Il destino della Bellezza. La Bellezza nella prospettiva delle scienze umanistiche 9788874702664

Il 17 e il 19 aprile 2012 il tema della Bellezza ha convocato presso la prima università ortodossa di Mosca studiosi rus

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Il destino della Bellezza. La Bellezza nella prospettiva delle scienze umanistiche
 9788874702664

Table of contents :
Saluto del rettore dell’Università San Tichon 9
Arciprete Vladimir Vorob’ev
Prolusione. La teologia della bellezza 10
Metropolita Ilarion di Volokolamsk
Messaggi augurali 17
Mons. Paolo Pezzi, Ambasciatore Antonio Zanardi Landi,
Ministro Lorenzo Ornaghi, Prof. Franco Anelli
Il destino della Bellezza
Stefano Alberto
La bellezza come superamento del dualismo moderno 25
Aleksandr Saltykov
Il concetto di bellezza nella cosmologia biblica 39
Tat’jana Kasatkina
Il mondo lo salverà la bellezza 51
Marco Rossi
La bellezza dell’Incarnazione nella pittura medievale in Italia
fra tradizione orientale e occidentale 63
Alessandro Rovetta
Il divenire della forma come esperienza della bellezza
nell’opera di Michelangelo 77
Natal’ja Vaganova
“Il cadavere della bellezza” cento anni dopo 91
Konstantin Rubinskij
La poesia creata dai bambini: ricerca dell’immagine del bello 101
Ignacio Carbajosa
«Ho cercato di prendermela come sposa,
mi sono innamorato della sua bellezza» (Sap 8, 2).
La bellezza della sapienza nella Bibbia 111
Anton Nebol’sin
La bellezza nell’Apocalisse e dell’Apocalisse 123
Adriano Dell’Asta
Si può ancora parlare di arte e di bellezza
dopo Auschwitz e la Kolyma? 133
Francesco Braschi
Il bello come categoria teologica e morale
in alcuni scritti di sant’Ambrogio di Milano 143
Georgij Zacharov
La figura della Luce Trinitaria nell’opera
di san Gregorio Nazianzeno: aspetti teologici ed estetici 157
Costantino Esposito
Che cosa ci fa conoscere la bellezza 165
Aleksandr Filonenko
La bellezza e il ritorno della realtà:
nuove possibilità di una teoestetica 181
Konstantin Sigov
Nuove forme di bellezza nell’opera di Valentin Sil’vestrov 193
Stefan Vanejan
Spazio e liturgia. Aspetti dell’ambiente sacro 201
Ol’ga Januskjavicˇene
Possibilità di sostegno pedagogico per far emergere la bellezza
dell’immagine di Dio nell’uomo 211
Svetlana Divnogorceva
La cultura pedagogica della famiglia ortodossa in Russia
nel contesto degli ideali della bellezza 219
Uberto Motta
Tra esperienza e desiderio. Il tema della bellezza
nella Commedia di Dante 229
Elizaveta Materova
Alla ricerca della perfezione:
la poesia del Rinascimento carolingio 249
Timofej Voronin
La concezione del bello
nel mondo artistico di Žukovskij e di Puškin 261
Maria Cristina Gatti
La bellezza sub specie linguistica 269
Irina Celyševa
Gli aggettivi di valutazione estetica
dal latino alle lingue romanze 279

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due punti

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27

© , Pagina soc. coop., Bari Per la traduzione in italiano dei testi dei relatori russi si ringraziano Mara Dell’Asta e Giovanna Parravicini

La presente edizione italiana degli atti della Conferenza è stata resa possibile grazie al contributo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

Comitato scientifico della Conferenza: Metropolita Ilarion di Volokolamsk, presidente; Arcivescovo Paolo Pezzi; Padre Vladimir Vorob’ev; Padre Aleksandr Saltykov; Padre Georgij Orechanov; Padre Kostantin Pol’skov; Prof.ssa Maria Desjatova; Prof. Adriano Dell’Asta; Prof. Stefano Alberto; Prof. Maria Cristina Gatti; Prof. Uberto Motta; Prof. Marco Rossi; Prof. Alessandro Rovetta; Prof. Juri Zudov; Prof.ssa Elena Mazzola; Prof.ssa Ekaterina Brovko; Dott.ssa Tiziana Gualtieri.

Per informazioni sulle opere pubblicate e in programma rivolgersi a: Edizioni di Pagina via dei Mille  -  Bari tel. e fax   http://www.paginasc.it e-mail: [email protected] facebook account http://www.facebook.com/edizionidipagina twitter account http://twitter.com/EdizioniPagina

Il destino della Bellezza La Bellezza nella prospettiva delle scienze umanistiche Conferenza Internazionale, Università San Tichon (Mosca, - aprile ) in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

a cura di Alessandro Rovetta e Marija Desjatova

edizioni di pagina

È vietata la riproduzione, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

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----

Indice

Saluto del rettore dell’Università San Tichon Arciprete Vladimir Vorob’ev



Prolusione. La teologia della bellezza Metropolita Ilarion di Volokolamsk



Messaggi augurali Mons. Paolo Pezzi, Ambasciatore Antonio Zanardi Landi, Ministro Lorenzo Ornaghi, Prof. Franco Anelli



Il destino della Bellezza Stefano Alberto La bellezza come superamento del dualismo moderno



Aleksandr Saltykov Il concetto di bellezza nella cosmologia biblica



Tat’jana Kasatkina Il mondo lo salverà la bellezza



Marco Rossi La bellezza dell’Incarnazione nella pittura medievale in Italia fra tradizione orientale e occidentale



Alessandro Rovetta Il divenire della forma come esperienza della bellezza nell’opera di Michelangelo



 Natal’ja Vaganova “Il cadavere della bellezza” cento anni dopo

Indice



Konstantin Rubinskij La poesia creata dai bambini: ricerca dell’immagine del bello



Ignacio Carbajosa «Ho cercato di prendermela come sposa, mi sono innamorato della sua bellezza» (Sap , ). La bellezza della sapienza nella Bibbia



Anton Nebol’sin La bellezza nell’Apocalisse e dell’Apocalisse



Adriano Dell’Asta Si può ancora parlare di arte e di bellezza dopo Auschwitz e la Kolyma?



Francesco Braschi Il bello come categoria teologica e morale in alcuni scritti di sant’Ambrogio di Milano



Georgij Zacharov La figura della Luce Trinitaria nell’opera di san Gregorio Nazianzeno: aspetti teologici ed estetici



Costantino Esposito Che cosa ci fa conoscere la bellezza



Aleksandr Filonenko La bellezza e il ritorno della realtà: nuove possibilità di una teoestetica



Konstantin Sigov Nuove forme di bellezza nell’opera di Valentin Sil’vestrov



Indice



Stefan Vanejan Spazio e liturgia. Aspetti dell’ambiente sacro



Ol’ga Januskjavicˇene Possibilità di sostegno pedagogico per far emergere la bellezza dell’immagine di Dio nell’uomo



Svetlana Divnogorceva La cultura pedagogica della famiglia ortodossa in Russia nel contesto degli ideali della bellezza



Uberto Motta Tra esperienza e desiderio. Il tema della bellezza nella Commedia di Dante



Elizaveta Materova Alla ricerca della perfezione: la poesia del Rinascimento carolingio



Timofej Voronin La concezione del bello nel mondo artistico di Žukovskij e di Puškin



Maria Cristina Gatti La bellezza sub specie linguistica



Irina Celyševa Gli aggettivi di valutazione estetica dal latino alle lingue romanze



Saluto del Rettore dell’Università San Tichon

Cara Eminenza, caro Ambasciatore Antonio Zanardi Landi, cari ospiti italiani e ospiti tutti, Permettetemi di salutarvi in questo giorno Pasquale, in occasione dell’apertura della Conferenza Il destino della bellezza. La bellezza nella prospettiva delle scienze umanistiche. Penso che tutti ricordino come il nostro grande scrittore Dostoevskij abbia espresso un’idea molto importante, ossia che «la bellezza salverà il mondo». Ecco nella nostra epoca, quando ormai non sentiamo più la necessità della Salvezza di questo mondo, noi rivolgiamo il nostro sguardo a questo pensiero di Fedor Michajlovicˇ Dostoevskij ed esprimiamo la speranza che la Bellezza Divina, che è il principio del disegno di Dio nella Creazione, davvero salvi il mondo. La presente Conferenza che si svolge nella nostra università, in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, è chiamata a mettere a tema quelle questioni teologiche che sono legate al concetto di bellezza. Permettetemi a questo proposito di ringraziare Sua Eminenza, il Metropolita Ilarion, che ha presieduto il comitato organizzativo e che oggi, malgrado i suoi densi impegni, aprirà la nostra Conferenza. Sono anche molto grato al Signor Ambasciatore di Italia a Mosca che in quest’occasione visita la nostra università per la prima volta ed esprimiamo la speranza che presto rinnovi la sua visita. Siamo molto grati anche al capo dell’Arcidiocesi cattolica di Mosca, l’Arcivescovo Paolo Pezzi che ci ha inviato in questa occasione il suo saluto e la sua benedizione per una feconda collaborazione. Si dovrebbero naturalmente citare tutti coloro che hanno partecipato all’organizzazione della Conferenza, innanzitutto il Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura, il Prof. Adriano Dell’Asta che ha sostenuto la realizzazione di questo evento. Speriamo fortemente che la nostra collaborazione, che oggi si esprime attraverso questa Conferenza, possa non solo continuare, ma svilupparsi anche in futuro. Permettetemi infine di augurare un lavoro fecondo a tutti i partecipanti e di chiedere a Sua Eminenza, il Metropolita Ilarion, di porgere il proprio saluto. Arciprete Vladimir Vorob’ev Rettore dell’Università Ortodossa Umanistica San Tichon

Metropolita Ilarion di Volokolamsk

Prolusione. La teologia della bellezza

«Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco [...] contemplare la bellezza del Signore». (Sal , )

La bellezza è uno dei concetti centrali non solo del pensiero filosofico ed estetico, ma anche della teologia. Tuttavia, per l’uomo medio il discorso sulla bellezza può sembrare un discorso su qualcosa di superfluo, non indispensabile o addirittura vacuo. La bellezza, infatti, è qualcosa di cui teoricamente si potrebbe fare a meno. Vi sono cose realmente indispensabili all’uomo, come il cibo, un tetto, degli abiti, senza cui sarebbe impossibile vivere sia negli anni di prove e difficoltà, sia in tempo di pace. Tutto questo ha poco a che vedere con la bellezza. All’inizio degli anni Trenta del secolo scorso nella Russia bolscevica l’estetica marxista non si poneva affatto il problema della bellezza, anzi lo negava. Sulla rivista «Letteratura proletaria» gli ideologi del giovane Stato sovietico affermavano: «La nostra estetica normativa marxista nega i criteri sia oggettivi che soggettivi della bellezza, perché [...] è contro il bello in generale». Eppure, anche in epoca sovietica esistevano persone altrettanto malnutrite, malate e diseredate della maggioranza dei loro conterranei, che tuttavia spendevano le proprie energie e la vita stessa per salvare cose bellissime, ma “inutili” dal punto di vista di alcuni: la bellezza stessa. Funzionari museali, studiosi e critici d’arte, musicisti, letterati... Forse fu proprio l’abnegazione di queste persone a far riconsiderare l’atteggiamento verso il bello in Unione Sovietica a metà degli anni Cinquanta, quando furono sollevate le questioni della percezione estetica del mondo. E sebbene tutti i partecipanti a quel dibattito assicurassero che seguivano i principi della filosofia e dell’estetica marxista-leninista, il loro modo di interpretare la bellezza era sorprendentemente differente. Gli 

«Proletarskaja literatura», n. , , p. .

Prolusione. La teologia della bellezza



uni sostenevano che la bellezza, in quanto proprietà originaria della natura, esistesse già prima della società umana. Altri consideravano la bellezza un fenomeno socio-culturale, che esprimeva in forma concreta e sensibile l’affermarsi dell’uomo nel mondo, la misura della libertà sua e della società. Altri ancora definivano la bellezza come «la legge di una determinata qualità che si rispecchia nella coscienza», ovvero come la corrispondenza fra «realtà e ideale». Dall’inizio degli anni Sessanta furono intrapresi tentativi di interpretare la bellezza sotto l’aspetto assiologico, presentandola come un valore estetico, mostrandola in relazione alle altre categorie estetiche e sottolineando la singolarità della bellezza in campo artistico, le peculiarità della sua percezione ed esperienza. Negli anni Settanta-Ottanta filosofi e teologi hanno cominciato a parlare delle verità religiose, pur mettendosi al riparo dietro categorie estetiche. Ricordiamo la celebre Storia dell’estetica dell’antichità di A.F. Losev, una monumentale opera in più volumi, che era sostanzialmente una storia del pensiero filosofico e religioso del mondo antico. Ricordiamo le opere di S.S. Averincev e V.V. Bicˇ kov, che pur essendo dedicate all’estetica svelavano in realtà il mondo allora proibito del pensiero patristico. L’apparire di questi libri fu un avvenimento per molte persone credenti e pensanti. Tutti questi tentativi di interpretare la bellezza si basavano soltanto sull’esperienza empirica: un uomo che sia stato ferito dalla bellezza non riuscirà mai più a vivere senza di essa. Qui non si tratta semplicemente del fatto che la bellezza ci riconcilia con la vita: la percezione, la comprensione della bellezza è una sorta di esperienza mistica, che trasporta la persona oltre se stessa, la mette faccia a faccia con una realtà grande, inattingibile e insieme straordinariamente gioiosa, familiare, desiderabile. Considerando l’evoluzione dell’atteggiamento nei confronti della bellezza nello Stato sovietico si può dire che il suo iniziale rifiuto era la posizione più corrispondente all’ateismo di Stato. Per questo l’ideologia sovietica non ammetteva alcun discorso sulla bellezza, aveva paura di attirare l’attenzione su di essa, di offrire la possibilità di formularne una 

I cosiddetti “naturalisti” (prirodniki): N.A. Dmitrieva, G.N. Pospelov, ecc. Detti “attivisti sociali” (obšcˇ estvenniki): L.N. Stolovicˇ , Ju.B. Borev, ecc.  Fautori della “concezione soggettivo-oggettiva”, quali A.I. Burov, M.S. Kagan, ecc. 

Metropolita Ilarion di Volokolamsk



definizione. Infatti, erano proprio le riflessioni su di essa a indurre le persone non indifferenti al bello a cercare risposte a domande esistenziali allora precluse. San Macario l’Egiziano scrive che un uomo ferito dall’amore per la bellezza «è da essa legato e inebriato, rapito e fatto prigioniero in un altro mondo». Niente sa destare l’anima come l’attenzione al bello. Nel cristianesimo la bellezza è uno dei nomi di Dio. Dio è il Bello in quanto tale, ed è anche la fonte dell’autentica bellezza. Ecco solo alcune delle testimonianze su Dio come bellezza che ci giungono dal tesoro della patristica. Ad esempio, lo straordinario inno alla bellezza di sant’Agostino: Tardi ti amai, bellezza [...]. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Tu eri con me, e io non ero con te. [...] Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore sfondò la mia cecità. Diffondesti la tua fragranza, io l’ho respirata e ora anelo a te. Ti ho gustato e ora ho fame e sete di te. Mi hai toccato e ardo del desiderio della tua pace.

San Gregorio di Nissa dice: «Che cos’altro vi può essere di più bello della somiglianza con la Bellezza perfetta?». San Gregorio di Nazianzo spiega che la «bellezza è l’attributo essenziale di Dio», e san Cirillo di Alessandria indica che la bellezza di Dio è sovrannaturale, e l’uomo è ricreato in questa bellezza trinitaria, che secondo san Massimo il Confessore egli è predestinato in ultima analisi a condividere con Dio stesso. Per san Kirill di Turov, come per san Nil di Sora, solo Dio 

Filocalia, vol. I. Agostino, Confessioni, X, .  Gregorio di Nissa, Omelie sul Cantico dei Cantici, XII. Cfr. anche Id., Contro Eunomio, I, PG, vol. , col. .  Gregorio Nazianzeno, Orazione  (Discorsi teologici, ), PG, vol. , col. .  Cirillo di Alessandria, Dialoghi sulla Trinità, .  Massimo il Confessore, PG, vol. , col. .  San Kirill di Turov, Poucˇ enija (Esortazioni), Kiev .  A.S. Archangel’skij, Nil Sorskij i Vassian Patrikeev: ich literaturnye trudy i idei v Drevnej Rusi (Nil di Sora e Vassian Patrikeev: opere letterarie e idee nell’Antica Rus’), Parte . Prepodobnyj Nil Sorskij (San Nil di Sora), San Pietroburgo . Cfr. anche G.M. Prochorov, Poslanija Nila Sorskogo (Lettere di Nil di Sora), in Trudy Otdela drevnerusskoj literatury, vol. . Voprosy istorii russkoj srednevekovoj literatury, Leningrado . 

Prolusione. La teologia della bellezza



possiede la bellezza suprema. Il “coro delle voci patristiche” culmina in quella di Dionigi l’Areopagita: «I santi celebrano Dio come il Bello, la Bellezza [...]. Ogni cosa esistente – prosegue Dionigi – nascendo dal Bello e dal Bene, permanendo nel Bello e nel Bene, ritorna al Bello e al Bene. E tutto ciò che esiste e appare, esiste e appare grazie al Bello e al Bene». Bene e bellezza nel pensiero di Dionigi si identificano. Questa identità, del resto, è confermata dall’esperienza di santità dei monaci e degli asceti lungo tutta la storia del cristianesimo. Le raccolte dei più autorevoli scritti ascetici dei Padri della Chiesa ricevettero fin dall’antichità il nome di Filocalia (amore del bello). Ad esempio, san Basilio il Grande intitolò con la parola Filocalia le Catene di Origene. Ma la più nota Filocalia è una raccolta di opere di asceti ortodossi stilata sull’Athos nel XVIII secolo, che fu tradotta in russo con il titolo di Dobrotoljubie, una parola che, come dice san Feofan dell’eremo di Vyša nell’introduzione alla sua traduzione, «costituisce il calco del titolo greco Filocalia, che significa “amore a ciò che è bello, sublime, buono”». La bellezza non si identifica solo con il bene. Alla vera bellezza si può e deve anche credere. Essa rende certi. Così, ad esempio, aveva formulato questo concetto lo scienziato, filosofo e sacerdote russo Pavel Florenskij, analizzando la celebre Trinità di Rublëv: «Fra tutte le dimostrazioni filosofiche dell’esistenza di Dio suona la più persuasiva proprio quella di cui non è fatta menzione neppure nei manuali: si può formulare col sillogismo: esiste la Trinità di Rublëv, perciò Dio è». La bellezza è identica alla verità, ne è un criterio, una componente. Ricordiamo anche l’episodio del «vaglio delle fedi» nel Racconto dei tempi passati, dove l’ultimo e decisivo argomento per il principe Vladimir, nella scelta della religione, fu la «bellezza della chiesa»: «Non sapevamo se in cielo ci trovavamo oppure in terra: non v’è sulla terra uno spettacolo di tale bellezza, e non riusciamo a descriverlo; solo questo sappiamo: che là 

Dionigi l’Areopagita, I nomi divini, , , . L’opera fu pubblicata in greco nel  a Venezia e in slavo (nella traduzione dell’archimandrita Paisij Velicˇkovskij) a Mosca nel -, con il titolo Dobrotoljubie. L’edizione in cinque volumi uscì nel XIX secolo in traduzione russa moderna ad opera di san Feofan il Recluso (a ed., ).  Dobrotoljubie, a ed., vol. , Mosca .  P. Florenskij, Le porte regali, Milano , p. . 

Metropolita Ilarion di Volokolamsk



Dio con l’uomo coesiste e che il rito loro è migliore di quello di tutti i paesi. Ancora non possiamo dimenticare quella bellezza». Questa argomentazione venne accolta come la più convincente. «Dio con l’uomo coesiste» laddove c’è la bellezza, la cui presenza testimonia appunto tale “coesistenza”. La bellezza è una testimonianza. Secondo un contemporaneo di qualche anno più giovane del principe Vladimir, il santo vescovo Ilarion di Kiev, solo la Verità è rivestita di bellezza. Per questo anche la musica, l’architettura, la pittura sacra si sono sempre sforzate di mantenersi a un altissimo livello culturale. Questa era e resta per la Chiesa una questione di principio. Uno splendido coro liturgico, l’eleganza e l’armonia della divina liturgia, la raffinatezza dell’architettura sono le migliori forme di annuncio che la Chiesa abbia mai conosciuto. Non si tratta di un interesse privato, di un segno di agiatezza o di vacuo sfarzo, ma esprime il sale della visione cristiana del mondo. Proprio perché dall’autenticità, dalla qualità della bellezza dipende moltissimo, nei confronti della bellezza bisogna essere estremamente esigenti. Una bellezza che voglia essere una prova della verità non può non essere severa con se stessa. Ricordiamo Dostoevskij e il suo romanzo L’adolescente. Il protagonista sente pronunciare dal pellegrino Makar Ivanovicˇ, un uomo del popolo, una parola antiquata che lo colpisce profondamente, “venerabilità” (blagoobrazie), che esprime l’idea di bellezza come santità e di santità come bellezza – una bellezza austera che rappresenta un punto di riferimento fermo per l’ascesi. «La vera bellezza non si riconosce dall’esteriorità, ma dai costumi e dal retto comportamento», proclama san Giovanni Crisostomo. Bellezza e ascesi sono strettamente intrecciate fra loro nella psicologia del popolo russo. L’accademico Sergej Averincev osservava che «la letteratura russa classica ha una paura mortale della “mancanza di serietà” estetica. Gogol’ bruciò il suo manoscritto, Lev Tolstoj tentò di rinnegare l’artista che era in lui, per restare semplicemente un cercatore



Racconto dei tempi passati. Cronaca russa del secolo XII, a cura di I.P. Sbriziolo, Torino , p. .  Ilarion di Kiev, Sermone sulla legge e la grazia (trad. it. a cura di I.P. Sbriziolo, Napoli ).  Giovanni Crisostomo, Omelia , Sulle donne e la bellezza.

Prolusione. La teologia della bellezza



e maestro di verità; a questo non si trovano paralleli nella storia delle altre letterature». Oggi viviamo in un mondo in cui i concetti di “bene” e “bello” si sono scissi. Il “bene” resta una categoria etica, mentre la bellezza si è trasformata in astratta estetica, e poi è stata completamente screditata dalla società laicista contemporanea. La bellezza si tramuta in seduzione, cioè in inganno. La frattura prodottasi tra gli ideali estetici e il fondamento etico conduce in un vicolo cieco le odierne ricerche del bello. Alla nostra epoca non resta, in buona sostanza, che l’estetica del mercato. Il degrado senza pari della moralità pubblica, le tentazioni, la parcellizzazione e solitudine dell’uomo contemporaneo, la sua totale immersione nella sfera ludica costituiscono effettivamente dei seri ostacoli alla capacità di vedere, di percepire l’autentica bellezza. La perdita dei valori come punti di riferimento conduce in definitiva a dimenticare la Fonte stessa della bellezza. Sant’Isacco il Siro ci ammonisce che «l’anima vede la bellezza a seconda dell’intensità della propria vita». «Il fondamento della bellezza – osserva Odoevskij – non è nella natura, ma nello spirito umano». L’uomo indifferente al bello non comprenderà mai la bellezza sfolgorante del Vangelo. Come dice Berdjaev, nella bellezza occorre vivere, per riconoscerla. Dopo averla riconosciuta, ognuno di noi gode della gioia suprema, per la quale il Signore ha creato l’uomo. Scrive Goethe: Quando l’uomo si sente nel mondo come in un complesso unitario, bellissimo, quando il senso dell’armonia interiore lo guida a una pura, libera ammirazione, in questi istanti tutto l’universo, se potesse avere coscienza di sé, si stupirebbe e si rallegrerebbe del fine supremo della propria esistenza. Infat-



S. Averincev, Krasota kak svjatost’ (Bellezza come santità), «Kur’er Junesko», n. ,

. 

Isacco il Siro, Sermoni ascetici, . V.F. Odoevskij, Opyt teorii izjašcˇnich iskusstv s osobennym primeneniem onoj k muzyke (L’esperienza della teoria delle belle arti con particolare applicazione di essa alla musica), in S.P. Ševyrev, Razgovor o vozmožnosti najti iedinyj zakon dlja izjašcˇnogo (Discorso sulla possibilità di trovare una legge unitaria per il bello), in «Moskovskij vestnik», parte , , p. .  N.A. Berdjaev, Il senso della creazione, Milano .  Giovanni Damasceno, La fede ortodossa, Roma . 

Metropolita Ilarion di Volokolamsk



ti, a che cosa serve tutta questa meraviglia del sole, dei pianeti e delle stelle, di questi mondi che nascono e scompaiono, se alla fine l’uomo felice non si metterà istintivamente a gioire della propria esistenza?.

Questo è il senso autentico dell’esistenza dell’uomo, la sua autentica vocazione: accostarsi alla gioia autentica, divenire partecipe della vera bellezza con tutta la pienezza del proprio essere. La conoscenza, come attestava Aristotele, comincia dallo stupore. Così, non di rado anche la conoscenza di Dio comincia dallo stupore per la bellezza del creato, e il culmine di tale conoscenza è la santità, che scopre all’uomo il proprio mistero di bellezza a immagine di Dio e gli rivela la bellezza degli altri, nascosta perfino a loro stessi, poiché «lo splendore della bellezza delle virtù nell’uomo desta lo stesso stupore, la stessa meraviglia destati dalla gloria dei Cieli».



J.W. Goethe, Vita di J.J. Winckelmann, Bergamo . Aristotele, Metafisica, I, , b.  Giovanni Crisostomo, Tvorenija (Opere), vol. , parte , San Pietroburgo .



Messaggi augurali

Eminenza Reverendissima, reverendi padri, egregi colleghi, cari fratelli e sorelle! È per me una grande gioia e un grande onore salutare qui oggi promotori, organizzatori, partecipanti e ospiti del convegno internazionale «Le sorti del bello: la bellezza nella prospettiva delle scienze umanistiche», organizzato dall’Università Ortodossa Umanistica San Tichon di Mosca e dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Poco prima di morire, nel , lo scrittore e regista italiano Pier Paolo Pasolini, di fatto ateo, scrisse alcune profetiche parole sulla bellezza, che ben descrivono anche la situazione oggi esistente nel mondo: «L’occhio guarda [...] è l’unico che può accorgersi della bellezza [...] la bellezza si vede perché è viva, e quindi reale. Diciamo meglio, che può capitar di vederla. Dipende da dove si svela». E dove vediamo l’autentica bellezza? L’autentica bellezza è apparsa in Cristo. E questo ci spinge a cercare e a trovare proprio in Lui la fonte, la via e lo scopo di ogni vera Bellezza, di ogni vero Bene. Tutto questo conduce a un cambiamento del pensiero, al cambiamento di cui parla san Paolo nella Lettera ai Romani: «Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm , ). Negli stessi anni in cui morì Pasolini, il grande teologo ceco Jozef Zveˇrˇina scrisse la sua celebra Lettera ai cristiani d’Occidente, in cui commentava questo versetto della Lettera ai Romani con alcune parole che hanno serbato la loro attualità fino a oggi: «Non conformatevi! (Me syschematízesthe!)». In questa parola viene ben messa in luce la radice del verbo: schema. In breve, ogni schema, ogni modello esteriore è vanità. Noi dobbiamo volere di più, ci suggerisce l’apostolo: «Cambiate il vostro modo di pensare assumendo una forma nuova!». Seguendo la nostra natura, la nostra struttura interiore, siamo chiamati a desiderare, a cercare la bellezza, la Bellezza con la maiuscola che è apparsa in Cristo.



Messaggi augurali

«Ma – continua Pasolini – il problema è avere gli occhi e non saper vedere, non guardare le cose che accadono [...]. Occhi chiusi. Occhi che non vedono più. Che non sono più curiosi. Che non si aspettano che accada più niente. Forse perché non credono che la bellezza esista». Anche noi, forse, abbiamo smesso di cercare la Bellezza con la maiuscola, cioè Cristo; il nostro desiderio di vederlo si è magari potuto affievolire, sebbene Lui continui a cercarci. Cristo non smette mai di offrirci la Sua compagnia. Infatti, «la bellezza – sono ancora parole di Pasolini – passa sul deserto delle nostre strade, rompendo il finito limite e riempiendo i nostri occhi di infinito desiderio». Il mistero del Creatore, svelatoci dall’economia della Sua Sapienza e Amore, ci permette di vedere l’autentica Bellezza. D’altro canto, proprio la perdita del senso del Mistero divino è un fenomeno più frequente di quanto si pensi. Molti cristiani sostituiscono Dio con un idolo che chiamano dio e che creano arbitrariamente, impiegando diversi elementi, per poi adorarlo (Graham Green). Naturalmente, a far questo non sono solo e soltanto i cristiani. Don Giussani, che per molti anni insegnò all’Università Cattolica di Milano un corso di Introduzione alla teologia, aveva formulato saggiamente, una volta, il meccanismo attraverso cui si generano gli idoli. Secondo il suo pensiero, gli idoli nascono quando, da un contesto accessibile alla nostra comprensione, estrapoliamo un particolare e lo assolutizziamo sostituendolo all’inattingibile Mistero della Bellezza. Gli idoli non sono un relitto che ci giunge da un remoto passato di ignoranza. Oggi sono diventati probabilmente molto più pericolosi. Solo la maestosa Bellezza di Dio, che svela, dona Se stesso alla creatura, può contrapporsi a ogni idolo. Proprio questa Bellezza, che si dona e che viene umilmente accolta, è in grado di salvare il mondo. Mi sembra che uno dei compiti principali del nostro convegno e della nostra attività educativa in generale sia quello di cercare e, dopo averla trovata, proporre agli altri la visione della presenza della Bellezza (Verità, Bene) laddove a Dio piaccia manifestarsi. La bellezza del macrocosmo e del microcosmo! La bellezza di rapporti umani gratuiti e sinceri! La bellezza della giustizia! La bellezza del sacrificio di sé! La bellezza di una grande famiglia unita! La bellezza dell’inermità dell’infanzia e della debolezza della vecchiaia!

Messaggi augurali

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La bellezza del riconoscimento della propria responsabilità per le sorti dell’uomo e della società! La bellezza di ogni lavoro costruttivo e pacifico, concepito come servizio e creatività! La maestosa bellezza dell’umile e piena fiducia in Dio nel passaggio dal tempo all’Eternità! Nel mistero dell’Incarnazione Cristo ha santificato – «Lui che è simile a noi in tutto, eccetto che nel peccato» – tutti gli aspetti, grandi e piccoli, della vita umana. Tutto, eccetto il peccato! Questo significa che in ogni aspetto della vita umana noi siamo chiamati a rinvenire un riverbero della Bellezza del Volto divino. E, dopo averlo trovato, a custodirlo religiosamente. A conclusione di queste brevi riflessioni introduttive, non posso impedirmi di parteciparvi la mia gioia di fronte a questo convegno: com’è bello che i cristiani possano e vogliano lavorare insieme, trovando in questo una nuova strada e possibilità di servire Cristo, fonte ed essenza di ogni vera Bellezza. Auguro a questa nostra iniziativa successo in un lavoro fecondo, che ci arricchisca reciprocamente a gloria di Dio. Il Signore ci accompagni e ci sostenga con la Sua grazia. Mons. Paolo Pezzi Ordinario dell’Arcidiocesi della Madre di Dio a Mosca

*** La Conferenza internazionale Il destino della bellezza. La bellezza nella prospettiva delle scienze umanistiche segna un momento significativo nell’ambito delle relazioni culturali tra Italia e Russia. Il tema al centro dei lavori è uno dei più tradizionali per “mondi” che vivono dell’arte ed hanno espresso formule ormai divenute proverbiali, come la celebre, dostoevskijana, «la bellezza salverà il mondo», ma è anche uno dei più spinosi e complessi in un tempo nel quale la bellezza sembra a volte trovare uno spazio limitato nella vita di ogni giorno. Trattare, dunque, della bellezza e del suo destino significa sapersi radicare in quella tradizione, cogliendone gli spunti necessari a rispondere alle sfide della contemporaneità. E qui, come Ambasciatore d’Italia nella Federazione Russa, ho il piacere di constatare quanto i rapporti tra le nostre Istituzioni culturali siano esemplari nell’indicare un modo per rispondere a queste sfide. Le relazioni che si sono sviluppate nel corso degli anni tra l’Università Cattolica di

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Milano e l’Università San Tichon di Mosca, ad esempio, non hanno portato soltanto alla realizzazione di questa conferenza e ad un costante aumento degli scambi di studenti e docenti tra queste università, ma hanno fatto germogliare e crescere una atmosfera diffusa di amicizia, stima e collaborazione. Questa atmosfera ha recentemente conosciuto un ulteriore sviluppo, di cui vedremo presto i primi frutti: gli accordi tra l’Università San Tichon e la Veneranda Biblioteca Ambrosiana, che porteranno alla traduzione in russo delle Opere di sant’Ambrogio. Si tratta di un esempio significativo di quel desiderio di andare alle radici comuni delle nostre culture che io stesso ho potuto riscontrare come uno dei tratti caratteristici della Russia contemporanea quando, appena arrivato a Mosca, venni incoraggiato da Sua Santità il Patriarca Kirill e da Sua Em. il Metropolita Ilarion di Volokolamsk a far tradurre e pubblicare in russo il libro del Professor Carlo Cardia, Identità religiosa e culturale europea. La questione del crocefisso. Nella vicenda che aveva ispirato quello scritto, i nostri due Paesi si erano trovati su posizioni affini, nell’affermazione del valore di una identità che, nella sua specificità, non vuol essere fonte di divisione ma anzi cardine di un’autentica e feconda unità europea. La Conferenza Il destino della bellezza. La bellezza nella prospettiva delle scienze umanistiche è, in questo quadro, una significativa testimonianza dell’unità che i nostri Paesi possono offrire al mondo contemporaneo. Antonio Zanardi Landi Ambasciatore d’Italia a Mosca

*** Illustre e molto reverendo Rettore, La ringrazio del cortese invito alla Conferenza Il destino della bellezza. La bellezza nella prospettiva delle scienze umanistiche, promossa a Mosca. Purtroppo, non posso partecipare personalmente a questa iniziativa di grande importanza, perché, come Lei sa, lo scorso novembre sono stato chiamato a ricoprire la carica di Ministro per i Beni e le Attività Culturali della Repubblica italiana e, di conseguenza, mi sono trovato costretto a rivedere i programmi di lavoro alla luce di nuovi e non lievi impegni istituzionali. Proprio per la rilevanza culturale che la qualifica, mi permetto di formulare, con queste brevi righe, ogni più sentito e sincero augurio di successo alla Conferenza. Auspico altresì che continuino a crescere e a raffor-

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zarsi sempre più i rapporti fra l’Università Cattolica del Sacro Cuore e il Suo prestigioso Ateneo, in forza della comune missione che li lega, al servizio della cultura e del popolo di Dio. Confidando in una prossima occasione di incontro, Le porgo i miei più cordiali saluti. Roma, aprile 

Lorenzo Ornaghi Ministro per i Beni e le Attività Culturali della Repubblica Italiana*

*** Magnifico Rettore, Rev.mo Padre Vladimir Vorob’ev, Chiarissimo Pro Rettore, Rev.mo Padre Georgij Orechanov, Eminenza Reverendissima Ilarion Alfeev, Metropolita di Volokolamsk e Presidente del Dipartimento per le relazioni esterne del Patriarcato di Mosca, Sua Eccellenza, Monsignor Paolo Pezzi, Arcivescovo dell’Arcidiocesi della Madre di Dio a Mosca, Signor Ambasciatore della Repubblica Italiana a Mosca, Dott. Antonio Zanardi Landi, Signor Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Mosca, Prof. Adriano Dell’Asta, Chiarissimi Professori, Gentili partecipanti alla Conferenza,

ineludibili impegni istituzionali mi impediscono di essere con Voi a Mosca per l’inaugurazione di questa importante Conferenza su Il destino della bellezza. La bellezza nella prospettiva delle scienze umanistiche. Sono dispiaciuto di non poter esprimere personalmente la soddisfazione per il legame davvero speciale che unisce i nostri due atenei. Al di là delle importanti e stimolanti collaborazioni in ambito scientifico e accademico, questo rapporto riveste per noi una particolare importanza sia sul piano simbolico, in quanto paradigma di un’aperta e proficua cooperazione tra università afferenti a culture e confessioni religiose differenti, sia sul piano della concreta esperienza umana di dialogo, lavoro comune e scambi. Una tale vivificante relazione nasce innanzitutto dall’incontro tra persone (docenti, ricercatori, studenti, religiosi) che condividono una passione autentica per lo studio e la ricerca di piccole e grandi verità scientifiche, vissuta alla luce dell’incontro con quella sola Verità che, rivelando l’uomo all’uomo, consente di sperimentare una reale e feconda prossimità. * Alla data della Conferenza, Magnifico Rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.

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In questo senso, l’interrogarsi sul destino della bellezza, come si è scelto di fare nelle tre ricche giornate della Conferenza, ripropone in modo originale la questione del nesso che collega le conoscenze ricercate dalle scienze con l’orizzonte della Verità ultima per l’uomo e per l’intero creato. Un nesso, questo, fondamentale, dato che, ci ricorda Evodkimov: «nella sua essenza l’uomo è creato con la sete del bello, è egli stesso questa sete perché immagine di Dio» (P. Evdokimov, La teologia della bellezza, Ed. Paoline, Roma , p. ), ma che sempre più spesso si tende a trascurare con conseguenze, in ultima istanza, tragiche. Come ha scritto Hans Urs von Balthasar, infatti: «In un mondo senza bellezza anche il bene perde la sua forza di attrazione, l’evidenza del suo dover-essereadempiuto [...]. In un mondo che non si crede più capace di affermare il bello, gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica» (H.U. von Balthasar, Gloria, vol. I, La percezione della forma, Jaca Book, Milano , pp. -). In questo nostro tempo, caratterizzato da un vorticoso procedere delle conquiste delle scienze della natura e dalla veloce penetrazione delle tecnologie in tutti gli ambiti della vita sociale e individuale, il concetto di bello viene perciò progressivamente relegato ai margini dell’interesse scientifico. Ma uno sviluppo umano e sociale autentico non può prescindere dal riportare al centro la persona umana nella sua integralità e tale passaggio implica la comprensione profonda e il più possibile condivisa della bellezza. È in questa prospettiva che, a mio parere, si può meglio apprezzare l’opportunità di una Conferenza che si interroga sul destino e quindi sull’essenza della bellezza. Ringrazio di cuore, pertanto, i molti specialisti, di diverse discipline umanistiche, che interverranno per dare vita a un dibattito interdisciplinare intorno alla natura del bello e, in particolare, tutti coloro i quali in Italia e in Russia si sono adoperati per la riuscita di questo evento, auspicando senza retorica che da questa iniziativa possano discenderne molte altre. Di questo amore per la bellezza; di una rinnovata e tra sfigurante filocalìa il mondo mostra di avere un estremo bisogno. Milano,  aprile  Prof. Franco Anelli Prorettore Vicario dell’Università Cattolica del Sacro Cuore* * Oggi Magnifico Rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.

Il destino della Bellezza

Stefano Alberto*

La bellezza come superamento del dualismo moderno «I concetti creano gli idoli, solo lo stupore conosce». (Gregorio di Nissa, Vita di Mosè)

. L’“anacronistica” bellezza Benedetto XVI, consacrando l’ultima grande cattedrale dell’Occidente ancora in costruzione, la Sagrada Familia, a Barcellona il  novembre del , osservò che il suo grande architetto Antoni Gaudí, con questa opera imponente, collaborò in maniera geniale all’edificazione di una coscienza umana ancorata nel mondo, aperta a Dio, illuminata e santificata da Cristo. E realizzò ciò che oggi è uno dei compiti più importanti: superare la scissione tra coscienza umana e coscienza cristiana, tra esistenza in questo mondo temporale e apertura alla vita eterna, tra la bellezza delle cose e Dio come Bellezza... In realtà, la bellezza è la grande necessità dell’uomo; è la radice dalla quale sorgono il tronco della nostra pace e i frutti della nostra speranza. La bellezza è anche rivelatrice di Dio, perché, come Lui, l’opera bella è pura gratuità, invita alla libertà e strappa dall’egoismo.

Che cosa significa questa scissione tra coscienza umana e cristiana, tra vita nel tempo e vita eterna, tra la bellezza delle cose e Dio come bellezza? E perché la bellezza è la via per superare queste divisioni, è la via che apre a Dio? La bellezza è certo sulla bocca di tutti, nelle esperienze e nei discorsi quotidiani, a proposito di un paesaggio, di un tramonto, di una persona, in particolare del suo volto e del suo sguardo, di un suo gesto; oppure a riguardo di un’opera d’arte, di un brano di musica, e ancora delle meravigliose galassie lontane milioni di anni luce, svelate dai potenti * Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano. Benedetto XVI, Omelia della Santa Messa con Dedicazione della Chiesa della Sagrada Familia e dell’altare, Barcelona,  novembe . 

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mezzi tecnologici dell’astrofisica, oppure delle strutture complesse delle cellule, invisibili a occhio nudo, studiate dalla biologia e dalla medicina. Eppure non ha perso di attualità l’osservazione del grande teologo Hans Urs von Balthasar che, in una pagina famosa di Gloria, sostiene che bellezza è una parola anacronistica per la filosofia, la scienza e la teologia, che non può quindi essere oggi in nessun modo sfoggiata e con la quale si rischia di non trovare ascolto da nessuna parte. [...] La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto [...]. Essa è la bellezza che non è più amata e custodita nemmeno dalla religione, ma che, come maschera strappata dal suo volto, mette allo scoperto dei tratti che minacciano di riuscire incomprensibili agli uomini. Essa è la bellezza alla quale non osiamo più credere e di cui abbiamo fatto un’apparenza per potercene liberare a cuor leggero. Essa è la bellezza infine che esige (come oggi è dimostrato) per lo meno altrettanto coraggio e forza di decisione della verità e della bontà, e la quale non si lascia ostracizzare e separare da queste sue due sorelle senza trascinarle con sé in una vendetta misteriosa. Chi, al suo nome, increspa al sorriso le labbra, giudicandola come il ninnolo esotico di un passato borghese, di costui si può essere sicuri che –segretamente o apertamente – non è più capace di pregare e, presto, nemmeno di amare.

La bellezza, «la grande necessità dell’uomo», è oggi come imprigionata da quella riduzione progressiva della conoscenza (e della ragione) operata dall’epoca moderna, che finisce per qualificare come oggettivo e certo solo ciò che può essere dimostrato con il metodo scientifico, e guarda quindi alla realtà e alla natura solo come a un aggregato di dati, congiunti gli uni agli altri quali cause ad effetti. Tutto il resto dell’esistente, a partire dalle grandi domande dell’uomo, dalle problematiche morali e religiose viene collocato, insieme alla bellezza, nell’ambito del soggettivo e del sentimento, fuori dall’ambito della ragione e della conoscenza in senso stretto. Nelle pretese dello scientismo moderno rivivono così, secondo Alain Besançon, «lo spirito e la mistica dell’antico



H.U. von Balthasar, Gloria, vol. I, La percezione della forma, Jaca Book, Milano , pp.  sg.

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iconoclasmo. Vale ancora la pena di contemplare la natura se la si può analizzare?». Viene cioè posto radicalmente in discussione, fino a decretarne l’impossibilità, il nesso inscindibile tra segno e significato, tra visibile e invisibile, tra bellezza e realtà nella totalità dei suoi fattori. L’esperienza della bellezza viene relegata nell’ambito del sentimento soggettivo, essa non ha più nulla da suggerire di certo e oggettivo sul significato ultimo della realtà. All’inizio del percorso della modernità sono bastati pochi decenni per sgretolare la sintesi medievale di Tommaso tra oggettivo e soggettivo riguardo al bello. Vi sono ragioni oggettive per cui qualcosa viene giudicata bella, ma non sarebbe tale se non producesse diletto nello spirito che la contempla. Il bello e il bene sono identici, ma il bene soddisfa il desiderio dell’uomo con il possesso affettivo dell’oggetto, e il bello con la conoscenza, o meglio con l’apprendimento della sua forma. La percezione intuitiva dell’oggetto è la sorgente del diletto. Nel sentimento del bello riscontriamo due aspetti, tra loro uniti: il primo conoscitivo (apprehensio, visio), l’altro affettivo (quod placet, delectat). Secondo Tommaso bello è ciò che diletta quando lo si guarda, «pulchrum dicitur id cuius ipsa apprehensio placet»: è bello ciò in cui l’intelletto umano scorge in forma splendida gli elementi di integrità, proporzione, splendore. Perché si abbia il bello occorre che l’oggetto sia in sé bello e, attraverso i sensi (vista e udito), sia presente nella coscienza. Il bello non è però uno stato di coscienza, è oggettivo. Già Agostino si era chiesto «se le cose sono belle perché piacciono, o se piacciono perché sono belle. Senza dubbio mi si risponderà che piacciono perché sono belle». La bellezza, dunque, non si identifica con il piacere, ma con le proprietà che rendono appunto la contemplazione attraente. La modernità ribalta questa consapevolezza, separando oggettivo e soggettivo e riducendo la bellezza al gusto soggettivo, senza più nessi con il bene e con il vero, senza quindi un’apertura alla conoscenza del A. Besançon, L’immagine proibita. Una storia intellettuale dell’iconoclastia, Marietti , Genova-Milano , p. .  Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Ia, q. , a. . Cfr. anche Besançon, L’immagine proibita, cit., pp. sg.  Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. , a.  ad .  Agostino, De vera religione, c. .

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la realtà, misurabile solo dalla ragione analitica. Così, abbreviando bruscamente tutti i passaggi, sorprendiamo Kant mentre afferma che «la bellezza, senza il riferimento al sentimento del soggetto, di per sé non è nulla». Egli, pur non negando un certo valore universale al giudizio estetico, osserva che esso è puramente contemplativo [bloß kontemplativ], è un giudizio cioè che, indifferente riguardo all’esistenza dell’oggetto, ne mette solo a riscontro i caratteri con il sentimento di piacere o di dispiacere. Ma questa stessa contemplazione [Kontemplation], a sua volta, non è diretta a concetti; perché il giudizio di gusto non è un giudizio di conoscenza (né teoretico né pratico), e per conseguenza non è fondato sopra concetti, né se ne propone alcuno.

Questa “indifferenza” riguardo all’esistenza dell’oggetto è destinata a diventare disillusione, soprattutto dopo gli orrori sistematici del XX secolo, da Auschwitz ai Gulag, bene espressa dalla accorata affermazione di Theodor Adorno che, nella sua Teoria estetica, non può non riconoscere che «l’inestinguibile anelito al bello [...] è l’anelito all’adempimento della promessa». Ma tale promessa è menzogna perché quello che (qui attraverso l’arte) si mostra è non-esistente, è apparenza. E JeanPaul Sartre parla di «nauseato scoramento [...] che attanaglia la coscienza» quando, passando dal mondo che ha un senso creato dall’arte (da qui il suo fascino), riprende il contatto con l’esistenza senza senso. È in questo sentimento di menzogna e disillusione fino alla nausea che prende piede il dominio dell’immagine “ab-soluta” che, emancipandosi da ogni modello, diviene essa stessa modello: Liberata dall’obbligo di spiegarsi a partire dalla natura – o dal divino –, l’immagine assoluta, figurativa o meno, ma priva della sua funzione rappresentativa si isola e si pone in rivalità con il creato; si propone come oggetto



Rimando per questo al breve, ma efficace, contributo di C. Esposito, G. Maddalena, P. Ponzio, M. Savini, Bellezza e realtà. Letture di filosofia, Edizioni di Pagina, Bari .  Rimando per questo al breve, ma efficace, contributo di C. Esposito, G. Maddalena, P. Ponzio, M. Savini, Bellezza e realtà. Letture di filosofia, Edizioni di Pagina, Bari .  Ivi, § , p. .  T.W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino , p. .  J.-P. Sartre, Immagine e coscienza, Einaudi, Torino , p. .

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di culto, celebrata nel museo dove ci si reca a consumare misticamente la carne e il sangue dell’artista, mediatore, salvatore, teurgo, sotto le specie della sua opera.

Noi siamo così spettatori, consumatori e vittime di questo profluvio di immagini assolute (cioè, letteralmente, sciolte dalla realtà che dovrebbero rappresentare, senza significato se non l’urto violento del sentimento), moltiplicate a dismisura dalle, peraltro affascinanti, potenzialità tecnologiche oggi a disposizione (è stato osservato che in un solo giorno un uomo, in una grande città, “assorbe” più immagini di un uomo vissuto nel Medioevo lungo il corso di tutta la sua vita). E spesso subiamo passivi quel fenomeno di continua dissacrazione, di esibizione del brutto, del volgare, dell’orrido: così «ci troviamo davanti al desiderio di sciupare la bellezza, con atti di iconoclastia estetica. Ovunque la bellezza ci tenda un agguato, può intervenire il desiderio di prevenirne l’attrattiva, facendo sì che la sua esile voce non sia udibile dietro le scene di dissacrazione». Quella della bellezza pare una voce esile imprigionata, per usare l’immagine di Benedetto XVI nel discorso al Bundestag di Berlino, dalla ragione positivista in uno di quegli «edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio». La divisione tra sapere (scientifico e oggettivo) e credere (sentimento soggettivo) è penetrata inesorabilmente, soprattutto in Occidente, ma non solo, anche all’interno dell’esperienza cristiana, determinando una frattura tra fede e vita, quasi una nuova versione, tutta moderna, dell’antica eresia iconoclasta, come se l’invisibile Dio non potesse o non dovesse più manifestarsi in una realtà visibile. Così si è rafforzata la tentazione in tanti cristiani (per resistere al mondo e a volte per compiacerlo) di ridurre la bellezza del fatto cristiano, nella sua integralità e nella sua concretezza storica, a una vaga religiosità, a sentimento, e soprattutto a una serie di regole morali, che peraltro non risultano più comprensibili alla maggior parte della gente. La bellezza cristiana rischia anch’essa di 

Besançon, L’immagine proibita, cit., pp.  sg. R. Scruton, La bellezza. Ragione ed esperienza estetica, Vita e Pensiero, Milano , p. .  Benedetto XVI, Discorso al Bundestag, Berlino,  settembre . 

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venire “imprigionata” in aspetti sì ancora fondamentali come la liturgia, l’arte sacra, le opere di carità, vissuti però come parti separate dal dramma del vivere quotidiano e dalle vicende storiche, e non come via al Tutto. Così la bellezza cristiana (che è innanzitutto bellezza della persona di Cristo nella sua divinoumanità), colpevolmente ridotta dagli stessi cristiani, non può sprigionare tutto il suo fascino e forza di attrattiva per colpire la distrazione e la superficialità dei più, ridestando in essi il desiderio di infinito. Non pare esagerato a questo proposito il paragone evangelico della lampada posta sotto il moggio, invece che in alto sul lucernario per illuminare tutti quelli che sono nella casa del mondo (cfr. Mt , ). . L’inestinguibile anelito al bello Eppure la bellezza rimane nel mondo, tenacemente e misteriosamente, spesso come il «volto dell’amore che permane nella desolazione», la si può incontrare in modo imprevisto nella realtà, colpisce di sorpresa il nostro cuore, che conserva irriducibile, magari sepolta sotto un cumulo di pregiudizi e di disillusioni, l’esigenza del vero, del bello, del bene: «Che cosa sarebbe mai la bellezza se non dovesse cogliermi alla sprovvista? Se così è, la scoperta della bellezza nella quale essa si scopre da sola ha proprio la caratteristica di un incontro, di una prossimità che è avvicinamento». Ma per questo occorre reimparare a vivere una «ragione aperta al linguaggio dell’essere», e ciò è possibile solo a partire non da analisi, ma dal contraccolpo di una esperienza di vita. Come afferma Jean Guitton, «ragionevole designa colui che sottomette la propria ragione all’esperienza», dove la parola esperienza non descrive semplicemente il “provare qualcosa”, ma indica il paragone di ciò che si prova con il cuore, inteso, in senso biblico, come quella struttura oggettiva di ogni uomo, costituita da esigenze ed evidenze originali attraverso cui l’uomo 

R. Scruton, La bellezza e il sacro, in AA.VV., Dio oggi. Con Lui o senza di Lui cambia tutto, Cantagalli, Siena , p. .  J.-L. Chrétien, La ferita della bellezza, Marietti , Genova-Milano , p. .  Benedetto XVI, Discorso al Bundestag, cit.  J. Guitton, Arte nuova di pensare, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo , p. .

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è lanciato nel paragone con tutto. L’esigenza di bellezza è una di queste. L’incontro con essa può avvenire dovunque e in ogni momento e per chiunque. E non è mai troppo tardi per nessuno. Solo così può riaccadere la possibilità dell’inizio, quasi una nuova nascita, uno sguardo vero su di sé come dipendente dalla realtà, dal Mistero. Non credo che nessuno meglio di Giussani abbia descritto tale possibilità in questa pagina del X capitolo del Senso religioso: Se io spalancassi per la prima volta gli occhi in questo istante uscendo dal seno di mia madre, io sarei dominato dalla meraviglia e dallo stupore delle cose come di una ‘presenza’. Sarei investito dal contraccolpo stupefatto di una presenza che viene espressa nel vocabolario corrente dalla parola ‘cosa’. Le cose! Che ‘cosa’! Il che è una versione concreta e, se volete, banale della parola ‘essere’. L’essere non come entità astratta, ma come una presenza, presenza che non faccio io, che trovo, una presenza che mi si impone. [...] Lo stupore, la meraviglia di questa realtà che mi si impone, di questa presenza che mi investe, è all’origine del risveglio dell’umana coscienza. [...] È questo stupore che desta la domanda ultima dentro di noi: non una registrazione a freddo, ma meraviglia gravida di attrattiva, come una passività in cui nello stesso istante viene concepita l’attrattiva. [...] La religiosità è innanzitutto l’affermarsi e lo svilupparsi dell’attrattiva.

Per cui «l’unica condizione per essere sempre e veramente religiosi è vivere sempre intensamente il reale». . «Cara beltà che amore lunge m’inspiri...» La bellezza ci sollecita a ricercare qualcosa d’altro oltre quello che immediatamente ci appare, qualcosa d’altro che è il significato ultimo di Cfr. L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano , pp. -. «Tardi ti ho amato, o bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato! Ecco, Tu eri dentro di me, io stavo al di fuori: e qui ti cercavo, e deforme quale ero, mi buttavo su queste cose belle che Tu hai creato. Tu eri con me, ed io non ero con te, tenuto lontano da Te proprio da quelle creature che non esisterebbero se non fossero in Te. Mi chiamasti, gridasti, e vincesti la mia sordità; folgorasti il tuo splendore e mettesti in fuga la mia cecità; esalasti il tuo profumo, lo aspirai ed anelo a Te, ed ora ho fame e sete; mi toccasti ed ora brucio di desiderio per la tua pace» (Agostino, Confessioni, X, .).  Giussani, Il senso religioso, cit., pp. -  Ivi, p.  

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ciò che appare. È la dinamica del segno. Bloccare questa dinamica alla reazione immediata, all’apparenza, come tante volte accade, sarebbe soffocare irragionevolmente l’impeto originale con cui il cuore, provocato e ferito, si protende sull’esistente. Per illuminare questa dinamica con una esperienza per me decisiva, vorrei brevemente accennare alla grande e “strana” amicizia, sorta al tempo della sua formazione in Seminario (a tredici anni!) e durata tutta la vita, tra Giussani e Giacomo Leopardi, il più grande poeta italiano dopo Dante. Amicizia “strana” perché, nell’interpretazione culturale dominante, condivisa anche da certi ecclesiastici, ora come allora, Leopardi era (ed è) considerato il precursore di quel nichilismo che si sarebbe pienamente manifestato come concezione largamente dominante nel secolo successivo. Per questa negazione finale, che si esprime soprattutto negli ultimi canti, come La ginestra, i superiori ecclesiastici ne sconsigliavano la lettura in Seminario. Giussani adolescente scopre e coglie invece in Leopardi il testimone del «misterio eterno dell’esser nostro», della irriducibilità del cuore dell’uomo nella sua sete di bellezza e di felicità, pur attraverso le contraddizioni della vita che sembrano spezzare ogni promessa. Nell’itinerario drammatico di Leopardi Giussani scopre la continua ferita della bellezza, in particolare della donna amata, attraverso cui il poeta intravvede l’esistenza di un Altro misterioso, di Dio. Commentando l’inno ad Aspasia, la donna più e invano amata da Leopardi, Giussani osserva: «È come se egli dicesse: come sei stata bella, com’eri bella, ma la tua bellezza non era responsabile di se stessa: la tua bellezza era come l’estrema voce dell’espressione di un cuore che stava sotto, nascosto; oppure era come l’inizio di una prospettiva di cui non si vedeva la fine, oltre te, al di là di te». Raggio divino al mio pensiero apparve, donna, la tua beltà. Simile effetto fan la bellezza e i musicali accordi, ch’alto mistero d’ignorati Elisi [Paradiso] paion sovente rivelar. Vagheggia il piagato mortal [l’uomo colpito da questa violenza d’amore] quindi la figlia della sua mente... (Aspasia, vv. -).



L. Giussani, Vivere intensamente il reale. Scritti sull’educazione, a cura di J. Carrón, La Scuola, Brescia , p. 

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

Commenta Giussani: Non ‘è’ un raggio divino; raggio divino al pensiero dell’uomo ‘appare’ la sua bellezza. La bellezza del viso della donna è strumento di qualcosa d’altro. Quando il valore di una cosa sta, è situato in un’altra cosa, della prima cosa si dice che è un segno. Vagheggia / il piagato mortal quindi la figlia / della sua mente: è la forza del suo cuore che investe quel volto che lo attrae e lo colpisce per la sua bellezza, ma lo investe creando una prospettiva, una prospettiva in esso che esso non ha [...] è un segno, è una realtà che è segno, che vale in quanto segno.

Von Balthasar parlerebbe a questo proposito di due momenti che determinano, in rapporto tra loro, ogni esperienza estetica, la forma e lo splendore: Come forma il bello può essere afferrato materialmente [...]. Certo la forma non sarebbe bella se non fosse elementarmente l’indice e l’apparizione di una profondità e di una pienezza che, se presa astrattamente e in sé, rimane inafferrabile e invisibile. [...] L’apparizione, come rivelazione della profondità, è indissolubilmente e allo stesso tempo presenza reale, della profondità, del tutto, e rimando reale, al di là di se stessa, a questa profondità. [...] Noi scorgiamo la forma, ma quando la scorgiamo realmente, non solo come forma disciolta, bensì come profondità che si manifesta in essa, allora la vediamo come splendore della gloria dell’essere. Guardando questa profondità veniamo ‘incantati’ da essa e in essa ‘rapiti’, ma (fin quando si tratta del bello) giammai in modo tale da lasciare dietro di noi la forma (orizzontale) per immergerci (verticalmente) nella nuda profondità.

In altri termini, nell’esperienza estetica il segno, per l’attrattiva e il diletto che suscita, manifesta in modo particolare il Significato di cui è ultimamente costituito, senza poterlo mai esaurire; e il Significato ci afferra attraverso la realtà materiale del segno in cui risplende. Ma a questo punto si apre un nuovo passaggio che scopriamo nell’inno Alla sua donna, il vertice della poetica leopardiana, in cui egli canta lo struggimento affinché quella profondità misteriosa si manifesti direttamente, nel presentimento che ciò, come fatto storico, già possa essere accaduto. «Cara beltà che amore / lunge m’inspiri [...] / Viva mirarti  

Ibid. Balthasar, Gloria, vol I, cit., pp. sg. passim.

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omai / nulla spene m’avanza; / s’allor non fosse, allor che ignudo e solo / per novo calle a peregrina stanza / verrà lo spirto mio...» (Alla sua donna, vv. -; -). Leopardi aveva creduto per un tratto della sua vita, secondo Giussani, di potere incontrare quella “bellezza”, poi disperò di poterla vedere viva in questo mondo e aggiunse: a meno che io ti possa vedere altrove, chissà dove, ma altrove. Che cosa, vedere? Che cosa credeva di poter vedere viva per la strada? La Bellezza. Non Aspasia, non una delle decine di donne di cui si è innamorato, ma la Donna, con la D maiuscola, la Bellezza con la B maiuscola.

