Il destino dell'eros. Prospettive di morale sessuale
 9788810404911

Table of contents :
Indice
Note introduttive
I - La vocazione all'amore: sessualità e felicità
Introduzione
1. L'interpretazione del significato delle esperienze
2. Fenomenologia dell'esperienza amorosa
3. Identità della persona ed esperienza dell'amore: l'unità duale
4. La rivelazione del destino della vita: la vocazione all'amore
5. Piacere, sessualità e felicità
II - Il linguaggio dell'amore: passione e dono
Introduzione
6. Amore come passione
7. Amare come scelta
8. La costruzione dell'azione d'amore
9. Amicizia e reciprocità
III - Un amore eccellente: castità e carità
Introduzione
10. La difficoltà di amare
11. Il pudore sessuale e il valore della persona
12. Differenti integrazioni dell'affettività
13. La virtù della castità
14. Prudenza e castità: la luce dell'azione e la sua regola
15. La carità forma e madre della castità: il dono della pietà
16. L'educazione del desiderio
IV - La consumazione dell'amore: il dono sponsale
Introduzione
17. Amore e promessa: il compito del fidanzamento
18. L'origine del matrimonio: dono di sé e dono dello Spirito
19. La consumazione dell'amore: l'unione coniugale
20. Fecondità nell'infertilità: pipp
21. Fedeltà e dono del perdono
22. La verginità: accoglienza e dono di sé
Epilogo

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Il destino dell'eros José Noriega

PROSPETTIVE DI MORALE SESSUALE

José Noriega Il destino dell'eros

Collana «ETICA TEOLOGICA OGGI» diretta da Luigi Lorenzetti La collana raccoglie una serie di volumi che si propongono di attualizzare il messaggio morale cristiano all'uomo d'oggi; rispondere alla domanda di senso e di progettualità dell'epoca attuale; dialogare con l'etica secolare. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34. 35. 36. 37. 38. 39. 40. 41. 42. 43. 44. 45. 46. 47. 48. 49. 50. 51. 52. 53. 54. 55. 56. 57. 58.

Teologia e bioetica, a cura di E.E. Shelp Georgios I. Mantzarfdes, Etica e vita spirituale Questione energetica e questione morale

Giorgio Vendrame, Etica economica e sociale

Economia, politica e morale Oltre l'eutanasia e l'accanimento, a cura di V. Salvoldi Carlo Scilironi, Il volto del prossimo Basilio Petrà, Tra cielo e terra Rerum novarum (1891-1991) Enrico Trevisi, Coscienza morale e obbedienza civile Pier Giorgio Rauzi - Luigi Menna, La morte medicalizzata Dottrina sociale della chiesa e ordine economico, a cura di A.F. Utz La virtù e il bene dell'uomo, a cura di E. Kaczynski -F. Compagnoni Mario Zatti, Il dolore (nel) creato Religioni ed ecologia, a cura di K. Golser Eric Fuchs, L'etica protestante Paolo Cattorini, La morte offesa Salvino Leone, La medicina di fronte ai miracoli Daniel C. Maguire -A. Nicholas Fargnoli, L'etica come arte e come scienza Renzo Gerardi, Alla sequela di Gesù Simone Morandini, Nel tempo dell'ecologia: etica teologica e questione ambientale Paolo Cattorini, La morale dei sogni Simone Morandini, Il lavoro che cambia Luigi Lorenzetti, Tullo Goffi: dare un'anima alla morale Eugenio Sarti, L'albero senza radici Paolo Cattorini, / Salmi della follia Réal Tremblay, Voi luce del mondo... Leonardo Salutati, Finanza e debito dei paesi poveri André-Marie Jerumanis, L'uomo splendore della gloria di Dio Réal Tremblay, «Ma io vi dico... » José Noriega, Il destino dell'eros Paolo Cattorini, Un buon racconto Stefano Zamboni, «Chiamati a seguire l'Agnello» Simone Morandini, Da credenti nella globalizzazione Adriano Bompiani, Dichiarazioni anticipate di trattamento ed eutanasia Etica teologica cattolica nella Chiesa universale, a cura di J.F. Keenan Andrea Mariani, Le speranze e la speranza cristiana Basilio Petrà, La contraccezione nella tradizione ortodossa Paolo Cattorini, Estetica nell'etica Giulio Cesareo, Guerra e pace: la morale cristiana da Giovanni XXIII al Vaticano Il, al nostro tempo Basilio Petrà, I limiti dell'innocenza Martin McKeever -Giuseppe Quaranta, Voglio, dunque sono Bruno Bignami, Terra, aria, acqua e fuoco Faustino Parisi, Crisi e rinnovamento della teologia morale Martfn Carbajo Nuiiez, Economia francescana Fedeli alla chenosi del Redentore, a cura di A. V. Amarante Gabriele Semprebon, Le cellule staminali e l'embrione Martin M. Lintner, La riscoperta dell'eros

JOSÉ NORIEGA

Il destino dell'eros

Prospettive di morale sessuale

EDIZIONE DEHONIANE BOLOGNA

Titolo originale: El destino del eros. Perspectivas de mora! sexual Traduzione dallo spagnolo: Vittorio Moggi Prima edizione: marzo 2006 Ristampe: marzo 2007 aprile 2013 febbraio 2016

©

2006 Centro editoriale dehoniano via Scipione Dal Ferro, 4 - 40138 Bologna www.dehoniane.it EDB®

ISBN 978-88-10-40491-1 Stampa: Graphicolor, Città di Castello (PG) 2016

Alle famiglie del Master in scienze del matrimonio e della famiglia dell'Istituto Giovanni Paolo II nella sua specializzazione in Pastorale familiare, dalle quali ho imparato il meglio di ciò che si trova in questo libro.

Note introduttive

La sessualità promette molto, ma poco raccoglie. Perché? Ci promette il piacere. Anzi, ci promette una pienezza che coin­ volge tutta la persona, una felicità nella gioiosa compagnia di qualcu­ no che ci si rivela tanto attraente, tanto gradevole, tanto amabile. L'e­ sperienza d'amore resa possibile dalla sessualità ci scopre un orizzon­ te nuovo, cosicché ogni cosa, lavoro, amicizie, passatempi, gusti ..., si trova ricollocata in una prospettiva nuova. Nell'amore sessuale fac­ ciamo esperienza di come la realtà della persona ci attrae, ci affascina, ci ossessiona, ci fa uscire da noi stessi. Il desiderio di possedere questa realtà, di possedere la persona, di unirci a lei, sembra allora invadere la vita intera. Il desiderio di piacere, il desiderio d'essere desiderati. Dobbiamo però riconoscerlo: la sessualità raccoglie poco. Ciò che uno vi incontra non è quanto sperava di trovare. Il piacere di cui si fa esperienza non riempie l'enorme vastità del desiderio che si è ri­ svegliato. L'altra persona non colma con la sua dimensione sessuale e affettiva l'anelito che ha generato. Cosa nasconde allora l'amore tra l'uomo e la donna, il desiderio sessuale? Certamente l'amore ci rivela il nostro rapporto con la realtà, fi­ no a che punto apparteniamo al mondo dei viventi, poiché in esso si manifesta ciò che ci attrae, ciò che ci seduce, ciò che ci arricchisce, ciò che ci appaga, ciò che ci mostra la gioia di vivere. L'amore ci unisce alla realtà. Ma quale realtà? È qui che appare la gamma cromatica dell'esperienza d'amore, per il fatto che ci unisce con una realtà personale, enormemente com-

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plessa, irriducibile a nessuna delle sue dimensioni. L'esperienza del­ l'amore sessuale, al di là dell'attrazione fisica o affettiva, o proprio in essa, reclama un'alterità: il mistero di un altro differente da me. Ma l'alterità della persona non è poi qualcosa che si possa con­ trollare, manipolare: ecco il suo dramma. Ridurre la sessualità a qualcosa di meramente corporeo o affet­ tivo significa perdere il mistero dell'alterità. L'amore allora unirà, sì, alla realtà sessuale o affettiva della persona, troverà il piacere di cui è in ricerca, ma deluderà, scontenterà. Il fatto è che l'altra persona si rende ogni volta più estranea e avulsa da ciò che uno è. Allora la re­ lazione sessuale e affettiva si carica di un'artificiosità e di un vuoto che producono un senso profondo di malessere, di noia. Tuttavia lì il desiderio sessuale continua, davanti al vuoto di un rapporto, reclamando sempre qualcosa di più: reclamando la realtà dell'altro. Pur di incontrarla, le persone si abbandonano a esperien­ ze ogni volta più eccitanti. E la realtà si sottrae loro ancora di più. La descrizione che al riguardo arriva a fare Alberto Moravia dell'amo­ re disperato e noioso di Dino per Cecilia è un'esemplare riprova di ciò: quanto più la possedeva, tanto più ella gli sfuggiva e allora la de­ siderava ancora di più, con una sete che aumentava nella misura stes­ sa in cui era soddisfatta: sete proprio della sua alterità, della sua realtà e non semplicemente del suo sesso. 1 Cos'è che nasconde il desiderio sessuale che il sesso stesso non sia capace di appagare? Nella sessualità ci si rivela l'enigma dell'uomo, il suo mistero. Es­ sa ci parla infatti della sua indigenza e, nello stesso tempo, della sua pienezza; ci testimonia la nostra solitudine e, nello stesso tempo, la gioiosa compagnia che ci si offre; la nostra appartenenza al mondo degli animalia e, nello stesso tempo, la nostra stessa trascendenza. Perché voler ridurre il mistero della sessualità alla genitalità? Perché ridurre il mistero dell'amore a sentimento? Non suppone questa riduzione un autentico cortocircuito dell'esperienza dell'in­ contro tra l'uomo e la donna nella vicendevole attrazione? Si tratta di un cortocircuito che produce delle disastrose conseguenze nella vita delle persone: a causa di questa riduzione l'amore cessa infatti d'essere principio di unità di condotta, per convertirsi in principio di ricerca di soddisfazione. E così frammenta la vita in una quantità di esperienze. 1

Cf. A. MORAVIA, La noia, Bompiani, Milano 2003.

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La sessualità promette molto, ma poco raccoglie. Spunta così, inquietante, la domanda: possiamo continuare a cre­ dere nell'amore? Solo quando si scopre la sua verità, la verità dell'amore, diventa possibile credere in lui. Solo allora l'amore si converte in un princi­ pio di costruzione di una vita che vale la pena di essere vissuta. Solo allora le persone si impegnano nella costruzione d'una comunione. La sessualità acquista ora il suo significato da qualcosa che è più grande di lei, da qualcosa che la trascende, ma che senza di lei non può né realizzarsi né essere vissuto. Scoprire il senso che racchiude l'esperienza dell'amore e saperlo interpretare ci si rivela come una delle imprese fondamentali in un mondo che ha perso il significato dell'amore: su ciò si focalizza questo libro. Non è sufficiente però limitarsi a scoprire il suo significato, per­ ché la sessualità rivela un destino da costruire che coinvolge la per­ sona nella sua totalità e per il quale la persona si vede tanto impre­ parata e priva di risorse. Perché impreparata? Perché è un destino più grande di quel che sarebbe per il singolo: la comunione tra l'uo­ mo e la donna. Chi è che può sostenere che è una cosa semplice? Ba­ sta la buona volontà? Il fallimento in tante speranze e il dolore di tante persone ci aiutano a comprendere che ci troviamo davanti a un'autentica sfida. Mostrare in che modo all'interno dell'esperienza d'amore si trova anche una dinamica di crescita umana, di matura­ zione personale, di eccellenza, persino di amore divino, è vitale per­ ché si possa assumere personalmente e da autentici protagonisti il cammino dell'amore. Due sono allora le domande di fondo: comprendere il significato della sessualità e apprendere in qual modo l'uomo possa viverlo. Sì, la sessualità racchiude un mistero. Ma come possiamo avvici­ narlo? Come tentare di scoprirlo? Sotto quale prospettiva? Ci inte­ ressa chiarire il metodo che adotteremo nel seguito. Forse il percorso migliore sarebbe quello di collocarci nell'espe­ rienza stessa dell'amore, lasciarla parlare: essa possiede qualcosa di essenziale da trasmetterci. L'amore comporta sempre una rivelazio­ ne. Qui si incontra una delle novità più significative della riflessione che Giovanni Paolo II ha offerto nel suo insegnamento sull'amore umano. Più che dedurre la verità dell'amore da uno studio astratto della natura umana o dalle conseguenze che ne derivano, la sua im­ postazione è stata quella di situarsi nell'esperienza stessa dell'amore e, a partire da questa, tentare di scoprire il suo profondo significato

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umano, proiettando su di essa la luce della rivelazione. Data la fe­ condità di questo approccio, così come la profondità delle analisi cui attinge, le Catechesi sull'amore umano nel progetto di Dio, tenute da Giovanni Paolo II nelle udienze del mercoledì tra il 1979 e il 1984, saranno una delle fonti principali di questo studio. Collocarci nell'esperienza dell'amore preserva da un pericolo ra­ dicale: quello di considerare l'amore e le sue manifestazioni dal di fuori, come un semplice osservatore. Se la riflessione morale sulla sessualità è stata tante volte accusata di estrinsecismo e di casuismo, ciò si deve proprio all'aver dimenticato che la persona è coinvolta nelle proprie esperienze e nel proprio operato. In un'impostazione in cui la persona si ponga davanti alle circostanze e agli atti, valutando­ li come un giudice imparziale per la loro corrispondenza alla natura, o per la loro conformità alle norme morali, o per le loro conseguen­ ze, si perde ciò che è essenziale. E ciò perché le nostre azioni non so­ lo producono un effetto al di fuori di noi: esse per di più ci costrui­ scono o ci distruggono. Il soggetto è il loro protagonista, il loro vero autore. Per questo non possono essere valutate dall'esterno; è neces­ sario entrare nella prospettiva del soggetto che agisce, al fine di ten­ tare di comprendere il procedimento di costruzione dell'azione. Si tratta di un processo guidato dalla sua stessa ragione in quanto nasce da un desiderio, il desiderio sessuale e affettivo, e, pilotato da questo, cerca di costruire un'azione. La comprensione del modo con cui l'uo­ mo compone le proprie azioni può fornirci una luce decisiva per pe­ netrare il mistero dell'amore. È questo uno degli elementi più di­ menticati nella riflessione riguardo alla morale sessuale. D'altra parte, per giungere a un'adeguata comprensione del mi­ stero della sessualità è necessario vedere la relazione in cui si trova con il mistero di Dio, di Dio creatore e redentore. È alla luce della ri­ velazione dell'amore di Cristo che si coglie la grandezza ultima del­ l'amore tra un uomo e una donna, in quanto l'amore di Cristo è par­ tecipato in loro grazie al dono dello Spirito. Proprio questa prospet­ tiva teologica dell'agire ci consentirà di superare l'estrinsecismo teo­ logico sotto il quale tanti studi di morale hanno visto la sessualità umana. La ragion pratica del cristiano, al momento di costruire le sue azioni, potrà valersi al proprio interno di un'inclinazione nuova che è frutto della presenza in lui dello Spirito e grazie alla quale non so­ lo potrà costruire una comunione umana, ma anche trasmettere il dono divino che riceve, indirizzandola alla comunione con Dio. Si tratta di diverse prospettive: l'importanza di partire dall'espe­ rienza dell'amore, il ruolo di protagonista del soggetto agente e la

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comprensione teologica dell'agire umano, la cui armonizzazione può aiutarci a scoprire il mistero della sessualità. Il libro è diviso in quattro parti, la cui sequenza è determinata da una progressione. In primo luogo, «La vocazione all'amore: sessualità e felicità», do­ ve si tenta di comprendere il significato della sessualità. In essa si rac­ chiude la rivelazione di una singolare vocazione, del destino di ogni uo­ mo. A cosa ci chiama? L'analisi fenomenologica, illuminata dalla rive­ lazione del principio della creazione, ci aiuterà a scoprire la ricchezza dell'esperienza dell'amore e come non sia possibile ridurla ad alcuna delle sue componenti. Perché Dio ci ha creato uomini e donne? La seconda parte, «Il linguaggio dell'amore: passione e dono», mirerà ad approfondire ciò che è la realtà dell'amore cercando di comprendere la relazione che esiste tra l'amore, in quanto sostanti­ vo, e l'amare, in quanto verbo, cioè in quanto azione. Un'analisi me­ tafisica ci svelerà la profondità dell'evento amoroso e la sua capacità di trasformarsi nel principio e motore della costruzione di una vita. La terza parte, «Un amore eccellente: castità e carità», vuol por­ re in evidenza come la dinamica dell'amore implichi in sé la chiama­ ta a un'integrazione dei diversi dinamismi che l'amore comporta. La stessa difficoltà ad amare, di cui tante volte facciamo esperienza, è una prova della necessità di questa integrazione e di come essa, più che il frutto di un nostro sforzo, sia un dono che Dio ci elargisce nel­ l'incontro amoroso. La quarta parte, «La consumazione dell'amore: il dono sponsale», si propone di affrontare l'originalità dell'amore tra gli sposi e, in par­ ticolar modo, dell'azione che consuma il loro amore: l'unione coniu­ gale. Si tratta di un'azione che comporta una singolare pienezza di cui è necessario cogliere il dinamismo e l'intenzionalità per comprende­ re la sua bontà ed evitarne uno svuotamento o una sottostima. Non si tratta dunque di un libro che intenda affrontare in modo esaustivo tutte le questioni di morale sessuale. Il suo proposito è più umile: quello di mostrare come nella sessualità umana si nasconda un mistero e come questo mistero sia in relazione con l'amore co­ niugale e con il dono dello Spirito. L'origine di questo libro ha avuto luogo in un ambiente pretta­ mente familiare. Si è formato poco a poco nei corsi tenuti alle cop­ pie che seguivano il Master di pastorale familiare organizzati in Spa­ gna dall'Istituto Giovanni Paolo II. Nel contatto con queste famiglie ho potuto fare esperienza dell'ampiezza del dono che avevano rice-

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vuto, dell'originalità e della grandezza della loro vocazione, così co­ me delle difficoltà nel portarla avanti. Le lezioni e il dialogo con lo­ ro hanno per me comportato un autentico stimolo alla riflessione, così come una felice conferma della profonda verità e umanità del­ l'insegnamento del magistero della Chiesa. Con il passar del tempo ho avuto bisogno di dare una forma più accademica a queste lezioni, adattandole ai corsi di licenza che mi erano richiesti a Valencia e a Roma, come anche nelle altre sezioni dell'Istituto Giovanni Paolo II a Cotonou (Benin) , Salvador de Bahia (Brasile), Changanacherry (India) e Washington DC. Non vorrei terminare senza ringraziare in modo particolare al­ cune persone per l'aiuto che mi hanno offerto nell'elaborazione di questo libro. Prudencio Manchado e il professor Juan de Dios Larru per i suggerimenti che mi hanno dato. Vittorio Moggi per il proficuo dialogo durante la traduzione in lingua italiana e Laura Lampronti per la disponibilità nella correzione delle bozze. Il professor Juan-Jo­ sé Pérez Soba, la cui amicizia e sapienza mi hanno accostato al mi­ stero della carità. Il professor Livio Melina, per il suo incoraggia­ mento e le sue preziose indicazioni nell'affrontare le tematiche del libro. Il Seminario San Paul e specialmente la famiglia Laird, del Minnesota, la cui ospitalità mi ha permesso di concludere la sua ste­ sura. I Discepoli dei Cuori di Gesù e di Maria, nella cui fraternità ho potuto comprendere la grandezza della sequela corporea di Cristo. E da ultima, la mia famiglia, in particolar modo i miei genitori. ]OSÉ NORIEGA

Roma, 8 settembre 2004 Festa della Natività della Beata Vergine Maria

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Parte prima

La vocazione all'amore: sessualità e felicità

Introduzione

Nella vita delle persone molto dipende dalle loro scelte. Non tut­ to però. Ci sono molte cose che non abbiamo scelto e che fanno par­ te del nostro stesso essere e della nostra storia: i nostri genitori, il luogo di nascita, il nostro codice genetico, il colore della pelle, i no­ stri fratelli... E tra queste cose che non dipendono dalla nostra vo­ lontà c'è il fatto d'esser uomo oppure donna, con una determinata struttura cromosomica e una precisa anatomia organica: si tratta di un dato che precede ogni possibile scelta da parte nostra. Non sce­ gliamo il nostro sesso: questo, con tutto ciò che comporta, s'impone alla nostra coscienza come un dato che precede la nostra libertà. Si tratta però di un dato neutro, al quale ciascuno potrebbe dare il si&nificato che più gli piace? E certo che la sessualità influisce sulla corporeità in una maniera molto profonda. Ma arriva a influire anche sull'identità stessa del­ l'essere umano, su ciò per cui la persona si identifica con se stessa? In molti aspetti della propria corporeità non c'è una simile identifi­ cazione, dal momento che sono visti come dati puramente biologici: così il colore della pelle non determina la dignità di una persona, né la mancanza di una determinata caratteristica fissa una personalità concreta. La sessualità è qualcosa di puramente biologico il cui in­ flusso sull'identità personale dipenderà da una successiva scelta del soggetto? Anzi, la sessualità non solo si impone come un fatto fondamen­ tale, ma rende anche possibile una relazione nuova nella vita delle persone dal momento che la reazione di fronte alla persona di sesso

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differente inaugura una singolare esperienza relazionale in cui l'uo­ mo e la donna sperimentano se stessi in una forma inedita. Questa esperienza d'amore suppone un situarsi originale delle persone nel complesso delle loro relazioni, configurandolo in una forma nuova. Ma da chi o da che cosa dipende questa configurazione? Dove ha il suo fondamento? La novità e la drammaticità con la quale l'espe­ rienza dell'amore si manifesta nella vita delle persone reclama un'in­ terpretazione della stessa esperienza che ci consenta di comprende­ re il suo significato. Ma qual è il significato di questa esperienza? La sessualità ci si manifesta così nella nostra vita non come qual­ cosa di semplicemente statico, bensì come qualcosa di dinamico che, attraverso l'esperienza amorosa e le nuove relazioni ch'essa genera, spinge le persone ad agire, meglio, a un mutuo interagire. Per l'essere umano agire non è il solo muoversi nella direzione che indicano gli im­ pulsi, come avviene nell'animale il cui istinto gli segnala le vie e i fini delle azioni. Per l'essere umano agire equivale a dare senso, a fissare il senso e i fini delle proprie azioni. Ma che senso dare al mutuo agire sessuale? Quale fine assegnargli? È sufficiente la semplice sponta­ neità dell'inclinazione fisica o affettiva? Se questo fosse il significato, come spiegare l'esperienza di disillusione e fallimento di tante espe­ rienze amorose? Non ci imbattiamo in questioni riguardanti le circo­ stanze che vertono semplicemente sul modo con cui gestire l'espe­ rienza dell'amore, ma piuttosto ci troviamo di fronte a una questione che è definitiva nella vita della persona e incide sulla sua stessa iden­ tità e sul suo destino: in essa si gioca la pienezza d'una vita. Occorre ancora valutare un altro aspetto cruciale in questo primo approccio all'esperienza della sessualità. Se essa è un dato previo al­ la nostra scelta e fa parte della costituzione ontologica della persona, ciò significa che il suo autore è l'Autore della natura stessa dell'esse­ re umano. È stato Dio che ha creato l'essere umano come maschio e femmina. Ma perché lo ha creato così, maschio e femmina? A cosa pensava quando ha modellato l'uomo come un essere sessuato? Al di là di un'interpretazione parziale del significato della sessualità, la questione posta sul tappeto intende affrontare il modo in cui la ses­ sualità entra dentro il progetto di Dio sulla persona umana. Davanti a questa serie di interrogativi sorge una questione me­ todologica: come conoscere il senso, la verità della sessualità? Que­ sto senso e il disegno di Dio sopra di essa ci vengono anticipati non in una riflessione teorica, ma nella stessa esperienza umana. Nella ri­ flessione teorica è decisiva la comunicazione o trasmissione di de­ terminati principi dai quali dedurre le loro conseguenze da applica-

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re alle diverse situazioni. Questo tipo di apprendimento è valido per quelle realtà che non toccano direttamente la persona. Nel caso del­ la sessualità ci troviamo però dinnanzi a una realtà che tocca la stes­ sa essenza umana: essa non è «qualcosa» di fronte alla quale si met­ te la persona e che si possa perciò oggettivare o concettualizzare. La stessa esperienza sessuale si presenta alla nostra coscienza come una realtà misteriosa, che sfugge ad una concettualizzazione immediata e diretta. Il percorso adeguato per scoprire il suo significato sarà allo­ ra lasciar parlare l'esperienza, che sia essa a rivelarci il significato che nasconde, poiché l'intera esperienza umana, proprio per essere uma­ na, è carica di un significato, di una verità, che può guidare la nostra ricerca. Qual è allora la verità che l'esperienza sessuale nasconde? Che cosa ci rivela riguardo all'identità e al destino della persona?

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Capitolo primo

L'interpretazione del significato delle esperienze

Collocarci nel cammino dell'esperienza per trovare il significato e la verità della sessualità umana può suscitare una certa perplessità: non rischierebbe questo cammino di scivolare nel relativismo dell'e­ sperienza che è sempre personale e individuale? Non si finirebbe co­ sì nel soggettivismo? Ciò sarebbe vero se «l'esperienza umana» di cui si parla equiva­ lesse a ciò che normalmente si intende per «ho avuto un'esperienza» o «sono stato toccato da tale esperienza», indicando una vicenda iso­ lata e parziale, del tutto personale e propria dell'individuo, il cui sen­ so e valore lui solo può realizzare. La vita sarebbe vista come una somma di diverse esperienze. È certo che molte volte le persone si barricano in uno «speri­ mentalismo» che è visto come l'unico criterio di senso e di attuazio­ ne. Allora però riducono l'esperienza vissuta a momenti isolati, sen­ za connessione né unità, dai contenuti meramente emotivi e diretta­ mente percepiti. Si tratta di una riduzione che esercita una vera e propria violenza sulla ragione, che cerca sempre di scoprire la profondità di ciò che le appare, il suo perché. Si rende di conseguen­ za necessario chiarire cosa si intende per «esperienza».

1. L'esperienza umana dell'amore Il concetto di «esperienza umana» o di «vissuto umano» vuole in­ dicare un fatto primario nella vita delle persone, il fatto cioè che la realtà colpisce il soggetto, gli si impone, lo rende consapevole, gene-

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randa una risposta, un'azione. 1 Ci colpisce la bellezza di un paesaggio quando lo contempliamo dalla sommità di una montagna, ci colpisce il coraggio che mostra un amico nella lotta contro una grave malat­ tia, ci colpisce l'invocazione di aiuto che ci rivolge un familiare nel dolore per il fallimento di suo figlio. Si tratta di esperienze che com­ portano una complessità di fenomeni diversi in cui intervengono di­ stinte dimensioni dell'uomo: i suoi sentimenti, i suoi affetti, la sua in­ telligenza, la sua volontà, la sua storia. E in esse si sperimenta la realtà in quanto ci tocca, ci colpisce, ci trasforma in una certa misura e, soprattutto, ci chiama a interpretare il suo significato: il significato della bellezza, il significato del coraggio, il significato dell'amicizia. Che vuol dire interpretare il suo significato? Vuol dire situare ta­ le esperienza, che ha sempre una valenza concreta, particolare e tem­ porale, in un quadro complessivo di senso della vita in cui appaia un principio di unità capace di dar spiegazione delle sue diversità in rap­ porto allo stesso soggetto agente. Questo principio di unità si scopre quando si comprende la finalità ultima cui fa riferimento l'esperien­ za, dal momento che a partire da essa si può spiegare la diversità dei fattori messi in gioco. Il senso della bellezza non è semplicemente il piacere estetico che produce, quanto piuttosto lo scorgervi l'armonia della creazione e il ruolo della contemplazione nella vita umana: non tutto nella vita è frutto del nostro «fare», poiché in questo modo ri­ durremmo la realtà alla nostra stessa capacità. Il senso del coraggio non è semplicemente la capacità di lottare, di affrontare delle diffi­ coltà quanto la grandezza del motivo per cui lottare e resistere: da­ vanti a qualcosa che minaccia la possibilità di vivere in comunione con gli esseri che ci sono cari, ci si manifesta la grandezza di un idea­ le desiderato, davanti al quale si è capaci di sacrificare altri beni. Il senso dell'amicizia non è semplicemente l'utile che rende disponibi­ le o il conforto che offre, quanto la comunione generata, nella quale entrambi gli amici raggiungono la loro pienezza. L'impatto che que­ ste esperienze producono nel soggetto lo spinge a cercare il loro si­ gnificato, a interpretarle in riferimento a qualcosa che si nasconde dentro di esse e che è più grande del piacere, o dell'ammirazione, o della compassione che suscitano. Le nostre esperienze sono abitate da una verità che travalica la loro particolarità.

1 Cf. J. MouRoux, L'expérience chrétienne. Introduction à une théologie, Aubier Montaigne, Paris 1952; A. SCOLA, Questioni di antropologia teologica, Ares, Milano 1996, 113-127.

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È dunque ora necessario comprendere che tra l'esperienza e l'interpretazione c'è una mutua correlazione: poiché interpretare le esperienze non è raggiungere una conoscenza puramente oggettiva di qualcosa che esiste senza che intervenga la propria soggettività, come se si trattasse di qualcosa di precostituito. Nell'esperienza è implicata la soggettività personale. Ma, nello stesso tempo, questa implicazione della soggettività non significa che l'interpretazione sia una pura creazione del soggetto senza rapporto con la realtà che in­ contra. Vi è un elemento che è costitutivo dell'interpretazione del­ l'uomo e che per questo possiede un'originalità radicale di fronte a qualsiasi iniziativa e attività umana; l'armonia del paesaggio è costi­ tutiva della mia interpretazione, come lo è il valore della lotta o la necessità di aiuto che ha un amico. Con questo non mi riferisco uni­ camente all'originalità della realtà nei riguardi del soggetto poiché, come abbiamo visto, la soggettività personale passa al vaglio ogni esperienza secondo la propria storia: non si tratta di scoprire un qualcosa che sia semplicemente previo al soggetto, alla maniera di una somma di valori che abbiano la loro consistenza indipendente­ mente dalla persona. Mi riferisco piuttosto al fatto che nella stessa esperienza della realtà si compie un'attività di composizione della ragione che cerca l'interna armonia degli aspetti che implica e che, solo quando la trova, comprende veramente e fa esperienza in mo­ do umano. Possiamo così cogliere che in ogni esperienza esiste una dimen­ sione elementare che configura la mia interpretazione e che la condi­ ziona in modo radicale, poiché rende possibile l'intuizione della rela­ zione di tale esperienza con la pienezza che racchiude, mostrando co­ sì il suo significato umano. 2 Questa dimensione elementare, costituti­ va dell'attività umana cosciente che interpreta l'esperienza, si chiama «esperienza originaria» e in essa si trovano allo stato germinale la possibilità e le linee direttrici di ogni interpretazione. L'«esperienza originaria» esprime l'intuizione del significato umano dell'esperien­ za, in quanto è qualcosa che nei suoi contenuti non dipende dalla scel­ ta propria dell'uomo, quanto invece dall'armonia o integrazione de­ gli elementi in gioco. Tra le tante esperienze che una persona può vivere, l'esperienza amorosa, cioè l'esperienza dell'impatto che una persona di sesso dif-

2 Cf. A. ScoLA, L'esperienza elementare. La vena profonda del magistero di Gio­ vanni Paolo Il, Marietti, Genova-Milano 2003.

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ferente suscita nel soggetto e la seduzione che comporta, per la ric­ chezza e l'intensità che contiene ci si rivela di un'importanza singo­ lare. In questa esperienza coincidono diverse dimensioni che le sono intrinseche, come la dimensione di bellezza, di bontà e di verità che porta in sé. Si tratta allora dell'ammirazione davanti alla contempla­ zione della persona nella sua corporeità differentemente sessuata, che ci indica una singolare armonia; di un'attrazione davanti alle sue qualità personali che ci completano, mostrandosi a noi come conve­ nienti; di un significato di questa bellezza e convenienza che è in re­ lazione con un soggetto libero personale. Queste dimensioni sono originarie rispetto all'interpretazione che se ne possa offrire, fino al punto di fondarla. Tra di loro interessa porre in particolare risalto la dimensione di verità e di bontà, considerato che grazie ad essa è possibile una com­ prensione antropologica e morale dell'uomo. Antropologica, perché nell'esperienza dell'amore è possibile rispondere in una forma nuo­ va alla domanda sull'identità dell'uomo, la sua unità sostanziale e la sua libertà, poiché in essa fa esperienza di se stesso come soggetto d'amore nell'unità di corpo e anima. E morale, perché nell'esperien­ za amorosa, nell'offerta di una finalizzazione che trasforma interior­ mente la persona, si può cogliere la bontà degli atti della sfera ses­ suale per la convenienza che determinate azioni comportano.3 Di fronte a questa ricchezza manifestata dall'esperienza, si com­ prende come non sia possibile ridurla a qualcosa di meramente em­ pirico, né di puramente emotivo e neanche di unicamente razionale, né ancor meno a una relazione soggetto-oggetto. a. L'esperienza dell'amore con la reazione che produce non è qualcosa di meramente empirico, alla maniera di altre reazioni che avvengono nel soggetto come semplici processi naturali di cui pos­ siamo avere più o meno coscienza: la respirazione, la digestione... Questi processi si svolgono nel soggetto in modo indipendente dalla sua libertà, senza giungere ad investire la sua soggettività. L'esperienza dell'amore, al contrario, tocca in pieno la soggetti­ vità della persona, esigendo al suo stesso insorgere una risposta, la quale non si limita semplicemente a una contemplazione della bel­ lezza, ma richiede un'implicazione del soggetto: per questo il vissuto dell'amore provoca la libertà della persona. L'uomo non è un mero 3 Cf. J.J. PÉREZ-SOBA, La experiencia mora/, Pubblicazioni della Facoltà di Teolo­ gia San Damaso, Madrid 2002.

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osservatore di ciò che accade nell'esperienza d'amore, ma, speri­ mentandolo, si trasforma in autentico attore delle proprie vicissitu­ dini. L'esperienza amorosa implica in se stessa l'attuazione amorosa, sia quando si accetta, sia quando si rifiuta. b. Neppure è qualcosa di puramente emotivo, per quanto sia una mera pulsione o emozione che, per la sola intensità e ricchezza che comporta, muove e spinge la persona ad agire. È certo che il vissuto amoroso suscita una ricchezza affettiva nella quale la persona vive un'esultanza singolare. Questa ricchezza affettiva ha però un signifi­ cato e può essere apprezzata e giudicata nella verità che porta con sé, così che per essere vissuta in modo umano richiede il lavoro di composizione della ragione che giudica della pienezza alla quale fa riferimento. Nell'esperienza dell'amore vi è un contatto assolutamente origi­ nale con una realtà personale che attrae e seduce e che, nel porre in gioco la totalità della nostra persona, interroga circa il suo significa­ to, reclamando una risposta di senso che abbia riferimento con la persona e con la sua pienezza. L'esperienza autenticamente umana reclama la possibilità di dar ragione di essa: soltanto allora è l'espe­ rienza di un soggetto personale. c. Né è qualcosa di unicamente razionale o cosciente, per quan­ to si possa spiegare con i motivi di similitudine o di convenienza che le qualità dell'altra persona hanno nei confronti di quelle del sog­ getto. L'esperienza dell'amore non si attua senza qualche ragione, ma le ragioni che implica non possono per sé sole causarla, come si può vedere nel dramma di tante persone che, desiderando innamo­ rarsi e incontrando molte ragioni per amare una determinata perso­ na, non vivono tuttavia con lei un impatto amoroso: non hanno cioè un'esperienza d'amore. La novità dell'affetto è un ingrediente in­ trinseco dell'esperienza umana. È inoltre necessario tener conto che, benché ci rendiamo conto di ciò che accade, tuttavia nello stesso tempo siamo in realtà poco consapevoli di ciò che le nostre esperienze comportano. È nel tempo che si dipana la ricchezza umana prodotta da un impatto del genere: l'impatto prodotto dalla morte di un amico può essere «sentito» in una forma molto povera nel momento in cui ce la comunicano, forse perché la nostra attenzione era in quei momenti più concentrata in altre cose, però con il passar del tempo scopriamo quanto fosse profondo questo impatto e come ci avesse toccati. La stessa cosa av­ viene di fronte all'impatto dell'attrazione amorosa: ciò che siamo ca­ paci di spiegare è poco a confronto di ciò che veramente comporta e

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che il tempo ci va mostrando. Percepiamo però qualcosa, intuiamo un principio di unità, perché ci si è rivelato un fine nuovo, in sommo grado attraente, nel quale crediamo. La riduzione esperienziale, che si basa su ciò che uno semplicemente sente, elimina un fattore deci­ sivo delle nostre esperienze ed è la fede in un significato che si in­ travede, ma che ancora non si arriva a cogliere in pieno. d. L'esperienza amorosa, in quanto impatto della realtà sul sog­ getto, non può ridursi a una relazione soggetto-oggetto. Sicuramen­ te nell'esperienza dell'amore si scoprono molti aspetti della nostra soggettività che ci erano prima sconosciuti. Questa scoperta è però possibile perché la realtà in cui ci si imbatte non è «qualcosa», un og­ getto, un corpo con determinate qualità capaci di eccitare il nostro organismo, bensì «qualcuno», che nella sua corporeità, che traspare dal suo volto, dai suoi occhi, si rivolge verso di noi e ci guarda e ci parla. Nell'esperienza dell'amore si manifesta l'incontro di due sog­ gettività, la relazione soggetto-soggetto, irriducibile a una mera rela­ zione soggetto-oggetto. Cogliendo queste caratteristiche possiamo comprendere come l'esperienza umana e più in concreto l'esperienza dell'amore, nel momento in cui provoca e include la stessa libertà e intelligenza, sia un'esperienza che non soltanto rivela all'uomo la sua stessa sogget­ tività, ma anche la configura in un modo determinato, la cambia. E questo avviene perché in essa riceviamo qualcosa che si comunica, qualcosa che ci arricchisce e ci trasforma. L'esperienza d'amore cam­ bia l'uomo e la donna che la vivono. L'originalità dell'esperienza d'amore si riferisce non soltanto al fatto di includere una dimensione elementare che ne è costitutiva, ma anche di implicare la novità di un evento: l'evento di un incontro singolare che è vissuto non solo come esterno alla persona, come un semplice incontro tra tanti, bensì soprattutto come una cosa interio­ re, dal momento che l'incontro esteriore va a incidere sull'interiorità della persona e in essa viene vissuto e ricreato. Un incontro che non è tuttavia deducibile da interessi o da possibilità precedenti, anche quando fosse prevedibile. L'esperienza d'amore possiede pertanto un'intrinseca dimensione esistenziale, in virtù della quale include una dimensione drammatica: nell'impatto amoroso l'uomo si vede già rappresentare sulla scena un ruolo che lui non ha scelto e che nemmeno conosce. Si scopre in tal modo come autentico attore del­ ruolo di cui è ora egli stesso l'autore, con la possibilità di guadagnar­ si o di perdersi nella rappresentazione che ne dà.

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Interessa da ultimo notare un'altra caratteristica dell'interrela­ zione che corre tra «esperienza» e «interpretazione» poiché, se da un lato l'esperienza reclama l'interpretazione, da un altro incontra in ta­ le interpretazione una possibilità nuova di crescita, di espansione, di pienezza. Un'interpretazione delle esperienze vissute dalla persona la porta molto al di là di ciò che aveva inizialmente incontrato. Così, nel momento in cui ci si rende conto di ciò che l'esperienza implica, diviene possibile una personalizzazione della stessa e diviene altresì possibile viverla in modo più pieno. 4 Per concludere, nelle nostre esperienze c'è una singolare interre­ lazione tra l'impatto della realtà e l'interpretazione prodotta, grazie alla quale è possibile conseguire una verità decisiva circa l'identità della persona e il suo destino. Le nostre esperienze ci rivelano chi noi siamo e a che cosa siamo chiamati: in esse riconosciamo noi stessi. Interpretare le esperienze è riconoscersi in esse.

2. La difficoltà di interpretazione dell'esperienza dell'amore Interpretare le esperienze significa situarle all'interno di un qua­ dro complessivo di senso. È tuttavia necessario tener conto del fatto che questo quadro complessivo non è qualcosa che si ponga in pre­ cedenza, ma va fissandosi poco a poco in ragione delle stesse espe­ rienze che si vivono con il maturare della persona. In questa interre­ lazione tra senso globale ed esperienza, sembra che si verifichi come un circolo vizioso, dal momento che, da una parte, per interpretare l'esperienza si rende necessario un quadro di insieme e, da un'altra, questo quadro di insieme si acquisisce proprio in quelle esperienze. Com'è allora possibile? Per comprendere questa mutua influenza occorre tenere conto di due nuovi fattori: in primo luogo, l'intera esperienza umana tocca de­ terminate fibre della persona, cioè determinate inclinazioni la cui struttura e finalità viene data originalmente nella natura stessa. L'e­ sperienza della fame, per esempio, può essere interpretata in molti mo­ di, ma trasmetterà all'uomo sempre qualcosa di essenziale: la necessità 4 Cf. G. MADINIER, Conscience et amour. Essai sur le «nous», Presses Universitai­ res de France, Paris 1947; J. LEAR, Love and its Piace in Nature. A Philosophical Inter­ pretation of Freudian Psychoanalysis, Yale University Press, New Haven-London 1998, 12-15.

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di alimentarsi per sopravvivere; l'esperienza della gioia di fronte al successo di un amico si può interpretare in molti modi, ma rifletterà comunque l'empatia attraverso la quale si può identificare l'amicizia. Ogni interpretazione delle esperienze si situa d'altra parte all'in­ terno di un contesto culturale che già ha modellato una determinata interpretazione del loro significato circa lo stile di vita di tale società, la sua organizzazione politica, economica, familiare... e che viene tra­ smesso di generazione in generazione attraverso i racconti di avveni­ menti storici o immaginari al cui interno tali esperienze acquistano un indubitabile valore simbolico, ponendo in risalto l'eccellenza umana che contengono o il degrado che comportano. Il bambino o il giovane che cresce in tale cultura riceve così una prima mediazione culturale che gli consente di cogliere l'esperienza che sta vivendo al­ la luce dell'esperienza e della risposta che già hanno dato altri sog­ getti reali o immaginari. È in questo modo che il bambino potrà indi­ viduare quale risposta dare all'esperienza di dolore che sta vivendo, o il giovane all'esperienza d'amore davanti a una donna, o all'espe­ rienza d'ira di fronte all'aggressione dei nemici... Queste narrazioni aiutano la persona a rendersi conto delle dimensioni dell'esperienza che all'inizio non apparivano con tanta evidenza, giacché l'attenzio­ ne si fissava semplicemente sull'immediatezza del dolore, o del pia­ cere, o della rabbia provata. La persona allora, nell'esperienza da lei vissuta, potrà cogliere la corrispondenza del significato e dei valori narrati in simili storie con le fibre del proprio essere, le inclinazioni umane che si sono risvegliate nella risposta all'impatto che una determinata realtà ha provocato in relazione all'eccellenza che nasconde, al bene umano in quanto tale. La mediazione culturale peraltro non solo presenta nei suoi rac­ conti una prima interpretazione, ma offre anche nella modalità di or­ ganizzazione sociale una prima incarnazione pratica del suo senso. In questo modo offre un canale di realizzazione del suo significato. Evidenziare l'importanza della mediazione culturale non com­ porta dunque affermare che ogni interpretazione sia relativa a cia­ scuna cultura, cadendo nella difficoltà di una antropologia culturale incapace di valutare e di giudicare i modi in cui le differenti culture hanno vissuto l'esperienza del dolore, dell'amore o della morte. Né le narrazioni né la stessa organizzazione sociale determinano il si­ gnificato delle esperienze, poiché tale significato attiene intrinseca­ mente all'esperienza stessa. Ciò che esse favoriscono è che la perso­ na, nel vedere simbolicamente rappresentata in altri un'esperienza similare, possa riconoscere il senso umano di ciò che sta vivendo,

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l'eccellenza della risposta alla quale è chiamata e il pericolo di una degradazione della sua stessa dignità. È in questo modo che il bam­ bino, prima delle esperienze di dolore, di paura, di solitudine, di spe­ ranza, d'amore, di vergogna, troverà nelle storie narrate dai suoi ge­ nitori un orizzonte in cui situare ciò che sta sperimentando, riuscen­ do a dare una risposta adeguata. La difficoltà che nasce davanti a questo dato ovvio del modo in cui il bambino va personalizzando e acquisendo la sua maturità, con­ siste nel fatto che la mediazione culturale può tanto aiutare quanto ostacolare il bambino nel situare in modo adeguato l'esperienza vis­ suta nel quadro di un orizzonte ultimo e globale. Un fatto evidente è la poligamia, nella quale l'attrazione tra uomo e donna non viene in­ terpretata principalmente come una questione di relazione d'amore tra due persone di pari dignità, ma piuttosto come una possibilità di fecondità per il maschio in ordine all'acquisizione di potere e di pre­ stigio nella società. Per un bambino che cresca in una cultura poliga­ ma, l'esperienza dell'attrazione sessuale riceverà questa prima me­ diazione culturale, pertanto gli riuscirà difficile scoprire il suo auten­ tico significato personale. L'esperienza dell'amore ha sempre ricevuto una mediazione cul­ turale.5 Si deve tener conto che la realtà dell'amore viene sempre vis­ suta in una forma incarnata, in un tempo e in un luogo, servendosi della mediazione simbolica che è rilevante in quella determinata so­ cietà. Ciò non implica che la cultura la determini, ma certo che abbia su di essa un influsso in misura più o meno decisiva a seconda di co­ me sono le persone. Si colgono così storicamente diverse modalità culturali che hanno configurato l'esperienza dell'amore all'interno di una società, come possono essere l'amore cortese nel medioevo, o l'amore romantico e l'amore puritano nel XIX secolo, o il libero amore nel XX secolo, o l'amore funzionale in altre epoche. Percepi­ re questa mediazione culturale nella propria esperienza d'amore ci aiuta, da un lato, a relativizzare l'assolutezza con cui si difendono sue determinate dimensioni e, da un altro, a purificare e cercare con maggior impegno un'adeguata e autentica realizzazione. Quali sono le configurazioni culturali che mediano oggi l'inter­ pretazione dell'esperienza dell'amore ?6 5 Cf. l'ormai classica opera: D. DE RouGEMONT, L'amour et l'occident, Plon, Paris 1956. 6 Si veda G. ANGELINI, «La teologia morale e la questione sessuale. Per intendere la situazione presente», in CIF, Uomo-donna. Progetto di vita, UECI, Roma 1985, 47-102.

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a. Interpretazione funzionalistica Questa interpretazione ha vissuto forme diverse nel corso della storia, ma in ciascuna di esse è presente uno stesso dato: l'amore in­ teressa non per ciò che è in se stesso, ma per la funzione che svolge nei confronti della vita personale, o della vita della società o della specie. Si considera così come essenziale la dimensione «transitiva» dell'amore, quella dimensione cioè che produce un effetto, una con­ seguenza sia per la vita della persona, che per il suo intorno. L'espe­ rienza amorosa viene allora valutata in quanto concorde con la bio­ logia dell'essere umano e il naturale svolgimento delle sue funzioni e dei processi naturali, o in quanto consente lo sviluppo della specie, o favorisce la vita sociale. Il senso dell'amore e della sessualità si identifica in tal modo con il frutto che produce: si giustifica sia per la fecondità, sia per la possi­ bilità di mantenere unite persone che svolgono un ruolo nella società, nell'economia, ecc. Ciò che è essenziale è che il sesso, dal momento che in questa visione si ha un impoverimento di prospettiva concen­ trandosi nell'aspetto genitale, è visto come facoltà generativa e il pia­ cere che l'accompagna è la ricompensa al gravoso compito di gene­ rare ed educare i bambini. Nella storia della teologia, durante il periodo immediatamente successivo al concilio di Trento, si profila una singolare riflessione sulla sessualità, giacché i libri che si pubblicano per la formazione dei confessori, i manuali di teologia morale, considerano il comporta­ mento sessuale dal punto di vista del suo rapporto con la legge divi­ na, che a sua volta ha l'equivalente umano nella legge biologica. È così che sotto una visione biologicista si arriva ad attribuire alla ses­ sualità il fine della generazione. All'interno di questa prospettiva occorre d'altra parte porre in ri­ salto l'interpretazione puritana, con le sue radici nel calvinismo e nel giansenismo, che vanno a escludere dall'esperienza amorosa ogni re­ lazione con il piacere, configurando un vissuto della sessualità se­ gnato da un rigido sistema di norme morali in rapporto alla funzio­ nalità della sessualità a forte valenza sociale. Se è ben certo allora che la sessualità possiede una dimensione transitiva che produce effetti al di fuori del soggetto, è nondimeno certo che l'amore e la sessualità possiedono in se stessi un significa­ to anche «immanente», in quanto permane nel soggetto e lo trasfor­ ma. Lo possiedono poi perché l'esperienza amorosa coinvolge la persona, la sua interiorità e libertà, e in questo modo non è solo il

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contesto a trasformarsi, ma la persona in quanto tale. L'atto d'amo­ re che coinvolge la sessualità suppone cioè una perfezione intrinse­ ca del soggetto che lo fa crescere come tale: lo rende una persona buona oppure, al contrario, una persona cattiva. Da un altro lato, è necessario comprendere come il senso della sessualità e dell'impulso che essa comporta non venga dato attraver­ so la sua mera funzionalità organica, poiché implica anche una di­ mensione psicologica, nella quale il suo significato viene scoperto at­ traverso la rappresentazione mentale e simbolica che di essa si co­ struisce il soggetto e che in un certo modo la costituisce e configura, come ha mostrato la corrente psicoanalitica. L'esperienza dell'amo­ re comporta una funzionalità con una struttura biologica e precise fi­ nalità, ma non è questa funzionalità a configurare il suo senso. Anche se è certo che attualmente questa corrente di pensiero non influisce decisamente nella maggior parte della società, tuttavia si avverte il suo influsso in un tipo di argomentazione sul tema ses­ sualità che attiene unicamente al problema della natalità o, in un al­ tro ordine di cose, al problema dell'«igiene». Allora ciò che importa è che la sessualità non produca conseguenze negative «esteriori» o anche «interiori», come sarebbe nel caso di una gravidanza indesi­ derata o della trasmissione di una malattia, o la destabilizzazione dell'equilibrio psicologico. Allora, però, quel che si dimentica è pre­ cisamente il riferimento al soggetto che ogni atto d'amore compor­ ta, vale a dire in quanto lo edifica o lo distrugge.

b. Interpretazione romantica dell'amore Il romanticismo come fenomeno filosofico, ma fondamentalmen­ te come fenomeno culturale e sociale, nasce nel XIX secolo in con­ trapposizione al razionalismo e alla sua pretesa di riferire alla ragio­ ne il principio unificatore della persona. 7 Ed è questa sopravvaluta­ zione della ragione che ha portato a «mummificare» la natura, pri­ vandola della linfa delle passioni e rinchiudendo l'uomo nel «sogno degli affetti». Di fronte a ciò reagisce il romanticismo, rivendicando il ruolo proprio dell'interiorità, che acquista nel sentimento la forma sintetica di ciò che è veramente e autenticamente umano. Il principio unificatore della persona non sarebbe la ragione, ma il sentimento. 7 Cf. K.S. POPE (ed.), On Love and Loving. Psychological Perspectives on the Na­ ture and Experience of Romantic Love, Jossey-Bass Publishers, San Francisco-Wa­ shington-London 1980.

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Si tratta dunque di un sentimento che rigetta ogni razionalità, in modo tale da chiudersi a ogni possibile criterio di verifica che non sia la stessa intensità del suo vissuto. Davanti al sentimento la libertà dell'uomo si sente sorpresa, come di fronte a un fatto che le si impo­ ne. L'amore prende così la forma di unfatum, davanti al quale la per­ sona non può far altro che soccombere. In questo modo il romanti­ cismo ha contribuito alla configurazione di un soggetto emotivo, in­ capace di captare il significato interno alle proprie esperienze. Il Werther di Goethe mostra quanto l'amore possa giungere ad essere distruttivo nella vita di una persona quando rimane preda del senti­ mento: il protagonista, innamoratosi della fidanzata del suo miglior amico, non avrà che una via d'uscita, il suicidio. Certamente il romanticismo ha saputo porre in risalto un ele­ mento dimenticato nell'esperienza dell'amore: il sentimento, che ha qualcosa di decisivo da dire. Grazie a lui il matrimonio non è solo questione di funzionalità e utilità, così come neanche solo di decisio­ ne. È anche questione di amore, di vissuto emotivo, di interiorità. Non basta la sola decisione per portarlo avanti. Tuttavia il romanticismo, riducendo l'esperienza d'amore a un'e­ sperienza sentimentale, ha reso impossibile per l'uomo governare la propria esperienza, dal momento che gli manca un criterio per verifi­ care il proprio sentimento all'interno di un orizzonte complessivo di senso. Inoltre, lascia da parte una dimensione intrinseca dell'esperien­ za: la volontà che duri. Il tempo, precisamente il tempo, si trasforma nel peggior nemico dell'amore poiché, ridotto l'amore al sentimento, ren­ de incapace di guardare al futuro per il timore di non sentire domani ciò che oggi si sente. Ancora di più, lo rende incapace di promettere, poiché nessuno può promettere di sentire domani ciò che oggi sente: promettere si trasformerebbe in qualcosa di non autentico. L'interesse della persona si concentra così nell'affanno di ripetere le esperienze, per trovare sentimenti che appaghino, senza percepire che l'amore comporta anche una volontà di costruire. Il sentimento, per quanto molto importante possa essere, non basta da solo a garantire l'unità della persona e la sua condotta così come il successo dell'amore.

c. Interpretazione psicoanalitica dell'amore Ma il razionalismo ha anche un'altra risposta. Di fronte alla grande importanza acquisita dalla ragione come principio sintetico della persona, l'importanza data al a priori mora­ le kantiano, e di fronte alla pretesa del puritanesimo di regolare l'e-

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sperienza dell'amore con norme morali, Freud scopre l'influsso deci­ sivo che riveste nella condotta umana il sub-inconscio: non tutto può ridursi al dovere e alle ragioni per agire. Nel suo intento di spiegare il motivo di determinate condotte pa­ tologiche, trova che esiste una eziologia sessuale nelle malattie psico­ logiche, in quanto la sofferenza che inducono sarebbe sintomo di un problema energetico irrisolto, non assunto, non adeguatamente inter­ pretato, indirizzatosi verso oggetti inappropriati. La sessualità viene a essere così compresa secondo il paradigma della pulsione, i cui com­ ponenti essenziali sono impulso ed energia, in modo tale che se non trova un adeguato canale di realizzazione grazie all'interpretazione simbolica, si reprime nell'inconscio creando difficoltà nel futuro. In questa concezione l'amore è visto come una sublimazione del­ la pulsione, un ricondurre l'energia della pulsione verso fini più alti, più creativi, socialmente apprezzati, che non attengono però alla pul­ sione in se stessa. Ebbene, con ciò l'amore acquista la forma di un de­ siderio che cerca la soddisfazione, così come succede nella pulsione. Si introduce in tal modo, dal punto di vista pratico, l'interesse per il «benessere psicologico» come criterio di comportamento sessuale, per il cui successo si rende imprescindibile un'adeguata relazione tra l'esperienza affettiva e la sua interpretazione. Il grande merito della riflessione di Freud si situa nel recupero di elementi non direttamente razionali nella condotta umana, cosicché evita la tirannide di una coscienza che tenta di ridurre tutto alla pro­ pria razionalità. Per ciò che attiene alla sua visione della sessualità, è certo che questa implica un'energia pulsionale e che la reazione che comporta richiede un'adeguata interpretazione e canalizzazione. Que­ sta interpretazione, decisiva nell'esperienza sessuale, implica però un logos interno alla stessa esperienza il cui paradigma non può essere né l'energia da sola né la sua sublimazione, dal momento che l'uomo re­ sterebbe come spettatore di ciò che accade dentro di sé, del gioco pul­ sionale, cercando di gestirlo senza che gli causi problemi maggiori. Le emozioni sono soprattutto un orientamento verso il mondo, verso un modo di relazionarsi che comporta una perfezione nuova nell'uomo e che non può ridursi a un semplice equilibrio di forze. Poiché non coglie l'elemento personale dell'amore e dell'impulso sessuale e lo concepi­ sce come una forza che cerca un'unità primitiva, Freud perde di vista il fatto che ogni amore cerca, al contrario, un'unità più perfetta. 8 8 Cf. LEAR, Love and its Piace in Nature. A Philosophical Interpretation of Freu­ dian Psychoanalysis, 142-155.

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d. Il concetto di sessualità nella rivoluzione sessuale Sul finire degli anni '60 si sviluppò nel mondo universitario occi­ dentale una contestazione studentesca con un forte contenuto di ri­ vendicazione sociale, nella quale la sessualità rivestiva un ruolo de­ cisivo. Ciò si deve al presupposto ideologico marxista per il quale la rivoluzione sociale attraverso la lotta di classe non potrebbe realiz­ zarsi fino a che non sia scomparsa una concezione della relazione uo­ mo-donna basata sul matrimonio monogamico, fondamento ultimo della repressione borghese. 9 Questo elemento ideologico, assieme a una convergente visione della sessualità basata sul sentimento, di fronte al quale la sincerità e l'autenticità finivano per determinare la verità della persona e la sua realizzazione, 10 e sulla pulsione, che non si doveva reprimere con il rischio di ammalarsi, bensì soltanto con­ trollare nelle sue conseguenze, fanno esplodere la rivoluzione ses­ suale, già in un certo modo anticipata nella rivoluzione russa e nel periodo tra le due guerre mondiali. 11 Il concetto di sessualità che veniva trasmesso era chiaro: la ses­ sualità è pura energia, questione di genitalità, e il suo equilibrio con­ siste nel gioco di tensione-distensione. Per viverla nella sua piena autenticità era necessario «liberarla» dai lacci che fino ad allora l'a­ vevano repressa. 12 Quali? Da un lato, l'istituzione del matrimonio vista come il carcere e la fine dell'amore, reclamando, per potersi emancipare, la privatizzazione della vita sessuale; dall'altro, la libe­ razione da una fecondità non desiderata che impediva un esercizio più spontaneo della sessualità e riempiva di timori la sua piena espressione. Nella liberazione da questi due vincoli repressivi si pro­ metteva un amore più autentico, più personale, più libero, più crea­ tivo, più felice. E certamente liberò la sessualità, con un mutamento radicale nei costumi sessuali della società occidentale. Il sesso passa ora a essere un bene a disposizione delle persone, un bene d'uso e godimento, un bene di consumo, da sfruttare per soddisfare le necessità che genera, senza che abbia nella società altro controllo che il principio di tolle­ ranza. Il piacere sessuale si erige come il piacere per eccellenza e 9 F. ENGELS, The Origin of the Family, Property and the Sate, International Publishers, New York 1972. 10 F. GIARDINI, La rivoluzione sessuale, Paoline, Roma 1974. 11 Cf. W. REICH, La rivoluzione sessuale, Feltrinelli, Milano 1963. 12 Cf. H. MARCUSE, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1968.

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principio ultimo di riferimento, così che la cultura acquisisce un ca­ rattere di pansessualismo che finisce col rendere ardua un'adeguata percezione del posto della sessualità nella vita umana. 13 È così che si può intendere l'apparizione sul finire del XX seco­ lo della «teoria del genere», secondo la quale la modalità relaziona­ le tra le persone non sarebbe basata sul sesso biologico, ma su una «costruzione» del sesso psicologico che ogni soggetto fa in una so­ cietà e cultura determinate, in un'identificazione con le immagini ideali che si fanno degli altri. Il sesso biologico acquista così la con­ notazione di qualcosa di puramente neutro, plasmabile in differenti maniere, senza alcuna incidenza sull'identità di genere della persona, la quale viene a essere suscettibile di ricevere distinte modalità di in­ clinazione.14 Essere uomo o donna non dipende in alcun modo dal sesso, bensì dal modo con cui uno desidera situarsi in una determi­ nata società in relazione alla cultura e all'educazione ricevute. La difficoltà che la rivoluzione sessuale ha incontrato sta esatta­ mente nella rottura tra la sessualità, da un lato, e il matrimonio e la fecondità dall'altro. Questa rottura ne ha inevitabilmente comporta­ to una terza di una gravità enorme nel suo vissuto ed è la rottura del­ la sessualità nei confronti della persona: distaccando la sessualità da un ambito di promessa reciproca e dalla sua costitutiva apertura al­ la vita, se ne è eliminata la dimensione intrinsecamente personale, così che ha finito per essere ridotta a un oggetto d'uso. Con ciò, co­ me ogni oggetto, si rende incapace di colmare l'ansia di felicità che sta all'origine della sua attività, in modo che si introduce una terribi­ le dinamica nel suo sviluppo: le esperienze vissute finiscono per an­ noiare nella loro monotonia, così diventano necessari stimoli ogni volta più intensi per incontrare in essa la sperata distensione. Abbiamo passato in rassegna alcune delle interpretazioni cultu­ rali che influiscono in maggiore o minore misura sulla concezione e rappresentazione simbolica che le persone si fanno dell'esperienza sessuale. Queste interpretazioni pongono certamente in evidenza elementi importanti della sessualità, però distorti, come in un gioco di specchi concavi e convessi, davanti ai quali lo spettatore si trova a passare e a percepire delle immagini la cui somiglianza con la realtà

Cf. il numero monografico sul tema in Anthropotes 20(2004). J. BUTLER, Gender Trouble: Feminism and the Subversion of ldentity, Routled­ ge, New York 1990. 13

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diventa una caricatura. Qual è la ragione di fondo di questa distor­ sione? Esse trascurano aspetti dell'esperienza e non sono capaci di vedere la loro globale complessità e connessione. Non si tratta di ne­ gare la verità che queste correnti hanno evidenziato, ma di vedere come i loro elementi positivi si armonizzano nella globalità dell'e­ sperienza autenticamente umana della sessualità.

3. Il cammino da seguire Come scoprire allora la verità dell'esperienza dell'amore? È qui che la novità della riflessione di Giovanni Paolo II e la presa di co­ scienza della rilevanza che riveste il desiderio possono aiutarci in modo risolutivo.

a. Illuminare l'esperienza con la luce della rivelazione La novità apportata dalla riflessione di Giovanni Paolo II sulla sessualità umana riguarda in primo luogo non tanto il contenuto che propone, quanto il metodo con cui la esamina. Non cerca di proiet­ tare in essa un significato, ma piuttosto di scoprire il senso che le esperienze originarie nascondono e insinuano. Esperienze come la solitudine, l'unione, la nudità, la vergogna, la felicità, la concupiscen­ za... offrono elementi decisivi per l'interpretazione che potrebbe da­ re una determinata cultura. Queste esperienze, inoltre, si trovano al fondamento di ogni cultura. La seconda novità apportata si accentra nel mostrare come il si­ gnificato umano di queste esperienze è illuminato in una forma nuo­ va quando esse vengono viste alla luce della rivelazione. 15 La rivela­ zione è accolta in un'esperienza d'amore che, in tal modo, può la­ sciarsi illuminare senza violenza. È allora la narratività stessa della rivelazione ad aiutare la configurazione del significato ultimo dell'e­ sperienza dell'amore. Con ciò Giovanni Paolo II si rende erede fe­ dele del modo con cui l'ultimo concilio Vaticano affronta l'analisi dei singoli scottanti problemi del mondo ( GS 46). Combina in tal modo in una forma armonica e sintetica due diverse modalità di analisi: da un lato il riferirsi all'esperienza, da un altro il vederla dal punto di vi15 Cf. C. CAFFARRA, «Introduzione generale», in G10VANNI PAOLO Il, Uomo e don­ na lo creò, Città Nuova-LEV, Roma 1995, 5-24.

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sta della rivelazione stessa. Unitamente a questa dimensione illumi­ nante della rivelazione si apprezza tuttavia un'altra sua dimensione: la rivelazione implica un'esperienza, un avvenimento rivelatore, cioè un contatto con la realtà di Dio che ci comunica qualcosa. Esperien­ za e rivelazione sono così unite in una forma singolare, in modo tale che tra di loro si verifica un mutuo arricchimento. Ogni uomo potrà riconoscersi nella narrazione che la rivelazione fa della prima espe­ rienza d'amore, configurando così la sua autentica fisionomia umana nel momento in cui gli si discopre il progetto divino su di essa. Nelle Catechesi sull'amore umano, fin dall'inizio il papa avverte che si situa nel metodo pedagogico seguito da Gesù davanti ai dilem­ mi di morale coniugale che gli ponevano i suoi contemporanei. Gesù non accetta l'ottica del dilemma, che tende a privilegiare una delle so­ luzioni affrontate, ma riconduce i suoi ascoltatori a un principio nuo­ vo di comprensione, superando la contrapposizione: «in principio non era così» (Mt 19,8). L'interesse del papa si incentra nell'aiutare l'uo­ mo moderno a porsi nella prospettiva adeguata per poter interpreta­ re l'esperienza dell'amore, e per questo gli offre il cammino di rifarsi al «principio». Ma di che «principio» si tratta? Il riferimento al libro della Genesi è ovvio: «In principio Dio creò [ ...]». I suoi contemporanei potevano comprenderlo molto be­ ne. Gesù fa riferimento all'uomo come venne creato da Dio. E tutta­ via quelli potrebbero opporre, come i nostri contemporanei, che quel «principio» ormai non si propone più: è rimasto sepolto nel primo uomo, dopo il primo peccato. Il principio dal quale deriva l'uomo storico è l'Adamo caduto, non l'Adamo come era uscito dalle mani di Dio. Tentiamo allora di comprendere di che principio si tratta. Nel linguaggio comune, principio si riferisce all'inizio di una realtà che si prolunga nel tempo e nel linguaggio filosofico a quella realtà dalla quale dipendono le altre, con un significato metafisico e non direttamente temporale. Nell'interpretazione data da Giovanni Paolo II all'allusione di Gesù, «il principio» si riferisce innanzitutto al mistero della creazio­ ne e cioè all'idea che Dio aveva dell'uomo e che lasciò plasmata in lui nel crearlo. Si tratta pertanto dell'uomo com'è uscito dall'atto creatore di Dio all'origine della storia: Adamo ed Eva, in una situa­ zione di innocenza originaria dal momento che vivevano in amicizia con Dio. Questo principio, con tutta la rilevanza metafisica che pos­ siede e che si esprime nell'affermazione «facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza [ ...]» (Gen 1,26-27), non è stato an­ nullato dal peccato originale, poiché Adamo ed Eva continuano a

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trasmettere questa immagine (Gen 5,3; 9,6). Per questo il peccato originale si configura come uno pseudo-principio incapace di svilire la bontà dell'opera creatrice di Dio. L'uomo storico si radica, prende le mosse e incontra la propria origine nella preistoria teologica nar­ rata dal libro della Genesi.16 La bontà originaria non è pertanto qualcosa di perduto nell'esistenza dell'uomo, senza rilievo nell'espe­ rienza umana, quantunque di certo non si offra più in quel modo.17 E non lo è non solo per il principio metafisico della creazione, ma an­ che per la promessa di redenzione fatta immediatamente dopo la ca­ duta (Gen 3,15): la stessa realtà umana è strutturalmente aperta ver­ so una pienezza che da sola non può darsi. Il peccato originale non è pertanto arrivato a distruggere il «prin­ cipio», il quale continua a essere la radice di ogni esperienza umana, quale che sia il momento storico in cui si verifica.18 In ragione di ciò, questo «principio» riflette il significato fondante delle esperienze umane in quanto alla sua luce appaiono le prime e più basilari auto­ comprensioni dell'identità e del destino della persona. Si tratta allo­ ra di un principio dinamico che costituisce internamente l'esperien­ za umana. Ecco allora che si svela il secondo significato di «princi­ pio»: quella dimensione elementare dell'esperienza umana nella quale, nel corso della storia, si riflette la volontà originaria di Dio. «Principio» è anche, in modo derivato, l'esperienza originaria. «Principio» si riferisce tuttavia non solo a una dimensione ori­ ginaria e primaria della creazione nel tempo, dal momento che es­ sendo la creazione un atto libero di Dio è possibile porsi domande circa il motivo per cui Dio ha deciso di creare, la sua intenzione, la finalizzazione ultima che ha animato il disegno creatore di Dio. Il «principio» è allora il «fine», poiché è questo che determina ogni inizio. E non possiamo intendere il fine della creazione se non nel­ la massima pienezza che ha raggiunto, nel suo culmine. Questo non si incontra se non nella resurrezione di Cristo. Soltanto nel nuovo Adamo il vecchio Adamo si spiega e trova il suo significato. Il «principio» cui Cristo rimanda i suoi interlocutori è la sua stessa persona: Egli è il vero «Principio che, avendo assunto la natura umana, la illumina definitivamente nei suoi elementi costitutivi e nel suo dinamismo di carità verso Dio e il prossimo» (VS 53). In-

16 Cf. GIOVANNI PAOLO Il, Uomo e donna lo creò, cat. IV. 17 G1ovANNI PAOLO Il, Uomo e donna lo creò, XVIIl.3. 18 GIOVANNI PAOLO II, Uomo e donna lo creò, Xl.l.

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dubbiamente il Padre, nella sua opera creatrice, ha creato tutto in Cristo, a immagine del Cristo risuscitato. A lui stava pensando il padre nel momento in cui creò l'uomo. E lasciò impresse le sue or­ me e tracce nel plasmare con le mani del Verbo Incarnaturus e del­ lo Spirito il primo uomo dal fango, come riflette la bella teologia cristologica di s. Ireneo. 19 Possiamo allora comprendere perché nel racconto della Genesi si coglie l'esperienza originaria dell'uomo e come in ogni esperienza originaria si afferra il significato di ciò che di essenziale riflette il rac­ conto della Genesi, il cui riferimento ultimo è Cristo. È alla luce del­ la rivelazione che si raggiunge il significato ultimo della stessa espe­ rienza perché si comprende la sua relazione con Cristo, pienezza del­ l'uomo. Nell'esperienza dell'amore si potranno cogliere allora le im­ pronte dell'amore nel quale fu creata la sessualità umana, la traccia dell'idea, il logos, in cui il Padre plasmò il corpo sessuato, il cuore e l'intera persona dell'uomo e della donna: l'amore di Cristo che si consegna nel suo corpo e nel suo corpo riceve la pienezza dello Spi­ rito per consegnarlo alla Chiesa, sua sposa.

b. L'attenzione al desiderio e all'affetto Il secondo aspetto di cui tener conto per dare un'adeguata inter­ pretazione all'esperienza originaria è di cogliere il ruolo che in essa riveste il desiderio. La ragione di ciò si deve al fatto che la presa di coscienza dell'impatto che una persona di sesso differente produce nel soggetto ha nel desiderio una delle sue più importanti mediazio­ ni: ci scopriamo pieni di desiderio, sentendoci attratti. L'esperienza amorosa acquista così un'intrinseca tonalità affettiva, grazie alla quale è possibile comprendere come nel sentimento e nel desiderio ci si rivela qualcosa di essenziale, proprio in forza del legame che sta­ biliscono tra la persona e la realtà che la colpisce. I nostri desideri so­ no impregnati di una singolare razionalità che è decisiva per la valu­ tazione di quello che è il senso della vita, della sua pienezza in una vita buona e riuscita. 20 Al di là della caricatura di una determinata concezione dell'e­ sperienza affettiva che la rinchiude in un mero stadio «sentimenta-

19

20

Cf. IRENEO, Adversus haereses V 1, 3: SCh 153, 27. Cf. M.C. NussBAUM, Upheavals of Thought: The lntelligence of the Emotions,

Cambridge University Press, Cambridge 2001.

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le», irrazionale in se stesso e incontrollabile, nelle nostre esperienze affettive si pongono in evidenza tre aspetti che sono decisivi per un'adeguata interpretazione: - il primo è la ricchezza e complessità di esperienze affettive che la persona vive. Nella loro grande diversità è necessario capire che non sono univoche, poiché presentano fattori tra loro irriducibili: confondere il dolore con la sofferenza ci rende incapaci di capire l'angoscia di un malato davanti all'infermità e alla morte; confonde­ re l'euforia provocata dall'alcool con l'allegria che si prova in una ri­ conciliazione tra fratelli che non si parlavano da anni ci impedisce di comprendere che al di là delle cause neurofisiologiche delle nostre emozioni esistono dei motivi veri delle nostre reazioni affettive, ca­ paci di nobilitarle; - il secondo è che le nostre esperienze affettive sono un orienta­ mento davanti al mondo, sono dirette alla realtà, poiché da essa na­ scono nel momento in cui ci toccano. Per questo non si possono ap­ prezzare guardando unicamente alla loro intensità, ma valutando piuttosto l'oggetto che ne sta all'origine e verso il quale ci dirige il desiderio: solamente questo oggetto ci rivela il senso dell'affetto. Dal momento che le esperienze si presentano con una gamma assai varia di sfumature e dimensioni, questo indirizzarci alla realtà può tuttavia frammentare la condotta del soggetto o può offrire un'unità, quando tra i diversi desideri si dia un ordine, un'integrazione. L'attenzione a questo ordine, in conseguenza di ciò che si desidera con riferimento a una vita globalmente intesa, si manifesta così come uno dei criteri decisivi d'interpretazione dell'esperienza affettiva; - il terzo è che le nostre esperienze affettive si svolgono in noi, certo, ma non senza noi stessi. Nell'impatto provocato da un oggetto o da un avvenimento si manifesta un significato che esige il nostro assenso. Tale oggetto o avvenimento mette in moto la persona, ma non lo fa in modo automatico, come avviene nell'animale, perché nell'uomo l'esperienza chiama in causa la sua libertà. Inoltre, nel ca­ so dell'esperienza affettiva sessuale, nel momento in cui la persona si trova di fronte non a qualcosa, bensì a qualcuno che è differente­ mente sessuato, le è possibile capire che non è «qualcosa» che l'at­ trae, ma «qualcuno», una persona, e pertanto un'altra libertà. Nel­ l'attrazione sessuale si incontrano perciò due libertà. Ci si rivela co­ sì come il terzo criterio d'interpretazione dell'esperienza affettiva sia quello di valutare in quale modo in tale esperienza si ponga in gioco la libertà della persona: è così che è per esempio possibile distingue­ re la differenza tra un'esperienza affettiva che non coinvolge la pie-

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na libertà della persona, offrendo semplicemente un'avventura, e l'e­ sperienza affettiva che coinvolge la libertà nella sua totalità in un im­ pegno che è per sempre. La ricchezza della gamma delle esperienze affettive comportata dal desiderio, l'attenzione alla finalizzazione che esse implicano nel loro interno ordinamento a un orizzonte globale di vita, la compren­ sione del modo in cui si pone in causa la libertà propria e quella del­ l'altra persona sono gli aspetti di cui è necessario tener conto in ogni adeguata interpretazione affettiva.

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Capitolo secondo

Fenomenologia dell'esperienza amorosa

Il primo passo per arrivare a comprendere il significato racchiu­ so nell'esperienza amorosa è quello di cogliere la ricchezza di sfu­ mature che essa comporta. Nell'incontro uomo-donna si presentano reazioni molto distinte, intrinsecamente tra loro connesse, ma irridu­ cibili le une alle altre. Per questo, davanti al rischio di intenderle in modo equivoco, occorre cogliere la loro originalità. Nel seguito si co­ struirà un'analisi degli elementi che essa comporta per passare, in un secondo momento, alla sua interpretazione.

1. La distinzione degli stati affettivi: sentimenti «causati» e sentimenti «motivati» Gli stati affettivi comportano l'impatto della realtà sul soggetto, in forza del quale la persona si rende cosciente di ciò che accade e del perché accade. Nella grande varietà di sentimenti di cui la perso­ na fa esperienza, è possibile indovinare in una certa misura quale sia la loro causa e quale intenzionalità produca. Possiamo così distin­ guere due diversi tipi di sentimenti: quelli la cui origine è di matrice neurofisiologica e quelli che hanno all'origine una motivazione.1

1 Si veda per questa distinzione D. voN HILDEBRAND, El corazon. Antilisis de la afectividad humana, Palabra, Madrid 1997.

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a. La quiete che si trova nel riposo dopo una giornata di intenso lavoro, il dolore provocato da una scottatura, la soddisfazione di un buon pasto... sono senza dubbio alcuni stati che toccano il soggetto attraverso la corporeità. Il corpo, grazie a queste reazioni affettive, viene sperimentato non come qualcosa che si possiede e che è estra­ neo alla propria soggettività, ma come qualcosa che attiene alla pro­ pria identità, dal momento che la persona vive come propri i piaceri e i dolori che esso comporta. Si tratta di sentimenti che ci rivelano lo stato del nostro corpo, indicando le sue esigenze, le sue carenze, i suoi pericoli, la sua pienezza. Sono, in definitiva, la voce del corpo. Questi sentimenti sono peraltro causati da una situazione del corpo in cui non interviene direttamente la libertà dell'uomo: essa interviene per produrre l'azione del riposare, dello scottarsi, del mangiare, ma non nella reazione che ne deriva. Esiste una causa neu­ rofisiologica del dolore di una scottatura che può essere più o meno individuata, al modo stesso in cui esiste una causa per cui il corpo si rilassa nel distendersi o riposarsi o nel ricevere l'alimento di cui ha bisogno inducendo una sensazione di piacere. Lo stato affettivo di­ pende pertanto da tale causa neurofisiologica e può aversi anche ne­ gli animali, quantunque nell'uomo sia vissuto in forma assolutamen­ te originale poiché è il soggetto, l'«io», che ne fa esperienza: così, un dolore non è lo stesso in un animale e in un uomo. Per comprendere la natura di questi sentimenti basta compren­ dere assieme ciò che ne è la causa e ciò che è l'obiettivo. Il dolore, la tranquillità, la soddisfazione sono prodotti da un oggetto che influi­ sce sull'organismo modificandolo e, in maggiore o minor misura, adattandolo a un certo tipo di azione: eliminare l'esposizione al ca­ lore, mangiare, riposare. Quando si allenta la tensione da essi pro­ dotta, lo stato affettivo resta assorbito nella normalità della vita psi­ chica fino a che torna a riproporsi: termina quando raggiunge il suo oggetto, la sua soddisfazione. Due ultime caratteristiche possono aiutarci ad approfondire il suo significato: per il fatto che dipende intrinsecamente da una cau­ sa neurofisiologica, questa soddisfazione può essere simulata, cam­ biando l'oggetto che la reclama. Masticare una gomma può elimina­ re l'appetito e dare una sensazione di sazietà, un tranquillante può darci sollievo, ecc... D'altra parte, si tratta di sentimenti la cui espe­ rienza non richiede l'espressa attenzione della persona nel loro svol­ gimento: saziamo il desiderio di mangiare o di bere senza prestarvi una particolare attenzione e nessuno si offenderebbe se vivessimo questi sentimenti senza una particolare attenzione al loro oggetto.

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All'opposto, qualcuno potrebbe arrivare a stupirsi se concentrassi­ mo la nostra attenzione sul fatto di mangiare o venissimo presi to­ talmente dal dolore di una scottatura. b. Ebbene, non tutti i sentimenti corporei sono del medesimo ti­ po, giacché ci sono altri stati affettivi che non sono prodotti soltanto da una causa neurofisiologica, oppure la stessa causa neurofisiologi­ ca richiede l'intervento dell'immaginazione e dell'attenzione, sia nel­ la sua genesi che nella sua permanenza, configurandosi nella sua di­ mensione neurofisiologica come una reazione mediata dall'attenzio­ ne e dall'interpretazione del soggetto, più che come una causa. Sono anche sentimenti del corpo, e pertanto sua voce, segnalando una ne­ cessità, una mancanza, ma pure una pienezza; la tristezza davanti al­ la perdita di un amico, il timore davanti a un compito importante, la gioia davanti al superamento di una difficoltà familiare che da anni bloccava un rapporto tra fratelli. L'originalità di questi sentimenti consiste però nel fatto che si ri­ feriscono non soltanto a una situazione del corpo in presenza o in as­ senza di un oggetto che gli conviene, quanto piuttosto che la perso­ na comprende la ragione di tale convenienza e sperimenta che con tutto il proprio essere tende verso l'oggetto che l'attrae, desideran­ dolo. Si tratta pertanto di un'esperienza affettiva che in se stessa è si­ gnificativa, intelligibile e intenzionale: - significativa, dal momento che la reazione affettiva di tristezza, di timore, di gioia, non trova il suo significato in sé, ma in un'altra realtà di cui si trasforma in segno; fa riferimento ad aspetti importanti della vita propriamente umana: l'amicizia, le sfide, la fraternità. Si trat­ ta di beni propriamente umani, poiché coinvolgono la persona stessa e la implicano normalmente in determinate relazioni con altri uomini; - intelligibile, poiché possiamo comprendere il valore che questi beni rivestono nella nostra vita, giungendo anche perfino a dar ra­ gione del perché sono importanti; - intenzionale, perché ci dirigono verso la realtà, ci muovono ad agire, a realizzare questa bontà riscoperta. Si tratta però di un'inten­ zionalità più complessa di quella dei sentimenti semplicemente cau­ sati, considerato che per la sua realizzazione si richiede, di norma, l'interazione mutua di persone diverse, nel momento in cui sono ori­ ginariamente coinvolte. È così che possiamo comprendere come l'in­ tenzionalità di questi sentimenti non sia diretta verso una cosa, ma verso una persona, la sua libertà, un modo comune di agire. La fonte di queste esperienze non si rinviene perciò semplice­ mente nella causa neurofisiologica che comportano, quanto nel mo-

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tivo in cui trovano la loro ragion d'essere: non è tanto un sentimen­ to «causato» quanto «motivato». Dove si colloca la sessualità tra questi due tipi di stati affettivi? Da un lato, la sessualità comporta nell'uomo una pulsione, un'incli­ nazione, con una base neurofisiologica concreta che, come voce del corpo, annuncia una carenza nel desiderio o una pienezza nella sua soddisfazione. Si scopre così uno dei valori della sessualità, in quan­ to modificazione della genitalità che riguarda la persona. Da un al­ tro lato, tuttavia, il modo in cui la persona vive la reazione davanti a una persona di sesso differente implica non soltanto una base neu­ rofisiologica, ma anche una sua interpretazione in ragione del bene umano che apporta alla persona; è così che quell'interpretazione di­ venta un motivo, per cui l'intenzionalità della reazione è più com­ plessa. Il desiderio sessuale cessa di essere una semplice pulsione che si dirige verso una cosa, un semplice oggetto, per convertirsi in un de­ siderio propriamente umano che si dirige verso un corpo personale. Se si segue il flusso del desiderio sessuale, ci si accorge che esso con­ duce non semplicemente verso un oggetto, qualcosa da usare, bensì verso un'azione sessuale comune. Certo, nel desiderio sessuale può fare con forza la sua comparsa l'inclinazione all'interazione mutua dei corpi che soddisfi la tensione sessuale prodotta. Un simile desi­ derio include però di necessità una valutazione del bene implicato dall'interazione con l'altra persona, nella sua corporeità e nella sua libertà. Si tratta pertanto di un desiderio che è aperto a una dimen­ sione più ampia nel suo stesso vissuto. Per questo, nel caso della ses­ sualità, noi ci troviamo di fronte a una reazione complessa, che in­ clude in sé elementi di entrambi i tipi di reazioni, neurofisiologica e motivazionale. Quali sono allora le dimensioni comportate da questa reazione originaria?

