Il dio elegante. Vertumno e la religione romana 9788806220211

Chi è il dio Vertumno? Semplicemente il mutare, I'incontenibile impulso delle cose a divenire altro da quel che era

142 97 12MB

Italian Pages VIII,221 [236] Year 2015

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Il dio elegante. Vertumno e la religione romana
 9788806220211

Citation preview

Maurizio Betti n i Il dio elegante Vertumno e la religione romana

Piccola Biblioteca Einaudi

Piccola Biblioteca Einaudi Saggistica letteraria e linguistica

Chi è il dio Vertumno? Semplicemente il mutare, l'incontenibile im­ pulso delle cose a divenire altro da quel che erano. Nella sua giuri­ sdizione, infatti, ricadono il cambiamento delle stagioni e la matu­ razione dei frutti, la pratica dell'innesto (vera e propria vidiano delle Metamorfosi, I 4, 6BB e 766, ha fatto ritenere agli studiosi che il dio dovesse Lvere aspetto di iuvenis (in un caso addirittura di k6uros: cfr. SMALL, Vertumnus cit.): ma e cose non stanno cosf, cfr. infra (pp. Bo-B I ) . Viene talora indicato come « Vertumno» an­ :he un mosaico raffigurante un busto maschile, ricoperto in parte da una tunica rossa (sulla pall a destra un corno dell'abbondanza pieno di frutti, attorno a cui si arrotola un serpente: 1roveniente da Aranjuez, Museo Arqueol6gico nacional de Madrid, inv. 36 1 2 ) : ma si trat­ a assai verisimilmente di un mese. D. P. HARMON, Religion in the Latin elegists, in ANRW, rol. XVI, tomo m, pp. I 959-65, in particolare p. I 964, evocava addirittura « the statue of \.ntinous in the pose of Vertumnus » del Museo Gre��:oriano di Arte profana (inv. 9Bo5).

4

INTRODUZIONE

appunto - perché questo permetteva di mettere in scena le astu­ zie di un innamOrato e la seduzione di una bella fanciulla, come erano state narrate in un celebre episodio delle Metamorfosi: di­ pingevano Ovidio, non Vertumno . Meglio di loro fece certo Ar­ cimboldo allorché , in un dipinto oggi celeberrimo, lo rappresentò nella forma vegetale di un dio-bouquet : esprimendo la sua natura

Figura 1. Cesar Boetius van Everdingen, Vertumno e Pomona, olio su tavola, 1637-40.

INTRODUZIONE

5

metamorfica attraverso linee che, congiungendo fra loro zucche e cavoli, mele e pesche, nello stesso momento meravigliosamente le separano . Un dio che si disfa in frutti e ortaggi proprio mentre di essi si compone> (fig. z). ' In/ra, p. 66, e nota 39·

Figura tavola,

z.

Giuseppe Arcimboldo, Ritratto di Rodolfo II in veste di Vertumno, olio su

r 591.

6

INTRODUZIONE

Difficile negare poi che Cesario Verde, giovane poeta porto­ ghese sullo scorcio del XIX secolo, avesse incontrato Vertumno (quello di Arcimboldo almeno) su una delle infinite scalinate che si arrampicano per Lisbona (fig. 3). Una verduraia aveva appena poggiato a terra una cesta piena di ortaggi, ed ecco l'illuminazio­ ne di Cesario : Subitamente-c· he visione d'artistaSe io trasformassi questi semplici vegetali, alla luce del Sole-l'intenso coloristain un essere umano che si muova ed esista, pieno di belle proporzioni carnali?•.

Passo dopo passo Cesario scopre cosi una testa in una melan­ zana, bianche ossa in un mazzo di rape, un rosario di occhi nei chicchi dell'uva . . . Vertumno dunque può emergere da un cesto di frutta - perché, come dice ancora Cesario, « colli, bocche, spalle e un sembiante, stanno fra le pasture di quei frutti » - ma può an­ che immergervisi, scomparendo, come Liu Bolin: il singolare ar­ tista cinese che (nel suo desiderio di rendersi invisibile) riesce a confondersi perfino con una vetrina di verduraio (fig. 4). Se le co­ se stanno cosi, l' abbondanza di zucche e spighe d'ogni foggia che, all' avvicinarsi di Halloween, traboccano da qualsiasi supermarket americano, potrebbe ben costituire l'ultima, inconsapevole offer­ ta che si rivolge a Vertumno (fig. s). Il dio del vertere, però, non balena soltanto fra i cavoli e i ce­ trioli, come si potrebbe pensare per colpa di Arcimboldo, né fra le coppie in colloquio galante; ma alquanto inaspettatamente può affacciarsi anche dietro le mobili mappe che, in rete o in tv, dise­ gnano le previsioni del tempo e l'imminente « volgersi » delle sta­ gioni; e se si può percepire il suo intervento là dove una squadra di operai è intenta a « rivoltare » un corso d' acqua uscito dagli ar­ gini, la sua presenza la si avverte anche in Borsa, o nelle segrete stanze delle banche, mentre si « convertono » titoli e banconote. Né ci deve sorprendere il fatto che Vertumno si affacci anche nelle sale delle maternità, o dovunque si viva l'incertezza di un evento importante, allorché ci si augura che tutto « si volga» al meglio; e perfino in quei momenti in cui « si rovescia » il senso di una deci­ sione presa da tempo. Per non dire poi del Carnevale, straordina­ ria occasione in cui è permesso « volgersi » nell' aspetto di qualcun • c. VERDE, Num bairro moderno, in ID . , O livro de Cesario Verde, postfazione e cura di Ant6nio Barahona, Assfrio & Alvim, Lisboa 2004 .

INTRODUZIONE

7

altro . Infine, come si potrebbe esser sicuri del fatto che Vertumno non abbia fornito la sua assistenza a Woody Allen durante le ripre­ se di Zelig? Di tutto ciò infatti è capace il dio del vertere, signore del volgere e del volgersi, cosi come del mutare e del trasformarsi .

Figura 3· Verduraia portoghese, azulejos.

8

INTRODUZIONE

Figura 4· Liu Bolin, Green Food, dalla serie Hide in the City, fotografia, 2012.

Figura 5· Esposizione di zucche in un supermercato statunitense.

INTRODUZIONE

9

Ma è in particolare quando si diventa altri - e non solo nelle feste comandate, C arnevale o Halloween che siano, ma spesso, anzi a ripetizione - che Vertumno sembra tornare fra noi per percorrere i cammini della modernità. Certo si ricorderanno le bizzarre mutazioni che il nipote di Ra­ meau amava compiere, nei pressi del Palais-Royal, sotto gli occhi sconcertati di Diderot: Qualche volta è magro ed emaciato, come un malato all'ultimo grado del· la consunzione; gli si potrebbero contare i denti attraverso le guance [ . . ] Il mese seguente è grasso e tondo, come se non si fosse mai staccato dalla ta· vola di un finanziere [ . . . ] Oggi, con la biancheria sporca, i calzoni strappati, coperto di stracci se ne va in giro a testa bassa [ . . ] Domani, incipriato, ben calzato, pettinato, elegante, cammina a testa alta, si pavoneggia e lo prende­ reste quasi per una persona a posto. .

.

Non c'è da stupirsi di tante e continue mutazioni, visto che il nipote del grande Rameau era « nato con tutti i Vertumni sfavore­ voli, quanti sono », secondo l' esergo oraziano che Diderot mise in apertura del suo scritto'. Questo bizzarro personaggio, se stesso e altro in tutto ciò che fa, è un carattere vertumnico, lo è perfino nella dimensione musicale. Da solo infatti egli sa dar vita a tutti gli strumenti: gonfia le gote a dismisura per imitare, con voce cupa e rauca, corni e fagotti, stringe il fiato nel naso, fino a scoppiare, per riprodurre gli oboe, accelera la voce con incredibile velocità per giungere piu vicino possibile al suono degli strumenti a corda, fischia i flautini, arretra sui traversi, gridando, danzando, dimenandosi come un forsennato. Fa tutto da solo, ballerino,. ballerina, bari· tono e soprano, un'orchestra completa, un intero teatro lirico'.

Nato sotto tutti i Vertumni, l'uomo del Palais-Royal è pur sem­ pre nipote di suo zio, sarà per forza anche un Vertumno sonord. Ben piu intense però, fino alla vertigine, furono le moltepli­ ci rifrazioni dell'io irraggiate a Lisbona da Fernando Pessoa: il poeta che silenziosamente irruppe nella letteratura europea sotto forma di « una sola moltitudine » . Egli possedette infatti la rara capacità di vivere sincronicamente tutta la propria diacronia, sep' D . DIDEROT, Le Neveu de Rameau, in A . BILLY (a cura di), CEuvres, Gallimard, « Biblio· thèque de la Pléiade », Paris r 95 r , pp. 396-97. Sui Vertumni oraziani, cfr. infra, pp. 86 sgg. • Ibid. , pp . 455-56. 7 A mo' di curiosità, ricordiamo che A. W. Schlegel riteneva che « Vertumnus» fosse il titolo ideale per una rivista: capace di manifestare contemporaneamente la «duttilità di prin­ cipi» tipica del giornalista e la cadenza mensile del periodico: «Athenaeum», fase. IV, r 799, in G . CUSATELLI, E. AGAZZI e D . MAZZA (a cura di) , Athenaeum I 798-I8oo. Tutti i fascicoli del/a rivista di August Wilhelm Schlegel e Friedrich Schlegel, Bompiani, Milano 2009, pp. 565-66.

IO

INTRODUZIONE

pe perfino oltrepassarne i confini, moltiplican,do la propria iden­ tità. Come spiega uno dei suoi « eteronimi » , Alvaro de C ampos: Per sentirmi m i son moltiplicato, esser tutto ho dovuto, per sentirmi, ho trasbordato, niente feci se non traboccarmi, mi son spogliato, offerto, e in ogni angolo della mia anima c'è un altare per un diverso dio".

Pessoa parla come chi sa che fra la moltiplicazione dell'iden­ tità - vogliamo piuttosto dire la liberazione dall'individuo? - e il politeismo antico c ' è un' affinità neppure troppo segreta, che altrove egli si impegna anzi a descrivere piu diffusamente'. Non appartenere neppure a se stessi, cosf si augura Pessoa stavolta « ortonimo »: Viaggiare! Perder paesi! Essere un altro continuamente, affinché l'anima non si inchiodi a vivere e a vedere solamente. Non esser piu neppure mio!'".

Il fatto è che « un uomo intelligente e lucido » ha scritto Anto­ nio Tabucchi a proposito di Pessoa « sospetta di essere tanti uomi­ ni », non solo se stesso. Tutto questo, in rapida sintesi, è o può essere Vertumno : dio del vertere, signore del mutare e del trasformarsi. E c'è forse qual­ cosa di piu importante - ovvero di meno evitabile - del mutamen­ to nella nostra vita? Come recitano i versi che stanno in esergo a questa Introduzione, « Poiché cambiare è legge di natura l solo la costanza è strana ». Il vertere sta al centro di qualsiasi esperienza: ragion per cui il dio che lo rappresenta, Vert-umnus, merita di ri­ cevere molta piu considerazione di quanta non ne goda di solito . 1 ALVARO DE CAMPOS, Passagem das boras, in A. TABUCCHI e M . ]. DE LANCASTRE (a cu­ ra di), Fernando Pessoa. Poesie di A lvaro de Campos, Adelphi, Milano 1 993, pp. IJO·JI; A. TABUCCHI, Un baule pieno di gente, Feltrinelli, Milano 1 990, pp. 29-30. ' F . PESSOA, Il ritorno degli dèi. Opere di Antonio Mora, a cura di V. Russo, Quodli­ bet, Macerata 2005. 10 A . TABUCCHI e M . ]. DE LANCASTRE (a cura di) , f. Pessoa, Poesie di fernando Pessoa, Adelphi, Milano 2013, pp. 256-57 .

Ringraziamenti Questo libro deve molto ai seminari che, nel corso degli ultimi anni, ho avuto modo di svolgere con i miei studenti di Siena e di Berkeley. Percorrere insieme a loro gli intrecciati cammini del dio « muta-in-tutto » è stato sempre appassionante, oltre che proficuo. Licia Ferro, Mario Lentano e Gabriella Pironti hanno avuto la pazienza di leggere e discutere con me queste pagine, non solo mettendo in luce lacu­ ne ed errori, o dandomi suggerimenti importanti, ma aiutandomi a cambiare idea quando era necessario (una disposizione d'animo cara al dio Vertumno) . Adriana Romaldo, con l'abituale generosità, ha curato l'editing e la bi­ bliografia del libro. A tutti va il mio ringraziamento più affettuoso e sincero. Siena,

25

aprile 2 0 1 5

Capitolo primo Autobiografia di V ertumno

Diciamo subito che incontrare il dio, non in forma di barlume, ma per una vera conoscenza, in realtà non è difficile. Nel quarto libro delle Elegie di Properzio, infatti, il secondo componimento è dedicato interamente a Vertumno. La forma di questo poema è in verità poco consueta. Chi parla non è il poeta, ma direttamente il dio, o per meglio dire la sua statua, quella che sorgeva a Roma nel popolare Vicus Tuscus . Properzio non ha ritenuto necessario far precedere neppure da un verso l' autobiografia che Vertumno recita in prima persona. E certo l' allocuzione che ne costituisce l'inizio, decisamente ex abrupto, va subito al cuore del problema: Perché ti meravigli che in un sol corpo io abbia tante forme?

