempo e a chiudere un’intera epoca. Si tratta di una risposta all’individualismo dilagante, basata sull’idea che esiste una naturale subordinazione dell’uomo rispetto alla società e che il singolo non ha quindi uno spazio autonomo nella ricerca della felicità. La felicità è pubblica nel senso che si iscrive in un quadro più generale di progresso e di miglioramento dell’umanità, ma ciò avviene sempre attraverso la fede nella Provvidenza; nella quotidianità vi provvede il principe, che è pastore della vita terrena, in quanto investito da Dio nella sua missione di governo della società. Muratori non è estraneo alle discussioni che hanno portato a misurare il problema della felicità attraverso indicatori di carattere economico o matematico; ma compie una scelta precisa, e ritiene che siano proprio le nuove disuguaglianze a esaltare il valore negativo delle passioni e a non giustificare la formula di Mandeville «vizi privati, pubbliche virtù». Rimette perciò in campo le teorie dei moralisti francesi, affermando sempre più la necessità dell’impegno del singolo per la felicità degli altri, che si esprime principalmente attraverso la carità. Scrive in apertura del suo lavoro: Prima di parlare della pubblica felicità conviene che c’intendiamo il lettore ed io. Abbraccia questo nome di felicità due diverse provincie; la prima delle quali consiste nel goder molti beni quaggiù, onde possono venire assaissimi comodi al possidente. L’altra consiste nell’esenzione dai mali. E quanto a quest’ultimo, certo è che si può chiamare felice quaggiù chi non prova alcuna delle tante dure pensioni al-

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le quali sì facilmente è soggetto ognun de’ figlioli d’Adamo, o si riguardi al corpo, o si consideri l’animo6.

Muratori stabilisce così un punto fermo, dal quale la cultura cattolica non dovrà più allontanarsi sensibilmente. La felicità consiste nella tranquillità dell’anima e del corpo, che è una condizione data solo da Dio. L’uomo da solo può fare molto poco e anche l’acquisto dei beni materiali non può renderlo veramente felice, anzi spesso gli procura pensieri e preoccupazioni, quindi infelicità. Non può nemmeno confidare sul fatto che, qualora riesca a godere di una piccola dose di felicità, questa possa essere di lunga durata. Né esistono uno Stato, una monarchia o una repubblica in cui l’uomo possa dirsi veramente felice, perché ogni contesto politico è continuamente messo alla prova dall’alchimia tra il bene e il male che attraversa ogni vicenda terrena. Noi dunque per pubblica felicità altro non intendiamo se non quella pace e quella tranquillità che un saggio ed amorevol principe, o ministero, si studia di far godere, per quanto può, al popolo suo, con prevenire ed allontanare i disordini temuti e rimediare ai già succeduti; con fare che siano non solo in salvo, ma in pace, la vita, l’onore e le sostanze di qualsivoglia dei sudditi, mercé un’esatta giustizia, coll’esigere sì discretamente i tributi che si contenti della lana delle sue pecorelle, senza volerne anche la pelle, e in oltre col procacciare al popolo qualunque comodo, vantaggio e bene che sia in mano sua7.

Su questa base, che fornisce anche i fondamenti per una filosofia morale, si attesta dunque questa parte dell’esperienza riformatrice. La felicità non può essere un bene privato: coincide con il bene pubblico, con il benessere della società. Se l’uomo cedesse alla lusinga di poter cercare da solo la felicità terrena potrebbe forse liberarsi dai mali del corpo, ma rimarrebbe condannato all’infelicità, perché non può liberarsi dai mali dell’anima. La paura e il timore che ci accompagnano, dal peccato originale in poi, ci hanno trasformato – spiega Muratori – in «un nido di malinconia», dal quale possiamo salvarci solo con la fede in Dio e nel bene della società. Compito del principe è quin-

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di quello di procurare al popolo il massimo della felicità «che è possibile nel mondo, patria di molti guai, di errori e di tante sregolate passioni». L’opera di Muratori costituisce, in un certo senso, la risposta cattolica alla filosofia della felicità di Maupertuis, rilanciando temi sui quali tanti «valenti moralisti gladiatori italiani», per usare le parole di Carli, continuano a dibattere nel secondo Settecento. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Settecento si scatena in Italia una vera e propria battaglia contro Maupertuis, contro il calcolo dei piaceri e dei dolori e, più in generale, contro la visione razionalistica della felicità, che evidenzia la frattura tra due visioni del mondo considerate ormai irrimediabilmente inconciliabili8. Il dibattito sulla «pubblica felicità» ne è una riprova, soprattutto quando serve, come vedremo, ad additare i doveri dell’uomo nei confronti della società. La cultura dell’inquietudine La modernità, vista come esito di questo lungo processo di secolarizzazione, può essere quindi fonte di angosce e l’interprete più lucido è Voltaire, intellettuale celebrato e discusso, apprezzato e invidiato, coscienza critica della cultura francese. La sua irrequietezza lo porta già negli anni Quaranta a immaginare una separazione netta tra la fiducia che si deve riporre in un ordine razionale della natura e l’esistenza casuale degli uomini, impegnati continuamente in una ricerca della felicità che, se non li appaga, almeno rende loro tutto più sopportabile. Questa visione, tutto sommato ottimistica, viene sradicata dal suddetto terremoto di Lisbona, sul quale, come già accennato, scrive nel 1756 un celebre poema che dà voce al dubbio e alle inquietudini: «Ebbene sì, ammettiamolo, il male è sulla terra, / Il suo oscuro principio a noi è sconosciuto / Dall’autore del bene il male ci è venuto?». Dinanzi a questo interrogativo «io abbandono Platone, io rigetto Epicuro, / Bayle ne sa più di tutti; io vado a consultarlo: / con la bilancia in mano, mi insegna a dubitare». L’uomo si annichilisce quando il male si diffonde per ogni dove e

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quando la stessa terra, su cui poggia i piedi, si rivela insicura e pericolosa: «Atomi tormentati sopra un mucchio di fango / Che la morte si ingoia, la cui sorte si gioca, / Ma atomi pensanti, atomi che hanno occhi / Guidati dal pensiero a misurare i cieli; / In seno all’infinito lanciamo il nostro essere, / Senza vederci un attimo, senza di noi sapere. / Questo mondo è teatro e d’orgoglio e d’errore / Pieno di disgraziati che parlano di felicità»9. L’impegno di Voltaire contro il male, contro la superstizione e contro la violenza diventa quindi la difesa dell’ottimismo della ragione, che però viene condotta attraverso un’analisi dell’infelicità e della sofferenza. In Candido, ovvero l’ottimismo (1759) racconta la favola dell’ingenuo che percorre il mondo credendo di vivere nel migliore dei modi possibili e prova invece le esperienze più dure, che lo costringono continuamente a rivedere il suo giudizio. Incontra la guerra con le sue tragedie, le malattie, la schiavitù, l’infelicità quotidiana e la ferocia dell’Inquisizione. Un bel giorno Candido e il suo accompagnatore Pangloss, che è suo maestro e filosofo, dopo una violenta tempesta fanno naufragio sulle coste del Portogallo e incappano nel terremoto. Quando si furono un poco rimessi, s’incamminarono verso Lisbona; restava loro qualche soldo, col quale speravano di scampar dalla fame dopo esser scampati alla tempesta. Hanno appena messo piede in città, piangendo la morte del loro benefattore, ecco che la terra trema sotto i loro piedi; il mare si gonfia spumeggiando nel porto, e spezza le navi ancorate. Turbini di fiamme e cenere coprono strade e pubbliche piazze; crollano le case, i tetti si rovesciano sulle fondamenta, le fondamenta scompaiono; trentamila abitanti di ogni età e sesso son schiacciati sotto le macerie. Il marinaio diceva fischiando e bestemmiando: ‘Ci sarà da guadagnare qualche cosa, qui’. ‘Quale sarà la ragion sufficiente di questo fenomeno?’ diceva Pangloss. ‘Ecco la fine del mondo!’ esclamava Candido. Il marinaio corre immediatamente in mezzo alle macerie, sfida la morte per cercar denaro, ne trova, se ne impossessa, s’ubriaca, e, dopo aver smaltito la sbornia, compera i favori della prima ragazza di buona volontà che incontra sulle rovine delle case distrutte, in mezzo a morti e moribondi. Frattanto Pangloss lo tirava per la manica. ‘Amico,’ gli diceva ‘non sta bene, vieni meno alla ragione universale, scegli male il momento’. ‘Testa e sangue,’ rispose

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l’altro ‘son marinaio, nato a Batavia; quattro volte ho calpestato il crocifisso in quattro viaggi al Giappone, sei cascato bene con la tua ragione universale!’10.

Deluso ogni volta dagli eventi, che smentiscono il suo ottimismo, Candido ricomincia sempre daccapo, convinto che ci sia una ragione in ogni cosa e che tutto è bene: Il giorno dopo ripararono un poco le forze con qualche provvista da bocca trovata strisciando fra le macerie. Poi si misero a lavorare come gli altri per soccorrere gli abitanti sfuggiti alla morte. Alcuni cittadini soccorsi da loro gli offrirono il miglior pasto che fosse possibile in quel disastro. È vero che il pasto era triste; i convitati innaffiavano il loro pane con le lagrime; ma Pangloss li consolò accertandoli che le cose non potevano andare altrimenti. ‘Poiché’ diceva ‘queste cose sono per il meglio. Poiché, se c’è un vulcano a Lisbona, non può essere altrove. Poiché è impossibile che le cose non siano dove sono. Poiché tutto va bene’. Un ometto nero, familiare dell’Inquisizione, che gli stava accanto, prese educatamente la parola e gli disse: ‘Si direbbe che il signore non crede al peccato originale; poiché, se tutto va per il meglio, non c’è dunque stata né caduta né castigo’. ‘Domando umilissimamente perdono all’Eccellenza Vostra’ rispose Pangloss ancora più educatamente ‘perché la caduta dell’uomo e la maledizione entravano necessariamente nel migliore dei mondi possibili’11.

Nonostante le ultime parole siano cariche di ironia, questo non impedisce a Voltaire di commuoversi per il disastro di Lisbona e per i suoi effetti distruttivi, più per le menti degli uomini che per le loro opere precarie; ironia non capita da Jean-Jacques Rousseau il quale, scrivendogli il 18 agosto 1756, si stupisce di questo dolore per una semplice città, povera cosa umana, composta da meno di ventimila case di sei o sette piani.

«Tutto è bene» L’obiettivo di Voltaire è però più elevato: aprire il capitolo dell’infelicità, per lui, significa riflettere su ciò che è ingiusto e sul-

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l’origine del male. Finché gli uomini avevano dinanzi a loro il dogma del peccato originale e un’idea del bene intimamente connessa allo spirito di religione disponevano anche di una spiegazione plausibile della rarità o dell’assenza di felicità sulla terra. Ma una volta che il processo di secolarizzazione è stato avviato, mentre l’uomo è lasciato con se stesso a seguire i propri sensi e desideri, servirebbe un’altra guida altrettanto sicura, che i filosofi però non sono in grado di indicare. Voltaire lo spiega in varie voci del Dizionario filosofico (1764), prime fra tutte quelle intitolate Bene (Sommo bene e Tutto è bene), e ancora una volta con molta ironia: «Gli antichi hanno molto disputato sul sommo bene. Tanto valeva chiedersi che cos’è il sommo blu, o il sommo manicaretto, il sommo incedere, il sommo leggere ecc. Ognuno mette il proprio bene dove può e ne ha quanto può a suo modo». Più ampiamente, trattando di Tutto è bene, polemizza con Leibniz, Shaftesbury e numerosi altri, colpevoli di aver spiegato agli uomini che Dio poteva fare un solo mondo, che «noi dobbiamo essere contentissimi e che Dio non poteva fare di più per noi, avendo necessariamente scelto, fra tutti i partiti possibili, incontestabilmente il migliore». In realtà non possiamo negare che esista il male; basta affacciarsi ad una finestra, scrive Voltaire, per vedere quanti disgraziati e infelici ci sono nel mondo: «l’origine del male è sempre stato un abisso di cui nessuno ha potuto vedere il fondo: ciò che ha ridotto tanti antichi filosofi e legislatori a ricorrere a due princìpi, uno del bene e uno del male»12. Coloro che ripetono «tutto è bene» e pretendono di ricondurre ogni avvenimento, bello o brutto, giusto o ingiusto, felice o triste, a leggi immutabili, ad un ordine precostituito, a princìpi immutabili che giustificano tutto, non rendono quindi un buon servizio all’umanità. Questo sistema del Tutto è bene rappresenta il Creatore come un re potente e malefico, che non si dà tanto pensiero del fatto che possa costare la vita a quattro o cinquecentomila uomini, mentre i rimanenti tirano avanti nelle strettezze e nel pianto, purché egli venga a capo dei suoi propositi. Lungi dunque dal consolarci, questa tesi del migliore dei mondi possibile è desolante per i filosofi che l’adottano. La

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questione del bene e del male rimane un caos inestricabile per coloro che vi indagano in buona fede; è un passatempo per coloro che ne dissertano: come forzati che giochino con le loro catene. In quanto alla massa, che non pensa, essa è simile a quei pesci che si sono travasati da un fiume in un vivaio, e non sospettano di trovarsi là per essere mangiati di quaresima: così noi non arriviamo da soli a conoscere le cause del nostro destino13.

Anche la questione del lusso, che tanto aveva appassionato studiosi come Mandeville e Genovesi, e che veniva considerata come una conseguenza inevitabile della civilizzazione e del progresso, comincia a porre nuovi problemi. Quando non conosce limiti e manca l’obiettivo di promuovere lo sviluppo della società e del benessere pubblico, il lusso diventa segno di decadenza morale, di conflitti tra i ceti. Comincia ad emergere l’idea che è necessaria una suddivisione più equa delle ricchezze e un’agiatezza proporzionata alle differenti condizioni sociali. Come si può realizzare tutto ciò? Accantonate le utopie comunitarie e comunistiche, che ipotizzavano l’abolizione della proprietà privata (facendo regredire l’uomo ad uno stato di natura, presociale e quindi pre-civilizzato), si scopre che esistono virtù socialmente utili come il merito, che devono diventare un criterio per la distribuzione delle risorse sociali. Si apre un nuovo scenario: la felicità individuale non dipende più dal carattere naturale, ma dal modo in cui il singolo si rapporta con la società e i suoi bisogni, nel cui soddisfacimento si sente appagato. Questo diventa il nuovo significato della parola virtù: «la virtù e il vizio, il bene e il male morale sono [...] in ogni paese quel che è utile o nocivo per la società», scrive Voltaire sin dal 1734. Nel Dizionario filosofico lo rispiega in modo ancora più netto: «che cos’è la virtù? Far del bene al prossimo [...] Noi viviamo in società; dunque non c’è di veramente buono per noi che ciò che fa il bene della collettività. Un solitario sarà sobrio, pio, vestirà un cilicio: ebbene, sarà santo, ma io lo chiamerò virtuoso solo quando avrà compiuto qualche atto di virtù di cui gli altri uomini avranno tratto un giovamento»14. La felicità diventa quindi un criterio per misurare il rapporto tra

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l’uomo e la società, per superare i limiti dell’egoismo e dell’interesse individuale, soprattutto dinanzi alle grandi trasformazioni sociali ed economiche che si stanno affacciando. Come rimediare alle ingiustizie Benevolenza, assistenza e carità confluiscono in una dimensione del «fare del bene» che punta a collegare l’amor proprio con il senso della solidarietà, con il progresso civile, con un nuovo concetto del bene comune superiore alla somma degli interessi privati. L’uomo non può trovare la propria felicità al di fuori di una società felice, giusta e bene ordinata e ciò significa porre in maniera nuova il rapporto tra felicità privata e felicità pubblica. Questo slittamento della felicità verso la politica, unito al calcolo dell’interesse, si ritrova in Claude-Adrien Helvétius, che scrive sin da giovane un poema dal titolo La felicità (rimaneggiato continuamente per tutta la vita) e che pubblica nel 1758 un’opera destinata a largo successo, intitolata Dello spirito. L’intera prima parte non è in realtà molto originale, perché non fa che riprendere il tentativo di riabilitare l’amore di sé, visto come un albero proibito, che presenta «sugli stessi rami i frutti del bene e del male»; sta all’uomo cogliere i frutti del bene. Questo amore di sé lo spinge a cercare il piacere fisico e ad avversare il dolore in base all’interesse, che è una tensione della volontà volta a procurare la felicità. Per capire tuttavia che cosa sia la felicità, occorre riflettere sull’infelicità: «il vero spirito legislativo dovrebbe occuparsi della felicità generale. Per dare felicità agli uomini sarebbe forse necessario farli vivere come pastori: non è escluso che le scoperte fatte in materia di legislazione ci ricondurranno allo stadio da cui siamo partiti»15. Il contributo più interessante e innovativo giunge però quando Helvétius passa allo studio del rapporto tra l’uomo e la società, attraverso il quale l’amore di sé si sublima nel concetto di interesse, visto come un’elaborazione razionale dell’amore di sé. Nel momento in cui si costituisce la società, l’uomo diventa

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capace di giudicare cosa è vantaggioso per sé, in termini economici e solidaristici, e «il desiderio comune di assicurare la proprietà dei loro beni, della loro vita, della loro libertà» non è più una generica attitudine etica o morale, ma una spinta propulsiva che nasce da una società cambiata con l’incremento della popolazione, con l’aumento degli scambi, con la formazione di un’economia basata sul commercio. Il problema, come nota nella sua diagnosi, è che «nella forma attuale del nostro governo, gli individui non sono uniti da alcun interesse comune», ma sono portatori solo di interessi individuali e questo provoca lacerazioni sociali, disuguaglianze, squilibri nella vita politica. Occorre allora procedere ad una riforma della società, rimediando all’ineguale distribuzione delle ricchezze, promuovendo l’interesse all’utilità pubblica, educando gli individui a nuove forme di solidarietà: «Un governo assicura ai propri sudditi la proprietà dei loro beni, della loro vita, della loro libertà? Si oppone all’eccessiva disuguaglianza nella divisione delle ricchezze nazionali? Conserva infine tutti i cittadini in un certo stato di agiatezza? Allora ha fornito a tutti i mezzi per essere all’incirca tanto felici quanto possono esserlo»16. Bisogna coltivare le virtù e una di queste è il lavoro: chi lavora è felice, e ciò lo distingue da tutti gli oziosi e parassiti, condannati alla noia. L’operaio e il contadino, a differenza dell’aristocratico, hanno la gioia di vedere il frutto della propria giornata di lavoro. Così Helvétius richiama l’attenzione sul fatto che il criterio di orientamento della morale non può essere altro che «l’utilità pubblica»17. La scienza della felicità, che si è nutrita dei dibattiti economici e giuridici, si fa così scienza della politica e la felicità diventa un programma per il legislatore, che dovrà farsi carico dell’interesse comune formato dal «complesso di tutti gli interessi particolari», così come «la felicità pubblica è composta da tutte le felicità individuali». E ancora: «È sbalorditivo come tante differenti forme di governo (istituite se non altro col pretesto del pubblico bene), tante leggi, tanti regolamenti, non siano stati presso la maggior parte dei popoli che strumenti per l’infelicità degli uomini. Forse non è possibile evitare tale disgrazia senza

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tornare a costumi estremamente più semplici. So bene che in tal caso si dovrebbe rinunciare a un’infinità di piaceri di cui non è facile privarsi; tuttavia questo sacrificio costituirebbe un dovere, se lo esigesse il bene pubblico. Forse non è dato supporre che l’estrema felicità di alcuni è sempre connessa all’infelicità della maggior parte degli uomini?»18. Il problema posto da Helvétius, allora, non è tanto quello della felicità in se stessa, quanto quello di come creare una società giusta. La ricchezza, il lusso, le disuguaglianze economiche producono conflitti e divisioni, così come l’errato convincimento che la felicità sia una condizione di opulenza che dovrebbe riscattare da un mondo di ingiustizie. Nella vita quotidiana la società è però governata in maniera dispotica, nel senso che chi comanda – politicamente ed economicamente – è nemico di chi è governato e indifferente alla sua felicità19. Occorre quindi riformare la legislazione, istituire un nuovo governo, costruire la felicità universale come condizione per una società giusta ed equa. La felicità pubblica sarà composta allora da tutti gli interessi individuali, o almeno dalla maggior parte di essi,20 e il filosofo avrà il compito di indicare al legislatore le leggi che possono servire a realizzare questo progetto. Queste idee sono probabilmente presenti anche al traduttore francese che s’incarica di introdurre, nel 1770, l’opera postuma di Hutcheson sulla filosofia morale: «La scienza dei costumi, o morale, non è più solo quello che si intende ordinariamente, ma consiste nel diritto naturale e nella politica; in una parola, in tutto ciò che è necessario per agire rispetto allo stato o alla condizione in cui ci si trova»21. Benché si tratti del saggio meno originale di Hutcheson, rimane tuttavia interessante perché mostra – alla luce di quanto abbiamo ricostruito – come una riflessione sulla felicità basata su antiche premesse entri ormai in una sorta di cortocircuito culturale. Dopo una prima parte dedicata all’analisi delle passioni, dei piaceri e dei desideri e all’idea del sommo bene come promessa di Dio, Hutcheson passa infatti ad una seconda in cui spiega come le regole della politica e del vivere civile debbano essere dedotte da questa medesima idea di morale, da cui derivano le leggi, i diritti e i doveri.

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Il cortocircuito avviene laddove, dopo aver sostenuto che la legge di natura è immutabile e che la morale ci indica cosa è giusto e cosa è ingiusto, non riesce più a spiegare in che cosa consistono i diritti della persona. Ammette che sono «qualcosa di assai più complicato» e li riduce alla facoltà di agire in funzione del bene comune, al diritto di contenere i sensi e le passioni naturali, sforzandosi di dimostrare che la libertà consiste non in una libertà di agire e quindi positiva, ma in una libertà di non agire, di guidare i nostri desideri solo fino al punto in cui non sono «incompatibili con dei princìpi superiori»22.

La felicità perduta Il 18 agosto 1756, Jean-Jacques Rousseau scrive a Voltaire, come già ricordato, una lettera di forte critica contro il poema sul disastro di Lisbona: mi aspettavo da voi un risultato più degno dell’umanità che sembra averlo ispirato [...] invece delle consolazioni in cui speravo, voi finite col rattristarmi; si direbbe che temiate che io non mi renda conto a sufficienza di quanto sono infelice e che crediate – così sembra – di tranquillizzarmi provandomi che tutto è male. State in guardia, Signore, accade esattamente il contrario di ciò che sostenete. Quell’ottimismo che trovate tanto crudele mi consola, tuttavia, di quegli stessi dolori che descrivete come insopportabili. [...] I veri princìpi dell’ottimismo non possono essere dedotti né dalle proprietà della materia né dalla meccanica dell’universo, ma solo per induzione dalla perfezione di Dio che sovraintende a ogni cosa [...] I primi ad aver guastato la causa di Dio sono i preti e i devoti, che non possono soffrire che qualcosa non si faccia seguendo l’ordine stabilito, ma che fanno sempre intervenire la giustizia divina negli avvenimenti prettamente naturali e, per essere sicuri di quanto affermano, puniscono e castigano i malvagi, mettono alla prova e ricompensano i buoni, indifferentemente con benefici e danni, a seconda delle circostanze [...] I filosofi a loro volta non mi sembrano molto più ragionevoli quando li vedo prendersela col cielo perché non riescono ad essere impassibili o quando gridano che tutto è perduto perché hanno mal di denti o perché sono poveri,

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o perché vengono derubati e vorrebbero, come dice Seneca, incaricare Dio di far la guardia al loro bagaglio23.

Mentre scrive queste parole, Rousseau ha già pubblicato alcune opere importanti, tra cui il saggio sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini, ma non ancora quella per cui diverrà più celebre, cioè il Contratto sociale. Ha lasciato Parigi per tornare a Ginevra, la sua patria, si è convertito al calvinismo e si sta dedicando ormai completamente alla filosofia e alla politica, che gli procureranno grandi fastidi con le autorità politiche francesi e ginevrine. La lettera a Voltaire, nota come Lettera sulla Provvidenza, è quindi il documento di un uomo inquieto, che cerca un proprio ruolo nella repubblica delle lettere ma sta compiendo anche un proprio percorso alla ricerca della felicità, di una condizione stabile nella vita umana, che cerca continuamente di sperimentare, verificandone peraltro l’insuccesso. Questo spiega le molte direzioni intraprese, cui corrispondono la sua varia attività letteraria e lo sforzo di declinare il tema della felicità nel mondo degli affetti, nella vita politica e in quello riparato della solitudine, lontano dalle ferite e dai dolori sociali24. In Giulia o la nuova Eloisa. Lettere di due amanti di una cittadina ai piedi delle Alpi (1761), che per un secolo sarà il romanzo più letto e venduto in Francia, Rousseau tratteggia una storia dei sentimenti raccontando dell’amicizia tra Giulia, sposata infelicemente con Wolmar, e Clara e della passione segreta della nobile Giulia con il suo giovane precettore Saint-Preux, che nobile non è. Il lettore viene posto continuamente dinanzi al contrasto tra l’amore ideale e puro, che ciascuno può immaginare e leggere, e l’amore realmente vissuto, che si realizza concretamente nella società. Il mondo dell’amicizia, in cui si rifugiano Giulia e Clara, è invece quello in cui ognuno può riconoscere il valore del sentimento e della tenerezza, al riparo dal mondo adulto e da qualsiasi costrizione sociale. Giulia cerca la propria felicità cercando di guidare passione e sentimenti verso una forma di progressiva stabilizzazione, che però viene continuamente messa in crisi ogniqualvolta le pare di aver raggiunto un equilibrio. In realtà, quindi, non è felice, ma si nutre dell’il-

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lusione di poterlo essere, ricorrendo all’immaginazione. Quando alla fine Giulia muore, questo evento esprime la rivendicazione estrema dei sentimenti negati, che si manifesta nell’ultima sua lettera a Saint-Preux contenente una dichiarazione postuma d’amore, e nel vuoto che lascia a Clara, spinta sulla soglia del suicidio25. Esiste dunque una dimensione puramente immaginaria e progettata dei sentimenti, nella quale ci sono assoluta libertà, trasparenza delle intenzioni, uguaglianza dei sessi e dei meriti; e poi c’è il mondo reale, dove manca la libertà individuale, dove si è costretti a mascherarsi dalle convenzioni, dove si vive tormentati dalle contraddizioni. Nel frammento sulla Felicità pubblica Rousseau fa una chiara denuncia: «ciò che costituisce la miseria umana è la contraddizione che esiste tra la nostra condizione e le nostre inclinazioni, tra la natura e le istituzioni sociali, tra l’uomo e il cittadino. Se riuscirete a eliminare questa duplicità, renderete l’uomo tanto felice quanto può esserlo»26. Il sogno politico presentato nel Contratto sociale è, da questo punto di vista, proprio quel progetto per una società migliore nella quale gli uomini (e le donne) possono essere finalmente se stessi, dove c’è coerenza tra valori privati e valori sociali, dove l’individuo può costruire la propria felicità rendendo allo stesso tempo felice tutta la società. Il percorso del ragionamento rousseauiano è noto: lo stato di natura era quello di un’originaria uguaglianza e libertà ma, nella sua fase degenerata, ha costretto l’uomo a competere con i propri simili e a diventare dipendente dagli altri. Per mantenere la propria libertà, quindi, l’uomo non può fare altro che abbandonare la pretesa dei diritti naturali e sottomettersi alla volontà generale, cioè unicamente alle leggi di cui egli stesso, assieme agli altri, è autore, evitando così di rimanere subordinato all’autorità di uno solo. Il modello di democrazia che vi viene descritto, secondo cui quindi la società e il governo nascono dalla libera volontà degli uomini, è ancora una volta una forma di trasparenza delle regole e dei rapporti tra le persone27. Si instaura così un circolo virtuoso: in una democrazia, «quanto meglio costituito sarà lo Stato, tanto più gli affari pubblici predomi-

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nano su quelli privati nello spirito dei cittadini. V’è anche molto minor numero di affari privati; perché, offrendo la somma di felicità comune una porzione più considerevole alla felicità di ciascun individuo, resta a costui meno di cercarne nelle cure particolari»28. Solo negli ultimi anni, con le Passeggiate solitarie (1776), trionferà in Rousseau la delusione per una realtà ostile e la confessione ultima di aver «imparato, attraverso la mia personale esperienza, che la fonte della vera felicità è in noi». Si tratterà però di una visione assai meno ottimistica, e destinata a sfociare nell’ampio dibattito che accompagnerà le vicende rivoluzionarie.

Il male viene dall’uomo I temi e le suggestioni di Hutcheson e di Helvétius tornano negli scritti di un gruppo di intellettuali che animano la cultura milanese degli anni Sessanta del Settecento: Pietro e Alessandro Verri, Cesare Beccaria, Alfonso Longo, Gianrinaldo Carli, i quali pubblicano un giornale divenuto famoso, dal titolo «Il Caffè». Pietro Verri stampa nel 1763 alcune Meditazioni sulla felicità, destinate per la verità a poca fortuna e circolazione, anche a causa dello stile involuto e farraginoso. In esse l’autore riutilizza però ampiamente lo schema della costruzione di una società attraverso la massimizzazione del piacere, in cui la felicità appare una garanzia per il benessere di ciascuno e la virtù come un’utilità sociale29. Scrive infatti: tutte le leggi fittizie [nel senso di fatte dall’uomo] devono dunque avere per iscopo la pubblica felicità, ed essendo interesse di ogni membro mantenere sì fatta unione, è interesse pure di ogni membro che si osservino le leggi per le quali sussiste, giacché violandole ecciterebbe gli altri a rimettere contro di lui unitamente in vigore la primigenia legge della forza. La legislazione più perfetta di tutte è quella in cui i doveri e i diritti dell’uomo sieno chiari e sicuri, e dove sia distribuita la felicità colla più eguale misura possibile su tutti i membri30.

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Verri, insieme a Beccaria, riprende anche la famosa formula di Hutcheson secondo cui la felicità pubblica è la maggior felicità possibile per la maggiore uguaglianza possibile. Accoglie invece solo superficialmente le denunce di Helvétius contro la politica ingiusta, contro lo sfruttamento degli schiavi e il sacrificio dell’uguaglianza sull’altare del commercio e dell’arricchimento31. Di lì a pochi mesi l’attenzione viene però spostata verso un’altra opera, che spinge l’interesse del pubblico europeo in una direzione del tutto nuova rispetto al rapporto tra felicità e infelicità, e cioè Dei delitti e delle pene di Beccaria. Considerato uno dei capolavori dell’Illuminismo italiano e frutto delle animate discussioni sorte tra il gruppo legato al periodico «Il Caffè», il saggio Dei delitti e delle pene è da subito visto come «il primo libro che sia stato scritto in Italia in favore dell’umanità con energia e indipendenza»32. Discutere sui delitti e sulle pene è evidentemente un modo diverso per esaminare le caratteristiche che devono distinguere una società giusta, nel rispetto della libertà e della dignità dell’uomo. Tuttavia, una parte del significato dell’opera rischia di sfuggire, se non consideriamo cosa sta avvenendo in quell’epoca nel mondo occidentale: dai continui tentativi di riformare l’amministrazione politica ed economica in varie parti d’Italia e d’Europa, all’insofferenza che vivono le colonie americane dinanzi alle vessazioni della madrepatria e ai tumulti sempre più frequenti in Inghilterra contro il governo oppressore di Giorgio III. Grande clamore suscita nel 1763 l’arresto e il processo del deputato radicale al Parlamento John Wilkes, reo di aver calunniato il re e il governo dalle pagine del suo giornale, il «North Briton», ma trasformato in un eroe popolare al grido di «Wilkes and Liberty». Molti cominciano ad avere dubbi sulla bontà del governo inglese e, proprio mentre Pietro Verri continua a vedervi la «libertà delle nazioni», Wilkes esule sul continente passa per Milano, in viaggio alla volta di Napoli, per sostenere le ragioni delle colonie americane e l’inutilità della guerra mossa nei loro confronti, affermando «che la pace presente è una tregua armata, che per i deserti del Canadà e per le sabbie della Florida non vale la pena di fare una così gran guerra»33.