2. Dimensioni dell'esperienza dell'amore Diverse sono le strade attraverso le quali si può giungere a co­ gliere la ricchezza di tale esperienza: si raccolgono di seguito in for­ ma sintetica le dimensioni che in maggiore o minore misura sono presenti nell'esperienza dell'amore. È vero che c'è chi potrebbe af­ fermare che nel proprio vissuto dell'amore non ha fatto esperienza di una determinata dimensione o livello. Ciò non significa in alcun modo, però, che non si riscontrino nel vissuto di altre persone, come

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è riflesso dalla storia stessa e dalla tradizione letteraria. 2 Si tratta ora semplicemente di cogliere schematicamente la ricchezza e la com­ plessità dell'esperienza d'amore a partire dalle varie forme che essa può assumere,3 senza entrare tuttavia nella complessità della sua causa e del ruolo che gioca la necessaria rappresentazione simbolica in ciascuno dei diversi livelli. Nell'analisi delle diverse dimensioni insite nell'attrazione tra l'uomo e la donna noi porremo cinque domande: qual è la reazione propria di ciascun livello, cosa la motiva, quale finalismo comporta, qual è il suo atto proprio e che ripercussione soggettiva comporta.

a. Dimensione corporale-sensuale La dimensione corporale-sensuale è quella più immediata alla coscienza, come un dato di fatto. La persona reagisce alla vista o al contatto di un corpo sessuato in modo differente con un'eccitazione corporea precisa e concreta. Quello che ha prodotto questa eccitazione fisica, sempre nella mediazione simbolica, è l'aver colto i valori sessuali dell'altra perso­ na in quanto complementari dei propri. In questo modo si risveglia tutto un dinamismo del corpo e di determinati organi che è natural­ mente finalizzato al corpo e agli organi della persona di sesso oppo­ sto. In virtù di questa finalizzazione l'uomo si orienta verso la donna e viceversa cercando una complementarità corporeo-genitale. In questa dimensione, la persona è vista sotto la prospettiva dei valori corporei-sessuali di cui è in possesso: sono loro che in questa dimen­ sione interessano. Essa si presenta con una forte impulsività, toccan­ do il livello pulsionale legato alla corporeità e richiede per il suo svi­ luppo l'attenzione. È necessario tener conto del fatto che il risve­ gliarsi del dinamismo sessuale e il suo sviluppo sono vissuti in ma­ niera diversa nell'uomo e nella donna, acquisendo questa dimensio­ ne una preponderanza psicologica maggiore nel maschio. Il suo atto proprio è l'unione sessuale, che a sua volta possiede un'intrinseca capacità riproduttiva. 2 Cf. la selezione di testi che propone A. KAss-L. KAss, Wing to wing, oar to oar: readings on courtings and marrying, University of Notre Dame Press, Notre Dame, Ind.2000. 3 Mi ispiro in linea generale a K. WorrYLA, Amore e responsabilità. Morale ses­ suale e vita interpersonale, Marietti, Torino 1978; C.S. LEWIS, / quattro amori, Jaca Book, Milano 1990.

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Una volta raggiunta la sua finalità, produce una soddisfazione sensuale, il piacere carnale, appagando lo stesso desiderio e la stessa necessità che si era prodotta. In questa dimensione il piacere appare come un piacere «necessità», temporalmente vincolato alla stessa esecuzione dell'azione.

b. Dimensione affettivo-psicologica Ci troviamo ora davanti ad una dimensione nuova, nella quale l'esperienza dell'incontro tra l'uomo e la donna acquista sfumature diverse. Non è adesso il corpo a reagire nell'eccitazione, quanto piut­ tosto la stessa interiorità umana: l'affetto. Di fronte a differenti va­ lori della persona, come la sua simpatia, la sua allegria, la sua fortez­ za, il soggetto reagisce con l'emozione. L'emozione si configura così come la reazione davanti al modo in cui l'altra persona nella sua ma­ scolinità o femminilità incarna diversi valori umani, conferendo loro la sua propria originalità in una complementarità. Ciò che motiva una simile reazione non sono i valori corporei, ma i valori umani collegati al fatto d'essere maschio o femmina. Di fronte al differente modo con cui si affrontano le difficoltà, o si è ca­ paci di tenerezza, o di mettere a fuoco i problemi, o di godere di ciò che nella vita c'è di positivo con una gioia singolare, o di trovare ciò che è autenticamente umano... Si tratta ora non tanto di una pulsio­ ne quanto di uno stato affettivo o sentimentale estremamente inte­ ressante e che apre dimensioni nuove della persona in precedenza sconosciute, poiché scopre il mondo dell'interiorità in cui l'altra per­ sona si fa presente con una propria originalità, ricreando grazie alla memoria, esperienze già vissute o proiettandosi in situazioni possibi­ li con l'immaginazione. Il livello precedente non è stato eliminato, dal momento che si conserva nella sua giusta dimensione: l'attrazio­ ne fisica continua, integrata però in un'attrazione più profonda, più umana, in cui la stessa attrazione sensuale raggiunge un significato nuovo, si arricchisce. A questo livello si dà anche una complementarità, ma di tipo af­ fettivo, per cui la persona si vede finalizzata non tanto nei valori cor­ porei, quanto alla mutua presenza interiore dell'amato dentro di sé con i suoi valori. In questa dimensione appare il valore simbolico del­ la vita, degli avvenimenti e delle cose. Assorbe la memoria e l'imma­ ginazione, si esprime attraverso gesti di tenerezza e di delicatezza: costituisce la trama dell'amore, la fonte della simpatia e dell'inventi­ va. Acquisisce una ricchezza psicologica più marcata nella donna.

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Il suo atto proprio è l'unione dei sentimenti, vissuta come una complementarità o risonanza affettiva che permette un comune sen­ timento: sentire con l'altra persona, sentire come l'altra persona, in una mutua empatia. La realizzazione di questo sentimento comune produce un sin­ golare compiacimento, come la soddisfazione per l'arricchimento della complementarità affettiva nei valori umani, così che la sua va­ lenza temporale è più stabile. Si tratta ora di un piacere che è visto non tanto sotto il profilo della necessità che soddisfa quanto dell'ar­ ricchimento che offre.

c. Dimensione personale In questa nuova dimensione, la reazione propria è l'ammirazio­ ne, che coinvolge il livello superiore della vita psichica dell'uomo: l'intelligenza e la volontà. L'ammirazione nasce quando si percepi­ sce che l'attrazione esercitata dalla persona di sesso opposto non trova motivo soltanto nella complementarità dei suoi valori sessua­ li o dei suoi valori umani connessi alla mascolinità o femminilità, ma principalmente nel fatto che tale attrazione si concentra nella persona in quanto tale. «Il valore» non è ora qualcosa della perso­ na, una sua qualità - il suo corpo, la sua intelligenza, la sua bellez­ za - bensì la persona medesima, che ci interpella nei caratteri ses­ suali del suo corpo e nei suoi valori umani. L'altra persona di sesso differente attrae non soltanto per le qualità che ha, attrae ora piut­ tosto per ciò che è, in ragione della sua intrinseca preziosità. Ciò comporta un riconoscimento della singolare dignità della persona, non solo per la sua umanità (possesso di qualità e facoltà proprie della specie umana), ma soprattutto per il suo carattere unico e ir­ ripetibile, che non può essere sostituito da alcun'altra in virtù della sua soggettività, grazie alla quale è lei che possiede se stessa, go­ vernandosi da sé e dirigendosi ai fini ch'ella stessa si prefigge. La persona appare ora come «qualcuno» con un'identità assolutamen­ te singolare. Qualcuno che non è tuttavia impenetrabile né inco­ municabile, ma che nella sua libertà può stabilire una comunicazio­ ne nella quale offrire non soltanto qualcosa di sé, le proprie qua­ lità, ma se stessa. La finalizzazione che tale reazione produce va indirizzata non già alla semplice unione dei corpi, o alla risonanza affettiva, ma alla pro­ mozione della persona, alla ricerca della sua felicità e pienezza, la quale si darà nella mutua comunione delle persone: è con lei che si

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desidera vivere, condividere il cammino della vita. Amare, a questo livello, indica una volontà di promozione. 4 Il suo atto proprio è il «dono reciproco di sé», che rende possibi­ le tale comunione in cui raggiungere la pienezza. Quando si instaura questa reciprocità, si raggiunge una singolare soddisfazione, il gaudium, un tipo di piacere assolutamente distinto dai due precedenti, poiché non nasce dalla soddisfazione di una mancanza, né dal solo arricchimento che si riceve. Esso nasce princi­ palmente dalla comunicazione della propria ricchezza personale, cioè il dono di sé, per cui è di natura spirituale. Ci troviamo davanti alla gioia.

d. Dimensione religiosa L'attrazione che una persona è in grado di produrre può essere riferita non solo ai suoi valori corporei o affettivi, o alla stessa per­ sona, ma anche al fatto che in essa si disvela un mistero che la tra­ scende, ma che in lei si rende presente: si tratta del mistero di Dio. È allora che insorge lo stupore, come reazione propria di fronte al mi­ stero dell'altro. È qui che si spiega l'origine ultima non solo dell'in­ sostituibilità e irripetibilità della persona umana che al livello prece­ dente si mostravano come decisive, ma anche della possibilità di en­ trare in comunione con lei; la sua origine è che la persona è amata singolarmente da Dio: «la persona umana è l'unica creatura sulla ter­ ra che Dio ha amato per se stessa» (GS 24). Ad attrarre sono ora il mistero di Dio e del suo amore presenti nell'altra persona. La finalizzazione prodotta da questa reazione è indirizzata non solo alla comunione con la persona, ma verso il vivere nella comu­ nione con l'altro la comunione con Dio, presente nella persona, ed entrare così in alleanza con l'amore creatore di Dio. L'originalità di questa comunione con Dio è che si realizza nella comunione umana e senza quest'ultima non può realizzarsi. L'atto proprio di questa dimensione dell'attrazione tra uomo e donna è la lode e il rendimento di grazie, che implicano anche una singolare venerazione della persona amata. Questa lode a Dio e questa venerazione della persona, come un tempio santo in cui abita lo Spirito, rendono possibile all'uomo di es-

4 Cf. M. NÉDONCELLE, Vers une philosophie de l'arnour et de la personne, Aubier­ Montaigne, Paris 1957.

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sere già partecipe, anche se in modo imperfetto, della felicità del cie­ lo. Il piacere che produce, in quanto gioia, è propriamente la gioia dei beati, la beatitudo, anticipo dell'eterna pienezza, che si lascia gustare nella comunione tra uomo e donna. 5

3. Conclusione Si trattava di cogliere la ricchezza delle dimensioni contenute nell'attrazione tra uomo e donna. Sono dimensioni diverse che si col­ legano a quest'attrazione: la corporeità, l'affetto, il suo spirito, Dio. Ma su che cosa si fonda quest'attrazione? Il suo fondamento si tro­ va in un'identità e in una differenza. 6 - Identità, nella misura in cui solo la persona ci attrae in questo modo: non gli oggetti, né gli animali, né gli angeli. C'è un'identità di natura, di dignità, di origine e di destino. - Differenza, che c'è nelle diverse dimensioni. La differenza vis­ suta a livello corporeo, affettivo e spirituale, rende evidente l'alterità della persona: essa è altro/a. Con tutto quel che comporta, questa dif­ ferenza non è vista tuttavia come una minaccia, ma piuttosto come una ricchezza che apre a possibilità nuove, impensabili nella propria solitudine. La differenza si presenta allora come un'occasione di complementarità, di comunione singolare. Si tratta per un altro verso di dimensioni chiuse in se stesse, co­ me fossero dei compartimenti stagni? È certo che si tratta di dimen­ sioni irriducibili l'una alle altre, cioè non deducibili, né intercambia­ bili. Ma il fatto che siano irriducibili non implica in alcun modo che siano impenetrabili. Ci sono così tra loro una mutua interrelazione e un arricchimento, che rendono possibile una graduale integrazione delle loro reazioni e finalità, come vedremo più avanti. Occorre d'al­ tra parte tener conto che «ciò che sta in alto si sostiene su ciò che sta in basso» e, a sua volta, «ciò che sta in alto equilibra ciò che sta in basso». Come dire, l'originalità dell'amore tra uomo e donna, al suo livello spirituale, si fonda sui livelli affettivo e corporeo, in modo ta­ le che se quello che sta sotto si sgretola, quello che sta sopra vacilla e viceversa. Così, la perdita dell'attrazione erotica per la mancanza 5 Cf. V. Sowv't;v, Il significato dell'amore, La Casa di Matriona, Milano 1988,

93-95.

6 Cf. A. ScoLA, ldentidad y diferencia. La relacion hombre-mujer, Encuentro, Ma­ drid 1989.

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di una mutua attenzione affettiva può far vacillare il dono di sé e la mancanza del dono di sé può far perdere l'armonia affettiva e lo stesso desiderio sessuale. Dopo questa descrizione dei differenti livelli insiti nell'attrazio­ ne uomo-donna nasce ora la questione del suo significato, del rap­ porto tra questi livelli, del suo ruolo nella configurazione dell'iden­ tità personale e del destino di una vita. Si tratta, in definitiva, della questione dell'interpretazione dell'esperienza sessuale.

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Capitolo terzo

Identità della persona ed esperienza dell'amore: l'unità duale

I primi capitoli della Genesi possono essere letti come una storia edificante che cerca di spiegare il perché dell'attuale situazione: Dio creò l'uomo, maschio e femmina, a sua propria immagine, gli diede la libertà, non come mera possibilità di scelta arbitraria, ma in riferi­ mento a un bene e un male che non dipendevano da essa; tra Ada­ mo ed Eva sussisteva una relazione di innocenza, però, istigati dal serpente, caddero in peccato e con ciò perdettero l'amicizia con Dio e si insinuarono tra di loro la concupiscenza e la morte che sono giunte sino a noi. Una simile lettura cronologica può non attingere tuttavia in misura sufficiente ai contenuti profondamente antropolo­ gici e morali che il testo sacro nasconde. Il nostro intento sarà allora quello di far emergere questi conte­ nuti ponendo a confronto l'esperienza propria dell'amore con il rac­ conto. In questo modo sarà possibile cogliere come la rivelazione il­ lumini l'esperienza e, inoltre, come nell'esperienza che la rivelazione racconta si scoprano i tratti autenticamente umani della esperienza personale, che acquistano connotazioni nuove. Adamo, l'uomo di tutti i tempi che vive l'esperienza della solitudine, dell'incontro con Eva, con la donna, della scoperta dell'unione tra i due... Si tratta di aspetti che riguardano ogni esperienza d'amore e nei quali si rivela­ no l'identità della persona e il suo destino. Vediamo in che modo. 1 1 Mi ispiro al primo ciclo delle «Catechesi sull'amore umano» di GIOVANNI PAO­ LO Il, Uomo e donna lo creò.

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1. Corporeità, solitudine e soggettività: «non incontrò un aiuto adeguato» a. L'esperienza del corpo come «corpo proprio» Adamo, creato dalla terra con quell'atto di Dio che plasma e ali­ ta, è un essere che sussiste in una realtà duale: carne e spirito, corpo e anima. Grazie al corpo è in relazione con il creato: è un essere vi­ vente come tanti altri che popolano la terra. Il contatto con questa terra possiede un'intrinseca mediazione corporea: il mondo che lo circonda lo riguarda direttamente ed entra in lui attraverso le fine­ stre dei suoi sensi. È grazie alle sensazioni di cui fa esperienza nel suo corpo nel momento in cui reagisce di fronte al contatto con la realtà: il dolore, il piacere, l'attrazione, il timore, l'avversione, che è capace di apprezzare il proprio valore, di iniziare la comprensione riflessa di sé: è un essere che vive nel mondo strutturalmente aper­ to alla realtà. Il corpo non è tuttavia «qualcosa» tra il mondo e il soggetto, co­ me se fosse un terzo, distinto dal soggetto: non è un oggetto in più, che si opponga alla sua coscienza e libertà e che perciò sia privo di significati personali e che possa essere trattato strumentalmente. Nella ripercussione che hanno all'interno della sua coscienza, i diversi sentimenti corporei gli consentono un primo apprezzamento del suo corpo come costitutivamente intrinseco alla sua stessa per­ sonalità, e non come qualcosa di posseduto. Colui che sente, che sof­ fre, che ha paura, che gioisce è il soggetto: mi fa male un braccio, ma è a me che fa male, al mio «io». I sentimenti rivestono un ruolo de­ cisivo perché la persona possa comprendersi come persona «corpo­ rea», benché in nessun modo ridotta alla corporeità. Essi le consen­ tono di avere una chiara coscienza della propria «unicità» ma, nello stesso tempo, della propria «dualità»: è capace di sentire, ma anche di interpretare il suo sentire, persino di indirizzarlo e, più ancora, di attuarlo oppure no. La persona è pertanto un soggetto che sente, che pensa, che agi­ sce, ma in una dualità di componenti che sono intrinsecamente uni­ ti: corpo e anima. E ciò è possibile perché anima e corpo sono uniti in una maniera originaria, in nessun modo giustapposta, ma in modo essenziale, arrivando a costituire un tutto unico. Nel linguaggio me-

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tafisico questa unicità si esprime affermando che la persona è un'u­ nità che sussiste in corpo e anima (GS 14). 2 Adamo, l'Adamo di tutti i tempi, si ritrova nella creazione con un'esistenza corporea che gli è stata data e che si vede toccata da tante cose. Nel suo corpo si nasconde una passività radicale nei con­ fronti dell'iniziativa della sua volontà di essere toccato: è un corpo che soffre e sopporta benché la persona non l'abbia deciso, un corpo che presenta una vulnerabilità radicale. C'è qualcosa che la persona non ha per niente scelto, qualcosa che sfugge al suo controllo e alle sue intenzioni, ed è la «passività» del suo corpo. Si tratta dunque di una passività che è vissuta come qualcosa di proprio, giacché nei di­ versi sentimenti si personalizza, si interiorizza e si converte così in una decisiva sorgente motivazionale. 3 E così, in quanto è essere corporeo, Adamo può entrare in co­ municazione con il mondo, il quale a sua volta si trasforma non sem­ plicemente in una somma di oggetti che stanno lì, ma in un orizzon­ te latente in ogni umana esperienza, in noi sempre presente.

b. Il dominio sul mondo Grazie a questo legame con il mondo nel corpo, l'uomo può eser­ citare sopra di esso un influsso. Nella descrizione che del «principio» tratteggia il secondo racconto della creazione, una delle prime atti­ vità che Dio affida all'uomo è proprio quella di assegnare un nome agli animali (Gen 2,19-20). Con ciò intende significare che esercita una singolare autorità sopra la creazione. L'uomo è stato creato con uno statuto ontologico diverso dal resto degli animali. E questo sta­ tuto ontologico si riflette anche nel suo corpo, poiché grazie ad esso governa il mondo, lo domina, lo cambia. Se nel primo racconto (Gen 1) si sottolineava il fatto della crea­ zione dell'uomo e della donna a immagine e somiglianza di Dio, ora possiamo comprendere una prima indicazione del contenuto di que­ sta immagine: allo stesso modo in cui Dio domina la creazione, così anche l'uomo esercita un dominio sopra il creato. Dare il nome si2 Cf. D. ScHINDLER, «Veritatis splendore l'importanza del mondo e della cultura per la teologia morale: la libertà e la natura "nuziale-sacramentale" del corpo», in L. MELINA-J. NoRIEGA, Camminare nella luce. Prospettive della teologia morale, LUP, Ro­ ma 2004. 3 a. P. R1coEUR, La semantica dell'azione. Discorso e azione, Jaca Book, Milano 1987, 74-82.

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gnifica un'attività propriamente divina e indica il dominio sulla realtà a cui il nome viene conferito. Questo mondo che Adamo domina e a cui dà nome è sperimen­ tato come qualcosa che è stato dato per lui. Nel racconto genesiaco si rileva con forza come tutta la creazione sia un dono che Dio fa al1 'uomo, perché gli sia d'aiuto. Ed è attraverso il lavoro che l'uomo ot­ tiene quest'aiuto e può perpetuarsi come «essere vivente».

c. La scoperta della propria soggettività Il dominio che l'uomo esercita sulla creazione non sembra peral­ tro appagarlo. Lo stesso testo racconta come, nonostante la grande varietà di animali che gli sfilarono davanti, «non trovò un aiuto che gli fosse simile» (Gen 2,20). Si tratta come di un test che gli consen­ te di prendere coscienza della propria superiorità e di non potersi collocare allo stesso livello degli altri animali. Come mai Adamo si trovava solo? Certamente l'esperienza di non trovare un aiuto adeguato riconduce la persona dentro di sé. È il momento in cui si scopre la propria soggettività e come sia impos­ sibile condividerla con oggetti, con cose, con animali. Si rende con ciò manifesto in che modo il corpo, che lo collega alla creazione e gli consente di sperimentarla come qualcosa che pure lo riguarda, lo rende ora diverso dalla creazione, lo separa da lei. E con questo si manifesta la sua solitudine. Questa solitudine non si riempie con oggetti, né con occupazio­ ni: la sola presenza delle cose rende anzi più evidente la solitudine. L'uomo si presenta come il re del creato, ma il creato non è tuttavia capace di colmare il suo cuore. È così che si comprende come la sua vita non può ridursi al lavoro, al semplice dominio delle cose. In questa solitudine appare l'originalità del soggetto umano in quanto individuo diverso da tutto il creato: in essa scopre la capacità di autocoscienza, vale a dire di prendere coscienza di se stesso, della propria originalità, del valore di ciò che compie; e nello stesso tem­ po la capacità che possiede di autodeterminazione, e cioè di essere egli stesso a imporre un nome, a lavorare, a prendere decisioni, ri­ spondendo in definitiva anche di se stesso. Per questo Adamo, soli­ tario in un mondo di oggetti, comprende che la sua capacità di auto­ determinazione non riferita che a delle cose non esaurisce la sua sog­ gettività: la libertà non trova una spiegazione adeguata se si riferisce soltanto a cose. Il desiderio, che lega Adamo alla creazione, è abita­ to da un'aspirazione più profonda, che tuttavia ignora, dal momento

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che ignora l'orizzonte complessivo di senso e il posto che occupa il suo essere corporeo. La sua stessa identità gli appare sconosciuta quando guarda semplicemente il mondo delle cose e degli animali. Gli viene da chiedersi: «Che significato ha dunque la mia realtà cor­ porea legata al mondo se questo mondo non è capace di colmare la mia soggettività?». Questa solitudine è posta in risalto in un modo singolare nel te­ sto biblico, poiché si tratta di un elemento che precede il fatto di es­ sere maschio e femmina. Adam, il nome generico del primo essere umano, è un essere solo, che ancora non riesce a capirsi. E neppure la stessa relazione con Dio, nella quale è creato, è capace di aiutarlo a scoprire la propria identità: essa è costitutiva del suo essere, certo, però non basta. Dire che l'uomo in quanto tale è solo equivale a di­ re che neppure sa chi sia, poiché non sa individuare il proprio posto nella totalità della creazione. Di fronte alla disillusione che la sua attività gli procura, davan­ ti alla noia di una vita tra le cose, Adamo entra in un sogno, il pri­ mo sogno. È nel sogno che la vita cosciente si attenua e la libertà si sospende, che le preoccupazioni sembrano acquietarsi, che ciò che è specificamente umano si immerge nelle nebbie dell'inco­ scienza. Sembra che Adamo desideri tornare al nulla da cui è ve­ nuto. Un mondo pieno solo di oggetti non merita la pena di essere vissuto.

2. Incontro e identità: «carne della mia carne e osso delle mie ossa» a. Il risveglio dal sonno La più grande difficoltà di Adamo, dell'Adamo di tutti i tempi, consiste nel conoscere chi egli sia, qual è la sua identità, qual è il suo posto nel mondo, qual è il suo destino. Ecco il sorgere della magna quaestio. 4 Guardando alla creazione infraumana non trova risposta e per questo l'unica risposta è quella di assopirsi. Ma Adamo, l'Adamo di tutti i tempi, è risvegliato da una presen4

2002.

Cf. S. GRYGIEL, Extra communionem personarum nulla philosophia, LUP, Roma

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za insospettata, la presenza della donna. E viceversa. È il primo in­ contro dell'uomo e della donna ed è lì che ha luogo una rivelazione singolare della propria identità personale e del destino della vita. Questo incontro è qualcosa di indeducibile dalla natura stessa. Nella sua solitudine la sua stessa natura corporea gli appare come un'incognita. La donna non è nemmeno una possibilità che egli po­ tesse sperare: prima avverte soltanto la sua incompletezza, la man­ canza di un aiuto adeguato. L'esclamazione di Adamo pone in evi­ denza l'originalità di questo incontro: «Questa sì che è carne della mia carne e osso delle mie ossa» (Gen 2,23). Il modo in cui il testo sacro riferisce l'atto mediante il quale Dio crea la donna, prendendo una costola dal costato di Adamo dor­ miente, riflette in categorie semitiche l'identità fondamentale di en­ trambi, che si trova al fondamento ontologico della possibilità del lo­ ro incontro d'amore.

b. Il riconoscimento della propria identità: l'unità duale Cosa ha inteso dire Adamo con la sua esclamazione? L'espressione di Adamo riproduce nel linguaggio semitico una nuova forma di conoscenza di sé; si tratta del riconoscimento della propria identità nel riconoscimento della dignità e differenza della persona che ha davanti e che gli si rende presente attraverso il suo corpo: sua carne, sue ossa. È in questo momento in cui fa la sua apparizione la donna che il nome generico con cui la Bibbia chiama il primo essere umano Adam cambia e si fa specifico: «La si chiamerà donna ('fshsha), per­ ché dall'uomo ('fsh) è stata tolta» (Gen 2,23). È allora che Adamo, l'essere umano, prende coscienza di sé di fronte alla presenza della persona di sesso opposto. È allora che Adamo conosce in quale ma­ niera questa carne e queste ossa, e cioè questo corpo che lo univa al­ la creazione, comportasse un'incompletezza che lo faceva anelare a una complementarità, che gli apriva una complementarità. In se stesso il corpo umano fa riferimento a un'altra persona ses­ suata in modo differente. Adamo è capace di riconoscere se stesso nel corpo di un'altra persona. Perché? Al fondo di questo secondo racconto della creazione si nasconde una profonda teologia sul si­ gnificato del corpo che ha un intrinseco riferimento al primo rac­ conto, in cui si narrava la sola creazione dell'uomo, maschio e fem­ mina, a immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,27). Con ciò si inten-

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de esprimere in quale modo la persona umana sia stata creata in un costitutivo riferimento ontologico uomo-donna, in cui la sessualità occupa un ruolo decisivo. La solitudine originaria, riflessa nell'ambiguità del corpo e che esprimeva la supremazia nei riguardi di tutti gli altri esseri animati, scoprendo la soggettività della persona per la sua capacità di auto­ coscienza e di autodeterminazione, si mostra ora come un'apertura ontologica a una presenza singolare della donna, interiore e anterio­ re alla coscienza, in modo tale che le consente di riconoscerla. Ma cosa è che riconosce? Riconosce che la sua esistenza corpo­ rea si spiega precisamente come una pienezza soltanto in quanto esi­ ste un'unione originaria con lei: è possibile comprendere il suo esse­ re solo in questa «unità duale» o come un'«unità dei due», poiché la carne e le ossa, l'essere intero, si intende in riferimento all'altro. Il suo sussistere come persona, secondo l'essere totale che Dio ha crea­ to, si riferisce ad un «esistere unito a un altro», la donna, e viceversa. Fuori da questa comunione originaria, non è possibile capirsi, non è possibile l'esistenza, non è possibile comprendere il ruolo che si oc­ cupa nell'universo. Questo riconoscimento si basa su un dato previo all'interpreta­ zione che di essa l'uomo ha dato. Appartiene pertanto al nucleo del­ l'esperienza originaria dell'amore, rendendola possibile. L'essere dell'uomo riflette nella sua corporeità sessuata una comunione ori­ ginaria intrinseca alla sua stessa costituzione ontologica. La persona umana, in quanto persona corporea, possiede dunque una qualità co­ munionale, ontologicamente aperta alla comunione con l'altro.5 Nell'apparente semplicità del testo sacro è ancora tuttavia ne­ cessario sottolineare un ulteriore elemento dell'atto creatore del­ l'uomo e della donna. Nel primo testo della creazione, narrato nel primo capitolo della Genesi, si fa riferimento all'unità duale come oggetto dell'atto creativo di Dio: «Facciamo l'uomo a nostra imma­ gine, a nostra somiglianza... Dio creò l'uomo a Sua immagine; a im­ magine di Dio lo creò; maschio e femmina» (Gen 1,26-27). Il proble­ ma che ora si pone è di capire a cosa esattamente si riferisca l'im­ magine e somiglianza. Nel corso della spiegazione si è posto in risal­ to l'elemento di dominio che l'uomo esercita sulla creazione, in for­ za precisamente della sua soggettività. È però anche possibile ana-

5

Cf. A. ScoLA, Uomo-donna. Il mistero nuziale, PUL-Mursia, Roma 1998, 31-41.

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lizzare questa immagine in riferimento alla differenza sessuale. Con ciò si vuole esprimere come l'unione originaria, e cioè il mutuo rife­ rimento ontologico che la sessualità comporta, può essere anche vi­ sta come immagine e somiglianza di Dio, certo, non nella pura cor­ poreità che implica, ma nell'elemento relazionale che rende possibi­ le: tra l'uomo e la donna c'è una comunione originaria che è imma­ gine di Dio. 6 È così che si intende la pienezza dell'atto creatore di Dio, nel fatto che plasmando e alitando sul corpo gli infonde anche la sua immagine e somiglianza nell'uomo: non in qualcosa di lui, ben­ sì nella sua interezza.

c. Il corpo, trasparenza della persona L'incontro tra Adamo ed Eva è stato possibile grazie al corpo, formato di carne ed ossa. Il corpo, di nuovo, rende possibile la rela­ zione con il mondo, con il corpo di un'altra persona. Il fatto che Ada­ mo abbia percepito ed espresso l'identità della donna nei propri con­ fronti proprio grazie a un corpo sessuato in modo differente, ci per­ mette di affermare che il corpo come tale rivela la persona, permet­ te di riconoscerla, e di riconoscere se stesso nella propria esistenza corporea. Non si tratta di un oggetto che nasconda ciò che è specifi­ camente umano, che lo renda opaco, che lo occulti nella diversità ses­ suale, ma al contrario: grazie alla diversità sessuale è stato possibile per Adamo conoscersi come un essere specifico e individuare ciò che li rendeva simili l'uno all'altro. Mascolinità e femminilità sono per­ ciò come due incarnazioni di ciò che significa essere uomo ed en­ trambe sono in una relazione costitutiva. La differenza e la comunione rese possibili dalla sessualità rive­ lano quanto l'altra persona sia, precisamente, un arricchimento deci­ sivo, un autentico «aiuto adeguato» non nel senso della sua utilità, ma nel senso della pienezza ontologica che comporta. Adamo non è stato chiamato all'esistenza non per esistere in mezzo alle cose, ma in mezzo alle persone. E così è. Assieme a questo momento originario dell'esclamazione di Ada­ mo, è possibile cogliere lo stesso fatto nell'affermazione: «Ora tutti e due erano nudi, l'uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergo­ gna» (Gen 2,25). Si tratta di uno sguardo che è capace di penetrare

6 Si veda Mulieris dignitatem 6-7; Sowv'EV, Il significato dell'amore, 5, IV, 89; ID., Il dramma di Platone 26, 211; SCOLA, Uomo-donna. Il mistero nuziale, 43-61.

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il mistero che racchiude la corporeità, senza vergogna, proprio per­ ché si incentra su un significato sponsale, cioè riferito alla comunio­ ne tra i due.

d. La scoperta dell'intimità Nella reazione del suo corpo di fronte alla presenza della donna, Adamo scopre in quale modo il suo corpo è proprio, è il «suo corpo». È nell'unità di questo fango plasmato dalle mani e dal soffio di Dio che ora si scopre a se stesso come qualcuno che è strutturalmente aperto alla comunione con un'altra persona, anch'essa sostanzial­ mente una in corpo e anima. Occorre però tenere conto che si tratta di una reazione di fronte a un corpo sessuato, per cui comporta un'in­ tenzionalità concreta che non si sarebbe data anteriormente con il re­ sto delle creature. Questa reazione gli rivela in quale modo tenda con tutto il proprio essere, anima e corpo, verso la donna, e viceversa. È nell'intreccio di sguardi e di intenzionalità che Adamo ed Eva poterono entrambi scoprire la propria intimità, che prima appariva loro velata. Cosa si intende esprimere con il termine intimità? Si tratta di uno dei grandi temi nella relazione uomo-donna. Ben oltre una visione psicologistica, che si concentra nel «vissuto interiore» in quanto qual­ cosa di personale e inesprimibile, occorre scoprire che anche questo concetto, allo stesso modo di quello di persona o identità, contiene un'intrinseca dimensione interpersonale: nella solitudine non si sco­ pre ciò che è l'intimità, o meglio, se ne trae una visione deformata. Intimità fa innanzitutto riferimento all'identità e alla soggettività proprie della persona, in quanto essa si rende cosciente della realtà che la tocca ed esige da lei una risposta. L'intimità comporta pertan­ to una «auto-coscienza» di sé, un certo «esser presente a se stesso» come soggetto che è coinvolto e che è chiamato a prendere posizio­ ne di fronte a una simile situazione: con ciò si coglie come comporti un'esperienza singolare della propria individualità e dell'irripetibi­ lità della propria esistenza. In questo modo non si può interpretare l'intimità come qualcosa che sia posseduta anteriormente e indipen­ dentemente dall'incontro con la realtà e, in modo particolare, dal­ l'incontro con le persone. In secondo luogo, questa presa di coscienza di sé si rende possi­ bile, tra l'altro, per la mediazione che gioca il desiderio. In esso si ri­ vela il proprio essere in quanto tende a determinati fini, a determi­ nate persone che l'hanno colpito: il desiderio rivela una profondità

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nuova della soggettività personale. Si rende in tal modo possibile al­ l'uomo prendere coscienza di sé come di qualcuno che tende verso un'altra persona. All'interno dell'intimità entra una dimensione in­ tenzionale che lo fa uscire da se stesso e lo dirige verso la realtà. Tut­ tavia esce verso la realtà «per se stesso», non perché sia costretto a ciò. L'intimità richiede allora la possibilità del proprio «auto-domi­ nio» ed esclude la violenza. In terzo luogo tuttavia, rivelandogli il fine del suo desiderio, gli ri­ vela anche in che modo il suo essere è legato a ciò che ama: si fa stra­ da nel soggetto la coscienza di un'appartenenza. Colui che si ama fi­ nisce per appartenere alla propria soggettività e, nello stesso tempo, uno si sperimenta come appartenente a una realtà che lo ha sedotto e che lo chiama a una pienezza nuova, generando una speranza. Qual è il fondamento di questa autocoscienza, di questa inten­ zionalità e di questa appartenenza? Arriviamo così al quarto punto, nel quale viene rivelato come l'origine di questa appartenenza si tro­ vi in una presenza mutua, dell'amato nell'amante: 7 gli amanti sono consapevoli del fatto che qualcuno abita al loro interno, stimato in sommo grado, che offre la possibilità di una comune speranza. Ora questa presenza interiore non costringe in alcun modo il soggetto: al contrario, gli consente di svilupparsi portando a pienezza l'intenzio­ nalità generata. L'intimità vuole significare pertanto questo spazio interiore che si apre nella relazione tra Adamo ed Eva e che esprime una singola­ re mutua appartenenza in cui la soggettività di ciascuno può ora en­ trare in comunione con l'altro senza timore di perdersi o di essere forzato. La porta che apre questo spazio interiore è il riconoscimen­ to reciproco. Si manifesta in tal modo il mistero del sentimento: ad esso spet­ ta di rivelare l'unione intima, perché interiore, di Adamo con Eva e viceversa, unione che genera una mutua appartenenza, un esistere l'uno congiunto all'altro in uno spazio interiore.

7

Cf. G. MADINIER, Nature et mystère de la famille, Casterman, s.l. 1961, 95-103.

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Capitolo quarto

La rivelazione del destino della vita: la vocazione all'amore

L'esperienza dell'incontro tra l'uomo e la donna ha aiutato l'A­ damo d'ogni tempo a comprendere una dimensione essenziale della propria identità: esiste come essere corporeo in un riferimento onto­ logico costitutivo alla donna e viceversa. Ma qual è il significato di questo riferimento? Interessa ora capire non semplicemente il «per­ ché», quanto piuttosto il «per che», cioè la sua finalità.

1. La promessa dell'esperienza amorosa: «saranno una sola carne» a. La promessa di comunione L'unione originaria con Eva, per la quale Adamo ha espresso da­ vanti a lei la propria ammirazione e che riflette in qual modo uno esista congiuntamente all'altro, produce un dinamismo nuovo nella persona, una precisa intenzionalità: nell'incontro dell'uomo e della donna appare cioè una chiamata a realizzare attraverso la libertà una comunione interpersonale reciproca. Si tratta ora non di una co­ munione come dato ontologico, ma di una comunione come frutto della propria libertà. Adamo ed Eva, nell'esistere l'uno congiunto al­ l'altro, nella loro esperienza d'amore comprendono d'essere chiama­ ti a esistere l'uno per l'altro, formando una comunione di persone. L'esperienza dell'amore rivela allora una promessa di comunione da realizzare per opera di entrambi, da costruire con la propria libertà.

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Il testo biblico riflette questo dato quando afferma: «Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne» (Geo 2,24). Tra «riconoscere» la stes­ sa carne nell'altra persona e «diventare» una sola carne sta la me­ diazione della propria libertà che muove a un'unione singolare. Si tratta perciò d'una scelta, dal momento che deve abbandonare padre e madre e unirsi all'altro. Si scopre ora un'altra dimensione essenziale dell'esperienza del­ l'amore: manifestare una possibilità nuova di comunione tra perso­ ne che è mediata dalla carne e che si dà nella carne, nella sessualità. La sessualità serve dunque per esprimere e unire le persone.

b. La rivelazione del significato della libertà Questa promessa di comunione è precisamente questo, una pro­ messa. Non si tratta ora della rivelazione di un dato ontologico, ma della rivelazione di qualcosa che ancora non esiste e deve essere co­ struito dall'uomo e dalla donna. Nell'esperienza d'incontro la libertà di Adamo si sente posta in gioco in una forma originale, poiché è chiamata a costruire quello che le si è manifestato. La sua soggetti­ vità reagisce non soltanto con la meraviglia, ma con l'essere coinvol­ ta: non è una semplice esperienza estetica, ma un'esperienza diretta­ mente morale, dal momento che spinge la persona ad agire. Il valore di questa manifestazione dell'esperienza amorosa è de­ cisivo, poiché le permette di comprendere ora il significato della pro­ pria libertà, della propria capacità di autodeterminazione che prima della creazione non sapeva situarsi. La libertà non è propriamente una semplice capacità di scelta che resta nelle mani di un arbitrio puerile e capriccioso, centrato soltanto sul piacere o sull'utile. Se la persona è libera, lo è precisamente per poter amare e cioè per co­ struire la promessa che le è stata data: giungere ad esistere «per l'al­ tra persona». Questo fatto aiuta dunque a comprendere il senso ultimo di ciò che significa la libertà. Grazie a essa la persona può accettare il de­ stino che le si presenta nell'esperienza dell'amore, o respingerlo, con­ figurando in tal modo tutta la sua esistenza nella prosecuzione di ta­ le destino. Ciò che importa sottolineare di questo fatto è che l'esi­ stenza della persona resta ora segnata da tale libera scelta del proprio destino: la sua vita, nel modo esistenziale di viverla con tale persona, in un tale tipo di vita, in questo modo concreto... «sussiste» nella pro-

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1 pria libertà. La persona, come molte altre «sostanze», sussiste in sé, non in un altro, come avviene per il colore, l'odore e gli altri «acci­ de nti». Il modo con cui l'uomo sussiste in sé è tuttavia assai diverso da quello di una mera sostanza, poiché nell'uomo si dà un sussistere dinamico ed esistenziale grazie alla sua libertà, per la quale è causa sui e, in certa forma, padre di se stesso quanto al modo della propria esistenza.2 Per questo, in forza della libertà, la persona sussiste dina­ micamente in se stessa come un essere indipendente. Ecco che allo­ ra, nel momento in cui la libertà viene riferita a una comunione che è promessa e che, come vedremo, implica una reciprocità, avviene che, se acconsente a questa comunione, la persona va ora a «sussistere» non soltanto in se stessa, ma in una comunione di persone. Ci trovia­ mo di fronte al significato più profondo della libertà, che si riferisce alla capacità di sussistere esistenzialmente in una comunione di per­ sone. Il suo esistere si converte in un co-esistere in un'amicizia. La libertà si vede così configurata e diretta da una verità che le si manifesta nell'esperienza affettiva e che si radica nella corporeità: non si tratta di una libertà «indifferente» davanti alla realtà, ma di una libertà originariamente inclinata, e inclinata proprio all'unione sessuale. Si comprende ora in qual maniera il corpo rientri nel costi­ tutivo intrinseco della persona, essendo questa vero soggetto delle proprie azioni proprio nell'unità di corpo e anima (VS 48). Senza questa unità sarebbe impossibile al soggetto guidare la propria vita in un modo personale e autonomo. Il soggetto che ama, ama non a partire da una libertà pura, indipendente dal corpo e che lo usa se­ condo il proprio interesse, e neppure ama con una libertà schiava del corpo, soggiogata da determinati istinti, ma ama invece a partire da una libertà radicata nel corpo, incontrando in lui, nella sessualità che lo configura, una motivazione decisiva per il proprio agire. Senza il corpo, e la passività che ciò comporta di fronte a tanti beni che lo sol­ lecitano, la stessa libertà umana sarebbe incomprensibile.

c. Il destino di una vita L'interpretazione dell'esperienza amorosa ci ha rivelato come in essa ci sia una dimensione di promessa che proietta l'uomo verso

1 Cf. C. CAFFARRA, Viventi in Cristo, Jaca Book, Milano 1981, parte III, cap. 1. 2 Cf. GREGORIO m NISSA, De vita Moysis II, 2-3: PG 44, 327-328, citato in Veritatis

splendo, 71.

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una comunione e come in questa promessa si risvegli e trovi il pro­ prio centro la libertà, incontrando il proprio significato. Ma a che co­ sa, più in concreto, si riferisce questa promessa dell'amore? Nell'arricchimento soggettivo che ogni esperienza d'amore sup­ pone, attraverso il quale si coglie fino in fondo come la propria esi­ stenza sia un'esistenza «insieme ad un'altra persona», abbiamo visto che è insita la chiamata, sperimentata nello stesso desiderio, a «esi­ stere per l'altra persona», a convivere con lei, a conversare con lei, a condividere con lei la vita, a vivere, infine, in comunione con lei. Si tratta di verbi, potremmo aggiungerne molti altri ancora, con il pre­ fisso «con», che fanno riferimento a un'azione mutua, a una recipro­ cità nell'«esistere per l'altro». Ciò che si promette all'uomo è preci­ samente la pienezza di una relazione d'amicizia vissuta in azioni che consentano di «vivere l'uno per l'altro» in una mutua comunione, sussistendo entrambi nella comunione di persone. Si pone in evidenza con ciò il significato dinamico dell'amore cui sono chiamate le persone e come in esso ci sia un'eccellenza che con­ sente di riempire l'intera vita dei suoi protagonisti. La solitudine di fronte alla quale si trovava Adamo viene ora riempita da una comu­ nione reciproca di persone che colma di pienezza l'esistenza e l'ar­ ricchisce, non perché la riempie di cose, ma perché la apre a un co­ mune sussistere. È questo il momento in cui si capisce ciò che significa la vita in­ tesa nella sua globalità, nella sua finalità ultima, in ciò-che-può-giun­ gere-a-essere-come-perfezione-ultima. Il telos dell'uomo, inteso co­ me l'ideale della perfezione umana, gli si rivela nell'esperienza d'a­ more ed è inteso razionalmente proprio per la capacità che ha que­ sto telos di colmare tutti i desideri che fa nascere. Non si tratta per­ tanto di una esperienza parziale, legata alle circostanze, bensì capa­ ce di abbracciare la totalità della vita, nelle sue diverse dimensioni, inclusa quella temporale. Ed è l'esperienza dell'amore che fa sì che le persone non possano concepire la propria vita se non nell'unione con l'altra persona. È questa unione che dà senso alla vita. Si tratta, in definitiva, della scoperta di un'amicizia vissuta nella reciprocità grazie alla sessualità. Ciò che qui è essenziale, è com­ prendere che si tratta di una scoperta che esige la reciprocità, ma che in nessun modo intende forzarla. Nel desiderio di comunione che chiama in causa anche l'altra persona, ella è ca-implicata in modo che sia lei a scorgere lo stesso destino, lo veda lei, lo voglia lei. È so­ lo allora che nasce l'amicizia. C.S. Lewis lo fa vedere con forza quan­ do mostra come l'amicizia nasca sempre di fronte alla scoperta fatta

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assieme di un comune progetto, di un comune ideale. «La frase con cui di solito comincia un'amicizia è qualcosa di questo genere: "Co­ me? Anche tu?...". Quando due persone di questo tipo si scoprono a vicenda, quando tra immense difficoltà[ ...] condividono la stessa vi­ sione, è allora che nasce l'amicizia[ ...]». In questo senso la frase «"Mi vuoi bene?" significa "Vedi la stessa verità?" o, per lo meno, "Hai a cuore la stessa verità"?». Chi concorda con noi sul fatto che una cer­ ta questione, dagli altri considerata secondaria, è invece della massi­ ma importanza, potrà essere nostro amico».3 Per capire questo concetto del pensatore inglese, occorre tenere conto che la «verità» che uno vede, la scopre nell'esperienza d'amo­ re, per cui non è qualcosa che uno possiede anteriormente, come se fosse un ideale precostituito, e cerca con chi condividerlo. Non è co­ sì perché, prima dell'esperienza dell'amore, non risulta chiaro quel che può arrivare a essere la vita: è questa esperienza, con questa per­ sona concreta, quella che permette di intuirlo, aprendo un nuovo orizzonte, in continuità con altre esperienze antecedenti come quel­ la della figliolanza, della fraternità o socialità, ma oltrepassandole, si­ no al punto di condurre la persona a lasciare padre e madre, aspetto che è del tutto al di fuori delle esperienze precedenti. La reciprocità propria di questo momento tocca la dimensione fondamentale dell'intenzione di uno stesso destino, di una stessa pie­ nezza. Più ancora, il destino dell'altra persona si trasforma nel mio destino. E qui sta senza dubbio la grande fatica iniziale delle espe­ rienze d'amore che, al di là del cercare di sapere se «una persona pia­ ce all'altra», ciò che si vuole è sapere se l'altro ha visto lo stesso de­ stino, se intende la vita sotto lo stesso punto di vista, se il destino è comune.

d. Amare: il dono sincero di sé La comunione promessa si fa realtà soltanto se le persone met­ tono in gioco nell'amore la propria libertà. In questo momento l'a­ more cessa di essere un'esperienza ideale che potrebbe rifugiarsi in una semplice contemplazione estetica, come poteva avvenire nella rappresentazione dell'amore cortese in cui, davanti alla sublimità della donna, la possibilità di vivere assieme a lei era qualcosa di ir­ raggiungibile, per passare a essere il motore di una vita, la sorgente 3

LEw1s, / quattro amori, 65-66.

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di un'attività costante diretta totalmente alla persona amata. Ma quali sono le dimensioni di questo dinamismo che l'amore mette in movimento? - La prima dimensione è che l'amore conferma l'esistenza reci­ proca. Nell'esclamazione di Adamo «questa è carne della mia carne e osso delle mie ossa» non solo accade ad Adamo di riconoscere se stesso in una forma nuova, ma di confermare la bontà della propria esistenza, partecipando dello sguardo di Dio: «e Dio vide che era co­ sa molto buona». In questa conferma dell'esistenza, Adamo accoglie l'altra persona come è stata creata e amata dal Creatore: per se stes­ sa, in una unicità e irripetibilità singolari. Per questo, non si ama la persona semplicemente come «qualcosa di mio», ma per quello che è, una persona alla quale compete di sussistere in se stessa e di go­ vernare se stessa in base ai fini che si è prefissa. L'espressione dell'ammirazione d'amore che una persona profe­ risce acquista sempre una connotazione culturale, ma nella diversità delle culture riflette comunque questa presa di coscienza della bontà dell'esistenza. Joseph Pieper ha cercato di tradurre nel linguaggio occidentale moderno l'espressione di Adamo, che indubbiamente ha un substrato culturale semitico, estraneo alla nostra cultura e al no­ stro modo di parlare. Quel primo canto d'amore equivarrebbe a di­ re oggi: «che meraviglia è che tu esista, che tu sia al mondo!».4 Ama­ re equivale, in primo luogo, a confermare una persona nell'esistenza, ad affermare la persona in se stessa. - Quando uno ama, non si sforza soltanto di confermare nell'e­ sistenza, ma, davanti al valore della persona e alla dimensione evo­ lutiva della vita dell'altro, cerca di promuoverla. 5 Ciò che l'espe­ rienza d'amore rivela è la volontà di promozione della persona ama­ ta. Cosa significa volere la promozione d'una persona? Questo vo­ lere può realizzarsi soltanto quando uno comprende una dimensio­ ne essenziale della vita, il suo carattere temporale e progettuale per cui la persona, a partire da una data situazione, può crescere, svilup­ parsi, maturare, conseguire nuove perfezioni fino a raggiungere la sua perfezione ultima. È di fronte al valore della persona che attrae con tanta forza, ma che ancora può conseguire pienezze nuove, che si desidera promuoverla. Si tratta quindi di promuovere un bene sin-

J. PIEPER, Las virtudes fundamentales, Rialp, Madrid 1980, 435-444. 5 Cf. NÉDONCELLE, Vers une philosophie de l'amour et de la personne, 15.

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golare della persona: il bene della persona, che esprime in qual mo­ do essa possa rendersi dinamica così da conseguire la sua pienezza ultima. 6 Questo bene può conseguirlo solamente nell'esercizio della propria libertà, poiché è un bene propriamente umano che compor­ ta un'assimilazione personale del soggetto, per cui non si rivolge a qualcosa che si possa riempire con oggetti. Così, volere la promo­ zione della persona equivale a volere che l'altro consegua un eserci­ zio della propria libertà tale da permettergli di ottenere il proprio bene ultimo in quanto persona, cioè la felicità. Ciò che si vuole, dun­ que, è la sua felicità. Ma in che relazione si trova questa volontà e promozione del­ l'altra persona con il soggetto amante? Non implicherebbe questa volontà di promozione una presa di distanza, un disinteresse? L'e­ sperienza d'amore, rivelando un comune destino, mostra nondimeno in qual modo l'amante senta se stesso coinvolto nel bene della per­ sona amata, così che soltanto nella mutua comunione potranno con­ seguire entrambi il loro massimo bene. La solitudine non sarebbe in alcun modo un bene per l'altra persona, mentre la comunione, vissu­ ta come un eccellente modo di esercizio della libertà, comporta la pienezza di entrambi. È così che l'amante può farsi carico dell'altro, assumendo su di sé la possibilità della sua perfezione in una recipro­ cità, facendo propri i suoi fini e i suoi valori. Questa considerazione della volontà di promozione ci fa com­ prendere come nell'esperienza d'amore sia inclusa la totalità della persona e così anche la temporalità. Si desidera per l'altra persona non semplicemente un buon momento, un'avventura più o meno in­ teressante, ma una pienezza «per sempre». E «per sempre» compor­ ta che nella temporalità della vita tale pienezza si potrà conseguire soltanto nella mutua comunione. - Le considerazioni fatte sin qui ci consentono di comprendere la terza dimensione essenziale dell'amore nel suo aspetto dinamico: amare si presenta alla propria soggettività come il dono di sé. La pro­ mozione dell'altra persona perché consegua la sua pienezza non po­ trà essere reale se non attraverso la donazione che uno fa di se stes­ so all'amato. Nella spiegazione che Giovanni Paolo II fa del dono di sé, si può cogliere l'importanza che in tutta la sua riflessione riveste il passo della costituzione conciliare Gaudium et spes 24: «l'uomo, il quale in 6

Cf. L. MELINA, Sharing in Christ Virtues, CUA Press, 59-91.

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terra è la sola creatura che lddio abbia voluto per se stesso, non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé». Il santo padre concentrava la propria attenzione sul modo in cui l'uo­ mo possa incontrare se stesso. Nei primi capitoli della Genesi, que­ sto incontrare se stesso fa senza dubbio riferimento a un «conoscere se stesso». Adamo ebbe la possibilità di conoscersi, di incontrarsi, soltanto nella donna. Questa conoscenza di sé conseguì tuttavia la pienezza quando «conobbe la donna» (Gen 4,1), che nel linguaggio biblico vuol dire «le si unì sessualmente». Perché questa relazione tra conoscere e unirsi sessualmente? Si deve indubbiamente in primo luogo alla mancanza di un vo­ cabolario esplicito nel mondo semitico. Povero nel suo linguaggio, non coglie la distinzione dei vari aspetti con termini distinti. Questo fatto ci aiuta però a comprendere una relazione che si è persa in vo­ cabolari più evoluti. L'unione tra il maschio e la femmina comporta di certo un esercizio della loro libertà e una donazione del corpo che, come abbiamo visto, è trasparenza della persona. Conoscere sessualmente il corpo coinvolge di per sé l'esercizio della libertà, che è visto come il dono della sessualità, del corpo, il quale è a sua volta trasparenza della persona: si può così intendere anche come un do­ no della persona nella propria corporeità, in definitiva, come un do­ no di se stesso. Ciò che è essenziale è che questo dono di sé, attra­ verso il quale si accoglie l'altra persona nella sua corporeità come ella è stata creata e amata da Dio, e attraverso il quale uno dà se stesso nella realtà del proprio essere come è stato creato e amato da Dio, genera una comunione tra i due, un arrivare a essere una sola carne, un conoscere se stessi e, in definitiva, un trovare se stessi nel­ la realtà ultima di ciò che i due sono. Cos'è che trovano, cos'è che conoscono? I due trovano l'accettazione che di ciascuno fa l'altro, come un riflesso del modo in cui è stato desiderato per se stesso dal Crea­ tore, nella sua umanità, nella sua mascolinità e femminilità. I due, in un atto sessuale reciproco, si rivelano l'uno all'altro la profon­ dità del proprio io umano. Trovano così la verità ultima del proprio essere, la propria unicità e irripetibilità in una comunione con l'al­ tra persona. La donazione di se stessi vissuta nella sessualità si trasforma nel fondamento di tutta una vita e, nello stesso tempo, nell'anima di tut­ ta la loro vita insieme, che acquista in tal modo il significato di un do­ no di sé vissuto nella mediazione non più soltanto della sessualità, ma di tanti altri beni: conversazioni, progetti, aiuto vicendevole, cura

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mutua... che consentiranno loro di incarnare questa donazione e di attualizzare perciò la comunione. È così, facendosi reciproco dono della persona, che i due possono esistere «uno per l'altro». Ciò che importa comprendere è che soltanto questa donazione di sé consente all'uomo e alla donna di assumere in un modo persona­ le l'appartenenza reciproca che si era inaugurata nell'esperienza d'a­ more. Ora sorge tra i due un vincolo, un'unione in se stessa irrevo­ cabile poiché è nata dalla totalità del dono. Nell'attuale appartenen­ za del corpo si dà la mutua appartenenza delle persone, poiché il cor­ po esprime la persona.

e. Modo di amarsi o contenuti concreti Nell'interpretazione dell'esperienza d'amore occorre superare una difficoltà radicale dal momento che, rivelando una promessa di comunione, si tende a idealizzare situazioni ipotetiche, concependo­ le secondo una concreta modalità di realizzazione: nell'esperienza d'amore, cioè, i suoi protagonisti tendono a immaginare come po­ trebbe essere la loro vita futura. In questo modo si idealizza una si­ tuazione futura di comunione attribuendole dei contenuti concreti: il costituire un tale matrimonio, in cui gli sposi siano in tali situazioni di lavoro e i figli crescano sani e abbiano tali caratteristiche... Il «noi ideale» che aveva risvegliato l'esperienza si converte dunque in una vita ideale a propria misura. La promessa di pienezza rivelata nell'esperienza amorosa non ha tuttavia in se stessa riferimento a contenuti concreti. Indica piuttosto l'eccellenza di un modo tipicamente umano di amarsi, quello che si dà nella totalità e reciprocità. È lì che si incontra la pienezza e non nei suoi contenuti. La vita, con il suo corso tante volte ineluttabile, va forse smentendo molte delle idealizzazioni che gli innamorati si sono costruiti. Conserva tuttavia l'essenziale, l'eccellenza di un amo­ re che è capace di impegnarsi e di lottare per le persone anche quan­ do le circostanze si fanno contrarie: «se la salute non ci assiste, noi ci aiuteremo l'un l'altro; se ci capita un figlio con dei problemi, Io ame­ remo di più perché è nostro figlio e ha bisogno di più di noi; se il la­ voro diventa pesante e assorbe tempo in misura sempre crescente, cercheremo i mezzi per darci una mano...». È questa l'eccellenza che attrae e affascina e che muove le persone a darsi in dono.

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f. L'ambiguità dell'esperienza sessuale L'esperienza originaria narrata dal libro della Genesi pone in forte risalto la bontà della sessualità. E lo fa mostrando come lo sguardo reciproco tra Adamo ed Eva fosse uno sguardo che non era offuscato dalla vergogna: «Ora tutti e due erano nudi, l'uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna» (Gen 2,25). Con questo si intende sottolineare la mutua capacità di scoprire il valore sponsale del corpo e di conseguenza della sessualità, senza la pretesa di og­ gettivarla e di usarla. Questa esperienza tuttavia viene presto oscurata quando l'auto­ coscienza e l'autodeterminazione dei due sembrano sospendersi e si rivolgono al tentatore: Eva osserva «che l'albero era buono da man­ giare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch'egli ne mangiò» (Gen 3,6). A seguito di ciò ha inizio un radicale mutamento che tocca anche il modo di guardarsi: «Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture» (Gen 3,7). Lo sguardo è ora uno sguardo che non è capace di captare in tutte le sue dimensioni il significato sponsale del corpo e della sessualità, mirando invece ad usarla. Per questo la sessualità si nasconde allo sguardo, per evitare un'oggettivazione. Da allora le due esperienze procedono congiunte: tra lo sguardo innocente, che coglie la grandezza del corpo e il suo significato spon­ sale, e lo sguardo utilitarista, che tenta di oggettivarlo.

2. Comunicare l'amore: formare una famiglia. «Crescete e moltiplicatevi» a. Proiezione dell'amore coniugale nell'amore paterno/materno e nella società L'esperienza d'amore orienta verso una comunione singolare che comporta la totalità del dono di sé degli sposi nel loro corpo. Questo fatto si presenta però alla loro coscienza come un dono che non termina nella mutua donazione, ma che si apre alla possibilità di una comunicazione assolutamente originale: la comunicazione della vita. La vita in comunione degli sposi è aperta ad accogliere

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nel proprio amore un'altra persona alla quale comunicare la pro­ pria ricchezza di vita. Questo fatto configura lo stesso amore coniugale, specificandolo non solo per la totalità del dono che comporta, ma anche per la sua apertura intrinseca alla possibilità di generare un'altra persona. Si tratta di una possibilità che costituisce parte intrinseca dell'esperien­ za d'amore, a meno che si rifiuti la realtà piena di ciò che implica un amore vissuto nel corpo. Il fatto che esista una qualche circostanza, co­ nosciuta o meno, che renda impossibile la procreazione non elimina la realtà stessa di ciò che stiamo vivendo, poiché l'amore tra uomo e don­ na, per il fatto di includere intrinsecamente in sé la corporeità, è un amore che include in sé la possibilità di proiettarsi in una famiglia. Il mistero della persona fa ora un passo in avanti. Adamo ed Eva ebbero una conoscenza di se stessi in una forma nuova nella genera­ zione del loro figlio. L'esultanza di Eva «Ho acquistato un uomo dal Signore» (Gen 4,1) indica come ella giunga a una piena conoscenza di sé nella maternità. Entrambi possono riconoscere se stessi nel ter­ zo, il loro figlio, originato da loro due. Il valore che questo fatto rive­ ste per l'identità della persona è decisivo, giacché inaugura una rela­ zione irrevocabile tra padre e figlio, che identifica i suoi protagonisti.

b. Il bene comune: la famiglia Nella promessa di mutua comunione rivelata nell'incontro di Ada­ mo ed Eva risiede dunque la possibilità di formare una nuova comu­ nione tra persone. Questa nuova comunione di persone, la loro rela­ zione, si trasforma così in un bene comune che unisce l'uomo alla don­ na e nel quale i due possono crescere e acquisire la pienezza ultima. L'ordito delle relazioni familiari, che sono tutte fondate sulla relazio­ ne sponsale, assieme ai diversi beni che favoriscono la loro crescita quali la fedeltà, l'onore, la durata, la mutua gioia, il lavoro... si trasfor­ ma nell'autentico bene degli sposi e di tutti i membri della famiglia.7 In questa prospettiva si rende impossibile concepire la pienezza dell'uomo o della donna o dei figli a prescindere dalla pienezza del­ l'insieme dei rapporti in cui hanno trovato il loro posto. 8 Il bene in-

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Cf. GIOVANNI PAOLO Il, Lettera alle famiglie 10. Cf. lo studio su questo tema, quantunque non applicato direttamente alla fami­ glia, A. MAclNTYRE, Dependent Rational Animals. Why Human Beings Need the Vir­ tues, Duckworth, London 1999, 99-118.

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dividuale di ciascuno degli sposi e dei figli e il bene della comunità, del matrimonio, della famiglia stanno così in una relazione intrinse­ ca poiché si riesce a vedere il primo e a giustificarlo umanamente so­ lo in relazione al bene della comunità. Che un uomo o una donna si interroghino per «il proprio bene» equivale a interrogarsi per «il no­ stro bene». In questo modo perseguire il mio bene equivale a perse­ guire il nostro bene, il bene di tutti coloro che sono partecipi di que­ sta relazione, il bene del matrimonio, il bene della famiglia. Con ciò si coglie come sia possibile superare una concezione individualistica del matrimonio e della famiglia basata semplicemente su un'auto­ realizzazione personale, in cui si vede il bene comune da una pro­ spettiva strumentale. Il bene della comunione, e cioè la possibilità di sussistere in una comunione di persone, è un vero bene per le persone poiché solo in questa comunione potranno sussistere in se stesse come esseri indi­ pendenti. Allontanarsi da questa comunione, da questa sussistenza comune, comporta per la persona il «perdersi», cessare cioè di cono­ scere se stessa, perché perde il suo posto nel mondo e l'orizzonte ul­ timo di senso.

c. La generazione della società La scelta che sta all'origine della comunione tra l'uomo e la don­ na ha inevitabilmente comportato «abbandonare padre e madre» (Gen 2,24). L'uomo e la donna, lasciando la loro famiglia d'origine e generando i loro figli, formano una famiglia nuova. L'amore sponsa­ le si colloca così all'origine della costituzione della società, come tra­ ma di relazioni tra persone che non sono direttamente vincolate dal sangue in ragione di un bene comune. La famiglia si costituisce in questo modo, come qualcosa che precede la società stessa e la gene­ ra, non soltanto perché apporta i membri che la compongono, ma perché rende possibile il fondamento delle relazioni che la costitui­ scono, favorendo così la formazione di altre cellule familiari che ri­ chiedono, a loro volta, un complesso di nuove relazioni. Nella proi­ bizione dell'incesto si trova l'origine della società. La famiglia si istituisce così come la cellula primordiale e, in un certo modo, sovrana della società, con un protagonismo proprio nel complesso di relazioni che comporta. Questo protagonismo non si fonda nella semplice aggregazione dei suoi membri e nella eventua­ le utilità di fronte al fatto che abbia come interlocutore il nucleo fa­ miliare. Si basa, al contrario, sul fatto che i suoi membri sussistono in

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una comunione di persone, per cui è possibile attribuire a questa co­ munione il valore di una soggettività. La famiglia si presenta così nel­ la società come un vero «soggetto» capace di costruire, di dialogare, di apportare, di esigere il proprio riconoscimento in relazione al be­ ne comune della società.9 Lo stesso lavoro con il quale ogni uomo e donna, seguendo la pri­ ma coppia, dovranno iniziare la propria vita coniugale avrà come ri­ ferimento la famiglia. Si tratta cioè di fornire, attraverso il lavoro, i mezzi necessari perché le persone che sussistono in un'unità familia­ re possano veramente raggiungere i loro fini. Se ogni lavoro ha per fine l'uomo, dal momento che si lavora per lui in relazione più o me­ no diretta, è necessario comprendere che quest'uomo cui il lavoro è diretto vive in una realtà familiare e, d'altro canto, che colui che la­ vora è membro di una famiglia. Nella comunità costituita dall'uomo e dalla donna d'ogni tempo c'è una dimensione sociale intrinseca che evita il pericolo della ridu­ zione dell'esperienza d'amore a una questione privata, senza inci­ denza né interesse sociale e pertanto senza possibilità di configura­ zione e rivendicazione sociale. Il problema attuale non si pone sol­ tanto di fronte allo Stato, ma principalmente nell'assenza di una ve­ ra e autentica dimensione sociale in tante esperienze dell'amore, che si configurano pertanto come rifugi affettivi. Per quanto compete al­ lo Stato, occorre ricordare che la famiglia è il capitale sociale di ba­ se di ogni società, la cui cura e promozione comportano un autenti­ co investimento che avrà come ritorno il bene della società stessa.10

3. La comunione uomo-donna e l'alleanza con il Creatore a. Sapersi creato per amore e gratificato da un dono Il testo biblico riflette con forza il dialogo dell'uomo con Dio e come questo faccia costitutivamente parte della soggettività umana. A questo punto della riflessione, interessa comprendere in quale ma-

9 Cf. GIOVANNI PAOLO II, Centesimus annus 13. 10 Cf. P. DONATI (ed.), Famiglia e capitale sociale nella società italiana, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2003.

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niera questo dialogo tocchi anche la stessa corporeità, dal momento che è necessario evitare il pericolo di un estrinsecismo molto diffuso che situa il dialogo con Dio in un momento successivo alla stessa esperienza d'amore, stabilendo in tal modo una discontinuità tra l'a­ more sponsale e Dio: Dio si troverebbe a entrare in un secondo mo­ mento dell'amore, ma non sarebbe alla sua stessa origine. Questa dif­ ficoltà ci obbliga a cercare le mediazioni che nello stesso vissuto umano dell'amore consentono l'esperienza di Dio. Tra queste mediazioni si devono sottolineare la passività origina­ ria del corpo e il suo significato sponsale, poiché essi ci consentono di cogliere, come abbiamo visto, che ci sono elementi dell'esperien­ za d'amore che si impongono alla coscienza propria del soggetto co­ me un dato previo alla sua stessa scelta. Non siamo stati noi a darci la struttura ontologica della nostra corporeità e della nostra sogget­ tività, ontologicamente aperta alla differenza sessuale. La stessa im­ possibilità di riempire la solitudine che comporta la sua assenza ci mostra che c'è qualcosa in essa che va oltre la nostra stessa capacità. Dio solo può riempirla creando per l'uomo la donna e viceversa. Nell'esperienza della solitudine davanti all'intero creato, Adamo comprende che il dono che riceve dall'incontro con Eva è stato pos­ sibile perché un Altro l'ha creata per lui e viceversa. È in questo mo­ mento che Adamo capisce il perché della propria originaria solitudi­ ne e il perché della propria corporeità. Il suo corpo, che lo unisce al­ la creazione, era stato così formato per ricevere un nuovo dono. E di fronte alla presenza del dono il corpo si converte nel testimone del­ l'atto creatore di Dio. La creazione del mondo, con tutti i suoi esseri dati all'uomo perché li domini e imponga loro un nome, ma soprat­ tutto la creazione della donna, con una struttura corporea identica e nello stesso tempo differente, permettono ad Adamo di comprende­ re che il creato intero ha la propria origine nell'amore divino. Adamo perciò non solo sa di essere creato per amore, ma anche gratificato con un dono, il dono di una compagna. Dio si rivela agli occhi dell'uomo come colui che rende possibile tale esperienza e fa di due uno. Così lo interpreta Gesù quando si rifà al principio: «ciò che Dio ha unito[ ...]». Con ciò ci viene rivelato che l'amore di Dio è la fonte ultima dell'amore umano, poiché è lui che fece l'uomo vulnerabile e volle dargli una compagna adeguata alla sua dignità. È così che si comprende che nell'esperienza d'amore si percepisce la capacità d'infinito del cuore umano e nello stesso tem­ po la sua comunicazione all'uomo.

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b. Participare dello sguardo di Dio Nello stupore davanti alla donna e alla sua nudità, lo sguardo di Adamo non si ferma alle qualità che gli sono complementari, ma è capace di raggiungere il mistero della persona e di confermarla nel­ la sua esistenza. Unito allo sguardo di Adamo è lo sguardo di Dio che lo precede e vede la bontà ultima di tutto ciò che ha creato: «Dio vide che era molto buono». Lo sguardo di Dio è singolare, poiché si tratta di uno sguardo creatore, che fa esistere e che genera la bontà della creatura. L'uomo è l'unica creatura che è amata per se stessa, a differenza del resto della creazione che è fatto per l'uomo e in funzione dell'uomo. Adamo, guardando Eva, e viceversa, partecipa dello sguardo di Dio, che ama la persona per se stessa. E per questo non prova ver­ gogna. Scopre una bontà degna d'essere amata per se stessa: una bontà che lui, tuttavia, non ha creato né generato, ma alla quale va incontro con gioia.

c. Acconsentire al suo significato: l'alleanza con il Creatore In questo modo la libertà che viene donata alla donna, e vicever­ sa, comporta un'accettazione di ciò che si rivela allo sguardo: il si­ gnificato sponsale del corpo. Non per niente l'atto di libertà che dà luogo al matrimonio si chiama consenso. Ma che cosa è ciò cui si dà il consenso? Potrebbe forse sembrare che si acconsente a una deter­ minata forma d'amore che viene fissata e regolata dalla società e dal­ la comunità religiosa, o che si acconsente a che sia questa e non un'altra persona quella con cui condividere una vita. Ciò che Adamo ha fatto nel primo canto d'amore è stato tuttavia affermare la bontà della corporeità, accettando la bontà che si mani­ festava nel suo sguardo stupito, nell'esperienza affettiva che l'aveva sorpreso. Accetta un'attrazione, ma, nell'accogliere la totalità di ciò che essa comporta, accoglie anche colui che ha reso possibile tale esperienza creando il corpo umano ontologicamente aperto e favo­ rendo un mutuo incontro. In questo modo l'atto di consenso si rivol­ ge in maniera più radicale a Dio stesso che ha così fatto la relazione uomo-donna. La verità dell'esperienza morale è radicata in un albe­ ro, quello della scienza del bene e del male, di cui l'uomo non può possedere il frutto a proprio vantaggio. Consente al suo significato, non lo crea.

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Nell'esperienza d'amore la persona può comprendere che è un Altro che la invita ad uscire da se stessa e muove la sua libertà.11 L'a­ more è un dono, il primo dono che l'uomo riceve, il cui primo dato­ re è Dio stesso, che fa dono della donna all'uomo e dell'uomo alla donna: è lui che unisce in matrimonio facendo di due persone una so­ la carne. La profondità di questo atto di accettazione del dono di Dio si ri­ vela dunque nel fatto che in questo modo l'uomo sta accogliendo il progetto di Dio su di sé, così come gli si manifesta nella corporeità. Accogliendo la verità dell'amore umano, l'uomo entra in una singo­ lare alleanza con Dio. L'alleanza umana, quale atto di mutua dona­ zione sponsale, sarà la mediazione nella quale l'uomo potrà entrare in alleanza con Dio, accogliendo il suo amore e partecipandone. È per questo che il corpo umano, con il dinamismo sponsale che comporta, si trasforma nel sacramento primordiale, poiché fa traspa­ rire in maniera efficace l'invisibile mistero del disegno divino, tra­ sformandosi in un autentico luogo dell'incontro tra Dio e l'uomo. La sessualità ci si rivela allora come il canale, l'ambito, il luogo in cui Dio ha voluto incontrare l'uomo per entrare in alleanza con lui: essa fa intrinseco riferimento al mistero dell'alleanza con Dio, posseden­ do una chiara dimensione religiosa; nasconde in se stessa un mistero che la trascende.

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Cf. ScoLA, li mistero nuziale, 93-95.

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Capitolo quinto

Piacere, sessualità e felicità

Dopo un'analisi fenomenologica dell'esperienza dell'amore alla luce della rivelazione in cui ci è stato possibile cogliere la profondità di significato di tale esperienza, è ora opportuno soffermarci su un'a­ nalisi della relazione tra il piacere, la sessualità e la felicità. Il motivo di ciò è determinato dalla necessità di chiarire la loro relazione, dal momento che la sessualità viene a essere apprezzata in molti casi sul­ la base del piacere che procura; la somma dei piaceri, così come la possibilità della loro continuità nel tempo, viene a essere confusa con la felicità. Una simile interpretazione rende impossibile comprende­ re il valore autenticamente umano della sessualità, poiché la riduce a un oggetto d'uso in funzione del piacere. Sarà sufficiente la ridu­ zione della sessualità alla genitalità per introdurre una fatale fram­ mentazione nella condotta delle persone. Si rende necessario chiarire cosa significhi il desiderio del piace­ re, cosa nasconda, e quale sia la sua relazione con la felicità umana.

1. La polarità del desiderio: piacere e felicità Il valore della sessualità ci si impone nel desiderio. Noi ci sor­ prendiamo a desiderare, a guardare con interesse, a ricreare situa­ zioni, perché il sesso ci attrae e tenta di sedurci. La dimensione sen­ sibile e affettiva della sessualità, per quanto attiene a valori concreti e particolari che si mostrano sotto una chiara convenienza, determi­ na il desiderio sessuale. La difficoltà insorge quando questo deside-

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rio venga a opporsi a desideri propriamente spirituali, che attengano a beni non sensibili, come potrebbero essere l'amicizia, la comunio­ ne, il dono di sé, ecc. L'inconveniente che sorge in questa interpretazione del deside­ rio sessuale è la dicotomia che si stabilisce nel mondo del desiderio umano. Il desiderio sensibile, il desiderio sessuale, è davvero soltan­ to sessuale? Il bene sessuale o affettivo cui tende è capace di soddi­ sfarlo? Cosa desideriamo nel desiderio sessuale? 1

a. Il desiderio di piacere Il desiderio sessuale nasconde un mistero, poiché ci rivela qualco­ sa di prezioso che si impossessa di tutta l'attenzione arrivando sino al­ l'ossessione, ma nello stesso tempo ci fa intuire che è in esso nascosto qualcosa di più, che non si esaurisce nel valore sessuale: non è un de­ siderio semplice, ma riflette piuttosto l'interiorità della persona, la sua complessità e insieme la sua unità. Il desiderio non si dà senza la conoscenza, ma non può ridursi a essa, né dedursi da essa. Ci incon­ triamo con desideri sensibili, ma nello stesso tempo anche con desi­ deri spirituali: desideriamo la soddisfazione sensuale, ma insieme di far felice l'altra persona. Questo succede perché nell'uomo coesisto­ no conoscenza sensibile e conoscenza spirituale. Ciò che noi sentiamo è sempre concreto, come i desideri sensibili, che tendono ai beni del corpo e dell'affetto, la cui convenienza appare nella reazione sensibi­ le. Il nostro spirito si apre tuttavia a una verità e a una pienezza che supera ciò che si sente. Ecco qui la polarità di fondo del desiderio ses­ suale: si dirige verso qualcosa di sensibile, ma include in sé il deside­ rio di qualcosa di più. Cerchiamo di comprendere questa polarità. Il desiderio sensibile cerca il piacere che gli si prospetta, cerca di saziare la tensione che si è determinata nella reazione sensibile da­ vanti a quel valore sessuale concreto e parziale che ha sedotto e che è apparso così conveniente, producendo uno stato di sensualità sin­ golare. Il desiderio sessuale cerca la soddisfazione sensuale, il piace­ re carnale, e soltanto in determinate azioni può trovarlo. Il piacere consuma e perfeziona atti concreti, parziali, isolati, e di essi siamo coscienti, poiché solo quando ci rendiamo conto della convenienza

1 Si veda P. R1coEUR, «La fragilité affective», in Philosophie de la volonté. li: Fi­ nitude et culpabilité /: L'homme faillible,Aubier, Paris 1960, 97-148.

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che implicano si produce il piacere. Per questo desideriamo «sentire piacere». Nell'uomo però conoscere in modo sensibile è già conoscere in­ tellettualmente. Sentire è pensare, per cui ogni conoscenza sensibile coinvolge l'intelligenza che, sentendo, cerca e intuisce il suo significa­ to, la sua pienezza umana, la desidera, la vuole e la sperimenta. Inol­ tre, se desiderare sensualmente è desiderare di agire per ottenere il piacere sensuale, noi ci troviamo davanti a un'attuazione del sogget­ to che è libera per la cui realizzazione esige un significato. Proviamo così che il desiderio generato dalla conoscenza sensibile non è sem­ plicemente un desiderio di piacere sensuale, dal momento che non vi era alla sua origine solamente una conoscenza sensibile, ma vi si tro­ vava anche la conoscenza intellettuale. Per questo il desiderio sensibi­ le nasconde in sé un desiderio spirituale ed è da esso abitato: si tratta di un desiderio che cerca qualcosa di più, una pienezza che va oltre la particolarità e la temporalità della soddisfazione sensuale che offre. A sua volta, sentire questa soddisfazione sensuale comporta il cono­ scerla, conoscerla con la ragione, cioè nel suo significato. Desiderio sensuale e desiderio spirituale: si tratta dei due poli del desiderio umano, due poli presenti in ogni desiderio e non di una di­ stinzione tra due tipi di desiderio. Tra questi si rende per noi eviden­ te nella sua impetuosità il desiderio di piacere sensibile, nel quale ci si rivela però il desiderio di pienezza, di compimento di un destino, di perfezione della vita, in definitiva di felicità. Nel desiderio sessuale ci si trova davanti a una sproporzione co­ stitutiva: cerca il piacere sensibile, ma esige la felicità. Il piacere sen­ suale sazia, ma richiede la sua esperienza e il suo significato, per cui non riesce a dare da sé la felicità della vita: contiene in sé una perfe­ zione, ma non totale, non definitiva. Il suo valore si ritrova nel fatto che testimonia all'uomo la bontà della sua realtà organica e corpo­ rea. Il desiderio sessuale, e soprattutto il piacere sensuale, ci unisco­ no al flusso vitale dell'esistenza offrendo la forza e la gioia della vi­ ta: impediscono così che l'uomo si rifugi nella sua solitudine e nella sua proiezione. Dal momento però che si tratta di un desiderio sen­ sibile, che indirizza verso determinati beni concreti, è incapace di ab­ bracciare la vita intera e di riempirla. L'analisi fenomenologica del desiderio sessuale ci mostra ancora un'ulteriore ricchezza, perché nell'esperienza amorosa-sessuale si trovano mescolati i valori umani della persona legati alla mascolinità e femminilità. Quando l'uomo o la donna desiderano il piacere sen­ suale, desiderano anche il possesso di questi valori, il possesso del-

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l'altra persona, il dominio dell'altro. Certo, il desiderio sessuale desi­ dera possedere, sedurre, dominare. Ma possedere che cosa? Sempli­ cemente il corpo? Possedere soprattutto il riconoscimento dell'altra persona. Si tratta del riconoscimento che nella libertà l'altra persona realizza i nostri stessi valori. L'affermazione dell'altra persona si co­ stituisce come la base per l'affermazione di se stessi, per il riconosci­ mento di se stessi: nel desiderio sessuale cerchiamo di conoscerci, cerchiamo di affermarci, ma in una interrelazione. Si introduce così nel desiderio un elemento di reciprocità la cui radice affonda in una dimensione biologica asimmetrica. Possiamo ora comprendere come la soddisfazione sessuale non possa ridursi a un semplice piacere fisico, poiché implica una singo­ lare reciprocità d'azione tra l'uomo e la donna. Soltanto per imma­ turità o repressione questa reciprocità d'azione può giungere a esse­ re concepita come la necessità di un orgasmo, in cui l'altro sarebbe un mero strumento per raggiungerlo. In nessun modo può essere in­ vece ridotto a uno strumento, a un oggetto di consumo, perché nel medesimo desiderio sessuale sono inscritti i tratti dell'alterità, che si riferiscono a qualcuno che è somigliante, nella differenza, a se stessi. Il desiderio sessuale e il piacere sensuale che favorisce fanno in conclusione intrinseco riferimento a qualcosa che sta ben oltre: rin­ viano alla realtà dell'azione reciproca che produce piacere. Per que­ sto il piacere sensuale, lontano dal rinchiudere l'uomo in se stesso, lo spalanca alla realtà, lo unisce a essa. Ecco, realtà è qui alterità. 2 Il piacere fa intrinseco riferimento a una alterità. E senza questa alte­ rità, senza la persona dell'altro, resta semplicemente ridotto a una eccitazione sensuale infraumana che ha trovato soddisfazione.

b. La feticità Poco più sopra ha fatto la sua comparsa il termine «felicità». Con ciò ci si riferisce a un concetto di enorme ricchezza e, quindi, com­ plesso. 3 Nel corso della storia ha ricevuto interpretazioni diverse che hanno influito in profondità sulla sua attuale comprensione. All'ini­ zio venne impiegato nella filosofia greca per esprimere una singola-

2

Cf. M. BINASCO, «Ferita-mistero della differenza», in G. MARENGO-B. OaNIBENI,

Dialoghi sul mistero nuziale. Studi offerti al Cardinale Angelo Scola, LUP, Roma 2003,

35-65. 3

Cf. G. ABBA, Felicità, vita buona e virtù, LAS, Roma 1989, 12-75.

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re pienezza umana frutto dell'eccellenza dell'agire, nella quale era possibile comprendere il destino ultimo della vita, il telos dell'uomo. Aveva dunque un significato originariamente realista: si riferiva cioè a un modo eccellente di vivere e operare capace di portare alla pie­ nezza l'intera vita di una persona. Nella tradizione cristiana si introduce un nuovo significato di fe­ licità poiché il Signore Gesù, nel Discorso della montagna (Mt 5), ci mostra come la felicità faccia riferimento non semplicemente a un modo eccellente di vita, ma piuttosto a un dono che è elargito da Dio nonostante situazioni enormemente sfavorevoli e che si apre a una pienezza ancora più grande. 4 Si tratta di un'azione di Dio che è ca­ pace di generare la risposta dell'uomo e di riempirla nell'unione con lui. La felicità è vista ora come comunione con Dio. Con il passar del tempo il termine è andato acquistando un signi­ ficato più soggettivo, concentrandosi sulla ripercussione che una tal vita aveva nella persona, così che ha finito con il perdere di vista la realtà dell'azione per riferirsi allo stato soggettivo di soddisfazione di desideri e di necessità. La maggiore difficoltà sopraggiunge quando, a partire da questa prospettiva della soddisfazione, si confonde la re­ lazione esistente tra piacere e felicità. Così il piacere, offrendo una pienezza parziale in un determinato momento, concentrerebbe la fe­ licità in un solo istante, giungendo a equivocare lo stesso significato di felicità. La felicità verrebbe ad assumere consistenza in una pro­ spettiva vitalistica di pienezza delle possibilità della nostra natura, cosicché il telos dell'uomo si identificherebbe semplicemente dipen­ dente dalla natura delle facoltà e delle possibilità umane. Questo errore viene teorizzato con una sua originalità nel movi­ mento filosofico che va sotto il nome di utilitarismo, per il quale la vita di una persona potrebbe considerarsi felice quando la somma dei suoi piaceri superasse la somma delle pene. Nasce così una nuo­ va concezione morale con una grande influenza sull'ethos attuale: il principio morale fondamentale sarebbe la ricerca della felicità per tutti coloro il cui interesse è in gioco. Cercare la felicità è cercare il piacere ed eliminare le sofferenze e, a partire da ciò, le azioni assu­ meranno un valore grazie all'utilità empiricamente verificabile per il conseguimento di questi obiettivi. 5 Un'azione sarà buona o cattiva Cf. L. SANCHEZ NAVARRO, La ensei'ianza de la montana, Verbo Divino, Estella 2005. Cf. J. BENTHAM, An Introduction to the Principles of Morals and Legislation, in The Collected Works of Jeremy Bentham, l, University of London-Toe Athlone Press, London 1970, 11-12. 4

5

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non per i motivi che la animano, ma per le conseguenze di piacere o dispiacere che produce. La felicità finisce così rinchiusa nella somma di istanti di piacere. Sarà sufficiente la confusione della rivoluzione sessuale, con il pan­ sessualismo che insinua, perché questi istanti di piacere siano visti in qualità di piacere sessuale. Se si assume il concetto di felicità intesa come la soddisfazione delle necessità e dei desideri, la sessualità perde la sua importanza in se stessa e passa a valere esattamente per la possibilità di soddisfa­ zione che offre, convertendosi in una mera possibilità, in un puro ma­ teriale da plasmare. Si tratta di una visione della sessualità molto in voga che la riduce a banale oggetto di piacere e di gioco. Ma nella sessualità cerchiamo soltanto piacere? La felicità è so­ lamente una somma di istanti di piacere? Con le nostre azioni ten­ diamo semplicemente a soddisfare i nostri desideri? Per rispondere a queste domande occorre chiarire quale sia l'anelito ultimo che si cela in ogni desiderio umano.