Eccoci di fronte a una statua che non solo parla, rivolgendosi a un interlocutore, ma invisibilmente si addita: mettendoci davanti agli occhi il singolare spettacolo di un'immagine che non possiede una sola/orma, un'unica identità o apparenza, ma tante. Basterebbe questo, credo, a suscitare l'immediata curiosità di chi legge. Come fa una sola statua ad avere in se stessa tante forme? E poi, chi sta parlando? L'immagine del dio, il dio stesso, oppure tutti e due? E se è cosf, che rapporto c'è fra il dio e la sua statua, insomma, chi è fra i due che dice veramente io? Le domande hanno già iniziato a moltiplicarsi, per cui sarà opportuno ascoltare anche il resto di quanto ha da dirci il Vertumno messo in scena da Properzio . Pur se sarà necessario premettere una breve avvertenza. I poeti romani infatti, anche quelli augustei, non praticavano certo il «parlato semplice », a volte troppo semplice, che caratteriz­ za la letteratura di oggi. I loro versi si snodavano lungo i cammini obbligati della metrica quantitativa - e come si potrebbe « parlare semplice » utilizzando unicamente vocaboli che rispettino un certo schema prosodico scartando tutti gli altri? Inoltre essi presuppone­ vano raffinate lezioni di stile, quelle della poesia latina dei secoli

AUTOBIOGRAFIA DI VERTUMNO

precedenti e, piu ancora, quelle della poesia greca. Properzio poi (il cui distico era già duro di suo) nel quarto libro delle Elegie si atteg­ gia a Callimaco romano, vuole essere arguto, enigmatico, allusivo come il suo modello. Né potevamo certo aspettarci che il poeta si fosse proposto di redigere, a nostro uso e consumo, una semplice voce di enciclopedia dal titolo: « Vertumno ». In una parola, l' au­ tobiografia che Properzio mette in bocca al dio non è affatto un testo semplice. Ecco perché intendiamo fornirne, almeno in pri­ ma battuta, non una traduzione dell'elegia - che abbiamo peraltro posto in Appendice' - ma una sua parafrasi: che fin da subito ne renda piu fluido il contenuto e possa meglio familiarizzare il lettore con il personaggio divino che ci occuperà nel resto di questo libro . Dopo aver attirato, e con tanta vivacità, l'attenzione dell'in­ terlocutore, il dio enuncia il proprio nome, Vertumno, e fornisce i suoi dati anagrafici: i suoi « segni paterni », come li chiama. In­ dica il proprio luogo di « origine » (ortus) , presentandosi come un Etrusco che ha abbandonato Volsinii al momento in cui lo scontro con i Romani portò alla distruzione della città [26 4 a . C . ] . Dopo di che passa a fornire informazioni sul suo presente domicilio, per dir cosi, ossia il Vicus Tuscus (piu sotto lo ripeterà esplicitamen­ te) : l' affollato quartiere di Roma da cui si poteva vedere il Foro e in cui si ergeva in effetti la statua del dio. Chiarita la propria ori­ gine e la propria attuale collocazione, Vertumno prosegue spiegan­ do al lettare/ascoltatore il perché del nome che porta, Vertumnus. A Roma la divinità spesso porta inscritta nel nome la propria fun­ zione, il proprio campo di pertinenza (piu avanti lo vedremo me­ glio) : nel mondo divino il nome proprio ha spesso un significato, cosa che con gli umani raramente avviene. Ecco perché Vertum­ no, per identificarsi come dio, ha bisogno di andare al di là della semplice enunciazione del proprio nome per fornirne l'etimologia. E anzi, ne fornisce ben tre. Dunque, racconta, tanto tempo fa questa parte del suolo citta­ dino era coperta dalle acque del Tevere, e da qui si poteva udire il tonfo dei remi; ma il dio ha fatto in modo che il fiume ritraesse le proprie acque « invertendo » il flusso della corrente (verso amne) : da ciò ha preso il nome di Vertumnus . Ed ecco la seconda etimo­ logia: poiché Vertumno è il dio che riceve offerte al « convertirsi » delle stagioni (vertentis [ . . . ] anni) per lui mutano colore i chicchi -

1 Cfr. infra, Appendice

r.

I4

CAPITOLO PRIMO

dell'uva, la spiga si gonfia, la mora rosseggia; e anche l'innestato­ re, colui che « inverte » la natura di un albero da frutta, gli porge le sue offerte - da tutto questo vertere o « variare » deriva il culto e il nome del dio (Vertumnus) . In realtà, continua però, queste sono solo chiacchiere, invenzioni bugiarde, guardatevene: la vera spie­ gazione del suo nome è un' altra e dovete credere solo al dio che ve la spiega. Vertumno è il dio della metamorfosi perfetta, lo si può « volgere » (verte) in tutto ciò che si vuole e sempre apparirà deco­ rus (appropriato, elegante) : per questo è Vertumno. A riprova di ciò il dio prosegue elencando ben diciassette forme differenti che egli ha la capacità di assumere in modo assolutamente compiuto: dalla fanciulla graziosa al soldato in armi, dal mietitore con la fal­ ce all' acrobata che balza da un cavallo all' altro, dal pescatore al pastore - Vertumno può prendere perfino le sembianze di un' al­ tra divinità, come Bacco o Apollo . Se c'è una cosa, continua però, che gli dà fama particolare, sono gli orti e i doni che ben figurano sorretti dalle sue mani. Il cetriolo, la zucca, il cavolo sono i suoi contrassegni, cosf come i fiori che gli vengono offerti e appassi­ scono sulla sua fronte. Ecco dunque perché, nella patria lingua, ebbe nome Vertumno: perché pur rimanendo uno sapeva volgersi (vertebar) in qualsiasi forma. Ribadita in questo modo la « vera » origine del proprio nome, il dio abbandona etimologie e metamorfosi per tornare a rievocare le sue passate esperienze. Siamo cosf trasportati al tempo di Romolo, quando Licomedio (un comandante etrusco?) con i suoi venne in aiuto dei Romani in lotta con i Sabini di Tito Tazio . In quella cir­ costanza il soccorso degli Etruschi fu molto apprezzato, racconta Vertumno, e per questo i Romani .dettero il nome di « Quartiere etrusco », Vicus Tuscus, al luogo in cui ora si trova la sua statua. Il dio afferma anzi di aver assistito personalmente a quella battaglia, egli aveva visto le schiere sabine sbandarsi e i dardi cadere inutili [ma che ci faceva H Vertumno? assisteva i suoi Etruschi? Ed era già statua o no?] . E dunque tu, Giove, conclude, fa' in modo che la folla dei cittadini romani (quella che frequenta il Vicus Tuscus) continui a passare davanti ai miei piedi! Con questa invocazione al Padre degli dèi l' allocuzione del dio si conclude, ma solo per lasciar posto a un ulteriore frammento - o versione? - della sua autobiografia: stavolta in forma di epi­ gramma. Mancano solo sei versi, esclama infatti Vertumno, sia­ mo giunti alla fine del carme e non voglio trattenere chi ha fretta di recarsi in tribunale! Ciò detto questo dio che sa benissimo di

AUTOBIOGRAFIA DI VERTUMNO

15

essere un'elegia, visto che ne conosce perfino la lunghezza, recita l'epigramma - invero piuttosto enigmatico - che reca inciso sul proprio basamento. La statua che vedi era già qui prima di Numa, il successore di Romolo [allora la sua statua era già lf, nel Vicus Tuscus, al tempo di Romolo: eppure sopra aveva detto di essere arrivato a Roma a seguito della caduta di Volsi· nii, nel 264 a.C.]: ma ero solo un tronco d'acero, sgrossato in fretta con la falce. Fu Mamurio (il mitico artefice di Roma) che mi lavorò in bronzo, e mi rese capace di prestarmi docilmente ai tanti usi che mi competono. Per questo possa la terra osca non consumare le sue mani d'artista! Una sola è l'opera che Mamurio ha realizzato, ma non è unica la lode che essa riceve.

C apitolo secondo L'identità distribuita degli antichi dèi

Può darsi che quanto stiamo per affermare risulti sconcertan­ te, soprattutto dato l' argomento di questo libro, però è bene dirlo subito: una divinità è qualcosa che non esiste. O perlomeno - per non incorrere nell' accusa di ateismo, come capitò a Teodoro di Ci­ rene - essa costituisce un' entità che non è dotata di un' effettiva e visibile presenza, alla maniera di un soggetto umano o naturale: essa non si mostra, non è li. Eppure, a dispetto della propria invi­ sibilità o inafferrabilità - anzi proprio in ragione di queste stesse caratteristiche - alla divinità viene attribuita una straordinaria ca­ pacità di interagire col mondo umano e naturale, superiore a quella di qualsiasi altro essere conosciuto. Tutto ciò fa di lei un soggetto assolutamente unico : inafferrabile e potente, essa è capace di sti­ molare come nient ' altro l'immaginazione. Nella rappresentazione culturale la divinità corrisponde dun­ que, in primo luogo, a una « agency » soprannaturale, diremmo noi moderni, u .. a presenza in sé non percepibile che, però, si ritiene possa interagire con la realtà modificandola a proprio piacimento . In questo stesso senso i Romani definivano la divinità come una vis « forza », un numen «potere divino » ovvero una vis numenque, com­ binando i due termini in un sintagma molto efficace. Come afferma Cicerone, «gli dèi non si offrono alla nostra vista, ma diffondono in lungo e in largo la propria vis»1• Nello stesso tempo, però, questa « agency » soprannaturale, ovvero vis che «non si offre alla nostra vista», va soggetta a un processo che gli studiosi hanno da tempo individuato come inevitabile: ad essa vengono attribuiti caratteri, in varia misura, di tipo umano . Come ha scritto Stewart Guthrie, «di fonte all'incertezza si scommette sulla possibilità piu significa­ tiva»: e quando si tratta di interpretare il mondo che ci circonda, 1

CICERONE,

men Alcis >>; ecc .

De divinatione,

I,

79; cfr. TACITO , Germania, 4 3 , 4 : « ea vis numini, no­

L ' IDENTITÀ DISTRIBUITA DEGLI ANTICHI DÈI

I7

la scommessa piu significativa, perché piu favorevole, consiste nel pensare che dietro a tutto ci siano entità in qualche modo simili a noF. Qualora le cose stiano effettivamente come si è scommesso, infatti, e si spera che sia cosi, gli umani non si troveranno ad ave­ re a che fare con forze sconosciute, o meglio inconoscibili, e dun­ que incontrollabili; ma con veri e propri interlocutori, capaci cioè di comunicare con loro . Gli uomini desiderano che nel mondo vi siano « forze » soprannaturali con cui sia possibile interagire - ma se si vogliono dèi che agiscano e operino, osservava già il Cotta di Cicerone, cioè che siano agentes et molientes, non è facile rappresen­ tarli in una forma diversa da quella umana3• Agentività e caratteri « humanlike » sono qualità che reciprocamente si presuppongono, e che si presentano congiunte alla mente. A questo punto, però, la natura di pura vis attribuita alla divi­ nità da un lato, e dall' altro il suo carattere « humanlike », entrano inevitabilmente in conflitto. In altre parole, ci si trova di fronte a un' entità rappresentata come « humanlike » che, però, è priva del tratto che prima di ogni altro caratterizza un interlocutore uma­ no: essa non dispone infatti di una identità, non esiste quel centro a cui fa invece capo il « chi è» della persona umana. La vis numen­ que è H, se ne postula la presenza in forma piu o meno umana, però la natura della sua identità resta al di là della conoscenza. Alme­ no a nostro giudizio, il problema si risolve nel modo seguente: in quanto priva di un proprio centro visibile o naturale, l'identità del dio o della dea, nella rappresentazione culturale, viene distribuita attraverso una quantità di contesti, azioni, parole, artefatti e cosi di seguito (cercheremo di essere piu precisi subito sotto) che tut­ ti insieme, o in combinazioni parziali, producono il « chi è» della divinità nella percezione diffusa. In altre parole è come se ciascu­ na vis divina nel suo risultare « humanlike » venisse provvista di un' identità non univoca, come generalmente accade agli umani, ma integrata: distribuita lungo una rete di metaforici fili che, tutti assieme, culminano nell'identità del dio4• Questi fili costituiscono altrettante esplicazioni della divinità. 2 s . GUTHRIE, Faces in the Clouds, Oxford University Press, New York - Oxford 1 993,

pp. 6 sgg.

> CICERONE, De natura deorum, r, 77: « Auxerunt autem haec eadem poetae, pictores, opifices; erat enim non facile agentes aliquid et molientes deos in aliarum formarum imi­ tatione servare ». • Sulla nozione di identità distribuita cfr. A. GELL, Art and Agency. An anthropological theory, Clarendon Press, Oxford 1998, in particolare pp. 2 2 1 sgg.

18

CAPITOLO SECONDO

Ricorriamo a questo termine perché preferiamo evitare quello, assai piu comune, di « manifestazioni » . Usandolo ridurremmo in­ fatti l'identità del dio alle sole occasioni in cui « si manifesta» sot­ to forma di apparizioni o di altri segni che ne rendono percepibile la presenza. Questo però non sarebbe sufficiente . Vi sono infatti numerosi contesti in cui la divinità esplica la propria identità senza che questo presupponga minimamente il suo manifestarsi. Anche a costo di produrci in un elenco, di seguito proveremo dunque a redigere un breve inventario delle possibili esplicazioni attraverso le quali - nella rappresentazione culturale - si realizza l'identità di un dio o di una dea. In primo luogo il nome attribuito a una divinità. Questo appel­ lativo personale costituisce infatti il principale strumento di iden­ tificazione per gli esseri umani', e quindi anche per quelli - « hu­ manlike » - che popolano il mondo divino: Iuppiter, !uno, Mars e cosi di seguito. Frequentemente inoltre i nomi divini sono accompagnati da epiteti - Iuppiter Stator, Feretrius, Latiaris . . . I uno Regina, Lucina, Sospita . . . Mars Pater, Gradivus, Ultor . . . - che producono un'ulteriore distribuzione dell'identità divina, molti­ plicandone o segmentandone la vis: tramite queste sfaccettature la divinità viene collegata a luoghi specifici, a funzioni e province di pertinenza differenti, a particolari eventi accaduti nel passato, a determinati culti e rituali6• In questo senso si crea anzi un col­ legamento fra la distribuzione onomastica dell'identità divina e quella topografica di cui parleremo subito sotto. A Roma, inoltre, la divinità riceve spesso nomi che, come già abbiamo detto, sono portatori di un significato, capaci di rendere direttamente espli­ cita la propria sfera di pertinenza: come nel caso di Bubona « dea dei buoi », Segetia « dea delle messi » o Mercurius « dio della mer­ catura ». Attraverso il nome che porta, un dio o una dea esplicano dunque la propria identità distribuendola nella dimensione - for­ temente sociale - del linguaggio . Oltre al nome, alla distribuzione dell'identità divina contribui­ scono poi le immagini che di una certa divinità sono state create nel corso del tempo, tanto da conferirle un'iconografia che la ren­ de generalmente riconoscibile: Iuppiter uomo adulto, vigoroso, ' Come dice CICERONE, De inventione, x , 34: « Nomen est, quod unicuique personae datur, qua suo quaeque proprio et certo vocabulo appellatur ». 6 N . BELAYCHE, lntroduction, in N . BELAYCHE, P. BRULÉ , G . FREYBURGER, Y : LEHMANN, L. PERNOT e F . PROST (a cura di) , Nommer /es dieux. Théonymes, épithètes, épiclèses dans /'An­ tiquité, Presses Universitaires de Rennes - Brepols, Rennes-Turnhout 2005, pp. 2 I I sgg.