Quando Gaetano Corti, suo professore, commentò in prima Teologia la frase del Prologo del Vangelo di san Giovanni «Il Verbo si è fatto carne» (Gv , ), il presentimento avuto da Giussani alla lettura dell’inno si chiarì: «il Verbo si è fatto carne vuol dire che la Bellezza si è fatta uomo, la Giustizia si è fatta uomo, la Bontà si è fatta uomo, la Verità si è fatta uomo. Quid est veritas? Vir qui adest. Cos’è la verità? Un uomo presente. Gesù era profetizzato dal genio di Leopardi milleottocento anni dopo la sua esistenza». Ecco l’ultima strofa dell’inno Alla sua donna, quella che abitualmente Giussani recitava come ringraziamento alla Santa Comunione: Se dell’eterne idee l’una sei tu cui di sensibil forma sdegni l’eterno senno esser vestita, e fra caduche spoglie provar gli affanni di funerea vita; o s’altra terra ne’ superni giri fra mondi innumerabili t’accoglie, e più vaga del Sol prossima stella t’irraggia, e più benigno etere spiri; di qua dove son gli anni infausti e brevi, questo d’ignoto amante inno ricevi (Alla sua donna, vv. -).

Commenta Giussani: D’ignoto amante inno ricevi. Ignoto amante. L’uomo ignoto amante di questa bellezza incarnata, che se non è per le vie del mondo, sarà da qualche  

Giussani, Vivere intensamente il reale, cit., pp.  sg. Ivi, p. .

La bellezza come superamento del dualismo moderno

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parte, in qualche altra stella del cielo, in qualche mondo platonico. Ignoto amante: io ignoto amante di Te; Tu, Dio fatto carne, ignoto amante di me, ignorato da me, non conosciuto da me, non ricordato da me. Letteralmente questo è il messaggio cristiano, come l’ho conosciuto io, come lo è obiettivamente. Quello che Leopardi esprime, come suprema esigenza di poter vedere e vivere il rapporto con la Bellezza fatta carne, è accaduto duemila anni fa: Giovanni e Andrea rappresentano i primi interlocutori squassati dallo stupore di sentire quell’uomo parlare. Il genio di Leopardi s’accosta, quindi, al genio religioso di san Giovanni.

. «Tu sei il più bello dei figli dell’uomo» (Sal , ) La Bellezza permane nel mondo perché la Bellezza, il Verbo si è fatto carne, vero Dio e vero uomo. Un Prefazio della Liturgia del Natale ci introduce all’avvenimento dell’Incarnazione: «Nel mistero del Verbo incarnato, una nuova luce del Tuo fulgore ha riempito gli occhi del nostro spirito: affinché conoscendo visibilmente Dio, ne siamo rapiti all’amore delle cose invisibili». È il dono assolutamente gratuito dell’invisibile Dio che si è reso visibile nella persona del Logos fatto uomo per rapirci all’amore di Sé invisibile. Nel mistero del Logos fatto carne la grazia di Dio illumina e purifica la nostra ragione, la “allarga” per riconoscere nella fede Dio visibilmente ed essere afferrati dal Suo amore e così cambiati profondamente nel nostro essere creature nuove, portate oltre i limiti della propria natura. Nell’incontro con Lui oggi, come duemila anni fa Andrea e Giovanni, l’uomo è colpito e afferrato dalla eccezionalità della sua Persona che corrisponde in modo impensabile e insuperabile all’attesa e al desidero del suo cuore, come afferma Nicolas Kabasilas: Uomini che hanno in sé un desiderio così possente che supera la loro natura, ed essi bramano e desiderano più di quanto all’uomo sia consono aspirare, questi uomini sono stati colpiti dallo Sposo stesso; Egli stesso ha inviato ai loro occhi un raggio ardente della sua bellezza. L’ampiezza della ferita rivela già quale sia lo strale e l’intensità del desiderio lascia intuire Chi sia colui che ha scoccato il dardo.

 

Ibid. Citato da J. Ratzinger, La bellezza. La Chiesa, Itaca, Castel Bolognese , pp.  sg.

Stefano Alberto

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In questo senso possiamo affermare che il cristianesimo è un avvenimento estetico, proprio perché è l’avvenimento, nel tempo e nello spazio, dell’incontro con la Presenza di Cristo, con la sua Persona. Così osserva Giussani: Come possiamo definire il motivo per cui si dice sì a Cristo? Il motivo per dire sì a qualcosa che si introduce nella nostra vita vincendo tutti i nostri preconcetti è una bellezza: una bellezza e una bontà che possiamo benissimo non riuscire a definire, ma che sentiamo come contenuto della nostra ragione per la decisione più grave in cui essa è implicata, cioè la fede, perché la fede nasce come riconoscimento della ragione. [...] Lo stupore è la parola che spiega tutto quello che noi diciamo dell’inizio della fede. Il gesto della fede si è enucleato, è sorto ed è stato vissuto in Giovanni e Andrea per una Presenza. Era una Presenza suggestiva, una Presenza che colpiva, una Presenza che stupiva: ‘Ma tu come fai ad essere così?’.

Dalla fede come riconoscimento della Sua Presenza nasce un cambiamento dell’io altrimenti impossibile. È dall’estetica che nasce l’etica (mai viceversa!), come in Gv  il miracolo del “sì” di Pietro, che ha tradito, ma che si lascia afferrare nuovamente e totalmente dall’attrattiva di Cristo Risorto. Se non è così l’adesione alla morale, a quel che dice la Chiesa come morale, non è persuasiva, perché non è valida proposizione alla natura dell’uomo. Possiamo così affermare che il destino della bellezza è la bellezza del Destino presente, Cristo. La bellezza di Cristo, che si è lasciato sfigurare dall’uomo fino alla morte ed è risorto per vincere il limite e l’ombra di morte presente in ogni cosa. Cristo Risorto libera la bellezza del mondo e nel mondo dalla menzogna e dalla prigione di uno sguardo carico di misura. Nell’incontro con Lui, contemporaneo nella vita della Chiesa, nel rimanere in Lui, consistenza di tutte le cose (Col ), è possibile 

L. Giussani, L’uomo e il suo destino. In cammino, Marietti , Genova-Milano , pp.  sg.  «Nella passione di Cristo l’estetica greca, così degna di ammirazione per il suo presentito contatto con il divino, che pur le resta indicibile, non viene rimossa, bensì superata. L’esperienza del bello ha ricevuto una nuova profondità, un nuovo realismo. Colui che è la Bellezza stessa si è lasciata colpire in volto, sputare addosso, incoronare di spine. [...] Ma proprio in questo volto così sfigurato appare l’autentica estrema bellezza: la bellezza dell’amore che arriva ‘sino alla fine’ e che, appunto in questo, si rivela più forte della menzogna e della violenza» (Ratzinger, La bellezza, cit., p. ).

La bellezza come superamento del dualismo moderno

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quello sguardo nuovo che vede e ama ogni cosa per il suo Destino e quella novità di vita che, attraverso la testimonianza dei cristiani, diventa riverbero della attrattiva di Cristo, anche là dove la desolazione sembra vincere e la verità e il bene restare nascosti e oltraggiati. Scoprire la bellezza di Cristo Signore attraverso la via della bellezza liberata da Lui e offerta nella Sua verità e bontà al nostro sguardo desideroso, la bellezza dell’arte, della musica, della letteratura, del cosmo e delle scoperte della scienza...: è questo il compito dell’annuncio e della passione educativa cristiana, che brucia ogni incomprensione e vibra dentro alla ferita della divisione. Cosicché guardando alla bellezza del Suo Volto e partecipando alla Sua vita di Risorto nella vita della Chiesa possiamo rispondere, insieme, con prontezza ed entusiasmo davanti agli uomini, in questi tempi così drammatici e travagliati, quello che nel Dialogo dell’Anticristo di Solov’ëv lo starets Giovanni ha risposto, con dolcezza, all’imperatore: «Quello che abbiamo di più caro è Cristo stesso. Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui, giacché noi sappiamo che in Lui dimora corporalmente tutta la pienezza della Divinità».

Aleksandr Saltykov*

Il concetto di bellezza nella cosmologia biblica

La bellezza, sostanzialmente, nel cristianesimo è Dio stesso. Egli è al di sopra della bellezza, ma è la fonte di ogni bellezza, e questo non ha bisogno di precisazioni. La cosmologia nell’Antico Testamento viene formulata in primo luogo nel libro della Genesi, oltre che in una serie di altri libri; ma vedremo anche che cosa ci dice in proposito il Nuovo Testamento, e considereremo inoltre il problema alla luce delle opere dei Padri della Chiesa. Gli antichi autori cristiani esaminano la dottrina biblica della creazione del mondo dal punto di vista delle concezioni spirituali cristiane, rifacendosi anche alle posizioni della filosofia naturale antica e al metodo artistico loro contemporaneo. Le concezioni che il mondo antico aveva dell’armonia, intesa come proporzionalità, come ritmo, corrispondono perfettamente alla dottrina biblica della creazione del mondo esposta nel racconto dei sei giorni della creazione e in altri testi scritturistici. Dio crea ogni cosa conferendole «una misura, un peso e una cifra». Tutto il mondo antico conosceva la creatività innanzitutto come forma artistica che recava in se stessa il verbo del Creatore. L’universo è un’opera d’arte. Dio crea il mondo come supremo Artista. In questo processo Dio si svela come Persona, come Archetipo degli esseri che il pensiero divino concepisce a propria immagine e somiglianza. Ogni artista, creando una statua o un quadro, un’opera letteraria o un edificio, infonde alla materia la parola, e la materia prende vita, si trasfigura, acquista un significato particolare, talvolta sublime e universale. Proprio così viene descritta nella Sacra Scrittura la creazione del mondo. Qui, nello svelarsi della figura del Dio Artista si manifesta una straordinaria semplicità insieme a un’altrettanto straordinaria profondi* Università Ortodossa Umanistica San Tichon, Mosca.

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Aleksandr Saltykov

tà. Già nel II secolo Melitone di Sardi e Atenagora parlavano di Dio proprio nei termini di un Artista. Nelle opere dei santi Basilio il Grande, Giovanni Crisostomo, Gregorio di Nazianzo, Gregorio di Nissa, Agostino e altri Padri, Dio viene concordemente denominato un Artista che crea il mondo come un’opera d’arte. I Padri paragonano il Dio Creatore a un architetto, a uno scultore, a un pittore, a un orefice, a uno scalpellino, a un vasaio che modella la creta, e pensano alla sua opera in maniera analoga alle opere d’arte umane. In questo senso, essi sono eredi della cultura greca classica, che considera l’universo come un’opera d’arte, ma in essi questa concezione viene trasfigurata attraverso l’esperienza spirituale cristiana. Ad esempio, san Metodio di Patara (III secolo), in molti passi delle sue opere paragona Dio a un artista che crea, alla stregua di un «mirabile pittore», «dagli elementi, o dalla materia, o dalla terra», che «esprime con molte tinte un’unica idea», o a uno scultore che modella una splendida statua, o ancora a un architetto, che ha preparato per l’uomo «questo mondo come dimora di straordinaria bellezza e con le sue mani ha formato [l’uomo], come splendida scultura all’interno di un sontuoso tempio». Qui osserviamo anche l’idea di universo come «sontuoso tempio». Le affermazioni di questo genere sono molte. Partendo di qui e seguendo le orme degli antichi Padri, possiamo arditamente applicare al creato gli stessi criteri che adottiamo per le opere d’arte. Accostandoci al racconto biblico da questa prospettiva, apprendiamo dal testo che Dio, volendo creare il mondo, prima di tutto «preparò il materiale». Come indica il testo, la terra creata il Primo giorno, in principio, insieme al cielo, era «informe e deserta», si trattava cioè di una massa informe di terra (potremmo dire, di argilla), pronta per essere lavorata creativamente. Oltre alla terraferma, venne preparata anche l’acqua. L’acqua è indispensabile per lavorare creativamente il materiale, poiché senza di essa è impossibile modellare la forma o stendere i colori. Così fa ogni artista dai tempi più remoti ad oggi. Preparato il materiale, il Signore Iddio accende la luce, poiché anche la luce è una condizione necessaria della creatività, e questo avviene anche il Primo giorno. Ora tutto è pronto per realizzare il disegno divino. A questo punto, nei giorni seguenti il Signore «rifinisce» la forma complessiva e i singoli elementi, e li riunisce insieme secondo il disegno ultimo della propria creazione.

Il concetto di bellezza nella cosmologia biblica



La creazione viene suddivisa in sei segmenti temporali che vengono chiamati giorni, quando c’è la luce («Dio chiamò la luce giorno»), e separati dalla notte, quando invece la luce non c’è («Dio chiamò le tenebre notte»). Il numero è il principio dell’ordine. La suddivisione della creazione in un numero determinato di giorni significa che la creazione non avvenne in maniera caotica, casuale, ma secondo un ordine ben preciso e un ritmo rigorosamente stabilito. Il numero “sei” può avere una simbologia ben determinata, essendo la combinazione dei numeri due e tre. Anche il numero “sette” può essere considerato un numero simbolico della pienezza. La luce ha un gran numero di profondi significati, ma ora ci interessa un solo semplice significato: senza luce è impossibile realizzare qualsiasi disegno. E va osservato che proprio la luce suddivide la creazione dell’opera del Divino Artista in due fasi. La prima fase è la creazione delle fondamenta dell’universo. Se il Primo giorno è quello preparatorio, il Secondo e il Terzo giorno sono già dei momenti di attiva realizzazione del disegno. Qui il Divino Artista crea le forme generali della propria opera. Delinea le zone superiori e inferiori, separa la terraferma dalle acque secondo diversi livelli, e le acque «che sono sotto il firmamento» e «che sono sopra il firmamento» ricevono diverse destinazioni e caratteristiche; riveste la zona inferiore della forma plastica e ricca dell’asciutto e dei mari, e inoltre decora l’asciutto con una fitta e pluriforme ornamentazione di motivi vegetali – erbe ed alberi. È innegabile l’eleganza di tale disegno. La sostanza solida si estende sul fondamento sottostante come una tenda, e gli antichi Padri (Efrem Siro e altri ancora) la paragonano all’Arca dell’alleanza. La sostanza solida è l’universo materiale osservabile dalla terra in tutte le direzioni, che avvolge cioè l’intero globo terrestre. Si conclude qui la prima fase della realizzazione del progetto divino sul creato. La seconda fase riguarda la creazione degli esseri animati, dotati di una struttura sempre più raffinata: siamo al Quinto e Sesto giorno, e al successivo, il Settimo giorno, un giorno particolare e prettamente “divino”, in cui il Creatore, lasciando a reggere e governare l’universo la creatura che aveva fatto a propria immagine e somiglianza, cioè l’uomo, «cessò da ogni suo lavoro». Tra queste due fasi si situa il Quarto giorno, in cui vengono creati gli astri: il firmamento con stelle grandi e piccole, di diversa energia, che forniscono quindi una diversa illuminazione, se-

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Aleksandr Saltykov

condo le esigenze degli esseri animati più evoluti. Come l’originaria accensione della luce il Primo giorno era stata la premessa indispensabile per realizzare l’intero disegno, così la sua successiva suddivisione in astri il Quarto giorno è un meccanismo organicamente necessario per poter “riversare” la luce su tutti i pluriformi esseri animati. Inoltre, la creazione del Quarto giorno stabilisce una sorta di necessaria simmetria nella sequenza settimanale. Il Signore ci appare qui non solo come pittore e scultore, ma anche come architetto. Su Dio come architetto esiste una messe sterminata di scritti. Prendiamo in considerazione il pensiero di san Giovanni Crisostomo, secondo il quale, se gli architetti terreni costruiscono su fondamenta terrene, l’architetto celeste comincia dall’alto, dal tetto. Così, dopo aver organizzato innanzitutto il cielo, Dio crea l’architettonica dell’essere cosmico, sulle basi di un’armonia in cui il valore principale appartiene alla simmetria e al ritmo. Poiché la creazione si compie secondo un processo ascendente che culmina, come abbiamo già osservato, nella creazione dell’uomo a immagine e somiglianza di Dio, essa ha sempre i tratti e i segni dell’idealità. Non è da Dio commettere errori. La creazione della creatura a immagine e somiglianza di Dio avviene quando tutto è ormai pronto perché l’uomo possa essere degnamente accolto e possa vivere nel contesto di un «tempio che ha le dimensioni del mondo». Nel disegno divino l’universo è un tempio divino, che esiste in qualche modo sotto la guida e il governo dell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio, e che il Signore, dalle misteriose altezze celesti, visita quando vuole. La parte principale del tempio è il Paradiso a oriente, dove è insediato l’uomo. Simbolicamente il Paradiso corrisponde alla zona del presbiterio del tempio ortodosso, che dal VI secolo circa è solitamente rivolto a oriente. L’uomo è l’icona vivente di Dio, collocata nel Paradiso, cioè nel presbiterio del tempio. Nel presbiterio si trova l’altare, che corrisponde all’Albero della vita nell’Eden. Il firmamento stellato corrisponde alla cupola con i lampadari. Il fiume che scaturisce dal Paradiso disseta tutta la terra, ma l’acqua del Paradiso è un’acqua santa, e in questo modo l’universo, unito al Paradiso, ne viene santificato. Il nitore e l’armonia del disegno divino sono descritti in maniera meravigliosa come Sapienza Divina nell’ottavo capitolo dei Proverbi di Salomone, ed è indispensabile rifarsi a questo testo per comprendere la

Il concetto di bellezza nella cosmologia biblica

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creazione divina. Ricordiamo brevemente questo testo, in cui è la Sapienza stessa a parlare: Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. [...] Quando egli fissava i cieli, [...] quando tracciava un cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra [...] io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre...

Il principio della creatività, dell’armonia, la pienezza di gioia e di vita sono dunque l’elemento principale nella creazione. «E Dio vide che era cosa buona... Ogni volta, ad ogni nuovo passo della creazione, si dice che Dio guardò e vide che quanto aveva creato era cosa buona. A che scopo si dice questo? Dio qui si presenta ancora una volta come l’Archetipo della personalità creativa, come un artista che non può non contemplare, non può non meditare sulla propria opera, perché la ama. La creatività è inscindibile dall’amore. Questo è evidente a chiunque crei qualcosa, e non solo in campo artistico ma anche in qualunque altra sfera che esiga creatività. Ma in Dio questa unione di amore e creatività raggiunge la pienezza assoluta. E Dio non ha bisogno di una verifica critica di sé, che è invece propria dell’uomo che cerca di migliorare la propria opera. La formula «E Dio vide che era cosa buona», che si ripete otto volte, è a parer mio una sottolineatura fatta dall’autore del testo biblico per testimoniare la pienezza dell’amore divino nei confronti delle sue creature, che rispondono al Creatore con un coro unanime di lode e rendimento di grazie. Dio crea così una complessa, poliedrica composizione, che possiede una perfezione estetica nel senso pieno della parola, nella forma di un tempio gremito di creature che innalzano incessantemente lodi al loro Creatore. La bellezza viene indicata come essenza del creato anche dal Nuovo Testamento. Qui non esiste una particolare cosmologia, poiché essa è già espressa nell’Antico Testamento, in primo luogo nella Genesi; nel Nuovo Testamento mancano inoltre particolari riflessioni estetiche. E, tuttavia, per noi proprio il Nuovo Testamento è fonte dell’autentica comprensione di tutto e vi rinveniamo le basi di ogni sistema di pensie-

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Aleksandr Saltykov

ro. Indubbiamente, la sacra Scrittura è caratterizzata da una concezione estetico-artistica del creato e il Nuovo Testamento offre a questo scopo alcuni brevi postulati, più che sufficienti. Il testo più importante del Nuovo Testamento per la comprensione estetica dell’universo è a parer mio il passo di Mt 6 (cfr. anche Lc 12), sui gigli del campo: «Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno…». Queste parole si collocano nel contesto del discorso di Cristo sulla provvidenza divina nei confronti delle necessità umane, ma come in molti altri testi il senso è plurisemantico, racchiude anche un aspetto estetico che è quello che ci interessa in questa sede. Il Nuovo Testamento stabilisce qui due livelli di bellezza: il livello dell’erba del campo e il livello della gloria di Salomone. Bisogna tener presente che qui si parla appunto dei gigli di campo, e non di fiori coltivati. Il giglio di campo è un fiorellino modesto, poco appariscente, con tre petali. È un’erba ordinaria, eppure lo stesso Salomone, il sovrano più sapiente, che viene qui ricordato come la quintessenza della grandezza umana, in tutta la sua gloria, cioè in tutta la grandezza e splendore della sua regale magnificenza (che sottintende anche una perfezione estetica), non può paragonarsi nelle sue vesti a questa semplice, insignificante pianticella. Le vesti di Salomone stanno qui ad indicare il culmine degli sforzi creativi umani, perché agli abiti regali, segno della suprema carica terrena, concorre il lavoro di tessitura dell’intero regno. Qui si stabilisce quindi la differenza fra la creatività divina e quella umana, e ciascuno degli innumerevoli fili d’erba creati da Dio, che gli uomini finiscono per gettare nel forno, supera ogni possibile gloria umana. Nasce tuttavia un interrogativo: che cos’è la bellezza dell’erba del campo, di cui non ci accorgiamo e che distruggiamo tranquillamente? Dov’è e in che cosa consiste? A una certa difficoltà di comprensione di questo accenna lo stesso Salvatore con la sottolineatura: «Eppure io vi dico», cioè vi parlo di una cosa che voi stentate a capire. Come esempio della bellezza della creatività divina avrebbe potuto citare gli splendidi quadri, ad esempio, del cielo stellato, dei monti e del mare, del sorgere e del tramonto del sole e così via, che soggiogano l’animo di ogni uomo; ma il Salvatore si limita all’esempio dell’erba del campo. Solo pochissi-

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mi sanno apprezzare degnamente questa bellezza, ed è indubbio che qui la comprensione del bello sia strettamente legata a un atteggiamento generale nei confronti della vita e del suo assetto. Il giglio di campo è bello perché è bella la vita semplice, senza artifici, senza lussi e tentazioni, tesa solo e unicamente a realizzare la propria vocazione, nella piena sottomissione al Disegno divino. Non preoccupatevi per voi stessi! Questa, in linea di principio, è la direttiva estetica fondamentale del Nuovo Testamento. Nascono anche altri interrogativi. Che cosa significa questo «vestire» l’erba, citato ben due volte? Le parole solitamente semplici del Vangelo non solo hanno una polivalenza, ma ci parlano di concetti profondi e complessi. Bisogna osservare che nella Sacra Scrittura il concetto di veste ha un importante significato simbolico. Certo, la “veste” è qualcosa di esteriore, come dice qui lo stesso Salvatore. Se l’abbigliamento regale indica e distingue Salomone o un altro sovrano come una persona particolare, e se perfino il Signore «si veste di luce come di un manto» e misteriosamente si rivela attraverso questa Luce divina ad alcuni eletti, che cosa significa la singolare bellezza della veste di ogni filo d’erba? Con questa espressione, il Salvatore non vuol forse indicare l’essenza, la “parola interiore” presente in ogni singolo filo d’erba? I Padri della Chiesa, formatisi sulla filosofia greca, condividevano questa opinione, ravvisando in ogni cosa un proprio logos. È evidente, nel testo evangelico, che tutto ciò che è stato creato da Dio ha una propria “veste”. Nelle parabole precedenti, Gesù Cristo ricorda gli «uccelli del cielo» (in Lc 12, 25 si dice: «guardate i corvi»). Estendendo le parole del Salvatore a tutte le creature, constatiamo che gli uccelli in generale e le singole specie, ad esempio i corvi, hanno una propria “veste”, e quindi una propria essenza. Tuttavia, la bellezza della “veste” posseduta da ogni cosa è legata alla bellezza interiore del suo logos, e proprio per questo «ogni stella differisce da un’altra nello splendore» (1 Cor 15, 41). Esiste una gerarchia di bellezza in questo insegnamento evangelico? Mi sembra che debba certamente esistere, a seconda dell’essenza delle singole creature. Qui dobbiamo ormai volgerci direttamente al racconto dei sei giorni della creazione. L’erba viene creata il Terzo giorno, e gli uccelli il Quinto. Gli uccelli sono esseri di livello superiore, per questo le loro “vesti” sono più ricche, varie, multiformi. Qui vediamo che la

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Aleksandr Saltykov

dottrina biblica della creazione del mondo non ci testimonia soltanto un graduale passaggio dal semplice al complesso, ma anche un cammino verso una bellezza sempre maggiore, a partire dalla «materia informe e deserta» fino all’uomo, in quanto immagine e somiglianza di Dio, e all’Eden, in quanto bellezza suprema del mondo materiale. Il Nuovo Testamento ci offre anche un altro, supremo livello di bellezza, quando parla della Bellezza divina stessa, la fonte di ogni bellezza, che si rivela sul Tabor. «Il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce». Pietro cominciò a parlare e «stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra...» (Mt 7). Udendo la voce, i discepoli si spaventarono. È questo il livello di bellezza che con ogni evidenza si rivelò già all’inizio della creazione, e di cui si indica che tutto ciò che entra in contatto con Dio si trasforma in luce. Come le vesti di Cristo, tessute da mani umane, divennero come luce, così anche tutti gli esseri usciti dalle mani di Dio dovevano essere luminosi. Ma Dio stabilì la “notte”, parola che diede il nome all’oscurità che separava i periodi della creazione e creava l’effetto di una pausa. Una forma realmente armoniosa non tollera confusione. In ogni successivo, nuovo giorno, la nuova creazione avveniva nella luce. Bisogna osservare inoltre che il Quinto giorno appare il suono, perché solo gli esseri viventi emettono suoni organizzati e armoniosi. Il suono è una nuova qualità dell’essere, appartenente in primo luogo agli uccelli che volano in cielo. Gli uccelli sono sovente metafore degli angeli. Nella Sacra Scrittura non si parla del suono, così come non si parla di molte altre cose, ma il suono è sottinteso, e per noi questo riveste particolare interesse. Se san Gregorio di Nazianzo paragona il mondo appena creato al suono di una cetra, e questo vale innanzitutto per il creato a partire dal Quinto giorno, anche questo suono, secondo il significato dell’intero racconto biblico, è «cosa buona». Questa gerarchia del creato trova il suo compimento nella creazione del Paradiso terrestre, luogo di luce designato a fungere da dimora degli uomini e particolarmente colmo della presenza divina. Il Paradiso terrestre si identifica, infatti, con la sommità del monte Tabor nell’istante della Trasfigurazione. Questo non significa forse che in ogni filo d’erba e in ogni creatura, nel suo senso interiore, nel suo logos, dimora, come pegno dell’amore divino, la luce increata inesprimibile e per noi inconoscibile?

Il concetto di bellezza nella cosmologia biblica

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La condizione di innocenza e di armonia dell’universo venne distrutta dal peccato. L’uomo, in quanto immagine e somiglianza di Dio, aveva già cominciato a collaborare con il suo Creatore e Archetipo: aveva dato il nome agli animali, e questo fu il primo atto creativo dell’uomo, che determinò la sua signoria su di essi. Tuttavia, per continuare a elevarsi, egli doveva superare la prova della libertà. Senza questa prova l’uomo non poteva affermare la propria somiglianza a Dio. Ma l’uomo non la superò. L’essenza della prova stava nell’“io” umano. Prima del peccato originale la con-formità e somiglianza a Dio dominavano nell’uomo, in tutte le sue caratteristiche, formando il suo principio personale. La somiglianza a Dio è indubbiamente una condizione di piena armonia della persona. L’uomo possedeva l’amore e la sapienza a somiglianza di Dio. Per questo, pur essendo creatura terrena, in quanto immagine e somiglianza di Dio l’uomo era spiritualmente indivisibile da Dio. Gli antichi Padri chiamano ripetutamente l’uomo appena creato «angelo terreno». Bisogna riconoscere, quindi, che l’aver gustato del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male mutò radicalmente la natura sia fisica che spirituale dell’uomo e influì su tutto l’universo. Il frutto dell’albero dava apparentemente la conoscenza e la bellezza a cui aspiravano i primi uomini, come in seguito vi avrebbero aspirato anche i loro discendenti. La motivazione del mangiare il frutto proibito fu il desiderio di non limitarsi ad essere simili a Dio, ma di diventare pari a Lui. Quest’idea evidentemente folle si manifestò ad un tratto, suggerita dal diavolo che era stato cacciato dal cielo a motivo della sua volontà di porre il proprio trono al di sopra dell’Altissimo. Il diavolo non fece altro che suggerire agli uomini il gesto in cui lui stesso aveva subito una sconfitta. Gli uomini gustarono del frutto proibito: secondo il testo, la donna lo colse e ne mangiò, e lo diede al marito che a sua volta ne mangiò. Viene descritto un processo di assunzione di cibo che la tradizione ci insegna a intendere in senso letterale, senza alcun allegorismo, sebbene per noi sia difficile comprendere come sia possibile mangiare fisicamente un frutto in cui si mescolano bene e male. Evidentemente, la natura dei primi uomini contemplava questa possibilità. Il frutto penetrò dunque dentro di loro, sia nell’anima che nel corpo. E poiché esso conteneva in qualche modo in sé i principi opposti e inconciliabili del bene e del male, anche nell’anima e nel corpo degli uomini doveva necessaria-

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mente iniziare un processo mortale di lotta tra bene e male. Il frutto era un veleno nel pieno senso della parola. Per questo, è perfettamente comprensibile come essi d’un tratto scoprissero la propria nudità come condizione di imperfezione, di decadenza, di vuoto interiore, di insoddisfazione, di inquietudine e così via. Prima di allora essi erano rivestiti, come dice san Giovanni Crisostomo, delle vesti della gloria divina, che ora li abbandonava. Gli uomini, che ormai avevano perso la pace, si misero a fabbricarsi vesti con foglie di fico: ormai avevano assunto un altro atteggiamento nei confronti della natura, diverso da quello precedente, un atteggiamento di sfruttatori. Gli uomini furono cacciati dal Paradiso e ricevettero vesti di pelle d’animale, in conformità al mondo, in cui i «cieli sono come una pelle» , cioè in conformità alla materialità del cosmo. Ma essi avevano dentro di sé il frutto della conoscenza del bene e del male. Lo testimonia lo stesso Signore Gesù Cristo, quando dice che dal cuore escono pensieri buoni ma anche pensieri malvagi. Il cuore dell’uomo diventa il luogo dove si mescolano insieme bene e male. Tra essi si svolge una lotta consapevole o inconsapevole, e nelle opere umane compaiono frutti di una bellezza eterogenea, dove possono prevalere sia il bene sia anche il male. Ma che cos’è la natura? Originariamente l’uomo era stato chiamato a coltivare l’Eden e a trasformare tutta la terra in paradiso. L’uomo aveva già cominciato a lavorare in questa direzione e aveva dato il nome agli animali, ma non fece in tempo a fare altro. Noi siamo costretti a riconoscere che l’imperfetta mescolanza di bene e di male, e di conseguenza l’avvizzimento dell’autentica bellezza, si sono estesi a tutta la terra, secondo le parole di Dio: «Maledetto il suolo per causa tua». Il lavoro ingrato, intriso di sudore, diviene la vita stessa dell’uomo, dopo il peccato originale, e di qui, come conseguenza, «la maledizione divora la terra» (Is 24, 6). L’uomo è indivisibile dalla terra, ora maledetta, a cui egli ritorna nella morte secondo la parola di Dio: «Polvere tu sei e in povere ritornerai!». Ma tutta la creazione, come testimonia san Paolo, soffre e patisce per colpa dell’uomo. Sofferenza e patimento, in sé, è chiaro, sono una mostruosità, mentre la sofferenza accettata come sacrificio diventa bellezza. Ma la natura non ha la libertà di riflettere. Poiché la colpa dell’uomo consiste nell’aver gustato dell’albero della conoscenza del bene e del male, e poiché l’uomo è unito alla terra che genera ogni creatura, e la terra non comprende solo il nostro pianeta ma anche tutto l’universo materiale, la

Il concetto di bellezza nella cosmologia biblica

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sofferenza si è estesa alla terra e a tutte le creature da essa generate. Sebbene l’essenza delle creature sia rimasta quella di prima, il male attualizzato nella sofferenza dell’intero creato si rispecchia anche nella presenza della non-bellezza, della mostrusità che da questo momento si palesa in abbondanza nell’universo. Il livello della perfezione si è abbassato fino a un livello per noi ora inconcepibile. Se consideriamo la situazione dal punto di vista della perfezione originaria, vediamo che il Cosmo come tale, come unità ordinata di tutto il creato, ha acquisito la sofferenza e per questo ha perso l’armonia e la bellezza che possedeva prima che l’uomo fosse asservito dal peccato. Se il filo d’erba, che è vestito più splendidamente di Salomone in tutta la sua gloria, perisce quotidianamente nel fuoco perché viene gettato nel forno, questo non ci ricorda che alla fine tutta la terra e le sue opere bruceranno nel fuoco come legna marcia, come una moneta consumata, come un oggetto rovinato e ormai inservibile?

Tat’jana Kasatkina*

Il mondo lo salverà la bellezza

Per affrontare il tema evocato da questa celebre frase tratta dal romanzo L’idiota, parto dall’analisi di una citazione, anch’essa molto nota, dai Fratelli Karamazov, che è incentrata proprio sulla bellezza Infatti – a differenza della frase di Vladimir Solov’ëv – la frase di Dostoevskij posta a titolo del mio intervento non tratta innanzitutto della bellezza ma della salvezza del mondo. Ecco, invece, quello che afferma Dostoevskij nei Fratelli Karamazov quando parla direttamente della bellezza: La bellezza è una cosa spaventosa e terribile! Spaventosa perché indefinibile, e non la si può definire perché Dio ha posto soltanto degli enigmi. Qui è dove tutte le rive convergono, dove convivono tutte le contraddizioni. Io, fratello, sono molto ignorante ma ci ho pensato a lungo. C’è una quantità spaventosa di misteri! L’uomo sulla terra è oppresso dai troppi enigmi! Risolvili, se ne sei capace, e uscirai asciutto dall’acqua. La bellezza! Io poi non riesco affatto a sopportare che un uomo, perfino superiore quanto a cuore e di grande intelligenza, parta dall’ideale della Madonna per finire con l’ideale di Sodoma. E mi fa ancor più spavento chi ha già nell’animo l’ideale di Sodoma eppur non nega quello della Madonna per il quale il suo cuore arde, e arde davvero, veramente, come negli anni innocenti della giovinezza. No, è vasto l’uomo, fin troppo vasto, io lo restringerei. Lo sa il diavolo che cos’è, infine! Quello che alla mente pare una vergogna, per il cuore è tutta bellezza. Forse che la bellezza si trovi a Sodoma? Credimi, per la stragrande maggioranza degli uomini la bellezza è rinchiusa proprio a Sodoma. Eri al corrente di questo mistero o no? Ciò che è terribile è che la bellezza non è solo spaventosa, ma anche misteriosa. Qui il diavolo lotta con Dio e il campo di battaglia è il cuore dell’uomo. E peraltro, la lingua batte dove il dente duole. * Presidente della Commissione per lo studio dell’opera di F.M. Dostoevskij presso l’istituto di Letteratura Mondiale dell’Accademia Russa delle Scienze.  F.M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, parte I, libro II.

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Occorre notare che Dostoevskij ha sempre scritto la parola Sodoma con la maiuscola – siamo nel campo dei problemi di testologia – e questo non è rispettato, ad esempio, nell’edizione integrale delle sue opere in  volumi. È un dettaglio fondamentale perché, iniziando a scriverla con la minuscola, finiamo subito per comprenderla in senso metaforico, mentre per Dostoevskij, come sempre, non c’è alcuna metafora. Quasi tutti i filosofi russi che hanno analizzato il brano in questione si sono arroccati sulla convinzione che il personaggio di Dostoevskij stia parlando di due tipi di bellezza. E alla stessa conclusione giunge l’autore di un recentissimo studio, che afferma: «In queste riflessioni Dmitrij contrappone due tipi di bellezza: l’ideale della Madonna e l’ideale di sodoma». Si sostiene, quindi, che Dostoevskij parli della bellezza e della sua imitazione – della sua falsificazione – e che lo faccia (operazione molto spesso attribuita allo scrittore) prendendo in prestito la voce del suo personaggio; che si riferisca alla donna vestita di sole e alla meretrice che cavalca la bestia, e così via. Di fatto, allo scopo di spiegare il testo, sono state identificate e, sostanzialmente, applicate al testo stesso delle coppie (apparentemente analogiche) di metafore. E anche il testo in sé è stato ridotto a un susseguirsi di metafore, poiché i filosofi si sono avventurati nella sua interpretazione senza prima sottoporla a una vera lettura, cioè a quell’analisi filologica che deve necessariamente precedere l’analisi filosofica, ogniqualvolta si tratti di svolgere una riflessione di carattere filosofico su un testo letterario. Hanno inteso che si stesse parlando di qualcosa che già conoscevano. Questo testo, invece, richiede una lettura precisa, matematica, e, se lo leggiamo così, capiamo che Dostoevskij con le parole del suo eroe sta dicendo una cosa assolutamente diversa dalle disquisizioni dei filosofi.  E. Novikova, «Mir spaset krasota» F.M. Dostoevskogo i russkaja religioznaja filosofija konca XIX - pervoj treti XX vv. («Il mondo lo salverà la bellezza» di Dostoevskij e la filosofia religiosa russa fine XIX - inizio XX sec.), in T.A. Kasatkina (a cura di), Dostoevskij i XX vek v  tomach (Dostoevskij e il XX secolo in  tomi), Mosca , t. , pp. -.  Ju.A. Romanov, Fenomen krasoty v interpretacii Dmitrija Karavazova (Il fenomeno della bellezza nell’interpretazione di Dmitrij Karamazov), in Dostoevskij i sovremennost’. Materialy XXIV Mežnarodnych Starorusskich cˇ tenij  goda (Dostoevskij e la modernità. Materiali dalla XXIV Conferenza Internazionale a Staraja Russa, ), Velikij Novgorod , p. .

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Innanzitutto, bisogna notare che la bellezza viene definita dai suoi “antonimi”: è una cosa spaventosa, terribile. Perché spaventosa? Nel testo troviamo la risposta: «Perché è indefinibile» (peraltro, definire una cosa attraverso i suoi antonimi è un modo geniale di sottolinearne l’indefinibilità). La bellezza descritta dal personaggio di Dostoevskij non può essere interpretata allegoricamente come hanno fatto i nostri filosofi. L’unico simbolo adeguato a rappresentarla è la famosa Iside velata: spaventosa e terribile proprio perché non la si può definire. C’è tutto dunque, in questa bellezza; in essa convivono tutte le contraddizioni, le rive opposte convergono, e una tale pienezza dell’essere non è definibile in termini di distinzione, di reciproca opposizione tra due parti di un intero, in termini di bene e male. La bellezza è spaventosa e terribile per il fatto di provenire da un altro mondo, presente, contro ogni speranza, nel mondo a noi dato e manifesto; è una cosa propria del mondo precedente alla caduta del peccato originale, precedente al pensiero analitico e alla percezione del bene e del male. Tuttavia, per qualche ragione gli ideali «di Sodoma» e «della Madonna» di cui parla Dmitrij Karamazov vengono ostinatamente intesi come due tipi di bellezza opposti l’uno all’altro, estrapolati in modo assolutamente incomprensibile da qualcosa che è indefinibile (che, cioè, letteralmente, non ha limiti e, di conseguenza, non è nemmeno soggetto a divisione), da qualcosa che si identifica in una convergenza, in un’unità inscindibile di tutte le contraddizioni, un luogo in cui le contraddizioni coesistono, e cioè smettono di essere contraddizioni... Una simile violazione della logica non si addice affatto a un pensatore rigoroso come Dostoevskij o come – notiamolo – i suoi personaggi: non siamo davanti a due bellezze, definite e contrapposte tra loro, ma a due modalità con cui l’uomo entra in rapporto con l’unica bellezza. Per Dostoevskij l’ideale della Madonna e l’ideale di Sodoma – e di questo troviamo piena conferma nel romanzo stesso – rappresentano due modi di guardare la bellezza, di percepire la bellezza, di desiderarla. L’ideale si trova nell’occhio, nella mente e nel cuore di chi è davanti alla bellezza; essa poi si consegna a chi ha di fronte senza difendersi e con un’abnegazione tale da permettergli di dare alla sua originaria indeterminatezza una forma che corrisponda a quell’ideale. Permette che la si veda nel modo in cui chi le sta davanti è in grado di vederla. Credo che quanto detto non sembri convincente. Siamo troppo abi-

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tuati al fatto che non siano le nostre capacità di percezione a contrapporsi, ma proprio i tipi di bellezza, come ad esempio l’angelo biondo dagli occhi azzurri che si contrappone alla diavolessa dagli occhi infuocati, secondo un immaginario diffuso già dai romantici. Ma se per definire cosa sia l’ideale di Sodoma noi ci rivolgessimo al testo di partenza (che Dostoevskij non nomina mai invano), allora scopriremmo che a Sodoma non si recarono uomini depravati e tentatori, demoni: a Sodoma giunsero gli angeli, ricettacoli e prototipi del Signore, e proprio Loro i sodomiti – l’intera città – bramavano “conoscere”. Persino la Madonna – ricordiamo il Cantico dei Cantici: «terribile come un vessillo di guerra», «avvocato», «muro incrollabile» – non è affatto riconducibile a un solo tipo di bellezza. La sua pienezza, la sua capacità di riunire in sé «tutte le contraddizioni», è messa in luce dal grande numero di soggetti e varianti tipologiche delle icone che raffigurano i diversi aspetti della Sua bellezza. Una bellezza che opera nel mondo e lo trasfigura. L’affermazione di Mitja è estremamente significativa: «Forse che la bellezza si trovi a Sodoma? Credimi, per la stragrande maggioranza degli uomini la bellezza è rinchiusa proprio a Sodoma». Dal punto di vista linguistico, le parole sono scelte con grande cura: la bellezza non si trova, non risiede a Sodoma. E Sodoma non costituisce la bellezza. La bellezza a Sodoma «è rinchiusa» – cioè imprigionata, è tenuta segregata nel carcere di Sodoma dagli sguardi degli uomini. Proprio in questo mistero che Mitja comunica ad Alëša è celato il cuore dell’interesse di Dostoevskij per la figura della santa meretrice. «Tutte le contraddizioni convivono». E la bellezza prigioniera a Sodoma non può assumere alcun altro sembiante. In tutto ciò vi è qualcosa di essenziale. In Dostoevskij la parola Sodoma appare sia in Delitto e castigo che nell’Idiota, nei punti più significativi della storia. Marmeladov la pronuncia descrivendo il luogo in cui abita la sua famiglia – «Proprio una Sodoma, la più orribile, ...mmm... sì» –, come anticipando il racconto 

Ct. , . Pensiamo ad esempio a Sonja e Lizaveta in Delitto e Castigo, o a Sofja nell’Adolescente.  F.M. Dostoevskij, Delitto e castigo, parte I, capitolo II. 

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della prostituzione di Sonja: la trasformazione della vita di Sonja ha origine nel fatto che la sua famiglia dimora a Sodoma. Nel romanzo L’idiota il generale Epancˇ in ripete: «Questa è Sodoma, Sodoma», quando Nastasja Filippovna, per dimostrare al principe che non vale abbastanza per lui, prende per la prima volta i soldi dall’uomo che cerca di comprarla. Ma prima di questa esclamazione il generale aveva già capito dalle parole di Nastasja Filippovna che anche la figlia Aglaja era coinvolta nella compravendita – benché l’avesse solennemente negato all’inizio del romanzo, costringendo il principe a scrivere a Ganja nell’album: «Io non mi presto a mercanteggiamenti». Anche se non è lei l’oggetto del commercio, è con lei che mercanteggiano, e questo segna l’inizio del suo ritrovarsi a Sodoma: «Ma tu, Ganecˇ ka, ti sei fatto sfuggire Aglaja Epancˇ ina, lo sapevi o no? Se tu non avessi mercanteggiato con lei, ti avrebbe senz’altro sposato! Dovreste fare tutti così: frequentare o le donne oneste, o quelle disoneste. Bisogna scegliere altrimenti ci si confonde...». Ma se Nastasja Filippovna cerca di abbassarsi davanti ad Aglaja, questa, nonostante il desiderio di umiliare la rivale, non crede fino in fondo che Nastasja Filippovna le sia inferiore e per questo la considera una rivale. All’inizio entrambe appaiono come oggetti di un commercio, alla fine come oggetti di scelta, e in questa gara in cui, per definizione, non possono esserci vincitori (come possono vincere degli oggetti?) a vincere non sarà certo Aglaja... Durante l’ultima Conferenza studentesca su Dostoevskij, lo scorso aprile, una relatrice ha dato un giudizio significativo su Nastasja Filippovna, affermando che «è depravata perché tutti ne fanno oggetto di mercanteggiamento». Io penso che questo perché sia molto appropriato. La donna che in Dostoevskij è portatrice di bellezza è spaventosa e colpisce proprio per la sua indefinibilità. Nel rapporto con il principe, che non la tratta come una merce, Nastasja Filippovna «non è così», mentre con Rogožin, che la presume tale e la mercanteggia, lei «è proprio così». Nel romanzo questi «è così-non è così» sono le definizioni principali di Nastasja Filippovna – della bellezza incarnata... e dipendoF.M. Dostoevskij, L’idiota, parte I, capitolo XVI. Ivi, parte I, capitolo VII.  Ivi, parte I, capitolo XVI.  Ivi, parte II, capitolo III. 



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no esclusivamente dallo sguardo di chi la osserva. Dobbiamo notare la totale indefinitezza e indefinibilità di queste, cosiddette, definizioni. La bellezza è indifesa davanti a chi la guarda, nel senso che è l’osservatore a stabilire la forma del suo manifestarsi concreto (perché la bellezza non si rende manifesta se non c’è chi la vede). La donna si mostra agli occhi dell’uomo così come questi la vede: «Un uomo può insultare col suo cinismo una prostituta che si vende per poco» – Dostoevskij ne era convinto. Svidrigajlov si accende proprio per la verginità dell’innocente Dunja. Fëdor Pavlovicˇ prova libidine quando vede per la prima volta la sua ultima moglie, simile alla Madonna: «“Allora quegli occhietti innocenti mi avevano trafitto l’anima come una lama”, aveva detto in seguito, con la sua tipica risatina disgustosa». Si capisce dunque perché anche l’ideale della Madonna, se custodito in un’anima soggetta al trionfo dell’ideale di Sodoma, diventi spaventoso: diventa l’oggetto della lussuria per eccellenza. Quando invece l’ideale della Madonna ostacola la passione sensuale, allora esso diventa oggetto di negazione diretta e di scherno. In questo senso la scena, riferita da Fëdor Pavlovicˇ a Alëša e Ivan, acquista un enorme significato simbolico: Ma ecco te lo giuro davanti a Dio, Aleša, io non ho mai offeso la mia piccola strillona! Forse solo una volta, ancora nel primo anno di matrimonio: quanto pregava! Osservava soprattutto le feste della Madonna e allora mi scacciava lontano da sé nello studio. Penso, “adesso le faccio passare questo misticismo!”: «Vedi – le dico – vedi ecco la tua immagine, eccola, guarda, io la tolgo [facciamo attenzione proprio a come parla Fëdor Pavlovicˇ: è come se in quel momento strappasse da Sofja la sua immagine vera, la spogliasse della sua immagine]. Guarda, tu la consideri miracolosa, ma ecco io ci sputo sopra davanti a te e non mi succederà nulla!». Come lei mi vede, “Signore” penso “ora mi uccide”, ma lei balza soltanto in piedi, tira su le braccia e poi all’improvviso si copre il volto con le mani [come cercando di difendere l’immagine profanata], rabbrividisce tutta, cade sul pavimento e si accascia.

È significativo che Fëdor Pavlovicˇ non consideri tali le altre offese, sebbene la storia del suo matrimonio con la moglie Sofja sia letteralmente la storia dell’incarcerazione della bellezza a Sodoma. Per di più qui  

F.M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, parte I, libro I. Ivi, parte I, libro III.

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Dostoevskij mostra come l’incarcerazione esteriore diventi interiore, come dall’oltraggio si generi una malattia che deforma il corpo e l’animo di colei che è portatrice della bellezza. Non avendo ricevuto nessuna rimunerazione, Fëdor Pavlovicˇ non faceva cerimonie con la consorte e, approfittando del fatto che lei era, per così dire, colpevole davanti a lui, e che lui l’aveva quasi tolta dal cappio e approfittando inoltre della sua fenomenale sottomissione, calpestò i più elementari principi del decoro matrimoniale. In casa, proprio sotto gli occhi della moglie, si radunavano donne di facili costumi e si organizzavano orge. [...] In seguito l’infelice giovane donna, tormentata fin dall’infanzia, fu colpita da una qualche malattia nervosa femminile, di quelle che di solito si riscontrano in campagna nel popolino, tra le contadinottte che, a causa di questa malattia, vengono chiamate strillone. Questa malattia le causava terribili crisi isteriche che, alle volte, le facevano perfin perdere l’uso della ragione.

E il primo attacco di questa malattia, come abbiamo visto, si era verificato proprio con la profanazione dell’immagine della Madonna... In forza di quanto detto, non possiamo separare l’incarnazione dell’ideale della Madonna nel romanzo né dalle contadine strillone, che erano considerate indemoniate, né dalla mentecatta Lizaveta Smerdjakova. Non possiamo separarla neanche da Grušenka, «la regina dell’insolenza», la primadonna «infernale» del romanzo, che «un tempo, la notte singhiozzava ricordando il suo offensore, quand’era sottile sottile e aveva sedici anni»... Ma se la storia di Sofja è quella dell’imprigionamento della bellezza a Sodoma, con Grušenka si tratta invece della scarcerazione della bellezza da Sodoma. È significativa l’evoluzione della percezione che Mitja ha di Grušenka, e lo vediamo attraverso gli epiteti e le definizioni usate nei suoi confronti. Inizia col chiamarla carogna e bestia, dice che ha sinuosità da scellerata, che è una tigre, che ucciderla sarebbe poco. In seguito, durante il viaggio a Mokroe, la definisce dolce creatura, regina dell’anima mia (e usa appellativi che, in genere, si riferiscono direttamente alla Madonna). Ma a un certo punto troviamo una espressione di tutt’altro genere, qualcosa di assolutamente fantastico: «fratello Grušen’ka».

 

Ivi, parte I, libro I. Ivi, parte IV, libro XI.

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Ripeto ancora che la bellezza si trova al di fuori di quella regione in cui inizia la distinzione tra bene e male: nella bellezza è presente il mondo ancora indiviso, intero, il mondo prima del peccato originale. E proprio rendendo manifesto questo intatto mondo primordiale, colui che vede la vera bellezza salva il mondo. Nella riflessione di Mitja la bellezza è una, onnipotente e indivisibile, come quel Dio contro cui combatte il diavolo, ma che, a sua volta, non combatte contro di lui: Dio permane, il diavolo attacca; Dio crea e il diavolo cerca di sottrargli il creato. Ma il diavolo stesso non ha mai creato nulla, e questo significa che tutto il creato è bene e che, al massimo, come la bellezza, può essere rinchiuso a Sodoma... Tornando alla citazione tratta dal romanzo L’idiota, notiamo che normalmente noi la ricordiamo in modo un po’ diverso, nella forma in cui la riprese Vladimir Solov’ëv: «La bellezza salverà il mondo». È una trasformazione simile a quella che a cavallo tra i due secoli i filosofi operarono sulla frase «qui il diavolo lotta con Dio» che, come tutti ricordiamo, diventò: «qui il diavolo e Dio lottano», e addirittura «qui Dio lotta col diavolo». Ma Dostoevskij dice precisamente che «il mondo lo salverà la bellezza», e forse la strada più semplice per capire quello che voleva dire è confrontare le due frasi per prendere coscienza della loro diversità. Che cosa comporta a livello di senso l’inversione di tema e rema? Nella frase di Solov’ëv la salvezza del mondo è vista come una proprietà della bellezza. La sua frase ci dice che la bellezza è salvifica. Dostoevskij non dice niente del genere, dice invece che il mondo sarà salvato dalla bellezza, cioè da una delle proprietà immanenti al mondo stesso. La prerogativa della bellezza non è quella di salvare il mondo ma quella di permanere in esso inesorabilmente ed è in questa immanenza inesorabile della bellezza nel mondo che è riposta la sua sola speranza. La bellezza, quindi, non è una forza trionfante che incombe sul mondo con funzione salvifica. No, la bellezza è qualcosa che è già presente nel mondo ed è poi proprio in virtù di questa sua presenza che il mondo sarà salvato.

 V.S. Solov’ëv, Krasota v prirode (La bellezza nella natura), in «Voprocy filosofii i psichologii» (Problemi di filosofia e psicologia), n.  ().  Dostoevskij, L’idiota, parte III, cap. V.

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La bellezza – come Dio – non lotta ma permane, e la salvezza giungerà al mondo attraverso lo sguardo dell’uomo che saprà scorgerla in tutte le cose, che smetterà di rinchiuderla, di imprigionarla a Sodoma. Nei taccuini dei Fratelli Karamazov lo starec Zosima parla di questa permanenza della bellezza nel mondo affermando che «il mondo è un paradiso [e che] le chiavi le abbiamo noi», e ancora che «l’uomo è circondato dal mistero di Dio, dal grande mistero dell’ordine e dell’armonia». Possiamo descrivere l’azione trasfigurante della bellezza in questo modo: quando una persona realizza la bellezza che ha in sé dà come un impulso a che anche gli altri che ha intorno si manifestino nella propria bellezza (è quello che significano le parole di Adelaida a proposito della bellezza di Nastasja Filippovna: «con tale bellezza si può capovolgere il mondo»). L’armonia (l’armonia è il paradiso – il mondo nella sua condizione perfetta – la bellezza del tutto) è allo stesso tempo il risultato e il punto di partenza di questa trasfigurazione reciproca. Se in una persona la bellezza si realizza – conformemente all’idea di bellezza propria della lingua greca che indica validità – significa che quella persona ha trovato il suo posto. Ma quando anche solo un uomo trova il suo posto, si innesca una reazione a catena per cui anche gli altri ritrovano il loro (perché quello che ha trovato il suo posto offre a tutti un’indicazione ulteriore per riconoscere il proprio; come in un puzzle, quando si fissa il posto di un pezzettino diventa molto più semplice procedere per trovare il posto degli altri) e inizia realmente – non simbolicamente – a vedersi l’impetuoso movimento di costruzione del tempio del mondo che si trasfigura. È esattamente quello che affermava Serafino di Sarov: «Salva te stesso e intorno a te si salveranno a migliaia». Sostanzialmente il meccanismo della salvezza del mondo attraverso la bellezza è proprio questo. Perché – ripetiamolo – ognuno è bello quando è al suo posto. Quando si incontrano uomini così si desidera stare con loro e si desidera seguirli. A questo punto si può fare l’errore

 F.M. Dostoevskij, Polnoe sobranie socˇ inenij v  t. (Opera omnia in  voll.), Nauka, Leningrado -, vol. XV, p. .  Ivi, p. .  Dostoevskij, L’idiota, parte I, cap. .

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di cercare di mettersi “sulla loro carreggiata”, mentre l’unica vera possibilità di seguirli è quella di scoprire quale sia la propria. Ma si può sbagliare in modo ancor più radicale. L’impulso dato dalla bellezza di chi ci circonda, di una persona che suscita in noi il desiderio della bellezza e la tensione a raggiungerla, può portare (e purtroppo questo accade molto spesso) non alla scoperta della bellezza in se stessi – alla messa in atto della bellezza da dentro sé e cioè alla propria trasfigurazione – ma al tentativo di appropriarsi dell’immagine esteriore di quella bellezza che si è rivelata in un altro. In questo caso, quella tensione a donare la propria bellezza al mondo – tensione capace di creare armonia nel mondo e nell’uomo – si trasforma in un tentativo egoistico di impossessarsi della bellezza del mondo. E questo porta alla distruzione dell’armonia, all’opposizione e alla lotta. È quello che vediamo accadere nel finale dell’Idiota. Vorrei sottolineare ancora una volta che le cosiddette eroine «infernali» dei romanzi di Dostoevskij non sono strumenti dell’inferno bensì sue prigioniere. E a metterle in un inferno sono coloro che, al posto di dare se stessi in risposta all’inevitabile bellezza che immancabilmente si dona a loro (perché per Dostoevskij la modalità di esistenza della bellezza nel mondo è il dono di sé), cercano di appropriarsene, di imprigionarla, e su questa strada entrano immancabilmente in conflitto con tutti quelli che cercano di fare lo stesso. La scoperta della propria bellezza come risposta a una bellezza che si rivela è un cammino di sovrabbondanza, un cammino sul quale l’uomo diventa una sorgente di grazia per il mondo. Il tentativo di impossessarsi della bellezza di un altro è invece il cammino della miseria, della mancanza, sul quale l’uomo si trasforma in un buco nero che succhia la grazia dall’universo creato. Per Dostoevskij la possibilità di scoprire la propria bellezza dipende dalla disponibilità a dare tutto. Nel Diario di uno scrittore del , infatti, descrive la frattura che caratterizza l’umanità proprio in questi termini: dare tutto porta alla trasfigurazione dell’umano mentre, quando sostiene che «comunque dare tutto non si può», l’uomo si fossilizza in una condizione d’esistenza non trasfigurata. E già molto prima – nelle sue Note invernali su impressioni estive – aveva scritto: Cercate di capirmi: sacrificare se stessi per gli altri, volontariamente, con piena coscienza e senza alcuna imposizione, è, a mio avviso, il segno dello

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sviluppo massimo della persona, della sua massima potenza, del sommo governo di sé, del raggiungimento di una volontà supremamente libera. Dare volontariamente la propria vita per tutti, andare in croce, al rogo, per tutti, è possibile solo al massimo grado di sviluppo della persona. Una persona molto sviluppata, completamente certa del suo diritto di essere persona e che non provi più alcuna paura per se stessa, non può fare nient’altro della sua stessa persona – non può farne cioè altro uso – se non darsi a tutti, affinché anche tutti gli altri possano essere altrettanto retti in se stessi e felici. È una legge della natura: è ciò a cui tende l’uomo normale.

Per Dostoevskij, il principio per cui si costruisce l’armonia e si ristabilisce il paradiso sulla terra non è quello di rinunciare a qualcosa allo scopo di essere confacenti al TUTTO e non è nemmeno quello di conservare il proprio tutto insistendo su una piena affermazione di sé, ma è quello di dare tutto senza condizioni. E allora il TUTTO restituirà alla persona quel tutto che le è proprio e di cui fa parte anche la persona stessa che, per la prima volta, fiorisce completamente proprio in questo donarsi. Notiamo come Dostoevskij descrive il realizzarsi dell’armonia di una nazione: Noi saremo i primi a proclamare al mondo che non vogliamo ottenere la nostra riuscita attraverso l’oppressione delle nazionalità degli altri popoli, ma che, al contrario, vediamo la nostra riuscita solo nello sviluppo sommamente libero e autonomo di tutte le altre nazioni e nell’unità fraterna con loro, un’unità che si completi vicendevolmente con l’innesto in noi di tutte le loro caratteristiche organiche e la consegna di alcuni rami coi quali offriremo loro la nostra anima e il nostro spirito, imparando da loro e insegnando loro, e sarà così finché l’umanità – integratasi della comunione universale dei popoli fino a raggiungere l’unità generale – come un grande meraviglioso albero irradierà di sé una terra felice.

Vorrei sottolineare che questa descrizione, apparentemente poetica, è in realtà molto tecnica. Qui Dostoevskij descrive in modo preciso fino al dettaglio il processo attraverso cui il corpo di Cristo (che è «entrato interamente nell’umanità») si compone nell’unione dei diversi aspetti  Dostoevskij, Polnoe sobranie socˇ inenij v  t. (Opera omnia in  voll.), cit., vol. V, p. .  Ivi, vol. XXV, p. .

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– eterogenei e spesso contrapposti gli uni agli altri – degli uomini e dei popoli. Per altro, sospetto che funzionino così tutte le descrizioni realmente poetiche. Un uomo che abbia realizzato la sua bellezza e sia circondato da persone ancora incompiute – da persone che non sono ancora diventate belle – si troverà inchiodata alla croce della loro imperfezione. È una crocifissione volontaria che si origina nell’impeto in cui si realizza il dono di sé, il dono della propria bellezza. Ma, allo stesso tempo, quell’uomo si troverà anche come rinchiuso in una gabbia a causa dei confini impenetrabili degli altri che pongono un limite al suo donarsi (lui si dona ma loro non sono in grado di accoglierlo), e questo rende la sofferenza della croce insopportabile. Così – con un’iniziale approssimazione – possiamo dire che Dostoevskij ci presenta un processo di trasfigurazione del mondo che è unitario ma composto di due movimenti interdipendenti che si ripetono innumerevoli volte nel corso del processo stesso abbracciando livelli sempre nuovi: la bellezza che si realizza nei singoli membri che compongono una comunione rende possibile l’armonia, e il realizzarsi dell’armonia del tutto rimette in libertà la bellezza stessa.