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Il mondo è quindi profondamente mutato e la guerra ripropone il tema del male, della violenza, della violazione dei diritti dell’uomo, della corruzione politica. L’uomo non teme più eventi esterni alla sua volontà, ma ha paura di se stesso e dei propri simili, della propria natura e delle conseguenze delle proprie azioni: il male proviene dall’uomo. Se rileggiamo Dei delitti e delle pene nella terza edizione curata nel 1766 dall’autore stesso, possiamo capire perché si insiste sin dalle pagine introduttive nell’uso della parola felicità. Su questo punto le idee di Beccaria sono chiare: la felicità nella vita terrena nasce «dalle sorgenti dalle quali derivano i princìpi morali e regolatori degli uomini», che sono la Rivelazione, la legge di natura e i patti tra gli uomini; ma la pubblica felicità, quella della società nel suo insieme, è amministrata solo dai governanti, che sono «i benefattori dell’umanità che ci reggono». L’uomo ha però la responsabilità di scegliere tra il bene e il male e deve essere aiutato, quindi «spetta ai teologi lo stabilire i confini del giusto e dell’ingiusto, per ciò che riguarda l’intrinseca malizia o bontà dell’atto», ma sarà prerogativa del filosofo indicare la natura politica del giusto e dell’ingiusto, «cioè dell’utile e del danno della società». È possibile allora salvare se stessi trovando la forza di rinunciare contemporaneamente al massimo del potere e della felicità e al massimo della debolezza e della miseria. Si può rimediare ai mali e ai disordini che affliggono la vita quotidiana scegliendo – e qui ritorna la formula di Hutcheson – la massima felicità divisa nel maggior numero di persone. La rinuncia al massimo dei mali impone la costruzione di un sistema di governo giusto; richiede che si combatta la crudeltà delle pene, che si regolino le procedure criminali, che ci si renda conto di come le pene e il diritto di punire non sono l’espressione di un potere divino, ma corrispondono a quella parte di libertà alla quale l’uomo rinuncia per poter vivere in sicurezza e tranquillità. Anche i mali che derivano dalle punizioni sono un prodotto dell’uomo34. Qual è il giusto equilibrio? Una prima soluzione consente di individuare un nuovo criterio per capire ciò che è giusto quando la società amministra consapevolmente il male come risposta

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ad un altro male, cioè quando somministra le pene per punire un delitto. La pena non deve seguire automaticamente, ma deve essere giusta e «bisogna sostituire nell’aritmetica politica il calcolo delle probabilità», valutando concretamente i disordini prodotti dalle passioni umane e stabilendo una proporzione tra i delitti e le pene. Bisogna guardarsi dagli errori nella misura delle pene e giudicare con attenzione, perché non tutti i delitti sono uguali e «qualche volta gli uomini colla migliore intenzione fanno il maggiore male alla società; e alcune altre volte colla più cattiva volontà ne fanno il bene maggiore». Infine, lo scopo delle pene, cioè dell’amministrazione umana del male, deve essere unicamente «il terrore degli altri uomini», cioè quello «d’impedire al reo di far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali»35. L’umanità potrà essere dunque felice quando si troverà provvista di regole che realizzano tutti questi princìpi, eliminando le antiche leggi e ogni forma di dispotismo che opprime il popolo; e sarà ancora più felice quando riuscirà a prevenire i delitti attraverso una buona legislazione, «che è l’arte di condurre gli uomini al massimo della felicità o al minimo d’infelicità possibile»36. Sono riflessioni non molto dissimili da quelle usate in quei mesi anche da Alessandro Verri, che nel primo volume del «Caffè» s’interroga se veramente la grandezza e la potenza fecero la felicità degli antichi Romani, quando «gloriose carneficine» e grandi massacri accompagnavano sogni di opulenza e di libertà37. L’infelicità e la paura Il rapporto tra infelicità e paura è trattato anche da un altro autore considerato ben più pericoloso di Beccaria: Paul-Henri Thiry d’Holbach, nato a Edelsheim e formatosi a Leida, dove studia diritto, impara il francese e l’inglese e conosce John Wilkes. Stabilitosi nel 1749 a Parigi e naturalizzato francese, d’Holbach, amico di Diderot e animatore di un celebre salotto

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letterario, diventa uno dei collaboratori dell’Enciclopedia. Nella prima parte della sua carriera letteraria, pubblica e traduce soprattutto opere scientifiche, di chimica, di mineralogia e di geologia, per poi passare allo studio della religione e della teologia. Nel corso degli anni Settanta inizia a pubblicare una serie di opere che contribuiranno a diffondere la sua fama di ateista e di materialista; nel Sistema della natura (1770), riprende l’idea dell’uomo come una macchina psicofisica, mossa da un’anima che desidera, vive, agisce spingendo la nostra vita come le acque di un fiume che scorrono senza interruzione e non si fermano, sino a quando ritornano nell’alveo della natura. Ciascuno di noi desidera una felicità coerente con le proprie passioni e facoltà intellettuali, con i propri desideri e caratteri, secondo una strategia che è assolutamente individuale e che quindi non autorizza l’altro a giudicare di noi stessi. L’unica cosa che ci accomuna agli altri uomini è il fatto di desiderare una felicità duratura e di riunirci in società per rendere questo obiettivo raggiungibile, al di là della diversità dei temperamenti: e tutto questo nonostante l’esperienza dimostri che «di tutti i nostri progetti, il più ineseguibile per un essere che vive in società è quello di voler rendere felici esclusivamente se stessi»38. D’Holbach collega ancora una volta questo ragionamento al problema della religione, rifiutando il dualismo tra anima e corpo, tra religione e natura, tra la finalità esterna e quella intrinseca della natura. La religione è un bisogno, ma è nata storicamente come uno strumento per spiegare la natura e ciò che non si capisce utilizzando la paura, mentre la divinità non è altro che la proiezione dell’infelicità e dei timori degli uomini. E tutto ciò trova una conferma nell’antropomorfismo, nella necessità di raffigurare la divinità sotto sembianze umane, perché l’uomo proietta naturalmente ciò che è a lui più familiare su quello che non conosce. La religione diventa così, semplicemente, il culto che gli uomini utilizzano nel tentativo di placare la divinità, una divinità che viene vista necessariamente come crudele. La religione è anche universale perché universale è la paura dell’uomo e perché

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l’ignoranza e l’insicurezza riguardano tutta l’umanità. Scrive d’Holbach: Quanto più l’uomo è ignorante, o privo di esperienza, tanto più soggiace al terrore, la solitudine, l’oscurità delle foreste, il silenzio e le tenebre della notte, il fischio dei venti, i rumori improvvisi e confusi, sono per chiunque non vi sia abituato oggetti di terrore; l’uomo ignorante è un bambino che tutto sorprende e fa tremare [...] Nel seno appunto dell’ignoranza, delle apprensioni e delle calamità gli uomini hanno sempre attinto le prime nozioni della divinità [...] L’idea della divinità risveglia sempre in noi idee di desolazione: se risalissimo all’origine delle nostre paure di oggi, e dei pensieri lugubri che sorgono nel nostro spirito ogni volta che ne udiamo pronunciare il nome, la ritroveremmo nei diluvi, nelle rivoluzioni, nei disastri che hanno distrutto una parte del genere umano e costernato gli infelici sfuggiti alla distruzione della terra39.

La diagnosi è precisa: la religione nasce sempre da uno stato di infelicità, da una condizione negativa di paura e di sofferenza. Il compito dell’uomo e dei legislatori è di far uscire la società da questa situazione di infelicità, attraverso un percorso che d’Holbach delinea in altri due saggi, intitolati rispettivamente Politica naturale e Sistema sociale (entrambi del 1773), nei quali spiega come combattere i pregiudizi e la cattiva politica. L’uomo deve aspirare alla felicità o al piacere più durevole, più vero, preferendolo a tutto ciò che è transitorio, precario e ingannevole, ed educando la ragione a riconoscerlo. Può farlo solo per fasi successive, attraversando tutte le forme di comunità a lui note (la famiglia, la società, lo Stato), e quindi sin dalla felicità domestica, in cui può sperimentare i buoni effetti della sua virtù e della sua attitudine a fare del bene40. La vera felicità, intesa come condizione costante e inalterabile, non può infatti essere separata dal contesto sociale in cui si vive e compare solo quando vengono assecondati l’amore e l’interesse alla propria conservazione. Qui ritroviamo un primo dovere dell’uomo, reso evidente dalla morale, cioè dall’arte « di rendere l’uomo felice attraverso la conoscenza e la pratica dei suoi doveri»41. Nella Morale universale (1776) d’Holbach completa poi il ragionamento:

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l’amore di sé è desiderio di felicità, un interesse a conservarsi, e in questa forma la felicità è una condizione duratura e continuata. Per raggiungerla, l’uomo deve avere coscienza di sé, deve auto-approvarsi e nutrirsi della stima degli altri, per essere così in pace con se stesso e condurre una vita tranquilla, pura e ordinata. D’Holbach viene accusato e condannato dalla Chiesa e da molti contemporanei in quanto materialista, ma il suo materialismo non è una semplice manifestazione di ateismo, è piuttosto il segno di un disagio, il tentativo di trovare soluzioni nuove ad una domanda di religiosità continuamente presente. La sua risposta al problema dell’infelicità, in un mondo sempre inquieto e innervato dall’ansia di capire la natura, dalla scoperta delle scienze naturali, dal ritorno del magico e dall’ideologia della iettatura, rappresenta ormai un segno maturo dei dilemmi che accompagnano la modernità42. Il tempio della felicità All’inizio del 1770 anche Diderot si confronta più direttamente con il dibattito sulla felicità e lo fa scrivendo una recensione ad una raccolta di saggi morali apparsa con il titolo Il tempio della felicità, accompagnandola con una buona dose di sarcasmo e di disincanto per constatare che «ero molto giovane quando mi venne in mente che la morale intera consistesse nel provare agli uomini che, dopotutto, per essere felici non c’era niente di meglio da fare, in questo mondo, che essere virtuosi; subito mi sono messo a meditare su questo problema e ci sto ancora meditando». Il che gli serve «per capire quanto la felicità di un uomo differisca da quella di un altro e per provare disgusto per tutti quei trattati sulla felicità che sono soltanto la storia della felicità di coloro che li hanno composti»43. Diderot si è convertito all’ironia, come emerge da una nutrita serie di commenti e di recensioni ad altre letture fatte in quegli anni; si comporta così anche nella confutazione di Helvétius, nelle lettere allo scultore Falconet e nel commento a uno scritto

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del filosofo olandese Frans Hemsterhuis (1774), dove annota seccamente che «l’io vuole essere felice. Questa tendenza costante è la fonte eterna, permanente, di tutti i suoi doveri, anche i più minuziosi. Qualunque legge contraria è un crimine di lesa umanità, un atto di tirannia». La felicità è quindi vista come un dovere, verso se stessi e verso la società, e l’uomo veramente virtuoso deve possedere una naturale aspirazione ad essa. Come può agire nella realtà? Qui prevale un pessimismo di fondo, dichiarato ancora una volta nella recensione al Tempio della felicità: «io sono convinto che non può esservi vera felicità per la specie umana se non in uno stato sociale in cui non vi sarebbero né re, né magistrati, né preti, né leggi, né tuo, né mio, né proprietà mobiliare, né proprietà fondiaria, né vizi né virtù; e questo stato sociale è maledettamente ideale». Si noti: Diderot scrive di uno stato sociale, non naturale; è chiara la critica a Rousseau e a tutti coloro che predicano «il ritorno alla foresta», che idealizzano un primitivo stato di natura, semplice e senza regole artificiali, in cui il selvaggio vive libero e felice. Il problema consiste nella possibilità di realizzare questo programma nella realtà concreta, e Diderot ne ha l’occasione quando viene invitato da Caterina II, zarina di tutte le Russie, a trasferirsi a San Pietroburgo per collaborare al programma di riforme. Rifiuta, ma spiega alla sovrana, nella quale l’Europa del Settecento ripone grandi speranze perché vi vede colei che riuscirà a sollevare il popolo russo dalla miseria e dal feudalesimo, che «bisogna innanzitutto che la società sia felice; e lo sarà se la libertà e la proprietà sono garantite; se il commercio non viene intralciato; se tutti gli ordini di cittadini sono ugualmente soggetti alle leggi, se le tasse vengono pagate in ragione della possibilità o ben suddivise; se non oltrepassano le esigenze dello Stato; e se la virtù e i talenti vi trovano una ricompensa sicura». È un’utopia? Forse sì: Diderot sa di poter fare comunque poco e ammette che «il filosofo parla invano per il momento presente [...] illumina gli uomini sui loro diritti inalienabili e [...] prepara alle rivoluzioni, che sopraggiungono sempre quando si è ar-

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rivati all’estremo dell’infelicità, e sono conseguenze che compensano il sangue sparso»44. Questa rivoluzione, questa speranza nella felicità politica per l’umanità si riaccenderà appena qualche anno più tardi dinanzi alle vicende dei ribelli americani. Allora Diderot, con un coraggio che ad altri mancherà, vorrà indirizzare un appello Agli insorti d’America (1778), per mostrare come sul male trionfa sempre la speranza in un mondo migliore e più felice: Dopo secoli di oppressione generale, possa la rivoluzione testé verificatasi di là dai mari, offrendo a tutti gli abitanti d’Europa un asilo contro il fanatismo e la tirannia, istruire chi governa gli uomini sull’uso legittimo della loro autorità! Possano quei valorosi Americani, che hanno preferito veder oltraggiare le loro donne, sgozzare i propri figli, distruggere le proprie case, saccheggiare i loro campi, incendiare le loro città, che hanno preferito versare il proprio sangue e morire piuttosto che perdere la minima parte della loro libertà, prevenire lo smodato accrescimento e la disuguale ripartizione della ricchezza, il lusso, la mollezza, la corruzione dei costumi, e provvedere alla conservazione della propria libertà e alla durata del proprio governo!45

La nascita degli Stati Uniti viene accompagnata così da grandi aspettative, che preludono ad una nuova età dell’oro e alla costruzione del sogno americano.

IX IL SOGNO AMERICANO Si racconta che, nel 1787, durante una seduta del Congresso che doveva approvare il testo della costituzione americana Benjamin Franklin, rispondendo alle domande di un deputato che insisteva nel chiedere perché la felicità fosse stata nominata nella dichiarazione di indipendenza e non nella costituzione, rispose: «la costituzione americana dà al popolo solo il diritto di cercare la felicità. Dopo di che dovete costruirvela da voi stessi». In questo episodio, realmente accaduto o forse frutto di fantasia, è condensato gran parte di quello che viene chiamato, con un’espressione nata nel Novecento, il «sogno americano»: la speranza, cioè, di migliorare la propria condizione di vita attraverso il lavoro, il coraggio e la determinazione. La felicità non è precostituita e consegnata all’uomo come un qualcosa di già definito, ma va cercata, nel senso che ciascuno deve avere la possibilità di raggiungerla attraverso i propri meriti e le proprie capacità, all’interno di condizioni che solo un governo giusto può e deve assicurare. Tale principio, divenuto familiare con la dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America (1776), spiega l’aspettativa di poter migliorare la propria condizione attraverso il lavoro, il coraggio e la determinazione, che accompagna gran parte della letteratura americana dell’Ottocento, da Horatio Alger a Mark Twain, e che rimane affidato alla memoria recente con il celebre discorso di Martin Luther King, tenuto il 28 agosto 1963 davanti al Lincoln Memorial di Washington1.

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Il mito del buon selvaggio Il sogno americano ha però un’origine ben più antica e si forma in modo assai graduale, attraverso la sovrapposizione e la sedimentazione di una lunga serie di idee, miti e anche clamorosi fraintendimenti, che accompagnano tutto il XVII e il XVIII secolo. Fino alla metà del Settecento il sogno americano è quello della società europea, che conosce assai poco il Nuovo Mondo, se non per i racconti di viaggio e di esplorazione, e rimane profondamente affascinata dal mito del buon selvaggio, cioè dall’idea che al di là dell’Oceano esista un mondo puro, incontaminato, immune dalle distorsioni prodotte sulla natura dalla religione e dal processo di civilizzazione. Nelle Americhe, scrivono molti intellettuali dell’epoca, vive il prototipo dell’uomo nello stato naturale, che è selvaggio perché non conosce le forme complicate dell’organizzazione sociale occidentale, ma che proprio per questo è felice, in quanto deve provvedere unicamente ai bisogni propri e della sua famiglia. Il buon selvaggio è rimasto nella condizione di innocenza che gli europei hanno perduto, vive una dimensione primitiva della religione e non conosce le brutalità che nascono dal dispotismo e dalle gerarchie di tipo feudale. È la rappresentazione di un mondo ideale, che gli abitanti del Vecchio Continente in realtà non conoscono o conoscono pochissimo, ma che serve all’uomo europeo per interrogarsi su se stesso, per tentare di capire se il progresso e la civilizzazione rappresentano effettivamente un miglioramento per l’umanità, o piuttosto una degenerazione rispetto a una condizione perduta di felicità2. Il mito del buon selvaggio è quindi una forma di utopia, che come tutti i racconti utopici circola attraverso la letteratura del tempo, si tratti dei Dialoghi con un selvaggio del barone di Lahontan (1703-1705), di romanzi epistolari o di trattati politici come il Contratto sociale di Rousseau. L’illusione del Nuovo Mondo aiuta a non accettare le situazioni e le difficoltà che esistono in Europa, con le loro ingiustizie e le loro disuguaglianze, e permette di proclamare che esistono realmente popoli felici,

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che non hanno dimenticato la naturalità dell’uomo e che potrebbero servire da esempio per superare il disagio della civiltà3. Quando poi il territorio americano comincia ad essere meglio conosciuto, perché le colonie si espandono e le informazioni circolano più rapidamente, si scopre che il mito della società felice è messo alla prova dalla durezza della quotidianità, dalle necessità della sopravvivenza, da una natura spesso ostile. Il mito del buon selvaggio migra quindi altrove, al nord e al sud delle Americhe e può assumere sfumature molto diverse. Lahontan racconta il carattere delle popolazioni degli algonchini, degli uroni e degli irochesi che popolano la zona dell’attuale Canada, dove ha vissuto come ufficiale francese per quasi dieci anni. La parte centrale dei suoi dialoghi con il selvaggio Adario è dedicata proprio al tema della felicità e al confronto tra lo stile di vita degli uroni, ancora immune da interessi, corruzione e individualismo, e quello dei francesi, caratterizzato da progresso e civilizzazione. Lahontan non sogna di diventare un urone, né Adario si fa convincere del fatto che il mondo europeo sia migliore; la riflessione e la scelta vengono lasciate al lettore4. Morelly invece – un autore misterioso e assai citato, del quale non si ha praticamente alcuna notizia – scrive il racconto di un Naufragio delle isole galleggianti o la Basiliade (1753), narrando l’avventura di alcuni viaggiatori che sbarcano su una terra sconosciuta e felice dove non esiste la proprietà privata, dove le abitazioni sono in comune fra tutti e le strade dividono geometricamente il territorio. L’ultima scoperta del secondo Settecento – ormai lontana dal continente americano – sarà l’arcipelago di Tahiti, descritto dai viaggi di Louis-Antoine de Bougainville e di James Cook e reso celebre dalla vicenda dell’ammutinamento del Bounty, formato da isole da sogno dove esiste una felicità primitiva, sensuale e sessuale, dove trionfano l’amore e l’uguaglianza, l’assenza di convenzioni e di vincoli sociali. Il mito del buon selvaggio accompagna la nascita del sogno americano, trasformandosi assieme ad esso, e svolge una funzione fondamentale: insegna che lo sviluppo delle istituzioni sociali e politiche, così come sono conosciute in Europa, non ha

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nulla di realmente necessario ed è sempre una costruzione artificiale degli individui. Se così è, allora questi possono inventare qualcosa di politicamente nuovo, anche senza timore di regredire ad uno stato primitivo; qualcosa che consenta di realizzare meglio le aspirazioni alla felicità e di arrestare la corsa dell’uomo, prima che la civilizzazione degeneri nell’oppressione e nel dispotismo. L’America e il mondo antico Nel corso del Settecento si diffonde però anche un altro tipo di sogno americano, che consiste nel rovesciamento dell’immagine del buon selvaggio e nell’idea che, invece, proprio nel continente americano possano essere rintracciate forme di civiltà da confrontare con quella europea. Lo suggeriscono molte relazioni di viaggio nell’America centrale, la scoperta e la conoscenza di popoli come i Maya, gli Inca, gli Aztechi, di cui rimangono vestigia culturali e anche sopravvivenze urbane. Un contributo importante viene dai racconti dei missionari e persino di alcuni discendenti delle popolazioni autoctone, come Garcilaso de la Vega, detto «el Inca», che sin dal Seicento descrivono la grandezza delle civiltà perdute e riferiscono dei massacri condotti dai conquistatori spagnoli, spiegando come la corrotta civiltà occidentale, offuscata dal desiderio dell’oro e delle ricchezze, abbia sopraffatto quei popoli ingenui e felici. Anche questo tema si diffonde rapidamente attraverso un’ampia letteratura che lo declina in modi diversi, e che passa dal Resoconto di un viaggio nell’interno dell’America meridionale (1744) di Charles Marie de La Condamine al mito del «cristianesimo felice» nelle missioni gesuitiche del Paraguay, narrato da Muratori, dalle Ricerche filosofiche sugli americani (17681770) di Cornelis de Pauw sino alla Storia dell’America (1777) di William Robertson5. L’interesse per la grandezza e la decadenza delle antiche civiltà americane si intreccia e si sfuma anche dentro tematiche assai più complesse, che interpretano queste vicende nel quadro

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di una filosofia della storia di ispirazione massonica. L’attenzione per questi popoli antichi corrisponde a un interesse per le loro mitologie, per i loro linguaggi simbolici, per un’idea della storia segnata dalle catastrofi in cui permane il mistero circa le origini del sapere umano. L’opera che forse meglio sintetizza tutte queste posizioni, fino a rappresentare una sorta di vera e propria rassegna enciclopedica6, è intitolata Lettere americane. Si tratta di un racconto scritto tra il 1777 e il 1778 in forma epistolare da Gianrinaldo Carli. Subito tradotto in spagnolo, tedesco e francese, già si inquadra, come scrive l’autore stesso nella seconda edizione, in quella «politica rivoluzione» che anima le colonie americane contro la Gran Bretagna e che viene lodata anche da Benjamin Franklin. Carli riesce a mescolare sapientemente una serie di temi che circolano nell’Europa settecentesca: la storia delle civiltà americane vista come modello di progresso e di riscatto dal feudalesimo; l’uso dell’antico come strumento per riscoprire i caratteri di una sapienza perduta; l’adesione all’idea di un destino segnato dal tema della rigenerazione dopo le catastrofi e assai vicina ai temi trattati, nella stessa epoca, all’interno delle logge massoniche7. Carli ha un progetto preciso, che consiste nella confutazione delle idee di Rousseau, di quegli stessi scritti che stanno diffondendo in tutt’Europa l’idea di un contratto sociale generatore della sovranità popolare, ma fonte di instabilità e disordine e quindi pericoloso per l’esistenza delle monarchie illuminate. Proprio per combattere il pensiero di Rousseau, che giudica erroneo e velenoso, Carli punta la sua attenzione sul mito del buon selvaggio, spiegando che l’uomo nello stato di natura non è affatto mite e benevolo, ma infelice e crudele. Si è confusa, sostiene, la libertà naturale con quello che è invece un istinto animale. Bisogna quindi rivalutare e contrapporre a quest’immagine un’altra esperienza vissuta nel Nuovo Mondo, che è quella della civiltà, in particolare quella peruviana del popolo degli Incas. Si tratta di una monarchia su base teocratica che però, secondo Carli (che segue, su questi, temi di altri autori), si fondava sul pieno consenso degli antichi peruviani, che accettavano spontaneamente un governo incaricato di provvedere a tutte le

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loro necessità, garantendo benessere e sicurezza. Questa cultura era superiore non solo rispetto a quella di altre popolazioni indigene, ma anche rispetto a quella delle popolazioni indoeuropee colonizzate molto più anticamente dai Fenici e dai Greci. Si tratta di un’evidente polemica contro una nuova stagione della cultura politica europea, contraddistinta dalle letture e dalle riletture del Contratto sociale, che usano la storia del continente americano in modo completamente diverso dai sostenitori del mito del buon selvaggio, ma che trovano larga eco in vasti settori del mondo massonico e intellettuale europeo, da Francesco Saverio Clavigero a Ferdinando Galiani. A queste riflessioni, Carli aggiunge un altro tema, che già aveva affascinato gli studiosi a partire da Bacone, e cioè il mito di Atlantide, della perduta isola oceanica modello di civiltà e di una società incontaminata e felice. Per Carli Atlantide è esistita veramente e rappresenta l’anello di congiunzione tra l’Europa e il Nuovo Mondo, a dimostrazione che anche gli uomini delle Americhe sono discendenti di Adamo. L’Atlantide di Carli è però più simile al mito platonico e baconiano che non al racconto basato sull’autorità della Bibbia, e serve a spiegare la trasmigrazione fisica degli uomini, dei costumi e delle leggi tra i due continenti, a dimostrazione della comune origine della civiltà. Le Lettere americane diventano così un’opera destinata a notevole eco, amplificato dalla dedica, posta dall’editore, a Benjamin Franklin, l’americano più conosciuto in Europa. Esaltare la civiltà peruviana significa anche condannare le barbarie dei conquistadores e mettere sotto accusa il loro modello di colonizzazione, alimentando un sentimento antispagnolo che nel Settecento è sempre più diffuso nella Lombardia austriaca e nella repubblica di Venezia. L’immagine del continente americano che emerge dall’opera di Carli è quindi certamente rovesciata rispetto alla rappresentazione del mito del buon selvaggio; ma rimane tuttavia quella di un mondo felice, grazie ad una perduta forma di civiltà che, scrive lui stesso, «è certamente il migliore di tutti i sistemi politici che sono stati immaginati o seguiti in tutto il nostro emisfe-

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ro; mentre con esso gli uomini non solamente dovevano esser felici, ma era tale che necessariamente non potevano, anche volendo, non esserlo»8. Per Carli il mondo americano è un sogno, anzi, come scrive scherzosamente al cugino, «un ammasso di sogni»9, che consolida l’immagine proposta da Locke già un secolo prima, cioè quella di un luogo al principio del mondo, ancora a contatto con il momento originario della storia umana. Attorno all’America fioriscono così innumerevoli rappresentazioni e forme di autoinganno, capaci di vedere allo stesso tempo nella «naturalità» americana un segno di inferiorità rispetto all’Europa, oppure nelle sue civiltà antiche una forma di superiorità rispetto alla decadenza del Vecchio Continente. Sono gli echi della lotta per l’indipendenza, iniziata durante la guerra dei Sette anni (1756-1763), a far convergere l’attenzione sulle colonie settentrionali e a porre il problema dello spostamento del fulcro della civiltà verso Occidente. L’America è un luogo senza storia, e questo può rappresentare indubbiamente un vantaggio rispetto all’Europa, che sente il peso del suo passato ed è legata alle catene della feudalità. La rivolta nelle colonie, in un mondo senza un passato, rappresenta così una straordinaria opportunità per creare dal nulla istituzioni, leggi, forme del vivere sociale, per realizzare una felicità civile che non deve fare i conti né con i limiti dettati dalla natura né con quelli imposti dalle rappresentazioni utopiche. La rivoluzione corsa Nel sogno americano confluisce, infine, anche un’esperienza politica iniziata in un luogo isolato dell’Europa, soggetto al dominio genovese ma al centro di uno straordinario esperimento costituzionale: la Corsica. All’inizio del Settecento quest’isola, benché vicina geograficamente al continente europeo, è ancora una terra quasi sconosciuta all’opinione pubblica, almeno quanto la California o il Giappone, come notano i primi scrittori delle sue vicende. Con-

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siderata un luogo malsano, pietroso e desolato, ha vissuto la lunga stagione del dominio genovese, che dal Quattrocento ne ha lentamente cancellato le tradizioni politiche e di libertà, lasciando la nostalgia per un’aristocrazia perduta e una nobiltà corsa fortemente indebolita nel suo prestigio. Poi qualcosa cambia e i suoi abitanti si ribellano al dominio della repubblica e da quel momento l’isola diventa l’argomento preferito di ogni conversazione10. Nel dicembre del 1730 la popolazione nomina due «generali» della nazione corsa e presenta una serie di richieste al governo di Genova. Alla risposta delle armi segue l’inizio di una lunga resistenza, armata e civile, destinata a protrarsi per quasi quarant’anni. Nel 1755 vi sbarca, proveniente da Napoli dove aveva vissuto in esilio con il padre profugo dall’isola, un giovane condottiero che assume la guida del movimento rivoluzionario: Pasquale Paoli. Convoca nella città di Corte, secondo l’uso antico, un’assemblea delle comunità locali e si fa eleggere generale della nazione corsa. In breve tempo, oltre a riorganizzare le truppe e le infrastrutture del territorio ribelle, Paoli getta le basi per un nuovo sistema politico, giuridico e sociale che deve formare l’ossatura del nuovo Stato. Nel novembre dello stesso anno, in occasione di una nuova assemblea (chiamata «Dieta generale», e che nelle intenzioni doveva diventare permanente), delinea la nuova architettura politica del paese e procede stendendo una dichiarazione finale che viene considerata una delle prime costituzioni moderne. Si tratta di un documento di grande interesse, perché ci mostra in che modo il tema della felicità, che è stato prima un’idea religiosa e filosofica poi un principio politico, entri a far parte della cultura costituzionale trasformandosi in un diritto. Nel preambolo, per la prima volta, la parola felicità appare accanto a due idee tipiche di ogni costituzione moderna: quella di un momento «costituente», cioè la consapevolezza di vivere una fase di rottura nelle vicende storiche che consente di costruire un nuovo Stato, e quella della nascita di un nuovo soggetto politico, che è il popolo riunito in assemblea. «La Dieta Generale del popolo della Corsica» – scrive infatti Paoli –, «lecitimamente

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Patrone di se medesimo, secondo la forma dal Generale convocata nella Città di Corte sotto i giorni 16-17-18 novembre 1755. Volendo, riacquistata la sua libertà, dar forma durevole e costante al suo governo riducendoli a costituzione tale che da essa ne derivi la felicità della Nazione, ha decretato e decreta...[seguono le disposizioni adottate]»11. Da questo momento il mito della Corsica, dei suoi abitanti che resistono all’oppressore sotto la guida del generale Paoli, si diffonde in tutto il continente e nelle Americhe. Nel 1762 Rousseau inserisce nella nuova edizione del Contratto sociale un passo in cui elogia gli insorti e indica l’isola come uno dei pochi luoghi d’Europa in cui possono essere create delle leggi a difesa della libertà. L’effetto delle parole di Rousseau è sensazionale, e ovunque ci si interroga su chi potrebbe essere l’artefice di questa nuova legislazione. I corsi stessi interpellano Diderot ed Helvétius e si rivolgono a Rousseau attraverso un giovane ufficiale di nome Matteo Buttafuoco, che gli invia un lungo documento per esporgli i vantaggi di una costituzione «fissa e permanente», fondata sul principio della separazione dei poteri che garantisce la sicurezza dei cittadini, «la prosperità del governo e la felicità dei popoli»12. Come si vede, iniziano già a circolare le parole d’ordine che ritroveremo nella rivoluzione americana; alla loro diffusione contribuisce poi in modo decisivo James Boswell, esponente della cultura radicale inglese e membro della massoneria, noto come autore della biografia di Samuel Johnson, che compie un viaggio in Corsica appositamente per conoscere Paoli, del quale narra le gesta in un volume di largo successo, anche in America. Si tratta di un’opera destinata a consolidare il mito di Paoli e della Corsica come «isola della costituzione», anche grazie a una lunga introduzione (omessa nell’edizione italiana) in cui si inneggia al diritto dell’uomo alla libertà e alla felicità13. La società civile, scrive Boswell, si è formata per guidare l’uomo di fronte alla ragione, all’immaginazione e alle passioni, all’entusiasmo e alla superstizione, ed è nata attraverso un conferimento volontario di una parte dei diritti naturali ai governanti, in modo da costringere tutti all’obbedienza verso la legge posta a

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garanzia del benessere comune. La libertà, afferma, è parente stretta della felicità, di ogni nobile virtù, di ogni arte e scienza; e l’esempio più significativo nasce proprio dallo «spirito di libertà» che si respira in Corsica14. In questo senso gli Stati Uniti d’America diventano figli dell’Europa dei Lumi: già nel 1766 Paoli e i combattenti corsi sono celebrati a Boston e poco dopo anche nel Massachusetts, nel Connecticut, nel Vermont e nello stato di New York. All’inizio del 1769 Paoli viene elogiato nel «Pennsylvania Journal» e nel marzo successivo i «Figli della Libertà», un’associazione di Philadelphia ostile al governo inglese, tra le cui fila vi sono molti massoni, festeggia Paoli e battezza il locale in cui si riuniscono «Taverna del generale Paoli»15. Ancora oggi sei località negli Stati Uniti d’America portano il nome di Paoli, in Pennsylvania, nell’Indiana, nell’Oklahoma e in Colorado. La felicità è un diritto La felicità è diventata quindi un diritto? Voltaire ci ha creduto sin dal 1738, avendo auspicato nel Primo discorso sull’uomo: «aver stessi diritti alla felicità, questa è per noi uguaglianza perfetta»16; e le precoci esperienze costituzionali della Corsica sembrano dargli ragione. Gran parte dei protagonisti delle vicende che andiamo ricostruendo sono aiutati, nel loro approccio al tema della felicità, da un linguaggio comune che è quello massonico, ed effettivamente gran parte dei luoghi in cui si discute di questi temi è legata al circuito delle logge massoniche. Nella seconda metà del XVIII secolo la massoneria è diventata una delle forme di sociabilità più diffuse e alla moda: è un fenomeno culturale di straordinaria rilevanza, che permette di costruire forme di solidarietà e reti di relazioni a partire da obiettivi filantropici, tipici delle antiche corporazioni di muratori. Le logge sono luoghi in cui si studiano la storia, la letteratura, le scienze e sono protette da statuti e regolamenti chiari nell’affermare che un buon massone non deve occuparsi né di

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politica né di religione, al fine di preservare la sua autonomia di giudizio e di non destare preoccupazioni nelle autorità politiche ed ecclesiastiche. Per gran parte del Settecento, sino alla fine degli anni Ottanta, salvo alcune eccezioni non è neppure un’organizzazione segreta: le attività si svolgono alla luce del sole, i nomi degli adepti sono conosciuti da tutti, i massoni pubblicano i loro studi e le loro ricerche, i principi stessi diventano protettori delle logge. Al suo interno, la massoneria si presenta, per chi vi fa parte, come una fonte di conoscenza, come custode di un sapere, chiamato il segreto massonico, che viene comunicato soltanto tra i «fratelli» a mano a mano che si addentrano nella muratoria17. Metaforicamente, l’ingresso e la vita in loggia sono come un percorso iniziatico, un cammino dell’uomo verso la perfezione, un culto laico che punta alla rigenerazione dell’individuo, liberandolo dal dogma e dalla superstizione per farlo avvicinare quanto più possibile alla felicità terrena ed aspirare alla beatitudine celeste. La felicità è quindi parte del vocabolario massonico, nelle logge al di qua e al di là dell’Oceano; può essere intesa come gioia, come perfezione, come entusiasmo, come esito positivo dell’eterno conflitto tra il Bene e il Male. Sono innumerevoli le sue rappresentazioni nell’arte visiva, nella poesia, nella musica e nel teatro18. Non stupisce quindi che, parallelamente agli avvenimenti che accompagnano la rivolta delle colonie americane, anche l’attività delle logge intercetti la questione della felicità, come emerge in numerosi scritti dei suoi membri. Lo statista austriaco Joseph von Sonnenfels, collaboratore di Maria Teresa, spiega ad esempio negli anni Sessanta che è proprio l’evoluzione naturale dell’uomo a suggerirgli di soddisfare la sua felicità; quindi, se lo Stato si fa portatore di un progetto che garantisce i medesimi risultati, le logge massoniche possono diventare un suo valido alleato. La massoneria aiuta l’uomo a risollevarsi dal degrado in cui era caduto dopo il peccato originale e lo accompagna nella ricerca della salvezza, un compito che ricade anche sul singolo massone, che tra i suoi doveri ha quello di aiutare i fratelli nel

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«cammino della felicità», per riporre «il grado più alto della felicità nel piacere di riportare alla virtù esseri spesso più deboli che criminali»19. La felicità massonica è quindi associata alla virtù, che per un muratore significa impegnarsi per il benessere sociale e per il governo della società, attraverso la carità e la solidarietà tra «fratelli». L’obiettivo comune della virtù rende così tutti i massoni uguali in loggia e, in quanto tali, anche liberi e indipendenti: «la prima qualità di un massone è quella di liberare», scrive un autore francese nel 1769. Questa consapevolezza rafforza il senso di appartenenza alla comunità massonica, rendendo riconoscibili gli obiettivi comuni. Sin dall’epoca delle costituzioni di James Anderson (le leggi fondamentali della muratoria, redatte nel 1723), i massoni cominciano ad elaborare una teoria della felicità che rappresenta la ricerca di un nuovo ordine naturale e sociale, fonte dell’armonia in società così come esiste l’armonia celeste, ormai nota attraverso i testi scientifici. Tra il 1776 e il 1777 Gotthold Ephraim Lessing, autore della Drammaturgia di Amburgo e bibliotecario a Wolfenbüttel, scrive i Dialoghi per massoni, in cui spiega chiaramente che la massoneria non è una chiesa nascosta o un luogo di cospirazione politica, ma prima di tutto una necessità sociale, un percorso verso la rivelazione e la ragione per raggiungere la felicità. La massoneria, prosegue, soddisfa quei bisogni ai quali lo Stato da solo non è in grado di dare risposta, consentendo agli uomini più saggi e migliori di riunirsi in un’associazione al di là di ogni pregiudizio etnico, religioso e sociale. I segreti della massoneria, dunque, rappresentano per i massoni ciò che per i cristiani sono le verità della religione rivelata: le verità della ragione, primo passo verso la costruzione di una religione civile20. Grazie a questi percorsi e a queste relazioni il discorso massonico sulla felicità conosce una circolazione sempre più ampia negli anni che seguono la rivoluzione della Corsica e precedono quella americana, per riemergere come un fiume carsico negli scritti di personaggi fondamentali per la storia della cultura inglese e americana come James Boswell e James Otis21.