L ' IDENTITÀ DISTRIBUITA DEGLI ANTICHI DÈI

I9

barbuto; !uno Sospita con le scarpe dalla punta rovesciata verso l'alto, un piccolo scudo rotondo, una lancia. Ecco dunque un' altra importante area di distribuzione, quella visuale, in cui la divinità esplica la propria identità. Se dalla dimensione visuale passiamo poi a quella narrativa, incontriamo una terza esplicazione dell'i­ dentità divina, nella forma dei racconti mitologici di cui essa è in varia misura protagonista. Si tratta di fabulae, come le chiamava­ no i Romani, create nel corso del tempo dalla tradizione poetica, che facendo della divinità un personaggio, un agente narrativo, costruiscono intorno ad essa non solo una serie di vicende che ne richiamano la presenza, ma anche una quantità di tratti fisici, psi­ cologici, di carattere, che fortemente contribuiscono a definirne l'identità: !uno, nemica dei Troiani e adirata con il fratello/marito Iuppiter per la sua indulgenza nei loro confronti; Marte che; vio­ lentando Rea Silvia, dà origine alla « marziale » stirpe dei Roma­ ni; luppiter che, a seguito di alcune battute scambiate con Numa, è costretto a escludere il sacrificio umano dalla pratica religiosa. Nella propria distribuzione narrativa l'identità divina si esplica sotto la forma di un prodotto dell' immaginario, parola organizza­ ta che circola dalla bocca all'orecchio, dalla recitazione alla pagina scritta, entrando cosi a far parte della consapevolezza comune in­ torno a un certo dio. Alle fabulae dei poeti potremmo anzi aggiun­ gere le speculazioni che i filosofi elaborano attorno agli dèi, benché la circolazione ne fosse limitata a un novero assai piu selezionato e ristretto di utenti. Si tratta di una teologia che spesso consiste nella produzione di nuovi racconti - stavolta physici, eruditi - che vedevano protagonisti i vari dèi. Cosi per esempio allorché ci viene spiegato che Saturno - chiamato in questo modo (Saturnus) per­ ché « saturo di anni » - divora i figli in quanto il Tempo, nel suo passare, consuma i propri spazi; e viene legato da Giove affinché il suo correre non sia smodato, ma sia trattenuto dai legami delle stelle7 • Allegorie che assumono inevitabilmente forma narrativa. In questo elenco di esplicazioni, attraverso le quali si distri­ buisce l'identità divina, non possiamo poi trascurare le manife­ stazioni di un dio, sotto forma di apparizioni, visioni o comunque segni che lascino intuire il suo esserci. Fra esse ci paiono anzi di particolare interesse quelle a carattere sonoro, quando si afferma cioè di aver udito voci che vengono in qualche modo ricondotte a una fonte divina: come nel caso delle parole che !uno avrebbe 1 CICERONE,

De natura deorum,

2,

64.

20

CAPITOLO SECONDO

pronunziato per avvertire i Romani, asserragliati nel Campidoglio, allorché i Galli stavano per attaccarlo8; o quando vengono messe in campo delle statue parlanti'. La voce articolata è un attributo specificamente umano, che come tale contribuisce (come il nome) a conferire alla divinità caratteri « humanlike ». Allorché la divi­ nità si manifestava in qualche forma i Romani dicevano che essa era praesens, non però nel senso, come vorrebbe una traduzione superficiale, che essa è « lf presente ». L' essere praesens di un dio significa che esso è effettivamente in azione, a capo di una catena di avvenimenti che da lui prendono impulso . Praesentes saepe di vim suam declarant « spesso gli dèi praesentes manifestano la pro­ pria vis», dice Cicerone : come accadde allorché C astore e Polluce furono visti al lago Regillo combattere fianco a fianco con i Ro­ mani . Quanto a Ovidio, se considera le Muse praesentia numina è perché le dee ispirano i poeti, mentre Plinio definisce Clitumnus praesens deus poiché le sue sortes, il suo oracolo, sono attive : il dio è /atidicus, rivela il futuro10• A queste varie esplicazioni dell' identità divina va aggiunta inoltre quella che si realizza attraverso le connessioni stabilite fra un dio o una dea e determinati giorni dell' anno, secondo il prin­ cipio del calendario: in part icolare mettendo in evidenza il giorno in cui (come si usava dire) una determinata divinità « era nata », intendendo con questa formula il giorno in cui il suo culto era sta­ to ufficialmente stabilito" . Nella definizione dell'identità divina dobbiamo dunque mettere in conto anche l'importanza della di­ mensione temporale e calendariale. Segue poi - ma non certo in ordine di importanza - il repertorio di pratiche e di formule che i sacerdoti utilizzano nei rituali religiosi. Quando movimenti, gesti, parole, profumi e silenzi, nel mentre celebrano e onorano la divi­ nità, concorrono anche a identificarla per quella che è, stabilendo con essa un fondamentale rapporto di interazione religiosa: in par• ID . , De divinatione, I, I O I -2, 69; Scholia vetera a GIOVENALE, Saturae, I I , I I I e Scholia a LUCANO, Pharsalia, I , 38 ( P . WESSNER, Scholia in Iuvenalem vetustiora, Teubner, Stuttgart I 967 , ed. or. Teubner, Leipzig I 93 I ; H. USENER, Scholia in Lucani bellum civile, Olms, Hil­ desheim I 967 , ed. or. Teubner, Leipzig I 869) . • La luna di Vei: PLUTARCO, Camillus, 6; cfr. LIVIO, Ab urbe condita, 5, 2 2 , 4 (che di­ ce in realtà una cosa diversa da quella che Plutarco gli attribuisce); la statua della Fortu­ na: DIONIGI DI ALICARNASSO, Antiquitates romanae, 8, 56: cfr. VALERIO MASSIMO, factorum et dictorum memorabilium, I , 8, 4· 1° CICERONE, De natura deorum, 2, 5-6; OVIDIO, Metamorphoses, I 5, 62 2; PUNIO IL GIOVANE, Epistu/ae, 8, 8, 5· Cfr. A. DUBOURDIEU, Voir /es dieux à Rome, in D. FABIANO e F. BORGEAUD (a cura di) , Perception et construction du divin dans l'antiquité, Droz, Genève 20 I 3 , pp. I 9-34· 11 Cfr. OVIDIO, Fastorum libri, 3, 8 I 9 sgg.

L ' IDENTITÀ DISTRIBUITA DEGLI ANTICHI DÈI

2I

ticolare attraverso l'interlocuzione, allorché al dio o alla dea viene attribuita la dimensione linguistica del « tu » . In questa prospettiva un dio o una dea esplicano la propria identità distribuendola nella dimensione propriamente cultuale, quella che peraltro tende spesso a organizzare anche le altre, costituendone il connettivo . Nome, immagini, racconti, speculazioni teologiche, calendario possono in­ fatti trovare nella celebrazione rituale una sede privilegiata in cui articolarsi fra loro; ed è ancora in quei momenti che la divinità si manifesta, facendosi praesens: almeno nel senso che viene stabili­ ta con lei una comunicazione12• A tutte le varie esplicazioni dell'i­ dentità divina è infine necessario restituire anche una dimensione spaziale, perché nomi, manifestazioni, immagini, racconti, calen­ dario, formule e rituali rimandano necessariamente anche a un in­ sieme di luoghi a cui ciascuna di queste esplicazioni si richiama o da cui è richiamata. L'identità di una divinità dispone insomma anche di una propria distribuzione topografica, che dà significato divino, e nello stesso tempo ne riceve, a edifici sacri o luoghi co­ munque di carattere religioso. Chiudiamo qui il nostro elenco, non intendevamo certo esse­ re esaustivi. Ciò che ci interessava era semplicemente mettere in evidenza il fatto che, quando si parla di una divinità, non si sa bene di cosa si parla; o meglio, che sarebbe opportuno restare in ogni caso consapevoli del fatto che la sua identità - il dire « chi è » a proposito di u n dio - corrisponde comunque a u n processo can­ giante, distribuito, tale da presupporre un ventaglio di esplicazioni che occupa svariati registri di una cultura: da quello visuale delle effigies a quello uditivo o immaginario del racconto; dalla pagina scritta alla formula recitata; dal prodigium, al ristabilimento o al­ la conservazione dell'ordine naturale; dal gesto del sacerdote al profumo dell'incenso che brucia; dal sacello costruito in onore del dio al bosco dove si racconta che una volta si sarebbe udita la sua voce . Vale anzi la pena di aggiungere che a queste diverse esplica­ zioni dell'identità divina si fa ricorso quando si intende produrre l' interpretatio di un dio straniero: ossia la sua assimilazione/iden­ tificazione con un dio proprio sulla base di caratteri che si riten­ gono comuni alle due divinità in gioco. Di volta in volta, infatti, le singole interpretationes vengono fondate sulla esplicazione della 12 In questo senso è interessante quanto dice ARNO BIO, Adversus nationes, 6, 4· 1 , dan· do voce a un cultore della religione tradizionale: durante il culto che si svolge nei templi, « cum praesentibus [diis] quodammodo venerationum conloquia miscere ».

22

CAPITOLO SECONDO

divinità in quanto vis (gli Alci germanici interpretati come i Dio­ scuri in quanto, appunto, esercitano la medesima vis), in quanto immagine (Serapide interpretato come luppiter per gli attributi che caratterizzano la sua immagine) , in quanto oggetto di pratiche cultuali (Mater Matuta interpretata come Leucothea in base agli hierd dr6mena, il rituale secondo cui viene onorata) , in quanto ca­ ratterizzata topograficamente (i Penates identificati come Muchioi per la loro pertinenza domestica) e cosf di seguitou. Né bisogna credere che le varie esplicazioni dell'identità divina si armonizzi­ no tutte fra loro, tantomeno che ogni divinità ne sia provvista in egual misura. Al contrario, accade spesso che esplicazioni diverse della medesima identità divina entrino in conflitto, come accade per esempio quando i teologi o i filosofi respingono i racconti mi­ tologici relativi agli dèi perché indegni di essi; o in tutti quei ca­ si in cui le relazioni stabilite fra divinità nella forma cultuale non corrispondono a quelle che emergono dalle fabulae14• Ora, quanto abbiamo detto fin qui ha una certa rilevanza nell'a­ prirci la strada verso una migliore conoscenza del dio che ci inte­ ressa; e soprattutto nell' aiutarci a superare gli ostacoli che potre­ mo incontrare. Di che cosa parleremo, infatti, quando metteremo Vertumno al centro della nostra riflessione? Altrimenti detto chi è per noi Vertumno, qual è la sua identità? Appunto un insieme di esplicazioni, come le abbiamo definite. In primo luogo un nome, che vedremo essere particolarmente significativo nel rivelarci quali erano le sfere di pertinenza proprie di questa divinità; poi un'im­ magine, una statua del dio, che però non potremo vedere con i no­ stri occhi, ma solo immaginare o congetturare attraverso le parole " M. BE'ITINI, Interpreta/io romana: categoria o congettura?, in ID . , Dèi e uomini nella città. Antropologia, cultura e religione romana, Carocci, Roma 20I j. 14 Secondo AGOSTINO, De civitate dei, 6, 5, Varrone ( Antiquitates rerum divinarum, fr. 7 Cardauns: B . CARDAUNS, Marcus Terentius Vanv: Antiquitates rerum divinarum, vol. l, Franz Steiner Verlag, Wiesbaden, I 976) avrebbe distinto tre genera di theo/ogia: mythicon, physicon e civile; ancora AGOSTINO, De civitate dei, 4, 27, attribuiva un'analoga distinzione a Scevola augure ( CARDAUNS, Marcus Terentius Vanv: Antiquitates rerum divinarum cit,. pp. I8·I9): cfr. N . BELAYCHE, Re/igions de Rome et du monde romain, in « Annuaire de l'Ecole pratique des hautes études, Section de Sciences religieuses », CXVI, 2007·2oo8, pp. I 6 I ­ I 69. A Roma v i sono inoltre molti dèi e dee l a cui identità (almeno per quel che n e sappia­ mo) non ha mai trovato modo di esplicarsi nelle fa bulae , benché fossero al contrario divi­ nità ben presenti nel rituale; cosi come ve ne sono altre di cui parlano i poeti (come Lara, la madre dei Lares) delle quali stentiamo a capire se si fossero davvero esplicate anche in altre forme; allo stesso titolo ve n'erano infine che, già per i Romani, erano diventate scar­ samente identificabili, come Vacuna, divinità la cui incerta species invitava alcuni a identi­ ficarla con Bellona, altri con Minerva, altri ancora con Diana ( PORFIRIONE, Commentarius in Horatii epistulas, I , IO, 49) ; e cosi di seguito. =

L ' IDENTITÀ DISTRIBUITA DEGLI ANTICHI DÈI

di un poeta, Properzio: in questo senso l'esplicazione visuale dell'i­ dentità di Vertumno sconfina dunque in quella narrativa, e non do­ vremo dimenticarlo. Peraltro disponiamo anche di una esplicazio­ ne narrativa vera e propria della sua identità, una fabula narrata da Ovidio, verso la fine delle Metamorfosi, che come già sappiamo vede il dio protagonista di una storia d' amore con Pomona. Soprat­ tutto ci verrà data la possibilità di conoscere la sua vis attraverso la descrizione degli effetti che· essa è in grado di provocare in sfe­ re differenti della natura e dell'esperienza umana. Purtroppo non avremo a disposizione formule o rituali specificamente dedicati a Vertumno, ma ci sarà possibile osservare da vicino almeno qual­ che offerta che gli era tipicamente indirizzata; mentre la distribu­ zione topografica della sua identità potremo articolarla in almeno tre luoghi significativi: la città di Volsinii in Etruria, l'Aventino e il Vicus Tuscus (con gli spazi adiacenti) a Roma.

C apitolo terzo Vertumno: origine, cittadinanza, nazionalità

Riprendiamo dunque il nostro discorso dall'inizio dell' autobio­ grafia divina, con quei signa paterna - « segni paterni » - che Ver­ tumno intende fornire al lettore/passante: Perché ti meravigli che in un sol corpo io abbia tante forme? Apprendi i segni paterni (signa paterna) del dio Vertumno' .

Cerchiamo dunque di capire che cosa bisogna intendere, esat­ tamente, con questa espressione . r.

I «signa paterna» .