2. Un esperimento nei nostri desideri Se la soddisfazione dei nostri desideri fosse il fine ultimo e la ra­ gione della nostra attività, sarebbe sufficiente simulare questa soddi­ sfazione attraverso altri mezzi per conseguire con ciò il significato ul­ timo delle nostre azioni. A questo riguardo è classico l'esempio che confuta questa opinione: la macchina delle esperienze. 6 Immaginiamo un computer abbastanza sofisticato da potersi col­ legare alle terminazioni nervose che controllano i diversi sensi del­ l'uomo: odore, gusto, tatto, vista, udito e, assieme a quelli, i sensi in­ terni di memoria e immaginazione, in modo tale di riuscire a elabora­ re le diverse reazione affettive. Si tratta ora di domandare al compu­ ter di riprodurre virtualmente desideri e sensazioni a nostro piaci­ mento: un viaggio a Parigi, superare un esame, divertirci con gli ami­ ci, incontrare una persona formidabile da amare e da cui essere ama­ ti, formare una famiglia, educare i figli ... Il computer ci invierà le sen­ sazioni come se fossero reali, in modo tale che i nostri sensi vedano, sentano, gustino, reagiscano proprio come se viaggiassimo, fossimo promossi, fossimo amati, educassimo, ma senza la realtà di quel viag6

Cf. J. FINNIS, Fundamentals of Ethics, Clarendon Press, Oxford 1983, 37-42.

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gio, di quell'esame, di quell'amicizia, di quelle relazioni coniugali e pa­ rentali. Si tratterebbe di una mera simulazione, sufficientemente per­ fetta però da riprodurre le sensazioni che comporterebbe la realtà. Se il significato ultimo che cerchiamo nelle nostre azioni fosse quello di soddisfare i nostri desideri, basterebbe collegarsi al com­ puter. Eppure intuiamo che il fatto di connettersi sarebbe in sé in­ trinsecamente perverso. Chi desidererebbe una vita connessa a un computer che soppianti la realtà e faccia vivere la persona in una fin­ zione? Potremmo forse considerarla una vita degna di essere vissu­ ta? In fondo, il dramma delle droghe e dell'alcolismo sta proprio qui: nel tentativo di rifugiarsi in una realtà che evita all'uomo il dramma della sua libertà, quando si trova a misurarsi con l'impresa di co­ struire una vita. Cosa cerchiamo allora con le nostre azioni? Cerchiamo, certamente, la soddisfazione, il piacere: nessuno con­ sidererebbe una vita riuscita quella che non soddisfacesse i suoi pro­ tagonisti. Non li cerchiamo però direttamente. Quello che cerchiamo direttamente è proprio la realtà che ci soddisfa: viaggiare, conoscere la verità, vivere un'amicizia con azioni concrete, amare il coniuge, educare realmente i figli ... Cosa dunque cerchiamo in tutto ciò? Senza alcun dubbio i nostri desideri vanno ben oltre il piacere da cui sono stati suscitati, poiché cercano una pienezza, la nostra pienezza ultima. Questa non può es­ sere vista come la semplice somma di istanti di piacere, perché con­ cerne un'eccellenza, una vita riuscita, che è degna di essere vissuta per se stessa e non meramente per il piacere che provoca. Vale cioè in se stessa, non in rapporto a un'altra cosa, ed è degna di essere per­ seguita per se stessa e non per le conseguenze che produce. Quando si sostiene che ogni persona realizza tutto quello che fa mossa da un naturale desiderio di felicità, ciò che si intende affer­ mare non è che agisca cercando esclusivamente la soddisfazione, né ancor meno cercando la realizzazione di sé, ma che in ogni azione è in cerca di una pienezza. Il desiderio naturale di felicità è la struttu­ ra formale di ogni desiderio umano, con un influsso decisivo su ogni desiderio, poiché lo apre a una pienezza che va molto oltre ciò che cerca nell'immediato. Ma questa considerazione della felicità, il cercare una vita riusci­ ta, una vita piena, come il fondo di ogni desiderio, di ogni azione uma­ na, non è troppo formale? Allora però un simile desiderio naturale sarebbe irrilevante, poiché anima tanto l'azione di un santo quanto quella di un malvagio.

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L'obiezione è fondata, ma solo in parte. Perché qual è il valore delle analisi fatte? Il loro valore consiste nel mostrarci che in ogni azione c'è un dinamismo previo alla libertà dell'uomo, un'apertura a una pienezza ultima che è più grande della particolarità dell'azione. Questo ci consente di relativizzare l'imperiosità del desiderio di pia­ cere: vi è in esso un'intenzione che lo trascende per l'infinita attra­ zione della felicità. Non diamo tuttavia con ciò soluzione a tutti i pro­ blemi, dal momento che sia il santo che il malvagio sosterranno che con le loro azioni tendono a una pienezza, come, del resto, ciascuno di noi realizza l'azione più nobile come quella più riprovevole cer­ cando una pienezza. Dove può essere la differenza? La differenza non consiste nel fatto che non cerchino la pienezza, ma che la cer­ chino attraverso strade diverse, poiché uno ha concretizzato la pie­ nezza nel personale interesse, onore, piacere, ricchezza, mentre l'al­ tro nell'amore a Dio e agli altri. Questa determinazione di ciò che è la pienezza umana in un con­ creto e specifico ideale di vita buona acquista un'importanza decisi­ va nella vita morale. Ma come si determina in concreto la felicità? È possibile discernere tra la vera e la falsa felicità?

3. Sessualità e determinazione della felicità È in questa determinazione del contenuto concreto di ciò che si­ gnifica la felicità che la sessualità gioca un ruolo decisivo poiché, co­ me abbiamo visto, rende possibile un incontro singolare tra l'uomo e la donna che rivela una promessa di pienezza. La pienezza si centra precisamente nel mostrare come sia possibile una forma eccellente di amarsi nella donazione totale e reciproca degli sposi, condividen­ do un mutuo destino e formando una famiglia. Si tratta della confi­ gurazione di una forma di vita stabile non in quanto offre determi­ nati tipi di azioni concrete, ma in quanto determina il modo in cui si va a vivere l'amore tra le persone. Questo modo di vita è poi un bene in se stesso, desiderabile e amabile in sé, non soltanto per il piacere o l'utilità che può produr­ re. Nell'esperienza d'amore la nostra intelligenza non può stabilire il contenuto della felicità secondo configurazioni diverse, come sareb­ be quella basata sul piacere o sull'utilità sociale della sessualità, rea­ lizzando un'autentica riduzione del contenuto dell'esperienza che vi­ ve, preferendo dimensioni parziali e limitate in luogo della pienezza globale cui anela. Per sé sola, in virtù della potenza di luce che com-

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porta, l'intelligenza è capace di discernere tra una felicità autentica e una felicità apparente in riferimento alla totalità di una vita piena.7 La sessualità consente allora la determinazione di un ideale di vi­ ta buona che acquista un valore centrale nella configurazione del di­ namismo morale poiché, indirizzando il desiderio verso la pienezza di una comunione, offre un principio di unità decisivo nella condotta umana. Il suo apporto alla felicità non si riferisce però semplicemente al­ l'aiuto che fornisce con la determinazione dell'ideale di vita buona, bensì al fatto che offre la possibilità della sua realizzazione in un'atti­ vità singolare che implica la consegna della persona nella mediazione del corpo. È in questo coinvolgimento, nel dono di sé vissuto nella va­ riata gamma di azioni posta in gioco dalla coniugalità, che gli sposi pos­ sono attualizzare la comunione promessa: la comunione delle persone.

4. Significato figurativo della sessualità e del piacere Possiamo ora comprendere qual è il ruolo del piacere nella vita della persona. Due sono le dimensioni che ci interessano: il piacere risveglia in primo luogo il desiderio, dal momento che ci attraggono quelle cose che ci procurano piacere. Con ciò fa sì che ci rendiamo conto della convenienza e della bontà di determinate azioni. Questa bontà non dipende dal piacere che producono, ma dalla pienezza che conferiscono; senza il desiderio del piacere che risvegliano, queste azioni passerebbero tuttavia inavvertite. In secondo luogo, allorché si realizza l'azione, sopravviene il pia­ cere nel sentire l'unione con la persona in una mutua reciprocità che integra le diverse dimensioni dell'amore placando il desiderio e, al­ lora, l'azione raggiunge la sua pienezza ultima, un nuovo bene. La ri­ percussione nella coscienza della convenienza di questa unione ses­ suale con la mutua pienezza si traduce nella possibilità di riconosce­ re l'eccellenza che l'azione comporta. Di fronte all'elemento della reciprocità e alla sua dimensione affettiva e spirituale, il piacere ses­ suale raggiunge il suo autentico senso e significato umano: non come la parte di un tutto, che dovrebbe ripetersi quante più volte possibi­ le perché il tutto sia sempre più grande, ma come un momento nel 7

Cf. ABBA, Felicità, vita buona e virtù, 56-57.

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quale si riassume tutta una vita. Il piacere sessuale è la ripercussione cosciente della pienezza di un amore. È così che si può capire perché vi sia una gradualità tanto ricca nell'esperienza del piacere, come abbiamo visto nella descrizione fe­ nomenologica. Ciò che è importante comprendere è che questa gra­ dualità dipenderà sempre essenzialmente dall'oggetto che la deter­ mina, cioè dall'azione che si realizza, intesa non semplicemente nel­ la sua materialità fisica, ma, piuttosto, nel suo pieno contenuto mo­ rale, vale a dire nella sua apertura all'orizzonte ultimo di senso; ve­ dremo nel prossimo capitolo che nell'uomo ogni piacere porta al di là di se stesso, non si riduce alla sua particolarità. 8 Il piacere sensua­ le può allora essere vissuto come qualcosa di più di un semplice go­ dimento, poiché in quest'orizzonte della felicità assume i connotati della compiacenza, dell'allegria e della gioia. Non riferendosi intrinsecamente a se stesso, ma alla pienezza di una relazione d'amore, il piacere sessuale acquista perciò valore fi­ gurativo dell'eccellenza cui rinvia. In questo modo la sessualità e il piacere sessuale si configurano simbolicamente nella vita delle per­ sone, rappresentando l'ideale di una vita buona, cioè un senso, una pienezza in sommo grado attraente e, perciò, ricolma di carica affet­ tiva, che non è tuttavia pienamente concettualizzabile. L'uomo non vive il piacere come gli animali, per lui ha un valore simbolico che fa riferimento a una pienezza propriamente umana. 9 Questa dimensione simbolica acquista una rilevanza decisiva nel modo di conoscenza morale delle azioni da compiere, poiché la me­ diazione simbolica si fa più motivante e significativa, configurando il processo della razionalità pratica, e cioè la forma in cui l'uomo co­ struisce razionalmente le proprie azioni. La razionalità pratica non partirà da un'analisi della natura né si svolgerà secondo una struttu­ ra sillogistica, ma secondo l'attrattiva che i valori sessuali e affettivi esercitano e per la maniera con cui si sono simbolicamente rappre­ sentati, rinviando a una pienezza. La qualità del piacere è pertanto intrinsecamente connessa alla qua­ lità dell'azione da cui si origina. Questa qualità non si riferisce poi a una tecnica capace di produrre la causa neurofisiologica più adatta a soddi­ sfarla, come potrebbe avvenire con determinate tecniche erotiche, ma

8 Cf. A. PLÉ, Par devoir ou par plaisir?, Editions du Cerf, Paris 1980. 9 Cf. N.J.H. DENT, The Mora/ Psychology of the Virtues, Cambridge 1984, 3563.130-151.

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al motivo che anima l'azione, vale a dire alla sua ragione d'essere, al­ l'eccellenza che comporta, alla donazione di se stessi, aprendo un au­ tentico spazio d'intimità e di tenerezza nella relazione con un altro dif­ ferente da sé. Il piacere si trova così nella prospettiva della felicità, co­ me la conseguenza di una sua attualizzazione, benché imperfetta. Il godimento sessuale rende i suoi protagonisti partecipi di un mi­ stero che è ancora più grande. La trasformazione operata dalla stessa rivelazione del concetto di felicità, vedendolo non semplicemente co­ me il risultato dell'agire dell'uomo, ma come un dono di Dio che fa ri­ ferimento in definitiva all'unione con lui vissuta nella prova, come mo­ strano le beatitudini, ci aiuta a comprendere che nella vita coniugale c'è un nuovo dono di Dio che unisce l'uomo e la donna a sé, la cui ri­ percussione conoscitiva si rende significativa nel piacere che produce. Possiamo ora comprendere perché la ricerca del piacere in sé fac­ cia perdere il suo riferimento a qualcosa che sta al di là di se stessi, la tensione del desiderio verso qualcosa di più grande della partico­ larità e attualità del piacere. La pretesa di ottenere direttamente un intenso piacere sensuale che soddisfi le esigenze sessuali della per­ sona rende enormemente difficoltosa la possibilità di aprire uno spa­ zio d'intimità e fa sì che sia, di conseguenza, impossibile che tali re­ lazioni possano colmare di gioia la persona. In conclusione: con la grande intensità psicologica con cui si pre­ senta alla coscienza, il piacere sessuale riflette in se stesso la ricchez­ za soggettiva dell'ideale di vita buona della comunione delle persone, come vero significato della comunione nella carne. Il piacere sessua­ le rinvia a qualcosa di più grande di sé, di cui contiene una dimensio­ ne figurativa. 10 È per questo che è enormemente promettente. E qui si trova il motivo per cui il piacere, se non realizza un'autentica co­ munione interpersonale, è tanto deludente: vive di una chimera.

5. Esperienze vuote: il problema dell'autoerotismo Abbiamo visto in precedenza come l'esperienza sessuale impli­ chi il dinamismo neurofisiologico e la motivazione in una sintesi ori­ ginale che dipende intrinsecamente dalla rappresentazione che il

10 Cf. P. R1coEUR, «La sexualité. La merveille, l'errance, l'enigme», in Esprit 28(1960), 1665-1676.

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soggetto compie e dal simbolismo che le attribuisce. Nel caso del­ l'autoerotismo ci troviamo di fronte alla difficoltà d'interpretazione dell'esperienza sessuale che può insorgere principalmente nel perio­ do dell'adolescenza, ma che può prolungarsi o comparire in periodi successivi.

a. La sua valutazione AI di là dei problemi psicologici che di solito sono implicati co­ me frutto di una manchevole educazione sessuale in cui il bambino reprime determinate esperienze senza comprenderne il perché, e ol­ tre alle responsabilità che la persona può avere, interessa compren­ dere qual è l'impostazione direttamente morale che è in gioco. E questa non è altro che il riferimento di tale condotta alla pienezza di una vita riuscita. Per individuare questa relazione occorre cogliere la mediazione simbolica che si è configurata e il suo significato. In questo momen­ to, la sessualità appare come la possibilità di un piacere, di uno sca­ rico tensione-distensione che ristabilisce un equilibrio nella persona: si struttura così la percezione soggettiva dell'impulso sessuale come di una necessità, compulsiva e ciclica. Tale percezione e l'uso che se ne fa nella masturbazione mancano di un elemento direttamente e realmente personale che può essere al massimo semplicemente raf­ figurato nella propria fantasia: la finalizzazione dell'impulso sessua­ le non orienta il soggetto a uscire da se stesso per dirigersi verso un'altra persona, ma a simulare la causa neurofisiologica che provo­ ca Io scarico di tensione con una stimolazione genitale. Un'azione del genere non può tuttavia riferirsi a una motivazione di significato ultimo, alla realtà di un'eccellenza di pienezza: è priva di realtà au­ tenticamente umana, di una reciprocità nella quale l'uomo possa in­ contrare una vera compagnia.11 Si tratta perciò di un'azione che, in­ dipendentemente dall'ulteriore intenzionalità soggettiva che abbia il soggetto e dalla sua responsabilità, non conduce la persona a una pienezza di vita, ma la rinchiude nella solitudine. Agendo così, si corrompe il significato umano della sessualità, considerando il corpo come oggetto di piacere e non come soggetto d'amore che nel suo stesso dinamismo corporeo si riferisce alla ri11 È il criterio che valuta J. Personalist 59(1978), 70-77.

KuPFER,

«Sexual Perversion and the Good», in The

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cerca di una comunione. 12 Dall'essere un dinamismo che aiutava a uscire da sé, dalla solitudine, risulta ora rinchiudere la persona ogni volta di più nella propria solitudine, sfigurando il significato sponsa­ le del corpo. In se stessa, la masturbazione comporta un erotismo narcisistico in cui il linguaggio del corpo perde la sua dimensione re­ lazionale.

b. Attenzione pedagogica e pastorale Per aiutare realmente le persone è necessario comprendere bene davanti a quali concrete situazioni veniamo a trovarci: se si tratta di un comportamento isolato o di un'abitudine acquisita, se è una que­ stione di debolezza o di mutamento di rappresentazione simbolica della sessualità. È sempre opportuno evitare una doppia distorsione: da un lato colpevolizzare indiscriminatamente, insistendo sul valore della nor­ ma morale senza distinguere ciò che può essere un peccato materiale da un peccato formale, dal momento che il senso pieno di peccato ri­ chiede una conoscenza singolare, che può vedersi alterata dalla me­ diazione simbolica. La mediazione conoscitiva, che si rende necessa­ ria, mette in gioco l'intero mondo della rappresentazione sessuale e il motivo per cui si è così configurato ed è stato accettato dalla persona. Da un altro lato, occorre anche evitare di considerare l'autoero­ tismo secondo un determinismo biologico e psicologico che annulla la libertà della persona e la sua capacità di governo e dominio della dimensione sessuale: se si trasmette al soggetto questa concezione, lo si renderà incapace di penetrare il tema di fondo, ossia come inter­ pretare la propria sessualità e governarla così da poter vivere in es­ sa la pienezza alla quale è chiamato. Per questi due motivi è necessario tener conto di come in tante occasioni l'appoggio più determinante che l'educatore e il pastore possono dare è quello di aiutare a sdrammatizzare una situazione che è giunta a rendersi ossessiva, offuscando la sua intelligenza e li­ bertà.

12 Cf. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Persona humana 9, incluso in Catechismo della Chiesa Cattolica 2352: «Il godimento sessuale vi è ricercato al di fuori della "relazione sessuale richiesta dall'ordine morale, quella che realizza, in un contesto di vero amore, l'integro senso della mutua donazione e della procreazione umana"».

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Conviene prestare attenzione alle situazioni che portano all'au­ toerotismo: la tristezza, l'insuccesso, la solitudine, la difficoltà di re­ lazionarsi con gli altri e di affrontare le sfide della vita. La tristezza è solita essere occasione d'impurità, poiché la persona cerca di uscirne e trova un succedaneo facile e compiacente in un'esperienza vuota nella quale si arrocca per evitare di confrontarsi con la realtà. Non per nulla l'autoerotismo di solito si configura come un'esperienza compensativa. Il processo della tentazione si scatena solitamente a partire da un cortocircuito rappresentativo e simbolico che rende difficile alla ra­ gion pratica il dominio del proprio dinamismo corporeo, ossessio­ nandosi con la soddisfazione sessuale, fino al punto di scatenarsi in un processo compulsivo. A volte può essere d'aiuto lo smascherare questo cortocircuito rappresentativo e rivelare l'inconsistenza della necessità sotto la quale si rappresenta. Quando nella persona è diventata abitudine, è necessario inse­ gnare a lottare in una forma molto indiretta: da un lato, incorag­ giando quelle attività in cui la persona possa ricevere una soddisfa­ zione nobile e umana, amicizie sincere che le consentano di uscire da sé e di scoprire in ciò la gioia di amare gli altri e di rendersi loro utile; da un altro, offrire elementi narrativi indiretti, come possono essere determinate letture, film, opere d'arte che la aiutino a rico­ stituire l'immagine simbolica della sessualità attraverso la media­ zione dell'affettività.

6. Conclusione «Non è bene che l'uomo sia solo». La solitudine ci lascia indifesi di fronte alla vita, confusi davanti al nostro destino, impotenti di fronte alle difficoltà. Che significato ha la sessualità umana? Perché Dio ha creato l'uomo come maschio e femmina? La risposta può darsi solo a partire dall'esperienza: dall'esperien­ za di un incontro che ci rivela un'identità e una differenza. L'amore si colloca in tal modo come l'esperienza di una rivelazione: la rivelazio­ ne di una vocazione di un destino. E suona così: l'uomo non è stato creato per la solitudine, ma per la comunione. È nella comunione che raggiunge la pienezza del suo essere, la vita riuscita, la vita felice. Questa verità, che vediamo riflessa nella rivelazione del «principio» della creazione, è la verità che nasconde l'esperienza amorosa. La mutua relazione tra entrambe, esperienza e rivelazione, ci ha permes-

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so di superare una visione puramente costruttivista della sessualità: non è possibile costruire il suo significato come qualcosa di mera­ mente culturale, poiché l'esperienza sessuale racchiude in sé una ve­ rità che fa riferimento all'identità e al destino della persona. L'esperienza dell'amore ci consente di comprendere inoltre che l'uomo è stato creato «in comunione» con la donna; l'intera sua struttura antropologica, già nella sua stessa dimensione ontologica, è aperta e in relazione alla donna e viceversa. Creato in comunione, è stato chiamato «alla comunione», a esistere non solo «insieme a» l'altra persona, ma «per» l'altra persona nel dono di sé. La differenza sessuale ci manifesta il nostro limite, la nostra soli­ tudine, ma nello stesso tempo indica dove sta la pienezza: nella co­ munione. La sua naturale bontà consiste nel rendere l'uomo vulne­ rabile e, in questo modo, provoca un incontro singolare, una recipro­ cità unica, l'amore sponsale: rende possibile il dono di sé e questo dono di sé nel corpo è capace di comunicarsi, di generare vita, di con­ cepire una persona. Differenza sessuale, amore e fecondità: ecco le tre caratteristiche del mistero della sessualità umana che si richiamano vicendevol­ mente.13 La sessualità si presenta così come una vocazione all'amo­ re, in cui uomo e donna possono raggiungere la loro felicità.

13

Cf. ScoLA, Uomo-Donna. Il mistero nuziale, 91-116.

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Parte seconda

Il linguaggio dell'amore: passione e dono

Introduzione

L'esperienza dell'amore ci rivela una vocazione, un destino. L'analisi fenomenologica ci ha aiutato a capire il suo significato, la sua ricchezza, la sua intenzionalità. Ci interessa ora comprendere non solo il significato di un'esperienza ma la possibilità di compiere quel significato con le azioni dell'amore. Possiamo esprimere questo compimento con la metafora del linguaggio. Amore diventa adesso simile a parlare. Il linguaggio è il canale per comunicare con altre persone, come le azioni sono il cammino per vivere una comunione. Il linguaggio implica parole, verbi, significati, intenzioni, dialoghi; e bisogna saper cosa si vuole dire e come dirlo, altrimenti potrebbero dirsi degli equivoci. In questo senso, per amare si ha bisogno di saper cos'è l'amore e come amare. Tuttavia, cosa è l'amore? Il nostro punto di vista vuole affronta­ re «la realtà» di ciò che è l'amore: la sua struttura, le sue qualità, la sua intenzionalità, la sua verità. Si tratta in questa seconda parte di accostarci alla realtà dell'amore sotto una prospettiva più metafisi­ ca, dal momento che è nostro intento conoscere ciò che l'amore è in sé e perché è così, al di là del vissuto che possono averne le singole persone. Un'analisi psicologica ci descriverebbe tutto il processo dell'in­ namoramento e l'esperienza che ne traggono i suoi protagonisti se­ condo la successione degli stati di coscienza e del vissuto sentimen­ tale cui danno origine. Non è questa la nostra preoccupazione. Per quanto interessante possa essere la conoscenza del processo psicolo­ gico dell'innamoramento, non possiamo dimenticare che questo pro­ cesso si basa su qualcosa che accade nel soggetto, su una realtà, la realtà dell'amore. È questa che a noi ora interessa.

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Il valore di questa analisi metafisica consiste nel fatto che con essa si svela il dinamismo dell'amore e in qual maniera sia il moto­ re di una vita. Se l'esperienza amorosa ci promette una pienezza di comunione è possibile vivere questa comunione, renderla reale, at­ tualizzarla, soltanto nelle azioni dell'amore. La comunione si co­ struisce con atti d'amore, sono loro che la rendono presente, attua­ le. Dove dunque si radicano questi atti d'amore? Dipende tutto dalla propria libertà, dalla propria iniziativa, da ciò che uno vuole? È certo che la libertà ci appare decisiva nella vita delle persone: agisco perché voglio, sì, ma perché voglio? In questo momento la formidabile iniziativa della volontà nel portare avanti la vita della persona si mostra incapace di rispondere rinviando sempre alla li­ bertà: è assurdo affermare che voglio perché voglio, equivarrebbe a richiudersi in un volontarismo radicale. La libertà non ha la prima parola: se desidero qualcosa è, innanzitutto, perché l'amo. E se amo è perché quello che amo mi ha rubato il cuore, mi ha colpito, mi ha sedotto. Appare così immensa, nella nostra riflessione, l'importanza delle passioni. Ma non sono queste un nemico da controllare, da domina­ re? Tali furono per lungo tempo considerate. Ora, se sono qualcosa di passivo, appartenenti al dinamismo umano, non sono state dunque anche create da Dio? E, se è così, posso prescinderne, ignorarle, re­ primerle? Qual è poi il ruolo che giocano nel dinamismo dell'agire umano? Parlare d'amore è però oggi francamente rischioso. Il solo nomi­ narlo evoca qualcosa di meraviglioso, come quando si pronuncia una parola magica, il cui significato non è tuttavia definito, anzi, è ambi­ guo, persino contraddittorio. Per amore le persone lottano, soffrono, si sforzano, si superano, sono capaci del più nobile impegno ed eroi­ smo. Ma anche con l'amore si pretende di giustificare l'umana debo­ lezza, la grettezza e l'egoismo, la mancanza di impulso verso ciò che è veramente nobile e magnanimo. Per amore si è fedeli alla persona amata, anche quando non se ne riceva contraccambio; altresì per amore si abbandona il matrimonio e la famiglia per iniziare una nuo­ va avventura, per rifarsi una vita: non si ha forse diritto a rifarsi una vita? Ecco la sua ambiguità! Qual è la verità dell'amore? Questa domanda è urtante alle orec­ chie dell'uomo postmoderno che nella sua debolezza non si azzarda neanche a interrogarsi sulla verità dei propri amori. Sapere aude! Osa conoscere! Fu tutto un programma che si proponeva di riscatta­ re storicamente il ruolo della ragione e delle sue capacità, oggi are-

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nato nel relativismo. E tuttavia il richiamo alla verità si ode con chia­ rezza nell'esperienza stessa dell'amore. La difficoltà in cui ci imbattiamo è che non si tratta semplice­ mente della verità dell'«amore», come sostantivo grammaticale, ma anche della verità dell'«amare», come verbo, cioè dei nostri atti d'a­ more. Con essi noi miriamo a costruire una comunione di persone. Ma che significa costruire una comunione con azioni concrete e tan­ to varie? Comprendiamo senza difficoltà che ciò significa compiere determinate azioni, come un atto di tenerezza, un'unione coniugale, un'attenzione alla persona. Ma se fosse solo così, lo stesso amore re­ sterebbe confinato a determinati momenti della vita, data la sua in­ capacità di unificarla. Ma l'amore è qualcosa di frammentario? Che significa dire di amare una persona? Nasce così la grande questione che bisogna mettere in chiaro per comprendere ciò che significa costruire una comunione di persone, ossia la relazione che sussiste tra l'amore come passione e l'amore come libera decisione, ovverosia, tra il dono che si riceve e la rispo­ sta libera che si dà. L'importanza di questa prospettiva metafisica è tale che se non si giungesse a valutare la densità e la struttura degli atti d'amore, l'in­ tera analisi fenomenologica dell'esperienza amorosa risulterebbe ri­ dotta a un mero orizzonte vitale, a un ideale cui tendere, ma senza in­ flusso decisivo sul cammino concreto e circostanziato delle persone. In molte pubblicazioni in tema di morale sessuale si riscontra un au­ tentico iato tra il significato della sessualità che evidenziano e le ap­ plicazioni concrete, riflettendo una vera divergenza. 1 A cosa è attri­ buibile questo disaccordo? Manca, in molti casi, un'antropologia adeguata. Certo. Ma manca anche, e soprattutto, un'adeguata rifles­ sione su ciò che è l'amore e su ciò che è l'azione umana. 2

1 È stato C. BRESCIANI, Personalismo e morale sessuale. Aspetti teologici e psico­ logici, Roma 1983, a porre in evidenza questo fatto. 2 Cf. T. BELMANS, Le sens objectif de l'agir humain. Pour rélire la morale conjuga­ le de Saint Thomas, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1980.

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Capitolo sesto

Amore come passione

L'aspetto più immediato dell'amore è che si tratta di qualcosa che subiamo. Lo rende evidente la stessa esperienza degli innamora­ ti. Si intende esprimere con ciò una realtà essenziale dell'amore: la dimensione di un avvenimento che trasforma. I suoi protagonisti lo vivono originalmente come qualcosa in cui si imbattono, che ricevo­ no dentro di sé, come una singolare reazione di fronte a qualcosa che li sorprende e li arricchisce. L'amore comporta una singolare ricetti­ vità. In qual modo deve intendersi questa ricettività? Cosa significa affermare che l'amore è una passione?

1. Alcuni chiarimenti Prima di cominciare la nostra riflessione sopra l'amore come pas­ sione, occorre chiarire due questioni: da un lato la terminologia e dall'altro, come è stato visto, il tema delle passioni nella storia.

a. La terminologia Passione è sinonimo di affetto, di emozione e di sentimento. So­ no parole equivalenti, ma ciascuna di loro offre sfumature diverse che ci consentono di comprendere la complessità del fenomeno cui fanno riferimento: * passione viene da passio, derivato da pati, che comporta un su­ bire l'influsso di qualcosa senza che lo si sia preventivamente deciso.

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Questo influsso consiste principalmente in un essere attratto verso qualcosa che agisce in me. Nella moderna psicologia indica una ten­ denza o un impulso di grande intensità che rompe l'equilibrio della vita psichica; * affetto o affettività deriva da afficere, essere toccato da qual­ cosa, essere posti in un determinato stato. Comporta perciò una mo­ dificazione che accade nel soggetto a motivo di qualcosa di esterno. Per questo è in pratica sinonimo di passione; * emozione viene, attraverso il francese, da emovere, inteso come smuovere, scuotere, con cui si mette in risalto l'aspetto dinamico e impulsivo che comporta, poiché è capace di muovere il soggetto. È visto dalla psicologia come ciò che provoca un movimento interno allo psichismo; * sentimento proviene da sentire, per cui comporta un vissuto psicologico o una presa di coscienza di ciò che avviene nella propria soggettività. Implica in se stesso una stabilità psicologica maggiore dell'emozione. Si tratta di parole diverse per esprimere la ricchezza di un fatto della vita degli uomini: il primo momento dell'interazione affettiva tra mondo e soggettività. Di fronte alla ricchezza di questo fatto, si spie­ ga come siano diverse le sfumature poste in evidenza dall'una o dal­ l'altra espressione, per cui nei differenti rami del sapere si tende a pri­ vilegiare una determinata prospettiva o aspetto. Al di là di una netta distinzione tra questi termini, a noi interessa porre in rilievo la realtà che vogliono indicare, cioè il fatto che l'uomo sia colpito dalla realtà. Si intende con ciò indicare come la persona nella sua dimensione cor­ porea sia capace di subire un influsso distinto dal mondo esterno: sia cioè capace di essere attirata da qualcosa di esterno (un bene), o re­ spinta da qualcosa di esterno (un male), determinandosi una relazio­ ne singolare tra il soggetto e ciò che lo attrae o lo respinge. Si adope­ reranno perciò indistintamente i termini in ragione di ciò che si vuole porre in risalto, ma senza pretesa di contrapporli tra loro.

b. La storia Per quanto riguarda la visione che si è avuta delle passioni nel corso della storia, è necessario comprendere che non ha avuto uno sviluppo continuo e concorde. Le passioni sono state una chiave di lettura non solo per discernere l'unità antropologica dell'uomo, ma anche per comprenderne l'unità d'azione. Bastano questi brevi ac­ cenni per farsi un'idea di questo percorso.

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Per Aristotele le passioni fanno parte di un costitutivo antropo­ logico essenziale per la persona, suscettibile di essere plasmato dalla ragione, per cui si integra con gli altri principi operativi, avendo così un decisivo influsso sull'azione. AI contrario, gli stoici reagiranno in modo negativo davanti alle passioni, che consideravano come un movimento dell'anima, irrazionale, un giudizio di valutazione falso, un'inclinazione disordinata, contraria alla natura. In s. Tommaso troviamo una rivalutazione delle passioni, che non solo riprende la prospettiva aristotelica, ma anzi la arricchisce con la tradizione cristiana neo-platonica dello Pseudo-Areopagita, che ap­ prezzerà il loro valore decisivo nella stessa vita spirituale e nella to­ talità della creazione. All'inizio della modernità ci imbattiamo nell'opera di R. Déscar­ tes, Trattato delle passioni, in cui compie un'analisi fisiologica delle passioni e del loro aspetto valutativo, concentrandosi sul processo corporeo della loro genesi e dell'influsso sull'anima attraverso l'im­ magine: esse sono qualcosa di corporeo. La separazione che egli sta­ bilisce tra il corpo e l'anima, la natura e Io spirito, Io costringe a con­ cepire le passioni come qualcosa da controllare, per evitare che la pura necessità delle passioni soggioghi la libertà. All'opposto, D. Hu­ me metterà in risalto il ruolo attivo delle passioni nella condotta umana e come, davanti a questo movimento originale dei sentimen­ ti, la ragione soltanto può avere un ruolo strumentale, diventando schiava dei sentimenti. Questo aspetto è fortemente criticato da I. Kant, che riterrà negativo ogni influsso delle passioni sulla motiva­ zione dell'azione, poiché inclinano la ragione verso un interesse che corrompe la nobiltà delle sue motivazioni. In questo contesto si capisce come la manualistica cattolica consi­ derasse le passioni come ostacoli alla volontarietà dell'atto, un nemi­ co potenziale che avrebbe potuto detronizzare il dominio della ragio­ ne. L'ideale sarebbe eliminarle, conseguendo in tal modo una situa­ zione di assenza di influsso esterno, di indifferenza secondo l'ideale stoico, oppure giungendo alla pura motivazione del «dovere per il do­ vere» kantiano. II moderno rigetto delle passioni è stato ampliamente criticato, offrendo una considerazione più equilibrata del loro ruolo. 1 La ri­ flessione fenomenologica ha posto in evidenza il loro valore cono­ scitivo, in cui si coglie che non sono qualcosa di totalmente estraneo 1 Cf. F. BmTURI -C. VIGNA (edd.),Affetti e legami, Vita e Pensiero, Milano 2005.

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alla ragione. Lo stesso P. Ricoeur sottolinea il ruolo di «mediazione» che i sentimenti giocano tra il bios e il logos, offrendo tutto un cam­ po di motivazione decisivo per l'azione.2 Anche A. Maclntyre sotto una prospettiva direttamente etica ha rilevato l'importanza del recu­ pero delle passioni attraverso un'adeguata teoria del giudizio mora­ le.3 Insieme a loro è da segnalare l'importanza dell'opera di M. Nuss­ baum che, sotto altre prospettive, mira al recupero del valore cono­ scitivo delle emozioni.4 Nel Catechismo della Chiesa Cattolica si avverte, allo stesso mo­ do, una grande valorizzazione delle passioni, fino al punto da porre in rilievo la loro necessità in ordine alla perfezione: «la perfezione morale consiste nel fatto che l'uomo non sia indotto al bene soltan­ to dalla volontà, ma anche dal suo appetito sensibile» (1770). Il loro valore è pertanto grande nella vita morale.5 L'importanza rivestita da questo recupero del valore delle pas­ sioni è decisiva per l'amore tra l'uomo e la donna, poiché consente di comprendere il ruolo che giocano la passione sessuale e il senti­ mento e di proporre un percorso morale in cui questo non è riget­ tato, ma integrato. Ma che cosa sono le passioni? Qual è la loro struttura?

2. La passione dell'amore Una prima analisi dell'amore pone in evidenza il suo carattere og­ gettivo. La passione implica sempre qualcosa che mette in moto tutto un processo affettivo. I valori corporei della persona di sesso differen­ te ci toccano, ci colpiscono, ci cambiano, ci interessano. Come ci toc­ cano i loro valori umani legati alla mascolinità e femminilità e il loro valore come persona. Non siamo noi a decidere che ci colpiscano, co­ me se ciò dipendesse da un giudizio valutativo della loro bontà e da una scelta. No. Mai l'amore ha inizio in noi: comincia sempre fuori di noi, con qualcuno che con le sue qualità ci colpisce, ci tocca.

2 RICOEUR, «La fragilité affective». 3 A. MAclNTYRE, Giustizia e razionalità, Anabasi, Milano 1995. 4 M. NusSBAUM, Upheavals of Thought: The /ntelligence of the Emotions, Cam­ bridge University Press, Cambridge 2001. 5 Cf. S. PINCKAERS, «Les passions et la morale», in Revue des Sciences Philosophi­ ques et Théologiques 74(1990), 379-391.

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Ma nel momento in cui si imbatte in noi, ci seduce e ci attrae a sé, conducendoci fin dove ha avuto il suo inizio: nella persona che era in possesso di determinate qualità. Inizia al di fuori, entra dentro di noi e ci fa uscire da noi. Questa prima descrizione, quasi anatomica, di ciò che è l'amore come realtà, ci consente di renderci conto del fatto che nell'amore c'è un singolare dinamismo in cui è insita una certa circolarità: fini­ sce dove comincia, fuori di noi, nel bene che ci attrae. In questa circolarità accadono però molte cose che è necessario valutare. 6

a. La dinamica dell'amore Sono distinti i momenti o livelli della circolarità dell'amore. Ciò dipende dal tipo di reazione che si innesca nel soggetto nel momen­ to in cui si vede interessato da determinati beni della persona e dal­ la sequenza che si stabilisce. Tra questi momenti possiamo soffer­ marci sull'unione affettiva, il desiderio e la gioia. 7 t. L'unione affettiva

Qualcosa della persona ci colpisce, qualcosa che è all'esterno esercita un influsso su di noi: le sue qualità corporee, la sua simpatia, la sua forza, la sua tenerezza. C'è qualcosa che ci tocca, che ci coin­ volge. È il primo momento dell'amore, il momento della in-mutatio. Vi è un mutamento nel soggetto che riceve questo impatto, un mu­ tamento nel suo intimo. Un mutamento che è stato prodotto da un agente esterno. Qualcosa nel soggetto si trasforma. 8 Come potremmo descrivere questo mutamento, questa trasfor­ mazione? La seduzione attiva che quei valori esercitano su di noi ri­ sveglia una sorta di corrispondenza con quello che ci colpisce, così come una certa affinità di sentimenti. La sensualità di quel corpo ri­ sveglia una reazione sensuale, così come il valore della simpatia ri­ sveglia nel soggetto una certa simpatia, o la forza una certa forza. 6 Cf. STh, 1-11, q. 26, a. 2. Si veda la bella esposizione che fa P. WADELL, La pri­ macia del amor, Palabra, Madrid 2002, 145-166. 7 Cf. L. MELINA, Cristo e il dinamismo dell'agire. Linee di rinnovamento della Teo­ logia Morale Fondamentale, PUL-Mursia, Roma 2001, 19-35. 8 Si veda la descrizione della passione d'amore che fa ScoLA, Il mistero nuziale,

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Ciò che è al di fuori, questi valori, entrano all'interno del soggetto attraverso la conoscenza, quasi senza che il soggetto stesso se ne ac­ corga, ed entrando lo trasformano, lo rendono in un certo modo si­ mile a ciò da cui è stato sedotto: uno si trasforma e quasi senza ren­ dersene conto diventa più simpatico, più valoroso. C'è come un mu­ tuo compenetrarsi dei valori che entrano e del soggetto che si tra­ sforma. Il bene che entra nel soggetto si impadronisce di colui che ha colpito e lo rende simile a sé. L'affetto dell'uomo è la dimensio­ ne umana che è capace di ricevere l'impatto di determinati beni concreti e particolari, così che esso ne risulta trasformato a loro so­ miglianza. Ciò che è decisivo in questa trasformazione è di essere un co-adattamento: cioè il bene che entra informa, co-adatta il mio ap­ petito, plasmando in lui la propria forma. Ci imbattiamo nella di­ mensione oggettiva dell'amore come passione, cioè nel momento in cui vi è una trasformazione del soggetto che viene assimilato in un certo modo al bene. Questa dimensione dell'amore si chiama perciò coaptatio. Questa trasformazione interiore del soggetto suppone una riper­ cussione conoscitiva che comporta una gioia interiore, vale a dire una compiacenza. È lo scossone psicologico che il bene amato pro­ voca in me: mi rallegro di ciò che è avvenuto, poiché comporta un ar­ ricchimento del mio essere. È la presa di coscienza di un'armonia tra quei beni che mi toccano e me stesso. Questo momento, per il fatto che comporta una presa di coscienza di qualcosa che è avvenuto, cor­ risponde alla dimensione soggettiva dell'amore. È il momento della complacentia. Inmutatio, coaptatio e complacentia corrispondono a una profon­ da analisi metafisica di ciò che suppone l'amore come passione. L'importanza di questa analisi è che mostra come qualcosa sia avve­ nuto nell'uomo. Ed è avvenuto senza che sino a questo punto sia in­ tervenuta la volontà, senza che abbia ancora deciso alcunché. Si trat­ ta di determinati beni che erano al di fuori di una persona e che ora vanno a far parte del suo patrimonio. La passione implica un arric­ chimento, un mutamento interiore, passando qualcosa del bene ama­ to alla persona amante. La caratteristica principale di questa trasformazione e la sua spe­ cifica originalità consistono nell'essere possibili perché nell'interio­ rità del soggetto esiste un'unione con il bene che lo seduce. Queste tre dimensioni sono perciò dimensioni dell'unione che si stabilisce tra il bene e il soggetto: unione che riceve il nome di unione affetti­ va, dal momento che è un'unione che si stabilisce nell'affetto o nel-

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l'interiorità dell'uomo, in quella dimensione interiore capace di rice­ vere l'impatto del bene e di dirigersi verso di lui, come vedremo. Perché un bene possa colpire il soggetto è tuttavia necessario che ci sia una similitudine originaria tra i due. Questa similitudine origi­ naria è la condizione di ogni amore, sebbene non sia sufficiente in sé per spiegarlo. E una volta che si sia individuata, si produce una nuo­ va similitudine, questa volta non originaria, ma esistenziale, in quan­ to l'essere che colpisce lascia plasmato nel soggetto qualcosa del suo proprio modo di essere: la sua sensualità, la sua simpatia, la sua forza. La comprensione ultima della natura dell'unione affettiva si ri­ scontra nella percezione che non si tratta semplicemente di un'unio­ ne tra il soggetto e un bene, ma di un modo di presenza dell'altra per­ sona con la propria bontà nell'interiorità del soggetto. C'è un modo singolare con cui l'amato è presente nell'amante, che non si riferisce semplicemente al fatto della presenza di un bene che conviene, né al­ la presenza conoscitiva nella memoria o intelligenza, ma che si rife­ risce alla presenza personale dell'uno nell'altro. 9 Si tratta di una pre­ senza singolare, poiché si è resa possibile per la vulnerabilità che la differenza sessuale comporta e grazie alla convenienza che favorisce. 2. Il desiderio Il secondo aspetto da porre in rilievo all'interno della circolarità introdotta dall'amore è che la presenza dell'amato nell'amante è una presenza dinamica, in nessun modo statica, come avviene nella co­ noscenza, dal momento che questa non ci spinge ad uscire da noi stessi. Al contrario, l'unione affettiva è solo un momento della dina­ mica dell'amore poiché, arricchendo in un certo modo il soggetto, lo spinge a cercare la pienezza di ciò che gli si è dato. Le è stata offerta una reazione sensuale e la persona cerca allora l'esperienza di questa sensualità del corpo, cerca cioè di sperimenta­ re con il tatto quel che ha appreso come conveniente; le è stata of­ ferta la reazione alla simpatia e la persona cerca allora la presenza di una persona così, simpatica, o forte, o intelligente. L'unione affettiva spinge a cercare, genera il desiderio. Il desiderio è una singolare configurazione della dimensione in­ tenzionale dell'affetto che si realizza nell'unione amorosa grazie alla 9 Cf. J.J. PÉREz-SoeA, «Amor es nombre de persona». Estudio de la interpersona­ lidad en el amor en Santo Tomtis de Aquino, PUL-Mursia, Roma 2001.

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partecipazione della conoscenza, in quanto consente di individuare il bene che ha sedotto. Il bene che entra in me si impadronisce infatti del mio affetto e mi dirige verso di sé per il fatto che lo apprezzo. Il desiderio, come abbiamo visto in precedenza (c. 5.1.a), inclu­ de in sé una dimensione sensibile e affettiva, dirigendosi verso la persona nei suoi valori sensuali o affettivi, ma include nello stesso tempo una dimensione spirituale: desiderando la soddisfazione del­ la sua tendenza, desidera anche la felicità. Per questo il desiderio del bene sensibile è visto nella prospettiva del bene della persona in quanto tale.10 Se la persona assume su di sé ciò che è accaduto, può trasforma­ re il desiderio in un'intenzione. Per questo, come vedremo, si richie­ de in aggiunta uno specifico lavoro dell'intelligenza e della volontà. Il desiderio si manifesta con un'intensità psicologica diversa a se­ conda che interessi l'una o l'altra dimensione dell'uomo, comportan­ do tutto un dinamismo in cui entra in gioco non solo l'eccitazione del corpo, ma anche la sua memoria e immaginazione, la comprensione del significato dell'intenzionalità che vi è insita. Data questa inten­ sità psicologica, di solito è la prima cosa di cui l'uomo è cosciente: ci scopriamo a noi stessi desiderando. Il movimento che il desiderio comporta - dal momento che sicu­ ramente presuppone un mutamento nella struttura affettiva, e un mutamento intenzionale, poiché ci dirige verso qualcosa - ha la sua origine nel compiacimento del bene. Il desiderio è la risposta all'at­ trazione esercitata dal bene. 3. La gioia della comunione

L'amore comincia sempre fuori di noi stessi, in un bene che si unisce a noi, ci trasforma e ci fa desiderare. E il desiderio ci muove a raggiungere ciò che ci è stato dato come un dono originario, come un pegno di qualcosa di più grande, come qualcosa che ci conviene. Il desiderio ci spinge a conseguire la realtà di questo bene, della sen­ sualità, della simpatia, della persona: vale a dire la comunione con la persona amata, il suo possesso. Non si tratta ora dell'unione affettiva, all'interno dell'amante, ma dell'unione reale, per la quale entrambi, amante e amato, posso­ no unirsi realmente, entrare in comunione. Non basta la presenza 10 Cf. STh, 1-11, q. 30, a. 1.

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affettiva, essa è indizio di qualcosa di ancora più grande. Non basta il desiderio che nel suo ardore manifesta una carenza che si è resa fondamentale per il soggetto. L'amante desidera ora la presenza stessa dell'amato: conversare insieme, convivere, partecipare della sua vita, godere della sua bellezza, della sua simpatia ... Quando l'a­ mante raggiunge così l'amato, può cioè unirsi con lui nella moltepli­ cità propria dei distinti e variati tipi di azioni, raggiunge la gioia, ri­ posi nell'amato. Davanti al bene che questa azione comporta, in quanto si unisce con la persona che in una delle sue dimensioni si è mostrata in sommo grado conveniente, sorge un bene nuovo che è il piacere: il piacere sarà sempre conseguenza di un'attività e il suo coronamento. Ciò che è decisivo è che non basta l'unione. Occorre che sia sen­ tita e, in qualche modo, percepita. Quando questa percezione inclu­ de non soltanto la convenienza con una dimensione particolare del­ la persona, ma anche la convenienza con la totalità della persona, al­ lora acquista la connotazione della gioia.11

b. L'espansione affettiva dell'amore Abbiamo già, allora, i diversi elementi suscitati dalla circolarità dell'amore: unione affettiva, desiderio e comunione. Si tratta di una dinamica che genera a sua volta, in dipendenza dalla convenienza o non convenienza dei valori che toccano il soggetto, diversi movi­ menti affettivi, diretti tutti insieme a proteggere e a promuovere il dono dell'amore che si è ricevuto. Quando infatti l'unione affettiva si sente minacciata da qualche male, da qualcosa cioè che possa distruggerla, sorge una reazione d'odio di fronte a quel male, che a sua volta produce il desiderio di fuggire, di eliminare l'esposizione al pericolo. Quando questo movi­ mento di protezione non ha raggiunto tuttavia il suo obiettivo, nasce un nuovo stato affettivo: la tristezza, come reazione di fronte alla perdita di ciò che maggiormente amavamo. Nello stesso tempo però l'amore genera un dinamismo affettivo capace di affrontare le difficoltà, di non crollare nel suo moto di ri­ cerca della pienezza. Non sempre è cosa agevole raggiungere quel che amiamo e non è facile perché nel cammino verso l'unione reale, la comunione con la persona, incontriamo degli ostacoli, delle situa11 Cf. STh, I-II, q. 31, a. 2.

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zioni avverse che ci scoraggiano e fanno perdere la speranza di rag­ giungere la meta. A volte amare è di certo arduo, difficile. E la diffi­ coltà non consiste qui semplicemente nel fatto che amare è compli­ cato e si richiede l'intelligenza per vincere le difficoltà, ma nel fatto che si rende necessaria una singolare energia per conservare l'amo­ re e far fronte alle contrarietà che comporta. Questa energia non procede però semplicemente dall'intelligenza: 12 molte volte non ci mancano le buone ragioni per proseguire nel nostro cammino e far fronte alle avversità, quanto piuttosto il vigore e il coraggio. Questo vigore e questo coraggio ci arrivano principalmente da una reazione del nostro corpo e del nostro affetto. È la reazione del­ l'appetito irascibile, che davanti alle difficoltà sprigiona un supple­ mento d'energia che ci permette di fronteggiarle. In qual modo? Ge­ nerando la speranza, in quanto l'unione reale ci si mostra come una cosa possibile, e provocando l'audacia per far fronte alla difficoltà, e scatenando l'ira quando vediamo l'unione minacciata. Nello stesso tempo, però, lo sforzo e la difficoltà dell'unione che ci aspettiamo di raggiungere possono generare passioni contrarie che bloccano il movimento dell'amore. Questo può accadere quan­ do la difficoltà si mostra come una cosa insormontabile, gettando nella disperazione; o quando è in agguato il male, dando origine al­ la paura. 13 Se l'amore ci si mostrava come qualcosa di sommamente attrat­ tivo nel movimento che originava, ci sono tuttavia circostanze che non sempre sono propizie. Un sano realismo di ciò che implica la complessità del movimento dell'amore nella vita delle persone ci rende coscienti della necessità di saper sfruttare tutto il dinamismo che genera. Se le reazioni dell'appetito irascibile dipendono intrin­ secamente dalla passione dell'amore e per sua causa si originano, nel cammino dell'amore rivestono tuttavia un ruolo indispensabile: sen­ za di loro, nel cammino dell'amore che si svolge nel tempo, non è possibile amare. Imparare ad amare ha come primo momento imparare a capire il valore e il significato dei diversi moti affettivi.

12 Cf. la spiegazione che dà delle passioni dell'appetito irascibile WADELL, La primada del amor, 166-183. 13 Cf. STh, 1-11, q. 23, a. 1 e 4.

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3. Annotazioni Ci siamo soffermati su una descrizione «metafisica» della passio­ ne dell'amore e del dinamismo che produce, al di là del vissuto che ogni persona può sperimentare nei sentimenti che vi sono sottesi. Per questo è applicabile non solo all'amore tra l'uomo e la donna, l'amore che implica un elemento sessuale, ma ad ogni tipo d'amore, per il fatto che si instaura un'unione all'interno della persona con un bene che la colpisce e la trasforma. È opportuno non tralasciare alcuni aspetti: - ogni esperienza d'amore comporta sempre un bene e si fonda pertanto su di esso; nel caso della relazione uomo-donna, su dei be­ ni che si riferiscono alla differenza sessuale. La qualità dell'amore, come unione affettiva e trasformazione del soggetto, dipenderà dal­ la qualità del bene che lo fonda e che può attenere, come abbiamo visto in precedenza, a diversi livelli. L'unione affettiva e la trasfor­ mazione che porta con sé saranno viste così sotto una dimensione semplicemente sensuale, o affettiva, o personale, o divina. La passio­ ne, in quanto tale, non fa perciò riferimento a un elemento sempli­ cemente carnale, sensuale, ma piuttosto al mistero della vulnerabilità dell'uomo di fronte al bene. - la dinamica dell'amore comporta due unioni. La prima intesa come un'unione affettiva, interiore, la seconda intesa come un'unio­ ne reale o mutua comunione. Se volessimo accertare ancor meglio e precisare a quale si riferisca propriamente l'amore, quale indiche­ remmo? Parrebbe essere propriamente la seconda, quando vi è la comunione: allora sì che c'è l'amore. Ed è vero, ma solo in parte, poi­ ché quantunque non si raggiunga la seconda unione, che costituisce indubbiamente la pienezza dell'amore, non possiamo negare che sia dato qualcosa in germe già quando si riceve la prima unione. Un amore non ancora corrisposto è certamente un amore vero da parte di chi lo vive, muove a un autentico desiderio e il desiderio muove a cercare strade per conseguire il suo fine. Ciò che dell'amore è origi­ nale consiste dunque nella prima unione che si crea: in questa pre­ senza dell'amato nell'amante, che è un autentico arricchimento del soggetto, un autentico dono. 14 Questa unione, ancora precaria, ma ricca di promesse, crea nel soggetto una tensione tra ciò-che-è-ora e

14 Cf. PÉREZ-SOBA, «Amor es nombre de persona».

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ciò-che-gli-è-promesso. Ma ciò-che-è-ora non si riferisce semplice­ mente al suo essere in quanto natura, poiché si tratta di un essere-na­ tura che ha ricevuto un arricchimento, il dono dell'amore, ed è ora orientato verso qualcosa di nuovo che prima non era compreso nel suo orizzonte. Questa tensione tra ciò-che-è-ora e ciò-che-vuole-rag­ giungere si risolverà nell'azione, che renderà possibile la comunione reale e non solo intenzionale; - l'amore implica sempre una dimensione di ricettività radicale, di passività: nessuno decide di innamorarsi. Le cose accadono perché siamo stati resi ontologicamente vulnerabili, in una reciprocità origi­ naria, ricettiva della persona differentemente sessuata. Accade non perché lo desideriamo, ma perché Dio così lo ha voluto nel crearci con questa struttura ontologica. Per questo l'amore si chiama pas­ sione, perché si subisce l'influsso di qualcosa senza che intervenga la volontà. È nel momento della compiacenza che la persona può ren­ dersi conto di ciò che è avvenuto e consentirvi oppure, all'opposto, rigettarlo. La passione, in quanto reazione e risposta al bene che se­ duce, sfugge al controllo immediato e diretto della volontà: non è quest'ultima a causarlo, né tanto meno ad impedire che si produca; - da ultimo, la concezione antropologica rivelata dall'analisi fatta comporta una concezione dell'uomo eminentemente dinami­ ca: l'uomo è fatto per ricevere e il significato di questa accoglienza dell'amore è di aprirlo alla pienezza ultima della gioia, a un dono nuovo.

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Capitolo settimo

Amare come scelta

Abbiamo visto finora come l'amore sia fondamentalmente una passione, qualcosa che l'uomo subisce e che non sceglie, una reazio­ ne. Il protagonismo ce l'ha un altro che con le sue qualità attira a sé. L'amore non è però solo una reazione, comporta anche un'azio­ ne singolare da parte dell'uomo: amare. Allora a essere protagonista è il soggetto che ama mettendo in gioco la propria libertà, la propria soggettività. Ma cosa vuol dire amare? Qual è la relazione tra l'«amore» e l'«amare»?

1. Amare come atto della volontà Abbiamo visto in precedenza come nella passione dell'amore la persona con le sue qualità colpisca il soggetto, lo trasformi. La presa di coscienza di quanto è avvenuto ha luogo in un primo momento in forza della compiacenza, quando vi è la ripercussione soggettiva del­ l'arricchimento che tale unione ha comportato, cui fa seguito una precisa direzione del desiderio. È in quel momento che la persona può liberamente scegliere il bene che l'ha colpita e, grazie a ciò, com­ prendere il significato di tale incontro e divenire così capace di ap­ prezzarlo nella sua relazione con la vita globalmente considerata, nella sua totalità, vedendo la relazione che tale amore ha con la pro­ pria pienezza. Qui la ragione procede interpretando qualcosa che le si dà, che le indica un fine; la guida il dono ricevuto. È grazie alla per­ cezione della relazione del desiderio con la pienezza della vita che la

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persona può allora immergersi in ciò che comporta. E compie il pas­ saggio dal vivere una passione d'amore ad amare. Amare significa volere. Si tratta di un atto della libertà che è pre­ ceduto da un dono, da un arricchimento, e che viene configurato dal­ l'intelligenza stessa. Questo atto d'amore si basa sempre su un mo­ vimento affettivo, riferito all'amore come passione: non parte dal nulla, ma da un dono ricevuto. Per questo amare, prima di essere un atto elettivo, come atto della volontà che desidera un bene, è innan­ zitutto un amore affettivo: cioè ricettività di fronte a questo bene, ca­ pacità di essere mosso da lui. 1 La scelta si fonda e si vede accompa­ gnata da un affetto. Ed è a partire di qui che il soggetto può porre un atto di desiderio nel quale personalmente coinvolgersi, vincolando se stesso con quel bene. Ma cos'è che desideriamo quando amiamo? Verso che cosa ci dirigiamo? La cosa più semplice sarebbe forse di guardare al modo con cui è stato spiegato nella grande tradizione filosofica e teologica. Aristote­ le, in ciò seguito da s. Tommaso, fornisce una semplice, ma profonda, definizione di ciò che significa amare: «amare è volere un bene per qualcuno». 2 Proviamo a comprendere cosa significhi: si tratta di un unico atto, volere, che si dirige però a un duplice oggetto, l'amato e il bene per l'amato. Due oggetti, ma uniti in un solo atto della volontà: volere, che è posto liberamente da un soggetto, non mosso da costri­ zione alcuna, quantunque sia preceduto da un amore. Il fatto che l'amore abbia due oggetti e che con il medesimo atto d'amore si raggiungano entrambi comporta l'insorgere nell'uomo di una doppia tendenza che si rivolge distintamente sia alla persona amata, sia al bene che per essa si desidera. Cerchiamo di approfondire il significato e la relazione di questi due oggetti: l'amato e il bene.

2. Il fine dell'atto d'amore: la persona Il tendere in direzione della persona amata avviene in modo ra­ dicale: tende cioè nella sua direzione affidandosi a lei. Si tratta della persona come fine ultimo dell'atto d'amore, poiché la persona sol­ tanto può essere amata simpliciter et per se. Questa tendenza a un be-

1 Cf. A. WoHLMAN, «L'élaboration des éléments aristotéliciens dans la doctrine thomiste de l'amour», in Revue Thomiste 82(1982), 247-269. 2 Cf. ARISTOTELE, Retorica li, 4: 1380b35 e STh, 1-11, q. 26, a. 4.

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ne amato per se stesso è denominata «amore di amicizia». Amore di amicizia non è la stessa cosa di amicizia: l'amicizia comporta una re­ lazione di reciprocità. Qui stiamo parlando dell'«amore di amicizia», cioè di un amore che viene specificato dal genitivo «di amicizia». Con ciò si vuole spiegare che è un amore singolare, in quanto è ri­ volto verso una persona. Il modo con cui si vuole la persona viene specificato dal ruolo di fine che essa riveste. Vale a dire, si vuole l'altra persona non come «cosa mia» che mi appartenga, ma «per se stessa», per ciò che essa è e per come essa è: una persona con uno statuto ontologico e una pre­ cisa identità, in quanto come soggetto personale sussiste in se stessa, cioè nel suo proprio atto di libertà, governando se stessa in confor­ mità all'ideale di vita che si è proposto. L'accettazione dell'origina­ lità e identità della persona amata è decisiva nell'amore, pena il non arrivare ad amarla per se stessa, ma per le qualità che possono ri­ svegliare un qualche interesse. Questo volere la persona per se stessa comporta di necessità che la si scelga come fine del proprio agire, cioè che la propria intenzio­ nalità si determini in quella persona. Ma che significa volere la persona per se stessa? Dire «persona» equivale anche a dire essere-in-cammino-chiamato-a-una-pienezza. Volerla significa che si vuole un essere dinamico, in tensione verso una pienezza. Per questo il nostro atto di volontà entra all'interno di questo dinamismo e di tensione della persona e si unisce a essa vo­ lendo che raggiunga questa pienezza. Si vuole la persona, la si vuole per ciò che essa è, ma anche, e soprattutto, nella pienezza cui è chia­ mata, perché questa pienezza è la sua verità più profonda. 3 Per que­ sto motivo, volere la persona per se stessa indica volere la sua pie­ nezza, volere la sua felicità, che nel linguaggio etico significa volere il «bene della persona»: un bene, al singolare, della persona, al geni­ tivo esplicativo, per quanto attiene la sua dinamica ultima. La pienezza della persona, la sua finalizzazione ultima, il suo massimo bene si trova sempre determinato in un ideale di vita buo­ na che dà un contorno preciso all'eccellenza di una vita, configuran­ do una vocazione personale. Volere la pienezza della persona equi­ vale a volere il coronamento della sua vocazione personale.

3 Cf. V. Sowv'ev, Il significato dell'amore, III, 3: 76-77; lo., La justification du bien. Essai de philosophie morale, Editions Slatkine, Genève 1997, 416.

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Si tratta dell'elemento intersoggettivo dell'amore, in quanto l'at­ to d'amore parte da una persona e si dirige a un'altra persona per se stessa e perché ella stessa raggiunga la propria pienezza.

3. La mediazione dei beni Perché la persona sia lei stessa, raggiunga la sua pienezza, com­ pia la sua vocazione personale, si rende tuttavia necessaria una serie di beni grazie ai quali potrà sussistere e portare a compimento la sua vita. Si tratta ora dei «beni per la persona», al plurale e con un com­ plemento indiretto, per la persona cui si riferiscono: beni quali la possibilità di gestire economicamente una vita, avere una dimora, formare una famiglia, aprirsi a un'intimità nell'unione coniugale, esprimere la stima dell'altra persona con un gesto di tenerezza... So­ no beni, diversi e assai vari, poiché perfezionano la persona amata, le consentono di conseguire la pienezza cui anela, di essere se stessa. Volere determinati beni per la persona è perciò un elemento in­ trinsecamente legato a «volere la persona». Questa tendenza al bene voluto per la persona amata si dirige, però, verso il bene non in ma­ niera assoluta, ma in quanto tale bene è un bene per la persona ama­ ta, per cui non riposa ultimamente in tal bene, ma nella persona per la quale si vuole questo bene. Si coglie così come l'amore dei beni sia relativo alla persona amata: si tratta di un amore del bene secundum quid et in a/io; come dire, si vogliono nella misura in cui sono un be­ ne per lei e si vogliono «in lei», cioè come lei li vede e li vuole. Ci tro­ viamo nella dimensione oggettiva dell'amore, in quanto è diretto verso un bene in relazione a una persona. La relazione tra la persona e i beni che io voglio per lei viene sta­ bilita dalla ragion pratica: non si tratta di una relazione arbitraria, in­ nanzitutto, perché l'autentico amore intersoggettivo si preoccupa enormemente della verità del bene che vuole per l'altro; non lo vuo­ le che nella misura in cui sia davvero un bene per lui. E, in secondo luogo, perché, mossa dall'amore, l'intelligenza è capace di stabilire una relazione tra questo bene e la persona in determinate circostan­ ze concrete. L'intelligenza è in se stessa aperta alla realtà di questa relazione ed è in grado di valutarla. Questa tendenza a un bene amato per un altro è chiamata dai classici «amore di concupiscenza». Occorre però tener conto del fat­ to che «concupiscenza» non riveste qui un significato di disordine, ma semplicemente di desiderio - cupio - relativo a un bene concre-

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to: poiché nell'atto d'amore si vuole un bene concreto e parziale di­ retto verso una persona, tale amore verso un bene parziale si chiama «amore di concupiscenza». Volere la persona per se stessa comporta necessariamente vole­ re quei beni che le consentano di sussistere in se stessa e di conse­ guire la pienezza. Il cammino dall'io all'altro passa di necessità at­ traverso la mediazione dei beni concreti che promuovono la perso­ na.4 Senza la mediazione di questi beni l'amore della persona si ri­ duce a un sentimento vuoto, che manca di potenza e di creatività, ir­ retendo l'uomo nella confusione affettiva. È il dramma dell'amor cortese, in se stesso sterile. Dopo queste precisazioni possiamo ora comprendere ciò che vuol dire la grande manifestazione dell'amore: quando una persona dice a un'altra «ti amo», non vuole soltanto esprimere «sento qual­ cosa per te», «tu sei importante per me». Se esprimesse soltanto questo, non sarebbe un autentico atto di libertà, non comportereb­ be scelta alcuna: starebbe semplicemente dicendo un fatto, ciò che sente. Ma un uomo può voler dire qualcosa di più a una donna quando le dice «ti amo», e, viceversa, può esprimere qualcosa di più di un sentimento. Per sapere ciò che intende dire, occorre doman­ darsi quali beni si vogliono per la persona amata. È proprio in que­ sto momento che l'amore può verificarsi e promuovere autentica­ mente la persona. Allora l'amore si trasforma in un principio di con­ dotta, motore di una vita, vero principio di unità, sviluppando una genialità e una forza sconosciute ai suoi stessi protagonisti.

4. Ricapitolazione sulla teoria dell'amore Bisogna ricapitolare. Sono molti gli elementi sull'amore che sono stati esposti ed è possibile perdere il filo. Sintetizziamo gli elementi essenziali. 1. La teoria dell'amore ha due fondamentali dimensioni: - la prima si riferisce all'amore come passione, amore come so­ stantivo. Con essa si intende che l'amore è fondamentalmente una unio affectus, una presenza interiore, che suppone un arricchimento della persona in quanto parte da una certa consonanza originaria e raggiunge una connaturalità nuova con la persona che l'ha colpita; 4

Cf. P. R1coEUR, Sai méme come un autre, Seui!, Paris 1990, 211-226.

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- la seconda si riferisce all'amare come scelta, amare come ver­ bo. Con essa si intende l'atto d'amare in quanto volere un bene per qualcuno. Un unico atto con un duplice oggetto, con cui si rende co­ sì evidente il carattere intersoggettivo e oggettivo dell'amore. 2. Passione e scelta stanno pertanto in intrinseca interrelazione, poiché prima d'essere un amore elettivo ogni amore è un amore af­ fettivo. 3. Grazie a questa relazione si può spiegare in qual modo l'in­ tenzionalità dell'atto d'amore si fissi sulla persona amata. La deter­ minazione dell'intenzionalità necessita dell'evento dell'amore, che, pur essendo dato in un modo recettivo, comporta tuttavia che il sog­ getto lo voglia e scelga cioè la persona amata come il termine ultimo della sua tendenza, accettando tale persona e la sua pienezza come fine della propria vita. Per questo ogni amore esige la «scelta della persona», che è un momento della libertà e non si deduce dalla sem­ plice passione. Una volta determinato il fine ultimo cui tende, i beni saranno relativi alla persona.

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Capitolo ottavo

La costruzione dell'azione d'amore

La riflessione sull'amore come scelta ci permette di comprende­ re come ogni azione d'amore implichi una costruzione, una compo­ sizione che la persona realizza in forza della sua ragion pratica. Se amare significa scegliere, agire, è necessario capire che le nostre azio­ ni non sono semplici. Di solito ce ne accorgiamo quando ci troviamo in difficoltà nell'esprimere il nostro amore con un'azione: non sap­ piamo come, perché non troviamo mediazioni adeguate. Questa dif­ ficoltà riflette la complessità dell'azione, anche di quella che ponia­ mo in atto quasi spontaneamente. Le nostre azioni non sono in alcun modo un tutto in sé compiu­ to che rimanga nelle mani della pura scelta o decisione dell'uomo. Agire in senso morale non è «decidere» tra distinte opzioni già co­ stituite in ragione della loro capacità di soddisfare le proprie esigen­ ze: un bacio, una carezza, una chiamata per telefono, una passeggia­ ta insieme... Questo avviene solo quando uno va a fare la spesa: in questo caso, l'articolo è già confezionato e conforme ai suoi interes­ si precostituiti, il soggetto soppesa le offerte che gli vengono fatte.1 L'azione così intesa, come una decisione su una cosa già costituita, sarebbe indipendente dalla mia intenzionalità e il suo valore avreb­ be riscontro nella sua capacità di soddisfare le mie aspettative o nel­ la sua concordanza con determinate regole. 1 L'immagine è proposta da I. MuRDOCH, The sovereignity of Good, Routledge, London-New York 1989, 8.

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Le azioni non si scelgono dunque né si decidono principalmente, ma invece si costruiscono da sé, con l'inventarsele. L'azione «baciare una persona» non è qualcosa che sta qui e che uno sceglie e basta in ragione delle proprie necessità o intenzionalità: quanti diversi tipi di baci ci sono! Baci di tenerezza nel matrimonio, baci di lascivia, baci di gradimento, baci di tradimento. Quando una persona «bacia» non sta semplicemente scegliendo un'azione fisica a motivo della sua uti­ lità o piacere. La cose si scelgono, le azioni si costruiscono. La cosa esiste anteriormente al fatto che io la scelga, l'azione no. 2 Ma come si costruisce l'azione?

1. La struttura di base dell'azione: intenzione e scelta La costruzione di un'azione parte sempre dal fine personale verso cui ogni azione si dirige, vale a dire la persona amata, in quanto è lei il fine simpliciter dell'azione, come abbiamo visto. Cioè, davanti all'attrazione che un'altra persona di sesso differente susci­ ta nel soggetto, uno si attiva per raggiungere la persona amata, per promuoverla ed entrare così in comunione con lei. L'azione si diri­ ge verso la persona in sé, dal momento che con l'azione si entra in una singolare comunione con lei. Si dirige pertanto verso una mo­ dalità di comunione con la persona che si attua nella mediazione dell'azione. L'azione di baciare una persona si dirige verso una mo­ dalità di singolare comunione con la persona amata, che si attualiz­ za nella manifestazione della tenerezza e intimità nel contatto del­ le labbra. Sorgono così i due elementi decisivi di ogni azione: l'intenzione verso un fine e la scelta di quei mezzi, che sono perciò la prima tap­ pa in ordine a un fine. Si tratta di due elementi intrinseci dell'agire tra di loro in mutua relazione dal momento che, cercando di pro­ muovere una persona e di entrare in comunione con lei, il soggetto percepisce che tale intenzione può giungere a capo soltanto attra­ verso la scelta di quei beni che gli consentono di promuovere la per­ sona, di entrare in comunione con lei, di esprimere ciò che desidera.

2 Cf. G. ANSCOMBE, Intention, Basi! Blackwell Publisher, Oxford 1963, § 32 e S. PINCKAERS, Le renouveau de la morale, Casterman, s.l. 1964, 114-143.

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2. Bene ontologico e bene pratico: loro integrazione L'originalità di questi beni che si vogliono per la persona risiede nel fatto che si tratta di beni «pratici», cioè di azioni: baciare, conver­ sare, unirsi coniugalmente. Non sono pertanto semplici beni ontolo­ gici, come la sessualità o la vita o il denaro, anche se di sicuro questi beni ontologici sono inclusi nei beni pratici: non sarebbe possibile l'a­ zione «unione coniugale» se non vi fosse il bene ontologico della ses­ sualità. Il bene dell'unione coniugale non è però semplicemente la sessualità, bensì è un bene propriamente morale. Vogliamo ora ap­ profondire questa distinzione. La riflessione sull'amore come passione ci ha mostrato come vi siano determinati beni che convengono alla persona in ragione della sua natura o delle disposizioni in cui si trova: il cibo, la cultura, la ses­ sualità, il denaro... sono beni che possono colpire l'uomo, generando tutto un dinamismo affettivo. Quando però questo dinamismo affet­ tivo è assunto dalla ragion pratica, questi beni ontologici assumono una prospettiva pratica, rendendo possibile una modalità concreta di attuazione: nutrirsi, arricchirsi con l'esperienza di altri, avere un'atti­ vità sessuale, possedere e gestire la ricchezza. Amare significa volere un bene per l'amato. Di che tipo di bene si tratta? Non si vuole infatti per l'altra persona semplicemente il cibo, o la cultura, o la sessualità, o il denaro, ma prima di tutto l'attività che con questi beni ontologici è possibile. Si tratta di un'attività che è vista come necessaria o conveniente per conseguire una vita riuscita, una vi­ ta felice. È così che questi beni pratici si configurano come veri beni per la persona, nella misura in cui si coglie la loro relazione con la per­ sona stessa e il suo bene ultimo: la vita riuscita in una comunione.3

3. L'oggetto morale delle azioni e la sua definizione Ci interessa ora sapere come possiamo stabilire il contenuto di queste azioni e cioè il loro oggetto morale che caratterizza e distin­ gue un'azione dalle altre. L'azione morale viene definita non dalla materialità di ciò che si «esegue»: un determinato movimento del 3

Cf. MELINA, Cristo e il dinamismo dell'agire, 37-51.

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corpo (congiungere le labbra in un bacio, o circondare con il proprio corpo in un abbraccio, o il movimento della mano in una carezza) o dal bene ontologico in questione, come potrebbe avvenire nel caso dell'oggetto di un regalo (delle rose, un invito a pranzo). Nella mag­ gior parte dei casi le nostre azioni comportano senza dubbio l'esecu­ zione di una serie di movimenti, che si possono cogliere esterior­ mente. Questa esecuzione non è tuttavia sufficiente a definire l'azio­ ne, a distinguere ciò che il soggetto sta facendo. Se così fosse, un'a­ zione caratterizzata dalla materialità di dare un bacio potrebbe esse­ re buona o cattiva in dipendenza di un'ulteriore intenzione, essendo in se stessa indifferente. Lo stesso accadrebbe con il fatto materiale dell'unione sessuale, che sarebbe in sé indifferente dipendendo dal­ le ulteriori intenzioni che la persona può avere. Ora, non c'è innamorato che concepisca in questo modo l'atto di baciare, né di unirsi sessualmente, come la semplice esecuzione stru­ mentale di un'azione. Le nostre azioni vengono caratterizzate non da ciò che semplicemente eseguiamo, ma da quel che si cerca immedia­ tamente quando si esegue qualcosa. Per comprendere quel che una persona fa non basta domandare: «cosa fa?», ponendosi nella prospettiva di un osservatore; in questo modo sarebbe impossibile distinguere un atto coniugale da una rela­ zione prematrimoniale, come anche il bacio innamorato dal bacio la­ scivo o traditore. Occorre invece domandare: «a che pro lo fa?», col­ locandoci nella prospettiva del soggetto che agisce. Ma attenzione: questo «a che pro» non si riferisce a fini ulteriori o principali, come chi fa l'elemosina per piacere a Dio, o studia per superare un esame. Questi fini non bastano, perché vi sono molte maniere di piacere a Dio, tra loro distinte, e molte maniere di essere promossi. Allo stesso modo, non basta definire l'azione «dare un bacio» come chi aspira semplicemente a vivere in comunione, o ad appagarsi sessualmente, o a lottare per una causa politica: ci sono molte maniere di vivere la comunione, o di appagarsi o di lottare per una causa. Questi fini così intesi non specificano né distinguono le nostre azioni. I fini ultimi da soli non definiscono né specificano le nostre azioni. Quel «a che pro» che definisce le nostre azioni e le specifica si ri­ ferisce al fine prossimo e immediato dell'azione deliberata: 4 manife­ stare il proprio apprezzamento nella prossimità e intimità di un ge-

4 Cf. VS 78. Per una sua spiegazione si veda M. RHONHEIMER, La prospettiva del­ la morale,Armando, Roma 1994, 85-97.123-139.

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sto, liberare la tensione affettiva e sensuale usando la persona, in­ gannare l'altro facendogli sentire d'essergli vicino. Questo «a che pro» indica il contenuto intenzionale di base delle nostre azioni che è il contenuto di ciò che volontariamente noi scegliamo. Quando la volontà si dirige a questo fine prossimo, questo atto della volontà si chiama scelta. L'originalità di questa scelta consiste nel fatto che tale scelta è animata da un fine più importante e nel quale il fine prossimo ac­ quista il suo significato. Se si sceglie di manifestare la stima con una carezza è perché si aspira a una comunione con la persona amata. Se si sceglie di accogliere in totalità donandosi nell'unione sessuale è perché si aspira a una comunione con la persona amata. Questo fine più importante, che potremmo ora chiamare fine principale o fine in­ termedio, è un fine cui il soggetto aspira, comportando, perciò, un at­ to proprio della volontà, che si chiama intenzione. Il fine dell'inten­ zione si mostra così come l'anima della scelta.

4. L'unità intenzionale dell'azione Tra le due dimensioni, intenzione-scelta, esiste una mutua inter­ penetrabilità, in modo tale che è impossibile comprendere l'una sen­ za l'altra, poiché i fini prossimi che si scelgono, si scelgono per con­ seguire il fine superiore della comunione, che è oggetto dell'inten­ zione. Con ciò si coglie come i fini prossimi (oggetto della scelta) sia­ no sempre inglobati nei fini superiori e principali (oggetto dell'in­ tenzione). Ciò che costituisce il significato umano delle nostre azioni è pre­ cisamente l'unità intenzionale che sussiste tra tutti i fini cui si tende secondo un ordine concreto. Con il termine «unità intenzionale» si vuole esprimere la proporzione che esiste tra i diversi livelli dell'a­ zione: la sua esecuzione, scelta e intenzione; in modo tale che tra i fi­ ni perseguiti ai differenti livelli c'è una stretta relazione, una vera unità. Questa unità e proporzione è un'unità creata dalla ragion pra­ tica e pertanto da lei «ordinata». 5 Vi è tuttavia ordine in una forma intrinseca, poiché il fine prossimo non può intendersi al margine del fine ultimo, dal momento che trova in lui il suo significato: nessuno

5

Cf. TOMMASO o' Aou1N0, Sententia Libri Ethicorum I, 1, 21-22.

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desidererebbe donare dei fiori, con cui manifestare la stima e la gra­ tuità, se con ciò non aspirasse a una comunione con la persona ama­ ta. In questo modo comprendiamo come l'intenzione non si giustap­ ponga alla scelta, ma invece la ordini interiormente. Un semplice esempio può aiutarci a comprendere l'unità dell'a­ zione e la sua specificazione: l'azione «offrire un aiuto a un povero per accrescere la propria reputazione» non è in alcun modo un atto che possa qualificarsi come un'elemosina, anche se il povero riceve in effetti un aiuto da parte nostra. E non lo è perché non esiste un'u­ nità intenzionale tra «scegliere di aiutare una persona» e «voler ac­ crescere la propria reputazione». Si rende perciò necessario definire bene il contenuto delle nostre azioni o si introdurrà altrimenti una radicale ambiguità che ci impedirà di comprendere ciò che realmen­ te si sceglie. Allo stesso modo, l'azione «dare un bacio a una persona per sedurla» non è in alcun modo un atto che possa classificarsi co­ me un atto d'amore, anche se l'altra persona potrebbe così ritenerlo. E non lo è perché non esiste un'unità intenzionale tra «mostrare ad una persona di gradirla» e «volerla sedurre». Questa unità intenzionale perviene al suo significato ultimo quando si rapporta con una dimensione naturale di base di tutto il dinamismo intenzionale, come abbiamo visto nell'analisi del deside­ rio nel quinto capitolo: si tratta del naturale desiderio di felicità. In questo modo abbiamo un'unità tra l'esecuzione, il fine prossimo che specifica l'azione, il fine principale o intermedio che concretizza le modalità di comunione con le persone e il fine ultimo che è la vita riuscita vissuta in comunione con Dio. Il passaggio dall'uno all'altro non è possibile se non nella mediazione dei diversi fini. Così, la co­ munione con Dio in azioni che fanno riferimento a persone non è possibile se non nella mediazione di determinate modalità di comu­ nione umana che si attuano in fini prossimi concreti. Pretendere che l'amore per Dio, o l'amore per una persona, possa giustificare un'a­ zione significa non conoscere la complessità dell'azione umana e la necessità di un ordine razionale interno.

5. La bontà morale Emerge in questo modo l'esistenza di una verità delle nostre azioni che si riferisce all'ordinabilità o meno dei nostri fini prossimi (che tecnicamente si chiamano scelte) a intenzioni più profonde. Quando esiste questa unione intenzionale, allora affermiamo che l'a-

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zione è buona. Quando non esiste questa unione perché tale fine prossimo non è ordinabile a un fine buono, allora l'azione è cattiva. La bontà o la cattiveria morale si riferisce pertanto non a un me­ ro adeguamento a determinate leggi biologiche o a norme morali, e ancor meno alla massimizzazione delle conseguenze positive che po­ trebbero derivare dal nostro agire, tra le quali si trova il piacere che si potrebbe conseguire, ma alla possibilità di ordinare le nostre azio­ ni a fini principali buoni in se stessi, in modo tale che detti fini si at­ tualizzino nella mediazione della scelta. La bontà morale delle azioni che si riferiscono alla relazione uo­ mo-donna si può valutare nell'unità intenzionale che esiste tra i suoi diversi fini in modo che consenta di attuare l'ideale della comunione con la persona e vivere così una vita riuscita, piena, in comunione con Dio.

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Capitolo nono

Amicizia e reciprocità

Allorquando si sia compreso come si costruisce l'azione e che in essa c'è un'unità tra i suoi quattro momenti decisivi, esecuzione, scel­ ta, intenzione e desiderio naturale, occorre fare un passo avanti. Si tratta ora di vedere qual è il contesto in cui questi beni per la perso­ na, le azioni concrete, assumono un loro rilievo. Questo contesto non è altro che il contesto di una singolare relazione tra persone, cioè l'a­ micizia. Vi sono diversi tipi di amicizia.All'interno della famiglia abbiamo l'amicizia tra fratelli, tra genitori e figli, tra sposi. Vi sono amicizie al cui centro c'è un interesse comune, come le amicizie sul lavoro, o quelle tra studenti, mentre altre amicizie non hanno propriamente un'utilità, ma il motivo dell'unione è il piacere che procurano: abbia­ mo così i vari circoli sportivi, o gli amici che ogni settimana si trova­ no per giocare a carte. Tra i diversi tipi di amicizia a noi interessa esat­ tamente quella che mette in gioco la relazione uomo-donna. La difficoltà che incontra il concetto di amicizia è che la com­ prensione che oggi se ne ha si riferisce a una relazione tra persone che è basata sul sentimento. Due persone sono amiche in quanto tra di loro esiste un sentimento di mutua simpatia. È il sentimento che viene a costituire la relazione tra i due e di qui la grande ambiguità e instabilità delle amicizie, specialmente nell'ambito sessuale. Il sentimento è sicuramente importante, ma non è tuttavia l'ele­ mento decisivo in una relazione di amicizia, come può ben mostrare la relazione tra una madre e sua figlia, nella quale si coglie in molti casi l'assenza di un sentimento di mutua empatia specie in talune

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delle sue differenti tappe. E tuttavia tra di loro c'è un'autentica e profonda amicizia. Inoltre, se la vita sentimentale attraversa diverse tappe e vicissitudini, l'amicizia consente al contrario di superare e ordinare la frammentazione dei sentimenti, offrendo un vero princi­ pio di unità all'interno della dispersione affettiva. Cos'è l'amicizia? E ancora, su che cosa si fonda?