Marco Rossi*

La bellezza dell’Incarnazione nella pittura medievale in Italia fra tradizione orientale e occidentale

«Noi intendiamo custodire gelosamente intatte tutte le tradizioni della Chiesa, sia scritte che orali. Una di queste riguarda la rappresentazione pittorica di una immagine, in quanto si accordi con il racconto del messaggio evangelico, serva a confermare la vera e non apparente incarnazione del Verbo di Dio e procuri a noi analogo vantaggio». Così fu solennemente proclamato nel settimo Concilio ecumenico Niceno II (), dopo aver ribadito la condanna dell’arianesimo, del nestorianesimo e del monofisismo, nel contesto di un ampio, approfondito e a volte aspro dibattito sulla liceità e il significato delle immagini sacre che ha percorso diversi secoli della storia cristiana. La consapevolezza di fede e unità maturò a Nicea sulla base della convinzione, già espressa da numerosi padri, come Basilio e Giovanni Damasceno, che chi rifiuta le immagini rifiuta il mistero stesso dell’Incarnazione: la controversia iconoclasta non riguardò quindi in ultima istanza il solo ambito artistico, ma il mistero stesso di Dio fatto uomo, l’oikonomía divina. Sarebbe bello e interessante potersi dedicare a una rilettura e a un approfondimento delle sessioni conciliari, ma il nostro intento è quello di verificare direttamente in alcuni esempi pittorici italiani i riflessi – non necessariamente diretti – dell’estetica teologica incentrata sull’Incarnazione maturata a Nicea, ancora dibattuta nelle controversie iconoclaste riesplose nel IX secolo e ulteriormente approfondita anche in Occidente dal pensiero medievale. Prenderemo in considerazione innanzi tutto un importantissimo ciclo bizantino scoperto nel  nella piccola chiesa di Santa Maria foris portas a Castelseprio, in Lombardia vicino a Varese, in un antico * Università Cattolica del Sacro Cuore, Brescia. Atti del Concilio Niceno secondo ecumenico settimo, a cura di P.G. Di Domenico, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano , p.  (VII sessione). 

Marco Rossi

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castrum longobardo, dichiarato nel  dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità: si tratta della più significativa testimonianza di pittura orientale dell’alto medioevo in Europa occidentale, di datazione molto incerta data la vitalità di componenti ellenistiche presenti, il complesso problema della lunga durata di modelli antichi e l’esiguità di confronti possibili, su cui la critica si è scontrata con ipotesi che vanno dal V al X secolo, forse da circoscrivere al IX. Proporremo poi alcuni spunti di riflessione su un successivo momento storico, quando in Italia la pittura di tradizione bizantina viene progressivamente abbandonata da Giotto a favore di un nuovo linguaggio pittorico, che esprime nello stupore di un’eccezionalità umana il mistero divino incarnato. Nell’abside di Santa Maria a Castelseprio (fig. ) sono dipinte le Storie dell’infanzia di Cristo ispirate non solo al racconto dei vangeli canonici, ma anche agli apocrifi Protovangelo di Giacomo e Vangelo dello Pseudo Matteo, lungo due registri sovrapposti a una fascia inferiore, quasi del tutto perduta, con un velario e motivi simbolici di tradizione ancora paleocristiana. Al centro della parete, questa fascia presenta un libro chiuso posato su un trono con ampio drappeggio rosso, in asse con la monofora sovrastante e con una grande immagine clipeata di Cristo, che domina tutta la decorazione attirando lo sguardo del fedele che entra nella chiesa fin dall’aula; di fronte ad essa, sulla controfacciata dell’arcone trionfale, è raffigurato il trono dell’Etimasia pronto per il ritorno finale di Cristo. La grande icona non doveva essere isolata, ma accompagnata da altri due tondi un poco più piccoli, presumibilmente con le immagini di Maria e di Giovanni Battista, secondo l’iconografia della Deesis. Le figure clipeate scandiscono dunque la sequenza delle storie, svolte senza soluzione di continuità, quasi trascrizioni pittoriche di un antico rotulo miniato: lungi da interromperne la sequenza rivelano il disegno divino



Sono in corso importanti indagini scientifiche, a cura della Soprintendenza Archeologica della Lombardia, che consentiranno nuove riflessioni storico-artistiche. Per una puntuale valutazione delle questioni critiche, cfr. M. Andaloro, Castelseprio. Affreschi, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, IV, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma , pp. -.

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annunciato dai profeti – dei quali Giovanni Battista fu l’ultimo e “il più grande” – e realizzato tramite Maria. La generazione profetica e fisica di Gesù prende forma così nelle storie, nella dimensione umana dello spazio e del tempo, partendo dall’Annunciazione in alto a sinistra (fig. ) fino all’Andata a Betlemme (fig. ), per poi proseguire nel secondo registro con la Natività, affiancata sulla controfacciata dell’arcone presbiteriale dall’Adorazione dei Magi e, verso sinistra, dalla Presentazione al Tempio (fig. ). La ricostruzione delle scene successive risulta a questo punto solo ipotetica, essendo andate quasi del tutto perdute. Alcuni studiosi hanno pensato al proseguimento delle storie dell’infanzia di Cristo, mentre altri hanno suggerito una lettura in chiave mariana. Una delle caratteristiche principali del racconto è costituita dalla particolare sottolineatura degli aspetti fisici dell’Incarnazione, con una profonda comprensione della natura umana di Cristo, perfettamente e misteriosamente unita alla sua natura divina, rappresentata dall’asse verticale del ciclo incentrato sull’immagine clipeata del Verbo incarnato: infatti il libro chiuso sul trono rappresenta il Logos prima della Rivelazione; l’icona clipeata di Cristo il “Verbo fatto carne”, profondità ontologicamente misteriosa della natura di Gesù di Nazareth; il trono dell’Etimasia sulla controfacciata dell’arcone presbiteriale l’attesa del compimento definitivo del mistero di Cristo alla fine dei tempi. La sequenza delle storie inizia con l’Annunciazione (fig. , a sinistra): l’arcangelo Gabriele appare improvviso e maestoso a Maria che sta fi-

A. De Capitani D’Arzago, in Santa Maria di Castelseprio, Treccani degli Alfieri, Milano , pp. -, ipotizza, pur formulando altre varianti, che fossero state dipinte la Strage degli Innocenti, la Disputa nel Tempio e il Battesimo di Cristo. P.D. Leveto, The Marian Theme of the Frescoes in S. Maria at Castelseprio, in «The Art Bulletin», LXXII, , pp. -, pensa invece alla Presentazione di Maria al Tempio, forse alla Nascita della Vergine e al Rifiuto delle offerte di Gioacchino, implicando però la necessità di un’inversione di lettura e di un più strano raccordo con l’andamento del racconto e il solido impianto cristologico ora visibile.  Gli studiosi che maggiormente si sono soffermati sugli aspetti iconografici delle singole scene, dopo la puntualissima descrizione di De Capitani D’Arzago (Santa Maria di Castelseprio, cit.), sono stati K. Weitzmann, The Fresco Cycle of S. Maria di Castelseprio, Princeton University Press, Princeton , pp. -; M. Schapiro, nella lunga e importante recensione al suddetto studio, pubblicata in «The Art Bulletin», XXXIV, , pp. -; e Leveto (The Marian Theme, cit.). 

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Fig. . Castelseprio, Santa Maria foris portas, affreschi absidali.

Fig. . Castelseprio, Santa Maria foris portas, Annunciazione e Visitazione.

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Fig. . Castelseprio, Santa Maria foris portas, Andata a Betlemme e Natività.

lando (Prot. Gc. , ), indicando con la mano destra la Trinità divina e la doppia natura di Cristo, e destando profonda meraviglia nell’ancellatestimone. Strettamente collegato, senza soluzione di continuità, è l’episodio della Visitazione (fig. , a destra), inteso a evidenziare la realtà dell’Incarnazione: infatti Elisabetta, abbracciando Maria, con il palmo aperto

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della mano sinistra le tocca il ventre, provando fisicamente l’avvenuto concepimento di Cristo ad opera dello Spirito Santo. Segue, dopo una lacuna che comprendeva un’immagine clipeata, la Prova delle acque amare, ispirata ai racconti apocrifi in funzione del riconoscimento della verginità di Maria (Prot. Gc. ) e adottata nell’arte paleocristiana e bizantina, come attesta la Cattedra di Massimiano a Ravenna. Di grande intensità figurativa, simile all’Annunciazione, è il Sogno di Giuseppe: la mano destra dell’angelo, accompagnata dallo slancio di tutta la sua figura e dalla tensione di uno sguardo intensissimo, penetrante, indica nuovamente la doppia natura di Cristo e conseguentemente la Trinità, in analogia con l’annuncio alla Vergine. Oltre il terzo clipeo, perduto, troviamo l’Andata a Betlemme (Prot. Gc. , -; fig. , in alto), con il profondo realismo del pittore che tocca uno dei suoi vertici nell’immagine dell’asino gravato dal peso di Maria ormai prossima al parto, che purtroppo ha perduto l’intenso colore azzurro del manto. Secondo il racconto apocrifo, diffuso nell’iconografia fra VI e IX secolo, mentre è seduta sull’asino – animale associato in diversi passi biblici al Messia – la Vergine ha la prima diretta rivelazione dell’umanità di Cristo, che le manifesta l’intenzione di nascere. Al di sotto si spalanca una delle scene più aperte e complesse del ciclo, la Natività (fig. , in basso), con Maria distesa di scorcio su un giaciglio di luce. Il Bambino in fasce, al suo fianco, è deposto nella mangiatoia scaldata dall’asino e dal bue, mentre la levatrice EMEA (scritta con la translitterazione latina del termine greco) regge la mano disseccata, con la quale ha voluto provare la verginità di Maria durante il parto, secondo il racconto apocrifo del Protovangelo di Giacomo (, ). Ancora una volta l’accento è posto sulla misteriosa fisicità dell’Incarnazione e quindi sulla doppia natura umana e divina di Cristo. Non casualmente l’episodio, utilizzato soprattutto dalla tradizione iconografica preiconoclasta per sottolineare l’umanità di Cristo e la verginità di Maria, compariva pure nel perduto mosaico dell’oratorio di Giovanni VII in San Pietro in Vaticano e negli affreschi di Santa Maria  M. Bacci, L’iconografia come tradizione apostolica nel pensiero iconodulo: riflessioni sull’Ammonizione di un vecchio (Nouthesía gérontos), in L’VIII secolo: un secolo inquieto, Atti del Convegno internazionale a cura di V. Pace, Comune di Cividale del Friuli, Cividale del Friuli , p. .

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Antiqua commissionati dallo stesso papa di origini greche (-), dove la scena comprendeva, oltre alla nascita con la mangiatoia scaldata dall’asino e dal bue, anche il bagno del Bambino e l’annuncio ai pastori, come a Castelseprio. Un albero fiorito scandisce sull’angolo della parete il passaggio all’Adorazione dei Magi sulla controfacciata dell’arcone presbiteriale: i tre re si protendono con i loro doni verso Gesù in braccio a Maria, seduta in posizione elevata su un rialzo del terreno, che a sua volta si slancia verso di essi, mentre un angelo che scende dal cielo indica chiaramente il neonato. Proseguendo invece verso sinistra sulla parete absidale s’incontra la Presentazione di Gesù al Tempio, con Maria che offre il Bambino al vecchio Simeone, solennemente inchinato e con lo sguardo intensamente concentrato su di Lui, che lo accoglie con una mano velata e l’altra no, forse un’ulteriore sottolineatura iconografica della doppia natura, umana e divina, di Cristo. La straordinaria qualità formale dei dipinti, caratterizzati da freschezza pittorica, arioso senso spaziale, trasparente luminosità, vibrante naturalismo, intensità espressiva e ricchezza teologica, pone il dilemma critico se si tratti di un’espressione di continuità della tradizione ellenistica orientale o di una “rinascita” di essa. Ad esempio, uno dei più importanti studiosi russi di arte bizantina, Viktor Lazarev, scriveva nel  che «negli [stupendi] affreschi di Castelseprio si avverte un vivo spirito classico», intensificato dal «senso acuto della vita interiore», e li collegava a quelli di Santa Maria Antiqua a Roma. Tali affreschi – commissionati ad artisti bizantini dai papi orientali che si succedettero quali vescovi di Roma tra VII e VIII secolo nella prestigiosa chiesa ricavata da un’aula imperiale nel Foro romano ai piedi del Palatino – presentano effettivamente alcune analogie con Castelseprio, come hanno confermato i restauri da poco conclusi. Non si tratta certamente delle stesse maestranze, ma di comuni modelli iconografici e figurativi, di schietto sapore ellenistico, adottati pri

Schapiro, recensione in «The Art Bulletin», cit. (cfr. nota ), p. . Ivi, p. .  V. Lazarev, Gli affreschi di Castelseprio, in « Sibrium », III, /, p. ; Id., Storia della pittura bizantina, Einaudi, Torino , pp. -. 

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ma dell’iconoclastia e ripresi con nuovi arricchimenti nel corso della cosiddetta “rinascenza macedone” (IX-X secolo), come rivela ad esempio lo straordinario codice miniato con le Omelie di san Gregorio Nazianzeno (Paris, Bibl. nat. France, Gr. ), allestito a Costantinopoli per Basilio I intorno all’, una delle opere più vicine agli affreschi di Santa Maria foris portas. Negli Angeli adoranti la Croce della grandiosa decorazione presbiteriale di Santa Maria Antiqua in gran parte perduta, probabilmente commissionata da papa Giovanni VII (-), si ritrovano anticipate non solo alcune pose di figure inclinate di Castelseprio, ma anche alcune tipologie di volti particolarmente belli, memori di un vivo ellenismo. Anche la pittoricità quasi compendiaria della Madre dei Maccabei (probabilmente dell’epoca di papa Martino I, -), realizzata con stesure sovrapposte di colore che lasciano rinvenire la calce e con pennellate aperte, quasi a svelare attraverso la stessa tecnica pittorica il formarsi delle creature a somiglianza della Bellezza divina, si ritrova in alcuni volti di Santa Maria foris portas, come quello di Maria nella Natività (fig. , in basso). Viene alla mente una profonda intuizione di Pàvel Evdokimov: «Dopo l’Incarnazione del Verbo tutto è dominato dal volto, dal volto umano di Dio». Essa ci consente il passaggio alla seconda parte della nostra riflessione, riguardante Giotto: la sua pittura è dominata non solo dai volti, ma dagli sguardi, a partire da quello di Cristo, che svela nella profondità umana la sua misteriosa natura divina. La bellezza dell’Incarnazione diventa stupore sperimentabile non solo nella corrispondenza dell’immagine al prototipo, ma nell’umanità di un’esperienza presente che rivela un’origine divina. Basta osservare nella Cappella degli Scrovegni a Padova (-) lo sguardo di Maria al Bambino appena nato o per contrappunto quel Cfr. J. Nordhagen, The frescoes of John VII (A.D. -) in Santa Maria Antiqua in Rome, in «Acta ad archaeologiam et artium historiam pertinentia», III, , pp. -.  P.N. Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, San Paolo, Cinisello Balsamo  (Paris ), p. .  Cfr. in particolare Il restauro della Cappella degli Scrovegni. Indagini, progetto, risultati, a cura di G. Basile, Skira, Ginevra-Milano ; e La Cappella degli Scrovegni a Pa-

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Fig. . Giotto, Presentazione di Gesù al Tempio (part.). Padova, Cappella degli Scrovegni.

Fig. . Giotto, Tradimento di Giuda (part.). Padova, Cappella degli Scrovegni.

lo al Figlio ormai morto, l’intenso sguardo del vecchio Simeone rivolto alla salvezza preparata davanti a tutti i popoli che ora può teneramente stringere fra le braccia (fig. ), o per drammatico contrasto della libertà quello impacciato del traditore mentre bacia il suo Maestro (fig. ), per citarne solo alcuni: e in tutti i casi, fin dall’infanzia, la precedenza, l’intensità elettiva dello sguardo di Cristo. Nella basilica di San Francesco ad Assisi è affrescato un noto episodio della tradizione francescana, il Presepe di Greccio (fig. ), che può dova, a cura di D. Banzato, G. Basile, F. Flores d’Arcais, A.M. Spiazzi, Panini, Modena .  Nell’ambito dell’immensa e dibattuta bibliografia giottesca su Assisi, si vedano le recenti schede di A. Monciatti, in La Basilica di San Francesco ad Assisi, a cura di G. Bonsanti, II, Panini, Modena ; e le aperture critiche di L. Bellosi, Giotto e la Basilica Superiore di Assisi, in Giotto. Bilancio critico di sessant’anni di studi e ricerche, catalo-

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Fig. . Giotto, Presepe di Greccio. Assisi, San Francesco.

aiutare a comprendere le fonti spirituali di questi caratteri della pittura giottesca e le modalità della loro percezione estetica. Riprendendo la Legenda maior sancti Francisci di san Bonaventura, il titulus dell’affresco recitava: «Il beato Francesco, in memoria del Natale di Cristo, ordinò che si apprestasse il presepe, che si portasse il fieno, che si conducessero il bue e l’asino; e predicò sulla natività del re povero; e, mentre il go della mostra a cura di A. Tartuferi, Giunti, Firenze , pp. -; S. Romano, La O di Giotto, Electa, Milano .

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santo uomo teneva la sua orazione, un cavaliere scorse il vero Gesù bambino in luogo di quello che il santo aveva portato». Di fronte alla grandezza di tale avvenimento che riaccade nel presente, come dimostrano gli abiti degli astanti e l’assetto della basilica di fine Duecento, lo stupore domina a tal punto la scena che accade una cosa nuova anche nella pittura, solitamente dominata dal silenzio: i quattro frati sullo sfondo si sciolgono in un canto di lode. San Bonaventura, introducendo il racconto dell’episodio, sottolinea che Francesco, volendo «celebrare presso Greccio il ricordo della natività di Gesù, desiderò farlo con ogni possibile solennità, al fine di suscitare la devozione dei fedeli (ut memoriam nativitatis pueri Jesu ad devotionem excitandam)». La finalità didattica delle immagini, intese a ricordare le storie sacre, non sorprende, mentre rivela particolare interesse l’accento affettivo, caratteristico dell’estetica francescana. Vorrei però osservare che pure il tema dell’affetto, insieme a quelli della memoria e del desiderio, aveva fatto la sua comparsa fin dal dibattito iconoclasta, come rivela ad esempio un monaco iconodulo in un testo della metà dell’VIII secolo (Nouthesía gérontos): «si giunge alla conoscenza della verità tramite la lettura (con il senso dell’udito) e attraverso l’osservazione (con quello della vista), e si è così ancor più infiammati dell’amore di Dio». Penso che Giotto, al pari di Dante, abbia respirato molto la tradizione francescana, come dimostra la sua attività da Assisi a Rimini, a Padova, a Firenze, sempre favorito dalla trama dei conventi dei frati minori. Il vertice della spiritualità di Francesco, secondo quanto emerge in maniera limpida e sorprendente dal Cantico di frate sole, è il riconoscimento delle creature quali opere di Dio e la lode gioiosa per questi doni di grazia. La dinamica del segno (creatura/Creatore) fonda, come abbia-

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«Quomodo beatus Franciscus in memoriam natalis Christi fecit praeparari praesepium, apportari foenum, bovem et asinum adduci et de nativitate pauperis regis praedicavit itemque sancto viro orationem habente miles quidam vidit puerum Jesum loco illius, quem sanctus attulerat» (cfr. schede Monciatti, in La Basilica di San Francesco ad Assisi, cit., p. ).  San Bonaventura, Opusculum XXIII, in Opera omnia, VIII, Typographia Collegii S. Bonaventurae, Firenze , p. . Cfr. R. Assunto, La critica d’arte nel pensiero medioevale, Il Saggiatore, Milano , p. .  Bacci, L’iconografia come tradizione apostolica, cit., p. .

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mo già accennato, un nuovo realismo anche nella pittura: negli affreschi di Assisi lo stupore di fronte alla realtà come dato trasforma la percezione di ogni particolare svelandone l’origine divina, non solo nel caso evidente del Presepe di Greccio, ma anche nella misteriosa corrispondenza tra il gesto orante di Francesco e la rupe da cui sgorga miracolosamente l’acqua per il pellegrino assetato, o nella più famosa Predica agli uccelli. Se riflettiamo attentamente, il realismo creaturale ripropone in termini diversi, ma non contrastanti, il rimando dell’immagine al suo prototipo che aveva costituito uno dei punti chiave del dibattito ai tempi dell’iconoclastia, illuminando di nuova luce il mistero dell’Incarnazione. San Bonaventura stesso riprende tale concetto, citando san Giovanni Damasceno, e collegando la funzione delle immagini di memoriam agere a quella più profonda di conoscere Dio per res sensibiles quasi per speculum. San Tommaso d’Aquino va ancora più a fondo nelle conseguenze estetiche della dinamica del segno, offrendo una spiegazione teologica al realismo, che connota anche la pittura di Giotto: «per le immagini prodotte dal pittore e dallo scultore, la similitudo, in quanto riguarda la vista, richiede che l’immagine imiti le cose naturali visibili, productae ab arte divina», altrimenti contravverrebbe al principio che sta alla base della visione e apre alla contemplazione del vero. In tal modo coinvolge a pieno titolo nella cultura figurativa la realtà quale caratteristica della bellezza come splendore del vero. Ma come avviene stilisticamente la svolta giottesca nella pittura italiana di fine Duecento, ancora profondamente legata alla tradizione bizantina, segnando in maniera indelebile il corso dell’arte occidentale? Il monumentale Crocifisso dipinto dal giovane Giotto per i domenicani di Santa Maria Novella a Firenze (fig. ) ha confermato nel corso del recente restauro un altissimo livello qualitativo e decisive novità formali

 San Bonaventura, Commentarius in distinctionem XVI, in Opera omnia, cit., VIII, p.  (cfr. Assunto, La critica d’arte, cit., p. ).  San Bonaventura, De triplici via, Additamentum III, in Opera omnia, cit., II, p.  (cfr. Assunto, La critica d’arte, cit., p. ).  San Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, I, q. ,  (cfr. cfr. Assunto, La critica d’arte, cit., p. ).  Giotto: la Croce di Santa Maria Novella, a cura di M. Ciatti e M. Seidel, Edifir, Firenze .

Fig. . Giotto, Crocifisso. Firenze, Santa Maria Novella.

Fig.  (in basso, a sinistra). Cimabue, Crocifisso, particolare della Vergine. Arezzo, San Domenico. Fig.  (in basso, a destra). Giotto, Crocifisso, particolare della Vergine. Firenze, Santa Maria Novella.

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rispetto all’altrettanto straordinario Crocifisso di Cimabue per San Domenico ad Arezzo, di pochi anni precedente. Il corpo di Cristo abbandona completamente le soluzioni anatomiche d’impronta bizantina a favore di un naturalismo e di un plasticismo d’ispirazione classica, basati su un rinnovato sguardo della realtà e sulla lezione scultorea di Nicola Pisano. Gli incarnati sono realizzati con raffinati trapassi chiaroscurali dei colori e inedite, ma al tempo stesso naturali, ombre colorate. Maria è una donna vera, ormai lontanissima da quella di Cimabue (fig. ), con il volto quasi scolpito, plasticamente sbalzato dal fondo del velo, che guarda intensamente il Figlio (fig. ): Giotto coglie la profondità dell’animo umano attraverso lo sguardo, che diventa il tramite di un’esperienza di fede. Nei successivi affreschi della Cappella degli Scrovegni i colori si fanno più chiari e luminosi, la stesura pittorica più tenera, i panneggi più ampi, i gesti più solenni: ma come abbiamo già accennato sono soprattutto gli sguardi a dominare le Storie della Vergine e di Cristo (figg. -), con un’intensità umana che svela il divino e consente un itinerarium mentis in Deum analogo a quello compiuto da Dante nella Commedia attraverso gli occhi di Beatrice. Si tratta di un realismo sorgivo, generato dallo stupore e continuamente in grado di generare stupore: ad esempio in quelle incredibili, purissime fanciulle che accompagnano Maria alle nozze, in una scena iconograficamente rara, purtroppo un po’ rovinata, ma della quale i recenti restauri hanno restituito particolari di straordinaria finezza, come le bellissime acconciature dipinte a punta di pennello, quasi evocando i “capelli contati” di evangelica memoria; o nelle lacrime di dolore che sono emerse sui volti delle madri della Strage degli Innocenti, testimonianze di un’intensa carica umana e di un impegno conoscitivo del pittore nella ricerca del vero. I recenti restauri hanno svelato anche la presenza di frammenti di vetro nell’aureola di Cristo nel Giudizio Universale, inseriti per riflettere la luce naturale che, colpendo in particolari momenti dell’anno il volto del Redentore, si trasforma in puro splendore, fulgore quasi divino, insostenibile agli occhi umani e non rappresentabile, come la luce di cui fece esperienza Dante nel Paradiso: «Nel ciel che più de la sua luce prende [...] vidi cose che ridire né sa né può chi di là su discende» (Par. I, -). Solo attraverso i segni reali dell’Incarnazione è possibile contemplare la bellezza di Dio ed essere mossi ad aderire alla sua verità.

Alessandro Rovetta*

Il divenire della forma come esperienza della bellezza nell’opera di Michelangelo

In un madrigale, databile agli anni del Giudizio finale (c. -), Michelangelo descrive con efficacia l’intima unità tra l’irriducibile desiderio di bellezza e il bisogno altrettanto pressante di salvezza che ha caratterizzato tutta la sua esperienza umana e artistica: «Gli occhi miei vaghi delle cose belle / e l’alma insieme della suo salute / non hanno altra virtute / c’ascenda al ciel, che mirar tutte quelle». Di seguito spiega, in termini di neoplatonismo cristiano, il moto affettivo che permette questa tensione degli occhi e dell’anima, attratti da una forza superiore: «Dalle più alte stelle / discende uno splendore / che ’l desir tira a quelle, / e qui si chiama amore». Per cui il cuore, assettato di bene, di vero e di bello, cerca senza sosta volti e sguardi, ovvero immagini, che riflettano per approssimazione quello splendore: «Né altro ha il gentil core / che l’innamori e arda, e che ’l consigli / c’un volto che negli occhi lor somigli». Credo che tutti i protagonisti del Rinascimento italiano, educati sui testi di Marsilio Ficino e di Pico della Mirandola, potevano riconoscere in questa poesia il fondamento dell’estetica del loro tempo, forse sfumando sul tema personale della salvezza, che è invece la cifra che caratterizza in modo drammatico, e per noi avvincente, la vita e l’opera di Michelangelo. Infatti, il suo lungo percorso artistico, che attraversa un secolo tra i più travagliati della storia cristiana occidentale – dallo scisma protestante al Sacco di Roma – si sviluppa in stretta connessione con la sua esperienza di fede, intesa non in forma individualistica, come vor* Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano. Michelangelo Buonarroti, Rime, .  Come riferimento si segnala J. Hankins, Ambiente mediceo nella Firenze del tardo Quattrocento, in Giovinezza di Michelangelo, catalogo della mostra a cura di K. WeilGarris Brandt, C. Acidini Luchinat, J.D. Draper, N. Penny, ArtificioSkira, Firenze-Milano , pp. -. 

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rebbero assolutizzare interpretazioni oggi molto diffuse, ma radicata nella più ampia comunità ecclesiale, come ci testimoniano il Giudizio finale e la basilica di San Pietro. Questo inestricabile legame di creatività artistica e coscienza religiosa, che, dobbiamo ricordarlo, nell’età rinascimentale non era più così immediato e connaturato come nel medioevo, si riflette nello sviluppo dell’opera di Michelangelo, soprattutto nelle sculture e nei disegni, in un progressivo mutamento del canone formale ed estetico. Il riscontro più sorprendente è nel paragone tra la Pietà Vaticana, scolpita nel , quando aveva  anni, e la Pietà Rondanini, lasciata incompiuta alla morte, avvenuta nel . Vi ritroviamo, come a suo tempo osservato dall’allora cardinale Joseph Ratzinger, il drammatico paradosso del mistero dell’Incarnazione, che ha portato al mondo «il più bello tra i figli degli uomini» (salmo ) per ridurlo sulla croce all’«uomo senza più apparenza né bellezza» (Isaia, , ). Il rapporto tra Maria, la Madre, e Gesù, il Figlio, è indagato e rivissuto da Michelangelo con attenzione e coinvolgimento lungo tutta la sua carriera, in particolare nel momento generativo delle Madonne col Bambino, più frequenti nell’età giovanile, e nel vertice sacrificale e oblativo delle Crocefissioni e delle Pietà, che caratterizzano soprattutto la maturità e la vecchiaia. Non si tratta solo di una questione iconografica e nemmeno soltanto biografica, come giustamente si è rilevato ricordando che Michelangelo aveva perduto la madre quando era ancora un bambino. Infatti, l’essere Gesù carne della carne della Vergine porta l’artista ad una suggestiva analogia con la sua attività di scultore che lo vede ricavare dallo stesso informe blocco di marmo, colpo su colpo, le due figure della Madre e del Figlio. Se osserviamo la prima Madonna col Bambino, la Madonna della Scala (Firenze, Casa Buonarroti), e la prima Pietà, quella Vaticana, rileviamo subito in entrambe le opere la compresenza dell’inizio e del compimento di quel rapporto. Nella Madonna della Scala il Bambino sembra  Per le singole sculture citate nel corso del testo si rimanda al più recente C. Acidini Luchinat, Michelangelo Scultore, Motta, Milano .  J. Ratzinger, La Bellezza. La Chiesa, Itaca, Castelbolognese , pp. -.  P. Joannides, Primitivism in the Late Drawings of Michelangelo, in Michelangelo Drawings, atti del convegno a cura di C.H. Smyth (Washington, - ottobre ), National Gallery of Art, Washington , pp. -.

Il divenire della forma nell’opera di Michelangelo

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Fig. . Michelangelo Buonarroti, Pietà. Basilica di San Pietro in Vaticano ().

uscire dal corpo della madre, grazie anche al particolare gesto della Vergine che alza il manto per mostrare il frutto del suo ventre. Maria però non guarda il figlio ma fissa gli occhi sulla scala, immagine di quella che verrà appoggiata alla croce del Calvario e quindi segno del destino di sofferenza che attende Gesù per poter essere pienamente glorificato. Lo stesso sonno che intuiamo nell’abbandono del piccolo corpo del bambino è profezia della sua morte. Nella Natività c’è dunque il presentimento della Passione. Al contrario, davanti alla Pietà Vaticana (fig. ), già i contemporanei rimasero sorpresi dalla giovanissima età della Madonna, adatta più alla maternità che alla morte del figlio ormai adulto. Ma Michelangelo nell’aspetto giovanile di Maria ha voluto sim Si veda in particolare G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori nelle redazioni del  e , a cura di R. Bettarini e P. Barocchi, Sansoni-S.P.E.S., Firenze -, p. .

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boleggiare la verginità della Madre di Dio e nella composizione del gruppo fare memoria dell’inizio di quel legame, quando la madre teneva in braccio il piccolo Gesù, andando a recuperare uno schema iconografico nordico, il Vesperbild, fin a quel momento poco conosciuto nell’arte italiana. Come la maggior parte degli artisti del Rinascimento, compresi Raffaello e Leonardo, nelle scelte iconografiche, negli schemi compositivi e nella resa della figura umana, il giovane Michelangelo cerca una rappresentazione ideale che riveli il senso più profondo dell’avvenimento narrato esprimendolo tutto nella perfezione dell’assetto formale. Infatti, nella Madonna della Scala e, ancor più, nella Pietà Vaticana sorprende l’altissimo livello di accuratezza stilistica e tecnica del rilievo marmoreo, straordinariamente rifinito e lucidato in ogni suo particolare. L’ideale di bellezza appare perseguito nei termini di un’assoluta perfezione che porta alla più chiara evidenza la realtà e il suo significato. Come disse Giorgio Vasari, il primo biografo di Michelangelo, a proposito del Cristo della Pietà: «non si pensi alcuno di bellezza di membra e d’artificio di corpo vedere un ignudo tanto divino, né ancora un morto che più simile al morto di quello paia». E aggiunge che «è un miracolo che un sasso da principio, senza forma nessuna, si sia mai ridotto a quella perfezione che la natura a fatica suol formare nella carne». Qui sta il compito dell’artista: dare forma alla materia informe. D’altra parte, se osserviamo un altro capolavoro giovanile, il Tondo Doni (Firenze, Uffizi), tutto percorso da intensi flussi di affetti familiari, e lo affianchiamo ad uno dei disegni preparatori, ci accorgiamo immediatamente che il traguardo formale del dipinto deriva da un processo inventivo intensissimo, fatto di continue sperimentazioni e correzioni, così significative che comprendiamo perché Michelangelo volle a più riprese bruciare i suoi disegni per timore che i suoi ‘avversari’ copiassero il percorso denso e laborioso delle sue opere. Vasari, Le vite cit., p. ; va sempre riscontrata G. Vasari, La vita di Michelangelo nelle redazioni del  e del , a cura di P. Barocchi,  voll., Ricciardi, Milano .  Per i singoli dipinti citati nel corso del testo si rimanda a C. Acidini Luchinat, Michelangelo pittore, Motta, Milano .  Berlino, Staatliche Museen, Kupferstichkabinett,   -  (Corpus De Tolnay, n. ); si veda da ultimo A. Gnann, Michelangelo. The Drawings of a Genius, catalogo della mostra, Albertina - Hatje Cantz, Vienna-Ostfildner , pp. -. 

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Analoghe considerazioni possiamo ricavare dai disegni preparatori della volta della cappella Sistina. Le Sibille per il mondo classico e i Profeti per il mondo ebraico sono coloro che più si sono avvicinati, per ispirazione divina, al mistero dell’Essere. La loro presenza sulla volta, resa nell’atto dell’apprendimento e della comunicazione, si può interpretare come il livello più alto raggiunto dalla conoscenza umana prima della venuta rivelatrice e redentrice di Cristo. In questi personaggi, di cui evidenzia la diversità delle età e dei temperamenti, Michelangelo vuole raffigurare dei tipi umani che esprimano un valore universale: il desiderio del vero e l’avventura della conoscenza sono i tratti distintivi di ogni uomo. La Libica è l’ultima sibilla della serie: infatti si alza e si gira per chiudere il libro dal quale non deve più apprendere niente perché è ormai prossima la rivelazione di Cristo. La straordinaria torsione che Michelangelo conferisce alla sua figura è segno del capovolgimento in atto. Nel disegno preparatorio (fig. ) il movimento è affrontato nei suoi punti di forza, attraverso i quali l’artista conferisce credibilità all’immagine: il primo profilo della schiena sulla sinistra, piuttosto molle e rilassato, prende forza e vigore nella rappresentazione centrale; il piede sinistro, che è il perno dell’intera figura, è disegnato tre volte isolando progressivamente il punto dal quale nascono lo scatto e la torsione del corpo; di fianco Michelangelo studia la mano destra, il punto terminale, quello che chiude il libro; la testa in basso a sinistra presenta ancora i tratti del giovane modello, probabilmente un garzone della bottega, trasformati in un profilo più femminile. Il disegno è per Michelangelo il luogo privilegiato dell’invenzione e della creazione, dove lo studio del soggetto diventa una viva esperienza di immedesimazione, che non tralascia nessuna possibilità in una progressiva concentrazione drammatica, alla ricerca della soluzione definitiva. Con un diverso temperamento umano e artistico, più disteso e immediato, Raffaello seguiva lo stesso principio, ma procede, come vediamo nei disegni che preparano le sue Madonne fiorentine, affian New York, Metropolitan Museum of Art, .. (Corpus De Tolnay, n. ); Gnann, Michelangelo, cit., pp. -.  Per l’opera grafica di Michelangelo, oltre al fondamentale repertorio di C. De Tolnay, Corpus dei disegni di Michelangelo, De Agostini, Novara -, le più recenti pubblicazioni d’insieme sono H. Chapman, Michelangelo Drawings: Closer to the Master, The British Museum Press, Londra , e Gnann, Michelangelo, cit.

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Fig. . Michelangelo Buonarroti, disegno preparatorio per la Sibilla Libica della volta della cappella Sistina. New York, Metropolitan Museum of Art ( ⁄ ).

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Fig. . Michelangelo Buonarroti, Prigione. Firenze, Galleria dell’Accademia (ca. -).

cando e moltiplicando le diverse soluzioni, oltre a lavorare su delicati passaggi di tono e di luce. Nella piena maturità, Michelangelo sembra sempre più interessato a concepire la sua vocazione artistica nei termini con cui l’abbiamo visto lavorare sui disegni, cioè a rendere sempre più evidente il progressivo divenire della forma, l’originarsi di figure che dalla materia grezza, sia essa un pezzo di marmo o un foglio di carta, prendono i tratti riconoscibili di un’esistenza umana, unica e irriducibile. La perfezione della Pietà Vaticana non soddisfa più pienamente l’artista, incalzato dalle vicende personali e da quelle che scuotono il mondo che lo circonda.  Si vedano come esempi gli studi in Vienna, Albertina, Graphische Sammlung, Bd. IV. e  e Oxford, Ashmolean Museum, Parker II  (Raffaello da Urbino a Roma, catalogo della mostra a cura di H. Chapman, T. Henry, C. Plazzotta, National Gallery Company -  Continents Editions, Londra-Milano , pp. -; -).

Il divenire della forma nell’opera di Michelangelo

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Quell’ideale di bellezza, assoluto e incontestabile, non riesce a rendere ragione di tutto quello che muove Michelangelo ad essere pienamente uomo e artista. La bellezza non può essere solo un ideale ma deve diventare un’esperienza. Ogni soggetto che gli viene richiesto diventa occasione per riversare dentro l’opera tutta la sua avventura umana. I tratti di matita o i colpi dello scalpello rivelano innanzi tutto la sua tensione conoscitiva e affettiva, sollecitata all’immedesimazione nel tema proposto. I Prigioni (Firenze, Accademia), destinati alla Tomba di Giulio II – definita «la tragedia della sua vita» per i continui cambiamenti e interruzioni del progetto che venne alla fine drasticamente ridotto – ne sono un chiaro esempio (fig. ). L’incompiutezza si deve sicuramente al fatto che il loro utilizzo nel complesso del monumento funebre venne alla fine accantonato, ma resta sorprendente il modo con cui Michelangelo ha proceduto nella loro realizzazione cavando dal marmo grezzo i punti di maggior forza e tensione, nelle braccia, nelle gambe e nei torsi, facendo coincidere il dinamismo del soggetto – schiavi che cercano di liberarsi dalle catene – con lo sforzo creativo dell’artista che cerca di liberare una forma significativa da una materia informe e oscura. Quello che ci colpisce è proprio questa identità drammatica tra il significato della figura e la modalità con cui emerge dalla pietra. Tra l’altro sorprende il fatto che lo stesso trattamento venne portato avanti contemporaneamente su più statue, come se l’artista volesse tenere unita  Il tema del ‘non finito’ michelangiolesco – già affrontato dai suoi primi biografi, Giorgio Vasari e Ascanio Condivi, nei termini di una insopprimibile insoddisfazione per il divario tra l’idea e la sua realizzazione – ha percorso tutti i secoli della critica michelangiolesca. Per una revisione del problema alla luce dei fatti che concretamente determinarono l’abbandono delle sue opere si veda J. Schulz, Michelangelo’s Unfinished Works, in «Art Bulletin», September , pp. -.  Vanno almeno ricordati E. Panofsky, Il movimento neoplatonico e Michelangelo, in Studi di iconologia. I temi umanistici nell’arte del Rinascimento, Einaudi, Torino , pp. -, e C. De Tolnay, Michelangelo, IV. The Tomb of Julius II, Princeton University Press, Princeton ; C. Echinger-Maurach, Studien zu Michelangelos Juliusgrabmal,  voll., Olms, Hildesheim ; C.L. Frommel, “Capella Iulia”: la cappella sepolcrale di papa Giulio II nel nuovo San Pietro, in A. Bruschi, C.L. Frommel, F.G. Wolff Metternich, C. Thoenes, San Pietro che non c’è: da Bramante a Sangallo il Giovane, Electa, Milano , pp. -; gli esiti degli ultimi restauri della tomba allestita definitivamente in San Pietro in Vincoli sono confluiti in diversi interventi di Antonio e Maria Forcellino, tra cui si segnala M. Forcellino, Problemi critici attorno alla tomba di Giulio II in San Pietro in Vincoli (-), in «Bollettino d’arte»,  (), fasc. -, pp. -.

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questa particolare dinamica. È molto probabile che Michelangelo in partenza pensasse anche per questi Prigioni a statue ben rifinite, ma resta il fatto che tutta la travagliata vicenda del complesso monumentale per Giulio II lo portò a questa particolare progressione del lavoro che ha fatto di questi marmi uno degli episodi più sorprendenti dell’arte occidentale, dove uomini di tutti tempi si sono riconosciuti più che davanti a statue perfettamente rifinite. All’ammirazione per la Pietà si è sostituita la compassione per i Prigioni. Quanto abbiamo finora rilevato ci consente di osservare che le scelte e i procedimenti formali di Michelangelo dimostrano sempre uno stretto legame con la sua esperienza di uomo e con la sua volontà di immedesimazione nei soggetti rappresentati. Il Giudizio finale (-) è forse la documentazione più clamorosa di questi nessi profondi e inestricabili. In questi stessi anni, segnati da un radicale bisogno di autenticità cristiana, per sé e per la Chiesa, Michelangelo torna sul tema della Pietà e della Crocifissione: come nella coeva produzione poetica, lo sguardo è fissato sul sacrificio della Croce, nella drammatica consapevolezza della sproporzione tra la gratuità redentrice di Cristo e la sua personale condizione di peccatore. Maria è il primo e più consapevole riscontro umano di questo paradosso dell’avvenimento cristiano: in lei Michelangelo cerca le ragioni e la forza affettiva di stare davanti al mistero più grande della storia dell’umanità e della sua storia personale. La questione è così decisiva che Michelangelo non la affida ad opere di destinazione pubblica, sempre più rare, ma a disegni e sculture che aveva pensato per sé o per i suoi più cari amici, come vediamo nei due disegni offerti in dono a Vittoria Colonna, per anni sua intima confidente, che attorno al  aprono questo ultimo intenso tratto del suo percorso artistico. Alcuni particolari rivelano l’inquietudine spirituale dell’artista. Nella Crocifissione (Londra, British Museum; fig. ) Cristo è rappresentato, ancora vivo, nello spasimo estremo che gli fa torcere 

Sulla tecnica adottata da Michelangelo per lavorare progressivamente i marmi, compresa la considerazione di aiuti in alcune fasi, si veda G. Rocchi Coopmans De Yoldi, Michelangelo e aiuti: i “Prigioni” dell’Accademia, in Studi di Storia dell’arte in onore di Mina Gregori, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Mi) , pp. -.  Per il rapporto tra Michelangelo e Vittoria Colonna si rimanda per tutti a Vittoria Colonna e Michelangelo, catalogo della mostra a cura di P. Ragionieri, Mandragora, Firenze .

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Fig. . Michelangelo Buonarroti, Crocifissione. Londra, British Museum (ca. ).

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Fig. . Michelangelo Buonarroti, Pietà. Boston, Isabella Stewart Gardner Museum (ca. ).

tutto il corpo, alzare lo sguardo al cielo e gridare al Padre, ma ciò che più sorprende è la sua solitudine: ai piedi della croce non ci sono né Maria né Giovanni. Nella Pietà (Boston, Isabella Stewart Gardner Museum; fig. ), la Vergine tiene tra le gambe il corpo morto di Cristo, ricordandoci di aver generato lei quell’uomo che ora si abbandona esanime a terra. Maria però non prende tra le braccia il Figlio, lasciando che siano due angeli a sorreggerlo, e non riesce nemmeno a guardarlo – come capita anche nel Giudizio –, ma alza le braccia e il volto al cielo, con un gesto che ricorda le figure degli oranti dipinte nelle catacombe romane dei primi cristiani. Sul legno della croce è inciso un verso di Dante che ricorda quanto sangue fosse costata la salvezza dell’umanità. I due disegni sono estremante curati e rifiniti, perché concepiti come

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regali per l’amica più cara, ma anche per l’elevato contenuto ideale e simbolico delle due rappresentazioni. Il travaglio espresso nei due disegni per Vittoria Colonna diventa una ferita aperta e profonda in un sonetto che Michelangelo, ormai ottantenne, invia a Giorgio Vasari nel , consapevole della diffusione pubblica che il destinatario avrebbe dato al componimento: «né pinger né sculpire è più che quieti / l’anima volta a quell’amor divino / c’aperse, a prender noi, in croce le braccia». Quel legame tra il desiderio di bellezza e il bisogno di salvezza del madrigale di almeno un decennio prima sembrerebbe perduto e addirittura contestato, perché riconosciuto come fallace. Ma i fatti smentiscono questa interpretazione: Michelangelo continua a fare l’artista fino agli ultimi istanti di vita, per i quali, a dispetto delle sue attese, deve ancora aspettare un decennio: intanto continua a stare di fronte al mistero del sacrificio di Cristo disegnando e scolpendo. Sono ancora Crocifissioni e Pietà, ma la modalità artistica supera nuovamente l’ideale della perfezione e della compiutezza per tornare su scelte formali aperte e dinamiche. Riprendendo il sonetto, Michelangelo sembra decidere che, davanti alle braccia di Cristo fissate alla Croce, la pittura e la scultura non possono cercare di “quietare” l’anima, ma devono accompagnarla alla più intensa e drammatica compassione, evidente nella stessa specificità formale. È quanto accade nelle ultime due Pietà scolpite, la Bandini e la Rondanini, e negli ultimi disegni dedicati alla Passione e alla Resurrezione. Nella Pietà Bandini, pensata per la propria tomba e rimasta incompiuta, ritrae se stesso nella figura di Nicodemo che sostiene il gruppo della Madre e del Figlio, i cui volti affiancati vengono cavati dal marmo, non uno dopo l’altro, ma insieme perché è la loro unità carnale e affettiva, pienamente riconquistata dopo il ‘distacco’ del Giudizio e della Pietà per Vittoria Colonna, che gli interessa riconoscere. Nella Pietà Rondanini (fig. ) la prima idea di rendere tutta la fatica fisica e affettiva della Madre nel sostenere Michelangelo Buonarroti, Rime, . Per questo sonetto si veda da ultimo U. Motta, in L’ultimo Michelangelo. Disegni e rime attorno alla Pietà Rondanini, catalogo della mostra a cura di A. Rovetta, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Mi) , pp. -.  Si veda da ultimo J. Wasserman, La Pietà di Michelangelo a Firenze, Mandragora, Firenze .  Si veda M.T. Fiorio, Respiciens finem: Michelangelo e il tema della Pietà, in L’ultimo Michelangelo, cit., pp. -. 

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Fig. . Michelangelo Buonarroti, Pietà Rondanini. Milano, Castello Sforzesco, Musei Civici (ca. -).

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il corpo morto del Figlio si trasforma capovolgendo l’effetto: deve apparire che sia Gesù a sostenere la Madre. Per questo Michelangelo gira e abbassa il volto della Vergine sul capo del Figlio, lasciando però i segni della precedente posizione, in modo che la scultura renda evidente il cambiamento, cioè i due diversi momenti del rapporto tra i due protagonisti. Ma non basta. Anche la parte superiore del corpo di Cristo, in un primo tempo pensata chiaramente separata dal corpo della Madonna, viene trasformata – di questa prima composizione resta il braccio destro staccato – ricavandola direttamente dal marmo che prima costituiva il corpo della Madre: un modo impressionante di rendere la realtà dell’Incarnazione. Inoltre Michelangelo cerca di assottigliare il più possibile quel corpo martoriato per imprimergli una luminosa e vibrante fluidità, tanto che visto di fianco sembra tendere più verso l’alto che verso il basso. Questa osservazione, che richiama la Resurrezione, unita all’evidente valore eucaristico della visione frontale del corpo di Cristo, dimostra che in questa

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Fig. . Michelangelo Buonarroti, Crocifissione. Londra, British Museum (-).

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Fig. . Michelangelo Buonarroti, Crocifissione. Londra, British Museum (-).

modalità così partecipe, dinamica e progressiva Michelangelo non rinuncia all’evidenza simbolica della raffigurazione. Analoghe osservazioni si possono fare davanti a una serie di Crocifissioni disegnate negli ultimi anni di vita. Nella figura del Cristo Michelangelo sembra voler fissare la successione dall’ultimo istante di vita al  Per tutti questi disegni si rimanda a A. Rovetta, I disegni dell’ultimo Michelangelo, in L’ultimo Michelangelo, cit., pp. -. Le Crocifissioni sono conservate a Parigi, Louvre; Londra, The British Museum; Londra, The Courtauld Institute; Windsor, The Royal Collection.

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primo istante della morte: le diverse posizioni delle braccia o il marcato inarcamento del diaframma visualizzano l’ultimo spasimo del corpo; i diversi profili della testa suggeriscono le diverse posizioni che potrebbe aver preso dopo l’ultimo respiro; il busto mantiene la sua rilevanza fisica ma il suo profilo sembra riverberarsi come un flusso luminoso nell’aria circostante. Niente viene cancellato, ma tutte le soluzioni vengono mantenute perché non si vuole raffigurare un archetipo, ma un’intensa esperienza in atto che porta in sé il suo significato, come ancora suggeriscono la proiezione ascensionale o la frontalità ostensiva, segni della Resurrezione e dell’Eucarestia. Inoltre Michelangelo riporta ai piedi della Croce Maria e Giovanni, riprendendo lo schema medievale del Calvario: il dato più significativo è l’evidente difficoltà dei due personaggi ad entrare in aperta Fig. . Michelangelo Buonarroti, relazione con Cristo: non lo guarda- Madonna col Bambino. Londra, no, sono chiusi in se stessi e sembrano British Museum (-). fuggire (fig. ). Per questo, il rinserrarsi affettuoso della Vergine e di san Giovanni attorno alla croce in un disegno del British Museum acquista un valore risolutivo, come se Michelangelo avesse finalmente trovato la possibilità non solo di guardare ma addirittura di abbracciare Cristo in croce, il quale sorprendentemente recupera una pienezza fisica e una pace che annulla gli spasimi delle altre Crocifissioni (fig. ). Salvezza e bellezza tornano ad unirsi in una definizione formale fatta di fitte vibrazioni e delicati trapassi di luce: una corporeità totalmente nuova, gloriosa. La ritroviamo in due altri suggestivi disegni, anch’essi degli ultimi anni: Cristo risorto che appare alla Madre (Oxford, Ashmolean Mu-

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seum), in uno schema che volutamente richiama l’Annunciazione, e Madonna col Bambino (Londra, British Museum; fig. ) che, sempre percorsa da un brivido d’inquietudine, tocca il vertice della semplificazione formale nella vibrante leggerezza del segno grafico e nella forza trasfigurante della luce. In questa forma essenziale, aperta e dinamica, Michelangelo afferma un ideale di bellezza che l’uomo non può raggiungere compiutamente – qui sta l’insoddisfazione che spesso esprimeva nei confronti delle sue opere –, ma che può descrivere come esperienza di uno sguardo fisso davanti al mistero di Dio incarnato, dal quale come uomo si aspetta tutto.

Natal’ja Vaganova*

“Il cadavere della bellezza” cento anni dopo «...prenderanno vita queste ossa?» (Ezechiele , )

Giusto cento anni fa (più precisamente nel ), Sergej Bulgakov, dopo aver visitato la galleria di Sergej Šcˇ ukin, scrisse l’articolo Il cadavere della bellezza. A proposito dei quadri di Picasso, in cui definiva l’arte di quest’ultimo come una “critica micidiale” della pittura splendida ed estetizzante di Matisse, Gaugin, Cézanne, Renoir... In quegli anni felici ancora nessuno poteva sognarsi che, alla fine di quello stesso secolo, avrebbero esposto come oggetti artistici delle installazioni fatte di autentici cadaveri sezionati. Il titolo dell’articolo di Bulgakov da allora è stato inteso come una metafora, e tuttavia è interessante il fatto che Bulgakov collegava l’inizio della corruzione della forma bella dell’uomo nella creazione artistica, che ben presto sarebbe sfociata nella “morte dell’arte”, non certo alla rappresentazione del cadavere in quanto tale, né a quella del corpo umano morto o morente. Anzi, questo corpo nell’arte è sempre stato presente, tranne forse che nel paleolitico. A partire dalla tavoletta del faraone Narmer, dove le teste tagliate dei nemici sono ordinatamente poste fra i piedi dei cadaveri, attraverso l’infinita serie di guerrieri morenti, amazzoni uccise, galli che si uccidono, titani straziati dagli dèi... Nell’arte antica la morte e la sofferenza che deforma il corpo erano concepite come un aspetto necessario della rinascita dionisiaca della vita. Durante il Medioevo e il Rinascimento, nell’arte cristiana d’Oriente e d’Occidente il corpo defunto era rappresentato soprattutto come il corpo del Dio-uomo deposto dalla croce (il Compianto di Nereza e il Compianto di Giotto nella Cappella degli Scrovegni, il Cristo morto di Holbein, la Pietà di Michelangelo e un’altra serie infinita di esempi), bellezza che giace nella tomba «sfigurata, ingloriosa, senza apparenza» ma che attende la resurrezione e la trasfigurazione nella «vita del mondo * Università Ortodossa Umanistica San Tichon, Mosca.

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che verrà». Poiché lo stesso Dio-uomo dalla tomba aveva promesso all’umanità che lo piangeva: «Non piangere per me, madre, nel vedermi nella tomba... risorgerò e sarò glorioso, e ascenderò nella gloria come Dio». Nell’arte dell’Epoca moderna il corpo morto incomincia a interessare l’artista per se stesso, come natura pittorica (le esperienze anatomiche di Rembrandt e Géricault, la Morte di Marat di David), oppure è rappresentata come elemento fantasmagorico degli orrori della guerra (le acqueforti di Goya, il ciclo orientale di Verešcˇ agin), ma anche da queste tele, dove appare oltraggiato e sfigurato, sembra chiedere pietà, richiamando alla propria umanità distrutta come al proprio intero. Eppure, vedendo le tele di Picasso, anzi una sola tela che appartiene a una breve fase della sua creazione, il pensatore russo indica come sintomo della corruzione appena iniziata, ma ormai incombente, non la raffigurazione dei cadaveri, che lì non ci sono, ma il particolare smembramento di una forma umana bella con strumenti puramente pittorici, il pennello e non certo il coltello... Premettendo che l’analisi artistica del corpo umano, che comporta studi di anatomia, è sempre stata e resta un elemento necessario del mestiere pittorico (almeno nel senso tradizionale), vorrei mettere in discussione alcuni significati attribuiti di solito a questo testo bulgakoviano. È vero che, dopo la catastrofe della rivoluzione, nel , nel dialogo Al banchetto degli dèi, Bulgakov mette in bocca al Profugo (suo alterego) queste parole: tutta la cultura europea è in crisi [...], lo ha detto l’arte, che è sempre un sismografo universale. Esso mostra già da tempo che nelle profondità del vulcano si prepara un’eruzione. Del resto, non spirava già l’orrore dal mondo in decomposizione che ammiccava attraverso il cubismo e ogni sorta di futurismo? La carne del mondo, la sua bellezza si putrefanno, sciogliendosi in incubi e chimere. A fianco di questo cubismo universale si è allineata anche l’intelligencija russa, soprattutto i bolscevichi.

Eppure, l’analisi bulgakoviana dell’opera di Picasso contiene una  S.N. Bulgakov, Na piru bogov. Pro et contra. Sovremennye dialogi (Al banchetto degli dèi. Pro et contra. Dialoghi contemporanei), Vechi. Iz glubiny (Pietre miliari. Dal profondo), Mosca , p. .

“Il cadavere della bellezza” cento anni dopo

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dialettica più sottile della diagnosi di demonismo dell’arte che gli viene attribuita; del resto nella sua critica lui partiva da premesse molto diverse da quelle che vorrebbero vedere gli attuali critici ortodossi della contemporary art. Bulgakov scriveva della fine incombente di tutto il vecchio ordine delle cose, quello classico nel quale la bellezza era legata all’ontologia, era l’isomorfismo artistico del bene etico e della verità metafisica. Il mondo precedente era andato all’inferno, eppure oltre la sua fine si intravvedeva la nascita di “nuovi dèi”, che poco prima erano stati annunciati da Vladimir Solov’ëv (Das ewig Weibliche): Sapete, l’Eterno Femminino ora In corpo celeste calca la terra. Nel bagliore di fiamma di una nuova dea Il cielo si fonde con l’abisso delle acque.

In questo rinnovamento sperava anche il Bulgakov-Profugo del : La vecchia bellezza è già morta nel mondo, il futurismo ne testimonia la corruzione, testimonia le convulsioni e le grida, i lamenti di tutta la creazione in ambasce. [...] Il mondo è malato, per questo è malata anche l’arte [...]. La vita non genera bellezza. Questo lo sentiva acutamente Leont’ev, anche se non voleva prenderlo sul serio; lui cercava piuttosto di ‘congelare’ in qualche modo, di tornare al passato. Ma non bisogna congelare niente, poiché la creazione che geme brama la grande Bellezza e la luce della Trasfigurazione.

Il testo Il cadavere della bellezza, nel complesso delle opere di Bulgakov di quel periodo, mette in luce il nodo solido delle idee e intuizioni che lo animavano. Negli anni ’ del Novecento Bulgakov è impegnato nella prima stesura della sua sofiologia, poi presentata nell’opera Luce senza tramonto (). Essa rappresenta, tra l’altro, l’esito della riflessione filosofica su innumerevoli e svariate impressioni raccolte dalla vita, tra cui le impressioni estetiche. Frequenta le mostre d’arte, scrive di letteratura, di poesia, di pittura. I suoi articoli escono sulla rivista «Russkaja mysl» nel : Vladimir Solov’ëv e Anna Šmidt (n. ); Angoscia. La mostra di A.S. Golubkina (n. ); Mozart e Salieri (n. ), Il cadavere della bellezza (n. ). Le



Ivi, p. .

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riflessioni sulla natura religiosa della creazione artistica, in prospettiva, portano Bulgakov a considerare i fondamenti teoretici della critica alla religione kantiana “nell’ambito della sola ragione”, da cui parte Luce senza tramonto. Egli cerca di interpretare l’esperienza religiosa mistica, compresa la propria conversione personale, come un’esperienza essenzialmente estetica, come percezione sensibile del contatto con un Altro essere. L’arte per Bulgakov, in questo momento, è la sfera dell’attività umana in cui «la creatura si rivela all’artista nello splendore della Sapienza divina», e la genialità dell’artista è paragonabile alla santità dei santi. Infatti, nell’«intimo rapporto con l’anima del mondo» all’artista viene rivelata quella particolare «illuminazione della carne» che per altra via è data al mistico nell’esperienza spirituale. E al tempo stesso l’arte è una sorta di profezia, un’escatologia artistica. Prima tra tutte le forme di cultura, l’arte coglie al volo gli impulsi dei futuri cambiamenti mondiali, ed essendo creazione del Nuovo, con ciò stesso nega se stessa ed è l’antico testamento della bellezza. Così, nell’articolo Angoscia (), dopo aver visitato la mostra di Anna Golubkina, Bulgakov scrive: esiste un misterioso legame tra la beatitudine e il tormento, tra la gioia e il dolore illuminato. Questa angoscia purificatrice non viene dalla lotta con Dio, al contrario, nasce dal sentimento della lontananza da Dio; è il sentimento della femminilità prigioniera e violentata [...]. L’anima del mondo, che appartiene allo Sposo Celeste, è violentata dal principe di questo mondo. Ma questi non riuscirà a stuprarla e a possederla fino in fondo [...] anche se la tiene prigioniera, la tormenta e la deforma. ‘Tutta la creazione geme e soffre’, come dice l’apostolo, [...] nell’attesa della liberazione [...] sul mondo è calato il fardello della carnalità e della corruzione, della temporalità e della precarietà. Un pesante torpore ha afferrato la creazione [...]. E sembra che basterà ancora uno slancio, un altro sforzo per far cadere il velo mostruoso della corruzione e lasciar venire alla luce la creazione nella sua gloria.

 S.N. Bulgakov, Trup krasoty. Po povodu kartin Pikasso (Il cadavere della bellezza. A proposito dei quadri di Picasso) (), in Id., Tichie dumy (Pensieri silenziosi), Mosca , p. .  Ibid.  S.N. Bulgakov, Toska. Na vystavke A.S. Golubkinoj, in Id., Tichie dumy, cit., pp. -.