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L’idea del progresso Uno degli autori maggiormente letti e commentati dai massoni è Adam Smith, succeduto a Hutcheson nell’insegnamento della filosofia morale a Glasgow e considerato il fondatore della moderna economia politica. Nello spazio di vent’anni, Smith pubblica alcuni lavori molto importanti, dai quali emerge una filosofia dell’uomo destinata a svolgere un ruolo significativo nel rapporto tra sogno americano e felicità. Smith eredita e rielabora il linguaggio di Mandeville e di Hutcheson per disegnare una società in cui c’è posto per l’etica della competizione, per l’idea del progresso e per la speranza di ogni persona di migliorare la propria posizione. Gran parte di questi temi si ritrova già nella sua Teoria dei sentimenti morali (1759), dove si spiega che l’individuo «è fatto per l’azione e per promuovere, attraverso l’esercizio delle sue facoltà, cambiamenti nelle circostanze esterne sia proprie sia altrui, tali da sembrare i più favorevoli per la felicità di tutti»22. Protagonista della riflessione è l’uomo comune, l’uomo medio, che ha a disposizione solo «il lavoro delle sue braccia e l’attività della sua mente», impegnato a migliorare la propria condizione, per cercare il benessere ma anche la stima degli altri, una gratificazione altrettanto importante rispetto alla ricchezza economica. La società diventa allora lo specchio che serve a riflettere la nostra vera immagine, ci dà il senso dell’approvazione sociale e della consapevolezza di noi stessi. Smith non riduce però la dimensione dell’uomo al solo contesto sociale: spiega che, oltre all’approvazione da parte della società, motore per lo sviluppo e il miglioramento, esiste anche l’autonomia del giudizio morale, che consente all’io interiore di ripararsi dall’instabilità dell’uomo esteriore. Tuttavia, la possibilità di stabilizzare la coscienza, che rimane guidata sempre da Dio, è una condizione fondamentale per mantenere la tranquillità dell’animo necessaria per essere felici. In questo modo riusciamo ad anteporre ai nostri interessi egoistici quelli della collettività e, dinanzi alla felicità o all’infelicità di un altro uomo in conseguenza di una nostra azione, non possiamo rimanere in-

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sensibili e facciamo scattare sentimenti di pietà, di benevolenza e di umanità23. Smith sfrutta così il linguaggio di Mandeville per porre la questione del progresso dell’uomo, la sua possibilità di riscatto e di emancipazione rispetto al mondo dell’Antico Regime, entro un’etica della competizione che giustifica l’appagamento dell’amore di sé nel rispetto degli altri. Nella corsa verso il benessere, la ricchezza e gli onori (immagine che riprende evidentemente da Hobbes), chi corre più forte supera legittimamente gli avversari, ed è il migliore. A patto, però, di non fare sgambetti e di non atterrare l’avversario, perché altrimenti vengono meno il rispetto delle regole e la stima degli spettatori24. L’uomo-mercante che Smith ha in mente è anche in grado di essere virtuoso, di controllare le proprie passioni, sa curare i propri interessi, rinunciando ai piccoli piaceri immediati ed effimeri per incrementare le sue fortune ed assicurarsi un benessere più prolungato. La vera felicità non sta quindi nell’accumulo della ricchezza e del potere, ma nella capacità di raggiungere un punto di equilibrio, un senso della virtù, che consente di raggiungere la tranquillità dell’animo e di calcolare attentamente ciò che possiamo fare e ciò che possiamo effettivamente raggiungere25. Questo stesso ragionamento ispira la sua opera più celebre, la Ricchezza delle nazioni, pubblicata proprio nel 1776, l’anno dell’indipendenza americana. In essa l’uomo, mercante o imprenditore, viene valutato in base al suo progetto di vita, razionale e onesto, visibile e condivisibile da tutti all’interno di una società in cui ciascuno interagisce con gli altri. «Il diritto di proprietà che ogni uomo ha sul proprio lavoro» – scrive infatti Smith – «è il più sacro e inviolabile essendo il fondamento originario di ogni altra proprietà. Il patrimonio di un uomo povero è la forza e la destrezza delle sue mani, e proibirgli di impiegare questa forza e questa destrezza come egli giudica più opportuno, purché non danneggi i suoi simili, è una patente violazione della più sacra delle proprietà»26. Le virtù del commerciante, come l’oculatezza, la parsimonia, la lungimiranza, diventano un esempio e una forma di affidabilità per gli altri, che sanno di trovarsi dinanzi a una persona prudente, prevedibile e si-

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cura, e non di fronte all’avaro, che punta egoisticamente soltanto al guadagno. Smith esplicita quindi le cause che portano, un po’ in tutt’Europa, alla fine dell’Antico Regime e all’eversione della feudalità, denunciando le arretratezze economiche e il sottosviluppo dell’agricoltura e spiegando la necessità di creare un libero mercato e di moltiplicare il numero dei proprietari. Tutte condizioni che si stanno realizzando nel continente americano, dove le colonie si battono per un’indipendenza che, osserva Smith, «sembra molto probabile che si verifichi».

La ricerca della felicità Quando nel corso degli eventi umani si rende necessario ad un popolo sciogliere i vincoli politici che lo avevano legato ad un altro [...], un giusto rispetto per le opinioni richiede che esso renda note le cause che lo costringono a tale secessione. Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse evidenti; che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro creatore di alcuni diritti inalienabili, che fra questi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità27.

Così inizia il famoso preambolo della dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America (1776), nel testo scritto da Thomas Jefferson. Si tratta di un documento talmente importante per la storia moderna e per lo sviluppo dell’idea della felicità, da meritare alcuni approfondimenti di carattere lessicale e concettuale. La formulazione definitiva, così come l’abbiamo riportata, riprende il testo della (di poco) precedente dichiarazione dei diritti della Virginia, scritta da George Mason, un amico di Jefferson; lì si affermava che «tutti gli uomini sono per natura ugualmente liberi e indipendenti e hanno certi diritti innati [...] cioè il godimento della vita e della libertà, mediante l’acquisto e il possesso della proprietà, e il perseguimento e l’ottenimento della felicità e della sicurezza». Rispetto al testo virginiano, come possiamo notare, nella dichiarazione di indipendenza non si

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scrive più della proprietà e non si collega più il raggiungimento della felicità alla sicurezza. Che cosa può significare? Secondo la maggior parte degli interpreti la dichiarazione della Virginia, nel collegare il raggiungimento della felicità alla sicurezza, che dipende dall’autorità politica, rappresenta ancora la felicità come un oggetto dato dai governi e sottratto dalla disponibilità dell’individuo. La possibilità di rendere invece la ricerca della felicità un concetto autonomo consente di proporla come un fine raggiungibile dal singolo e di inserirla quindi in un catalogo dei diritti dell’uomo. C’è però un’altra osservazione da fare: nella seconda parte del preambolo alla dichiarazione di indipendenza americana si scrive che il popolo ha il diritto di istituire la forma di governo che gli sembra più adatta «a procurare la sua sicurezza e la sua felicità». Qui il collegamento tra felicità e sicurezza viene ristabilito, in relazione all’istituzione di un governo giusto, e questo conferma che esistono due dimensioni della ricerca della felicità, quella individuale, che è un diritto dell’uomo (indicata nella prima parte del preambolo), e quella pubblica, di cui deve farsi garante un governo. L’altra questione riguarda la scomparsa, nella dichiarazione di Jefferson rispetto a quella di Mason, del riferimento alla proprietà. Significa che non è più considerata un diritto dell’uomo, o che ha un rango minore rispetto agli altri diritti elencati? Anche in questo caso occorre tornare al contesto. È noto che alla base della dichiarazione di indipendenza c’è una convergenza tra la grande tradizione europea della cultura inglese del Bill of Rights, l’opera di John Locke (con particolare riferimento al Secondo trattato sul governo) e il pensiero dell’Illuminismo. Locke utilizza ampiamente il concetto di proprietà, ma in un senso molto più esteso rispetto al significato attuale, includendovi il potere dell’uomo di disporre liberamente di se stesso, di preservare la sua vita, la sua libertà e i suoi beni contro gli assalti degli altri uomini28. Jefferson ci mostra come stiano mutando i concetti e il significato delle parole: non può più usare la parola proprietà nel significato attribuito da Locke, perché ormai essa significa più modernamente solo possesso dei beni. Perciò la

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sostituisce con la ricerca della felicità, un’espressione che sembra poter riassorbire tutti i significati della tradizione lockiana e indica più ampiamente un diritto naturale, e quindi inalienabile, che si esprime nella libertà di seguire tutte le opportunità che si presentano all’individuo29. Questa metamorfosi è l’unico punto del preambolo sul quale l’opinione del Congresso americano fu effettivamente unanime. Se andiamo a vedere i manoscritti delle varie stesure e correzioni della dichiarazione di indipendenza (oggi agevolmente consultabili sul sito internet della Biblioteca del Congresso), si nota, infatti, che dopo una prima versione del giugno 1776, in cui figura l’espressione «cammino verso la felicità» («road to happiness»), subito compare la versione definitiva («pursuit of happiness»), che rimane tale anche dopo i cambiamenti suggeriti per altre parti del testo da John Adams, Benjamin Franklin e da altri membri del comitato incaricato dei lavori30. Conosciamo bene anche tutti gli antecedenti. Tra i primi ad affermare l’esistenza di un diritto «all’acquisto e all’uso della proprietà e in generale alla ricerca e al raggiungimento della felicità e della sicurezza» è il già ricordato James Otis, uno dei sostenitori della rivoluzione corsa, avvocato generale della Corte dell’ammiragliato. Nel 1764 Otis pubblica un saggio sui Diritti dell’America britannica affermati e rivendicati, in cui profeticamente sostiene (utilizzando parole molto simili a quelle di Pasquale Paoli), che «la Nazione [americana] ha pieno diritto di formarsi da se medesima la sua Costituzione»31 e utilizza espressioni, tra cui «il diritto alla ricerca della felicità», che vengono riprese dieci anni dopo nelle doglianze presentate dalle colonie al primo Congresso continentale (1774). In seguito a queste, James Madison include la medesima formula nella dichiarazione finale dei diritti, votata quello stesso anno dai delegati delle colonie, affermando che un «governo è istituito e opera per procurare il benessere del popolo; che consiste nel godimento della vita e della libertà, con il diritto di acquistare e usare la proprietà e in generale di cercare ed ottenere felicità e sicurezza»32. Nel Novecento si è sviluppato un ampio dibattito sulle cause della rivoluzione americana, che ha diviso quanti ne sostene-

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vano le origini religiose da coloro che ne sottolineavano quelle politiche; qui non interessa però determinare se nel caso specifico l’idea della ricerca della felicità possa aver avuto una matrice religiosa e puritana, piuttosto che civile e politica. Colpisce invece l’uso e il consumo culturale che viene fatto della parola felicità, la sua inclusione in un documento costituzionale, a testimonianza del fatto che è entrata ormai definitivamente a far parte del vocabolario politico moderno33. Non siamo più di fronte al concetto della pubblica felicità, promossa e assecondata dai prìncipi, come voleva la cultura riformatrice della metà del Settecento. Con l’introduzione della ricerca della felicità nella dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America si afferma l’idea che la felicità è un diritto naturale dell’uomo, e che occorre garantire tutte le condizioni per il suo perseguimento, rimuovendo gli ostacoli posti in violazione dell’ordine della natura. Una costituzione per la Toscana Dopo il fallimento della rivoluzione corsa e l’occupazione francese dell’isola (1769), molti esuli trovano rifugio in Toscana, una regione che da trent’anni è governata dagli Asburgo e che ora è sotto la guida del granduca Pietro Leopoldo, figlio di Maria Teresa e fratello dell’imperatore Giuseppe II. Paoli stesso, fuggendo verso l’Inghilterra dove rimarrà per molti anni, sbarca a Livorno e viene acclamato come un eroe. La scelta della Toscana è dettata da molteplici ragioni: molti suoi abitanti, soprattutto livornesi, si sono spesi in favore della libertà corsa, offrendo aiuto finanziario e, forse, inviando anche volontari. Assai stretti sono i rapporti di amicizia con alcuni intellettuali, che si sono esposti in prima persona per narrare le vicende della rivoluzione e del suo generale. In Toscana, inoltre, vivono molti inglesi, diplomatici e commercianti, che hanno tenuto i contatti fra gli insorti e il governo di Londra. E, ancora, sono documentati stretti rapporti fra i corsi e i membri delle logge massoniche di Livorno. Infine, un ruolo importante viene svolto, die-

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tro le quinte, proprio dal granduca Pietro Leopoldo che, pur non potendo per ragioni di opportunità politica esprimere un sostegno esplicito alla rivoluzione corsa (che gli servirebbe in funzione antigenovese e francese), mantiene un atteggiamento benevolo e interessato verso quanto sta accadendo sull’isola. Proprio Pietro Leopoldo è la chiave per capire come il nuovo discorso sulla felicità, che è stato assunto da Paoli nel suo progetto costituzionale e che contemporaneamente ha raggiunto l’America, viene ripreso anche nella penisola italiana. Uno dei massoni toscani più impegnati nella difesa della causa della Corsica, Raimondo Cocchi, mantiene da tempo una fitta corrispondenza con Paoli, che viene poi trasmessa a Pietro Leopoldo (assieme ai documenti che riguardano l’elaborazione del progetto costituzionale corso) e rimane conservata tra i fascicoli della segreteria privata del principe34. Proprio in quegli stessi anni egli ha già avviato un ambizioso piano di riforme per la Toscana, assai particolare: piuttosto che procedere ad un riordinamento del potere amministrativo secondo la dialettica fra accentramento e decentramento, come avviene negli altri paesi europei, Pietro Leopoldo sceglie un percorso che si basa sul riconoscimento del ruolo delle istituzioni comunitarie minori, sull’attribuzione di funzioni periferiche di governo agli organismi locali. Ciò consente una maggiore partecipazione della società civile e un coinvolgimento nel progetto riformatore di uomini e istituzioni, tradizionalmente posti a difesa dell’antica cultura comunale35. Pietro Leopoldo conosce infine molto bene quanto sta avvenendo al di là dell’Oceano: studia la costituzione della Pennsylvania, basandosi su una serie di estratti pubblicati dal francese Brissot de Warville36, soffermandosi in particolare sul problema della separazione dei tre poteri, legislativo, esecutivo e giudiziaro, sull’organizzazione della Camera dei rappresentanti, e sull’istituzione di un Consiglio dei Censori incaricato di vegliare sulla costituzione37. Da questi studi nasce sul finire del 1778 un progetto costituzionale per la Toscana, cui abbiamo già accennato, destinato ad una redazione lunga e tormentata, per essere abbandonato de-

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finitivamente solo quando, nel 1789, comincia a levarsi in Francia il vento della Rivoluzione. A rileggere le molte stesure manoscritte, con le annotazioni e le correzioni suggerite dai collaboratori del principe, si riconoscono chiaramente gli intenti che guidano Pietro Leopoldo e il contesto nel quale viene trasferita l’idea della ricerca della felicità. Lo Stato viene visto infatti come una «società d’uomini radunati sotto un governo», ma, osserva il principe, «in una ben composta società tutti e qualunque membro componente la medesima [hanno] un egual diritto alla felicità, ben’essere, sicurezza e proprietà, che consiste nel libero, tranquillo e sicuro godimento e dominio dei propri beni e per conseguenza anche al poter invigilare alla medesima ed all’influenza nella legislazione, che deve obbligare tutti»38. Questa rivendicazione del diritto alla ricerca della felicità si iscrive, ovviamente, in un quadro politico molto diverso da quello dell’America repubblicana, dove viene attuato il principio della rappresentanza politica. In Toscana governa un principe, anche se illuminato, il cui potere discende per grazia divina e che ha il dovere di provvedere al benessere dei sudditi. Il diritto alla ricerca della felicità viene così incanalato in una cultura giuridica che è tipica dell’assolutismo riformatore e che diventa sempre più evidente, con il passare degli anni, ogniqualvolta il progetto costituzionale viene rivisto, corretto e aggiornato. Nelle successive versioni, infatti, prima si scrive della «possibile felicità umana nel carattere dell’onesta libertà civile», contrapposta all’infelicità dell’epoca in cui governava la precedente dinastia dei Medici39. Poi, qualche tempo dopo, si precisa che occorre assicurare «la possibile felicità umana nel carattere dell’onesta libertà sociale ed il godimento pacifico, sicuro e tranquillo della loro proprietà, industria, e libertà»40. Come si può vedere, le parole sono molto simili a quelle delle dichiarazioni dei diritti e della dichiarazione d’indipendenza americane, ma il loro significato e il loro uso mutano, adattandosi ad un ambiente particolare come quello toscano, dove il giusnaturalismo è in competizione con le antiche libertà cittadine e con le istanze delle dottrine economiche importate dalla cultura fisiocratica41.

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L’asilo della libertà Più a sud della Toscana, nella Napoli di Genovesi, un giovane scrittore si sta affacciando alla vita pubblica; è cadetto di un’antica e nobile famiglia, ha per zio il vescovo di Palermo e tuttavia vive con profonda insofferenza il clima feudale che lo circonda, dove la libertà è oppressa e trionfano i privilegi. Si chiama Gaetano Filangieri e non ancora ventenne viene preso sotto l’ala protettiva di Isidoro Bianchi, l’editore massone delle Lettere americane di Carli, che lo incoraggia a scrivere le sue prime riflessioni sul tema della felicità, in un saggio dal titolo La morale pubblica: «siccome lo scopo della morale è la felicità, quello della morale pubblica sarà la pubblica felicità. In ogni Nazione bisogna cercare i mezzi per ottenerla, così nell’interno, come nell’esterno di essa. [...] L’interna felicità di una Nazione non può essere che l’effetto di una buona legislazione. Io darò dunque nella prima parte tutte le regole per formare una legislazione adattabile ai nostri tempi e perfetta in tutte le sue parti»42. Bianchi stesso pubblica in quegli anni sul giornale «Notizie de’ letterati», il periodico da lui creato a Palermo, alcune Meditazioni su varj punti di felicità pubblica e privata dove tratta del rapporto tra morale e felicità, del governo e della relazione tra i diritti e i doveri43. All’interno di questa cornice Bianchi pone la sua definizione di pubblica felicità: muovendo da premesse lockiane, che sottolineano i limiti dell’intendimento umano e l’attitudine dell’uomo a vivere in società, sin dalle prime pagine attacca frontalmente sia Montesquieu, secondo cui le forme di organizzazione politica dipendono dalle circostanze fisiche e climatiche delle nazioni, sia il primitivismo di Rousseau, che vuole individuare in un ipotetico stato di natura le radici della felicità perduta. Bianchi sembra essere categorico: «la forma del governo, la legislazione, le scienze, l’economia politica, la virtù e l’industria de’ privati cittadini, il genio delle arti, l’educazione, la morale sono, per così dire, tante parti della pubblica felicità»44. Per questo motivo «dunque dobbiamo parlare di felicità nello stato in cui ci troviamo, nel sistema cioè della ineguaglianza degli uo-

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mini e della loro necessaria dipendenza e debolezza, nel sistema de’ nostri molteplici e reciproci bisogni e delle passioni più furiose, che dominano tutti gli enti morali, che convivono insieme»45. Tutta l’indagine viene così concentrata ancora una volta intorno alla polemica antirousseauiana. Con un’abile sintesi dell’ampia letteratura che ha accompagnato il dibattito sulla felicità nel Settecento europeo, e che ha distinto il piacere, legato ai sensi, dalla felicità, fondata su un controllo degli istinti attraverso la ragione, Bianchi si incammina anche nel difficile percorso di rendere compatibili ragione e fede, per affermare che tre sole cose formano la vera felicità di una nazione: la sicurezza dinanzi agli attacchi stranieri, la tranquillità e virtù dei cittadini, il benessere della popolazione. Un anno dopo la pubblicazione dell’opera di Bianchi, nel 1780, Filangieri pubblica la sua più importante e ultima opera, rimasta interrotta per morte prematura: la Scienza della legislazione. Felicità, uguaglianza, libertà, repubblicanesimo e diritti dell’uomo vengono ora riletti attraverso l’entusiasmo per l’esperimento politico che si sta realizzando nel continente americano: In un angolo dell’America, presso un popolo libero e commerciante, figlio dell’Europa, ma che l’oppressione ha reso inimico della sua madre; presso questo popolo, io dico, s’innalza una voce che ci dice: ‘Europei, se per servirvi noi siamo venuti nel Nuovo Mondo, sappiate che oggi le nostre ricchezze, e la cognizione di quelle che possiamo acquistare, non soffrono più una servitù oltraggiosa, che può essere permutata con una specie di libertà che non tarderà molto a metterci nello stato di darvi la legge e che vi farà un giorno pentire di essere stati gli artefici delle vostre catene’46.

L’opera di Filangieri, che conoscerà un numero straordinario di edizioni e traduzioni fino ai giorni nostri, fino ad essere riproposta anche in tempi recentissimi come contributo alla riforma della costituzione del Messico, sottrae definitivamente il discorso sulla felicità dagli antichi limiti etici e filosofici e lo inse-

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risce, con straordinario vigore, all’interno di un ragionamento tutto politico, che consolida la costruzione della modernità. Scrive infatti: La scena si è mutata ed i prìncipi han cominciato a conoscere che la vita e la tranquillità degli uomini merita maggior rispetto; che ci è un altro mezzo, indipendente dalla forza e dalle armi, per giungere alla grandezza; che le buone leggi sono l’unico sostegno della felicità nazionale; che la bontà delle leggi è inseparabile dall’uniformità; e che questa uniformità non si può ritrovare in una legislazione fatta tra lo spazio di ventidue secoli47.

Bisogna quindi eliminare le vestigia del feudalesimo, avviare un progetto di emancipazione dell’uomo e della società con lo stesso coraggio dimostrato dagli americani, eliminando quanto di antico ancora si oppone alla rigenerazione dell’individuo: tolti adunque tutti questi ostacoli, altro non ci resta che intraprendere la riforma della legislazione. Pare che questa sia l’ultima mano che resta a dare per compiere l’opera della felicità degli uomini; e pare che la situazione stessa delle cose l’abbia preparata. [...] L’Europa divenuta per undici secoli il teatro della guerra e della discordia, l’Europa schiacciata [...] dalle dispute religiose che hanno alterata la morale e perpetuata l’ignoranza; oppressa finalmente dalla tirannia di tanti piccioli despoti, coperta di fanatici e di guerrieri ed accesa in ogni parte dal fuoco distruttore de’ partiti, oggi è divenuta la sede della tranquillità e della ragione48.

Le leggi, e non altro, devono condurre gli uomini alla felicità, spiega Filangieri, e le leggi sono fatte dagli uomini e per gli uomini. Occorre dunque formare il legislatore, preparare buone leggi ed educare il cittadino a riconoscerle e a rispettarle; solo così potremo capire cosa significano parole come democrazia, uguaglianza, sovranità del popolo e solo in questo modo potremo costruire la vera felicità. «Un istante felice, una vittoria d’un giorno» – osserva Filangieri – «può compensare le sconfitte di più anni, ma un errore politico, un errore di legislazione può

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produrre l’infelicità d’un secolo e può preparare quella de’ secoli avvenire»49. Grazie all’opera di Filangieri, la felicità nella cultura europea non è più un oggetto provvidenzialmente sottratto alla disponibilità della persona, né lo scopo immaginario di un’affannosa corsa che, invece di condurre l’individuo alla sua mèta, lo allontana sempre più quando già pensa di intravederla. La felicità diventa invece un diritto dell’uomo, inserendosi a pieno titolo nella vicenda del costituzionalismo moderno.

X OLTRE LA RIVOLUZIONE Le parole di Filangieri, cariche di entusiasmo e speranze per le sorti degli americani, si riflettono nell’atteggiamento dell’opinione pubblica europea, che segue avidamente le notizie sulla ribellione nelle colonie attraverso i giornali e le gazzette, che aggiornano continuamente i lettori sugli ultimi avvenimenti. La curiosità viene aumentata anche dalla lettura della dichiarazione di indipendenza e delle costituzioni dei singoli Stati americani, soprattutto nelle parti riguardanti i diritti e le libertà, come il diritto del popolo a modificare o ad abolire una forma di governo ritenuta ingiusta e il diritto alla ricerca della felicità. Come in altre parti d’Europa, anche nella penisola italiana circolano edizioni e traduzioni delle costituzioni americane. Nel corso del 1780 la rivista veneziana «Notizie del Mondo» pubblica per prima la costituzione del Massachusetts con il titolo Nuovo piano di governo stabilito dalle colonie della Nuova Inghilterra1; pochi anni dopo viene diffuso un volume che raccoglie i testi di tutte le tredici costituzioni, nella versione francese promossa per evidenti scopi propagandistici da Benjamin Franklin, in quel momento rappresentante diplomatico a Parigi. Parti di quest’opera vengono utilizzate da Filangieri, negli ultimi volumi della Scienza della legislazione, e dall’ambasciatore veneziano a Parigi, che ne spedisce alcuni estratti al Senato della repubblica2. A Napoli, all’inizio del 1784, il duca di Belforte ne traduce ampi brani per la sua rivista «Scelta miscellanea». Pur evitando accuratamente di esplicitare il fatto che gli americani hanno trasformato il diritto di resistenza in un principio co-

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stituzionale, egli si sofferma a lungo sull’articolo 3 della costituzione del Massachusetts, che attribuisce al popolo il diritto alla felicità, al buon ordine e alla conservazione del suo governo, assicurandogli tutti gli strumenti necessari per realizzarli, compresa una legislazione che consenta di conformarvi l’insegnamento della religione e della morale3. Infelicità e dolore La rivoluzione americana induce quindi l’uomo europeo a ripensare drasticamente il mondo in cui vive e trasforma il senso della politica, che non è più solo progetto e utopia, ma diviene concreta possibilità di intervenire e modificare la realtà circostante. A partire da quest’epoca anche la riflessione sulla felicità conosce una rapida accelerazione e tende a radicalizzarsi, nel senso che viene riportata ad una teoria estetica e morale, oppure diventa un tema politico strettamente connesso all’attualità, come suggerisce Filangieri. Non mancano tuttavia incertezze e percorsi individuali contraddittori, come nel caso di Pietro Verri che, proprio negli anni della rivoluzione americana e contemporaneamente alla stesura della Scienza della legislazione, riprende e rielabora le vecchie Meditazioni sulla felicità del 1763 per farne un nuovo libro, più ampio ed organico, pubblicato nel 1781. Verri utilizza gran parte dei materiali preparati vent’anni prima, che riconducono all’ormai vecchio dibattito intorno alla funzione della morale, al confronto tra Maupertuis e La Mettrie, alla lettura di Helvétius e di Smith, autore della già citata Teoria dei sentimenti morali4. Il testo finale diventa però qualcosa di completamente nuovo rispetto alle Meditazioni, non solo perché la forma stilistica viene migliorata e l’argomentazione resa più serrata; i ripensamenti sono numerosi e testimoniano lo sforzo di trattare il tema in modo nuovo5. Alla fine Verri ne fa uno studio che ruota attorno alla possibilità di spiegare la felicità in base ad una nuova teoria del dolore: rovescia cioè lo schema positivo contenuto nelle Meditazioni, che insegnavano come avvi-

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cinarsi alla condizione della felicità, per sostituirlo con uno negativo, che consiste nell’indicare il modo per allontanarsi dall’infelicità. Predomina una visione pessimistica della capacità di rigenerazione dell’umanità, ribadita dall’affermazione che «questa età dell’oro [...] è una immagine deliziosa, ma tanto vana quanto la perfetta felicità dell’uomo»6. Dietro a questo atteggiamento c’è sicuramente una certa disillusione, nata dalle difficoltà cui è andata incontro, un po’ in tutt’Europa e anche in Italia, la stagione riformatrice della collaborazione tra i filosofi e i principi. C’è però anche l’eco di un dibattito interno alla cultura dell’Italia settentrionale, che consente di leggere il Discorso di Verri come una risposta ad altri dibattiti sorti nello spazio milanese in base a differenti sensibilità culturali. Dai lavori di Gianrinaldo Carli sulla riforma dell’istruzione pubblica e sulla libertà dell’uomo, ad esempio, Verri riprende quasi pedissequamente, in tono polemico, immagini di isole e società naturali e felici per riaprire il dibattito sullo stato di natura, sull’origine e sulla funzione del contratto sociale, e per capire quale possa essere la condizione migliore per l’uomo7. Piuttosto di assumere come laboratorio ideale la società nuova che si va creando in America, Verri preferisce confrontarsi ancora con una cultura la cui preoccupazione fondamentale rimane quella di allontanare il dispotismo, che è fonte di infelicità, di dolore e di sofferenza, anche in senso economico. Non è interessato a trovare i mezzi attraverso i quali aumentare la felicità individuale o di uno Stato, ma unicamente a capire «se gli uomini che attualmente vivono abbiano maggiori mezzi per accostarsi alla felicità di quello che le circostanze passate offrivano ai nostri maggiori»8. L’esito è evidente: non si può raggiungere la felicità, ma solo allontanarsi dall’infelicità; e l’uomo comune non ne ha nemmeno la forza, perché – e qui Verri modifica sostanzialmente il testo del 1763 – «cercare la propria FELICITÀ» (in caratteri maiuscoli nell’originale), non è più prerogativa di ogni individuo, ma privilegio solamente dell’uomo illuminato e virtuoso, cioè del saggio e del filosofo9. Questa impostazione, riformatrice e moderata, viene sostanzialmente confermata dieci anni dopo in un opuscolo intitolato

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Delle nozioni tendenti alla pubblica felicità, ma mai pubblicato, scritto all’indomani della Rivoluzione francese, tra il settembre 1791 e l’agosto 1792. Per Verri il diritto alla rivoluzione non è un diritto alla resistenza, ma l’esercizio della sovranità popolare, la possibilità per il popolo di occuparsi di «oggetti pubblici»10. L’anziano protagonista dell’Illuminismo milanese spiega in altri luoghi che la felicità porta «alla libertà civile, alla coltura e alla virtù», idealizzando nella figura del monarca costituzionale le caratteristiche che aveva ritrovato nel principe illuminato11. La sua adesione agli ideali rivoluzionari non presuppone allora una fiducia nel repubblicanesimo, ma si stempera nel recupero di un concetto tipicamente settecentesco come la «pubblica felicità», ormai anacronistica e superata dagli eventi, che spingeranno l’autore a rinunciare alla pubblicazione del libretto12. Il diritto alla felicità La Rivoluzione francese opera una profonda trasformazione, al punto di non rivendicare più il diritto alla ricerca della felicità, come nel caso americano, ma il diritto alla felicità. Si tratta di un passaggio decisivo e complesso, che merita però di essere attentamente ricostruito, perché segna una rottura irrimediabile con il mondo dei Lumi. In una prima fase il dibattito si svolge prevalentemente all’interno dell’Assemblea nazionale, l’organo incaricato di preparare la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, nel quadro della monarchia costituzionale. L’influenza delle vicende americane e del pensiero britannico è ancora evidente: il deputato Pétion, futuro sindaco di Parigi, pubblica ad esempio un progetto di dichiarazione nel quale l’art. 2 recita che «lo scopo di ogni associazione [politica] deve essere di procurare agli individui che la compongono la maggior somma di felicità, di libertà e di sicurezza»13. Il compito di stendere la costituzione viene affidato invece quasi subito ad un comitato ristretto, composto da otto persone. Il 27 luglio 1789 il deputato Mounier, portavoce della maggioranza, presenta un testo il cui primo ar-