1. L'amicizia tra l'uomo e la donna L'amicizia comporta una relazione tra persone. Tra l'uomo e la donna possono nascere molti tipi di amicizia. Compagni di studio, colleghi di lavoro, associati in attività ricreative, condiscepoli del Si­ gnore, fidanzati, consorti nel matrimonio... Si tratta di differenti tipi di amicizia che vengono caratterizzati dai beni che si condividono e dal modo con cui ci si ama. Essere com­ pagni non è la stessa cosa dell'essere fidanzati, né essere associati dell'essere coniugi. Non si tratta semplicemente di una questione di «intensità» dell'amore, ma di «differenza» del tipo di amore, dal mo­ mento che siamo chiamati a vivere l'intensità di ogni nostra amicizia in pienezza, ma secondo quel particolare tipo d'amicizia. Equivoca­ re i differenti amori comporterebbe una vera offesa: come un mari­ to che amasse una collega con l'amore con cui ama la sua sposa, o una donna che amasse i suoi figli con l'amore con cui ama suo mari­ to. Tanto il marito che la donna percepiscono che qualcosa non è a posto, non semplicemente perché stanno facendo qualcosa che po­ trebbe essere rimproverato dal proprio coniuge, ma perché non stan­ no amando bene, anche se in apparenza non c'è nulla di cui potreb­ bero essere accusati. Ci interessa pertanto comprendere cos'è che caratterizza un tipo di amicizia nei confronti degli altri, comprendere l'originalità dell'a­ more tra l'uomo e la donna quando si stabilisce un tipo di amicizia che mette in gioco la coniugalità. Occorre perciò cogliere gli elemen­ ti coinvolti e vedere come si compongono e interagiscono tra di loro.

a. Un amore di benevolenza Se nell'incontro tra l'uomo e la donna il sentimento ha permesso il riconoscimento dell'altro come di qualcuno che vale e che con le sue qualità sessuali o umane offre una complementarità al soggetto, l'amicizia richiede, in aggiunta, il coinvolgimento della volontà. Non

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si tratta ora semplicemente di sentire qualcosa per l'altra persona, di provarne compiacimento, ma di volerla. Questo atto della volontà, per il fatto che si vuole la persona con una volontà buona, e si vo­ gliono per lei determinati beni, è un momento intrinseco dell'amici­ zia, che in sua mancanza non sarebbe tale. Ma dove si radica questo atto di voler bene alla persona?

b. Intimità Quando si valuta dove si radichi il voler bene alle persone tro­ viamo risposte molto diverse. La loro distinzione più profonda si col­ loca esattamente nel valutare se questo atto di volontà è un atto che si radica nell'interiorità propria della persona o in altre cause estrin­ seche. Un uomo può volere una donna, e viceversa, per semplice compassione, e per semplice compassione davanti alla sua situazione familiare o di salute, amarla, accoglierla, persino sposarla perché non finisca per essere una disgraziata, o un disgraziato. In questo caso ci troveremmo davanti al fatto che l'amore di benevolenza per questa persona si concentra nel tentativo di promuoverla per ciò che essa è, ma senza che con essa uno si trovi identificato. Una moglie che, da­ vanti a un uomo che ha patito un insuccesso sul lavoro o in famiglia, lo accogliesse per il solo motivo di aiutarlo ed evitare che vada an­ cor più a fondo, lo amerebbe di certo con un amore di benevolenza, ma, se lo amasse soltanto con questo amore di benevolenza, non vi­ vrebbe con lui un'amicizia vera. L'amore di benevolenza proprio dell'amicizia,e specialmente quel­ lo tra un uomo e una donna, non ha radice in qualcosa di estrinseco,ma nella loro stessa interiorità. Ancor più, in un compiacimento radicato nell'interiorità del soggetto, cioè nella sua intimità. In che senso? Già conosciamo alcune delle note che definiscono l'intimità (c. 3.d): l'autocoscienza della propria soggettività, l'autodominio nell'u­ scita da sé, il legame che si stabilisce con colui che si ama e la pre­ senza interiore della persona amata nell'amante. Possiamo ora com­ prendere più in profondità il significato dell'ultima nota: la presenza interiore. Si tratta di una presenza che è la stessa unione affettiva, il modo con cui l'amato è presente nell'amante. Una presenza che non è tuttavia soltanto percepita, ma che trasforma il soggetto. La relazione d'amore suppone senza dubbio una trasformazione della persona che la fa rassomigliare all'altra persona in quelle qua­ lità significative con cui l'ha colpita: in modo particolare nei valori umani e nel valore che la persona è in sé, dal momento che consen-

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te un'originale unione interiore. L'amore comporta sempre una tra­ sformazione: è l'altro che ci trasforma con il suo modo di essere, con la sua personalità. Ci interessa ora capire questa trasformazione. Quando nell'unio­ ne affettiva che vive, il soggetto si rende presente all'altra persona, non soltanto con le qualità che possiede, ma anche per ciò che è, e quando in questa unione esiste una reciprocità, nasce una trasforma­ zione originale degli amanti, in virtù della quale l'amico giunge ad es­ sere un alter ipse, 1 un «altro se stesso». L'espressione si riferisce a en­ trambi, l'amante e l'amato indistintamente, per il fatto che vuole esprimere come la trasformazione dell'amore faccia sì che uno si tra­ sformi nell'altro e viceversa. 2 Si inaugura in tal modo una relazione d'amicizia che all'interno di tutti e due ha il suo centro e la sua fonte. Questo fatto si riflette in un dato sintomatico: colui che ama guarda se stesso nell'amato e guarda l'amato come un altro sé, giun­ gendo a condividere i suoi stessi fini, che prende come propri, la sua stessa determinazione esistenziale del fine ultimo e significato della vita, fino a considerare come propri i beni dell'altro.3 Questa armo­ nia e quasi-identificazione delle persone, che è frutto di una mutua presenza, di un'unione interiore reciproca, rende possibile una sin­ golare intimità in virtù della quale uno desidera per l'altro questi be­ ni non come una cosa estrinseca a sé, come se riflettendo in astratto concludesse che tale carezza, o uscire per una passeggiata, o... è cosa che gli conviene, ma desidera invece e vuole questi beni per la per­ sona amata in forza di un desiderio radicato al proprio interno.4

c. Il fondamento dell'amicizia: la comunicazione del bene della coniugalità L'amicizia ha allora bisogno della benevolenza, dell'intimità, ma anche della comunicazione di un bene. Due persone potranno esse­ re amiche quando tra di loro nasce qualcosa in comune, quando tut­ te e due partecipano di un bene comune a entrambe e in cui ognuna

1 ARISTOTELE, Etica nicomachea IX, 9: 117Ob6. Il testo è commentato da TOMMA­ SO o'AornNo, STh, 1-11, q. 28, a. 1. 2 Si veda M.C. NussBAUM, The fragility ofgoodness. Luck and ethics in Greek trage­ dy and philosophy, Cambridge University Press, Cambridge-New York, 1986, 354-372. 3 M. NEDONCELLE, La reciprocité des conciences. Essai sur la nature de la person­ ne, Aubier, Paris 1957, [13]; cf. inoltre STh, 1-11, q. 28, a. 1-2. 4 Si veda la magnifica spiegazione che ne dà STh, 1-11, q. 28, a. 2.

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di loro raggiunge il proprio bene. Questo bene comune si riferisce a un modo di vita che è il solo capace di integrare i diversi beni dei sin­ goli, facendo sì che questi beni individuali si convertano in autentici beni umani. Non si tratta pertanto di «cose» da condividere, alla ma­ niera dei beni ontologici, ma di azioni, progetti, cui prendere parte. Nella relazione uomo-donna questo bene è il bene della coniu­ galità, che comporta in entrambi un modo di amarsi nella partecipa­ zione della propria intimità, cioè una modalità di presenza interiore tra i due che pone in gioco la complementarità delle loro persone e apre un mutuo spazio di reciproca interazione capace di comunicar­ si ad altre persone, generandole. Questo bene comune tra i due è in sé la loro pienezza, poiché comporta una vita riuscita. Il frutto di questa mutua presenza interiore degli amici e della co­ municazione nel bene è un dono singolare: la concordia, l'unione dei cuori. Gli amici vogliono le stesse cose, si rallegrano e si rattristano per le stesse cose. Questa concordia si riferisce principalmente a ciò che è il destino della vita e la sua determinazione in un modo concreto di esi­ stenza.5 È essa a rendere possibile che, nel loro agire reciproco, le loro intenzioni coincidano, volendo la stessa cosa. Sarà però nel mutuo con­ vivere che andranno anche a conseguire la concordia nei confronti del­ la scelta delle azioni concrete in cui quelle intenzioni si attualizzano. In questo modo vorranno le stesse azioni per gli stessi motivi. È dunque ora necessario tenere presente che l'amicizia basata sulla coniugalità, pur coinvolgendo un campo veramente profondo della persona, non sottende tuttavia in alcun modo la fusione degli amici. Fondersi nell'amato, arrivare a scomparire in lui per trasfor­ marsi in lui, è un controsenso, dal momento che l'amicizia esige e si basa sempre su una differenza e un'alterità della persona amata, nel­ la misura in cui essa è capace di governarsi da sola, di essere distin­ ta, indipendente, con una precisa identità e una personale vocazione, anche se coincidente con quella dell'amante: la libertà è cosa che at­ tiene al soggetto e non può andare persa. E dal momento che l'amore non determina una fusione, ma uni­ sce, invece, nella differenza, apre uno spazio alla giustizia, a conside­ rare cioè il bene dell'altra persona in quanto «suo» e non soltanto in quanto «mio», poiché si tratta di un bene «per lei» con un chiaro si­ gnificato intenzionale.

5 Cf. STh, II-II, q. 29, a. 3, ad 2.

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L'amicizia comporta pertanto due dimensioni intrinseche con un influsso decisivo sull'attuazione: da un lato la mutua unione, grazie alla quale è possibile una reciproca trasformazione e una singolare concordia che permette di identificare quale sia il bene che è in gio­ co e di vederlo nella sua rilevanza; da un altro lato, l'alterità e di­ stinzione, necessaria in ogni amicizia, che apre uno spazio alla giusti­ zia, così che ci permette di indirizzare verso l'altra persona il bene che si è scoperto. A partire da questi due aspetti, l'unione e l'alterità, possiamo fa­ re un passo ulteriore per comprendere il modo con cui la persona co­ struisce le sue azioni. Le azioni sono sempre un bene e, in quanto ta­ li, qualcosa di concreto che conviene al soggetto, ai suoi dinamismi, perfezionandolo: conviene un bacio, conviene una passeggiata, con­ viene una conversazione... Nella convenienza di determinate azioni di cui uno fa esperienza per sé, per l'identificazione che si è data con l'altra persona, avverte che sono convenienti anche per lei, sono un bene, perciò desidera per lei queste azioni, le vuole per lei: «le cose amabili che sono amabili nei confronti della persona amata, proce­ dono dalle cose che sono amabili all'uomo nei confronti di se stesso, così che allora l'uomo può relazionarsi con l'altro come nei confron­ ti di sé».6 L'ambito che ci permette di comprendere ciò che è un bene per la persona amata è dunque il contesto di un'amicizia. Non si tratta di dedurre cosa convenga alla persona in ragione della sua natura, o co­ sa potrebbe anche aiutarla, o cosa sarebbe opportuno per raggiunge­ re il fine. Le azioni degli innamorati non nascono da una razionalità di calcolo, ma dalla loro interiorità: sono profondamente radicate nel loro desiderio interiore e hanno perciò una precisa impronta perso­ nale. Senza questa unione trasformante che l'amicizia ha supposto, è molto difficile capire cosa è un bene per la persona amata e trasmet­ terglielo in forma personale e significativa reciprocamente.

d. La reciprocità Le caratteristiche dell'amicizia prese in esame - la benevolenza, l'intimità e la comunicazione nel bene - richiedono ancora una nuo­ va dimensione: esistono in una reciprocità. Solo quando la benevo­ lenza è reciproca e la persona cui voglio bene a sua volta mi vuol be6 STh, 1-11, q. 99, a. 1, ad 3.

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ne, solo quando l'intimità che si è aperta in me si è aperta anche nel­ l'altra persona offrendo uno spazio comune, solo quando il bene di cui sono partecipe e mi viene comunicato è partecipato e comunica­ to all'altra persona, solo allora è possibile l'amicizia. L'altro cessa d'essere semplicemente qualcuno che approva e accoglie per comin­ ciare a essere autentico co-protagonista di una vita comune. Perché questa reciprocità sia un effettivo componente dell'ami­ cizia occorre che sia conosciuta dai suoi protagonisti. Non basta cioè che i due si vogliano bene, è necessario che sappiano di voler­ si bene. Non basta che la presenza interiore sia reciproca, occorre che uno percepisca che questa presenza c'è anche nell'altro. Non basta partecipare di un bene comune, è necessario sapere di esser­ ne partecipi. La reciprocità cui si riferisce l'amicizia perviene al suo pieno si­ gnificato nell'attuazione: è qui che si coglie la reciprocità, nel volere ciascuno dei due rispettivamente per l'altro gli stessi beni. Si tratta di un agire comune tra due persone, che comporta una composizione di elementi nuovi, che cominciano a integrarsi nel proprio agire. Vedia­ mo come. Con le nostre azioni ci indirizziamo alla persona amata, che è li­ bera in se stessa, per cui indirizzandoci verso di lei ci indirizziamo an­ che alla sua libertà, perché a sua volta re-agisca, accogliendo la no­ stra azione. Se parliamo con la persona, ci teniamo che ci presti ascolto; se l'abbracciamo, desideriamo che accolga l'abbraccio e vi si coinvolga, abbracciando a sua volta. Nella nostra azione, quando la costruiamo, indubbiamente teniamo al fatto che sia accettata dall'al­ tra persona, che provochi una risposta. Quando voglio un bene per la persona, questo bene implica innanzitutto che l'altro accolga la mia azione. Possiamo ora comprendere che l'azione dell'uomo non è mai so­ lo la «sua» azione, poiché implica sempre una «co-azione», cioè una mutua co-implicazione di azioni. È un errore limitare la considera­ zione dell'intenzionalità dell'azione «al fine previsto e predetermi­ nato, poiché nel momento in cui si immagina di volere questo fine solo in se stesso, quel che noi cerchiamo, persino senza saperlo, è in realtà qualcosa di diverso da lui, è il suo effetto, il suo dono, la sua in­ corporazione al nostro volere». 7 L'altra persona non è un mero re7 M. BLONDEL, L'azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della pras­ si, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, 311.

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cettore di attività, ma parte intrinseca di una comunicazione, che contribuisce con la propria genialità. 8 Si manifesta così nelle nostre azioni un'intenzionalità occulta, poiché la volontà si propone necessariamente in ogni intenzione di un fine anche una comunità d'azione. 9 Questa comunità d'azione non è una via a senso unico, poiché il suo valore è inscindibile dalla mutua condivisione. Con questa riflessione si può affrontare una delle grandi difficoltà che hanno offuscato l'originalità dell'amore coniugale, creando vere e proprie difficoltà alle persone. Mi sto riferendo alla pretesa di un amore disinteressato, di un amore puro. Simile pretesa ricercherebbe un amore tanto centrato e rivolto all'altra persona, che ogni interes­ se personale sarebbe visto come una macchia. Così, l'ideale dell'amo­ re sarebbe cercare il bene dell'amato fino al punto di non aver inte­ resse alla reciprocità, di non cercarla nemmeno, dal momento che ciò presupporrebbe di contaminare l'amore con il proprio egoismo, cer­ cando in definitiva se stessi. Amare fino al punto di giungere a non sperare alcunché in cambio: ecco qui la purezza dell'amore. Bisogna tuttavia affermare che un amore disinteressato compor­ ta una sottovalutazione di ciò che presuppone l'amicizia, in quanto identificazione delle persone, e un disconoscimento di ciò che è la di­ namica amorosa, che include in sé una precisa intenzione d'unione. 10 Tendere al bene della persona amata implica necessariamente ten­ dere al proprio bene, poiché il bene cui si tende è il bene di una co­ munità d'azione in cui si è personalmente coinvolti. Chi ama è vera­ mente interessato a questa comunità d'azione. Il disinteresse dell'a­ more confonde due parole importanti, ma difficili da distinguere: di­ sinteresse con gratuità. Ogni amore è sempre enormemente interes­ sato, specialmente l'amore tra l'uomo e la donna: racchiude il desi­ derio di risvegliare interesse nei propri confronti. Sopprimere il de­ siderio d'interessare l'altra persona sarebbe sopprimere la possibi­ lità dell'amore coniugale. Disinteresse non è dunque la stessa cosa di gratuità. Chi dà una cosa gratuitamente non la dà senza attendersi che l'altro l'accolga, perché la dà con lo scopo che l'accolga, la dà in­ vece per primo, prima di ricevere qualcosa dalla volontà dell'altro.

Cf. NussBAUM, The Fragility of Goodness, 343-345. Cf. BLONDEL, L'azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della pras­ si, 315. 10 Cf. D. voN H1LDEBRAND, Essenza dell'amore, Bompiani, Milano 2003, 353-411. 8 9

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Ecco la grandezza dell'amore: giungere ad amare per primo, prima che l'altro eserciti la sua libertà dandoci qualcosa. Nella co-azione entrambi, amante e amato, si comunicano un be­ ne, in una reciprocità di intenzioni che riempie di gioia. Ma si comu­ nicano soltanto «cose»? Cos'è ciò che in definitiva si comunicano? Cos'è che si trasmettono?

e. Il dono di sé Appare senza dubbio a prima vista che ciò che si trasmette con l'azione è il beneficio ricevuto che serve di mediazione nella relazio­ ne tra i due, rendendo possibile all'intenzionalità delle due persone in gioco di coincidere con questo bene che si condivide. Un benefi­ cio ricevuto può essere il piacere che un'azione provoca, la possibi­ lità di formare una famiglia, il mutuo aiuto nel mandare avanti le di­ verse imprese della vita... Si tratterebbe allora di comunicare e con­ dividere piacere, procreazione, aiuti ... È certo che l'uomo e la donna si comunicano e condividono mol­ ti benefici: beni piacevoli e beni utili. Ma non solo, poiché ogni azio­ ne, implicando il soggetto che la realizza ed essendo finalizzata a una persona, porta con sé un tipo di relazione personale che ha la sua ori­ gine nella previa esperienza da cui scaturisce l'intenzionalità perso­ nale, e cioè la presenza interiore dell'altra persona nel proprio sog­ getto agente, nel modo stesso con cui l'amato è presente nell'aman­ te.11 Ciò che si condivide, e che l'altro è chiamato a sua volta a condi­ videre, è principalmente questo modo di presenza interiore; si comu­ nica cioè il proprio amore all'altra persona nella misura in cui il bene che le si offre è capace di incarnarlo: una conversazione, un lavoro co­ mune, il dono del proprio corpo... E lo si comunica liberamente, poi­ ché la persona la desidera, coinvolgendosi in questa azione. L'amore è per questo il primo dono e l'anima dell'azione. Comunicare l'amore nel promuovere un bene per l'altra persona deve essere visto anche alla luce della dimensione fondamentale del­ la libertà che abbiamo studiato in precedenza. Ogni azione nasce dalla libertà ed esprime in certo modo l'interiorità del soggetto: è un autentico atto della persona. Per questo in ogni azione vi è una cer­ ta dimensione di donazione, poiché la donazione dell'amore tra l'uo11 Cf. J.J. PÉREz-SoeA, «Presencia, encuentro y comuni6n», in L. MELINA-I No­ RIEGA-J.J. PÉREZ SoeA, La plenitud del obrar cristiano, Palabra, Madrid 2001, 345-377.

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mo e la donna comporta una certa gratuità. La maggiore o minore misura di donazione della persona nella sua azione dipenderà dal le­ game che si stabilisce tra il bene che si condivide e l'unione affettiva. Nel campo della relazione uomo-donna vi sono azioni che senza dubbio vincolano la persona più di altre, proprio per la sfera d'inti­ mità che vanno a toccare. Ma quel che è essenziale in questo mo­ mento è comprendere che tutte le azioni che compiono, siano quelle che li riempiono di più oppure quelle nelle quali non trovano un'im­ mediata e intima reciprocità, sono azioni in cui i loro protagonisti danno molto di più del mero bene in gioco: danno se stessi nella mi­ sura in cui lo consente il bene. Nell'atto di dare se stessa nel bene, l'altra persona è chiamata ad accogliere in una reciprocità di donazione colui che si dona nella me­ diazione del bene. Il bene che si comunica sarà sempre un segno, e una mediazione, dell'amore che si vuol donare. Quanto più questo bene è espressivo della persona, tanto più pieno sarà il dono di sé, fino a giun­ gere all'identità tra il bene che si dà e la persona che lo dà, come av­ viene nel dono della vita nel martirio, atto supremo d'amore, e come avviene in un certo modo nel dono della corporeità nel matrimonio. La pienezza dell'azione non è tuttavia ancora il dono di sé che il soggetto realizza, perché il dono di sé si rivolge a una reciprocità di donazione. Ecco qua la pienezza dell'azione. Si coglie in questo mo­ do il dramma che l'amore umano racchiude, il paradosso che sotten­ de. Il dono è offerto a una persona per generare la reciprocità, ma non può causarla da sé e nemmeno pretende di forzarla: essa sarà sempre frutto della libertà dell'altra persona. Donandosi si attende la reciprocità dell'altro come un autentico dono. Nasce così una di­ stanza tra il dono che si realizza e la reciprocità che si genera. Una distanza che tante volte comporta per gli amanti un'autentica soffe­ renza, poiché la pienezza che si cercava viene messa in dubbio.

f. La tenerezza Possiamo ora comprendere come queste azioni, in cui c'è un do­ no di sé della persona, manifestino una sovrabbondanza d'amore, che potremmo chiamare tenerezza. 12 Come potremmo comprendere questa realtà tanto importante nell'amore coniugale? Non basta

12 Cf. D. VON HlLDEBRAND, Purity. The Mystery of Christian Sexuality, Franciscan University Press, Ohio 1997.

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un'analisi che si arresti al vissuto che di essa possano fare le perso­ ne, dal momento che in questo modo non sarebbe possibile valutare la verità che comporta, come avviene in tante relazioni nelle quali la tenerezza è vista semplicemente sotto uno dei suoi elementi, l'em­ patia. È solo quando si tenta di approfondire la sua realtà che appa­ re il suo fondamento. Procediamo per gradi. La tenerezza richiede un contesto. Si tratta fondamentalmente del contesto propiziato dall'intimità che, come sappiamo, si riferisce a una singolare presenza dell'amante nell'amato, reciproca, che uni­ sce in uno stesso destino. È così che uno può riconoscere nell'altra persona l'amato che si porta dentro, colui che gli ha aperto un oriz­ zonte nuovo, colui che lo ha tanto arricchito, colui che è tanto ap­ prezzato, non solo per le sue qualità, ma per essere la persona che è e per come è. La tenerezza esige quindi il riconoscimento dell'origi­ nalità della persona, della sua unicità e irripetibilità. Questa mutua presenza interiore produce però una singolare empatia tra i suoi protagonisti. Non solo si riconosce l'altro come l'a­ mato, ma si fa esperienza dell'amato nella propria interiorità, facen­ do nostri i suoi stessi stati interiori, le sue stesse motivazioni. In que­ sto modo si stabilisce un mutuo vincolo tra amato e amante che è percepito in sommo grado piacevole. Questa presenza e questo mutuo legame generano il desiderio di comunicare la propria stima, la propria vicinanza che si vive già al proprio interno, manifestando la prossimità. Ciò che si vuole comu­ nicare nella tenerezza è una presenza: la propria presenza in quanto si fa compagnia dell'altro. Si comunica poi mediante gesti, che acquistano così un valore si­ gnificativo. Con i gesti di tenerezza attraverso il tatto, attraverso gli sguardi, attraverso le parole, gli amanti si trasmettono qualcosa di più grande del gesto in sé. Il valore peculiare di questi gesti sta in in­ trinseca relazione con ciò che vogliono significare in virtù dell'e­ sclusività del significato: si trasmette l'esclusività di una presenza, di una compagnia. E ciò si fa mediante l'esclusività dei gesti: soltanto a quella persona amata esprimiamo l'esclusività dell'amore per mezzo dell'esclusività di tale gesto. Si tratta di un gesto che è esclu­ sivo per lei. In questo modo è possibile comprendere come attraverso alcuni atti che trasmettono un piacere sensuale, che soddisfano un deside­ rio sensuale e affettivo, il che è un bene per la persona, è possibile trasmettere qualcosa di più che un piacere. Con esso si sta trasmet­ tendo l'esclusività di una stima, di una presenza, di una benevolenza,

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di una reciprocità. E si trasmette tutto ciò perché il desiderio sen­ suale è integrato in un amore personale, che riconosce l'unicità e l'ir­ ripetibilità della persona amata. È qui che acquista tutta la sua forza il valore della tenerezza. In essa c'è un autentico riconoscimento della persona. Ed è proprio per questo che i gesti di tenerezza sono tanto importanti nella vita amo­ rosa. Non si tratta di un semplice sentimento evanescente con cui uno si sente desiderato, ma di una realtà nella vita degli innamorati costituita principalmente da ciò che nelle azioni danno di se stessi, la­ sciando trasparire le proprie intenzioni. La tenerezza esprime il do­ no di sé delle persone.

2. La finzione dell'intimità: l'omosessualità Una volta analizzato ciò che è l'amore interpersonale tra l'uomo e la donna con i diversi elementi coinvolti, occorre che ci soffermia­ mo brevemente su una sua deviazione o degradazione: l'amore omo­ sessuale.13

a. La questione in gioco Si tratta di un problema complesso che, riguardando la persona, tocca diversi ambiti della vita: psicologico, sociologico, medico, poli­ tico, morale. Preso atto della confusione cui ci si trova davanti, è sem­ pre necessario distinguere con chiarezza quello che è il problema di fondo dell'omosessualità dalla questione messa sul tappeto dal mo­ vimento gay, dal momento che quest'ultimo mette in gioco una ri­ vendicazione di carattere sociale e politico con una forte pressione sociale, uno dei cui fondamenti si riscontra nella «teoria del genere». La teoria del genere distingue tra ciò che è il sesso biologico o identità sessuale anatomica e ciò che è il sesso psicologico o identità sessuale psicosociale. La prima risulterebbe determinata dalla costi­ tuzione cromosomica e organica, con un indiscutibile fondamento biologico, che non riguarda tuttavia il problema in questione, per cui si ridurrebbe a cosa senza rilievo. La questione si focalizza piuttosto sull'identità psicosociale, con la quale l'individuo colloca se stesso nella società assumendo determinati ruoli. Questa identità viene de13 Si veda il numero monografico sul tema nella rivista Anthropotes (2004).

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terminata dalla società, dalla cultura al cui interno uno vive ed è edu­ cato e anche dalla propria scelta. 14 In quest'ambito le differenze tra maschio e femmina sono accidentali, mere costruzioni operate dalla cultura: non si nasce né uomo, né donna, ma ti fanno uomo o donna. E questo è così perché l'identità sessuale psicosociale non è una realtà assegnata fin dall'inizio. È ogni persona a dover costruire la propria identità sessuale psicosociale senza essere in ciò coartata da determinati pregiudizi sociali o morali. Questa impostazione pone in evidenza un fatto decisivo: l'assun­ zione dell'identità personale non è unicamente un dato, in continuità con la biologia, dal momento che l'orientamento sessuale è anche il risultato di una storia e non di un dato che si imponga sin dalla na­ scita. Come un bimbo deve accettare i suoi genitori, così come acce­ tare il colore della sua pelle o determinate capacità o limiti, allo stes­ so modo deve costituire la sua identità sessuale psicologica, aspetto che di norma si consolida senza problemi ulteriori, ma che in certe circostanze può supporre una difficoltà e un grave conflitto. Ponendo allora in evidenza questo fatto, tuttavia questa impostazione nascon­ de il problema di fondo che si colloca propriamente nella relazione tra l'identità anatomico-corporale e l'identità personale-relazionale, ovvero la questione del fondamento dell'identità personale-relazio­ nale e il ruolo che assume al suo interno il corpo. Se l'«io» non può essere compreso senza il «tu», è necessario vedere su cosa si fonda ta­ le relazione. In questo modo, perché una persona possa, per esempio, riconoscersi come figlio e instaurare una relazione di filiazione, oc­ corre che si appoggi sul fatto della generazione oppure, ove occorra, dell'adozione da parte di un altro. Il modo in cui tale fondamento vie­ ne assunto dalla persona e struttura una relazione costituisce l'iden­ tità relazionale. Se un bambino, grande amico di un suo compagno di classe, volesse avere un rapporto con il padre del suo amico ponen­ dosi come figlio, tale rapporto mancherebbe di qualsiasi fondamento, si tratterebbe di una finzione e, per quanto simpatico possa essere questo adulto per lui, non sarebbe suo padre, e, anche se il bambino si comportasse come figlio, non sarebbe suo figlio: manca un fonda­ mento, non è sufficiente sentirsi figlio di qualcuno per essere tale. Da un altro lato, e in ordine all'evitare confusioni riguardo al fondamento della dignità della persona, è anche necessario distin14 Cf. T.ANATRELLA, «Le conflit des modèles sexuels contemporains. À propos du concept de "gender"», in Revue d'éthique et de théologie morale 215(2000), 29-74.

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guere la persona dall'inclinazione sessuale che ha e dalle azioni che compie. La dignità della persona si riferisce al fatto ontologico che la persona soltanto sussiste in se stessa ed è capace di governare se stessa: si trova qui la radice dell'assoluta e originale dignità d'ogni persona. Il fatto che essa abbia una o l'altra inclinazione sessuale non mette in dubbio la sua dignità in quanto persona, meritevole d'ogni rispetto per il fatto di essere persona. Si fa poi oggi confusione su questo punto: a partire dal rispetto che si riferisce alla persona in quanto tale, si tende a invocare il rispetto e l'accettazione sociale del­ l'inclinazione sessuale e dell'attività omosessuale per il fatto che at­ tengono alla persona. Ora, il rispetto che merita l'inclinazione ses­ suale non si basa sul fatto di essere «di una persona», ma invece sul­ l'essere un'inclinazione «buona», cioè ordinata, nella misura in cui porti verso una vita buona, come abbiamo visto. Vi sono determina­ te inclinazioni della persona che non meritano da noi alcuna appro­ vazione, come appare ben chiaro nel caso della cleptomania o della piromania. Nessuno che fosse sano di mente penserebbe che la ri­ vendicazione di rubare da parte di un cleptomane meriti il rispetto e l'appoggio sociale. Sostenere che, per il fatto di non riconoscere que­ sta rivendicazione e il preteso diritto all'eguaglianza in quanto clep­ tomane, uno sia clepto-fobico è, sinceramente, ridicolo. Nell'omoses­ sualità la questione non è se si è omo-fobici o no, ma se quell'incli­ nazione è buona oppure no. Data la grande varietà di sfumature e di prospettive in base alle quali si può studiare l'omosessualità, ci interessa soprattutto la pro­ spettiva morale; la prospettiva che, nel caso che ci riguarda, pone in relazione l'inclinazione sessuale e le azioni che si compiono con la pienezza cui l'uomo è chiamato, vale a dire la pienezza di comunio­ ne personale. Solo a partire da questa visione di un significato glo­ bale della vita è possibile pervenire a un giudizio adeguato sull'incli­ nazione omosessuale. Cos'è, precisamente, l'omosessualità? Nel caso dell'omosessualità siamo di fronte a una persona che ha un'inclinazione sessuale affetti­ va verso una persona dello stesso sesso, indirizzandola verso una co­ munione corporea attraverso l'interazione mutua e libera degli orga­ ni genitali. Tale inclinazione si presenta in forma diversa nell'omoses­ sualità maschile, più centrata sulla soddisfazione, rispetto alla sessua­ lità femminile, più centrata nella ricerca emotiva e di sicurezza. Nelle persone che vivono questa inclinazione si presenta con più o meno chiarezza la seguente questione: «Non devo forse esser sin­ cero con i sentimenti di cui faccio esperienza?». Così impostata, la

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questione si riferisce a una «sincerità» dei sentimenti che prescinde dalla loro verità. La loro verità è ciò che invece ci interessa.

b. Identità sessuale relazionale e intimità Il tema che occorre approfondire è precisamente l'unione affet­ tiva che sta all'origine dell'inclinazione: non si tratta ora di chiarire la sua genesi, il modo cioè con cui si è giunti a essa, ma quel che com­ porta in sé tale unione affettiva, cioè la presenza all'interno di una persona dello stesso sesso che inclina a una comunione sessuale tra due identici. Il concetto chiave è qui quello di intimità. È su questo punto che si basano coloro che la sostengono. 15 In precedenza si è definita l'in­ timità come lo spazio che si genera nell'interiorità delle persone nel momento in cui scoprono la presenza di un altro che spinge ad acco­ glierlo e a promuovere il suo bene. Essa richiede l'accettazione della soggettività personale in tutto ciò ch'essa comporta, cioè l'accettazio­ ne della persona nella sua totalità, offrendo uno spazio in cui possa es­ sere se stessa; comporta pertanto l'accoglienza della persona anche nella sua identità sessuale che si riferisce a una differenza, la quale rende possibile una comunione nuova con un preciso significato. Nel caso dell'omosessualità vi è l'accettazione della persona, cer­ to, poiché la si accetta in quanto altra, capace di libertà. Questa alte­ rità non riguarda però il corpo, e la sua differenza, che è visto non tanto come espressione della persona quanto invece come occasione di una soddisfazione sensuale e affettiva. L'intimità che si crea tra due persone che accettano una relazio­ ne omosessuale, dal momento che non include la differenza sessuale come costitutiva dell'identità della persona e della possibilità di co­ munione, implica una finzione.16 Apre all'altro uno spazio, però in una complementarità fittizia, ché non si appoggia sulla differenza corporea, ma sul compiacimento affettivo che se ne ricava: è qui che si trova il fondamento di una relazione omosessuale. È così che l'al15 Cf. M.C. NussBAUM, «Is Homosexual Conduct Wrong? A Philosophical Ex­ change», in A. SoBLE, The Philosophy of Sex. Contemporary Readings, Rowman and Littlefield Publisherss Lanham-Boston 2002, 100-102. Originalmente in The New Re­ public, 15 november 1993, 12-13. 16 Cf. L. MELINA, «Criteri morali per la valutazione dell'omosessualità», in An­ tropologia cristiana e omosessualità, Quaderni de L'Osservatore Romano, Città del Vaticano 2003, 103-110.

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terità subisce una riduzione, cessando di radicarsi nella differenza corporea. Abbiamo parlato in altri capitoli di come la sessualità possieda una dimensione simbolica intrinseca, che si riferisce al significato che si scopre in essa e alla pienezza che comporta. A differenza degli al­ tri animali, la persona umana non vive la sessualità come una mera soddisfazione dell'istinto, ma percepisce in essa un senso più o meno razionale, configurando così un simbolo che lo significa. Con ciò si vuole indicare che va ben al di là del senso intravisto, che sfugge a una completa razionalizzazione. Che valore simbolico assume il mu­ tuo interagire sessuale per un omosessuale? Quali fattori integra? Da lui sono senza dubbio assenti la differenza sessuale e la possibi­ lità della fecondità, di comunicare il suo amore. Prevale di conse­ guenza un gioco sessuale che permette un'esperienza della propria sessualità rinchiusa nei sentimenti che genera. Non è facile evitare il narcisismo che ogni esperienza sessuale comporta,17 proprio per il fatto che evita di confrontarsi con la dif­ ferenza in quanto costitutiva della relazione, senza accettare la pro­ pria identità sessuale e l'identità sessuale dell'altra persona. Non è cosa futile l'identità sessuale del corpo e la configurazione dell'incli­ nazione sessuale, precisamente perché la corporeità è una dimensio­ ne costitutiva dell'essere personale. Nell'omosessualità non ci tro­ viamo davanti un'anomalia cromosomica od organica, ma di un di­ sordine nell'inclinazione di una persona che, essendo in possesso di una precisa identità sessuale, tende tuttavia psicologicamente all'u­ nione con persone dello stesso sesso quando il corpo non è comple­ mentare, forzando la complementarità. Ecco che il corpo perde il suo significato sponsale e arriva a essere un materiale da sfruttare. 18 Una simile inclinazione non consente pertanto alla persona di or­ dinarsi verso la propria pienezza in una comunione che accetti l'al­ tro nella sua piena alterità e differenza. Il fatto in questione non si­ gnifica di per sé che la persona sia in peccato, ma semplicemente che, in modo analogo ad altre inclinazioni quali la cleptomania o la piro­ mania, ha un'inclinazione che non l'ordina a un'autentica comunio­ ne con gli altri. 19 17 Cf. T. ANATRELLA, Le regne de Narcisse, Presses de la Renaissance, Paris 2005. 18 Cf. K. FLANNERY, «Homosexuality and Types of Dualism: A Platonico-Aristo­ telian Approach», in Gregorianum 81(2000), 353-372. 19 Cf. CoNGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Homosexualitatis problema 7 e 10.

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c. Valutazione delle azioni Occorre ancora approfondire la valutazione morale dell'atto li­ bero che compie una persona omosessuale quando segue la propria inclinazione: nella sua fantasia direttamente coltivata, o in una ma­ sturbazione con illusioni omosessuali, o in un atto genitale con un'al­ tra persona dello stesso sesso. Ci troviamo qui ora di fronte a un practicum; cioè davanti a un'azione liberamente costruita dall'uomo in base a una motivazione, e non davanti a un factum, come potreb­ be essere nel caso dell'inclinazione. L'intera attività pratica è governata dalla ragion pratica che, a partire dall'individuazione del fine, ordina l'attività a conseguirlo. Se appoggiandosi sull'inclinazione omosessuale e sul fine che essa gli indica, rivolto a una comunione fittizia che non accoglie l'alterità della differenza sessuale né si fonda su di essa per la relazione, il sog­ getto agisce assecondandola, con la sua azione non potrà conseguire la vera comunione con l'altra persona. È certo che possono esserci un autentico desiderio di comunione e una grande sincerità di senti­ menti; tuttavia né i sentimenti in se stessi, né il contesto d'amore po­ tranno fare sì che un'azione che in se stessa è disordinata possa or­ dinarsi a un fine buono, cioè attualizzarlo. Esiste una verità dei no­ stri sentimenti, come esiste una verità dell'amore che non dipende dalla nostra libertà. La maggiore difficoltà è che la relazione omosessuale impedisce l'autentico dono di sé, dal momento che impedisce l'accoglienza del­ l'altro nella sua propria e piena identità. Agendo così non si potrà mai raggiungere una vita riuscita. La questione della responsabilità delle azioni non è la questione dell'oggetto morale delle nostre azioni. La domanda sull'oggetto morale si riferisce a cos'è ciò che io sto facendo e qual è la sua unità intenzionale. La domanda sulla responsabilità si riferisce al modo in cui la libertà viene coinvolta in ciò che si compie, se con piena con­ sapevolezza e deliberato consenso, oppure per l'inclinazione che si possiede perché è stata accettata. Può darsi che uno non sia respon­ sabile dell'inclinazione che subisce, o che, pur essendone responsabi­ le, rigetti quello che l'ha originata. Siamo però responsabili di ciò che facciamo. Se l'inclinazione omosessuale non si è forse scelta, certo si può scegliere il modo di viverla. Si capisce così che anche le persone omosessuali sono chiamate, come tutti, a vivere la castità propria del loro stato riguardo alla verità delle relazioni che Io costituiscono e non solo in rapporto al sentimento.

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D'altra parte, la stessa prospettiva biblica ci aiuta a comprende­ re la trascendenza della condotta omosessuale, precisamente per il fatto che comporta una negazione del progetto creatore di Dio che passa attraverso la creazione del corpo sessuato. Nel presupposto di questa negazione non è possibile accogliere la sua azione salvifica nel Regno (Rm 1,18-32; lCor 6,9; lTm 1,10). Nell'opera educativa e pastorale è necessario evitare di trasmet­ tere una duplice errata concezione della responsabilità: da un lato il pensare che le persone omosessuali non possano controllare i propri desideri; dall'altro, pensare che siano totalmente libere di governare le proprie fantasie e sentimenti.20 L'accoglienza di queste persone realizzata da parte della comunità cristiana, offrendo loro uno spazio di vera amicizia in cui sia chiaro il rispetto per la loro dignità perso­ nale, sarà decisivo perché possano comprendere il percorso che de­ vono compiere, associando le difficoltà della loro condizione al sa­ crificio della croce.21

3. Conclusione Il linguaggio dell'amore implica la volontà di comunicare qual­ cosa a qualcuno, ma anche le parole per farlo, le quali debbono es­ sere in grado di scommettere la nostra propria intimità. Queste pa­ role, cioè, le nostre azioni, hanno il loro senso nel fine che noi cer­ chiamo. Amare è comunicare qualcosa a qualcuno: amare è agire per qualcuno. Perché «imparare ad amare»? Non è forse una cosa con­ naturale all'uomo? Amare non è un'attività semplice. Comporta una composizione, una costruzione: la costruzione dell'amore. Parlare di «costruzione» richiama alla mente un'intuizione, un progetto, un processo, mate­ riali diversi... Costruire è un'attività complessa, non si verifica di col­ po. Amare è simile a costruire. È un'attività complessa, non si ama di colpo, con il solo sentire o il solo volere, ma si va invece imparando ad amare nel cammino della vita, a costruire azioni d'amore nelle quali realizzare e porre in atto l'intuizione che la stessa esperienza d'amore ha reso possibile. 20

J.F. HARVEY, The Truth about Homosexuality. The Cry of the Faithful, lgnatius

Press, San Francisco 1996.

21 Cf. CONGREGAZIONE PER LA D01TRINA DELLA FEDE,

Homosexualitatis problema

7. Vedere anche ID., Persona humana 8 e Catechismo della Chiesa cattolica 2357-2359.

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Amare è un'attività complessa che comporta, tuttavia, un atto sintetico: parte sempre cioè da un'intuizione che viene data all'indi­ viduo. Allo stesso modo con cui il poeta o il pittore compongono la loro opera movendo dall'intuizione della bellezza, così anche l'a­ mante compone le sue azioni a partire da un'intuizione: l'amore alla persona, che ha ricevuto come un dono nell'esperienza dell'amore. Un dono che l'ha arricchito, che l'ha trasformato. Un dono che è una presenza, un'unione affettiva. La costruzione parte sempre da que­ sto amore ricevuto. Perché ogni amore elettivo è prima di tutto un amore affettivo. Si costruisce partendo da un'intuizione, impiegando materiali di­ versi: ponendo in armonia elementi che altrimenti non si riconosce­ rebbero. L'armonia fondamentale che l'atto d'amore stabilisce può essere colta in due aspetti dell'esperienza d'amore: da un lato, la re­ lazione che stabilisce tra la dimensione intersoggettiva, cioè l'amore alla persona, e la dimensione oggettiva, cioè l'amore al bene per la persona. L'armonia delle due dimensioni costituisce l'atto d'amore. Non tutto nell'amore è soggettivo. Possiamo comprendere ciò che si­ gnifica dire o ascoltare: «ti amo». Non si tratta di riflettere semplice­ mente un sentimento, ma un cammino di costruzione, la costruzione di una comunione mediante la realizzazione di azioni che sono un bene per la persona. Dall'altro lato, la costruzione dell'amore comporta lo stabilire un'armonia tra il momento intenzionale che si indirizza al fine e il momento elettivo che si indirizza verso quello che è per il fine. Ecco qui l'unità intenzionale dell'agire. Tra i due momenti vi è una corre­ lazione stabilita dalla ragion pratica grazie alla quale è possibile rag­ giungere il fine in una grande varietà di mediazioni. Ora si tratta di una costruzione reciproca. Un mutuo ca-agire, in cui l'elemento intenzionale che si dirige verso il fine e l'elemento d'elezione di ciò che è per il fine sono visti da parte di entrambi i co­ autori in una scambievole concordia. Imparare ad amare ha come primo passo rendersi conto che co­ struire una comunione di persone è un atto complesso, ma che parte da un principio sintetico per entrambi i protagonisti: il loro amore. Que­ sto cessa d'essere un mero sentimento che rinchiude le persone nel lo­ ro vissuto emotivo per cominciare a essere un elemento dinamico che permette la costruzione di una vita. Il dramma dell'interpretazione ro­ mantica è stato superato, senza perdere tuttavia la sua intuizione. L'a­ more non è solo un sentimento, ma un motore di azioni in forza del quale le persone possono uscire da se stesse e costruire una vita.

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Spuntano allora problemi nuovi, dal momento che le azioni che l'amore costruisce sono sempre azioni concrete, particolari, contin­ genti, circostanziate, apparentemente piccole ed insignificanti. Con quale criterio si possono costruire azioni tanto particolari? Basta la semplice intelligenza?

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Parte terza

Un amore eccellente: castità e carità

Introduzione

La comunione delle persone si costruisce con atti d'amore, mol­ to vari e differenti, nei quali i loro protagonisti, componendo le azio­ ni a partire da materiali diversi, vivono un autentico, reciproco dono di sé. È così che trovano la pienezza ultima cui l'esperienza d'amore li chiamava. Ma come è possibile costruire queste azioni quando si tratta di azioni tanto varie, tanto contingenti e particolari? Si tratta di inventare una vita, di ideare un cammino, di trovare canali di co­ munione: una vita che non è scritta, un cammino che non è tracciato, canali che non sono scavati. Davanti a questa situazione di novità gli amanti si trovano di fronte a un'autentica sfida. Se da una parte vogliono amare, da un'al­ tra non sanno amarsi. Tra ciò che sono adesso e quello che desidera­ no arrivare a essere si trova una vera distanza che minaccia l'amore nella sua stessa radice, facendo loro perdere la speranza. Come co­ struire la comunione cui tanto si anela? Sarebbe come pretendere da uno che ha avuto la sua prima intuizione poetica che butti giù un so­ netto con la facilità di un Lope de Vega. Sotto un altro aspetto, insieme a questa impreparazione sorge la difficoltà della frammentazione dell'esperienza d'amore che una persona può vivere. Il pericolo consiste nel fatto che le diverse di­ mensioni dell'amore, corporale, affettiva, personale e religiosa, non trovano nel soggetto un'unità operativa, frammentandolo nelle di­ verse esperienze da lui vissute che non hanno una vera unità di con­ dotta e lo muovono a cose diverse. Come può la persona essere au­ tentico soggetto della propria azione in un'unità di vita se si trova a

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che fare con una frammentazione in se stesso? Di più, l'esperienza frammentaria esiste non solo all'interno del soggetto, ma tra i due amanti, con ritmi distinti e diverse esperienze. Come giungere a un mutuo co-agire quando si sente in modo diverso, quando si deside­ rano cose diverse? È qui che nasce il grande problema di tutta la morale sessuale: il problema dell'integrazione del soggetto morale affinché possa co­ struire in modo eccellente una vita di autentica comunione. Al di là di un mero problema di norme e di rettitudine dell'agire concreto, ciò che è in gioco è la stessa capacità del soggetto di costruire una vi­ ta di vera comunione. L'eccellenza delle azioni dipenderà principalmente dall'eccel­ lenza del soggetto, da una sua qualificazione singolare, da un'arte nuova che ha acquisito. Come potrà arrivare a impadronirsi di que­ sta qualificazione? In qual modo l'aiuta in questo la stessa dimen­ sione trascendente? Come la reciprocità dell'amore di Dio vissuto nel cuore dell'uomo lo coinvolge in una trasformazione di tutti i suoi dinamismi? Si tratta di problemi che riguardano le grandi speranze degli uo­ mini e delle donne. L'insuccesso di tanti amori non si deve soltanto né maggiormente, a una mancanza di chiarezza iniziale o di genero­ sità, ma a una mancanza di preparazione, di lavoro sulla propria sog­ gettività in modo tale che renda possibile una vita comune. Non è sufficiente il sentimento, né la generosità, né la decisione: occorre avere soprattutto la capacità di portarlo avanti, sapere come inven­ tare canali d'azione, come far progredire la comunione promessa in circostanze che cambiano e si fanno avverse. È l'abilità propria di un'arte, l'arte d'amare, che a nessuno di noi è stata data per natura, ma che tutti siamo chiamati a conquistare.

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Capitolo decimo

La difficoltà di amare

Non tutto si mostra limpido e chiaro nell'esperienza d'amore. Si scoprono anche delle difficoltà, più ancora, delle ambiguità. Chi po­ trà negarlo? Vediamo quali sono: considereremo le difficoltà che riguardano l'essenza stessa dell'amore fino a giungere a quelle che sono soprav­ venute come conseguenza del male.

1. La particolarità e contingenza delle azioni La novità supposta dalla vocazione all'amore nelle persone, in­ sieme all'esperienza ch'essa suscita, porta con sé anche una certa perplessità. Si desidera sinceramente costruire delle azioni nelle qua­ li incontrarsi con l'altra persona, ma tante volte non si sa come co­ struirle, che fare, in che direzione continuare. È il momento in cui il soggetto coglie da un lato la grandezza delle azioni, poiché gli con­ sentono di conseguire ciò che più ama, ma da un altro lato la loro enorme fragilità, poiché si tratta di azioni contingenti, particolari, cir­ costanziate. In che senso le azioni sono contingenti e particolari? Per esempio, azioni nelle quali ieri si incontrava la persona e l'in­ timità con lei, oggi creano un grande fastidio e l'altro le respinge. De­ terminate iniziative che in precedenza sono riuscite, oggi si avverto­ no vane, mancanti d'ogni valore. Manifestazioni concrete di affetto che ieri univano le persone, oggi le bloccano, si considerano persino

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puerili. Ieri era tutto allegria e gioia, oggi tutto è tristezza e melan­ conia: impossibile stabilire una conversazione, un'iniziativa, un ricor­ do comune che susciti la speranza. Ciò che era valido ieri, oggi ha cessato di valere. Ciò che ieri era rifiutato, oggi viene proposto come un'alternativa. Gli innamorati cominciano a scoprire la gamma tan­ to varia di colori con cui dipingere e vanno imparando, poco a poco, a mescolarli.

2. La fragilità dell'amore Dire che le azioni sono particolari e contingenti significa allora dire che sono sempre relative alle persone e alle loro circostanze. La persona può vivere l'esperienza d'amore concentrandosi su qualche determinata dimensione dell'amore, quella corporea o quella affetti­ va, per esempio, essendole difficile integrare le altre, quella persona­ le o quella religiosa, che non giungono a essere neppure adeguata­ mente valutate. È così che i diversi dinamismi dell'amore, che nella loro ricchezza offrivano nuove possibilità, ora racchiudono in sé una certa tensione, perché si vogliono cose diverse, rendendo difficile nell'uomo il governo dei differenti livelli in un'unità di condotta: na­ sce così tra loro un potenziale conflitto. Quali sono le difficoltà proprie di ciascuno dei livelli dell'amore? Al livello corporeo ci imbattiamo nella difficoltà per cui il sog­ getto, facendo centro sui valori corporei dell'altra persona e finaliz­ zando i propri stessi desideri a questi valori, può dimenticare la stessa persona e finire per utilizzarla per il piacere e la soddisfazio­ ne ch'essa provoca. Gli interessa il sesso in quanto tale, la soddisfa­ zione sensuale che produce, ma perdendo di vista il fatto che sia «con questa persona», cioè l'originalità propria di una relazione in­ terpersonale. Ma, invece, non è forse questa originalità quella che propriamente giustifica le relazioni coniugali? Nel vissuto proprio degli sposi, solamente perché è con questa persona che si vuole e si desidera tale relazione. A livello affettivo può insorgere una difficoltà diversa e che, per la carica emotiva che porta con sé, può trasformarsi in un vero con­ flitto. Caratteristico di questo livello è la particolarità delle qualità af­ fettive che sono colte in tale persona, i valori che la distinguono ri­ spetto ad altre. Ora, facendo centro sui valori affettivi legati al modo proprio della mascolinità e femminilità, l'intelligenza, la tenerezza, il coraggio ... si può trascurare la realtà di tali valori e rifugiarsi in un

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processo di idealizzazione, che faccia del proprio amato un autentico principe azzurro. In tal caso, non interessa la realtà dell'amato come è in se stesso, ma come uno si è immaginato che sia, con le qualità che gli si sono attribuite e nel grado e ordine in cui gli sono state asse­ gnate. Di fronte a questa contraffazione, si coglie come non interessi più tanto la presenza reale dell'amato quanto la risonanza affettiva prodotta dalle qualità ricreate nell'immaginazione; se poi nella realtà manca di questi valori o ha questi difetti... non ha più importanza. Questi amanti romantici hanno perso di vista la realtà della persona e le sue circostanze: possono persino essere uno insieme all'altro sen­ za accorgersi della sofferenza e delle difficoltà dell'altra persona. Anche a livello personale si trova una possibile contraffazione dell'amore poiché, nel momento in cui si scopre il mistero della per­ sona, la sua profondità, si può perdere la simpatia propria dell'affet­ to, il carattere ludico della sessualità, e viverla troppo seriamente, dando origine a un modo puritano di vivere l'amore. L'amore sareb­ be visto come un dono di se stessi che richiede un contesto interper­ sonale e un preciso atto della volontà e della coscienza: così, per tut­ to il tempo in cui non fosse dato questo preciso contesto, la sessua­ lità e l'affetto resterebbero come ibernati, nell'attesa di un muta­ mento nell'altra persona. Certo che tale contesto è importante, ma una visione di questo genere si sovraccarica di una tonalità eccessi­ vamente spiritualista ed esigente, che lo rende incapace dell'atten­ zione affettiva per l'altra persona. Da ultimo, anche a livello religioso troviamo un pericolo: il peri­ colo di pretendere di vivere la comunione con Dio senza tenere vera­ mente conto dell'altra persona. Vale a dire, vivere il rapporto con Dio separatamente, al margine della mutua comunione, o, al contrario, cer­ cando di imporre al coniuge la propria modalità spirituale di vivere. Si tratta di diversi livelli o dimensioni dell'amore che esistono in un unico soggetto, e nell'esperienza può insorgere un autentico con­ flitto, poiché questi livelli non vengono armonizzati dalla natura. Co­ sì la persona può sperimentare con grande forza l'attrazione dei va­ lori corporei, mentre a livello personale è pienamente conscia del fatto che non può lasciarsi prendere solamente da questa attrazione, poiché questo equivarrebbe a usare l'altro. Si tratta perciò di espe­ rienze che si possono vivere in forma frammentaria rendendo vera­ mente difficile alla persona il dominarsi e integrarsi, giacché richie­ dono cose distinte. L'uomo fa esperienza di una divisione dentro di sé, che tende a soffocare l'apertura del desiderio a una felicità ulti­ ma, concentrandolo nelle sue dimensioni parziali.

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3. La comunità d'azione La difficoltà non consiste tuttavia soltanto nel fatto che una per­ sona possa vivere una frammentazione della propria esperienza d'a­ more, ma che il suo amare faccia riferimento a un'interazione reci­ proca con un'altra persona, la quale ha dei differenti ritmi e diffe­ renti esperienze. Un individuo può avere risolto dentro di sé le ten­ sioni dell'amore ma, cercando una comunanza d'azione, può trovare che l'altro o non ha ancora risolto le tensioni che l'amore porta con sé oppure, avendolo fatto, ha una struttura corporea e affettiva con ritmi diversi dai suoi, così che insorge una disarmonia. L'esperienza d'amore ha certamente per entrambi supposto un livello minimo di accordo riferito al fine dell'intenzione principale, cioè l'ideale di vita buona vissuta in mutua comunione d'amore. Ora però la difficoltà consiste nelle azioni concrete con cui vivere questa comunità di persone, dal momento che si tratta d'azioni che, come beni pratici, si rapportano ai dinamismi affettivi dei loro protagoni­ sti. In questo modo si coglie la difficoltà a comprendere quanto con­ vengano determinate azioni, poiché fanno riferimento non a una so­ la delle persone e alle disposizioni in cui si trova, ma a due, con di­ sposizioni che differiscono. Una persona può, per esempio, desidera­ re un'unione coniugale, quando da parte dell'altra tale azione non è vista come ciò che è opportuno e conveniente in quella situazione. Spunta in tutta la sua drammaticità la difficoltà di costruire in co­ mune azioni nelle quali vivere la comunione reciproca.

4. La concupiscenza Le difficoltà analizzate sinora corrispondono alla struttura pro­ pria di un amore tra due persone che sussistono in un'unità di corpo e anima. L'esperienza dell'amore, rivelando la complessità dei suoi elementi, comporta una chiamata alla loro unificazione. Questa chia­ mata si vede tuttavia distorta e impedita da un nuovo elemento che va a complicare sensibilmente la costruzione dell'amore: si tratta di una corruzione originale del desiderio, in forza della quale si tende ai beni parziali del piacere sensuale e dell'affetto, perdendo però di vista l'orizzonte complessivo di felicità nella comunione con Dio. Questa corruzione ha ricevuto nella storia della teologia il nome di «concupiscenza».

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L'origine di questa corruzione del desiderio si situa nella preisto­ ria dell'uomo, quando, ricevendo da Dio un preciso comando di non mangiare dell'albero della conoscenza del bene e del male, sedotto dal serpente, egli pone in dubbio il dono di Dio nella creazione e ne man­ gia. Dopo il peccato del paradiso, tra le cose che vengono immediata­ mente alterate è il mutuo sguardo di Adamo ed Eva: «Allora si apri­ rono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi» (Gen 3,7). Lo sguardo precedente, che godeva della bellezza e bontà della persona, partecipando dello sguardo di Dio, ora si trasforma. «Spezzato il vin­ colo della giustizia originale - afferma Tommaso d'Aquino - in cui si trovavano tutti i dinamismi umani con un certo ordine, ora ciascun di­ namismo tende al movimento proprio»,1 indipendentemente dagli al­ tri. Si introduce così un principio di frammentazione attivo nella con­ dotta dell'uomo che finisce per decomporre la sua unità. E si trasfor­ ma perché la volontà e il cuore dei due non sono più uniti a Dio. Nasce in tal modo uno sguardo che si fissa sul corpo come possi­ bile oggetto di piacere, dimenticando il suo carattere personale e sponsale, come non fosse destinato a rendere possibile la comunio­ ne, ma il godimento. 2 La persona, nell'esperienza della concupiscen­ za, si separa dal significato sponsale del proprio corpo, riducendo l'o­ rizzonte intenzionale del proprio desiderio e con ciò annulla lo spa­ zio di intimità. Da allora, questa eredità di Adamo ed Eva, nella dif­ ficoltà di integrare il proprio desiderio che non è più ancorato in Dio, va a intaccare l'intera loro discendenza, ogni uomo della storia. L'amore si fa «curvo», conduce fino all'altra persona, certamen­ te, ma per incontrare in lei il proprio piacere e la propria soddisfa­ zione. Si tratta di un amore che è deturpato e deformato, perché, di­ rigendosi verso l'altro nella sua corporeità o affettività, non lo rag­ giunge come persona. In fondo, ci troviamo davanti al pericolo che il desiderio faccia centro sul soggetto in se stesso, dimenticandosi del­ l'altro. Non è dunque l'altro il fine dell'azione, fine simpliciter et per se, ma è invece un mezzo per me: la persona dell'altro si trasforma in un bene per me perdendo di vista la prospettiva del bene comune, del destino ultimo. lo sono il vero fine dell'azione. Si instaura così una relazione di possesso, di dominio dell'altro in quanto oggetto del proprio desiderio, che finisce per sconvolgere la precedente relazio­ ne d'amore. 1 STh, 1-11, q. 82, a. 4, ad 1. Cf. GIOVANNI PAOLO II, Uomo e donna lo creò, XXVII. 3 e anche XXXIX.

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Il dramma più grande di questa nuova situazione è però che l'uomo possa separare il suo cuore dall'affetto supremo, dall'amore a Dio.3 È in questo modo che si spiega come nel brano biblico tale dimen­ ticanza dell'altro implichi un mutuo timore: «si coprirono con foglie». Perché? Si nasconde ciò che si teme: che l'essere umano sia oggetto di uso e abuso. Ma l'altra persona non era vista come un aiuto? Ora,l'uo­ mo non confida più sulla propria intenzione e capacità di autocoscien­ za e di autodominio della reazione sessuale,fino al punto di giungere a temere Dio, dal quale si nasconde. L'armonia dell'inizio e lo stupore davanti al dono che Dio aveva loro fatto si trasformano, ora in con­ trapposizione: «La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato del­ l'albero e io ne ho mangiato» (Gen 3,12),come se fosse lei,che era car­ ne della sua carne e ossa delle sue ossa, la causa della sua situazione. Il desiderio si mostra così tra i due ambiguo e concupiscente, frammentando la stessa mutua relazione e la stessa interiorità della persona, tra la dignità che riconosce l'altro e il desiderio del piacere, tra l'idealizzazione e la necessità di accettare l'altro com'è ... Il corpo sessuato cessa quasi d'essere espressione della persona e dell'amore, per favorire un vissuto della sessualità in quanto esperienza strappa­ ta all'unione della relazione tra le persone, dal suo riferimento a un ideale di vita buona e felice globalmente inteso. Dal punto di vista teologico la concupiscenza, frutto della rottu­ ra dell'alleanza con Dio, si configura come una disintegrazione nel dinamismo tendenziale che inclina l'uomo al peccato. In se stessa non è peccato, ma inclina verso di esso e in esso ha la sua origine.

5. L'idolatrizzazione dell'amore Le diverse difficoltà dell'amore che abbiamo analizzato possono giungere a ostacolare più o meno l'eccellenza dell'amore,ma quando lo deformano nell'azione e la persona agisce mossa da un amore non vero sorge un'ultima e terribile difficoltà: l'idolatrizzazione dell'a­ more. Non si tratta qui di idolatrare la persona amata, dal momento che ci si rende conto con una certa rapidità del fatto che l'altra per­ sona, per quante qualità possa avere, mai potrà pienamente portare 3 Cf. B. OoNIBENI, Dominare la moglie? A proposito di Gn 3,16, Lateran Univer­ sity Press, Roma 2002, 26-31.

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da sola a pienezza; né tanto meno si tratta dell'idolatrizzazione del­ l'esperienza dell'amore, in quanto unico ambito autenticamente per­ sonale in un mondo complesso e ostile... Si tratta piuttosto di uno strano tentativo di giustificare con l'amore tutto quello che la perso­ na compie, in particolar modo gli equivoci, gli errori, i peccati. «Mi di­ spiace, l'ho fatto perché ti amavo». Come se l'amore avesse il potere e l'autorità di un dio, come se il puro sentimento potesse dare tutto, fare tutto, giustificare tutto.4 Con questo, il «sentimento d'amore» viene assunto come criterio di autenticità e perciò di verifica di ogni amore. Per poter valutare sul piano morale le azioni sarebbe necessario accertarsi se esiste un ade­ guato «contesto d'amore» o se vi sia una certa «intenzione d'amore». Una cattiva traduzione di Agostino, «ama e fa' ciò che vuoi», ha finito invece per essere il criterio di ogni manifestazione amorosa. È certo che nel cristianesimo l'amore assume il valore di criterio ultimo d'a­ zione; ma ha realizzato per questo un processo di purificazione dell'a­ more, conseguendo una nuova visione della sua natura e dell'armonia che comporta. Il testo agostiniano non vuole far dell'amore la giusti­ ficazione di un qualsiasi agire, quanto piuttosto chiarire quale amore si trovi all'origine dell'agire. È così che egli propriamente dice: «Dili­ ge, et quod vis fac»,5 ponendo tutto il peso sulla qualità dell'amore. Davanti al tentativo di fare dell'amore un idolo, quanto è con­ traria l'esperienza di quelli che si amano per davvero! Poiché quan­ do dentro di sé si rendono conto di avere perso il rispetto della per­ sona e usato di lei, non pretendono di giustificarsi ma, proprio per il grande amore che hanno per lei, si incolpano ancora di più della pro­ pria mancanza. L'amore non giustifica niente. Tutto al contrario, ac­ cusa in modo terribile.

6. Cammini di soluzione È ora che si pone in tutta la sua drammaticità la questione di fon­ do, poiché se l'uomo desidera indirizzare la propria vita verso un ideale di vita buona, di comunione interpersonale, realizzandola me­ diante delle azioni eccellenti in cui intervengono differenti principi operativi, alla fine si scopre naturalmente impreparato per concepi-

Cf. LEWIS, / quattro amori, 103-106. 5 AoosTINO, In Epistolam /oannis ad Parthos Tractatus decem, 7.

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re, inventare o produrre queste azioni nella concretezza della pro­ pria esistenza. Dove può allora trovare un aiuto per portare a com­ pimento ciò cui aspira?

a. Appoggi necessari, ma insufficienti Di certo troverà un appoggio decisivo nella propria natura di per­ sona umana, che sussiste in una singolare unità d'anima e corpo. Grazie a questa natura personale, il suo corpo umano e i dinamismi che comporta si convertono in segni che fanno intravedere alla sua ragione un significato (VS 48). La ragione umana viene così impre­ gnata dai dinamismi corporei, dalle inclinazioni che naturalmente si risvegliano nel suo essere e che riguardano il corpo. La ragione non si trova da sola nella guida di una condotta, nella costruzione di azio­ ni: è accompagnata e configurata da un desiderio, da delle inclina­ zioni che non si è data da sola e nella cui armonia può comprendere ciò che si oppone alla felicità tanto sospirata, ciò che è contrario al­ l'autentico amore umano. Questo potere della ragione umana di il­ luminare la condotta nel momento in cui è impregnata di inclinazio­ ni naturali è ciò che si conosce con il termine di legge naturale. Ora, per sé sole le inclinazioni naturali non sono sufficienti a muovere efficacemente l'azione, né gettano una luce concreta posi­ tiva sull'azione che si deve compiere: si tratta di una luce troppo ge­ nerica per guidare un'azione concreta e particolare. L'inclinazione all'unione uomo-donna, un'inclinazione che si risveglia naturalmen­ te nell'incontro reciproco, nell'armonia con altre inclinazioni come quella della conservazione della vita, del vivere in amicizia, del vive­ re nella verità, ci consente di discernere quegli atti che a queste in­ clinazioni sono contrari, come l'adulterio, poiché impedisce di vive­ re l'inclinazione sessuale in armonia con l'inclinazione all'amicizia. L'inclinazione all'unione uomo-donna è però troppo generica per in­ dicare in concreto la convenienza di determinate azioni: se dare un bacio o iniziare una conversazione... L'inclinazione sessuale inoltre, essendo reale in tutte le persone, acquista peraltro una differente configurazione nelle persone sposate e nelle persone vergini, per cui non basta per intraprendere il cammino da percorrere. Per sé sola la legge naturale, come luce dell'agire, è irrinunciabile, ma non basta per guidare in positivo una vita. Nella guida di un cammino, un aiuto ulteriore è dato dall'ethos della società in cui si vive, il cui senso è rimasto plasmato nei diversi costumi e racconti della sua cultura. Questo ethos aiuta di sicuro a in-

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terpretare il significato delle esperienze, a scoprire i loro valori au­ tenticamente umani. Si mostra tuttavia inefficace nell'aiutare il sog­ getto a costruire azioni concrete, dal momento che non si può ripe­ tere la storia di altri uomini visto che le circostanze da loro vissute sono enormemente cambiate. La stessa riflessione sopra la condotta umana, che è rimasta im­ pressa nei diversi codici morali e civili e in certe massime della sag­ gezza popolare e della scienza etica, può servire alla persona come prima indicazione per chiarire ciò che realmente sta volendo, per pu­ rificare la sua intenzione; non sono però capaci di risolvere di per sé tutte le situazioni, in modo particolare quelle situazioni concrete e nuove che non siano state previste in precedenza e che vadano oltre il quadro di comprensione offerto. Persino la stessa grazia di Dio, tanto essenziale nella ricomposi­ zione del soggetto morale, come vedremo, non pretende di soppri­ mere la mediazione umana. Infatti Dio non ha inteso normalmente trasmetterci in forma diretta quale sia la sua volontà positiva circa le situazioni particolari. Di esse sappiamo, naturalmente, quel che non vuole in alcun modo. Ma quando si tratta di una cosa positiva, che non sia direttamente contraria a un comandamento, già andiamo in­ contro a maggiori difficoltà. Potremmo allora giungere a conoscere non tanto «ciò che» vuole che facciamo, ma «come» vuole che agia­ mo.6 Con ciò mostra una grande pedagogia e rispetto per l'uomo co­ me autentico soggetto e protagonista del proprio agire, poiché se gli dicesse direttamente quale sia la volontà sua, l'uomo perderebbe il ruolo di protagonista che gli compete in quanto è immagine e somi­ glianza di Dio, per cui capace di provvedere a se stesso. In quale modo è poi l'uomo capace di governare la propria vita e di costruire una comunione quando si imbatte in azioni tanto va­ riabili e particolari, trovandosi davanti a esse tanto impreparato? Sembrerebbe che tutto debba finire nelle mani della fortuna, dell'in­ dovinare o meno, dell'avere buona sorte. Ma sarebbero eccellenti quelle azioni che conseguono per fortuna ciò cui tendono?

b. Il contributo delle virtù Emerge con forza la necessità di una preparazione, di una qualifi­ cazione del soggetto che gli consenta un'unità nella sua attuazione, ca­ pace di permettergli di governare la propria vita con successo, crean6 Cf. ABBÀ, Felicità, vita buona e virtù.

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do azioni. Questa qualificazione della persona nel suo agire morale ha ricevuto nella storia del pensiero il nome di «virtù». Con ciò si è ten­ tato di mostrare come sia possibile una crescita nel soggetto, una nuo­ va plasmazione dei suoi principi operativi che gli consenta di costrui­ re e di conseguire una vita riuscita nelle azioni contingenti che lo pon­ gano in relazione con le persone che ama. E in questa riflessione, alla virtù della castità compete l'integrazione dei dinamismi affettivi. La necessità delle virtù è riconosciuta dalla stessa enciclica Veri­ tatis splendor proprio perché la persona possa riconoscere il senso delle proprie inclinazioni naturali (VS 48). Non basta la sola ragio­ ne. Non bastano le sole inclinazioni naturali. Occorre un'armoniz­ zazione del soggetto che dia un rilievo veramente umano a queste inclinazioni.

c. L'attuale difficoltà nei confronti delle virtù La difficoltà in cui ci imbattiamo oggi nell'intendere il significa­ to delle virtù in generale, e della castità in particolare, si radica in una duplice deformazione che è avvenuta nel corso della storia. Da un lato, la deformazione dell'idea di virtù, che ha avuto luo­ go come conseguenza della riduzione della filosofia morale a etica normativa nel razionalismo7 e che è culminata nella sopravvaluta­ zione di un' «unica» virtù, quella della disposizione della volontà a seguire le norme morali, e cioè l'obbedienza.8 È facilmente com­ prensibile come in un simile contesto l'intento di una proposta di morale sessuale basata sulle virtù venisse rapidamente accusata di moralismo e di essere la causa della mediocrità morale delle perso­ ne. In questo senso è rivelatrice l'affermazione di P. Valéry: «La pa­ rola virtù è morta, o almeno, sta morendo. E nemmeno se ne fa pa­ rola, niente più che di passaggio [...]. Per quel che mi riguarda, non l'ho sentita più che di rado e sempre usata in forma ironica».9 Dall'altro, la deformazione della castità, che viene come conse­ guenza di una inadeguata concezione della sessualità, secondo la quale ogni coercizione esteriore comporterebbe un soffocare l'amo­ re. La castità passa a essere considerata come il grande nemico del-

7

Cf. A. MAclNTYRE, After Virtue, a study in mora/ theory, Duckworth, London

8 9

Cf. AeeA, Felicitd, vita buona e virtù, 87-105. P. VALÉRY, «Varieté IV», in Oeuvres I, Gallimard, Paris 1962, 440.

1985.

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l'amore nel momento in cui gli impone un controllo, che è giustifica­ to con regole esteriori o con motivazioni estrinseche allo stesso sen­ timento che si prova. Se ciò che tenta la castità è di «castigare» (è la sua etimologia) il desiderio, allora si rende evidente che rovina l'a­ more, generando un sentimento di frustrazione. Già Aristotele ave­ va usato l'immagine del «controllo», cui si deve sottomettere il bim­ bo capriccioso,10 e da qui il fatto che venga rappresentata nella sim­ bologia delle virtù come un bimbo che tiene tra le mani il morso di un cavallo le cui redini sono controllate da una bella ragazza. Queste due deformazioni hanno determinato una mancanza di stima sia della virtù, sia della castità. Questa mancanza di stima si ba­ sa però su una loro falsa concezione che non vuole essere corretta, forse per non doversi impegnare in ciò che si intuisce come qualco­ sa di esigente. Abbiamo così la strana reazione davanti a ciò che la castità suppone: il risentimento con cui sistematicamente viene di­ screditata. Sono stati molti i moderni autori che, a partire da posizioni di­ verse, hanno reclamato una riabilitazione della virtù e della castità. 11 Sarà perciò necessario scoprire il valore che riveste l'esperienza del pudore nel vissuto della sessualità e, d'altra parte, cogliere come l'in­ tegrazione dei dinamismi dell'amore offra una luce nuova per co­ struire la comunione. Con ciò si mostrerà come le virtù non siano semplicemente una disposizione a obbedire a delle norme, ma au­ tentiche qualificazioni del soggetto, che non soltanto offrono un'e­ nergia che facilita l'esecuzione delle nostre azioni, ma soprattutto sono una luce che influisce in modo decisivo sulla costruzione di una vita eccellente.

10 Cf. Etica nicomachea III, 12: 1119a33. 11 Si veda, per esempio, V ON HILDEBRAND, Purity. The Mystery of Christian Sexua­ lity; R. ALLERS, Pedagogia sexual. Fundamentos y lineas principales analitico-existen­ ciales, Editoria! Luis Miracle, Barcelona 1958; K. WOJTYLA, Amore e responsabilità. Morale sessuale e vita interpersonale, Marietti, Torino 1978; A. PLÉ, Vie affective et Chasteté, Cerf, Paris 1964; W. MAY, The Nature and Meaning of Chastity, Franciscan Herald Press, Chicago 1976; A. CHAPELLE, Sexualité et sainteté, Éditions IET, Bruxel­ les 1977; GIOVANNI PAOLO II, Uomo e donna lo creò, Città Nuova-LEV, Roma 1995; C. CAFFARRA, Etica generale della sessualità, Edizioni Ares, Milano 1991; CCC 2338-2359; M. RttoNHEIMER, Etica della procreazione, PUL-Mursia, Roma 2000; J.S. GRABOWSKI, Sex and Virtue. An Introduction to Sexual Ethics, Catholic Universtity of America Press, Washington DC 2003.

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Capitolo undicesimo

Il pudore sessuale e il valore della persona

Abbiamo in precedenza visto la novità che insorge nella relazio­ ne tra Adamo ed Eva dopo la rottura dell'alleanza originaria con Dio: «Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di esse­ re nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture» (Gen 3,7). Questa rottura ha deformato il reciproco sguardo, quello sguardo ori­ ginario con cui Adamo aveva scoperto la bellezza di Eva e compreso il significato sponsale del corpo. Ora la vista del corpo dell'altro com­ porta una reazione di vergogna che li spinge a coprirsi. II pudore è un sentimento caratteristico della persona. Tocca sia la dimensione istintivo-sensuale della sessualità come la dimensione affettivo-psicologica: ci vergogniamo del fatto che si mettano in mo­ stra le nostre reazioni sensuali, come anche che appaiano le nostre reazioni affettive; tendiamo perciò a nasconderle. Perché? Cosa si­ gnifica questa reazione? Dal momento che si tratta di una esperienza affettiva, per poter­ la capire occorre prendere in considerazione non semplicemente il vissuto soggettivo della persona, ma il motivo che lo produce, l'in­ tenzionalità che vi è insita. È lì che ci si rivela il suo profondo senso antropologico e morale.

1. La custodia della propria soggettività L'esperienza del pudore si riferisce in primo luogo all'impulsività con cui si presentano alcune reazioni nell'uomo e nella donna, poi­ ché queste reazioni tendono a impossessarsi della loro stessa co-

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scienza. Si fa esperienza del pudore davanti a queste forze vitali per­ ché frazionano la soggettività, la coartano, l'uomo perde il controllo delle proprie reazioni e delle proprie azioni. Si riferisce però, in se­ condo luogo, al carattere omnicomprensivo con cui si presentano gli stati affettivi, i quali tendono a ossessionare la persona, deformando la sua immagine della realtà: proviamo pudore anche davanti ai no­ stri stati d'animo, davanti alle nostre fantasie. È così che si fa esperienza di una certa vergogna e timore davan­ ti a queste reazioni, prendendo da loro le distanze per prevenirle. Così si tende a evitare ciò che le provoca, nascondendo la loro ma­ nifestazione. Il fenomeno del pudore tende allora a proteggere la soggettività dell'uomo, in modo tale che le forze della sua natura non possano fargli perdere il controllo di ciò che in lui accade, sottomet­ tendo lo spirito alla carne. In questo modo il pudore aiuta a comprendere la soggettività propria della persona, dal momento che, grazie all'autoconoscenza di sé e all'auto-dominio che di sé consente, l'uomo si percepisce co­ me un essere distinto dal resto della creazione: distinto, pur condivi­ dendo tante cose con la creazione e con gli altri animali. Se negli al­ tri animali la vita sessuale è governata da un istinto necessario e ben preciso, nell'uomo questo governo non sarà dello stesso tipo poiché, reagendo con vergogna alle pretese della propria natura, comprende di essere lui ad avere il compito di governare la propria impulsività sessuale e di ricreare l'affetto in ordine al significato che scopre nel proprio desiderio. Per questo il pudore si presenta come un'afferma­ zione della propria soggettività e della differenza di ciò che è speci­ ficamente umano rispetto alla natura inferiore.1

2. Pudore e rivelazione del valore della persona La reazione del pudore, tuttavia, non solo ci rende evidente l'o­ riginalità della soggettività umana, ma mostra anche l'originalità del­ la relazione interpersonale che è resa possibile dalla sessualità. 2

1

2

Cf. Sowv'Ev, La justification du bien, 28-34. 44-61. Cf. WoITYLA, Amore e responsabilità, III.

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L'impulsività con cui si presenta la dimensione istintiva, o l'os­ sessione che il sentimento comporta, generano nel soggetto una pre­ cisa reazione intenzionale, lo indirizzano cioè verso i valori corporei o affettivi dell'altra persona, in modo tale che tendano a imporglisi come gli unici valori in essa significativi e motivanti. L'intenzionalità del desiderio finisce allora segnata e orientata da questa reazione, che per un altro verso si sperimenta come contraria alle altre di­ mensioni della persona, come la sua dignità e irriducibilità. Davanti a questa riduzione intenzionale del desiderio insorge nel­ l'uomo una reazione di vergogna,cioè un turbamento dinanzi al fatto di sentire i valori sessuali o affettivi della donna,o dell'uomo,per sé e in se stessi, a prescindere cioè dalla persona. La vergogna si costitui­ sce allora come una risposta originaria davanti a una reazione sessua­ le che considera il corpo come mero oggetto di piacere o i valori af­ fettivi come mera possibilità di godimento. La vergogna davanti a questa reazione fa sì che il soggetto tenda a impedire questa unilate­ ralità del desiderio,proteggendo se stesso e l'altro da una reazione che sia incompatibile con la propria soggettività e dignità. La maniera di proteggersi sarà, esattamente, di nascondere la manifestazione delle proprie qualità sessuali o dei propri vissuti affettivi. Il pudore si manifesta pertanto come un'esperienza affettiva, il cui valore va cercato nell'intenzionalità che produce. Verso cosa è di­ retto? Cosa cerca? Cerca di evitare una reazione contraria alla di­ gnità della persona. Si tende a celare le qualità sessuali, perché non si produca nell'altra persona una reazione incompatibile con la pro­ pria dignità. Si tende a non cercare le qualità sessuali per se stesse, perché in questo modo non si strumentalizza la persona. Il pudore ri­ siede nel cuore di una relazione interpersonale tra uomo e donna, garantendo il rispetto della soggettività di entrambi. Ora, perché questa reazione sia adeguata e consegua la propria finalità, richiede una minima mutua conoscenza del modo con cui l'altro,nella sua mascolinità o femminilità,reagisce di fronte ai valo­ ri sessuali e affettivi. Questo dato è di vitale importanza dal momen­ to che, come abbiamo visto, l'uomo e la donna non vivono di solito allo stesso modo la reazione davanti all'altro sesso. La donna resta a volte sorpresa quando il maschio si altera e mostra la propria impul­ sività, poiché ella non vive una sensualità tanto forte; così il maschio si meraviglia della sensibilità affettiva della donna,dal momento che egli non vive forse una vita emotiva tanto ricca. Nel modo con cui la donna esprime il pudore occorre che sia attenta a che tipo di reazio­ ni si producono nel maschio davanti ai suoi valori sessuali e affetti-

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vi: solo così potrà comprendere perché debba evitare o nascondere la manifestazione della propria sessualità. Qual è poi il motivo che origina questa reazione? Non si tratta di nascondere una cosa in sé negativa, la sessualità, ma di non provoca­ re nell'altro o dentro di sé un'intenzionalità contraria al valore della persona. Non si riferisce perciò alla nudità parziale o integrale in sé, ma al modo con cui si guarda la nudità, le qualità della persona. Quando queste possono essere considerate come oggetto di piacere, si nascondono, si proteggono. La stessa descrizione fenomenologica lo manifesta plasticamen­ te. Una bella ragazza posa nuda davanti al pittore senza preoccupa­ zione né vergogna, tranquilla e serena: sa che lo sguardo dell'artista tende soltanto a rendere la bellezza e l'armonia del suo corpo per­ sonale. Ma nel momento stesso in cui si accorge che due ragazzi stan­ no avvicinandosi alla finestra, immediatamente si copre. Perché? Non vuole far nascere uno sguardo che cerca il desiderio, uno sguar­ do concupiscente; non vuole essere «oggetto» di uno sguardo defor­ mato, che dimentichi il valore personale del suo corpo e cerchi di og­ gettivarlo, di usarlo. Questa reazione di difesa davanti a un possibile uso della perso­ na nei suoi valori sessuali o affettivi, oppure davanti al fatto di non voler essere usati, ci rivela in modo originale la soggettività della per­ sona e la sua indisponibilità, cioè l'originalità, con cui la persona ap­ partiene a se stessa, grazie alla libertà, sussiste in sé. Usare la perso­ na, essere usato, è disprezzare la dignità di qualcuno cui spetta di es­ sere se stesso e di essere amato per se stesso. Con ciò appare come il pudore riveli un contenuto antropologico di prim'ordine, ed è il ca­ rattere sopra-utilitaristico della persona, il valore che è la persona medesima nella sua corporeità, il carattere sponsale del corpo. Possiamo ora comprendere la principale obiezione alla pornogra­ fia, perché si tratta di una manifestazione della corporeità che tende a provocare una reazione sensuale in chi sta guardando, ma senza al­ cun riferimento alla persona in quanto tale, al mistero della sua uni­ cità e irripetibilità, offrendo solo un oggetto da consumare: il corpo umano. A volte si suole obiettare che la sessualità e l'attività che com­ porta fanno parte della vita umana e che perciò può anche essere ma­ nifestata, come altre dimensioni: nasconderla sarebbe puritanesimo. È certo che fa parte della vita e che perciò può far parte dei diversi generi artistici. Ma il modo con cui tende a manifestarsi nella porno­ grafia, tenendo nascosto il contesto cui appartiene, cioè la sua intrin­ seca dimensione personale, per favorire un'oggettivazione del corpo,

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è ciò che in se stesso è immorale. Distrugge il significato sponsale del corpo introducendo un simbolismo nuovo, quello dell'uso. La manifestazione artistica del corpo umano e della sua nudità deve lasciare trasparire il suo carattere personale, il suo intrinseco valore sponsale. Solo così la persona può avere uno sguardo adegua­ to alla nudità umana in modo tale da essere capace di percepire la sua bontà.