Come abbiamo già visto, dopo tale dichiarazione Vertumno for­ nisce informazioni relative al proprio luogo di origine (l'Etruria, Volsinii) , seguite dall'indicazione della sua attuale residenza (Vicus Tuscus) e infine dalle ragioni del suo nome (le varie etimologie) , con la conseguente descrizione dei propri campi di pertinenza e dei poteri che caratterizzano il suo essere dio. I signa paterna si ri­ feriscono dunque a una sorta di «record » biografico relativo alla persona di Vertumno, che come tale rassomiglia molto a quelli che si incontrano nelle iscrizioni funebri, e di cui vi sono esempi nello stesso Properzio2• Tanto piu che queste informazioni sono prece­ dute da un' allocuzione rivolta a qualcuno (un passante, un letto­ re) che si vuole mettere a parte della propria identità, cosi come 1 PROPERZIO, Elegiae, 4 2, 1 - 2 : « quid mirare meas tot in uno corpore formas? l ac­ cipe Vertumni signa paterna dei ». Sulla condizione testuale del secondo verso, tutt'altro che chiara, vedi l'accurata discussione in F . BOLDRER, L 'elegia di Vertumno (Proper:r.io 4· 2 ) , Hakkert, Amsterdam 1 999, a d loc. 2 T. A . SUITS, The Vertumnus elegy of Propertius, in « Transactions and Proceedings of the American Philological Association», C , 1 969, pp. 475-86, ricorda giustamente 1, 2 2 , 1-2 e 9·10: « Qualis e t unde genus, qui mihi sint, Tulle, Penates, l quaeris [ . ] proxima sup­ posito contingens Umbria campo l me genuit terris fertilis uberibus». •.

.

.

VERTUMNO : ORIGINE, CITTADINANZA, NAZIONALITÀ

25

avviene nelle epigrafi incise su una tomba. Ma perché la statua, per definire il proprio « record », parla di signa come se fossero dei « segni » da interpretare o da riconoscere? In realtà il modo in cui Vertumno si esprime in questa circostanza, ci offre subito la pos­ sibilità di affrontare un problema antropologico di grande interes­ se: in che modo si definisce l'identità di qualcuno in una società che - come quella antica - non conosce né fotografie né impronte digitali, tantomeno carte di identità o registri anagrafici? In un contesto del genere il processo di identificazione assu­ me di necessità una declinazione fortemente inferenziale: non si può che procedere traendo conclusioni, anzi deduzioni, da un de­ terminato insieme di fatti o informazioni. In altre parole, a meno che non vi sia una conoscenza pregressa, o qualcuno capace di ga­ rantire autorevolmente « chi è chi », per stabilire l'identità di uno sconosciuto occorre necessariamente procedere attraverso segni. Raggiungere la notitia o la cognitio di una persona (cosf i Romani definivano ciò che noi chiamiamo oggi identità)3 implicava per l' ap­ punto un processo di riconoscimento operato sulla base di segni. Gli elementi concreti che entravano in gioco, in una situazione del genere, potevano andare dalla tessera hospitalis (l'oggetto d'osso, segato in due metà, il cui ricongiungimento dimostrava la recipro­ ca consuetudine fra due gruppi o persone) ai segni corporei, nèi, cicatrici o colore dei capelli; mentre il confronto delle memorie, delle coincidenze, dei nomi, apriva un campo tanto vasto, quan­ to spesso ingannevole, alla creazione di prove dedotte appunto per via di segni4• Inutile dire che la componente inferenziale di tali processi risultava tanto piu accentuata quanto piu l' accerta­ mento dell'identità si presentava incerto o difficile. In circostan­ ze del genere, infatti, occorreva ricostruire, o costruire, l'identità di qualcuno servendosi soprattutto di indizi e argomenti da essi dedotti. Vediamo qualche caso piu vicino a quello che ci riguarda. Verso la fine dei Menaechmi di Plauto lo schiavo Messenione procede a un vero e proprio accertamento di identità, sottopo­ nendo a un serrato interrogatorio i due gemelli, Menecmo I e Me' Cfr. M . BETTINI, Guardarsi in faccia a Roma, in ID . , Le orecchie di Hermes, Einau­ di, Torino 2ooo, pp. 3 1 4-56. I Romani non possedevano un termine equivalente al nostro « identità»: la parola identillls comincia a essere usata solo nella tarda antichità, nel dibatti­ to teologico a proposito delle due nature di Cristo: ID . , ]e est /'autre? Sur !es traces du double dans la culture ancienne, Belin, Paris 20 1 2 , pp. 85 sgg. 4 G. MANETTI, Semiotica, in M. BETTINI e W. M. SHORT (a cura di), Con i Romani. Un'an­ tropologia del mondo antico, il Mulino, Bologna 2014, pp . 303-28, in particolare pp. 303-4.

CAPITOLO TERZO

necmo II (che porta il nome di Sosicle) : la loro perfetta rassomi­ glianza, infatti, fino a questo momento ha prodotto una girandola di equivoci e scambi di persona. Lo schiavo intende chiarire una volta per tutte il rapporto che intercorre fra i due giovani, i quali finora ignoravano la loro reciproca esistenza né, tantomeno, sape­ vano di essere fratelli: (a Menecmo) Ti chiami Menecmo? Si. E anche tu ti chiami in questo modo? MESSENIONE (a Sosicle) SOSICLE Si. MESSENIONE (a Menecmo) Dici che tuo padre si chiamava Mosco? MENECMO Proprio cosi. SOSICLE Anche il mio si chiamava cosi! MESSENIONE (a Menecmo) E sei di Siracusa? MENECMO Certo. MESSENIONE (a Sosicle) E tu? sosiCLE Come potrei non esserlo? MESSENIONE Fino a questo punto i signa concordano perfettamente'. MESSENIONE MENECMO

Come si vede, ciò che Messenione definisce signa sono per l' ap­ punto le indicazioni relative al nome della persona, a quello di suo padre e al suo luogo di nascita. Si tratta cioè di segni che fanno identità, che permettono di identificare qualcuno attraverso no­ me, paternità e luogo di nascita - indicazioni della stessa natura di quelle che Vertumno fornisce subito dopo aver comunicato a chi legge l'intenzione di metterlo a parte dei propri signa paterna . Nel caso dei Menecmi è naturale che l' accertamento dell'identità si presenti in una forma particolarmente inferenziale: a sapere « chi è chi » si può arrivare solo recuperando segni da interpretare, non vi è altro modo . Prima di continuare, però, sarà opportuno spostar­ ci brevemente in una dimensione testuale che, come abbiamo già detto sopra, si presenta assai prossima a quella occupata dall' auto­ biografia del nostro dio/statua: l'epigrafe funeraria. Per accertare l'identità di un defunto - per conoscerne la vita o la storia - non vi è altra via se non. passare attraverso le parole che stanno incise sulla sua tomba (se ci sono) : egli non può parlare per sé, dichiarare il proprio nome o la propria origine, mentre le persone capaci di identificarlo spariscono man mano col trascorrere del tempo. Tutto quanto si può sapere di un defunto non può che essere dedotto attraverso l'iscrizione che reca la sua tomba, non vi ' PLAUTO, Menaechmi, r 1 07 sgg. Si veda la bella analisi di SUITS, The Vertumnus elegy o/ Propertius ci t . , in particolare pp. 48 r -82 e nota 24.

VERTUMNO : ORIGINE, CITTADINANZA, NAZIONALITÀ

27

è altro possibile strumento di cognitio o di notitia . È questo forse il motivo per cui, in alcuni casi, nelle iscrizioni funebri viene defini­ to signum addirittura il nome di chi giace: « di nome (signa) faccio Delmatius, da Laetus che mi chiamavo prima », recita una di que­ ste'. Mentre un altro componimento, piu giocoso, prima riferisce età, costumi, occupazione ecc . del defunto, poi, negli ultimi due esametri, conclude: « se vuoi scoprire il nome (signum) che avevo quand'ero in vita, scegli le prime lettere degli otto versi »7• In que­ sto caso cioè il nome/signum del defunto corrisponde alla parola che si può ricavare combinando in verticale, ossia in acrostico, ciascu­ na delle lettere con cui cominciano i singoli versi dell'epigramma: Macharius. Altre volte il processo di identificazione in campo fu­ nerario viene definito con un altro termine ugualmente semiotico, ossia indicium. Cosi è in questo epigramma inciso, a Pozzuoli, sul­ la tomba di una sposa morta a soli sedici anni, Cocceia Thallusa: Tu che leggi questa iscrizione (titulum) , perché desideri conoscere chi io sia stata, di chi fossi la moglie o la liberta, e quanti anni ho vissuto? Di certo avrai pena, se lo saprai. Perciò, perché tu non ti dolga, ti prego, ascolta: tutto finisce con la vita e tutto si fa vano. E poiché, ospite, ognuno è persuaso di questo, cioè che a un'iscrizione si affidino gli indicia vitae, non ti sia grave, ti prego, conoscere brevemente quali incerti eventi ho sopportato, e quanto sciagurato sia, per chi nasce, il desiderio di voler procedere oltre nel tempo•.

A questa dichiarazione Cocceia Thallusa fa seguire un sommario racconto della sua breve esistenza, i suoi indicia vitae, come li ha definiti: il matrimonio a soli tredici anni, il tempo felice, che du­ rò un po' meno di tre anni, la data della sua morte. Inutile sottoli­ neare come anche indicium, alla maniera di signum, sia un termine che rivela il carattere semiotico, inferenziale, della determinazione di identità. La defunta chiede che da quei pochi frammenti della sua esistenza il passante possa inferire, farsi un'idea di quale sia stata la vita che ha vissuto. Non ha modo di dire di piu - lo spazio di un epigramma funebre è quello che è - ma anche da questi po­ chi indicia vitae il passante potrà farsi un'idea di chi fu la giovane donna che giace ora là sotto. 6 Carmina Latina epigraphica, 2 56, 5 Buecheler: « Delmatius signa, prisco de nomi­ ne Laetus». 7 Carmina Latina epigraphica, 1 8 1 , 4 - 5 Buecheler: « Ut signum invenias, quod erat dum vita maneret l selige litterulas primas e versibus octo » . 8 Carmina Latina epigraphica, 4 2 0 , 6-7 Buecheler. Sull'uso d i indicium in relazione all'identità - e in generale sul problema di inferirla attraverso signa - rimandiamo a M . LENTANO, La prova del sangue. Storie di identità e storie di legittimità nella cultura latina, il Mulino, Bologna 2007, pp . 7 7- I O I .

CAPITOLO TERZO

28

Anche Vertumno, però, si trova in una situazione non dissimile da quella di Cocceia Thallusa. Non dimentichiamo che chi parla è una statua, la quale in qualche modo allude al fatto che quanto sta dicendo corrisponde a un'iscrizione che reca sul proprio basamen­ to . Ne parleremo meglio piu avanti. Dunque anche la sua identità - tutto ciò che il dio è o significa - non può che essere conosciu­ ta attraverso i signa che le parole del dio/statua sono in grado di comunicare al lettore/passante: e che costui - come del resto noi stessi stiamo facendo - dovrà preoccuparsi di interpretare per far­ si un'idea di chi Vertumno sia. Il personaggio che si rivolge a noi attraverso le parole del poeta - Vertumno - è ben consapevole di essere uno sconosciuto per l'interlocutore, dal quale deve farsi co­ noscere. Per raggiungere questo scopo egli si appella perciò a un processo di identificazione progressiva, fondato su elementi bio­ grafici (l'origine etrusca, Volsinii, l' abbandono di questa città per Roma, la sua presenza nel Vicus Tuscus . . . ) destinati man mano a ricomporne il quadro complessivo. Per questo definisce signa tali riferimenti: perché enunciandoli egli intende fornire a chi lo ascol­ ta, ovvero a chi lo legge, la possibilità di farsi conoscere attraverso di essi - che è appunto la funzione svolta da un signum . Allo stes­ so modo poco piu oltre, quando si tratterà di spiegare le ragioni del proprio nome, il dio definirà index l'etimologia che ne rende conto'. Si tratta nuovamente di rivelare, attraverso segni o indizi, qual è l'identità di colui che ci sta parlando: attraverso l'etimolo­ gia/index il dio rivela un ulteriore tassello della propria identità. Il fatto è che tutta l' autobiografia di Vertumno è costruita secondo un paradigma a carattere semiotico: il dio si rivela progressivamen­ te a noi presentandosi attraverso signa, indices e a un certo pun­ to - come vedremo - anche attraverso il processo del notare, os­ sia marcare attraverso segni codificati. Né dobbiamo dimenticare la costruzione alquanto enigmatica che caratterizza l' epigramma con cui la sua autobiografia si conclude. Sono quattro versi da cui il lettore dovrà - ancora una volta - inferire che, colui il quale gli sta parlando, è a tutti gli effetti una statua: e quanto sta leggendo (cioè ascoltando) nel finale dell'elegia sta in realtà scritto sul suo basamento. Se il componimento di Properzio ha un fascino, e ce l'ha, crediamo che la scelta di costruirlo a questo modo - come '

pp.

Elegiae, 4 , 2 , 19: > .

VERTUMNO : ORIGINE, CITTADINANZA, NAZIONALITÀ

41

« Prima di Numa » non può che significare al tempo in cui a Ro­ ma regnava Romolo: ossia nello stesso lasso di tempo in cui ebbe luogo il fatidico scontro fra Romani e Sabini che portò, come sap­ piamo, alla fusione fra i due popoli e all' accoglimento contestuale degli Etruschi. A questo punto, però, le cose sembrano tornare a complicarsi. 6.

Vertumno il Sabino ?