“Il cadavere della bellezza” cento anni dopo

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In questo periodo della sua vita, l’ideale estetico di Bulgakov era la Madonna Sistina di Raffaello. Di qui la sua definizione dell’arte che «per sua stessa natura è inseparabile dalla bellezza, da essa è generata e di essa vive, essa è inscindibile dall’innamoramento [...] per l’Eterno Femminino. Ogni vero artista è un autentico Cavaliere della Bellissima Dama». Ed è proprio questo ideale di pura femminilità come manifestazione artistica della Bellezza che Picasso ha offeso col suo pennello sacrilego! Dopo aver rilevato la somiglianza tra il metodo pittorico di Picasso e il metodo trascendentale di Kant, Bulgakov pone il problema della creazione artistica moderna nello spirito del «wie es möglich ist» kantiano: «è possibile l’ossessione nell’arte?». Infatti, l’arte non dovrebbe trovare difesa «dall’attacco dell’abominio nello schermo della bellezza?». E, proseguendo il tema kantiano, formula un’antinomia: «l’opera di Picasso dà una risposta antinomica a questa domanda: sì e no. Sì perché, pur trattandosi di creazione, si tratta di una creazione guasta, spiritualmente corrotta, malata, abominevole [...]. No perché è pur sempre arte, e grande arte, nonostante sia malata, depravata». La conclusione di Bulgakov è dunque la seguente: sul piano metafisico e mistico Picasso è un grande fenomeno, solo l’arte mediocre è demoniaca, «infatti è mediocre, metafisicamente mediocre [...] l’impostore antagonista del Creatore». Ma basta affermare l’antinomia insita in un fenomeno artistico concreto perché subito si trovi la concreta soluzione? La soluzione viene proposta, ma non nel Cadavere della bellezza, bensì nel primo di una serie di testi precedenti, in cui Bulgakov propone la Madonna di Raffaello come irraggiungibile ideale estetico ed etico. Il testo era stato scritto sotto la viva impressione del primo impatto col quadro nel museo di Dresda, che Bulgakov aveva recepito come un’esperienza senza premesse e insuperabile di incontro con la Verità e la Bellezza divine: «Con quali parole, in realtà, si può descrivere l’effetto sconvolgente che produce in noi la Madonna Sistina?». Bulgakov, Trup krasoty, cit., p. . Ibid.  Ibid.  S.N. Bulgakov, Vaznecov, Dostoevskij, Vl. Solov’ëv, Tolstoj (Paralleli), in Id., Tichie dumy, cit., p. .  

Natal’ja Vaganova

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Si tratta di un articolo del , Vaznecov, Dostoevskij, Vl. Solov’ëv, Tolstoj (Paralleli). I quattro personaggi citati nel titolo sono per Bulgakov l’apoteosi del genio artistico russo. Il primo citato è Vaznecov. Riporto di seguito senza commenti: Nei quadri religiosi di Vaznecov si esprime una forza e una sincerità di posizione religiosa, quali da tempo l’arte religiosa europea non sa più esprimere. [...] Dopo un intervallo di secoli Vaznecov [...] è tornato a dipingere dei quadri-icone, e possiamo dire con convinzione che dai tempi della Madonna Sistina non si era più toccata una simile forza del sentimento religioso, una tale sincerità di passione spirituale come quella che ci guarda dalle pareti della cattedrale di San Vladimir. [...] Un genio del senso religioso, e non un pittore, ha creato la Madonna Sistina, così com’è il genio del senso artistico e non la tecnica pittorica a fare di Vaznecov un maestro di cui ora ci stupiamo. [...] I quadri di Vaznecov sono un intero sistema metafisico espresso col colore [...]. L’arte è rivelazione. La Madonna Sistina è un atto di conoscenza di Dio non meno del sistema metafisico di Hegel, e i quadri di Vaznecov [...] raggiungono lo stesso scopo.

Il grande amore di Bulgakov per il quadro di Raffaello durerà un quarto di secolo. L’epilogo di questa storia avviene nel , quando Bulgakov, emigrato e già prete, prendendo le distanze dalla componente mistico-erotica della sua prima sofiologia, rifiuta anche il vecchio ideale. Riflettendo sulle impressioni lasciategli dal secondo e ultimo incontro con la Madonna Sistina, Bulgakov scrive: L’opera di Raffaello possiede una particolare tensione, essa cerca di manifestare il principio Verginale attraverso lo strumento di questa bellezza ambigua anzi, nell’ambiguità della bellezza peccaminosa [...] ho visto e ho sentito tutta l’impurità, la sensualità del quadro di Raffaello, la lascivia del suo pennello e la sua sacrilega immodestia!

A quel punto, non era più Picasso il “mascalzone imbrattatele” che aveva insozzato la Madonna di Raffaello, ma lo stesso Raffaello, col suo pennello “impuro”, che era un pittore da strapazzo e un corruttore, e l’ideale della Sistina di fatto si tramutava nell’ideale di Sodoma... Come 

Ivi, pp. -. S.N. Bulgakov, Dve vstrecˇ i (-). Iz zapisnoj knižki (Due incontri [-]. Dai taccuini), in Id., Tichie dumy, cit., pp. -. 

“Il cadavere della bellezza” cento anni dopo

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siamo lontani dal sentimento di venerazione che aveva colto Bulgakov al suo primo, miracoloso incontro con la Madonna Sistina, punto d’inizio della sua conversione: «Tu Stessa toccasti allora il mio cuore, che sussultò a questo richiamo!». E se al primo incontro lui, «sbarbatello social-idiota» e ateo, aveva pregato e pianto davanti alla Madonna Sistina, e grazie ad essa si era convertito, la seconda volta, da sacerdote, riceve quasi una contro rivelazione: «Pregare davanti a questa immagine? ma è un vituperio, impossibile!». Quello stesso anno, in un testo di Bulgakov troviamo una metafora sorprendente: «tutta questa mistica della Bellissima Dama porta direttamente al bolscevismo», annota nel diario di Praga. In sostanza, non è certo il cubo futurismo a “smembrare” la Bellezza, e quello che prima appariva come Bello non era in realtà che «un cadavere infiorettato», «sepolcri imbiancati: che all’esterno appaiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume (Mt , )». È stato veramente perspicace Puškin nel creare la figura del sapiente Finno! Questo personaggio, un tempo ammaliato dalla bellezza di Naina, dopo aver «concepito il mistero terribile della natura col suo chiaro pensiero», riconosce nell’adorata beltà una vecchia strega. Questa è certo una tragedia... Ma parlando seriamente, non è un caso che nel XX secolo molti pensatori ed artisti abbiano individuato l’origine della dissoluzione nell’arte del Rinascimento, e per di più non nella sua fase tarda, discendente, ma già agli albori della scoperta di questo mondo di vita nuova e di bellezza: in Donatello e in Giotto. Così, Henry Moore ha definito Donatello come il “modellatore” che ha aperto la strada alla decomposizione della forma plastica. Interessante il fatto che questo giudizio veniva espresso dallo scultore dell’avanguar-



S.N. Bulgakov, Svet nevecˇ ernyj. Sozercanija i umozrenija (Luce senza tramonto. Contemplazioni e meditazioni), Mosca , p. .  Bulgakov, Dve vstrecˇ i, cit., p. .  Ivi, p. .  S. prot. Bulgakov, Iz pamjati serdca (Dalla memoria del cuore), Praga [-]. Pubblicazione e commento di A. Kozyrev e N. Golubkova con la partecipazione di M. Kolerov, in Issledovanija po istorii russkoj mysli. Ežegodnik za  (Ricerche di storia del pensiero russo. Annuario per il ), Mosca , p. .  Nell’opera Ruslan e Ljudmila [N.d.T.].

Natal’ja Vaganova

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dia proprio nello stesso , quando Bulgakov coglieva il veleno nascosto nella tela di Raffaello. Ora dobbiamo affrontare un aspetto molto importante della percezione e del giudizio di Bulgakov sull’arte. Nel , ricordando i sentimenti provati al primo incontro con la Madonna Sistina, scrive: «Non era un’impressione puramente artistica [...] però era un autentico turbamento spirituale». Queste le radici del problema: come scrive oggi un autore popolare da noi, Hans Sedlmayr: «Se il principio spirituale non viene trovato già nella sostanza stessa dell’opera d’arte, poi lo si potrà introdurre nell’opera solo dall’esterno, come facciata spiritualistica che nasconde un nucleo chiuso in cui non c’è lo spirito» . Quando nel valutare l’opera d’arte, o nella stessa creazione dell’opera d’arte, ci si basa su fondamenti diversi, che non sono immanenti all’arte stessa – religiosi, scientisti, politici, morali o quel che si vuole –, si verifica una sostituzione che porta alla necrotizzazione dell’arte nelle forme più diverse, e allora si può parlare non più di bello in quanto tale, ma dei gradi di corruzione del cadavere. Certamente Bulgakov, nei suoi diversi atteggiamenti verso la Madonna Sistina e non solo verso di essa, partiva da altri fondamenti non intrinseci all’arte. Per questo l’antinomia dei suoi due incontri con la Madonna Sistina è falsa sia nella tesi che nell’antitesi. La prima volta le ha attributo qualcosa che in essa non c’era, mentre la seconda volta, convintosi che questo non c’era, non è riuscito a cogliere quello che invece c’era e c’è. Cioè, appunto, tutto quello che deve esserci nell’arte in senso classico: una forma corporea bellissima come espressione di un contenuto spirituale bello, e per di più non nel loro significato eterno, perenne, imperituro, ma in una determinata fase di sviluppo dello stile. Di questo mondo classico della Bellezza, ai primordi del suo nascere, aveva dato testimonianza con passione Platone, nel Fedro: Nessuno dei poeti di quaggiù cantò né canterà mai degnamente la regione sovra celeste. [...] Ora, della giustizia, della temperanza e di tutte le altre virtù che sono preziose per le anime non c’è nessuna luce nelle rassomiglianze terrene [...]. La bellezza invece era splendida a vedersi a quel tempo, quando, con un coro felice, si contemplava il beato spettacolo che essa of

Bulgakov, Dve vstrecˇ i, cit., p. .

“Il cadavere della bellezza” cento anni dopo

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friva [...]. Perfette, semplici, immutabili e beate erano le visioni a cui eravamo iniziati e che contemplavamo in una luce pura, anche noi puri [...] si contemplava il beato spettacolo che essa offriva alla vista e si era iniziati a quella che è lecito chiamare la più beata delle iniziazioni [...]. La vista infatti è il più acuto dei sensi che giungono a noi attraverso il corpo [...] solo la bellezza ha avuto questa sorte, di essere evidentissima e amabilissima. Dunque chi non è stato iniziato di recente [...] non si slancia rapidamente di qua e di là, verso la bellezza pura [...] chi invece è stato iniziato recentemente e chi ha a lungo contemplato le visioni passate, quando vede un bel volto di aspetto divino, che imita bene la bellezza, o un bel corpo, per prima cosa ha un fremito....

Ora questo mondo è morto, ha abbandonato la vita per sempre, il suo posto è al museo, questo «magnifico cimitero dell’arte» secondo il celebre aforisma di Lamartine. Ricordo, tra l’altro, che Berdjaev, che nello stesso periodo di Bulgakov ha lasciato un giudizio sulla pittura di Picasso, osserva puntualmente, anche se di passaggio: «È la rottura radicale dell’arte con l’antichità». Concludo. Nell’arte del Medioevo cristiano, in Occidente come in Oriente, non era il bello ma l’elemento spirituale la categoria estetica determinante. Ma neanche questo l’ha salvata dalla morte. Per questo, nonostante tutto quello che possono dire i nostri puristi che vanno ripetendo le parole di Florenskij, Bulgakov, Losev sulla superiorità dell’immagine iconica rispetto ai quadri occidentali, anche nell’arte che era indissolubilmente legata al dogma ed era conformata a un programma liturgico, come a Bisanzio, il processo squisitamente artistico ha seguito la stessa via: prima la sintesi della forma bella, poi il suo esaurirsi nello stile, quindi il decadimento. E poi tutto ricomincia daccapo, fino a che la forma classica non si esaurisce completamente, definitivamente e in tutte le sue varianti, associazioni e inversioni (cioè esattamente lo stesso che avviene con l’arte profana). Per questo è inutile sperare che il Bello tornerà nell’arte (e sta già tornando!) non appena l’arte si volgerà alle proprie fonti spirituali, se con questo intendiamo le fonti religiose confessionali (tanto più se de-



Platone, Fedro,  c;  c -  a. N. Berdjaev, Krizis iskusstva (La crisi dell’arte), Mosca , p.  (trad. it. in Pensieri controcorrente, La Casa di Matriona, Milano , p. ). 

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Natal’ja Vaganova

limitiamo queste fonti in senso cronologico e geografico, ad esempio l’antica Rus’ fino alle riforme di Pietro). Questo ce lo conferma un semplice fatto. Siamo sinceri: a parte qualche successo isolato, la rinascita dell’iconografia (come dell’architettura sacra) non è avvenuta nel nostro ambito ecclesiale (almeno per ora). Esistono, certo, alcuni singoli maestri che lavorano splendidamente, dotati e persino celebrati, molto stimati, giovani ed eminenti. Ma in quanto fenomeni artistici essi rappresentano piuttosto un collettivo di singole individualità, con un personale orientamento verso questo o quello stile iconografico del passato. Mentre la tendenza generale dell’iconografia consiste in quello stesso “nucleo chiuso”, nella ripetizione più o meno magistrale di forme eclettiche del tutto prive di spirito, o fornite di quello spirito ristretto che Bulgakov chiamava metafisicamente mediocre. Del resto il problema non sta affatto nell’allontanamento dal canone ma ha un carattere squisitamente estetico: quello che manca qui è appunto l’arte. Se vogliamo tornare agli entusiasmi di Bulgakov per gli affreschi di Vaznecov della cattedrale di San Vladimir, e lasciando da parte il loro slancio eccessivo seppure scusabile, merita riconoscerne anche la giustezza: l’arte sacra del Secolo d’argento è stata l’ultimo tentativo di sintesi creativa nell’arte religiosa russa, purtroppo interrotto violentemente. Ma nell’Europa cristiana l’arte liberty ha prodotto per lo meno il grande fenomeno di Gaudí, un maestro che, tra l’altro, è stato tanto più all’avanguardia nella sperimentazione artistica quanto più approfondiva la sua fede cattolica. Per poter rinascere, l’arte deve innanzitutto ritornare a se stessa, al proprio spirito, all’estetica come propria essenza, e ritrovare così il proprio posto nella vita dell’uomo. Lo spirito dell’arte non è lo spirito assoluto, eterno, infinito, trascendente ma, se vogliamo, è il Dio che muore e risorge, Osiride e Dioniso. In questo senso è importante il titolo francese del libro di un allievo di Bulgakov, Vladimir Vejdle, L’agonia dell’arte. Le api di Aristeo. Secondo il mito, Aristeo, che aveva offeso Orfeo con la sua passione per Euridice, viene punito con la morìa delle sue api. Espiata la sua colpa con copiosi sacrifici, le api ricompaiono il nono giorno, uscendo dalle carcasse putrefatte degli animali sacrificati...

Konstantin Rubinskij*

La poesia creata dai bambini: ricerca dell’immagine del bello

Per quale motivo un bambino si prende l’iniziativa di scrivere poesie, racconti o fiabe? Per desiderio di esprimersi? Per far contenta la mamma o per fare gli auguri in versi al nonno? Magari anche. Perché all’improvviso gli è venuto sulla lingua qualcosa in rima, ha incominciato a balbettare armonie mai sentite? Questo è già più interessante. Oppure, poi nell’adolescenza, la passione per la scrittura nasce con la difficile, a volte tormentosa, ricerca di ideali, dell’armonia in questo mondo tutt’altro che ideale e armonico? «C’è poca bellezza attorno a me, allora devo crearla» ha detto una ragazzina prendendo carta e matita. Proprio per questo i bambini frequentano le lezioni del laboratorio letterario, corso facoltativo promosso dal Liceo di fisica-matematica di Celjabinsk. Vi sorprende? Si dice che nei fisici e matematici sia sviluppato l’emisfero “non creativo” del cervello, quello scientifico-razionale. Ma a quanto pare, non basta la bellezza e la perfezione delle sole formule algebriche. Il problema sta nel fatto che molti bambini che appena iniziano a lavorare con le parole, prendono la “bellezza” alla leggera, in modo superficiale; le “cose belle” nei loro esperimenti poetici si potrebbero chiamare piuttosto cose “attraenti” o addirittura “carine”. I primi tentativi sono inevitabilmente corredati da una serie di clichés classici, che tutti conosciamo: cuore-amore, fiori-colori, stelle-facelle, goccia di pianto-splendore d’incanto ed altre zuccherose meraviglie, prese di peso dai peggiori modelli delle romanze da salotto o, viceversa, dai banali modelli della musica “pop”. Qui ci troviamo di fronte a un concetto di bellezza a livello di riflesso condizionato, ma naturalmente è necessario passare per questo primo stadio. Del resto, è altrettanto evidente che alla persona esperta che legga simili cose torneranno subito alla mente i famosi versi * Liceo n.  di Cˇelijabinsk.

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Konstantin Rubinskij

di Nikolaj Zabolockij: «E dunque, cos’è la bellezza? [...] È un vaso con dentro niente, o un fuoco tremolante dentro il vaso?». È proprio questo fuoco scintillante che cerchiamo di far scoprire ai ragazzi; io lo considero il mio compito principale. È chiaro che i bambini che frequentano il nostro laboratorio nella maggioranza non diventeranno poeti, e nemmeno letterati di professione, e tuttavia molti di loro, oso sperare, diventeranno degli adulti con un fine senso del bello. E se vogliamo parlare del senso del bello nella prospettiva religiosa, come stile cristiano, ripeto che oggi, nel mondo, le immagini del bello, soprattutto in poesia, non vanno cercate nelle cose ricercate, trendy e gratificanti, che somiglino alla pettinatura di un cantante di canzonette, ma da tutt’altra parte. Oggi voglio parlare di un solo aspetto della ricerca del bello, in una direzione dove di solito non la si cerca. Ricordiamo il concetto antico di bellezza legato alla perfezione dell’Universo e alla formula «se una cosa è bella, lì c’è Dio» (o, volendo, al contrario). Questa è la percezione idealistica del bello come incarnazione della divinità nelle cose o nei fenomeni concreti. Accanto a questo modello esiste quello soggettivistico, per il quale il bello non è oggettivo, ma la fonte del bello è l’individuo stesso, la coscienza selettiva di chi contempla. Mi arrischio a dire che nel nostro caso questi due modelli non solo non si escludono l’un l’altro, ma anzi costituiscono un originale tandem. In Rainer Maria Rilke c’è uno stupendo racconto, Come una volta a un ditale capitò di essere Dio. Sette bambini, dopo aver osservato i grandi, arrivano alla conclusione che «i grandi hanno smesso di occuparsi di Dio» e decidono di occuparsene loro per proprio conto. Questa idea strana consiste nel fatto che per una settimana i bambini si assumono il compito di portare con sé e conservare scrupolosamente Dio: uno per giorno, in modo da sapere «sempre di preciso dov’era». La parte di Dio la fa un semplice ditale, perché «qualsiasi cosa può essere Dio, bisogna solo dirglielo». Il bambino che porta Dio si distingue dagli altri perché «assume un certo portamento, parla in modo solenne, con un’espressione festosa sul volto». Verso la fine il ditale viene perso dalla piccola Marija, che si mette a cercarlo in un prato dall’erba alta, e quando i passanti le chiedono cosa stia cercando, Marija piangendo, ma pur sempre coraggiosa e testarda, risponde: «Cerco Dio». Non starò a raccon-

La poesia creata dai bambini

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tare per intero questa storia ingenua e saggia, quello che mi interessa qui è la seguente osservazione: i bambini non vedono più nel ditale il ditale, la sua «ditalicità appare ora solo come il modesto rivestimento del suo essere autentico». Qui si cela appunto un semplice segreto, formulato poco prima da un altro scrittore e poeta europeo, Novalis: «Se ami qualcuno, lo trovi dappertutto». Scorgere Dio in un semplice ditale, riconoscere un’idea superiore o un ideale in qualcosa di insignificante è forse strano e paradossale? Come ha detto lo stesso Rilke: «Il brutto è il bello che ancora non ha trovato posto nella nostra anima». Che pensiero meraviglioso, ma è veramente nuovo? Certamente no. La Gerda di Andersen, che ritrova il suo Kay cattivo, arrogante e indifferente che gioca con balocchi di ghiaccio nel palazzo della regina delle nevi, non smette mai di vedere in lui il fratello amato e buono. Mentre il Bimbo-stella della fiaba di Wilde non riconosce nella mendicante sporca e stracciata la regina sua madre e si beffa di lei, per la qual cosa viene punito per un certo tempo. Quante altre storie della letteratura mondiale parlano del principe che bisogna riconoscere in un mostro? Non si contano. Esiste la bellezza evidente, che non si fa fatica a riconoscere: è lei stessa che si offre agli occhi, amarla è facile (anche se spesso viene rapidamente a noia). Ma c’è la bellezza interiore, celata, e per vedere il “fuoco tremolante” ci vuole uno sguardo speciale, misericordioso, benevolo, pensoso, e anche un po’ ingenuo. Come ha scritto Lev Ozerov: Alla luce del giorno non c’è grigiore Il grigiore è la vostra apatia, La distrazione, la fatica degli anni Il vostro umore autunnale. Dove per voi c’è una macchia indistinta, Per me fioriscono valli di papaveri. Ogni cosa è unica ma non la stessa, Ogni cosa è unica ma non uguale.

La poetessa Tat’jana Bek, da poco scomparsa, con la quale ho avuto la fortuna di tenere i seminari letterari, raccomandava ai poeti in erba di inserire appositamente nei versi degli oggetti “non poetici”. Influenzato da questo consiglio, ho fornito ai miei allievi questo elenco di im-

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magini per le loro poesie: volframio, suola, imbiancatura, mussli, pigiama, fiammifero acceso. Converrete con me che usando questi elementi è ben difficile scrivere qualcosa di serio e di profondo, senza scivolare nello humour banale e nell’ironia, oppure senza ridursi alla semplice catalogazione degli oggetti d’uso quotidiano. È ben difficile vedere in oggetti più che terreni qualsiasi grandezza e bellezza, soprattutto da parte di amanti di “cuore-amore”. Eppure, come ha scritto la Bek: Mi hanno sempre attirata i cortili sul retro E le discariche abbandonate da Dio... Non il pane rotondo ma le croste secche. Non le cicogne ma le cornacchie immonde. Le strade curve, I boschetti radi. I volti brutti, E gli sgabelli zoppi. Faziosamente distribuirò bellezza A tutta questa imperfezione... A quello che, onestamente, Esiste anche senza di me.

Ciò che è imperfetto e brutto ha bisogno di essere guardato in modo attento e doppiamente amorevole. In un film non russo, c’è un normale sacchetto di plastica che “danza” al vento, ma un ragazzo che lo osserva dice incantato: «A guardarlo a lungo, si vede Dio». Certo, qui è bello a suo modo l’osservatore stesso, che ripete quasi alla lettera il modello idealistico della concezione antica della bellezza, ma oltre a questo, è il suo soggettivismo che attribuisce all’oggetto quei tratti interiori poetici che forse (ahimè) in realtà non esistono neppure. Un pregiudizio bello attribuisce al fenomeno o all’oggetto osservato uno speciale “splendore divino” che vivifica la carne persino di un sacchetto di plastica o di uno sgabello zoppo (per dirla col poeta degli Urali Vitalij Kal’pidi, grazie alla poesia intravvediamo come «l’argento dello spirito riluce solenne nella morsa di ciò che non è argento». Noi sappiamo quant’è facile voler bene (soprattutto da piccoli) ai parenti più prossimi, anche se questi hanno dei grossi difetti fisici o morali. I bambini vedono nei loro cari questo “splendore divino”. Ose-

La poesia creata dai bambini

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rei dire che, per chi scrive, il mondo deve diventare come un parente prossimo, che non ha bisogno di sprezzante ironia o di accuse (accusare è la cosa più facile) ma di comprensione e sensibilità. Quando al celebre poeta degli Urali Boris Ryžij hanno chiesto in cosa consiste l’essenza della poesia, ha risposto: «Penso che il poeta debba fare l’avvocato, ma mai in nessun modo il pubblico accusatore della vita [...]. Io, mi sembra, giustifico, giustifico molto. Vorrei, quando scrivo versi, giustificare la vita». Ed ecco una celebre sentenza di Boris Pasternak: «La poesia sarà sempre quella cosa più alta delle Alpi di celebrata altezza, che giace nell’erba, sotto i nostri piedi, così che basta piegarsi per vederla e raccoglierla da terra». Non è forse vero che l’idea di Pasternak coincide col racconto del ditale perduto, che è di vitale importanza ritrovare nell’erba? È con questo orientamento che spesso iniziamo i corsi del nostro laboratorio letterario. Molti non hanno voglia di chinarsi. Molti non riconoscono le minuzie felici, i trucioli e l’immondizia (da cui, com’è noto, “crescono i versi”) perché questi non sembrano meritare l’attenzione poetica. Inoltre, gli adolescenti scrivono in genere versi pieni di pessimismo (anche questa fase è necessaria), ma il pessimismo è miope rispetto ai particolari minuti; come dice il poeta Aleksandr Kušner, «la visione tragica è altezzosa». La giovane poetessa Ksenija Bukši ha una poesia che approfondisce la metafora pasternakiana. Ricordiamo che ci sono delle splendide mele che maturano sui rami, ma ci sono anche le mele cadute anzitempo che marciscono al suolo. È difficile È difficile amare quelle verdi e aspre, che fanno strato sotto i nostri piedi. Difficile amare quel che è acerbo, marcio. La terra abbatte troppo presto le selvatiche e cattive. E non maturano. Molto onore. Duecento sono troppe per la mamma-melo. I frutti mancati bussano coi pugni sul tetto. Affiorano dal pozzo. Ma anche se il verme le rode,

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hanno lo spirito melino e anche più in alto, sono fiorite allo stesso modo. Difficile amarle, neanche il sole può, noi soli possiamo.

Davvero torna alla mente la celebre «pietà per i caduti» di Puškin, o il vecchio proverbio russo citato da Dostoevskij e da Gogol’: «Vogliate bene a noi piccoli e neri, se fossimo bianchi tutti ci amerebbero». È importante il particolare che anche i “frutti mancati” hanno avuto il loro momento di gloria, di maturazione, il loro attimo di felicità. Forse una felicità molto più intensa, sottolineata ancor più chiaramente dalla loro sorte poco invidiabile, esteriormente squallida. Molto significativa, in questo senso, la poesia dello scrittore e teologo inglese Gilberth K. Chesterton, intitolata L’asino, che è scritta dalla parte dell’animale. All’inizio l’asino è descritto come l’incarnazione della più assurda bruttezza. E solo negli ultimi versi si parla del suo “momento supremo”, che illumina di una nuova motivazione tutta l’esistenza, che diventa bella e corrispondente al principio divino: Volaron pesci, camminaron boschi, nacque il fico dai rovi, di sangue era la luna, son sicuro, quando fui generato. Capo mostruoso, un verso disgustoso, orecchie come ali parodia ambulante del diavolo fra tutti i quadrupedi. Straccione, reietto sulla terra, da sempre il più testardo; fame, frusta, motteggi: resto muto, conservo il mio segreto. Io pure, sciocchi, ho avuto la mia ora; un’ora fiera e dolce: c’era clamore nelle mie orecchie e un tappeto di palme sotto i piedi.

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Come ben si capisce, si parla dell’ingresso di Cristo a Gerusalemme in groppa all’asino. La sensazione di essere all’ombra del principio divino può talvolta salvaguardare il nostro personaggio, esternamente brutto, dal pericolo di farla finita se, naturalmente, si tratta di un uomo. Infatti anche l’ultimo dei frutti cascati è stato voluto dall’alto, e pur essendo piccolo e sparuto porta in sé una parte di un disegno sapiente e inconoscibile. In una poesia scritta dalla mia allieva quattordicenne Ol’ga Altuchova: Pulisco il mezzanino. Rifiuti: Cinque scatole di roba da bambini. È ora di buttarle, ma mi spiace, Perché qua ci son io. Mucchi di bambole, vecchi compiti, Mosche crepate per la polvere... Butterei anche me con tutto il resto; Ma lo sai, qua ci sei Tu.

La roba vecchia del mezzanino è preziosa perché è parte della vita, cioè del passato della protagonista; ma la protagonista stessa, che esprime l’idea eretica e pericolosa di “buttarsi” anche lei, non lo può fare perché si sente parte della vita di Uno il cui nome e pronome si scrivono con la maiuscola. Soffermiamoci ora sui procedimenti e i metodi che permettono ai bambini di imparare a trovare il bello nel brutto, l’elevato nel semplice. Dirò di tre passaggi creativi che portano a questo. ) Scrittura di un’ode. Ricerca del bello e del significato in ciò che sembra squallido e inutile. ) Lavoro con la “metafora che eleva”. Dare vita a ciò che sembra privo di vita. ) Metodo della straniazione. Sorpresa e stranezza in ciò che sembra quotidiano. . Scrittura di un’ode. Com’è noto, questo genere laudativo ha subito notevoli metamorfosi storiche. Se l’ode classica celebrava cose effettivamente elevate, “nobili” e importanti (il sovrano, l’eroismo in battaglia, il cielo stellato), le odi scritte nell’ultimo secolo possono cantare con

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l’identico pathos una comune ciambella (Aleksandr Vvedenskij), un pedone che cammina per la strada (Marina Cvetaeva), o persino... la miopia (Marina Borodickaja). Più o meno uguale è il compito che viene affidato ai bambini: scrivere l’elogio di oggetti quotidiani in stile elevato, con pathos e, possibilmente, con sincero affetto. Possono essere oggetti come lo spazzolino da denti, un bottone o una pastiglia per la tosse. Naturalmente questo esercizio spesso arriva al limite dello scherzo e dell’ironia, ma di solito permette al bambino di elevare l’immagine quotidiana e abituale ai propri occhi e a quelli del lettore: Lode a te, uovo all’occhio! Compi il tuo destino! Ti cuoce la padella magica, Il tuo profumo è balsamo dell’anima! Vieni al mattino assieme all’emicrania E svegli in me un fiero appetito. Sei il capolavoro di papà, Resti il tuo aroma in eterno! (Rostislav Jarcev,  anni)

. Lavoro con la metafora che eleva. La metafora consiste nel paragonare degli oggetti per la somiglianza di qualche loro aspetto, ma quanto può essere diversa la tipologia di questo paragone! Ad esempio, se paragoniamo una nuvola a un batuffolo di cotone, si tratta di una metafora discendente, poiché è come se la nuvola scendesse sulla terra tanto da toccarla con la mano. Ma se paragoniamo il fuoco e un fiore, abbiamo una metafora ascendente, poiché il fuoco non è vivo (anche se il poeta non ci può credere), mentre il fiore è vivo; si crea la sensazione della vita: la metafora in questo caso compie una sorta di evoluzione dall’inorganico all’organico. Se noi diciamo che le gocce sono maturate sui rami, anche le gocce prendono vita. Se noi, seguendo Lomonosov, affermiamo che i venti non soffiano ma si ribellano, li abbiamo animati. Basta che dichiariamo “alata” la testa di una renna con corna divaricate, come ha fatto Novella Matveeva, e in un comune animale si manifesta la sorprendente somiglianza con un angelo.

La poesia creata dai bambini

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. Il metodo della straniazione. Questo termine è stato inventato dal critico Viktor Šklovskij. È facile confonderlo col termine “rimozione”, ma a differenza di quest’ultimo, deriva dall’espressione “rendere strano”. «Il metodo della straniazione – dice Šklovskij – consiste nel fatto di non chiamare una cosa col suo nome normale, ma nel descriverla come la si vedesse per la prima volta, o di un fatto, come se non fosse mai accaduto prima». Io chiedo ai ragazzi di immaginarsi di essere dei selvaggi nella foresta vergine dell’Amazzonia che arrivano sugli Urali e vedono per la prima volta la neve che cade. Quali parole troveranno, quali immagini e paragoni per descrivere questo fenomeno per loro miracoloso? Come lo racconteranno poi ai loro fratelli selvaggi? Quando qualcosa di abituale fino alla noia ci viene proposto come sorprendente, incomprensibile, inatteso, esso viene ingigantito da questa stranezza, acquisisce una certa enigmaticità regale: «Su quattro zampe una grande creatura se ne va muggendo nel villaggio nebbioso», non si capisce subito che questo essere descritto da Zabolockij è un comune toro. Anche la visuale qui ha la sua importanza. Abbiamo una macroripresa poetica su un primissimo piano. L’autore è un mio allievo, diventato ora un celebre giovane poeta, Lev Oborin. I fianchi consumati da asteroidi, Una rete di crepe nel ghiaccio che attende il pescatore. Non è lo sputnik Europa, frena l’ardore cosmico. È una pera cinese, l’ho lavata sotto il rubinetto. E giacciono le pesche nella loro pelle atmosferica. Gli acini d’uva tendono al buco nero. In questo buco, vorticando, scorre l’acqua. Ma io non li lascio cadere.

All’inizio uno non potrebbe immaginare che il protagonista non si trova in pieno cosmo ma sta semplicemente davanti all’acquaio e osserva come si lava della normale frutta... Per riassumere, ricordiamo il termine usato da Osip Mandel’štam: «la gioia dell’agnizione». Questa gioia, in poesia, è forse la più importante per il lettore. Ed effettivamente i versi migliori sono quelli in cui vedia-

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Konstantin Rubinskij

mo e riconosciamo noi stessi, i nostri sentimenti, gli oggetti e i paesaggi soliti e comuni ma visti in una visuale nuova, e con un’insolita profondità di sguardo. Per dirla con le parole di Chodasevicˇ , la poesia dà vita ai «mestieri più prosaici», rende bella, piena di luce interiore e di significato qualsiasi minuzia. Questa è la sua forza di trasfigurazione. Ma in questo contesto, ogni poeta che trasfiguri questo nostro mondo così poco attraente non è un po’ cristiano? Infatti, come sappiamo, lo sguardo cristiano coglie anche nella cosa più degradata la sostanza divina. Vede la creazione com’era stata pensata originariamente dal Creatore, vede in essa l’amore e la luce del Creatore. Anche il Redentore vedeva nelle persone la loro natura originaria, quella che avevano prima della cacciata dal paradiso, e la restituiva loro. «C’è poca bellezza attorno a me, allora devo crearla», ripeto ancora una volta le parole che la mia allieva ha detto davanti a un foglio bianco. Parafrasando Robert Penn Warren, che disse: «devi fare il bene dal male, perché non c’è nient’altro da cui tirarlo fuori», auguro a quella ragazza di saper cogliere la bellezza nel brutto, perché talvolta non c’è altro dove coglierla. È un’occupazione difficile e ingrata, ma il segreto fuoco baluginante, che la scorza comune della realtà nasconde, brama di essere visto e conquistato. E lo sguardo penetrante del bambino, paradossalmente, spesso vede più acutamente questo fuoco. Termino con la poesia di questa ragazzina, che si chiama Nadja Samolikova, poesia scritta a  anni. Guardare d’un tratto fuori e non riconoscere la città: La tormenta di gennaio è pelosa come uno scialle. E alla luce di un fanale, di una finestra e di un semaforo: La terra vellosa, l’asfalto invisibile. Si ferma la notte davanti all’anno che nasce, E si muove qualcosa senza musica o parole: Una silenziosa nevicata, è Dio che scende sulla terra Nel coro ammutolito di alberi e palazzi.

Ignacio Carbajosa*

«Ho cercato di prendermela come sposa, mi sono innamorato della sua bellezza» (Sap , ). La bellezza della sapienza nella Bibbia

. Il contesto culturale del libro della Sapienza Colpisce veramente leggere il libro della Sapienza avendo negli occhi il contesto culturale in cui vive la comunità ebraica della città di Alessandria, luogo probabile di composizione di questo libro. La città è stata fondata da Alessandro Magno nel  a.C. e da allora è diventata un potente centro d’irradiazione della cultura greca. Il successore di Alessandro Magno in Egitto, Tolomeo I (- a.C.), costruisce una biblioteca con la pretesa di accogliere tutto il sapere del mondo. Infatti, comincia a ospitare la produzione letteraria e scientifica di Grecia, Egitto, Mesopotamia e Persia. Diventa così il primo centro di ricerca e il principale luogo di trasmissione della conoscenza nell’Antichità, almeno fino alla fine del III secolo d.C. Già dall’inizio si stabilisce in questa città una comunità ebraica che crescerà col tempo e che pian piano comincia a interagire con la cultura greca. Segno chiaro è la grande opera di traduzione in greco della Legge ebraica (i primi cinque libri della Bibbia, o Pentateuco), ai tempi di Ptolomeo II (- a.C.), conosciuta come Settanta (LXX). Nei decenni successivi furono tradotti anche il resto dei libri della Bibbia ebraica (libri profetici e sapienziali), prova della continuità nel tempo di una comunità ebraica fortemente radicata nella cultura e nella lingua greca. Alla fine del I secolo a.C., l’opera dell’ebreo Filone di Alessandria ( a.C. -  d.C.), scritta in greco sotto un notabile influsso della filosofia ellenica, mostra ancora i forti legami tra la comunità ebraica e la cultura greca. Bisogna anche aggiungere che l’arrivo della civiltà greca in Oriente, a partire della seconda metà del IV secolo a.C., mette Israele davanti a * Università Ecclesiastica San Damaso, Madrid.

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Ignacio Carbajosa

delle questioni che sfidano radicalmente la sua fede. Fino ad allora, e per più di ottocento anni (dall’insediamento in Canaan), Israele aveva avuto a che fare con imperi e popoli che avevano una stessa radice culturale, quella mesopotamica. La sua fede era cresciuta e maturata in questo contesto che si può definire all’ingrosso come politeista o idolatrico. A partire da questo momento, invece, specialmente durante il dominio greco dei Seleucidi in Palestina, nel II secolo a.C., Israele affronta la prima “secolarizzazione” della fede, quando alcuni israeliti, attratti dalla cultura greca, ne vogliono imitare lo stile di vita. Anni dopo, l’imposizione dei decreti contro il culto di Israele metterà ulteriormente alla prova le certezze del popolo ebraico. Questa pressione culturale del mondo greco era, evidentemente, molto più sentita all’interno della comunità ebraica di Alessandria, che doveva fare i conti, nel quotidiano, con tutte le espressioni del modo di vivere e pensare dei greci. È in questo contesto, e in questa città, nella seconda metà del I secolo a.C., che si scrive il libro della Sapienza. Questo libro è una chiara testimonianza del dialogo che il giudaismo tentava di stabilire col pensiero ellenico. Fino al punto di scrivere un libro direttamente in greco, seguendo le regole della retorica greca. Infatti, il genere letterario di questo libro è l’elogio o enkômion, ben conosciuto dai trattati di retorica di Aristotele, Cicerone e Quintiliano. Concretamente, si tratta dell’elogio della sapienza, un esercizio pedagogico per i giovani nel loro periodo di formazione. Nell’esordio, questo elogio prevede di dar voce a coloro che hanno qualcosa contro la persona o l’oggetto che viene esaltato, in modo che l’elogio, per essere persuasivo, doveva affrontare tutte le ragioni che esistevano contro esso. In questo modo, il mondo ebraico presenta la sua concezione della sapienza avendo come interlocutore il logos greco. Allora, per capire la novità e la portata di giudizio di questo libro, è importante conoscere com’era concepita la sapienza (e come veniva acquisita) nel modo greco. La sapienza classica greca cerca di appropriarsi del logos o ragione delle cose. In questo cammino della filosofia, il sapiente greco ha come alleato la ri-flessione, il tornare su se stesso per capire, per raggiungere il logos. La massima gnôthi seautón (conosci te stesso), e l’immagine della levatrice che pazientemente tira fuori da noi la verità che abbiamo dentro (in cui consiste la maieutica di Socrate) descrivono bene, anche se sommariamente, il rapporto tra il

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filosofo greco e la sapienza. La sapienza si raggiunge attraverso la riflessione e lo studio (dentro una vita virtuosa), e non tramite la domanda alla divinità o l’attenzione e l’obbedienza a una rivelazione fattasi storia. Avendo in mente la potenza di questo mondo del logos greco, colpisce l’audacia di Israele in questo libro, che usa tutto il vocabolario del discorso razionale: lógos (ragione), logismós (ragionamento), logízomai (ragionare). Scendendo in campo con tutto l’arsenale della dialettica greca, la sapienza ebraica si permette di sfidare la grande cultura che la ospita. Infatti, accusa i sapienti greci del suo tempo di ragionare male: «Dicono fra loro sragionando» (Sap , : ei\pon ga;r ejn eJautoi`" logisavmenoi oujk ojrqw`"). Da dove viene quest’audacia? Che cosa permette ai giudei di ragionare in modo corretto, sfidando i greci sul loro campo? O ancora meglio, per andare alla radice della questione, da dove viene la sapienza di Israele? Come la raggiunge? L’elogio della sapienza che propone l’omonimo libro risponde a queste domande, mettendoci davanti l’universo concettuale del popolo scelto, molto diverso da quello greco. Così ci viene proposta l’immagine della sapienza come donna da sposare. . La sapienza, donna da sposare Per capire bene l’immagine della sapienza come donna da sposare, partiamo dai primi versetti del capitolo ottavo del libro della Sapienza: Ho amato e ricercato la sapienza fin dalla mia giovinezza, ho cercato di prendermela come sposa, mi sono innamorato della sua bellezza. Essa manifesta la sua nobiltà, in comunione di vita con Dio, perché il Signore dell’universo l’ha amata (Sap , -).

Per il sapiente per antonomasia, Salomone, la sapienza non è qualcosa da raggiungere tramite la riflessione, non è il risultato dell’accumulare conoscenze con lo studio. È un dono che viene dal cielo, cercato, sì, anzi implorato, ma ricevuto come grazia. L’immagine della sapienzadonna da sposare serve per sottolineare il mistero dell’alterità (evidente nella differenza sessuale) nel cuore del rapporto tra il sapiente e la Sapienza.

Ignacio Carbajosa

 . La metafora sponsale nei profeti

L’uso dell’immagine sponsale non è una risorsa esclusiva del libro della Sapienza. Appartiene alla tradizione di Israele che già dall’epoca della profezia classica, prima con Osea e dopo con Geremia, ha concepito la sua alleanza con il Signore come un’alleanza matrimoniale. Il Signore, Dio di Israele, rappresenta lo sposo e il popolo è la sposa. Il periodo nel deserto rappresenta il tempo del fidanzamento (Os , -; Ger , ), mentre gli sposalizi furono celebrati sul Sinai, dove fu firmato il contratto matrimoniale con le sue clausole. In Ezechiele la stessa immagine viene utilizzata per descrivere i rapporti tra il Signore Dio e la città di Gerusalemme. Nonostante la città fosse nata pagana, Dio l’ha voluta far vivere e l’ha risparmiata alla devastazione della conquista (Ez , -). Soltanto nell’adolescenza, nel tempo degli amori, il Signore l’ha sposata e ha stabilito un’alleanza con lei, una chiara allusione alla conquista della città da parte del re Davide (Ez , ). Da allora la città entra nell’alleanza di Dio col popolo eletto e, come tale, usufruisce dei benefici del contratto matrimoniale, cioè della preferenza divina, espressa nella grandiosità che la città raggiunge ai tempi di Salomone (Ez , -). Queste immagini includono anche la figura dell’adulterio: la donnaIsraele (o Gerusalemme) non è stata fedele all’alleanza, al primo amore, ed è andata dietro ai suoi amanti, gli idoli (Os , -; Ger ,  - , ; Ez , -). . Il carattere femminile della sapienza Anche nella letteratura sapienziale è stata usata la metafora sponsale prima del libro della Sapienza. Concretamente nei libri dei Proverbi e del Siracide (Ecclesiastico). Nei primi nove capitoli del libro dei Proverbi, che costituiscono una lunga introduzione a tutta l’opera, vengono contrapposte due figure femminili: la stoltezza e la sapienza. Tutte e due sono donne che attirano l’attenzione del giovane inesperto che si introduce nell’arte della vita. La stoltezza è incarnata da una prostituta, da una donna straniera (o estranea alla casa del giovane) o da una donna sposata che cerca di se-

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durre altri uomini quando il marito è lontano. Queste donne usano l’inganno, seducono nella solitudine e di nascosto, nel buio della notte, ma alla fine non mantengono le loro promesse e chi le segue è condotto nell’abisso (cfr. Pr , -; , -; , -; , -.-; , -). Al contrario, la sapienza è una donna che si presenta apertamente nei luoghi più frequentati, invita ad un banchetto senza inganni e chi la segue raggiunge la felicità, un tesoro più prezioso di tutte le ricchezze (cfr. Pr , -; , -; , -). Questa donna-sapienza è, in contrasto con la prostituta o l’adultera, la donna da abbracciare («Non abbandonarla ed essa ti custodirà, amala e veglierà su di te [...] sarà la tua gloria, se l’abbraccerai», Pr , .), ma si presenta anche come madre (Pr , ) o sorella (Pr , ). Nel libro del Siracide (o Ecclesiastico) si riprendono, sia in modo esplicito che implicito, le immagini della sapienza come sposa e madre. Nel quindicesimo capitolo si esplicitano entrambe le figure: Chi è fedele alla legge otterrà anche la sapienza. Essa gli andrà incontro come una madre, l’accoglierà come una vergine sposa [...]. Egli si appoggerà su di lei e non vacillerà, si affiderà a lei e non resterà confuso (Sir , .).

Nel capitolo quarto, invece, queste due immagini sono soltanto accennate, ma in modo tale che risultano riconoscibili: La sapienza esalta i suoi figli e si prende cura di quanti la cercano. Chi la ama ama la vita, quanti la cercano solleciti saranno ricolmi di gioia. Chi la possiede erediterà la gloria, qualunque cosa intraprenda, il Signore lo benedice [...], il Signore ama coloro che la amano [...], chi le presta attenzione vivrà tranquillo (Sir , -).

Dobbiamo notare, comunque, che la metafora sponsale ha subito un cambio nel passaggio dalla letteratura profetica a quella sapienziale. I ruoli della donna e del marito si sono scambiati. Nella letteratura profetica Israele giocava il ruolo di donna infedele. In realtà non poteva svolgere un altro ruolo visto che il Signore doveva essere, per forza, il marito. Israele non poteva assumere la figura dello sposo infedele che va dietro alle prostitute, e cioè, agli idoli, perché allora la sposa avrebbe dovuto essere Dio, il che non era adeguato alla sua immagine di padre, padrone e Signore.

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Nella letteratura sapienziale, invece, il sapiente israelita gioca il ruolo di amante o sposo che cerca di prendersi la sapienza come sposa. Essendo l’istruzione sapienziale rivolta ai maschi, non c’è niente più adeguato della figura della donna, che rappresenta l’alterità, per descrivere quello che l’uomo anela raggiungere e che può ricevere solo come dono. Quindi è chiaro che la sapienza è un personaggio di donna non tanto perché abbia delle virtù femminili, ma perché rappresenta l’alterità costitutiva e insuperabile per l’uomo che cerca istruzione. Questa è proprio la stessa ragione per cui Israele gioca il ruolo di donna infedele nel rapporto con lo sposo-Signore. Questa metafora fa sorgere una domanda molto pertinente. Dato il fatto che Israele (o il sapiente israelita) rappresenta uno dei poli nella differenza sessuale, che rapporto c’è tra il Signore e la sapienza, che rappresentano l’altro polo, l’alterità per il popolo scelto? Possiamo stabilire un parallelismo tra il Signore e la sapienza? In altri termini, la sapienza ha un’origine divina? . La Sapienza generata da Dio A questa domanda rispondono due passi dei libri dei Proverbi e del Siracide: Pr , - e Sir , -. In questi due inni, la sapienza parla in prima persona svelando la sua origine. Infatti, ambedue rappresentano il culmine di un misterioso processo di personificazione della sapienza. All’inizio l’immagine della sapienza come dono che viene dall’alto poteva indurre a pensare di essere davanti a una qualità divina, a una virtù concessa da Dio. Già l’immagine della sapienza-donna che l’uomo anela sposare inizia un processo di misteriosa personificazione che non consente di ridurre la sapienza a un puro attributo divino. Questo processo culmina nello svelarsi del rapporto che c’è tra la sapienza e il Signore Dio creatore. Anche tra loro c’è una misteriosa alterità che conferma che il carattere personale della sapienza non era soltanto una risorsa letteraria. Leggiamo prima l’inno della Sapienza di Proverbi : Il Signore mi ha creato, principio della sua attività, prima di ogni sua opera, fin d’allora. Dall’eternità sono stata costituita, fin dal principio, dagli inizi della terra. Quando non esistevano gli abissi, io fui generata; quando ancora

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non vi erano le sorgenti cariche d’acqua [...], quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso [...] allora io ero con lui come architetto ed ero la sua delizia ogni giorno, dilettandomi davanti a lui in ogni istante; dilettandomi sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo (Pr , -..-).

Quando la sapienza deve parlare della sua origine, si rifà al Dio creatore: è stato Lui a generarla, ma non come un’opera qualsiasi della creazione, neppure come la prima opera. La sua origine è «prima di ogni Sua opera», non in senso cronologico ma logico: infatti, la sapienza è «principio della Sua attività», cioè strumento essenziale per lo sviluppo posteriore di tutta la creazione. Anzi, più avanti si mostra il ruolo della sapienza nel processo della creazione: «io ero con Lui [il Creatore] come architetto». Questa misteriosa alterità nel seno di Dio ha anche una nota affettiva. La sapienza non è un tecnico che lavora per il Creatore nell’opera della creazione: «io ero la Sua delizia ogni giorno, dilettandomi davanti a Lui in ogni istante». Si mostra così il legame affettivo che lega Dio e la sapienza generata da Dio come principio della creazione. L’inno si chiude mostrando il ruolo di mediazione tra Dio e gli uomini che gioca la sapienza: se la sapienza è la delizia di Dio, è negli uomini dove la sapienza pone le sue delizie. Questo ruolo di mediatore si sottolinea specialmente nell’altro inno della Sapienza, che ora è invece preso dal libro del Siracide: Io sono uscita dalla bocca dell’Altissimo e ho ricoperto come nube la terra. Ho posto la mia dimora lassù, il mio trono era su una colonna di nubi. Il giro del cielo da sola ho percorso, ho passeggiato nelle profondità degli abissi. Sulle onde del mare e su tutta la terra, su ogni popolo e nazione ho preso dominio. Fra tutti questi cercai un luogo di riposo, in quale possedimento stabilirmi. Allora il creatore dell’universo mi diede un ordine, il mio creatore mi fece posare la tenda e mi disse: Fissa la tenda in Giacobbe e prendi in eredità Israele. Prima dei secoli, fin dal principio, egli mi creò; per tutta l’eternità non verrò meno (Sir , -).

L’origine della sapienza è posta, ancora una volta, in Dio: «uscita dalla bocca dell’Altissimo». All’inizio questa sapienza aveva la sua dimora nei cieli e da lì dominava ogni popolo e nazione. Si sottolinea così il ruolo di “dominatore” o signore, che distribuisce sapienza. Infat-

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ti «per mezzo mio regnano i re» (Pr , ), dice la sapienza. Ma il “cuore” di questo inno è la tensione della sapienza che cerca un luogo di riposo, dove stabilirsi. Ed ecco il mandato del Creatore: «Fissa la tenda in Giacobbe e prendi in eredità Israele». Ancora una volta, la sapienza gioca il ruolo di mediatore tra Dio e gli uomini, in questa occasione tra Dio e il Suo popolo Israele, dove la sapienza stabilirà la sua tenda. . La bellezza della sapienza Torniamo così al nostro passo del libro della Sapienza, dove Salomone cerca di sposare quella sapienza che ha messo la sua tenda in Israele. Dopo tutto il percorso fatto dalla letteratura profetica e sapienziale, intorno alla metafora sponsale e all’origine divina della sapienza, siamo messi in condizione di capire l’attributo di bellezza della sapienza. Infatti, l’autore del libro mette nelle labbra del sapiente Salomone questa affermazione: «Ho amato e ricercato la sapienza fin dalla mia giovinezza, ho cercato di prendermela come sposa, mi sono innamorato della sua bellezza» (Sap , ). La donna-sapienza, dunque, è bella. Ma l’attributo della bellezza, purtroppo, non è proprio di tutte le donne. Di una donna si può dire che è “brutta”. Da dove proviene, dunque, la bellezza della donna-sapienza? Perché si sottolinea che il sapiente Salomone si è innamorato della sua bellezza? Una prima risposta ci viene dal concetto stesso di alterità che sta dietro all’immagine femminile della sapienza. Dell’alterità si può dire che è bella perché attraente, perché corrispondente, perché adeguata alla tensione naturale (religiosa) dell’uomo, di cui la differenza sessuale non è altro che un segno potente. Detto in termini classici, se la bellezza è splendor veritatis, la sapienza, come alterità corrispondente all’uomo, è vera e, dunque, bella. Ma c’è una ragione ancora più profonda per giustificare l’attributo di bellezza usato per la sapienza. La troviamo nella continuazione delle parole di Salomone: «La sapienza manifesta la sua nobiltà, in comunione di vita con Dio, perché il Signore dell’universo l’ha amata» (Sap , ). Come è la donna-sapienza di cui Salomone si è innamorato? Il testo dice due cose della sapienza: a) la convivenza (symbíosis) con Dio le da un’origine nobile (eugéneia);

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b) il Signore di tutte le cose l’ha amata. Possiamo, dunque, dire che la bellezza della sapienza viene dalla symbíosis con Dio. La convivenza con Dio, che è Bellezza, fa bella la sapienza. Infatti le opere di Dio «sono splendore di bellezza» (Sal , ), dice il salmista. Anzi, Dio è «lo stesso autore della bellezza» (Sap , ), come riconosce l’autore del libro della Sapienza. D’altra parte, Dio stesso l’ha amata, e perciò come può non essere bello quello che Dio ritiene «la Sua delizia ogni giorno»? (Pr , ). . La bellezza si è fatta carne Il desiderio di Salomone di sposare la sapienza diventa preghiera rivolta a Dio: Con te è la sapienza che conosce le tue opere, che era presente quando creavi il mondo; essa conosce che cosa è gradito ai tuoi occhi e ciò che è conforme ai tuoi decreti. Inviala dai cieli santi, mandala dal tuo trono glorioso, perché mi assista e mi affianchi nella mia fatica e io sappia ciò che ti è gradito (Sap , -).

Quale forma storica ha assunto lo sposalizio tra il sapiente Salomone, che dà voce a Israele, e la sapienza che è insieme a Dio? La voce divina che si è fatta sentire quando Gesù di Nazaret è uscito dalle acque del Giordano ha identificato in un punto, in una carne umana, quella delizia dei Suoi occhi: Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire su di lui. Ed ecco una voce dal cielo che disse: ‘Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto’ (Mt , -).

In modo sorprendente l’Incarnazione viene a compiere il desiderio di Salomone che si era espresso anche con i versi del Cantico dei Cantici. Il primo versetto di quest’opera, attribuita al re sapiente, è stato interpretato dalla tradizione di Israele come il desiderio di una rivelazione definitiva, che non dipende dalla mediazione mosaica: «Mi baci con i baci della sua bocca» (Ct , ).

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Ignacio Carbajosa

Il teologo alessandrino Origene, nel III secolo d.C., riprende quella tradizione israelitica riconoscendo in Cristo lo sposo che Israele ha sempre desiderato baciare: Il senso delle parole è il seguente: ‘Fino a quando il mio Sposo mi manderà baci per mezzo di Mosè, o mi manderà baci per mezzo dei profeti? Io desidero toccare la sua stessa bocca. Che venga lui stesso in persona! Che lui stesso scenda!’. Infatti, prega il padre dello Sposo e gli dice: ‘Che mi baci con i baci della sua bocca’. Trattandosi di lei, e per fare in modo che si compisse la profezia che dice: ‘Mentre ancora starai parlando, io ti dirò: eccomi’ (cfr. Is , ), il Padre dello Sposo ascolta la sposa: manda suo Figlio (Hom. In Cant. Cant. , ).

Infatti, il Padre ha inviato il Figlio amato (il Verbo che era presso di Lui e per mezzo del quale tutto è stato fatto, Gv , .) per le nozze con Israele. Già Giovanni il Battista l’ha riconosciuto come lo sposo. La sua gioia è la gioia dell’amico dello sposo, che è venuto per assistere allo sposalizio tra il figlio del re, lo sposo, e Israele, la sposa, chiamata ad allargare i suoi confini per ospitare tutte le nazioni: Voi stessi mi siete testimoni che ho detto: Non sono io il Messia, ma io sono stato mandato innanzi a lui. Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta. Egli deve crescere e io invece diminuire (Gv , -).

È lo stesso Gesù che si presenta sia come sposo che come figlio del re che è arrivato per le nozze. Ma gli invitati a queste nozze non vogliono assistere, per cui l’invito si apre a tutte le nazioni: Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non vollero venire (Mt , -). Allora gli dissero: «I discepoli di Giovanni digiunano spesso e fanno orazioni; così pure i discepoli dei farisei; invece i tuoi mangiano e bevono!». Gesù rispose: «Potete far digiunare gli invitati a nozze, mentre lo sposo è con loro? Verranno però i giorni in cui lo sposo sarà strappato da loro; allora, in quei giorni, digiuneranno» (Lc , -).

La bellezza della sapienza nella Bibbia

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Come abbiamo già visto nel passaggio dalla letteratura profetica a quella sapienziale, anche con l’arrivo della pienezza della rivelazione troviamo che i ruoli della donna e del marito, nella metafora sponsale, si sono scambiati. In realtà Gesù ha assunto nella Sua persona sia il ruolo del Signore che è lo sposo della adultera Israele (secondo l’immagine dei profeti), sia il ruolo della donna sapienza che il sapiente israelita desidera sposare. Anche di Gesù, vera sapienza che è alla destra del Padre, si può dire che è bello e che la Sua bellezza viene dalla symbíosis con Dio. È per questo che tutta la Chiesa dirige a Lui le parole del salmo: «Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia, ti ha benedetto Dio per sempre» (Sal , ).

Anton Nebol’sin*

La bellezza nell’Apocalisse e dell’Apocalisse

La parola “apocalisse” nell’uso quotidiano significa spesso catastrofe e perdizione finale. Nello stesso modo si recepisce anche l’ultimo libro della Sacra Scrittura, l’Apocalisse di san Giovanni, che ha preso come titolo la sua prima parola, che in greco suona appunto apokàlypsis. Tali idee allignano anche tra persone che non sono estranee a una certa cultura ecclesiale. Per altro la parola apokàlypsis in sé non contiene alcun significato catastrofico, significa semplicemente “rivelazione”. E la rivelazione può riguardare le cose più diverse, non escluse le cose più liete e rassicuranti. Queste stesse cose liete e rassicuranti sono presenti anche nell’Apocalisse di san Giovanni, per cui le impressioni catastrofiche di cui si diceva riguardo a questo libro e, di conseguenza, il fatto di usare questo libro per attribuire alla parola “apocalisse” un senso catastrofistico non sono che un grosso errore. Questo errore dev’essere superato, e nel superarlo il ruolo decisivo spetta ai membri della Chiesa che hanno una formazione teologica. L’Apocalisse non è un libro horror ma la rivelazione sul mondo creato da Dio, dove si verifica l’usurpazione della condizione divina da parte delle forze ostili a Dio, un mondo che tuttavia rimane pienamente sotto il controllo provvidenziale del suo Creatore. L’Apocalisse testimonia non solo che Dio è il Creatore del mondo e il Fine dei suoi destini storici, ma parla anche della presenza di Dio in questo mondo oppresso dal male. In questo mondo è stato immolato l’Agnello-Cristo, e in questo mondo, essendo stato offerto, Egli ha redento gli uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione (Ap , ). L’Apocalisse è il libro sul popolo di Dio che si trova in comunione con il suo Salvatore qualsiasi cosa accada attorno a lui. Qui non possono non essere in primo piano i valori positivi, uno dei quali è la bellezza.

* Università Ortodossa Umanistica San Tichon, Mosca.