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ticolo afferma solennemente che «tutti gli uomini hanno una invincibile tendenza alla ricerca della felicità; è per giungervi mercè la riunione dei loro sforzi che essi hanno formato la società e stabilito dei governi. Ogni governo deve dunque avere come scopo la felicità generale». E prosegue affermando che «gli uomini, per essere felici, devono avere il libero ed intero esercizio di tutte le loro facoltà fisiche e morali» (art. 4) e che «il governo, per procurare la felicità generale, deve dunque proteggere i diritti e prescrivere i doveri» (art. 9)14. Questi medesimi concetti sono ripresi da molti di coloro che illustrano al comitato vari disegni di costituzione: l’avvocato Target scrive che «i governi sono istituiti soltanto per la felicità degli uomini; felicità che, applicata a tutti, non esprime che il pieno e libero esercizio dei diritti naturali» (art. 1); il deputato Crénière afferma, a nome del Terzo Stato, che «la natura ha messo nel cuore dell’uomo il bisogno e il desiderio imperioso della felicità. Lo stato di Società politica lo conduce verso questo scopo, riunendo le forze individuali per assicurare la felicità comune». La sesta commissione della stessa Assemblea nazionale predispone poi uno schema il cui art. 1 stabilisce che «ogni uomo tiene dalla natura il diritto di vegliare alla sua conservazione e il desiderio di essere felice»15. Nella stesura definitiva della dichiarazione dei diritti la felicità non è trattata in un articolo specifico, ma è trasferita all’interno del preambolo, laddove si afferma che i diritti dell’uomo e del cittadino sono riconosciuti e dichiarati «affinché i reclami dei cittadini, fondati da ora innanzi su dei princìpi semplici ed incontestabili, abbiano sempre per risultato il mantenimento della costituzione e la felicità di tutti». Lo spostamento è significativo: così si riconosce nella felicità un diritto naturale senza però determinarne i contenuti, ma ribadendone il carattere programmatico. Come nel caso americano, anche la cultura francese riesce ad elaborare la tradizione giusnaturalistica, inserendo la felicità tra i diritti naturali e inalienabili dell’uomo. La felicità, così costituzionalizzata, può diventare allora una sorta di indirizzo politico cui ispirarsi per costruire una società migliore? In realtà, agli occhi dei rivoluzionari, essa rappresen-

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ta non tanto un programma per il futuro quanto una cesura rispetto al passato, perché pone una barriera rispetto al vecchio (e infelice) regime che si vuole lasciare definitivamente alle spalle. Anche per questo, nel dibattito che accompagna la preparazione della costituzione del 3 settembre 1791, la felicità – nell’accezione di «felicità pubblica» – rimane essenzialmente un ideale filosofico ed etico, che corrisponde a un’idea abbastanza indistinta di benessere, di giustizia e di prosperità della nazione, cui dovrebbe ispirarsi l’azione del potere legislativo e di quello esecutivo. In questo senso scrive pure Sieyès che, nella premessa ad un suo progetto costituzionale, spiega che «la libertà, l’ordine e la pubblica felicità possono trovare solide basi solo nei princìpi immutabili della giustizia e della ragione»16. Nel preambolo del testo definitivo della dichiarazione dei diritti premessa alla nuova costituzione, infine, non si farà altro che ripetere quanto stabilito nel 1789 e cioè che i princìpi incontestabili della dichiarazione stessa devono servire al mantenimento della costituzione e della «felicità di tutti». Dopo la fuga di Varennes e la dichiarazione di guerra all’Austria, seguita dall’insurrezione del popolo di Parigi (20 giugno 1792), la monarchia appare sempre più indebolita e l’Assemblea legislativa decide la sospensione del sovrano dalle sue funzioni, con l’elezione di un nuovo organo, la Convenzione nazionale. Ed è proprio la Convenzione a dichiarare, il 21 settembre, l’abolizione della monarchia e a celebrare il processo contro Luigi XVI, seguito dalla sua esecuzione (21 gennaio 1793). Le successive sconfitte militari, la crisi economica e le agitazioni popolari mettono in minoranza la componente moderata dei girondini e favoriscono la creazione di un tribunale rivoluzionario e di un Comitato di salute pubblica. Si apre così il periodo dell’egemonia giacobina e del Terrore, del quale rimane triste protagonista Robespierre, che instaura la dittatura in nome del popolo e della libertà e apre la nuova fase rivoluzionaria. In questo clima concitato viene preparata e discussa la nuova costituzione del 1793, votata il 24 giugno e destinata a non entrare mai in vigore, ben diversa rispetto a quella di due anni prima; già in aprile Robespierre presenta un progetto che si differenzia

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rispetto alla dichiarazione girondina per il suo carattere fortemente antindividualistico. I diritti elencati non sono più quelli dell’uomo, ma quelli della società nel suo complesso, che devono essere affermati «affinché il popolo abbia sempre davanti agli occhi le basi della sua libertà e della sua felicità». Nel testo definitivo della dichiarazione, premessa alla costituzione, quest’affermazione viene ulteriormente rafforzata dall’art. 1 che dichiara, senza mezzi termini, che «lo scopo della società è la felicità comune. Il governo è istituito per garantire all’uomo il godimento dei suoi diritti naturali e imprescrittibili»17. Si tratta di una formulazione che enfatizza il principio rousseauiano della sovranità popolare (non a caso le spoglie del filosofo vengono traslate solennemente al Panthéon l’11 ottobre 1794), ma che crea di fatto una gerarchia fra i diritti, ponendo la felicità comune e l’uguaglianza al di sopra della libertà e della proprietà, coerentemente con il programma politico del gruppo giacobino. Allo stesso periodo risale il celebre rapporto di Saint-Just, uno dei membri del Comitato di salute pubblica, che il 3 marzo 1794 dichiara alla Convenzione solennemente: «la felicità è un’idea nuova in Europa». La parola felicità è ormai parte del lessico politico e torna continuamente nei discorsi di Saint-Just stesso e di Robespierre, ma non ha però più nulla a che fare con la tradizione illuministica ed è collegata strettamente, piuttosto, alla nuova idea di virtù espressa dai dirigenti giacobini, che la interpretano come un valore repubblicano contrario al piacere individuale, a qualsiasi manifestazione dell’epicureismo vecchio e nuovo e che si può esprimere solo in modo collettivo. La virtù, spiega Robespierre nei discorsi alla Convenzione del 5 febbraio e del 7 maggio 1794, è necessaria al terrore affinché questo non sia funesto, ma il terrore stesso ha bisogno della virtù perché altrimenti senza di essa «è impotente». Non bisogna quindi più parlare né di felicità privata né di felicità pubblica secondo l’uso antico, ma di «felicità sociale», ispirata alla morale rivoluzionaria e ad una nuova religiosità civile, la stessa che pone la felicità del popolo quale ultima delle 37 feste dell’anno fissate dal calendario repubblicano18. La felicità privata si dissolve in quella del corpo sociale e dello Stato, che deve difendersi dai nemi-

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ci della Rivoluzione; l’interesse privato cede il posto all’interesse generale e la virtù repubblicana si contrappone agli interessi dell’individuo19. Saint-Just, nel rapporto del Comitato di salute pubblica, si rivolge ai francesi e ai membri della Convenzione affinché «l’Europa sappia che non volete più un despota né un oppressore sul territorio francese; che quest’esempio produca frutti sulla terra; che serva a propagare l’amore per la virtù e la felicità!»20. Ed è lui stesso a sottolineare l’abuso del termine felicità, la tendenza ad attribuirgli un significato egoistico e individualistico. La felicità cui fa riferimento è solo quella «offerta» dal Comitato di salute pubblica al popolo, che consiste nell’essere liberi e tranquilli, nel gioire della pace, nel godere dei frutti della Rivoluzione, nel tornare alla natura e alla morale21. Raggiungerla non è quindi più compito del singolo individuo; è invece un dovere del potere politico promuovere la felicità dei cittadini. Nel periodo durante il quale la costituzione del ’91 di fatto è disattivata e quella del ’93 non è in vigore, tutto il potere viene gestito dal Comitato di salute pubblica, finché il 9 termidoro dell’anno II (27 luglio 1794), Robespierre, Saint-Just e altri membri del Comitato vengono messi sotto accusa, arrestati, processati e giustiziati senza processo. La nuova Convenzione darà il via ai lavori per la stesura della Costituzione dell’anno III (1795), molto più vicina a quella del ’91 e nella quale il potere esecutivo rimarrà affidato a un Direttorio di cinque membri, destinato a rimanere in carica fino al colpo di Stato del 18 fruttidoro (4 settembre 1797), realizzato anche con il contributo del giovane generale Napoleone Bonaparte. La vertigine dell’Europa Deluso e sfiduciato da questi avvenimenti, sin dalla fine del 1793 l’economista e filosofo triestino Antonio de Giuliani indirizza un appello alla Convenzione: «tutto il mondo si era ormai rallegrato, allorché fissando Voi i diritti dell’uomo, avevate annunciato alla Terra di voler fissare la di lei felicità. Ed in-

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fatti, a nessun’altra nazione fuori che alla francese pareva riservato l’onore di ultimare questa grand’opera». Ma ciò non è avvenuto e, anzi, avete ridotto ad infallibili assiomi l’umana felicità [...]; non si parla che di felicità; e gli uomini si lamentano sempre di essere infelici. Siam giunti al quarto anno di questa felice rivoluzione che, diretta da uomini pieni di talento, dovea cangiare il destino della Francia [...]. Ma si è egli mai veduto finora altra cosa che carneficine, eccessi terribili e saccheggi; uomini arrabbiati scannarsi a vicenda, prigioni ripiene di vittime dimenticate, innocenti immolati da un popolo furioso, e finalmente orrori inauditi, che hanno fatto fremere l’umanità? E questa è dunque la strada per cui si va alla felicità?22

Non è una reazione isolata. La Costituzione dell’anno III nasce nella tragedia del Terrore e proprio per questo, attraverso la sua lunga elaborazione, ripropone prepotentemente il tema dei diritti dell’uomo come strumento di garanzia contro ogni forma di dispotismo, anche repubblicano. Non vi compare più la parola felicità, il cui uso negli anni precedenti è divenuto strumento di coercizione ed arma per il gruppo dirigente giacobino. Nella «vertigine dell’Europa», secondo la definizione usata sin dal 1790 da de Giuliani, si è preteso di trasformare la felicità in un fine della legislazione, accelerando così la patologia del mondo dei Lumi23. Non a caso, proprio l’articolo 1 del nuovo progetto per una dichiarazione dei diritti, secondo cui – ad imitazione della costituzione del ’93 – «lo scopo della società è la felicità comune. Il governo è istituito per garantire all’uomo il godimento dei suoi diritti», è anche il primo ad essere soppresso dalla Convenzione, dopo un dibattito nel quale emergono tutti i timori legati alle interpretazioni e alle distorsioni che possono essere date all’espressione felicità comune24. Per tornare alla difesa dei diritti dell’uomo occorre anche misurarsi con l’eredità del discorso illuministico e questo avviene riattivando una serie di garanzie della persona, a protezione dell’individuo, che servono a contenere la paura e ad impedire al male di ripresentarsi. Vengono rafforzati i meccanismi del giusto

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processo, riaffermati i diritti dell’uomo, ribaditi i princìpi che governano la giustizia penale. Un percorso analogo si può riconoscere anche nella stesura del Progetto di costituzione della repubblica napoletana (1799), dovuto per gran parte a Francesco Mario Pagano, amico e allievo di Gaetano Filangieri. Sin dagli anni Ottanta, studiando il processo penale, Pagano individua con chiarezza proprio nella difesa dei diritti dell’uomo gli strumenti per raggiungere la felicità, soffermandosi ampiamente su quella che ritiene una delle garanzie più efficaci, la pubblicità del processo: «il criminale processo, stabilendo la forma de’ pubblici giudizi, è la custodia della libertà, la trincera contro la prepotenza, l’indice certo della felicità nazionale»25. Eppure anche nel disegno della costituzione napoletana la parola felicità soccombe dinanzi alla preoccupazione di costruire un meccanismo che lega strettamente la proclamazione dei diritti inviolabili dell’uomo alla loro tutela costituzionale e giurisdizionale26. Di queste stesse tensioni si fa interprete, nella lontana Prussia orientale, Immanuel Kant, che a partire dal 1793 affronta di petto tali argomenti. L’assunto è che l’idea della felicità pubblica, trasformata autoritativamente in atto di legislazione senza un contenuto razionale, produce inevitabilmente dispotismo. È indifferente che sia propugnata da un sovrano o da un governo repubblicano, perché entrambi possono assumere le vesti del despota e «nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo». Il dispotismo si ripresenta ogniqualvolta qualcuno viene a spiegare agli uomini «come debbano essere felici», soffocando un diritto inalienabile che è quello alla libertà individuale. Non può essere il potere politico a determinare quindi la nostra felicità. Un altro punto su cui bisogna essere chiari, prosegue Kant, è che occorre sganciare definitivamente la teoria della felicità dal problema della morale e della virtù, causa di tanti deleteri effetti: la felicità deve essere determinata razionalmente e l’idea della felicità morale, che ha accompagnato la storia dell’umanità, è «una mostruosità che si contraddice da sola», perché la morale è incompatibile con la ragione. Hegel riprenderà queste pagine per spiegare che la felicità è arbitrio degli impulsi e che la ragione interviene, kantianamente, per selezionare solo quelli che

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ciascun individuo ritiene utili in vista di una prospettiva di vita eticamente migliore27. Qual è allora il destino degli uomini? Vivono immersi nell’illusione della felicità e non hanno la possibilità di determinare il proprio destino: possono solo cercare di vivere in armonia con se stessi, ma si muovono spinti dalla storia, che segue un suo disegno, ai più incomprensibile. La storia del mondo è completamente separata dai progetti umani e la volontà della ragione è indifferente rispetto a ciò che sono i desideri di ciascuno; l’esperienza lo dimostra e «la storia ha espropriato agli uomini il diritto alla ricerca razionale della felicità»28. Quali prospettive rimangono? La cultura dell’Ottocento ne individua alcune, che si articolano in modi diversi, attraverso la riscoperta di temi illuministici o la rivalutazione del dibattito su piacere e dolore, e che rilanciano nuove utopie. L’inno alla gioia Una strategia di rivalutazione dei Lumi è riconoscibile attraverso la messa in musica, da parte di Beethoven (1824), dell’ode alla gioia scritta da Friedrich Schiller quarant’anni prima, diventata dal 1972 inno del Consiglio d’Europa e poi dell’Europa unita. L’ode viene scritta da Schiller nel 1785, in un momento particolare della sua vita, dopo il definitivo abbandono della professione medica per dedicarsi completamente al teatro, che lo pone di fronte ad una serie di difficoltà economiche e personali. Poco dopo essere stato introdotto nel circolo degli intellettuali di Weimar, dove conosce anche Goethe, Schiller si trasferisce a Dresda e qui probabilmente inizia la stesura dell’ode, spinto da un avvenimento inaspettato: secondo alcuni ha salvato una persona dall’annegamento e per questo è stato ricompensato uscendo dalle ristrettezze economiche; secondo altri vuole ringraziare un amico che lo ha aiutato finanziariamente. Certo è che originariamente l’ode doveva essere intitolata alla libertà, ma ben presto l’autore decide di dedicarla al-

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la gioia (Freude), intendendo per essa – secondo una lunga tradizione che da Cartesio e Locke giunge sino a Rousseau – il sentimento di letizia di fronte ad un avvenimento imprevisto, che non dipende dalla volontà dell’uomo e che risolleva l’animo. La gioia per Schiller è quindi spirito di fratellanza e di umanità, senso di amore e di riconoscenza per il prossimo, assenza del dolore che spetta all’uomo giusto29. La sua opera letteraria ha però anche altre radici, che affondano anzitutto nel mondo massonico. Le strofe, benché ritenute di qualità non molto elevata, descrivono la gioia come «bella scintilla divina, figlia dell’Elisio», che «muove le ruote nel grande orologio del mondo» e aiuta nel cammino verso la verità, la purificazione e la pace dell’anima. Il richiamo al mondo greco, unito ad altre immagini classiche e ad un preciso linguaggio simbolico (come i riferimenti alla volta del tempio, alla perfezione del creato, alle costellazioni), riflettono infatti la vicinanza di Schiller al mondo massonico. La ricerca della gioia è quindi un percorso di rigenerazione dell’uomo, di rinnovamento dell’anima, senso di amicizia e di fratellanza tra gli uomini. Non a caso l’amico che lo aiuta, Christian Gottfried Körner, appartiene alla muratoria e l’ode viene subito musicata da vari compositori e inserita in raccolte di composizioni massoniche. Quattro decenni più tardi Beethoven riprende l’ode di Schiller per trarne i passi più significativi e inserirli nel finale della Nona Sinfonia. Il cammino grazie al quale il compositore vi arriva è tuttavia lungo, e attraversa tutta l’ultima parte della vicenda rivoluzionaria. Esistono documenti che provano come sin dal 1792 Beethoven avesse intenzione di mettere in musica l’ode e ne esistono anche alcune prime versioni, molto diverse da quella definitiva, risalenti agli anni intorno al 1795. Sembra inoltre che le prime note dell’inno siano molto simili a quelle composte vent’anni prima da Mozart, anch’egli massone, per un Offertorio, e sappiamo che Beethoven vantava numerose amicizie nella muratoria e aveva avuto per maestri musicisti massoni come Haydn e Salieri. La versione definitiva dell’inno nasce però con la Nona Sinfonia, che viene commissionata dalla Philharmonic Society di Lon-

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dra ed eseguita per la prima volta la sera del 7 maggio 1824 a Vienna e poi replicata a Londra, non senza reazioni contrastanti30. L’inno alla gioia è collocato nel quarto movimento, composto da una parte orchestrale e da una corale, in cui il baritono dà inizio al canto alternandosi poi ai solisti e al coro. Il compositore usa solo una parte dell’ode di Schiller, ma crea un finale di grande effetto, riprendendo i versi iniziali dedicati alla gioia, «bella scintilla divina, figlia dell’Elisio», con il quale «si compie il messaggio, sacro per quei tempi, espressione solenne dell’utopia illuminista, ma senza il quale i mali di questo e dell’altro secolo avrebbero pesato in maniera intollerabile sugli uomini giusti»31. Beethoven gestisce così l’eredità della cultura illuministica in un’epoca in cui sembra non esserci più spazio per le illusioni della ragione. Trasfigura l’idea del progresso in quella della rigenerazione dell’individuo, sottolineando nella felicità la forza del sentimento, il patto d’amore che gli uomini stringono tra loro, innalzandola a livello di una dea, che tanto affascinerà il mondo romantico. Piacere e godimento Completamente differente è invece il percorso che porta la felicità a dissolversi dinanzi al ripiegamento sull’io, alla prevalenza delle passioni. Può arrivare all’eccesso e alla derisione, con gli esiti che ritroviamo nelle opere del marchese de Sade (famoso anche per aver dato il suo nome alla parola sadismo). La felicità viene appiattita sul semplice godimento, sull’intensità delle sensazioni e dei piaceri, fino ad abbattere tutti i feticci costruiti dall’Illuminismo. Il problema della morale viene risolto in un immoralismo sfrenato, che lascia libero campo ad ogni tipo di sensazione e di impulso. Donatien-Alphonse-François de Sade pretende di essere figlio naturale di La Mettrie, ma è nato nel 1740 a Parigi da un’antica famiglia di Avignone, alla quale apparteneva anche la Laura di Francesco Petrarca. Ha percorso un’ingloriosa vita militare e una più soddisfacente, almeno in apparenza, carriera di li-

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bertino e «sciupafemmine». Già nel 1763 viene però incarcerato per dissolutezze e trascorre poi molti anni vivendo di espedienti, truffe e traffico di antichità. Imprigionato nuovamente nel 1778, viene trasferito sei anni dopo alla Bastiglia dove rimane sino alla vigilia della Rivoluzione. Dopo aver vissuto stentatamente gli anni della repubblica sfuggendo alla fame, viene internato nel 1801 in un ospedale psichiatrico, dove muore nel 1814. Passa quindi più di trent’anni della sua vita tra il carcere e il manicomio, accompagnato da accuse di empietà e di oscenità ed è in questo periodo che scrive la maggior parte delle sue opere pornografiche, secondo lo stile del «romanzo filosofico» tanto in voga nel Settecento. In Aline e Valcour (1795) – il racconto di un padre incestuoso che vuole far sposare la figlia ad un vecchio, libertino come lui –, de Sade rovescia i canoni tradizionali della felicità attraverso una serie di viaggi immaginari a sfondo erotico nel regno dannato del barbaro Butua e nell’isola felice del saggio Zamé, con i quali vuole dimostrare che l’umanità è naturalmente, e irrimediabilmente, portata alla violenza. La tirannia dei desideri diventa abbandono ai sensi e alla voluttà: l’uomo ha diritto di fare del male, ha diritto al crimine e la sofferenza e le pene rappresentano una forma di appagamento e di piacere32. Il caso del marchese de Sade è naturalmente estremo, ma ben si inserisce in una tendenza al ripiegamento dell’individuo in se stesso e nei suoi egoismi destinata ad avere grande spazio nell’Ottocento europeo. Di fronte al tramonto dell’ottimismo settecentesco trionfano – anche con l’aiuto della cultura romantica – la prevalenza dei sentimenti e la positività del dolore. Più o meno nella stessa epoca in cui muore de Sade, Arthur Schopenauer, nell’Arte di essere felici, prende atto dell’impossibilità di porre un limite all’infelicità e ai danni provocati dalla fantasia che spinge solo a produrre piacevoli illusioni, affermando che viceversa solo il dolore è reale33. In fin dei conti, è molto più rassicurante racchiudere l’uomo entro la dimensione della quotidianità, che è fatta di affetti, della malattia dell’amore e dei dolori dell’anima, come l’isteria e il rimorso; questo atteggiamento accomuna tutta la società borghese dell’Ottocento, realizzan-

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do una democrazia dei sentimenti che non richiede di conoscere le opere dei filosofi, ma viene appagata dalla letteratura di intrattenimento, dai romanzi d’appendice, dall’esaltazione della dimensione domestica piuttosto che pubblica34. A partire da questo punto la strada è spianata verso coloro che, come Nietzsche e Freud, riconosceranno che il sogno dell’uomo è finito, che la sua fiducia nel progresso come percorso di rigenerazione e felicità è illusoria, e che la civiltà produce solo disagio. Secondo Nietzsche l’uomo è posseduto dal ricordo, che è fonte dell’infelicità; e la storia – la sua stessa storia – non aiuta, anzi esaspera la potenza del ricordo, condannando l’esistenza a un destino tragico. Contro la storia si pone invece la vita, il presente come fonte di felicità che nasce dall’oblio, dalla volontà di dimenticare il passato. Il filosofo ci porta verso una considerazione estrema: il passato è ricordo, memoria, assenza di vita e quindi infelicità oggettivata. Le azioni degli uomini necessitano dell’oblio e la sola cosa per cui la felicità diventa tale è il poter dimenticare, cioè la capacità di sentire in modo non storico35. Troppo spesso l’uomo si trova condannato ad una dimensione immaginaria: i ricordi si popolano di fantasmi, ma i fantasmi a tal punto possono invadere la nostra esistenza da rendere ancora più difficile, se non impossibile, la ricerca della felicità reale. La cultura moderna ha così elaborato una lunga riflessione sulla positività del dolore, e a partire da Nietzsche non si è limitata a denunciare la felicità come un’illusione, ma è giunta anche a rifiutare ogni forma di consolazione. Bisogna solo prendere possesso del presente, far coincidere la propria esistenza con la propria volontà, vivere l’istante come fanno i bambini e come Nietzsche stesso spiega nella Nascita della tragedia (1871). La felicità non è una promessa ma è semplicemente desiderare, come fanno gli animali, che non hanno memoria, occupati solo di nutrirsi e di dormire legati alla pertica dell’istante. È una diagnosi non molto dissimile da quella presente in una delle opere più famose di Freud, Il disagio della civiltà (1930; il titolo originale doveva essere L’infelicità della cultura, dove in lingua tedesca la parola Kultur ha un significato più totalizzante e pervasivo dell’italiano). «L’uomo civile», scrive infatti, «ha

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barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza», perdendo così la libertà delle pulsioni e la capacità di dare sfogo alla sua energia psichica. Freud fa così i conti con tutta la tradizione del pensiero occidentale, per accedere infine all’immagine hobbesiana di un uomo intrinsecamente aggressivo e narcisista. Bisogna liberare quest’uomo dalle sue inibizioni e così la felicità viene ridotta al soddisfacimento momentaneo e improvviso che si ottiene attraverso l’esperienza del piacere. Per raggiungere quindi la vera felicità non si può fare altro che seguire l’imperativo del piacere, assecondare le passioni, far uscire l’uomo dalla prigione che si è costruito con un lungo percorso di privazioni. Sarà la psicanalisi, nella prospettiva offerta da Freud, a fornire la soluzione che consente di liberarsi dai sensi di colpa, di rimediare al conflitto tra psiche e istinto cercando di ristabilire un equilibrio interno36. Freud fa una diagnosi del disagio della civiltà, pur accettando l’idea che il processo di civilizzazione è non soltanto utile, ma necessario. Tendere alla felicità significa espandere a dismisura l’esperienza del piacere, cioè i bisogni fortemente compressi, ma ciò avviene solo in circostanze episodiche di grande intensità. Dinanzi ai limiti della costituzione umana sorgono insoddisfazione e frustrazione, quindi una realtà psichica di infelicità. La psicanalisi può servire allora ad assecondare l’imperativo del piacere, facendo in modo che l’uomo si possa rendere conto di quanto la civiltà abbia escogitato rimedi per arginare il soddisfacimento sfrenato di tutti i bisogni. La civiltà ha quindi un costo, e fa pagare un prezzo molto alto in termini di perdita di felicità; ed è da questo effetto di delusione, dalla mancata organizzazione dei desideri, dall’assenza di equilibrio tra l’interno (il programma di felicità dell’individuo) e l’esterno (la civiltà con la sua morale e le sue regole) che nascono l’infelicità e le nevrosi37. Questa dimensione del dolore è ricordata alla fine dell’Ottocento, peraltro, anche in un’altra opera, che è quanto di più lontano possiamo immaginare: le parole dell’enciclica di papa Leone XIII Rerum novarum (1891) rilanciano infatti il senso della felicità cristiana, ricordando ai fortunati del XIX secolo che le

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ricchezze non liberano dal dolore ma, anziché aiutare la felicità futura, le nuocciono. Anche accettando l’ipotesi che esistano due generi di sazietà, quella dei beni materiali e quella dell’anima, l’abbondanza di beni e di ricchezze o la loro assenza resta indifferente rispetto al fine ultimo di tutte le cose38. Il ritorno dell’utopia Nel corso dell’Ottocento una nuova dimensione della felicità viene offerta infine dal ritorno all’utopia, favorito dalle correnti socialiste che indagano sulle dinamiche sociali introdotte dall’industrializzazione, osservando le terribili condizioni di vita nelle fabbriche e nelle miniere. Alle origini di quest’esperienza si pone Claude-Henri de Saint-Simon (1760-1825). Ancora giovane ha combattuto con le truppe americane ed è stato vicino a George Washington nella battaglia di Yorktown. Poi diventa un punto di riferimento nel pensiero economico (sarà anche maestro di August Comte) e riflette esplicitamente sulle responsabilità di governo della classe produttiva (come lui stesso la chiama): «i vostri interessi politici» – scrive infatti rivolgendosi ai possidenti e all’aristocrazia – «sono gli stessi di quelli dei lavoratori delle classi inferiori, i vostri desideri e i loro saranno certamente quelli che avverte la stragrande maggioranza della nazione». Bisogna quindi riorganizzare la società europea, scoprire un nuovo ordine naturale, riuscire ad armonizzare gli interessi di tutti coloro che sono coinvolti nei nuovi processi produttivi. La civiltà industriale, attraverso strumenti di controllo opportunamente definiti e affidati alle persone giuste, può essere secondo lui un’occasione positiva per assecondare un ordine economico spontaneo, compatibile con una società complessa, ma organizzata rigorosamente in base alla funzione economica di ciascun componente. Si tratta di un sogno basato sulla possibilità di costruire un sistema di giustizia distributiva che per i seguaci di Saint-Simon, fautori del cosiddetto sainsimonismo, diventa una dottrina quasi religiosa, carica di aspettative per una rigenerazione morale dell’Europa39.

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In parte diversa è l’esperienza di Robert Owen (1771-1858), un filantropo di origine gallese che ha fatto fortuna attraverso l’industria tessile e conosce bene le condizioni di vita nella società industriale. È diventato famoso per aver fondato in Scozia una città industriale modello (un esempio che verrà seguito in Italia, ad esempio, da Alessandro Rossi con il suo lanificio di Schio vicino a Vicenza) e per la politica sociale che vi ha realizzato. Nel 1825 si trasferisce in America e lì cerca di mettere in pratica la sua teoria, secondo cui il miglior rimedio contro l’avida competizione del mercato consiste in una forte cooperazione sociale. Acquista i terreni su cui il pastore tedesco Rapp aveva fondato nel 1814 la città di Harmonie e la ribattezza New Harmony, stabilendovi una comunità di mille persone basata sul pensiero razionale e sull’esclusione della religione, sulla cooperazione sociale e sull’educazione gratuita. Benché vi vengano creati il primo asilo, la prima scuola e la prima biblioteca gratuita degli Stati Uniti, il progetto naufraga dopo soli due anni, causa le ingenti perdite economiche di Owen stesso e l’indisponibilità degli abitanti a svolgere tutti i ruoli previsti dal suo progetto. Ciononostante pubblicherà ancora, prima della morte avvenuta nel 1858, un manifesto del suo pensiero nell’opera La crisi, o il passaggio dall’errore e dalla miseria alla verità e alla felicità (1832)40. Temi analoghi riemergono nel Viaggio a Icaria (1840) del romanziere Étienne Cabet, un racconto nel quale viene immaginato un modello di società ideale che è anche esempio di cristianesimo autentico e di felicità sociale; i seguaci di Cabet tentano di applicare le sue idee alla realtà e, definendosi «nuovi icariani», fondano nel 1849 a Nauvoo (Illinois), da poco abbandonata dai mormoni, la comunità di Icaria, destinata a durare però meno di dieci anni a causa delle liti interne. Contro l’utopismo moralizzante, ascetico e «rozzo» che sembra ricollegarsi al modello degli antichi ed appare quindi antimoderno, va definendosi in questi stessi anni il pensiero di Karl Marx (1818-1883), che rifiuta l’idea secondo cui l’uomo deve essere vincolato ad un sistema naturale di bisogni e polemizza contro le conquiste illuministiche dei diritti, sottolineando i limiti di un’emancipazione solo politica dell’uomo e la tendenza ad esal-

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tarne la natura egoistica, che lo estrania dalla comunità e dalla società civile41. Sin dalla Critica della filosofia del diritto di Hegel (1843) Marx inizia a costruire una teoria della felicità in radicale opposizione con alcuni temi classici del pensiero moderno, come quello del bisogno di religiosità. Il fatto che l’uomo abbia bisogno di religione, e quindi di illusione, mostra secondo lui le vere catene che gli vengono imposte e la condizione di alienazione in cui vive. Quindi, la soppressione della religione in quanto felicità illusoria del popolo è uno dei presupposti per la sua vera felicità, per rinunciare a una condizione che ha bisogno di illusioni e per reimpadronirsi invece della realtà. L’uomo può allora raggiungere la felicità attraverso la realizzazione di sé che può esprimere nel lavoro, attraverso la presa di coscienza che la sua soggettività deriva dalla comunità in cui è inserito e che i protagonisti della storia sono il proletariato, i popoli, le masse42. La medesima aspirazione a riappropriarsi delle identità e ad una dimensione di vita comunitaria sostenibile porta alla riscoperta della città ideale: una città nuova, eretta a misura dell’uomo dell’età industriale, per restituirgli un modo di vivere armonioso e vicino alla natura. Dinanzi allo sviluppo delle megalopoli e all’estensione del gigantismo, alla schiavitù della burocrazia e ad uno spazio urbano che implode o diventa invisibile, perché la città è invasiva e rappresenta il luogo dell’alienazione individuale, il Novecento reinventerà l’architettura e la città ideale come spazi compatibili tra la civiltà e la natura, come luogo per una felicità sostenibile, a misura dell’uomo e della sua quotidianità43. Felicità e governo dei popoli Nella seconda metà dell’Ottocento il tema della felicità conosce importanti trasformazioni anche in un mondo estremamente lontano da quello europeo, come il Giappone. Con l’inizio dell’epoca Meiji – cioè del «governo illuminato», così come fu designato nel 1868 il regno dell’imperatore Mutsuhito (18521912) –, prende avvio una fase di modernizzazione e di occidentalizzazione, all’insegna della formula bunmei-kaika («civiltà

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e progresso»), che intende far uscire il paese da secoli di regime feudale e condurlo verso nuovi traguardi. Si diffondono usi, costumi, abiti, cibi e pratiche occidentali, cambiano lo stile di costruzione degli edifici, la letteratura e la cultura, non senza manifestazioni di disagio e di timore per i rischi connessi alla perdita dell’identità giapponese44. Analoghe metamorfosi riguardano il lessico e i significati della felicità. Nella cultura tradizionale giapponese la felicità era rappresentata, attraverso il buddhismo popolare, da sette geni che rappresentavano la pesca, la fortuna, le arti, la popolarità, la guerra, la longevità e la giovialità. Nel giapponese antico, precedente all’introduzione della scrittura ideografica cinese, l’essere felici veniva espresso dal termine saiwai, che indicava una condizione di fortuna, e che pare derivare dal termine sakaeru, ovvero il «prosperare, fiorire», attraverso un segno fonetico che richiamava la dimensione vegetale, l’albero i cui fiori assumono una forma tonda e quindi la fioritura, il rifulgere. Con l’introduzione della scrittura ideografica cinese cambia anche il termine utilizzato, che diventa kôfuku, composto da due parole che significano rispettivamente «fortuna», nel senso di «poter sopravvivere senza morire in giovane età», e «aiuto ricevuto dalla divinità», dunque fortuna e grazia divina. Si tratta evidentemente di immagini complesse, che rimandavano ad una molteplicità di significati e a profondi valori religiosi. Viceversa, il concetto di felicità che cominciano a introdurre i filosofi dell’Illuminismo Meiji riporta ad una pratica filosofica e politica tipicamente occidentale, che ha portato alla cultura dei Lumi e alla dichiarazione di indipendenza americana del 1776. Non a caso questa nuova idea della felicità passa attraverso la scoperta della storia occidentale e le edizioni e traduzioni della dichiarazione di indipendenza americana. Proprio il rappresentante più cospicuo dell’Illuminismo Meiji, Fukuzawa Yukichi, autore di un volume di grande successo sulla storia dei paesi occidentali, traduce per primo la dichiarazione del 1776. L’operazione non nasconde anche un intento polemico e politico; tradurre la dichiarazione americana significa spiegare un capitolo della storia dell’Occidente segnato dalla

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lotta delle colonie contro il dispotismo britannico, che nell’Ottocento è tornato a manifestarsi sotto forma di imperialismo commerciale verso Oriente. Anche la traduzione in sé è però interessante, perché Fukuzawa Yukichi si trova a dover trasferire in lingua giapponese concetti nuovi, ad essa sostanzialmente estranei, per i quali non esistono né uno specifico lessico politico né un sufficiente dibattito culturale45. Si assiste così a curiosi slittamenti di significati, come nel caso del diritto alla ricerca della felicità, che Fukuzawa nella traduzione attribuisce al popolo nel suo complesso piuttosto che a «tutti gli uomini» come suona l’originale americano46, utilizzando una parola, kôfuku, sino ad allora poco utilizzata e contribuendo così alla sua diffusione e popolarità. Qui stanno le origini del diritto al perseguimento della felicità enunciato nell’attuale costituzione giapponese. Scritta nel 1946, all’indomani della sconfitta nel secondo conflitto mondiale, nasce nel clima di drastiche riforme e di democratizzazione introdotte durante il periodo dell’occupazione alleata sotto il comando supremo del generale MacArthur. Redatta dallo staff del generale, manifesta la sua evidente parentela con la costituzione americana, dalla quale riprende il tema della sacralità della sovranità popolare, enunciata nel preambolo, e la proclamazione dei diritti «eterni e inviolabili», che consistono nella vita, nella libertà e nella ricerca della felicità47. Questo principio viene spiegato nell’art. 13, dove si afferma che «tutte le persone che costituiscono il popolo saranno rispettate come individui. Il loro diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità, entro i limiti del benessere pubblico, costituiranno l’obiettivo supremo dei legislatori e degli altri organi responsabili del governo». Come si può notare, anche la legge fondamentale del Giappone enuncia il diritto a perseguire la felicità senza definirne i contenuti, lasciando aperta la strada a differenti interpretazioni. La maggior parte dei costituzionalisti giapponesi ritiene oggi che il diritto al perseguimento della felicità rientri nel novero dei cosiddetti diritti «non enumerati», privi cioè di un contenuto prestabilito ma caratterizzati da un forte significato programmatico, e che intenda riferirsi in modo assai ampio al diritto all’autodeterminazione dell’individuo48. Si è così verificato anche

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nel caso giapponese ciò che già era accaduto nelle interpretazioni della dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America: la felicità, intesa originariamente come sintesi tra il benessere privato e la libertà di partecipazione alla vita politica, è venuta mano a mano riducendosi entro l’idea del perseguimento della felicità privata.