Lo stesso Varrone che definisce Vertumno «dio principe dell'E­ truria », infatti, altrove parla di lui come un dio legato ai Sabini. Si tratta di un passaggio in cui l' autore afferma che divinità come Feronia, Minerva, gli dèi Novensides, Pales, Vesta, Salus e cosf di seguito, vengono dai Sabini. Dopo di che aggiunge quanto segue: odorano di lingua dei Sabini anche gli altari che furono dedicati a Roma in seguito al voto del re Tazio : infatti, come dicono gli Anna/es, ne votò a Opis, a Flora, a Vediovis e Saturno, al Sole, alla Luna, a Vulcano e Summano, e pa­ rimenti a Larunda, Terminus, Quirino, Vertumno, i Lares, Diana e Lucina. Fra i nomi di queste divinità parecchi hanno le proprie radici in entrambe le lingue [latina e sabina] , come gli alberi che, nati sul confine, [hanno radici che] serpeggiano in entrambi gli appezzamenti. Infatti è possibile che Sa tur­ no sia chiamato cosi a Roma in base a ragioni diverse (de alia causa) da quelle per cui lo è fra i S abini, e cosi pure Diana, dei quali abbiamo detto sopra42 •

Anche lo storico Dionigi di Alicarnasso ci dà informazioni simili, raccontando che, dopo lo scontro, sia Tazio che Romolo consacrarono « templi e altari » a vari dèi: Romolo in particolare a luppiter Stator (Zéus Orth6sios) , per ringraziarlo di aver arrestato la fuga dei suoi; Tazio a una serie di divinità che in buona parte corrispondono a quelle elencate da V arrone: Hélios (Sole) , Seléne 42 VARRONE, De lingua latina, 5, 7 4 : « Feronia, Minerva, Novensides a Sabinis. Pau­ lo aliter ab eisdem dicimus haec: Palem, Vestam, Salutem, Fortunam, Fontem, Fidem. Et arae Sabinum [= Sabinorum] linguam olent, quae Tati regis voto sunt Romae dedicatae: nam, ut annales dicunt, vovit Opi, Florae, Vediovi Saturnoque, Soli, Lunae, Volcano et Summano, itemque Larundae, Termino, Quirino, Vortumno, Laribus, Dianae Lucinae­ que; e quis nonnulla nomina in utraque lingua habent radices, ut arbores quae in confinio natae in utroque agro serpunt: potest enim Saturnus hic de alia causa esse dictus atque in Sabinis, et sic Diana, de quibus supra dictum est » . Come spesso accade con quest'opera di Varrone, il testo è incerto. Il manoscritto legge Ea re, corretto in et arae da Miiller. Mante­ nere il testo tradito, come intendeva fare o . TERROSI ZANCO, VaiTOne LL V, 74: divinità sa­ bine o divinità etrusche?, in « Studi Classici e Orientali », X, 1 � 1 , pp. x 88-zo8, è difficile: da chi dipenderebbe infatti quel quae [ . . ] dedicatae? Non certo dall'haec della frase prece­ dente, pronome neutro. L'articolo è comunque interessante per il problema dell'apparte­ nenza etnica di queste divinità. .

CAPITOLO TERZO

(Luna) , Kr6nos (Saturno) , Rhéa (Qpis), Hestia (Vesta: assente in Varrone) , Héphaistos (Vulcano) , Artemis (Diana) , Enudlios (Mar­ te: assente in Varrone) «e ad altri dèi di cui è difficile esprimere i nomi in lingua greca». Possiamo forse immaginare che Vertumno - assieme a Larunda, Terminus, Quirino e qualche altra divinità fra quelle nominate da V arrone ma taciute da Dionigi - facesse parte del gruppo difficilmente traducibile, ovvero « interpretabi­ le », nella lingua dei Greci4'. Il piu grande erudito di Roma sembra dunque fornirci due testimonianze contrastanti: da un lato infatti afferma che Vertumno era il dio principe dell'Etruria; dall' altro che Tazio, il nemico dei Romani e degli Etruschi, aveva votato un' ara proprio a lui44• Non possiamo neppure escludere che Var­ rone includesse anche Vertumno fra le divinità i cui nomi hanno « radici » che « serpeggiano » fra latino e sabino, visto che non in­ dica esplicitamente quali sono . Ancora una volta, però, la contraddizione che presumiamo di vedere deriva piu dalle nostre categorie culturali, poco a loro agio se applicate alla religione antica, che non dalle testimonianze che i Romani ci forniscono a proposito della loro cultura. Come nel caso di Voltumna/Vertumnus, il rischio consiste nel valutare le divinità del politeismo antico in termini strettamente etnici, co­ me se ciascun popolo non potesse che avere i propri dèi: divinità esclusive, come quelle dei monoteismi, che come tali distinguono rigidamente un gruppo dall' altro in termini di appartenenza divi­ na. Al contrario nel mondo antico, specie in aree geografiche cosi contigue e ristrette come il Lazio di cui stiamo parlando, le varie popolazioni potevano condividere le stesse divinità, o �omunque onorare divinità facilmente assimilabili l'una all' altra. E lo stesso V arrone, nel brano che abbiamo appena letto, a spiegarcelo in un modo che non potrebbe essere piu chiaro . Molti dèi, dice infat­ ti, potevano avere nomi le cui radici « serpeggiavano » all'interno dell'una e dell' altra lingua, creando cosi una condivisione del di­ vino che in ciascun ambito culturale si presentava dunque simile - ma nello stesso tempo diversa. A Roma, infatti, Saturno poteva avere lo stesso nome che ha in Sabina, cioè appunto Saturno, però (come dice ancora V arrone) de alia causa : ossia poteva rinviare a competenze, significati e motivazioni culturali diverse in ciascuna 4' DIONIGI DI AUCARNASSO, Antiquitates Romanae, 2, 50, 3; BETTINI, lnterpretatio Ro· mana ci t. 44 Varrone comunque non dice che il culto di Vertumno fu «introdotto » a Roma da Ti­ to Tazio (cosf FERRI, Tutela urbis cit . , p. 1 35), ma solo che il re sabino gli dedicò un altare.

VERTUMNO : ORIGINE, CITTADINANZA, NAZIONALITÀ

43

delle due popolazioni4' . Quanto alle divinità romane da lui indi­ cate come di provenienza sabina, non sorprende scoprire che es­ se erano comuni non solo a questi due popoli nia, almeno alcune, anche agli Etruschi: cosi nel caso di Feronia, Minerva, Fortuna, Saturno, Vulcano e altre46• Per quanto riguarda il nostro Vertum­ no, dunque, nessuna meraviglia che questo dio, venerato a Roma, ci venga contemporaneamente descritto da un lato come etrusco e dall' altro come onorato dai Sabini, o almeno da Tazio: e che il suo nome potesse (eventualmente) emanare anche un qualche >; cfr. C IL, vol. Xl, pp. 944, 8o8 2 ; ecc.

GLI DÈI PLURALI

99

già Plauto aveva fatto dire a uno dei suoi personaggi (uno schiavet­ to latore di buone notizie alle sue padrone) : amoenitates omnium Venerum et Venustatum ad/ero, « porto la gioia di tutte le Veneri e di tutte le Grazie »' . Se le Veneres di C atullo e di Plauto non sembrano aver tur­ bato le convinzioni degli antichi « guardiani del linguaggio » - co­ me i grammatici latini sono stati efficacemente definiti8 - hanno suscitato l' attenzione almeno degli studiosi. Prendiamo per tutti Robinson Ellis, un filologo inglese del XIX secolo il cui commento al Liber del poeta veronese è tuttora considerato fra i principali. Di fronte alle Veneres Cupidinesque di C atullo Ellis prima ricorda un passo del Sulla natura degli dèi in cui Cicerone elenca quattro Veneres e tre Cupidines, concludendone che, almeno da questo punto di vista, il poeta « si starebbe esprimendo con estrema cor­ rettezza » . Poi però, da studioso onesto qual era, prende in consi­ derazione anche il verso, ancora di Catullo, in cui si dice che Le­ sbia ha fatto voto sanctae Veneri Cupidinique, « alla santa Venere e a Cupido » di gettare alle fiamme gli scritti di Volusio, se Catullo le verrà restituito. Stavolta la medesima coppia di divinità è evocata al singolare, non al plurale, come peraltro aveva già fatto il solito Plauto'. Questo significa, concludeva Ellis, che Catullo, con le sue Veneres Cupidinesque, « semplicemente pluralizza questa divinità, senza particolare riferimento alle varie forme della dea o di suo fi­ glio ». Se uno stesso autore e nel medesimo tipo di contesto - quello amoroso - cita le medesime divinità sia al plurale che al singolare, significa che per lui questo non fa differenza10• 7 CATULLO, Carmina, 3, I ; I 3 , I I · I 2 ; 86, 5-6; PLAUTO, Stichus, 278-79· R. KASTER, Guardians of Language. The grammarian and society in late antiquity, Uni­ versity of California Press, Berkeley - Los Angeles I 988. ' Asinaria, 803 sgg . : « tum si coronas, serta, unguenta iusserit l ancillam ferre Vene­ ri aut Cupidini» . 10 R . ELUS, A Commentary on Catu/lus, Clarendon Press, Oxford I 876, p. 7; CICERO­ NE, De natura deorum, 3, 59; CATULLO, Carmina, 36, 3· Marziale (Epigrammaton, 9, I I , 8-9: « quod si Parrhasia sones in aula, l respondent Veneres Cupidinesque »; I I , I3, 5 sgg. « Ro­ mani decus et dolor theatri l atque omnes Veneres Cupidinesque l hoc sunt condita, quo Paris, sepulchro ») riecheggiava verisimilmente Catullo. Diamo qui una rapida sintesi delle interpretazioni proposte dai principali commentatori catulliani a proposito del plurale Ve­ neres. Peraltro tutte poco persuasive, perché cercano di interpretare questo fenomeno lin­ guistico in termini puramente stilistici o di riecheggiamento letterario: z . si tratterebbe di una « extravagance» del poeta, dettata anche da opportunità metrica, per creare un paral­ lelismo con Cupidines (Fordyce sulle tracce almeno di Schulze, Ellis e Merrill, ma il riferi­ mento alla « extravagance » è solo suo: contro il parallelismo già Baehrens) : osserviamo pe­ rò che Quintiliano, autore certamente poco incline alla stravaganza, e che comunque scri­ veva in prosa, usa anche lui Veneres senza alcun parallelismo (De institutione oratoria, Io, I , 1

IOO

CAPITOLO SETTIMO

Il modo in cui Ellis risolveva la questione, peraltro l'unico ac­ cettabile, invita però a porsi una domanda: che cosa avrà avuto in mente C atullo, e prima di lui Plauto, quando pluralizzavano Ve­ nus? Scartiamo anche noi la possibilità che avessero in mente le diverse Veneres prodotte dalla speculazione teologica, visto che un commediografo o un poeta innamorato difficilmente pensano a certe cose. Resterebbero però le diverse Veneres del culto. In altre parole, dato che a Roma questa divinità veniva onorata in forme e con epiteti differenti, un Romano poteva pensare che esistesse non una sola Venus, ma svariate Veneres, un po' come le tante Madon­ ne (di Lourdes, di Pompei, del Pilar ecc.) del culto cattolico. Però è difficile credere che Catullo - al momento di piangere il passer dell' amata, di lodare il profumo di lei, o di rappresentarne l'incom­ parabile venustas - parlasse di Veneres, e non di Venus, perché ave­ va in mente Venus Erycina, Venus Felix, Venus Victrix o Venus Genetrix . Se è improbabile che un poeta innamorato pensasse alle Veneres della speculazione teologica, lo è altrettanto che avesse in mente quelle dei culti cittadini - per non parlare dello schiavetto plautino. Sarà bene rassegnarsi all'idea che Plauto o Catullo plu­ ralizzavano V enus per lo stesso motivo per cui Orazio pluralizza il nostro Vertumnus e i Romani in genere potevano pluralizzare Iuno, il Lar o Silvanus , ovvero creare dei C astores o dei Quirini: perché il nome della divinità romana in certi casi esula dal nume­ ro grammaticale, lo possiamo incontrare tanto al singolare quanto al plurale. Se dunque vogliamo sostituire la regola enunciata dai grammatici, visibilmente infondata, con una piu rispondente agli 79: « alle increspature che a scale diverse ne ripetono la forma; sia, al contrario, procedendo da queste verso l'onda. Il fascino e la ric­ chezza di tale composizione, però, risiede nel fatto che lo sguardo dell'osservatore percepisce simultaneamente queste due dimensioni in una s9la immagine, che ne acquisisce un'efficacia del tutto parti­ colare . E la stessa impressione che si riceve - ovviamente sulla ba-

Figura I J . Elaborazione grafica della pianta di C astel del Monte ad Andria.

CAPITOLO SETTIMO

ro8

se di componenti figurative differenti - osservando le decorazioni presenti nei mosaici di Anagni: in essi infatti una figura maggiore, in forma di triangolo equilatero, appare suddivisa a cascata in piu triangoli equilateri minori, secondo un pattern autosimulare che richiama il modello descritto (molti secoli dopo) dal matematico polacco Wadaw Sierpinski (il « triangolo di Sierpinski »)18• Anche in questo caso l'efficacia della rappresentazione deriva dal fatto che lo sguardo percepisce un medesimo pattern simultaneamente come unico e come molteplice (figg. r o- r 4 ) . Dal nostro punto di vista, inoltre, risulta di particolare interesse il fatto che la forma frattale sia sta t� specificamente utilizzata pro­ prio per rappresentare la divinità. E questo il caso di una statuet­ ta, proveniente da Rurutu (Isole Australi) e raffigurante un dio, a 18

Figura

SALA, Fractal geometry in the arts cit.

1 4 . Il triangolo di Sierpinski .

GLI DÈI PLURALI

1 09

suo tempo illustrata da Alfred GelJ19• La caratteristica principale di questa immagine divina (unica superstite di un' ampia schiera a 10

GELL, Art and Agency cit. , pp. 1 37-40.

Figura 15. Scultura in legno da Rurutu, Polinesia francese, I sole Australi, inizio

secolo circa.