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Anton Nebol’sin

Non a caso Giancarlo Biguzzi inizia il suo commento all’Apocalisse con le parole: «L’Apocalisse è difficile ma bellissima». Parlando della bellezza riguardo all’Apocalisse, si possono distinguere due aspetti. Da un lato la bellezza sicuramente è presente nella struttura figurativa del libro, basti ricordare le immagini di colui che è Simile a Figlio dell’Uomo (cap. ), della Donna vestita di sole (cap. ) e della Nuova Gerusalemme (capp. -). Questa, per così dire, è la bellezza interna dell’Apocalisse, o la “bellezza nell’Apocalisse”. Dall’altro lato la bellezza viene ormai ravvisata, per così dire, nella forma esteriore del libro: nella lingua e nella composizione. E questa è quella che potremmo definire la “bellezza dell’Apocalisse”. Cominceremo la nostra riflessione dalla bellezza esterna, la “bellezza dell’Apocalisse”, per passare poi a considerare la “bellezza nell’Apocalisse”. Dunque, la bellezza esterna dell’Apocalisse si manifesta nella sua composizione. Oggigiorno l’integrità e la raffinatezza della sua struttura sono universalmente riconosciute. Non potendo qui analizzare in dettaglio la costruzione del libro, ci soffermiamo solo sugli aspetti più generali che meglio ne manifestano la bellezza. Innanzitutto citiamo l’eleganza e l’evidenza della macrostruttura dell’Apocalisse. Lo sviluppo drammaturgico reso attraverso il movimento dei settenari: lettere, sigilli, trombe e coppe; la rappresentazione del finale della storia umana come antitesi tra le immagini di due donne/città: la grande meretrice Babilonia e la sposa dell’Agnello, la Nuova Gerusalemme; la presenza nel libro di costanti espressioni-formule che segnano i confini delle grandi sezioni o che, viceversa, uniscono sezioni apparentemente non

 G. Biguzzi, Apocalisse. Nuova versione, introduzione e commento, Ed. Paoline, Milano , p. .  A questo proposito non possiamo non osservare che la struttura figurativa dell’Apocalisse è stata un immenso serbatoio d’ispirazione per l’arte cristiana (soprattutto occidentale).  La bellezza si può vedere anche nel vocabolario dell’Apocalisse, molto ricco ed espressivo. Tuttavia questo aspetto di bellezza esteriore rimane meno evidente e meno importante della sua costruzione. Per l’analisi del vocabolario dell’Apocalisse cfr. Biguzzi, Apocalisse, cit., p. . Id., Giovanni di Patmos e la cultura ellenistica, in Apokalypsis. Percorsi nell’Apocalisse in onore di Ugo Vanni, a cura di E. Bosetti e A. Colacrai, Cittadella, Assisi , pp. -.  «Le cose che devono presto accadere» (, ; , ) e «quelle che accadranno dopo» (, ; , ); «in spirito» (, ; , ; , ; , ).

La bellezza nell’Apocalisse e dell’Apocalisse

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collegate, sono tutti elementi che rendono la composizione dell’Apocalisse straordinariamente integra e ben proporzionata. Inoltre la bellezza della struttura non si esaurisce nell’armonia. La specificità dell’Apocalisse di san Giovanni consiste nel fatto che la chiarezza di cui si diceva si unisce al mistero, l’eleganza alla polisemanticità. Quest’ultima si vede nel fatto che diverse formule, che nel libro hanno il ruolo di marker strutturali, evidenziano diverse varianti del suo strutturarsi che non coincidono e si appongono una all’altra. Così, ad esempio, i capitoli  costituiscono, da un lato, un’unica sezione, essendo legati dal medesimo riferimento allo stesso periodo di tre anni e mezzo (cfr. la nota ). Dall’altro, relativamente ai cicli settenari, si trovano evidentemente in posizioni diverse. Il capitolo  fa chiaramente parte della serie delle trombe (la settima tromba risuona in Ap , ), mentre i capitoli  e  sono legati alla serie delle coppe, presentando sulla scena la «trinità diabolica» (il dragone, la bestia del mare e la bestia della terra, che in seguito sarà chiamata falso profeta), sui cui seguaci si rovesciano le sciagure che seguono al versamento delle coppe. La polisemanticità si vede anche nel carattere più generale del piano e della direzione dello svolgimento drammaturgico dell’Apocalisse. La cosa più naturale è intendere il piano del libro come lineare e progressivo, cioè tale che le sezioni si organizzano in modo sequenziale dall’inizio alla fine. E tuttavia la straordinaria somiglianza di immagini e contenuto tra i cicli delle trombe e delle coppe, unita alla presenza della sezione ben definita dei capitoli - al centro del libro e delle sezioni ecclesiologiche all’inizio e alla fine (cioè le lettere alle sette chiese e la descrizione della Nuova Gerusalemme) ci permettono di cogliere la struttura chiastico-concentrica dell’Apocalisse. Questo piano sottolinea non il movimento sequenziale dall’inizio alla fine, ma il significato teologico assolutamente speciale dei capitoli centrali (-), attorno ai quali, come attorno a un’asse, si dispongono simmetricamente le altre sezioni del libro. In ogni caso, ciascuno dei possibili schemi compositivi mette in risalto alcuni aspetti della sua drammaturgia, ma non riesce ad esprimerne altri. La struttura dell’Apocalisse è a molti livelli: è come se il libro diventasse cangiante  Il termine di tre anni e mezzo, indicato in varie forme, si ripete nei capp. -:  mesi in Ap , ; , . Come . giorni in Ap , ; , . «Un tempo, dei tempi e la metà di un tempo» in Ap ,  (nel libro non viene citato in nessun altro passo questo termine); il termine «segno» in Ap , , ; , , che comunica l’unità dei capitoli -.

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davanti a noi e, mostrandoci le diverse facce, brillasse di diversi colori mostrando tutta la sua ricchezza narrativa e drammaturgica. Qui la bellezza è strettamente legata alla profondità. Non è la bellezza delle curiosità turistiche o dell’oggetto da museo, che presuppongono una contemplazione puramente esteriore o una “fotografia”. È una bellezza viva ed efficace, che per lasciarsi scoprire esige che si entri in modo attivo nel suo mondo e si partecipi creativamente alla sua rivelazione. Qui non si può non ricordare l’idea di David Aune, secondo cui la letteratura apocalittica ha la caratteristica di unire l’idea della rivelazione dei misteri al loro effettivo nascondimento, così che il lettore si trova costretto a immergersi a fondo nel testo e a svolgere un lavoro per rivelare davvero l’annuncio contenuto. Accanto alla macrostruttura dell’Apocalisse si può notare altresì la costruzione di sezioni più piccole. L’uso raffinato di varie forme di iterazione e di parallelismo, di inquadramenti, chiasmi, e tecniche di concatenazione (interlocking), quando una stessa sezione ha funzione conclusiva rispetto alla precedente e introduttiva rispetto alla successiva, ci permettono di godere esteticamente dell’Apocalisse anche nello spazio di pochi versetti. Abbiamo considerato brevemente la “bellezza dell’Apocalisse”; consideriamo ora il contenuto del libro, la “bellezza nell’Apocalisse”. Nella letteratura che tratta dell’Apocalisse di san Giovanni si parla spesso del suo “dualismo”. Ed effettivamente, in nessun altro libro del Nuovo Testamento si parla così apertamente dell’opposizione tra le forze del bene e del male, tra Dio e il diavolo, tra la Chiesa e il mondo. Sarebbe troppo facile immaginarsi questa opposizione come il conflitto tra la sfera del bello e la sfera del brutto. Ma nell’Apocalisse le cose sono più complesse e profonde. L’analisi attenta del testo dimostra che, in effetti, la bellezza è presente, sotto vari aspetti, in entrambe le parti di questa opposizione universale. Naturalmente essa si manifesta soprattutto nelle immagini che riguardano la sfera divina, la sfera del bene. Di cui fanno parte in primis le immagini di Dio e di Cristo. Sono poi le innumerevoli immagini di angeli e santi. E infine, sono le immagini

 D.L. Aune, The Apocalypse of John and the Problem of Genre, in Id., Apocalypticism, Prophecy and Magic in Early Christianity. Collected Essays, Grand Rapids , pp. -: .

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che riguardano la Chiesa: la Donna vestita di sole e la Gerusalemme Celeste, descritta come «la sposa dell’Agnello». Queste immagini sono appunto il cuore della bellezza nella Rivelazione di Giovanni. E tuttavia nell’Apocalisse non si usa neppure una volta l’aggettivo kalós (con tutti i suoi derivati), che è il più usato in greco per indicare la bellezza. In sua vece, tutta la sfera di immagini relativa è descritta tramite parole ed espressioni che richiamano la luce, lo splendore, il chiarore, e invece di kalós si mettono in risalto parole come lamprós e leukós. Questo splendore divino compare già nel primo capitolo, quando si descrive l’apparizione a Giovanni, sull’isola di Patmos, di uno simile a «Figlio di uomo» (Ap , -). Il tema della luce e dello splendore, che attraversa l’intero libro come un filo rosso, culmina nella descrizione della Nuova Gerusalemme (, -, ). Alla fine della descrizione la città escatologica assume i tratti del paradiso (, -). È attraversata da «un fiume d’acqua viva limpida come cristallo che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello», e «da una parte e dall’altra del fiume si trova un albero di vita che dà dodici raccolti» (, -). Davanti a noi, però, non c’è soltanto la restaurazione del paradiso originario, ma qualcosa di più. Qui nella Nuova Gerusalemme, a differenza della prima creazione, «non vi sarà più notte». La città ed i suoi abitanti «non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole» perché li illumineranno direttamente Dio e l’Agnello (, ; , ). In questo regno della luce irradiata insieme da Dio e dall’Agnello, dove anche il trono appartiene ad entrambi (, ), regneranno nei secoli dei secoli (, ) anche coloro che l’Agnello ha «riscattato per Dio con il suo sangue: uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione» (, ). Abbiamo davanti il quadro dell’unità assoluta e incrollabile tra Creatore e creatura. «Ecco la dimora di Dio con gli uomini» (, ). Il cammino che porta l’uomo a questa dimora, il processo di comunione con l’Agnello, e tramite l’Agnello con Dio, nell’Apocalisse sono descritti in due modi, ma in entrambi i casi con l’uso di immagini legate alla bellezza. Da un lato, questa comunione è possibile solo per chi «segue l’Agnello dovunque va» (, ), cioè lo segue fino alla Croce. La rappresentazione dei seguaci di Cristo come martiri splendidi nel loro sacrificio è tipica nell’Apocalisse. Sotto l’altare si trovano «le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che

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gli avevano resa», e «venne data a ciascuno di essi una veste candida» (, -). Stanno davanti al trono di Dio «coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione», e sono «avvolti in vesti candide, e portano palme nelle mani»; essi «hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello» (, ,). Sul mare trasparente stanno «coloro che avevano vinto la bestia e la sua immagine e il numero del suo nome» (, ). Del regno millenario di Cristo sono rese degne «le anime dei decapitati a causa della testimonianza di Gesù e della parola di Dio, e quanti non avevano adorato la bestia e la sua statua e non ne avevano ricevuto il marchio sulla fronte e sulla mano» (, ). Da un altro lato, l’Apocalisse dipinge l’unione escatologica della creatura col Creatore negli atti di adorazione liturgica. Nell’adorazione di Dio e dell’Agnello davanti al trono celeste da parte dei quattro animali e dei  vegliardi sono coinvolte «Tutte le creature del cielo e della terra, sotto la terra e nel mare, e tutte le cose ivi contenute» (-, citaz. da , ). «Una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi [...] avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani»; «coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione [...] stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo santuario; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro» (, -, citaz. da , , ). In tal modo, la luce che caratterizza la vita divina, la bellezza divina si comunica all’uomo fedele a Cristo se è pronto a testimoniare la propria fedeltà col martirio, e se si unisce ai propri fratelli (nonché alle forze celesti) nell’atto di adorazione e di ringraziamento reso a Dio. Tuttavia, com’è stato osservato sopra, la bellezza è presente in una certa misura anche nelle forze che si contrappongono a Dio. Oltre alla bellezza divina il Veggente conosce anche un’altra bellezza, profana, che sconvolge e attira «gli abitanti della terra». Alle immagini della donna 

La maggior parte delle scene dell’Apocalisse che contengono elementi liturgici (inni, atti di adorazione a Dio) permette di essere interpretata come realtà della Chiesa celeste, e tuttavia, anche accettando tale interpretazione come prioritaria, il fatto stesso che questa realtà venga così descritta ci spinge a vedere anche nella liturgia terrena, se non l’associazione esplicita alla liturgia celeste, almeno la sua anticipazione o pregustazione. Del resto, in Ap , , citato di seguito nel testo, si parla chiaramente della partecipazione delle creature sulla terra all’adorazione liturgica di Dio e dell’Agnello.

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vestita di sole e della sposa dell’Agnello si contrappone la figura della grande meretrice Babilonia (capp. -). Non staremo ad analizzare in dettaglio questa immagine, ma osserviamo almeno che senza dubbio si può riferire alla realtà della grande megalopoli che offriva mille possibilità di vita “bella” o “dolce”. Sicuramente la prostituta non è priva di bellezza. È riccamente vestita e ornata (, -), ne sono affascinati «i re della terra» (, ). È indicativo il grandioso pianto provocato dalla sua rovinosa caduta. Insieme ai re della terra Babilonia viene pianta da mercanti e comandanti di navi (, -); il più significativo è il lamento dei mercanti (, -). In confronto al lamento dei re e dei comandanti di navi, infatti, in mezzo ai quali è inserito, la descrizione del loro pianto si prolunga nell’elenco delle merci che rimangono invendute a causa della rovina della prostituta (, -). Gran parte di queste merci sono gioielli e oggetti di lusso. Siamo sicuramente davanti a un mondo di bellezza. E tuttavia questa bellezza non è offerta a Dio ma serve «la concupiscenza della carne, degli occhi e l’orgoglio della vita» ( Gv , ). Tale ricchezza è ricercata poiché gli uomini, dopo aver rifiutato Dio, bramano fanaticamente di soddisfare le proprie passioni. Non per niente l’immagine fondamentale legata all’ambito di questa bellezza è la lussuria. E non per niente l’antagonismo tra la grande meretrice (immagine dell’umana “seità”) e i seguaci dell’Agnello, che sono esempi di totale sacrificio e offerta di sé, è rappresentato nell’Apocalisse come estremo. La prostituta è «ebbra del sangue dei santi e del sangue dei martiri di Gesù» (, ). A Babilonia «fu trovato il sangue dei profeti e dei santi e di tutti coloro uccisi sulla terra» (, ). I santi invece sono chiamati a gioire della caduta di Babilonia: «Esulta, o cielo, su di essa, e voi, santi, apostoli, profeti, perché condannando Babilonia Dio vi ha reso giustizia» (, ). E qui veniamo a uno dei punti chiave dell’Apo Non si può non osservare in proposito che il Veggente nel suo libro sottolinea chiaramente l’importanza della seduzione nell’opera delle forze del male nel mondo. L’analisi particolareggiata dell’Apocalisse, impossibile nei limiti del presente intervento, ci permetterebbe di dimostrare che il pericolo maggiore per i fedeli non è rappresentato dall’oppressione brutale e violenta dei persecutori, quanto piuttosto dalla seduzione insinuante e paralizzante degli “ideologi” al loro servizio. Di qui l’importanza di figure come la «bestia della terra», poi chiamata falso profeta (, -; , ; , ; , ), e la grande meretrice Babilonia (Ap -). La seduzione si compie anche attraverso la bellezza. Sulla seduzione nell’Apocalisse cfr. J. López, La acción de engañar en el Apocalipsis de Juan, in «Gregorianum», n.  (), pp. -.

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calisse, per quanto riguarda il tema considerato. L’Apocalisse di Giovanni è un libro duro. Fatta esclusione per le lettere alle sette Chiese (-), l’immagine del mondo che presenta è tutta in bianco e nero. Ci sono solo i “nostri” e i “loro”, i “buoni” e i “cattivi”, i seguaci dell’Agnello e gli adoratori della bestia, quelli che sicuramente si salvano e quelli che altrettanto sicuramente si perdono, senza minimamente riflettere la varietà delle situazioni concrete e dei destini umani che intercorre tra questi due estremi, così come la vediamo attorno a noi, anche nelle pagine del Vangelo, degli Atti e nelle epistole. Nel contesto di una simile visione del mondo non c’è posto per la pietà verso i perduti. Ma alla fine del capitolo , dove questo netto dualismo è espresso in modo assolutamente esplicito, troviamo una sorta di deroga; una deroga passeggera, ma significativa proprio perché unica. Dopo aver detto della caduta di Babilonia, il Veggente si intenerisce per un momento e ci offre l’elenco di ciò che non vi sarà più nella grande città, e così facendo esprime in qualche modo la sua compassione: «La voce degli arpisti e dei musici, dei flautisti e dei suonatori di tromba, non si udrà più in te; ed ogni artigiano di qualsiasi mestiere non si troverà più in te; e la voce della mola non si udrà più in te; e la luce della lampada non brillerà più in te; e voce di sposo e di sposa non si udrà più in te» (, -). Interessante qui l’uso delle immagini del canto e del suono dell’arpa, della luce, dello sposo e della sposa: sono tutte immagini usate dal Veggente in altri passi del libro per indicare la sfera del divino, di ciò che è santo... Sono immagini che manifestano la bellezza. Così possiamo dire che il mondo della bellezza era caro a Giovanni non solo sulla base dei passi citati, dove si descrive la sfera del sacro, ma anche sulla base di questo passo. La bellezza è creata da Dio, ed è creata anche dall’uomo ma solo in forza delle facoltà che Dio gli concede. E il fatto che questa bellezza sia attirata nel campo dell’ateismo e della lotto contro Dio è un’autentica tragedia. A Babilonia la bellezza è arbitrariamente usurpata, corrotta, violentata. Assieme a Babilonia cade anche ciò che di per sé, non essendo legato alla seduzione della sua lussuria, non suscita condanna. Il vescovo Kassian (Bezobrazov) così commenta Apocalisse , -: «Queste parole ci stringono il cuore. Vi si percepisce l’amore per la vita nelle sue manifestazioni pure, l’eco della felicità degli sposi». Il teologo 

Kassian (Bezobrazov), Carstvo kesarija pered sudom Novogo Zaveta (Il regno di

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ungherese Gyula Takacs, sottolineando la «bellezza poetica» di questi versetti, li definisce come «un pianto di vera compassione, pieno di sentimento e di apprezzamento». Del resto, la conclusione che il Veggente tira da questa situazione tragica è sempre severa e inequivocabile. Non c’è nessun possibile compromesso. Tutto ciò che non si è chiaramente e definitivamente dissociato da Babilonia perirà. Ci si può salvare solo rompendo nettamente con la prostituta. «Uscite, popolo mio, da Babilonia per non associarvi ai suoi peccati e non ricevere parte dei suoi flagelli», questa è la voce dal cielo che Giovanni sente (, ). Tiriamo le somme. L’Apocalisse è sicuramente un libro di grande interesse per quanto riguarda l’immagine della bellezza che contiene. La bellezza è presente sia nella lingua che nella composizione. La bellezza è presente nella sua componente figurativa. Soprattutto la bellezza caratterizza la sfera della santità, sia la Fonte divina come le creature che vi partecipano. La comunione con la bellezza divina avviene da una parte nella testimonianza resa a Cristo, dall’altra nell’adorazione liturgica e nel rendimento di grazie a Dio e all’Agnello. Accanto alla bellezza della santità nell’Apocalisse si riflette anche la bellezza contrapposta, quella profana della seduzione. Questa bellezza trionfa in questo mondo, ma poi verrà meritatamente condannata e perirà. E tuttavia questa fine suscita qualcosa di simile al dolore anche in un autore poco incline al sentimentalismo come il Veggente. La falsa bellezza esiste solo nella misura in cui parassita il dono creativo e il senso estetico dati all’uomo da Dio, e diventa falsa proprio quando si sottomette al mondo immerso nel peccato (cfr.  Gv , ). Proprio questa tragica caduta della bellezza provoca un breve fremito in Giovanni, poiché è la caduta di ciò che sarebbe chiamato a riflettere la luce della verità in questo mondo.

Cesare davanti al giudizio del Nuovo Testamento), in Id., Da priidet Carstvie Tvoe. Sbornik statej (Venga il Tuo Regno. Raccolta di articoli), Paris , pp. -: .  G. Takacs, Jelenések könyve. Exegézis, Paulus Hungarus-Kairosz , p. .

Adriano Dell’Asta*

Si può ancora parlare di arte e di bellezza dopo Auschwitz e la Kolyma?

Parlare di arte e di bellezza sembra quasi un assurdo dopo il XX secolo e dopo l’esperienza dei totalitarismi, un’esperienza nella quale l’umano è passato attraverso una tragedia di tali dimensioni che ogni accenno alla purezza, alla bellezza artistica e alla loro immortalità sembra quasi una bestemmia o una forma intollerabile di disimpegno estetizzante. È noto a questo proposito l’aforisma di Adorno secondo il quale dopo Auschwitz non sarebbe più stato possibile fare poesia perché, anzi, una simile iniziativa sarebbe stata «un atto di barbarie». Quello che era accaduto era stato così terribile e disumanizzante, aveva così profondamente deformato l’immagine dell’uomo che non solo non ci si poteva più attendere o cercare alcuna catarsi artistica, ma che non si poteva più nemmeno pensare alla possibilità dell’arte. Ad un primo sguardo (che, come vedremo, rischia di essere molto superficiale) si deve ammettere che si era andati molto vicini alla distru* Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano; Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Mosca.  La formulazione completa del giudizio di Adorno è la seguente: «la critica della cultura si trova dinanzi all’ultimo stadio della dialettica di cultura e barbarie: scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie, e ciò avvelena la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie». Il saggio in cui compare questo passo (Kulturkritik und Gesellschaft) venne scritto nel  e apparve per la prima volta nel  in un volume collettivo (K.G. Specht, Th.W. Adorno, L. von Wiese, Soziologische Forschung in unserer Zeit. Ein Sammelwerk, Leopold von Wiese zum . Geburtstag, Westdeutscher Verlag, Köln ), per essere poi ripetutamente stampato in più edizioni; oggi si trova in Th.W. Adorno, Gesammelte Schriften in  Bänden, Band .: Kulturkritik und Gesellschaft I. Prismen. Ohne Leitbild, Suhrkamp, Frankfurt am Main , p.  (trad. it. Prismi. Saggi sulla critica della cultura, Einaudi, Torino , p. ). In seguito Adorno tornò sulla questione, mettendo in dubbio la correttezza del proprio giudizio e arrivando anche ad affermare nella sua Dialettica negativa: «forse è falso aver detto che dopo Auschwitz non si può più scrivere una poesia» (Dialettica negativa, trad. it. Einaudi, Torino , p. ).

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zione della stessa possibilità dell’arte, perché si era metodicamente perseguita l’eliminazione fisica degli artisti e di qualsiasi arte libera. Nella storia dell’Unione Sovietica (ma lo stesso ovviamente si potrebbe dire del nazismo, l’altro grande sistema totalitario del XX secolo), questo processo di distruzione si manifestò nella tragedia inaudita dei campi e delle fucilazioni di massa; inoltre, per chi sopravvisse o in qualche modo riuscì a evitare queste prove, il sistema totalitario fece comunque pesare la propria forza distruttiva, dando caratteristiche del tutto nuove a fenomeni già noti come la censura. La censura sovietica fu in effetti un fenomeno nuovo, quantitativamente e qualitativamente, al punto di essere ormai oggetto di una bibliografia quasi sterminata. La sua novità risulta evidente non appena si consideri che essa non si limitava più a proibire alcune tematiche, ma arrivava a imporre contenuti e forme espressive, secondo le prescrizioni definitivamente codificate dal realismo socialista. Il cuore di questa nuova concezione artistica era l’ingiunzione di rappresentare la realtà nella sua prospettiva rivoluzionaria, così da farne lo strumento con il quale eliminare il vecchio mondo, «scolastico e morto», e con il quale sostituire a questo mondo reale il processo della «trasformazione ideale» della società e dell’«educazione dei lavoratori nello spirito del socialismo». Censura essenzialmente ideologica, la censura sovietica era quindi il congegno studiato dal partito per l’edificazione di una nuova realtà, del tutto inventata, secondo le indicazioni ogni giorno mutevoli degli organi di governo e in «difesa degli interessi politici, ideologici, economicomilitari e culturali dello Stato sovietico».

 Questo era in effetti il senso del realismo socialista, secondo la definizione che ne era stata data durante il primo Congresso degli scrittori sovietici, tenutosi a Mosca tra il  agosto e il ° settembre . Nel suo intervento iniziale, il segretario del Comitato Centrale del partito, A.A. Ždanov, richiamando la definizione staliniana dello scrittore come «ingegnere di anime», aveva infatti precisato: «che cosa significa? Quali obblighi vi impone questa definizione? Significa, anzitutto, conoscere la vita per poterla descrivere veracemente nelle proprie opere, non in maniera scolastica e morta, ma semplicemente come una realtà effettiva, come una realtà colta nel suo sviluppo rivoluzionario. Alla veridicità e alla concretezza storica della rappresentazione artistica si devono inoltre accompagnare la trasformazione ideale e l’educazione dei lavoratori nello spirito del socialismo. Questo metodo, da applicarsi alla letteratura e alla critica letteraria, è ciò che noi definiamo metodo del realismo socialista»; cfr. G. Kraiski, V. Strada (a cura di), Rivoluzione e letteratura. Il dibattito al I Congresso degli scrittori sovietici, Laterza, Bari , p. ).

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Ovviamente non ci possiamo attardare su questi due aspetti, l’eliminazione fisica degli artisti e l’eliminazione ideale del principio artistico realizzata attraverso la censura; abbiamo accennato ad essi solo per dare l’idea di quanto vada preso sul serio l’ammonimento di Adorno e di quanto lontana sia da noi la tentazione di minimizzare il livello di barbarie raggiunto. Eppure nonostante tutto questo, nonostante l’imponenza di un sistema senza precedenti e l’imponenza dell’autentico sterminio che esso produsse, la posizione di Adorno cela in realtà una profonda debolezza di fondo che la rende, ad uno sguardo non superficiale, del tutto inconsistente. Quali che siano infatti le considerazioni e le valutazioni che noi possiamo fare, quali che siano i nostri punti di vista, l’affermazione perentoria con la quale Adorno sosteneva l’impossibilità dell’arte è stata smentita dai fatti, dalla realtà di una produzione letteraria il cui valore artistico è indiscutibile e la cui origine, in molti casi, è proprio quel mondo dei campi di concentramento che per Adorno doveva segnare la fine dell’arte; basti pensare qui a Primo Levi, Elie Wiesel e Robert Antelme per i campi nazisti, ad Aleksandr Solženicyn, Vasilij Grossman e Varlam Šalamov per i campi sovietici. Levi poi ha anche fatto di più che contestare Adorno con la propria opera; gli ha controbattuto con una replica altrettanto radicale: «la mia esperienza è stata opposta. [...] Dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz». Sull’altro versante, quello sovietico, Šalamov, pur così lucido nel denunciare la potenza distruttiva dei campi, confermava che, non solo da essi poteva nascere poesia, ma che se nei campi era stato possibile conservare un minimo di umanità questo era stato possibile proprio grazie alla poesia; così, scrivendo a Pasternak, gli diceva: conosco persone che sono vissute, sopravvissute grazie ai Suoi versi, grazie alla percezione del mondo che i Suoi versi comunicavano [...]. Ha mai pensato a questo? Agli esseri umani che sono rimasti esseri umani soltanto perché con sé avevano le Sue parole, i Suoi disegni e pensieri? Che i Suoi versi venivano letti come preghiere?

 P. Levi, L’ora incerta della poesia, intervista di G. Nascimbeni per il «Corriere della Sera» del  ottobre , in P. Levi, Conversazioni e interviste. -, Einaudi, Torino , p. .  V.T. Šalamov, Pis’ma k B.L. Pasternaku (Lettere a B.L. Pasternak), lettera del 

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Per quanto potessero essere serie le ragioni e le argomentazioni di Adorno, si deve ammettere che contro la realtà dei fatti e contro un’esperienza dolorosamente condivisa non pare possa esservi ulteriore spazio di discussione: l’arte ha continuato e continua ad esistere. Tuttavia, se fossimo arrivati subito a questa conclusione, per altro giustissima, e se ci limitassimo alla pura constatazione della realtà, rischieremmo di perdere di vista due cose fondamentali: da una parte rischieremmo di non capire in che cosa consista e da cosa dipenda l’errore di Adorno e, dall’altra, rischieremmo di non capire che cosa significhi la presenza della poesia nella vita dell’uomo, che resta drammatica ed è costantemente attraversata dalla morte e dal rischio della negazione radicale. Non risponderemmo veramente ad Adorno se non ricordassimo innanzitutto che la tragedia fu davvero smisurata e che i primi a dover superare i dubbi circa la legittimità dell’arte nel mondo contemporaneo furono gli stessi autori della grande letteratura concentrazionaria. È l’esperienza di Primo Levi che prova «vergogna» perché è «vivo al posto di un altro» e si convince che «i “salvati” del lager non erano i migliori. [...] Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti». E questa convinzione è così salda che, pur al culmine di una testimonianza che ha reso la sua opera un patrimonio per tutta l’umanità, resta e anzi cresce in lui il dubbio circa la liceità morale di questa stessa opera: [un] amico religioso mi aveva detto che ero sopravvissuto affinché portassi testimonianza. L’ho fatto, meglio che ho potuto, e non avrei potuto non farlo; e ancora lo faccio, ogni volta che se ne presenta l’occasione; ma il pensiero che questo mio testimoniare abbia potuto fruttarmi da solo il privilegio di sopravvivere, e di vivere per molti anni senza grossi problemi, mi inquieta.

dicembre , in Sobranie socˇ inenij v cˇ etyrëch tomach (Opere in quattro volumi), Chudožestvennaja Literatura - Vagrius, Moskva , IV, p.  (trad. it. in V.T. Šalamov, B.L. Pasternak, Parole salvate dalle fiamme. Ricordi e lettere, Rosellina Archinto, Milano , p. ). In seguito citeremo ancora le lettere di Šalamov a Pasternak con la sigla PSF, indicando tra parentesi i dati della traduzione italiana.  P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino , p.   Ivi, pp. -.  Ivi, p. .

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Occorre dunque testimoniare e raccontare, ma avendo ben presente che quello che deve essere raccontato è qualcosa che ha raggiunto livelli di disumanità così inimmaginabili da sembrare indicibili; secondo un sacerdote cattolico reduce dal campo di Dachau, il superstite si vergogna del proprio racconto: si vergogna della propria vita. Gli sembra di avere rubato la propria vita a tutti coloro che non sono ritornati, e gli pare di approfittare della loro morte. Perché solo i morti sono i veri testimoni dei campi di concentramento.

In questo senso, la coscienza dei reduci dai campi nazisti coincide completamente con quella dei sopravvissuti ai campi comunisti; così Charlotte Delbo scrive provocatoriamente: «Se fosse vero / quello che noi diciamo / non saremmo qui per dirlo», e sia Aleksandr Solženicyn sia Varlam Šalamov quasi le fanno eco, ricordando costantemente che se si può raccontare qualcosa di un campo questo significa che non si tratta ancora dell’ultimo girone dell’inferno, di un campo di sterminio, perché da questo tipo di campi non si ritorna. La posta in gioco è dunque chiara: «si trattava di far capire quello che non si poteva capire; si trattava di esprimere l’inesprimibile». A questo proposito va sottolineato come questa capacità di esprimere l’inesprimibile sia proprio ciò che costituisce l’essenza dell’arte in quanto tale; l’arte, infatti, è arte appunto in quanto è capace di raccontare il mistero (il miracolo della realtà), il suo fascino nasce proprio dal fatto che essa è capace di mostrarci e di farci toccare quel mistero che costituisce e produce il fascino della realtà in quanto irriducibile a quello che l’uomo stesso può creare o inventare. L’arte è sempre così: racconto dell’indicibile, “reportage sul miracolo”; in qualche misura, il fatto dell’indicibilità assoluta dell’esperienza dei campi costringeva l’arte che nasceva nei campi di concentramento ad essere doppiamente se stessa proprio per questa necessità di dire l’indicibile assoluto, ciò che era doppiamente indicibile.

 Cit. da A. Wieviorka, Déportation et génocide. Entre la mémoire et l’oubli, Plon, Paris , p. .  C. Delbo, Auschwitz et après. III. Mesure de nos jours, Les Éditions de Minuit, Paris , p. .  Cfr. A.I. Solženicyn, Arcipelago Gulag, trad. it. Mondadori, Milano , II, p. .  G. Perec, L.G. Une aventure des années soixante, Seuil, Paris , p. .

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Se nonostante questa contraddizione apparentemente insuperabile, tra il dovere del racconto e l’indicibilità di ciò che doveva essere raccontato, si arrivò comunque a scrivere e poi si arrivò, proprio attraverso la scrittura, a fare dell’indicibile un oggetto di racconto e di memoria, questo deve indurci a porre il problema delle caratteristiche che rendono l’arte capace di un’operazione nella quale l’indicibilità (storica, politica, filosofica e teologica) di un’esperienza limite come quella dei campi viene superata proprio perché l’indicibile viene raccontato e detto artisticamente. Per dirla in maniera più semplice: cosa deve essere l’arte, il regno della bellezza immortale, il regno della forma (obraz), perché proprio attraverso di essa si arrivino a dire e a raccontare persino le cose più brutte (bezobraznye), quelle cose che né la storia, né la politica, né la filosofia, né la teologia riescono più (o ancora) a dire? È il paradosso di una forma che si ritrova là dove la deformazione dell’umano, e della realtà nel suo complesso, sembrava essere arrivata al suo culmine e aver reso così impossibile ogni raffigurazione per la scomparsa di tutte le figure umane e del principio stesso della forma, in un mondo reso radicalmente, essenzialmente e moralmente brutto (bezobraznyj, letteralmente “senza forma”). Proprio in questo paradosso si realizza l’arte secondo la definizione che ne ha dato Pasternak, per il quale «l’arte è al servizio della bellezza, la bellezza è la felicità di dominare la forma e dunque l’arte, anche quella tragica, è il racconto della felicità di esistere». Attraverso la realtà di questo paradosso non ci viene suggerita soltanto la vera essenza dell’arte e della bellezza come dominio della forma, ma viene alla luce anche l’errore che porta Adorno a postulare l’impossibilità dell’arte dopo Auschwitz e a negare quindi la realtà. Potremmo definire questo errore (che resta al cuore della posizione di Adorno e di gran parte della cultura moderna) come la paura delle forme: una sorta di iconoclastia moderna. L’iconoclastia classica, secondo la definizione che ne aveva dato Solov’ëv, consisteva nel negare tutte le possibilità di redenzione, di santificazione e di unione con Dio al mondo materiale e sensibile. Gesù Cristo risuscitato nella carne ha dimostrato come l’esistenza corporea non fosse esclusa dalla riunione divinoumana, e che l’oggettività esteriore e sensibile poteva e doveva divenire lo strumento reale e l’immagine visibile della forza divina. La nuova iconoclastia ripropone l’essenza di quella classica negando che nell’arte, attraverso le cose di questo mondo, possa farsi strada un senso

Si può ancora parlare di arte e di bellezza dopo Auschwitz e la Kolyma?



che vince il male che le imprigiona. Negando la possibilità dell’arte, la possibilità di una forma sensibile nella quale si incarni il divino, l’iconoclastia moderna, come quella classica, pone un nuovo muro di separazione tra le cose e il loro senso, tra le cose e la possibilità di vederne e dirne il senso, tra gli elementi del mondo e il principio di organizzazione che li informa, che dà loro forma, li ordina e fa di un caos inguardabile un cosmo degno di ammirazione (senza che questo ordine significhi sopprimere o limitare l’irriducibile diversità del reale). La dimostrazione più evidente della verità di quanto stiamo dicendo ci è data da una riflessione di Adorno sulla questione del dolore e della possibilità di raccontarlo; dice a questo proposito Adorno: «quando si parla delle cose estreme, della morte atroce, si prova una sorta di vergogna nei confronti della forma, come se questa fosse un oltraggio alla sofferenza riducendola impietosamente allo stato di un materiale messo a sua disposizione». È dunque proprio per paura della forma (per la «vergogna nei confronti della forma») che, quando parla del dolore, Adorno non riesce a superare l’alternativa tra l’indicibilità del non senso (che trasforma ogni racconto in un oltraggio, in una violazione dell’intimità) e un racconto che non si concepisce se non come una modalità di dominio, così che se una cosa come il dolore viene detta si crede che proprio perché è stata detta verrebbe ad essere dominata e a perdere così il suo scandalo. In questo modo con Adorno viene alla luce un nuovo e definitivo affermarsi del principio iconoclastico, che un tempo aveva negato la possibilità di rappresentare le altezze divine e ora negava la possibilità di rappresentare gli abissi del male, il nulla nel quale può precipitare l’umanità; l’arte nata dai campi di concentramento costituisce invece il superamento di entrambe queste forme dell’iconoclastia: tra l’irriducibilità del divino e delle sue altezze alle nostre misure e l’infinita pochezza, la nullità di queste misure, l’arte dei campi ha riscoperto una sorta di nuova icona in quella che è, come vedremo, la scoperta dell’irriducibilità dell’umano alle proprie misure. Mi limiterò a questo proposito ad alcune osservazioni. Innanzitutto, l’arte rinata nei campi riscopre immediatamente questa  In maniera evidente quando le cose di questo mondo si presentano direttamente con le forme del male e del dolore, in maniera meno evidente, ma non meno reale, quando le cose di questo mondo si presentano con le forme della bellezza e noi rischiamo di dimenticare che questa bellezza è destinata a scomparire con la morte.



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sua potenza che la rende capace di trasformare le cose di tutti i giorni, e persino il male, in uno «strumento reale» e in «un’immagine visibile della forza divina». La coscienza di questo potere non è un prodotto tardivo di intellettuali o artisti insensibili alla tragedia; l’idea di una sorta di virtù o primato dell’arte in rapporto alla possibilità di raccontare qualcosa dei campi di concentramento appare in effetti molto presto, qualche mese dopo la chiusura dei campi stessi, e proprio in persone che di quei campi sono stati le prime vittime. È la testimonianza di una reduce dal campo di Ravensbrück che, parlando della propria prigionia a tre anni dalla liberazione, dice: quando la richiamo alla memoria, dopo trentasei mesi di vita normale, mi fa l’effetto di un sogno mostruoso. Ora, il lavoro di uno storico, imparziale, chiaro e preciso come deve essere, non esaurirà mai la densità, l’angoscia, le sfumature di orrore di un incubo. È al romanziere che ci si dovrebbe rivolgere [...]. Solo un racconto che sia un’autentica opera d’arte potrebbe restituire, con la sua evocazione concisa e straziante, quella che fu veramente la nostra esistenza all’inferno.

Proprio la stessa convinzione caratterizza tutta La specie umana di Robert Antelme, dalla prefazione alle ultime pagine, dove l’autore conclude: «Le storie che gli uomini raccontano sono tutte vere. Ma è necessario molto artificio per far passare una particella di verità». Allo stesso modo, un altro reduce dai campi nazisti, Jorge Semprun, sosteneva che «raccontare bene significa: in modo da essere capiti. E ciò non sarà possibile senza un minimo di artificio. Quanto basta perché il racconto diventi arte!». E alla stessa conclusione arriva anche uno studioso di Orwell, per il quale, ciò che



E. Will, Ravensbrück et ses Kommandos, in De L’Université aux camps de concentration. Témoignages strasbourgeois, Publication de la faculté des lettres de l’Université de Strasbourg, Les Belles Lettres, Paris , pp. -, cit. da Wieviorka, Déportation et génocide, cit., p. .  R. Antelme, La specie umana, trad. it. Einaudi, Torino , p. .  J. Semprun, La scrittura o la vita, trad. it. Guanda, Parma , p. ; e ancora: «la verità essenziale dell’esperienza non è trasmissibile [...]. O meglio, lo è solo attraverso la scrittura letteraria» (ivi, p. ); per trasmettere la verità sui campi, «sarebbe stato necessario, insomma, trattare la materia documentaria come materia di finzione» (ivi, p. ).

Si può ancora parlare di arte e di bellezza dopo Auschwitz e la Kolyma?

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l’arte invisibile e così efficace di Orwell dimostra è che la “verità dei fatti” non può esistere allo stato puro. In sé, i fatti formano solo un caos privo di senso: solo la creazione artistica può dotarli di significato, conferendogli forma e ritmo. L’immaginazione ha un funzione non solo estetica, ma anche etica. Occorre letteralmente inventare la verità.

In effetti, per quanto questo paradosso possa sembrare scandaloso, si deve innanzitutto ricordare che «l’opposto di “finzione” [artistica] non è “verità”, ma “fatto”», il fatto bruto; e ancora va ricordato che questo paradosso è in ultima analisi il paradosso del rapporto tra i fatti, presi nella loro immediata insignificanza, e la realtà artistica, come via per accedere alla verità dell’essere, come luogo di manifestazione di quella bellezza che una tradizione antica chiama splendore del vero: i primi accadono ma di essi non rimane traccia, la seconda non è mai accaduta ma diventa eterna, ha trovato un senso che nessuna potenza o debolezza umana può cancellare. Da questo punto di vista, come avrebbe detto Šalamov, citando Pasternak, «non esistono fatti finché l’uomo non ci mette dentro qualcosa di suo, un minimo di [...] favola». È un evidente rovesciamento del nostro consueto modo di pensare ma, per quanto possa sembrare paradossale, è la realtà della vita che ci conferma la sua verità, così come è la realtà dell’esperienza che ci conferma quello che è il paradosso tipico, più ripetuto e nello stesso tempo più scandaloso della letteratura nata dai campi sovietici, il paradosso secondo il quale l’arte risorge e l’uomo si riscopre irriducibile proprio là dove l’umano sembrerebbe definitivamente sconfitto e dove sembrerebbe del tutto fuori luogo qualsiasi discorso su una verità eterna, sull’arte e sulla bellezza: sia benedetta la prigione, perché a un uomo al quale è stato tolto tutto non si può più togliere niente e quindi esattamente in prigione è di nuovo libero. L’esperienza dei campi è un’esperienza di totale spoliazione, di totale distruzione dell’umano; ma questo uomo al quale è stato tolto tutto, misteriosamente e sorprendentemente riscopre che, dopo che gli è stato tolto tutto, lui c’è ancora, definito da un’assurda ma irriducibile sete di 

S. Leys, Orwell o L’orrore della politica, trad. it. Irradiazioni, Roma , p. . R. Wellek, A. Warren, Teoria della letteratura, trad. it. Il Mulino, Bologna , p. .  V.T. Šalamov, PSF (lettera a Pasternak, senza data ma del ), p.  (p. ). 

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infinito e di immortalità, una sete che l’uomo ovviamente non può darsi da sé o pretendere di poter mantenere da sé, ma riceve da altro e poi deve custodire e incrementare, rispondendo a questo altro di ciò che ha ricevuto. È un’esperienza descritta persino da Šalamov, il più pessimista fra tutti gli autori della letteratura dei campi; completamente denudato e svuotato, l’uomo ridiventa libero e può smettere di cedere, come quel detenuto che, al momento della consegna degli oggetti personali, dopo essere stato preceduto da una serie di compagni di pena mutilati che hanno lasciato le loro protesi, trovandosi di fronte a un carceriere che gli chiede se sia disposto a cedere l’anima, risponde: «No. L’anima non ve la do». Appunto, era rimasto nudo, non aveva più niente di suo e, quindi, non aveva più niente che potesse essere dato o che potesse essergli tolto. La dignità dell’uomo, la sua umanità non viene giudicata allora in base alle sue capacità di resistere o di trattenere e conservare qualcosa di suo: queste capacità, infatti, possono sempre essere usate contro di lui e contro gli altri; ciò che determina la sua umanità, ciò che la rende possibile è appunto l’aver capito questo meccanismo e il non averlo accettato, il non aver accettato l’idea di poter continuare ad essere qualcuno in base alle proprie forze e alle proprie capacità. Così, l’indicibilità dell’esperienza dei campi si associa misteriosamente e paradossalmente all’indicibilità ultima dell’uomo, e là dove il totalitarismo aveva tentato di ridurre l’uomo secondo le misure dell’ideologia (e per fare questo aveva prodotto una tragedia indescrivibile), l’uomo che si era scoperto irriducibile trova la terra solida per trasformare questa tragedia in un punto di rinascita.

 V.T. Šalamov, Kolymskie rasskazy (I racconti della Kolyma), Protezy (Le protesi), in Sobranie socˇ inenij v cˇ etyrëch tomach, cit., I, p.  (trad. it. in V.T. Šalamov, I racconti di Kolyma, Einaudi, Torino , p. ).

Francesco Braschi*

Il bello come categoria teologica e morale in alcuni scritti di sant’Ambrogio di Milano

Quello deIla bellezza negli scritti e nel pensiero di sant’Ambrogio è un tema di grande interesse e sviluppo. Il campo semantico del “bello” è caratterizzato in questo autore da un ampio ventaglio di vocaboli, tra i * Biblioteca Ambrosiana, Milano. Le opere di sant’Ambrogio sono edite in diverse collane. Da parte nostra ci siamo rifatti al testo pubblicato in Opera omnia di sant’Ambrogio – Sancti Ambrosii Episcopi Mediolanensis Opera, Biblioteca Ambrosiana-Città Nuova Editrice, Milano-Roma ... (d’ora in poi: SAEMO), che contiene l’edizione bilingue latino-italiana degli scritti ambrosiani, prendendo il testo latino per lo più da quello edito nel Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum (Wien, -...; d’ora in poi CSEL), in alcuni casi migliorandolo e dotandolo di un nuovo apparato critico. La traduzione italiana da noi citata è desunta da SAEMO, ma sempre da noi rivista e – ove da noi ritenuto opportuno – corretta. Segnaliamo anche che nel  ha visto la luce un’edizione bilingue latino-russa delle opere di Ambrogio, edita a cura dell’Università Umanistica Ortodossa “San Tichon” di Mosca, in collaborazione con l’Accademia Ambrosiana presso la Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano (Святитель Амвросий Медиоланский, Собрание творений: На латинском и русском языках, Издательство ПСТГУ, -...). In tale edizione – la cui conclusione è prevista nel  – sono al momento usciti i primi due tomi, dedicati uno alle Vite di sant’Ambrogio (di Paolino e anticoslava) e alle opere di tipo liturgico (Explanatio Symboli, De sacramentis, De Mysteriis, De Paenitentia) e il secondo alle opere sulla verginità (De uirginibus, De uiduis, De uirginitate, De institutione uirginis et sanctae Mariae uirginitate perpetua, Exhortatio uirginitatis). Nel nostro testo – data l’internazionalità di questa edizione e l’esistenza di diverse edizioni del testo latino – ci limiteremo a indicare i dati essenziali per identificare il brano a partire dall’originale latino. Per una panoramica (aggiornata al ) delle edizioni delle opere di Ambrogio, ci permettiamo di rimandare al seguente articolo: F. Braschi, A. Zani, Guida ai testi di sant’Ambrogio, in «Teologia»,  () pp. -. Fondamentale per il reperimento delle informazioni bibliografiche relative a sant’Ambrogio è il volume: Cronologia ambrosiana. Bibliografia ambrosiana, a cura di G. Visonà (= SAEMO /), Biblioteca Ambrosiana - Città Nuova Editrice, Milano-Roma . A questo volume, che raccoglie i dati fino all’anno , si possono affiancare gli aggiornamenti pubblicati a cura di P. Bernardini, Bibliografia Ambrosiana -, -, -, in «Annali di Scienze Religiose», n.s., rispettivamente nei fascicoli  (), pp. -,  (), pp. -,  (), pp. -. 

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Francesco Braschi

quali vogliamo innanzitutto ricordare – come termini principali – le voci lessicali decus-decorus; formosus-formositas; pulcher-pulchritudo; speciosus-species; uenustas. Sommando le ricorrenze di tutti questi vocaboli (ma altri potrebbero essere inclusi nella lista) otteniamo più di mille utilizzi di tale terminologia nell’opera omnia ambrosiana. Naturalmente queste statistiche hanno un significato puramente indicativo e non vanno prese se non come semplice dato grezzo che necessita di essere analizzato e compreso per evitare di trarre considerazioni troppo affrettate; ciononostante, resta il fatto che il tema della bellezza è sicuramente uno dei più presenti alla mente di Ambrogio. Da parte nostra, senza alcuna pretesa di esaustività, desideriamo offrire un saggio della ricchezza dottrinale di Ambrogio relativamente a questo argomento, prendendo in considerazione alcune linee di sviluppo del suo pensiero, soprattutto dal punto di vista teologico-spirituale. Prendiamo le mosse dalla riflessione del vescovo milanese relativa alla Creazione, contenuta nell’opera Exameron che riprende molti spunti dall’omonimo testo di san Basilio Magno, pur proponendo integrazioni orignali e personali. Dato l’argomento dell’opera, ci possiamo attendere innanzitutto una riflessione di Ambrogio relativamente alla bellezza in senso cosmologico e quindi riferita alla bellezza della natura e del creato. Questi temi sono certamente presenti nell’esegesi che Ambrogio offre dei primi capitoli della Genesi, laddove viene da lui sempre chiaramente affermata l’origine divina della Creazione e della sua bellezza. Ma a questo tema più consueto vorrei affiancare – per soffermarmi un poco ad analizzarlo – un secondo motivo di riflessione che viene introdotto, tra gli altri, in questo passo: La terra viene descritta sommersa dalle acque, come in preda a un naufragio dei propri elementi, e ancora da taluni non si crede creata: che direbbero se rivendicasse una bellezza fin dalle sue origini? C’è da considerare inoltre che Dio ci volle suoi imitatori così da fare prima le cose e poi abbellirle, per evitare che, volendo compiere nello stesso tempo entrambe le operazioni,

 La ricerca è stata effettuata utilizzando la CETEDOC Library of Christian Latin Texts (CLCLT) versione , edita da Brepols, che contiene l’intero corpus ambrosiano.  Si veda ad esempio lo splendido passo dedicato alla bellezza dei fiori e dei campi in Exameron V, , .

Il bello in alcuni scritti di sant’Ambrogio di Milano



non riusciamo a condurre a buon termine né l’una né l’altra. La nostra fede, poi, cresce gradualmente. Perciò Dio ha prima creato le cose, poi le ha abbellite (uenustare), perché crediamo che ad abbellirle sia stato lo stesso Essere che le ha create e a crearle lo stesso Essere che le ha abbellite, affinché non pensiamo che uno le abbia abbellite e un altro create, ma che lo stesso ha compiuto entrambe le operazioni, quella di creare e quella di dare ordine, così che mediante l’una si prestasse fede all’altra.

In questo testo, assai interessante per la prospettiva che dischiude, Ambrogio mostra come anche la bellezza della Creazione sia da comprendere in un’ottica che non può fermarsi alla semplice contemplazione di essa e al riconoscimento che Dio ne è l’autore. A queste riflessioni – per quanto corrette e indispensabili – egli aggiunge infatti la considerazione della dimensione etica e pedagogica della bellezza, affermando come conforme alla volontà di Dio il fatto che la realtà sia stata dapprima creata e solo in un secondo momento adornata di bellezza, per mostrare una gradualità che diventa immediatamente un connotato morale della bellezza stessa. La gradualità insita nel processo della creazione, infatti, diventa segno di tre “leggi” inscritte da Dio nel cosmo: – la legge della crescita graduale dal minore al maggiore, nella quale sta una sapiente pedagogia per l’agire e l’apprendere dell’uomo, che prevede necessariamente diversi stadi di perfezionamento; – la legge dell’identità dell’autore della Creazione e dell’artefice del suo abbellimento, così da mostrare che la bellezza costituisce il compimento dell’azione creatrice e che insieme bellezza e realtà si rendono reciproca testimonianza circa la loro origine divina; – la legge del carattere triunitario dell’azione creatrice, poiché nel prosieguo della trattazione si mostra come questa complessità di azione nella creazione sia segno dell’azione comune e insieme distinta della Trinità, e in particolare il suo perfezionamento-compimento sia opera dello Spirito Santo. Così, in un altro passo – sempre dell’Exameron (II, , ) – emerge chiaramente che la bellezza della mundi fabrica si coglie, quale segno del suo divino Autore, nella capacità di tenere insieme ordinatamente una realtà composta di elementi diversi e molteplici. 

Exameron I, ,  - , .

Francesco Braschi

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L’acqua si è raccolta da ogni lago e da ogni fossa affinché nessuno scavi al proprio fratello una fossa nella quale cadere egli stesso, ma tutti si amino vicendevolmente, tutti a vicenda si assistano e si sostengano come le varie membra di un unico corpo [...] non rechi loro piacere contemplare i tappeti di porpora, non i preziosi drappi, ma questa bellissima costruzione dell’universo (pulcherrima mundi fabrica), questa riunione di elementi diversi tra loro [...] questo popolo strumento per l’armonia dell’opera divina, nel quale riecheggia la musica della rivelazione ed opera intimamente lo Spirito di Dio, questo tempio santuario della Trinità, dimora della santità.

Ma la bellezza e il carattere simbolico della creazione non si rinvengono solo a partire dalle realtà immote: anche nel regno animale si possono leggere delle allegorie morali, come ad esempio nell’organizzazione sociale delle gru. Cosa è più bello (pulchrius) del fatto che la fatica e l’onore siano comuni a tutti e il potere non sia preteso da pochi, ma passi dall’uno all’altro senza eccezioni come per una libera decisione? Questo è l’esercizio di un ufficio proprio di un’antica repubblica, quale conviene in uno stato libero. Così da principio gli uomini avevano cominciato ad attuare un’organizzazione politica ricevuta dalla natura sull’esempio degli uccelli, in modo cioè che la fatica fosse comune, comune la dignità, ciascuno imparasse a dividersi a turno le responsabilità, venissero ripartiti obbedienza e comando, nessuno fosse escluso dalle cariche, nessuno esente dalla fatica. Questa era la situazione più bella (pulcherrimus) per quanto riguarda la politica: nessuno insuperbiva per l’esercizio ininterrotto del potere né si abbatteva per il lungo servire.

Ambrogio sta qui trattando della “società perfetta” delle gru, voluta da Dio affinché serva da insegnamento agli uomini e manifesti così la qualità di “ammaestramento” che Dio ha conferito alla Creazione. Quest’ultima, infatti, trova la sua ragion d’essere nel costituire il luogo pensato da Dio perché in essa si svolga la vita buona dell’uomo, quella vita che era iniziata in ascolto del modello indicato dal Creatore. Non è un caso che questo brano sia aperto e chiuso dall’utilizzo dell’aggettivo pulcher al grado comparativo relativo e superlativo relativo. Questa scelta stilistica di Ambrogio ci mostra la precisa volontà di inquadrare una

 

Exameron III, , . Exameron V, , -.

Il bello in alcuni scritti di sant’Ambrogio di Milano



situazione sociale non solo nel quadro della virtù buona, ma piuttosto di mostrare come la moralità abbia in sé, intimamente unita alla bontà, una bellezza che come tale può attirare l’attenzione e la coscienza degli uomini. Anche questo è bello (pulchrum), che sin dalla prima infanzia la rondine abitui i suoi pulcini ai rapporti con gli uomini e garantisca loro così una maggiore sicurezza dalle insidie degli uccelli nemici. Ed è bellissimo (praeclarum), con quale grazia, senza alcun aiuto, costruisca il nido da abile artista [...] ma è davvero singolare – e in tal cosa vi è una bellissima (praeclara) e amorevole sollecitudine, oltre che un’avveduta conoscenza e un’insigne esperienza unita quasi a una competenza medica – che la rondine, se i suoi piccoli hanno gli occhi trafitti od offesi da qualche forma di cecità, ricorra a un genere di cura che rende la vista nuovamente capace di svolgere la sua funzione.

Anche l’esempio delle rondini è degno di nota, poiché in esso Ambrogio fa uso di diversi vocaboli relativi alla bellezza. E vi è anche in questo caso un percorso in ascesa che vede il punto di arrivo della bellezza non nella sapienza costruttiva del nido e nemmeno nella scaltrezza di sfruttare la familiarità con gli uomini come fonte di sicurezza, ma piuttosto nella cura premurosa per i pulcini ciechi e nella capacità di non abbattersi davanti alle sventure. [...] conosci te stesso, o uomo. Questa massima non è di Apollo Pizio, come affermano, ma del santo Salomone che dice: Se non ti conosci, o bella (formosa) tra le donne... A chi dice questo? [...] Chi è bella fra le donne se non l’anima che in entrambi i sessi possiede l’eccellenza della bellezza? E a buon diritto è bella (decora), perché non desidera i beni terreni, ma quelli celesti, non i beni corruttibili, ma quelli incorruttibili nei quali la bellezza maestosa (decus) non suole perire: tutti i beni materiali, infatti, per il passare del tempo o per lo squilibrio della malattia imputridiscono. Bada a questa, dice Mosè, nella quale tu interamente consisti, nella quale è la miglior parte di te.

L’eccellenza della bellezza è propria non del corpo, ma dell’anima. E questo perché l’anima desidera le cose incorruttibili: le uniche adeguate  

Exameron V, , -, passim. Exameron VI, , , passim.

Francesco Braschi

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al desiderio di bellezza che l’uomo vive, perché appunto non periscono né si squilibrano. E la nostra “consistenza”, la nostra vera bellezza è – afferma Ambrogio – appunto in questo desiderio dei beni celesti. Questa bellezza dell’anima è anche la condizione di verità dell’anima stessa, poiché in essa si riflette la bellezza dell’immagine divina, come afferma questo passo che pure prende le mosse dal “classicissimo” tema dell’invito a conoscere se stessi: Una cosa siamo noi, un’altra le cose nostre, un’altra ciò che sta attorno a noi. Noi siamo cioè l’anima e l’intelligenza; le cose nostre sono le membra del corpo e i suoi sensi; intorno a noi c’è il denaro, ci sono i servi e i mezzi per questa nostra vita. Bada dunque a te stesso, conosci te stesso, cioè non quali muscoli tu abbia, non quanta forza fisica, non quanti possedimenti, quanto potere, ma quale anima e quale intelligenza dalle quali derivano tutte le tue deliberazioni e alle quali si riconduce il frutto delle tue opere. L’anima è piena di saggezza, piena di religiosità e di giustizia, perché ogni virtù è da Dio. A lei dice Iddio: Ecco, Gerusalemme, ho dipinto le tue mura (Is , ). Viene dipinta da Dio quell’anima che ha in sé il fascino luminoso delle virtù (uirtutum gratia) e lo splendore della pietà (splendor pietatis). È bene dipinta quell’anima in cui risplende l’effigie dell’operazione divina, quell’anima nella quale c’è lo splendore della gloria e l’immagine della sostanza del Padre. Conforme a questa immagine, che in essa riluce, la pittura è preziosa. Adamo prima del peccato era conforme a questa immagine; ma quando cadde, perse l’immagine della creatura celeste, assunse quella della creatura terrena. Dunque, o uomo, tu sei stato dipinto, sei stato dipinto dal Signore Dio tuo. Hai un artista e un pittore capace. Non cancellare una pittura di valore che risplende non per una falsa apparenza, ma per la sua verità [...]. Chi altera l’opera di Dio commette una grave colpa. È infatti una grave colpa pensare che un uomo ti dipinga meglio di Dio. È grave che Dio dica di te: «Non riconosco i miei colori, non riconosco la mia immagine, non riconosco il volto che io stesso ho plasmato. Io respingo ciò che non è opera mia. Cerca quello che ti ha dipinto, fa’ società con lui, prendi da lui la bellezza (gratia), visto che lo hai pagato».

Vi è dunque una alterazione della bellezza dell’anima che corrisponde alla perdita dell’immagine divina, e che avviene con il peccato. Per questo la bellezza non è mai una categoria puramente estetica, ma ha a che fare con la vera percezione di sé e del proprio valore, tanto che 

Exameron VI, , -, passim.

Il bello in alcuni scritti di sant’Ambrogio di Milano



possiamo notare come al rifiuto della “radicale dipendenza” da Dio corrisponda la perdita del criterio estetico e di giudizio sulla bellezza: Conosci dunque te stessa, o anima bella (decora): tu sei l’immagine di Dio. Conosci te stesso, o uomo: tu sei la gloria di Dio. Ascolta in quale modo ne sei la gloria. Dice il profeta: La tua scienza è divenuta mirabile provenendo da me, cioè: nella mia opera la tua maestà è più ammirabile, la tua sapienza viene esaltata nel senno dell’uomo. Mentre io considero me stesso, che tu cogli anche nei pensieri segreti e negli intimi sentimenti, io riconosco i misteri della tua scienza.