EPILOGO La storia della felicità, come abbiamo visto, è il tentativo dell’uomo di trovare risposte ai dilemmi del proprio tempo, per costruire una società migliore e opporre la propria volontà alla forza degli eventi che accompagnano il corso della vita umana. Molti nodi rimangono tuttavia irrisolti e continuano a riaffiorare, mettendo alla prova conquiste e certezze che si ritenevano già raggiunte. Ci domandiamo ancora se la felicità sia un avere oppure un essere, e se sia una necessità individuale oppure un desiderio collettivo. Sappiamo che i desideri collettivi dipendono spesso da modelli culturali dominanti che si impongono su quelli individuali, e vengono costruiti da usi, tradizioni, convenzioni politiche e religiose. Nel mondo contemporaneo vengono amplificati dalla potenza dei mass media, da interessi e volontà talvolta poco visibili, che tendono a plasmarli e ad indirizzarli anche senza il consenso esplicito della persona e la sua partecipazione attiva. L’attenzione viene allora spostata sempre più spesso verso i modelli democratici di consenso e verso lo studio delle trasformazioni che investono la società contemporanea. I grandi movimenti di massa del XX secolo, quello femminista, quello operaio, quello studentesco, hanno introdotto nuove variabili, suggerendo che un’alternativa alla ricerca individuale della felicità potesse essere proprio la sua dimensione sociale. Peraltro, già alla fine degli anni Sessanta del Novecento i sociologi vaticinavano l’agonia della società occidentale fondata sulla cultura dell’opulenza e dello spreco. Di fronte a questa prospettiva, rivendicare il diritto alla felicità sembrava una forma di contestazione alla cultura del benessere, che si esprimeva,

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ad esempio, attraverso la trasgressione e il rifiuto dell’ordine indotto dai mezzi di comunicazione di massa, innanzitutto dalla televisione. Il mondo uscito affannosamente dai danni e dalle afflizioni del secondo conflitto mondiale offriva per la prima volta pillole di felicità – come i vestiti alla moda o gli elettrodomestici, capaci di rendere più comoda la vita delle casalinghe –, alla portata di tutti e, anzi, ne produceva di nuove: il mondo della pubblicità alimentava questo circuito reclamizzando nuovi prodotti, producendo senza sosta nuovi desideri, in un vortice di strumenti adatti a ridurre l’infelicità o ad aumentare progressivamente il grado di appagamento. Un esempio particolarmente curioso, perché oggetto di molte ricerche dall’inizio degli anni Sessanta, riguarda quella particolare forma di felicità che è l’edonismo, l’amore del proprio corpo, l’erotismo e la scoperta della sessualità. Per i sociologi di quell’epoca era motivo di stupore constatare come il cinema e la televisione avessero influenzato profondamente i cambiamenti nel modo di esprimere i sentimenti. Film e riviste descrivevano sempre più insistentemente le fasi preliminari del comportamento amoroso, sottolineando il bisogno femminile dell’amore rispetto all’esigenza istintiva del maschio, e diffondendo così tra ragazzi e ragazze il modello dei «baci da cinema» e il ricorso alle carezze come trionfo della donna, che imponeva le sue preferenze. Felicità e benessere Altre novità sono giunte dal tentativo di studiare la felicità attraverso andamenti ciclici legati ad età e benessere economico. A partire dagli anni Ottanta un eretico delle scienze sociali come Albert Hirschman tentò di applicare questa prospettiva allo studio della politica nelle democrazie occidentali. Ipotizzò che le società, seguendo un andamento all’incirca ventennale, oscillano tra orientamenti consumistici, fondati sulla tendenza all’acquisizione privata di beni materiali, e forme di attivismo pubblico, basati su un impegno nella politica e nel sociale. L’esempio nel suo caso era fornito dalla contrapposizione tra l’era

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consumistica di Eisenhower e quella di attivismo pubblico di Kennedy e Johnson. Il ciclo vitale, secondo Hirschman, assume pertanto le caratteristiche di una teoria della delusione: nelle epoche di forte crescita dei consumi la gente investe grandi aspettative nella durevolezza dei beni che può permettersi; poi subentra la delusione, quando scopre che queste aspettative non sono giustificate. Allora gli individui, delusi dall’esperienza nel consumo privato, sono pronti a farsi coinvolgere in movimenti di interesse pubblico. L’aspettativa di felicità non è più legata quindi solo ad una condizione di benessere materiale, o di piacere inteso come momentaneo appagamento dei desideri, ma diventa una promessa di soddisfazione morale, una ricompensa per cui vale la pena un impegno civile. Anche la partecipazione alla vita pubblica comporta però delle frustrazioni, derivanti dall’insufficiente coinvolgimento dei singoli nelle decisioni politiche, dalla corruzione e dall’eccessiva proliferazione di meccanismi di dedizione e dipendenza. Ed ecco allora che la virtù pubblica scende dal piedistallo e si riavvia il ciclo della felicità indotta dalle attrattive che offre la sfera privata1. È chiaro che se potessimo misurare la felicità attraverso il possesso dei beni sarebbe facile essere profetici: i processi di civilizzazione, e ancor più quelli di industrializzazione, offrono facili strumenti di diagnosi. Lo spiegava già nel 1883 Émile Zola che, scrivendo un suo saggio sulla felicità delle donne (Au bonheur des dames), segnalava l’avvento di un nuovo paradiso, i grandi magazzini; al punto che Georges Perec in un libro del 1965 divenuto fenomeno di costume, Les choses, riuscì a prognosticare che gli oggetti avrebbero raggiunto il dominio assoluto in Occidente, all’interno di un grande mercato dei piaceri. In realtà, nella percezione comune, come spiegano economisti e sociologi, socializzare significa spesso identificarsi con un’esistenza facile, alleggerita dal comfort, dalla possibilità di poter prevedere il grado di soddisfazione che può procurare l’acquisto di un bene, come un’automobile, un iPod, una crema per la pelle. Significa anche eliminare dall’orizzonte immediato della persona i mali, il dispiacere, il dolore, anche grazie alle strategie della comunicazione e così nei romanzi e nei film a lieto fine è

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importante che a cadere vittime della mala sorte o dei colpi sparati a tradimento non siano i personaggi simpatici, quelli nei quali il pubblico si identifica. Da un certo punto di vista, però, assecondare la possibilità di crescita individuale sembra contraddire le esigenze della felicità pubblica. Questa constatazione è alla base del ri-orientamento degli studi sulla felicità come fatto sociale, che tentano ora di spiegare come il vero scopo della politica deve essere il piacere e la soddisfazione degli uomini, garantiti dalla giustizia che si impegna a trattare in modo imparziale ogni uomo nelle questioni riguardanti la sua felicità. Nella seconda metà del XX secolo questo tema è stato a lungo analizzato e si è giunti alla conclusione che una società felice deve essere necessariamente quella che combatte ogni elemento di repressione insito in quelle forme della politica che impediscono la felicità, condizionandola e limitandola. Ci si è concentrati nella ricerca di un migliore «processo di socializzazione», in grado di demolire le tradizionali aree di potere, riservate a gruppi privilegiati, per assecondare le spinte di accesso ai centri dell’azione politica e sociale, nella speranza di realizzare una forma di felicità collettiva. Socializzare significa allora anche condividere i mezzi di produzione, la gestione e la partecipazione al potere politico, nella fabbrica, nell’università, nel partito, rafforzando forme di solidarietà e di amicizia attraverso rapporti liberi e di democrazia effettiva2. Immortalità e rimozione del dolore La fonte dell’infelicità non starebbe quindi nella condizione problematica in cui vive l’uomo considerato individualmente, ma nel fatto che vi sono circostanze di ordine sociale e politico che rendono non superabili o non risolvibili le situazioni di disagio generale. L’uomo è chiuso in una gabbia da cui non può più uscire, e da qui nascono le sue delusioni e frustrazioni; ciò dipende anche dal ruolo sociale, cioè dalla condizione in cui ciascuno si trova rispetto alla società, per cui deve continuamente

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rispondere alle aspettative degli altri, accettare una forma preordinata nel comportamento e perciò subire una costrizione. Dinanzi ad un imperativo secondo cui l’unico dovere dell’uomo sembra essere quello di aumentare la felicità, rimane tuttavia difficile riconoscere un valore terapeutico della sofferenza, cercando di eliminare le cause rispetto alle quali essa diventa un antidoto, allo stesso modo in cui si vorrebbe uno psicofarmaco che invece di lenire i sintomi eliminasse le cause dei mali. L’istinto spinge l’uomo a catapultare continuamente la dimensione della felicità entro un obiettivo raggiungibile, che oggi la scienza, la medicina, le biotecnologie e l’ingegneria genetica ci fanno apparire più ravvicinato; i progressi in questi ambiti ci aiutano nella produzione di chimere, nell’alimentazione dei sogni, nella sensazione di poter abbreviare lo spazio che separa il desiderio dalla realtà. Anche le nuove prospettive offerte dall’eugenetica, a prescindere dalle questioni etiche che questa impone, giungono a innestarsi così sulle debolezze insite dell’uomo. Ogni individuo è sì destinato a morire ma, a differenza di altri esseri viventi, è anche un animale che ha coscienza di dover morire e, da quando possiede questa coscienza, ha cominciato pure a riflettere sulla precarietà della salute, sull’immortalità dell’anima, sulla cura e sul mantenimento del corpo. Sin dai tempi più antichi una delle ricette migliori per rendere felici è stata la speranza del prolungamento della vita e dell’immortalità terrena, resa più concreta dalle terapie di ringiovanimento che maghi, alchimisti e guaritori hanno pubblicizzato in ogni tempo, facendo appello ai misteri della natura e della scienza. Un celebre medico viennese del Settecento, divenuto una star nei salotti di Parigi, riusciva a imporre le sue arti di guaritore combinando la superstizione con le più recenti e affascinanti scoperte scientifiche, e proponendo un’insolita miscela fra magnetismo ed elettricità animale che offriva insospettabili proprietà terapeutiche. Franz Mesmer, questo era il suo nome, suggeriva una tecnica semplice, che si basava sulle proprietà terapeutiche del fluido magnetico umano sui pazienti, supportate da vere o presunte guarigioni, e spiegava che chiunque, opportunamente istruito, poteva diventare a sua volta magnetizzatore. Era un ri-

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medio che si affidava alle più ancestrali debolezze e paure dell’essere umano, alla sua sfiducia verso la scienza ufficiale, verso la corporazione medica, verso l’infinita casistica di malattie con le loro incerte e complicate diagnosi. Grazie invece ad un linguaggio semplice e chiaro, comprensibile a tutti, si poteva instaurare un diverso rapporto tra medico e paziente, nella convinzione che la medicina naturale fosse l’unica via per ristabilire un’armonia del corpo e che ciascuno poteva diventare, in un certo senso, medico di se stesso. Allo stesso tempo, in un mondo dominato dalla disuguaglianza sociale e dai soprusi, introduceva un senso di democrazia, di vicinanza all’autorità medica e di partecipazione alle scelte mediche, cui la gente comune non era abituata e che poteva diventare molto più eversiva di un proclama politico3. La promessa di felicità, profetizzata da uomini del Settecento come Mesmer, significava il riscatto da una condizione di malattia e di dolore imposto all’uomo nella vita terrena e, in senso metaforico, anche nella società. Questa idea sembra accompagnare tutta la storia del progresso scientifico, fino agli ultimi studi sui fondamenti della vita. Nel Novecento la scoperta della struttura e delle proprietà del DNA, negli anni Cinquanta, e il Progetto Genoma Umano, lanciato alla fine degli anni Ottanta, hanno rivoluzionato le nostre conoscenze sulla genetica e sui suoi usi. Il 26 giugno 2000, alla presenza del presidente degli Stati Uniti nella East Room della Casa Bianca, è stato dato inoltre l’annuncio del completamento della decifrazione dell’intero genoma umano, sottolineando non a caso che «It’s a happy day for the world» («È un giorno felice per il mondo»). Grazie a questi studi sappiamo come una molecola abbia il potere di autoriproduzione e di autoazione, e come il DNA possa ricreare se stesso. La genetica ci racconta, quindi, che si potrà vivere di più e vivere meglio, ma che si può provare anche a rimanere giovani più a lungo riducendo la velocità di invecchiamento e rimediando alla perdita di efficienza del corpo. L’uomo, che già sapeva di dover morire e aveva coscienza di ciò, ha scoperto che forse un giorno potrà evitarlo, o quantomeno potrà rimandare la morte per un periodo di tempo ragionevole4.

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Felicità e partecipazione politica «Soltanto un uomo felice può cambiare l’economia»; questa frase compare nel sito internet della European School of Economics, dove si citano anche Franklin e Filangieri, e non si riferisce solo alle scienze economiche in senso stretto5. Molti sostengono, oggi come nel passato, che il vero scopo della politica deve essere il piacere e la soddisfazione degli uomini, garantito da una società giusta ed equa che si impegna a trattare in modo imparziale ogni persona nelle questioni riguardanti la sua felicità. Queste riflessioni sono tornate d’attualità nel momento in cui si è profilato un campo d’indagine nuovo e in continua espansione, che pone in relazione l’economia con la psicologia e che ha contribuito alla nascita della cosiddetta neuroeconomia. Il rapporto tra la persona e i beni è infatti allo stesso tempo un problema economico e un problema psicologico, soprattutto nel momento in cui ci si trova a prendere atto che il progresso non è inarrestabile, che la disponibilità dei beni non è illimitata, che la ricchezza non è infinita. Ecco allora che le decisioni individuali e politiche, o private e pubbliche, devono tendere essenzialmente a massimizzare la limitata disponibilità di beni, e le teorie economiche si vedono costrette a rilanciare il problema del rapporto tra ricchezza e felicità o, per usare un termine ancora meglio legato alla cultura finanziaria, tra reddito e felicità. All’alba del terzo millennio si è cominciato a lavorare intensamente intorno al cosiddetto «paradosso della felicità»: le società economicamente avanzate hanno finito per concentrare le risorse su esigenze di comfort, che inducono una condizione di appagamento e un atteggiamento passivo del consumatore, piuttosto che su fonti capaci di stimolarlo, di spingerlo alla ricerca della felicità sollecitando un suo ruolo attivo. L’antico dilemma sul rapporto tra felicità e ricchezza subisce così una nuova metamorfosi e l’attenzione viene spostata, impercettibilmente ma nemmeno tanto, da strumenti di analisi tipicamente economici connessi all’utilità (come gli indicatori macroeconomici legati al reddito, al prodotto interno lordo di un paese, alla demografia e all’analisi quantitativa) verso criteri

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psicologici, che forse sono più empirici, ma consentono di riflettere in modo nuovo su cosa è il benessere sociale e su quale può essere il significato soggettivo e oggettivo della felicità. La felicità, infatti, non è legata esclusivamente a un reddito più o meno elevato, ma a un complesso di circostanze tra le quali possiamo iscrivere l’occupazione, l’età, il matrimonio, i rapporti di coppia. I più recenti studi che utilizzano il rapporto tra economia e neuroscienze mostrano che la felicità non dipende da fattori solo personali, ma anche dal contesto sociale, dalle condizioni culturali e istituzionali, dalle circostanze politiche. I meccanismi psicologici rivestono una grande importanza, perché la felicità nasce da un giudizio di comparazione che ciascuno di noi crea. Gran parte di questi meccanismi dipende dalla capacità di adattamento e di sopportazione: quanto più l’assuefazione è spiccata, tanto più si riduce lo stimolo a modificare la propria situazione; anche chi raggiunge un improvviso livello di ricchezza, e quindi un altro grado di apparente felicità, finisce col tempo per abituarvisi, riportando il proprio tasso di felicità soggettiva al livello iniziale. Allo stesso modo, una forte capacità di sopportazione consente di affrontare meglio le situazioni difficili, e di recuperare un grado di felicità personale abbastanza simile a quello iniziale, come avviene talora quando una persona riporta menomazioni fisiche ma ritorna ad una buona qualità della vita. Un altro elemento di valutazione è il livello di aspirazione determinato dalle speranze e aspettative personali, che va a correlarsi con il confronto sociale, cioè con il paragone che ciascuno instaura con la posizione sociale di chi gli è vicino. Lo studio del fenomeno della disoccupazione ha mostrato che coloro che non hanno un lavoro sono ovviamente meno felici di coloro che ce l’hanno, ma la loro infelicità è meno intensa quando vivono in un contesto nel quale anche molte altre persone sono disoccupate. La percezione del benessere e il tasso di felicità dipendono quindi fortemente dal contesto, che a sua volta è influenzato dai processi politici ed economici. Le condizioni politiche diventano pertanto fondamentali per soddisfare le aspirazioni alla felicità, e vengono ottimizzate quanto più il singolo si vede coin-

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volto nella partecipazione alle decisioni pubbliche. È noto, del resto, che nelle democrazie politicamente stabili, come sono prevalentemente i paesi nordici, il livello di soddisfazione individuale e di soddisfazione nella politica è più elevato e studi condotti in Svizzera, Norvegia e Danimarca stanno a dimostrarlo. Quanto più il diritto alla partecipazione politica è esteso, le forme di democrazia sono evolute e i cittadini hanno un concreto riscontro del loro agire pubblico, tanto più aumentano il grado di soddisfazione, la fiducia e il senso di realizzazione. Se invece gli effetti della partecipazione pubblica non sono verificabili, o vengono vanificati, diminuisce il grado di soddisfazione e subentrano forme di frustrazione. Inoltre, l’agitazione politica, l’instabilità e il caos rendono le persone scontente, aumentando il grado di insoddisfazione verso il proprio governo. Applicando questi metodi di valutazione allo studio del territorio, si è giunti a dimostrare che le persone si sentono più soddisfatte e felici quando vivono in comunità nelle quali le decisioni vengono assunte a livello locale, oppure quando il cittadino esprime la sua partecipazione effettiva alla politica utilizzando quella forma di democrazia diretta che è il referendum, o ancora quando il decentramento amministrativo o il federalismo consentono di stabilire un rapporto più diretto con le istituzioni. La felicità può diventare allora un criterio attraverso il quale orientare l’azione delle istituzioni e determinare le politiche amministrative e costituzionali di un singolo paese o di un insieme di paesi, come l’Unione europea6. La riflessione attuale sulla felicità torna a fare i conti, quindi, con le stesse questioni che hanno accompagnato gran parte dell’età moderna. I fautori delle neuroscienze ci spiegano che i governi possono rendere felici i popoli, o almeno possono adoperarsi per riuscirvi, promuovendo leggi che aiutino ad accrescere la felicità. È l’antica speranza di trasformare la ricerca della felicità in una scienza, scegliendo tra le molte opzioni suggerite dalla storia: ridurre le disuguaglianze o aumentare il benessere, garantire redditi più equi, incoraggiare virtù e meriti individuali e assicurare le libertà fondamentali.

NOTE Capitolo primo 1 J.A. Blanchet, Felicitas, in C. Daremberg, E. Saglio, Dictionnaire des antiquités grecques et romaines d’après les textes et le monuments…, II/2, Graz 1969, pp. 1031-1032; M. Hossenfelder, Happiness, in Brill’s New Pauly. Encyclopaedia of the Ancient World, V, Leiden-Boston 2004, pp. 1131-1133. 2 A. e S. Simha, Le bonheur, Paris 2005, pp. 9-12. 3 A. Gardeil, Bonheur, in A. Vacant, E. Mangenot, (a cura di), Dictionnaire de théologie catholique: contenant l’exposé des doctrines de la théologie catholique, leurs preuves et leur histoire, 12, Paris 1910, col. 987. 4 Cfr. J. Le Goff, L’immaginario medievale, trad. it., Roma-Bari 1988, pp. 123-208. 5 C. Thacker, Garden. Western medieval, in J. Turner, The Dictionary of Art, 12, New York 1996, pp. 106-110. 6 G. Casanova, Storia della mia vita, trad. it., a cura di P. Chiara e F. Roncoroni, I, Milano 20016, pp. 4-5; il manoscritto della prima versione è in StOA, Ms. Casanova, U 29/7 ed è stato pubblicato in G. Casanova, Pensieri libertini, a cura di F. Di Trocchio, Milano 1990, pp. 47-56. La descrizione delle ultime giornate di Casanova, evocata anche nella prefazione, è narrata nei Mémoires et mélanges historiques et littéraires du Prince de Ligne, IV, Paris 1828. 7 Erodoto, Storie, I, 23-34. 8 R.H. Frank, Luxury Fever. Money and Happiness in an Era of Excess, New York 1999, pp. 14-32; L. Becchetti, Il denaro fa la felicità?, Roma-Bari 2007, pp. 91-114. 9 Su questi temi esiste ormai una letteratura estremamente ampia, che coinvolge le sfide della ricerca scientifica dinanzi all’etica della responsabilità e alla moralità del benessere; cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Torino 1990; G. Pontara, Etica e generazioni future, Roma-Bari 1995; M.U. Dianzani, Limiti etici della bioingegneria, in C. Romano e G. Grassani, Bioetica, Torino 1995, pp. 276-281; F. Manti, Bioetica e tolleranza. Lealtà morali e decisione politica nella società pluralista, Napoli 2000. 10 È un brano del diario del conte Serramandi, in data 8 marzo 1661, in BRT, ms. Var. 283, nr. 4, c. 62r. 11 Sull’uso di tecniche econometriche per studiare la felicità cfr. R. Di Tella et al., Macroeconomics of Happiness, Harvard 2002.

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Note

12 L. Gianformaggio, Diritto e felicità: la teoria del diritto in Helvétius, Milano 1979; P. Quennell, La ricerca della felicità, trad. it., Bologna 1992; R. Bodei, L. Pizzolato, La politica e la felicità, Roma 1997; G. Zanetti, Amicizia, felicità, diritto: due argomenti sul perfezionismo giuridico, Roma 1998. 13 M. Abbiati, Il linguaggio delle parole, in A. Trampus, U. Kindl, I linguaggi e la storia, Bologna 2003, pp. 335-336.

Capitolo secondo 1 W. Shakespeare, La tempesta, a cura di A. Lombardo, Introduzione di N. D’Agostino, Milano 19979, p. 69 (II, 1, 143 sgg.). 2 Epicuro, Epistola a Meneceo, in Id., Opere, a cura di G. Arrighetti, Torino 1973, pp. 110-114 ( [4], 127-129). 3 A.A. Long, La filosofia ellenistica: stoici, epicurei e scettici, trad. it., Bologna 1989; P. Cosenza, R. Laurenti (a cura di), Il piacere nella filosofia greca, Napoli 1993. 4 Seneca, La tranquillità dell’animo. La brevità della vita, a cura di F. Solinas, traduzione di G. Viansino, Milano 1993, pp. 64-66, 79-82, 111-113. 5 T. Engberg-Pedersen, The Stoic Theory of oikeiosis: moral development and social interaction in early stoic philosophy, Aarhus 1990. 6 F. de Luise, G. Farinetti, Storia della felicità. Gli antichi e i moderni, Torino 2001, pp. 159-182. 7 Su questi temi cfr. J. Le Goff, L’immaginario medievale, trad. it., RomaBari 1988, pp. 141-208; J. Delumeau, Storia del paradiso. Il giardino delle delizie, trad. it., Bologna 1994; J.B. Russell, Storia del paradiso, trad. it., Roma-Bari 1996. 8 C. McDannell, B. Lang, Storia del paradiso nella religione, nella letteratura, nell’arte, trad. it., Milano 1991, p. 193. 9 D. Alighieri, Divina commedia. Paradiso, canto III, 64-84; E. Malato, Studi su Dante. «Lecturae Dantis», chiose e altre note dantesche, Cittadella 2005, pp. 271-273. 10 I. di Loyola, Esercizi spirituali, a cura di G. De Gennaro, traduzione di M.J. Severi, con un saggio di R. Barthes, Milano 1988, pp. 4, 19, 29. 11 L. da Vinci, Aforismi, novelle e profezie, Introduzione di M. Baldini, Roma 1993, p. 29. 12 G. Pico della Mirandola, Discorso sulla dignità dell’uomo, trad. it., a cura di F. Bausi, Parma 2003, p. 11 (22-23). 13 E. da Rotterdam, Elogio della pazzia, a cura di T. Fiore, Introduzione di D. Cantimori, Torino 198410, pp. 55-61 (§ XXXIII-XXXVII) e 136-138 (§ LXVII). 14 S. Seidel Menchi, Erasmo in Italia, 1520-1580, Torino 1987, pp. 195, 310. 15 L’espressione è di T. Moro in una lettera a Pieter Gilles del 1517, in Id., Utopia, a cura di L. Firpo, Napoli 19903, p. 92. Su questi temi vedi anche E. Garin, La città ideale, in Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, Bari

Note al capitolo secondo

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1965, pp. 33-56; L. Firpo, La città ideale degli utopisti del Rinascimento, in Atti del convegno nazionale di studi su «La città ideale nella tradizione classica e biblico-cristiana», Torino 1987, pp. 253-268. 16 Moro, Utopia cit., p. 189; Q. Skinner, Visions of Politics, II, Renaissance Virtues, Cambridge 2002, pp. 213-244. 17 Moro, Utopia cit., pp. 215-218. 18 J. Cook, The journals of capitain J. Cook on his voyages of discovery, a cura di J.C. Beaglehole, I, London 1955, p. 399. 19 Così Francesco Carletti nella narrazione del suo viaggio del 1591 in Oriente (BNM, Ms. It. VI. 34, c. 1). 20 D. Roche, Humeurs vagabondes. De la circulation des hommes et de l’utilité des voyages, Paris 2003, pp. 9-14. 21 H. Kamen, Il secolo di ferro 1550-1660, trad. it., Roma-Bari 1985, pp. 517; E.J. Leed, La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al turismo globale, trad. it., Bologna 1992, p. 21. 22 Relazioni di Giovanni Corriero, ambasciatore presso l’imperatore Massimiliano I, del 1565 e del 1570, in BRT, ms. Varia 347, rispettivamente cc. 16r. e 10r. 23 M.E. de Montaigne, Saggi, a cura di F. Garavini, trad. it., I, Milano 1970, pp. 268-285; S. Landucci, I filosofi e i selvaggi 1580-1780, Bari 1972; G. Gliozzi, Adamo e il Nuovo Mondo. La nascita dell’antropologia come ideologia coloniale: dalle genealogie bibliche alle teorie razziali (1500-1700), Firenze 1977; A. Pagden, La caduta dell’uomo naturale. L’indiano d’America e le origini dell’etnologia comparata, trad. it., Torino 1989. 24 Montaigne, Saggi cit., I, pp. 98-101. 25 A. Egido, El camino de la felicidad: ser o no ser discreto en El Persiles, in C. Romero Muñoz (a cura di), Le mappe nascoste di Cervantes, Treviso 2004, pp. 193-226. 26 Relazione di Roma di Paolo Paruta ritornato da quella legazione nel novembre del 1595, in E. Albèri (a cura di), Le relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, s. II, t. IV, Firenze 1857, p. 375. 27 Cito dall’edizione di P. Paruta, Della perfettione della vita politica di M. Paolo Paruta nobile vinetiano, libri tre, Venezia 1579, pp. 55-57. 28 Paruta, Della perfettione cit., pp. 70-76. 29 Paruta, Della perfettione cit., pp. 94-99. 30 Paruta, Della perfettione cit., p. 209. 31 Paruta, Della perfettione cit., p. 267, con un riferimento implicito all’utopia di Moro e uno esplicito alla Repubblica di Platone. Cfr. anche G. Cozzi, Ambiente veneziano, ambiente veneto. Saggi su politica, società, cultura nella Repubblica di Venezia in età moderna, Venezia 1997, pp. 13-86. 32 Paruta, Della perfettione cit., pp. 286-287. 33 Paruta, Della perfettione cit., p. 292. 34 BRT, ms. Varia 326, cc. 383r-384r. 35 G. Carraro, E. D’Agostini, Lettera a Diogneto. Testo greco a fronte, Sotto il Monte 2000 (VI, 1-4). 36 F. Sansovino, L’edificio del corpo humano, nel quale brevemente si descrivono le qualità del corpo dello huomo et le potentie dell’anima, Venezia

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Note

1550, pp. 4r.- 5r.; l’esemplare conservato in BUP, 50b222, reca la firma di appartenenza di Girolamo Muzio e le sue note manoscritte. 37 Sansovino, L’edificio cit., pp. 16r-17r. 38 Sansovino, L’edificio cit., p. 21r. 39 Sansovino, L’edificio cit., p. 54r. 40 Sansovino, L’edificio cit., p. 35r. dell’esemplare sopra individuato. 41 Sansovino, L’edificio cit., p. 53r. dell’esemplare sopra individuato. 42 HRC, ms. Ph 12989 intitolato Trattato dell’humana felicità ed il mezzo con il quale si possa acquistare. Diviso in sei libri, di cc. 124. 43 F. Stabile, Dialogo dell’humana felicità opera nuoua diuisa in otto giornate, doue si tratta della vita felice et discorrendo per ogni sorte di stato, et vita, si conclude, che in nessuna si troua vera felicita, né perfetta contentezza, et si manifesta in che cosa ella consiste, Torino 1595, pp. 105-118.