XIX

I IO

CAPITOLO SETTIMO

suo tempo distrutta dai missionari) e chiamata « A' a » in lingua ru­ rutu, consiste nel fatto che la sua superficie è costellata da rappre­ sentazioni divine piu piccole: cioè a dire da altrettante « repliche di se stessa» amalgamate alla rappresentazione principale. In pra­ tica si tratta dunque di « un dio fatto di molti dèi » (fig. 1 5 ) . Come se non bastasse l'interno di A' a, cavo, era un tempo occupato da altre ventiquattro piccole immagini di divinità rurutu, rimosse nel r 8 2 2 . Il significato di queste figurine minori, comprese - ester­ namente e internamente - nella rappresentazione maggiore, è per noi di estremo interesse. Secondo le tradizioni rurutu, quelle esterne corrispondono alle unità di parentela da cui è formato il complesso della società lo­ cale. In altre parole, le repliche in minore di cui è costellata ester­ namente l'immagine maggiore rappresentano le diverse declina­ zioni di tale divinità in termini di appartenenza sociale. Quanto alle statuette interne, ora scomparse, la memoria culturale rurutu ne ha ridotto il numero a tre, considerandole creazioni che l'eroe Amiterai avrebbe realizzato dopo aver incontrato a Londra il dio dei Cristiani. I tre dèi contenuti in A' a sarebbero dunque « tre di­ vinità polinesiane generate a Londra» : Te Atua metua (Dio Pa­ dre) , Te Atua tamaiti (Dio Figlio) , Te Atua aiteroa (Dio Spirito Santo) . Ora, il fatto che la divinità possa essere rappresentata in forma autosimilare, come mostra la tradizione rurutu, ci fornisce un utile punto di passaggio fra questo tipo di pattern e il mondo che piu ci interessa, quello della religione antica. Sulla base delle caratteristiche che abbiamo fin qui descrit­ to, infatti, possiamo far ricorso alla autosimilarità per aiutarci a pensare una creazione culturale, come la divinità romana, che si presenta una e molteplice nello stesso tempo . Spostando questo principio dalla sfera della natura, o delle produzioni artistiche, a quella delle rappresentazioni concettuali, è infatti possibile affer­ mare che il gioco di rifrazioni attivo fra V ertumnus e i Vertumni, o fra Venus e le Veneres, si richiama ai pattern autosimilari che abbiamo descritto . Possiamo cioè presupporre che un dio, come il nostro Vertumnus, fosse pensato alla maniera di una determi­ nata forma che poteva replicarsi frattalmente in tanti altri Ver­ tumni - quotquot, dice Orazio, « quanti se ne vuole » - i quali non entravano in contraddizione con il Vertumnus : ma semplicemen� te ne ripetevano a cascata la fisionomia secondo un processo di autosimilarità. Come nel caso dell' abete, o della grande onda, se vogliamo « leggere » il Vertumno dei Romani possiamo procedere

GLI DÈI PLURALI

III

sia d a Vertumnus verso i Vertumni, che ne ripetono l a forma a ca­ scata; sia, nell' altro verso, dai Vertumni verso Vertumnus. Salvo che, come nei casi che abbiamo descritto sopra, queste due dimen­ sioni della divinità vengono percepite simultaneamente e in modo non conflittuale. Il principio di autosimilarità, come abbiamo già detto, permette infatti che una medesima entità possa presentarsi come una e come molteplice nello stesso tempo . La forma autosimilare della statuetta rurutu che abbiamo ap­ pena descritto, ci permette anzi di comprendere meglio un altro tratto caratteristico delle divinità antiche: che ugualmente sembra mettere in discussione il rapporto fra unità e molteplicità. Come abbiamo già detto sopra, il nome di un dio o di una dea poteva es­ sere ulteriormente specificato attraverso l' aggiunta di epiteti, sul tipo di luppiter C apitolinus, luppiter Anxurus, luppiter Frugifer, luppiter Pluvialis, luppiter Feretrius, Iuppiter Stator e cosi di se­ guito . Sappiamo già che l'uso di tali epiteti produce un'ulteriore distribuzione dell'identità divina, specificandone la vis: tramit.e queste sfaccettature la divinità viene collegata a funzioni e provin­ ce di pertinenza differenti, a particolari eventi accaduti nel passa­ to, a determinati culti e rituali o a luoghi specifici20• Incontriamo cosi qualcosa di simile al processo secondo cui le varie immagini autosimilari, di cui è costellata esternamente l'immagine rurutu, ne rappresentano la declinazione in termini di appartenenza socia­ le; cosi come le tre statuette contenute (un di) all'interno di A'a esprimono, nella tradizione polinesiana, la declinazione trinitaria, con epiteti e ruoli differenti, di un medesimo dio . La rappresen­ tazione autosimilare - che attraverso la forma frattale permette di tenere assieme, in modo non contraddittorio, la caratteristica dell'unicità e quella della molteplicità - ci fornisce insomma un'i­ dea del rapporto che poteva intercorrere fra Iuppiter (senz' altra determinazione) da un lato, e dall' altro luppiter Capitolinus, lup­ piter Feretrius o Iuppiter Pluvialis . Il dio si riproduce « a cascata» in una serie di forme autosimilari, ciascuna definita da un epite­ to, che per parte loro lo ripetono senza contraddirne l'unicità: si tratta cioè di due modi di rappresentare la divinità - luppiter vs Iuppiter C apitolinus, luppiter Feretrius, luppiter Pluvialis, luppi­ ter Frugifer ecc. - che possono venire percepiti simultaneamente. Per concludere, vorremmo infine ricordare che la religione ro­ mana presenta un esempio abbastanza esplicito di autosimilarità "' Cfr. supra, p . r8.

CAPITOLO SETTIMO

112

divina. Si tratta di una divinità che si ripete, frattalmente, sotto forma di piu divinità autosimilari sia nel mondo astratto delle rap­ presentazioni divine - come abbiamo postulato nel caso di Ve­ nus vs Veneres o Vertumnus vs Vertumni - sia in quello concreto degli oggetti, come abbiamo visto accadere con le creazioni della natura, i prodotti dell' arte o il complesso di immagini rurutu. Ci riferiamo ai rapporti che legano il dio Terminus, il cui tempio era situato sul Campidoglio accanto a quello di Iuppiter, con i singoli termini distribuiti nei campi. Com'è noto a Roma i confini tra gli appezzamenti di terreno erano segnati, e vegliati, da cippi in pie­ tra o ceppi !ignei, che si ritenevano portatori di un numen e rice­ vevano sacrifici annuali in occasione della festa dei Terminalia, il 23 Febbraio: i termini appunto (fig. 1 6) . Nello stesso tempo però ciascuno di tali termini si identificava con il Terminus principale, quello installato sul C ampidoglio, a cui, in quanto custode della sacralità dei confini, era attribuito il potere di garantire « fermezza e stabilità» all' intero dominio di Roma21 • La natura autosimilare 21

Seguo l'interpretazione di DE SANCTIS, La logica del confine ci t . , pp. 1 7-90: cfr. ovr­ 2, 639-84, che nel suo racconto delle vicende di Terminus non sembra

mo, Fastorum libri,

C·S E

A P. ?.

Figura r 6 . Restituzione grafica di un terminus romano con riferimento ai « TRESVIRI originale di età graccana da Sant' Angelo in Formis.

AGRIS IUDICANDIS ADSIGNANDIS » ,

GLI DÈI PLURALI

del dio Terminus è resa evidente dal suo distribuirsi, nei campi, sotto forma di innumerevoli termini minori, i quali ripetono a ca­ scata la struttura del Terminus principale: e questa distribuzione si realizza in senso tanto concettuale quanto propriamente fisico. All'interno dell'orizzonte culturale romano le due dimensioni di tale divinità - quella distribuita e quella centralizzata - vengono concepite simultaneamente. 3·

La non-persona della divinità antica.

Ma torniamo alla rappresentazione linguistica della divinità. Il fatto che essa sia indifferente al numero grammaticale presenta in verità un pendant altrettanto interessante: se quando si tratta di dèi il numero spesso non è pertinente, non lo è neppure il gene­ rt?. Molte divinità infatti ci si presentano in versione sia maschi­ le che femminile, come nelle « coppie » tipo Faunus/Fauna, Liber/ Libera, Limentinus/Limentina o Volumnus/Volumna. Si tratta di divinità rispetto alle quali, evidentemente, il genere naturale non era ritenuto pertinente, ragion per cui la loro designazione poteva oscillare fra maschile e femminile . Per un motivo non diverso - in­ differenza al genere naturale - si poteva inoltre usare il sostantivo maschile deus anche per designare una divinità femminile; ovve­ ro ricorrere a un termine neutro, numen, per indicare la divinità senza marcarne né il genere e neppure il numero . Questo sostan­ tivo infatti non solo, in quanto appunto neutro, neutralizzava il designato dal punto di vista del genere naturale; ma poteva essere usato indifferentemente al plurale, cioè numina, per indicare un solo dio, o al singolare, numen, per indicare piu divinità insieme23• Il fatto è che il dio antico, come ci ha insegnato a suo tempo Jean-Pierre Vernant, « esprime gli aspetti e i modi d' azione della Potenza, non delle forme personali d' esistenza »24• Gli dèi antichi non sono « personnes », ma « puissances », di conseguenza poco infare distinzione fra il dio che sta sul Campidoglio e i termini distribuiti nei campi; uvm, Ab urbe condita, I, 55, 3-7. Questa identificazione era rafforzata dal carattere aniconico del simulacro (una semplice pietra) . 22 Ci siamo occupati piu ampiamente di questi temi in Pour une grammaire des dieux: le latin /ace aux puissances divines, in N. BELAYCHE, c. BONNET et al. , Puissances divines à l'épreu­ ve du comparatisme, Brepols, Turnhout di prossima pubblicazione. " Cfr. Ibid. 24 VERNANT, Aspetti della persona nella religione greca ci t . , p. 240; VEYNE, Il pane e il circo cit . , p. 499·

I I4

CAPITOLO SETTIMO l

teressa se ciascuno di essi compare come uno o come molti, come maschile, come femminile o come nessuno dei due. L'identità di­ vina ha carattere distribuito, non univoco, lo abbiamo già visto, di conseguenza anche numero e genere grammaticale si applicano con difficoltà a un' entità che non è una persona a tutti gli effetti. Di conseguenza i Vertumni evocati da Davo, torniamo a ripeterlo, ci mettono semplicemente di fronte a una particolarità della divi­ nità antica con cui le nostre categorie culturali stentano a familia­ rizzare: il suo carattere non personale. Prima di proseguire dob­ biamo però aggiungere qualche altra riflessione a proposito della rappresentazione del divino nelle culture politeiste dell' antichità. Il fatto che a Roma la divinità entri nel linguaggio in termini cosi oscillanti, plurale e singolare nello stesso tempo, suggerisce che attraverso questo particolare « trattamento grammaticale » del divino2' si voglia enfatizzarne la natura eccezionale, il suo essere diversa dagli umani proprio in quanto non condivide le caratteristi­ che fondamentali proprie di ciascun individuo: il suo essere o uno o tanti, il suo essere o maschio o femmina. Si tratta di una strate­ gia rappresentativa del divino - volta a sottolinearne il carattere extraordinario - che possiamo riscontrare anche in campi diversi dal linguaggio. A questo proposito potremmo prendere dalla Gre­ cia un esempio che riguarda non la rappresentazione linguistica della divinità, ma quella figurativa: ossia la celebre statua di Zeus realizzata a Olimpia da Fidia, la quale, secondo Strabone, era cosi grande che se si fosse alzata dal suo trono avrebbe sfondato il tetto del tempio . « Se ci mettiamo da un punto di vista emico » osserva Giuseppe Pucci, « capiamo che lo Zeus non era " sbagliato" : la sua imponenza volutamente fuori scala serviva a far leggere nel simu­ lacro la divinità che si manifesta ai mortali »26 • Quando si tratta di rappresentare il divino, le (presunte) irregolarità della grammati­ ca possono andare di pari passo con le sproporzioni (altrettanto presunte) dell ' arte . Quanto abbiamo detto fin qui, però, non intende affatto nega­ re che le divinità romane, cosi come quelle greche, possano avere " Prendiamo spunto dal « trattamento grammaticale della verità» di cui parla J. LAN· DABURU, E/ tratamiento gramatical de la verdad en la lengua Andoke, in « Revista colombia­ na de Antropologfa », XX, 1 976, pp. 79- 1 00 (citato da c. SEVERI, Autorité sans auteur: for­ mes de l'autorité dans /es traditions orales, in A. COMPAGNON e c. AUDARD [a cura di], De l'Au­

torité, Colloque annuel 2007 du Collège de France, Odile Jacob, Paris zoo8, pp. 93- 1 23). 26 G . PUCCI, Immagine, in BETTINI e SHORT (a cura di), Con i Romani cit . , pp. 353-80, in particolare p. 356; STRABONE, Geographica, 8, J, 30.

GLI DÈI PLURALI

I I5

allo stesso titolo anche caratteristiche che le avvicinano alla nostra idea di persona. Come abbiamo già detto sopra, infatti, alla divi­ nità viene inevitabilmente attribuito un carattere « humanlike », che spinge contestualmente a rappresentare la sua vis in forme che richiamano l'identità umana. A cominciare dalla lingua che, se da un lato non rispetta né genere né numero quando si tratta di divi­ nità, dall' altro attribuisce agli dèi nomi propri e utilizza nei loro confronti forme di allocuzione a carattere personale. Soprattutto delle divinità venivano realizzate anche rappresentazioni a carat­ tere visuale, immagini che, inevitabilmente, attribuivano loro ca­ ratteristiche individuali e personali. Ecco perché i grammatici si ostinavano a negare l'evidenza, vietando il numero plurale per i nomi divini. Non solo perché costoro, per loro natura, tendono sempre a normalizzare, ma soprattutto perché gli aspetti della pre­ senza divina a carattere « humanlike » invitavano a costruirli come personali anche dal punto di vista dei loro appellativi: non solo per ciò che riguarda le narrative di cui sono interpreti o le immagini che li rappresentano . In altre parole, se c'è una Venus identifica­ ta come antenata degli Iuli, come eroina dell' Eneide e come facil­ mente riconoscibile in base ai propri attributi iconografici, tanta individualità personale della dea inviterà a disciplinarne in modo conforme, personale e individuale, anche il nome che porta - sal­ vo smentite, come abbiamo visto . Ed è proprio in queste smentite che si rivela, per noi, il carattere piu saliente della divinità antica.

C apitolo ottavo Altre mutazioni di Vertumno

Torniamo al nostro Vertumno, per esplorare un' altra delle pro­ vince che egli governa con la propria vis numenque. Si tratta di un officium che pertiene ugualmente alla sfera della mutazione, del vertere, e in un certo senso anche a quella dell'incostanza. I.

La variabilità degli eventi.

Si credeva infatti che quando una certa faccenda avviata al bene finiva male o viceversa - insomma in presenza di un mutamento radicale nel corso degli eventi - ci fosse ancora di mezzo Vertum­ no. Nei poteri del dio rientrava anche ciò che i Romani definivano bene vertere o male vertere, « volgersi al bene » o « volgersi al male », espressioni usate spesso, come augurio, in forma di esclamazione. Ce ne parla Donato, nel suo commento alle commedie di Teren­ zio. Siamo al momento in cui, negli Adelphoe, viene annunziata la nascita di un bambino: di bene vertant! esclama subito il vecchio Micione. E Donato commenta: in tutte le cose che accadono secondo il nostro desiderio, si suole dire « che gli dèi lo volgano al bene » (di bene vertant) , perché spesso capita agli uomini che le cose vadano in modo diverso da come avevano desiderato. Tale pote· stà che le cose hanno di volgersi nell'uno o nell' altro senso (vertentium semet in utramque partem) , gli antichi pensavano che facesse capo al dio Vertumno

( Vertumno deo superesse veteres existimabant) ' .

Poco prima, nella stessa commedia, Eschino si era invece pro­ dotto nell' augurio contrario : quae res tibi vertat male, « che l' af1 DONATO, Commentarius in Tererenti comoedia, Adelphoe, 728, p. 1 4 5 Wessner. Quan· to all'interpretazione di superesse in questo contesto, il verbo significa che il mutamento «è nelle risorse» del dio, « tocca a lui », « ne è l'ultima istanza». Cfr. ARNOBIO, Adversus na­ tiones, 3, 2 3 , 2: « Cum vero in contrarium cotidie res vertantur neque ad propositum vo­ luntatis actionum respondeant fines, ludentis est dicere, deos nobis superesse custodes ».