3. Pudore e amore Occorre comprendere un'altra dimensione dell'esperienza del pudore, poiché, se da un lato distoglie da ogni manifestazione ambi­ gua della sessualità che possa «essere usata», non lo fa tuttavia sem­ plicemente per timore di essa, ma anche e principalmente per ri­ orientare lo sguardo verso la persona detentrice di tali valori. Si ri­ vela così che ciò cui la reazione del pudore tende è proprio di pro­ vocare l'interesse e la stima per la persona di cui sta cercando di su­ scitare l'amore personale. In questo modo il pudore non si presenta come un ostacolo all'amore, ma anzi come un mezzo per arrivarci; in­ tegrare i valori sessuali e affettivi nella propria relazione con la per­ sona è infatti un modo naturale di consentire che si discoprano la propria dignità e il proprio mistero. Quando il pudore raggiunge questa dimensione di provocare l'a­ more, allora la propria reazione di nascondere acquista una speciale connotazione, perché tende a nascondere, sì, ma non del tutto, e nemmeno troppo. Mostrare la differenza «personale» nel corpo può infatti far sì che nasca o si ravvivi l'amore tra l'uomo e la donna. È qui, tra l'altro, che la moda potrebbe trovare la propria originaria ispirazione. In questo modo, quando diviene chiara la mutua reazione nella propria reciproca intenzionalità di ricerca di una comunione nella totale donazione di sé, il pudore, in quanto tendenza a nascondere i valori sessuali e affettivi, viene assunto nell'amore: non si ha più ver­ gogna di manifestare la sessualità e l'affettività. Ma assunto non vuo­ le dire cancellato, poiché continua a colorare l'amore di questa sua qualità che tende a suscitarlo nel mutuo rispetto. La vergogna è ora assimilata nell'amore perché esiste la convinzione che la manifesta­ zione dei valori sessuali e affettivi non provoca nell'altra persona unicamente un desiderio sessuale o un godimento affettivo, ma è in­ vece un invito al dono di sé.

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4. Pudore e cultura Se in precedenza abbiamo visto come l'esperienza d'amore rice­ va una prima possibilità d'interpretazione nell'ambito culturale in cui è inserita, lo stesso avviene con il pudore: è congiunto in se stes­ so a un'innegabile dimensione culturale, che dà significato e rilievo alle intenzioni delle persone, per cui le loro manifestazioni variano da una società all'altra, nel modo di vestire, nel modo di parlare e nella gestualità ... Questa dimensione culturale può provocare a vol­ te degli equivoci, che si originano dalla valutazione delle differenti culture a partire dalla propria realtà: potrebbe allora sembrare che una tal cultura sia estranea all'esperienza del pudore, poniamo per­ ché nel loro modo di vestire non coprono la loro nudità, o per la con­ fidenza con cui si esprimono nella gestualità ... Ciò è tuttavia dovuto non a una mancanza di pudore, ma, forse, alle condizioni climatiche o al mestiere che si esercita, o alla storia d'un popolo. Ciò che nel pudore è essenziale è precisamente l'intenzionalità che cerca di evitare: l'oggettivazione del corpo. Ciò avverrà attra­ verso i mezzi che sono espressivi nelle differenti culture: il linguag­ gio, la moda, l'arte, ecc..., che acquistano così un valore simbolico esplicativo dell'intenzionalità delle persone. Quando una persona usa certe espressioni verbali o gestuali, o quando indossa determi­ nati abiti, «cerca» di dire qualcosa all'altro, qualcosa che l'altro pos­ sa capire. L'educazione al pudore tenderà a tenere conto di questo fattore e dovrà stare attenta al modo in cui la cultura va cambiando nelle sue forme d'espressione, altrimenti incoraggerebbe un significato formale del pudore che potrebbe degenerare in pudicizia.

5. Nobiltà e pudore Se il pudore suppone una reazione di vergogna che preserva il soggetto da ogni possibile uso del corpo che escluda il suo signifi­ cato sponsale, occorre notare che, davanti al valore che questo si­ gnificato comporta, insorge nella persona anche una diversa rea­ zione: questa volta non tanto nel ritrarsi, quanto nello stupore e nell'orgoglio. Di che cosa si stupisce e si inorgoglisce? Si stupisce e si inorgo­ glisce della meravigliosa possibilità che le è stata concessa, di poter

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stabilire una relazione personale grazie alla quale costruire una co­ munione di persone in una corporeità trasparente, con un limpido reciproco interagire. È il momento in cui la persona reagisce davan­ ti alla grandezza presupposta da un modo d'amarsi reciproco in una corporeità che si fa trasparenza e linguaggio della persona. Gran­ dezza, poiché grazie al mutuo interagire sessuale i due nello spazio della loro intimità possono comunicarsi un apprezzamento, una com­ pagnia, e così raggiungere la loro pienezza ultima. Questo modo d'agire nella differenza sessuale è visto allora non semplicemente come un bene da sfruttare per il piacere che produ­ ce, o da utilizzare per i vantaggi che potrebbe offrire, ma per il fatto che è soprattutto un bene che nella sua convenienza dà concretezza ai dinamismi dei suoi protagonisti, rivela una bontà che la trascende: attrae non solo per la pienezza che rende possibile, ma per la bellez­ za che comporta. La vita di comunione tra gli sposi, il vivere uno per l'altro sussistendo nel noi comune, si manifesta loro come un bene che li seduce per la sua intrinseca bellezza e che li attrae per la sua forza. Anche se raggiungere questa comunione costasse grandi sacri­ fici, persino la vita stessa, meriterebbe la pena di darla per la bellez­ za che comporta. Questo sentimento di nobiltà dinanzi a ciò che è autenticamente onesto ed eccelso apre il cuore dell'uomo a una magnanimità che gli consente di dare nuova collocazione al significato dei piaceri della vi­ ta e della sua utilità. 3 È così che l'uomo si apre a una maggiore feli­ cità, in modo tale da non finire preso dal piacere immediato.

6. All'inizio della virtù: pudore e nobiltà L'esperienza del pudore introduce un primo ordine nei dinami­ smi dell'amore: impedisce originariamente che la persona li assuma, facendoli propri, se non è chiaro il loro riferimento personale. Com­ porta perciò una chiamata all'integrazione dei dinamismi. In questo modo, il pudore è il germe di una prima integrazione dei differenti dinamismi dell'amore, indirizzandoli verso la persona in quanto tale e aprendoli a ciò che è autenticamente nobile e onesto. Il pudore e l'onestà o nobiltà si configurano così come due esperienze originarie intrinsecamente unite. 3 Cf. STh, II-Il, q. 145.

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Se nella differenza sessuale la natura ha reso possibile questa reazione di difesa e di fierezza nell'esperienza d'incontro tra l'uomo e la donna, con l'esperienza del pudore ci si rivela un dato d'impor­ tanza fondamentale: nella reazione amorosa si trova, a sua volta, un principio intrinseco d'ordinazione dell'amore. Il soggetto può ora di­ sporre di un criterio interno con cui stabilire un ordine nella propria interiorità, integrando i diversi dinamismi in modo tale da poter con essi indirizzarsi alla persona come tale e non semplicemente a qual­ cosa di lei. Ora, queste reazioni del pudore e del sentimento di nobiltà, nel­ le quali c'è un primo ordinamento, non sono tuttavia ancora delle virtù, poiché si offrono come esperienza originaria, in cui non inter­ viene ancora la libertà: sono proprio una passione, una reazione. La virtù, invece, richiede l'impegno della libertà, cioè delle scelte in cui personalizzare e fare proprio tale dinamismo intenzionale. Queste reazioni, senza essere ancora virtù, favoriscono tuttavia l'acquisizio­ ne della virtù della castità, proprio perché permettono un'adeguata interpretazione dell'esperienza affettiva e perché offrono un'energia iniziale per agire proteggendo il valore e la dignità della persona. Per questo il pudore e il sentimento di nobiltà si trasformeranno in parte integrante di quella che sarà la virtù della castità, autentiche condizioni sine qua non perché si realizzi. L'accompagneranno poi nel suo cammino: un uomo senza pudore né onestà non può essere casto, né agire castamente.

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Capitolo dodicesimo

Differenti integrazioni dell'affettività

Se il pudore ci rivela il significato sponsale del corpo e il senti­ mento di nobiltà ci dirige verso la bellezza di un modo eccellente d'agire, ora spetta alla persona interpretare adeguatamente questa esperienza e integrare effettivamente i suoi dinamismi, esercitando la propria libertà. L'interpretazione e l'integrazione non sono qual­ cosa di semplicemente originario: dipendono dalla cultura in cui ogni persona è inserita, dall'educazione che ha ricevuto e, soprattutto, dal­ le scelte che opera. Ciò che importa porre in rilievo è che, a seconda del tipo di in­ terpretazione che si dà dell'esperienza d'attrazione dei valori ses­ suali e della loro integrazione, nasce una configurazione molto di­ versa della soggettività della persona, che dà origine a diverse tipo­ logie. Per la sua classificazione è necessario ricordare la distinzione delle dimensioni o dei livelli che abbiamo visto nella descrizione fe­ nomenologica dell'incontro uomo-donna e come questi non fossero armonizzabili dalla natura. Si trattava di livelli irriducibili tra loro e originali in sé in ragione del bene che li riguardava. Pur essendo irri­ ducibili, non erano tuttavia impenetrabili. In un'analisi fenomenologica si colgono quattro diversi tipi di in­ tegrazione, sempre in un maggiore o minore grado, si intende, di ma­ turazione e di personalizzazione: il continente, il virtuoso, l'inconti­ nente e l'intemperante o vizioso.1 Vediamoli in una tipologia morale 1

Mi ispiro in questo alla tipologia che distingue ARISTOTELE, Etica nicomachea VII.

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che ci aiuti a percepire il modo in cui la reazione affettiva, sempre singolare e concreta, diretta a un bene particolare e determinato, che produce uno specifico piacere, è integrata nel mondo dello spirito, aperto all'universalità della verità e alla totalità del bene della per­ sona. In quale modo questo bene particolare è integrato nel bene globale della persona? Ci interesserà conoscere quattro aspetti in ciascuno dei diversi ti­ pi di integrazione: in primo luogo, cos'è che si conosce nella reazio­ ne affettiva e come lo si conosce; in secondo luogo, qual'è il motivo per cui seguire o meno la reazione affettiva, di agire o meno; in ter­ zo luogo, com'è la modalità della sua attuazione, se con fermezza e stabilità oppure no; in quarto luogo, la soddisfazione che la persona trova nella sua attuazione. Sono quattro domande che andiamo a porre a quattro tipi di per­ sona.

1. Il continente Il nostro primo personaggio è il continente. Come ogni persona è sensibile alle qualità sessuali e affettive. E come ogni persona è an­ che in possesso di una intelligenza per comprendere il significato di ciò di cui fa esperienza e ha una volontà per volerlo. Nel corso della sua vita, ha ricevuto un'educazione in cui gli è stato trasmesso un senso della vita, della sessualità, della relazione tra uomo e donna, del valore della fedeltà e della famiglia. Con la sua intelligenza è giunto a comprendere quanto gli veniva trasmesso, accettando che tale ideale di vita fosse l'autentico significato della vita: una comu­ nione di persone fedele ed esclusiva. Con il maturare della sua corporeità, comincia tuttavia a speri­ mentare l'attrazione che l'altro sesso produce in lui. Lo attraggono i valori sessuali, lo attraggono i valori umani legati alla mascolinità e femminilità. E lo attraggono perché convengono ai suoi dinamismi, offrendogli una possibilità di trovare in loro diletto. Lo attraggono però soltanto per la soddisfazione che gli procurano, non per il loro significato. Un bacio, una carezza, un'avventura, un'unione sessua­ le... sono un'opportunità per trovare un piacere che sazi una caren­ za, un desiderio. L'educazione che ha ricevuto, l'ideale di vita buona che gli è sta­ to trasmesso, non lo pone in gioco per interpretare il senso di ciò che sta vivendo, dell'attrazione di cui fa esperienza. La sua intelligenza

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«comprende» in teoria l'ideale, però «nella pratica» si sente attratta dai piccoli piaceri della vita. Si attua per questo una certa frattura tra ciò che intende e desidera in teoria e ciò che intende e desidera nel­ la pratica. In questo modo, lascia briglia sciolta ai propri desideri e stati emotivi, trovando in loro svago, compiacimento. Quando giunge il momento di agire, cosa accade? Con la sua in­ telligenza percepisce che certe azioni sono contrarie all'ideale di vi­ ta buona che gli è stato trasmesso e che rimaneva riflesso in un co­ dice di condotta. E ancora, se agisse seguendo i propri desideri, po­ trebbe essere rimproverato dalla sua famiglia o dai suoi amici, che tanto stima e che in nessun modo vorrebbe perdere. O, se seguisse i propri desideri, potrebbero persino derivarne conseguenze negative che ostacolerebbero la sua vita. E davanti a queste possibilità si tira indietro: decide di non agire seguendo quel che chiede il suo deside­ rio. Non sceglie di seguire il suo desiderio per i motivi che adduce. Si tratta di una persona che è forte nella sua volontà e che non si lascia facilmente sedurre dall'attrazione dei piccoli piaceri sessuali. La sua volontà è capace di tenere a freno l'impulso dell'attrazione dei piccoli piaceri della vita, di porre resistenza, obbedendo alla nor­ ma che protegge l'ideale di vita. E questo non una volta soltanto, ma con una certa stabilità. Ora dunque, se ciò che Io attrae, il minuto piacere, non fosse proi­ bito, se nessuno lo osservasse, se non ne conseguissero conseguenze negative, di certo lo porrebbe in atto, dal momento che è ciò che de­ sidera. Si trattiene, ma controvoglia; si astiene dal male, ma senza ve­ ramente amare il bene. Così non potrà appoggiarsi sui propri desi­ deri, i quali suoneranno per lui tante volte ambigui; avrà invece bi­ sogno della legge per governare la propria vita. Per questo motivo non trova soddisfazione in ciò che fa, perché fa quello che non desi­ dera, mentre quello che desidera, che si addice al suo desiderio, non può assecondarlo. In sintesi: - conosce l'ideale di vita buona, ma solo in modo teorico, senza farlo proprio; - il motivo per cui agisce non è l'ideale della comunione che co­ nosce, ma un motivo estrinseco all'azione, come può essere una leg­ ge o norma che gli s'impone, l'approvazione o disapprovazione degli altri, il timore o l'interesse per le conseguenze che potrebbe averne. - certamente agisce con una fermezza e una stabilità notevoli; - in alcun modo tuttavia gioisce di ciò che realizza.

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2. Il virtuoso Nel caso del virtuoso ci troviamo di fronte a un uomo che, come ogni uomo, è sensibile ai valori sessuali grazie alla corporeità e pos­ siede anche un'intelligenza e una volontà con cui poter giudicare e scegliere. È stato educato in una famiglia, in una società, in cui gli so­ no stati trasmessi dei valori, un senso della vita, un ideale di vita buo­ na e lo ha accettato. Nella maturazione della propria corporeità e nel­ la novità di esperienze che vive, avverte l'attrazione della sessualità. Nel momento stesso in cui sente questo, cerca però di comprendere il suo significato. È qui che l'educazione che ha ricevuto si mostra per lui decisiva per interpretare l'attrazione che determinati piccoli pia­ ceri esercitano su di lui. In questa attrazione si nasconde il significato di qualcosa che è più grande di loro, di una possibilità di comunione interpersonale. Con ciò può capire che l'attrazione sessuale porta, certo, al bene particolare del bacio, o della carezza, o dell'unione ses­ suale, ma tutto ciò lo riconduce a una singolare comunione. Scopre così come nella sua reazione un altro lo sta chiamando a coinvolgere la sua libertà in un dono totale di sé, vivendo una comunione inter­ personale. La sua esperienza ed educazione si armonizzano, consen­ tendogli di personalizzare l'ideale di vita e di dargli una definita for­ ma concreta. Questo ideale di vita riflette una pienezza singolare, che lo attrae, che lo affascina. E da questa pienezza che gli si prospetta, s'indirizza ora al proprio mondo affettivo, ai propri desideri e comincia a lavo­ rare con essi, plasmando la propria affettività e sensualità secondo l'ideale della comunione. Plasmare vuole dire riordinare i propri de­ sideri in modo tale da poter raggiungere con essi ciò che maggior­ mente ama, la comunione delle persone. Plasmare vuole dire inte­ grare il desiderio del bene particolare nel desiderio di una pienezza ultima. Plasmare vuole dire conformare i propri desideri secondo l'i­ deale di pienezza. Con questo sviluppa la potenzialità ultima che si nasconde nei propri desideri, senza eliminare la mediazione che i piccoli piaceri della vita esercitano su di lui. E una volta plasmata la sua affettività, vi è una novità nel modo in cui la persona reagisce davanti ai piaceri della vita: poiché reagi­ sce davanti a essi nella mediazione in cui è in gioco l'ideale di vita, la comunione delle persone. Il virtuoso è colui che non soltanto agisce bene, ma soprattutto colui che reagisce bene, potendo identificarsi con la propria reazione: vale a dire, è attratto dall'autentico bene.

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Possiede una fermezza e una stabilità singolare nel proprio modo di reagire. Questo non significa che sia insensibile ai piaceri dei beni appa­ renti, ma che reagendo a essi ciò che desidera non è il piacere nella sua particolarità, ma ciò che significa. Nelle piccole o grandi azioni che la relazione uomo-donna comporta si sentirà attratto da quelle in cui possa autenticamente entrare in una comunione personale, realizzandola. Se in esse non può realizzare la comunione, non lo at­ traggono, non gli interessano, né pertanto si identifica in loro. Per il virtuoso agire sarà dunque realizzare ciò che più ama. La sua azione sarà conforme a tutta la sua soggettività ora trasformata dalla virtù, per cui troverà non solo il piacere del bene che concorda con determinati dinamismi, ma la gioia di capire la pienezza che sta vivendo. In sintesi: - conosce l'ideale di vita buona, il significato ultimo della pro­ pria vita, grazie alla mediazione della propria affettività. Lo conosce, cioè, interpretando le proprie esperienze affettive alla luce dell'idea­ le che gli è stato trasmesso; - il motivo per cui agisce è che con tale azione gli si prospetta un bene particolare, può realizzare l'ideale intravisto. Il motivo è la bontà dell'azione in se stessa; - agisce con una fermezza e una stabilità encomiabili; - nella propria azione gioisce di ciò che compie.

3. L'incontinente Ci troviamo ora di fronte a un uomo singolare, capace anche di ricevere l'impatto dei beni particolari, dei piccoli piaceri della vita, e anche di interpretarli e di sceglierli. Come i precedenti, è stato edu­ cato in una famiglia, in una cultura, in cui gli sono stati trasmessi una serie di valori, ed è giunto a comprendere l'ideale di una comunione di persone fedele ed esclusiva. La sua affettività si sente d'altra parte tentata da molti piccoli o grandi piaceri, che lo attraggono per il godimento che prospettano e che, come il continente, rigetta per motivi diversi. Tra la sua affetti­ vità e la sua ragione c'è una certa frattura, poiché non interpreta il significato dell'affettività, né plasma in essa l'ideale di vita, lasciando che seguano il loro corso.

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Ci sono tuttavia occasioni in cui, davanti alla vampa della tenta­ zione, la sua ragione si ottenebra, perde il riferimento dell'ideale di comunione e del sistema normativo da cui era protetto, così come il dominio che la volontà esercitava resistendo alla sollecitazione dei beni particolari, e soccombe all'attrazione di quei piaceri. Non che neghi il valore della comunione, ma rimane accecato da questo bene concreto e pensa che sia conveniente sceglierlo. Si tratta di un uomo debole, fragile, che sceglie di seguire le passioni, malgrado le buone ragioni che ha e in contraddizione con loro. Nel suo agire, certamente giunge a saziare il desiderio che aveva di beni particolari, di piccoli piaceri. Si sazia con piaceri che rispon­ dono alle sue necessità. Ma, nel momento in cui agisce contro la pro­ pria ragione, essa non può sperimentare la gioia di ciò che vive. Un'ultima caratteristica occorre segnalare per comprendere in modo adeguato l'incontinente. Quando passa questo momento, si rende conto peraltro di avere agito male e si pente dell'azione rico­ noscendo la propria iniziale ingenuità, del modo in cui ha gestito la tentazione. Piacere davvero strano quello dell'incontinente, il cui ri­ cordo genera la tristezza! In sintesi: - conosce l'ideale di vita, ma solo teoricamente e a freddo; - il motivo per cui agisce non è quindi quell'ideale di vita che conosce, ma il piacere che gli si prospetta; - agisce senza fermezza, senza stabilità, con una grande debo­ lezza; - si diletta in ciò che fa, ma solo mentre lo fa perché, una volta passato, si pente e ha il sopravvento l'amarezza.

4. L'intemperante Ci troviamo a che fare da ultimo con l'intemperante o vizioso: uomo sensibile, come tutti, alla sessualità, e capace d'interpretazione e di autodominio. La configurazione della soggettività che ha rag­ giunto è però molto differente dai precedenti. Ci troviamo ora di fronte a un uomo che non ha fatto propria l'educazione che si sup­ pone abbia ricevuto, qualora l'abbia ricevuta, né si è preoccupato di plasmare la propria affettività, così che non conosce quello che è un autentico ideale di vita riuscita. Per questo motivo ha identificato l'ideale di vita buona con il conseguimento dei diversi piaceri che gli si presentano, con la sod-

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disfazione delle proprie «necessità» sessuali ed affettive. Non com­ prende l'ideale di una vita fedele e non se ne fa un problema. È qui il suo dramma, poiché la corruzione della sua ragione riguarda quello che è più essenziale, il senso della vita, il suo fine. È cieco nei confronti di ciò che è essenzialmente umano nella sessualità, es­ sendo incapace di scoprirne il significato e il valore. Si tratta di un uomo che vede soltanto una possibilità di piacere e agisce di con­ seguenza. Vivrà il prolungamento di questo piacere con la determinazione che è tipica di chi non vede oltre il proprio parziale interesse: è l'ac­ cecamento dell'egoista, per cui sarà capace di sacrificare tutto al pia­ cere, rendendosi ogni volta più inadatto ad amare. Che piacere trova? Certo, quello che soddisfa la tensione che si è generata in lui. La sessualità possiede sicuramente un dinamismo di tensione-distensione che rilassa l'organismo, offrendo una calma. Cercando il piacere per il piacere, finisce però suo schiavo, senza ar­ rivare mai a trovare vera soddisfazione, dal momento che il piacere tocca solo una dimensione e dura soltanto quanto dura l'azione. Una volta finita, lascia l'amarezza del vuoto, spingendolo alla ricerca di nuovi e più eccitanti piaceri per dimenticare e saziarsi. In sintesi: - non conosce l'ideale di vita buona, la felicità è costituita dalla soddisfazione prodotta dal piacere; - il motivo per cui agisce è semplicemente il piacere; - agisce con ostinazione, una specie corrotta della fermezza e stabilità; - trova la soddisfazione del piacere sensuale, ma senza gioia.

5. Per comprendere meglio 1. Le analisi che abbiamo condotto ci consentono di stabilire una diversa forma di integrazione. Si tratta di una tipologia morale, in nessun modo psicologica. La differenza tra le due consiste nel fat­ to che la tipologia psicologica è basata sul vissuto o sulla coscienza che ciascuno può avere dell'attrazione dei valori corporei o perso­ nali legati alla mascolinità o femminilità e che comportano sicura­ mente un piacere carnale e il godimento affettivo: per essa ciò che è veramente rilevante sono gli stati di coscienza che si producono nel soggetto e che sono frutto dell'attrazione. Al contrario, ciò che cerca la tipologia morale è il principio d'unità della condotta dell'uomo

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nella relazione con una persona di sesso opposto. La domanda deci­ siva è se il principio d'unità esiste o no nel soggetto ovvero se que­ sto principio è esteriore o interiore all'uomo, dal momento che solo a partire da questa unità la sua azione sarà autenticamente buona e non solo formalmente corretta, in quanto si conforma alla legge o al costume sociale. 2. In questo modo si coglie che per il continente il principio d'u­ nità della propria condotta gli proviene dalla disposizione della pro­ pria volontà a seguire la norma morale. Per il virtuoso, al contrario, il principio d'unità è il suo stesso desiderio integrato. Per l'inconti­ nente, poi, il principio d'unità è molto fragile, propriamente ne è pri­ vo, poiché la sua condotta si frammenta in segmenti tra loro con­ traddittori. Per ultimo, il principio d'unità dell'intemperante è il suo stesso vizio. 3. Interessa notare che nei quattro tipi analizzati la reazione af­ fettiva è molto differente e ciò è dovuto al modo in cui l'affettività è o meno plasmata dalla ragione. Solo nel caso del virtuoso ci troviamo davanti a una reazione affettiva accompagnata da un elemento di ra­ zionalità, facendo sì che la persona possa reagire bene. Questo fatto ci permette di comprendere che per il virtuoso plasmare l'affetto gli consente non soltanto di agire bene, ma soprattutto di reagire bene, distinguendo il bene autentico da quello che è il bene apparente, in quanto comporta una convenienza globale o parziale del bene parti­ colare a seconda dei casi. Questo aspetto è quello che manca negli al­ tri tre tipi: tutti reagiscono davanti a un bene conveniente, ma che conviene solo in apparenza, poiché conviene solo sotto qualche aspetto e non nella vita nel suo insieme. Per questo motivo hanno bi­ sogno della legge per poter discernere se sia o meno il caso di seguir­ lo. Qui si trova il dramma dell'affettività: da un lato favorisce l'espe­ rienza del bene, ma da sé sola non garantisce che il bene sia vero o ap­ parente; per questo occorre che sia un'affettività virtuosa. 4. Nell'analisi del tipo virtuoso è necessario mettere in chiaro, ancora, un altro aspetto. Il fatto che una persona sia virtuosa non si­ gnifica che sia insensibile. Che ciò che dà piacere l'attragga è nor­ male, poiché dipende dalla sua ontologica vulnerabilità: l'attirano determinate azioni in relazione con la sessualità e fa esperienza di questa attrazione. Nel caso del virtuoso ci troviamo però di fronte al fatto che la persona lo vuole o meno precisamente a motivo della sua convenienza con l'ideale che porta plasmato nel suo desiderio. Que­ sto continuo riferimento al desiderio principale dell'ideale di vita buona, riferimento intrinseco al desiderio, gli consente di distinguer-

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lo ricorrendo al desiderio profondo del proprio essere, potendo in tal modo affermare «non è questo che voglio», e così di identificarsi o meno con ciò che sente. Si noti che il modo di risolvere la tensione di un bene apparente che attrae è molto diverso nel virtuoso rispet­ to al continente: l'uno si richiama al proprio profondo desiderio, l'al­ tro alla norma morale. 5. Il confronto delle differenze tra i quattro tipi morali riguardo alle quattro domande iniziali è illuminante per comprendere la ric­ chezza di ciò che è la conoscenza del bene, così come la motivazione dell'azione e l'esperienza del piacere. Con questo ci appare come i dinamismi umani siano suscettibili di un considerevole arricchimen­ to e come una visione statica dell'agire morale deformi il dramma che è in gioco: questo non si riferisce principalmente al fatto se si possa o no compiere tale azione, come avviene nella vecchia e nuo­ va casistica, ma al perché si voglia compiere tale azione. Ecco che si evidenzia la questione di fondo di tutta la morale sessuale: essa si ri­ ferisce al modo in cui una persona ha configurato la propria affetti­ vità, i propri desideri, all'ordine interno con cui ha plasmato la pro­ pria soggettività.

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Capitolo tredicesimo

La virtù della castità

È possibile integrare, armonizzare, plasmare i dinamismi dell'amore. Ma cos'è questa integrazione? Qual è la sua struttura? Come possiamo comprenderla? Cosa aggiunge, inoltre, alla natura della persona? L'integrazione dei dinamismi dell'amore implica una trasforma­ zione del soggetto agente. Ma in che modo questa trasformazione in­ fluisce sull'agire concreto, sulla costruzione di azioni? Si tratta allora di affrontare il grande tema della virtù della ca­ stità, di entrare non soltanto in una sua descrizione fenomenologica, ma nella comprensione della sua essenza. La grande difficoltà che l'argomento virtù, e specie virtù della ca­ stità, ha da tempo incontrato può anche rinvenirsi in una insufficien­ te comprensione della sua essenza e del suo ruolo. Occorre allora su­ perare tale difficoltà affrontando la grande questione della natura della virtù della castità.

1. Natura dell'integrazione affettiva La persona umana è soggetto delle proprie azioni nell'unità di corpo e anima in cui essa sussiste. Ciò comporta che nel suo agire si diano appuntamento molti e assai vari dinamismi: corporei e spiri­ tuali. Abbiamo visto in precedenza come l'esperienza dell'amore ri­ velasse quattro dimensioni o livelli, l'uno all'altro irriducibili anche se tra loro permeabili. In essi vi sono una reazione e una precisa e

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propria intenzionalità, che, tuttavia, possono tra loro armonizzarsi. Nella reazione di ciascuno dei livelli intervengono a loro volta la ca­ pacità conoscitiva umana e quella appetitiva, in maniera diversa. Co­ sì, a livello corporeo viene sicuramente coinvolta la conoscenza sen­ sibile e la dimensione impulsiva, mentre a livello affettivo sono im­ plicate la memoria e l'immaginazione e la dimensione emotiva; per quanto riguarda il livello personale, si vedono chiamate in causa da un lato l'intelligenza, con la sua capacità di conoscere la verità in sé, e la volontà, come tendenza al bene in comune, al bene in sé, mentre al livello religioso si mette in gioco la fede e la carità. Con ciò si co­ glie la complessità dell'esperienza d'amore, che tocca molte dimen­ sioni della persona. La persona, reagendo davanti alla persona sessuata in modo dif­ ferente, sperimenta che la propria reazione non è univocamente de­ terminata, poiché la apre a una vasta possibilità di azioni. Al contra­ rio di ciò che accade nell'animale, la cui esperienza passionale ne de­ termina il comportamento, nell'uomo non esiste un simile determi­ nismo. La reazione del suo corpo e quella del suo affetto o del suo spirito lo aprono a una grande varietà di azioni e di modi di vivere l'attrazione del bene in ragione delle circostanze in cui si trova. Se dunque l'esperienza d'amore - quale che sia il suo livello comporta una chiamata a viverlo senza avvilire la dignità della per­ sona e se in essa si risveglia la comprensione di una forma eccellen­ te d'amarsi, allora è possibile comprendere che la persona può ora ricondurre, ordinare, la grande varietà di possibilità d'amore che si presentano in modo tale che in tutte possa vivere il dono di sé. L'eccitazione del corpo e l'intenzionalità all'unione fisica, l'emo­ zione dell'affetto e l'intenzionalità alla mutua empatia, possono ora ricondursi a essere vissute in una mutua donazione e comunione con Dio. Questo fine della comunione nella mutua donazione si conver­ tirà nel fine che conferisce unità alla grande varietà di forme dell'a­ more. L'onestà che questo fine comporta, molto al di là di una qual­ siasi utilità o godimento che possa dare, seduce per la sua intrinseca bellezza e attrae di sua forza propria: vivere un amore totale con l'al­ tra persona in un dono reciproco di se stessi nella mediazione della sessualità e dell'affetto. Il desiderio di unione sessuale, il desiderio di tenerezza, di mutua empatia, raggiungono ora il loro autentico significato e il loro fine proprio, in cui possono realizzarsi in una forma umana eccellente, poiché permettono alla persona di conseguire la propria pienezza. In questo riordinamento non si tratta di imporre un ordine estrinseco,

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privo di dinamismo, ma di configurare invece la verità che in essi si è scoperta, cercando tra loro un'adeguata unità e armonia. Così, il desiderio d'unione corporea è ricondotto all'unione con la persona corporea e la mutua empatia a un'autentica concordia. Per questo si dovrà plasmare la capacità di reazione sessuale e af­ fettiva intervenendo sopra le potenze conoscitive coinvolte: sensibi­ lità, immaginazione e memoria, in modo tale che l'attenzione che si presta stia in relazione con la promessa di comunione. L'attenzione ora, vissuta attraverso queste potenze conoscitive, sarà mossa da un desiderio che fa centro non nei valori sessuali o affettivi, in quanto disgiunti dalla persona, ma presterà attenzione alla persona in quan­ to detentrice di tali valori. L'attività sessuale non è semplicemente una reazione provocata da un fenomeno neurofisiologico, ma com­ porta anche intrinsecamente per la sua realizzazione l'attenzione umana, la quale dipende dalla memoria e dall'immaginazione nel va­ lore simbolico che le è stato dato e dal desiderio che la guida. L'ordine che si plasma nei dinamismi dell'amore fa sì che i di­ versi dinamismi perseguano il loro proprio oggetto, certo, però in or­ dine al bene della comunione. Non si tratta per questo di negare la loro originalità, né di porre in dubbio la bontà delle loro reazioni, né di ignorarli, né ancor meno di reprimerli o di eliminarli, ma princi­ palmente di plasmarli, di stabilire un ordine nel modo con cui si va a reagire e cercare il proprio bene. Questo amore integrato tra l'uomo e la donna comporta un sin­ golare principio d'unità: 1 il suo affetto e la sua impulsività lo muo­ veranno a questa consegna in totalità. Le coordinate dell'affetto, che fissano il modo di cogliere il bene particolare in relazione alla deter­ minazione della vita felice, restano così stabilite in una forma diffe­ rente, in modo tale che permettono alla persona di reagire di fronte ai valori particolari in armonia con il bene complessivo della perso­ na; esso le consente di identificarsi con la sua reazione perché la sua reazione è ordinata. Possiamo ora comprendere come questo ordinarsi dell'affetto comporti una trasformazione che lo rende partecipe di qualcosa che attiene al terzo livello dell'amore: cioè lo spirito. La sua reazione sarà ora una reazione intelligente, poiché implica l'intelligenza nella sua stessa origine (cum ratione). È assai diverso quando la reazione 1 Per la relazione tra l'oggetto delle potenze umane diretto ad plura e l'unità che introduce la virtù, si veda STh, I-II, q. 54, a. 4.

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affettiva segue semplicemente la ragione, è con essa in accordo (se­ cundum rationem), come potrebbe avvenire in determinate circo­ stanze per il continente, ma senza comportare di per sé l'intelligen­ za: in questo caso ci troveremmo davanti a una reazione del corpo o dell'affetto che coincide con ciò che la ragione pensa, ma potrebbe anche non coincidere. Ed è altresì totalmente distinta da una reazio­ ne affettiva che sia contraria alla ragione (contra rationem), contra­ ria cioè al significato che la ragione attribuisce al valore della corpo­ reità o affettività. 2 Se il mucchio di polvere all'inizio della creazione fu capace di ri­ cevere l'alito divino convertendosi in una persona, anche gli impulsi della carne e l'esuberanza dell'affetto sono capaci di ricevere una nuova conformazione dallo spirito della persona (intelligenza e vo­ lontà) in forma tale che faccia di loro una cosa specificamente uma­ na, senza negare la sua particolarità. In questo modo l'originalità del­ la sua tendenza verso un bene particolare e concreto si conserva, ma ordinata a un bene superiore, il bene della persona, la sua felicità, che coincide con il bene della comunione.

2. La virtù della castità come abito La plasmazione che la persona compie attraverso l'esercizio del­ la propria libertà, riordinando l'impulso sessuale e l'intenzionalità degli affetti all'ideale di vita buona, non solo produce un effetto nel desiderio concreto che si risveglia alla vista o al contatto della per­ sona differente nella propria corporeità, ma, per il fatto di attenere alla configurazione della dimensione intenzionale, tende a permane­ re in forma stabile. Non è una cosa semplicemente circostanziale a tale desiderio particolare, ma che riguarda il modo stesso di deside­ rare un qualsiasi bene sessuale e in qualsiasi situazione. Certo che, come vedremo, non è normalmente sufficiente per questo un solo atto di riordinamento, ma sarà invece necessaria una pedagogia attraverso la quale rettificare il desiderio. Ma ciò che in­ teressa porre in rilievo è esattamente il carattere sopra-attuale di ta­ le riordinamento, in modo tale che tende a permanere nel tempo. Così come colui che apprende l'arte di scolpire va rettificando e armonizzando il proprio punto di vista, la posizione delle mani, la 2 Cf. STh, I-II, q. 58, a. 4, ad 3.

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forza del colpo... e va così acquistando una destrezza che riguarda il modo stesso di scolpire, e non solo questo colpo concreto con lo scal­ pello, così colui che va rettificando il proprio desiderio e armoniz­ zando la propria attenzione, il proprio impulso, il proprio apprezza­ mento, va acquistando un'abilità che attiene al modo di desiderare e di apprezzare la sessualità. Questa trasformazione e modificazione del soggetto nelle sue di­ verse potenze, che vengono a essere armonizzate in una forma nuo­ va, è stata chiamata nella storia del pensiero con il termine abito. Co­ sa si vuole esprimere con ciò? Quali sono le sue caratteristiche? L'etimologia ci aiuta a scoprire la sua prima nota: il vocabolo abi­ to deriva dal verbo latino habere-habitus, cioè possedere, posseduto. Si vuole con ciò esprimere una cosa veramente importante: la perso­ na «si possiede» in una forma nuova, possiede cioè il proprio impul­ so sessuale, la propria reazione affettiva, la propria capacità di do­ narsi in una forma originale, grazie alla quale possiede una vera ca­ pacità di auto-dominio. E poiché la persona «si possiede», è possibi­ le che si consegni nella totalità del proprio essere. Il dono di sé si ra­ dica perciò nella virtù della castità. In secondo luogo, ciò che si possiede non è soltanto l'impulso ses­ suale, ma anche, in un certo modo, la durata dell'amore. Se è vero che l'amore desta una promessa di futuro e che, in se stesso, ha un carat­ tere sovra-attuale, ora la persona può valutare questa dimensione temporale dell'amore in una forma nuova. La durata dell'amore si vede non tanto come qualcosa di dato, ma come qualcosa da co­ struire. Perciò la castità introduce un principio di unità decisivo lun­ go la vita che evita l'atomizzazione della condotta. In terzo luogo, dato che si modifica non il semplice desiderio par­ ticolare, ma il modo stesso di desiderare, introducendo un ordine che tende a permanere in una forma sopra-attuale, accade che la stessa natura della persona si vede modificata nelle proprie disposizioni. Chi possiede la virtù della castità ha una disposizione stabile nei pro­ pri dinamismi affettivi a reagire e ad agire in maniera nuova, in quanto essi tendono alla comunione interpersonale (in ordine ad unum ). Per questo, questa nuova forma di reagire e di agire in forma stabile è chiamata «secunda natura», poiché i suoi principi operativi in relazione alla sessualità reagiscono con la stabilità e l'organicità della natura, essendo difficilmente mutevoli. Da ciò deriva che, così come ciò che corrisponde alla natura è facile e dilettevole, così pure si introducono nella condotta virtuosa una facilità e un diletto singo­ lari nell'operare secondo l'abito acquisito.

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In quarto luogo, un'affettività così modificata dal modellarsi in essa dell'ideale di comunione raggiunge la sua potenzialità massima. In questo modo, la capacità umana di amare e di essere amato per­ viene a una situazione di massimo sviluppo, a uno stadio ottimale dei propri dinamismi, alla sua perfezione ultima. La virtù della castità rende possibile all'uomo di conseguire l'ultimum potentiae dell'amo­ re: e cioè l'eccellenza dell'amore. Grazie a questa perfezione che in­ troduce, la sua libertà si trova qualificata in una forma nuova: è in se stessa una libertà di qualità, capace di scegliere con saggezza canali eccellenti d'azione, inventando con creatività forme nuove di auten­ tico amore in relazione a circostanze sempre mutevoli. Malgrado queste caratteristiche eminentemente singolari e uma­ ne della virtù della castità in quanto abito, incide negativamente, tut­ tavia, nella sua comprensione una certa tradizione che confonde l'a­ bito con l'abitudine, con il mero costume, la castità con la pudicizia. Occorre chiarire le differenze. L'una e l'altra sono qualcosa di total­ mente diverso: 3 l'abitudine è infatti una semplice disposizione psico­ logica acquisita attraverso la ripetizione di azioni, alla maniera di un automatismo psicologico. Così la pudicizia evita determinate conversazioni o sguardi per­ ché così si è stati abituati, fugge da una reazione sessuale e affettiva non esponendosi a trattare con persone d'altro sesso, si mantiene sempre entro un margine di sicurezza ... Si tratta di un abito psicolo­ gico che ci determina a un tipo di comportamento ripetitivo, stan­ dardizzato, indipendentemente dalle circostanze in cui ci troviamo: è per questo incapace di creatività e di per sé non è adattabile al va­ riare delle circostanze, poiché non si basa sulla bontà di un motivo, ma su un automatismo. In questo modo la persona proietta le abitu­ dini acquisite nell'infanzia sull'adolescenza e questa sulla maturità, dal momento che è incapace di cambiare il proprio modo di vestire, o di stabilire un altro modo di relazionarsi con persone di sesso dif­ ferente... La sua maggiore difficoltà consiste nel fatto che, inclinando verso un determinato tipo di azioni, riduce l'ampiezza e le possibilità della libertà umana, escludendo opzioni nuove. La virtù della castità, al contrario, dipende essenzialmente dal bene che la seduce con la sua bellezza e che l'attrae con la sua forza intrinseca: vale a dire, dal bene della comunione nel mutuo dono di sé, in ragione del quale «ordina» l'uomo, qualificandolo perché com3 Cf. S. PINCKAERS, Le Renouveau de la morale, Castennan, Paris 1964, 144-161.

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pia nel concreto della sua esistenza azioni eccellenti con cui vivere e attuare la comunione nelle determinate e mutevoli circostanze. La virtù della castità si radica pertanto nella mens propria del soggetto, cioè nel suo stesso spirito, e da lì irriga l'uomo intero come unità. Per questo la virtù della castità comporta una buona qualità della men­ te, del modo di guardare, di valutare e di volere, che trasforma l'af­ fetto e l'impulso, rendendolo partecipe di sé, secondo la definizione classica di virtù ispirata in Agostino: virtus est bona qualitas mentis. 4 Allora nella virtù della castità si trova la fonte dell'originalità e della creatività dell'amore.

3. L'intenzionalità della virtù della castità Una delle critiche più comuni che si sono rivolte alla virtù della ca­ stità si riferisce alla perversione che indurrebbe circa il vero interesse per l'altra persona. Questa virtù, si dice, introdurrebbe un'autentica ossessione per la purezza interiore del soggetto, in modo tale da ri­ portarlo a fare centro su se stesso: tanto preoccupato della nobiltà del­ le proprie intenzioni, del dominio di sé, del proprio autoperfeziona­ mento individuale, finirebbe col dimenticarsi dell'altra persona. Una simile critica sarebbe vera se la virtù non fosse che il sem­ plice controllo che una ragione vuota e formale esercita sulle poten­ ze affettive, rendendo possibile uno sterile «agire secondo ragione». È certo che la virtù fa riferimento alla ragione, senza di essa sarebbe impossibile comprenderla; si tratta però di una ragione che trova nell'amore il suo senso e il suo fine. Non è una ragione vuota e for­ male, ma abitata dalla presenza di un'altra persona che la muove dal di dentro a uscire da sé. La virtù della castità trova la propria origi­ ne e il proprio fine in un amore e da esso dipende. 5 Questa riflessio­ ne ci consentirà di comprendere la natura ultima della virtù della ca­ stità. Vediamo come. La virtù comporta una trasformazione, come l'amore del resto. La trasformazione della virtù è la trasformazione che compie la ragione nel dinamismo dell'appetito, ordinandolo al fine della comunione. La trasformazione dell'amore è la presenza dell'amato nell'amante, che

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Cf. PIETRO LOMBARDO, Liber II Sententiarum, d. 27, c. 5, ispirata in AGOSTINO, De

libero arbitrio II, 19.

5 Cf. STh, 1-11, q. 56, a. 3, ad 1, quantunque lo interpreti diversamente.

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lo fa uscire da sé e lo dirige alla pienezza della comunione. Entram­ be le trasformazioni superano la concretezza del momento tempora­ le in cui sono collocate e tendono a permanere nel tempo: comporta­ no pertanto una certa «sopra-attualità». 6 La questione decisiva si si­ tua ora nel comprendere che la virtù ha la propria origine nella tra­ sformazione dell'amore, vale a dire nel dono che suppone la presen­ za dell'amato nell'amante. È per questa presenza, che oltremodo ar­ ricchisce e riempie di gioia la persona, che il soggetto possiede ora dentro di sé un principio d'ordine che può sviluppare in modo vir­ tuoso. La ragione non parte semplicemente da un ideale astratto tra­ smesso nell'educazione, ma parte invece dal dono dell'amore, inter­ pretato certo in un contesto culturale, ma che in se stesso già contie­ ne e genera un ordine iniziale che chiama la persona a conformarlo definitivamente nel proprio dinamismo. In questo modo la verità dell'esperienza dell'amore, con l'unione affettiva che comporta, configura l'intenzionalità della virtù della ca­ stità, dirigendola alla pienezza della comunione. Questa comunione può esistere solo nel dono di sé, quando realmente le persone escono da sé, in un'azione che implica una certa ex-stasis. Per questo, solo quando la persona vive un'unione affettiva è possibile che dia l'amo­ re che vive; solo quando la persona si possiede è possibile che si dia a se stessa; solo quando la persona è padrona dei propri dinamismi è possibile che in essi traspaia il suo amore di amicizia. L'integrazione di tutti i dinamismi dell'amore parte dall'esperienza d'amore e s'in­ dirizza verso la sua pienezza, a rendere cioè possibile un'azione in cui la persona possa donarsi e trovare così la comunione. La virtù della castità, pertanto, dirige intenzionalmente la perso­ na verso la realizzazione di un dono di sé, una consegna di sé in to­ talità nella mediazione dei beni concreti e particolari che attraggono la sensualità e l'affettività, come sono una manifestazione di tene­ rezza, un abbraccio, una conversazione, un'unione coniugale ecc... Questo è il fine della virtù della castità: indirizzare la persona al do­ no di sé. Ed è così che si configura come un autentico bene umano, essenziale nella vita delle persone. Possiamo allora capire perché lo stesso Agostino d'Ippona inter­ pretasse la virtù della castità come «quell'amore capace di conse­ gnarsi interamente alla persona amata». 7 La virtù della castità si con-

6 7

Cf. voN HILDEBRAND, L'essenza dell'amore, 157-169. Cf. AGOSTINO, De moribus Ecclesiae catholicae I, XV, 25.

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figura come un'integrazione dell'affettività e dell'impulsività in un ideale di vita comune mediante il dono totale di sé. È questa inte­ grazione che abilita la persona a consegnarsi in totalità, senza dop­ piezze, senza ripiegamenti su di sé. Gli innamorati sanno bene cosa siano questi ripiegamenti del proprio egoismo, che si nasconde in stati affettivi, in false ignoranze, nella debolezza dell'egoismo: sono molte volte loro a rendere difficile la consegna della persona con i loro asti, i loro timori, le loro tristezze, le loro disperazioni; nella lo­ ro debolezza evitano la consegna o tentano addirittura di trovare una giustificazione. Non è facile consegnare un amore totale, proprio perché com­ porta dinamismi diversi che non sono tra loro naturalmente armo­ nizzati. La consegna in totalità chiede questa integrazione, a rischio che la persona dia solo qualcosa di sé, il proprio affetto o la propria volontà, il proprio corpo o il proprio spirito, il proprio tempo o le proprie qualità. Consegna qualcosa, ma dove non c'è tutta la perso­ na, in cui non si fa presente tutta la persona. La capacità d'amare con tutto l'essere - impulso, affetto, spirito e carità coniugale - comporta, pertanto, un'integrazione di tutto l'essere della persona nell'amare un'altra. Quando si dà, tutto conduce a que­ sto impegno in totalità per vivere, attuare la comunione personale. Questa è dunque l'intenzionalità che la virtù della castità intro­ duce in tutto il dinamismo dell'amore: consegnarsi in totalità facen­ do un dono di sé capace di generare una comunione di persone. Si tratta dell'intenzionalità del proprio desiderio sensuale e affettivo, per cui l'integrazione dei suoi diversi dinamismi si converte in au­ tentico principio delle azioni. Possiamo ora comprendere che il dominio di sé implicato dalla castità, la perfezione soggettiva che comporta, è tutto in riferimen­ to al dono di sé, alla comunione che cerca.8 Per questo non con­ centra in alcun modo la persona in un'autoperfezione solipsistica e ossessiva, ma assume invece con realismo che l'ideale della comu­ nione passa attraverso l'integrazione del soggetto: se la persona non è veramente nel possesso di sé, non potrà donarsi veramente a se stessa.

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Cf. Catechismo della Chiesa cattolica 2337-2347.

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4. La connessione con le altre virtù e il suo influsso nell'intenzionalità La virtù della castità non va avanti da sola. Come perfezione sog­ gettiva della persona, in quanto si relaziona con i dinamismi dell'a­ more uomo-donna, essa stessa comporta anche altre qualificazioni del soggetto. Non basta soltanto la perfezione del dinamismo dell'a­ more per poter costruire azioni eccellenti. Occorre anche la perfe­ zione della luce dell'intelligenza, in modo tale che l'uomo sia capace d'amare con un amore intelligente; e la perfezione della volontà, per­ ché sia capace d'amare la persona desiderando per lei il bene che le corrisponde, dirigendolo cioè verso di lei con un amore giusto; e la perfezione del dinamismo della fortezza, perché possa amare intra­ prendendo, con un amore forte, delle imprese per la persona amata. Si dispiega in tal modo davanti agli occhi come una virtù reclami le altre, come siano connesse tra loro, come alcune influiscano sulle altre, facendo sì che la persona possa, nel concreto della propria esi­ stenza e delle proprie circostanze, costruire in verità una comunione interpersonale. Senza questa armonia di tutti i dinamismi la persona si troverebbe in difficoltà davanti alle circostanze concrete, non sa­ pendo né potendo costruire veramente una comunione. L'importanza di questa connessione delle differenti virtù è deci­ siva nel momento di comprendere la finalità di una di esse, poiché hanno un reciproco influsso nel configurare il fine di ciascuna virtù in modo armonico. Così, se la virtù della castità deve integrare i di­ versi dinamismi amorosi in maniera tale che la persona possa realiz­ zare un dono di sé per costruire così una comunione, lo farà già dal primo movimento della volontà, nella misura in cui questo dono di sé è visto come un bene per l'altra persona, adeguato alla sua dignità. La virtù della giustizia stabilisce così l'alterità necessaria nella virtù della castità. Sulla stessa linea, la persona sarà capace di realizzare questo do­ no verso cui la muove la virtù della castità, intraprendendo delle azioni persino in circostanze non favorevoli, che reclamano sforzo e lotta. Non tutto nell'amore viene alla svelta ed è spontaneo, neanche quando si ama grandemente. Anzi, l'individuo mosso dalla fortezza sarà capace di resistere nel proseguimento della comunione quando l'ambiente si fa contrario, quando il frutto non è immediato, quando tutto invita a cambiare e a smettere d'insistere, evitando così che l'a­ more si ritragga. La virtù della fortezza rende la persona capace di

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amare con realismo, imponendosi alle difficoltà, lottando per trova­ re canali di comunione. E, allo stesso modo, accade con la virtù della prudenza, poiché la virtù della castità richiede intrinsecamente l'intelligenza, fino al pun­ to di cercarla con ardore. Il fine della virtù della castità, consegnare un amore intero, ne ri­ sulta così arricchito fino al punto di configurare un agire davvero ec­ cellente; include in sé una motivazione armonicamente stabilita in relazione a un amore realista, capace di far fronte alle difficoltà. In questo modo non è possibile comprendere la virtù della castità se­ parata dalle altre, né il fine della virtù della castità isolato dal fine delle altre virtù.

5. Castità e stati di vita Il punto di vista che si è sinora dato della virtù della castità è quello che si riferisce al modo in cui è vissuta nel contesto di una re­ lazione uomo-donna che comporta una totalità, cioè il matrimonio. Sebbene ci rimangano ancora da vedere molti aspetti di questa rela­ zione, e pertanto della virtù che comporta, questo punto di vista e questa configurazione della virtù non sono gli unici. La virtù della castità, facendo intrinseco riferimento all'amore da cui muove, e all'ideale di comunione cui tende, si dispiega nei diffe­ renti stati in cui una persona può vivere, e nella perfezione propria di ciascuno di loro. La virtù della castità rende così possibile una di­ versa integrazione dei dinamismi dell'amore sia nel celibe sia in chi vive nel fidanzamento, nello sposato, nel vedovo, nella persona che ha offerto a Dio la sua verginità. L'elemento comune in tutti loro è l'integrazione possibile in or­ dine al vivere la perfezione propria dell'amore del proprio stato. La diversità viene determinata dal modo in cui questa integrazione ne risulta qualificata: castità celibataria, castità coniugale, castità verginale...

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Capitolo quattordicesimo

Prudenza e castità: la luce dell'azione e la sua regola

Ci interessa ora in modo particolare la relazione tra la prudenza e la castità, poiché in essa si coglie l'influsso decisivo che la castità esercita nella vita quotidiana, come autentico abito elettivo che è, in quanto consente di scegliere bene. L'influsso della virtù della castità sulle azioni che la persona co­ struisce era stato tradizionalmente visto dalla manualistica in un du­ plice momento: in primo luogo, in quanto evitava l'«assalto delle pas­ sioni», tenendole a freno, consentendo così alla coscienza un'adeguata deliberazione circa l'azione che fosse opportuno compiere;in secondo luogo, influiva nel momento successivo alla decisione già presa: una volta che l'uomo decidesse di fare o non fare una tal cosa, la virtù del­ la castità gli apporterebbe un complemento d'energia che gli consenti­ rebbe di porre in atto la decisione presa. In questo schema, però, la dif­ ficoltà è che la virtù, in quanto integrazione affettiva del soggetto, non interverrebbe nella scelta stessa, che dipenderebbe allora dal giudizio di coscienza. Ma questo giudizio di coscienza non è affettivamente con­ notato. Stando a questo schema, un uomo privo della virtù della castità potrebbe sapere ciò che è buono da realizzare nella propria vita con­ creta; gli sarebbe sufficiente avere un'umana intelligenza per indovi­ narlo e ragionare bene a partire dai primi principi morali (inclinazioni naturali) che gli fornisce la sinderesi e che trovano applicazione grazie alla coscienza. Ma le cose stanno così? Davvero la castità non ha un in­ flusso positivo sulla sostanza delle nostre azioni? Per risolvere la questione è necessario un appropriato concetto di ciò che è la prudenza.

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1. La prudenza: un amore intelligente La virtù della prudenza si riferisce a una qualifica dell'intelligen­ za, cioè della ragion pratica, in ordine al costruire delle azioni vera­ mente buone. Allo stesso modo in cui l'artista acquisisce una qualifi­ cazione dell'intelligenza e della sensibilità che gli permette una sin­ golare abilità per sapere cosa vuole dipingere e come esprimerlo, al­ lo stesso modo la persona prudente acquisisce una qualificazione dell'intelligenza che gli consente un'abilità per costruire l'azione adeguata. Ai nostri giorni il concetto di prudenza, di uomo prudente, si ac­ compagna tuttavia a quello di una persona calcolatrice, fredda, che non si lascia prendere dalla prima impressione, che si distanzia dalle passioni e capace di soppesare le conseguenze delle proprie azioni. La prudenza è vista a partire dalla precauzione, come l'arte di evitare i ri­ schi. Si tratterebbe dell'abilità dell'intelligenza di prevedere e calcola­ re le conseguenze dell'agire. Parlare della prudenza nella relazione uomo-donna equivarrebbe a parlare della necessità di prendere le di­ stanze dalle nostre passioni, di calcolarne le conseguenze, specie per quanto riguarda la salute, fisica o mentale. Significherebbe, in definiti­ va, un'intelligenza che si sovrappone e controlla la passione. Questa concezione della prudenza come calcolo e controllo riflet­ te tuttavia una caricatura di ciò che è l'autentica prudenza. Riducen­ do la prudenza a un calcolo, si interpreta il suo lavoro come un pon­ derare le azioni, ponendole sulla bilancia. Cade così nell'errore di con­ siderare le azioni come qualcosa che sta lì e non come qualcosa da co­ struire. Di conseguenza, non si spiega il perché di tale azione concre­ ta, come sia stata ideata, costruita, a cosa si puntasse, da dove nasca. Questo è il lavoro proprio della prudenza. A volte dovrà certamente soppesare, ma è questo un fatto di assai minore importanza. Nella riflessione classica, alla prudenza corrispondeva tuttavia non solo un calcolo circa i mezzi da usare, ma soprattutto la deter­ minazione del fine stesso e da qui la scelta di ciò che al fine condu­ ce. Essa era la virtù regina, genetrix virtutum, perché era lei a confi­ gurare il loro finalismo; l'auriga virtutum, perché guidava con vera saggezza pratica l'intero organismo morale, stabilendo un ordine ne­ gli affetti e nelle azioni. Alla prudenza corrisponde innanzitutto la determinazione del fi­ ne della castità. Ne abbiamo già parlato. Questa determinazione non la compie semplicemente guardando alla natura, a partire dalle in­ clinazioni naturali. Ma a partire dall'esperienza amorosa è capace di

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scoprire in essa una verità e di determinarla. Viene aiutata in questo compito dalle inclinazioni che si risvegliano naturalmente in tale esperienza, nella misura in cui la determinazione del fine che compie è capace di includere in modo armonico le diverse inclinazioni natu­ rali. L'inclinazione all'unione sessuale dovrà allora armonizzarsi con l'inclinazione a vivere in amicizia e alla verità, componendo così un ideale di vita buona in cui ogni inclinazione, lontano dall'essere ne­ gata, viene ordinata. È a questo ideale di vita buona, che si risveglia nell'esperienza d'amore, che indirizzerà tutto l'organismo affettivo, costituendo in tal modo la virtù della castità. Si dà il proprio fine non come qualcosa estrinseca al dinamismo, ma offrendogli invece la pie­ nezza cui era intrinsecamente ordinato. Tale inclinazione sarà così stabile e abitualmente diretta a quel fine. Ora, la prudenza potrà determinare i mezzi per raggiungere que­ sto fine, già determinato e plasmato nell'inclinazione affettiva. Si tratta di una conoscenza così attraente del fine che ci spinge alla ri­ cerca e alla scelta dei mezzi per raggiungerlo: «dall'amore al fine, la persona sceglie ciò che al fine conduce», come abbiamo visto in pre­ cedenza. Ciò che è essenziale in questo momento è comprendere che tale determinazione dei mezzi parte dalla conoscenza del fine. Ma di che genere di conoscenza stiamo parlando? Si tratta di una conoscenza che è data nella stessa reazione affettiva di fronte ai diversi beni par­ ticolari che la riguardano. In questa reazione la persona prende nuo­ va coscienza di cos'è ciò che ama, di quali sono i suoi desideri, a che cosa tende. Non si tratta dunque di una conoscenza razionalistica e nemmeno di una conoscenza che parta da inclinazioni naturali, ma si tratta invece di una conoscenza che nasce da un amore, da un affet­ to, da un desiderio concreto e attuale. È adesso che si mostra come essenziale il ruolo della virtù della castità, perché una volta che sia stata indirizzata e ordinata al fine concreto e determinato dalla pru­ denza, può allora indicare in una forma rilevante e connaturale alla prudenza stessa nella vita concreta della persona quale sia il fine che l'attrae, verso cui si dirige, cos'è ciò che ama. La prudenza può trovare una luce decisiva per illuminare la concretezza delle azioni che sono per il fine, quelle che vuole per at­ tuare il fine, propriamente nella virtù della castità in quanto desi­ derio plasmato dalla ragione. La castità influisce così nel momento intenzionale dell'azione, nella misura in cui la dirige verso i fini de­ gni di essere amati in se stessi, fini che nella loro bellezza ci sedu­ cono e con la loro forza ci attraggono. Come abbiamo visto, l'anima

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della scelta è l'intenzione, poiché in essa trovano un principio di unità le diverse pratiche umane. L'intenzione della pratica che con­ cerne l'interagire uomo-donna viene così stabilita dalla virtù della castità. Il passaggio dall'intenzione alla scelta, che costituiva l'asse por­ tante della teoria dell'azione e che urtava contro la difficoltà della concretezza e della particolarità dell'azione, è ora possibile grazie all'apporto dell'elemento affettivo intenzionale della virtù della ca­ stità. Grazie a essa non solo è possibile una conoscenza per conna­ turalità dei fini delle nostre azioni, e cioè una conoscenza nell'affet­ to, per il rilievo conoscitivo che hanno i nostri desideri nel rivelarci quel che amiamo, ma è anche possibile una nuova libertà nella scel­ ta. Nell'uomo casto, reagire affettivamente al bene della sessualità o al bene della tenerezza è già formulare un giudizio circa la bontà del­ l'azione, poiché nella reazione affettiva gli si mostra il suo legame con il fine che ama, la comunione con quella persona che è suo co­ niuge. Per questo, quando si troverà a reagire ai valori sessuali di una persona differente, reagirà in modo molto diverso, visto che non sa­ rebbe possibile porre in rapporto questa reazione con l'orizzonte globale di senso che ha con la persona cui è legata: reagire così è per il virtuoso giudicare tale possibile azione come qualcosa che davve­ ro non è conveniente. E, allo stesso modo, giudicare è già fare una scelta, poiché tale giudizio si basa su un amore sovra-attuale per il fi­ ne presente, improntando tutta la sua vita affettiva. La virtù della castità produce un gusto nuovo in chi la possiede: 1 essa gli consente di gustare il vero bene, in quanto ciò che lo attrae non è la sua semplice particolarità, la convenienza che gli produce il piacere sensuale o affettivo, ma la possibilità in lui di attuare in tale piacere la comunione che ama. Allo stesso modo in cui il gusto del palato, quando è integro ed educato, è capace di distinguere lo stato di un alimento e persino il suo valore, così la trasformazione affetti­ va che la virtù suppone comporta una possibilità nuova che gli per­ mette di cogliere in modo immediato la sua relazione con il fine e di sceglierlo con una libertà molto più pronta. Distinguere tra il bene apparente e il vero bene non è allora un problema per il virtuoso, perché non si tratta principalmente di sapere ragionare bene, quan1 Questa immagine per spiegare la modalità del giudizio morale viene usata dal­ lo stesso Aquinate: cf TOMMASO o' Aou1No. Super Ep. ad Romanos, c. XII, lect. 1: n. 967.

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to di reagire bene grazie all'affetto integrato. All'uomo casto convie­ ne il vero bene, mentre il bene apparente non arriva ad attirarlo né a coinvolgerlo personalmente. Possiamo così comprendere come ora la persona possa amare con un amore intelligente, vale a dire con un amore che possiede una razionalità intrinseca al desiderio, e che perciò viene incluso. Non si tratta di separarsi dal mondo affettivo, di controllarlo, di reprimerlo e di calcolare delle conseguenze lasciando briglia sciolta all'affetto o all'impulso sessuale se non ci fossero problemi. Si tratta piuttosto di amare con un amore intelligente, cioè con un amore conformato dal­ la prudenza. La passione allora non è eliminata, ma ordinata, acqui­ sendo un decisivo valore conoscitivo. È questo che consente la virtù della prudenza nella sua relazione con la castità: amare con passione e intelligenza, con autentica saggezza. E cosa accade per un amore senza prudenza? L'amore, senza la prudenza, si rende vano, inutile, poiché non sa come costruire.

2. La regola dell'azione casta Qual è, allora, la regola dell'azione casta? L'azione è sempre par­ ticolare, contingente, concreta, parziale. Data questa concretezza, non può contenere in se stessa la misura propria della sua bontà. Co­ sa la misura? Non basta agire in libertà e spontaneità seguendo ciò che ci appare come buono. La libertà non è la misura dell'azione: agi­ re liberamente di per sé non ci rende più veri, né più umani. Molte volte Io sperimentiamo davanti all'amarezza di azioni che si promet­ tevano tanto belle e che hanno rovinato degli amori. L'azione è sicuramente misurata dalla ragione, poiché è lei a sta­ bilire l'ordine e a costruirla. Ma con che criterio regola l'azione? In conformità a cosa? Non basta la conformità alla norma morale, è troppo generale e ci trasmette soltanto il limite umano dell'amore. Non basta la natura umana, poiché non tiene conto della particolarità della persona. Non bastano i costumi e le massime secondo cui le diverse civiltà inten­ dono il significato dell'amore, poiché non prendono in considerazio­ ne la novità delle situazioni diverse. La misura di verità dell'azione casta si trova nella sua conformità al desiderio retto. 2 2 Cf. STh, I-II, q. 57, a. 5, ad 3.

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Si apre così l'affascinante realtà dell'importanza dei desideri nel­ la vita morale e specialmente nella relazione uomo-donna. Le nostre azioni saranno veramente buone quando saranno conformi ai nostri desideri retti. Questa risposta non comporta il cadere però nel sog­ gettivismo? In conseguenza delle spiegazioni che sono state date, si può com­ prendere in che modo non si stia parlando di un qualsiasi tipo di de­ siderio, il che supporrebbe certamente un caos nella vita delle per­ sone, ma del desiderio recto, cioè del desiderio che è stato rettifica­ to, configurato, plasmato, ordinato dalla ragione in vista dell'ideale di vita buona di comunione: di un desiderio che, come tale, ci apre al­ la realtà, più ancora, all'alterità, indirizzandoci verso modalità eccel­ lenti di attuazione. Per questo include in sé la razionalità di una vita buona vissuta in comunione, che possiede anche una dimensione di giustizia, il voler promuovere il bene che attiene alla persona amata. Questa dimensione consente alla persona una riflessione circa il pro­ prio agire, spiegando le ragioni del perché operi così. L'intuizione che porta con sé la conoscenza per connaturalità, favorita dalla ri­ sposta affettiva, è un'intuizione intellettuale e, pertanto, trasmissibi­ le e verificabile. Quando la persona conosce questa conformità della propria azione con il retto desiderio? La risposta è già chiara: nella reazione affettiva ai beni che la seducono. 3 A conclusione di questa parte della regola dell'azione, possiamo affermare che l'uomo casto, proprio per la sua castità, cioè per il suo amore ordinato e plasmato dalla ragione, si converte così nella mi­ sura delle proprie azioni, nel criterio circa l'autentica bontà delle stesse. 4

3 R.T. CALDERA, Le jugement par inclination chez saint Thomas d'Aquin, Vrin, Paris 1980, 80-96. 4 Cf. ARISTOTELE, Etica nicomachea II 4: 1113al 7: STh, II-Il q. 45 a. 2. , , ,

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Capitolo quindicesimo

La carità forma e madre della castità: il dono della pietà

La virtù della castità è possibile perché i livelli corporeo e affet­ tivo dell'amore, mentre si dirigono verso beni concreti e particolari, contengono in sé una verità che è chiamata a svilupparsi dispiegan­ do tutta la propria potenzialità. Per questo né l'impulso sessuale, né l'emozione sono alieni dalla razionalità, ma sono invece aperti a es­ serne permeati. Se i distinti livelli erano tra loro irriducibili, non per questo erano alieni gli uni dagli altri, impenetrabili tra loro come compartimenti stagni. Tra loro è possibile un'armonia singolare che è frutto dell'amore e dell'attrazione che un ideale di vita buona in comunione esercita sulla persona. II desiderio sessuale e affettivo è vissuto nell'ampiezza del desiderio di felicità. Cosa avviene nella soggettività della persona quando essa s'in­ contra con Cristo? Poiché si tratta di un incontro singolare, in cui vi è un singolare riconoscimento di Cristo, non solo come un grande uomo che ci ha dato un autentico esempio e nemmeno solo come un profeta inviato da Dio che ci ha comunicato delle verità essenziali sulla nostra vita: si tratta di un riconoscimento di Cristo come il Si­ gnore, il Figlio di Dio vivo, nella cui amicizia la vita raggiunge il suo significato ultimo e definitivo. Riconoscere il Cristo è credere in lui. In questo incontro la persona scopre la vocazione cui è chiamata, il significato ultimo della propria vita, il perché esiste e per che cosa è stata creata: esiste perché è stata creata per amore e per vivere con Cristo nell'amore al Padre. Questo incontro col Cristo, che si dà nella mediazione della tra­ ma di rapporti umani dei figli di Dio, e il riconoscimento che rende

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possibile non avvengono semplicemente per lo sforzo e l'intelligen­ za umana. Solo la presenza dello Spirito Santo nel cuore del creden­ te, che precede ogni nostra risposta, permette di cogliere chi sia il Si­ gnore e in qual modo chiami a una comunione con lui, scoprendo co­ sì un'armonia prestabilita. Ma in qual modo questa presenza dello Spirito tocca la soggettività della persona? E ancora, in che modo in­ fluisce sui dinamismi dell'amore sessuale? Per rispondere a queste domande occorre in primo luogo che comprendiamo ciò che è la virtù della carità.

1. La carità: un'amicizia con Dio L'odierno concetto di «carità» si riferisce principalmente alla «beneficenza», cioè a un'azione che si compie a vantaggio di un'altra persona. L'origine di questa concezione si trova nella «secolarizza­ zione dell'amore cristiano» che ebbe luogo con Lutero. Il motivo di ciò si deve alla sua teoria della giustificazione per la sola fede, poi­ ché essendo questa esteriore, «forense», non giungeva a toccare la natura dell'uomo, che restava corrotta dalla concupiscenza. In que­ sto modo, Dio non imputava peccati al credente, i quali tuttavia re­ stavano in quest'ultimo. Era mai possibile in questa concezione un'ordinazione dell'uomo a Dio? No, proprio perché era impedita dalla concupiscenza. Per questo la carità, non toccando la relazione dell'uomo con Dio, né la giustificazione, dal momento che questa ri­ mane definita dalla fede, finiva con il perdere la sua dimensione di­ rettamente teologale e passava a essere centrata sulla ricerca del be­ ne e dell'utilità del prossimo. È qui l'origine della sua equiparazione alla beneficenza.1 La carità intende tuttavia riflettere qualcosa di molto più grande della mera beneficenza. L'affermazione di Cristo, «Non vi chiamo più servi ma amici» (Gv 15,15), si mostra decisiva per comprendere la novità della relazione che Cristo instaura con l'uomo, poiché com­ porta un'autentica amicizia, non solo di nome, ma nella verità di ciò che significa. La carità è infatti propriamente questo: una certa ami­ cizia dell'uomo con Dio.2

1 Cf. G.ABBÀ, Quale impostazione per la teologia morale?, LAS, Roma 1995, 141-203. 2 Cf. STh, 11-11, q. 23, a. 1.

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La difficoltà che questa affermazione presenta si colloca in una concezione dell'amicizia di tipo psicologico, focalizzandosi sul senti­ mento di reciproca stima delle persone. Se così fosse, sarebbe im­ possibile comprendere l'amicizia con Dio quando non vi sia simile sentimento o non se ne abbia un vissuto o, addirittura, si nutrisse un sentimento opposto. L'amicizia implica però soprattutto la reciproca comunione in un medesimo bene e la mutua benevolenza. Due persone sono di con­ seguenza amiche quando condividono un bene in comune e nutrono una reciproca benevolenza. È questo fatto che permette di applicare a Dio l'analogia dell'a­ micizia, poiché egli ha voluto condividere con l'uomo un bene, la sua eterna beatitudine, e lo fa mosso dalla sua benevolenza fino al pun­ to che, condividendo con l'uomo questo bene, genera la reciprocità. Si supera con ciò la radicale difficoltà aristotelica circa la possibilità dell'amicizia tra Dio e gli uomini poiché, secondo lui, la distanza era tanto grande che essi non potevano condividere alcun bene: 3 non po­ tevano esistere tra loro interessi in comune. Nell'incarnazione Dio ha tuttavia voluto farsi uno di noi, condividere la nostra vita e così, da pari a pari, giungere a farci partecipi della sua beatitudine. Qual è questa eterna beatitudine di cui Dio ci rende partecipi? Si tratta dell'amore tra il Padre e il Figlio. Il dono che il Padre ci fa nel Cristo è il mutuo amore, che è propriamente lo Spirito Santo. 4 Nel do­ no dello Spirito per il quale abita in noi, il Padre ci comunica la sua beatitudine eterna e in questo modo inaugura in noi un'amicizia con lui che ci trasforma e ci divinizza. Il dono che il Cristo risuscitato fa del suo Spirito trasforma l'uomo e fa di lui un alter ipse di Cristo, un «al­ tro Cristo», configurando la sua interiorità secondo il cuore di Cristo. L'uomo può ora parlare a tu per tu con Dio. Come possiamo comprendere questo dono dello Spirito? Cristo ce lo dà perché abiti in noi. Si tratta pertanto del dono di una pre­ senza dello Spirito dentro di noi. 5 Possiamo intendere questa pre­ senza come un'unione affettiva: vale a dire un'interiore presenza dello Spirito Santo nel cuore dell'uomo che lo muta, lo cambia e del quale si compiace. «Come l'amato è presente nell'amante»: così è presente lo Spirito Santo. 3 Cf. Etica nicomachea VIII, 7: 1159"4-5. 4 STh, I, q. 37, a. 1. 5 Cf. J. PRADES, «Deus specialiter est in sanctis per gratiam», in Analecta Graego­ riana 261, Roma 1993.

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Ma il modo in cui lo Spirito Santo è presente è originale rispetto a quanto avviene nell'amore umano tra persone. L'amato è infatti presente in una forma intenzionale, cioè non presente fisicamente, poiché la sua realtà rimane al di fuori: all'interno della persona passa attraverso la conoscenza di suoi determinati aspetti, ma la persona nella sua realtà rimane fuori. Nel caso dello Spirito Santo, tuttavia, ciò che l'uomo riceve non è qualcosa la cui realtà rimanga all'ester­ no, ma quel che noi riceviamo è lo stesso Spirito Santo in persona, che ora si rende presente nell'uomo, trasformandolo e dirigendolo a una reale unione con il Padre, unione che sarà possibile in azioni concre­ te, conseguendo così la pienezza di quel che gli è stato donato. Si comprende così che sarebbe possibile un mutuo convivere del­ l'uomo con Dio e una mutua conversazione, che va ben oltre la co­ scienza che l'uomo potrebbe averne, poiché si instaura la realtà del­ la mutua presenza. Con questo dono che viene dato all'uomo e che l'unisce a Dio, la persona raggiunge la sua vera perfezione ultima, il suo ultimum po­ tentiae, il massimo sviluppo del suo stesso essere. È per questo che si chiama «virtù» la carità e non tanto né principalmente perché com­ porta un'integrazione dei dinamismi, come avveniva nel caso delle virtù umane. 6 La carità è una virtù, sì, ma lo è in un modo speciale. Il dono della carità è dunque il dono di essere introdotto nella comunione trinitaria. In questo modo, la carità genera a propria vol­ ta una comunione umana: la Chiesa, famiglia di Dio, nella quale tut­ ti i suoi membri partecipano della medesima comunione, poiché a tutti è stata donata. Le relazioni umane ne rimangono ora segnate, poiché l'amore divino ricevuto si estende agli altri, si comunica agli altri, attraverso il canale aperto da queste stesse relazioni. Le altre persone entrano all'interno di questa comunicazione divina, che è quella stessa che il cristiano comunica. La carità apre pertanto un orizzonte nuovo alla persona: l'oriz­ zonte della piena comunione con Dio mediante la realizzazione del­ le diverse comunioni umane. È qui la novità introdotta dalla carità: nella comunione umana c'è una comunione con Dio. È così che l'uo­ mo, nell'incontro con Cristo, può determinare in una forma assolu­ tamente originale l'ideale di vita buona, di felicità ultima, nella co-

6 J.J. PÉREz-SoeA, «La carità e le virtù nel dinamismo dell'agire», in L. MELINA-O. BoNNEWJJN, La sequela Christi. Dimensione morale e spirituale dell'esperienza cristia­ na, LUP, Roma 2003, 135-159.

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munione con Dio e con i fratelli, partecipando del medesimo amore trinitario in una concreta modalità di comunione umana: familiare, sponsale, lavorativa, civile... Ora, tale ideale di vita buona si dà come una promessa, anticipa­ ta nel dono, certo, ma che chiede una pienezza nell'azione dell'uomo. Tra il dono e la sua pienezza c'è una distensione temporale. Dalla ca­ rità nasce ora, perciò, un dinamismo nuovo che è la speranza, come desiderio che si appoggia sull'aiuto di Dio, che muove l'uomo ad at­ tuare questa comunione in azioni concrete. È così che le azioni con­ crete sono legate a un'intenzione ultima di comunione con Dio, evi­ tando così che la persona si ritragga. Queste azioni, nella grande va­ rietà che comportano, saranno non soltanto un momento di unione con Dio, fine ultimo cui tutte tendono, ma saranno anche la possibi­ lità di partecipare i doni di Dio agli altri. Così, desiderando un bene per la persona amata, non si sta semplicemente desiderando il bene particolare e il bene massimo della felicità, ma, desiderando tali be­ ni, si sta anche trasmettendo il dono dello Spirito, nella misura in cui essi lo possono canalizzare, specificandolo. Si apre per l'uomo il cammino verso la pienezza ultima, un cam­ mino verso Dio, accompagnato dallo Spirito Santo che lo muove e lo guida nel suo andare. I passi di questo cammino saranno le sue azioni.

2. La carità che conforma la castità7 Il dono dell'amicizia con Dio comporta necessariamente la reci­ procità. Cioè, Dio ordina l'uomo verso di sé, lo unisce veramente con sé. Ma questo comporta allora che tale ordinazione influisca su tutti i suoi dinamismi affettivi. Non potrebbe essere diversamente. Dio non può avere un amico incapace d'agire perché gli manca la luce e l'energia per sapere nel­ l'esistenza concreta come agire, perché gli mancano le virtù. La pre­ senza dello Spirito Santo genera in questo modo nella persona dei principi di virtù morali, di integrazione affettiva, che in seguito do­ vranno essere personalizzati e accolti dall'uomo nelle proprie azioni. Come viene personalizzato? Per l'amore di un fine tanto grande che è offerto all'uomo, ora la persona, mossa dalla carità, genera tut7 Cf. l'eccellente lavoro di O. GoTIA, Amore, castità e carità in Tommaso d'Aqui­ no, pro-manuscripto, di prossima pubblicazione.

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to un dinamismo virtuoso che le consente la mediazione della comu­ nione con Dio. Per questo la carità è madre, perché dall'amore per il fine concepisce le virtù. 8 Le virtù morali si generano non come una proiezione delle umane potenzialità, ma come l'ordinamento che viene costituito da un bene che seduce per la propria grandezza: e quanto grande è il bene della comunione con Dio! In questa ordinazione non si tratta di sopprimere il dinamismo proprio delle virtù. Avevamo in precedenza visto come la virtù del­ la castità introducesse una singolare unità nei dinamismi dell'amo­ re, senza eliminare la loro specificità, ma integrandola nella conti­ nuazione del bene della comunione che in essi aveva plasmato. In modo analogo, la carità, nel momento in cui ci unisce con Dio, ci of­ fre il fine ultimo e questo fine ultimo è capace di ordinare i fini in­ termedi dei diversi dinamismi attraendoli verso di sé, irrigandoli con la linfa divina. 9 Questo influsso tanto decisivo è possibile proprio per la disposizione a farsi plasmare da un bene più grande, per un fi­ ne più nobile. Ora la carità, ordinando il fine di ciascuna virtù al fine della co­ munione con Dio, si converte nell'anima dell'unione intenzionale dei diversi livelli dell'agire umano. Ciascuno di essi resterà toccato dalla logica propria della carità: la logica del dono e della comunio­ ne divina. La castità, vissuta nei distinti stati di vita - celibato, fidanzamen­ to, matrimonio, vedovanza, verginità - comporterà che in essi la per­ sona, in conformità con il proprio stato, possa vivere la consegna di sé e in questa consegna trasmetterà uno specifico aspetto del dono che ha ricevuto da Dio. Nel proprio amore puro e limpido un giova­ ne che vive i suoi studi o il suo lavoro in relazione con i suoi compa­ gni comunicherà il dono dell'amicizia con Dio ricevuto nel battesi­ mo; nel proprio amore puro e limpido gli sposi andranno trasmet­ tendo il dono dello Spirito ricevuto nel loro matrimonio; nel proprio amore puro e limpido i vedovi nelle loro diverse relazioni trasmette­ ranno la fedeltà dell'amore di Dio. La ricchezza della grazia di Dio è davvero grande e ci raggiunge nella varietà di forme assunte a se­ conda della varietà delle relazioni umane. Lo Spirito Santo si converte pertanto nel principio di integrazio­ ne di tutti i dinamismi dell'amore indirizzandoli alla comunione con 8 Cf. STh, 11-11, q. 23, a. 8, ad 3. 9 Cf. voN HILDEBRAND, Essenza dell'amore, 637-737.

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Dio mediante le mediazioni proprie di ciascuno di essi. È in questa maniera che redime il desiderio umano dalla concupiscenza che mi­ naccia di ripiegarlo su di sé. Se lo sguardo concupiscente nacque in Adamo dalla rottura dell'alleanza primordiale con l'amore di Dio, ora, nella nuova alleanza, ancorando l'umano desiderio all'unione con Dio nella carità, lo redime, trasformandolo. La trasformazione accade però in un lento processo che procede dal suo ancoraggio in Dio fino alla piena spiritualizzazione del cor­ po umano. In questo progresso Dio ha voluto lasciare una traccia del peccato originale: una certa inclinazione verso il bene proprio, un certo desiderio concupiscente che introduce nella vita della persona il carattere di lotta, il quale fa sì che a volte la personalizzazione di questo dono di Dio assuma una caratteristica anche dolorosa. 10

3. Purezza di cuore e dono della pietà A motivo di questa beatificante presenza dello Spirito è possibi­ le una singolare purezza di cuore, che non soltanto corregge ogni possibile deviazione dell'amore, ma, facendolo maturare e renden­ dolo partecipe della logica del dono, gli consente di vedere Dio. «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8). Si tratta ora di un vedere Dio non nell'escatologia ultima, ma nella corporeità stessa, perché «non sapete che il vostro corpo è tem­ pio dello Spirito Santo?» (lCor 6,19). Il dono dello Spirito permette nel cristiano un dono singolare, che è il dono della pietà, grazie al quale può non soltanto scoprire il significato sponsale del corpo, ma la sorgente del suo valore ultimo: «Se la purezza dispone l'uomo a "mantenere il proprio corpo con santità e rispetto", come leggiamo in JTs 4,3-5, la pietà, che è dono dello Spirito Santo, sembra servire in modo particolare la purezza, sensibilizzando il soggetto umano a quella dignità che è propria del corpo umano in virtù del mistero della creazione e della redenzio­ ne. Grazie al dono della pietà, le parole di Paolo: "Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi{ ..] e che non appartenete a voi stessi?" (JCor 6,9), acquistano l'eloquenza di un'esperienza e divengono viva e vissuta verità nelle azioni. Esse aprono dunque l'accesso più pieno all'esperienza del significato

10 Cf. CAFFARRA,

Etica generale della sessualità, 25-31.