Questa interdipendenza tra il riconoscimento dell’origine creaturale e la capacità di comprendere integralmente bontà e bellezza viene confermata da quanto leggiamo nella parte finale dell’Esamerone. In questi capitoli, in cui Ambrogio intesse un lungo e minuzioso elogio del corpo umano, costellato da numerose citazioni tratte non solo dall’Exameron di san Basilio di Cesarea – che rappresenta la fonte principale di Ambrogio per quest’opera – ma anche dagli autori “classici” della grecità e latinità pagana (Cicerone, Virgilio, Ovidio, ma anche Senofonte), troviamo che se l’uomo viene esplicitamente indicato come l’esempio più alto di bellezza tra tutti i corpi terreni, la sua bellezza non viene mai considerata unicamente sotto il profilo estetico, bensì viene essa stessa ad assumere un ruolo di segno e allegoria di realtà spirituali e morali, come si può cogliere dai seguenti brani: Ma ormai bisogna dire qualcosa anche sul corpo umano, di cui nessuno potrebbe negare la superiorità su tutti gli altri per bellezza (decus) ed eleganza. Pur essendo chiaro che la sostanza di tutti i corpi terrestri è assolutamente identica e la robustezza e la statura sono maggiori in talune bestie, tuttavia la conformazione del corpo umano è più leggiadra (uenustior), la posizione eretta ed elevata, in modo che la sua altezza non appaia eccessiva né la sua piccolezza meschina e spregevole. Inoltre la stessa complessione fisica è attraente e gradevole, così che non desta orrore come l’enorme mole di una belva né appare priva di energia per una esagerata gracilità.



Exameron VI, , . I passi paralleli tra Basilio e Ambrogio sono segnalati in nota nelle corrispondenti pagine dell’edizione SAEMO da noi utilizzata, e ad essi rimandiamo il lettore.  Exameron VI, , . 

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

In mezzo [alle orbite] si trovano i globi oculari, protetti dai pericoli, liberi nel guardare, splendidi nella loro bellezza (decori) perché risplendenti come cristallo. Al loro centro si trovano le pupille, che esercitano la funzione visiva. Queste, per non essere offese da qualche lesione provocata da un corpo estraneo, sono protette tutt’intorno, da una parte e dall’altra, dalle ciglia che si intrecciano strettamente tra loro come una palizzata. Per questo il profeta, chiedendo per sé un sicuro aiuto, dice: Custodiscimi, Signore, come la pupilla dell’occhio (Sal ,), affinché la custodia della protezione divina fosse per lui così premurosa e sicura come Dio si era degnato di difendere le pupille dell’occhio con una palizzata naturale assolutamente valida e, nello stesso tempo, perché l’innocenza e l’integrità, contaminate se raggiunte da una lieve impurità, perdono il privilegio della bellezza (gratia), e quindi bisogna stare attenti che nessun pulviscolo d’errore le insudici, giacché sta scritto: Togli prima la trave dal tuo occhio e allora vedrai di togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello (Mt , ).

È interessante, nel secondo brano citato, notare come nel descrivere l’occhio Ambrogio ne indichi la bellezza da un lato nella limpidezza del cristallino e dall’altro nella protezione che le ciglia e le orbite offrono a una parte del corpo così importante e delicata; nello stesso tempo, però, il testo ambrosiano trapassa quasi impercettibilmente a riconoscere in questa duplice circostanza un segno della preziosità dell’uomo agli occhi di Dio, e di come la vera bellezza della persona stia nelle sue innocenza e integrità, che ancor più dell’occhio devono essere protette da ogni impurità, pena la perdita della bellezza stessa (come attesta la citazione dal vangelo di Matteo che conclude il brano). La connessione della bellezza con la moralità viene ripetuta anche da un complesso brano dell’opera De Cain et Abel, nella quale molte sono le influenze letterarie e filosofiche mutuate da Filone Alessandrino e da altri autori greci e latini. In quest’opera troviamo un ampio confronto tra Piacere (Voluptas) e Virtù (Virtus) – alle quali Ambrogio dà la parola, descrivendole come impersonate da due donne che litigano aspramente tra di loro per il possesso dell’uomo e seguendo largamente i capitoli  e  del libro dei Proverbi – che presenta non pochi spunti di interesse per il nostro tema. Troviamo infatti in primo luogo un’affermazione di carattere generale:



Exameron VI, , .

Il bello in alcuni scritti di sant’Ambrogio di Milano



In ciascuno di noi abitano insieme due donne, divise da inimicizia e discordia, che riempiono la casa della nostra anima di dispute provocate dalla gelosia. Una di esse, che è per noi fonte di soavità (suauitas) e di amore, insinuante consigliera della graziosità che attrae (gratia), si chiama Voluttà (uoluptas), e noi la riteniamo amica e familiare; l’altra, che crediamo essere dura, aspra e crudele, ha per nome Virtù (uirtus).

Alla loro presentazione segue poi la descrizione delle loro attività. Innanzitutto Ambrogio sottolinea che la Voluttà – donna sfrontata e meretrice – può ostentare come mezzo di seduzione solo una bellezza artificiosa e apparente, che nasconde il suo vero aspetto. Quella, sfrontata nei movimenti da meretrice e nell’andamento cascante dovuto alla mollezza della sua vita [...] se vede qualcuno passare oltre indeciso, in un punto appartato della sua casa gli va incontro con piacevoli discorsi, facendogli balzare il cuore: irrequieta in casa, vagante per le piazze, prodiga di baci, priva di pudore, sfarzosa nel vestito, dipinta nel volto. Poiché non può avere la grazia vera della natura (uerus decor naturae), con lo sfacciato trucco di una bellezza artificiosa (species adfectatae pulchritudinis) rende attraente l’apparenza esteriore, non il suo vero aspetto.

In secondo luogo, la Voluttà si serve di un «piacere profano» (saecularis uoluptas), e tuttavia – dopo aver messo in atto tutte le sue lusinghe e quasi conquistato il cuore dell’uomo – viene smascherata dalla Virtù: quest’ultima, infatti, ha buon gioco nel mostrare come tale forma di piacere si trasformi in una amarezza più amara del fiele, poiché tutte le sue promesse si rivelano vane nel momento in cui tendono non ad acuire, bensì a intorpidire le facoltà intellettive e razionali dell’uomo, spingendolo ad andare verso ciò che non rimane: Infatti, cosa è tanto simile alla prostituzione quanto il piacere profano (saecularis uoluptas) che si insinua in te dalla finestra della sua casa, tentando i primi approcci con il gioco degli occhi, e subito penetra [...] se tu non volgi lo sguardo della tua mente ai profondi misteri della Legge?



De Cain et Abel I, , . De Cain et Abel I, , , passim.  De Cain et Abel I, , , passim. 

Francesco Braschi



Udite queste cose, come un cervo trafitto da una freccia nel fegato, l’uomo, ferito, non sa reagire. Ma la Virtù, presa da pietà, poiché lo vede sul punto di soccombere, gli viene celermente in aiuto, temendo che, se tarda, la mente dell’uomo venga catturata dalle lusinghe allettanti. Dice: [...] Il miele infatti stilla dalle labbra di quella donna depravata (Pr , ), la quale, per qualche tempo, riempie la tua bocca, mentre in seguito troverai il suo cibo più amaro del fiele [...]. Non lasciarti vincere dal desiderio di possedere la sua bellezza (forma) (Pr , ): essa è falsa, spalmata di belletto, mai splendente di vera e genuina beltà (decus). [...] Sono un male i lacci della voluttà; dona piacere agli occhi, blandisce le orecchie, ma inquina la mente: racconta molte menzogne, accumula falsità, nasconde ciò che è vero, promette denaro, offre oro, ma elimina ogni intelligente regola di vita. Tu accetta l’istruzione piuttosto che il denaro, la scienza piuttosto che l’oro fino: perché vale più delle pietre preziose (Pr ,-). Non voglio nasconderti quelle qualità del piacere che sono considerate come le più elevate, perché non sembri che io metta in luce ciò che del piacere è disdicevole e tenga in ombra quelli che possono essere apprezzati. La Voluttà infatti sollecita la mente e la solleva con parole suadenti, dicendo: Ti darò tutte queste cose se, prostrandoti, mi adorerai (Mt , ). In quel momento tu guardati dal farti prendere dalle cose che passano e non rimangono, nelle quali vi è una grande tentazione.

La risposta della Virtù – come abbiamo visto – non si limita semplicemente a impedire la fruizione del piacere e della bellezza, ma piuttosto ne mostra la positività nella loro riconduzione alla verità dell’uomo, che con Cristo e nella Chiesa può godere di ciò che è bello e piacevole senza perdere se stesso mediante la moderazione, raggiungendo così quella sobria ebrietas che costituisce la sintesi del godimento unito alla crescita nella virtù e nell’intelligenza: Vuoi mangiare? Vuoi bere? Vieni al banchetto della sapienza [...]. Tu ami quei canti che rallegrano le orecchie di chi banchetta? Ascolta la Chiesa che esorta, ascoltala che canta, non solo negli inni, ma anche nel Cantico dei Cantici: Mangiate, amici miei, e bevete e inebriatevi, fratelli miei (Ct , ). Ma questa ebbrezza rende sobrii, è un’ebbrezza di grazia, non di ubriachezza: provoca la gioia, non fa barcollare. E non temere che al convito della Chiesa manchino i profumi che ti piacciono o i cibi gradevoli o le varietà di bevande o i nobili convitati o i servitori adatti. Che c’è di più nobile di Cristo il quale, nel banchetto della Chiesa, è sacerdote e vittima? [...] Qui tu berrai



De Cain et Abel I, , , passim.

Il bello in alcuni scritti di sant’Ambrogio di Milano



vino con latte, cioè con splendore e integrità, perché pura è la semplicità, perché immacolata è la grazia (gratia) che si ottiene nella remissione dei peccati, perché essa con abbondante consolazione nutre i piccoli, affinché, svezzati nella gioia, crescano nella pienezza di un’età perfetta. [...] In questa casa, dunque, mangerai i cibi per l’anima e berrai le bevande per la mente, di modo che, in seguito, tu non debba più avere fame o sete. Chi qui mangia, infatti, mangia a sazietà, e chi beve, beve fino all’ebbrezza. Ma una simile ebbrezza è custode del pudore.

Secondo Ambrogio, dunque, la bellezza è una realtà che si trova come in bilico tra la Voluttà e la Virtù. Rivendicata da ambedue questi orientamenti dell’animo, la bellezza viene giudicata vera o falsa a partire dalla considerazione dell’esito finale che la sua attrattiva favorisce nel soggetto che la segue, e che corrisponde alla sua possibilità di svilupparsi e pervenire al proprio destino senza nulla perdere di sé, ovvero raggiungendo il proprio fine. Questo fine viene identificato nella «sobria ebbrezza» (sobria ebrietas): un’esperienza di bellezza e di piacere animata dallo spirito e conseguente alla comunione con Cristo, propria di un soggetto umano che nulla ha perso della propria consistenza di mente, desiderio, volontà e cuore. Ma tale esito della vicenda estetico-morale del soggetto è tutt’altro che scontato, poiché l’uomo si trova al centro di una contesa nella quale la bellezza stessa sovente si presenta – unita al piacere – nella sua forma falsa e truffaldina. La radice di questa ambivalenza viene delineata in modo magistrale da Ambrogio nel prologo della sua opera dedicata all’interpretazione di  Salmi, nel quale viene mostrata con limpida chiarezza la relazione originaria e il divenire storico di queste tre grandezze: bellezza, piacere, virtù. È un passo di capitale importanza, e vale quindi la pena di leggerne almeno una parte. Dio ha prospettato il piacere (delectatio) della beatitudine futura come il più grande incentivo alla virtù. Il diavolo ha astutamente pensato che il piacere poteva anche essere un forte sprone alla colpa. Esempio dell’una e dell’altra idea presenta il caso di Adamo, capostipite del genere umano. Egli fu collocato dal Signore Dio nel paradiso delle delizie (paradisum uoluptatis) per godere un piacere senza fine (aeterna delectatio), atto a stimolare la virtù della sua futura stirpe [...]. E Adamo fu ingannato dalla sua donna, persuasa dall’av

De Cain et Abel I, , -, passim.



Francesco Braschi

venenza (species) del serpente, che divenne così archetipo delle lusinghe del piacere (delectationis illecebras). Dunque l’avversario colse l’occasione al volo e mi procurò la morte servendosi del piacere (delectatio). E così quello che, per grazia divina, era stato donato per la vita, mi si trasformò in fonte di morte e il nemico ottenne tanto più facilmente l’assenso dell’uomo alla caduta, quanto più poté giocare la carta della bellezza naturale (species naturae). Piacquero (delectarunt) infatti al Signore le sue opere; gli piacquero i primigeni inizi della natura e ammirandoli il Signore esclamò: È bellissimo (Bona ualde)! Gli angeli lodano il Signore, a lui salmodiano le potestà dei cieli [...]. Una voce meglio scandita guida lo stesso asse del cielo a ruotare con una soavità di accordo senza fine: e così il suo suono può essere udito alle estremità della terra [...]. Ancora, perfino nelle scogliere e nelle rocce, la natura ha trovato il modo di procurare piacere (delectare): il piacere di un bel panorama o dell’utilità o della bellezza (gratia). Perfino le belve e gli uccelli si inteneriscono al piacere (delectatio) di un sito più ameno o di un suono più armonioso e ai cuccioli lattanti fa spavento la severità e fanno piacere (uoluptas) le carezze. Il piacere (delectatio) dunque è una cosa naturale. Davide perciò, ben vedendo da dove e con quale inganno l’uomo era stato cacciato [...] desiderò ricostituire e ricreare (reparare et reformare) quella bellezza (gratia) e, dedicandosi ai salmi, ci procurò un equivalente della vita celeste. Che cos’è quindi il salmo, se non lo strumento musicale delle virtù? [...] Perché, tesi alle realtà celesti, nessuna libidine di vizi terreni possa insinuarsi in noi, ma l’animo risplenda della soavità della bellezza celeste (caelestis gratiae suauitas).

In questo passo – oltre alla già menzionata chiarezza espositiva di Ambrogio – possiamo notare con quale cura egli descriva la bellezza della Creazione, così da costruire attentamente un “crescendo” in cui dapprima si afferma che Dio stesso – con un’ardita espressione – trae piacere dalla bellezza-bontà della propria opera, e successivamente che la delectatio è in sé buona e naturalis perché opera di Dio e da lui ordinata al fine della beatitudine, e che all’interno della Chiesa si trovano le condizioni (in questo caso il canto dei Salmi) per restituire al piacere il proprio ruolo salvifico. Il cammino della virtù, dunque, coincide secondo Ambrogio con quel-

 Explanatio Psalmorum XII I, -. passim. Per un commento approfondito di questa parte rinvio a F. Braschi, L’Explanatio Psalmorum XII di Ambrogio: una proposta di lettura unitaria (= Studia Ephemeridis Augustinianum, ), Roma , pp. -.

Il bello in alcuni scritti di sant’Ambrogio di Milano



lo che potremmo definire “il cammino della bellezza”, ovvero con la crescita nell’uomo della capacità non solo di discernere la vera bellezza allontanandosi da quella falsa e ingannevole, ma anche di attingere alla sorgente stessa della bellezza, che è Cristo, «il più bello tra i figli dell’uomo», la stessa forza necessaria per continuare a camminare, che appunto consiste nella possibilità di pensarLo e contemplarLo. Questo cammino dell’anima è un tema sul quale Ambrogio torna più e più volte nei suoi scritti. Scegliamo ora una breve selezione di passi dall’epistola  (libro IV), che contiene una limpida sintesi della dottrina del santo vescovo. Veramente non c’è nulla di più splendido (speciosus) di quel sommo Bene, del quale anche l’annuncio è bellissimo (nimis speciosus), e soprattutto il progredire di un discorso perseverante e – per così dire – le orme della predicazione apostolica. Ma chi è in grado di fare questo? Quelli ai quali Dio ha donato non solo di annunciare Cristo, ma anche di soffrire per Lui. Noi – per quanto possiamo – rivolgiamo l’animo nostro e dedichiamoci a ciò che è bello (pulchrum), conveniente (decorum), buono (bonum) e facciamone un nostro possesso, affinché l’anima nostra diventi bellissima (speciosa) e la nostra mente luminosa (dilucida) per la sua luce e il suo fulgore! Infatti, se i nostri occhi – quando sono offuscati da qualche annebbiamento – traggono ristoro dal verdeggiare dei campi [...] e da quello spettacolo salutare sembrano colorirsi le stesse pupille e l’iride, tanto più il nostro occhio della mente, quando contempla quel sommo Bene e in lui si intrattiene e di esso si pasce, risplende e brilla, così che avviene ciò che è scritto: L’anima mia si riempia come di nutrimento e di abbondanza (Sal , ). Lo stesso Signore Gesù, dunque, è il sommo Bene che ci è stato annunciato dai Profeti, proclamato dagli Angeli, promesso dal Padre, predicato in lieto annuncio dagli Apostoli. Egli viene per noi come la maturità [...] perché non ci sia nulla di acerbo nei nostri propositi, nulla di immaturo, nulla di aspro nelle nostre opere e nei nostri costumi. Corriamo dunque da Lui, nel quale consiste il sommo Bene [...]. Non appena l’anima avrà gustato con la sua facoltà di appetire e di godere (delectabili) questo vero e sommo Bene e ad esso avrà attinto per sé con queste due attitudini, ecco che – escludendo dolore e timore – essa si infiamma in un modo incredibile. Dopo aver baciato, infatti, il Verbo di Dio non conosce limite né sazietà [...] lo desidera più di ogni bellezza (decor), lo ama più di ogni gioia, se ne diletta (delectatur) più d’ogni profumo, desidera di esserne attirata per poterlo seguire.



Epistola , passim.



Francesco Braschi

Possiamo dunque riconoscere come anche in questo passo troviamo lo stretto intreccio già visto sopra tra bellezza, bene e piacere. Qui, tuttavia, il riferimento a Cristo diviene del tutto esplicito, ed Egli viene a costituire il punto di sintesi non solo del cammino spirituale del fedele, ma anche della finalizzazione della creazione. Degno di nota è inoltre il fatto che Ambrogio non manchi mai di sottolineare come il cammino della bellezza e della virtù comportino anche la crescita e la maturazione di tutte le facoltà razionali dell’uomo: un tema, questo, che trova particolare trattazione nel De officiis ministrorum. Questa pur iniziale e sommaria trattazione del tema della bellezza in sant’Ambrogio ci ha permesso di mettere in luce alcune caratteristiche della dottrina del Patrono di Milano che appaiono decisamente interessanti. In primo luogo, quello di “bellezza” risulta come un concetto “poliedrico”, ovvero che deve essere considerato da più punti di vista: in particolare, il giudizio sul significato e il valore della bellezza non può essere solamente estetico, ma richiede la posizione di un giudizio morale. Il senso della bellezza, inoltre, sta nel suo essere pienamente compresa solo quando se ne valorizza la condizione di “segno”: criterio di verità della bellezza è necessariamente il fatto che essa rimandi “oltre” sé e ad “altro” da sé. Il giudizio sulla bellezza può essere emesso non solo a partire dalla libertà del soggetto, ma anche nel riconoscimento da parte sua dell’esistenza di un “prototipo” della bellezza e della sua piena realizzazione, che viene a coincidere con Cristo. Ancora, criterio di verità per la bellezza risulta imprescindibilmente il fatto che essa divenga per l’uomo guida verso la pienezza di sé e ne potenzi le doti ricevute da Dio, prime tra tutte intelligenza, volontà e desiderio. Ma anche il piacere – abbiamo visto – svolge un ruolo fondamentale non solo come realtà presente nel desiderio dell’uomo, bensì come criterio ermeneutico della realtà tutta. La “sfida” per la Chiesa – che si mostra come il luogo incaricato della “ricostruzione” per l’uomo del vero rapporto tra piacere e virtù – è proprio quella di essere il luogo in cui si promuove la coscienza di una bellezza e di un piacere profondamente umani e capaci di innestarsi su Cristo, sommo Bene e somma Bellezza, meta e via del cammino delle virtù.

Georgij Zacharov*

La figura della Luce Trinitaria nell’opera di san Gregorio Nazianzeno: aspetti teologici ed estetici

Se nell’ambito di molte tradizioni religiose la luce è simbolo del mondo superno, divino, nella Sacra Scrittura questo concetto funge, di fatto, da definizione del Dio inattingibile: «Dio è luce e in Lui non vi sono tenebre». La salvezza dell’uomo viene collegata al camminare nella luce, per quanto Dio «abiti una luce inaccessibile». Il simbolismo della luce, che è presente fin dall’inizio nella tradizione cristiana e trova espressione nella letteratura e nell’arte cristiana sia in Oriente che in Occidente, richiede, a motivo della sua paradossalità, un’interpretazione teologica. Nell’ambito della tradizione patristica dei primi secoli il tema della luce emerge con particolare profondità e coerenza nelle opere di san Gregorio Nazianzeno. All’interpretazione della figura della luce nelle opere di san Gregorio è dedicata tutta una serie di ricerche di patrologi contemporanei, che sottolineano la centralità della teologia della luce nella concezione del santo vescovo. Tuttavia gli studiosi si concentrano soprattutto sugli aspetti soteriologici e mistici. Particolare interesse desta, in questo * Università Ortodossa Umanistica San Tichon, Mosca.   Gv , .   Gv , .   Tm , .  V.N. Losskij, Bogovidenie (La visione di Dio), Mosca , pp. -; Th. Špidlik, Grégoire de Nazianze. Introduction à l’étude de sa doctrine spirituelle, Roma , pp. ; C. Moreschini, Luce e purificazione nella dottrina di Gregorio Nazianzeno, «Augustinianum»,  (), , pp. -; C. Moreschini, Introduction, in Grégoire de Nazianze. Discours -, ed. C. Moreschini e P. Gallay (SC. ), Paris , pp. -; Ierom. Ilarion (Alfeev), Žizn’ i ucˇ enie sv. Grigorija Bogoslova (Vita e dottrina di san Gregorio Nazianzeno), Mosca , pp. -; J.A. McGuckin, The Vision of God in St. Gregory of Nazianzen (Studia patristica, ), Leuven , pp. -; J.-R. Pouchet, Les trois ordres de lumière intelligible chez Grégoire de Nazianze, «Bulletin de littérature ecclésiastique»,  (), , pp. -.

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Georgij Zacharov

contesto, il problema degli influssi neoplatonici sul linguaggio teologico e sul sistema di immagini presente nei testi di san Gregorio, come pure l’interrogativo se lo stesso san Gregorio avesse avuto un’esperienza mistica di manifestazione della luce, similmente all’esperienza fatta dai Padri bizantini di epoca successiva (san Simeone il Nuovo Teologo e gli esicasti). Sebbene gli studiosi rilevino l’impiego della figura della luce in un contesto trinitario, il problema del significato del simbolismo della luce nella triadologia del santo vescovo non è stato, di fatto, preso in esame negli studi contemporanei. È proprio questo il problema che tenteremo di esaminare nell’ambito della presente relazione. Partendo dalla definizione di Dio come Luce, che troviamo nell’evangelista Giovanni, san Gregorio ravvisa la figura della luce come la più idonea a rispecchiare la verità paradossale dell’unità trinitaria: Dio è luce somma e inaccessibile e inesprimibile, non comprensibile con la mente né manifestabile con la parola, la luce che illumina ogni natura razionale. Tra le sostanze intellettuali Dio è quello che è il sole tra le sostanze sensibili: ci appare in proporzione alla nostra purificazione, e viene da noi amato in proporzione a quanto appare; viene poi intuito con la mente in proporzione a quanto viene amato: Egli soltanto si contempla e si intende, mentre il minimo grado si riversa agli esseri che sono all’esterno. Ma quando io parlo di “luce”, io intendo quella che si contempla nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo, la ricchezza dei quali consiste nella natura congiunta e nell’unico sfolgorare del loro splendore.  Moreschini, Luce e purificazione, cit., pp. -; Ilarion (Alfeev), Žizn’ i ucˇ enie sv. Grigorija Bogoslova, cit., pp. -.  Se il metropolita Ilarion (Alfeev) afferma con certezza che san Gregorio visse personalmente un’esperienza di illuminazione divina, Vladimir Losskij osserva che la natura della visione della luce in san Gregorio resta indeterminata: «Non si tratta di una visione di Dio ma, propriamente parlando, non è più neppure una riflessione speculativa». Ilarion (Alfeev), Žizn’ i ucˇ enie sv. Grigorija Bogoslova, cit., pp. -; Losskij, Bogovidenie, cit., pp. -.  Losskij, Bogovidenie, cit., p. ; Špidlik, Grégoire de Nazianze, cit., pp. -; Moreschini, Luce e purificazione, cit., pp. -; Ilarion (Alfeev), Žizn’ i ucˇ enie sv. Grigorija Bogoslova, cit., pp. -; Pouchet, Les trois ordres de lumière, cit., pp. -; Ch.A. Beeley, Gregory of Nazianzus on the Trinity and the Knowledge of God: In Your Light we Shall See Light, Oxford , p. .  Greg. Naz., Or. , ; trad. it. in Gregorio Nazianzeno, Omelie sulla Natività, Città Nuova, Roma , p. .

La figura della Luce Trinitaria nell’opera di san Gregorio Nazianzeno



Nei suoi discorsi san Gregorio parla di «luce trinitaria», dell’«unica deità e splendore dei Tre», del «purissimo e perfetto splendore dell’Altissima Trinità», della «luce della beata e originaria Trinità», e così via. Il concetto di luce è correlato all’unica Divinità e al suo unico manifestarsi: nella terminologia di san Gregorio, al «breve splendore della grande Luce» o al «congiunto splendore» delle tre Persone divine, che sono un’unica «Fonte di illuminazione»: «Che provenga a noi, da un’unica natura divina, un’unica illuminazione: unitamente, e pure distinta, e congiunta, ma in maniera divisa. Questo è, appunto, il fatto straordinario!». Nello stesso tempo, la luce si riferisce a ciascuna Ipostasi separatamente. San Gregorio chiama Dio Padre «Luce sempiterna». Egli parla inoltre dei «raggi dello Spirito». Il Dio Figlio viene detto «eguale» al Padre per Luce. Il concetto di “Luce”, in tal modo, è posto in correlazione al concetto di “Dio”, che pure può essere impiegato sia in riferimento a tutta la Santissima Trinità, sia in riferimento a ciascuna Persona separatamente: «Luce e luce e luce: ma era una sola luce e un solo Dio [...]. E ora noi l’abbiamo contemplata e la annunciamo, dalla luce che è il Padre comprendendo la luce che è il Figlio nella luce dello Spirito: ecco la breve e concisa teologia della Trinità». In un altro passo san Gregorio chiama la luce divina «unica e triplice» – «triplice secondo

 Greg. Naz., Or. , ; , ; trad. it. in Gregorio Nazianzeno, I cinque discorsi teologici, Città Nuova, Roma , p. .  Greg. Naz., Or. , ; trad. it. in Gregorio di Nazianzo, Teologia e Chiesa: Esperienza di fede e riflessione teologica, Jaca Book, Milano , p. .  Greg. Naz., Or. , .  Greg. Naz., Or. , . Cfr. Greg. Naz., Or. , ; , .  Greg. Naz., Or. , ; , .  Greg. Naz., Or. , ; trad. it. in Gregorio Nazianzeno, Omelie sulla Natività, cit., p. .  Greg. Naz. Carm., Liber II, I, , -. Cfr. Greg. Naz., Or. , .  Greg. Naz., Or. , .  Greg. Naz., Or. , ; trad. it. in Gregorio Nazianzeno, I cinque discorsi teologici, cit., pp. -.  Greg. Naz., Or. , .  Greg. Naz., Or. , .  Greg. Naz. Carm., Liber II, I, , -.  Greg. Naz., Or. , ; trad. it. in Gregorio Nazianzeno, I cinque discorsi teologici, cit., p. .

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Georgij Zacharov

le peculiarità o ipostasi che dir si voglia, o magari anche persone (ché noi non staremo a litigare con le parole, fino a quando le sillabe di esse portano ai medesimi concetti), unica, invece, secondo l’essenza della sostanza o della natura divina». L’immagine della luce trinitaria permette di svelare appieno il dogma dell’unità della Santissima Trinità, senza ricorrere tuttavia ad analogie terrene e imperfette, ma usando un simbolo che, da un lato, è semplicissimo e perfettamente comprensibile, ma dall’altro è ultraterreno e degno del suo Archetipo. L’impiego del termine “luce” sia in riferimento all’unica divinità sia in riferimento alle Ipostasi non elimina la paradossalità del dogma trinitario, ma al contrario la sottolinea e mostra in maniera evidente che questo dogma non è in contraddizione con la dottrina sulla semplicità divina. In questo senso la figura della luce ha nella teologia di san Gregorio un significato altrettanto importante dell’idea di unità di essenza e presenza nelle Persone della Santissima Trinità di caratteristiche ipostatiche uniche: la riflessione intellettuale sul problema dell’unità e delle distinzioni nella Trinità viene integrata dall’immagine mistica ed estetica della luce, che lega l’unica Divinità e le tre Persone Trinitarie e ci permette, in questo modo, di rappresentarci la loro unitrinità: «Non faccio in tempo a pensare l’unità ed ecco che sono circondato dai raggi dei Tre; non faccio in tempo a dividere i Tre ed ecco che sono riportato all’unità». La paradossalità della teologia della luce di san Gregorio consiste inoltre nel fatto che la Luce divina è «indivisibile», «grande e inaccessibile», e tuttavia illumina tutte le anime umane e tutte le schiere angeliche con il proprio splendore, trova in esse il proprio riverbero e attraverso la purificazione dell’intelletto le trasforma a loro volta in luce, o più esattamente in «specchi penetrati dalla luce della Prima Luce». San Gregorio chiama gli angeli seconda luce, e terza luce l’uo-

 Greg. Naz., Or. , ; trad. it. in Gregorio Nazianzeno, Omelie sulla Natività, cit., p. .  Greg. Naz., Or. , ; trad. it. in Gregorio Nazianzeno, Omelie sulla Natività, cit., p. .  Greg. Naz., Or. , .  Greg. Naz., Or. , .  Greg. Naz., Or. , .  Greg. Naz., Carm., Liber I, I, , . Sul paradossale disvelamento-inconoscibilità

La figura della Luce Trinitaria nell’opera di san Gregorio Nazianzeno

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mo. Il santo vescovo ritiene che la Luce divina si sveli agli angeli in misura maggiore che agli uomini, che possono accostarsi solo a «una sua piccola emanazione»: E non so nemmeno se sia possibile alle sostanze intellettuali che vivono più in alto di noi, le quali, grazie alla loro vicinanza a Dio e al loro essere illuminate da tutta quanta la luce divina, potrebbero anche essere rischiarate, se non in modo totale, almeno in modo più perfetto e più netto di quanto non siamo noi, chi più chi meno, in relazione alla loro posizione.

In tal modo, il grado di illuminazione e di vicinanza alla Fonte della luce crea la gerarchia delle schiere celesti. La stessa cosa si può dire della Chiesa, poiché lo scopo del pastore è guidare alla luce il gregge, e al sacerdote, secondo il pensiero di san Gregorio, è necessario «diventare luce, e poi illuminare; avvicinarsi a Dio, e poi guidare a Lui gli altri». La luce naturale è la quarta luce. In tal modo, la Luce divina trova un proprio riverbero anche nel mondo materiale, che costituisce una sorta di specchio della bellezza divina. San Gregorio paragona più volte la luce divina alla luce del sole. E proprio questa circostanza dà il diritto di indicare con il termine “luce” la realtà divina e spirituale per sua natura, indicata dal santo vescovo. Nel contempo san Gregorio, parlando della luce, non si limita a usare delle metafore. Si volge ripetutamente alla particolare esperienza mistica del rivelarsi della luce, in cui si disvelano pienamente sia la sua inattingibilità sia il suo rendersi manifesta. Il fulgore di Dio

della divinità in san Gregorio, cfr. McGuckin, The Vision of God in St. Gregory of Nazianzen, pp. ; .  Greg. Naz., Or. , ; trad. it. in Gregorio Nazianzeno, Omelie sulla Natività, cit., pp. -.  Greg. Naz., Or. , ; trad. it. in Gregorio di Nazianzo, Teologia e Chiesa: Esperienza di fede e riflessione teologica, cit., p. .  Greg. Naz., Or. , ; trad. it. in Gregorio Nazianzeno, I cinque discorsi teologici, cit., pp. -.  Greg. Naz., Or. , .  Greg. Naz., Or. , ; trad. it. in Gregorio Nazianzeno, Omelie sulla Natività, cit., p. .  Vedi, ad esempio, Greg. Naz., Or. , ; , .



Georgij Zacharov

copre gli abissi, come Sua luce purissima e, per la maggior parte delle creature, inaccessibile, cela le tenebre, Essa che è in tutto e fuori di tutto, Essa che è ogni bellezza e sopra ogni bellezza, che illumina l’intelletto e si sottrae ad ogni sottigliezza e pretesa dell’intelletto, allontanandosi sempre tanto quanto si cerca di raggiungerla, e innalzando il proprio amato proprio attraverso il suo sottrarsi e sfuggire di mano: tale e tanto importante è l’oggetto dei nostri desideri e ricerche! Tale dev’essere anche colui che conduce a Dio le anime, guidandole all’unione sponsale.

A giudicare dalle sue parole, san Gregorio dovette avere una qualche esperienza del rivelarsi della luce fin dall’infanzia: «Da fanciullo, quando piccolo è il senno nel petto, seguendo l’ombra soltanto della ragione e i nobili costumi, mi avvicinavo al trono che lassù risplende, procedendo con passo sicuro sulla via regia». Parlando del periodo della sua vita nel deserto, san Gregorio osserva: «Dinanzi agli occhi avevo lo splendore di Dio e il coro, tutto lucente, delle anime pie e la gloria». Inoltre, egli sottolinea il nesso esistente tra illuminazione e battesimo, che egli interpreta come sepoltura della morte nel fonte battesimale e ritorno alla luce. Il battesimo consente alla persona di «rifulgere come portatrice di luce»: «Luce, oltre a tutte queste, e in modo particolare, è l’illuminazione del battesimo, del quale ora noi stiamo parlando, che abbraccia il grande e mirabile mistero della nostra salvezza». Il santo vescovo ricorda anche esempi di apparizioni luminose nell’Antico e nel Nuovo Testamento: E per dare più luce al nostro discorso, luce era quella che apparve a Mosè dal fuoco, allorquando ardeva il roveto, ma non lo consumava, per mostrare la sua natura e far conoscere la sua potenza; luce, quella che guidò Israele nella colonna di fuoco e mitigò il deserto; luce, quella che rapì Elia sul carro di fuoco e non avvolse tra le fiamme colui che fu rapito; luce, quella che risplendette ai pastori, allorquando la luce che è fuori del tempo si unì a



Greg. Naz., Or. , . Greg. Naz., Carm., Liber II, I, , -; trad. it. in Gregorio Nazianzeno, Poesie/, Città Nuova, Roma , p. .  Greg. Naz., Carm., Liber II, I, , -; trad. it. in Gregorio Nazianzeno, Poesie/, cit., p. .  Greg. Naz., Carm., Liber II, I, , -.  Greg. Naz., Or. , ; trad. it. in Gregorio Nazianzeno, Omelie sulla Natività, cit., p. . 

La figura della Luce Trinitaria nell’opera di san Gregorio Nazianzeno



quella che è nel tempo; luce, la bellezza della stella che corse avanti ai Magi fino a Betlemme, per essere loro guida e per donare quella luce che è al di sopra di noi, venuta ad essere insieme con noi; luce, la natura divina che si fece vedere sulla montagna ai discepoli, più forte della loro vista; luce, quella apparizione che circonfulse Paolo e che percuotendone gli occhi curò la tenebra della sua anima; luce, anche lo splendore che proviene da lassù a coloro che qua in terra si sono purificati, allorquando i giusti risplenderanno come il sole e in mezzo ad essi sarà Dio, in mezzo a coloro che sono veramente dei e re, dividendo e distinguendo le varie dignità della beatitudine di lassù.

Qui ci imbattiamo, in realtà, in un’originale visione della storia sacra come storia del rivelarsi della Luce divina in questo mondo. Osserviamo che l’esperienza del rivelarsi della Luce, descritta da san Gregorio, è un’illuminazione operata dall’energia divina e si accompagna all’elevazione dell’intelletto dalle realtà materiali alle realtà spirituali: Da quando, per la prima volta, recidendola da questo mondo, unii l’anima ai celesti, luminosi pensieri, e l’intelletto sublime, elevandosi da qui, mi pose lungi dalla carne e mi nascose nei recessi del tabernacolo celeste e la luce della Trinità fece rifulgere il mio sguardo, nulla io contemplai di più luminoso di questa....

Le esperienze di visioni divine di san Gregorio ricordano dunque di più le rivelazioni descritte nelle opere poetiche di san Simeone il Nuovo Teologo, che non l’esperienza di contemplazione della luce “dentro” di sé, che era propria degli esicasti. Complessivamente, possiamo affermare che l’immagine della luce nelle opere di san Gregorio esprime perfettamente non solo l’idea dell’unità trinitaria, ma anche l’idea dell’inattingibilità e del rendersi



Greg. Naz., Or. , ; trad. it. in Gregorio Nazianzeno, Omelie sulla Natività, cit., pp. -.  Greg. Naz., Carm., Liber II, I, , -; trad. it. in Gregorio Nazianzeno, Poesie/, cit., p. .  Cfr. Vesc. Ilarion (Alfeev), Prepodobnyj Simeon Novyj Bogoslov i pravoslavnoe Predanie (San Simeone Nuovo Teologo e la Tradizione ortodossa), San Pietroburgo , pp. -.  Cfr. I. Meyendorff, Žizn’ i trudy svjatitelja Grigorija Palamy. Vvedenie v izucˇ enie (Vita e opere di san Gregorio Palamas. Introduzione allo studio), San Pietroburgo .

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Georgij Zacharov

manifesta della divinità stessa; d’altra parte, san Gregorio non ricorre, a differenza di san Basilio il Grande e di san Gregorio di Nissa, alla contrapposizione fra l’inconoscibile essenza divina e le energie che svelano la Trinità nel suo manifestarsi all’esterno. La medesima immagine della Luce esprime contemporaneamente sia l’inconoscibilità dell’essenza divina, sia la realtà della presenza divina e il suo rendersi manifesta attraverso le energie; essa esprime l’unità trinitaria e consente di parlare delle Persone divine come di un «Unico Dio in Tre Illuminazioni». A questo riguardo possiamo affermare che l’armoniosa paradossalità e la ricchezza immaginifica della teologia della luce di san Gregorio Nazianzeno può diventare una piattaforma comune nel dialogo fra le tradizioni teologiche bizantina e latina: e questo sia nell’ambito della triadologia, dove la prima sottolinea la distinzione delle Persone, mentre la seconda pone l’accento sull’unità divina; sia nella sfera della dottrina sulla conoscenza di Dio, dove la tradizione latina parla dell’immersione nell’essenza divina, mentre quella bizantina sottolinea la sua inconoscibilità e il manifestarsi di Dio attraverso le Sue energie.

 Basil., Ep. . Cfr. anche Arciv. Vasilij (Krivošejn), Problema poznavaemosti Boga: sušcˇ nost’ i energija u sv. Vasilija Velikogo (Il problema della conoscibilità di Dio: essenza ed energia in san Basilio il Grande), in Id., Bogoslovskie trudy (Opere teologiche), Nižnij Novgorod , pp. -.  Greg. Nys., Ad Ablab.  Greg. Naz., Carm., Liber I, I, , -.

Costantino Esposito*

Che cosa ci fa conoscere la bellezza

Il titolo di questo mio intervento può essere inteso in due modi diversi ma complementari: esso si riferisce in primo luogo (secondo una più immediata comprensione) a quelle condizioni dell’esperienza e a quei fattori della soggettività umana che ci permettono di giudicare qualcosa come “bella”, o più in generale ci fanno conoscere la realtà della bellezza. Ma in secondo luogo il titolo si riferisce a ciò che la bellezza stessa ci permette di conoscere, o meglio quella specifica conoscenza della realtà – di noi stessi e del mondo – che acquisiamo grazie alla bellezza. Tutto il problema della bellezza nella nostra epoca può essere sintetizzato nel fatto che i due sensi di questo titolo sembrano essere ormai definitivamente divaricati l’uno rispetto all’altro. Di modo che nell’esperienza soggettiva del bello (in quello che da Kant in poi chiamiamo il “gusto” del bello) si indebolisce, fino a perdersi, ogni pretesa di conoscenza; e a sua volta la conoscenza oggettiva delle cose si identifica progressivamente con la loro misurabilità e la loro costruibilità. Per questo vale la pena riaprire una questione che sembrerebbe essere già stata risolta e archiviata, vale a dire: qual è la dimensione conoscitiva del bello? Ci permette esso di allargare la nostra conoscenza del mondo e di noi stessi o dev’essere confinata all’interno di un sentimento soggettivo? La risposta più diffusa a tale questione nell’epoca contemporanea è che la bellezza è segnata da una radicale “impossibilità” conoscitiva. E questo avviene proprio nel momento in cui si afferma definitivamente una tendenza tipica del pensiero moderno, secondo la quale il bello non può più essere pensato come una caratteristica dell’essere (quindi in rapporto con la verità), bensì come una rappresentazione tutta interna

* Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”.



Costantino Esposito

al soggetto umano. Si ricorderà la celebre definizione di “estetica” data nel  da A.G. Baumgarten (l’inventore di questa “disciplina”): essa è «la scienza della conoscenza sensibile», più precisamente una «gnoseologia inferiore», rispetto alla gnoseologia superiore, quella intellettuale; e correlativamente la bellezza è definita come «il fine dell’estetica», ossia come «la perfezione della conoscenza sensibile in quanto tale». Il paradosso è che proprio nel momento in cui l’estetica viene definita come una modalità di conoscenza, essa comincia a delimitare, e infine a perdere il suo potere conoscitivo, o meglio: tale potere non coglie più il bello come qualcosa di “altro” o di eccedente rispetto al soggetto conoscente, ma al contrario come una particolare produzione del soggetto conoscente. La nota formula di Baumgarten dice infatti che «la bellezza della conoscenza» è «un effetto prodotto da colui che pensa in modo bello, né più grande né più nobile delle forze vive di cui quest’ultimo dispone». Un principio che Kant riprenderà nella Critica del giudizio (), determinando il canone di tutta l’estetica successiva. Le sue stesse parole sono certamente più efficaci dei miei commenti: Per distinguere se una cosa è bella o no, noi non riferiamo la rappresentazione all’oggetto mediante l’intelletto, in vista della conoscenza; ma, mediante l’immaginazione (forse congiunta con l’intelletto), la riferiamo al soggetto, e al suo sentimento di piacere o dispiacere. Il giudizio di gusto non è dunque un giudizio di conoscenza, cioè logico, ma è estetico; il che significa che il suo principio di determinazione non può essere se non soggettivo. [...] la qual cosa fonda una facoltà del tutto particolare di distinguere e di giudicare, che non porta alcun contributo alla conoscenza, ma pone soltanto in rapporto, nel soggetto, la rappresentazione data con l’intera facoltà delle rappresentazioni: della qual cosa l’animo diviene cosciente nel sentimento del proprio stato.



A.G. Baumgarten, Æsthetica, Frankfurt/Oder -, rist. anast.: Olms, Hildesheim  (trad. it., qui e in seguito modificata, di F. Piselli: Estetica, Vita e Pensiero, Milano ), §§  e .  Baumgarten, Æsthetica, cit., § .  I. Kant, Kritik der Urteilskraft, hrsg. von K. Vorländer, Meiner, Hamburg  sgg., pp. -; trad. it. (qui e in seguito notevolmente modificata) di A. Gargiulo, rivista da V. Verra, Critica del giudizio, Laterza, Roma-Bari , p. .

Che cosa ci fa conoscere la bellezza



Nel giudizio di gusto estetico – sottolinea Kant – a noi non interessa affatto l’esistenza dell’oggetto che giudichiamo bello, anzi essa ci è del tutto “indifferente” (e per questo tale giudizio è chiamato da lui “disinteressato” o “contemplativo”). Quello a cui ci riferiamo quando diciamo che qualcosa è “bello”, è solo il sentimento di piacere prodotto in noi dal gioco armonico tra le facoltà della nostra mente (sensibilità, immaginazione, intelletto). Per questo il bello può e dev’essere un giudizio “universale”, perché non ha a che fare più con dati reali o soggetti empirici (nel qual caso ciascuno avrebbe una sua nozione di bellezza diversa da quella degli altri, a seconda delle cose che in particolare gli piacciono), ma ha a che fare con il consenso di tutti ad un piacere a priori della ragione. Nell’esperienza della bellezza non è la ragione che si apre ad accogliere l’attrattiva dell’essere o il fascino del mondo (questo per Kant sarebbe solo “piacevole”, non “bello”); piuttosto è il piacere dell’oggetto che viene prodotto a priori dal giudizio necessario della ragione. Resta, è vero, in Kant e soprattutto nella cultura romantica, un rapporto privilegiato del bello con il bene (pensiamo all’enfasi di Schiller sulla “bella eticità”), ma anche in questo caso il bene cui la bellezza conduce costituisce un puro ideale, un dover-essere che per sua natura eccede il piano dell’esistente, e anzi trova tutta la sua forza e la sua suggestione nel prospettare – con l’immaginazione e la fantasia – ciò che la ragione non sarebbe mai capace di cogliere con i concetti. La “possibilità” estetica della bellezza viene sempre più a coincidere con la sua “impossibilità” reale o oggettiva. Una tendenza che non sembra cambiare neanche con Hegel, il quale da un lato afferma che la bellezza artistica supera di gran lunga quella naturale, poiché è una «bellezza generata e rigenerata dallo spirito», e dall’altro lato sostiene che l’arte stessa, intesa come compiuta sintesi di senso spirituale ed espressione sensibile, è destinata alla “morte” proprio perché il suo contenuto spirituale deborderà sempre di più dagli schemi della sua rappresentazione formale. È significativo per esempio il modo in cui – nello spazio aperto da

 G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik, in Werke (-), Band , Suhrkamp, Frankfurt am Main , p. ; trad. it. Estetica, a cura di N. Merker, Einaudi, Torino , p. .

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Costantino Esposito

questa “morte” dell’arte – uno degli autori di riferimento dell’estetica di fine Novecento, Theodor W. Adorno, nella sua Teoria estetica sottolinei la separazione inevitabile dell’esperienza estetica dalla realtà empirica. Il fatto, l’empiria, il reale così come lo si vede e lo si tocca è sempre «schiacciato» da una «costrizione all’identità». L’estetico, invece, costituisce un’antitesi rispetto all’esistente, una presa di distanza rispetto al principio di realtà. In questa antitesi, secondo Adorno, avviene una specie di “liberazione” rispetto all’esistente, cioè rispetto a ciò che “è quello che è” e non può che essere così. In ogni vera opera d’arte diviene invece possibile un non-esistente, una realtà non-effettiva, potremmo dire un senso delle cose che è irrealizzabile se non come una promessa che, di fatto, non si potrà mai compiere. «L’inestinguibile anelito al bello – scrive Adorno – è l’anelito all’adempimento della promessa», ma «niente garantisce che l’arte mantenga la sua promessa obbiettiva». Nell’arte «vi è menzogna, nella misura in cui essa manca di produrre la possibilità da essa stessa prodotta come apparenza, e la manca proprio per questo». In tal modo l’arte, nel suo apparire di bellezza e di forma, promette e insieme tradisce, e l’apparenza stessa non vale più come traccia di un possibile, ma come mero inganno, appunto perché ciò a cui ci rimanda è impossibile. L’estetica sembra così aver preso in ostaggio la bellezza, in un abbraccio che non poche volte rischia di apparire “mortale”. In esso il bello non è – e non potrà mai essere – il reale. E questo per almeno due motivi, certamente degni di attenzione: in primo luogo perché si riconosce come irreversibile la crisi dei canoni formali della rappresentazione classica della bellezza, e in secondo luogo perché l’irrealtà del bello appare come l’estremo, disperato tentativo di salvaguardare l’irriducibilità dell’esperienza estetica rispetto alle categorie oggettivanti della ragione scientifica o alle procedure calcolanti della tecnica. Certo, nell’estetica novecentesca possiamo rintracciare anche dei tentativi di ridare uno spessore “ontologico” o di “verità” all’esperienza del bello, come ad esempio nell’ermeneutica di H.-G. Gadamer. Ma proprio allorquando quest’ultimo divide il campo della conoscenza  T.W. Adorno, Ästhetische Theorie, hrsg. von G. Adorno und R. Tiedemann, Suhrkamp, , p. ; trad. it. (modificata) di E. De Angelis, Teoria estetica, Einaudi, Torino , p. .  Adorno, Ästhetische Theorie, cit., pp. -; trad. it. (modificata), pp. -.

Che cosa ci fa conoscere la bellezza

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metodico-scientifica dal campo della verità estetica, egli in realtà conferma clamorosamente che la bellezza non ci fa conoscere niente della realtà stessa; o meglio: ci fa conoscere la realtà solo in quanto essa è una produzione culturale all’interno di un canone linguistico condiviso da un’umanità storica. Il bello non è solo qualcosa che, evidentemente, si offre alla nostra interpretazione, ma è qualcosa il cui essere consiste appunto nell’essere-interpretato, e cioè in definitiva nell’essere un prodotto ermeneutico. Se Gadamer ha dato voce, per così dire, alla tradizione continentale, Nelson Goodman ha invece espresso in maniera paradigmatica l’approccio al problema dal punto di vista della tradizione analitica americana. A differenza della posizione più diffusa sul tema, Goodman afferma con decisione che l’arte, e quindi la percezione estetica, possiede senz’altro un valore conoscitivo, o meglio essa è un’«attività cognitiva» al pari della scienza, a condizione tuttavia di assumere queste due attività come due sistemi simbolici diversi con cui si realizza il lavoro interpretativo della conoscenza umana. La stessa percezione del mondo è intesa come una “costruzione” del mondo. Così l’estetica è nuovamente ammessa nel campo della conoscenza, proprio perché da parte sua la conoscenza – estetica o scientifica che sia – ha rinunciato ormai all’ipotesi che vi sia un senso oggettivo della realtà che noi dobbiamo interpretare, ma considera invece la realtà come un prodotto del linguaggio o meglio, dei diversi sistemi simbolici con cui percepiamo, e quindi “facciamo” il mondo (worldview come worldmaking). Per questo Goodman afferma: «Che la natura imiti l’arte [come avrebbero detto Hegel e Gadamer] è una massima troppo prudente. La natura è un prodotto dell’arte e del discorso». Di fronte a questa ambigua condizione della bellezza, divisa tra un’impossibilità a “realizzarsi” (cioè ad essere “reale”) e una realizzazione prodotta dalle possibilità storico-linguistiche dell’interpretazione, 

Cfr. H.-G. Gadamer, Die Aktualität des Schönen. Kunst als Spiel, Symbol und Fest, Reclam, Stuttgart , pp. -; trad. it. (qui e in seguito modificata), nella raccolta intitolata L’attualità del bello. Studi di estetica ermeneutica, a cura di R. Dottori, Marietti, Genova , p. .  N. Goodman, Languages of Art. An Approach to a Theory of Symbols, Hackett, Indianapolis (IN) ; trad. it. a cura di F. Brioschi, I linguaggi dell’arte, Il Saggiatore, Milano , p. .

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Costantino Esposito

nasce l’idea che forse essa ha bisogno di essere liberata da questa condizione di ostaggio dell’estetica, per poter tornare a mostrarsi e a parlarci nella sua propria lingua. Ma di che liberazione si tratta? Riprendendo l’impostazione data da Adorno al problema, secondo cui l’esperienza estetica dev’essere intesa come una liberazione dall’esistente, potremmo chiederci se invece l’esperienza della bellezza (che non andrebbe identificata immediatamente con l’esperienza estetica) non vada intesa piuttosto come una liberazione dell’esistente. Qualcosa, per intenderci, di analogo a quello che Michelangelo Buonarroti diceva a proposito dell’arte della scultura, che consisterebbe essenzialmente nell’atto del “levare”, tramite il quale si possa scoprire, far emerge e delineare dalla pietra informe la forma dell’essere. La mia ipotesi di lavoro è che la bellezza non debba essere compresa innanzitutto a partire dal “gusto” soggettivo o dalla creazione spirituale o dalla interpretazione culturale, bensì a partire dalla stessa percezione che noi abbiamo della realtà. Ma a sua volta la percezione dev’essere intesa come luogo di incontro tra la nostra mente ed il mondo, momento privilegiato in cui il nostro io viene colpito dalle cose e le cose si realizzano propriamente nello spazio di apertura del nostro io. Questo da un lato permette di valorizzare pienamente il principio moderno secondo cui il soggetto umano può “ricevere” il mondo nella misura in cui lo “interpreta”, e che ogni passività è sempre attraversata e orientata da un’attività della coscienza e dalla comprensione di colui che la riceve. Ma dall’altro lato questa attività è creatrice di mondo perché è “affetta” o “colpita” dal mondo, il quale è come se attendesse lo sguardo e il sentire del soggetto percipiente per dar prova della sua verità oggettiva. E se questo vale per ogni esperienza percettiva, è nella percezione di ciò che giudichiamo bello che il fenomeno si presenta in maniera particolarmente evidente. Permettetemi in questa sede di mettere a fuoco la questione filosofica 

Michelangelo in Roma a Benedetto Varchi [in Firenze], Aprile-giugno : «dico che, se maggior giudicio e dificultà, impedimento e fatica non fa maggiore nobiltà, che la pictura e la scultura è una medesima cosa; e perché la fussi tenuta così, non dovrebbe ogni pittore far manco di scultura che di pictura: e ’l simile lo scultore di pictura che di scultura. Io intendo scultura quella che si fa per forza di levare; quella che si fa per via di porre è simile a la pictura», in Il carteggio di Michelangelo, ed. postuma di G. Poggi, a cura di P. Barocchi e R. Ristori, Sansoni, Firenze -.

Che cosa ci fa conoscere la bellezza



(e non semplicemente neurofisiologica o psicologica) della percezione della bellezza, attraverso due testimonianze che hanno segnato in maniera per me decisiva la storia di questo problema (benché esse risultino spesso meno frequentate di quanto invece meriterebbero), e che restano ancora oggi come delle indicazioni per renderci conto di quello che avviene – spesso non consapevolmente – nell’esperienza più diffusa dei soggetti percipienti e quindi coscienti. La prima testimonianza è quella offertaci da Agostino d’Ippona nel X libro delle sue Confessioni (-), lì dove descrive il modo in cui il nostro «io interiore» (ego interior) giunge a conoscere il significato ultimo della realtà con l’aiuto del nostro «io esteriore» (per exterioris ministerium), o più precisamente, il modo in cui il mio “animo” – ossia il centro dinamico del mio io – conosce il dono dell’essere per mezzo dei sensi del corpo (ego, ego animus per sensum corporis mei). Ma il contesto di questa descrizione è particolarmente significativo: Agostino vuol sapere chi è il suo Dio, vale a dire dove può localizzare quel significato che si è rivelato a lui come una presenza amorosa attraverso gli incontri, gli avvenimenti, i drammi stessi della sua vita. Ma che amo, quando amo te? Non una bellezza corporea [speciem corporis], né una grazia temporale: non lo splendore della luce, così caro a questi miei occhi, non le dolci melodie delle cantilene d’ogni tono, non la fragranza dei fiori, degli unguenti e degli aromi, non la manna e il miele, non le membra accette agli amplessi della carne. Nulla di tutto ciò amo, quando amo il mio Dio.

E tuttavia, come egli si affretta a dire, amando il suo Dio egli ama «una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso». La caratteristica di questo “oggetto” amoroso consiste nel fatto che questa luce, questa voce, questo odore ecc. sono propri dell’uomo interiore che è in me, ove splende alla mia anima una luce non avvolta dallo spazio, ove risuona una voce non travolta dal tempo, ove olez-

 Aurelius Augustinus, Confessionum libri tredecim – Le confessioni, testo latino dell’ed. di M. Skutella riveduto da M. Pellegrino, trad. it. e note di C. Carena, Citta Nuova («Nuova Biblioteca Agostiniana»), Roma . Qui Conf. X, , .  Augustinus, Conf. X, , .

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Costantino Esposito

za un profumo non disperso dal vento, ov’è colto un sapore non attenuato dalla voracità, ove si annoda una stretta non interrotta dalla sazietà.

Per conoscere dunque che cosa si ama quando si ama una realtà o un’esperienza del genere (cioè appartenente all’uomo interiore attraverso l’uomo esteriore) devo cominciare con l’interrogare le cose fuori di me: il cielo, la terra, il mare e tutto ciò che incontro nell’universo. Con le mie domande, scrive Agostino, porto il mio sguardo sulle cose (interrogatio mea, intentio mea), e le cose da parte loro mi rispondo attraverso la loro forma di bellezza (et responsio eorum, species eorum). E tutte – proprio in quanto appaiono come belle – gli rispondono: non siamo noi quello che cerchi, «non siamo noi il tuo Dio», perché siamo state fatte. Il problema che si pone a questo punto è: come ci parla la bellezza delle cose? E perché la risposta che essa dà alla nostra interrogazione non è intesa da tutti? In altri termini, perché tale bellezza per alcuni si ferma all’aspetto piacevole percepito dai sensi, mentre per altri è segno della provenienza delle cose da un’origine più grande di esse? Una cosa è chiara: se da un lato la bellezza appare a tutti gli esseri dotati di sensi, dall’altro lato essa non parla a tutti nella stessa maniera. Gli animali per esempio la vedono, sì, ma non la capiscono, poiché essi «sono incapaci di fare domande» (interrogare nequeunt), e non possiedono quella «ragione giudicante» (iudex ratio) che serve a decifrare e valutare i messaggi che arrivano dai sensi. Gli uomini, invece, proprio in quanto «sono capaci di fare domande» (interrogare possunt) possono scorgere il Dio invisibile attraverso il creato visibile. Tuttavia, questa capacità umana di vedere comprendendo e giudicando non garantisce automaticamente di percepire la voce della bellezza. Gli uomini infatti rischiano sempre di perdere la loro capacità di domandare, ogni qual volta si fermano all’immediatezza delle cose create, e diventano schiavi delle apparenze: «ma i servi non possono giudicare», ossia la percezione della bellezza del reale richiede una posizione di libertà del giudizio, senza la quale non si potrebbe andare dal sensibile al suo significato ultimo, ossia dal visibile all’invisibile. 

Ibid. Augustinus, Conf. X, , .  Questa e le prossime citazioni: Augustinus, Conf. X, , . 

Che cosa ci fa conoscere la bellezza



Le cose dunque «rispondono soltanto a chi le interroga sapendo giudicare»; la loro voce, cioè la loro bellezza non cambia, ma si presenta in modo diverso a chi la vede soltanto e a chi invece la vede e insieme l’interroga. Così, pur presentandosi a entrambi sotto il medesimo aspetto, essa per l’uno è muta, per l’altro parla; o meglio, parla a tutti, ma solo coloro che confrontano questa voce ricevuta dall’esterno, con la verità nel loro interno, la capiscono [sed illi intellegunt, qui eius vocem acceptam foris intus cum veritate conferunt].