ALTRE MUTAZIONI DI VERTUMNO

fare ti si volga in male! », aveva augurato a Sannione. E Donato : ha nome Vertumno il dio che presiede alle cose che prendono la piega che si desidera. Spesso infatti va a finir male ciò che si credeva bene, ed è questo ciò che si dice « volgersi in male » (male vertisse) 2 •

Secondo Donato, dunque, quando i Romani esclamavano di be­ ne vertant o di male vertant per augurare a qualcuno (anche a se stessi) fortuna o sfortuna - essi avevano in mente il dio Vertumno: e lo pregavano affinché rivoltasse il corso degli avvenimenti, in un senso o nell' altro, secondo il desiderio di chi formula l' augurio. Da questo punto di vista, il dio del vertere sembra differire da divinità come Felicitas o Bonus Eventus, quelle che « mandavano a buon fi­ ne » le azioni intraprese dagli uomini'. Vertumno non volge neces­ sariamente al meglio, volge e basta: la sua provincia è costituita dal vertere in generale, non dal bene vertere: egli rappresenta piuttosto le mutazioni che possono caratterizzare il fluire degli avvenimenti, il cui corso può rovesciarsi ad ogni momento. Ecco perché lo si po­ teva invocare sia affinché volgesse al bene la situazione per chi lo invoca o per chi si ama; sia affinché la volgesse al male per le per­ sone con cui si è in conflitto. A questo punto, però, il rapporto fra Vertumno e la mutatio rerum, il cambiamento di eventi e situazioni, potrebbe condurci molto lontano da Roma. Vediamo di che si tratta. -

2.

Vertumno, Pisintus e le divinità del Caso.

Nell' antica Treviri, precisamente nel santuario di Altbachtal, fra i molti monumenti di grande interesse · che gli archeologi han­ no riportato alla luce, sta anche un altare dedicato a Vertumnus sive Pisintus. Non sappiamo chi fosse Pisintus, possiamo però ar­ guire che si trattasse di un dio locale che un abitante della colonia romana aveva identificato con Vertumno: secondo quel processo, tipico del politeismo antico, secondo cui una divinità straniera po­ teva essere identificata con, o assimilata a, una divinità propria, e viceversa•. Incontrare Vertumno cosf lontano da casa non sarebbe 2 DONATO, Commentarius in Tererenti comoedia, Ade/phoe, 1 9 1 , p. 43 Wessner: «Ver­ tumnus dicitur deus, qui rebus ad opinata se vertentibus praeest. Saepe autem male cedit, quod bonum putatur, et hoc est male vertisse»; cfr. anche ad Hecyram, 1 96, p. 226 Wess­ ner: « et ideo Vertumnus colitur, qui praeest rebus se vertentibus». ' Cfr. WISSOWA, Re/igion und Ku/tus der Romer cit . , pp. 266 sgg. 4 Cfr. «Bericht der Réimisch-Germanischen Kommission », 1929, n. 3 1 = L. SCHWINDEN, in W. BINSFELD, K. GOETHERT-POLASCHEK, L. SCHWINDEN, Kata/og der riimischen Steindenk-

r r8

CAPITOLO OTTAVO

di per sé sorprendente. Per quanto si presenti come un dio molto legato a Roma e all' area italica, possiamo ricordare che dediche a Vertumno sono state trovate a Susa, in V al d'Aosta, e a Filippi in Macedonia5• Questa volta però lo incontriamo non solo in una zona remota rispetto al Vicus Tuscus, ma anche messo in relazio­ ne con una divinità che - possiamo arguire - se è stata assimila­ ta a lui doveva corrispondere a qualcuno dei suoi officia, tanto da prestarsi a questa operazione. Ora, nella stessa area in cui sorgeva l' altare dedicato a Vertumnus sive Pisintus sono state trovate anche tre iscrizioni contenenti dediche agli Dii Cas(s)us, letteralmente gli « Dèi Casi », i C asi divinizzati: ossia divinità che conformemente al proprio nome rappresentano la casualità degli eventi, il caratte­ re aleatorio e imprevedibile tipico delle vicende umane. Si tratta di divinità che sembrano ricorrere solo ad Altbach tal - quest ' a­ rea del resto ne contiene anche altre ugualmente specifiche - il cui interesse appare ulteriormente accresciuto dalla presenza di un' altra dedica, piu ampia, databile tra la fine del I secolo e l'ini­ zio del 11 d.C . : Dis Cassibus] Cossus Frontonis/(ilius) Sortileg(us) ex visu v(otum) s(olvit) l(ibens) m(erito) « Agli Dèi C asi Cosso figlio di Frontone, sortilegus, di presenza volontariamente ha assolto il proprio voto dopo essere stato esaudito » . Cosso, il dedicante, era dunque un sortilegus, cioè un sacerdote il cui compito consisteva nel manipolare le sortes oracolari: ed è in questa qualità che aveva assolto al voto fatto agli Dii Cas(s)us, gli Dèi Casi6• . La divinazione tramite sortes una pratica che ha forti atte­ stazioni in area italica7 - prevedeva l'uso di tessere, in genere a forma rettangolare, le quali venivano estratte appunto a sorte da un'urna e consegnate ai consultanti, con su scritto il responso del­ la divinità oracolare. Per quanto ne sappiamo, all'estrazione pote-

miilerdes Landesmuseums Trier, Verlag Philipp von Zabern, Mainz am Rhein 1 988, p. 14; J. SCHEID, Les Temples de I'A/tbachtal à Trives: un «sanctuaire national» ?, in « Cahiers du Centre Gustave Glotz », VI, 1995, pp. 2 27-43, in particolare pp. 2 3 1 -32; BETI'INI, lnterpretatio cit.

' CIL, vol. V, p. 7235 (Segusium, Alpes Cotiae) : « Genio munic(ipi) Segu[s(inorum)] ex testam[e]nto Miniciae P. f. Sabinae de pecunia, quae superfuit operis Vertumni, C . Pinar(ius) Taurus hers f(aciundum) c(uravit) III 14206; (Philippi): deo Vertumno domino aram evotam Zipas Margulas v. s. L m . » . 6 J . B . KEUNE, Orakelstiitte i n Tempelbezirk a m Altbach zu Trier, i n « Trierer Zeitschrift », X, 1 935, pp. 73-76. La forma Cassus, con -ss-, invece di Casus, è una variante sul tipo di caussa, quaesso ecc . : cfr. F. SOMMER, Handbuch der Lateinischen Laut- und Formenlehre, Win­ ter, Heidelberg 1 977, pp. 208-9 . 7 Ciò conferma come, nella colonia di Treviri, le pratiche religiose avessero una forte impronta romana e italica, non locale e germanica come si era voluto affermare in passato: SCHEID, Les Temples de I'Aitbachtal à Trives cit.

ALTRE MUTAZIONI DI VERTUMNO

I l9

vano essere addetti un puer o una puella, mentre un sacerdote, il sortilegus, aveva il compito di leggere o interpretare il testo della singola sors. Di questo rituale possediamo anche interessanti rap­ presentazioni figurate, sia pure di area etrusca: in un'urna funera­ ria da Volterra (11 a . C . ) , vediamo una giovinetta con in mano una tavoletta rettangolare, evidentemente appena estratta dal cratere posto al centro, mentre dietro, fra due armati, sta un uomo in abi­ to da aruspice; in un' altra rappresentazione, sempre da Volterra e dello stesso periodo, si vede invece un uomo in età matura, con berretto frigio, che esibisce una tavoletta appena estratta dall'ur­ na, sistemata dentro un naiskos: la sors che ha in mano ha l' aspetto tipico delle tavolette scrittorie. Le due figure maschili che com­ paiono nelle rispettive raffigurazioni assolvono verisimilmente la funzione di sortilegi8 (fig. 1 7 ) . • A . MAGGIANI, La divinazione in Etruria, in Thesaurus cultus et rituum antiquorum, vol. III, J. Pau! Getty Museum, Los Angeles 2005, pp. 68-69 . Un'accurata ricostruzione del­ la figura del sortilegus e della pratica divinatoria delle sortes in w . E. KLINGSHIRN, lnvent­ ing the sortilegus: lot divination and cultura/ identity in Italy, Rome and the Provinces, in c . E. SCHULTZ e P. HARVEY (a cura di) , Religion in Republican Italy, > . I codici di Columella recano Portunus non Vertumnus. Questa lezione dichiara di averla trovata il Pius in un o di terere si po­ teva usare anche samiare, ossia un verbo che deriva direttamente dalla « terra di Samo »: dato che l'isola di Samo era il luogo da cui proveniva un' altra materia abrasiva usata dagli artisti8• Insomma, possiamo cogliere una tendenza a definire le sostanze usate per il polire o il terere dei manufatti artistici a partire dal luogo di prove­ nienza della materia usata. Quanto abbiamo detto potrebbe avere qualche rilevanza per risolvere l'indovinello posto da Properzio. Sappiamo che il pumex, la pomice, ossia il materiale piu comu­ nemente usato per svolgere l'operazione di finitura che abbiamo descritto, proveniva dalla Campania, terra il cui suolo Plinio con­ siderava caratterizzato proprio dalla presenza sottostante della .

• Già a Passerat (ibid.) pareva che Turnèbe « insigniter in hoc loco exponendo nuga­ ri » (cosa che scandalizzava alquanto Burmann, il quale dichiarava che non avrebbe osato esprimérsi cosf « de tanto viro, quantus Turnebus fui t ») . 7 H . BLUMNER, Technologie in Terminologie der Gewerbe und Kiinste bei Griechen und Romem, Teubner, Leipzig-Berlin 1 9 1 2 , vol. IV, p. 264. 8 Ibid. , p. 353 e nota 7 ·

LE MANI DELL ' ARTISTA E LE SVENTURE DI MAMURIO

1 49

pomice '. D ' altra parte, dal punto di vista di un Romano sarebbe possibile definire « terra osca» la C ampania, ossia la regione da cui proveniva la pomice10• Per cui si potrebbe pensare che tellus [ . . . ] Osca alludesse al territorio da cui si estraeva la pomice, alla stessa stregua della (pétra) Naxia, della (barena) Thebaica o della (terra) Samia che sta alla base del verbo samiare. Se è cosi, Vertumno au­ gurerebbe a Mamurio che la pomice, strumento fondamentale per un artista dei metalli come lui, non finisca per logorargli anche le mani, oltre a terere gli oggetti che lavora. In altre parole, l' azione di logorare le mani di Mamurio sarebbe riferita non alla generica azione esercitata dalla morte e della sepoltura (cosa che risultava insoddisfacente nella precedente interpretazione, come abbiamo visto); ma sarebbe presentata come conseguenza dell' attività pro­ pria dell'artista, il che ci parrebbe piu pertinente. Inoltre, formu­ lato in questo modo l' augurio presenterebbe un tono piuttosto ironico e scherzoso, che ben si adatterebbe a un' elegia come que­ sta: ma nello stesso tempo abbastanza criptico da poter costituire un indovinello . 2.

Il Mamurio

cacciato.

Inutile dire, però, che trovare un'interpretazione soddisfacen­ te per questa misteriosa tellus [ . . . ] Osca è difficile - bisogna rico­ noscere che Properzio ha ben congegnato il suo enigma. A meno che egli non intendesse riferirsi a una tradizione secondo la quale il celebre artefice, per qualche motivo, sarebbe stato sepolto fra gli Oschi. In questo caso a consumargli le mani sarebbe stata non una (improbabile) terra « illetterata», ma semplicemente, e assai piu naturalmente, la terra del luogo in cui era stato sepolto, che 9 PLINIO, Naturalis historia, 1 8 , 1 09- 1 0 : « in Campania [ . . . ] terra [ . . . ] pulverea summa, inferior bibula et pumicis vice fistulosa quoque ». Il pumex era presente in particolare in zone come Pompei, Baia, Capri e cosf via, da cui il pumex Pompeianus, come lo definiva Vitruvio (De architectura, 2, 6), veniva estratto anche come materiale da costruzione: SILIO ITALICO � Punica, 7, 4 1 9; MARZIALE, Epigrammaton, 4, 57, 1 - 2 . 10 E decisamente difficile, se non impossibile, definire esattamente quale fosse la ter­ ra degli Oschi (cfr. E. T. SALMON, Samnium and the Samnites, Cambridge University Press, Cambridge 1 967, pp. 3 3-45; F. LOFFREDO, Sotto il nome di Atellana. Filologia e Antropolo­ gia di un genere scenico romano, Università degli Studi di Siena, Tesi di dottorato, a.a. 2 0 1 2 2 0 1 3 , pp. 1 55-6 1 ) : i l legame con l a Campania è comunque fuor d i dubbio. Cfr. FESTO, De verborum significatione, 1 2 1 Lindsay: « Osci [ . . . ] a regione Campaniae, quae est Oscor, vo­ cati sunt »; cfr. anche CICERONE, Familiares, 7, 1 , 3: « ludos Oscos in Senatu vestro » (Cice­ rone si rivolge a un amico che si trova in una casa sulla costa campana) .