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sponsale del corpo e della libertà del dono collegata con esso, nella quale si svela il volto profondo della purezza e il suo organico le­ game con l'amore». 11

La castità, generata e formata dalla carità, e arricchita dal dono della pietà, si converte ora in una luce singolare che guida il cammi­ no dell'uomo, rendendolo capace di scoprire la grandezza del corpo umano, della sessualità che lo configura. Nella castità si rivela il mi­ stero di una comunione con Dio. È qui l'origine ultima del rispetto con cui il cristiano guarda il corpo sessuato, dell'umiltà con cui gli si accosta, della modestia con cui lo tratta.

11 GIOVANNI PAOLO

II, Uomo e donna lo creò, LVII. 2.

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Capitolo sedicesimo

L'educazione del desiderio

Una morale che colloca il desiderio al centro della condotta uma­ na, fino al punto di elevarlo a criterio della verità riguardo al bene, comporta immediatamente l'affermazione della necessità dell'edu­ cazione del desiderio, sino a fare di esso un desiderio «retto» e, cioè, virtuoso. Questa affermazione si fa ancora più decisiva nel campo della sessualità, in cui il desiderio sessuale si presenta con una gran­ de impulsività e l'emozione tende ad abbracciare l'intero vissuto di una relazione. La persona umana è un essere progrediente: da essere totalmen­ te dipendente e che si comporta motivato solo da un interesse, il pro­ prio piacere, diventa un essere indipendente e con un interesse cen­ trale, il bene comune di coloro che gli sono attorno. 1 Contenere la domanda del proprio piacere è cosa che da solo il bambino non può fare. Ha bisogno di essere aiutato, di essere educato. Il suo desiderio di cose che sono per lui convenienti e che lo attraggono ha bisogno di essere mediato dalla prudenza dei suoi genitori ed educatori e controllato dalla loro saggezza. Il passaggio da questa mediazione esterna alla virtù propria del soggetto è il processo educativo. La sua funzione non è tanto di «informare», né di «istruire» l'intelligenza, né di dare un'abilità al ragionamento, quanto di conformare una sog­ gettività, rendendo il bambino capace di vivere una vita buona e riu1 Cf. A. MAclNTYRE, Dependent Rational Animals. Why Human Beings Need the Virtues, Duckworth, London 1999.

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scita che tocchi il nucleo di ciò che sono i suoi desideri autentica­ mente umani: vale a dire, si tratta di costruire il soggetto virtuoso. 2 L'integrazione del desiderio sessuale e affettivo nell'amore alla persona e nella ricerca della comunione che s'impone come problema in un determinato stadio della vita, quando nella pubertà si configura l'originalità di questo desiderio. Ma proprio per il fatto che tocca la sfe­ ra del piacere, la sua possibilità di integrazione dipenderà in una certa misura da come la persona si sia posta di fronte all'esperienza del pia­ cere in genere. Non per niente la castità è una virtù che specifica in un campo concreto la virtù della temperanza, il cui ruolo consiste nel mo­ derare il desiderio di piacere in generale. La capacità che il bambino acquisirà di modificare la propria visione e valutazione delle passioni, e di vedere che al di là del bene immediato che gli provoca piacere o disgusto si trova in esse una dimensione che le trascende e che lo uni­ scono a una comunità di persone come la famiglia, la sua città, la sua nazione, sarà decisiva perché un domani possa anche affrontare il compito di modificare la propria valutazione dell'esperienza del pia­ cere sessuale alla luce di qualcosa che è più grande di lui. Forse mai come oggi si coglie una solitudine così grande nell'a­ dolescente al momento di affrontare l'interpretazione e integrazione della dimensione sessuale e affettiva. Da un lato, in una società ipo­ critamente tollerante gli vengono semplicemente offerti canali pro­ cedurali perché risolva i propri conflitti, ma sopraffacendolo con una concezione pansessualista;3 da un altro i suoi genitori ed educatori, di fronte alla propria mancanza di chiarezza e di coraggio, non of­ frono che semplici soluzioni tecniche, igieniche, di sesso sicuro, la­ sciando l'adolescente interiormente orfano. Riscoprire questa dimensione del compito educativo si manifesta come una priorità. 4

2 Per valutare quello che è il ruolo dell'educazione morale nel contesto delle ten­ denze pedagogiche attuali rinvio al decisivo articolo di G. ABBÀ, «Una filosofia mora­ le per l'educazione alla vita buona», in Salesianum 53(1991), 273-314; J.A. REIG PLA, «Presupuestos antropol6gicos para educar la sexualidad», in MARENG0-OGNIBENI, Dialoghi sul mistero nuziale, 299-314. 3 Cf. J.J. PÉREz-SoeA, «El pansexualismo y su incidencia en el matrimonio y la fa­ milia», en Ditilogos de Teologia 6: el matrimonio y la familia, claves de la nueva evan­ gelizaci6n, Almudi-Biblioteca Sacerdotal, Edicep, Valencia 2004, 83-110. 4 Cf. PONTIFICIA CONGREGAZIONE PER L'EDUCAZIONE CATTOLICA, Orientamenti edu­ cativi sull'amore umano, Città del Vaticano 1983. Si veda M.L. D1 PIETRO, Adolescen­ za e sessualità, Editrice La Scuola, Brescia 1993; Io., «Dall'educazione sessuale all'e­ ducazione della sessualità», in Anthropotes 18(2002), 245-266.

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1. Da dove parte la possibilità dell'educazione alla castità? Innanzitutto, da un'iniziale disposizione dei dinamismi amorosi a essere vissuti in una forma umana, guidata cioè dalla ragione e non dal cieco istinto. Nell'uomo non ci sono propriamente degli istinti co­ me negli animali. La pulsione sessuale nell'uomo non determina un comportamento: inclina con più o meno forza. Ma la determinazio­ ne del modo concreto con cui viverla corrisponde alla persona stes­ sa. Nella stessa esperienza del pudore abbiamo visto come ci sia un ritrarsi di fronte a una intromissione della pulsione nella capacità di governo, così come una rivelazione della dignità della persona. In secondo luogo, la possibilità d'integrazione del desiderio ses­ suale e affettivo si trova nel dono dell'amore che altri ci fanno. Quando un bimbo vive la passione del timore e fa esperienza di ciò che è la paura, solo la presenza di qualcuno che lo ama è capace di calmarlo e di dargli pace. In modo analogo il dono dell'amore, che una persona riceve dentro di sé e per il quale è arricchito in una for­ ma gratuita, comporta in quanto tale un principio d'ordine che muo­ ve il soggetto ad assecondarlo. È nell'attrazione che un'altra perso­ na esercita proprio all'interno del soggetto che si trova l'inizio del­ l'ordinamento dell'amore.5 In terzo luogo, e in strettissima relazione con il dono dell'amore umano, la possibilità dell'integrazione dell'affetto parte anche dal dono della carità. Abbiamo visto più sopra come la presenza nel­ l'uomo dello Spirito Santo comporta una prima integrazione dei suoi dinamismi: integrazione che gli viene data come un dono e che di conseguenza dovrà fare proprio, personalizzandolo. In questo farlo proprio, non parte da zero. Può contare sulla presenza di Qualcuno che ci fa dono di una prima integrazione e ci accompagna nella sua personalizzazione.

2. Il lavoro educativo personale Due immagini possono aiutarci a comprendere il modo di acqui­ stare la virtù della castità: il paragone con l'arte politica e il parago­ ne con l'acquisizione dell'abilità tecnica. È Aristotele a sviluppare il 5 Cf. P. WADELL, «Education and the Formation of the Virtues», in Anthropotes 18(2002), 179-199.

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primo paragone.6 Suona così: allo stesso modo con cui un governan­ te esercita un dominio dispotico sui servi e gli schiavi della città e un dominio politico sui liberi cittadini, così l'uomo esercita un dominio dispotico sopra le proprie membra, ma un dominio politico sulla pro­ pria affettività. Qual è il motivo di questo paragone? Il filosofo greco coglie una differenza essenziale tra i servi e i li­ beri cittadini di allora: i primi non hanno diritti, sono schiavi, per cui non possono avere proprietà, né interessi, né progetti: semplicemen­ te devono obbedire alle decisioni dei loro padroni e del governante dal momento che non possono far valere i loro diritti né difenderli. I secondi, i liberi cittadini, possiedono beni, hanno dei diritti, possono fare progetti, coltivano personali interessi. Se il governante cercherà di fare uso dei loro beni, di impadronirsene, i liberi cittadini potran­ no ribellarsi, dal momento che possono difendere i propri diritti. Il governante non può usare questi beni che non gli appartengono, so­ no di altri, né imporre loro i progetti personali, poiché sicuramente non lo asseconderebbero. Per governarli deve convincerli del fatto che i progetti di questi cittadini, se seguono l'interesse comune indi­ cato dal governante, conseguiranno la loro pienezza: i loro beni non andranno perduti, né risulteranno diminuiti, né svalutati, ma accre­ sceranno in numero e valore. Così allo stesso modo, e arriviamo ora al paragone, le membra del corpo come un braccio, un piede, non perseguono beni propri, non hanno interessi, per cui si lasciano go­ vernare dalla ragione, che esercita un dominio dispotico. I nostri af­ fetti invece... questi sì che possiedono beni propri, i piccoli piaceri, e sono enormemente interessati al loro conseguimento, così che, se la ragione vuole governarli, non può farlo in modo dispotico, perché si ribelleranno; deve farlo in modo «politico», convincendoli del fatto che, se seguono il bene che la ragione indica loro, raggiungeranno senza dubbio i loro stessi interessi e in un modo ancora più pieno. Il secondo paragone tra la virtù artistica e la virtù morale inten­ de porre in evidenza il processo della sua acquisizione. Nasce così una domanda: come si raggiunge una determinata virtù artistica, o sportiva? 7 Così, ad esempio, un bambino di pochi anni prova il desi­ derio di diventare un pianista quando ascolta la melodia che un ami­ co dei suoi genitori suona in una serata in famiglia. Avvicinandosi al 6 ARISTOTELE, Politica l, 2: 1254b2-4. Vedere la spiegazione di TOMMASO o'Aou1NO, STh, l, 81, a. 3. ad 2; I-II, q. 56, a. 4, ad 3; q. 58, a. 2. 7 Si veda la spiegazione che al riguardo fornisce S. PINCKAERS, Las fuentes de la mora{ cristiana. Su método, su contenido, su historia, EUNSA, Pamplona 1988, XV.

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piano e preso dalla musica che esce da quella cassa di legno, viene in­ vitato da quest'amico a sedersi al piano e a provarlo anche lui. Ma il tentativo si traduce per il bambino in una delusione: adesso tutto è disarmonia. Questo amico di famiglia gli spiega che deve acquisire un'abilità, un'arte, e che perciò deve sottostare a una disciplina: e co­ mincia la prima lezione... All'inizio non comprende, ma poco a poco, a forza di ripetere e ripetere i movimenti con le sue mani e le dita se­ guendo fedelmente le partiture e ascoltando i consigli che il suo maestro gli dà, va acquistando questa abilità. Poco a poco comincia a tentare pezzi più difficili, fino a raggiungere un momento in cui il maestro gli toglie la partitura e gli dice: adesso crea tu la musica, ora puoi suonare quel che tu vuoi. In modo analogo succede per l'acqui­ sizione dell'arte in un dato sport, o di un mestiere. È in essi essen­ ziale non tanto l'apprendimento teorico, quanto il provare, il tenta­ re, il ripetere i gesti, l'abituarsi poco alla volta. Agire è cosa essen­ ziale anche per la riuscita della vita morale. Vediamo il processo. Per acquistare la virtù della castità, prima di tutto c'è l'attrazione di fronte a un'eccellenza. Il bambino scoprirà di norma questa eccel­ lenza nell'amore sponsale dei suoi genitori, nel modo con cui tra loro si amano e costruiscono la famiglia, realizzando un vero focolare in cui ciascuno dei suoi componenti trova il proprio posto. Grazie a ciò po­ trà farsi un'idea di quel che è una possibilità di vita buona e riuscita: possibilità, poiché non ha ancora fatto esperienza in se stesso di ciò che è la ricchezza dell'attrazione uomo-donna, né di ciò che significa ama­ re dal punto di vista sessuale. Nella vita familiare e sociale, aiutato dai suoi, comincerà ad andare integrando i propri desideri di piccoli pia­ ceri, riferendoli al bene della famiglia, del suo gruppo di amici. In que­ sto modo il bambino va comprendendo che il proprio bene, in quanto persona, è possibile raggiungerlo soltanto nel bene della comunione. In essa raggiunge una nuova pienezza che dà senso alla sua vita. In tutto questo lavoro d'interpretazione e plasmazione dei propri desideri, il bambino va imparando a fidarsi. Quelli che lo amano gli offrono un esempio con la propria vita, una testimonianza, un richia­ mo a qualcosa di più grande, che ora, di fronte alle sue diverse espe­ rienze, va acquistando rilievo e significato assieme ai racconti che ascolta e vede all'intorno e nei mezzi di comunicazione, visti anche criticamente.8 8 Cf. A. MAclNTYRE, After Virtue, a study in mora[ theory, Duckworth, London 1985, 216-218.

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In questo modo, qualora incontri delle difficoltà per interpre­ tare o integrare le proprie diverse esperienze, farà ricorso ai pro­ pri genitori o educatori in cerca di consiglio. Si va così creando una vera amicizia nella quale si rende possibile una confidenza di fondo che permette al bambino di non pretendere di sapere tutto subito, ma di fidarsi di ciò che gli dicono i suoi genitori e maestri, anche se non capisce perché: nella confidenza che ha con loro per­ cepisce, tuttavia, che questo è ciò che per lui è davvero buono. Quando poco a poco compare l'esperienza di attrazione sessua­ le ed emotiva, l'adolescente non saprà darne un'immediata interpre­ tazione. Non comprenderà in che modo vi sia in gioco il significato della propria vita, della propria libertà. Questa esperienza Io attira però nella sua concretezza, senza che sia capace di collocarla in un quadro complessivo di senso. E lo attrae frammentando la sua con­ dotta; lo separa infatti dalle attività e dalle certezze che fino ad allo­ ra ha vissuto, dal momento che ne fa esperienza con persone diver­ se: oggi si innamora di una persona, in capo a qualche giorno di un'altra. Ancora più lo frammenta perché vive sentimenti antitetici per le stesse persone, d'amore e odio, d'indifferenza e d'interesse, in un susseguirsi impetuoso e drammatico. È adesso che va progressi­ vamente personalizzando queste esperienze, interpretandole alla lu­ ce di quel che ha compreso dalla relazione sponsale dei suoi genito­ ri e dalla spiegazione che gli stanno dando, esemplificando la propria esperienza o l'esperienza di altre persone in situazioni analoghe. La relazione che stabilisce tra questa visione che riceve e la propria comprensione di quel che è una vita felice nell'interpretazione dei propri desideri è quanto va a costituire l'universo simbolico della sua sessualità, che va man mano configurando grazie alla mediazione af­ fettiva. In questo compito, i genitori e gli educatori, e in loro la Chiesa, offrono all'adolescente la possibilità di comprendere la verità delle proprie esperienze affettive. Il richiamo alla verità si mostra decisi­ vo: l'amore ha una propria verità e questa non dipende semplice­ mente dall'intensità e novità dei sentimenti. Se però ha una propria verità, ha anche un proprio limite: la possibilità di errore. Manifesta­ re la verità dell'amore è anche manifestare il suo limite, per cui gli educatori fanno necessariamente riferimento alla legge morale che comporta determinate concezioni sia nei riguardi dell'assenso inte­ riore al desiderio (nono comandamento), sia nei riguardi delle azio­ ni esterne (sesto comandamento). Si tratta di una legge interna al­ l'esperienza propria del desiderio umano.

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Questa legge, per il fatto di dipendere intrinsecamente dalla ve­ rità dell'amore, sfugge al controllo diretto della volontà: s'impone cioè ad essa, non può cambiarla benché lo voglia. Questo fatto ha un valore pedagogico di prim'ordine, poiché consente un elemento di oggettività nella stessa esperienza del desiderio: questo non si esau­ risce nella sua soddisfazione, perché cerca qualcosa di più, cerca cioè un'eccellenza d'amore. Con ciò, nel momento in cui nega l'immedia­ ta soddisfazione del desiderio, libera la persona dal fare di nuovo centro su di sé e la dispone all'incontro con l'altro.9 La legge morale esprime in questo modo i limiti invalicabili da parte di un vissuto umano dell'amore. Al di là di questi limiti, noi non possiamo in alcun modo sostenere che stiamo amando veramente la persona, anche se volessimo affermarlo, anche se sentissimo così. Nella relazione d'amicizia e confidenza che la sua famiglia ha co­ struito e grazie all'ambito in cui è stato educato, ambienti che sono entrambi ecclesiali quando i suoi protagonisti sono battezzati, l'ado­ lescente potrà accettare la disciplina che comporta la legge morale e determinate forme di vestirsi, di parlare, di relazionarsi, di scegliere determinati film e spettacoli ... Anche se forse non comprende im­ mediatamente il senso di simili forme e di simili proibizioni, si fiderà. Ciò che qui è decisivo è che l'adolescente si fidi. Non basta che ac­ cetti queste norme per la semplice autorità di chi le trasmette, poi­ ché in questo modo raggiungerà un controllo della propria affettività del tipo del continente, ma non la sua plasmazione come il virtuoso. È necessario che faccia il passaggio di accettarle per il richiamo alla verità dell'amore che comportano, benché non comprenda ancora la sua relazione con la pienezza alla quale i suoi educatori fanno riferi­ mento, e viva, al contrario, l'intensità del piacere offerto. Gli educatori andranno plasmando in questo modo i diversi de­ sideri che vanno sorgendo nell'educando. La misura che essi stabili­ scono nella sua prudenza, come amore intelligente, andrà poco a po­ co in lui personalizzandosi. La costante attuazione dell'adolescente nel seguire il consiglio e le norme di coloro di cui si fida, di accetta­ re la disciplina che comportano, consentirà di andare rettificando i suoi desideri, ordinando la ricerca del bene particolare, del piacere che promettono, verso il dominio di sé per potere un giorno realiz9 Cf. L. MELINA, «Desiderio di felicità e comandamenti nel primo capitolo di Ve­ ritatis splendor», in G. BoRGONOVO (ed.), Gesù Cristo, legge vivente e personale della santa Chiesa, Piemme, Casale Monferrato 1996, 43-64.

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zare un dono di sé. È così che dovrà, certo, «contenere» l'impulso dei suoi desideri, ma soprattutto «ordinarli» stabilendo una misura. Questo lavoro di plasmazione dell'affetto non è libero da con­ trasti. Poiché deve introdurre una misura nella pulsione sessuale e nello stato affettivo, potrà perciò sperimentare una lotta tra due estremi: la tranquillità e la pulsione sessuale, la passione dell'amore e l'indifferenza, l'idealizzazione e il realismo. Questa lotta può sup­ porre una vera prova, proprio perché pretende di stabilire un altro criterio di verifica: l'intensità emotiva. L'assimilazione dei fallimenti affettivi si manifesta decisiva per arrivare a verificare la verità di ta­ li esperienze nell'insieme della vita. Un elemento decisivo in questo processo educativo è quello di imparare a dirigere la propria attenzione verso ciò che veramente importa: l'impulso sessuale e lo stato emotivo tendono ad assorbire l'attenzione, centrandola nella particolarità del bene sensuale o af­ fettivo che è in gioco. Non è che l'attenzione possa dirigersi facil­ mente dove il soggetto voglia, proprio perché si radica anche nei di­ namismi corporei e affettivi. La capacità di ricreare un mondo inte­ riore di racconti e di storie si mostra al riguardo decisiva, assieme al sano realismo che sa fuggire da quelle circostanze nelle quali l'at­ tenzione rimane presa, e con essa il dinamismo sessuale. È all'inizio di questo dinamismo che l'attenzione può ancora rivolgersi ad altri particolari che ci consentano di conservare la libertà interiore. Già lo stesso Agostino raccomandava il saper fuggire per tempo dalle cir­ costanze nelle quali la stessa volontà si vedrebbe poi soggiogata. Cosa avviene al giorno d'oggi, quando si è perso di vista quel che è un sano realismo nell'educazione affettiva? Il mito del buon sel­ vaggio di Rousseau pare dominare il panorama educativo, in cui un'incredibile ingenuità induce a credere che sia sufficiente che gli adolescenti e i giovani sappiano quel che devono fare perché lo fac­ ciano: «sa come comportarsi, non c'è pericolo». E non solo il pano­ rama educativo, ma il complesso delle relazioni uomo-donna. Con una strana ingenuità le persone rifuggono da certe ovvie misure di cautela ritenendole già superate, ma senza saperle sostituire con al­ tre più adatte ai tempi, confidando sulla propria sicurezza: poco do­ po si trovano davanti a sorprese non programmate. Perché non si tie­ ne conto della debolezza delle persone? Fare i conti con la nostra de­ bolezza ci rende umili e l'umiltà ci rende casti. Il processo educativo permette alla persona di integrare in modo adeguato l'impulso sessuale e l'amore affettivo, evitando una fram­ mentazione e oggettivazione del corpo umano, in modo tale che sia

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capace dell'amore autenticamente personale. Così, poco a poco, aiu­ tato dal cammino che gli indicano i suoi genitori ed educatori, assu­ mendo tali norme come la verità della propria esperienza affettiva, compiendo una volta e poi un'altra queste azioni a motivo della lo­ ro bontà, evitando determinate azioni una volta dopo l'altra, l'adole­ scente andrà acquisendo una nuova qualificazione della sua capacità d'amore, una libertà di qualità che gli consentirà di creare con au­ tentica originalità una vita d'amore. Questo è infatti il frutto della ca­ stità, la qualificazione della persona perché sappia e possa creare con originalità azioni eccellenti in cui esprimere la propria interiorità.

3. Castità e vita sacramentale Abbiamo già detto di come la virtù della castità trovi nel dono dello Spirito uno dei propri principi decisivi. Questo dono è dato in forma efficace nel battesimo. In questo modo il bambino già all'ini­ zio della propria vita cosciente sarà in possesso di un principio di unità dal momento che gli viene offerta l'alleanza con Dio. Certa­ mente dovrà farlo proprio, però partirà dal dono ricevuto e non da una situazione di rottura e lontananza da Dio. La sua crescita troverà in questo modo un ambiente interiore favorevole. È nell'eucaristia che gli sarà possibile comprendere non soltanto quello che è il significato ultimo della sessualità, il dono di sé nel cor­ po, ma che potrà alimentarsi della presenza del Signore che dall'in­ terno della sua soggettività ricompone e irrora i suoi dinamismi con la forza del suo Spirito, facendo sì che possa vivere il dono di sé in quel particolare stadio della sua vita. La castità riceve nel sacramen­ to del matrimonio una configurazione nuova, ma su questo ci soffer­ meremo più avanti. Poiché l'acquisizione della virtù della castità non è esente da ten­ tativi sbagliati, da passi falsi, da ingenuità che sfociano in insuccessi, da accecamenti che finiscono per disgustare, da curiosità che finisco­ no col rendere ciechi, da miserie che feriscono e chiudono in se stes­ si, producendo veri traumi nel cuore dell'uomo, si rende somma­ mente necessario il saper ricondurre le persone alla fonte del perdo­ no. Tra i diversi ambiti umani, è forse nell'ambito affettivo che si pro­ duce maggiore sofferenza. Le ferite affettive, chi le cura? Perché si tratta di ferite che la nostra libertà e la libertà di altri hanno prodot­ to: toccano perciò il cuore della visione che una persona si è fatta della sessualità, la capacità di libertà di fronte a essa. Una ferita af-

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fettiva non curata per tempo blocca la speranza nel futuro, rende im­ possibile un presente d'amore, rende incapaci di assimilare il proprio passato. È nell'amicizia con Cristo che scopriamo la potenza del suo perdono e come egli sia capace non solo di sanare, ma di fare sì che anche le esperienze negative concorrano al bene. Con l'olio del suo perdono il cuore si riprende, è capace di assimilare il passato, di of­ frire nel presente un perdono che riconcilia e cerca strade nuove, di sperare nel futuro. Per il sacerdote che è confidente e testimone delle ferite di un amore non ordinato, di un amore non vero, si fa necessario più che mai il saper accogliere il penitente con il cuore dell'unico Sacerdote, di colui che disse: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e op­ pressi, e io vi ristorerò» (Mt 11,28). Saper consolare, saper consiglia­ re, saper fortificare, saper animare e saper anche ricondurre le per­ sone all'origine delle loro ferite, alla radice dei loro peccati, è un'ar­ te vera e propria. Lo stile e l'amore dell'unico Sacerdote indurranno il ministro a saper trattare come lui, senza porre delle domande né più né meno di quanto sia conveniente e, nel caso, domandando in primo luogo se quello che la persona ha raccontato non la angustia e se non desideri parlarne più ampiamente. È necessario che l'esperienza delle proprie cadute nel campo del­ la sessualità siano integrate in un sano processo educativo della per­ sona, aspetto di vitale importanza nell'opera educativa e pastorale. Con ciò s'intende spiegare innanzitutto che non esiste una gradualità della legge: 10 una legge cioè che trovi una graduale applicazione nel­ le sue diverse dimensioni in ragione della situazione della persona, per cui si potrebbero consentire determinate azioni che la legge mo­ rale condanna, ma che la persona non è ancora in condizioni di ac­ cettare. Tuttavia la legge morale, dal momento che riflette l'autenti­ co bene umano e il suo limite, non può essere applicata con gradua­ lità, poiché comporterebbe l'ipotesi di accettare un'espressione non umana dell'amore: questo contraddice sempre l'amore, rende im­ possibile la sua verità. Ma, se non esiste una gradualità della legge, esiste tuttavia una legge della gradualità. Una sana legge della gradualità comincia con la conversion: nel cammino di una persona che, confidando nella ve­ rità che la Chiesa le comunica, desidera giungere a viverla e quando cade sa chiamare il peccato con il suo nome. Tra l'ideale che vuol vi10

Cf. Familiaris consortio 34.

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vere e la situazione di fragilità storica e biografica in cui si trova, si pone ora una distanza che andrà coprendo gradualmente, a tappe, in una tensione verso l'ideale. Certo, questo non può tuttavia essere confuso con una persona che ancora non ha chiari almeno i limiti umani dell'esperienza sessuale e affettiva e che, pertanto, non arriva ad accettare la norma morale negativa che proibisce determinate azioni. In tal caso non si può ancora applicare la legge della gradua­ lità, poiché un atto contrario alla norma morale negativa contraddi­ ce la tensione verso l'ideale. Per poter applicare la legge della gra­ dualità nel lavoro pastorale è necessario che la persona viva una con­ versione nel proprio modo di vedere la sessualità e nel modo di vo­ lerla. La tensione verso l'ideale parte da questa conversione.

4. Castità e legge civile Dal momento che la sessualità riguarda una dimensione relazio­ nale umana che è generatrice della stessa società, occorre che ci sof­ fermiamo, sia pur brevemente, sul rilievo educativo e sociale che ri­ veste l'ambito legislativo. Pretendere che il campo della sessualità non attenga che all'ambito privato della persona e che la legislazio­ ne debba semplicemente controllare che tale riservatezza non venga violata, lasciando ai singoli libertà nella sua configurazione, è misco­ noscere in che modo la sessualità si riferisca a un bene comune che sta alla base della stessa società. Invocare una pretesa tolleranza in questo ambito significa permettere che altri saccheggino il bene co­ mune con illegittimi ipocriti interessi. Questa pretesa nasconde tuttavia una parte di verità: la legge ci­ vile non è la legge morale, così che deve intervenire solo qualora sia in gioco il bene sociale che contempla. E quando è in gioco? Quan­ do non viene legalmente assicurato l'ambito umano del suo eserci­ zio, cioè un ambito giuridicamente riconosciuto e protetto in cui l'uomo e la donna possano realizzare un dono totale di sé generan­ do una famiglia. La legge civile deve saper riconoscere e proteggere l'identità e l'originalità del matrimonio e della famiglia e accettare il suo protagonismo sociale che si fonda sulla sua stessa soggettività. Tra i tanti aspetti da mettere in chiaro al riguardo, basta citarne due sintomatici: la protezione che la stessa legge civile sancisce del­ l'unità del matrimonio e dell'unicità del vincolo contratto dagli spo­ si, proibendo un simultaneo o successivo matrimonio, si configura come una protezione essenziale di ciò che è il bene dell'autentica co-

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munione delle persone nel tempo, giacché occorre sempre una rela­ zione fondata su un riconoscimento dell'unicità e insostituibilità del­ la persona. Affermare l'immoralità del divorzio e l'ingiustizia sotte­ sa al suo riconoscimento giuridico, non è per questo una negazione della possibilità di rifarsi una vita affettiva, ma il richiamo alla verità di questa affettività. D'altra parte, il tentativo di equiparazione giu­ ridica del matrimonio con altre forme di convivenza si configura co­ me un'autentica finzione legale, che non soltanto non protegge un bene autentico per la società, ma fa scivolare il significato del diritto nella protezione del desiderio soggettivo di chi vuole così il supposto matrimonio, facendo confusione circa il suo valore. L'obiettivo del legislatore non è però quello di proteggere supposti desideri sogget­ tivi, ma di promuovere invece il bene comune. Il fine della legge non si riferisce semplicemente a rendere possi­ bile una vita sociale nella quale i conflitti siano ridotti al minimo. Questa dimensione è importante, naturalmente, in una società mul­ ticulturale come quella attuale. Il suo fine più profondo è invece quello di rendere possibile la virtù nei cittadini. Per quanto riguarda l'ambito dell'amore incoraggiare cioè un ordine sociale in cui si pos­ sa vivere la sessualità in un modo autenticamente umano. Per l'educazione alla virtù della castità è necessario anche il rife­ rimento legislativo, non solo nella sua dimensione punitiva che com­ porta un'indubbia protezione, dissuadendo dal suo abuso, ma so­ prattutto nella sua dimensione formativa della cultura e dei valori di una società. È anche grazie a questi che la persona può farsi una rap­ presentazione simbolica del valore della sessualità.

5. Conclusione a. Visione sintetica della virtù della castità Come potremmo sinteticamente descrivere la virtù della castità? Sarebbe in primo luogo sufficiente mostrare la persona casta: il suo modo di reagire di fronte ai valori sessuali e affettivi, il suo mo­ do di operare, l'armonia della sua vita, l'unità della sua condotta, l'eccellenza del suo agire. Certamente la persona casta mostra una bellezza singolare, un'armonia propria che attrae e seduce, poiché nella sua corporeità, nei suoi gesti, nelle sue parole, nei suoi deside­ ri, si vede la luminosità di un amore, la purezza della sua intenzione, la forza di una personalità: è così che nasce il senso della nobiltà del-

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l'amore. La persona si manifesta disponibile, sempre disposta a rela­ zioni vere e autentiche: non si nasconde. Nella sua semplicità s'intra­ vede la meraviglia della composizione che ha attuato. Come davanti a un mosaico bizantino, che nella sua semplicità comunica la forza del volto della persona, ci troviamo davanti a una realtà composta di molti elementi: volte a stucco, bozzetti invisibili, pietre tagliate in di­ mensioni e colori diversi, colle e agglutinanti, intuizione dell'artista, tecnica dell'artigiano. Tutto insieme forma l'opera d'arte ed è nel­ l'insieme che il tutto è bello. Cosa compone la virtù della castità? In primo luogo alcune disposizioni che sono condizioni della ca­ stità: il pudore e l'onestà, come reazioni naturali. Pudore come in­ dietreggiamento o vergogna davanti a una reazione inadeguata alla soggettività della persona. Nobiltà od onestà, come fascino e attrat­ tiva davanti alla bellezza e dignità che la relazione corporea con la persona comporta. In secondo luogo, un aiuto, la capacità di contenere, di dominare l'impulso sessuale e il moto affettivo. La continenza, senza essere an­ cora virtù, si configura tuttavia come un aiuto iniziale. In terzo luogo, una visione, cioè un'interpretazione del significa­ to interno del desiderio sessuale: la comunione di persone, come fi­ ne verso cui dirigersi. In quarto luogo, una trasformazione dell'affetto. Il fine scoperto, voluto per se stesso, viene ora a essere plasmato poco a poco attra­ verso un processo educativo in tutti i dinamismi appetitivi. Plasmare equivale ora a ordinare, armonizzare, ricondurre le diverse finalità concrete nel perseguimento di questo fine della comunione. Implica, di conseguenza, una trasformazione del soggetto, del suo modo di va­ lutare e di volere. In quinto luogo, un abito elettivo. Questa trasformazione comincia a far sì che in seguito la persona reagisca bene davanti ai piaceri ses­ suali, poiché è in gioco l'ideale di comunione. Ma con il reagire bene potrà avere una conoscenza per connaturalità del fine amato per se stesso, cosicché a partire da lui potrà scegliere le azioni che a lui lo con­ ducono. La virtù della castità è un abito che ci consente di scegliere be­ ne: qualifica in una maniera eccellente la capacità d'amare. In sesto luogo, uno sguardo che, scoprendo la profondità della persona e la sua indisponibilità, rivela il mistero di Dio che è pre­ sente il lei. In due parole: la virtù della castità è un desiderio integrato, un af­ fetto plasmato dalla ragione.

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b. A mo' di conclusione sull'eccellenza dell'amore Come essere capaci di costruire nel concreto della nostra esi­ stenza la promessa di pienezza che l'amore ci ha manifestato? Se chi costruisce, la persona umana, è soggetto delle proprie azioni nell'u­ nità di anima e di corpo nella quale sussiste, e tra i principi operativi che l'amore comporta non esiste un'unità, dal momento che la pro­ pria soggettività è frammentata in diverse intenzionalità, come poter veramente amare? Sembra quasi esistere un salto tra il soggetto, nel­ la sua natura e nelle sue disposizioni non armonizzate, e l'azione concreta e particolare che vuole compiere. Tra l'esistere l'uno insie­ me all'altro, dato ontologico, e l'esistere l'uno per l'altro, dato dina­ mico, si apre un vuoto che né la natura, né la società possono colma­ re. Il desiderio sessuale minaccia di polarizzarsi e centrarsi nel pia­ cere sensuale e affettivo che offre, frammentando la persona. Adamo è stato creato bambino, imperfetto, senza esperienza e come lui, ogni uomo e donna. Il passaggio all'azione come comunione non è possibile se non attraverso un rinvigorimento o perfezionamento singolare della persona e delle sue facoltà operative con cui concentra i propri di­ namismi intenzionali amorosi in una comunione concreta con un'altra persona. La tendenza ai valori corporei sarà così assunta nella tendenza al dono di sé, la tendenza alla mutua empatia sarà integrata nel dono della persona, lo stesso dono della persona nel­ la comunione con Dio che le è stata data in anticipo nel dono del­ la carità. I dinamismi dell'amore, autentici principi operativi della perso­ na, sono ora trasformati. E trasformati vuole dire armonizzati, pla­ smati, ordinati, unificati. Non si tratta dunque di una repressione del­ l'impulso, o di una mancanza di considerazione dell'emozione, o di un'ignoranza ... ma di un'integrazione. Grazie a essa, la persona è ora in possesso di un modo stabile, ben definito di amare. I filosofi greci lo chiamarono areté, parola che significa eccellenza, virtù, luce ed energia. In lei si trova l'autentica abilità degli innamorati, la loro pro­ pria arte che consente loro di costruire con originalità, creatività e li­ bertà delle azioni davvero eccellenti, poiché in esse trovano il fine che cercavano: la comunione con la persona amata. La virtù della castità permette allora di riposizionare l'originaria ampiezza del desiderio. Questo non ha più centro nel piacere, ma, desiderando il piacere, tende anche alla felicità concretizzata in un

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modo di amare, nell'eccellenza di un modo di operare. L'attività è riorientata verso una totalità di vita. L'influsso di questo riordino del desiderio è decisivo nell'agire. Grazie a essa si può parlare della verità dell'amore. La misura della verità sul bene si trova in questo adeguamento dell'azione al retto desiderio che la persona vive. Per questo il virtuoso è regola e misu­ ra del proprio agire. Adamo ed Eva, l'uomo e la donna di tutti i tempi, possono ora, nella maturità che l'acquisizione della virtù della castità comporta, guardarsi di nuovo e gioire della loro bellezza: i due possono ora esi­ stere l'uno per l'altro, costruendo azioni d'amore e, nel loro amore, trovare Dio. Ma in quale modo Dio è presente nel loro amore?

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Parte quarta

La consumazione dell'amore: il dono sponsale

Introduzione

Tutti gli uomini trovano la possibilità di relazionarsi con il mon­ do grazie alla loro corporeità. Il corpo ci unisce al mondo, ci mette in relazione con esso, ci rende presenti a lui e lo rende presente a noi. Non soltanto a livello infraumano, con gli esseri viventi e le cose, ma anche a livello direttamente personale: grazie al nostro corpo si apre tutta una serie di relazioni di filiazione, di fraternità, di amicizia, di collaborazione sul lavoro, di paternità... Nell'incontro con il corpo della moglie, e viceversa, l'uomo scopre però una possibilità nuova di relazione, di mutua presenza: la relazione sponsale. Se il corpo rende possibili le relazioni con il mondo, l'attività in esso, nella differenza sessuale rende ora altresì possibile una relazione assolutamente sin­ golare e un'attività unica: quella che pone in gioco in una comple­ mentarità la stessa sessualità genitale. Ora l'uomo, mediante la sua corporeità sessuata, desidera co­ struire una vera comunione sponsale. Questo è ciò che desidera con tutto il proprio essere chi ama di un amore intelligente. Già sappia­ mo che questo amore intelligente è frutto di una singolare integra­ zione di tutti i dinamismi dell'amore nell'amore personale e nell'a­ more di carità. Grazie a questa integrazione la sua attività corporea non solo esprimerà la sua persona, ma anche il suo amore, la sua in­ teriorità, addirittura la grazia di Dio. La reciproca consegna dei corpi nella sessualità possiede, senza dubbio, un valore unico: non soltanto per l'intensità emotiva che por­ ta in sé, ma anche per il significato che in sé contiene, poiché, da un lato, i suoi protagonisti vivono un momento singolare di mutua unio-

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ne, di autentico dono che l'altra persona rende possibile, ma, nello stesso tempo, contiene in sé l'attitudine a generare una vita umana. Un'azione singolare, che consuma l'amore, che gli conferisce la sua pienezza: un'azione santa e santificatrice. Nasce così la grande domanda che ora dobbiamo affrontare: quando queste azioni che pongono in gioco la sessualità genitale so­ no un vero bene per la persona amata, per la comunione dei due? Come possono gli sposi vivere la pienezza di queste azioni? In qua­ le modo la carità s'integra in loro? Per il fatto che si tratta di un'azione di due soggetti che pone in gioco i diversi livelli dell'amore, occorre domandarsi cosa si richieda per la sua bontà. È sufficiente il contesto d'amore? Basta l'armonia affettiva? In quale cornice di senso e di intenzionalità rientrano? Questa cornice di senso è poi sufficiente? In altre parole, basta il mu­ tuo desiderio di consegnarsi perché queste azioni siano buone? Si tratta di un insieme di questioni che riguardano direttamente l'am­ bito in cui la sessualità acquista il suo autentico significato umano e lo differenziano dagli altri ambiti. Ma una volta chiarito che l'ambito umano della sessualità è esat­ tamente quello della mutua autodonazione personale, reciproca e to­ tale, è necessario mettere ora in chiaro un'altra serie di questioni. In quale modo l'amore è l'origine e il fine delle azioni per le quali gli spo­ si si consegnano mutuamente nella carne? Qual è la relazione tra l'a­ more e la fecondità? Di che tipo di fecondità stiamo parlando? Sa­ rebbe sufficiente una fecondità che permettesse una crescita nella te­ nerezza, nella relazione interpersonale? Il tema della fecondità è oggi tuttavia vissuto con vera difficoltà in molti matrimoni, a volte le diffi­ coltà possono oscurare ai coniugi il significato della paternità: in che modo allora la virtù della castità ci dà luce per comprendere quali azioni concrete compiere? E davanti alle situazioni di infertilità fisica, che soluzione dare quando non si può raggiungere il nobile desiderio di avere un figlio? È cosa buona la fecondazione fuori dell'atto di con­ segna corporale? Si tratta di domande alle quali si può dare risposta sotto molti punti di vista. Il nostro tentativo vuole affrontare quello che pone in gioco il bene della persona, il bene della comunione dei due, cioè la pienezza alla quale sono chiamati, non l'armonia fisica o psichica, non la possibilità tecnica, non le consuetudini sociali. Affrontare queste domande sotto questa prospettiva ci consente di impostare dei problemi che in altro modo risultano irrisolvibili, dal momento che manca loro una prospettiva globale di comprensione.

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Capitolo diciassettesimo

Amore e promessa: il compito del fidanzamento

Tra l'esperienza amorosa, nella quale si scopre una promessa di comunione, e la realizzazione di questa comunione nel dono di sé si apre normalmente una distanza temporale che ha un'importanza de­ cisiva nella vita delle persone. È il tempo in cui i suoi protagonisti po­ tranno verificare la promessa intuita e potranno fare i passaggi ne­ cessari per viverla. Si apre così il periodo del fidanzamento. Qual è il suo significato? Quali sono le caratteristiche di questo tempo? Quali sono le sue difficoltà?

1. Amore e temporalità Tra le diverse dimensioni umane che l'esperienza dell'amore comporta, una di queste è anche la dimensione della temporalità. La propria valutazione del tempo rimane toccata. E rimane toccata per­ ché si introduce un elemento di pienezza nuovo, che da un lato riem­ pie la persona, tendendo a occupare l'intero suo spazio temporale; si vorrebbe che il tempo fosse così per sempre, che non sparisse mai questa esperienza, ancora di più, diventa difficile concepire un tem­ po senza la possibilità di vivere con questa persona. Ma, da un altro lato, l'esperienza amorosa implica una privazione radicale: la man­ canza della presenza reale dell'amato. Ecco allora che il tempo pre­ sente si concentra in un futuro, nella possibilità di raggiungere quel che nell'amore viene promesso.

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In questo modo l'esperienza d'amore genera la speranza. Il desi­ derio umano, animato dalla pienezza promessa, aspira a raggiunger­ la, muove la persona verso il futuro. In questo modo, anche il futuro appartiene all'esperienza d'amore. A motivo della pienezza che com­ porta è capace di dichiarare alla persona che ama: «Tu non morirai mai».1 L'amore include in sé un desiderio di conservazione, un desi­ derio che questa possibilità sia «per sempre». Ora questo desiderio di permanenza non è dunque propriamen­ te vissuto come un factum, qualcosa che uno trova in sé, ma come un practicum, cioè come qualcosa da costruire. L'amore muove allora il soggetto ad accogliere il futuro dell'altra persona, facendolo proprio, assimilandolo al proprio futuro. Amare una persona vuol dire amar­ la per sempre, proprio per l'ampiezza del desiderio che anima que­ sto amore.2 Chi non è capace di affermare il «per sempre» dell'amore è per­ ché ha fatto una tragica confusione: la confusione dell'amore con il sentimento. Ne abbiamo già parlato. È la confusione propria del ro­ manticismo, che riduce la verità dell'amore all'esperienza che si ha di questo sentimento. Si comprende allora come sia difficile che tale esperienza includa il «per sempre», poiché non si può assicurare di vivere un sentimento oltre il presente. Per questa distanza che introduce tra il presente e il futuro, l'a­ more muove la persona a due atti, entrambi intrinsecamente con­ nessi: in primo luogo a credere nella promessa, credere nella rivela­ zione supposta in tale esperienza. Ecco il primo atto dell'amore: cre­ dere nell'amore.3 Gli viene infatti dato come promessa, non lo vede compiuto, e nemmeno può sperimentarlo, toccarlo, udirlo... Solo la fede in ciò che è promesso consente l'inizio del cammino dell'amo­ re. Si tratta di una fede umana essenziale nella vita, che colpisce cioè il senso della vita stessa, della sua pienezza: sì, certo, vale la pena, è questa la mia pienezza, non potrei concepire la mia vita in un altro modo... E questa fede muove ora a un secondo atto: promettere. Con ciò si dà la direzione alla vita e si assume l'impulso dell'amore in un di­ namismo personale. Amare è promettere. Comincia con piccole pro­ messe che l'uomo va poco a poco realizzando; promesse che si indi-

1 G. MARCEL, Il mistero dell'essere, Boria, Torino 1970. 2 Cf. A. SCOLA, Uomo-donna. Il caso serio dell'amore, Marietti, Genova 2002. 3 Cf. SoLOv'iiv, Il significato dell'amore, IV, 6, 91.

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rizzano a se stesso quasi inconsciamente, promesse che si fanno al­ l'altra persona: andare a trovarla, chiamarla, invitarla al cinema, in­ teressarsi di lei ... Fino al punto in cui si promette di intraprendere un mutuo cammino di fidanzamento.

2. Il compito del fidanzamento L'amore è sempre un'esperienza carica di promesse. Si scontra però continuamente con la difficoltà della realtà, dove s'imbatte an­ che nel fallimento. Amori pieni di una grande ricchezza emotiva, che avevano aperto nuove strade, ora si ritrovano sbarrati, disperati, ab­ battuti. Forse non sperimentiamo, quando andiamo a un matrimo­ nio, questa sconcertante inquietudine di dubitare se questi fidanzati cui vogliamo bene saranno capaci di vivere le speranze che li anima­ no? Perché una simile delusione? L'errore non sta, di solito, nella mancanza di sincerità iniziale, né nella mancanza di generosità. Quando le persone si amano sincera­ mente e sono disposte a sposarsi, sanno bene quel che stanno fa­ cendo e vogliono davvero viverlo. Dov'è allora la ragione di tanti fallimenti? L'errore sta proprio in una confusione iniziale: pensare che per costruire la promessa dell'amore, un matrimonio e una fa­ miglia, basti la sincerità del sentimento e la buona volontà. Come se tutto si riducesse alla decisione della volontà. Basta volere, basta de­ cidersi, basta impegnarsi. E tutto il resto viene in sovrappiù: fatale confusione. Amare è un atto di tutta la persona, nel quale intervengono i suoi differenti principi d'amore, principi che, come abbiamo visto, non so­ no ordinati né integrati tra loro naturalmente, né armonizzati, né connaturati con l'altra persona. Perché sono in due ad agire, a co-agi­ re. La chiarezza su ciò che è il matrimonio è importante, la volontà di cercare quel che comporta è decisiva, ma non basta. Si rende ne­ cessaria l'acquisizione di un'abilità, di un'arte, assolutamente perso­ nale e circostanziata che consenta loro di conoscersi, accettarsi, com­ prendersi, sapersi trattare, sapersi accogliere, sapersi aiutare, saper costruire piccoli gesti insieme: in definitiva, la virtù della castità vis­ suta ora nella novità del fidanzamento che comporta situazioni nuo­ ve e un'altra persona con cui entrare in armonia. Si apre così il compito principale del fidanzamento: aiutarsi scambievolmente ad acquisire le virtù che consentano ai due di co­ struire la comunione promessa e così verificare il loro amore. Tutto

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il lavoro di verifica dell'amore resta così unito alla costruzione di una soggettività. Si evita con ciò un pericolo radicale nel fidanzamento, che è l'in­ teresse di verificare e confermare un'altra questione, certo impor­ tante, ma fuorviante, se cioè sarà o no questa la persona della propria vita, con la quale partecipare e realizzare le speranze e gli ideali che uno vive nel profondo del suo cuore. Una simile impostazione di­ mentica una cosa essenziale: prima dell'incontro la persona ignora del tutto il destino della propria vita. È certo che ha una vaga idea di quello cui ambirebbe, ma si tratta ancora di qualcosa di astratto, di troppo generico e indefinito. La determinazione dell'ideale di vita buona, del destino della propria vita accade nella persona come una rivelazione, che si dà nell'esperienza dell'incontro: pensare di avere chiarezza circa il proprio destino e cercare ora una compagna, bloc­ ca la possibilità della stessa esperienza d'amore, dal momento che non consentirebbe di scoprire la novità che porta con sé. Il compito del fidanzamento non è semplicemente quello di discernere la com­ patibilità di questa persona con il proprio ideale di vita o con se stes­ si. Noi ignoriamo noi stessi, di cosa siamo capaci, al di là dell'espe­ rienza dell'amore. Piuttosto, ciò che nel fidanzamento si deve verificare è, in primo luogo, se la rivelazione che il soggetto ha avuto è avvenuta anche nell'altra persona, se ha illuminato per entrambi il medesimo desti­ no. Se entrambi vedono la stessa verità e sono disposti a lottare per essa. In secondo luogo, se a causa di questo stesso ideale si va pro­ ducendo una reciproca concordia circa le vie fondamentali da per­ correre, circa il modo di vivere le pratiche di condotta di vita. In ter­ zo luogo, se vanno poco a poco integrandosi le diverse dimensioni dell'amore, sia nell'uno che nell'altro. Appare così evidente che la verifica è unita alla costruzione della propria soggettività. La modalità con cui questa costruzione e verifica si realizza nei fidanzati si svolge nella loro vita quotidiana: mediante le reazioni di fronte alle diverse circostanze della vita, ai progetti congiunti, al­ le difficoltà incontrate, alle discussioni, alle conversazioni, persino all'assenza della persona amata ... È così che poco a poco si va con­ figurando la soggettività di entrambi in un modo che va loro per­ mettendo ogni volta di vivere l'uno per l'altro, così che è impossi­ bile concepire la propria vita al margine di questa mutua comunio­ ne. Il tempo del fidanzamento si configura, dunque, come un cam­ mino di maturazione, tra l'esperienza vissuta e la possibilità di vive-

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re la piena comunione. Questa distanza che si cerca di andare col­ mando è allora vissuta come un tempo di grazia che consentirà un domani di consegnarsi veramente. Non può passare sotto silenzio questa dimensione nel lavoro edu­ cativo e pastorale con i giovani. Poiché è questo ciò di cui maggior­ mente hanno bisogno e che più desiderano, un aiuto per interpretare e integrare la novità di quel che stanno vivendo: un amore che sta sbocciando, inesperto, debole, ma immensamente promettente.

3. Un amore che vuole provare: i rapporti prematrimoniali Un problema centrale che è necessario che i fidanzati compren­ dano bene, pena l'oscuramento di quello che sarà il significato della futura donazione degli sposi nella carne, è il tema dei rapporti pre­ matrimoniali. È questo forse uno degli aspetti più contestati dai fi­ danzati oggi, poiché da un lato il tempo del matrimonio si è oltre­ modo allontanato e, da un altro, è possibile tenere sotto controllo i rischi di gravidanza che certamente potrebbero alterare e cambiare i progetti umani. Questi due elementi hanno mutato socialmente e culturalmente la comprensione del rapporto prematrimoniale, riducendolo a una questione meramente privata, il cui criterio diventa la convenienza affettiva nella relazione tra i fidanzati. Specie per la donna, tali rap­ porti risulterebbero giustificati una volta che si sia giunti a un clima affettivo di mutua empatia che favorisca una certa intimità, riuscen­ do a controllare gli effetti indesiderati che potrebbero avere. Non si tratta qui pertanto della possibilità di avere rapporti ses­ suali tra adolescenti, i cui devastanti effetti sono ben comprovati,4 né di un'avventura sessuale con un'altra persona con la quale non esistono legami affettivi, o esistono in misura minima, ma di un rapporto che si colloca in un contesto personale affettivo più o me­ no direttamente vincolato a un futuro matrimonio. L'interrogativo centrale che sorge è: basta aver raggiunto il secondo livello dell'a­ more perché questi rapporti sessuali siano autentiche espressioni d'amore? 4 Cf. M. MEEKER, Epidemie. How Teen Sex is Killing our Kids, LifeLine Press, Wa­ shington DC 2002.

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Prima dei diversi punti di vista che la questione può avere, oc­ corre mettere in chiaro quale sia l'originalità del punto di vista mo­ rale. Questo si colloca, è necessario una volta di più richiamarlo, nel­ la relazione che azioni del genere hanno con la pienezza di una vita, con la loro unità intenzionale, in modo tale che possano con esse at­ tuare la vita buona. Per questo bisogna comprendere cosa i fidanzati compiono. È certo che in una simile azione desiderano una manifestazione d'a­ more, che possa aiutare una mutua conoscenza più autentica, un ri­ spetto più sincero, una più stretta partecipazione delle proprie vite, un atteggiamento più positivo nei confronti della sessualità. Nel loro rapporto vogliono esprimere più o meno questa volontà di mutuo amore. Arrivano a trasmetterlo? Dal momento che ci troviamo ad avere a che fare con azioni che indubbiamente hanno una densità singolare, occorre comprenderne la specificità. Certamente dal punto di vista esteriore ci troviamo davanti a un atto dello stesso tipo del matrimonio, che può essere persino vissu­ to con la stessa intensità affettiva. Se però entriamo nella prospetti­ va del soggetto che agisce, vedremo che ha una assai diversa inten­ zionalità. Ciò si deve al fatto che non esiste il quadro di riferimen­ to grazie al quale il linguaggio della sessualità ha un significato sponsale e che gli è dato dalla determinazione dell'intenzione. Nel momento in cui non esiste il quadro complessivo di consegna rea­ lizzata dalla persona e di accoglienza dell'altro nella totalità di ciò che la persona è, poiché manca un atto di mutua donazione irrevo­ cabile che genera una reciproca appartenenza, tale atto non può in­ dirizzarsi a esprimere la donazione di sé, perché non vi è una vo­ lontà di donarsi, cioè una volontà in atto di consegnarsi. Per questo motivo l'azione è immediatamente diretta a uno sperimentarsi ses­ sualmente, a un provarsi nel corpo, a un mutuo godimento. Certo che anche nel matrimonio esiste una ricerca di sperimentarsi ses­ sualmente, ma in un quadro di consegna in atto, di sussistenza in un'irrevocabile comunione, che è l'anima e il fine di questa espe­ rienza, come vedremo. Nei rapporti prematrimoniali, al contrario, questo sperimentarsi sessualmente non porta con sé l'intenzionalità di un comune sussi­ stere, di un consegnarsi la libertà e assumere il destino dell'altra per­ sona in totalità. Per questo implica un possedersi senza riceversi, sen­ za accogliersi. E non si possono accogliere in verità non perché non esistono delle carte, ma perché non si sono consegnati nella totalità di ciò che entrambi sono, inclusa la dimensione pubblica della perso-

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na e la capacità di decidere in futuro in senso contrario. L'amore au­ tentico non può dimenticare questi due aspetti della persona, ma è anzi chiamato ad accoglierli: la persona è anche relazionalità e tem­ poralità. Non è però solo il fatto che il rapporto prematrimoniale non comporti una totalità di consegna, ma che nel momento in cui ha come fine prossimo della propria azione e contenuto della propria scelta il provarsi sessualmente, questa scelta rende impossibile l'intenzionalità di accogliere l'altra persona nella sua alterità, poi­ ché l'accettazione dell'alterità dell'altro comporta la valorizzazio­ ne di ciò che per lui è il suo bene in quanto persona. Per questo «volere un'esperienza sessuale con una persona con la quale anco­ ra non sei sposato» è intenzionalmente incompatibile con il «vole­ re la persona in quanto tale». Per quale motivo c'è questa incom­ patibilità? Il motivo viene della struttura stessa dell'amore, dal momento che, perché la persona giunga a essere se stessa anche nella dimensione sessuale, occorre che sia accolta nella sua unicità e irripetibilità, per se stessa, e riceva, a sua volta, la consegna tota­ le di chi è «corpore et anima unus»: solo così si ha la garanzia di non farne un mezzo per la propria esperienza. La stessa ragione percepisce che l'intenzionalità rivolta a «sperimentarsi sessual­ mente» o «provarsi sessualmente» non ha nulla a che vedere con l'intenzionalità diretta a «darsi», «consegnarsi sessualmente nella totalità di ciò che i due sono». I rapporti prematrimoniali comportano la logica del provare per consegnarsi, ovvero, a seconda dei casi, del provare senza darsi, fa­ cendo una riserva, o del godersi senza possedersi. Ma «provare» l'al­ tra persona non conduce mai a consegnarsi a lei: poiché l'autentica consegna personale si basa sulla fede nell'amore, non sull'esperien­ za di soddisfazione soggettiva. Il vero amore implica un'assenza di condizioni che è radicalmente distrutta nel rapporto prematrimonia­ le, dove la condizione della sua continuità consiste nel fatto che riempia, soddisfi. Questa strana logica dei rapporti prematrimoniali, la logica della prova, offusca la logica propria della consegna nell'u­ nione coniugale, che è la logica del dono; s'introduce la continua ne­ cessità della prova prima di ogni impegno, o la necessità di accertar­ si che sia di soddisfazione, anche con il consenso dell'altro: è sempre possibile l'egoismo a due. Il suo dramma è di ferire l'amore, già al suo stesso inizio. La persona è anche il suo tempo. Esso fa parte di ciò che siamo. È il tempo che stabilisce un'essenziale differenza tra due azioni in

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apparenza assai simili: il dare e il prestare. Darsi implica dare la li­ bertà, donarla, senza possibilità di reclamarla per sé al di fuori della comunione: si dà la libertà in tutto il tempo della persona. Prestarsi implica dare qualcosa per un tempo stabilito, qualcosa che si può re­ clamare, qualcosa che si sa che può ritornare verso di sé, poiché non si perde. Si può pensare di consegnarsi, ma, nel momento in cui si esclude il tempo nella propria consegna, ciò che si fa è prestarsi. Non è sufficiente il secondo livello dell'amore, la risonanza ed empatia af­ fettiva, per garantire che tali azioni siano veri atti d'amore. Certo oggi in molti casi i fidanzati giungono al matrimonio con un'esperienza sessuale già vissuta, giustificata come normale e persi­ no come buona per la conoscenza reciproca che induce. Ciò che è es­ senziale è mostrare loro che se finora hanno potuto provarsi, d'ora in poi, nella consegna di se stessi nel matrimonio, non possono ap­ plicare la stessa logica: d'ora in avanti dovrà essere un'altra cosa, poi­ ché non si tratta di sperimentarsi sessualmente e constatare che tale esperienza dà soddisfazione e perciò si continua questo modo di vi­ vere. Nel matrimonio di tratta di consegnarsi sessualmente secondo la logica dell'amore coniugale e la sua più essenziale verità, che è la logica del dono totale di sé. Soltanto un'impostazione secolare del matrimonio e del fidanza­ mento lascia l'uomo in balia della propria debole volontà per giusti­ ficare poi i propri errori con la scusa del risaputo: «Mi dispiace, l'ho fatto perché ti amavo». L'amore non giustifica mai alcunché. Al con­ trario, quando uno ama davvero, si rimprovera enormemente l'inca­ pacità e la mancanza di fortezza e intelligenza del proprio amore: perché con ciò ha rovinato quel che più desiderava. Tentare di giu­ stificare tali rapporti con il «contesto dell'amore» nel quale potreb­ bero ammettersi significa non capire che l'amore ha una verità pro­ pria, che occorre riconoscere. La difficoltà che ha dato origine all'attuale forma di concepire i rapporti prematrimoniali nasconde dentro di sé un'autentica sfida per i fidanzati. È necessario vedere per quale motivo il tempo del fi­ danzamento si è dilatato o, meglio, perché lo stanno dilatando i suoi attori. Si possono addurre ovvie necessità economiche e professio­ nali. Tuttavia non è questo il problema. Poiché ciò che questa impo­ stazione nasconde è molte volte la mancanza di maturità di un amo­ re nel governare le circostanze e la sua storia, senza riuscire a con­ durre la vita con un autentico protagonismo. È per questo che, da­ vanti a questa mancanza di speranza, le persone rimandano il com­ pito di formare una famiglia fino a quando le incognite circa il futu-

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ro si siano più o meno risolte. Ma non si compromette in questo mo­ do l'amore sin dal suo inizio? L'amore cessa d'essere il motore di una vita. Oggi tuttavia il tema dei rapporti prematrimoniali acquista aspetti nuovi, come sono i matrimoni di prova o le convivenze. Da­ vanti a queste appare con ancora più radicalità la difficoltà che tan­ te persone hanno non solo di credere nell'amore, ma di amare per davvero: cioè di impegnare la propria libertà. Il successo o meno di tale convivenza, di tale prova, si troverà nel fatto che la prova sia soddisfacente, che le circostanze sostengano. Allora però la persona ha perso il governo della propria vita. Persone deboli convivono fin­ tanto che trovano una mutua gratificazione, senza farsi carico sul se­ rio del destino dell'altro. L'amore si è trasformato in un progetto me­ ramente privato, intimista, che non ha l'energia per costruire. In que­ sto modo la convivenza si rende impossibile la comunione. Quando la Chiesa chiede ai fidanzati la castità, con l'astensione da manifestazioni d'amore che sono proprie del matrimonio,5 ciò che fa è di richiamare la verità del loro amore e delle loro speranze. Con ciò sta loro ricordando il senso del loro fidanzamento e il compito che essi hanno davanti: prepararsi, integrando i propri desideri, per la reciproca consegna di sé. La verginità è uno dei doni più grandi che gli sposi possano scambiarsi il giorno delle loro nozze, poiché indica il cammino di integrazione che entrambi hanno compiuto. E la vergi­ nità non è semplicemente una questione fisiologica, ma una disposi­ zione del cuore ad amare in pienezza. Può accadere nella donna che, una volta persa la verginità, ormai ogni cosa le sia indifferente e si la­ sci andare su una strada sbagliata. È proprio allora che si rende ne­ cessario saper risvegliare l'autentico significato spirituale insito nella verginità, in quanto capacità d'amare in modo esclusivo e totale, e sperimentare in quale maniera il perdono del Signore è capace di rin­ novare il cuore.

5 Cf. Persona humana 6-7 e Catechismo della Chiesa cattolica, 2350: «I fidanzati sono chiamati a vivere la castità nella continenza. Messi così alla prova, scopriranno il reciproco rispetto, si alleneranno alla fedeltà e alla speranza di riceversi l'un l'altro da Dio. Riserveranno al tempo del matrimonio le manifestazioni di tenerezza proprie dell'amore coniugale. Si aiuteranno vicendevolmente a crescere nella castità».

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Capitolo diciottesimo

L'origine del matrimonio: dono di sé e dono dello Spirito

L'esperienza dell'amore è in sommo grado promettente: apre un nuovo destino alle persone, offre la possibilità di una comunione in­ terpersonale unica e originale. La solitudine cede il passo a una co­ munione in cui ormai non si vive semplicemente per sé, e in se stes­ si, sussistendo nella propria libertà. Si scopre ora come la propria esi­ stenza sia un «esistere insieme a» un'altra persona e come il senso della libertà sia «esistere per» un'altra persona. Un'altra persona che è stata data come un dono e che durante il fidanzamento si è potuto accertare quanto sia unica e irripetibile, con una dignità senza ugua­ li, e come questa dignità impedisca di usarla. L'esperienza d'amore maturata nel fidanzamento ha inoltre consentito a entrambi di com­ prendere in qual modo si dia un «noi ideale», una comunione pro­ messa in cui tutti e due possano raggiungere la pienezza ultima. Que­ sto è il bene ultimo, il bene che uno desidera quando desidera la per­ sona: che sia lei stessa nella pienezza del suo essere, cioè nella co­ munione reciproca, nel «noi». Questo fatto di esistere per un'altra persona in un «noi» non è però percepibile in alcun modo come il mero frutto del sentimento. L'esistere per un altro, il vivere in un «noi» richiede l'implicazione della propria libertà. Il sentimento da solo non basta. È necessario che la libertà della persona si dia, si offra, si ponga in gioco. Ciò si­ gnifica che l'amore chiama la libertà dell'uomo a uscire da se stesso, dalla propria esistenza, dalla propria sussistenza, ed accogliere l'altra persona e consegnarsi a lei, sussistendo nella reciproca comunione. In che cosa consiste questo atto di libertà?

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1. L'origine del matrimonio a. L'alleanza d'amore Questo atto della libertà, preparato nel corso del fidanzamento mediante piccole consegne e mosso dal grande amore affettivo, è il momento in cui la persona accoglie la totalità della persona che ama e, prendendo la propria vita nelle proprie mani, la consegna a sua volta a questa persona, unendo in modo definitivo i propri destini. La determinazione dell'ideale di vita buona, del destino in cui vive­ re la felicità, richiede non solo un'adeguata interpretazione nell'e­ sperienza affettiva, ma anche, e soprattutto, una sua scelta definiti­ va: si tratta della scelta della persona alla quale si indirizzerà la pro­ pria vita e con la quale vivere una comunione per tutta la vita. Tra le tante persone che sono al mondo e le differenti maniere di vive­ re, l'esperienza d'amore mostra la sua unicità e irripetibilità di que­ sta comunione. Alla libertà della persona compete ora il fissare definitivamente questo fine. E lo fa con un atto singolare, che è la reciproca promes­ sa che anticipa l'effettiva consegna. Chi ama promette sempre. Ora però si tratta di una promessa molto speciale, dal momento che è la promessa che specifica il modo con cui nel tempo si va a vivere: ac­ cogliendosi e consegnandosi nella propria unicità e irripetibilità sen­ za condizioni. Come sono e in ciò che sono: consegnando persino la capacità di decidere in futuro in senso contrario. Altrimenti, la per­ sona potrebbe essere usata, potrebbe essere sostituita. Si tratta per­ tanto di una promessa che racchiude un'accoglienza e una consegna nella totalità di ciò che la persona è. E la persona è anima-e-corpo, è tempo, è relazioni, è salute e malattia, è successo e fallimento, è pos­ sibilità di paternità o maternità. E poiché è totale, la consegna è irrevocabile. Questa irrevocabi­ lità della consegna è vista come un autentico bene per la persona, grazie al quale potrà essere se stessa e crescere in un'unità di vita. Impegnarsi a termine comporterebbe non assumere la temporalità in cui la vita si svolge, contraddicendo la stessa esperienza d'amore che indicava una pienezza. E dal momento che la persona è relazionalità, la stessa consegna acquista una dimensione pubblica: ciascuno dei coniugi vive in una fa­ miglia, ha degli amici, forse un lavoro, una comunità ecclesiale... La mu­ tua consegna suppone ora un «lasciare padre e madre», cambiare il po-

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sto in cui si vive... modificando la propria vita di relazione. Per questo la consegna reciproca si fa davanti alla società in cui vivono. Perché? Perché si vuole rendere giusta la nuova relazione, mostrare cioè la ve­ rità della propria intenzione di accoglienza in totalità e di consegna in totalità.1 Chi ama davvero desidera manifestare la propria intenzione, non cerca di nascondersi. Se prende una donna, separandola dal suo ambiente, è perché davvero è risoluto a farla felice nella reciproca co­ munione. E viceversa. E lo vuole far sapere alla sua famiglia, ai suoi amici, alla Chiesa, in un modo che sia per loro comprensibile. Questo atto di volontà, con cui i due mutuamente si accolgono e si consegnano in totalità, si chiama consenso. Ma a che cosa si ac­ consente? La difficoltà consiste nel pensare che si debba acconsenti­ re su una maniera di relazionarsi uomo-donna che viene imposta dalla società, o dalla Chiesa. Si acconsentirebbe in definitiva a ciò che è stato regolato dalla legislazione. Nulla di più lontano dal vero significato del consenso matrimo­ niale. Ciò cui entrambi danno il consenso è infatti la verità dell'amo­ re che si è loro rivelato nella loro stessa esperienza: 2 una verità che è in sommo grado attraente e promettente. Con questo si mostra una cosa essenziale, a differenza degli altri contratti le cui clausole pos­ sono essere stabilite dalle parti contraenti. Nel patto d'amore che un uomo e una donna stabiliscono, non sono loro a fissare le clausole di tale mutuo patto, ma vengono loro già date dalla verità dell'espe­ rienza amorosa. Essi possono sposarsi o no, far nascere il matrimo­ nio o meno, ma la natura del matrimonio, che esso sia così, non di­ pende dalla loro libertà. Chi è allora il suo autore? Ci si rivela come, allorché l'uomo e la donna accolgono la verità che il loro amore ma­ nifesta, stiano accogliendo colui che ha fatto l'amore così: acconsen­ tono in definitiva a Dio che ha istituito il matrimonio.3 Questo mutuo consenso dà origine al matrimonio, un'alleanza d'amore, una comunità di vita e d'amore, un vincolo indissolubile. Ora i due sussistono nella comunione reciproca: la loro esistenza ne risulta unita al punto che solo in questa unione possono ottenere la pienezza della loro vita. È una consegna che ha generato una reci­ proca appartenenza. Se è possibile possedere delle cose, non si può

1 Cf. K. WoJTYLA, Amore e responsabilità, 232-236. Cf. G. ANGELINI, «La teologia morale e la questione sessuale. Per intendere la si­ tuazione presente», in C.I.F, Uomo-donna. Progetto di vita, UECI, Roma 1985, 82-83. 3 Cf. Pio XI, Casti connubii 5-10. 2

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tuttavia possedere delle persone, perché non sono oggetti; le perso­ ne, tuttavia, si appartengono reciprocamente. Il consenso matrimoniale configura così l'esistenza degli sposi. L'intenzionalità dei loro desideri resta ora fissata nell'esistere l'uno per l'altro, nella mutua comunione. Questa configurazione dell'in­ tenzionalità è quella che offre un quadro di senso ultimo a tutta una vita, vissuta in una grande varietà e gamma di azioni. Azioni che sa­ ranno, anch'esse, atti mutui di libertà, per cui sarà sempre necessario che la persona si metta in gioco agendo, passi all'azione nel suo cam­ mino quotidiano. E tra le diverse azioni ve n'è una, molto singolare, che consuma l'amore: l'unione coniugale. Ci interessa soffermarci un poco sulla bontà di ciò che ha gene­ rato la mutua promessa: la bontà del matrimonio.

b. La bontà del matrimonio Nella storia del pensiero si è andata formando una riflessione sul­ la bontà di questo nuovo stato di vita che nasce dalla mutua consegna: il matrimonio. Di fronte a una considerazione gnostica o manichea o catara che lo disprezzava e lo manipolava per il fatto di fondarsi sulla corporeità, la Chiesa ha sempre affermato la sua bontà: si tratta cioè di una vita in comune che rende l'uomo buono, che l'aiuta a raggiun­ gere la sua pienezza. Come potremmo descrivere questa bontà? Sono state diverse le spiegazioni che si sono date di ciò in rap­ porto precisamente alla negazione di cui erano oggetto. Agostino d'Ippona ha sviluppato una riflessione sul matrimonio basata sui tre beni fondamentali4 - la prole, la fedeltà e il sacramento-, riflessione che ha avuto un influsso decisivo nella storia della teologia e che è stata adottata dal magistero. 5 Per il nostro studio è essenziale capire che con la riflessione sulla bontà del matrimonio si tratta di com­ prendere quali sono i fini che ha in se stesso come realtà sociale e, cioè, a cosa sia ordinata di sua propria natura la comunione tra l'uo­ mo e la donna. Tra i distinti beni, due principalmente risaltano, che a loro volta sono intrinsecamente uniti: da un lato il bene dei coniugi e, dall'altro, la trasmissione della vita. 6

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Cf. AGOSTINO, De bono coniugali XXIV, 32. 5 Si veda Pio XI, Casti connubii 11-44. 6 Cf. Codice di diritto canonico 1055.

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a. Nella vita comune Adamo, l'uomo di tutti i tempi, può speri­ mentare come Eva, la donna, e viceversa, sia un autentico aiuto si­ mile a sé. Aiuto non semplicemente funzionale, in ordine al dominio sulla creazione, ma aiuto per ciò che si riferisce al senso e al destino della sua vita: una compagna cioè con la quale realizzare un destino mutuo più grande dell'esistenza singolarmente intesa. Questa vita comune, nel momento in cui implica la partecipazione al bene della reciproca intimità, porta con sé un'amicizia tra i due, una «società amicale» nell'espressione agostiniana: amicizia intessuta di tenerez­ za, di mutua attenzione, di reciproca conversazione, di convivenza, di lavoro, di mutua fedeltà, di esclusività, di comune lode a Dio... Un'a­ micizia che, ben oltre l'utilità funzionale per raggiungere un deter­ minato status economico e sociale e ben oltre il piacere che apporta, si fissa nel bene della comunione. Ed è in questa comunione che en­ trambi conseguono il loro telos, il loro significato, la loro perfezione ultima. Tra i due si instaura una comunità di sentimenti, più ancora, una comunità di carattere in cui crescere ed aiutarsi mutuamente a vivere nell'eccellenza di un amore creativo, forte, intelligente.7 È in questa vita comune che i due modelleranno definitivamente e reci­ procamente le loro virtù, poiché ciascuno dei due diventa l'autenti­ co scultore del proprio coniuge. La radicalità implicata da questa amicizia nei confronti di altri tipi di amicizia,così come la profondità dell'ambito che si condivide,è quel che fa sì che sia vista come la più grande amicizia che si possa dare.8 b. Questa vita comune contiene però in sé una nota che la diffe­ renzia nei confronti di altre forme di vita comune o amicizia: nell'im­ plicare la coniugalità, e cioè la consegna sessuale del corpo in un'in­ timità, è di per sé una forma di vita che è finalizzata alla trasmissione della vita stessa. Si tratta di un fine intrinseco al matrimonio che ca­ ratterizza questo amore nei confronti di altri tipi d'amore. L'amore tende a espandersi, a comunicare la ricchezza che vive. Ma nel caso dell'amore coniugale, la espande in un modo originale, poiché gene­ ra la persona: è questo il suo modo proprio, radicalmente diverso da

1 Etica nicomachea VIII, 12: 1162a25. 8 Summa contra Gentiles III, 123: «Amicitia, quanto maior, tanto est firmior et

diuturnior. Inter virum autem et uxorem maxima amicitia esse videtur: adunantur enim non solum in actu carnalis copulae, quae etiam inter bestias quandam suavem societatem facit, sed etiam ad totius domesticae conversationis consortium; unde, in si­ gnum huius, homo propter uxorem etiam patrem et matrem dimittit, ut dicitur Gen 224. Conveniens igitur est quod matrimonium sit omnino indissolubile».

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tutti gli altri. Trasmettere la vita, generare ed educare delle persone, è un autentico bene del matrimonio: contribuisce cioè alla pienezza della comunione coniugale nell'aprirla alla comunicazione della vita. Allora gli sposi raggiungono una pienezza nuova nella genitorialità. Il matrimonio come realtà sociale, una forma cioè di vita comune e irrevocabile tra un uomo e una donna, risulta specificato dai beni o fini che lo contraddistinguono da altre forme di vita. Tra loro, ciò che più lo distingue è la trasmissione della vita, perché soltanto in questo tipo di relazione si può generare ed educare umanamente i figli. Per questa ragione si afferma che il fine principale del matrimo­ nio è la trasmissione della vita. Principale qui non vuole significare il motivo che deve presiedere la costituzione del matrimonio né la vi­ ta comune degli sposi, perché se così fosse si strumentalizzerebbero reciprocamente. Principale intende esprimere ciò che in senso pro­ prio lo distingue dalle altre realtà sociali e che solo il matrimonio può umanamente realizzare. 9 Di fronte a questo fine tanto singolare, quando si tratti della specificazione di questa realtà sociale, il bene dei coniugi o mutuo aiuto acquista una posizione secondaria, anche se, come è evidente, non nella propria vita matrimoniale. Entrambi i beni, il mutuo aiuto e la trasmissione della vita, confi­ gurano intrinsecamente il simbolismo della vita matrimoniale, confi­ gurandolo come uno stato di vita nel quale i due raggiungono una pienezza singolare della loro vita, precisamente perché si tratta di una vita nell'unione dei due capace di espandersi, di comunicarsi, di trasmettere il dono della vita. 10 È una vita in se stessa feconda, che mostra ai coniugi un significato nuovo della loro stessa identità come persone. Formare una famiglia appare allora come una possibilità ca­ rica di promesse e di senso, seppure anche di difficoltà e di incognite. Una promessa che aiuta a superare il pericolo di ripiegarsi su di sé, trasformando le proprie relazioni in un mero gioco amoroso, sessua­ le e sentimentale, che lo vizierebbe alla radice, soffocandolo. Forse gli sposi non sono pienamente consapevoli di tutto ciò che questa vita porta con sé, ma capiscono che è un autentico bene per loro, che li attrae, che li arricchisce. Quando si sposano non sanno co­ me sarà la loro vita comune, la famiglia che possono formare, come saranno i figli, se verranno o meno, se saranno sani, se avranno que­ sto o quest'altro temperamento. Non tutto è chiaro, ma l'attrattiva Cf. RHoNHEIMER, Etica della procreazione, 60-63. Cf. Per il significato dell'esperienza di paternità: G. ANGELINI, Il figlio. Una be­ nedizione, un compito, Vita e Pensiero, Milano 1991. 9

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che tale promessa di formare una famiglia esercita su di loro fa sì che si fidino, che accolgano questo bene iscritto nella loro vita comune e credano nel progetto di Dio, nella sua provvidenza. Sarà nel culmine della propria vita, nel trascorrere del tempo, ri­ cevendo i figli ed educandoli, facendoli partecipi del proprio amore e facendosi essi stessi partecipi del loro amore, che scopriranno la grandezza di quel desiderio originario di entrambi di formare una fa­ miglia. Sono loro, i loro figli, non solo quelli che riempiono la loro esistenza, ma quelli che hanno reso e rendono possibile una forma nuova del dono di sé degli sposi, di una pienezza d'amore, di una pie­ nezza di comunione. Senza di loro sarebbe impossibile comprendere il cammino di creatività, di superamento, di pienezza che i genitori hanno percorso.

2. Il dono dello Spirito: la carità coniugale Come abbiamo visto, l'esperienza dell'amore rivela all'uomo aspetti decisivi della sua vita, della sua vocazione all'amore, della sua pienezza ultima: in essa può comprendere d'essere chiamato a forma­ re una comunione nella quale Dio stesso si rende presente. Se ora ap­ profondiamo ancora più la promessa dell'amore coniugale così com'è vissuta dai cristiani e ci interroghiamo circa la sua origine ultima, sco­ priremo la sorgente da cui procede e la fonte del suo splendore. Questa sor&ente nascosta non è altro che il cuore di Cristo aper­ to sulla croce. E nel sacrificio della croce, nel dono di sé che Cristo ha compiuto con la consegna del proprio corpo, che ci si rivela il sen­ so ultimo di ciò che è l'amore di un uomo e di una donna che sono figli di Dio. È questo amore di Cristo di cui sono resi partecipi gli sposi cristiani quando si sposano «nel Signore»,11 che trasforma il lo­ ro amore sponsale non soltanto in un segno significativo dell'amore di Cristo, ma anche in un segno che attualizza tale amore nella realtà della loro coniugalità. Il modo in cui al giorno d'oggi viene vissuta in occidente la realtà del sacramento del matrimonio da tante persone, fa tuttavia sì che l'amore di Cristo sia considerato come qualcosa di estrinseco all'a-

11 Cf. C. CAFFARRA, «Fondamenti dottrinali della famiglia», in A. L6PEZ TRUJIL­ Lo-E. SGRECCIA, Famiglia:cuore della civiltà dell'amore, LEV, Città del Vaticano 1995, 41-51.

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more sessuale tra un uomo e una donna, e la grazia che il sacramen­ to conferisce come qualcosa d'aggiunto a tale amore, in quanto of­ frirebbe semplicemente un singolare apporto d'energia. Per questo si rende necessaria una cerimonia nella quale questa grazia venga data e ricevuta, come una benedizione. L'amore tra l'uomo e la don­ na non implicherebbe però in sé radicalmente l'amore di Cristo. Il modo in cui nella tradizione cristiana occidentale il matrimo­ nio è stato vissuto esprime al contrario qualcosa di molto diverso. Era propriamente la realtà dell'amore tra un uomo e una donna, che in quanto figli di Dio si promettevano un amore per sempre, ciò che faceva nascere il sacramento. Fino al concilio di Trento (XVI secolo) la Chiesa ha accettato i matrimoni clandestini, compiuti dalla pro­ messa reciproca quantunque senza la presenza di testimoni. Dal con­ cilio di Trento in poi, di fronte alla vasta problematica casistica pro­ dotta da questa pratica, la Chiesa ha stabilito la forma canonica im­ ponendo la pubblicità del mutuo patto d'amore. Non ha inteso con ciò eliminare la realtà che sussisteva in precedenza, cioè che è in for­ za del mutuo patto d'amore tra un uomo e una donna cristiani che si configura il sacramento del matrimonio, ma soltanto stabilire la for­ ma di questo patto. Ci è pertanto necessario saper recuperare questa visione per la quale il mutuo patto d'amore tra un uomo e una donna si costituisce in vero sacramento della grazia di Cristo. Sorgono così differenti questioni che occorre chiarire: in qual modo gli sposi partecipano dell'amore di Cristo? E ancora, cosa comporta la partecipazione del1 'amore di Cristo nel loro amore coniugale? Per rispondere a queste domande è necessario comprendere l'a­ more con il quale Cristo ci ha amati. 12

a. L'amore di Cristo Nella sua incarnazione il Verbo eterno ha assunto per intero ciò che appartiene all'uomo, volendo amare con un cuore umano, pen­ sare con un'intelligenza umana, reagire con un'affettività umana, agire con un corpo umano (cfr. GS 22). All'origine della sua attività tanto straripante e stupefacente si trova la volontà umana del Figlio

12 Cf. NoRIEGA, «El camino al Padre», in MELINA-NORIEGA-PéREz-SoBA, La p/e­ nitud del obrar cristiano. Dinamismo de la acci6n y perspectiva teologica de la mora/, 155-182.

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di Dio. È il Figlio l'unico soggetto d'azione, ma agisce come vero uo­ mo, cioè con un'autentica e integra natura umana che non è stata as­ sorbita né mescolata con la natura divina e le sue proprietà. Ma nel­ lo stesso tempo non è nemmeno separata né divisa dalla persona del Figlio. La natura umana di Cristo, in tutto uguale alla nostra eccetto che nel peccato, è vero principio di operazioni. Com'è allora possibi­ le la sua azione redentrice? La risposta del vangelo è chiara, dal momento che ci mostra co­ me Cristo fosse guidato nella sua umanità dallo Spirito: 13 venne dunque condotto nel deserto dallo Spirito (Mc 1,1; Le 4,1); nel me­ desimo Spirito dà inizio al proprio ministero (Le 4,14); in virtù del­ lo Spirito è capace di scacciare i demoni (Mt 12,28), di esultare di gioia (Le 10,21); e nell'ora della passione è la Lettera agli Ebrei (9,14) a dirci qual è la fonte ultima della consegna di Cristo in obla­ zione al Padre: lo Spirito eterno.14 Possiamo così comprendere la vi­ ta di Cristo, dall'incarnazione per opera dello Spirito fino alla sua piena spiritualizzazione nella risurrezione: è il cammino vissuto dal Figlio di Dio come vero uomo che riceve man mano le diverse effu­ sioni dello Spirito.15 Il ruolo dello Spirito nella vita dell'uomo Gesù ha una singolare rilevanza proprio per la guida della sua umanità. Lo Spirito aleggia su Gesù per farne colui che riceve le indicazioni del Padre, mediando tra lui e l'umanità di Cristo. Si supera con ciò una visione eccessivamen­ te cristomonista della persona del Verbo incarnato, recuperando la sua dimensione pneumatologica, andata perduta nella tradizione la­ tina.16 Non invano il grande Basilio aveva affermato che «tutta l'atti­ vità di Cristo si realizzò grazie alla presenza dello Spirito Santo».17 Siamo così al punto che l'attività di Cristo ha la propria origine nel movimento che lo Spirito imprimeva nel suo cuore e nella sua in-

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Si veda al riguardo: L. LADARIA, «Humanidad de Cristo y don del Espiritu», in

Estudios Eclesiasticos 51(1976), 321-345.

14 Cf. A. VANHOYE, «L'Esprit éternel et le feu du sacrifice en He 9,14», in Biblica 64(1983), 263-274. 15 Cf. J. GRANADOS, Los misterios de la vida de Cristo en fustino martir, Analecta Gregoriana, Roma 2005. 16 Y. CoNGAR, «Pneumatologie ou christomonisme dans la tradition latine?», in Ecclesia a Spiritu Sancto edocta. Mélanges G. Philips, Gembloux 1970, 41-63. 17 BASILIO, Sullo Spirito Santo: PG 32, 157 A. Si vedano al riguardo le profonde ri­ flessioni di F. PILLONI, «"Affidati allo Spirito Santo". Riflessioni pneumatologiche in margine ad alcuni testi patristici», in L. MELINA-J. NoRIEGA, Camminare nella luce, LUP, Roma 2004.