Capitolo terzo 1 Lettera a Pieter Gilles datata Londra agosto 1516 in T. Moro, Utopia, a cura di L. Firpo, Napoli 19903, pp. 49-53. 2 C. Pierrot, Paysage et Corps dans l’Utopie de Thomas More, «Moreana. Revue sur l’univers de Thomas More», 43-44, (2006-2007), pp. 68-84. Su aspetti generali della teoria del fantastico cfr. anche H. Beleván, Teoría de lo fantástico: apuntes para una dinámica de la literatura de expresión fantástica, Barcelona 1976. 3 Platone, La Repubblica, Introduzione di F. Adorno, traduzione di F. Gabrieli, Milano 200615, in particolare libri VII e X (pp. 487-558 e 697-766); L. Mumford, Storia dell’utopia, trad. it., Roma 1997, pp. 21-38. 4 M. Berengo, L’Europa delle città. Il volto della società europea tra Medioevo ed età moderna, Torino 1999, pp. 111-113. 5 Moro, Utopia cit., pp. 165-166. 6 F.P. Fiore, A. Nesselrath, La Roma di Leon Battista Alberti. Umanisti, architetti e artisti alla scoperta dell’antico nella città del Quattrocento, Milano 2005; M. Bulgarelli et al., Leon Battista Alberti e l’architettura, Cinisello Balsamo 2006. 7 L. Benevolo, La città nella storia d’Europa, Roma-Bari 1993, pp. 127-128. 8 C.M. Cipolla, Contro un nemico invisibile. Epidemie e strutture sanitarie nell’Italia del Rinascimento, Bologna 1986, pp. 13-25. 9 Vitruvio, I dieci libri dell’architettura tradotti et commentati da monsignor Barbaro eletto patriarca d’Aquileggia, Venezia 1556; ne esiste un’edizione moderna a cura di T. Carunchio, Roma 2006. 10 A.F. Doni, I Mondi, Venezia 1552-1553, p. 94. 11 F. Patrizi, La città felice. Del medesimo, Dialogo dell’honore, il Barignano. Del medesimo, Discorso della diuersità de’ furori poetici. Lettura sopra il sonetto del Petrarca La gola, e’l sonno, e l’ociose piume, In Venetia 1553, pp. 5v7r, 14r-v.

Note al capitolo terzo

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12 C. Vasoli, La città dei sacerdoti-sapienti, in Id., Francesco Patrizi da Cherso, Roma 1989, pp. 1-24. 13 G. Borrelli, Utopia tardo-rinascimentale e progetto politico conservativo: da Francesco Patrizi a Giovanni Botero, in V. Conti (a cura di), Le ideologie della città europea dall’Umanesimo al Romanticismo, Firenze 1993, pp. 163-169. 14 Cfr. il documento in BNM, ms. It.VII.1999 (7918), c. 1r. 15 G. Benzoni, Gli affanni della cultura. Intellettuali e potere nell’Italia della Controriforma e barocca, Milano 1978, pp. 7-77, ripreso da G. Silvano, La «repubblica de’ viniziani». Ricerche sul repubblicanesimo veneziano in età moderna, Firenze 1993, pp. 39-84. 16 Cito dall’edizione F. Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare, I, Venezia 1663, p. 3. In realtà sulle condizioni sanitarie della città, che solo nel Seicento riesce a contenere effettivamente le epidemie, cfr. N.-E. Vanzan Marchini, I mali e i rimedi della Serenissima, Vicenza 1995, pp. 13-38. 17 F. Sansovino, Del governo de i regni et delle repubbliche così antiche come moderne libri XVIII, Venezia 1561, pp. 58, 184. 18 Così s’intitola il manoscritto cinquecentesco della traduzione parziale dei Six livres de la République di Bodin, in BNM, Ms. It. VII. 417 (7811), cc. 13-38. 19 T. Campanella, La Città del Sole, a cura di A. Seroni, Milano 20059, p. 51. 20 Campanella, La Città del Sole cit., pp. 62-63. 21 Campanella, La Città del Sole cit., pp. 74-75. 22 J.V. Andreä, Descrizione della repubblica di Cristianopoli e altri scritti, a cura di E. De Mas, Napoli 1983; cfr. E. De Mas, La città felice. Dalla Riforma alla nuova scienza (Andreä e Bacone), in G. Spini, G. Cingari (a cura di), Preludi di socialismo nel XVII secolo, Roma-Bari 1988, pp. 9-26. 23 L. Mumford, La città nella storia, II, Dal chiostro al Barocco, trad. it., Milano 1981, pp. 404-405; M. Cambi, Un viaggio «organizzato» verso Cristianopoli: utopia e predestinazione in J.V. Andreä, in R. Baccolini, V. Fortunati e N. Minerva (a cura di), Viaggi in Utopia, Ravenna 1996, pp. 108-119. 24 F. Bacone, Nuova Atlantide, in Id., Scritti politici, giuridici e storici, a cura di E. De Mas, I, Torino 1971, p. 800. 25 Bacone, Nuova Atlantide cit., pp. 779-827. 26 Bacone, Saggi, in Scritti politici, giuridici e storici cit., I, pp. 387-395. 27 F. Godwin, L’uomo sulla luna, ovvero Il Racconto del viaggio di Domingo Gonsales, il messaggero veloce a cura di G. Silvani, Ravenna 1995; M. Tempera, «Their usuall voyage»: il viaggio con i cigni in ‘The man in the moone di Francis Godwin’, in Baccolini, Fortunati, Minerva, Viaggi in Utopia cit., pp. 121-129. 28 Histoire comique par Monsieur de Cyrano de Bergerac, contenant les estats et empire de la lune, Paris 1657 (edizione moderna L’autre monde ou Les estats et empires de la lune, a cura di M. Alcover, Paris 1977). Sul tema cfr. anche V.I. Comparato, L’utopismo libertino in Cyrano de Bergerac, in Spini, Cingari, Preludi di socialismo cit., pp. 154-170. 29 J. Harrington, La repubblica di Oceana, a cura di G. Schiavone, Torino 2004, p. 8.

238

Note

30 G. Giarrizzo, Il pensiero inglese nell’età degli Stuart e della Rivoluzione, in L. Firpo (a cura di), Storia delle idee politiche, economiche e sociali, IV/1, Torino 1980, pp. 251-256. 31 D.M. McMahon, Happiness. A History, New York 2006, pp. 188-198. 32 R. Steere, Earth Felicities, Heaven’s Allowances, in H.T. Meserole (a cura di), American Poetry of Seventeenth Century, University Park 1985, p. 285. 33 B. Bailyn, G.S. Wood, Le origini degli Stati Uniti, trad. it., Bologna 1987, pp. 126-127. 34 C. McDannell, B. Lang, Storia del paradiso nella religione, nella letteratura, nell’arte, trad. it., Milano 1991, pp. 243-247. 35 M.L. Gatti Perer (a cura di), «La dimora di Dio con gli uomini» (Ap. 21, 3). Immagini della Gerusalemme celeste dal III al XIV secolo, Milano 1983; A. Rovetta, La Gerusalemme celeste e la città ideale nell’età dell’umanesimo, in R. Uglione (a cura di), La città ideale nella tradizione classica e biblico-cristiana. Atti del convegno nazionale di studi, Torino 1986, pp. 269-287. 36 C.D. van Strien, British Travellers in Holland during the Stuart Period. Edward Browne and John Locke as Tourists in the United Provinces, LeidenNew York-Köln 1993, pp. 299-328; A. Brilli, Quando viaggiare era un’arte: il romanzo del Grand Tour, Bologna 1995, pp. 11-18. 37 A. Battistini, Esperienze odeporiche del cannocchiale nella pace utopica del nuovo cielo galileiano, in Baccolini, Fortunati, Minerva, Viaggi in Utopia cit., pp. 93-108. 38 F. Bacone, Novum Organum, a cura di E. De Mas, Bari 1968, pp. 208209 (II, 39). 39 F. Bacone, Saggi. Sul viaggiare, in Id., Scritti politici, giuridici e storici cit., I, pp. 360-362; cfr. D. Diderot, Viaggio in Olanda, trad. it., a cura di L. Sozzi, Como 1989, pp. 25-28. 40 Annotazione di primo Seicento in Album amicorum Bernardi Paludani, KB, ms. 133 M 63, f. 543rv. 41 Mumford, La città nella storia cit., III, Dalla corte alla città invisibile, pp. 546-553. 42 P. Burke, Venice and Amsterdam. A Study of Seventeenth-Century Elites, London 1974. 43 É.R.M. Taverne, «In’t land van belofte: in de nieue stadt». Ideaal en werkelijkheid van de stadsuitleg in de Republiek 1580-1680, Maarssen 1978, pp. 29-48, 127-171; M. Glaudemans, Amsterdams Arcadia. De ontdekking van het achterland, Nijmegen 2000, pp. 21-44 e 164-165. 44 C. Bruin, Noordhollandsche arcadia, verryt met aantekeningen van G. Schoemaker en verçiert met printverbeeldingen, Amsterdam 1732, pp. 121-124. 45 C. Barlaeus (K. Van Baerle), Mercator Sapiens, sive oratio de conjugendis mercaturae et philosophiae studis, Amsterdam 1632, pp. 1-3; ne esiste un’edizione moderna in C. Secretan, Le «Marchand philosophe» de Caspar Barlaeus: un éloge du commerce dans la Hollande du Siècle d’Or, Paris 2002.

Note al capitolo quarto

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Capitolo quarto 1 S. Bertelli, Il corpo del re. Sacralità del potere nell’Europa medievale e moderna, Firenze 1990, pp. 212-220. 2 Cfr. L. Firpo (a cura di), Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, I, Inghilterra, Torino 1965, pp. 776 (relazione di Vincenzo Gussoni, 1635), 851852 (relazione di Giovanni Sagredo, 1656), 895-896 (relazione di Angelo Correr e Michele Morosini, 1661). Sul contesto sociale e politico della formazione di Hobbes cfr. Q. Skinner, Visions of Politics, III, Hobbes and the Civil Science, Cambridge 2002, pp. 238-263. 3 G. Sacerdoti, Sacrificio e sovranità. Teologia e politica nell’Europa di Shakespeare e Bruno, Torino 2002, pp. 241-274 e 307-366; sul dibattito di quegli anni cfr. anche G. Giarrizzo, Rivoluzione liberale, rivoluzione socialista: la grande utopia dell’Inghilterra secentesca, in G. Spini, G. Cingari (a cura di), Preludi di socialismo nel XVII secolo, Roma-Bari 1988, pp. 29-86. 4 T. Hobbes, Elementi di legge naturale e politica, a cura di A. Pacchi, Firenze 19852, pp. 75-76 (I, IX, 21). 5 Annotazione del 1627 in Album amicorum Bernardi Paludani, KB ms. 133 M 63, f. 566v. 6 Hobbes, Elementi di legge naturale e politica cit., (I, VII, 6). 7 P. Rossi (a cura di), Storia della scienza, I, La rivoluzione scientifica: dal Rinascimento a Newton, Roma 2006; Id., Lo scienziato, in R. Villari (a cura di), L’uomo barocco, Roma-Bari 1991. 8 T. Hobbes, Leviatano, testo inglese del 1651 a fronte, testo latino del 1668 in nota, trad. it., a cura di R. Santi, Milano 20042, p. 207 (XIII, 9). 9 V. Ferrone, Scienza, natura e religione. Mondo newtoniano e cultura italiana nel primo Settecento, Napoli 1982, pp. 10-12, 55-56, 155-158. 10 E. Garin, Per una storia della fortuna di Hobbes nel Settecento italiano, in Id., Dal Rinascimento all’Illuminismo: studi e ricerche, Firenze 19932, pp. 136-155. 11 B. Spinoza, Opere, a cura di F. Mignini, Milano 2007, pp. 1082-1083 (E5P10, 27 e 39S). 12 Spinoza, Opere cit., p. 606 (TTP, IV, 12). 13 Spinoza, Opere cit., p. 532 (TTP, VI, 10). 14 R. Prokhovnik, Spinoza and Republicanism, New York 2004, pp. 237256; H.W. Blom, Spinoza on res publica, republics, and monarchies, in H.W. Blom, J.C. Laursen, L. Simonutti (a cura di), Monarchisms in the Age of Enlightenment: Liberty, Patriotism, and the Common Good, Toronto 2007. La bibliografia spinoziana è oggi immensa: accanto ai riferimenti essenziali dati nell’edizione delle Opere cit., un’indicazione sui primi echi italiani è data da C. Santinelli, Spinoza in Italia. Bibliografia degli scritti su Spinoza dal 1675 al 1982, Urbino 1983, pp. 39-58. 15 J. Milton, Paradiso perduto, a cura di R. Sanesi, Introduzione di F. Kermode, Milano 200716, p. 363 (VIII, 365-380). 16 C. McDannell, B. Lang, Storia del paradiso nella religione, nella letteratura, nell’arte, trad. it., Milano 1991, pp. 285-289. 17 G. Giarrizzo, Il pensiero inglese nell’età degli Stuart e della Rivoluzione,

240

Note

in L. Firpo (a cura di), Storia delle idee politiche, economiche e sociali, IV/1, Torino 1980, pp. 209-210. 18 F.F. Frugoni, Il tribunal della critica, a cura di S. Bozzola e A. Sana, Milano-Parma 2001. 19 G. Benzoni, Gli affanni della cultura. Intellettuali e potere nell’Italia della Controriforma e barocca, Milano 1978, pp. 144-199. 20 BNM, Ms. It. VI 208 (5881), c. 187a. 21 G. Malatesta Garuffi, L’Italia accademica o sia le accademie aperte a pompa e decoro delle lettere nelle città italiane, Rimini 1688. 22 G. Berneri, La felicità ricercata, opera drammatica ideale, Roma 1673, pp. 117-127. 23 H. Trevor-Roper, From Counter-Reformation to Glorious Revolution, London 1992, pp. 267-286. 24 J. Locke, Saggio sull’intelligenza umana, a cura di C.A. Viano, Roma-Bari 1988 (II, xx, § 32-34). 25 Locke, Saggio sull’intelligenza cit, p. 278 (II, xxi, § 42). 26 Locke, Saggio sull’intelligenza cit., p. 280 (II, xxi, § 45). 27 Locke, Saggio sull’intelligenza cit., p. 391 (II, xxviii, § 5). 28 Locke, Saggio sull’intelligenza cit., p. 391-8 (II, xxviii, § 7-13). 29 G. Naudé, Considerazioni politiche sui colpi di Stato, a cura di A. Piazzi, Milano 1992, pp. 120-121. 30 J. Locke, Trattato sul governo, a cura di L. Formigari, Pordenone 1991, p. 63 (Secondo trattato, § 77). 31 Locke, Trattato sul governo cit., p. 159 (Secondo trattato, § 199). 32 StOA, fondo Casanova, Marr 12-82, annotazione inedita di Casanova a tergo di una lettera inviatagli da Marco Zeno il 20 aprile 1782. 33 Locke, Trattato sul governo cit., pp. 168-194 (Secondo trattato, XVIII, §§ 211-243). 34 R.H. Popkin, La storia dello scetticismo. Da Erasmo a Spinoza, trad. it., Milano 1995, pp. 125-132; sul debito dei libertini nei confronti della cultura umanistica cfr. A. Olivieri, Sul moderno e sul libertinismo. La storia come congettura, Milano 2006, pp. 137-138. 35 B. Pascal, Pensieri, opuscoli, lettere, trad. it., a cura di A. Bausola, Milano 19974, pp. 464-465. 36 F. de Luise, G. Farinetti, Storia della felicità. Gli antichi e i moderni, Torino 2001, pp. 262-266.

Capitolo quinto 1 W.G. Hiscock, David Gregory, Isaac Newton and Their Circle, Oxford 1937, p. 16. 2 G. Ricuperati, L’uomo che inventò la crisi della coscienza europea, in Id., Frontiere e limiti della ragione: dalla crisi della coscienza europea all’Illuminismo, Torino 2006, pp. 56-126. 3 P. Sarpi, Istoria del concilio tridentino seguita dalla Vita del padre Paolo,

Note al capitolo quinto

241

di Fulgenzio Micanzio, a cura di C. Vivanti, Torino 1974, pp. 1305-1309; 13711374; 1396-1399. 4 S. Nadler, Baruch Spinoza e l’Olanda del Seicento, trad. it., Torino 2002, pp. 290, 319. 5 B. Pascal, Pensieri, opuscoli, lettere, trad. it., a cura di A. Bausola, Milano 19974, pp. 109-111. 6 Citata in Nadler, Baruch Spinoza cit., pp. 330-331. 7 G.W. Leibniz, Sämtliche Schriften und Briefe, I/1, Darmstadt-LeipzigBerlin 1923, p. 148; sul rapporto tra Leibniz e Spinoza si veda anche M. Stewart, Il cortigiano e l’eretico. Leibniz, Spinoza e il destino di Dio nel mondo moderno, trad. it., Milano 2007, pp. 9-47. 8 Nadler, Baruch Spinoza cit., pp. 331-332. 9 G.W. Leibniz, Nuovi saggi sull’intelletto umano, a cura di M. Mugnai, Roma 19932, pp. 579-781. 10 Lettera del 30 aprile 1687 ad Antoine Arnauld in Die philosophischen Schriften von Gottfried Wilhelm Leibniz, a cura di C.I. Gerhardt, II, Hildesheim 1960 (ristampa anastatica dell’edizione Berlin 1879), pp. 97-101. 11 R. Haase, Leibniz und die Musik: ein Beitrag zur Geschichte der harmonikalen Symbolik, Hommerich 19633; P. Bailhache, Leibniz et la théorie de la musique, Paris 1992. 12 Relazione dell’ambasciatore Marino II Zorzi al Senato, 23 giugno 1666, in ASV, Senato, Dispacci ambasciatori, Spagna, filza 105, c. 370r. 13 Leibniz, Nuovi saggi sull’intelletto umano cit., pp. 47, 82. 14 G.W. Leibniz, Frammento sulla felicità e sulla saggezza, in Id., Dialoghi filosofici e scientifici, a cura di F. Piro, Milano 2007, p. 337 (il frammento nella versione originale non reca un titolo specifico). 15 G.W. Leibniz, Principi della natura e della grazia fondati sulla ragione (1714), in Id., Dialoghi filosofici, cit., I, p. 282 (§ 18). 16 Pascal, Pensieri cit., p. 544 (Pensiero 391). 17 Pascal, Pensieri cit., p. 482 (Pensiero 216). 18 Pascal, Pensieri cit., pp. 454-455 (Pensiero 136). 19 Pascal, Pensieri cit., p. 702 (Pensiero 707). 20 P. Nicole, De la charité et de l’amour propre, in Id., Œuvres philosophiques et morales, a cura di C.-M.-G. Bréchillet Jourdain, Hildesheim-New York 1970, p. 179. 21 J.-F. Sénault, De l’usage des passions, Paris 1987, p. 27, 31. 22 J.-F. Sénault, L’homme criminel ou la corruption de la natura par le péché selon les sentimens de Saint Augustin, Paris 1644. 23 Cito da R. Cumberland, De legibus naturae. Disquisitio philosphica, Lubecae & Francofurti 16943, p. 158 (II, 22); L. Kirk, Richard Cumberland and natural law: secularisation of thought in seventeenth-century England, Cambridge 1987. 24 Cfr. la schedatura fattane da Giambattista Biffi verso il 1761-1762 in BSC, ms. Aa 3.17, Sentenze e memorie morali cavate dai classici greci, latini, italiani, francesi, inglesi per sua istruzione dal conte Giovanni Battista Biffi cremonese. 25 Cumberland, De legibus naturae cit., p. 462 (VIII, 7).

242

Note

26 F. Palladini, Samuel Pufendorf discepolo di Hobbes: per una reinterpretazione del giusnaturalismo moderno, Bologna 1990, pp. 135-151 e 189-232. 27 S. Pufendorf, De iure naturae et gentium, Lund 1672, II, III, §15. 28 Pufendorf, De iure naturae et gentium cit., II, III, §16. 29 S. Pufendorf, Les devoirs de l’homme et du citoyen, traduit par J. Barbeyrac, II, Amsterdam 17184, pp. 318-325 (II, § V). 30 F. de Luise, G. Farinetti, Storia della felicità. Gli antichi e i moderni, Torino 2001, pp. 329-330. 31 N. Malebranche, La ricerca della verità, a cura di M. Garin, Roma-Bari 2007, p. 451 (V, 1). 32 A.A.C. Shaftesbury, I moralisti, in Id., Saggi morali, trad. it., a cura di P. Casini, Bari 1962, p. 304 (III, 1). 33 A.A.C. Shaftesbury, Saggio sulla virtù, in Id., Saggi morali cit., p. 120 (III, I, 1). 34 M.C. Jacob, I newtoniani e la rivoluzione inglese 1689-1720, trad. it., Milano 1980, pp. 197-210. 35 A.A.C. Shaftesbury, Lettera sull’entusiasmo, a cura di E. Garin, Milano 1984, pp. 51, 77-78. 36 H. Rigault, Histoire de la querelle des anciens et des modernes, Paris 1856, pp. 129-137. 37 B. Fontenelle, Du bonheur, in Id., Œuvres complètes, III, a cura di A. Niderst, Paris 1989, pp. 203-217; Id., Felicità e libertà, a cura di P. Amodio, Napoli 2006. 38 C. Borghero (a cura di), La polemica sul lusso nel Settecento francese, Torino 1974, p. XII. 39 Fénelon, Les aventures de Télémaque, Paris 1968, p. 459; Borghero (a cura di), La polemica cit., p. XIII. 40 J. Brewer, I piaceri dell’immaginazione. La cultura inglese nel Settecento, trad. it., Roma 1999, p. 105; A.A. Luce, Berkeley’s Essays in the Guardian, «Mind», n.s., 52, 207 (1943), pp. 247-263. 41 Nr. 15, sabato 17 marzo 1710/11; cito dall’edizione «The Spectator», I, London 1744, p. 67. 42 Nr. 411, sabato 21 giugno 1712, «The Spectator» cit., IV, p. 64. 43 G. Francioni, S. Romagnoli (a cura di), Il Caffè (1764-1766), II, Torino 19982, pp. 476-480.

Capitolo sesto 1 K. van Strien, Touring the Low Countries. Accounts of British Travellers 1660-1720, Amsterdam 1998, pp. 320-321. 2 Van Strien, Touring the Low Countries cit., p. 194. 3 Cfr. le lettere di Jean Le Clerc ad Anthony Ashley Cooper, terzo Lord Shaftesbury, del 1705, in J. Le Clerc, Epistolario, II, 1690-1705, a cura di M.G. e M. Sina, Firenze 1991, pp. 496-497, 503, 587-588. 4 Il manoscritto è in KB, HS 71 J 29-30, 32-34. Un’edizione moderna, an-

Note al capitolo sesto

243

che se non del tutto completa, è A. van Overbeke, Anecdota sive historiae jocosae. Een zeventiende-eeuwse verzameling moppen en anekdotes, a cura di R. Dekker, H. Roodenburg, H.J. van Rees, Amsterdam 1991. 5 R. Dekker, Lachen in de Gouden Eeuw. Een geschiedenis van de Nederlandse humor, Amsterdam 1997, pp. 13-25. 6 H. Bots, O.S. Lankhorst, Rotterdam bibliopolis: een rondgang langs boekverkopers uit de zeventiende en achttiende eeuw, Rotterdam 1997; M. Wielema, Filosofen aan de Maas. Kroniek van vijfhonderd jaar wijsgerig denken in Rotterdam, Rotterdam 1991, pp. 60-90. 7 P. Bayle, Dictionnaire historique et critique, Rotterdam 1697; se ne veda l’edizione a cura di G. Cantelli, Roma-Bari 1976, pp. 1-99. 8 San Tommaso, La somma teologica, trad. it., a cura di T.S. Centi, VIII, Bologna 1984, pp. 136-161 (I-II, q. 5, aa.1-8). 9 J. Delumeau, Il peccato e la paura. L’idea di colpa in Occidente dal XIII al XVIII secolo, trad. it., Bologna 1987, pp. 459-460; G. Mori, Sullo Spinoza di Bayle, «Giornale critico della filosofia italiana», Firenze 1988, pp. 348-367; P.P. Berlingieri, Il problema del male in Pierre Bayle e Francesco M. Spinelli, Soveria Mannelli 1994. 10 H.W. Blom, Causality and morality in politics. The rise of naturalism in Dutch seventeenth-century political thought, Rotterdam-Ridderkerk 1995, capp. IV-V; Id., Il concetto di libertà nelle teorie politiche giusnaturaliste del Seicento olandese, in A. Trampus, U. Kindl, I linguaggi e la storia, Bologna 2003, pp. 163-166. 11 B. Mariscotti, Le api riverite. Azione drammatica, Bologna 1628. 12 Aristotele, Politica, 1252a, 27 e 1253a, 9-19. 13 Aristotele, Politica, 1253a, 37-38; cfr. anche R. Esposito, Communitas, origine e destino della comunità, Torino 1998. 14 J.-B. Simon, Le gouvernement admirable, ou la république des abeilles, La Haye 1740, p. XI. 15 G.A. Bazin, Histoire naturelle des abeilles, I, Paris 1744, p. 4. 16 G.A. Lindeboom, Herman Boerhaave, The Man and his Work, London 1968, pp. 34-43; R. Knoeff, Herman Boerhaave (1668-1738). Calvinist chemist and physician, Amsterdam 2002, pp. 21-46; B.P.M. Schulte, Hermanni Boerhaave Praelectiones de morbis nervorum 1730-1735, Leiden 1959. 17 Ad es. sin dalla prefazione: B. Mandeville, A treatise of the Hypocondriack and Hysterick Diseases, London 17302, p. V (ristampa anastatica in Collected Works of Bernard Mandeville, II, Hildesheim-New York 1981). 18 M. Simonazzi, La malattia inglese: la melanconia nella tradizione filosofica e medica dell’Inghilterra moderna, Bologna 2004, pp. 171-248. 19 B. Mandeville, Free thoughts on religion, the Church, and national happiness, London 1720 (p. 375 della riedizione anastatica 1975). 20 E.J. Hundert, The Enlightenment’s fable. Bernard Mandeville and the Discovery of Society, Cambridge 2005, pp. 35-49; J.A.W. Gunn, «State Hypocondriacks» Dispraised: Mandeville versus the active Citizen, in C.W.A. Prior (a cura di), Mandeville and Augustan Ideas: New Essays, Victoria 2000, pp. 16-34. 21 I. Hont, The Luxury Debate in the Early Enlightenment, Princeton Uni-

244

Note

versity-Department of Politics, Political Philosophical Colloquium 22.11. 2005, pp. 7-23, in www.princeton.edu/main/ 22 B. Mandeville, Prefazione (scritta nel 1714), a Id., La favola delle api. Ovvero vizi privati, pubblici benefici con un saggio sulla carità e le scuole di carità e un’indagine sulla natura della società, trad. it., Roma-Bari 20004, p. 3. 23 Mandeville, La favola delle api cit., pp. 9-15. 24 Mandeville, La favola delle api cit., pp. 20-21. 25 I. Hont, Jealousy of Trade. International Competition and the NationState Historical Perspective, Cambridge Mass.-London 2005, pp. 185-200; Hundert, The Enlightenment’s Fable cit., pp. 219-236. 26 C. te Lintum, De merchant adventurers in de Nederlanden. Een bijdrage tot de geschiedenis van den engelschen handel met Nederland, ‘s-Gravenhage 1905, pp. 103-171; J.I. Israel, The Dutch Primacy in World Trade 1585-1740, Oxford 1989, pp. 197-291. 27 M. Bazzoli, Il piccolo Stato nell’età moderna: studi su un concetto della politica internazionale tra XVI e XVIII secolo, Milano 1990; J.-M. Goulemot, Sul repubblicanesimo e l’idea repubblicana nel XVIII secolo, in F. Furet, M. Ozouf (a cura di), L’idea di repubblica nell’Europa moderna, Roma-Bari 1993, pp. 5-44. 28 W. Temple, Observation upon the United Provinces of the Netherlands, a cura di G. Clark, Oxford 1972, pp. 108-126. 29 Mandeville, La favola delle api cit., pp. 124-125. 30 Mandeville, La favola delle api cit., pp. 33-34. 31 Mandeville, La favola delle api cit., p. 28. 32 Detto popolare riportato nel primo Seicento in Album amicorum Bernardi Paludani, in KB, HS. 133 M 63, f. 577v. 33 Mandeville, La favola delle api cit., p. 84. 34 Mandeville, La favola delle api cit., p. 91. 35 Mandeville, La favola delle api cit., p. 168. 36 Mandeville, La favola delle api cit., p. 71. 37 D. Grugel-Pannier, Luxus: eine begriffs- und ideengeschichtliche Untersuchung unter besonderer Berücksichtigung von Bernard Mandeville, Frankfurt am Main 1996, pp. 32-64; M. Berg, E. Eger (a cura di), Luxury in Eighteenth Century: Debates, Desires and Delectable Goods, Basingstoke 2003. 38 Mandeville, La favola delle api cit., p. 84. 39 J.M. Stafford (a cura di), Private Vices, Publick Benefits? The Contemporary Reception of Bernard Mandeville. A Collection of 16 books, articles, pamphlets etc. written mainly during the 1720s in response to the Fable of the Bees, Solihull 1997, pp. XI-XXIV e 254-264. 40 J.R. Moore, Mandeville and Defoe, in I. Primer (a cura di), Mandeville Studies. New exploration in the art and thought of Dr. Bernard Mandeville, The Hague 1975, pp. 118-25; D. Defoe, Le avventure di Robinson Crusoe seguite da Le ulteriori avventure e Serie riflessioni, a cura di G. Sertoli, Torino 1998, pp. XI, 7. 41 B. Mandeville, Free Thoughts on religion, the Church, and national happiness, in Collected Works of Bernard Mandeville cit., V, pp. 330-364 (On National Happiness).

Note al capitolo settimo

245

Mandeville, Free Thoughts cit., p. 346. Mandeville, Free Thoughts cit., p. 354; W.A. Speck, Mandeville and the Eutopia seated in the Brain, in I. Primer (a cura di), Mandeville Studies cit., pp. 66-79. 42 43

Capitolo settimo 1 U. Bottazzini, Il calcolo, in P. Rossi (a cura di), Storia della scienza, 2, L’età dei lumi: da Eulero a Lamarck, Novara 2006, pp. 3-37; A. Trampus, Casanova e Friedrich von Zinzendorf: scienza e filosofia tra Dux e Berlino, «L’Intermédiaire des Casanovistes», IX (1992), pp. 15-20; StOA, Ms. Casanova, U 11/K/6. 2 W. Petty, Aritmetica politica, trad. it., a cura di E. Zagari, Napoli 1986; P. Pett, The Happy Future State of England, London 1688; cfr. G. Tarantino, Libertà di coscienza, ‘aritmetica politica’ e interesse nazionale: le ragioni economiche della tolleranza nel regno di Giacomo II Stuart, «Cromohs», 8 (2003), pp. 1-7 (http://www.cromohs.unifi.it/8_2003/tarantino2.html); S.A. Reinert,«One will make of political economy... what the scholastics have done with philosophy». Henry Lloyd and the Mathematization of Economics, «History of Political Economy», 39, 4 (2007), pp. 643-662. 3 S. Ito, Charles Davenant’s Politics and Political Arithmetic, «History of Economic Ideas», 1 (2005), pp. 9-36; N. de Arriquíbar, Recreación política. Del uso de la aritmética política de Charles Davenant, a cura di J. Astigarraga e J.M. Barrenechea, Bilbao 1987, pp. 24-25; I. Hont, Jealousy of Trade. International Competition and the Nation-State Historical Perspective, Cambridge Mass.-London 2005, pp. 201-246. 4 F. Hutcheson, An Inquiry into the Original of Our Ideas of Beauty and Virtue in two treatises, a cura di W. Leidhold, Indianapolis 2004, p. 125 (II, III, § VIII); trad. it. Ricerca sull’origine delle nostre idee di bellezza e di virtù, a cura di A. Lupoli, Milano 2000. 5 Hutcheson, An Inquiry cit., pp. 128-131. 6 Hutcheson, An Inquiry cit., pp. 176-197; cfr. W. Leidhold, Ethik und Politik bei Francis Hutcheson, Freiburg-München 1985, capp. 6-10. 7 Aristotele, L’anima, a cura di G. Movia, Milano 2001, p. 205. 8 F. Venturi, Settecento riformatore, I, Da Muratori a Beccaria, Torino 1969, pp. 318, 572. 9 A. Pizzorusso, I principi dell’«agrément» nella teoria di Lévesque de Pouilly, «Atti della Accademia nazionale dei Lincei. Rendiconti Classe di scienze morali storiche e filologiche», VI, 4 (1995), pp. 707-713. 10 L.-J. Lévesque de Pouilly, Théorie des sentiments agréables, Prefazione di J. Vernet, Gèneve 1971 (ristampa dell’edizione del 1747). 11 Cfr. A. Vartanian, Introduction a J.O. de La Mettrie, L’Homme machine, Princeton 1960, nonché Id., La Mettrie’s «L’homme machine», a Study in the origins of an Idea, Princeton 1960. 12 G.P. Ceserani, Gli automi. Storia e mito, Roma-Bari 1983, p. 100; G.