150

CAPITOLO DECIMO

essendo quella degli Oschi poteva esser definita « terra esca» a pie­ no diritto. Tale interpretazione si presenterebbe certo come la piu semplice, se non fosse che, per sostenerla, dovremmo ipotizzare l'esistenza di un episodio di cui nessun' altra fonte antica ci par­ la: secondo il quale Mamurio avrebbe concluso la sua vita fra gli Oschi, ricevendo sepoltura nel loro territorio. Una semplice sup­ posizione, insomma, non suffragata da altro. Come c'era da attendersi, però, la possibilità che queste oscu­ re parole di Properzio rinviassero a una traccia mitica perduta, ha suscitato la curiosità di quegli studiosi che, come Hermann Use­ ner, furono particolarmente sensibili al fascino del mito romano; e soprattutto alle sue possibili sopravvivenze nel folclore europeo posteriore. Proprio Usener, infatti, ha proposto a suo tempo di mettere in relazione l'enigmatico verso properziano con un ritua­ le e un mito, peraltro di attestazione piuttosto tarda, che vedono Mamurio recitare un ruolo inaspettato: quello di capro espiatorio. Il mitico artefice, infatti, sarebbe stato cacciato dalla città di Roma perché le copie da lui eseguite avrebbero, paradossalmente, distolto dalla venerazione dei veri ancilia . E questo avrebbe provocato con­ seguenze disgraziate per la città. Tutto ci viene da un passo dello storico bizantino Giovanni Lido ( VI secolo) , che nel suo libro Sui mesi descrive in questo modo le cerimonie che si sarebbero svolte a Roma in occasione delle Idi di Marzo, il 15 del mese: Alle Idi di Marzo (si celebrava) una festa per Juppiter, in quanto è la metà del mese, e (si facevano) preghiere pubbliche perché l ' anno fosse salu­ bre . Inoltre sacrificavano un toro di sei anni in favore dei campi montani, la processione era condotta dell' archigallo con i cannefori della Madre (Mater Magna) . Veniva inoltre condotto anche un uomo avvolto in pelli di capra e lo colpivano con verghe leggere e lunghe, chiamandolo « Mamurio » . Costui era un esperto nella costruzione di armi. Per evitare che gli ancilia caduti dal cielo si deteriorassero per il frequente movimento, egli ne costrui di simili agli originali. Per questo motivo si dice comunemente, a mo ' di proverbio, per deridere coloro che sono battuti, che « quelli che colpiscono giocano il Mamurio su di lui » . Ecco il racconto relativo: dato che, per aver trascurato gli ancilia originali, erano capitate delle disgrazie, i Romani cacciarono dalla città anche quel famoso Mamurio colpendolo con le verghe. Metrodoro dice che questo è un giorno infausto11 •

Si tratta di un testo piuttosto complesso, ma non certo per la sua raffinatezza letteraria, al contrario. Lido infatti affastella le sue informazioni alla maniera di un catalogo sommario, senza svi11 GIOVANNI UDO, De mensibus, 4, 49, pp. 105-6 Wiinsch (R. WUNSCH [a cura di] , Joan­ nes Lydus liber de mensibus, Teubner, Leipzig 1 898) .

LE MANI DELL ' ARTISTA E LE SVENTURE DI MAMURIO

151

lupparle in modo articolato. A nostro giudizio, comunque, è chia­ ro che l' autore menziona tre celebrazioni religiose differenti, una dopo l'altra, che si sarebbero svolte tutte alle Idi di Marzo, ossia il 15 del mese. Ed è anche chiaro che queste tre celebrazioni non hanno nulla a che fare l'una con l'altra. La prima era in onore di Iuppiter, a cui sappiamo essere dedicate le Idi di ogni mese (e quindi anche quelle di Marzo) , affinché l' anno fosse salubre. La seconda celebrazione ricordata è invece in onore di Mater Magna, con il sacrificio di un toro in favore dei « campi montani » : defi­ nizione che non stupisce se si considera che la Madre degli dèi, tradizionalmente, riceve epiteti che rimandano ai monti, è questo il suo paesaggio di riferimento . A tale celebrazione partecipava­ no l' archigallo e i cannefori, i « portatori di canna » che giocavano un ruolo importante nel culto di Attis12• Infine, sempre alle Idi di Marzo avrebbe avuto luogo un rituale che vedeva protagonista un personaggio - invocato come Mamurio e vestito di pelli di capra che veniva percosso con le verghe. Il rituale in questione doveva essere piuttosto popolare, se era entrato anche in proverbio per definire qualcuno che veniva preso a botte (« fare il Mamurio a qualcuno »)!'. Si tratta di una cerimonia che ci è peraltro nota an­ che da un' altra fonte, ugualmente tardoantica, il calendario di Fi­ localo, che la colloca non il 1 5 Marzo ma il 14: dandole comunque il nome, decisamente esplicito, di Mamuralia14• Alla descrizione del rituale Lido fa poi seguire la historiola, come vorremmo chiamar­ la, che a suo parere ne stava all'origine: ossia la cacciata da Roma di Mamurio, il mitico artefice, a seguito della trascuratezza in cui erano caduti i « veri » ancilia per colpa delle sue copie, con le con­ seguenti disgrazie che avrebbero colpito la città". A quanto pare le virtu dedaliche possedute dagli artefatti di Mamurio, capaci di suscitare l'illusione della verità, si erano ritorti contro l' artista, provocandone la rovina. Nell'interpretazione di Usener, la cacciata di Mamurio avreb­ be costituito un perfetto equivalente, anzi precedente, di tutte 12 Sull'interpretazione di questo non facile passo di Lido, cfr. Appendice 3 · u orro, Die Sprichworter cit . , p. 40 1 , fornisce numerosi esempi (ma non questo) di proverbi latini nati da personaggi emblematici. 1 4 CIL, vol. l, tomo n , n. 338, Calendarium Philocali: « prid. id. Mart. : Mamuralia »; Calendarium rusticum (fra l'lsidis Navigium, 5 Marzo, e i Liberalia, 1 7 Marzo): «sacrum Mamurio ». " La versione di Lido appartiene al filone di quelle in cui si presuppone che non ci fos· se stato un solo ancile caduto dal cielo, ma vari: cfr. supra, p. 1 33 nota 6.

I5 2

CAPITOLO DECIMO

quelle espulsioni rituali di esseri piu o meno fantastici - la Mor­ te, il Fasselawent , il Posterli - che erano testimoniate dal folclore contadino europeo, e slavo in particolare. Sulle tracce di Corssen, anzi, Usener identificava Mamurius con il dio Mars: il cui nome si celerebbe dietro l'invocazione a Mamurius Veturius che, secon­ do Varrone, ricorreva nel Carmen Saliare16• Dato che Veturius si connette con vetus, vecchio, il rituale di espulsione per Mamurio altro non sarebbe stato, nella ricostruzione di Usener, se non la cacciata del « Marte vecchio », ossia dell' anno vecchio all' appros­ simarsi dell' anno nuovo . Quanto al verso di Properzio, secondo Usener esso avrebbe alluso al rituale secondo cui « il popolo Latino ricacciava Mamurio oltre il confine tra gli odiati Oschi »17 • Com'è facile immaginare la tesi di Usener fu accolta con interesse da stu­ diosi come James G. Frazer, che preferi interpretare il « Marte vecchio » di Usener non tanto come l' anno vecchio, quanto co­ me il « Vecchio dio della vegetazione »; e William Warde Fowler (sia pure, quest 'ultimo, con qualche distinguo) . Frazer però, sul­ le orme di Paley, nel suo commentario ai Fasti di Ovidio fece un passo ulteriore. Tutto partiva dall'interpretazione che un grammatico antico ci dà della parola Mamercus: si sarebbe trattato di un praenomen osco, a motivo del fatto che gli Oschi chiamano Mars col nome di Mamers18• Se dunque si interpreta il nome Mamurius come un de­ rivato di Mamers, argomentava Frazer, si ottiene che il mitico ar­ tefice degli ancilia sarebbe stato anche lui un Osco - e dunque, ri­ sultava abbastanza ragionevole che i Romani lo avessero cacciato rispedendolo a casa sua, fra gli Oschi appunto . Spiegazione che appariva piu accettabile di quella, invero piuttosto spiccia, data da Usener, il quale sembrava presupporre che il territorio osco co­ minciasse immediatamente alle porte di Roma. Il che ovviamente non è. La versione dell'interpretazione di Usener rivista da Fra­ zer fu fatta propria anche da Georges Dumézil, secondo cui Pro­ perzio avrebbe « considerato Mamurio come un Osco che, dopo 16 VARRONE, De lingua /atina, 6, 49, 3 (W. MOREL, K. BUCHNER, ]. BL.A:NSDORF, Fragmenta poetarum Latinorum epicorum et lyricorum, de Gruyter, Berlin 2o u , fr. 1 5) . 1 7 H . USENER, Italische Mythen, i n , XXX, r 875, pp. r82-229, in particolare pp. 209- r 3 · In realtà il rituale non prevede la cacciata di Mamurio da Ro­ ma, solo i colpi inflitti con le verghe: nel resoconto di Lido l'espulsione sta solo nella histo­ riola. Lo stesso fraintendimento in J. G. FRAZER, Golden Bough, St. Martin's Press, New York 1 990, vol. IX, pp. 229 sgg . : la statua di bronzo. Questa tecnica però non trova riscon· tro nelle pratiche della statuaria antica, anche i particolari erano fusi (n. E. L. HAYNES, The Technique o/ Greek Bronze Statuary, Verlag Philipp von Zabern, Mainz am Rhein I 992, pp. 6o-6 I ) . Quanto al parallelo portato da BOLDRER, L 'elegia di Vertumno cit . , p. I 4 3 , QtnNTI· UANO, De institutione oratoria, Io, 3, I8, non ci pare pertinente. 7 Anche per ciò che riguarda le copie del Palladio, la natura di questo artefatto - che nella tradizione è rappresentato come uno x6anon arcaico, rigido e di dimensioni ridotte non induce certo a pensare che Mamurio fosse stato chiamato a « fondere» in bronzo le co· pie richieste: per il Palladio cfr. H. CASSIMATIS, Athena, LIMC, vol . Il, tomo 1, pp. 965-69. '

LA « VERA STORIA » DEL « SIGNUM VERTUMNI » 2.

Martellare e cesellare, non fondere.

Naturalmente il lettore si starà chiedendo perché, allora, il Ver­ tumno di Properzio loda Mamurio in quanto me tam docilis potui­ sti fundere in usus, « tu che hai saputo fondermi a tanti e flessibili usi » . Sembrerebbe di capire, cioè, che Mamurio lo abbia/uso, alla maniera di una vera e propria statua in bronzo: qui non si parla di cesello ma, almeno per come appare, proprio di fonditura8 • Certo, non si capisce perché uno scultore che fonde una statua debba es­ sere definito, immediatamente sopra, un caelator formae, cesella­ tore di una /orma , oltre tutto in pendant con qualcuno che lavora con uno strumento da taglio . Properzio, facendo « fondere » sta­ tue a un « cesellatore », sarebbe stato stato semplicemente un po ' vago, un po ' impreciso nel proprio linguaggio? Per la verità que­ sto modo di uscire dalle difficoltà interpretative non ci pare mol­ to raccomandabile . Proviamo piuttosto a pensare che quel fundere non significhi fondere, ma qualcos ' altro . Conformemente del resto al carattere opaco, allusivo, enigmatico che caratterizza il parlare del dio in que­ sto epigramma finale. A metterei sulla strada è già quel tam docilis [ . . . ] in usus che fa da complemento al fundere di Mamurio : in altre parole, il simulacro che l ' artefice crea ha in realtà uno scopo, quel­ lo di potersi prestare, rendersi disponibile a determinate funzioni. Questa specificazione del /undere - qualunque sia il significato di questa espressione - ossia in usus, costituisce una determinazione importante dell ' azione espressa dal verbo . Ora Manilio, un poeta di poco piu giovane di Properzio, nei suoi Astronomica descrive in questo modo il carattere proprio del segno del C ancro : ostinato nell' animo e per nulla disponibile a mettersi in azione (nullosque

effusus in usus) , distribuisce i vari mestieri e l'arte di guadagnare•.

L ' espressione nullosque effusus in usus indica la riluttanza a met­ tersi in gioco, il non « prestarsi a » , per permettere cosf che altri usufruiscano di ciò che sappiamo fare . Il C ancro infatti è un segno caratterizzato da una certa grettezza e tirchieria, è micrologus: al8 « Fundere [ . . . ] to cast a new statue » (PALEY, The Elegies of Propertius with English Notes cit. , ad loc. , p. 6o) . ' MANILIO, Astronomica, 4, 1 65-66: « Ille tenax animi nullosque effusus in usus l attri· buit varios quaestus artemque lucrorum ».

r 66

CAPITOLO UNDICESIMO

trove i nati sotto di lui sono definiti come degli inutili, degli inerti, gente priva di generosità10• Ovviamente non sono le caratteristiche astrologiche di questo segno a interessarci, ma il modo in cui Ma­ nilio le descrive : sembra chiaro che in questo caso ef/undere in usus (ciò che il C ancro non permette) significa « prestarsi a determinati utilizzi », rendendosi cosi disponibile a interagire con altri. Possia­ mo cioè supporre che anche Properzio, col suo fundere in usus, in­ tendesse dire la stessa cosa: Mamurio ha fatto si che il simulacrum di Vertumno assumesse la capacità di mettersi in gioco, di prestarsi ai molteplici usus a cui l' artefice lo destinava. Che sono poi quelli che conosciamo e che hanno attratto la nostra attenzione, ossia la sua estrema disponibilità ad assumere questa o quest' altra forma, questa o quest 'altra identità che gli venga attribuita. Riteniamo dunque che ilfundere di Properzio non abbia niente a che fare con la fonditura del bronzo, ma indichi semplicemente, allo stesso titolo di effundere, l' atto di «lasciar libero corso » a qual­ cosa che prima era come bloccato : secondo un uso ben attestato di questi due verbi11• Il fatto che nel testo dell'elegia si parlasse di sta­ tue e di artefici, ha fatto spontaneamente pensare che quelfundere si riferisse al mondo della fonditura statuaria. Può anzi darsi che Properzio, conformemente al registro enigmatico che caratterizza questo finale di elegia, abbia scelto appositamente questa espres­ sione, fundere, per giocare con le parole12• Sia come sia, ci sembra proprio che il poeta non intendesse parlare di fusione, ma volesse dire che Mamurio ha dato al simulacro di Vertumno una libertà di manifestarsi, anzi di farlo in modo molteplice, che prima non aveva. Ci voleva un Mamurio per tam docilis fundere in usus - per rendere disponibile a tanti e flessibili usi - un simulacro di acero. 10 Si veda il commento a questo passo in R. SCARCIA, E . FLORES e s . FERABOLI (a cura di), Mani/io. Il poema degli astri, Fondazione Lorenzo Valla - A. Mondadori, Milano 1 996200 1 , vol. Il , pp. 332-33 . 1 1 Sia nel caso di fundo che in quello di effundo, si parte dall'idea di lasciar libero cor­ so a una materia liquida (acqua, vino, lacrime, metallo incandescente ecc.), ovvero a una sostanza frammentiJtiJ o polverizzatiJ: da qui l'immagine di « dar corso» a sentimenti, mani­ festazioni o altre realtà astratte. Per effundo cfr. M. LEUMANN, Effundo, in TLL, vol. V, to­ mo n, col. 2 1 4, l. n - col. 227, l. 79, in particolare col!. 223-26; per /undo in questo senso: CICERONE, Orator, 1 05: « > (s. T. COLERIDGE, Biographia Literaria, trad. it. e cura di P. Colaiacomo, Roma, Editori Riuniti, 1 99 1 , pp. XIV e 2 3 5 sgg. [ed. or. Biographia Literaria, Rest Fenner, London r 8 r 7]). Per parte loro SCHEID e SVENBRO, Vertumne cit . , pp. 2 0 1 - 2 , definiscono efficacemente l'elegia di Properzio non la di una (presunta) statua reale di Vertumno, ma