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telligenza. Ci si manifesta con ciò la fonte del suo amore, della sua consegna, del suo offrirsi per gli uomini. La volontà che si consegna sul Getsemani in obbedienza al Padre è la volontà umana del Verbo, che possiede un dinamismo e un potere proprio.18 È qui che appare in tutta la sua forza il ruolo dello Spirito Santo, dal momento che, perché la volontà umana possa compiere in un modo connaturale l'originario progetto del Padre, occorre che sia dinamicamente abili­ tata: 19 è questo il lavoro proprio dello Spirito, che infonde in essa i suoi doni, dandole impulso interiore. In questo modo, la consegna umana del Verbo eterno, cioè il suo amore umano, è mosso dal dono dello Spirito, ed è per questo sua espressione.20 Il dono di sé del Cristo nasce dal dono dello Spirito e si dirige al Padre, alla comunione con lui. E poiché si tratta del dono del Figlio di Dio nella carne, il Padre gli concede nella risurrezione la pienezza del dono dello Spirito, trasformando definitivamente la sua carne, il cor­ po debole che aveva ricevuto nel seno della Vergine Maria, in Spirito vivificante (lCor 15,45). Ora Cristo diventa la fonte dello Spirito. S. Giovanni vede il dono dello Spirito anticipato nell'esaltazione della Croce, quando dal suo costato aperto effonde sangue e acqua, simbolizzando il dono dello Spirito. L'amore di Cristo, dal momento che è mosso dallo Spirito nel­ l'obbedienza al Padre, si fa canale del dono dello Spirito. Tutta la sua umanità, il suo corpo, le sue parole, i suoi gesti, la sua figura umana, il suo volto umano, il suo modo di vivere, la sua preghiera, il suo amore... si trasformano così nel «canale» per mezzo del quale il Pa­ dre ci comunica il dono del suo amore. Questa stessa logica dell'incarnazione continua nel tempo, poi­ ché il medesimo Spirito che ha abitato in pienezza in Cristo, e che si è abituato al suo profumo filiale, si dà a noi in effusioni diverse at­ traverso i sacramenti. Tra essi, il lavacro battesimale rigenera e con­ cede l'unzione dello Spirito: ora lo Spirito abita nel credente, confi­ gurandolo al Figlio. Il credente è così introdotto nella comunione tri­ nitaria, partecipando dell'azione di Cristo.2 1

18 Cf. MASSIMO IL CONFESSORE, Disputatio cum Pyrrho 6: PG 91,301. 19 Cf. M. BORDONI, Gesù di Nazaret. Presenza, memoria, attesa, Queriniana, Bre­

scia 1995, 239-240. 2 Cf. C. CAFFARRA, Vida en Cristo, Pamplona 1988, 31. 21 Si veda al riguardo J. LARRù, Cristo en la acci6n humana segun los comentarios biblicos de Sto. Tomas, LUP, Roma 2004.

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Possiamo ora comprendere una delle più singolari caratteristiche dell'amore di Cristo: questo non si basa semplicemente sulla sua in­ tensità, ma principalmente sul fatto che è capace di comunicarsi gra­ zie al dono dello Spirito. E ciò che comunica è il dono dello Spirito stesso che ci introduce nella comunione trinitaria. Si tratta, in defini­ tiva, di un amore che si comunica e genera una comunione.

b. L'effusione dello Spirito nel matrimonio Ciascun sacramento costituisce una singolare effusione dello Spi­ rito, che configura il credente a diversi aspetti della persona di Cri­ sto e del suo agire: la sua filiazione divina, la sua presenza, il suo per­ dono... Anche il matrimonio è un sacramento e, come tale, comporta una singolare effusione dello Spirito di Cristo nei promessi sposi.22 Questo fatto viene eloquentemente significato nella solenne «bene­ dizione nuziale» durante il rito del matrimonio, in cui il celebrante supplica il Signore: «Effondi su di loro [i novelli sposi] la grazia del­ lo Spirito Santo, affinché, in virtù del tuo amore riversato nei loro cuori, perseverino fedeli nell'alleanza coniugale».23 Ma dove sta l'o­ riginalità di questo dono dello Spirito agli sposi cristiani? L'originalità del dono dello Spirito nel matrimonio consiste nel fatto che si tratta di un'effusione dello Spirito che li configura all'a­ more sponsale di Cristo, con il quale egli si consegna alla Chiesa, co­ stituendola innanzi a sé limpida e senza macchia (Ef 5,25-26). Si trat­ ta di una singolare dimensione della sua consegna d'amore che ora si attualizza nella promessa d'amore mutuo e totale dell'uomo e del­ la donna battezzati. La consegna propria degli sposi si trasforma in un «sacramento», cioè in un mistero di salvezza in cui si fa presente l'alleanza di Cristo con la sua Chiesa. Mediante questa singolare effusione dello Spirito, la carne di en­ trambi i coniugi viene unta in una forma nuova, facendo sì che i due diventino uno, rendendo però nello stesso tempo la loro carne capa­ ce di trasformarsi in autentico soggetto d'amore salvifico. Si tratta di un'unzione che tocca la carne e le sue proprietà e le va trasforman­ do poco a poco. In questo modo tutti i dinamismi dell'amore sono ora plasmati in una forma originale: l'amore coniugale, con tutta la

22 Cf. P. EvooKIMOV, Il sacramento dell'amore: Il mistero coniugale secondo la tra­ dizione ortodossa, Cens, Brescia 3 1983, 93. 23 Cf. GIOVANNI PAOLO II, Lettera alle famiglie 4.

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ricchezza di dimensioni e di sfumature che comporta, si trasforma in autentica carità coniugale. «Questa rivelazione raggiunge la sua pienezza definitiva nel dono d'amore che il Verbo di Dio fa all'umanità assumendo la natura umana, e nel sacrificio che Gesù Cristo fa di se stesso sulla Croce per la sua Sposa, la Chiesa. In questo sacrificio si svela interamente quel disegno che Dio ha impresso nell'umanità dell'uomo e della donna, fin dalla loro creazione (cfr. Ef 5,32s); il matrimonio dei bat­ tezzati diviene così il simbolo reale della nuova ed eterna Alleanza, sancita nel sangue di Cristo. Lo Spirito, che il Signore effonde, dona il cuore nuovo e rende l'uomo e la donna capaci di amarsi, come Cristo ci ha amati. L'amore coniugale raggiunge quella pienezza a cui è interiormente ordinato, la carità coniugale, che è il modo pro­ prio e specifico con cui gli sposi partecipano e sono chiamati a vi­ vere la carità stessa di Cristo che si dona sulla Croce».24

La specificità di questa carità coniugale viene sottolineata dal fat­ to che si tratta di carità, sì, ma vissuta nella coniugalità. Carità, perché si tratta di un'originale comunione con Dio che gli sposi ricevono, cioè di una specificazione e di un approfondimento dell'amicizia con Dio. Occorre a questo punto sciogliere un dubbio: l'amicizia con Dio è qualcosa di dinamico, come ogni amicizia, non qualcosa di statico. Due compagni di studio possono vivere una semplice amicizia uni­ versitaria, in cui condividono la formazione, ma nello stesso recipro­ co cameratismo cominciano a condividere più cose: dei progetti per l'estate, la stessa esperienza di fede, le rispettive difficoltà familiari. L'amicizia va così approfondendosi nella misura in cui condividono beni più personali. Analogamente accade con Dio, l'amicizia che s'i­ naugura nel battesimo è chiamata a crescere e ad approfondirsi, nel­ la misura in cui la persona si apre a nuovi doni di Dio. La carità co­ niugale comporta pertanto una forma nuova d'amicizia con Dio. Perché coniugale? Cosa si vuole esprimere con questa afferma­ zione?

c. La carità coniugale Si tratta di una comunione singolare con Dio, che si dà però nel­ la coniugalità, cioè nella relazione uomo-donna in quanto coinvolge

24

Familiaris consortio 13.

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la sessualità. Il dono dell'Amore che unisce il Padre e il Figlio entra ora in tutti i dinamismi amorosi umani dell'uomo e della donna e li plasma secondo l'amore di Cristo per la Sua Chiesa, facendo i co­ niugi partecipi di questo amore indissolubile. In questo modo Dio at­ tira i coniugi uno verso l'altro, e viceversa, riordinando tutti i loro di­ namismi umani, irrorandoli con il dono del suo amore. Se è possibi­ le che attragga i loro dinamismi amorosi verso di sé, ciò si deve però alla singolare e nuova presenza dello Spirito in loro. Questa presenza dello Spirito trasforma l'amore umano in mo­ do tale che ora gli sposi, amandosi, amano Dio; lasciandosi amare, si lasciano amare da Dio; accogliendosi, accolgono Dio; donandosi, donano Dio. L'amore sponsale si rende così capace di trasmettere il dono ricevuto. Se la specificità di questo amore sponsale sta preci­ samente nella consegna della persona nella corporeità, con il cui linguaggio gli sposi vogliono mutuamente trasmettersi l'apertura di un'intimità, la mutua presenza reciproca, la compagnia nella vita e il comune destino, questa consegna vissuta in una grande varietà di azioni, che prendono tutte il loro colore dalla coniugalità, si con­ verte ora nella capacità di comunicare vicendevolmente l'Amore di Dio. Gli sposi cristiani, per il fatto che il loro amore nasce dal dono dello Spirito che integra e plasma tutti i loro dinamismi amorosi, nel loro amore coniugale si trasmettono l'un l'altro il dono dell'a­ more di Dio. Per questo il loro amore coniugale si trasforma in ca­ rità coniugale, poiché rende possibile una vera comunicazione del dono di Dio che apre una profondità nuova nell'amicizia di en­ trambi con Dio. Nell'amicizia coniugale gli sposi vivono l'amicizia con Dio. È ora possibile comprendere perché il modo di partecipazione alla carità di Cristo sia specifico nei coniugi. L'originalità consiste, precisamente, nel fatto che questa partecipazione si dà nella coniu­ galità. «E il contenuto della partecipazione alla vita del Cristo è anch'esso specifico: l'amore coniugale comporta una totalità in cui entrano tutte le componenti della persona - richiamo del corpo e dell'istinto, forza del sentimento e dell'affettività, aspirazione dello spirito e del­ la volontà -; esso mira a una unità profondamente personale, quel­ la che, al di là dell'unione in una sola carne, conduce a non fare che un cuor solo e un'anima sola: esso esige l'indissolubilità e la fedeltà della donazione reciproca definitiva e si apre sulla fecondità. In una parola, si tratta di caratteristiche normali di ogni amore coniugale naturale, ma con un significato nuovo che non solo le purifica e le

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consolida, ma le eleva al punto di farne l'espressione di valori pro­ priamente cristiani».25

Nessuna dimensione autenticamente umana dell'amore è sop­ pressa né svalutata. Sono tutte integrate in una forma nuova d'amo­ re che rende gli sposi partecipi della carità di Cristo. Con ciò si in­ tende indicare come nella specificità propria dell'amore tra gli sposi si trovi una nuova qualificazione che consente ai coniugi di amarsi con un amore salvifico. Ciò che è salvifico è il loro amore coniugale. La coniugalità, con la sua ricchezza impulsiva, affettiva e personale, si rende capace di veicolare la salvezza: l'alleanza con Cristo. Possiamo ora comprendere la profondità del grande comanda­ mento di Cristo: «che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati» (Gv 15,12; 13,34). Questo «come» non si riferisce semplicemente né principalmente a un'imitazione in generosità del dono di Cristo, ma ad un amarsi come egli ci ha amato, cioè: «Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9). Amarsi con l'amore con il quale il Padre ha colmato Cristo, il suo Spirito, poiché in Cristo era fonte d'amore verso gli uomini. Ora, per l'originale dono dello Spirito nel sacramento del matrimonio, gli spo­ si si amano tra loro con l'amore che spingeva Cristo a consegnarsi per la Chiesa: il suo Spirito, che assume in sé tutti i loro dinamismi, santificandoli. Ecco la novità dell'esistenza degli sposi. Il loro esistere umano non sarà semplicemente un sussistere nella loro persona mediante la libertà, e neppure sarà un sussistere nella mutua comunione per il mutuo dono, ma acquisterà invece la fisionomia di un sussistere di entrambi nella comunione trinitaria.

d. Il mistero della creazione e il mistero

dell'amore sponsale di Cristo

Le precedenti riflessioni ci hanno aiutato a comprendere il mi­ stero che è racchiuso nell'amore cristiano tra l'uomo e la donna: es­ so comporta una sua trasformazione attraverso il dono dello Spirito in modo tale da rendere i coniugi capaci di partecipare al dono di sé che il Cristo compie per la Chiesa, costituendola suo proprio corpo.

25 Familiaris consortio 13.

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«Mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezza del lavacro dell'acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ru­ ga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, come fa Cri­ sto con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! Quindi anche voi, ciascuno da parte sua, ami la propria moglie come se stesso, e la donna sia ri­ spettosa verso il marito» (Ef 5,25-33).

Questo passo della Lettera agli Efesini, bello e fondamentale nell'analogia che stabilisce, ci consente di comprendere una duplice relazione tra il matrimonio e il mistero dell'amore sponsale di Cri­ sto. Da un lato, infatti, il matrimonio nella tipicità del suo amore è fonte di conoscenza dell'amore redentivo di Cristo per la sua Chie­ sa: ci permette di comprendere che si tratta di un amore sponsale, che comporta una totale ed esclusiva dedizione che genera una nuo­ va unità. Da un altro lato, però, l'amore di Cristo per la Chiesa si con­ figura come la fonte dell'esistenza dell'amore coniugale.26 La stessa Lettera ci consente di focalizzare l'intima relazione tra la creazione dell'uomo e la sua predestinazione in Cristo (Ef 1,3-14). Quale «idea» aveva il Padre nel momento in cui ai primordi del­ la storia modellava quel fango e gli infondeva il suo Spirito? L'idea con cui formò la corporeità umana era esattamente il dono di sé del Cristo nel proprio corpo. La futura consegna del Verbo incarnato, consegna totale, consegna feconda, consegna esclusiva, configura con le sue qualità la sessualità umana. Le mani del Padre, il suo Ver­ bo che-si-incarnerà-consegnerà-e-risusciterà e il suo Spirito che­ sarà-dato, impastando il fango, lasciano le impronte del proprio es­ sere nella carne di Adamo ed Eva. Per questo dunque ogni uomo e ogni donna che nella consegna del loro amore ricevono l'effusione dello Spirito che unge la loro carne e fa di questo amore un sacramento, ricevono la possibilità del­ la pienezza alla quale sono stati chiamati nell'istante della creazione.

26 Cf. CAFFARRA,

Etica generale della sessualità, 91-101.

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La loro corporeità e la loro sessualità, plasmate dalla nuova presen­ za dello Spirito, integrate nella consegna di Cristo, raggiungono la lo­ ro verità ultima: l'essere per il dono di sé, comunicando il dono del­ lo Spirito. Mancherà loro di ricevere nella carne anche la pienezza ultima del dono, la risurrezione, il dono dell'incorruttibilità, con il quale la potenza dello Spirito divinizzerà definitivamente tutti i dinamismi dell'amore, concentrandoli nell'accoglienza totale e immediata del dono del Padre nella comunione dei santi. Sarà il cammino che con­ giunge le nozze sponsali dei coniugi alle nozze dell'Agnello, percor­ so con la novità della coniugalità nell'immensa varietà di azioni che rende possibili, a far sì, con il concorso degli altri sacramenti, che la loro carne vada poco a poco rendendosi adatta a ricevere ogni volta di più, fino alla sua pienezza, il dono definitivo dello Spirito.

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Capitolo diciannovesimo

La consumazione dell'amore: l'unione coniugale

Il reciproco patto con cui l'uomo e la donna si accolgono e si consegnano nella totalità del loro essere, generando una comunità di vita e d'amore che si qualifica per la sua capacità di trasmettere la vita e per il bene del mutuo aiuto che rende possibile nei coniu­ gi, raggiunge la sua perfezione ultima nella consumazione del ma­ trimonio, quando i due arrivano a essere una sola carne nella con­ segna di sé nel proprio corpo. Consumazione vuole esprimere non l'estinzione di una cosa (da consumere: ridurre a uno stato di esau­ rimento, distruggere), ma la sua perfezione ultima (da consumma­ re: portare a pienezza, rendere perfetto, raggiungere la maturità, coronare). Con una mirabile sintesi, il concilio Vaticano II richiama la gran­ dezza di questa unione degli sposi nella carne: «Questo amore è espresso e sviluppato in maniera tutta particolare dall'esercizio degli atti che sono propri del matrimonio; ne consegue che gli atti coi quali i coniugi si uniscono in casta intimità, sono ono­ rabili e degni, e, compiuti in modo veramente umano, favoriscono la mutua donazione che essi significano ed arricchiscono vicendevol­ mente in gioiosa gratitudine gli sposi stessi» ( GS 49).

Si tratta di un'azione assolutamente caratteristica, non solo per l'intensità emotiva e psicologica che comporta, ma soprattutto per la

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pienezza di consegna che implica e per il significato che esprime. In essa si trova una grande ricchezza di significato che è necessario met­ tere in evidenza.

1. La singolarità dell'unione coniugale Perché si possa percepire la grandezza dell'unione coniugale, conviene in primo luogo valutare alcuni tratti della sua stessa struttura. Si tratta innanzitutto di un atto umano, più precisamente, un at­ to della persona, che agisce nell'unità di corpo e anima in cui essa sussiste. Ci troviamo davanti a un atto libero, volontario, ma radica­ to in tutto un dinamismo affettivo e sessuale che desidera, tende a un'unione corporale genitale che conviene alla sua disposizione. Questo dinamismo sessuale, che interviene come vero principio del­ l'azione, sfugge tuttavia al controllo diretto della volontà. In secondo luogo, l'unione coniugale comporta propriamente un'azione di due persone: richiede una singolare interazione tra uo­ mo e donna, che in una reciprocità dinamica sono capaci di coagire in una singolare armonia nello sviluppo delle diverse fasi della dinami­ ca sessuale. In terzo luogo, questa reciprocità nel mutuo agire non si riferisce unicamente né principalmente all'azione considerata esteriormente, cioè in quello che i due eseguono, ma si riferisce principalmente alla reciprocità motivazionale e intenzionale con cui agiscono, cioè i due partecipano alla ricerca degli stessi beni umani che sono in gioco. Al­ lorché ci fosse una rottura su questo punto, l'atto coniugale ne risen­ tirebbe in modo radicale, fino a rendersi impossibile. In quarto e ultimo luogo, si tratta di un'azione che è permeata di un singolare piacere reciproco, non solo per la sua intensità sensua­ le, ma principalmente per la grandezza della sua motivazione, così che tale piacere si trasforma in gioia, ricolmando i suoi protagonisti di soddisfazione. Si tratta di caratteristiche strutturali dell'azione, di cui occorre sempre tenere conto, ma che ancora non rivelano il suo mistero. Per questo è necessario entrare nel suo significato.

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2. Significato dell'unione coniugale Interrogarsi sul significato di una cosa vuole dire interrogarsi sul suo valore, collocandolo nel contesto globale di una vita. Interro­ garsi sul significato dell'unione coniugale non è lo stesso dell'inter­ rogarsi circa il significato del matrimonio in quanto realtà sociale. 1 Il valore del matrimonio, la bontà che lo contraddistingueva, era, in primo luogo, la trasmissione della vita e, in secondo luogo, l'aiuto vi­ cendevole. Ora ci interessa interrogarci su un'azione concreta e pre­ cisa all'interno del matrimonio: l'unione coniugale. Interrogarsi cir­ ca il significato di un'azione è chiedersi quale sia il suo senso all'in­ terno della vita della persona, quale sia la sua ragion d'essere, il suo finalismo. Qual è il significato dell'atto coniugale? Nemmeno i coniugi lo sanno fino in fondo, poiché si sottrae a una ben definita concettua­ lizzazione. Mossi dal desiderio, si consegnano mutuamente, senza nemmeno riflettere. Questo fatto originario della spontaneità che introduce il dinamismo sessuale non comporta tuttavia che l'azio­ ne che compiono non abbia un senso o che non lo vivano così. E ciò si fa evidente per due fatti ben precisi. In primo luogo, perché si abbandonano al desiderio soltanto quando si tratta di quella persona, il proprio coniuge, unico e insostituibile, così che quell'a­ zione è vissuta con un'esclusività unica: non accettano questo tipo di relazione con un'altra persona. E, in secondo luogo, perché nel­ l'abbandonarsi al desiderio i due protagonisti sono consapevoli del fatto che si tratta di un abbandono da cui può giungere un terzo, il figlio. Non è perciò un'azione il cui mistero sfugga totalmente alla nostra comprensione. Questo mistero dell'azione si fa presente alla persona nel piace­ re che comporta. Abbiamo visto in precedenza che, quando l'uomo si unisce a qualcosa che conviene ai suoi dinamismi, ciò induce un piacere conseguente alla presa di coscienza di quanto è avvenuto, della pienezza raggiunta: una ripercussione nella sua soggettività che gli consente di comprendere ciò che è accaduto, il perché della con­ venienza. È allora che la persona si rende in parte consapevole di quel che le veniva anticipato nel desiderio. Così anche nella vita de­ gli sposi: nel loro desiderio viene anticipato un significato di cui in se-

1

Mi ispiro al penetrante studio di

RHONHEIMER,

Etica della procreazione, 46-66.

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guito fanno esperienza, in quanto realizzato, e nella sua realizzazio­ ne comprendono la pienezza che veniva anticipata. Il significato dell'unione coniugale non si radica nella ragione. Gli sposi non si consegnano l'uno all'altro perché hanno delle «ra­ gioni» per farlo, ma perché hanno il desiderio di ciò. Il significato della loro azione si radica nel loro desiderio e a partire da esso si ma­ nifesta alla coscienza. Un desiderio però che, lo sappiamo, è stato plasmato e ordinato a una comunione di persone, a un dono di sé. La prudenza, nella costruzione dell'atto di consegna personale, non par­ te dalle ragioni che le adduce la sua intelligenza, ma dalla luce che le è offerta dall'integrazione dei suoi desideri. Qual è allora questo desiderio? Il desiderio di consegnarsi, di in­ contrare la persona, di sperimentarla immensamente prossima a sé, di sentirla, di gioirne, di farsi a lei presente. Una consegna nella car­ ne, nella corporeità sessuata, che nel proprio dinamismo sessuale in­ teragisce reciprocamente con l'altra persona, grazie alla funzione sessuale, la quale a sua volta porta con sé una funzione riproduttiva.

a. Alcune precisazioni per intenderci Il significato di un'azione non è la stessa cosa della funzione che comporta. Si tratta di una distinzione decisiva per comprendere l'o­ riginalità e la grandezza dell'unione coniugale, poiché il suo valore non può essere ridotto a una funzionalità concreta. La funzione comporta lo sviluppo delle potenzialità naturali se­ condo il dinamismo proprio della facoltà in gioco: la funzione visiva, la funzione digestiva, la funzione locomotoria, la funzione sessuale... Quest'ultima, la funzione sessuale, comporta un dinamismo proprio di accoppiamento genitale anatomico tra uomo e donna, che a sua volta porta con sé una funzione riproduttiva. Entrambe sono carat­ teristiche degli animali, e l'uomo le condivide con loro, salvo che ne­ gli animali tali funzioni sono governate dall'istinto, sempre categori­ co. Nessun uomo però vive la sessualità come un animale: nemmeno potrebbe, poiché non possiede propriamente un istinto sessuale che lo governi, ma un impulso sessuale che attende d'essere guidato dal­ la ragione. La funzione sessuale richiede nell'uomo l'opera d'inter­ pretazione e di governo della ragione, richiede un significato. Da parte sua, il significato vuole esprimere il senso di un'azione, in quanto in esso si racchiude un valore, qualcosa cioè che è buono e che perfeziona la persona, conferendole una pienezza nuova nella sua vita globalmente intesa. Il significato di un'azione fa riferimento

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alla sua finalizzazione riguardo alla pienezza di una vita. Di una per­ fezione isolata che un'azione potrebbe conferirci non comprendia­ mo il significato: questo si manifesta soltanto quando appare la sua relazione alla vita considerata come un tutto. Il significato di un'a­ zione non è qualcosa che provenga semplicemente dalla funzione che implica. Se così fosse, il significato delle nostre azioni si ridur­ rebbe a una questione di pura funzionalità biologica. Propriamente è qualcosa che il soggetto attribuisce alla propria azione. È la perso­ na a dare significato al proprio agire, ma non lo fa in maniera arbi­ traria, bensì facendo attenzione alla realtà che è in gioco, al modo con cui entra in contatto, attivando determinate funzioni e indiriz­ zandole a una situazione nuova, a una nuova pienezza in relazione alle altre azioni e pratiche e, in modo particolare, in relazione all'as­ soluto della comunione con una persona che è una libera compagna e che perciò reclama sempre di essere accolta per ciò che è e non in funzione della sua utilità o piacere. L'impatto del rapporto sessuale con la persona amata permette di attribuire due significati fondamentali all'azione «unione coniu­ gale»: si tratta di un'azione che consente ai suoi protagonisti un'u­ nione singolare e, unendoli, fa sì che possano diventare genitori. Per questo tale azione possiede un significato unitivo e un significato procreativo.

b. Il significato unitivo L'atto coniugale consente ai due sposi una loro indubbia unione, vissuta in un'assai ampia gamma di aspetti. Si tratta di interagire re­ ciproco nella corporeità sessuata, che attiva la funzione sessuale ge­ nitale. Questo reciproco interagire, tuttavia, non è vissuto semplice­ mente come una funzionalità, come avviene nell'animale. Interagire sessualmente ha per l'uomo un significato, poiché coinvolge la li­ bertà reciproca e la corporeità: un corpo che è espressione della per­ sona e che pertanto apre a un linguaggio, alla mutua trasmissione di qualcosa, all'incontro di una reciproca comunione. Così l'incontro dei corpi si costituisce in autentico sacramento delle persone e del loro amore. A motivo della dignità della persona che sta di fronte, il cui de­ stino si è fatto proprio e alla quale si è promesso di amarla donan­ dosi e accogliendola nella sua insostituibilità, la consegna sessuale dei corpi non può avere solo un significato di esperienza di piacere. Di certo porta in sé un'esperienza di piacere ma, se fosse solo que-

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sto, la persona sarebbe allora strumentalizzata al fine di ottenere con lei un piacere, o addirittura sostituita da un'altra. Il desiderio di pia­ cere è vissuto negli sposi nell'orizzonte di una vita buona e felice. La mutua consegna dei corpi è espressione e attualizzazione del­ la mutua volontà di donazione, per cui è capace di unire i suoi pro­ tagonisti: non soltanto i loro corpi, ma anche i loro affetti, le loro li­ bertà, le loro persone. È la persona intera che si dà. E donandosi ac­ coglie l'altro. Questo mutuo darsi e riceversi nella sessualità apre lo spazio dell'intimità al reciproco incontro, alla presenza reale e con­ creta di entrambi, alla reciproca compagnia, alla mutua stima. Si tratta di un reciproco atto di libertà che consente loro un'im­ mediatezza di presenza, che sussiste nella mutua comunione in una forma piena e attuale. E, in essa, nella comunione con Dio. L'espe­ rienza che i due coniugi hanno dell'immediatezza dell'altra persona nella loro stessa vita è vissuta in un modo singolare che colma di gioia. Questo significato dell'unione coniugale si appoggia sulla fun­ zione sessuale di reciproco accoppiamento sessuale, ma non si ridu­ ce a essa, dal momento che offre una pienezza che la mera funzio­ nalità sessuale non è capace di produrre: l'unione delle persone. E poiché è una pienezza, riceve da essa il suo significato. Abbiamo così la possibilità di situare questa azione singolare al1 'interno della globalità della vita e di comprendere il suo valore, il suo finalismo. Ma l'unione degli sposi che essa favorisce e attualizza non è l'unica loro pienezza. Ancora di più, perché lo sia necessita di un nuovo significato, la capacità di diventare genitori, che viene a in­ tegrarsi non come qualcosa di estrinseco, ma come qualcosa che at­ tiene alla stessa unione dei due, poiché questa unione non è di tota­ le complementarità, ma comporta una certa asimmetria che soltanto il figlio può colmare. 2

c. Il significato procreativo La comunione dei due sposi, proprio per il fatto che comporta la totalità della persona che si dà nel corpo, porta con sé una nuova per­ fezione dei due: unendoli sessualmente, li rende capaci di trasmette­ re la vita poiché tale unione implica la funzione sessuale che a sua

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Cf. ScoLA, Il mistero nuziale 1, 91-106.

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volta include la funzione riproduttiva. Non si tratta ora se, di fatto, trasmetteranno la vita o meno, il che dipenderà dalle leggi proprie della funzione riproduttiva. Ciò che importa comprendere è che l'u­ nione sessuale tra l'uomo e la donna è un'azione che in sé e per sé è capace di trasmettere la vita. La stessa preoccupazione che a volta gli sposi mostrano è segno di ciò. Ci troviamo davanti a un fatto origi­ nario, che a sua volta rende possibile un'esperienza originaria circa il valore di fecondità della sessualità. Consegnarsi sessualmente vuol dire pertanto negli sposi trovare una singolare unione, che in se stessa è capace di generare una per­ sona, poiché pone tutte le condizioni necessarie perché arrivi il figlio. Se eliminiamo la distanza temporale tra la donazione sessuale e il momento in cui la sposa si rende conto di aver concepito e assieme al marito accoglie suo figlio, possiamo capire come quest'accoglien­ za fosse già inclusa nella stessa consegna sessuale. Consegnarsi sessualmente comporta allora donare la capacità di diventare padre e madre in forza di ciò che si sta facendo. Questa po­ tenzialità di generare una vita, che si esprime nel significato procrea­ tivo, si costituisce come un autentico bene immanente nella stessa azione degli sposi. Il fatto che gli sposi, allorché si uniscono, siano aperti alla generazione di una vita, è indice di pienezza del loro amo­ re. E si dice «capacità» perché il fatto che il figlio arrivi non dipenderà dalla sola donazione. Soltanto un ridotto numero di unioni tra gli spo­ si è feconda. La sofferenza che a volte sperimentano quando il figlio non arriva dimostra che non sono essi soli a generarlo. Grazie alla fede sappiamo che ogni persona che è stata concepi­ ta non è stata concepita per caso, poiché è stata creata direttamente da Dio nel momento del concepimento. 3 La generazione di una per­ sona comporta l'azione di un Altro, Dio, che la genera, creandola. Dio ha inteso però creare la persona proprio nell'atto con cui gli spo­ si si donano e si accolgono reciprocamente nella totalità del loro es­ sere. Per questo la loro azione acquista la forma di una collaborazio­ ne con Dio creatore, assumendo il significato procreativo. Gli sposi sono partecipi con ciò di una singolare qualità dell'a­ more di Dio, poiché Dio ha amato ogni persona prima ancora che esistesse come qualcuno degno d'esistere e di essere amato per se stesso, ed è stato il suo amore a spingerlo a crearci. Anche l'amore degli sposi è così, poiché ogni persona è stata amata dai suoi genito3

Cf. Pm XII, Humanae generis, DS 3896.

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ri prima ancora di essere generata. Essa è il frutto di un amore che, certo, si indirizza in primo luogo al coniuge, ma che, indirizzandosi a lui, include in sé la possibilità stessa di accogliere un nuovo dono del­ l'amore. Il figlio è così amato anche come qualcuno che è degno di esistere per se stesso e non in funzione dei propri desideri da soddi­ sfare o di altri interessi. La mutua donazione si trasforma in tal modo nel tempio santo in cui Dio celebra la Sua liturgia creatrice, generando una persona co­ me qualcuno che è amato per se stesso. 4 Per questo motivo il figlio è atteso non come una «conseguenza» aggiunta della mutua consegna e nemmeno come un effetto natura­ le e meno ancora come un prodotto della propria scelta, ma come un dono. Generare è propriamente un atto umano, non una conseguen­ za biologica di un atto umano. È però un atto umano molto singola­ re, dal momento che non è un contenuto intenzionale diretto di al­ cuna azione, ma si dà invece nella mediazione della mutua consegna; per questo si configura come l'accoglienza di un dono. L'unione coniugale include in sé il significato della trasmissione della vita che è possibile per il dono che Dio fa all'amore degli spo­ si. Si tratta tuttavia non solo di dare una vita e di accoglierla, ma di promuovere nel figlio una vita buona in un cammino di pienezza per lui. Questa dimensione procreativa include perciò in se stessa anche la dimensione educativa, che si radica dunque nel mutuo amore de­ gli sposi, nella loro reciproca consegna. In questa dimensione procreativa si può valutare ancora un ulte­ riore aspetto, giacché se da un lato definisce la specificità propria della fecondità dell'unione coniugale, cioè generare una persona, si apre anche a una fecondità relazionale e affettiva, alimentando negli sposi la capacità di reciproca accoglienza e, a partire da qui, dell'ac­ coglienza di altre persone, effondendo la ricchezza del loro amore. L'amore degli sposi si configura come un amore che è capace di ge­ nerare società, di diffondersi su altre persone. L'unione coniugale acquista così nei coniugi una precisa configu­ razione simbolica, unita al piacere che in loro comporta e alla pie­ nezza che a loro concede. Questo simbolismo permane nella loro memoria affettiva come il ricordo di una cosa in sommo grado at­ traente, che tuttavia devono di continuo saper ricreare e alimentare con la tenerezza, cioè con il mutuo dono di se stessi vissuto nelle di4 Cf. CAFFARRA, «Fondamenti dottrinali della famiglia».

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verse fasi del loro matrimonio. In questa configurazione entrambe le dimensioni, unitiva e procreativa, sono inseparabilmente unite.

d. L'indissolubile unione dei due significati dell'atto coniugale 5 Se possiamo separare le funzioni, non avviene la stessa cosa con i significati. Si può separare la funzione di accoppiamento sessuale dalla fun­ zione riproduttiva che porta con sé: avere cioè sesso senza figli e an­ che figli senza sesso: accade di frequente al giorno d'oggi. La ragio­ ne per cui si possono separare le funzioni sessuale e riproduttiva sta nel fatto che queste funzioni si radicano nei dinamismi delle facoltà umane la cui buona funzionalità dipende dalla situazione concreta in cui l'organismo si trova, per cui può modificarsi. Per far questo è suf­ ficiente un intervento tecnico sull'organismo. Si presenta però una difficoltà essenziale allorché si pretende di separare i significati intrinseci dell'agire sessuale. Eliminare un si­ gnificato intrinseco vuol dire eliminare una dimensione che contri­ buisce a conferire la fisionomia con cui tale azione è stata concepita dalla prudenza, in base all'impatto che la realtà «azione sessuale» ha prodotto nella persona, con gli elementi originali che comportava: corporeità, libertà, interazione, funzione, comunione, ecc. Nel caso dell'unione coniugale troviamo inoltre che questi signi­ ficati sono uniti in modo singolare poiché l'uno reclama l'altro e vi­ ceversa, in una relazione di mutuo arricchimento, costitutiva per en­ trambi i significati. In che senso? Il significato procreativo dell'unione coniugale, con cui si vuole esprimere come la funzione riproduttiva sia assunta dall'uomo, ac­ quista il suo significato veramente umano per il fatto che in tale azio­ ne c'è una dònazione reciproca. Generare cioè una persona - qual­ cuno che in virtù della propria dignità si presenta come un fine in se stesso ed esige di essere amato per se stesso e non in ragione della sua utilità o della soddisfazione che procura - comporta accoglierla per se stessa, e questa accoglienza non può esserci quando la perso­ na è un effetto diretto del nostro agire, perché allora la sua esisten­ za dipenderebbe da chi l'ha prodotta: solamente nell'atto di dona­ zione reciproca gli sposi possono accogliere il loro figlio come un do5

Cf. la dottrina di Humanae vitae 12. Si veda lo studio citato di M.

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RHONHEIMER.

no. L'amore degli sposi, la loro donazione reciproca, l'unione dei due, specificano il modo umano con cui una persona viene generata: l'unico modo umano di accogliere una persona nel rispetto della sua dignità che non ha pari. A sua volta, il significato unitivo dell'atto coniugale, come atto di donazione che ha la propria radice nel corpo, ma che necessaria­ mente implica la reciproca libertà, rimane specificato rispetto ad al­ tre forme d'amore da una nota molto caratteristica: è un amore in­ terpersonale nella sessualità capace di procreare. Solo questo tipo d'amore è procreativo, a differenza degli altri. Ed è un amore spiri­ tuale e corporale. Proprio per questo l'atto interiore della volontà, con cui uno sceglie di consegnarsi sessualmente e comanda perciò al­ le facoltà sessuali un'interazione con l'altra persona, rimane specifi­ cato sin dall'inizio stesso come un amore procreativo. Tentare di comprendere uno di questi significati indipendente­ mente dall'altro comporta il perdere la specificità di ciascuno di es­ si, poiché ciascuno acquista il suo significato nella relazione con l'al­ tro: un'unione capace di generare una persona, una procreazione nel­ la mutua donazione. Questa unione dei due è ciò che costituisce la specificità e identità di ciascuno di essi. Non si tratta dunque di un'inseparabilità dei due significati di ti­ po morale, e cioè che non si debbano separare, ma che, nel caso si se­ parino, almeno si possa realizzare uno di loro. Si tratta bensì di un'in­ separabilità antropologica, cioè non si possono separare, dal mo­ mento che se si separano si perdono entrambi, rendendo impossibi­ le che se ne realizzi alcuno. Perché? Perché cessano d'essere ciò che sono. Un amore coniugale che non sia procreativo nel suo significa­ to non è un amore coniugale, o una procreazione che non si dia nel­ la mutua donazione non è procreazione: sarebbero cose diverse. Cer­ to, dal punto di vista esteriore non cambia molto, poiché rimane sem­ pre una delle due funzioni; ma la funzione non si può confondere con il significato di ciò che si fa. Così come nella persona anima e corpo sono uniti «sostanzialmente», costituiscono cioè intrinsecamente la sostanza, fino al punto che la loro separazione comporta la perdita della persona in quanto tale, allo stesso modo la separazione di que­ sti due significati fa sì che l'atto sessuale sia qualcosa di distinto dal punto di vista morale e non venga specificato da nessuno di essi, as­ sumendo significati diversi. Qual è la ragione ultima di questa inseparabilità? Trattandosi di un dato previo alla scelta della libertà e al modo in cui la stessa li­ bertà assume ciò che la sua attuazione comporta, ci troviamo di fron-

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te a qualcosa che ha voluto chi ha così creato la natura dell'uomo, cioè Dio. È Dio che ha voluto che l'amore tra l'uomo e la donna mantenesse questi due significati tra loro inseparabilmente uniti. Per questo motivo, accettare questa verità dell'amore coniugale implica accettare il suo autore. In ciò ci sarà per i coniugi la possibilità di una singolare alleanza con la Sapienza creatrice e perciò una partecipa­ zione al suo amore. 6

3. L'intenzionalità dell'unione coniugale: il reciproco dono di sé Il nostro interesse stava nel conoscere l'originalità dell'unione coniugale. Le precedenti analisi ci hanno mostrato qual è il suo si­ gnificato, per cui possiamo ora collocare questa azione nella globa­ lità della vita dell'uomo e della donna come un'azione che consente loro un'unione singolare e di aprirsi al dono della vita. Ci interessa ora conoscere quale sia l'intenzionalità propria di questa azione, il che ci permetterà di conoscere ciò che in termini tecnici si chiama il suo oggetto morale. È così che potremo distinguere la specificità di questa azione rispetto alle altre. Alcuni chiarimenti. Primo: il tema del significato di un'azione e il tema della sua in­ tenzionalità stanno in stretta relazione, ma non sono esattamente la stessa cosa, poiché il significato mira a definire la ragione della pie­ nezza di un'azione, mentre l'intenzionalità mira a definire il suo fine prossimo, quel che gli sposi in primo luogo realizzano, cioè la loro in­ tenzione prossima. Si tratta pertanto di conoscere il fine prossimo dell'azione «unione coniugale». Secondo: interrogarsi sui fini dell'atto coniugale non è la stessa cosa che interrogarsi sui fini del matrimonio come realtà sociale, co­ me già possiamo comprendere: i fini del matrimonio sono i beni che lo specificano, mentre i fini dell'atto coniugale sono i fini che la pru­ denza stabilisce e determina alla luce del desiderio retto e della realtà che è in gioco. Terzo: interrogarsi sul fine di una cosa non è interrogarsi su ciò che è successivo alla sua realizzazione, in modo tale che l'azione si confi­ guri come un mezzo per raggiungerla. Ciò comporterebbe una rela6 Si veda al riguardo la testimonianza e la riflessione di K. HANN, Life-Giving Lo­ ve. Embracing God's Beautiful Design for mariage, Charis, Michigan 2001.

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zione strumentale nell'azione coniugale che eliminerebbe la sua stes­ sa bontà. Non si tratta di fini estrinseci all'agire, che producono deter­ minati effetti, come può essere il sollievo di un'ansietà o tensione, la reciproca tranquillità, la ricerca di autostima, o anche avere un figlio,7 ma dei fini intrinseci, in quanto si tratta di perfezioni dell'azione stes­ sa, che permangono nel soggetto, sono in lui immanenti. E all'interno dei diversi fini ci interessa ora il fine prossimo, poiché come sappiamo è questo che definisce ciò che si sta facendo. A cosa tendono gli sposi quando, mossi dal desiderio, si uniscono coagendo sessualmente? Tendono principalmente a consegnarsi, a incontrarsi mutuamente, a sperimentarsi l'uno vicino all'altro, in de­ finitiva a donarsi mutuamente nella totalità di ciò che entrambi so­ no, nella totalità del proprio essere corporale-spirituale. Questo con­ segnarsi comporta un accogliersi e un donarsi. È propriamente il pronome «si» che determina il tipo di consegna e di dono, poiché non si consegna e si accoglie «qualcosa» della persona, la sua ses­ sualità, la sua corporeità, la sua temporalità, la sua affettività. Ciò che propriamente si consegna è il «si», e cioè la persona stessa, ma si con­ segna nella mediazione della sessualità, della corporeità, della tem­ poralità, dell'affettività. Si consegna la corporeità nella sessualità, ma in essa si veicola l'affetto, l'amore che si ha per la persona, la stima che le si dimostra, la stessa libertà: va, in definitiva, tutta la persona. E si consegna per­ ché si vuole manifestare all'altra persona quanto la si stimi, in che modo ci si vuole rendere presente nella sua vita. La sessualità, pro­ prio per l'immediatezza che comporta nel contatto corporale, favori­ sce questa mutua presenza. Per il fatto che la corporeità è espressione della persona e la ses­ sualità consente un linguaggio, ciò che si intende reciprocamente tra­ smettere è il regalo di se stessi all'altra persona, nella totalità di ciò che si è, e l'accoglienza del regalo che l'altra persona fa di se stessa. Questo dono si offre mossi dall'amore per l'altra persona: è il de­ siderio che muove a consegnarlo. Muove però in quanto plasmato e integrato nell'amore personale. Muove cioè a un atto che è visto co­ me un bene per la persona nella misura in cui nel mutuo interagire gli sposi raggiungono una comunione di entrambi nella quale si rea­ lizza la loro pienezza, il bene delle loro persone.

7 Cf. M.A. FRIEDERICH, «Motivation for Coitus», in Clinica! Obstetrics & Gyneco­ logy 13(1970), 691-700.

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Quel che gli sposi scelgono quando si consegnano è dunque il do­ no reciproco di sé nella sessualità. E questo viene scelto perché nel loro desiderio integrato hanno l'intenzionalità della mutua comu­ nione. La prudenza è capace di ordinare questa azione del dono di sé alla mutua comunione precisamente in quanto la totalità del dono consente alle persone di incontrarsi, di sussistere reciprocamente l'u­ na per l'altra e raggiungere così la pienezza ultima. In tal modo è al­ lora possibile valutare l'ordine intenzionale che esiste nell'azione «unione coniugale», poiché tra l'esecuzione di ciò che si compie l'accoppiamento sessuale -, il fine prossimo della scelta - donarsi sessualmente in totalità -, il fine intermedio dell'intenzione - la co­ munione personale - e il fine ultimo oggetto del naturale desiderio di felicità - la pienezza della comunione con Dio -, si ha un'unione intenzionale vera. A motivo di questa intenzionalità del dono totale di sé, si com­ prende come l'unione coniugale contenga intrinsecamente in sé un significato procreativo. Se quel che realizzano è la totalità di una consegna, nella totalità è inclusa la possibilità di generare un figlio. Si tratta di un significato intrinseco all'atto coniugale, un bene im­ manente in esso, ma che non determina tuttavia il suo contenuto in­ tenzionale in prima istanza, in quanto ordine intenzionale stabilito dalla prudenza. II bene della procreazione non è cioè cercato diret­ tamente come fine prossimo nella consegna coniugale. Innanzitutto perché se così fosse si strumentalizzerebbe la stessa consegna: sareb­ be «per avere un figlio». E inoltre perché avere un figlio non spetta alla scelta umana, ma è invece un nuovo dono che gli sposi ricevono nella loro stessa donazione d'amore. Per questo non può essere og­ getto di una scelta diretta. Certo che gli sposi potranno voler avere un figlio, ma quella che essi realizzano non è un'azione rivolta ad avere un figlio, ma un'azione di consegna in totalità che pone le con­ dizioni per avere un figlio. Per questa posizione secondaria della dimensione procreativa nell'intenzionalità dell'azione, risulta che è possibile un atto coniu­ gale indipendentemente dal fatto che gli sposi abbiano l'intenzione di procreare. O persino che non Io desiderino. Sarà autentico atto co­ niugale dal momento che implica una totalità di consegna, perché è questo che lo definisce. E avrà un significato procreativo dal mo­ mento che comporta una reale totalità di consegna, indipendente­ mente che ci sia di fatto la procreazione. Tale significato permarrà nell'unione coniugale, sempre e quando la persona non faccia inten­ zionalmente alcunché contro di esso.

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4. Unione coniugale e dono dello Spirito L'unione coniugale viene allora intesa come un mutuo dono di sé dei coniugi nel quale vogliono trasmettersi una mutua presenza, una compagnia, il regalo di un amore. Si tratta di un dono di sé libero, ma radicato nella corporeità. La corporeità, nel momento in cui forma un'unità d'azione assieme con l'anima (o principio spirituale) ed è integrata dalla virtù della castità, si rende atta a trasmettere questo linguaggio personale. Nei coniugi cristiani all'origine delle loro azioni si trova però an­ che la carità, che informa tutto il dinamismo sessuale degli sposi tra­ sformandolo in carità coniugale. Questa trasformazione fa sì che gli sposi non soltanto si trasmettano nella loro mutua consegna una re­ ciproca presenza, una mutua compagnia, ma che in questa consegna nella quale si trasmette la presenza si trasmettano anche il dono del­ lo Spirito che è alla sua origine, l'amicizia che vivono con Dio. Così lo Spirito va poco a poco abitando con maggior pienezza negli spo­ si, consentendo loro una maggiore maturità nella loro carità coniu­ gale e quindi nella loro amicizia con Dio. È certo che nella vita degli sposi questa realtà sembra rimanere fuori dal loro ambito diretto di coscienza. Questo non è però meno vero per il significato interpersonale che ha la stessa unione. Si trat­ ta di un'azione che, per il fatto di radicarsi nella corporeità e nel de­ siderio sessuale, sfugge nella sua grandezza a una concettualizzazio­ ne diretta. Ciò che qui è essenziale è comprendere che il desiderio sessuale può essere plasmato dalla ragione trasformandosi in virtù, come vero principio operativo di azioni eccellenti. Ed è a sua volta plasmabile per il dono dello Spirito, che lo rende ora principio di azioni soprannaturali, capaci di una nuova fecondità, fino al punto di comunicare il dono che sta alla sua origine: il dono dello Spirito. Se il dinamismo sessuale comporta una dimensione impulsiva, co­ munemente chiamata «istintiva», dal momento che ha un primo movi­ mento che non dipende dalla propria deliberazione, e se questa di­ mensione istintiva entra all'interno del movimento non deliberato dal­ l'intelligenza, per cui cerca una pienezza ultima, ora il primo movi­ mento di tutto il dinamismo dell'amore coniugale nella consegna degli sposi diventa un istinto soprannaturale, l'istinto proprio dello Spirito. È certo che la bontà che l'unione coniugale comporta nella vita degli sposi attira con forza i suoi protagonisti. Essi apprezzano una singolare convenienza con i loro dinamismi che non solo li riempie di piacere, ma rende possibile un mutuo esercizio della libertà nella

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quale potersi mutuamente esprimere la grandezza di una stima. Nel­ la bontà che li attrae si apprezza però anche la chiamata di un Altro, che nell'attrazione sessuale e affettiva li sta muovendo a consegnar­ si in pienezza, a condividere il dono di Dio, a crescere in lui, a comu­ nicare la vita. Non si tratta di uno pseudomisticismo coniugale, poi­ ché questa dimensione della vita coniugale si sottrae il più delle vol­ te allo stesso vissuto cosciente degli sposi. Si tratta della profondità teologica che la loro stessa vita coniugale raggiunge come frutto del­ la presenza in loro dello Spirito, che inaugura un agire teologale e pertanto meritorio.

5. Quando l'amore si rende infecondo: il problema della contraccezione Se l'unione coniugale comporta un significato procreativo intrin­ seco al mutuo donarsi in totalità, come possiamo intendere questo si­ gnificato quando per seri motivi non si giudica opportuno che venga al mondo una nuova vita? Non sarebbe allora giustificato adottare mezzi opportuni per risolvere la difficoltà di una procreazione non responsabile e poter continuare a vivere l'amore? Ci troviamo di fronte a un problema che riguarda la stragrande maggioranza dei matrimoni e per la cui soluzione si evita di affron­ tare le questioni di fondo.

a. Il dramma della contraccezione In che cosa consiste la difficoltà della contraccezione? Essa non si colloca al livello della scelta di non avere più figli. Ci possono essere nella vita matrimoniale delle situazioni personali ve­ ramente complicate e nelle quali la prudenza non vede opportuna la generazione di una nuova creatura. Voler non avere più figli non equi­ vale al problema della contraccezione poiché, per di più, anche quelli che ricorrono alla continenza periodica non vogliono avere più figli. Nemmeno il problema si pone nel «mezzo» scelto per non avere figli. Non è nel «mezzo artificiale» che si trova l'errore, in quanto po­ trebbe supporre una certa «artificialità» che contraddice la natura­ lezza della funzionalità sessuale e riproduttiva: ci sono anche mezzi «non artificiali» per evitare i figli, come il coitus interruptus, che non sono tuttavia conformi all'amore veramente umano.

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Il problema si colloca propriamente nell'oggetto dell'azione «unione sessuale» che gli sposi compiono con un'azione contraccetti­ va. Se abbiamo visto che l'azione di unione sessuale veniva definita come una scelta di «consegnarsi sessualmente nella totalità di ciò che i due sono» e che tale azione era buona in quanto consentiva l'unio­ ne delle persone nell'includere la nota della totalità, ora, volendo unirsi, scelgono un'azione, la consegna-sessuale-contraccettiva, che comporta l'eliminazione di una dimensione intrinseca della totalità della persona. Gli sposi, di fronte a determinate circostanze che li conducono a ritenere come non opportuna la nascita di un nuovo fi­ glio, decidono di unirsi sessualmente eliminando la possibilità di es­ sere genitori, per potersi così mutuamente incontrare e attuare l'u­ nione delle loro persone. Ma davvero si uniscono? Di certo si uniscono corporalmente, ma nel darsi del corpo non c'è la volontà di consegna in totalità, perché si è intenzionalmente eliminata la volontà d'esser genitori. Qui «in­ tenzionalmente» vuole significare due cose: volontariamente, poiché liberamente l'hanno voluto, e tendendo a ciò, perché l'hanno cerca­ to. Ma allora nell'atto di volontà di donazione reciproca si è intro­ dotto un elemento che lo cambia, cessa cioè d'essere una consegna in totalità e un'accoglienza in totalità di ciò che i due sono nella lo­ ro realtà personale. I corpi sono certamente uniti. Ma l'atto d'amore che motiva la consegna è un atto d'amore che si è reso intenzional­ mente infecondo, così che non è un atto d'amore totale. È sorta all'interno dell'atto d'amore una nuova intenzione che si dirige contro la funzione riproduttiva, eliminandola. Ma in questo modo l'azione cessa d'avere immediatamente un significato unitivo, poiché a livello intenzionale non si include la totalità di consegna. Cosa rimane? Resta la funzione sessuale. Come si può cogliere nella spiegazione, la difficoltà della con­ traccezione si situa nell'intenzione di rendere sterile l'amore e non nel fatto che la funzionalità riproduttiva possa o meno realizzarsi. La stessa dichiarazione magisteriale che rifiuta la contraccezione speci­ fica che si tratta di quell'azione che si propone di rendere sterile l'a­ more, che ha cioè questa intenzione: «È altresì esclusa ogni azione che, o in previsione dell'atto coniuga­ le, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze na­ turali si proponga (intendat), come scopo o come mezzo, di impedi­ re la procreazione» (HV 14).

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Perché? Semplicemente, perché questa intenzione di rendere in­ fecondo l'amore contraddice la verità dell'amore coniugale. È qui il suo dramma: lo rende impossibile poiché elimina la sua propria spe­ cificità. Il linguaggio sessuale, interagire sessualmente, perde ora il suo stesso significato, quello della totalità di una donazione e di un'accoglienza, per acquisire un nuovo significato, quello della pos­ sibilità di appagare la brama di un desiderio. Dall'essere un mutuo regalo che gli sposi si fanno, passa a essere l'occasione di saziare una carenza, un desiderio. Si è introdotta nella sessualità una logica mol­ to diversa, poiché non è la logica della donazione, ma la logica della necessità. Qui sta il mutamento simbolico che si è introdotto e che verrà a determinare la loro relazione. Sicuramente gli sposi penseranno che non è così che essi voglio­ no vivere sessualmente il loro amore, proponendosi la possibilità di esprimersi mutuamente la loro stima, di trovare momenti di intimità. È certo, ma il problema è che l'espressione di questo amore è stata svuotata di contenuto: non dirigendosi alla donazione e accoglienza in totalità dell'altra persona, si concentra nella possibilità di soddi­ sfazione che questa azione offre. Qui sta il suo significato, al di là del vissuto che intendano attribuirgli.

b. Due difficoltà di comprensione:

responsabilità e totalità

Si rende necessario fare luce su alcune difficoltà di comprensione. La responsabilità che l'esercizio della sessualità richiede non comporterebbe di prestare attenzione alle conseguenze di avere un figlio e di adottare le misure adeguate? Certamente. La responsabilità non si riferisce tuttavia in primo luogo alle conseguenze esteriori del nostro agire, ma alle stesse azioni che noi compiamo, in quanto con esse pos­ siamo o no vivere ciò che più profondamente desideriamo. La respon­ sabilità degli sposi si riferisce principalmente all'amore che hanno ri­ cevuto come un sorprendente regalo nella loro vita: è la sua verità che sono chiamati a curare. E sulla base di questa responsabilità dovranno ora considerare le azioni che pongono in atto, in quanto siano o meno conformi al loro amore. L'impostazione della responsabilità non può evitare il tema delle azioni che si compiono, scavalcandole. Ove per determinate circostanze non fosse il momento di acco­ gliere la nascita di un possibile figlio, gli sposi sono chiamati a vive­ re il loro amore nella responsabilità della verità delle azioni che compiono: questo sarà il compito proprio della prudenza, vedere co-

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me poter vivere l'amore senza contraddire alla sua verità. Alla pru­ denza non corrisponde però il cercare soluzioni alle conseguenze quando non si vuole affrontare la responsabilità delle azioni che so­ no all'origine di esse. Ecco allora la seconda difficoltà: nel matrimonio non sarebbe sufficiente avere un'intenzionalità generale di fecondità? Accettare cioè di vivere nella vita matrimoniale globalmente intesa il bene del­ la trasmissione della vita, con determinati periodi nei quali si vivrà tale apertura, ma non necessariamente in tutti e in ciascuno degli at­ ti di unione sessuale. La singola azione sarebbe così buona per il suo rapporto con la totalità della vita coniugale in cui s'inscrive. Il pro­ blema però non è quello della totalità della vita coniugale, come ana­ logamente nemmeno è il problema della complessiva condotta con la quale un direttore di banca gestisce i fondi dei suoi clienti. La que­ stione è la concretezza delle nostre azioni, poiché esse sono espres­ sione del nostro cammino verso una pienezza. Se per risolvere un problema finanziario un direttore di banca «riducesse» il patrimonio di uno dei suoi clienti, non potremmo dire che in questo modo sta cercando il bene dei suoi clienti, poiché ha negato quello di almeno uno di loro. Sarebbe una disgrazia che toccasse proprio a noi questa «riduzione», ma la disgrazia più grande è che il direttore di banca si è trasformato in un uomo ingiusto e ha perso con questo la sua cre­ dibilità: con una sola azione. Le nostre azioni sono attualizzazioni di una vita considerata nella sua totalità, che perciò la costruiscono e la determinano nella sua qualità di vita buona o meno: non sono sem­ plici mezzi tecnici che dipenderebbero da intenzioni soggettive che non integrino la realtà di ciò che si vuole e si compie. 8

6. Prudenza e castità: la continenza periodica Come affrontare allora quelle situazioni più o meno temporanee nella vita matrimoniale in cui non si ritiene prudente generare un al­ tro figlio? Queste situazioni concrete di salute fisica o psicologica, di situazione economica o lavorativa della famiglia, o altre simili, pos­ sono condurre gli sposi ad «interpretare» la volontà di Dio riguardo alla loro vita coniugale e pensare che dovrebbero distanziare o po­ sporre la possibilità della nascita di un figlio. 8 Cf. R. MclNERNY, «Humanae vitae and the Judgement of Conscience», in Hu­ manae vitae: 20 anni dopo, Edizioni Ares, Milano 1989, 199-209.

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Questa decisione può essere vista all'interno di ciò che è la ten­ sione verso un ideale di vita buona determinato nella vita sponsale formando una famiglia. Non si tratta di una scelta che sia per princi­ pio contraria al significato del matrimonio, poiché il Creatore stesso ha posto nel dinamismo sessuale della donna la possibilità di regola­ re la fertilità. Al giorno d'oggi è relativamente facile conoscere i rit­ mi di fertilità della donna con i diversi metodi d'osservazione. 9 È qui che entra in gioco in modo singolare la virtù della castità, come virtù dell'amore autentico poiché, integrando i diversi dinami­ smi dell'amore nell'amore della persona, nel dono di sé e nell'acco­ glienza in totalità della persona amata, è capace di muovere il sog­ getto a cambiare il proprio comportamento sessuale, adattandosi ai ritmi di fecondità. 10 In conformità a ciò, gli sposi si uniranno coniu­ galmente nei tempi in cui la donna è prevedibilmente infeconda, evi­ tando di unirsi nei momenti di prevedibile fecondità. Questo cam­ biamento del loro comportamento sessuale ha luogo per una sem­ plice motivazione: conservare integro il significato che ha la mutua unione, cioè il dono totale di sé. Per questa ragione il fatto di cam­ biare già contiene in sé un atto d'amore della persona, un atto d'a­ more che coinvolge anche la corporeità. Ma questo mutamento non comporta un'intenzionalità non pro­ creativa, contraria al significato procreativo dell'unione coniugale? Certamente gli sposi operano così perché hanno scelto di non avere un figlio. Però questa scelta non li muove a fare alcunché contro la funzione riproduttiva, così che il significato procreativo dei loro atti rimane inalterato: si tratta di atti che in sé e per sé sono capaci di ge­ nerare la vita, anche se ora vi è la circostanza, cercata, che la funzio­ ne riproduttiva non si attivi perché i coniugi non sono in tale dispo­ sizione. Con ciò i coniugi stanno semplicemente amministrando una possibilità della natura umana concessa dal Creatore. Come abbiamo visto in precedenza, il significato procreativo non dipende dall'intenzionalità con cui gli sposi si univano, poiché essa si dirige direttamente al dono totale di sé. Il fatto che gli sposi non vo­ gliano avere figli non è una cosa negativa, se essi hanno considerato che ci sono seri motivi per non averne. La difficoltà sopravviene quan­ do si fa intenzionalmente qualcosa contro la totalità della consegna, eliminando la possibilità di essere genitori. In modo analogo di fronte 9 Si veda tra tante pubblicazioni: M. BARBATO, La regolazione naturale della fer­ tilità, Codit, Milano 1993. 10 Cf. RHONHEIMER, Etica della procreazione, 71-75.

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a un malato, la cui sofferenza fosse insopportabile, qualcuno potrebbe desiderare e persino supplicare il Signore di porre termine a quel cal­ vario portando in cielo l'infermo: tuttavia, quel che sarebbe contrad­ dittorio con l'amore della persona sarebbe fare qualcosa perché muoia. La continenza periodica e i metodi contraccettivi condividono dunque una cosa: la decisione di posporre la nascita di un figlio. Si configurano tuttavia come azioni totalmente diverse. La radicalità della loro differenza risiede nel fatto che nella continenza periodica la persona assume il dinamismo sessuale-affettivo e per amore alla persona attende il momento opportuno per unirsi, mentre nella con­ traccezione la persona non assume il proprio dinamismo sessuale-af­ fettivo, volendo realizzarlo a costo di non mettere in gioco una con­ segna in totalità, per cui deve risolvere tecnicamente il problema che le si pone. In questo modo non sta però assumendo quel che com­ porta la responsabilità procreativa che corrisponde al proprio essere corporeo-spirituale: la responsabilità cioè di fronte a determinati at­ ti che in sé e per sé non sono capaci di generare una persona, giun­ gendo quindi a negare questa dimensione. È certo che cambiare le abitudini sessuali non è cosa facile, preci­ samente per il fatto che la sessualità ha un dinamismo proprio che nel suo modo di essere vissuto dipende anche dalla propria storia. Una delle difficoltà più radicali che si sono opposte alla prospettiva della continenza periodica è connessa proprio alle esigenze che essa com­ porta nella vita degli sposi: esigenza di dominio di sé, ed esigenza di conoscenza di un metodo che a volte può essere complesso. Questo dominio e questa necessità di previsione sembrano eliminare l'imme­ diatezza comunicativa dell'esperienza amorosa, la spontaneità pro­ pria delle manifestazioni affettive, introducendo una preoccupazione e una progettazione che può sembrare estranea all'amore. La difficoltà è reale, non si può sottovalutare. Tuttavia si può in­ terpretare in un altro modo, non come una difficoltà per la sponta­ neità degli sposi, perché spontaneità non è impulsività, bensì come un'occasione di maturazione nel loro stesso amore. Se la continenza periodica esige una maturità, l'esige perché richiede un reciproco dialogo, un attento ascolto dell'altra persona, un imparare ad atten­ dere i suoi tempi, dato che l'altro non sempre si trova disponibile al­ l'unione coniugale. 11 Ci troviamo davanti ad aspetti sui quali ben 11 Cf. L. MELINA, «La castidad conyugal. Virtud del amor verdadero», in Teologia y Catequesis 82(2002), 63-76 e anche in Io., Per una cultura della famiglia: il linguaggio dell'amore, Venezia 2006.

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sanno gli sposi quanto sia difficile riuscire ad avere un dialogo ses­ suale costruttivo. Esso dipende principalmente dalla capacità di ac­ coglienza e di donazione della persona nella sua concreta realtà e non da una tecnica sessuale degli atti di unione né da una quantifi­ cazione degli stessi. La continenza periodica apre così la possibilità di assumere nuovamente l'impulso sessuale nell'amore personale, evitando che questo impulso tenda a imporsi come un'esigenza. La virtù della castità coniugale, movendo nel caso verso la continenza periodica, aiuta gli sposi a orientare il loro sguardo, a integrare i di­ namismi dell'amore, a cercare con creatività nuove forme d'espres­ sione della tenerezza e del dialogo che consentano di aprire degli spazi di comunione e di trasmettersi la loro mutua compagnia. D'altra parte, la difficoltà che la continenza periodica comporta nella vita degli sposi non è qualcosa di estraneo al loro stesso amore coniugale. Nel momento in cui concerne lo stesso dinamismo amo­ roso integrato dalla virtù della castità, costituisce il camminare pro­ prio del matrimonio che, nella sequela di Gesù, è capace di accoglie­ re le sfide che la propria vocazione comporta. È certo che tali sfide possono comportare momenti difficili, per lo sforzo che esigono: sforzo nella modifica del comportamento sessuale, nel dominio del­ l'impulso erotico... La gioia della comunione vissuta nella consegna sessuale include anche la difficoltà di adattarsi nei momenti di asti­ nenza. Questo è il loro modo proprio di seguire Gesù e, dunque, an­ che il loro modo proprio di santificazione. L'esortazione apostolica Familiaris consortio al numero 32 parla della differenza antropologica e morale tra il metodo della conti­ nenza periodica e il metodo contraccettivo. - E una differenza antropologica, poiché ciò che è in gioco è il si­ gnificato della sessualità, la possibilità di esprimere la persona nel linguaggio sessuale: possibilità che si ancora non semplicemente in un «voler esprimere l'amore», ma in un effettivo consegnarsi in to­ talità. Il corpo con tutti i suoi dinamismi si trasforma in autentico soggetto d'azione unito allo spirito, in vero principio di operazione. La continenza periodica assume la soggettività del corpo nella tota­ lità di consegna, permette che sia vero principio operativo. Nella contraccezione si stabilisce al contrario una divisione tra l'amore spi­ rituale, ciò che vuole esprimere, e il linguaggio corporeo, ciò che di fatto si dà, oggettivando il corpo nel momento in cui se ne elimina la capacità procreativa. - Ed è una differenza etica, poiché tra i due metodi sussiste una disparità radicale nel modo con cui la persona si colloca di fronte al-

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l'impulso sessuale e all'azione: nella continenza periodica lo fa come il suo vero signore, per il fatto che può cambiare il proprio compor­ tamento e consegnare un amore integro, mentre nella contraccezio­ ne non lo domina e vuole lasciarsi condurre dall'impulso, dovendo risolvere tecnicamente il problema che le si pone.

7. Analisi intenzionale di situazioni diverse Le analisi sviluppate sino a questo punto possono essere chiarite con l'esemplificazione che si può fare dell'unità intenzionale dei di­ versi momenti dell'azione per donne diverse che si trovano di fron­ te ad azioni esternamente uguali, ma il cui contenuto intenzionale è assai differente. Ci interessa dunque valutare l'esecuzione che si fa, la scelta che si compie (o fine prossimo), l'intenzione che la anima (o fine intermedio) e la sua connessione con il desiderio naturale di fe­ licità (o fine ultimo). Abbiamo così i quattro momenti decisivi del­ l'azione che dovranno essere ordinati dalla prudenza a motivo della loro intrinseca ordinabilità. Nel primo caso si tratta di una donna alla quale di fronte a un problema del ciclo mestruale il suo medico prescrive di prendere la pillola anovulatoria. L'esecuzione che mette in atto è l'ingestione di una pillola. La scelta è di regolare una disfunzione nel ciclo. L'inten­ zione è di conseguire una regolarità mestruale che le consenta di avere un normale stato di salute sessuale e di poter così vivere nor­ malmente la propria vita. Il fatto di ordinare la scelta della regola­ rizzazione del ciclo alla normalità di una vita è possibile, con esso si stabiliscono determinate condizioni che possono consentire alla per­ sona una vita buona. Esiste un'unità intenzionale tra i diversi mo­ menti. Il prevedibile effetto di sterilità, la mancata ovulazione indot­ ta dalla terapia assunta e quindi rapporti non fertili che questa don­ na sposata potrebbe avere con suo marito non è una cosa cercata di­ rettamente né come fine né come mezzo, così che non ricade sull'in­ tenzionalità del suo agire, ma è invece un suo effetto indiretto. La seconda è una donna sportiva di professione che gareggia al­ le olimpiadi. La sua prova olimpica coincide con il suo ciclo me­ struale, così che non si trova nel pieno della condizione per gareg­ giare. Il suo allenatore le consiglia di prendere un anovulatorio. L'e­ secuzione è la stessa del caso precedente, ingerire un composto chi­ mico che blocchi l'ovulazione. La scelta è ora quella di rinviare il ci­ clo al prossimo mese. E fa questo con l'intenzione di gareggiare al

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pieno delle condizioni fisiche. Questa intenzione di poter compete­ re rappresentando la propria nazione si configura per lei come una vita buona. È fuori di dubbio che esiste un'unità intenzionale tra i distinti momenti. Essa non assume la pillola per rendere impossibi­ le la fecondazione, ma per poter gareggiare al pieno della condizio­ ne, per cui non rientra nel quadro segnalato dall'enciclica Humanae vitae. La prevedibile sterilità di questo periodo qualora avesse rap­ porti con suo marito viene ad essere simile al caso precedente: si tratterebbe di un effetto indiretto, non cercato né come fine né co­ me mezzo. La terza donna è una religiosa che lavora in un paese di missio­ ne.12 Date le condizioni di guerra in cui si trova la regione, la religio­ sa prevede che a breve arriveranno i miliziani e compiranno degli at­ ti di violenza come negli altri villaggi. Questa religiosa, per non re­ stare incinta a seguito di un atto di violenza sessuale, assume previa­ mente la pillola. L'esecuzione è sempre la stessa. La scelta è di bloc­ care l'ovulazione per non restare incinta. L'intenzione è quella di po­ ter continuare a svolgere la propria missione. Una missione che lei considera una vita buona. Tra i due momenti sussiste anche un'unità intenzionale, il motivo di ciò si deve al fatto fondamentale che anche se la religiosa non vuole concepire, tuttavia non vuole concepire di un atto di violenza che le è imposto. Non è in alcun modo un atto co­ niugale, per cui non rientra nemmeno nel quadro segnalato dall'Hu­ manae vitae. Si potrebbe obiettare che la religiosa potrebbe accetta­ re le conseguenze, di tale atto. Certo. Ma può anche impedire le con­ seguenze di un atto che le viene imposto. La quarta donna è una sposa che vive il proprio matrimonio con il marito e che in determinate circostanze non vuole più avere dei fi­ gli, per cui assume la pillola anovulatoria. L'esecuzione è la stessa dei casi precedenti. Ma la scelta è assai diversa, perché se ha scelto di bloccare l'ovulazione per non avere più figli è perché ha deciso di unirsi sessualmente a suo marito: la scelta è propriamente quella di rendere sterile l'amore. L'unione sessuale si configura però come un atto pienamente umano quando si tratta di un atto di consegna in to­ talità. Ed è qui che si coglie la difficoltà essenziale, poiché nel mo­ mento in cui sceglie di consegnarsi in totalità per giungere così a una comunione personale con suo marito, insorge una nuova scelta che elimina qualcosa dalla totalità della consegna, la possibilità di essere 12

Cf. RHONHEIMER, Etica della procreazione, 110-125.

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genitori, per cui tale scelta rende impossibile l'intenzione di formare una comunione personale. Ora sì che si mira come fine o come mez­ zo a rendere sterile l'amore, così che è impossibile ordinare tale azio­ ne alla comunione, in questo modo si rende impossibile che riesca una vita buona. La quinta donna è una sposa che vive anch'essa il proprio matri­ monio con il marito e che in determinate circostanze non vuole ave­ re più figli, allora sceglie con il marito di modificare le abitudini ses­ suali adattando i loro rapporti coniugali ai propri ritmi di fertilità. E lo sceglie per poter così conservare il pieno significato che questi rapporti comportano, così che la sua intenzione è quella di vivere una comunione personale, in una vita buona. Senza dubbio tale azio­ ne comporta un'ordinabilità alla vita buona. Da questa succinta analisi dell'unità intenzionale delle diverse azioni appare chiaramente dove stia la difficoltà della contraccezio­ ne. Essa non sta nell'andare contro la natura dei processi biologici della riproduzione, ma nel negare l'intenzione di totalità di consegna nei rapporti propri dei coniugi. Negare questa totalità è qualcosa che va contro la stessa razionalità che anima la consegna, per cui una ta­ le azione è contraria alla ragione che anima l'agire. La ragione uma­ na, in quanto luce dell'agire, può illuminare un cammino, stabilire un ordine nella ricerca della comunione mediante la sessualità. E que­ sto avviene non nella freddezza di un ragionamento che veda la cor­ poreità come cosa estrinseca alla persona, ma precisamente in quan­ to permeata di una corporeità che è anche soggetto dell'agire e nel­ le cui naturali inclinazioni trova i segni precorritori di un modo uma­ no di amare. Proprio perché comporta un'attuazione che è contro la raziona­ lità che anima la consegna degli sposi, la contraccezione offende Dio, rendendo impossibile che in un'unione contraccettiva l'uomo possa entrare in alleanza con il Creatore.

8. Collocarsi in prospettiva pastorale Il problema che la contraccezione prospetta nella vita degli spo­ si non è semplicemente quello di una scelta sbagliata circa il mezzo da usare per non avere figli. Al contrario, la pratica contraccettiva esprime un'errata concezione di ciò che lo stesso amore è, cioè del­ l'intenzionalità che anima l'amore degli sposi. Non è pertanto un problema trascurabile.

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E che non lo sia si riflette in un fatto ben chiaro: la pratica con­ traccettiva ha cambiato il modo di considerare la paternità. Questa ha cessato d'essere qualcosa che atteneva alla stessa espressione del­ l'amore per diventare una decisione dei genitori. Diventare genitori è vissuto come una decisione difficile e piena di responsabilità, le cui conseguenze e il cui impatto nella vita matrimoniale e familiare de­ vono essere adeguatamente valutati. 13 Gli sposi vivono la loro pa­ ternità come un compito davvero arduo e fanno l'esperienza della solitudine davanti a tale impegno nella vita, senza essere sicuri del suo esito. Essere padre e madre si è trasformato in un progetto uma­ no che, per non destabilizzare lo status quo acquisito o progettato nel matrimonio, richiede di avere risolto in anticipo i problemi che po­ trebbe presentare. Nella stessa configurazione dell'attuale simboli­ smo della famiglia, questo fatto sociale condiziona radicalmente i matrimoni al momento di mettere su la loro famiglia. Possiamo ora comprendere la difficoltà degli sposi ad aprirsi alla vita, a vivere il loro amore nella pienezza cui sono chiamati. Si trat­ ta in definitiva di un problema di speranza, nella misura in cui non si ripone fiducia nel fatto che i figli possano essere veramente il verti­ ce di una vita comune e non si trova l'appoggio per vivere la pater­ nità. E questo problema non si risolve semplicemente con la solu­ zione dei problemi tecnici che la paternità comporta per tante cop­ pie: problemi di lavoro, economici, di convivenza, di scuole... Solo ri­ generando la speranza è possibile risvegliare di nuovo l'immagine simbolica della bellezza di formare una famiglia, della bontà che sup­ pone. Per questo è necessario mostrare la pienezza che comporta e la relazione intrinseca che ha con il desiderio di felicità degli sposi, e a volte mostrare come in questa impresa non si trovino soli. A que­ sto riguardo tanto la società civile quanto la Chiesa sono chiamate a generare con creatività strutture sociali che consentano alle persone di realizzare la loro vocazione. Il dramma della contraccezione richiede per la sua soluzione di rigenerare l'immagine simbolica della famiglia, in modo tale che si colga in essa il vertice di un amore, la pienezza di una vita, che è ca­ pace di abbracciare tutte le dimensioni umane, il lavoro incluso. Ma questo solo non basta, perché possono esserci situazioni in cui gli sposi ritengono opportuno rinviare la nascita dei figli. È allora che

13

Cf. G. ANGELINI, Il figlio. Una benedizione, un compito, Vita e Pensiero, Mila­

no 1991.

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è necessario aiutarli a comprendere la logica interna della conti­ nenza periodica e della necessità di una conoscenza completa e adeguata alla loro situazione dei metodi di osservazione della ferti­ lità. È certo che adottare questa continenza periodica comporta l'accordo di entrambi gli sposi, accordo che non è facile proprio per la differenza nel modo di vivere la sessualità da parte dell'uomo e della donna. Questa difficoltà, tuttavia, sta proprio segnalando non un'impossibilità, ma una chiamata alla maturità dell'amore, la cui acquisizione può comportare delle difficoltà vissute come sacrifici. Ecco allora che in queste difficoltà i coniugi sono chiamati a una se­ quela, anche, di Cristo crocifisso. Anche il matrimonio comporta in­ fatti una croce. Quando ci troviamo davanti alla situazione di una persona che non riesce a vedere in che modo la contraccezione supponga una ne­ gazione della pienezza del proprio amore nei riguardi del coniuge, occorre tenere conto del fatto che la mancanza di conoscenza del male che si compie certamente può esimere dalla responsabilità, se si tratta di una persona che ha cercato con sincerità la verità e met­ te in opera i mezzi per raggiungerla, ma quel che mai quella igno­ ranza fa è cambiare la specie morale della sua azione. A degli sposi che con una coscienza invincibilmente erronea rendano infecondo il loro amore, per poterlo vivere quindi senza preoccuparsi della nasci­ ta di un figlio, tale azione non sarà loro imputabile, ma quel che com­ piono è qualcosa che va contro il loro amore, per cui non consente loro una vera unione. E qui sta il loro dramma: nel principio di fram­ mentazione che si introduce tra la sessualità e il dono di sé. Con il passare del tempo vedranno che il loro stesso rapporto si impoveri­ sce, non perché manchi loro intensità di piacere o tecnica sufficien­ te, ma perché in esso la persona non si consegna: il tarlo si è intro­ dotto quando hanno deciso di rendere infecondo il loro amore e ora il loro rapporto non si sostiene. Qualora la persona neppure volesse intraprendere un cammino per capire la verità di ciò che il suo amo­ re coniugale comporta - con un dialogo futuro, o letture adatte, o la domanda di luce rivolta a Dio - e si rinchiudesse nella propria visio­ ne, manifesterebbe allora di non voler uscire dalla propria situazio­ ne: in questo caso non si potrebbe parlare di coscienza invincibil­ mente erronea e diventerebbe responsabile. La tragedia con cui abbiamo a che fare al giorno d'oggi è quella di tanti matrimoni che hanno una vocazione tanto grande, tanto al­ ta, perché gli sposi sono chiamati ad amarsi con la pienezza d'amore con la quale Cristo ama la sua Chiesa e, tuttavia, sono vuoti. Non so-

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no responsabili, perché non sanno quello che fanno. Ma che povertà d'amore vivono! Dio ha pensato il matrimonio per la pienezza del­ l'uomo e ora l'uomo l'ha ridotto a un'occasione di gioco sessuale e affettivo. Più che mai si rende allora necessario tornare all'esperienza ori­ ginaria dell'amore.Aiutare le persone a fare memoria di quel che l'e­ sperienza amorosa comporta e di come in essa vi è una dimensione di fede: il primo passo dell'amore è di credere in quel che ci promet­ te. È in primo luogo la fede umana, che apre alla fede teologale, poi­ ché ci permette di credere che il disegno tracciato da Dio sull'amore umano è un disegno di pienezza. È questa fede che permetterà di passare alla speranza, come motore dell'amore, come rigeneratrice di un amore debole e timoroso. E con la speranza la persona potrà amare in verità, consegnarsi in totalità, vivere veramente la sua ca­ rità coniugale.

9. Sintesi In sintesi: dove si situa la differenza tra un atto coniugale e un'u­ nione sessuale resa intenzionalmente infeconda? L'atto coniugale è un'azione in cui i due mutuamente si regalano, perché non danno qualcosa di sé che possa essere oggettivato e usato per soddisfare delle necessità, ma danno se stessi in totalità, partecipando della con­ segna di Cristo nel loro corpo e comunicandosi il dono dello Spirito. Si consegnano proprio perché si amano. E questa azione è proprio un regalo meraviglioso nella vita: che una persona possa regalarsi a qualcuno così, nella totalità di ciò che è, semplicemente perché l'a­ ma. E inoltre, poter essere a sua volta accolta così, nella totalità di ciò che si è, semplicemente perché è amata. Per il fatto di introdurre intenzionalmente una limitazione alla totalità e di escludere la possibilità di diventare padre o madre, la contraccezione al contrario non può configurarsi come un dono di sé, perché ciò che si dà non è la persona nella sua totalità, ma qual­ cosa della persona che non è assunto personalmente. Per questo non può veramente unire gli sposi, anche se la maggior parte delle volte mirano a esprimersi l'amore. È qui il loro dramma. Non è un auten­ tico atto coniugale, anche se esternamente possiede le qualità fisiche e affettive: manca delle qualità intenzionali. La configurazione simbolica che le due azioni hanno è decisa­ mente differente: nell'unione contraccettiva, per la mancanza del do-

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no in totalità, gli sposi vedono la possibilità di una soddisfazione, nel­ l'unione coniugale un reciproco regalo. Possiamo ora comprendere perché la Chiesa sostenga, anche al prezzo di ritrovarsi isolata sullo scenario di questo mondo, la neces­ sità che l'unione coniugale resti aperta alla possibilità di trasmettere la vita: intende esprimere la condizione necessaria perché l'atto co­ niugale sia un vero atto d'amore. Soltanto se è un vero atto d'amore potrà partecipare dell'amore di Cristo.

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Capitolo ventesimo

Fecondità nell'infertilità

Per il fatto di essere conformato dall'amore sponsale, il matri­ monio porta in se stesso la finalizzazione a trasmettere la vita. Si trat­ ta di un bene proprio ed esclusivo che comporta una pienezza nuo­ va nella vita dei coniugi. Nell'originalità dell'esperienza amorosa i due concepiscono il loro amore come un amore capace di comuni­ carsi, di generare figli, di costruire una famiglia. Non si tratta di un amore rinchiuso in se stesso, ma aperto alla comunicazione ad altri della pienezza interiore che vive. Per questo l'amore sponsale è ca­ pace di configurarsi simbolicamente come un amore fecondo. Cosa avviene quando il figlio non arriva? Può forse questa diffi­ coltà aiutarci a comprendere il significato dell'autentica paternità?

1. Il desiderio di avere un figlio Il desiderio di avere un figlio appartiene alla stessa realtà dell'a­ more tra un uomo e una donna, lo configura come tale. Si tratta di un desiderio che nasce dalla promessa che l'esperienza d'amore ha risvegliato in entrambi: formare una famiglia in cui generare e acco­ gliere altre persone nella comunione d'amore. La stessa comunione d'amore degli sposi raggiunge la sua pienezza ultima in questa co­ munione familiare. Si tratta di un desiderio vissuto in maniera diversa dall'uomo e dalla donna, la cui ripercussione consapevole si fa lentamente strada nella coscienza dei due. Qual è il significato di questo desiderio? Do­ ve si radica la sua bontà?