246

Note

Wood, Living Dolls: A Magical History of the Quest for Mechanical Life, London 2002. 13 J.O. de La Mettrie, L’uomo macchina, trad. it., in Grande antologia filosofica, XIV, Milano, 1968, pp. 799-802. 14 J.O. de La Mettrie, L’homme machine, Leiden 1748, p. [III]. 15 E. Luzac, L’homme plus que machine, A Londres 1748, pp. [VI-VII] e 8-11. 16 P. Bayle, Système abregé de philosophie, in Id., Œuvres diverses, IV, La Haye-Rotterdam 1731, pp. 444-445 (De l’homme consideré comme un corps organisé). 17 Cito da J.O. de La Mettrie, Discours sur le bonheur, in Id., Œuvres philosophiques. Nouvelle édition corrigée et augmentée, II, Berlin 1774, p. 87. Ne esiste un’edizione moderna, a cura di J. Falvey: J.O. de La Mettrie, Discours sur le bonheur, «Studies on Voltaire and the Eighteenth Century», 134 (1975). 18 Per gli echi e le discussioni cfr. A. Thomson, Materialism and society in the Mid-Eigtheenth Century: La Mettrie’s ‘Discours Préliminaire’, Genève 1981, pp. 169-174; K.A. Wellman, La Mettrie: Medicine, Philosophy and Enlightenment, Durham-London 1992, pp. 60-134. 19 La Mettrie, Discours sur le bonheur cit., p. 100. 20 D. Beeson, Maupertuis: an intellectual biography, Oxford 1992, p. 193. 21 P.-L. Maupertuis, Essai de la philosophie morale, in Id., Œuvres. Nouvelle édition corrigée et augmentée, I, Lyon 1756, pp. 182-186. 22 M. Terrall, The Man Who Flattened the Earth. Maupertuis and the Sciences in the Enlightenment, Chicago-London 2002, pp. 130-172. 23 Maupertuis, Essai de la philosophie morale cit., pp. 184, 193-195, 201204. 24 Maupertuis, Essai de la philosophie morale cit., pp. 212-214, 248-251. 25 L.G. Crocker, The Discussion of Suicide in the Eighteenth Century, «Journal of the History of Ideas», 13 (1952), pp. 47-72; B. Brody (a cura di), Suicide and Euthanasia: Historical and Contemporary Themes, Dordrecht 1989, pp. 189-218; G. Minois, Histoire du suicide: la société occidentale face à la mort volontaire, Paris 1995; M. MacDonald, T.R. Murphy, Sleepless Souls. Suicide in Early Modern England, Oxford 1990. 26 J.O. de La Mettrie, L’uomo macchina e altri scritti, trad. it., a cura di G. Preti, Milano 1955, p. 123. 27 Maupertuis, Essai de la philosophie morale cit., p. 189; cfr. anche Id., Lettres, III, Sur le bonheur, in Id., Œuvres cit., II, pp. 194-195. 28 Lettera di N. Fraggianni a G. Carli datata Napoli 1° marzo 1757 in AMC, fondo Carli, Corrispondenza scientifico-letteraria, lettera nr. 503; su Fraggianni cfr. F. Di Donato, Esperienza e ideologia ministeriale nella crisi dell’Ancien Régime. Niccolò Fraggianni tra diritto, istituzioni e politica (17251763), Napoli 1996. 29 H. Bots, J. Schillings, Lettres d’Elie Luzac à Jean Henri Samuel Formey (1748-1770). Regard sur les coulisses de la librairie hollandaise du XVIIIe siècle, Paris 2001, pp. 75, 101. Si veda anche J.H. S. Formey, Système du vrai bonheur, Berlin 1750. p. 155. 30 E. Luzac, Essai sur la liberté de produire ses sentimens, Au pays libre

Note al capitolo ottavo

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(Leiden) 1749, p. 11; J.C. Laursen, J. van der Zande, Early French and German Defenses of Freedom of the Press. Elie Luzac’s Essay on Freedom of Expression (1749) and Carl Friedich Bahrdt’s On Freedom of the Press and its Limits (1787) in English Translation, Leiden-Boston 2003, pp. 9-34. 31 Luzac, Essai sur la liberté cit., p. 13; il riferimento è a S. Pufendorf, Les devoirs de l’homme et du citoyen, traduit par J. Barbeyrac, II, Amsterdam 17184, I, cap. I, § 5, n. 1. 32 F. Venturi, Le origini dell’Enciclopedia, Torino 19773; R. Darnton, Il grande affare dei lumi. Storia editoriale dell’Encyclopédie 1775-1800, trad. it., Milano 1998. 33 R. Mauzi, L’idée du bonheur au XVIIIe siècle, Paris 19652, pp. 222-227. 34 Mauzi, L’idée du bonheur cit., pp. 253-255. 35 C.L. de Montesquieu, Lo spirito delle leggi, trad. it., a cura di G. Macchia, I, Milano 1989, pp. 190, 819 (rispettivamente V, 3 e XXIII, 17). 36 C.L. de Montesquieu, Mes pensées, in Id., Œuvres complètes, a cura di R. Caillois, I, Paris 1949, n. 31, pp. 1508-1518. Cfr. M.W. Rombout, La conception stoïcienne du Bonheur chez Montesquieu et chez quelques-uns des contemporains, Leiden 1958; C. Rosso, Montesquieu moraliste: des lois au bonheur, Bordeaux 1971. 37 E. Gerhard, Delineatio juris naturalis sive De principiis iusti libri tres, Jenae 1712, pp. 320-329. 38 Cito dalla traduzione J.J. Burlamaqui, Principii del diritto naturale, Venezia 1780, pp. 112, 205. 39 H. Grotius, De jure belli ac pacis, Paris 1625, Prolegomena, § 6; F. de Luise, G. Farinetti, Storia della felicità. Gli antichi e i moderni, Torino 2001, p. 275. 40 Cito dall’edizione E. Luzac, ‘Le bonheur’, ou Nouveau système de jurisprudence naturelle, Amsterdam 1820, pp. 3, 28, 38, 51-52, 77, 94 (§ 9, 56, 74, 94, 128, 151). 41 A. Genovesi, Delle lezioni di commercio o sia di economia civile, con Elementi del commercio, a cura di M.L. Perna, Napoli 2005, pp. 3-4. Cfr. anche P. Zambelli, La formazione filosofica di Antonio Genovesi, Napoli 1972, pp. 753-755.

Capitolo ottavo 1 AMC, Fondo Carli, Corrispondenza scientifico-letteraria, lettera di Niccolini a Carli, nr. 476, del 12 dicembre 1755. 2 J. Le Clerc, Histoire des Provinces Unies des Pays Bas, Amsterdam 17231728, p. 449; cfr. anche la lettera di Gilbert Burnet a Le Clerc del 26 novembre 1703 in J. Le Clerc, Epistolario, II, 1690-1705, a cura di M.G. e M. Sina, Firenze 1991, p. 420. 3 Cfr. Mémoire communiqué par Mr. Bayle pour server de reponse à ce qui le peut intéresser dans un Ouvrage imprimé à Paris sur la distinction du bien et

248

Note

du mal, et au 4 article du 5 tome de la Bibliothèque choisie, «Histoire des Ouvrages des Savans», agosto 1704, art. VII, pp. 369-396. 4 G. Cotta, Immagine, differenza, artificio. Prospettive sul problema del male, Milano 2004; M. Scarpari, Xunzi e il problema del male, Venezia 1997. 5 A. Minerbi Belgrado, Materialismo e origine della religione nel ’700, Firenze 1977, pp. 7-11; Ead., La «vecchia ipotesi epicurea» nei «Dialoghi sulla religione naturale» di Hume, «Studi settecenteschi», 11-12 (1988-1989), pp. 35100; Ead., Paura e ignoranza. Studio sulla teoria della religione in d’Holbach, Firenze 1983, pp. 110-230. 6 L.A. Muratori, Della pubblica felicità, oggetto dei buoni prìncipi, a cura di C. Mozzarelli, Roma 1996, p. 9. 7 Muratori, Della pubblica felicità cit., p. 12; S. Bertelli, Erudizione e storia in Ludovico Antonio Muratori, Napoli 1960, pp. 171-176; M. Monaco, La vita, le opere, il pensiero di L.A. Muratori e la sua concezione della pubblica felicità, Lecce 1977, pp. 60-64. 8 F. Venturi, Settecento riformatore, I, Da Muratori a Beccaria, Torino 1969, pp. 395-410; A. Trampus, L’Illuminismo e la «nuova politica» nel tardo ’700 italiano: L’uomo libero di Gianrinaldo Carli, «Rivista Storica Italiana», CVI, 1 (1994), pp. 47-49; Annali letterari d’Italia, I, Modena 1752, pp. 184-186. 9 Voltaire, Poema sul disastro di Lisbona, trad. it., in Voltaire, Rousseau, Kant, Sulla catastrofe: l’Illuminismo e la filosofia del disastro, a cura di A. Tagliapietra, Milano 2004, pp. 1-22. 10 Voltaire, Candido ovvero l’ottimismo, trad. it., Introduzione di I. Calvino, traduzione di P. Bianconi, Milano 19944, pp. 49-55. 11 Voltaire, Candido cit., p. 52 12 P. Gay, Voltaire politico. Il poeta come realista, trad. it., Bologna 1991, pp. 249-256. 13 Voltaire, Dizionario filosofico, trad. it., a cura di R. Naves, I, Milano 1979, pp. 94-101. 14 Voltaire, Dizionario filosofico cit., II, pp. 421-422. 15 C.-A. Helvétius, Dello spirito, trad. it., a cura di A. Postigliola, Roma 1976, pp. 35-36. 16 Helvétius, Dello spirito cit., VIII, 24. 17 C.-A. Helvétius, L’homme, Londres 1773, p. 68 (I, 13). 18 Helvétius, Dello spirito cit., III, IV e VIII, I. 19 Helvétius, Dello spirito cit., VI, 5 e VIII, 3-5 20 Helvétius, Dello spirito cit., VIII, 1 e III, 4. 21 F. Hutcheson, Système de la philosophie morale, traduit de l’anglois, I, Lyon 1770, p. I. 22 Hutcheson, Système de la philosophie morale cit., I, p. 428-440 (III, § 24). 23 J.-J. Rousseau, Opere, trad. it., a cura di P. Rossi, Firenze 1972, pp. 125135. 24 F. de Luise, G. Farinetti, Storia della felicità. Gli antichi e i moderni, Torino 2001, p. 402; T. Todorov, Lo spirito dell’Illuminismo, trad. it., Milano 2007.

Note al capitolo ottavo 25

249

M. e B. Cottret, Jean-Jacques Rousseau en son temps, Paris 2005, pp. 245-

271. 26 J.-J. Rousseau, Scritti politici, trad. it., a cura di P. Alatri, Torino 1970, pp. 9-72. 27 J. Starobinski, Rousseau. La trasparenza e l’ostacolo, trad. it., Bologna 1999. 28 Rousseau, Opere cit., p. 322. 29 P. Roger, Felicità, in V. Ferrone, D. Roche, L’Illuminismo. Dizionario storico, Roma-Bari 20073, pp. 40-49, in particolare p. 46; E. Sala Di Felice, Felicità e morale in Pietro Verri, Padova 1970, pp. 3-5. 30 P. Verri, Meditazioni sulla felicità, a cura di G. Francioni, Como 1996, p. 61; W. Rother, La maggiore felicità possibile. Untersuchungen zur Philosophie der Aufklärung in Nord- und Mittelitalien, Basel 2005, pp. 121-126. 31 Verri, Meditazioni sulla felicità cit., pp. 66-68; C. Capra, I progressi della ragione, vita di Pietro Verri, Bologna 2002, pp. 193-198; cfr. inoltre K. Stapelbroek (a cura di), Commerce and morality in eighteenth-century Italy, numero monografico di «History of European Ideas», 32 (2006), pp. 361-524. 32 Così Carli in una lettera del 1° gennaio 1765 a Paolo Frisi in AMC, Fondo Carli, Corrispondenza scientifico-letteraria, lettera nr. 633. 33 Lettera di Frisi a Carli datata Milano 16 gennaio 1765 in AMC, Fondo Carli, Corrispondenza scientifico-letteraria, lettera nr. 635; per l’atteggiamento filoinglese di Verri cfr. Capra, I progressi cit., p. 198. 34 Cfr. C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, con una raccolta di lettere e documenti relativa alla nascita dell’opera e alla sua fortuna nell’Europa del ’700, a cura di F. Venturi, Torino 1965, pp. 3-6 (A chi legge), 9 (Introduzione) e 11 (§ I, Origine delle pene). 35 Beccaria, Dei delitti e delle pene cit., pp. 19-20 (§ VI, Proporzione fra i delitti e le pene), 22 (§ VII, Errori nella misura delle pene), 31 (§ XII, Fine delle pene), 39 (§ XVI, Della tortura). 36 Beccaria, Dei delitti e delle pene cit., p. 69 (§ XXVIII, Della pena di morte) e 96 (§ XLI, Come si prevengono i delitti); cfr. anche L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma-Bari 1989, pp. 203-210. 37 A. Verri, Discorso sulla felicità de’ Romani, in G. Francioni, S. Romagnoli (a cura di), Il Caffè (1764-1766), I, Torino 19982, pp. 83-92; B. Anglani, «Il disotto delle carte». Sociabilità, sentimenti e politica tra i Verri e Beccaria, Milano 2004, pp. 189-193. 38 P.T. d’Holbach, Sistema della natura, trad. it., a cura di A. Negri, Torino 1978, pp. 340, 354; A. Lilti, Le monde des salons. Sociabilité et mondanité à Paris au XVIIIe siècle, Paris 2005, pp. 357-405. 39 D’Holbach, Sistema della natura cit., pp. 429-432. 40 P.T. d’Holbach, Système social, in Id., Œuvres philosophiques 17731790, a cura di J.-P. Jackson, Paris 2004, pp. 299-306 (III, 11). 41 P.T. d’Holbach, Politique naturelle, in Id., Œuvres philosophiques, a cura di J.-P. Jackson, III, Paris 2001, pp. 459-60 (V, 8). 42 V. Ferrone, I profeti dell’Illuminismo. Le metamorfosi della ragione nel tardo Settecento italiano, Roma-Bari 20002, pp. 91-137. 43 D. Diderot, Recensione del «Temple du bonheur», in Id., L’uomo e la mo-

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Note

rale: guida alla lettura, a cura di V. Barba, Pordenone 1987, p. 41 (che non è, come spesso si crede, la recensione a Le temple du bonheur di J.-F. Dreux du Radier ma a Le temple du bonheur ou Recueil des plus escellents traités di J.-L. Castilhon). 44 D. Diderot, Scritti politici con le voci politiche dell’Encyclopédie, trad. it., a cura di F. Diaz, I, Torino 1967, pp. 296 (Colloqui con Caterina II), 419 (Osservazioni sull’istruzione dell’imperatrice di Russia ai deputati). 45 Diderot, Scritti politici cit., I, p. 493.

Capitolo nono 1 R.H. Fossum, J.K. Roth, The American Dream, Edinburgh 1981; J. Cullen, The American Dream: A Short History of an Idea that Shaped a Nation, Oxford 2003; F. Bisutti De Riz, P. Rigobon, B. Vincent (a cura di), Il sogno delle Americhe. Promesse e tradimenti, Padova 2007. 2 A. Gerbi, La natura delle Indie Nuove: da Cristoforo Colombo a Gonzalo Fernández De Oviedo, Milano-Napoli 1975; Id., La disputa del Nuovo Mondo. Storia di una polemica 1750-1900, Milano-Napoli 1983; Id., Il mito del Perù, Milano 1988. 3 M. Duchet, Le origini dell’antropologia, trad. it., Roma-Bari 1976; E. Balmas (a cura di), Il buon selvaggio nella cultura europea e francese del Settecento, «Studi di Letteratura francese», VII, Firenze 1981; V. Ferrone, Il problema dei selvaggi nell’illuminismo italiano, «Studi storici», 27 (1986), pp. 149-162. 4 L.-A. de Lom d’Arce de Lahontan, Dialogues de M. le baron de Lahontan et d’un Sauvage dans l’Amérique, a cura di H. Coulet, Paris 2007, pp. 22, 76-96. 5 L.A. Muratori, Il cristianesimo felice nelle missioni dei padri della Compagnia di Gesù nel Paraguai, a cura di P. Collo, Palermo 1985, pp. 31-36. 6 F. Venturi, Settecento riformatore, V/1, L’Italia dei lumi (1764-17790), Torino 1969, pp. 798-801; A. Albonico, L’America, il mondo antico e il buon governo in Gianrinaldo Carli, in G. Carli, Delle lettere americane, Roma 1988, pp. 11-121. 7 V. Ferrone, I profeti dell’Illuminismo. Le metamorfosi della ragione nel tardo Settecento italiano, Roma-Bari 20002, p. 420; A. Trampus, L’Illuminismo e la «nuova politica» nel tardo ’700 italiano: L’uomo libero di Gianrinaldo Carli, «Rivista Storica Italiana», CVI, 1 (1994), pp. 73-74; G. Carli, Delle lettere americane, in Id., Opere, XI, Milano 1785, pp. 47-49. 8 Carli, Delle lettere americane cit., pp. 274-275. 9 B. Ziliotto, Trecentosessantasei lettere di Gianrinaldo Carli capodistriano cavate dagli originali e annotate, Trieste 1914, p. 291 (lettera di Carli al cugino Girolamo Gravisi datata 11 febbraio 1777). 10 «Journal historique de la république des lettres», luglio-agosto 1733, p. 151, cit. in F. Beretti, Pascal Paoli et l’image de la Corse au dix-huitième siècle. Le témoignage des voyageurs britanniques, Oxford 1988, p. 13. 11 Cfr. D. Carrington, Le texte original de la constitution de Pasquale Pao-

Note al capitolo nono

251

li, «Bulletin de la Société des Sciences historiques et naturelles de la Corse», 96 (1976), pp. 7-39; Venturi, Settecento riformatore cit., V/1; A.-M. Graziani, Pascal Paoli père de la patrie corse, Paris 2002; A. Trampus, Rousseau et l’île de la constitution, in Pasquale de Paoli (1725-1807). La Corse au cœur de l’Europa des Lumières, Ajaccio 2007, pp. 81-91 e altri contributi nello stesso volume. 12 Memoria sopra la costituzione da stabilire nel Regno di Corsica nella quale si dà un piano generale delle cose più essenziali che costituiscono un governo in Repubblica mista, in Neuchâtel, BPU, Papiers Rousseau, Ms. R. 282, c. 2v. 13 J. Boswell, An Account of Corsica, the journal of a tour to that island; and memoirs of Pascal Paoli, Glasgow 1768, p. 1. 14 Boswell, An Account cit., pp. 4 e 7. 15 C. Vivanti, Lettere di Pasquale Paoli dall’Inghilterra, «Rivista Storica Italiana», LXXI (1959), p. 90. 16 Voltaire, Discours en vers sur l’homme. Premier discours: de l’égalité des conditions, in Id., Mélanges, Prefazione di E. Berl, testo stabilito e annotato da J. Van Den Heuvel, Paris 1961, pp. 212-214. 17 G.M. Cazzaniga, La doppia obbedienza nelle logge massoniche del Settecento, in G. Paganini, E. Tortarolo (a cura di), Pluralismo e religione civile. Una prospettiva storica e filosofica, Milano 2004, pp. 185-201. 18 A. Basso, L’invenzione della gioia. Musica e massoneria nell’età dei Lumi, Milano 1994, pp. 12-13 e 123; G. Tocchini, I fratelli d’Orfeo. Gluck e il teatro musicale massonico tra Vienna e Parigi, Firenze 1998, pp. 43, 58. 19 G. Giarrizzo, Massoneria e Illuminismo nell’Europa del Settecento, Venezia 1994, pp. 163, 195; G.M. Cazzaniga, La felicità nelle Dichiarazioni delle rivoluzioni moderne, in A. Panaino (a cura di), Il diritto alla felicità, Milano 2004, pp. 21-26. 20 A. Trampus, La massoneria nell’età moderna, Roma-Bari 20083, pp. 66, 99; C. Porset, Bonheur et Harmonie: le Manuel de Xéfolius (1788) et la question du bonheur, in La quête du bonheur et l’expression de la douleur dans la littérature et la pensée françaises. Mélanges offerts à Corrado Rosso, Genève 1996. 21 M.-C. Révauger, Le fait maçonnique au XVIIIe siècle en Grande Bretagne et aux États-Unis, Paris 1990, pp. 83-90. 22 A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, trad. it., a cura di E. Lecaldano, Milano 1995, p. 244. 23 C.L. Griswold jr., Imagination. Morals, Science, and Arts, e P. Bhanu Mehta, Self-Interest and Other Interests, entrambi in K. Haakonssen, The Cambridge Companion to Adam Smith, Cambridge 2006, rispettivamente pp. 4146 e 265-269. 24 Smith, Teoria cit., pp. 206-207; cfr. anche L. Magnusson, The Tradition of Free Trade, London-New York 2004, pp. 14-19. 25 Smith, Teoria cit., pp. 30-31 e 314-317. 26 A. Smith, La ricchezza delle nazioni, trad. it., a cura di A. Roncaglia, Roma 1995, p. 150 (I, 10, II). 27 Cfr. T. Bonazzi (a cura di), La dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America. Testo originale a fronte, Venezia 20032, p. 14.

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Note

J. Locke, Trattato sul governo, a cura di L. Formigari, Pordenone 1991, II, p. 87. 29 G. Wills, Inventing America: Jefferson’s Declaration of Independence, New York 1979; J. Lewis, Happiness, in J.P. Greene, J.R. Pole, The Blackwell Enciclopaedia of the American Revolution, Cambridge 1994, p. 641; M. Sylvers, Il pensiero politico e sociale di Thomas Jefferson, Manduria-Bari-Roma 1993; L.M. Bassani, Il pensiero politico di Thomas Jefferson. Libertà, proprietà, autogoverno, Milano 2002, pp. 158-164; R.B. Bernstein, Thomas Jefferson, New York 2005, pp. 36-43. 30 http://www.loc.gov/exhibits/declara/declara1.html 31 J. Otis, The Rights of British America Asserted and Proved, Boston 1764, ripubblicato in Some Political Writings of James Otis, a cura di C.F. Mullet, «University of Missouri Studies», 4 (1929), pp. 257-274. 32 H.M. Jones, The Pursuit of Happiness, Harward 1953, p. 21. 33 G.S. Wood, La costruzione della repubblica 1760-1820, in B. Baylin, G.S. Wood, Le origini degli Stati Uniti, trad. it., Bologna 1987, pp. 237-270; D.M. McMahon, Happiness. A History, New York 2006, pp. 314-331. 34 Cfr. la lettera di Pasquale Paoli a Raimondo Cocchi, datata Corte 28 aprile 1768, ASF, Segreteria di Gabinetto, f. 145 ins. 1, c. 1r. 35 B. Sordi, L’amministrazione illuminata. Riforma delle comunità e progetti di costituzione nella Toscana Leopoldina, Milano 1991, pp. 14-15. 36 Réflexions sur le code de Pennsylvanie, in J. Brissot de Warville, Bibliothèque philosophique du législateur, du politique, du jurisconsulte, ou choix des meilleurs discours, dissertations, essays, fragments, composés sur la Législation criminelle, III, Berlin 1783, pp. 233-258. 37 Observations sur les constitutions de la République de Pennsylvanie, ms. n HHStA, Familienarchiv, Sammelbände, Kart. 13, Fogli da aggiungersi alli Stati generali, ins. 10-11, 12, Constitution de la république de Pennsylvanie, carte non numerate; la frase è identica a Brissot de Warville, Réflexions cit., p. 235. 38 ASF, Segreteria di Gabinetto, Appendice, F. 10, ins. 1, cc. 5r-v., cit. in F. Diaz, Francesco Maria Gianni, dalla burocrazia alla politica sotto Pietro Leopoldo di Toscana, Milano-Napoli 1966, p. 287. 39 ASF, Segreteria di Gabinetto, ins. 9, ms. Sbozzo per S. A. R. presentato ai 26 novembre 1781, cc. 1rv. 40 ASF, Segreteria di Gabinetto, F. 167, ins. 14-15, Nuova minuta del Senator Gianni del mese di aprile 1782 che contiene tutta la minuta d’editto per la fomazione degli Stati in conseguenza della quale S.A.R. hà mutato il proemio e vi hà fatto le sue osservazioni nel maggio 1780 le quali si trovano qui in margine della suddetta minuta d’editto, cc. 1r-3r. 41 ASF, Segreteria di Gabinetto, f. 167, Ins. 17-18 Editto diviso in tre parti, Proemio, c. 8r. Questa versione del testo è riportata anche in A. Wandruska, Pietro Leopoldo. Un grande riformatore, Firenze 1968, pp. 402-403. 42 G. Filangieri, La morale pubblica, in G. Ruggiero, Gaetano Filangieri, un uomo, una famiglia, un amore nella Napoli del Settecento, Napoli 1999, p. 87. 43 I. Bianchi, Meditazioni su varj punti di felicità pubblica e privata, coll’ag28

Note al capitolo decimo

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giunta di un discorso sopra la morale del sentimento del medesimo autore, Lodi 1779, pp. V-VI. 44 Bianchi, Meditazioni cit., p. 2. 45 Bianchi, Meditazioni cit., p. 4. 46 G. Filangieri, La scienza della legislazione, I, a cura di A. Trampus, Venezia 2004, pp. 139-140; V. Ferrone, La società giusta ed equa. Repubblicanesimo e diritti dell’uomo in Gaetano Filangieri, Roma-Bari 2003. 47 Filangieri, La scienza cit., I, p. 12. 48 Filangieri, La scienza cit., I, p. 28. 49 Filangieri, La scienza cit., I, pp. 55-56.

Capitolo decimo 1 Notizie del Mondo, 81, 14 ottobre 1780, pp. 690-691; 88, 8 novembre 1780, pp. 705-706; 92, 22 novembre 1780, pp. 736-737; 96, 6 dicembre 1780, p. 769; 97, 9 dicembre 1780, pp. 778-779; 98, 13 dicembre 1780, pp. 784-786; 99, 16 dicembre 1780, p. 793; 103, 30 dicembre 1780, p. 824-826. 2 P. Del Negro, Il mito americano nella Venezia del Settecento, Padova 19862, p. 150. 3 Cfr. «Scelta miscellanea», 1, gennaio 1784, p. 69. 4 R. Steiner, Le «Meditazioni sulla felicità» e il significato della loro doppia redazione nella storia del pensiero di Pietro Verri, «Giornale storico della letteratura italiana», CXLIV, 1967, pp. 378-415; G. Francioni, Metamorfosi della felicità. Dalle Meditazioni del 1763 al Discorso del 1781, in C. Capra (a cura di), Pietro Verri e il suo tempo, I, Milano 1999, pp. 353-428. 5 Cfr. in AV, 373.I l’esemplare delle Meditazioni (1763) con i segni manoscritti di Verri che cassano i passaggi in vista della nuova edizione e l’autografo del nuovo manoscritto del Discorso in AV 390.I.II, dove rimangono i ripensamenti e le incertezze (in particolare c. 230r). 6 P. Verri, Discorso sulla felicità, in Id., I «Discorsi» e altri scritti degli anni Settanta, a cura di G. Panizza, Roma 2004 (§ V), pp. 242-243. Si veda anche l’Introduzione di G. Francioni, ivi, pp. 165, 175. 7 Verri, Discorso cit., pp. 237-239 (§ V), che riprende pedissequamente e polemicamente G. Carli, Nuovo metodo per le scuole pubbliche d’Italia, Lione 1774, pp. 111-112; cfr. A. Trampus, L’Illuminismo e la «nuova politica» nel tardo ’700 italiano: L’uomo libero di Gianrinaldo Carli, «Rivista Storica Italiana», CVI, 1 (1994), pp. 58-60. 8 Verri, Discorso cit., p. 264 (§ VIII). 9 Francioni, Introduzione cit., p. 192. 10 P. Verri, Delle nozioni tendenti alla pubblica felicità, a cura di G. Barbarisi, Roma 1994, p. 29. 11 C. Capra, I progressi della ragione, vita di Pietro Verri, Bologna 2002, pp. 531-533. 12 Verri, Delle nozioni cit., p. 13.

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Note

13 A. Saitta, Costituenti e costituzioni della Francia rivoluzionaria e liberale (1789-1875), Milano 1975, p. 28. 14 Saitta, Costituenti e costituzioni cit., pp. 43-44. 15 Saitta, Costituenti e costituzioni cit., pp. 49, 55, 62. 16 Saitta, Costituenti e costituzioni cit., pp. 89, 91, 125, 154. 17 Saitta, Costituenti e costituzioni cit., pp. 357, 418. 18 M. Robespierre, Discours: 27 juillet 1793-27 juillet 1794, in Id., Œuvres de Maximilien Robespierre, X, a cura di M. Bouloiseau e A. Soboul, Paris 1967, pp. 354-357 e 454-458; M. Dommanget, J. Dautry, Sur la formule de «bonheur commun», «Annales historiques de la Révolution française», 187 (1967), pp. 132-133; F. Theuriot, La conception rosbepierriste du bonheur, «Annales historiques de la Révolution française», 191 (1968), pp. 207-226; F. de Luise, G. Farinetti, Storia della felicità. Gli antichi e i moderni, Torino 2001, pp. 489492. 19 C. Vetter (a cura di), La felicità è un’idea nuova in Europa. Contributo al lessico della rivoluzione francese, I, Trieste 2005, pp. 25-27. 20 L.A. Saint-Just, Rapport au nom du Comité de salut public sur le mode d’exécution du décret contre les ennemis de la Révolution, présenté à la Convention Nationale dans la séance du 13 ventôse an II, in Id., Œuvres complètes, a cura di M. Duval, Paris 1984, p. 715. 21 L.A. Saint-Just, Rapport au nom du Comité de salut public sur les fonctions de l’étranger, présenté à la Convention Nationale dans la séance du 23 ventôse an II, in Id., Œuvres complètes cit., pp. 729-730. 22 A. de Giuliani, Alla Convenzione nazionale di Parigi (1793), in Id., La cagione riposta delle decadenze e delle rivoluzioni. Due opuscoli politici del 1791-1793, a cura di B. Croce, Bari 1934, pp. 49-52. 23 A. de Giuliani, La vertigine attuale dell’Europa, Vienna 1790; P. Roger, Felicità, in V. Ferrone, D. Roche, L’Illuminismo. Dizionario storico, Roma-Bari 20073, pp. 48-49. 24 M. Troper, Terminer la Révolution. La Constitution de 1795, Paris 2006, pp. 53-54, 103 e il resoconto della seduta della Convenzione del 16 messidoro anno III (4 luglio 1795) nel «Moniteur universel», 1795, p. 1165-1166. 25 F.M. Pagano, Considerazioni sul processo criminale, Napoli 1787, p. 11. 26 V. Ferrone, La società giusta ed equa. Repubblicanesimo e diritti dell’uomo in Gaetano Filangieri, Roma-Bari 2003, pp. 242-244. 27 I. Kant, Sul detto comune «Questo può essere giusto in teoria ma non vale per la prassi», pp. 137-145 in Id., Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Roma-Bari 1995; Roger, Felicità cit., p. 49. 28 De Luise, Farinetti, Storia della felicità cit., p. 500. 29 L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, II, Dal Pietismo al Romanticismo (1700-1820), Torino 1964, pp. 456-469. 30 M. Mila, Lettura della Nona Sinfonia, Torino 1977; N. Cook, Beethoven: Symphony No. 9, Cambridge 1993; A. Basso, L’invenzione della gioia. Musica e massoneria nell’età dei Lumi, Milano 1994, pp. 421-453. 31 Basso, L’invenzione della gioia cit., pp. 444-445. 32 D.-A.-F. de Sade, Aline e Valcour, trad. it., a cura di G. Nicoletti, Milano 1993, pp. 17-18, 131-132; R. Mauzi, L’idée du bonheur au XVIII e siècle, Pa-

Note al capitolo decimo

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ris 19652, pp. 427-429; P. Roger, Au bonheur des dames sensées, prefazione a Thérèse Philosophe, Paris 1986. 33 A. Schopenauer, L’arte di essere felici esposta in 50 massime, trad. it., a cura di F. Volpi, Milano 1997, pp. 58-91. 34 P. Gay, The Bourgeois Experience: Victoria to Freud, II, The Tender Passion, New York-Oxford 1986, pp. 3-43. 35 Le considerazioni di Nietzsche sulla felicità provengono da una riflessione più ampia sul senso storico e sullo storicismo che risale al giovanile saggio Sull’utilità e il danno della storia per la vita, a cura di G. Colli, Milano 199914, pp. 7, 57-58 e passim, parte delle sue Considerazioni inattuali; cfr. anche V. Ferrone, D. Roche, L’Illuminismo nella cultura contemporanea. Storia e storiografia, Roma-Bari 2002, pp. 46-49; D. Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, Torino 2004, pp. 35-37. 36 S. Freud, Il disagio della civiltà, in Id., Opere, trad. it., a cura di C. Musatti, X, Torino 19892, pp. 568-582. 37 Freud, Il disagio della civiltà cit., X, § 3 e 8, pp. 578-587 e 620-626. Vale la pena di ricordare che il titolo originariamente pensato da Freud per il suo saggio, apparso nel 1930, doveva essere in realtà L’infelicità della civiltà (Das Unglück in der Kultur); sulla storia editoriale del saggio cfr. ivi, pp. 555-556. 38 H. Ferguson, Destino della felicità. Trasformazione religiosa nella società occidentale, Genova 1995. 39 A. Maffey, M.A. Romani, La fisiocrazia, in L. Firpo (a cura di), Storia delle idee politiche, economiche e sociali, IV/2, Torino 1980, pp. 520-521; D. Winch, L’economia come scienza (1750-1870), in C.M. Cipolla (a cura di), Storia economica d’Europa, III, La rivoluzione industriale, Torino 1980, pp. 502503. 40 R.L. Moore, L’intreccio di sacro e profano nella storia americana, trad. it., Torino 2005. 41 Ferrone, Roche, L’Illuminismo nella cultura contemporanea cit., pp. 3842. 42 De Luise, Farinetti, Storia della felicità cit., pp. 451-452; Ferguson, Destino della felicità cit., pp. 33-43. 43 L. Mumford, La città nella storia, III, Dalla corte alla città invisibile, trad. it., Milano 1981, pp. 651-699; E. Pachaud, Villes nouvelles: du concept à la réalité, «Les Annales de la Recherche urbaine», 2005 (http://espacestemps.net/ document1880.html); A. De Botton, Architettura e felicità, trad. it., Milano 2006. 44 K. Masaaki, Japanese Thought in the Meiji Era, Tokyo 1958; R. Caroli, F. Gatti, Storia del Giappone, Roma-Bari 2004, pp.137-159. 45 Earl H. Kinmonth, Fukuzawa Reconsidered: Gakumon no Susume and its Audience, «The Journal of Asian Studies», 37 (1978), p. 685. 46 T. Aruga, The Declaration of Independence in Japan: Translation and Transplantation 1854-1997, «The Journal of American History», 85 (1999), pp. 1409-1431. 47 B.S. Gordon, 1945 nen no Kurisumasu, a cura di H. Makiko, Tokyo 1995, pp. 128-148. 48 K. Kakae, Questions about Controversy over «The Right to Self-Determination», «Constitutional Law Review», 9 (2002), pp. 21-41.