La bellezza è percepita veramente in un’esperienza di dialogo e di corrispondenza tra l’io e la realtà, tra l’interno e l’esterno, tra ciò che è percepito sensibilmente e il suo senso percepito razionalmente. Ma il fenomeno è più radicale di una semplice addizione del lato soggettivo con quello oggettivo, poiché nell’invito che la bellezza rivolge al nostro io, grazie alla voce che ci chiama attraverso il fascino della forma (species), l’io è letteralmente “mosso” ad essere se stesso. Esso esisteva, certo, come possibilità di esercitare una funzione, ma ora, ascoltando quell’invito e chiedendo il “perché” di quella voce, il nostro io è “preso” o “afferrato” dalla realtà: e così esso può emergere, può venir fuori nella sua piena soggettività. Per Agostino la bellezza delle cose non si identifica con il mero aspetto estetico, ma con l’ordine, l’armonia e la ragione profonda per cui esse esistono. Per questo, proprio in quanto giudicata “bella”, la realtà si manifesta nel suo significato; e viceversa il significato vero delle cose o si manifesta attraverso la sua bellezza oppure non è. In questo caso il bello viene a coincidere con la corrispondenza tra la nostra domanda di senso e la risposta che le cose ci danno; e a sua volta il nostro stesso domandare è il modo più proprio che abbiamo di rispondere alla domanda che l’essere delle cose continuamente ci rivolge. Per dirla con i termini canonici della percezione visiva, la bellezza denota la scoperta dell’invisibile attraverso il visibile, ma non come un’aggiunta o un mero “al di là” rispetto a quello che vediamo sensibilmente, bensì come la condizione stessa della possibilità del visibile. Noi vediamo sensibilmente le cose attorno a noi, ma non ne vediamo alla stessa maniera il senso. Eppure, se non percepissimo il senso di quelle cose probabilmente non le vedremmo neanche, o meglio, le “guarderemmo”, sì, senza però “vederle” realmente. È a questo genere di feno-

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meni della significazione che ritengo appartenga l’esperienza della bellezza. Non si tratta, in altri termini, di applicare alla mera percezione sensoriale un senso escogitato dal nostro intelletto, ma di ricavarlo da quella percezione, la quale dunque si mostrerà sin dall’inizio carica di giudizio. Ho trovato nei canoni del II Concilio di Nicea del  un’affermazione sintetica di grande forza per esprimere tutto ciò. La citazione non è casuale, dal momento che in quel famoso Concilio, a partire dall’accesa discussione tra gli “iconofili” (sostenitori dell’utilità e del valore delle icone sacre, in quanto rappresentazioni sensibili portatrici di una realtà sovrasensibile), e gli “iconoclasti” (i quali negavano questo valore dell’immagine sacra e la stessa possibilità di rappresentare sensibilmente il sovrasensibile) venne presa una decisione di capitale importanza per la nostra concezione della visione e della bellezza. In quella occasione, come si ricorderà, vinsero gli iconofili, e una delle verità solennemente affermate fu la seguente: «La realtà che quando è assente deve vedersi solo intellettualmente non può vedersi neanche intellettualmente se prima non è stata vista sensibilmente». Il privilegio che la filosofia greca aveva riservato metaforicamente alla vista per designare il modello della conoscenza intellettuale viene riletto e addirittura ribaltato, per esaltare il pieno valore della vista nella sua concreta, materica sensibilità. E dunque, in definitiva, “vedere” l’invisibile attraverso il visibile è ciò che, solo, può permettere al visibile di essere visto come tale. Se si perdesse questo intreccio – questo “chiasmo”, come lo chiamerebbe Maurice Merleau-Ponty, uno di quegli autori contemporanei che più acutamente hanno individuato il problema –, se si perdesse questo chiasmo del visibile con l’invisibile, non ci sarebbe preclusa soltanto la scoperta profonda di ciò che immediatamente non si vede, ma anche e soprattutto il darsi stesso, nella sua piena visibilità, di ciò che vediamo. È precisamente a questo livello della questione, o per meglio dire a questo livello dell’esperienza, che può tornare a mostrasi, a farsi lette

Teodoro di Studion, Antirretici , ; cit. in C. Valenziano, Il secondo Concilio di Nicea e l’Iconologia, in Vedere l’invisibile. Nicea e lo statuto dell’Immagine, a cura di L. Russo, Aesthetica edizioni, Palermo , p. .  M. Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, a cura di C. Lefort, Gallimard, Paris ; trad. it. a cura di A. Bonomi, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano , pp.  sgg.

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ralmente vedere, in senso percettivo e significativo insieme, il fenomeno della bellezza. Questo ci permette di introdurre la seconda testimonianza riguardo al valore conoscitivo della bellezza, intesa come percezione dell’invisibile nel visibile o dell’intellettuale nel sensibile. Essa ci viene offerta dal pittore Paul Cézanne il quale, dall’interno della sua stessa attività, ha delineato per così dire una “logica della bellezza”. Solo che egli non teorizza mai la bellezza in quanto tale: la fa semplicemente vedere cercando di rendere la presenza e la potenza dell’essere della realtà. È una posizione gnoseologica e ontologica che si può ricostruire da alcune lettere inviate all’amico Émile Bernard, alla madre e al figlio, tra il  e il . Cézanne non è solo – come spesso si dice – il pittore della realtà, ma colui che forse più di ogni altro nel mondo moderno ha indicato la realtà della pittura, cioè la realtà della visione: «il mio metodo è l’odio per l’immaginifico. È semplicissimo. Il mio metodo, il mio codice, è il realismo. Ma, sia chiaro, un realismo alla grande, senza dubbi. L’eroismo del reale». Tale realismo è però tutt’altro che una mera registrazione di tipo positivistico e/o impressionistico, un’enfasi ingenua sulla presenza dei dati o una loro rifrazione nel gioco dei percetti. Cézanne non assume come semplicemente già-dato il mondo, né al contrario lo fa essere soltanto nella propria impressione visiva, ma tende il suo sguardo come il luogo in cui si compone l’apparire molteplice della natura, il lato fenomenico di essa preso nelle coordinate percettive. Così facendo, però, egli arriva alla radice quasi fisica del senso delle cose, lì dove esse in qualche modo si strappano al nulla venendo all’essere, proprio grazie al nostro sguardo; e dentro questo sguardo le cose si trattengono nella presenza, vincendo il rischio di ritornare nel nulla, una volta cessata la nostra percezione visiva. La realtà si dà nella visione, ma non è la visione che costituisce la realtà: Io ravvicino nel medesimo slancio, nella medesima fede, tutto ciò che si disperde... Tutto ciò che vediamo non è vero, si disperde, si dilegua, se ne va.  J. Gasquet, «Ce qu’il m’a dit...» (extrait de Cézanne), in P.M. Doran (édition critique présentée par), Conversations avec Cézanne, Macula, Paris ; trad. it. di N. Zandegiacomi, Ciò che mi ha detto Cézanne, in Cézanne. Documenti e interpretazioni, Donzelli, Roma , p. .

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La natura è sempre la stessa ma nulla resta di lei, di ciò che ci appare. La nostra arte deve darle il respiro della durata, con gli elementi, l’apparenza, di tutti i suoi cambiamenti. Deve farcela gustare come eterna. Che cosa c’è sotto di lei? Forse nulla. Forse tutto. Tutto, comprende? Allora io congiungo le sue mani erranti... Prendo, a destra, a sinistra, qua, là, dovunque, i suoi toni, i suoi colori, le sue sfumature, li fisso, li avvicino... Essi formano delle linee. Diventano oggetti, rocce, alberi, senza che io ci pensi. Acquistano un volume. Hanno un valore. [...] La mia tela congiunge le mani. Non vacilla. Non va né troppo in alto né troppo in basso. È vera, è densa, è piena.

Se dunque il nostro rapporto con la natura è veicolato dal nostro sguardo, anzi coincide con esso; tale sguardo a sua volta sembra quasi essere il modo in cui si offre il mondo. Qui si evidenzia l’intrinseca dimensione conoscitiva dello sguardo, vale a dire della visione come un lavoro di penetrazione della presenza della natura – la quale è, appunto, “presente”, non perché è là fuori, davanti a noi nel senso di un oggetto contrapposto a noi soggetti, ma perché «si dispiega davanti ai nostri occhi» nella sua struttura geometrica solida. E quest’ultima, tuttavia, non va intesa tanto come una riduzione della sostanza qualitativa del mondo a puri rapporti e a esatte proporzioni misurabili dello spazio, ma come un modo di darsi del mondo che, per così dire, forza le nostre misure, rendendole il luogo di manifestazione di una profondità che è sempre più che mera prospettiva. Come leggiamo in una lettera di Cézanne a Émile Bernard ( aprile ): Permettetemi di ripetere quello che vi dicevo qui: trattare la natura secondo il cilindro, la sfera, il cono, il tutto posto in prospettiva, in modo che ogni lato di un oggetto o di un piano si diriga verso un punto centrale. Le linee parallele all’orizzonte danno l’estensione, cioè una sezione della natura, o, se preferite, dello spettacolo che il Pater Omnipotens Aeterne Deus dispiega davanti ai nostri occhi. Le linee perpendicolari a questo orizzonte danno la profondità. Ora, per noi uomini, la natura è più in profondità che in superficie, di qui la necessità di introdurre nelle nostre vibrazioni di luce, rappresentate dai rossi e dai gialli, una quantità sufficiente di azzurri, per far sentire la presenza dell’aria.



Gasquet, Ciò che mi ha detto Cézanne, cit., pp. -. P. Cézanne, Correspondance, recueillie, annotée et préfacée par J. Rewald, Grasset, Paris ; trad. it. in Lettere, a cura di E. Pontiggia, SE, Milano , pp. -. 

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Per cogliere, o meglio per penetrare in questa profondità, bisogna allora esercitare lo sguardo; ma lo sguardo è un lavoro, e precisamente il lavoro della conoscenza. Come scrive alla madre il  settembre : Devo lavorare sempre, ma non per arrivare al finito, che suscita l’ammirazione degli imbecilli. Ciò che il volgo apprezza maggiormente non è altro che il risultato del mestiere di un artigiano, e rende ogni opera non artistica e banale. Non devo cercare di portare a termine, se non per il piacere di fare cose più vere e più sapienti.

Emerge qui tutta la distanza della concezione pittorica di Cézanne da ogni filtro per così dire “ideologico”, ma anche da ogni intenzione semplicemente “simbolica” o da preoccupazioni meramente “stilistiche”. Ciò a cui egli mira è di concretizzare «le proprie sensazioni, le proprie percezioni» come un vero e proprio «insegnamento». Non si tratta soltanto di “sentire”, ma di “capire” quello che si sente. La posta in gioco è, precisamente, logica: «Penetrare ciò che si ha davanti, e perseverare nell’esprimersi il più logicamente possibile». O ancora, in una delle ultime lettere a Bernard: «Mi scuserete se torno sempre sullo stesso punto, ma credo nello sviluppo logico di ciò che vediamo e sentiamo studiando dal vero». La sensazione non è dunque un’immediatezza irriflessa, ma qualcosa che va “realizzato”; non lo specchio passivo del mondo, ma la sua venuta all’essere. All’estremo della tensione del suo lavoro (e della sua vita) scriverà al figlio l’ settembre : Ti dirò infine che come pittore divento più lucido di fronte alla natura, ma per me la realizzazione delle mie sensazioni è sempre molto faticosa. Non so raggiungere l’intensità che si manifesta davanti ai miei sensi, non ho quella magnifica ricchezza di colori che anima la natura. Qui, in riva al fiume, i motivi si moltiplicano; lo stesso soggetto, visto da angolazioni differenti, offre una materia di studio così interessante e varia che credo potrei lavorare per mesi senza cambiare posto, solo inclinandomi un po’ più a destra o un po’ più a sinistra.



Cézanne, Lettere, cit., p. . Cfr. la lettera a Émile Bernard del  maggio , ivi, p. .  Cfr. la lettera a Émile Bernard del  settembre , ivi, p. .  Cézanne, Lettere, cit., p.  (trad. leggermente modificata). 

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Qui sta il paradosso della réalisation percettiva, nel fatto cioè che le sensazioni non sono soltanto “provate” dal pittore, ossia non sono semplicemente ricevute o subite, a motivo dell’inevitabile passività con cui i nostri sensi sono esposti ai colpi della natura, ma sono “compiute”, per così dire, attivamente, rese tali grazie al lavoro dello sguardo. In questo sguardo l’attività e la passività costituiscono come i due lati di un incontro ontologico irriducibile, cioè non scomponibile ulteriormente in un dentro e in un fuori, in un io percettivo e in una realtà data: perché la percezione è nel dato, e il dato nella percezione. Uno dei luoghi in cui si verifica con maggiore consapevolezza questa realizzazione delle sensazioni è per Cézanne il colore. Esso non è mai un’entità astratta, bensì un’autentica energia naturale, «è il luogo in cui il nostro cervello e l’universo si incontrano. Ed è per questo che appare intensamente drammatico», perché tutto si gioca in esso: «non c’è che una sola strada per rendere tutto, per tradurre tutto: il colore. Se posso dire così: il colore è biologico. Il colore vive, lui solo rende vive le cose». Il colore è chiamato ad ospitare in sé l’offrirsi del mondo: l’odore intensamente blu dei pini che è aspro al sole, deve sposare l’odore verde dei prati che, là, ogni mattino, sono freschissimi, con l’odore delle pietre, il profumo del marmo lontano, della [montagna di] Sainte-Victoire. Io non l’ho reso. Bisogna renderlo [Je ne l’ai pas rendu. Il faut le rendre]. E con i colori, senza letteratura. [...] Quando la sensazione è nella sua pienezza, si armonizza con tutto l’essere. Il turbinio del mondo, nel profondo di un cervello, si risolve nel medesimo movimento che [...] percepiscono gli occhi, le orecchie, la bocca, il naso.

L’interprete forse definitivo di Cézanne è stato Rainer Maria Rilke, come emerge dalle lettere scritte a sua moglie Clara da Parigi, alcune delle quali dopo le sue visite al Salon d’Automne che dedicava una retrospettiva a Cézanne nelle sale del Grand Palais nell’ottobre del  (a un anno dalla morte del Maestro). Tra i tanti, intensi motivi del pittore colti dal poeta ve ne è uno di particolare pertinenza con il nostro tema, ed è quello sul nesso tra lo sguardo, il lavoro e la realizzazione della natura. L’«intento più intimo del suo lavoro», scrive Rilke riferen 

Gasquet, Ciò che mi ha detto Cézanne, cit., pp.  e . Ivi, p. .

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dosi a Cézanne, era «il farsi cosa, la realtà sublimata fino a divenire indistruttibile attraverso la propria esperienza dell’oggetto». E in questo inesorabile «lavoro quotidiano» portato avanti fin quasi allo sfinimento, egli «giorno dopo giorno sperava forse ancora di raggiungere quel compimento che sentiva come l’unico essenziale». Da questo punto di vista si può dire che per lui non solo il lavoro di pittore parte sempre dal vedere la natura, ma più radicalmente questo stesso vedere è inteso come un lavoro tendenzialmente infinito: Com’è distante, altrove, il vedere dal lavorare; vedi e pensi: più tardi. Qui è quasi la stessa cosa. Eccoti di nuovo qua: non è sorprendente, né strano, né straordinario: non è nemmeno una festa; perché una festa sarebbe già un’interruzione. Ma questo ti prende, ti accompagna e con te attraversa la totalità delle cose, le umili e le grandi. Tutto ciò che esisteva assume un ordine diverso, si ordina in sequenze, come se qualcuno fosse lì a comandarlo; e ciò che è presente è presente in tutta la sua insistenza come se in ginocchio pregasse per te.

Lo sguardo ci fa conoscere veramente le cose perché la sua visione è già sin dall’inizio il riconoscimento della presenza ordinata – vale a dire sensata e razionale – delle cose; e a sua volta tale ordine non è l’esito di un’idealizzazione delle nostre percezioni, ma è il modo stesso in cui la realtà ci attende e chiede di noi: ci prega addirittura di essere – di esserci noi stessi per accoglierla e realizzarla, e di essere essa stessa come l’evento di una presenza che non si limita mai semplicemente ad esser là fuori, di fronte a noi, ma accade e diviene quello che è grazie alla nostra domanda. È quello che emerge da un altro grande interprete di Cézanne, Maurice Merleau-Ponty: È la montagna stessa che, di laggiù, si fa vedere da lui, è lei che il pittore interroga a partire dal proprio sguardo. Che cosa le chiede precisamente? Di rivelare i mezzi, i mezzi visibili e nient’altro, con i quali essa si fa montagna sotto i nostri occhi. [...] L’interrogazione della pittura mira comunque a

 R.M. Rilke, Briefe über Cézanne, hrsg. von C. Rilke und H.W. Petzet, Insel, Frankfurt a. M. ; Lettere su Cézanne, trad. it. di G. Buss-De Giudici, Passigli, Firenze , pp. - (leggermente modificata): lettera del  ottobre .  Rilke, Lettere su Cézanne, cit., p. : lettera del  giugno .

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questa genesi segreta e febbrile delle cose nel nostro corpo. Non è dunque, la domanda del pittore, quella rivolta da chi sa a chi ignora, la domanda del maestro di scuola. È il quesito di colui che non sa a una visione che sa tutto, che non siamo noi a fare, che si fa in noi.

Seguendo in tal modo la descrizione della percezione visiva non abbiamo forse smarrito il tema della bellezza, da cui era partito il nostro discorso? Abbiamo preso le mosse da una nozione del bello tutta presa negli schemi dell’estetica; abbiamo poi cercato di ascoltare la sua voce come un fenomeno particolarmente importante della nostra vita percettiva; infine sembrerebbe che la stessa dinamica della percezione artistica abbia assorbito in sé tutta la specificità della bellezza. Ma forse, proprio andando al fondo del lavoro intelligente delle nostre sensazioni, pure senza tematizzarla, abbiamo raggiunto la radice stessa del bello come dimensione costitutiva della nostra conoscenza dell’essere. La bellezza non appartiene esclusivamente al gusto del soggetto ma non è nemmeno un carattere già-dato delle cose: piuttosto essa è il luogo del loro incontro, in cui il reale ci attrae con la sua presenza e il nostro io (senziente e intelligente) diviene il testimone del suo “farsi” come realtà. Anzi, più che testimone, come co-protagonista sulla scena del mondo. Il mondo è bello, appunto, perché accade per noi.



M. Merleau-Ponty, L’Œil et l’Esprit, Gallimard, Paris ; trad. it. di A. Sordini, L’occhio e lo spirito, SE, Milano , pp. -.

Aleksandr Filonenko*

La bellezza e il ritorno della realtà: nuove possibilità di una teoestetica

Nella mia relazione vorrei delineare una linea argomentativa che affermi la presenza della teologia nella cultura contemporanea e nell’ambito accademico a salvaguardia della bellezza; a questo scopo farò tre cose: ) racconterò una storia in cui si osserva l’attuale impostazione del problema della bellezza; ) abbozzerò una descrizione della situazione culturale in cui esaminiamo il tema propostoci, attraverso la constatazione di tre fatti significativi; ) proporrò l’esame di tre problemi riguardanti nuove possibilità di una teoestetica in qualità di “prima teologia”.

. Il bello in mezzo all’interessante L’edificio più famoso di Char’kov è il Gosprom, un capolavoro del costruttivismo costruito per il governo ucraino nel . Il groviglio di parallelepipedi disposto sulla “più grande piazza d’Europa” è in grado di impressionare ogni turista. Una volta è arrivata da noi per uno stage una studentessa italiana, e dopo due giorni di permanenza a Char’kov, guardando dalla finestra il Gosprom, ha detto: «Vorrei chiederti una cosa. Mostrami la bellezza in questa città». Io le ho indicato la veduta dalla finestra, dicendole che quello era il punto più bello, al che lei ha sospirato: «No, questo non è bello, è interessante». Allora ho capito che non era venuta inutilmente dalla bella città di Bologna nell’interessante città di Char’kov, perché nella nostra città la bellezza non è un’evidenza, ma un compito. Ma noi spesso ci rifiutiamo di svolgerlo, riducendo il bello a ciò che è interessante. Invece bisognerebbe astenersi dal dissolvere il bello nell’interessante.

* Università Nazionale V.N. Karazin di Char’kov, Ucraina.

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Aleksandr Filonenko

Il problema non è tanto l’aspetto di Char’kov, quanto la falsificazione culturale, così descritta da Susan Sontag nella sua tesi sulla bellezza: La più potente ed efficace reazione alla bellezza è avvenuta nell’arte: la bellezza e l’attenzione alla bellezza sono state poste sotto veto ovvero, come si dice ora, sono state dichiarate elitarie. Sembrava che saremmo stati in grado di apprezzare degnamente un maggior numero di cose, se le avessimo descritte non come belle ma come “interessanti”.

Ma che cosa significa “interessante”? Anche questa categoria in qualità di criterio di valore ha subito una certa evoluzione estetica: se per i modernisti, che con Gertrude Stein ritengono che «chiamare bella un’opera d’arte equivalga a definirla morta», «chiamare qualcosa interessante significa lanciare una sfida alle vecchie modalità di lode», per i postmoderni l’“interessante” ha perso la sua essenza trasgressiva. Dell’audacia di prima è rimasto solo il disprezzo per le conseguenze di azioni e giudizi [...]. Si dice interessante qualcosa esattamente per rifuggire il giudizio sulla bellezza (o il bene). Ora il concetto di interessante è fondamentalmente consumistico e si usa per ampliare il mercato: quante più cose interessanti ci sono, tanto maggiore è la commercializzazione. [Sebbene la] bellezza abbia cessato di essere il metro della bellezza, questo è difficilmente un sintomo dello sparire del suo influsso. È piuttosto una testimonianza dello sparire della certezza nell’esistenza di ciò che può chiamarsi arte.

La bellezza è rimasta nelle discussioni estetiche del XX secolo, e ritorna nella cultura contemporanea insieme alla “realtà”, anch’essa smarrita nei progetti modernisti e nelle interpretazioni postmoderne, come criterio di ciò che è fuori dall’“umano, troppo umano”, ma reca in sé una sfida all’“umano”. Parlando di questo ritorno, la Sontag così chiarisce che cosa sia il “bello” nell’esperienza umana:



S. Sontag, An Argument About Beauty, in Id., At the Same Time. Essays and Speeches, New York . Trad. russa in «Neprikosnovennyj zapas. Debaty o politike i kul’ture», n. , , pp. -.  Ivi, p. .  Ivi, p. .

La bellezza e il ritorno della realtà: nuove possibilità di una teoestetica



Ciò che è bello ci ricorda la natura come tale, cioè quello che trascende l’umano, il creaturale, e in questo modo rafforza il senso di sconfinatezza e pienezza della realtà circostante, inanimata eppure pulsante.

È curioso che, pur descrivendo con tanta esattezza la restituzione del problema della bellezza nella cultura contemporanea, la Sontag cerchi polemicamente di eliminare l’ambito del religioso dalla sua disanima, senza accorgersi di quanto la sua descrizione sia feconda anche per la comprensione teologica, perché introduce nel cuore della teologia contemporanea della cultura il problema della bellezza. . La nuova situazione culturale in tre fatti . Alla fine del  il periodico russo «Rivista d’arte» ha tracciato un bilancio dell’arte russa contemporanea e della critica d’arte degli anni Novanta. In questa sede, Ekaterina Degot’ ha fatto osservare che nella bibliografia professionale sull’arte, laddove un tempo si scrivevano le parole «moda», «linguaggio», «testo», «interpretazione», ora si scrive «realtà», «rischio», «comunicazione», «immersione». Le discussioni su modernismo e postmoderno, grazie alla «vertigine costruttivista» da essi suscitata, si sono esaurite, e ad esse sono subentrate ricerche di una teoria sensibile a ciò che modernismo e postmoderno hanno sempre messo fra parentesi, e cioè alla realtà, che si contrappone alla volontà costruttivista dell’attivista utopico e disturba il narcisismo insito dell’interpretazione del turista ironico. Se l’assioma comune del modernismo e del postmoderno era la tesi della passività del reale, costretto entro i confini posti dal progetto modernista o protetto dallo sbarramento dell’ironia postmoderna, nel nuovo millennio al centro della cultura troviamo il problema della ferita inflitta della realtà attiva, che ci sfida, in un diapason che va dalla ferita della gioia alla ferita della sofferenza e della compassione.



Ivi, p. . E. Degot’, Dvaždy devjanostnye: katastrofa i gedonizm (Due volte gli anni Novanta: catastrofe ed edonismo), in «Chudožestvennyj žurnal», nn. -, , p. .  H.U. Gumbrecht, Production of Presence: What Meaning Cannot Convey, Stanford University Press, Stanford (CA) . 

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L’arte ha diagnosticato un movimento tettonico nella cultura, legato al ritorno della realtà, ma il nuovo vocabolario non comprende ancora la “bellezza” fra i concetti “realistici”. Ciò dipende dal fatto che la bellezza continua a venire annoverata fra le qualità soggettive e non rimanda alle caratteristiche della realtà. La frattura fra reale e umano continua, sebbene la bellezza debba tornare per risanare proprio questa frattura. Prosegue anche lo scandalo della cacciata della bellezza dalle attuali prassi conoscitive: come anche in passato, nella scienza, nella filosofia, nelle scienze umane e nella teologia si parla di simbolismo, immaginario e reale, di strutture, forme e contenuti, ma non di bellezza, relegata nel ghetto della storia dell’estetica. Oggi, esattamente come negli anni Sessanta-Settanta Hans Urs von Balthasar rispose allo scandalo del sottacimento della bellezza con la sua Teoestetica in sette volumi, il compito della teologia contemporanea è fare l’apologia della bellezza nel nuovo contesto del ritorno della realtà. Questa apologia presuppone che ci si muova sulle orme di Balthasar e di Averincev nel tentativo di sviluppare una teoestetica come “teologia prima”. . Un secondo fatto degno di nota, che conferma le osservazioni precedenti, è la recentissima comparsa negli Usa di due importanti studi dedicati alla teologia ortodossa sistematica, indipendenti e impostati in maniera completamente diversa, ma entrambi ideati come teoestetiche. Spicca la loro novità nel panorama della bibliografia esistente, in cui prevalgono opere di carattere neopatristico. Il primo libro, La bellezza dell’infinito. Estetica della verità cristiana, scritto da David Hart, è già tradotto in russo. Rappresenta una ricerca eseguita nel nell’ambito del movimento Radical Orthodoxy, che ne sviluppa le intuizioni nello spirito della teologia ortodossa. La seconda opera, Dio dopo la metafisica. Un’estetica teologica, è apparsa nel  ed è stata scritta da un teologo americano, il sacerdote ortodosso Ioann Panteleimon Manoussakis. Rappresenta un tentativo di riflettere sulla teoestetica in forma più unitaria, attraverso la sua lettura di Kant e Baumgartner, e di proporre una chiave di comprensione della cultura teologica contemporanea. 

H.U. von Balthasar, Gloria. Un’estetica teologica,  voll., Milano -. D. Hart, Krasota beskonecˇ nogo. Estetika christianskoj istiny, Mosca .  J.P. Manoussakis, God after Metaphysics. A Theological Aestetic, Indiana University Press, Bloomington & Indianapolis . 

La bellezza e il ritorno della realtà: nuove possibilità di una teoestetica

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. Il presente convegno dedicato alla bellezza si svolge tra le pareti dell’Università San Tichon, che celebra il ventennale di esistenza in ambito accademico russo. Questo anniversario denota un’esperienza ventennale di esistenza, di presenza della teologia nel mondo accademico postsovietico. Poiché l’Università San Tichon è la miglior espressione di tale presenza, proprio questo luogo è il più adatto per parlare di ciò che vogliono, possono e devono fare i teologi quando la teologia è solo agli inizi. In relazione a ciò, io vorrei porre il problema della missione, delle funzioni e dei linguaggi della teologia che sta ritornando nell’università postatea, e del posto centrale che vi occupa appunto la teoestetica. . Teoestetica come teologia prima .. Qual è il compito della teologia nella situazione di ritorno della realtà? La situazione culturale in cui ci troviamo oggi è una situazione che possiamo definire come ritorno della realtà. Nel XX secolo la realtà è stata tradita come minimo due volte. Una prima volta in favore delle utopie e della strutturazione modernista della realtà. Il discorso sulla bellezza in questo contesto era dedicato alla qualità del progetto e della volontà di progetto. Il tradimento della bellezza avveniva in nome della funzionalità della costruzione e la bellezza era ridotta alla capacità umana, non diceva niente della realtà e delle sue proprietà. La realtà era una cosa da superare, sopportare. Le parole di Nietzsche sul fatto che «ciò che non mi uccide, mi rafforza» descrivono nel modo migliore questa volontà utopistica, che non lasciava spazio all’azione della realtà. Un secondo tradimento della realtà è avvenuto nell’ambito del postmoderno, quando ci siamo tirati indietro dalla realtà oltre che, contemporaneamente, dall’ideologia. Questo processo si è realizzato attraverso l’ironia, come pratica del distanziarsi dalla realtà. La bellezza ha cessato di caratterizzare i nostri sforzi, il nostro attivismo, per identificarsi con l’interessante e venire incasellata all’interno degli spazi intertestuali. Negli anni Novanta non era ormai più evidente che la bellezza fosse diversa dall’interessante e conservasse una sfida generatrice di cultura. È degno di nota che a spezzare una lancia in favore della bellezza fosse proprio Susan Sontag, che fin dagli anni Sessanta si era schierata contro l’inter-

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pretazione dominante in arte, in difesa della realtà conculcata. Allora aveva riconosciuto: «Oggi per noi l’essenziale è arrivare al sentimento. Dobbiamo imparare a vedere di più, udire di più, sentire di più [...]. Il nostro compito è quello di rimettere il contenuto al suo posto, in modo da poter vedere le cose». Ma dovevano passare trent’anni perché l’attività interpretativa entrasse in un vicolo cieco e divenisse evidente che senza attenzione alle sfide lanciate dalla realtà noi possiamo trovare nelle cose e nei testi solo ciò che noi stessi ci abbiamo messo. In ognuna di queste situazioni, modernista e postmoderna, la teologia ha avuto compiti diversi. Quando la cultura costruiva e rifletteva su di sé attraverso l’utopia e l’ideologia, il compito della teologia era quello di difendere la Presenza dall’ideologia. Balthasar trovò la chiave di questa difesa attraverso il ritorno della bellezza in teologia come uno dei tre universali, liberandola dallo scandalo della riduzione soggettivistica. Inoltre, egli iniziò il proprio opus magnum, Gloria, con questa forte sfida: L’inizio non costituisce un problema unicamente per l’uomo pensante, il filosofo. Non è soltanto costui che ne rimane prigioniero e condizionato in tutti i suoi passi ulteriori. L’inizio costituisce anche per l’uomo che risponde, che si decide, una decisione originaria che racchiude in sé tutte quelle che verranno dopo. [...] La nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto.

Ma la situazione odierna, che alcuni studiosi chiamano sbrigativamente “postpostMo”, ritenendola la prosecuzione del postmoderno, è ormai assolutamente diversa. Il ritorno della realtà indica che l’ironia non salva da una realtà che spaventa, perché la stessa realtà, in primo luogo, sopraggiunge come una sfida, come qualcosa da cui bisogna difendersi, da cui bisogna salvarsi. La realtà si svela come una cosa che nel migliore dei casi ci è indifferente, e nel peggiore è pericolosa. L’“epoca” dei tranquilli e ironici “giochi delle perline di vetro” è finita con una spaventosa rapidità e il protagonista del film Matrix ci ha dato il benve-

 S. Sontag, Protiv interpretacii (Contro l’interpretazione), in Id., Mysl’ kak strast’ (Il pensiero come passione), Mosca , p. .  Balthasar, Gloria, cit., vol. , pp. -.

La bellezza e il ritorno della realtà: nuove possibilità di una teoestetica

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nuto nel “deserto della realtà”. Ci siamo trovati in una società che i sociologi, sulla scorta di Ulrich Beck, chiamano società del rischio, in cui il primo compito della cultura è la valutazione dei possibili rischi e la strategia di tutela da tali rischi. In questa situazione la cultura viene intesa come un sistema di filtri difensivi che ci preserva dalle sfide distruttive della realtà, e il linguaggio scopre la propria funzione difensiva, descritta in maniera eccellente da F.R. Ankersmit: Possediamo un linguaggio che per noi non è stato un’esperienza, per garantirci da pericoli e paure solitamente suscitati dall’esperienza; il linguaggio è uno scudo che ci preserva dal contatto diretto con il mondo che avviene nell’esperienza.

E allora il compito della teologia in questa cultura consiste nel difendere la realtà stessa dall’essere identificata con un pericolo e una freddezza disumana, consiste nello scoprire la realtà come appello. Se la realtà è attiva, il suo volto non è solo una sfida. In essa esiste anche un appello. E il problema della cultura contemporanea consiste nel fatto che, tentando di superare le nostre paure, noi ci difendiamo non solo dalle sfide, ma anche dalla possibilità di udire tale appello. Nella cultura che recepisce la realtà attraverso l’esperienza del sublime, che ci priva del dono della favella e ci introduce in un mondo traumatico attraverso l’avvenimento del dolore, della perdita, della morte, dell’orrore, della sofferenza e della tristezza, il primo compito della teologia diventa l’arte – di straordinaria attualità – di udire l’appello racchiuso nell’incontro con la realtà. La risposta a questo appello può diventare la rinascente cultura dell’ascolto, che recepisce la realtà attraverso l’esperienza del bello. Se per la cultura modernista la bellezza è una caratteristica secondaria funzionale dello sforzo costruttivistico utopico, se per il postmoderno essa è il parametro di ciò che riveste un interesse e un’attrattiva, nella nostra situazione culturale la bellezza è un appello. Interessante che l’etimologia greca della parola to kalón diventi più che mai attuale. Talvolta, metafore ormai desuete svelano improvvisa U. Beck, Obšcˇ estvo riska. Na puti k drugomu modernu (La società del rischio. Verso l’altro moderno), Mosca .  F.R. Ankersmit, Vozvyšennyj istoricˇ eskij opyt (Una sublime esperienza storica), Mosca , p. .

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mente la propria intuizione originaria e una nuova epoca rinverdisce un significato anacronistico. Dopo secoli in cui la bellezza si identificava con l’armonia, la simmetria e la proporzione, diventa più significativa l’etimologia di Platone, Plotino e Dionigi Areopagita, che rimanda to kalón alla parola kaléo, che significa ‘appello, attrattiva’. La bellezza come appello diventa la principale proposta teologica nell’odierno spazio delle scienze umane, incentrate sull’attualizzazione della cultura della presenza dopo quattrocento anni di dominio della cultura del significato. Gumbrecht, che descrive l’attività del reale come produzione della presenza, per descrivere la nuova cultura della sensibilità ricorre alla terminologia teologica come più adeguata, e parla di epifania come oggetto di un nuovo umanesimo e di eucarestia come luogo del nascere di una nuova cultura, dallo spirito di rendimento di grazie per il dono di una presenza. In questa situazione culturale il primo compito della teologia è quello di difendere la bellezza come attrattiva di una presenza che si produce, che cerca una comunione umana. Ora cercherò di esaminare le modalità di tale difesa. .. Perché è necessario pensare in maniera estetica? Prima di porre il problema di come riflettere sulla bellezza, è importante vedere che, nel modo in cui noi elaboriamo lo stesso pensiero, è sempre insita una dimensione estetica; “estetica”, naturalmente, non nei limiti della scienza di Baumgarten sul bello, ma nel senso kantiano dell’estetica come disciplina che esamina condizioni, modi e processi della percezione. Quando parliamo del pensiero come tale, non possiamo fermarci ai concetti e, trovandoci nella sfera del concettualmente inafferrabile, ricorriamo a metafore percettive, che non sono retoricamente superflue, ma riguardano piuttosto la classe di metafore che H. Blumenberg, nei Paradigmi della metaforologia, chiamava metafore assolute. Queste ultime si differenziano dalle metafore tradizionali, che agiscono prima della riflessione concettuale e sono «rudimenti sulla strada dal mito al logos», restando nella zona marginale dell’ornamen

Manoussakis, God after Metaphysics, cit., p. . Gumbrecht, Production of Presence, cit.  H. Blumenberg, Paradigmen zu einer Mataphorologie, in «Archiv fur Begriffsgeschichte», n. , , pp. -. 

La bellezza e il ritorno della realtà: nuove possibilità di una teoestetica

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tazione retorica di un pensiero concettualmente elaborato. Le metafore assolute, invece, hanno a che fare con fenomeni come pace, verità, vita o lo stesso pensiero, a cui non può corrispondere una contemplazione concreta, e per questo non possono essere espresse concettualmente – ma, d’altro canto, noi non possiamo non pensare ad esse. Anzi, noi pensiamo a partire da metafore assolute. Ad esempio, alla verità noi pensiamo come a una luce e come a un’orma, e questi due campi metaforici non possono essere ridotti a unità con uno sforzo di oggettivazione, sebbene questo non escluda particolari relazioni fra di essi. Quando noi cerchiamo di pensare il pensiero stesso, ci troviamo come minimo fra tre campi di metafore. In primo luogo, pensare significa guardare. Questo ce l’hanno insegnato i greci, per i quali il pensiero era innanzitutto visione mentale, teoria, contemplazione. Il pensiero è una visione. E questa è una metafora assoluta. Ma il pensiero può essere ascolto, e questa è una metafora assoluta ebraica. È curioso che proprio attraverso la relazione fra pensiero e ascolto, in Introduzione al cristianesimo il cardinal Ratzinger mettesse in luce la relazione fra pensiero e fede, partendo dall’apostolica «fede che viene dall’ascolto» (Rm ,). Scriveva: La fede nasce dall’ascolto; è sua peculiare caratteristica quella di provenire dall’aver udito, di essere ricezione di qualcosa che non ho pensato di mia iniziativa [...]. Qui si ha una priorità della parola preesistente sul pensiero, per cui non è il pensiero che si crea le sue parole, bensì la parola preesistente che indica la via al pensiero che la comprende.

E, infine, il pensiero può essere contatto. Se il sistema metaforico visuale e uditivo è stato elaborato, quello tattile richiede un’ulteriore elaborazione. Basti pensare ai modi di parlare del pensiero come di qualcosa che colpisce, qualcosa di penetrante, lancinante, toccante, che scuote, ferisce e così via. Non abbiamo nessun altro modo per parlare del pensiero, all’infuori delle metafore assolute visuali, uditive e tattili. Noi parliamo della mente come di una visione, oppure come di un ascolto, oppure come di un contatto. E se il pensiero è il nostro incontro con la realtà, allora, quando pensiamo la bellezza e la sua percezione, è importante che noi pensiamo restando fra queste metafore. Il fatto che 

J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia , pp. -.

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siano tre, apre il problema della salvezza del pensiero dalla divisione in campi mentali non comunicanti. Per questo il discorso sulla salvezza come riunione racchiude in sé anche la salvezza della ragione come riunione di questi tre campi. Che cosa dunque li riunisce? L’occhio, l’orecchio e la mano come metafore del pensiero possono unirsi nei più diversi percorsi, che richiedono speciali indagini, ma preventivamente è necessario sottolineare che il problema stesso di tale unione è il problema teologico fondamentale e si trova alla base della teoestetica. .. Come pensare la bellezza nella situazione del ritorno della realtà? Quando noi pensiamo alla bellezza restiamo in uno dei campi metaforici oppure alla loro congiunzione. E bisogna osservare in che modo il tema della bellezza si sveli nell’uno o nell’altro modo di pensare. Se noi parliamo del pensiero come contemplazione, la meditazione sulla bellezza come appello rimanda ai temi dell’iconicità, del volto e dello sguardo. Il tema dello sguardo nell’estetica visuale è un tema di grande attualità, che necessita di uno svolgimento teologico. L’attuale riscoperta del problema dello sguardo nella critica d’arte avviene dopo un secolo di dibattiti sull’arte figurativa e non figurativa, grazie all’impulso che giunge dalla fenomenologia dell’immagine, sia quella neutrale rispetto alla teologia (lo «sguardo dal quadro» nella fenomenologia sensibile di Bernhard Waldenfels), sia quella orientata teologicamente (la teologia del dono e la fenomenologia del dato di Jean-Luc Marion). Per una breve presentazione del tema è necessario osservare che per riflettere sulla bellezza come appello non basta l’opposizione fenomenologicamente sviluppata tra icona e idolo, come due modi di visualizzare la realtà. Se l’idolo subordina il reale agli schemi aprioristici intenzionali della coscienza costruttiva, e l’icona si lega al superamento dell’idolatria metafisica e svela il reale come un dono sovrabbondante, «nel quale ininterrottamente, consentendogli di esistere, si compie una donazione che

 B. Waldenfels, Sinnesschwellen: Studien zur Phänomenologie des Fremden , Frankfurt am Main .  J.-L. Marion, L’idolo e la distanza, Milano ; Id., Dio senza l’essere, Milano ; Id., Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, Torino .

La bellezza e il ritorno della realtà: nuove possibilità di una teoestetica

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affonda le sue radici nell’Essere», la bellezza genera la domanda della risposta all’appello di questa realtà, ovvero dello sguardo. Lo sguardo è l’elemento tattile nel visuale, che tocca me e Colui che mi guarda. Non il mio sguardo, ma uno sguardo che guarda me e chiede una risposta, produce la mia nuova soggettività, un soggetto personale. Se noi pensiamo la bellezza dall’interno del metaforismo uditivo del pensiero come ascolto, la teologia della bellezza introduce nelle teorie comunicative e linguistiche, costruite sull’opposizione di linguaggio e favella, l’attenzione a un terzo aspetto del fenomeno linguistico, e cioè alla voce, che assicura la presenza dell’elemento tattile nell’ascolto. E, infine, anche se noi pensiamo alla bellezza nell’ambito del metaforismo tattile, compare la triade così ben evidenziata da Manoussakis. Questi sviluppa il nascere di una soggettività all’interno del metaforismo tattile attraverso la presa, il contatto (carezza) e il bacio. Derivando questo vocabolario da Aristotele, che avvicina pensiero e presa, spirito e mano, e delinea la differenza fondamentale fra natura (non opera di mano umana) e ciò che è opera della mano umana, Manoussakis, a sua volta, mostra che il pensiero come presa, legato al possesso di un’Estraneità che incute paura, svelando la presenza di un Altro che sfugge al nostro possesso, ricorre al contatto nel tentativo di instaurare un contatto con l’Altro. Attraverso il contatto noi scopriamo l’alterità dell’Altro. Lévinas definisce carezza questo contatto, mentre a questo proposito Manoussakis scrive: «Nella carezza l’Altro non è più Oggetto della mia presa, ma Soggetto inviolato del mio contatto». La carezza, scoprendo l’Altro, svela anche la sua inaccessibilità in un’alterità senza fine. E solo l’Altro che mi viene incontro, come dono sovrabbondante, chiude il chiasmo nel bacio con la sua simbolica integrità e risanamento. Per questo, secondo Manoussakis, in teologia pensare la Rivelazione o l’epifania è possibile attraverso il metaforismo del bacio. Ma vi sono anche altre possibilità metaforiche, che conducono a una più profonda comprensione del pensiero cristiano. Ad esempio, tale possibilità, dopo il pensiero come presa e come contatto, può essere la metafora del pensiero come ferita, del pensiero come risposta a ciò che ferisce e colpisce, del 

Id., L’idolo e la distanza, cit. Manoussakis, God after Metaphysics, cit., pp. -.  E. Lévinas, Totalità e infinito, Milano .  Manoussakis, God after Metaphysics, cit., p. . 

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pensiero come vulnerabilità. E il tema della bellezza entra nel campo del metaforismo tattile attraverso una serie di metafore. Dunque, il teologo, riflettendo sulla bellezza, entrando nel territorio delineato dalle scienze umanistiche contemporanee, non si limita ad arrivare nello spazio problematico creatosi, ma vi introduce i suoi temi. Il teologo arriva dallo studioso d’arte con il tema dello sguardo, dal linguista con i temi della voce, del linguaggio dell’inno e di un particolare atto del discorso legato ad esso, la lode. E, infine, giungendo all’analisi del mondo creato delle cose e dello spazio comunicativo, il teologo introduce il discorso sulla ferita. Così si chiarisce il posto del teologo nelle scienze umane contemporanee, in cui egli entra come difensore della bellezza. Di più, nello spazio accademico per lui c’è già un interrogativo che non si può rivolgere né allo studioso d’arte né al teologo né al teorico dei media. È il problema dell’unità comunicativa delle sfere sempre più separate del sapere accademico, di quale possa essere il loro principio unificante. Questo problema, come abbiamo cercato di mostrare, è legato al problema della congiunzione di campi metaforici creati dalle metafore assolute. Per limitarci ad accennare a una risposta, voglio ricordare sant’Agostino che nelle Confessioni indica questo cammino rivolgendosi alla Bellezza Divina: Tardi ti amai, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti amai! [...] Tu eri con me, e io non ero con te. Mi tenevano lontano da te le creature che, pure, se non esistessero in te, non esisterebbero per niente. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore fugò la mia cecità. Diffondesti la tua fragranza, io l’ho respirata e ora anelo a te. Ti ho gustato e ora ho fame e sete di te. Mi hai toccato e ardo del desiderio della tua pace.

Non la contemplazione teorica o l’interpretazione determinano l’orizzonte della conoscenza, ma il tocco della Bellezza, la sua Presenza che ferisce, riunisce, cioè salva il suo immenso spazio frammentato attraverso il cortocircuito infuocato della metafora tattile cristiana. Con questa proposta, attraverso la teoestetica, la teologia entra in dialogo con la cultura contemporanea, che ha paura delle sfide del ritorno della realtà e, nel contempo, non ne distoglie gli occhi e impara nuovamente a udirne l’appello. 

Agostino, Confessioni, X, ..

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Nuove forme di bellezza nell’opera di Valentin Sil’vestrov «La musica è la forma che più di tutte ci rende vicini allo spirito, è la barriera più sottile che ci divide da esso. Essa però condivide la tragica sorte di tutta l’arte: è costretta a restare un’aspirazione appassionata e per questo ad essere transitoria. E proprio perché si trova più vicina di tutte allo spirito, senza avere la possibilità di afferrarlo pienamente, questa passione si manifesta in essa più forte di tutto». Hans Urs von Balthasar

Riflessioni sulle nuove forme di bellezza e il crollo della «bellissima utopia» comunista ricorrono continuamente nei tre libri di dialoghi con il grande compositore contemporaneo Valentin Sil’vestrov. Ol’ga Sedakova così sottolinea l’originalità della creatività intellettuale e musicale di Sil’vestrov: «Sil’vestrov è un artista sorprendentemente indipendente della nostra epoca. Non prende in considerazione ciò che viene chiamato “nostro tempo” o “contemporaneità” e di cui, chissà perché, tutti sanno tutto. Ad esempio, che ormai non può più esistere l’armonia. Come pure la bellezza...». Il compositore Arvo Pärt colpisce per la serietà della testimonianza da lui offerta a un critico musicale americano: «Se mi chiedessero di fare il nome di un compositore contemporaneo, il primo che pronuncerei è quello di Sil’vestrov. Valentin è senza alcun dubbio il compositore * Direttore del Centro di Ricerche Umanistiche Europee e dell’Associazione per le pubblicazioni scientifiche “Duch i litera”.  H.U. von Balthasar, Lo sviluppo dell’idea musicale, Milano .  V. Sil’vestrov, «Muzyka – eto penie mira o samom sebe...». Sokrovennye razgovory i vzgljady so storony: Besedy, stat’i, pis’ma («La musica è il canto del mondo su di sé...». Discorsi intimi e sguardi dall’esterno: Conversazioni, articoli, lettere), a cura di M. Nestieva, Kiev ; V. Sil’vestrov, Doždat’sja muzyki. Lekcii-besedy (In attesa della musica. Lezioni-conversazioni), Duch i litera, Kiev ; ΣΥΜΠΟΣΙΟΝ. Vstrecˇ i s Valentinom Sil’vestrovym (Simposium. Incontri con Valentin Sil’vestrov), a cura di A. Vajsband e K. Sigov, Duch i litera, Kiev .  ΣΥΜΠΟΣΙΟΝ. Vstrecˇ i s Valentinom Sil’vestrovym, cit., p. .

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più interessante di oggi, anche se la maggioranza riuscirà a capirlo solo molto più tardi...». Il successo londinese della recente prima delle nuove opere di Sil’vestrov trova eco nella lettera di David Harrington, direttore del quartetto americano Kronos, al compositore: Lei è una persona straordinaria! A me sembra che la sua poesia musicale interiore risuoni in lei incessantemente, giorno e notte. Il virtuosismo con cui ha lavorato con il quartetto Kronos a Londra è diventato per ciascuno di noi un nuovo metro per comprendere che cosa significhi essere musicisti. Per me un posto particolare nel nostro lavoro occupa il suo Quartetto per archi nr. . Grazie al suo sicuro orientamento musicale, lei ci ha indicato nuove prospettive di sviluppo. Da quando abbiamo lavorato insieme, io sono diventato più esigente nei confronti di ogni nota che suono. Mi accorgo che il lessico musicale di Kronos si è notevolmente arricchito grazie alla sua musica. Grazie per averci aiutato ad ampliare le corde più profonde della nostra esecuzione (aprile , San Francisco).

Gli innumerevoli interpreti e ascoltatori della musica di Sil’vestrov oggi raramente ricordano il contesto storico dell’Urss, dove il musicista era tacciato di “formalismo”, dove gli vietavano di eseguire le sue sinfonie e l’avevano addirittura espulso dall’Unione dei compositori. Le colonne sonore dei film restavano una rara possibilità di impiego per il «genio disoccupato», e presto torneremo su questo tema, a proposito dell’interessantissima lettera di Teodor Adorno sulla musica giovanile di Sil’vestrov. Qui mi limito a ricordare la via crucis che l’ha portato dalla clandestinità in cui viveva a Kiev, fino alle attuali esecuzioni e prime «a Berlino, Monaco, Bonn, Amburgo, Londra, Ferrara, Basilea, nel monastero benedettino di Pannonhalma in Ungheria, a Poznan. 

Sil’vestrov, «Muzyka – eto penie mira o samom sebe…», cit., p. . ΣΥΜΠΟΣΙΟΝ. Vstrecˇ i s Valentinom Sil’vestrovym, cit., p. . L’originale è molto espressivo: «What a rare person you are! I have the feeling that your inner musical poetry sings to you day and night without ever tiring. The masterful way that you worked with Kronos in London gave each of us a new yardstick by which to measure what it means to be a musician. For me, your String Quartet # has a special place in our work. Because of your unwavering musical compass, you have given us new vistas to explore. I now find myself demanding more from each note that I get to play since our days together. I can feel that the vocabulary of Kronos has grown because of your music. Thank you for expanding the innermost qualities of our notes». 

Nuove forme di bellezza nell’opera di Valentin Sil’vestrov

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Nelle ultime tre località, in qualità di composer in residence, Sil’vestrov è stato la figura principale di interi festival». Aumenta il numero delle sue incisioni nelle più importanti case discografiche occidentali come Sony Classical, ECM New Series Records (quest’ultima ha già editato decine di dischi di musiche di Sil’vestrov). Oggi può sembrare che l’indubbio riconoscimento mondiale della musica di Sil’vestrov abbia “cancellato” il passato conflitto fra il compositore e il suo tempo. Ma rileggiamo la lettera scritta il  maggio  da Teodor Adorno: «La mia impressione su Sil’vestrov è che sia una persona realmente molto dotata. Non posso condividere l’obiezione di alcuni puristi, secondo cui la sua musica sarebbe troppo espressiva...». Successivamente Adorno passa alle dispute sorte intorno a Sil’vestrov: A Brema ho sentito dire che sembra trovarsi in una situazione molto difficile. Che, semplicemente perché “scrive dissonanze”, è privo di mezzi di sussistenza. Sono cose terribili, anche se non si accompagnassero a violenze dirette. E questo coincide con le impressioni comunicatemi dall’amico Razumovskij al ritorno da Mosca. Ma che cosa si può fare? Perfino pubblicare le opere di questi compositori russi, che in patria vengono perseguitati dai segretari d’alto rango, può in determinate circostanze metterli in pericolo. Ma se lei pensa che al signor Sil’vestrov faccia piacere sapere che lo considero un compositore di indubbio talento, naturalmente le concedo ampia libertà di comunicarglielo. Con auguri e amicizia. Il suo devoto T.V. Adorno.

Già allora le opere di Sil’vestrov erano entrate in merito al dibattito sulla crisi dell’arte “dopo Auschwitz”. Non si limitavano a rifiutare le affrettate diagnosi sulla “morte dell’arte”, ma a un livello più profondo superavano la tendenza generale ad aver paura della forma e della figura, quell’«iconoclastia contemporanea» di cui oggi parla Adriano Dell’Asta. L’opporsi a questa tendenza acquista nuove forme di riorganizzazione del tempo nella musica di Sil’vestrov.

 T. Frumkis, «Duch riskovannoj svobody» («Il dono di una libertà arrischiata»), ivi, p. . Cfr. anche: F.K. Prieberg, Musik in der Sowjetunion Verlag Wissenschaft und Politik, Colonia , pp. , , .  Ivi, p. .  Ivi, pp. -.  A. Dell’Asta, V bor’be za real’nost’ (In lotta per la realtà), Duch i litera, Kiev .

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Il particolare tempo di Sil’vestrov, mai posseduto da nessun altro, è il tempo del postludio. Vale a dire, un tempo metaforico. Esiste, ma parla del fatto che ormai non esiste più, che giunge da dove esisteva in passato, e giunge diverso: pieno non di attesa del momento successivo, “come nella vita”, ma di gratitudine. Un tempo che in qualche modo ha inghiottito la propria fine. Postludio ed elegia, un altro genere di lavoro sul passato, anch’esso una sorta di “risposta”. Sono questi i due generi più intimamente propri di Sil’vestrov.

Essi pongono in questione la diffidenza “iconoclasta” rispetto alla figuratività personalista, sia in melodia che nella parola. Due tipi di alienazione dalla musica autentica dominano oggi: . la si ignora in lungo e in largo; . se ne venerano formalmente le facciate filarmoniche. La libertà senza pari delle melodie di Sil’vestrov ci guida al superamento di entrambe le tendenze. Il loro principio liberante illumina da angolature inattese nuove forme di unione fra musica e parola: dalla poesia contemporanea attraverso i classici esse risalgono a inni liturgici e salmi. La nuova musica “scongela” testi irrigiditi e congelati, notori e dimenticati non nonostante, ma proprio in forza del loro essere notori e logori. Il significato dell’attualizzazione che Sil’vestrov opera su testi “sigillati” va ben al di là dell’ambiente puramente musicale. Infatti, le due linee di tendenza di alienazione indicate – lo spregio e la finta considerazione – non bloccano solo la percezione della musica, della parola, ma anche di ogni tradizione viva in quanto tale. Un esempio tipico del movimento di Valentin Sil’vestrov controcorrente rispetto ai nostri stereotipi è il suo nuovo modo di intendere le “perle della lirica”, incastonate nella rigida forma delle romanze. A prima vista salta la configurazione abituale: versi del classico X + musica del classico Y. La nuova musica mostra all’improvviso la possibilità di una nuova nascita del verso, come se non fosse nato nel XIX secolo (a.C. oppure d.C.), ma scritto oggi. È nostro contemporaneo, e noi siamo contemporanei suoi. Olga Sedakova, Vzglijad slucha, in ΣΥΜΠΟΣΙΟΝ. Vstrecˇ i s Valentinom Sil’vestrovym, cit., p. . 

Nuove forme di bellezza nell’opera di Valentin Sil’vestrov

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Sil’vestrov ci offre molto di più che una lettura musicale fresca di un “testo segnico”. Per usare i termini di Paul Ricoeur, al posto della precedente «configurazione» del classico, ci spalanca l’orizzonte di una sua creativa «refigurazione». Le silent songs di Sil’vestrov non cessano di stupire. Perché, invece del “best seller musicale del XIX secolo” non ci offre un suo “best seller più attuale”? Direi che il suo dono è più ricco e il suo compito più complesso. Non si accontenta di allettarci dandoci la propria chiave per operare una “ri-privatizzazione” dell’immobile simbolico. La melodia di Sil’vestrov non “cattura” l’orecchio, ma lo aiuta a diventare più attento, aperto, ad ascoltare realmente. Non ci viene da fischiettarla, come faremmo con l’aria di un’opera, ma echeggia dentro di noi, mutando la percezione che abbiamo di noi stessi e del mondo. In essa è racchiusa la memoria del silenzio da cui anche oggi risuona la viva voce che svelò ad Agostino il mondo della parola biblica e il mondo intero, con il semplice appello: «Tolle! Lege!», cioè «Prendi e leggi!». La voce kenotica di Sil’vestrov, che va a morire nello iato delle sospensioni, vibra di una nuova vita della parola, irrealizzabile senza la radice del silenzio. La struttura dell’inudibile filtra attraverso le sue intonazioni: con discrezione, senza la minima pressione arbitraria, egli articola non suoni, ma un trasparente tessuto di silenzio (su cui tutto si regge). E la forma più umana di silenzio, la sua esistenzialità: l’attesa. Il tessuto dell’attesa ripulisce dalla polvere e dai rifiuti la soglia della percezione del futuro. E noi abbiamo la possibilità di «restare in attesa della musica», insieme a lui. Non sono dunque scomparsi i suoi semi e non è stata cancellata dagli elenchi di opere musicali la musica a cui sono applicabili le due serie incrociate di affermazioni e negazioni riferite alla carità: «Non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira [...]. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» ( Cor , -). L’impetuoso elenco dei suoi connotati è avvolto da un orizzonte di silenzio, che «non avrà mai fine». Il suo appello non si volge solo ai corinti o ai kieviani, ma a me e te, qui ed ora. Si scolorisce il trattino che separa fra i mortali i verbi “distribuire” e “raccogliere”, “donare” e “conservare”. Si palesa il misterioso silenzio  

Riferimento al suo libro con questo titolo (cfr. nota ) [N.d.T.]. L’autore del saggio vive a Kiev [N.d.T.].

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(che non udiamo a motivo delle nostre remore interiori), diviene quasi percettibile al tocco della tastiera intenta al suo vibrare. Allo stesso modo, con pochi tratti di pennello sulla tela intatta l’artista abbozza un giardino. Poche gocce di suoni sulla ragnatela delle pause avvicinano il silenzio, tanto che sembra – stendendo la mano – di poterlo toccare. Non è svanita (non si è trasformata in musica pop, non si è stravolta per poter piacere) la musica, carica della sua prima e fondamentale vocazione, di essere cioè un tabernacolo del silenzio. E noi siamo testimoni del fatto che in mezzo a noi vive il Dono vivente che esso custodisce. Nell’articolo Difensore della bellezza, la nota musicologa Marina Nest’eva sviluppa l’idea dell’universalità di stile di Sil’vestrov: Che cos’è lo stile caratteristico oggi di Sil’vestrov, e che a ragione possiamo chiamare universale? Lascio la parola al compositore stesso: «Un mio amico, il compositore S. Krutikov, ha voluto scherzare. È vero – ha detto – non ci si può mai bagnare nella stessa acqua di un fiume. Ma forse in mare sarebbe possibile? Lo diceva in merito alla situazione della vita pratica. Ma forse quest’espressione vale anche per la situazione culturale, se paragoniamo il mare alla cultura mondiale. In essa, la cultura mondiale, si può ripetutamente entrare e uscire [...]. Bisogna porre il problema “simile-dissimile” a un altro livello. E in generale abituarsi a non prestare attenzione a tutte le associazioni che vengono in mente [...] nel linguaggio tutte le parole diventano di dominio pubblico, indipendentemente da chi le abbia usate per primo. Ed è importante solo come tu le abbia menzionate, come le abbia associate, in quale contesto le abbia inserite».

Gli “attimi” musicali di Sil’vestrov attualizzano il concetto verbale di Mandel’štam: «affinché echeggino i passi come atti». Alla plastica di Sil’vestrov è consonante il rifrangersi di questo pensiero in Ol’ga Sedakova: «Un atto è un passo in verticale». La musica autentica si muove appunto secondo questi (a volte inudibili) passi. La distanza rispetto alle opere monumentali del secolo scorso lascia



Cfr. l’interessante studio di Alla Vajsband: Valentin Sil’vestrov: la musicologia come incontro, Atti del convegno «Un incontro che continua. Vita e pensiero tra Oriente e Occidente», in «La Nuova Europa», n. , , pp. -.  ΣΥΜΠΟΣΙΟΝ. Vstrecˇ i s Valentinom Sil’vestrovym, cit., pp. -.  Dalla poesia Rim (Roma),  marzo  [N.d.T.].

Nuove forme di bellezza nell’opera di Valentin Sil’vestrov

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aperto il problema della grande forma. I dubbi legati a questo problema sono comprensibili e giustificati. Ma la frammentazione eretta a sistema non è una risposta al problema reale, bensì il rovescio di un “sistema” venuto a noia. La «minaccia del sinfonismo» è una sfida a tutta l’arte contemporanea, non solo musicale ma anche letteraria e visiva. Sil’vestrov ha accettato questa sfida e la sua risposta è la sua nuova ottava «sinfonia senza sinfonismo». Il dialogo su di essa ha dato il nome al suo nuovo libro Symposion (Convito) e ha legato in un unico nodo i suoi temi principali. Qui l’Autore invita gli ospiti a una «tavola sinfonica». I suoi contorni e contesto non nascondono la propria paradossalità: fulmini, scale e... regali musicali. Da dove arriva questa unione di cose fra le rovine della disunione postsovietica? Valentin Sil’vestrov nasce nel : come sull’esperienza dei decenni storpiati osa nuovamente risuonare la novità recata da Mandel’štam e da lunga pezza scacciata? Nostro tormento e nostra ricchezza, Balbuziente, si portò con sé – Il rombo del verso e lo squillo della fraternità E l’armonioso fluire delle lacrime....

Valentin Sil’vestrov nasce a Kiev, nella città dove all’ordine del giorno degli operai c’era la demolizione della cattedrale di Santa Sofia (XI secolo), a seguire quella già effettuata della cattedrale di San Michele (XII secolo). Il giorno della sua nascita è il  settembre, memoria di Fede, Speranza, Carità e della loro madre Sofia. La Sapienza-Artista, il cui operato accompagna il «passaggio dal non essere all’essere», è il leitmotiv della sua creatività, e il tema che lo unisce ai filosofi contemporanei: Sergej Averincev (nato nel ) e Sergej Krymskij (nato nel ). Di loro si parla ripetutamente nel suo libro. E non sono solo segni della memoria. L’intrecciarsi delle voci dei vivi e dei morti giunge a noi da altezze che l’uomo può ottundere, ma non distruggere. ΣΥΜΠΟΣΙΟΝ. Vstrecˇ i s Valentinom Sil’vestrovym, cit., pp. -. O. Mandel’štam, Batjuškov,  giugno  [N.d.T.].  Sul contesto di questo tema, cfr. K. Sigov, La missione della scuola teologica in padre Aleksandr Glagolev, in «La Nuova Europa», n. , .  