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Desiderare di avere un figlio vuol dire desiderare di generare qualcuno, mossi dall'amore. Qualcuno che non esiste e che viene al­ l'esistenza per una chiamata d'amore di Dio nell'amore dei coniugi. Qualcuno, non qualcosa, qualcuno che è accolto come un dono, un regalo. Qualcuno che ha una vocazione d'eternità. Qualcuno che è accolto nel destino della famiglia: nella comunione di persone che forma la famiglia, ma che a sua volta ha un proprio personale desti­ no, sconosciuto ai suoi genitori e che nel tempo si andrà loro svelan­ do. Qualcuno che è una persona, un essere libero, capace di agire da sé e per sé, dirigendo se stesso verso il proprio destino e configuran­ do da sé la propria vita. Qualcuno che, essendo generato, è anche de­ stinato a essere padre di se stesso. Poiché è lui che un domani potrà generare se stesso dando un volto concreto e personale alla sua esi­ stenza. Desiderare di avere un figlio non è dunque semplicemente volere qualcosa che sazi il proprio desiderio, ma la possibilità di con­ dividere con qualcuno il proprio destino e di accompagnarlo verso il suo destino. Condividere il proprio cammino, aprendogli vie di pie­ nezza, camminando con lui. Adamo ed Eva presero conoscenza della loro identità ultima nel­ l'esperienza della paternità; di fronte alla meraviglia del suo primo fi­ glio, Eva esclamò: «Ho acquistato un uomo dal Signore» (Gen 4,1). La pienezza che porta con sé questa relazione nuova instaurata tra i ge­ nitori e il loro figlio scopre un orizzonte nuovo, che apre loro un cam­ mino che li colma di gioia, anche senza ben sapere dove li porterà. Ciò che è essenziale è che, al di là delle difficoltà che senza dubbio incon­ treranno, la meta del cammino è qualcosa di prezioso, qualcosa che vale la pena, non perché «realizza i suoi protagonisti», dal momento che da loro esigerà sacrifici insospettati, ma perché consente un dono di sé nuovo in cui sussistere come comunione familiare. Desiderare di avere un figlio configura anche il significato del­ l'unione coniugale degli sposi. Non si tratta di un'unione rinchiusa nella stessa intensità sensuale o affettiva che porta con sé, ma che è aperta in se stessa a porre le condizioni perché possa arrivare un fi­ glio. È nel loro abbraccio d'amore che il figlio è accolto come un do­ no. Dono in un mutuo dono. E quando al passare del tempo i coniugi vanno accorgendosi che la loro unione coniugale non è feconda, nonostante abbiano posto tutte le condizioni perché il figlio arrivi, e il figlio tuttavia non viene, cominciano a preoccuparsi, ad affrontare il problema: parlare tra lo­ ro, andare a consultare un medico. La sterilità è una disfunzione del­ la funzione riproduttiva che obbedisce a cause spesso sconosciute.

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Ma quando gli sposi giungono alla convinzione che il loro amore co­ niugale è sterile, questa presa di coscienza è causa per loro di una ve­ ra sofferenza che scuote il loro stesso modo di porsi di fronte alla vi­ ta, davanti al loro destino e davanti allo stesso matrimonio. Perché? Perché l'impossibilità di avere un figlio contraddice uno dei desideri più profondi degli sposi e pone in dubbio la stessa promessa che si era rivelata nel loro innamoramento: pone in dubbio la possibilità di conseguire una vita piena nella formazione di una famiglia. Si tratta di un momento difficile nella vita degli sposi poiché, po­ nendo in dubbio la pienezza ultima, minaccia di svuotare di senso lo stesso amore sponsale, la sua consumazione nell'unione coniugale.

2. La tentazione di produrre un figlio: la fecondazione artificiale La medicina oramai da alcuni decenni è capace, in determinati casi, di realizzare il desiderio dei genitori di avere un figlio median­ te l'intervento della tecnica. Questo intervento tecnico del medico può essere realizzato in molti modi. La differenza fondamentale tra loro è stabilita dal modo con cui si situa di fronte all'unione coniu­ gale degli sposi: aiutando e promuovendo la stessa loro capacità pro­ creativa oppure sostituendola, mediante l'estrazione del materiale necessario dal corpo dell'uomo e della donna, provocando la fecon­ dazione in vitro e il successivo trasferimento dell'ovulo fecondato nella madre (fivet), oppure mediante l'inseminazione artificiale, tra­ sferendo lo sperma nelle vie genitali della donna. 1 Non ci interessa a questo punto una riflessione sulla fecondazio­ ne artificiale ai fini d'una sperimentazione, poiché in se stessa mostra una radicale strumentalizzazione dell'embrione umano appena con­ cepito. E nemmeno ci interessano i diversi modi di fecondazione che avvengono fuori del contesto sponsale, originando un autentico caos genealogico per il bambino, che in alcun modo può essere visto come un bene per lui. Vogliamo invece valutare in primo luogo la scelta di quei genitori che vogliono realizzare il loro desiderio di avere un fi­ glio appunto mediante la fecondazione in vitro, per poter giudicare in secondo luogo, sulla base della chiarezza fatta, l'inseminazione artifi1 La posizione morale della Chiesa al riguardo è stata esposta nell'istruzione del­ la CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Donum vitae dell'anno 1988.

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ciale. Si tratta dunque della valutazione morale della fecondazione artificiale all'interno di un contesto familiare e matrimoniale. Per poter dare inizio al procedimento sono fondamentalmente necessarie due cose: la decisione dei coniugi e la tecnica del medico. Si tratta dunque di due azioni distinte: quella degli sposi, che voglio­ no che il medico realizzi il suo intervento tecnico, e quella del medi­ co, che sceglie di realizzarla. Cosa si sceglie? Perché si sceglie? Nel caso degli sposi ciò che si sceglie, cioè il fine prossimo della loro azione, è che il medico ponga in atto un intervento destinato a produrre un figlio: realizzare cioè la fecondazione in vitro dell'ovulo estratto dalla donna con gli spermatozoi ottenuti dall'uomo. Gli spo­ si scelgono, pertanto, che il medico produca un figlio, il loro figlio. Questa scelta degli sposi è originata dal grande desiderio di un figlio. Nasce immediatamente la questione decisiva: questa non si rife­ risce né alla percorribilità dell'intervento medico, né alle future con­ seguenze che potrebbe avere nel bambino e nella società l'ammis­ sione della fivet, né ai problemi giuridici che insorgeranno, né alla ex­ tracorporeità che tale fecondazione comporta. La questione che è in gioco è piuttosto la seguente: si può produrre una vita umana al fine di soddisfare il desiderio di avere un figlio? È lecito generare un es­ sere umano sostituendo l'atto di reciproca donazione dei coniugi? 2 Per rispondere a queste importanti domande occorre non perde­ re di vista il dramma umano che sottendono. Molte volte la tecnica tende a nasconderlo, accusando quelli che non accettano il suo do­ minio di rifiutare in modo oscurantista le possibilità che essa offre: perché sistematicamente anatematizzare ogni intervento artificiale sui processi biologici della riproduzione, impedendo alle persone di realizzare i loro più nobili desideri? Con questa prospettiva si evita però la domanda umana di fon­ do. La rilevanza morale che la fecondazione artificiale propone non si riferisce alla possibilità tecnica in sé, ma al significato di una rela­ zione che si instaura nell'atto stesso della generazione di una perso­ na. Chi è il figlio per i suoi genitori? Chi sono i suoi genitori per il fi­ glio? Come può giungere il figlio a comprendere se stesso? La difficoltà che la sterilità ha introdotto nella vita degli sposi e la possibilità tecnica di produrre un figlio possono aiutarci a scopri­ re quello che è il significato della vera paternità umana.

2

Cf. RHONHEIMER, Etica della procreazione, 127-150.

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3. Significato della paternità umana Generare una persona non è semplicemente generare un essere vivente che sia capace di interagire con i suoi genitori. Anche certi animali sono capaci di interagire con l'uomo. L'originalità del gene­ rare una persona risiede nel generare qualcuno che ha un destino personale e una libertà per autodeterminarsi, destino e libertà che in un certo modo sono legati ai suoi progenitori e che in loro incontra la sua prima configurazione. Generare una persona comporta instaurare una relazione con qualcuno che inizialmente dipenderà dai suoi genitori, ma che è chiamato a condurre personalmente la propria vita. Si inaugura così una relazione, padre-figlio, che ha la propria origine nell'atto stesso con cui il figlio è generato e, a partire da lì, va sviluppandosi e attra­ versando diverse tappe: infanzia, adolescenza, maturità... Generare un figlio comporta in certa misura assumere la relazio­ ne che si instaurerà e vincolarsi al suo stesso destino. A partire da questa relazione e da questa compagnia dei suoi genitori, il figlio po­ trà ora andare avanzando poco a poco, passare dall'essere qualcuno interamente dipendente a essere qualcuno indipendente e autonomo nella propria capacità di scelta. La sua vita come persona acquisisce una singolare unità nelle azioni che compie, poiché con esse ricono­ sce la propria identità e il destino cui è chiamato. La possibilità di li­ bera autodeterminazione da parte del bambino dipenderà perciò dal riconoscimento della propria identità e dall'adeguata determinazione del destino della propria vita secondo le diverse tappe del suo svilup­ po. È allora che il bambino guarda all'origine della propria vita e ri­ conosce se stesso nell'atto con cui i suoi genitori l'hanno generato. L'atto attraverso il quale siamo generati non indica semplice­ mente la causa della nostra esistenza, ma è anche in rapporto con l'immagine che abbiamo di noi stessi. Un'immagine in nessun modo espressa né riflettuta, ma che tuttavia plasma il nostro essere, il no­ stro modo di vedere, di sentire, di valutare e disprezzare, di deside­ rare e temere. D'essere, in definitiva, dei soggetti umani, protagoni­ sti della nostra esistenza come veri autori e attori. Nell'atto con cui è generato, il bambino riconosce una cosa es­ senziale: di non essere qualcosa che viene all'esistenza per l'utilità che consegue, poiché non è un oggetto, né di venire all'esistenza per soddisfare nessun desiderio, poiché è una persona degna di essere amata in se stessa, incondizionatamente, corrisponda o meno ai de­ sideri dei suoi genitori. Egli viene all'esistenza come un dono, come

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un meraviglioso regalo che i suoi genitori hanno accolto in un atto d'amore. Egli, in definitiva, non è il prodotto diretto della volontà dei suoi genitori, cioè non è un semplice progetto umano. Generare un figlio comporta senza dubbio di pensare al bene che l'esistenza suppone per lui, per quanto lo consenta la possibilità me­ ravigliosa di vivere e, vivendo, di raggiungere la sua pienezza ultima. Per questo si tratta di un atto che implica un dinamismo intenziona­ le che si concentra anche nel figlio e, concentrandosi in lui, è capace di includere i beni di cui avrà bisogno per poter conseguire la sua pienezza. Il bambino potrà riconoscersi come figlio nell'amore dei suoi ge­ nitori che lo accolgono per se stesso: un amore che lo precede e che gli offre un orizzonte. E questo fatto di riconoscersi come figlio è quello che lo apre alla realtà, potendo considerarla buona, promet­ tente, degna di credito e del proprio amore.

4. La differenza tra l'unione coniugale e la fecondazione artificiale Ma non accade la stessa cosa nella fecondazione artificiale? Qual è la differenza tra la paternità come frutto dell'unione coniugale e la paternità attraverso la fecondazione artificiale?

a. La fecondazione artificiale Di certo quando i genitori ricorrono alla fecondazione artificiale, lo fanno perché desiderano avere un figlio, prevedibilmente un figlio che avrà una propria libertà e un proprio destino. Ma la difficoltà è che ora, mossi da questo desiderio, scelgono di fare ricorso al medi­ co perché lui produca un figlio. Con ciò si stabilisce un fatto nuovo nella paternità, poiché i genitori del figlio apportano semplicemente il materiale, lasciando la totalità dell'iniziativa all'azione del medico, che è la vera causa efficiente della fecondazione. 3 Il bambino può riconoscere che all'origine della sua vita si trova­ no la decisione dei suoi genitori e l'artificio del medico. Egli esiste perché qualcuno ha deciso che egli esista. E lo ha deciso per soddi3 Cf. L. MELINA, Corso di bioetica. Il Vangelo della vita, Piemme, Casale Monfer­ rato 1996, 95-111.

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sfare un nobile desiderio. In questo modo si inaugura una vita che di­ pende per la sua esistenza dalla decisione diretta dei suoi genitori e dalla tecnica di un'équipe medica. Nell'immagine simbolica che il bambino si formerà della propria origine potrà affermare: «esisto perché voi avete deciso che esistessi e lo avete deciso per saziare il vostro desiderio di un figlio». Per questo «esisto nella misura del vo­ stro desiderio». In questo modo l'esistenza del figlio viene strumentalizzata, poi­ ché è voluto in quanto fine di un desiderio e non per se stesso. Una persona che ha in sé una libertà e un destino proprio, che pertanto richiede di essere accolta conformemente alla propria dignità, cioè come un fine in sé, per se stessa, indipendentemente dal fatto che sazi o meno i desideri, viene ora tuttavia a dipendere per la propria esistenza dalla volontà di altri che vogliono soddisfare un nobile de­ siderio. Questa dipendenza dell'esistenza del figlio dalla diretta volontà dei suoi genitori fa sì che le basi per le quali il figlio reclama di essere accolto nella sua radicale unicità e irripetibilità siano minate all'origi­ ne. La stessa giustificazione che si pretende di offrire fa riferimento a questo: il «diritto» di avere un figlio. Ma il figlio non è qualcosa di do­ vuto, precisamente a motivo della sua dignità. La relazione che si sta­ bilisce tra genitori e figli nella generazione non può essere equiparata a una relazione attraverso la quale si acquisisce un diritto sopra qual­ cosa, ma piuttosto ad una relazione nella quale si accoglie un dono. 4 Il figlio non può essere considerato un oggetto di proprietà.

b. La scelta dell'unione coniugale Nel caso di quei genitori che generano il loro figlio con un atto di donazione corporale possiamo anche trovarci davanti a un gran de­ siderio di avere un figlio. Questo desiderio però non spinge ora a una scelta diretta che qualcuno esista, ma questo desiderio spinge a una donazione totale e reciproca nel corpo, atto per cui si pongono le condizioni perché il figlio venga. Ciò che i due scelgono non è di pro­ durre una persona, ma di amarsi in totalità. È nel loro amore che ri­ conosceranno che il figlio viene loro dato come un dono, come il frutto più prezioso della loro consegna.

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Cf. Donum vitae 96.

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Il figlio potrà riconoscersi in modo assai specifico nell'amore dei suoi genitori: vedrà non la decisione diretta del fatto ch'egli esista, ma la scelta di amarsi in reciprocità. Potrà così configurare l'imma­ gine simbolica della propria origine, affermando: «Esisto perché i miei genitori si sono amati». All'origine della sua esistenza si trova un amore di donazione reciproca e totale, che abbraccia anche il fi­ glio, rendendolo partecipe della pienezza del loro amore. È in que­ sto abbraccio d'amore che il figlio è accolto come un dono: non è una cosa prodotta, perché è una cosa data in dono, né è un semplice pro­ getto umano. È qualcuno, questo sì, sommamente atteso e accolto perciò nella sua unicità e irripetibilità. L'eccellenza che la possibilità di avere un figlio comporta per i genitori, cioè l'apertura alla vita del loro amore coniugale, non si ra­ dica così nella fattualità che il figlio di fatto arrivi: vi sono molti ge­ nitori che una volta ottenuto il loro figlio desidererebbero non aver­ lo avuto. L'eccellenza della paternità si radica nella disposizione ad accogliere una persona come dono, per se stessa, e di introdurla nel­ la comunione d'amore degli sposi, inaugurando con lei una relazio­ ne di paternità e maternità irrevocabile in pieno accordo con la sua dignità. Possiamo ora comprendere la differenza radicale tra le due for­ me di paternità: nella paternità che giunge come frutto dell'unione coniugale, il desiderio d'avere un figlio si integra nell'amore sponsa­ le, inducendo gli sposi a una consegna di sé nella quale porre le con­ dizioni per accogliere il figlio come dono. La decisione procreativa passa attraverso la consegna sessuale, che assume tutto il protagoni­ smo dell'intenzione. Nella paternità come frutto della fecondazione artificiale, il desiderio d'avere un figlio viene separato dall'amore sponsale, spingendo gli sposi a ricorrere all'intervento tecnico che sostituisce l'azione che è loro propria. La decisione di generare una persona si dirige direttamente alla produzione di una persona, così che perde il suo significato procreativo propriamente umano. Quando il figlio è prodotto con un artificio, in lui si riflette il dramma dell'oggettivazione: è accolto in quanto soddisfa un deside­ rio, è voluto come mezzo, viene strumentalizzato.5 Si origina così una relazione di dipendenza che contiene in sé la logica del dominio. È certo che molti genitori non vorranno vivere in questa logica. Ma per 5 Cf. L. MELINA, «Paternità e artificio», in Communio (ed. italiana) 139(1995), 98-104.

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non viverla così dovranno cambiare la logica che era contenuta nel­ l'atto con il quale hanno prodotto il loro figlio. In caso contrario, l'oggettivazione che comporta degenererà in una relazione di domi­ nio o, all'opposto, in un'assenza di compagnia quando non soddisfa più, abbandonando il loro figlio a un destino sconosciuto. Quel che la fecondazione artificiale rende impossibile per la fi­ nalità intrinseca che comporta è il riconoscimento incondizionato del figlio per se stesso: vale a dire, è impossibile ordinare il fine pros­ simo che persegue al riconoscimento della persona per se stessa, sta­ bilendo l'adeguato contesto per accoglierla. Ciò non vuol dire di per sé che generare all'interno della consegna d'amore implichi automa­ ticamente che si accolga il figlio per se stesso; ciò che si vuole dire è che, nel caso della fecondazione artificiale, si eliminano di fatto le ba­ si per riconoscerlo. Soltanto l'accoglienza del figlio per se stesso, accoglienza come frutto di un atto d'amore, è capace di assicurare una solida roccia sul­ la quale costruire una relazione di paternità e filiazione che consen­ ta nel tempo di vivere un'amicizia. Possiamo ora comprendere come debba situarsi l'azione del me­ dico di fronte al problema della sterilità. La sua azione deve essere diretta intenzionalmente verso l'aiuto e l'agevolazione del compi­ mento dell'atto coniugale e delle possibilità che vi sono insite: mai a sostituirlo, poiché si approprierebbe di un dominio sull'origine della vita che in nessun modo gli spetta.6 Alla luce di questo criterio si devono valutare le diverse tecniche di inseminazione artificiale: saranno buone moralmente sempre e quando non sostituiscano l'atto di consegna degli sposi. E questo av­ viene quando rendono possibile la sua piena realizzazione o quando lo aiutano a raggiungere il suo intrinseco significato procreativo.

5. Fecondità nell'infertilità Qual è la risposta che si può offrire alla difficoltà della sterilità? Questa risposta verrà esattamente dall'attenzione alla varietà di al­ ternative con cui l'amore coniugale può comunicarsi ed espandersi. Tra loro, interessa ora porne in risalto due: una missione nella società e l'adozione. 6

Cf. Donum vitae 90-93.

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a. Una missione nella società La fecondità dell'amore coniugale comporta una precisa dinami­ ca nella vita matrimoniale, poiché riequilibra l'amore degli sposi im­ pedendo che si concentri soltanto in loro. Questa stessa dinamica è vissuta anche nella dolorosa esperienza della sterilità, di fronte alla quale gli sposi sono chiamati a vedere come vivere la loro propria vocazione nelle loro concrete condizioni sociali e personali. È così che l'amore sponsale spinge a una singolare attenzione al­ le necessità che possono emergere in una società, rendendo possibi­ le un coinvolgimento degli sposi nell'accoglienza delle persone e nel­ la loro promozione, al di là dei vincoli della carne e del sangue (FC 41). È nella consegna a questa missione che potranno sviluppare la loro vocazione alla fecondità coniugale. La creatività che tanti matrimoni hanno mostrato nella fonda­ zione di tante istituzioni che hanno permesso alle persone di svilup­ pare la loro vocazione è una buona dimostrazione della fecondità di un amore sponsale biologicamente sterile.

b. L'adozione e il mistero della paternità La missione nella società può acquistare una precisa configura­ zione nell'adozione, quando il desiderio di avere un figlio induce gli sposi sterili ad adottare un bambino. Si tratta ora non di un'azione che è diretta a produrre l'esistenza di una persona, ma un'azione che s'indirizza alla ricerca di un bambino che sia privo dei genitori per potergli offrire il proprio amore, la propria dimora. Il problema principale che si evidenzia nell'adozione non risie­ de in primo luogo nella difficoltà di certi genitori ad avere un figlio, ma nel dramma che un bambino non abbia dei genitori che possa­ no accoglierlo e accompagnarlo verso il suo destino. 7 Possiamo con ciò valutare come il problema della soddisfazione del proprio desi­ derio ne risulti ricentrato nel bambino: non si adotta un bambino per soddisfare un desiderio, perché altrimenti lo si potrebbe resti­ tuire qualora non riuscisse a dare la soddisfazione adeguata. Un bambino non è qualcosa che debba soddisfare, ma è qualcuno che necessita di un riconoscimento. 7 Cf. A. 327-336.

VANONI,

«Adozione e paternità adottiva», in Anthropotes 12(1996),

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La scelta della paternità adottiva si configura allora come l'even­ to del riconoscimento che dei genitori fanno di un bambino che non è loro figlio, ma che, di fronte all'assenza di chi dovrebbe offrire tale riconoscimento e in forza dell'unicità e irripetibilità del bambino, lo accolgono definitivamente e incondizionatamente offrendogli la lo­ ro compagnia in una relazione durevole e stabile che abbraccia la sfera materiale, corporale, affettiva e spirituale, come un figlio pro­ prio, introducendolo nella comunione familiare. In base a questo mutuo riconoscimento si stabilisce una relazione di vera paternità e filiazione. Con questo non si vuole imitare la paternità biologica, proprio perché è impossibile, ma si vuole mostrare come, davanti al­ la situazione di abbandono del bambino, sia possibile offrire un rico­ noscimento in possesso delle due note caratteristiche della paternità: la definitività e l'adesione a un progetto di Dio. Vediamo questa se­ conda caratteristica. Le circostanze stesse di abbandono del bambino, così come la lo­ ro dolorosa sterilità, hanno indotto gli sposi a interpretare in quale modo il loro amore possa rendersi comunicativo e assumere così la vocazione alla quale è chiamato. I genitori adottivi accogliendo il bambino stanno accogliendo un progetto di Dio che passa attraver­ so il dolore della loro sterilità e la situazione del bambino. È il pro­ getto di farsi definitivamente carico di una persona accompagnan­ dola verso il suo destino. Nella paternità biologica questo progetto passa attraverso la vo­ cazione inscritta nella stessa coniugalità, poiché è in essa che Dio può inviare il dono di un figlio; nella paternità adottiva questo pro­ getto di Dio passa attraverso il controsenso di una sterilità, che tut­ tavia non rinchiude gli sposi in sé, ma li apre a domandarsi in che modo possano vivere la fecondità del loro amore.

6. Conclusione La riflessione sul significato procreativo dell'atto coniugale, il suo contrasto con l'atto sessuale contraccettivo e la fecondità artifi­ ciale, la sua relazione con l'atto di adozione, può aiutarci a compren­ dere quale sia il significato ultimo della paternità. Certamente gli sposi non percepiscono tutto ciò che questa paternità e maternità si­ gnificano in concreto nelle loro vite, tuttavia, di fronte alla promessa che si rivela nel loro amore, si fidano di tale promessa e accolgono un progetto che li trascende, che non è solamente né principalmente

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loro, ma che Dio stesso ha impresso nella loro corporeità. La pater­ nità comporta allora di accogliere il progetto di Dio, di consentirvi, di accettare la sua bontà. Generare un figlio che ha una vocazione di eternità, un proprio destino, non dato per noi, si configura come una nuova pienezza, una vita buona, piena di senso, poiché permette una donazione nuova degli sposi che si prolunga nel tempo e che nell'e­ ducazione acquista connotazioni inaspettate. Quando gli sposi si uniscono coniugalmente, nella loro unione si nasconde questa fede nella promessa che l'amore rivela e che Dio vi ha inscritto. Sì, generare un figlio è un dono, un regalo, una delle be­ nedizioni più grandi che Dio possa dare agli sposi. Il loro amore sponsale non viene limitato, al contrario scopre forme nuove per cre­ scere ed espandersi. Ma per il fatto che non tutto è chiaro, di più, che niente è chiaro su come sarà il futuro con i figli, questa unione co­ niugale include anche una supplica a Dio, che si rende esplicita nel­ la presa di coscienza del concepimento e che nel battesimo verrà for­ mulata in modo diretto: la richiesta della sua vicinanza, della sua for­ za, della sua luce, del suo Spirito in definitiva, per poter rimanere al­ l'altezza della vocazione che egli dà, per poter essere testimoni del suo amore davanti ai figli, per poter comunicare ai figli il dono dello Spirito in modo tale che la vita dei figli consegua la sua pienezza ul­ tima. L'arte medica trova allora adeguata collocazione quando è ca­ pace di agevolare la piena realizzazione dell'atto coniugale, di aiu­ tare e di promuovere lo stesso dinamismo dell'amore nei processi di fertilità. Quando invece il medico pretende di sostituire l'atto esclu­ sivo degli sposi, equivoca la propria missione e introduce un ele­ mento che deforma la paternità e la finalità terapeutica della sua professione.

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Capitolo ventunesimo

Fedeltà e dono del perdono

L'esperienza amorosa apre sempre un orizzonte, che nel patto matrimoniale resta fissato costituendo l'identità degli sposi. Adesso la loro vita, vissuta nella grande varietà di azioni che comporta, sarà un'attualizzazione più o meno perfetta di questa promessa. L'amore però si vive nel tempo: questo attiene essenzialmente al vissuto umano dell'amore. Il tempo segnala sempre la discontinuità che sussiste tra ciò che noi siamo e ciò-che-vogliamo-arrivare-a-es­ sere secondo la rivelazione dell'amore. È certo che l'esperienza del tempo non è vissuta alla stessa maniera nel fidanzamento come nel matrimonio, per esempio. La differenza consiste nel fatto che nel matrimonio il tempo sembra condensarsi, acquistando una fisiono­ mia quasi definitiva: questa è la pienezza. Si configura come uno sta­ to di vita, di vita buona e riuscita. Non è tuttavia la pienezza ultima. L'amore promesso e consuma­ to è chiamato a crescere, a rendersi più pieno e più integro nella do­ nazione quotidiana, fino a giungere alla misura dell'amore di Cristo per la Chiesa, fino a giungere alla piena ricezione del dono ultimo che Dio vuole fare anche nel corpo: la risurrezione della carne con la sua piena spiritualizzazione. Si apre così per gli sposi il cammino del loro matrimonio: un comune pellegrinaggio in cui attraverso i loro passi, cioè le loro azioni, vanno avvicinandosi alla perfezione. L'uo­ mo non può infatti conseguire la perfezione d'un colpo, con un uni­ co passo, con un'unica azione. Quali sono le difficoltà di questo cammino comune? Come vive­ re questo pellegrinare?

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1. La difficoltà del cammino della vita Si tratta d'un cammino nel tempo. E il tempo arriva a farsi lungo, rendendo difficile conservare l'intenzione dell'amore e la tensione che comporta nella mutua comunione. Le stesse circostanze della vi­ ta a volte si presentano avverse, minacciando la comunione. Le di­ verse stagioni che nell'amore vanno susseguendosi, senza che si pos­ sa far sì che torni la primavera, che non arriva per quanto ci si sfor­ zi, aiutano i suoi protagonisti a comprendere che anche loro devono apprendere ad amare nell'autunno e nell'inverno. Perché anche l'a­ more ha le sue stagioni. Il succedersi delle stagioni dell'amore ci inquieta, non solo per­ ché sconcerta, ma anche perché appanna l'ideale e indebolisce l'im­ pegno della volontà. L'assenza della passione d'amore vissuta nel­ l'attrazione corporea e affettiva, la mancanza di una mutua empatia, la perdita d'interesse per l'altra persona, destabilizzano la decisione di costruire una comunione, di impegnarsi nella costruzione di pic­ cole azioni. Più ancora, l'amore vissuto nel tempo si fa monotono, come una cosa già sperimentata, povera di novità, così che la persona si vede in un ambiente logoro che può giungere ad asfissiarlo. In queste situazioni non è facile interpretare bene quel che acca­ de. Le azioni dell'altro vengono male interpretate, senza che si arrivi a cogliere in loro quel che realmente importa. Si tende d'altra parte a dare maggiore importanza a quel che riguarda l'opinione degli altri, che dall'esterno, e senza capire l'anima dell'amore, tendono a giudi­ care le persone che amiamo, deformando l'idea che abbiamo di loro. Un accumularsi davvero pesante di piccole difficoltà male inter­ pretate si forma nel vissuto degli sposi, ostacolando una mutua con­ cordia nelle azioni concrete da compiere. Non si sa molte volte come comportarsi, cosa sia opportuno proporre, come animare, che conver­ sazione iniziare... Piccole difficoltà cui si sommano piccoli rancori e in­ vidie... E in tutto ciò si ripete la tecnica adottata già dal primo uomo, scaricare sull'altro la colpa della situazione: «La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell'albero e io ne ho mangiato» (Geo 3,12). Ciascuno dei due è convinto di avere le «sue» ragioni. Senza dubbio, però, la difficoltà di fondo nasce quando gli sposi, con più o meno verosimiglianza, giungono ad avere il presentimento che tra loro c'è una discordia riguardo a ciò che è essenziale della promessa che si era loro manifestata e che entrambi nel loro matri­ monio avevano giurato. È allora che si pone in dubbio l'ideale di vi-

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ta buona vissuta nella mutua comunione. È un dubbio terribile, che fa veramente soffrire, poiché tocca le speranze più grandi. Un dub­ bio che blocca l'incondizionata accoglienza che sino a quel momen­ to si era offerta e che paralizza l'amore. Il coniuge comincia a essere visto come qualcuno che sfugge alla propria appartenenza, qualcuno che comincia a dissolversi. La grande difficoltà del matrimonio sorge quando si tradisce l'in­ timità propria degli sposi. Si comincia con un flirt più o meno co­ sciente, che nella sua dinamica offre un compenso affettivo e la vita­ lità dell'amore, si continua con il proporre e accettare determinate manifestazioni d'affetto, fino a fare in modo che un altro o un'altra s'innamori di te, compiacendosi che questo avvenga. Il suo dramma più grande risiede nell'adulterio, che caso per caso ha indubbiamen­ te molte sfumature: ingenuità, debolezza, perdita dell'amore sponsa­ le, disinteresse per la persona, dispetto... ma un minimo comune de­ nominatore nell'intenzione prossima: cercare in un'altra persona quel che non si trova con il coniuge. Con ciò si tradisce la mutua in­ timità ed esclusività, le note che caratterizzavano e davano colore al­ l'esperienza amorosa sino allora vissuta. L'offesa che questa perdita dell'intimità configura per la persona colpita è grande: non solo per il fatto che si senta tradita, ma perché le si è così negato il riconosci­ mento della sua irripetibilità e insostituibilità. Il dramma più grande dell'adulterio non sta però nella persona offesa, ma in chi lo compie: nella sua vita ha un vero problema, que­ sto fatto non passa inosservato al suo autore, poiché può viverlo co­ me un'autentica tragedia dalla quale non sa tuttavia come uscire. È allora che si rende necessario saper aiutare le persone a recuperare il loro amore. Da un lato è essenziale aiutare la persona offesa affinché, al di là dei comprensibili dolore e rabbia, possa capire come disporsi di fron­ te a questo fatto e sapere quale sia il suo ruolo, cioè a cosa la sta chia­ mando questa nuova situazione. I problemi non si risolvono negando­ li né eliminando quel che sino a quel momento ha costituito la cosa più grande che si possedeva. «La persona che più amo ha bisogno più che mai di me: sta camminando sopra un abisso e io posso aiutarla». È il momento in cui più che mai l'amore si fa intelligente e comincia a svi­ luppare una genialità e una fortezza sconosciute. Salvare il coniuge. Ecco la modalità che in questo momento adotta l'amore. Da un altro lato, occorre aiutare la persona che arreca l'offesa af­ finché possa risolvere la causa che la porta a commettere adulterio. Per questo è necessario capire che cos'è successo, se si debba a una

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questione di debolezza che richiede un rafforzamento del senso co­ mune che renda la persona cosciente della sua ingenuità e debolezza, o se si debba a un raffreddamento dell'amore che fa tornare alla so­ litudine. Questo raffreddamento di solito ha una causa in entrambi, per cui è necessario aiutare la persona a ricollocarsi nella relazione stessa, affinché comprenda quale sia il suo ruolo in rapporto al susci­ tare nell'altra persona l'amore che forse ha perso la sua linfa. È ovvia la difficoltà di questo compito quando uno si sente un traditore: uno strano sentimento di orgoglio e di falsa modestia fa allontanare an­ cora di più uno dall'altro, lasciando chi offende in una crescente soli­ tudine e in un vicolo la cui unica uscita sembra essere buttarsi anco­ ra di più nel buio. Mai nell'adulterio potrà però trovare quel che cer­ ca, per una semplice ragione: pretende di gioire di quel che la sessua­ lità e l'affetto offrono, ma senza impegnare la propria libertà. E non l'impegna perché non può farlo, dal momento che appartiene a un'al­ tra persona. Cerca del sesso, certo, cerca della tenerezza, certamente, e può darsi che l'ottenga, ma cerca soprattutto una comunione, una pienezza umana. E questa senza il dono di sé non è possibile. Nell'imbroglio affettivo che i coniugi vivono, bisogna fare chia­ rezza sull'essenziale. L'ultima cosa che essi vogliono è di rompere il loro rapporto. Può darsi che nel calore della discussione e della ten­ sione sia questo quel che dicono con forza. Ma occorre fare atten­ zione ai loro desideri più profondi. Quel che stanno chiedendo, sen­ za dirlo, è che li si sostenga nella fedeltà e li si aiuti a perdonarsi.

2. La fedeltà dell'amore: fedeltà a una presenza Il pericolo che minaccia la vita degli sposi di fronte alle difficoltà tanto varie di cui fanno esperienza è di considerarle come ostacoli al loro amore: «Se non fosse per queste circostanze avverse il nostro amore continuerebbe a essere vivo...». Quel che si riflette è la man­ canza di realismo nel loro amore. Si tratta di un amore che non è ca­ pace di abbracciare la vita così come viene e di governarla. Certa­ mente le difficoltà possono intorpidire la vitalità dell'amore, ma es­ se ci stanno trasmettendo qualcosa di essenziale di noi e dello stato del nostro amore. Ogni difficoltà comporta sempre la chiamata a una fedeltà: la fe­ deltà dell'amore. Cosa significa? Non si tratta naturalmente della sincerità dei propri sentimenti, concetto che renderebbe impossibile l'unità di una vita, la vera iden-

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tità personale biografica e narrativa: oggi ci imbattiamo in questa pretesa di sincerità come in un ostacolo essenziale e molto diffuso, che rischia di cortocircuitare un'adeguata interpretazione di ciò che si vive. Essere fedeli ai propri sentimenti suppone una vera schiavitù per le persone, impedendo loro di trascendersi e di governarsi. E non si tratta nemmeno del semplice ridursi a un formalismo ripetitivo che si barrichi in quel che si è sempre fatto nel timore che un muta­ mento destabilizzi la propria vita, così che si decide per una conti­ nuità nel comportamento, nelle manifestazioni affettive, nella rela­ zione. E non è nemmeno ancora soltanto la fedeltà a un compro­ messo acquisito pubblicamente. 1 Il significato autentico della fedeltà appare quando si ponga in relazione la circostanza che si vive con la pienezza rivelata nell'amo­ re. La fedeltà fa riferimento a una pienezza, che non può essere com­ presa nella categoria sociologica del «realizzarsi» in se stessi, ma è pienezza di donazione e di comunione, per cui include indubbia­ mente il sacrificio di sé, arrivando anche a «perdersi». Ma cosa si per­ de? Tanti progetti, tanti sentimenti di orgoglio e di falsa umiltà. E co­ sa si guadagna? L'essenziale, la propria pienezza ultima. È una pie­ nezza di comunione interpersonale in cui entrambi i protagonisti hanno sentito che vi era nascosto il loro destino e l'hanno accolto, identificandosi con esso. Pienezza però che è stata data loro come il dono primario nell'esperienza d'amore e nell'arricchimento che ha comportato. La fedeltà si riferisce pertanto all'intenzione con cui una persona si rivolge alla pienezza di una comunione: di conserva­ re cioè l'intenzione dell'amore nella medesima persona che si ama nella mutua comunione ora minacciata. Dal momento però che que­ sta intenzione d'amore è nata dalla presenza affettiva dell'altra per­ sona dentro di sé, la fedeltà fa riferimento a una presenza, a conser­ vare questa presenza interiore dell'amato e a vivere di fronte a lui,2 poiché si tratta di una presenza che lo costituisce internamente im­ plicando un vincolo indissolubile. E nella fedeltà a questa presenza si dà anche la fedeltà alla presenza di Dio, a colui che chiama alla co­ munione con sé nella comunione umana. Dinanzi alle oscillazioni dell'amore a livello corporeo o affettivo,al di là delle circostanze avverse che potrebbero sopraggiungere, andan­ do oltre quello che altri dicono della persona amata, davanti alle deSi veda per quanto segue: voN HILDEBRAND, Essenza dell'amore, 869-919. Cf. G. MARCEL, «La fidelité créatrice», in Revue lnternationale de Philosophie 2(1939-1948), 96. 1 2

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bolezze dell'altra persona e di quelle proprie, al di là di tutto questo c'è una promessa il cui valore è più grande di se stessi e delle situazioni in cui ci si possa imbattere. Ecco il motivo per cui vale la pena conserva­ re l'intenzione dell'amore in questa comunione mutua ed esclusiva. La fedeltà si mostra come una delle note caratteristiche dell'a­ more, che appartiene alla sua essenza, rivelatrice della sua profon­ dità, ma che richiede un lavoro personale per conservarla: la propria scelta di mantenersi fedeli all'intenzione che anima le azioni, di rin­ novarla interiormente, costruendo azioni concrete. Su che cosa si appoggia la fedeltà? Dove trova la luce per guida­ re il cammino e la energia per spingerlo a percorrerlo? Sono tre le virtù che la sostengono: in primo luogo la speranza, poiché essa le mostra costantemente la promessa, la bellezza e la bontà dell'ideale offerto, e le fornisce l'appoggio necessario per at­ tualizzarlo: cioè l'aiuto di Dio reso presente nella Chiesa. È la spe­ ranza a mantenere l'intero dinamismo intenzionale teso verso la co­ munione pur di fronte alle difficoltà nel raggiungerlo. In secondo luogo la fortezza, poiché integrando il dinamismo ira­ scibile, gli permette di trovare un'energia per poter resistere quando si scontra con le avverse difficoltà: l'indifferenza, la mancanza di ri­ sultati, l'incomprensione. E nello stesso tempo mantenere la rotta dell'amore, senza cessare d'agire. Resistere nell'amore, lottando per far avanzare la comunione. In terzo luogo la carità, poiché essa offre già al presente un anti­ cipo della pienezza che la persona cerca, consentendole di ancorarsi nella comunione con Dio, anche nell'oscurità. Senza dubbio la fedeltà comporterà una necessaria abnegazione delle persone di fronte alle tante possibilità che loro si offrono, ma che più o meno direttamente contraddicono l'ideale di comunione. È un'abnegazione che attiene alla stessa essenza dell'amore, dal momento che lo stesso amore l'interpreta non come un abbandono radicale, quasi si trattasse di un annichilimento di sé, ma come un negare il proprio egoismo per guadagnarsi in una forma nuova. È facile comprendere certi atti di abnegazione che sono necessari per realizzare determinati obiettivi: l'abnegazione dello sportivo, o di uno studente, che devono rinunciare a tante cose per ottenere la vit­ toria o un lavoro, l'abnegazione di certi genitori nell'educazione dei loro figli, dando loro il tempo che non hanno e le risorse di cui si privano, ecc. Vi sono però abnegazioni che riguardano le dimensio­ ni personali il cui significato non ci appare immediato, solo gli inna­ morati possono comprendere quanto sia ora necessario sacrificare

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non soltanto dei gusti, ma anche opportunità di lavoro e persino in­ teressi personali perché la comunione possa vivere. Anche il cam­ mino degli sposi si configura come una sequela Christi, come già ab­ biamo visto, così che porta con sé la sua croce. Ma una croce che apre alla risurrezione. La fedeltà vive della memoria: la memoria continua della prima intuizione. Quando gli sposi attraversano momenti difficili nel loro rapporto, occorre che apprendano a parlare non solo delle loro dif­ ficoltà, delle loro contrapposizioni, delle loro ragioni, ma imparino a far insieme memoria dei grandi momenti vissuti insieme. Questa memoria della promessa dell'amore, la promessa che nella loro esperienza d'amore è stata fatta a loro da Dio, farà sì che la speran­ za possa tendere di nuovo il suo ormeggio e da lì spingere il loro amore a trovare percorsi originali di comunione benché il suo frut­ to non sia immediato. Il cristiano vive d'una memoria: la memoria della consegna del Signore. È il memoriale dell'eucaristia, in cui si rende attuale la con­ segna del Signore, dove possiamo ricordare ciò che è il vero amore, il luogo dove possiamo alimentare il nostro debole amore. È lì che gli sposi imparano a farsi dono del loro corpo, del loro amore, della loro vita. È lì che gli sposi imparano a interpretare le loro difficoltà e a trasformarle in una croce salvifica. Le difficoltà non sono allora un nemico dell'amore. I problemi non sono un segno del fatto che le cose vanno male: indicano un'oc­ casione di maturazione. Ancor più, nella loro radicalità ciò che rive­ lano è in qual modo nel cuore degli sposi sia presente lo Spirito San­ to, che dall'interno spinge perché si apra un varco l'autentico amore cristiano, perché gli sposi possano così partecipare con maggiore pie­ nezza dell'amore di Cristo. Il loro amore è infatti chiamato a cresce­ re e lo Spirito Santo è geloso di questo accrescimento: non permette la sua complicità con egoismi e miserie. E quando la speranza umana scompare? Quanto soffre la perso­ na in questo momento! Il dolore di vedere che l'anelata comunione non potrà qui realizzarsi perché forse l'altra persona si è chiusa ad ogni possibile comunione intraprendendo nuove strade che rendono veramente arduo ogni impegno di ricostruzione, com'è il caso del di­ vorzio o, ancor più, di un nuovo accordo civile. È allora che prende un senso di impotenza che paralizza ogni tentativo. Continua la fe­ deltà ad avere un senso? Sotto il profilo umano sembra che la rispo­ sta sensata sarebbe: «Rifatti una vita», cerca un'altra opportunità. E tuttavia la promessa intuita e offerta non era stata un accadimento

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semplicemente umano. In essa c'era una rivelazione di Dio e una promessa davanti a Dio. Come mantenere la presenza davanti a Dio se ora si nega? Rifarsi una vita, iniziando una nuova avventura d'a­ more, non è una soluzione, poiché non risolve il dramma che è in gio­ co. Solo la speranza nella potenza di Dio consente di capire il senso del mantenersi fedeli: la comunione dei santi, che adesso non è pos­ sibile, potrà un giorno realizzarsi. È questa la speranza che anima la fedeltà del coniuge che è stato abbandonato, speranza che richiede l'appoggio vivo e reale della comunità ecclesiale.

3. Il dono del perdono La ferita che l'offesa produce nella persona si mostra alla propria sensibilità, alla propria memoria come ciò che è più radicale, poiché ha lacerato qualcosa di essenziale, qualcosa che appartiene alla ric­ chezza dell'essere. Tuttavia ciò che è più radicale non è l'odio, ma l'a­ more. Certo l'offesa ci farà vedere che si tratta di un amore debole, che non è capace di riconoscere la persona e di saper adeguare le proprie reazioni alla sua dignità. Ma, scoprendoci la sua debolezza, ci scopre anche la sua esistenza. Quel che più conta è la comunione tra i due sposi, il desiderio profondo di viverla. A partire da questa radicalità della comunione è possibile com­ prendere il perdono. Non si tratta ora semplicemente di non attri­ buire importanza a un fatto accaduto e che ha offeso un coniuge, né semplicemente di dimenticare, come se nulla fosse successo.No, è ac­ caduto qualcosa che ha ferito la comunione tra i due sposi, che ha of­ feso uno di loro. E questo è un dramma. Anche se non si vuole ri­ cordare, rimane lì, minando la relazione tra i due, poiché lascia il co­ niuge nella sua realtà di offensore, senza interiormente ristabilirlo. Il vero perdono non vuole sorpassare questo fatto, perché altri­ menti sarebbe vanificare se stesso. La sua forza sta nel configurarsi co­ me un nuovo dono, cioè il dono del riconoscimento dell'amore che unisce gli sposi e il riconoscimento della dignità del coniuge malgrado l'offesa, che viene cancellata. Questa offesa non esiste più, non la si im­ puta al suo autore. E non imputandogliela, lo si rigenera come amico, come amante, come sposo, come compagno di una comunione.3 È co­ sì che è possibile ristabilire la comunione ferita, la confidenza tradita. 3 Cf. J. LAFFrITE, Il perdono trasfigurato, EDB, Bologna 2001.

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È questo infatti ciò che è proprio del perdono, non semplicemen­ te non addebitare l'azione, ma ristabilire la dignità che la persona ha perso con l'offendere.4 Ma com'è possibile ristabilire questa dignità? Principalmente trasformando il nemico in un amico, così come Cristo che «mentre noi eravamo ancora peccatori, è morto per noi» (Rm 5,8) e morendo per noi ci trasformò da nemici in amici: «Non vi chia­ mo più servi [...] ma vi ho chiamati amici» (Gv 15,15). Non si tratta semplicemente di una non-imputazione del male commesso, ma an­ cor più decisamente di una rigenerazione della persona. Ma potrà mai il debole amore umano affrontare un'impresa tan­ to ardua? Solo la radicalità dell'amore umano assunto nel dono del­ lo Spirito, diventato carità coniugale, consente questa realtà: perdo­ nare rigenerando la persona. Il perdono comporta infatti radical­ mente una reciproca ca-azione: cioè un domandare perdono e un of­ frirlo, un offrirlo e un accoglierlo. E in questa richiesta reciprocità si mostra la povertà dell'amore umano, dal momento che in se stesso non è capace di sbloccare la persona per raggiungere la reciprocità. Tuttavia, quando il perdono nasce dalla carità coniugale, in esso si trasmette un dono divino e questo dono divino è capace di un'inso­ spettata fecondità. Di certo la sorpresa di fronte all'offesa del coniuge destabilizza in maniera notevole, poiché pone in dubbio la possibilità dell'ideale di vita. Di solito non ce la si aspetta e, pertanto, nemmeno ci si aspet­ ta il perdono. Esso occupa tuttavia un posto decisivo nel cammino degli sposi. Qual è il suo posto? L'amore, offerto come perdono e ac­ colto, permette di maturare l'amicizia coniugale che si è persa. Com­ prendiamo così che è un atto di mutua unione, davvero eccellente, perché riflette un'incomparabile gratuità, avendo cioè l'iniziativa dell'amore. Quando i coniugi pensavano che ormai tutto fosse per­ duto, che non esistesse alcuna via d'uscita, che non ci fosse più un fu­ turo... il perdono apre una porta che ci discopre un panorama asso­ lutamente nuovo nella comunione coniugale, una donazione e un'ac­ coglienza molto più profonda, generando un'amicizia molto più inti­ ma, molto più matura. È allora che la mutua presenza riempie di una gioia inaspettata. Il perdono parte allora dallo stesso amore coniugale trasformato dallo Spirito, partecipando dell'amore di Cristo che perdona: l'amo­ re coniugale si trasforma allora in amore di misericordia: misericor4

Dives in misericordia 5-6.

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dia per il coniuge che nella sua debolezza reclama un amore nuovo per poter raggiungere la pienezza promessa. Se gli sposi si perdona­ no, è perché il giorno delle loro nozze hanno accettato il coniuge com'è, anche nella sua debolezza, anche nella sua capacità d'offen­ dere: l'amore coniugale è anche un amore di misericordia. Il reali­ smo della vita, con tutta la drammaticità che comporta, viene assun­ to nel dinamismo dell'amore anche in quanto è capace di generare una consegna nuova di sé, raggiungendo una nuova pienezza, come esprime la stessa etimologia della parola perdono, composta dal pre­ fisso perfettivo per: il per-dono vuole indicare il dono per-fetto. «La vita coniugale passa anche attraverso l'esperienza del perdo­ no, poiché cosa sarebbe un amore che non giunge fino al perdono? Questa, che è la più alta forma di unione, impegna tutto l'essere che, per volontà e per amore, accetta di non fermarsi all'offesa e di cre­ dere che un futuro è sempre possibile. Il perdono è una forma emi­ nente di dono, che afferma la dignità dell'altro riconoscendolo per ciò che è, al di là di ciò che fa. Chi perdona permette anche a chi è perdonato di scoprire la grandezza infinita del perdono di Dio. Il perdono fa ritrovare la fiducia in se stessi e ripristina la comunione fra le persone, dato che non può esserci vita coniugale e familiare di qualità senza una conversione costante e senza la volontà di spo­ gliarsi dei propri egoismi. Contemplando Cristo sulla croce che per­ dona, il cristiano trova la forza del perdono». 5 Se c'è qualcosa che rende evidente che non possiamo fare senza la grazia di Dio, è di offrire il perdono. È davanti all'esperienza del perdono offerto da Dio che impariamo a perdonare, a rigenerare la persona, a ristabilire l'alleanza con lei.

5 Cf. GIOVANNI PAOLO Il, discorso «Il valore della famiglia nella società attuale», del 20-IX-1996, in Insegnamenti di Giovanni Paolo Il, XIX,2, Libreria Editrice Vati­ cana, Città del Vaticano 1998, 409-410.

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Capitolo ventiduesimo

La verginità: accoglienza e dono di sé

L'uomo è stato creato da Dio per amore, poiché proviene da una comunione d'amore, la comunione trinitaria. E creato per amore, è stato chiamato all'amore. Solo nell'amore la persona trova la propria pienezza: «L'uomo, il quale in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stessa, non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un do­ no sincero di sé» (GS 24).

Questa vocazione all'amore è rimasta impressa nella sua stessa struttura corporea che, implicata nella relazione uomo-donna, viene a fare parte dell'immagine di Dio. Il modo con cui nella Chiesa si vive questa vocazione all'amore assume tuttavia due fisionomie specifiche di realizzazione integrale, distinte, ma tra loro in stretta relazione: il matrimonio e la verginità (FC 11). In che modo è possibile vivere nella verginità la vocazione all'a­ more nella corporeità? Non indicherebbe piuttosto una negazione dello stesso significato sponsale del corpo, un ritorno alla solitudine originaria? L'attuale difficoltà nel comprendere la verginità nasconde al fon­ do la difficoltà a capire lo stesso significato sponsale del corpo e il suo riferimento a Dio. Vediamo in qual modo la verginità comporta una pienezza del significato sponsale del corpo. 1 1 Cf. G1ovANN1 PAOLO II, Uomo e donna lo creò, Quarto Ciclo.

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1. Significato sponsale del corpo e verginità consacrata Il corpo umano racchiude dentro di sé un mistero. La sessualità reclama una complementarità come dato ontologico: l'uomo non esi­ ste nella solitudine, ma nella relazione: uno insieme all'altro. Nello stesso tempo, però, questo dato ontologico che rende possibile un'u­ nione affettiva tra l'uomo e la donna chiama a una donazione singo­ lare delle persone: giungere a esistere uno per l'altro. Abbiamo po­ tuto vedere che il significato della sessualità si fondava sul rendere possibile un'iniziale vulnerabilità e così una reciproca donazione, che per essere libera e razionale comporta anche l'accoglienza del dise­ gno di Dio e la partecipazione all'amore sponsale di Cristo. Sta qui il suo significato ultimo: nell'unione che il corpo rende possibile c'è un'unione con Dio, un'alleanza con lui. La carne media una singola­ re donazione dello Spirito. Se dunque il corpo ci apre alla realtà e ci apre anche Dio che ha voluto vivere corporalmente. Il Figlio di Dio nella sua incarnazione assume tutto l'umano, facendosi uno di noi, anche nell'esistenza cor­ porea. «È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Col 2,9). È ora possibile un incontro singolare con il Figlio di Dio nella corporeità. Corporeità che è apertura, vulnerabilità, re­ lazione. Grazie al corpo che ha ricevuto nel seno di Maria Vergine, il Fi­ glio di Dio può ora incontrarsi con gli uomini, parlare con loro, chia­ marli. «Seguimi» (Mt 9,9; Gv 1,43), dice agli apostoli. «Seguimi» (Mt 19,21), dice al giovane ricco. Si tratta di una chiamata singolare, che risveglia in loro una promessa di pienezza che ancora non sanno in­ terpretare né comprendere nel suo significato ultimo. L'attrazione che la persona di Gesù esercita su di loro li porta a lasciare i loro ge­ nitori per venire a far parte dei suoi discepoli di Gesù. Vivendo con lui e vivendo come lui viveva, celibe, senza sposar­ si, poterono comprendere una sua parola, con la quale Gesù apriva un nuovo cammino nella comprensione della sessualità umana: «Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso. Vi sono infatti eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono al­ tri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, ca­ pisca» (Mt 19,11-12). C'è un modo di vivere la sessualità che non è nel matrimonio e ciò non per circostanze esterne, ma per libera scel-

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ta. Questo modo non è una disgrazia, anzi Cristo stesso l'ha assunto in una singolare pienezza di vita. Ed è una pienezza di vita perché in essa si anticipa quel che sarà l'escatologia ultima, «alla risurrezione infatti non si prende né mo­ glie né marito, ma si è come angeli nel cielo» (Mt 22,30) , quando «Dio sia tutto in tutti» (lCor 15,28). Davanti all'immensa pienezza del dono di Dio nel cielo, è comprensibile che la mediazione umana della sessualità non sia ormai più necessaria. Questa pienezza si an­ ticipa però nella verginità. Com'è possibile? Grazie alla corporeità è possibile una vulnerabilità alla realtà, alle relazioni personali. Ed è così possibile un'unione affettiva con Cristo nel dono dello Spirito che egli fa alla persona, mediante la quale viene ad abitare al suo interno, risvegliando in lei una promessa di comunio­ ne unica, capace di portare ultimamente a pienezza la sua vita in una sequela personale-corporale del Maestro nella Chiesa. 2 Si tratta di vi­ vere una comunione con lui che è frutto di una sua chiamata e di un'ac­ coglienza del discepolo che si traduce in un dono singolare di sé e che costituisce un cuore indiviso centrato in Dio solo. Si rinuncia libera­ mente alla donazione a una persona umana per donarsi totalmente a Cristo. Questa chiamata e questa donazione generano una mutua ap­ partenenza per cui si istaura una singolare mutua concordia, il disce­ polo comincia a identificarsi con la sapienza del Maestro, a volere ciò che egli vuole, a sentire come egli sente, ad agire come egli agisce, riem­ piendo il cuore umano in una forma tale che la sessualità viene riordi­ nata, ed è per questo che tale comunione implica una rinuncia. Il Signore chiama a seguirlo, per partecipare della sua famiglia, rinunciando a formare una famiglia propria. Questo seguirlo però, dal momento che comporta un cominciare a vivere per il Signore, preoccupandosi delle cose del Signore, acquista una dimensione sponsale, appoggiandosi sulla struttura stessa del soggetto personale corporeo nella sua dimensione relazionale anche se,3 è chiaro, senza attuarla sessualmente. «Io vorrei vedervi senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoc­ cupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa pia-

2 Cf. L.M. MENDIZABAL, «La Consagraci6n Religiosa y el sentido de los Con­ sejos», in Manresa 37(1965), 225-248. 3 Cf. GIOVANNI PAOLO II, Uomo e donna lo creò, LXXX.6.

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cere alla moglie, e si trova diviso! Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle co­ se del mondo, come possa piacere al marito» (lCor 7,32-34).

Con questo il significato del corpo non viene negato, poiché la chiamata del Signore comporta un vivere per un Altro, in cui rag­ giunge la pienezza ultima. «Chi può capire, capisca». Chi può capirlo? Senza dubbio quelle persone che hanno questa presenza del Signore dentro di sé che le muove a un'unione reale singolare con lui. Possiamo comprendere come la chiamata che il Signore fa non sia semplicemente una chia­ mata dall'esterno, ma sia principalmente una chiamata dall'interno della persona in cui egli stesso abita. «Come l'amato è presente nel­ l'amante», così anche Cristo si rende presente nel cuore dell'uomo, aprendogli un cammino nuovo e inducendolo a seguirlo. Tutta la sua struttura di affetti e di desideri si trova ora polarizzata, indirizzata verso il Signore. La sua risposta sarà sempre un consenso a questa presenza. Per questo egli può capire cosa avviene nella sua vocazio­ ne, anche se altre persone, giudicando dall'esterno, potrebbero pen­ sare che stia rovinandosi la vita. 4 Cristo chiama i discepoli «affinché stessero con lui e anche per mandarli a predicare» (cf. Mc 3,13). Stare con il Maestro, preoccu­ pati dell'unica cosa necessaria, come Maria a Betania ai piedi di Ge­ sù (Le 10,40), attenti all'unico Sposo (2Cor 11,2). Questa è l'intui­ zione paolina: «Questo poi lo dico per il vostro bene, non per gettarvi un laccio, ma per indirizzarvi a ciò che è più nobile e la bontà di essere seduti in­ sieme al Signore (eumxpe6pov), senza dispersione» (lCor 7,35).

La meravigliosa possibilità che ebbero gli apostoli di condivide­ re la vita di Gesù, seguendo corporalmente il Maestro, parve crolla­ re con la tragedia della Passione. Ciò che la risurrezione del Signore mostrò loro è che la vita con Gesù continua nella sua Chiesa, suo 4 Mi ispiro per questa interpretazione a STh, 1-11, q.108, a. 4, ad 1: «praedicta con­ silia, quantum est de se sunt omnibus expedientia, sed ex indispositione aliquorum contingit quod alicui expedientia non sunt, quia eorum affectus ad haec non inclina­ tur. Et ideo Dominus, consilia evangelica proponens, semper facit mentionem de ido­ neitate hominum ad observantiam consiliorum».

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corpo. E dal momento che egli è veramente presente tra noi, è pos­ sibile seguirlo corporalmente, seguendo la chiamata verbale che la sua stessa Chiesa ci fa. Non è pertanto semplicemente la consacra­ zione a un ideale di vita, a una causa, quanto piuttosto alla sequela corporea di Cristo, vivo e presente nella sua Chiesa. Se il dono dello Spirito comportava il dono di una prima integra­ zione del soggetto, convertendosi la carità nella madre e nella forma della virtù della castità, il nuovo dono dello Spirito che riceve la per­ sona che è chiamata a seguire Gesù comporta una nuova integrazio­ ne dei dinamismi dell'amore, conformandoli a Cristo, che ha vissuto la verginità. Questa conformazione va indirizzata affinché la persona possa amare con l'intero proprio essere e consegnarsi con l'intero proprio essere alla persona e all'opera di Cristo, vivendo con lui e co­ me lui. La carità acquista così la forma di una carità verginale. La configurazione simbolica della sessualità assunta nella perso­ na vergine connota non più la possibilità di una comunione esclusi­ va uomo e donna e la formazione di una famiglia, ma la comunione intima con Cristo e l'apertura in lui all'universalità dell'amore per formare la Chiesa, famiglia di Dio. Si tratta di un singolare dono di sé che genera una comunione nuova. Nella sua singolarità questo do­ no include una rinuncia propria: la rinuncia all'amore coniugale. In questa carità la persona vergine amerà ogni uomo e ogni donna con l'amore di Cristo.

2. Verginità e missione Seguire corporalmente Gesù: ecco la chiave interpretativa del si­ gnificato della verginità. Ma Cristo camminava, qui e là, sempre alla ricerca dell'uomo. Seguire corporalmente Cristo che cammina nella sua Chiesa comporta, dunque, la disponibilità alla missione della Chiesa. In forza dell'amore che questa sequela corporea e questa dispo­ nibilità comporta, la Chiesa latina ha voluto chiamare al sacerdozio quelli che avessero il carisma della verginità. Da dove nasce questa disponibilità? Nasce dalla configurazione che lo Spirito Santo realizza nel cuore delle persone, unendole af­ fettivamente a coloro che hanno il carisma del governo. Non si trat­ ta ora di un'unione necessariamente sentita, affettuosa. Sappiamo già bene che il termine «affettivo» non è necessariamente equiva­ lente a «sentimentale». Fa riferimento a quanto nell'uomo è suscet-

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tibile di ricevere l'impatto di un bene, l'impatto di una persona. L'u­ nione affettiva tra la persona vergine e chi detiene l'autorità si basa precisamente sulla presenza dello Spirito che illumina gli uni con il carisma del governo e gli altri con il dono della disponibilità e della concordia, nell'essenzialità di ciò che si deve cercare e nel modo con cui cercarlo. La disponibilità si basa, allora, sulla carità. 5 È essa a rendere pos­ sibile una singolare obbedienza, come ascolto del modo con cui Dio vuole che si viva il servizio alla Chiesa, partecipando dell'obbedien­ za di Gesù, che non è venuto a fare la sua volontà, ma la volontà del Padre suo che è nei cieli. E una concordia che è vissuta nel seno del­ la comunità ecclesiale, riguardando tutti quelli che sono chiamati a vivere nello stesso carisma. Concordia che è un dono dello Spirito e che richiede anche la collaborazione propria del fedele.

3. Matrimonio e verginità Matrimonio e verginità costituiscono le due forme principali nel­ le quali è vissuta nella Chiesa la vocazione all'amore. 6 Entrambe si configurano come una partecipazione dell'amore sponsale di Cristo per la Chiesa. Ambedue comportano il dono sponsale di se stessi per amore di un'altra persona. Tutte e due si completano mutuamente per poter esprimere la ricchezza dell'amore di Cristo e per poter es­ sere vissute nella propria originalità. 7 La verginità arricchisce così in modo singolare il matrimonio per un duplice motivo. Perché si converte in testimonianza della voca­ zione ultima alla comunione con Dio. Il dinamismo che apre la dif­ ferenza sessuale all'amore attraverso il dono di sé e la fecondità che costituisce una famiglia, trovava nella comunione con Dio il suo si­ gnificato ultimo. Ed è questa che ricorda la presenza della verginità nella Chiesa. Il significato dell'amore sponsale sta ultimamente nel­ la comunione con Dio: c'è un disegno di Dio sull'amore umano. Gli

5 Cf. STh II-II, q. 104, a. 3, se. Si veda a riguardo J.M. HoRCAJO, «Obedientia ex caritate procedit», in L. MELINA-I NoRIEGA, Camminare nella luce. Prospettive della teologia morale a dieci anni da Veritatis splendo,, LUP, Roma 2004. 6 Per una visione di insieme della questione si veda: L. V1ves, «La renovaci6n teol6gica y su incidencia sobre la relaci6n Matrimonio-Virginidad», in Anthropotes 19(2003), 327-359. 7 Cf. Familiaris consortio 16.

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sposi non si sposano semplicemente per vivere un affetto, ma perché Dio li sta chiamando alla comunione con lui, a partecipare assieme al banchetto del Regno. E a lui devono indirizzare il loro matrimo­ nio e la loro famiglia. E, in secondo luogo, la testimonianza della ver­ ginità si rende eloquente verso i matrimoni e ogni persona in un fat­ to di notevole importanza: la sessualità nell'uomo non è istinto, ma implica un impulso che si può vivere senza cadere nella schiavitù del­ la sua imperiosità, è possibile integrarlo. In un mondo pansessuale, in cui la sessualità e il piacere da consumare che offre sono stati tra­ sformati nella chiave interpretativa della felicità, le persone vergini manifestano la falsità di tale pretesa. No, la sessualità ha un senso e può essere integrata in un amore. Ed è possibile integrarla poiché c'è il dono dello Spirito che, redimendo il corpo, suscita la stessa colla­ borazione umana. A sua volta il matrimonio arricchisce in modo singolare la vergi­ nità, poiché evita che questa perda il significato immediatamente sponsale dell'amore. Non si tratta della consegna a una causa, ma a una persona. Nel modo in cui lo sposo si consegna alla sua sposa e assume il suo destino, accompagnandola nel suo cammino e pren­ dendosi cura di lei, e viceversa, allo stesso modo la persona vergine deve accogliere l'amore di Cristo e consegnarsi a lui, imparando a prendersi cura del Signore e delle sue cose come gli sposi fanno tra loro. Nel vivere per il Signore apprenderà dal modo in cui un coniu­ ge vive per l'altro. La fedeltà d'ogni persona alla propria vocazione, il conservare la tensione dell'intenzione verso la persona amata, si trasforma in un'e­ loquente testimonianza della grandezza del progetto di Dio cui en­ trambe le vocazioni si riferiscono. In questa fedeltà entrambe si te­ stimoniano mutuamente la fedeltà a Dio stesso, al suo amore per l'uomo.

4. Conclusione Il dono sponsale dei coniugi, la loro unione coniugale, consuma il loro amore, lo conduce alla sua pienezza, consentendo di realizzare il suo pieno significato. Perché è così? Poiché l'unione coniugale non comporta semplicemente l'unione dei corpi, ma una scelta di donarsi in totalità nella mutua consegna sessuale. La carne si rende ora trasparenza della persona, della sua volontà, della sua intenzionalità. La persona si rende presente all'al-

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tra nella propria sessualità, le offre così una compagnia nella vita, una presenza al suo interno, una stima nel mutuo amore. Le persone si incontrano reciprocamente in una singolare immediatezza che riempie di gioia. Poiché unendo le persone, le rende feconde. È la meravigliosa possibilità che si apre di generare un figlio con cui condividere l'a­ more, collaborando così con l'amore creatore di Dio. L'amore si co­ munica e, comunicandosi, si dilata, si allarga, fino a raggiungere una maturità singolare, la sua pienezza ultima. Poiché unendo gli sposi permette loro di partecipare della con­ segna di Cristo per la sua Chiesa, della pienezza d'amore che il Si­ gnore ha vissuto nel suo cuore umano. La carità coniugale degli spo­ si fa sì che essi possano ordinare a Dio l'intera loro vita, tutti i loro dinamismi, tutti i loro amori. E, ordinandoli a Dio, trasmettere i do­ ni che da Dio ricevono. Gli sposi non solo si trasmettono una com­ pagnia, una presenza, una stima. I coniugi cristiani si trasmettono il dono dello Spirito, raggiungendo la loro amicizia con Dio, la pienez­ za ultima che è possibile su questa terra, nell'attesa del dono ultimo e definitivo di Dio, quando nella risurrezione dei corpi sarà possibi­ le l'immediatezza tra il dono di Dio e la risposta umana. Proprio per questo aspetto il matrimonio acquista una dimensio­ ne relativa a questa vita terrena. Rende possibile una formidabile co­ munione. Ma non è tutto. Non riempie tutto. Fa riferimento a una pienezza che esso stesso non è. Di questa pienezza è singolare attua­ lizzazione il dono sponsale di coloro che sono chiamati a seguire Cri­ sto corporalmente nella Chiesa. Le persone vergini sono testimo­ nianza del dono ultimo che i coniugi attendono.

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Epilogo

Due erano le questioni di fondo che all'inizio ci avevano preoc­ cupato: comprendere quale fosse il significato della sessualità e sa­ pere in quale modo si potesse vivere quello che essa comporta. E, a partire da questi interrogativi, abbiamo potuto affrontare il mo­ do in cui il dono dello Spirito entra nella vita sessuale. Vediamo questi punti. 1. Interrogarsi circa il significato della sessualità può apparire un controsenso: la sessualità sfugge infatti a una riflessione diretta che pretenda di abbracciarla e di contenerla. La stessa esperienza dell'a­ more sessuale ci mostra come i suoi protagonisti la vivano non a par­ tire dalle ragioni che trovano, ma dall'attrazione che sperimentano. Nella novità dell'esperienza dell'incontro tra l'uomo e la donna e dell'attrazione che esso comporta si scopre un mistero e in esso si in­ travede la sua verità. Ma qual è questa verità? L'esperienza dell'attrazione sessuale ci rivela, da un lato, l'aper­ tura ontologica dell'uomo: è vulnerabile alla persona di sesso diffe­ rente. Non è però soltanto vulnerabile, perché, nell'impatto con l'al­ tra persona, si risveglia la novità del desiderio che ci unisce alla realtà. Il desiderio sessuale, indicandoci la nostra realtà creaturale, passibile e bisognosa, ci vincola alla creazione, al flusso vitale dell'e­ sistenza, alla gioia di vivere: la vita non è una costruzione della no­ stra mente, non è un mero nostro progetto. Si tratta però di un desi­ derio singolare, poiché ciò che in primo luogo cerca, i valori sessuali e affettivi, non sono capaci di appagare la sete che suscita. Infatti, nel desiderio sessuale si trovava anche il desiderio di qualcosa di più

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grande, di una felicità, di una pienezza, di una vita riuscita, di una for­ ma di amare e di essere amati per se stessa degna. L'incontro tra l'uomo e la donna rivela una promessa di pienez­ za nella mutua comunione dei due. Se infatti il desiderio sessuale ci apre alla realtà, questa realtà è una realtà personale: il desiderio ses­ suale ci apre all'altro. È altro colui che con i propri valori sessuali e affettivi ci tocca, ci colpisce, ci cambia, ci arricchisce, ci trasforma, ci provoca. Nella reazione di fronte ai valori dell'altra persona, perce­ piamo che un altro ci chiama a uscire da noi, che un altro ci invita a una comunione con lui. Nell'affetto si danno pertanto appuntamen­ to due libertà che si trovano unite sulla scena di un dramma. E nel­ l'affetto la stessa persona sente di essere chiamata ad agire, a vinco­ larsi. La sessualità permette allora di stabilire un ideale di vita buona, di vita felice, nella mutua comunione reciproca, e in essa di entrare in alleanza con il Dio che ci ha creati così, nell'unità di corpo ed ani­ ma. Allora, come interpretare l'esperienza amorosa? Principalmente a partire dalla pienezza e ricchezza di attuazione amorosa che com­ porta. Da questa pienezza promessa potrà configurarsi l'universo simbolico della differenza sessuale. Pienezza e libertà, ecco le due chiavi d'interpretazione dell'affetto. In una parola: il significato della sessualità consiste nel suo valo­ re sponsale, cioè nell'autodonazione personale totale e reciproca di due persone differenti senza riserve e per sempre, in modo tale che possano coesistere, sussistere nella mutua comunione e comunicare il loro amore. La risposta al perché Dio ci abbia creato maschio e femmina ap­ pare allora chiara: nella sessualità si nasconde una vocazione a vive­ re nella comunione reciproca, comunicando ad altri il proprio amo­ re. Nessuna persona umana è stata creata per la solitudine, ma per la comunione, poiché abbiamo la nostra origine in una comunione. 2. Domandarsi come riuscire a vivere questa comunione potreb­ be sembrare assurdo, poiché l'amore sessuale sfugge al controllo di­ retto della volontà. Non supporrebbe il pretendere di afferrare qual­ cosa che non è afferrabile, di governare qualcosa di imprevedibile? Ma c'è di più ancora, poiché le nostre azioni sono sempre particola­ ri, contingenti, variabili, fragili, tentativi incompleti e frammentari. Come vivere in essi qualcosa che li trascende? La sola enunciazione della questione pone tuttavia in evidenza un fatto fondamentale: amare non è solo sentire. Se l'affetto è im-

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portante, ancor più, decisivo, poiché ci permette di essere arricchiti da altri, tuttavia non si esaurisce nell'esperienza che rende possibile: l'amore ci induce ad amare, a costruire una vita, a costruire una co­ munione con azioni eccellenti. Esso è il motore di una vita, di un cammino verso una pienezza. È allora però che nasce in forma imponente la difficoltà: tra la pienezza cui l'amore tende e la situazione in cui ora si trova la per­ sona c'è una non trascurabile differenza. Questa distanza tra ciò che uno-vuole-diventare-nella-comunione-con-l'altro e ciò-che-attual­ mente-è ci rivela uno iato, uno spazio, che può presentarsi alla per­ sona come insuperabile, distruggendo la speranza e frammentando la sua condotta. Solo un'abilitazione della persona che le consenta di integrare i diversi dinamismi dell'amore nella ricerca del bene della comunione può permettere al soggetto di costruire azioni eccellenti in cui vive­ re la comunione con l'altro, in cui trovare l'altro, in cui farsi presen­ te nella sua vita e nel suo cammino. Ecco la sfida che si presenta: costruire una comunione, il che non è affatto semplice. Non è semplice perché si costruisce non con ma­ teriali estrinseci ed eterogenei da potersi usare a volontà, ma a par­ tire da un'interiore unità del soggetto. La nostra libertà si radica nel desiderio e nella motivazione che questo apporta. E se i nostri desi­ deri non sono integrati e rivolti verso la pienezza ultima secondo un ordine nelle loro finalità, allora si confonderanno e il soggetto finirà per perdere l'orizzonte di riferimento. L'originaria ampiezza del de­ siderio rimarrà preda dei valori sessuali e affettivi che incontra lun­ go il cammino. Tuttavia, se il desiderio si troverà integrato, offrirà un principio di unità alla condotta e un criterio di verità all'agire. Appare così in tutta la sua radicalità l'importanza del desiderio e della sua integrazione. Non si tratta di ignorarlo, né di reprimerlo, né di castigarlo, né di contenerlo, ma piuttosto di integrarlo, di ordinar­ lo, di plasmarlo secondo l'ideale di vita in comunione. Ci troviamo qui davanti a un cammino di maturazione e di personalizzazione che, per non essere stato affrontato con chiarezza nella riflessione e nel lavoro educativo, ha fatto nascere tutta una serie di pseudo-problemi riferiti al perché la Chiesa rifiuti determinate manifestazioni dell'a­ more, come se fosse loro contraria. Il problema è un altro. E riguar­ da il desiderio che dà origine alle nostre azioni. Perché desideriamo? Cosa in verità io desidero, al di là delle giustificazioni che adduco? Il desiderio integrato ha ricevuto il nome di virtù della castità. Virtù, perché è un'energia, ma anche una luce per il cammino. Virtù,

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perché comporta un'eccellenza, una qualificazione della persona che la rende capace di trovare canali di autentica comunicazione. Ca­ stità, perché, integrando il desiderio sessuale e affettivo nell'amore alla persona, rende capaci i due di creare azioni eccellenti con cui te­ stimoniarsi reciprocamente la propria stima e la propria compagnia, nel reciproco dono di se stessi. La possibilità di integrazione del desiderio si coglie non sempli­ cemente quando si verifica l'intenzionalità ch'esso comporta, ma quando si coglie ciò che sta alla sua origine: un amore, l'arricchi­ mento della presenza di un'altra persona che dall'interno ordina i nostri amori. La virtù della castità può essere capita solo a partire da un amore ricevuto e da una comunione cercata. 3. Dunque, se il desiderio sessuale ci porta a una pienezza ed es­ so stesso parte da una singolare presenza di un altro dentro di noi, possiamo ora comprendere il valore che la presenza dello Spirito Santo riveste per l'intera vita sessuale. Poiché si tratta di una singo­ lare presenza che ci arricchisce in una maniera totalmente originale e ci dirige a una comunione ultima con Dio. Questo precisamente per la ricchezza che offre già nell'unione affettiva porta con sé un principio di integrazione di tutto il dinamismo intenzionale dell'a­ more, che lo preserva dal polarizzarsi sul bene particolare e lo apre alla pienezza ultima. La carità va ora a integrare gli amanti rendendoli capaci non so­ lo di indirizzarsi verso Dio nel loro amore ma, soprattutto, di comu­ nicarsi i doni che Dio dà loro, potendo così maturare la loro amicizia con Dio. Il coniuge cristiano potrà nella sessualità trasmettere al pro­ prio amato non solo una compagnia reciproca, una presenza mutua, ma anche il dono dello Spirito. Ecco il mistero ultimo della sessualità: essa ci apre alla realtà, al­ la realtà dell'altro nella sua differenza ma, ancora di più, ci apre al1'Altro in ultima istanza. Nella sessualità si nasconde un destino me­ raviglioso, una vocazione alla comunione con Dio che va attualiz­ zandosi poco a poco nel mutuo interagire degli sposi. Una vocazione la cui logica è la logica del dono di sé. Perché questo saranno le azio­ ni degli sposi: un reciproco dono di se stessi con cui unirsi tra sé e con Dio. Ecco la ragione ultima della sua eccellenza. Lo Spirito Santo diventa ora, anch'egli, protagonista della co­ struzione di una comunione. Non è estraneo ad alcuna cosa umana. Nemmeno alla sessualità né all'amore coniugale. Nel principio il Pa­ dre ha plasmato il fango con le sue mani, imprimendo nell'immagine appena realizzata i tratti di suo Figlio. Da questo istante iniziale, dal

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principio, in ogni desiderio dell'uomo si nasconde l'anelito alla co­ munione con il Padre nello Spirito che Cristo vive come uomo. E co­ sì, nell'incontro con Cristo, che si è consegnato per la Chiesa sua spo­ sa, ogni uomo può riconoscere se stesso e il perché della propria ses­ sualità: viverla nel dono di sé per l'altro generando una famiglia. 4. Il destino dell'eros, di un amore radicato nella corporeità, li­ bero e arricchito dal dono dello Spirito, si prospetta allora nella co­ struzione di una comunione. Ecco i suoi elementi: sessualità, amore coniugale e dono dello Spirito. Essi sono il materiale, i fondamenti, la cui integrazione permette di realizzare ciò a cui maggiormente l'uomo anela: la costruzione di una comunione di persone, coesi­ stendo reciprocamente in Dio, nell'attesa del suo dono ultimo, quan­ do si darà totalmente nell'immediatezza della comunione trinitaria.

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Indice

Note introduttive ...................................................................... pag.

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Parte prima LA VOCAZIONE ALL'AMORE: SESSUALITÀ E FELICITÀ Introduzione ............................................................................

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Capitolo primo L'interpretazione del significato delle esperienze

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1. L'esperienza umana dell'amore ...................................... 2. La difficoltà di interpretazione dell'esperienza dell'amore .............................................. 3. Il cammino da seguire ......................................................

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Capitolo secondo Fenomenologia dell'esperienza amorosa

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1. La distinzione degli stati affettivi: sentimenti «causati» e sentimenti «motivati» .............. 2. Dimensioni dell'esperienza dell'amore .......................... 3. Conclusione ........................................................................

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Capitolo terzo Identità della persona ed esperienza dell'amore: l'unità duale .............................................................................. 1. Corporeità, solitudine e soggettività: «non incontrò un aiuto adeguato» .................................. 2. Incontro e identità: «carne della mia carne e osso delle mie ossa» Capitolo quarto La rivelazione del destino della vita: la vocazione all'amore ............................................................

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1. La promessa dell'esperienza amorosa: «saranno una sola carne» ................................................ 2. Comunicare l'amore: formare una famiglia. «Crescete e moltiplicatevi» .............................................. 3. La comunione uomo-donna e l'alleanza con il Creatore

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Capitolo quinto Piacere, sessualità e felicità ....................................................

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1. 2. 3. 4. 5. 6.

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77 82 84 85 87 90

Introduzione..............................................................................

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Capitolo sesto Amore come passione

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1. Alcuni chiarimenti

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La polarità del desiderio: piacere e felicità .................... Un esperimento nei nostri desideri ................................ Sessualità e determinazione della felicità ...................... Significato figurativo della sessualità e del piacere ...... Esperienze vuote: il problema dell'autoerotismo ........ Conclusione ........................................................................ P arte seconda IL LINGUAGGIO DELL'AMORE: PASSIONE E DONO

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2. La passione dell'amore .................................................... 3. Annotazioni ......................................................................

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102 109

Capitolo settimo Amare come scelta ..................................................................

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1. 2. 3. 4.

Amare come atto della volontà ...................................... Il fine dell'atto d'amore: la persona ................................ La mediazione dei beni .................................................... Ricapitolazione sulla teoria dell'amore ..........................

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Capitolo ottavo La costruzione dell'azione d'amore ......................................

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118 119 119 121 122

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1. 2. 3. 4. 5.

La struttura di base dell'azione: intenzione e scelta .... Bene ontologico e bene pratico: loro integrazione ...... L'oggetto morale delle azioni e la sua definizione ...... L'unità intenzionale dell'azione ...................................... La bontà morale ................................................................

Capitolo nono Amicizia e reciprocità 1. L'amicizia tra l'uomo e la donna .................................... 2. La finzione dell'intimità: l'omosessualità ...................... 3. Conclusione ........................................................................

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Parte terza UN AMORE ECCELLENTE: CASTITÀ E CARITÀ Introduzione ............................................................................

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Capitolo decimo La difficoltà di amare ..............................................................

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1. La particolarità e contingenza delle azioni .................... 2. La fragilità dell'amore ...................................................... 3. La comunità d'azione ......................................................

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4. La concupiscenza ............................................................. . 5. L'idolatrizzazione dell'amore ......................................... . 6. Cammini di soluzione ......................................................

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Capitolo undicesimo Il pudore sessuale e il valore della persona

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1. 2. 3. 4. 5. 6.

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161 162 165 166 166 167

Capitolo dodicesimo Differenti integrazioni dell'affettività

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1. 2. 3. 4. 5.

Il continente ..................................................................... . Il virtuoso ......................................................................... . L'incontinente ................................................................... . L'intemperante .................................................................. Per comprendere meglio ................................................. .

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Capitolo tredicesimo La virtù della castità ................................................................

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Capitolo quattordicesimo Prudenza e castità: la luce dell'azione e la sua regola ..........................................

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1. La prudenza: un amore intelligente ................................ 2. La regola dell'azione casta ..............................................

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La custodia della propria soggettività ............................ Pudore e rivelazione del valore della persona .............. Pudore e amore ................................................................ Pudore e cultura ................................................................ Nobiltà e pudore ............................................................. . All'inizio della virtù: pudore e nobiltà ..........................

1. 2. 3. 4.

Natura dell'integrazione affettiva .................................. La virtù della castità come abito .................................... L'intenzionalità della virtù della castità ........................ La connessione con le altre virtù e il suo influsso nell'intenzionalità .................................. 5. Castità e stati di vita ........................................................

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Capitolo quindicesimo La carità forma e madre della castità: il dono della pietà ....

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1. La carità: un'amicizia con Dio ........................................ 2. La carità che conforma la castità .................................... 3. Purezza di cuore e dono della pietà ................................

» 198 » 201 » 203

Capitolo sedicesimo L'educazione del desiderio

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1. 2. 3. 4. 5.

207 207 » 213 » 215 » 216

Da dove parte la possibilità dell'educazione alla castità? Il lavoro educativo personale .......................................... Castità e vita sacramentale .............................................. Castità e legge civile ....................................................... . Conclusione ........................................................................

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Parte quarta LA CONSUMAZIONE DELL'AMORE: IL DONO SPONSALE Introduzione

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Capitolo diciassettesimo Amore e promessa: il compito del fidanzamento

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Capitolo diciottesimo L'origine del matrimonio: dono di sé e dono dello Spirito

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1. L'origine del matrimonio ................................................ 2. Il dono dello Spirito: la carità coniugale ........................

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Capitolo diciannovesimo La consumazione dell'amore: l'unione coniugale

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1. La singolarità dell'unione coniugale .............................. 2. Significato dell'unione coniugale ....................................

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252 253

1. Amore e temporalità ........................................................ 2. Il compito del fidanzamento ............................................ 3. Un amore che vuole provare: i rapporti prematrimoniali ..............................................

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3. L'intenzionalità dell'unione coniugale: il reciproco dono di sé ..................................................... . 4. Unione coniugale e dono dello Spirito .......................... 5. Quando l'amore si rende infecondo: il problema della contraccezione .................................... 6. Prudenza e castità: la continenza periodica .................. 7. Analisi intenzionale di situazioni diverse ...................... 8. Collocarsi in prospettiva pastorale ................................ 9. Sintesi ................................................................................. .

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Capitolo ventunesimo Fedeltà e dono del perdono

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1. La difficoltà del cammino della vita .............................. 2. La fedeltà dell'amore: fedeltà a una presenza .............. 3. Il dono del perdono ......................................................... .

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Capitolo ventiduesimo La verginità: accoglienza e dono di sé ..................................

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1. 2. 3. 4.

Significato sponsale del corpo e verginità consacrata .. Verginità e missione .......................................................... Matrimonio e verginità ...................................................... Conclusione ........................................................................

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Epilogo ..................................................................................... .

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Capitolo ventesimo Fecondità nell'infertilità 1. Il desiderio di avere un figlio .......................................... 2. La tentazione di produrre un figlio: la fecondazione artificiale ................................................ 3. Significato della paternità umana .................................. 4. La differenza tra l'unione coniugale e la fecondazione artificiale ............................................ 5. Fecondità nell'infertilità .................................................. 6. Conclusione ....................................................................... .

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ISBN 978-88-10-40491-1

1 111 1 1 1 11111 11 111111 11 111

9 788810 404911 >