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Note

Epilogo 1 Sul rapporto tra felicità e consumo rispetto al ciclo vitale cfr. D.G. Blanchflower, A.J. Oswald, Well-Being over time in Britain and the USA, «Journal of Public Economics», 88, 2006, 1359-1386 e, degli stessi autori, Is Wellbeing U-shaped over the Life Cycle?, http://www.nd.edu/~adutt/activities/ documents/ L’opera di Albert Hirschman, apparsa originariamente nel 1982, è stata più volte tradotta anche in Italia, da ultimo con il titolo Felicità pubblica e felicità privata, Bologna 20032. 2 Alcuni orientamenti della sociologia del secondo Novecento sono rappresentati da J. Cazeneuve, Felicità e vivere sociale, trad. it., Bologna 1979; G.P. Prandstraller, Felicità e società, Milano 1978. 3 R. Darnton, Mesmerismo e il tramonto dei Lumi, trad. it., Milano 2005; V. Ferrone, I profeti dell’Illuminismo. Le metamorfosi della ragione nel tardo Settecento italiano, Roma-Bari 20002, pp. 67-90. 4 E. Boncinelli, G. Sciarretta, Verso l’immortalità? La scienza e il sogno di vincere il tempo, Milano 2005; R.C. Lewontin, Il sogno del genoma umano e altre illusioni della scienza, trad. it., Roma-Bari 2004. Il resoconto stenografico dell’annuncio del 26 giugno 2000 è in http://www.ornl.gov/sci/techresources/Human_Genome/project/clinton2.shtml 5 http://www.uniese.it/european-school-of-economics/ese-publishing/ildiritto-alla-felicita.html 6 Un testo importante per comprendere l’attuale dibattito su questi temi è B.S. Frey, A. Stutzer, Economia e felicità: come l’economia e le istituzioni influenzano il benessere, trad. it., Milano 2006, con un’ampia bibliografia. Si vedano però anche R.A. Easterlin, Happiness in economics, Cheltenham Northampton (Mass.) 2002; B.M.S. van Praag, A. Ferrer-i-Carbonell, Happiness Quantified: A Satisfaction calculus Approach, Oxford 2004; R. Layard, Felicità: la nuova scienza del benessere comune, trad. it., Milano 2005.

INDICI

INDICE DEI NOMI Abbiati, Magda, 234. Abramo, 5. Adami, Tobia, 44. Adamo, 16, 19, 20, 24-26, 46, 70, 181. Adams, John, 192. Addison, Joseph, 104. Adorno, Francesco, 236. Agostino, Aurelio, santo, 16, 81, 91, 96. Alatri, Paolo, 249. Albèri, Eugenio, 235. Alberti, Leon Battista, 38, 58, 236. Albonico, Aldo, 250. Alcover, Madeleine, 237. Alger, Horatio, 176. Allestree, Richard, 53. Amodio, Paolo, 242. Anderson, James, 187. Andreä, Johann Valentin, 44, 46, 47, 237. Anglani, Bartolo, 249. Aragona, Caterina di, 22. Arese, Paolo, 72. Ariosto, Ludovico, 49. Aristotele, 41, 110, 133, 243, 245. Arnauld, Antoine, 241. Arrighetti, Graziano, 234. Arriquíbar, Nicolás de, 245. Aruga, Tadashi, 255. Astigarraga, Jesús, 245. Baccolini, Raffaella, 237. Bacone, Francesco, 47-49, 55-56, 84, 181, 237-238.

Baerle, Kaspar van (C. Barlaeus), 58, 238. Baglivi, Giorgio, 111. Bailhache, Patrice, 241. Baldini, Massimo, 234. Balmas, Enea, 250. Barba, Vincenzo, 249. Barbarisi, Gennaro, 253. Barbaro, Daniele, 39, 236. Barbeyrac, Jean, 145, 242, 247. Barrenechea, José Manuel, 245. Barthes, Roland, 234. Barzazi, Antonella, VI. Bassani, Luigi Marco, 252. Bassi, Shaul, VI. Basso, Alberto, 251, 254. Battistini, Andrea, 238. Bausi, Francesco, 234. Bausola, Adriano, 240-241. Bayle, Pierre, 108-109, 113, 138, 153, 156, 243, 246-247. Baylin, Bernard, 238, 252. Bazin, Gilles-Augustin, 111, 243. Bazzoli, Maurizio, 244. Beaglehole, John C., 235. Beccaria, Cesare, 105, 144, 152, 167170, 249. Becchetti, Leonardo, 233. Beeson, David, 246. Beethoven, Ludwig van, 210-212. Beleván, Harry, 236. Belforte, Antonio di Gennaro, duca di, 200. Benevolo, Leonardo, 236. Benzoni, Gino, 237, 240.

260 Berengo, Marino, 236. Beretti, Francis, 250. Berg, Maxine, 244. Bergerac, Cyrano de, 50, 51, 81, 237. Berkeley, George, 103. Berl, Emmanuel, 251. Berlingieri, Pierpaola, 243. Berneri, Giuseppe, 73, 240. Bernoulli, Jakob, 134. Bernstein, Richard B., 252. Bertelli, Sergio, 239, 248. Bhanu Mehta, Pratap, 251. Bianchi, Isidoro, 196-197, 252-253. Bianconi, Piero, 248. Biffi, Giambattista, 241. Bisutti De Riz, Francesca, 250. Blanchet, Jules-Adrien, 233. Blanchflower, David G., 256. Blom, Hans W., 239, 243. Bodei, Remo, 234. Bodin, Jean, 43, 60. Boerhaave, Herman, 111, 135, 243. Bolena, Anna, 22. Bonazzi, Tiziano, 251. Boncinelli, Edoardo, 256. Bonifacio, Giovanni, 72, 110. Borghero, Carlo, 242. Borrelli, Gianfranco, 237. Bosch, Hieronymus, 6. Boswell, James, 184, 187, 251. Bots, Hans, 243, 246. Bottazzini, Umberto, 245. Bougainville, Louis-Antoine de, 178. Bouloiseau, Marc, 254. Bourdaloue, Louis, 102. Bozzola, Sergio, 240. Bréchillet Jourdain, Charles-MarieGabriel, 241. Brewer, John, 242. Brilli, Attilio, 238. Brissot de Warville, Jacques-Pierre, 194, 252. Brody, Brach, 246. Bruin, Claas, 238. Bulgarelli, Massimo, 236.

Indice dei nomi

Burke, Peter, 238. Burlamaqui, Jean-Jacques, 148, 247. Burnet, Gilbert, 247. Buttafuoco, Matteo, 184. Cabet, Étienne, 217. Caillois, Roger, 247. Calvino, Italo, 248. Cambi, Maurizio, 237. Campanella, Tommaso, 44-47, 55, 237. Cantelli, Gianfranco, 243. Cantimori, Delio, 234. Capra, Carlo, 249, 253. Carletti, Francesco, 235. Carli, Gianrinaldo, 144, 151, 156, 167, 180-182, 196, 202, 246-247, 248-250, 253. Carlo I Stuart, re d’Inghilterra, 6061, 99. Carlo II Stuart, re d’Inghilterra, 60, 74, 91. Caroli, Rosa, VI, 255. Carraro, Girolamo, 235. Carrington, Dorothy, 250. Cartesio (René Descartes), 63, 65, 67, 96, 100, 135, 211. Carunchio, Tancredi, 236. Casanova, Giacomo, V, 6, 79, 129, 233, 240, 245. Casini, Paolo, 242. Castilhon, Jean-Louis, 250. Caterina II, zarina di Russia, 174. Cazeneuve, Jean, 256. Cazzaniga, Gian Maria, 251. Centi, T. Sante, 243. Cervantes, Miguel de, 28. Ceserani, Gian Paolo, 245. Cesi, Federico, 110. Cheyne, George, 143. Chiabrera, Gabriello, 55. Chiara, Piero, 233. Cicerone, Marco Tullio, 19. Cingari, Gaetano, 237, 239. Cipolla, Carlo Maria, 236, 255.

Indice dei nomi

Clark, George, 244. Clavigero, Francesco Saverio, 181. Cocchi, Raimondo, 194, 252. Cochem, Martin von, 54. Colerus, Johan, 84. Colli, Giorgio, 255. Collo, Paolo, 250. Colombo, Cristoforo, 25, 44-45, 55, 250. Comparato, Vittor Ivo, 237. Comte, August, 216. Concini, Concino, 59. Contarini, Gasparo, 43. Conti, Vittorio, 237. Cook, James, 25, 178, 235. Cook, Nicholas, 254. Correr, Angelo, 239. Corriero, Giovanni, 235. Cosenza, Paolo, 234. Cotta, Gabriella, 248. Cottret, Bernard, 248. Cottret, Monique, 248. Coulet, Henri, 250. Cozzi, Gaetano, 235. Crénière, Jean-Baptiste, 204. Creso, 7. Croce, Benedetto, 254. Crocker, Lester G., 246. Cromwell, Oliver, 51, 52, 60, 74. Cullen, Jim, 250. Cumberland, Richard, 94, 131, 241. D’Agostini, Espedito, 235. D’Agostino, Nemi, 234. Dante Alighieri, 17-19, 234. Daremberg, Charles, 233. Darnton, Robert, 247, 256. Dautry, Jean, 254. Davenant, Charles, 130, 245. De Botton, Alain, 255. Defoe, Daniel, 126, 244. Degas, Edgar, 6. De Gennaro, Giuseppe, 234. De Keyser, Hendrick, 107. Dekker, Rudolf, 243.

261 Del Negro, Piero, 253. Delpiano, Patrizia, VI. De Luise, Fulvia, 234, 240, 242, 247248, 254-255. Delumeau, Jean, 234, 243. Del Zanna, Marta, VI. De Mas, Enrico, 237. Dianzani, M. Umberto, 233. Diaz, Furio, 250, 252. Diderot, Denis, 56, 146-148, 170, 173-175, 184, 238, 249-250. Di Donato, Francesco, 246. Diogneto, 32, 235. Di Tella, Rafael, 233. Di Trocchio, Federico, 233. Domat, Jean, 93. Dommanget, Maurice, 254. Doni, Anton Francesco, 39-40, 236. Drake, Francis, 25. Dreux du Radier, Jean-François, 249. Duchet, Michel, 250. Duval, Michèle, 254. Easterlin, Richard A., 256. Eger, Elizabeth, 244. Egido, Aurora, 235. Eisenhower, Dwight D., 225. Elisabetta di Boemia, principessa del Palatinato, 65. Engberg-Pedersen, Troels, 234. Enrico IV, re di Francia, 59. Enrico VIII, re d’Inghilterra, 22, 24. Epicuro, 14, 19, 66-67, 156, 234. Epitteto, 146. Epulone, 5. Erasmo da Rotterdam, 20-22, 39, 49, 106-107. Erodoto, 6, 233. Esposito, Roberto, 243. Estienne, Henri, 32. Falconet, Étienne-Maurice, 147, 173. Falvey, John, 246. Farinetti, Giuseppe, 234, 240, 242, 247-248, 254-255.

262 Federico II (il Grande), re di Prussia, 134. Fénelon, François de Salignac de La Mothe, 103, 242. Ferguson, Adam, 131. Ferguson, Harvie, 255. Ferrajoli, Luigi, 249. Ferrer-i-Carbonell, Ada, 256. Ferrone, Vincenzo, VI, 239, 249-250, 253-256. Fiamma, Gabriele, 72. Filangieri, Gaetano, 196-201, 209, 229, 252-253. Fiore, Francesco Paolo, 236. Fiore, Tommaso, 234. Firpo, Luigi, 234-236, 238-240, 255. Fitzwilliam, William, 107. Fontenelle, Bernard de, 100, 102, 146, 242. Formey, Jean Henri Samuel, 246. Formigari, Lia, 240, 251. Fortunati, Vita, 237. Fossum, Robert H., 250. Fraggianni, Niccolò, 144, 246. Fragonard, Jean-Honoré, 6. Francioni, Gianni, 242, 249, 253. Frank, Robert H., 233. Franklin, Benjamin, 104, 129, 176, 180-181, 192, 200, 229. Freud, Sigmund, 214-215, 255. Frey, Bruno S., 256. Frisi, Paolo, 249. Frugoni, Francesco Fulvio, 72, 240. Fukuzawa, Yukichi, 219-220, 255. Furet, François, 244. Furly, Benjamin, 108. Gabrieli, Francesco, 236. Galiani, Ferdinando, 181. Galilei, Galileo, 55, 63, 66, 110. Garavini, Fausta, 235. Gardeil, Ambroise, 233. Garin, Eugenio, 234, 239, 242. Gassendi, Pierre, 63, 66-67, 80-81. Gatti, Francesco, 255.

Indice dei nomi

Gay, Peter, 248, 255. Genovesi, Antonio, 127, 134, 150, 160, 196, 247. Gerbi, Antonello, 250. Gerhard, Ephraim, 148, 247. Gerhardt, Carl Immanuel, 241. Giacomo I Stuart, re d’Inghilterra, 79. Gianformaggio, Letizia, 234. Gianni, Francesco Maria, 252. Giannone, Pietro, 134. Giannotti, Donato, 42, 52. Giarrizzo, Giuseppe, 238-239, 251. Gilles, Pieter, 234, 236. Giovanni, santo, 54, 91. Giovanni Paolo II, papa, 24. Giuliani, Antonio de, 207-208, 254. Giuseppe II, imperatore del Sacro Romano Impero, 193. Glaudemans, Marc, 238. Gliozzi, Giuliano, 235. Godwin, Francis, 50, 237. Goethe, Johann Wolfgang von, 210. Gonnelli, Filippo, 254. Gordon, Beate Sirota, 255. Goulemot, Jean-Marie, 244. Goya, Francisco, 6, 10. Grassani, Goffredo, 233. Gravisi, Girolamo, 250. Graziani, Antoine-Marie, 251. Greene, Jack P., 252. Gregory, David, 83. Griswold, Charles L. jr., 251. Grozio (Grotius), Ugo, 94, 107, 147, 149, 247. Grugel-Pannier, Dorit, 244. Guglielmo III (Guglielmo d’Orange), re d’Inghilterra, 112. Guicciardini, Francesco, 42. Gunn, John Alexander Wilson, 243. Gussoni, Vincenzo, 60, 239. Haakonssen, Knud, 251. Haase, Rudolf, 241. Haller, Albrecht, 139.

Indice dei nomi

Harrington, James, 52-53, 237. Haydn, Joseph, 211. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 209, 218. Helvétius, Claude-Adrien, 161-163, 167-168, 173, 184, 201, 248. Hemsterhuis, Frans, 174. Herrera, Gabriele Alonso de, 110. Heuvel, Jacques Van Den, 251. Hirschman, Albert, 224-225, 256. Hiscock, Walter George, 240. Hobbes, Thomas, 55, 60-68, 74, 86, 94, 103, 109, 153, 189, 239. Holbach, Paul-Henri Thyri d’, 170173, 248-249. Hont, Istvan, 243-245. Hossenfelder, Malte, 233. Hume, David, 131. Hundert, Edward J., 243. Hutcheson, Francis, 130-132, 146, 163, 167-169, 188, 245, 248. Ibsen, Henrik, 8. Innocenzo X, papa, 93. Israel, Jonathan I., 244. Ito, Sei-ichiro, 245. Jackson, Jean-Pierre, 249. Jacob, Margaret C., 242. Jansen, Cornelis Otto, 81. Jefferson, Thomas, 190-191. Johnson, Lyndon Baines, 225. Johnson, Samuel, 184. Jonas, Hans, 233. Jones, Howard Mumford, 252. Kakae, Kikuo, 255. Kamen, Henri, 235. Kant, Immanuel, 209, 248, 254. Kennedy, John Fitzgerald, 225. Keplero (Johannes Kepler), 50. Kermode, Frank, 239. Kindl, Ulrike, 234, 243. King, Martin Luther, 176. Kinmonth, Earl H., 255.

263 Kirk, Linda, 241. Knoeff, Rina, 243. Körner, Christian Gottfried, 211. La Condamine, Charles Marie de, 179. La Fontaine, Jean de la, 113. Lahontan, Louis-Antoine de Lom d’Arce, 177-178, 250. La Mettrie, Julien Offray de, 134139, 144, 201, 212, 245-246. Lando, Ortensio, 24. Landucci, Sergio, 235. Lang, Bernhard, 234, 239. Lankhorst, Otto S., 243. Laurana, Luciano, 38. Laurenti, Renato, 234. Laursen, John Christian, 239, 247. Layard, Richard, 256. Lazzaro, 5. Lecaldano, Eugenio, 251. Le Clerc, Jean, 98, 152, 242, 247. Leed, Eric J., 235. Le Goff, Jacques, 233, 234. Leibniz, Gottfried Wilhelm, 85-88, 90, 97-98, 108, 133, 135, 149, 159, 241. Leidhold, Wolfgang, 245. Leonardo da Vinci, 19, 234. Leone XIII, papa, 215. Lessing, Gotthold Ephraim, 187. Lévesque de Pouilly, Louis-Jean, 133, 146, 245. Lewis, Jan, 252. Lewontin, Richard C., 256. Lilti, Antoine, 249. Lindeboom, Gerrit Arie, 243. Livio, Tito, 3. Lloyd, William, 83. Locke, John, 55, 74-80, 86, 88, 108, 182, 191, 211, 240, 251. Lombardo, Agostino, 234. Long, Anthony A., 234. Longano, Francesco, 127. Longo, Alfonso, 167.

264 Losurdo, Domenico, 255. Loyola, Ignazio di, 18, 234. Luca, santo, 5. Luce, Arthur Aston, 242. Luigi XIII, re di Francia, 59. Luigi XIV, re di Francia, 92, 103. Luigi XVI, re di Francia, 205. Lupoli, Agostino, 245. Lutero, Martin, 17. Luzac, Elie, 137, 145, 149, 246-247. MacArthur, Douglas, 220. Macchia, Giovanni, 247. MacDonald, Michael, 246. Machiavelli, Niccolò, 42. Madison, James, 192. Maffey, Aldo, 255. Magellano, Ferdinando, 25. Magnavini, Filippo, 42. Magnusson, Lars, 251. Magrini, Marina, VI. Makiko, Hiraoka, 255. Malatesta Garuffi, Giuseppe, 72-73, 240. Malato, Enrico, 234. Malebranche, Nicolas de, 95-97, 133, 135, 242. Malthus, Thomas Robert, 122. Mandeville, Bernard de, 109, 111113, 115-129, 131, 154, 160, 188189, 243-244. Mangenot, Eugène, 233. Manti, Franco, 233. Marco Aurelio Antonino, 146. Maria Teresa d’Asburgo, imperatrice del Sacro Romano Impero, 186, 193. Mariscotti, Bernardino, 110, 243. Martini, Simone, 38. Marx, Karl, 217-218. Masaaki, Kosaka, 255. Mason, George, 190-191. Massimiliano I d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero, 235. Maupertuis, Pierre-Louis Moreau

Indice dei nomi

de, 134-135, 137, 139-142, 144, 149, 156, 201, 246. Mauzi, Robert, 247, 254. Mazzarino, Giulio Raimondo, 8, 78, 80. McDannel, Colleen, 234, 239. McMahon, Darrin M., 238, 252. Medici, famiglia de’, 195. Medici, Maria de’, 59. Melon, Jean-François, 128. Mersenne, Marin, 63. Meserole, Harrison T., 238. Mesmer, Franz, 227-228. Meyfart, Johann, 54. Micanzio, Fulgenzio, 49, 84. Mignini, Filippo, 239. Mila, Massimo, 254. Milton, John, 55, 70-71, 239. Minerbi Belgrado, Anna, 248. Minerva, Nadia, 237. Minois, Georges, 246. Mittner, Ladislao, 254. Modigliani, Franco, 7. Monaco, Michele, 248. Montaigne, Michel de, 26-27, 55, 81, 96, 235. Montefeltro, Federico di, 38. Montesquieu, Charles-Louis de Secondat, 134, 143, 147-148, 196, 247. Moore, John Robert, 244. Moore, R. Laurence, 255. Moreau de Saint-Ellier, 135. Morelly, Étienne-Gabriel, 178. Mori, Gianluca, 243. Morison, Fynes, 106. Moro, Tommaso, 20, 22-24, 30, 36, 38-40, 43, 55, 234, 236. Morosini, Michele, 239. Mounier, Jean-Joseph, 203. Movia, Giancarlo, 245. Moxon, Joseph, 53. Mozart, Wolfgang Amadeus, 211. Mozzarelli, Cesare, 248. Mugnai, Massimo, 241.

265

Indice dei nomi

Mullet, Charles F., 252. Mumford, Lewis, 236-237, 255. Muratori, Ludovico Antonio, 154156, 179, 248, 250. Murphy, Terence R., 246. Musatti, Cesare, 255. Mutsuhito, imperatore del Giappone, 218. Muzio, Girolamo, 33, 236. Nadler, Steven, 241. Napoleone Bonaparte, 9, 207. Naudé, Gabriel, 78, 80-81, 240. Naves, Raymond, 248. Negri, Antimo, 249. Nesselrath, Arnold, 236. Newton, Isaac, 99, 133. Niccolini, Antonio, 151, 247. Nickel, Jacob, 110. Nicole, Pierre, 91, 241. Nicoletti, Gianni, 254. Niderst, Alain, 242. Nietzsche, Friedrich, 214, 255. Olivieri, Achille, 240. O’Meara, Barry, 9. Orange, Guglielmo d’, 74, 99, 112. Oswald, Andrew J., 256. Otis, James, 187, 192, 252. Overbeke, Aernout van, 107, 243. Owen, Robert, 217. Ozouf, Mona, 244. Pacchi, Arrigo, 239. Pachaud, Emmanuel, 255. Paganini, Gianni, 251. Pagano, Francesco Mario, 209, 254. Pagden, Anthony, 235. Palladini, Fiammetta, 242. Paludano, Bernardo, 61, 239, 244. Panaino, Antonio, 251. Panizza, Giorgio, 253. Paoli, Pasquale, 183-185, 192-194, 250-251. Paolo V, papa, 84.

Paruta, Paolo, 28-30, 60, 235. Pascal, Blaise, 81, 84, 90-91, 93, 96, 240-241. Patin, Guy, 80-81. Patrizi, Francesco, 40-41, 236. Pauw, Cornelis de, 179. Penson, Thomas, 106. Perec, Georges, 225. Perna, Maria Luisa, 247. Pestré, Roger, 145-146. Pétion de Villeneuve, Jerôme, 203. Petrarca, Francesco, 212. Pett, Peter, 130, 245. Petty, William, 130, 245. Piazzi, Alberto, 240. Pico della Mirandola, Giovanni, 20, 234. Piero della Francesca, 38. Pierrot, Claire, 236. Pietro Leopoldo d’Asburgo-Lorena, granduca di Toscana, 4, 193-195. Pigafetta, Antonio, 25. Piro, Francesco, 241. Pizarro, Francisco, 25. Pizzolato, Luigi, 234. Pizzorusso, Arnaldo, 245. Plantin, Christophe, 34, 36. Platone, 37, 47-48, 156, 235-236. Pole, Jack R., 252. Pontara, Giuliano, 233. Popkin, Richard H., 240. Porset, Charles, 251. Postigliola, Alberto, 248. Praag, Bernard M.S. van, 256. Prandstraller, Gian Paolo, 256. Presotto, Marco, VI. Preti, Giulio, 246. Primer, Irwin, 244-245. Prior, Charles W.A., 243. Prokhovnik, Raia, 239. Pufendorf, Samuel, 94-95, 145, 147, 242, 247. Quennell, Peter, 234.

266 Radicati di Passerano, Alberto, 143. Raffaello Sanzio, 6. Ranuzzi, famiglia, 34. Rapp, George, 217. Rees, H. Jan van, 243. Reinert, Sophus A., VI, 245. Renoir, Pierre-August, 6. Révauger, Marie-Cécile, 251. Richelieu, Armand-Jean du Plessis de, cardinale, 78. Ricuperati, Giuseppe, 240. Rigault, Hippolyte, 242. Rigobon, Patrizio, 250. Robertson, William, 179. Robespierre, Maximilien, 205-207, 254. Roche, Daniel, 235, 249, 254-255. Roger, Philippe, 249, 254. Romagnoli, Sergio, 242, 249. Romani, Marzio Achille, 255. Romano, Carlo, 233. Rombout, Machiel Willem, 247. Romero Muñoz, Carlos, 235. Roncaglia, Alessandro, 251. Roncoroni, Federico, 233. Roodenburg, Herman, 243. Rossi, Alessandro, 217. Rossi, Paolo, 239, 245, 248. Rosso, Corrado, 247. Roth, John K., 250. Rother, Wolfgang, 249. Rousseau, Jean-Jacques, 158, 164167, 174, 177, 180, 184, 196, 211, 248-249. Rovetta, Alessandro, 238. Rucellai, Giovanni, 109. Ruggiero, Gerardo, 252. Ruperti, Bonaventura, VI. Russell, Jeffrey B., 234. Sacerdoti, Gilberto, 239. Sade, Donatien-Alphonse-François de, 212-213, 254. Saglio, Edmond, 233. Sagredo, Giovanni, 239.

Indice dei nomi

Saint-Just, Louis-Antoine-Léon de, 3, 206-207, 254. Saint-Simon, Claude-Henri de, 216. Saitta, Armando, 253. Sala Di Felice, Elena, 249. Salieri, Antonio, 211. Salomone, 48. Sana, Alberto, 240. Sandwich, John Montagu, duca di, 88. Sanesi, Roberto, 239. Sansovino, Francesco, 32-33, 42-43, 235, 237. Sansovino, Jacopo, 32. Santi, Raffaella, 239. Santinelli, Cristina, 239. Sarpi, Paolo, 49, 60, 84, 240. Scarpari, Maurizio, 248. Schiavone, Giuseppe, 237. Schiller, Friedrich, 210-212. Schillings, Jan, 246. Schopenauer, Arthur, 213, 254. Schulte, Benedictus P.M., 243. Sciarretta, Galeazzo, 256. Secretan, Catherine, 238. Seidel Menchi, Silvana, 234. Sénault, Jean-François, 92, 241. Seneca, Lucio Anneo, 15, 65, 92, 101, 137, 165, 234. Serramandi, Francesco, 233. Sertoli, Giuseppe, 244. Severi Martino J., 234. Shaftesbury, Anthony Ashley Cooper, I conte di, 74, 107. Shaftesbury, Anthony Ashley Cooper, III conte di, 91, 97-100, 108, 117, 131, 133, 159, 242. Shakespeare, William, 13, 27, 234. Sieyès, Emmanuel-Joseph, 205. Silvani, Giovanna, 237. Silvano, Giovanni, 237. Simha, André, 233. Simha, Suzanne, 233. Simon, Jean-Baptiste, 111, 243. Simonazzi, Mauro, 243.

267

Indice dei nomi

Simonutti, Luisa, 239. Sina, Maria Grazia, 242. Sina, Mario, 242. Skinner, Quentin, 235, 239. Smith, Adam, 131, 134, 188-190, 201, 251. Soboul, Albert, 254. Socrate, 51. Solinas, Fernando, 234. Solone, 7. Sonnenfels, Joseph von, 186. Sordi, Bernardo, 252. Sozzi, Lionello, 238. Speck, William A., 245. Spini, Giorgio, 237, 239. Spinoza, Baruch (Benedetto), 67-69, 81, 84-87, 107-109, 128, 153, 239. Stabile, Francesco, 34, 236. Stafford, J. Martin, 244. Stalpaert, Daniel, 57. Stapelbroek, Koen, 249. Starobinski, Jean, 249. Steele, Richard, 104-105. Steere, Richard, 53, 238. Steiner, Robert, 253. Stewart, Matthew, 241. Strien, Cornelis Daniël (Kees) van, 238, 242. Stuart, Carlo Edoardo, 126. Stuart, famiglia, 112. Stuart, Maria I, regina di Scozia e di Francia, 27. Stutzer, Alois, 256. Swedenborg, Emanuel, 54. Sylvers, Malcolm, 252. Tagliapietra, Andrea, 248. Tarantino, Giovanni, 245. Target, Paul-Louis, 204. Tasman, Abel, 25. Taverne, Éduard Robert Marie, 238. Te Lintum, Cris, 244. Tempera, Marianna, 237. Temple, William, 119, 244. Terrall, Mary, 246.

Thacker, Christopher, 233. Theuriot, Françoise, 254. Thomson, Ann, 246. Tocchini, Gerardo, 251. Todorov, Tzvetan, 248. Toland, John, 98. Tomitano, Bernardino, 42. Tommaso d’Aquino, santo, 6, 243. Tortarolo, Edoardo, 251. Trampus, Antonio, 234, 243, 245, 248, 250-251, 253. Trevor-Roper, Hugh, 240. Troper, Michel, 254. Turner, Jane, 233. Twain, Mark, 176. Uglione, Renato 238. Vacant Alfred, 233. Vanini, Giulio Cesare, 81. Vanzan Marchini, Nelly-E., 237. Vartanian, Aram, 245. Vasoli, Cesare, 237. Vaucanson, Jacques, 135-136. Vega, Garcilaso de la, 179. Velthuysen, Lambert van, 109. Venturi, Franco, 245, 247-250. Vernet, Jacob, 245. Verri, Alessandro, 167, 170, 178, 249. Verri, Pietro, 144, 167-168, 201-203, 249, 253. Vespucci, Amerigo, 22. Vetter, Cesare, 254. Viano, Carlo Augusto, 240. Viano, Francesca, VI. Viansino, Giovanni, 234. Viau, Théophile de, 81. Villari, Rosario, 239. Vincent, Bernard, 250. Virgilio, 3, 109. Vitruvio, 39, 58, 236. Vivanti, Corrado, 241, 251. Volpi, Franco, 254.

268 Volta, Alessandro, 153. Voltaire, François-Marie Arouet, 104, 152, 156-160, 164-165, 185, 248, 251. Wandruszka, Adam, 252. Washington, George, 216. Wellman, Kathleen A., 246. Wielema, Michiel, 243. Wilkes, John, 168, 170. Wills, Garry, 252. Winch, Donald, 255.

Indice dei nomi

Wolff, Christian, 135, 149. Wood, Gaby, 246. Wood, Gordon S., 238, 252. Zagari, Eugenio, 245. Zambelli, Paola, 247. Zande, Johan van der, 247. Zanetti, Gianfrancesco, 234. Zeno, Marco, 240. Ziliotto, Baccio, 250. Zola, Émile, 225. Zorzi, Marino II, 241.

INDICE DEL VOLUME

Prefazione

V

I.

3

Che cos’è la felicità? È morale essere felici?, p. 4 - I ricchi sono felici?, p. 6 - Felicità pubblica e felicità privata, p. 8

II.

L’anima e il corpo

12

Il piacere, da peccato a virtù, p. 13 - Il tempo del paradiso, p. 16 - Disorientamento e follia, p. 19 - Un racconto romanzesco, p. 21 - Adamo e il Nuovo Mondo, p. 24 - Un manuale per l’uomo politico, p. 28 - Corpo umano e corpo politico, p. 31

III.

Isole e città felici

36

Lo spazio della città ideale, p. 37 - Mondo savio e mondo pazzo, p. 39 - L’alternativa possibile: la felicità di Venezia, p. 41 La città del Sole e la città di Cristo, p. 43 - La Nuova Atlantide, p. 47 - In viaggio con i cigni, p. 49 - L’utopia al potere, p. 51 Un mondo in movimento, p. 54 - Amsterdam, la nuova Venezia, p. 56

IV.

Ragione e immaginazione

59

L’ansia dell’uomo moderno, p. 59 - La tirannia dei desideri, p. 64 - L’immoralità dei sensi, p. 65 - La razionalità delle passioni, p. 67 - Il Paradiso perduto, p. 70 - Divertimenti accademici, p. 72 - Una rassicurante mediocrità, p. 73 - Dalla natura alla politica, p. 78 - Lo sfondo libertino, p. 80

V.

Parole e idee nuove Virtù e moderazione, p. 83 - Armonia e felicità, p. 85 - Amore di Dio e amore di sé, p. 90 - Benevolenza e socialità, p. 93 - Verità e perfezione, p. 95 - A proposito di entusiasmo, p. 97 - La salute dell’anima, p. 100 - I piaceri dell’immaginazione, p. 102

83

270

VI.

Indice del volume

La favola delle api

106

Nella città di Erasmo, p. 106 - Le api e l’alveare, p. 109 - Melanconia e disturbi nervosi, p. 111 - L’alveare scontento, p. 113 - I furfanti resi onesti, p. 116 - Contro politici e impostori, p. 119 - Vizi privati e pubblici benefici, p. 122 - La questione del lusso, p. 124 - Echi e discussioni, p. 126

VII. Come misurare la felicità

129

L’aritmetica della felicità, p. 130 - La fisica delle passioni, p. 133 - L’uomo macchina, p. 134 - Il discorso sulla felicità, p. 137 - La matematica delle emozioni, p. 139 - Felicità e suicidio, p. 142 Per riordinare la questione: l’Enciclopedia, p. 144 - Felicità e diritto, p. 147

VIII. La paura del male

151

I filosofi e la catastrofe, p. 151 - Un nido di malinconia, p. 153 - La cultura dell’inquietudine, p. 156 - «Tutto è bene», p. 158 Come rimediare alle ingiustizie, p. 161 - La felicità perduta, p. 164 - Il male viene dall’uomo, p. 167 - L’infelicità e la paura, p. 170 - Il tempio della felicità, p. 173

IX.

Il sogno americano

176

Il mito del buon selvaggio, p. 177 - L’America e il mondo antico, p. 179 - La rivoluzione corsa, p. 182 - La felicità è un diritto, p. 185 - L’idea del progresso, p. 188 - La ricerca della felicità, p. 190 - Una costituzione per la Toscana, p. 193 - L’asilo della libertà, p. 196

X.

Oltre la rivoluzione

200

Infelicità e dolore, p. 201 - Il diritto alla felicità, p. 203 - La vertigine dell’Europa, p. 207 - L’inno alla gioia, p. 210 - Piacere e godimento, p. 212 - Il ritorno dell’utopia, p. 216 - Felicità e governo dei popoli, p. 218

Epilogo

223

Felicità e benessere, p. 224 - Immortalità e rimozione del dolore, p. 226 - Felicità e partecipazione politica, p. 229

Note

233

Indice dei nomi

259