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Konstantin Sigov

La musica di Sil’vestrov canta, senza imposizioni ma anche insopprimibilmente, la possibilità di un altro eone, di una nuova «epoca di gratitudine» (G. Ajgi). Udita, condivisa, vissuta insieme la musica diventa parte cruciale di noi stessi e forma della reale partecipazione alla vita dell’altro. È pane e vino, offerti dal medesimo calice. Senza contrapposizione fra agapi fraterne e mense funebri rituali echeggiano le dediche delle sue musiche a presenti e trapassati, innalzandosi fin là, dove la «carità non avrà mai fine». Nel contempo, il compositore non sminuisce, ma sottolinea i contrasti e osserva, sulle orme di Ol’ga Sedakova, che versi e musica «consistono di continui inizi e continue fini». Le nuove opere sinfoniche e liturgiche di Sil’vestrov ci donano un’epifania, evocano nella realtà stessa della nostra vita l’attualità del pensiero di Balthasar sulla musica, «forma che più di tutte ci rende vicini allo spirito» (la frase che ho posto in epigrafe). Consentitemi, per concludere, di esprimere la mia solidarietà alla testimonianza del grande violoncellista di Basilea Ivan Monighetti: Sil’vestrov ha cambiato il mio modo di guardare la musica: sia nei classici come negli autori contemporanei ora vedo diversamente molte cose, direi quasi attraverso la sua arte, i suoi occhi. Il “contrassegno di Sil’vestrov” è il suo gusto esigente, la straordinaria intuizione, la particolare capacità di percepire acutamente la soglia musicale dei grandi artisti, dietro cui si spalanca il Regno dello Spirito.

 ΣΥΜΠΟΣΙΟΝ. Vstrecˇ i s Valentinom Sil’vestrovym, cit., p. . Sul sito di «Duch i litera», http://duh-i-litera.com/, si trovano numerosi testi di entrambi i libri di Sil’vestrov, come pure l’indice del Dvd (in inglese e tedesco), contenente la raccolta più completa esistente delle sue opere musicali e un film sul compositore.

Stefan Vanejan*

Spazio e liturgia. Aspetti dell’ambiente sacro

Per iniziare, cerchiamo di trovare una definizione, ad esempio: il tempio cristiano, l’edificio ecclesiale è una costruzione che contrassegna e determina il luogo e quindi lo spazio destinati alla preghiera della Chiesa (comunità ecclesiale), all’assemblea dei fedeli, al sacro ministero, in primo luogo alla santa Eucarestia. In verità, ogni tempio, ogni edificio sacro è il luogo dell’incontro e della comunione con la Divinità. E anche il tempio cristiano dev’essere, a prima vista, considerato come luogo dedicato a Dio cioè come spazio sacro, come ambiente separato dal mondo circostante che è in potere del maligno ( Gv , ), ma salvato dal Figlio di Dio. Al sacro è contrapposto il profano (pro fanum, ciò che è innanzi al tempio, témenos), anche se il profano è chiamato alla consacrazione e capace della stessa. Il luogo sacro deve e può essere multiforme, contrassegnato e determinato in diversi modi (Giacobbe: Gn , -; Mosè: Es , -). L’essenziale è la sua diversità da ciò che non è sacro (Lv ,). Questa è la visione veterotestamentaria (prassi della separazione del puro e impuro e della delimitazione da contrassegnare, sottolineare e vivere: cfr. Ez , ). Già è così il Giardino dell’Eden, che è delimitato e può essere serrato per diventare inaccessibile al peccato (Gn , , ). Così è l’arca di Noè (Gn  e sgg.). Così è la Tenda dell’Alleanza, luogo della Dimora della Gloria del Signore (Es , -). Infine, così è il Tempio di Gerusalemme («il tempio al Mio nome» solo come segno della presenza di Jahvè e non condizione della stessa:  Cr , -). Ma la Buona Novella annuncia che non ci dovrebbe essere un posto separato ed unico, cioè indiscutibilmente vero dove indiscutibilmente e

* Università Ortodossa Umanistica San Tichon, Mosca; Università Statale di Mosca.

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in verità si potrebbe adorare il Dio unico e vero. Proprio per questo i fedeli adoreranno il Padre non in un determinato luogo ma «in Spirito e verità». La conversazione del Signore con la samaritana e le Sue parole sull’“ora che verrà” aiutano a capire il significato del tempio come un determinato edificio eretto in un determinato posto: «Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano» (Gv , -). Alla fine, ogni tempio terreno è solo l’immagine di quella «tenda santa preparata fin da principio» (Sap , ). Altrimenti detto, nel contesto «l’ora» è il diretto riferimento all’éschaton, alla fine dei tempi, quando tutto sarà compiuto e acquisirà il carattere perfetto, cioè finale e iniziale rinnovato, comprese le nostre forme di comunione con Dio e modi di adorazione di Dio liberi dai condizionamenti del culto e dal simbolismo del cerimoniale. Ma già i profeti sapevano che Jahvè poteva abbandonare il luogo dove aveva posto il Suo nome, a causa dell’empietà di Israele (Ger , -) e la Gloria del Signore poteva abbandonare il Tempio profanato (Ez , , ). C’è di più: l’episodio in cui il Signore purifica il Tempio di Gerusalemme (Mt , -) è completato dalla profezia sul destino del Tempio di cui non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta (Mt ,  e , ). La cacciata dei mercanti dal Tempio non è solo lo zelo per «la casa del Padre mio» (Gv , ), ma anche una profezia sulla distruzione del Tempio o perfino una distruzione simbolica accompagnata dalla storia del fico senza frutti (Mc , -). Ma la cosa più importante è che nel Vangelo di san Giovanni lo stesso episodio (Gv , ) prosegue con le parole sul «tempio del suo corpo» distrutto e riedificato in tre giorni (Gv , -): questa è la distruzione e l’edificazione nell’éschaton del Regno di Dio, nella vita eterna, nella Gerusalemme celeste dove l’Altare è lo stesso Agnello sacrificato prima dell’inizio del mondo (Ap , ). E questo Tempio, cioè il Corpo di Cristo, è presente sinora nell’Eucarestia. Perciò Dio Padre non è adorato in templi eretti da mano d’uomo (At , -; Es , ) poiché Cristo, «sommo sacerdote dei beni futuri», è venuto «attraverso una tenda più grande e più perfetta» (Eb , ), e «nel cielo stesso» (Eb , ). Così ogni cristiano è chiamato a seguire Cristo

Spazio e liturgia. Aspetti dell’ambiente sacro

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e a uscire dall’accampamento della Gerusalemme terrena non avendo «quaggiù una città stabile ma andando in cerca di quella futura» (Eb , ). La santa Chiesa come comunione dei fedeli santificati da Dio stesso: ecco che cosa è il vero Tempio di Dio edificato su Cristo, fondamento e pietra miliare ( Cor , -;  Cor , ; Ef , -). Di più, gli stessi fedeli sono le «pietre vive costruite come edificio spirituale» ( Pt , ). Ogni cristiano è tempio di Dio ( Cor ,  e , ) e il suo corpo è tempio dello Spirito Santo ( Cor , ). La vera Chiesa può disporre di qualsiasi luogo per la preghiera e la comunione – in risposta al dono di Dio, alla grazia dello Spirito Santo che il Padre dona attraverso il Figlio. Nel Figlio unigenito e Verbo fattosi carne la carne si manifesta come l’aspetto centrale dello spazio del tempio, il quale si presenta come mezzo di comunicazione (comunione) e di integrazione di tutte le parti, come condizione dell’unità (unione e alleanza). Così, la divisione in sacro e profano, pagana e veterotestamentaria, viene abolita nel Nuovo Testamento, e l’edificio ecclesiale non è più chiamato a separare l’uno dall’altro in modo che l’“empio”, “maledetto”, maligno, mondano non possa penetrare nel sacro, ma viceversa a evidenziare in mezzo al tempo quotidiano, feriale, l’ora della festa, dedicata solo a Dio; a sottrarre al corso del tempo naturale le ore e i tempi dedicati all’eterno, al compimento dei tempi nell’éschaton del Regno. Pertanto, sia dal punto di vista liturgico sia da quello della tipologia architettonica, la fonte del tempio cristiano come luogo di comunione con Dio non è tanto il Tempio veterotestamentario quanto la sinagoga giudaica (veterotestamentaria), luogo dell’assemblea dei fedeli e della Parola di Dio presente nella proclamazione (Liturgia della Parola) e nell’Offerta Eucaristica. Tuttavia non si dovrebbe dimenticare la struttura, l’ordine e l’allestimento del Tempio di Gerusalemme con la sua sagoma allungata, con il sistema longitudinale dei cortili e dei locali interni che prevede sia un moto progressivo del ministero che una certa accessibilità (e, al contrario, interdizione di accesso). Pertanto l’altare cristiano è in parte richiamo del santuario veterotestamentario (sia del Sanctum che del Sancta Sanctorum), con gli altari e le tavole per i pani dell’offerta ecc., anche se tali analogie sono più che altro tipologiche, e in senso più architetto-

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nico che soteriologico (le modalità di costruzione dell’edificio ecclesiale ma non le modalità dell’economia della salvezza del genere umano). Quindi, l’edificio è reso sacro ed ecclesiale non dal luogo e nemmeno dalla destinazione (funzione), ma dalla sua offerta a Dio attraverso la consacrazione. È importante che dall’opera umana (l’arte della costruzione, l’arte di produrre immagini pittoriche e scultoree, le arti applicate ecc.) nasce la res sacra come frutto di consustanziazione, trasfigurazione di ciò che è materiale, fisico, umano e terreno, come dono di risposta della Chiesa a Dio, come immagine dell’operare comune. Ma il tempio cristiano è anche il mezzo e la condizione della consacrazione, per dare ordine, significato, bellezza, armonia, equilibrio, stabilità, struttura e gerarchia al mondo circostante e anche al mondo interiore come spazio dell’anima umana nell’insieme dei pensieri, desideri e sentimenti, con la sua capacità di valutare, vivere, risvegliare il ricordo, dedicarsi all’ordine e alla quiete, provare gioia e gratitudine nella contemplazione di ciò che è bello e saggio, anelando al bene e confermandolo con la vita quotidiana, con l’atteggiamento, con l’intero habitus realizzato in tanti modi, e anche con tutte le forme di rapporto con i nostri simili, e in particolare con gli sforzi creativi, la realizzazione di talenti, capacità e inclinazioni che abbiamo ricevuto da Dio. Esiste senza dubbio una dimensione eucaristica anche del tempio cristiano inteso come luogo, condizione e mezzo dell’azione sacra: la costruzione si sostanzia nella Dimora di Dio e nell’edificio della Chiesa proprio in modo sacramentale, cioè tramite le azioni sacre, ossia gli atti di Dio, e dalla risposta della comunità raccolta in preghiera. Ma lì dove avviene l’azione sacra sono necessari anche coloro che celebrino i sacramenti, i partecipanti con a capo Cristo Sommo Sacerdote, presente invisibilmente in ogni Eucarestia, manifestato in modo visibile nei sacri Doni sull’altare, nell’immagine dei suoi sacerdoti e nel popolo di Dio. Quindi, lo spazio del Tempio è il luogo della comune attività salvifica della Chiesa e del Suo Capo. E la corporeità misterica della Chiesa si riflette nella corporeità misterica della costruzione ecclesiale, cioè nella plastica architettonica e, di conseguenza, nella corporeità dei presenti all’interno del tempio. Ma la plastica e la corporeità formano o indicano (di fatto rivelano) le dimensioni che danno il significato all’aspetto ambientale, cioè allo

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spazio il quale è proprio lo spazio comunicativo, spazio e ambiente di comunione, cioè di comunicazione, rapporto, reciprocità, relazione e consenso, anche attraverso la reciproca integrazione. È l’ambiente dove avviene non solo l’incontro con Dio, non solo la risposta alla Sua chiamata ma anche l’unione con Dio – sulla Croce e nella Città Celeste. È l’ambiente che non conosce limiti presenti come confini fisici, sia del corpo umano che del corpo architettonico; tutto esiste nella compenetrazione non solo spirituale ma concretamente intenzionale ed esistenziale-misterica, compresa quella contemplativa e visiva. Le funzioni dello spazio ecclesiale (liturgico) differiscono quindi anche dal punto di vista delle dimensioni estetiche: si direbbe che questo spazio contribuisca attivamente al compiersi della Liturgia e alla partecipazione ad stessa, nonché alla preghiera in genere, anche al di fuori del mistero liturgico. È lo spazio che subisce passivamente la propria trasfigurazione grazie allo sforzo della coscienza credente. I requisiti estetici particolari dello spazio del tempio devono essere anche la chiarezza, la libertà di sguardo e di movimento; una chiara gerarchia di ciò che è importante e ciò che è secondario; nonché l’assenza di qualsiasi teatralità che renda l’azione anche minimamente artificiale, scenica, finta, ad effetto, esteriore e “scenografica”. Bisogna avere particolare cautela nei confronti delle possibilità visuali e spettacolari dell’azione liturgica, dove la struttura dell’azione sacra, avendo inevitabilmente una certa “performatività”, è chiamata in fondo a creare zone, campi di trascendenza, che si manifestano nello spazio spirituale interpersonale della preghiera dove si riducono le diversità fra interiore ed esteriore, trascendente e immanente. Per essere precisi, lo spazio ecclesiale, cioè eucaristico, non dovrebbe essere suddiviso in spazio per chierici e spazio per laici tramite speciali sistemi di carattere scenografico che rimandano alla cultura esclusivamente pagana del mondo antico, compreso il rito del culto imperiale, anche se possiamo trovare il simbolismo del servizio regale di Cristo glorioso, ma più a livello degli attributi allegorici e iconologici dell’ambiente liturgico e non come ragione sostanziale e strutturale o come ossatura semantica. Gli aspetti simbolici delle forme architettoniche in quanto tali, in tutta la loro varietà storica e culturale, hanno certamente una propria forza e vitalità ma di solito esistono indipendentemente dalla propria funzionali-

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tà anche sacrale. Ma questa vita segreta delle forme architettoniche non ha un’immediata capacità rivelativa perché è generica, arcaica e archetipica, non è propriamente evangelica né ecclesiale e neppure cristiana ma si presenta come qualcosa di comunemente antropologico ed esistenziale, il che rende più difficile e perfino impossibile attribuire o addirittura imporre alla Chiesa delle forme costruttive concrete, propriamente ecclesiali, rinnegando tutte le altre. L’unica espressione figurata rilevante di tipo architettonico sono le metafore, l’armonia tra le parti e l’intero come segno delle caratteristiche che descrivono la Chiesa stessa come un organismo unico e concorde, in cui hanno un valore sostanziale anche le qualità che rivelano la Chiesa come una realtà vivente che comprende in sé la realtà soprannaturale. Anche se la tettonica e la sua poetica sono il linguaggio universale di tutta la storia dell’architettura, della sua teoria e prassi. Può essere attuale solo il significato dell’uso di certe forme e strutture, cioè la pragmatica in quanto tale anche se manifestata nel suo aspetto liturgico e misterico. Inoltre, i significati simbolici sono secondari non solo dal punto di vista ontologico ma anche logico, sono derivati dalla costruzione e non direttamente dalla Rivelazione, dal miracolo della presenza di Dio e della comunione. Tali significati sono possibili ed efficaci nella chiesa ma solo come risultato dell’esegesi della chiesa stessa, come interpretazione e risignificazione di una tradizione architettonica, storica e culturale, come frutti della teologia liturgica e dell’ermeneutica storica ed artistica. Allo stesso modo è importante ricordare il simbolismo metafisico del tempio come immagine del Cosmo pensato e percepito proprio come un universo calcolato e assimilato, come immagine della casa, dimora, abitazione e rifugio, ricettacolo della vita e degli strumenti del buon vivere. Ma questa è anche la simbolicità di ogni costruzione, di ogni architettura di tutti i tempi, poiché è un simbolismo umano e metafisico, ma sopratutto appartenente al mondo creato e umano. Il simbolismo della Casa non coincide con il simbolismo del tempio, il quale, tuttavia, potrebbe essere percepito e vissuto anche come Casa di Dio. Allo stesso modo, anche la sacralità come segno di tutto ciò che è elevato, trascendente, “numinoso”, che si manifesta nella bellezza delle forme naturali ed artistiche, è solo la cornice o una manifestazione del Sacro ma non il Sacro stesso o un segno della sua presenza.

Spazio e liturgia. Aspetti dell’ambiente sacro

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Identico è il significato delle proprietà iconiche della costruzione ecclesiale: è più la metafora del trascendente che non la presenza reale, letterale ed operante di Cristo nell’Eucarestia. L’edificio ecclesiale come icona della Gerusalemme celeste è un’immagine più legata all’esegesi che alla realtà sacra, se questa immagine è intesa come realizzazione dello sforzo costruttivo (un tempio non viene costruito con le stesse intenzioni con cui viene dipinta un’icona). L’unica fonte e fondamento dell’iconicità, dell’immagine visuale che si può cogliere nel tempio sono le visioni-rivelazioni della Città Nuova e della Gerusalemme Celeste che discende sulla terra, presenti nelle Sacre Scritture (cf. Ger - e Ap , ). Quindi, dal punto di vista mistico, ogni tempio cristiano è la rivelazione del Regno futuro, della vita del mondo che verrà, un’escatologia contemplata e assimilata attraverso segni visibili. Ma anche il fatto storico della presenza e della contemplazione di Cristo nel Tempio di Gerusalemme e nelle sinagoghe del suo tempo permette di riprodurre questa situazione con mezzi dell’architettura (e della pittura) come immagini della stessa presenza invisibile di Dio in mezzo al Suo popolo, anche se l’aspetto propriamente cristologico richiede una precisazione: il tempio non è solo l’immagine del Verbo fatto carne ma anche immagine e segno della reciproca realtà della natura divina e umana nell’ipostasi del Verbo, che si offre nella Cena Eucaristica. E il tempo storico, nel senso del mistero divino, può essere anch’esso oggetto di consacrazione, diventare una particolare dimensione temporale del tempio. Lo spazio dell’Eucarestia è l’ambiente, ma un ambiente costituito dallo sforzo della preghiera e della Grazia. Ecco perché si potrebbe parlare dell’“atmosfera” del tempio come manifestazione dello stato dei partecipanti – delle loro abitudini, aspirazioni e reazioni considerate nella loro reciprocità e nei confronti di Dio. Gli aspetti dell’Eucarestia, la successione liturgica di prefazio, anamnesi ed epiclesi sono le tre dimensioni dell’ambiente raccolto in unità nell’atto della Comunione, nel partecipare del Corpo e del Sangue, della Morte e Resurrezione, della vita del mondo che verrà, quando il popolo di Dio si riunisce per compiere il ricordo dell’Ultima cena e vivere la realtà, l’autenticità del presente escatologico che si manifesta nella Presenza nell’Eucarestia del Padre nel Figlio attraverso l’azione dello Spirito Santo.

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Cerchiamo di esprimere in conclusione tutto quanto detto sopra brevemente e nel linguaggio specifico dei termini: . Dunque, l’esperienza della comunione con Dio prevede un’adeguata condizione della coscienza umana, la quale implica una realtà corrispondente, anche nell’aspetto spaziale. . Tale spazio è di solito definito “sacro”, ma questa definizione richiede una precisazione poiché questo termine non ha una specificità cristiana, un contenuto cristiano, e ciò richiede che si identifichi un’esperienza concreta di contenuto esclusivamente cristiano. . Tale realtà è l’Eucarestia (neppure la Liturgia in generale). . Non solo, questa specificità consiste nel carattere di avvenimento dell’Eucarestia, il che presume la “partecipazione” proprio come partecipazione all’Ultima Cena. . Pertanto la mensa del Signore è la struttura più concreta sia dal punto di vista formale che semantico, ma è anche la più decisiva: è ciò che richiede un luogo e una partecipazione corporale come ubicazione e presenza in un determinato luogo. . Il luogo è la communio, lo spazio è l’ambiente. . Da ciò deriva il ruolo fondamentale dell’architettura, senza la quale, dal punto di vista logico, l’atto dell’Eucarestia non è pensabile. . Con tutto ciò, la forma o le forme concrete di tale architettura rappresentano la pietra d’inciampo (petra scandali) per tutti coloro che edificano sia la tettonica della costruzione che l’architettonica dei significati. . Di fatto, l’unico modo corretto di parlare della semantica del tempio è nei termini di correlazione e implicazione antropologica e prasseologica di immagini (visuale e corporale), ma assolutamente non in termini di rapporto diretto. . Il momento costitutivo del senso può essere colto solo nell’attività, nella pragmatica delle azioni che si compiono nel tempio, cioè nella struttura di avvenimento propria alla Liturgia. . La Liturgia deve essere intesa in tutta la sua pluridimensionalità strutturale (formale) e tematica (degli eventi). Nel primo caso è la riunione della comunità, la proclamazione della Parola e l’ascolto della Stessa, il ricordo della Cena e tutto ciò che ne è seguito, e certamente la Comunione che è la partecipazione alla vita del mondo che verrà. Dal

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punto di vista del contenuto è la sequela di tutto ciò che accompagnava il Sacrificio e realizzava il Regno. . Ogni semantica concreta è definita, descritta e interpretata attraverso la descrizione delle forme concrete e dell’interazione tra una determinata architettura (anzitutto come spazio-ambiente architettonico che è l’architettura stessa) e una certa esperienza liturgica (qui non si tratta affatto del contenuto funzionale). . Di più, la semantica prettamente architettonica di ogni singolo tempio consiste nel vivere l’esperienza che si forma attraverso la compenetrazione tra tutta la semantica universale del tempio e le condizioni concrete della sua assimilazione. . Questa è appunto l’architettura del tempio: costituire e mantenere le condizioni per assimilare la Liturgia, cioè la celebrazione, la partecipazione e l’assimilazione del frutto del sacrificio salvifico del Signore. . Si potrebbe dire che il significato del tempio si cela nel gioco tra due corporeità, quella del corpo architettonico del tempio (le mura ecc.) e quella del corpo liturgico della Chiesa, sotto forma della corporeità dei presenti nel tempio. . Altrimenti detto, è la semantica del comportamento e della reazione a certe condizioni, funzioni e obbiettivi. . A tale comportamento, a tale prassi viene assegnato un posto, che essa stessa in parte forma e trasforma. . Quindi, tutta la questione consiste nel configurare l’ambiente che si forma negli interspazi fra l’architettura ed i corpi in essa presenti (sia a livello antropologico che a livello oggettuale, oggettivo e soggettivo). . A grandi linee, è più importante il passaggio da un corpo all’altro, ed è appunto questa la semantica dei processi dinamici, dei fenomeni transitori all’interno di questo ambiente integro: proprio nel momento e nel luogo del passaggio il significato viene scoperto come qualcosa che viene vissuto dalla persona e si rivela ad essa come “proprio”, acquisito, ricevuto in dono. . In questo senso, sono molto importanti i passaggi più universali: dall’esteriore all’interiore, dal centrale al periferico, dal visuale al sonoro. E, in primo luogo, il passaggio dal non mimetico al figurativo (dalla geometria al segno ecc.). . A parte, è importante avere sempre presente tutta la semantica descritta come invariante e come senso generale di qualsiasi progetto di

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architettura sacra, sia letteralmente che metaforicamente, come sottinteso: qualsiasi oggetto architettonico preferisce tacere le cose obbligatorie, inevitabili e decisive. E soprattutto le cose che lo superano. . In altre parole, tutto il simbolismo di cui sopra è parte dell’esperienza architettonica, la quale è un’attività di progettazione con una propria semantica e non solo, ma anche una sua esplicita poetica. . Infine, qualsiasi esperienza di comunione con Dio può diventare una Liturgia-offerta. Ma potrebbe fare da base a un discorso scientifico? Forse solo allo scopo di portare anche questo all’Altare del Signore. Ma perché l’offerta sia degna è necessario impegnarsi, progredendo nella preghiera, cioè nella capacità di accogliere il Dono dello Spirito Santo.

Ol’ga Januskjavicˇ ene*

Possibilità di sostegno pedagogico per far emergere la bellezza dell’immagine di Dio nell’uomo

Per ogni persona esiste l’opportunità potenziale di mettere in luce la bellezza dell’animo racchiuso in lui in quanto fatto a immagine di Dio. L’uomo ha ricevuto la possibilità di amare, condividere, creare, ha ricevuto la possibilità unica di incontrare l’Altro. Tuttavia queste possibilità si possono realizzare solo nel rapporto con le altre persone, in risposta all’azione pedagogica di genitori, educatori, società. D’altro canto, l’azione pedagogica può, invece di facilitare, impedire il manifestarsi della bellezza dell’immagine divina nell’uomo. Cristo ha detto: «Chi vuole salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà!» (Mc , ). I cristiani hanno sempre formato nei propri figli il desiderio di servire Dio e gli uomini. Più una persona riusciva a dimenticare se stessa per questo, più “perdeva la propria vita”, più ricca e bella diventava la sua vita. Purtroppo la cultura attuale suggerisce di concentrarsi su di sé, sui propri piaceri, di “conservare e vezzeggiare la propria vita”. L’accento posto dalla pedagogia russa tradizionale, sin dai tempi più antichi, sull’“addestramento a servire la società” è spostato sul riconoscimento del valore autonomo della persona, sulla formazione della sua autocoscienza, sul creare le condizioni per la sua autodeterminazione e autorealizzazione, cose che a prima vista potrebbero contribuire a svelarne la bellezza. Tuttavia gli studiosi osservano che, ponendosi tali finalità, si creano numerosi problemi dovuti alla crescita dell’egoismo e di condotte tendenzialmente antisociali. Nella società crescono le tendenze negative, devianti, anomiche. In sostanza, la persona si trova spesso incapace di realizzarsi in senso individuale. Il grande pedagogista russo K. Ušinskij ha distinto nell’uomo la vita

* Università Ortodossa Umanistica San Tichon, Mosca.

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vegetale, animale e propriamente umana. Anche la vita vegetale e animale sono presenti nell’uomo. Ciò che rende uomo l’uomo, l’immagine di Dio, ciò che dà bellezza alla sua persona, Ušinskij la chiama vita spirituale. La vita vegetale si distingue per la presenza di due tendenze: alla moltiplicazione e alla soddisfazione. Il fatto di concentrarsi su di sé fa sì che per molti giovani d’oggi queste tendenze siano predominanti. Così, proprio come una pianta che disperde i suoi semi, i giovani danno spazio ai propri istinti ma non li collegano mai alla necessità di preoccuparsi dei figli. In tal modo, secondo la classificazione di Ušinskij, la loro vita è tipicamente vegetale, e si può affermare che concentrandosi su di sé perdono la bellezza dell’uomo come immagine di Dio. Ušinskij ha scritto che se l’uomo, «usando i frutti del lavoro altrui, vuole prendere solo la gratificazione, respingendo ostinatamente qualsiasi minima sofferenza, unica moneta con cui si pagano i piaceri, abbiamo due possibilità: o diventa sempre più infelice, o smette persino di essere animale per trasformarsi in vegetale che si nutre e si moltiplica. È curioso che nelle culture di vari popoli si trovino vari racconti sull’uomo che, concentrandosi su se stesso, si trasforma in pianta. Ad esempio il mito di Narciso. Il giovane Narciso era molto bello ma amava solo se stesso. La ninfa Eco si innamorò di lui, ma Narciso non volle saperne. Eco si consumò talmente per l’amore non condiviso che di lei rimase solo la voce. La ninfa maledisse l’amato prima di morire, augurandogli di provare le stesse pene. Dopo qualche tempo Narciso, tornando dalla caccia, volle bere, si chinò su un ruscello per attingere l’acqua e vide il proprio riflesso. Fu preso da folle amore per se stesso. Non riusciva a distogliere lo sguardo dalla propria immagine, deperì e in breve morì. Sul luogo dove Narciso morì, crebbe un fiore profumato che fu chiamato col suo nome. Insomma, il mito afferma che l’uomo concentrato nell’amore a sé smette di essere un uomo e diventa una pianta. Di recente è uscito un libro di Andrej Rubanov, Clorofilia, che parla del XXII secolo e di come si sono ridotti i russi per aver desiderato sempre più piaceri. Nel racconto, il simbolo del desiderio di piacere è 

K.D. Ušinskij, Pedagogicˇ eskie socˇ inenija v  tt. (Opere pedagogiche in  voll.), Akad. Ped. Nauk, Moskva-Leningrad , vol. , p. .

Sostegno pedagogico per far emergere la bellezza dell’immagine di Dio

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rappresentato da un’erba gigantesca che cresce a Mosca, la cui polpa dà un senso di felicità. La gente mangia l’erba e si trova permanentemente in stato di sballo, finché gradualmente si trasforma in vegetale: crescono le radici ai piedi, dalla testa e dalle braccia escono i rami, e non gli serve più niente tranne la terra e la luce del sole. Nell’uomo concentrato su di sé si crea un problema di identità, perché noi ci vediamo con gli occhi degli altri. Proprio attraverso gli occhi degli altri noi vediamo la bellezza o la bruttezza delle nostre azioni, e capiamo chi siamo. Se non ci fossero le altre persone, ogni nostra attività, tutte le nostre conquiste perderebbero significato, perché non ci sarebbe nessuno che le possa apprezzare («se accendono le stelle in cielo, vuol dire forse che qualcuno ne ha bisogno...»). Per questo le persone che mettono se stesse al primo posto, mentre considerano gli altri come oggetti da usare, smarriscono la bellezza della propria umanità, della propria anima immortale. La pedagogia russa classica identifica tradizionalmente lo scopo dell’educazione con lo scopo dell’essere, che è stato indicato dalla dottrina cristiana. Così N. Pirogov, nell’articolo Questioni di vita (), scriveva che davanti a questo fine impallidiscono tutti gli altri. L’insegnamento del Salvatore, distruggendo il caos dell’arbitrio morale, ha indicato all’umanità la via diretta, ha definito sia lo scopo che il centro dei desideri umani. Una volta trovata nella Rivelazione la risposta al problema principale della vita, lo scopo del nostro esistere, sembrerebbe che l’umanità non avesse altro da fare che seguire con fermezza e fede il cammino segnato. [...] Dato che apparteniamo ai seguaci della dottrina cristiana, sembrerebbe che l’educazione dovrebbe metterci in bocca le risposte.

Nel paradigma cristiano lo scopo dell’educazione è formulato nel seguente modo: «amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: amerai il tuo prossimo come te stesso» (Mt , -), ossia nel paradigma cristiano predomina il Tu, e pone l’accento principale nell’educare all’amore per l’Altro (Dio e uomo). Diversamente da questa impostazione, le moderne concezioni educative si concentrano sull’autorealizzazione dello scolaro. Identificando l’antroponica come una tendenza della pedagogia moderna, G. Šcˇedrovickij ha scritto che come

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esito dell’educazione comune si ottengono delle persone che (bene o male) riproducono il “modello” di persona elaborato dalle generazioni precedenti. Grazie all’attività antroponica crescono persone capaci di cambiare e imparare, capaci di decidere autonomamente cosa devono essere, cosa devono saper fare. Persone capaci di autodeterminazione anche in condizioni che in sé lo impedirebbero o non lo favorirebbero.

Soffermiamoci in particolare sull’espressione “modello”, che ha in questo contesto una certa sfumatura di staticità, di mancanza di sviluppo. Una simile affermazione sarebbe giusta se il “modello” di uomo fosse finito e raggiungibile nelle sue caratteristiche. Tuttavia i classici della pedagogia russa (N. Pirogov, K. Ušinskij) proponevano come “modello” di uomo l’Ideale di Gesù Cristo, irraggiungibile nella sua perfezione. È evidente che seguire un simile “Modello” non può frenare lo sviluppo umano. La capacità di decidere autonomamente cosa si debba essere e cosa valga la pena saper fare per i giovani d’oggi è piuttosto problematica, anche alla luce del fatto che, come hanno mostrato i risultati di recenti studi, le nicchie socio-culturali predominanti oggi tra gran parte dei ragazzi in età scolare sono il casinò, le caffetterie, i disco-bar, le slot machine, come pure i film, i video game e le trasmissioni tv di contenuto violento e/o pornografico. Di conseguenza, bisogna esprimere il timore che i giovani che liberamente si autodeterminano possano rimanere al livello vegetale, senza neppure elevarsi a ciò che rende uomo l’uomo. G. Šcˇedrovickij afferma giustamente che la prassi antroponica è necessaria alla società allorché le risposte riguardo al modello (l’immagine) di comportamento sono messe in crisi dai cambiamenti socio-culturali seguiti ai cambiamenti nella visione del mondo, oppure a causa di una “ribellione” dell’uomo stesso. Dall’altro lato, l’esempio di bambini reali tolti alla jungla, che non sono mai riusciti a diventare persone, mostra che l’uomo può essere aiutato a diventare uomo solo da un altro uomo. Per questo sembra poco credibile che la bellezza della persona umana possa manifestarsi grazie alla ribellione e al rifiuto dei migliori esempi di spiritualità. 

P.G. Šcˇedrovickij, Ocˇ erki po filosofii obrazovanija (Saggi di filosofia dell’educazione), Moskva , p. .

Sostegno pedagogico per far emergere la bellezza dell’immagine di Dio

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La bellezza della persona del bambino va educata sin dalla culla. I classici della pedagogia russa sottolineavano l’importanza dell’educazione propriamente familiare. N. Pirogov e V. Rozanov si erano dichiarati decisamente contrari al sistema dell’educazione precoce di Fröbel (gli asili d’infanzia da lui concepiti, diffusi in tutta Europa e nel mondo, oggi sono diventati parte integrante dell’educazione e istruzione infantile), che strappava il bambino alla famiglia e iscrivevano la sua vita in uno schema, costringendolo a prendere coscienza di ogni proprio atto o gioco. «Diciamo perlomeno che non mi dispiace essere stato bambino ai tempi in cui ancora non si conoscevano gli asili di Fröbel. Ma certamente le società che vanno verso la degenerazione sociale non possono non invaghirsi di un’educazione che prometta di far di loro dei manichini della libertà», scrisse Pirogov. In questa citazione si affronta il problema di come formare una delle virtù più grandi della persona umana: la libertà. Secondo i classici russi, con un’educazione ad hoc si può raggiungere solo una libertà esteriore, comportamentale. Nel Diario di un vecchio medico, N. Pirogov scrisse: Io non nego che Pestalozzi, Fröbel ed altri pedagoghi d’avanguardia e fanatici della propria missione abbiano dato una buona educazione ai loro pupilli; ma non credo che gli strumenti artificiali e il loro impiego sistematico proposto da questi pedagoghi abbiano prodotto effetti benefici sulla massa degli uomini e sulla società. La forza principale di un’educazione artificiale e fortemente sistematizzata è più che altro negativa; pur iniziando prestissimo, agendo in modo uniforme e unidirezionale sulle individualità più diverse, può distruggere molte cose cattive, certamente, ma può sviluppare qualcosa sul piano morale solo dal di fuori.

Ossia si intende il decoro esteriore, che pure non è poco. Riguardo al contenuto del lavoro dei giardini d’infanzia all’estero, Ušinskij critica il metodo di Fröbel che vi è in uso per il carattere formale dei giochi e delle attività. Spesso ho sentito pena per i bambini quando, battendo i piedi controvoglia, sbadigliando e anche talvolta piangendo, cantavano le canzoncine allegre di Fröbel. [...] Canzoncine il più delle volte noiose, stiracchiate, con pessime  

N.I. Pirogov, Socinenija v  tt. (Opere in  voll.), vol. , Kiev , p. . Ivi, pp. -.

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rime [...] ma soprattutto infarcite di un tono didascalico insopportabile per i bambini. È persino strano che Fröbel, così addentro nella natura infantile, abbia dimenticato che la morale delle canzoncine non insegna niente a dei bambini di  anni.

Al metodo di Fröbel, secondo Ušinskij, mancava l’elemento creativo, il vivo sviluppo dell’iniziativa infantile. Nella citazione riportata, lo scienziato, come Pirogov e Rozanov, tocca almeno di sfuggita la questione dell’educazione alla libertà personale del bambino. Ušinskij legava la libertà della persona all’attività. «L’attività autonoma preferita è appunto l’unione di coscienza e volontà nella quale la tensione alla libertà costituisce la radice del benessere umano», ha scritto. A prima vista può sembrare che il pedagogista pensasse come i riformatori della scuola moderna, i quali vogliono anch’essi insegnare ai bambini ad agire in modo libero. Tuttavia non è così. Ušinskij legava il lavoro alla vita, e considerava la vita nella prospettiva dell’eterno. Proponeva di cercare «innanzitutto un lavoro che possa darvi la vita», facendo un’analogia con le parole del Salvatore: «Cercate anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt , ). Si tratta di una differenza sostanziale rispetto all’orientare il bambino a scegliere liberamente in qualsiasi direzione. Un altro aspetto legato all’educazione è il lavoro assegnato, ossia un lavoro che il bambino deve compiere anche se non vuole. L’esistenza della libertà in un simile lavoro dipende, secondo Ušinskij, dal rapporto affettivo: «L’amore è l’unico modo per guadagnarsi l’anima dell’uomo senza legarne la volontà, che è necessario per la salute dell’anima almeno come l’aria lo è per la salute del corpo. Chi si sottomette per amore, si sottomette per proprio desiderio». Certamente il rapporto affettivo nell’età prescolare si instaura innanzitutto nella famiglia. A questo proposito il ruolo della madre nella formazione della personalità del bambino è grandissimo. Il libro di Pirogov, Questioni di vita termina con un inno alla donna: Le donne devono capire la loro alta missione nel giardino della vita umana. Comprendano che, prendendosi cura della culla di un uomo, indirizzando i suoi giochi, insegnando alla sua lingua a balbettare le prime parole e la prima 

Ušinskij, Pedagogicˇ eskie socˇ inenija v  tt., cit., vol. , p. .

Sostegno pedagogico per far emergere la bellezza dell’immagine di Dio

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preghiera, diventano i principali architetti della società. La pietra angolare è posta dalle loro mani.

Tuttavia, al giorno d’oggi l’educazione viene sempre più tolta alla famiglia e alla scuola e i fautori dell’educazione diventano le tecnologie dell’informazione e comunicazione, nonché il banale contesto di vita “quotidiano”, privo di qualsiasi problematicità scientifica. I problemi che abbiamo elencato dipendono dall’ingresso nella sfera dell’istruzione ed educazione di idee postmoderne. Nel momento attuale sta prendendo piede il post postmodernismo, sviluppo attuale della filosofia postmoderna, al cui interno si elaborano programmi per superare i problemi suddetti. I teorici di questa linea hanno individuato due possibili vie per trasformare gli orientamenti paradigmatici del postmodernismo allo stadio attuale, per ricostituire la soggettività e l’identità perdute: ) tornare al classicismo culturale nello spazio postmoderno (M. Gotdiner); ) accentuare il concetto dell’Altro (E. Lévinas). In base a quanto si è detto, riteniamo che uno degli scopi principali dell’istruzione debba essere l’educazione della bellezza morale della persona, orientata al servizio dell’Altro. «Suonare per l’armonia generale, ne converrete, è un’alta vocazione». Esattamente questa finalità del processo formativo può aiutare a risolvere i problemi della società. Logicamente, dato che la scuola prepara a vivere su questa terra, non può essere separata dalla vita. Ma questi compiti attuali devono essere sottomessi a quelli eterni e principali. La professionalizzazione dell’istruzione oggi in atto va piuttosto in senso contrario, poiché tutta la tensione degli allievi viene incanalata verso l’ottenimento di conoscenze pratiche utili per la futura carriera, cioè verso scopi puramente materiali. Si può affermare che andando dietro alla professionalità, al fantasma del successo, si dimentica lo scopo primo di ogni istruzione. In tal modo, la pedagogia russa classica, col suo orientamento all’altro, ha permesso di mettere in luce la bellezza dell’immagine di Dio nella persona e, con le sue innovazioni in campo educativo e formativo, interagisce necessariamente con questa esperienza verificata nel tempo.  N.I. Pirogov, Izbrannye pedagogicˇ eskie socˇ inenija (Opere pedagogiche scelte), Moskva , p. .  Ivi, p. .

Svetlana Divnogorceva*

La cultura pedagogica della famiglia ortodossa in Russia nel contesto degli ideali della bellezza

Oggi nel mondo esistono vari modelli di interpretazione del bello. Il cristianesimo collega il bello all’incarnazione dei valori assoluti in fenomeni concreti. Nel contempo, non si può non riconoscere che gli ideali del bello siano legati alle peculiarità della cultura nazionale, di cui anche la pedagogia fa parte. La cultura pedagogica di una società si presenta come un sistema di valori che determinano l’attività pedagogica. In essa si rispecchiano il modo di concepire le norme dell’interazione pedagogica, l’esperienza educativa e la didattica delle giovani generazioni. La cultura pedagogica si posiziona all’interno delle tradizioni educative e morali della società, che rispecchiano a loro volta le relazioni fra adulti e bambini, e si esprime nelle teorie pedagogiche, nei modelli di attività pedagogica. Parte della cultura nazionale della Russia era e resta la cultura pedagogica ortodossa, comprendente sia le concezioni teoriche riguardanti le modalità di sviluppo spirituale della persona, sia l’esperienza di educazione morale-religiosa, sia l’istruzione. Lo sviluppo della cultura pedagogica ortodossa in Russia è il risultato della sedimentazione di valori e tradizioni pedagogico-spirituali che mantengono un significato normativo e attuale indipendentemente dal lasso di tempo trascorso dal loro apparire. Un ruolo particolare, nella salvaguardia di questi valori e tradizioni, appartiene alla famiglia ortodossa. Gli ideali del bello nella dottrina cristiana ebbero un influsso decisivo sull’organizzazione pratica della famiglia, delle relazioni familiari, dell’educazione dei figli in Russia. Il periodo fondamentale per la loro ricezione e l’assimilazione della cultura pedagogica ortodossa, in Russia, si colloca tra il X e il XVII secolo, epoca in cui la Chiesa ortodossa esercitò un influsso dominante sulla cultura e sulla vita della società russa. Come * Università Ortodossa Umanistica San Tichon, Mosca.

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edificare la famiglia secondo i principi della fede ortodossa, i russi di epoca medioevale lo apprendevano dalle prediche del clero e dalle cosiddette letture edificanti, che comprendevano la Sacra Scrittura, le vite dei santi, cronache e sermoni. Non erano testi pedagogici nel senso contemporaneo del termine, ma formavano la mentalità della famiglia ortodossa, determinavano la prassi educativa e l’istruzione delle giovani generazioni, contribuivano alla chiarificazione dei rapporti familiari. Il codice di relazione tra i membri della famiglia ortodossa si formava in primo luogo nel contesto degli ideali cristiani. La Chiesa ammetteva solo una forma di matrimonio, il rito religioso. I rapporti tra marito e moglie nella famiglia russa erano regolati e stabiliti non tanto da norme legislative, quanto dalla “concezione” ortodossa del matrimonio, della famiglia e del ruolo della donna al suo interno. Tale “concezione” induceva a vedere nel matrimonio un rapporto di unione spirituale basato sull’affinità di sentimenti, su un “amore” irriducibile alla sua accezione puramente carnale. Insieme a questa concezione dell’amore coniugale, la cultura pedagogica ortodossa “propagandava” la figura della sposa ideale, virtuosa, che vedeva nel ruolo sponsale l’unico possibile fra tutti i ruoli sociali, e nella vita domestica un particolare “ambito di consistenza” e di positiva attività. La sposa nella cultura pedagogica ortodossa è una figura femminile religiosa, casta e fedele, lavoratrice, saggia economa, buona madre, silenziosa e talvolta supina nella sofferenza, docile, bella di una bellezza tutta interiore e spirituale. Gli esempi di questo tipo di donna che si trovano negli annali, nelle vite dei santi e nei racconti sono spose, madri, sorelle di principi illustri per le loro grandi imprese, che fin dalla nascita sono portatrici di un “capitale congenito di virtù”. Molte di esse furono canonizzate dalla Chiesa ortodossa russa per la loro testimonianza di fede, per la fattiva partecipazione alla lotta contro i nemici della terra russa, per la fondazione di monasteri, scuole, per l’attività caritativa. Ad esempio, testimonianze orali e antiche cronache ci hanno tramandato la figura della principessa Ol’ga, “pari agli apostoli” (?-), la cui corona regale fu la prima volta decorata dalla croce ortodossa. Ol’ga andò sposa al principe Igor’, poi restò vedova e fu una saggia reggente della terra russa. Un altro esempio è la principessa Evdokija Dmitrievna di Suzdal’ (-), consorte del principe Dmitrij Donskoj, saggia, riflessiva, fedele, premurosa e solerte nei confronti dei suoi sudditi. Non

La cultura pedagogica della famiglia ortodossa in Russia

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solo assolse tutti i doveri familiari affidatile dal marito, ma si dedicò a opere di bene, al sostentamento delle chiese. Castità, ardente amore per il marito, estrema modestia di comportamento in società e fattiva pietà sono tutte qualità della principessa, pienamente rispondenti alla grande spiritualità del suo consorte. I postulati morali introdotti dalla concezione ortodossa si trasformarono nel tempo in un elemento dell’autocoscienza nazionale femminile, anche rispetto al matrimonio. Vi troviamo le doti della dedizione e della fedeltà, del senso della maternità, dell’economia e dello zelo, dell’amore per il marito, un “amore” che era tuttavia più un dovere morale che un sentimento travolgente. Di qui nasceva il dovere di restare al fianco dello sposo cui la donna era stata destinata, qualunque fosse la sua sorte. La Chiesa insegnava alle donne un’idea di amore inteso come compassione, misericordia, pietà senza sentimentalismi. Di contro alla radicata opinione secondo cui nella società russa medioevale si praticavano punizioni corporali nei confronti delle donne e dei bambini, l’analisi dei testi letterari sacri e profani di epoca precedente all’imperatore Pietro il Grande mostrano che si insisteva molto sulla possibilità di cambiare le relazioni coniugali, senza “battere” le consorti con la “sferza”, bensì “applicando il medicamento della ragione”. I casi di rozzo e palese arbitrio nelle relazioni familiari non costituivano la norma, ma piuttosto l’eccezione. Un elemento caratteristico nelle relazioni tra madri e figli in Russia era la loro intensità emotiva. La madre aveva il dovere di “crescere” i figli sia sul piano fisico che spirituale. Nel contempo, la cultura pedagogica ortodossa non separava l’educazione materna da quella paterna, ma insisteva sulla loro complementarietà. Ivan Il’in scrisse a questo proposito che il bambino ha bisogno di un «flusso di amore virile, cameratesco e fraterno da parte del padre, e di un amore femminilmente tenero, religioso e coscienzioso da parte della madre». Il tema paterno esige una particolare attenzione, nel contesto della cultura pedagogica ortodossa. Le relazioni fra padre, madre e figli nella cultura pedagogica ortodossa avevano un carattere gerarchico. Ma l’autorità del padre non doveva soffocare il figlio, annichilire la sua libertà interiore e stroncarne la personalità. Nella storia dell’educazione familiare del nostro paese per molto tempo l’ideale delle relazioni tra adulti e ragazzi si è basato sull’insistenza educativa su un atteggiamento di

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obbedienza. I giovani, anche dopo la minore età, si rivolgevano agli adulti non perché non fossero in grado di risolvere i problemi, ma perché cercavano consiglio e guida. La volontaria “mortificazione” della libertà esteriore guidava alla libertà interiore, al superamento delle proprie imperfezioni, testimoniando così la maturità spirituale dell’individuo. Il popolo russo educava i figli secondo tale visione e concezione, tutelandoli spiritualmente, ancor prima che materialmente. Per lungo tempo nella Rus’ ebbe notevole diffusione il genere letterario dei “testamenti spirituali” dei padri ai propri figli. In essi troviamo un sublime ideale cristiano di educazione, il desiderio dei padri di impartire saggi consigli ai propri figli per tutti i casi della vita. Ad esempio, nella Miscellanea del  è inserito il «Discorso di un padre al proprio figlio», un monologo in cui il padre consiglia al figlio come meglio vivere, e spiega in che cosa consistano le virtù: Figlio mio, mia creatura, porgi l’orecchio e ascolta tuo padre che ti offre un consiglio di salvezza. Figlio, appressa l’intelletto del tuo cuore e ascolta il verbo di colui che ti ha generato [...]. Figlio, tieni basso il capo, e alta la mente [...] e il cuore rivolto a Dio in un grido di supplica [...]. Non vergognarti di inchinare il capo davanti a ogni uomo, creato a immagine di Dio; rifuggi il peccato, come un guerriero che uccida l’anima tua...

Ritroviamo l’ideale educativo anche in un’altra opera della letteratura russa medioevale, Esortazioni del principe Vladimir Monomach (fine dell’XI - inizio del XII secolo). Le caratteristiche principali della persona, secondo questo ideale, sono l’amore per gli uomini e per il lavoro, che si fondano sulla religiosità e la pietà: Grande è Dio, mirabili le sue opere! Figli miei, rendete lode a Dio! Amate anche l’umanità [...]. Il timor di Dio e l’amore per l’umanità sono le virtù principali [...]. Non il digiuno, la solitudine, il monachesimo vi salveranno, ma le opere buone. Non dimenticate i poveri, date loro da mangiare e pensate che ogni bene appartiene a Dio e vi è stato affidato solo temporaneamente. Siate dei padri per gli orfani [...]. Non permettete ai forti di sopraffare i deboli [...]. Non abbiate superbia nella mente e nel cuore [...]. Temete ogni menzogna, ubriachezza e lussuria, mortifere sia per il corpo che per l’anima. [...] L’accidia è la madre dei vizi: statene in guardia. L’individuo deve essere sempre occupato: in viaggio, a cavallo, quando non avete nulla da fare, anziché coltivare futili pensieri recitate le preghiere che sapete a memoria...

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Magnifico è anche il testamento del principe Konstantin Vsevolodovicˇ (-) ai figli Vasilij e Vsevolod: Figli miei amatissimi! Abbiate sempre amore fra voi, temete Dio con tutta l’anima, osservate in tutto i suoi comandamenti [...] non disprezzate i poveri e le vedove, non allontanatevi dalla Chiesa, amate il clero e i monaci, ascoltate le esortazioni dei libri e abbiate amore fra voi, e così il Dio della pace sarà con voi.

Le esortazioni e gli ammonimenti dell’epoca successiva mostrano come i sublimi ideali siano strettamente uniti a realtà assolutamente quotidiane. Questo si spiega con il fatto che nella visione dell’uomo ortodosso non esistevano cose feriali e insignificanti, ma tutta la vita terrena, con le sue talvolta minute faccende e preoccupazioni, era solo una preparazione all’eternità: la vita nell’eternità dipendeva da come l’uomo percorreva il suo cammino terreno. La cultura pedagogica ortodossa russa, soprattutto nel periodo medioevale, comprendeva un codice di nozioni e prassi ritenute indispensabili per assimilare una serie di regole che costituivano la scienza della “vita cristiana”. Tale codice gradualmente venne a comporsi di tre discipline o strutture: una disciplina interiore, ovvero l’opera della salvezza; una disciplina mondana, cioè la scienza della convivenza civile; una disciplina domestica, vale a dire la scienza dell’economia domestica. Questa struttura si rispecchia con particolare chiarezza nel Domostroj , una celebre opera della metà del XVI secolo che illustra la vita quotidiana e l’educazione in Russia. Le sue tre parti – la struttura spirituale (ammonimenti religiosi), la struttura mondana (rapporti familiari), la struttura domestica (suggerimenti riguardanti l’economia) – costituiscono una sintesi delle norme dell’ordinamento domestico e della vita familiare. Questo libro viene attribuito al sacerdote Sil’vestr, che lo dedicò al proprio figlio Anfim, anch’egli sacerdote. Il Domostroj, tuttavia, non esprime la visione di un singolo individuo, e neppure idee e regole valide solo per il XVI secolo. Vi si espongono consuetudini formatesi da lungo tempo, nel corso di tutta la vita russa a partire dall’epoca del battesimo della Rus’. Il Domostroj, a differenza delle esortazioni paterne citate sopra, ha un carattere più pratico: non descrive in termini generici la vita vissuta secondo 

Domostroj ovvero della felicità domestica, Sellerio, Palermo  [N.d.T.].

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giustizia, ma offre concrete indicazioni sulle virtù in cui essa deve esprimersi. Al centro di tutti gli ammonimenti del Domostroj troviamo il padre di famiglia. La società russa medioevale stimava molto la persona del genitore, e gli conferiva anche il grande dovere morale di edificare e custodire i costumi morali della casa: «Non di sé soltanto si curi, ma della sposa e dei figli suoi, e anche degli altri; [...] e con tale buona e diligente disposizione abbia amore per tutte le creature di Dio e tenga gli occhi rivolti a Dio e sia un vaso eletto». Su questo comandamento si reggeva tutta la componente morale della cultura pedagogica russa di epoca medioevale. Esso costituisce l’anima, il fondamento di tutti gli ammaestramenti del Domostroj. Il sacro dovere di rispondere di tutto e di tutti in casa conferiva al padre i più ampi diritti e facoltà. Il volere del genitore, secondo il Domostroj, era in sé un modello e una scienza. Di conseguenza, la vita familiare doveva edificarsi in maniera gerarchica, come una scala naturale di relazioni in cui ciascuno occupava il proprio gradino e adempiva il proprio compito: Benedico, io peccatore, e ammaestro, esorto, indirizzo il figlio mio e la sua sposa, e i loro figli e i famigli a vivere in tutto secondo la legge cristiana, con coscienza pura e giustizia, adempiendo con fede la volontà di Dio e osservando i Suoi comandamenti, mantenendosi nel timor di Dio, in una vita giusta, ed ammaestrando la moglie, ed esortando pure i propri famigli – senza costrizioni, percosse, lavori pesanti, ma come se si trattasse di propri figli, affinché siano sempre sereni, sazi, provvisti di abiti, di un’abitazione riscaldata, e vivano nell’ordine.

La famiglia viene dipinta nel Domostroj come un organismo unitario, in cui tutto viene fatto insieme: «Mangiare e bere, far bollire i cibi o arrostirli in forno...». Il principio unificante era la preghiera in comune: «Quotidianamente la sera il marito insieme alla moglie, ai figli e i famigli che sanno le lettere cantino le funzioni vespertine e serali con voce sommessa, con attenzione e umiltà, con preghiere e inchini, cantando in maniera distinta e all’unisono...». Nella descrizione di questa famiglia si avverte la presenza invisibile del Padre celeste: i membri della famiglia erano uniti dal desiderio di adempiere i Suoi precetti, e questo ne assicurava l’integrità, l’osservanza delle tradizioni, l’educazione dei figli secondo regole precise. Il garante di tale educazione – lo ripetiamo an-

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cora una volta – era il padre, che oltre alle sue varie funzioni aveva anche il compito di educatore. Dai figli il Domostroj, come in precedenza, esigeva sottomissione e obbedienza ai genitori in tutto: «Serviteli con timore a guisa di servi, e otterrete da Dio la ricompensa ed erediterete la vita eterna, per aver adempiuto i Suoi precetti». La medesima obbedienza il Domostroj chiede alla moglie: «In tutto essa gli deve essere sottomessa e ciò che il marito dispone, essa deve accoglierlo con amore...». La disciplina domestica veniva mantenuta in diversi modi, anche mediante punizioni corporali, sebbene si trattasse di misure estreme: «Se la moglie, o il figlio, o la figlia non presta attenzione alla parola o all’esortazione, e non obbedisce...». Non bisogna trarre da qui la conclusione che la pedagogia russa medioevale fosse troppo dura. I costumi non erano certo teneri, ma nel Domostroj risuonano più volte parole di bontà e mitezza. Le regole educative che espone non presentano assolutamente esigenze dettate da barbara, insensata crudeltà, e inoltre sono addolcite dall’influsso della carità cristiana. Il Domostroj imparte consigli affinché nella vita familiare e sociale si viva nella carità, nella serenità, nella pace e nella concordia, nella misericordia: «Conviene che il marito ammaestri la sua sposa con amore, con esortazioni e buoni ragionamenti». Queste tradizioni di educazione familiare sopravvissero all’epoca di Pietro e mantennero la propria attualità. Quasi centocinquant’anni dopo, nel , nel Testamento di un padre al proprio figlio di Ivan Tichonovicˇ Posoškov leggiamo: Tu, figlio mio [...] impara a vivere in modo da non offendere in nulla alcun uomo, vecchio o giovane, ricco o povero che sia. Ma sii amorevole con tutti, e a ciascun uomo rispondi e rivolgiti con mitezza, e non parlare duramente a nessun uomo, se non vi sia motivo, giacché una parola dura suscita l’ira.

Posoškov raccomandava un’educazione severa: «Ogni male e follia inizia dal lassismo dei genitori». Ma alla donna Posoškov guardava con maggior considerazione, rispetto ai tempi del Domostroj: E senza consiglio, in particolare di tua moglie, non fare mai nulla, giacché essa ti fu data da Dio stesso non perché tu la asservissi, o perché ti servisse, ma al fine di riceverne aiuto. [...] E per questo, chi umilierà la moglie o la tratterà a

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guisa di serva, sarà da Dio punito. Dio, infatti, l’ha chiamata aiuto e non lavoratrice, e non semplicemente aiuto, bensì aiuto che sia corrispondente.

Nel , nel Lascito spirituale a mio figlio, anche l’insigne storico e statista russo Vasilij Nikolaevicˇ Tatišcˇev ritiene necessario indicare al figlio gli ideali morali e intellettuali che possano guidarlo nella vita. Innanzitutto, seguendo la tradizione educativa già esistente, esige dal figlio che dall’adolescenza fino alla vecchiaia pratichi la fede e si applichi a conoscere la volontà del Creatore, giacché questa è «l’unica luce al nostro cammino, una sapienza più preziosa dell’oro e dell’argento e delle gemme preziose»; inoltre, lo esorta a difendere «l’innocente dall’ingiustizia», a non vendicarsi su nessuno per un’offesa ricevuta, a giudicare ogni cosa «con giustizia, senza favoritismi e senza ira». Egli ritiene che l’Antico e il Nuovo Testamento siano il fondamento dell’educazione: «Dalla Bibbia imparerai la vera sapienza, nel Nuovo Testamento non troverai nulla che offra il benché minimo pretesto all’amor proprio e alle nostre passioni: non v’è qui piaggeria alcuna, ma ovunque risplende la verità». Vasilij Nikolaevicˇ espone anche le regole-guida per la vita familiare e sociale. Le qualità più importanti per una sposa erano a parer suo una buona disposizione d’animo, la ragionevolezza e la salute. Sui rapporti fra marito e moglie scrive: Ricordati che tua moglie non è la tua serva, ma la tua compagna, il tuo aiuto [...] e dedicati all’educazione dei figli insieme a lei; nella prosperità affidale la casa da governare, e tu stesso vigila senza farti prendere dalla pigrizia [...] conserva incrollabilmente amore e fedeltà alla moglie.

Consigliava inoltre di cercare di educare i figli «innanzitutto nel timor di Dio, poi secondo le convenienti discipline», rendendoli «in siffatta maniera giovevoli alla propria patria». Nel corso dei secoli la Chiesa ortodossa russa è rimasta la prima e più importante guida nell’educazione, i suoi maestri non hanno mai lasciato i genitori senza indicazioni. In un’antologia della seconda metà del XVII secolo, stampata e commentata da Lavrovskij nelle Opere dell’antica educazione russa, il compilatore del trattato ammonisce i genitori dicendo che l’amore ai figli dev’essere ragionevole. Evidentemente, anche allora i genitori mostravano delle debolezze nei confronti dei figli, e l’autore ritiene necessario metterli in guardia da tale errore:

La cultura pedagogica della famiglia ortodossa in Russia

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Conviene ai genitori avere per i figli un amore misurato. Come il vino, se assunto misuratamente, allieta e dona salute, mentre se si beve in eccesso priva del senno ed è causa di malattia; così l’amore dei genitori per i figli, è utile nella giusta misura [...] ma se eccede, fa danno ad entrambi: degli uni permette la depravazione, gli altri getta nella tristezza e nell’infermità per la depravazione dei primi.

Nella cultura pedagogica della famiglia ortodossa in Russia, per lungo tempo restarono in vigore sia il motivo veterotestamentario, abbastanza austero, sia quello neotestamentario. La propensione per l’uno o l’altro motivo nella scelta del metodo educativo dipendeva, a nostro avviso, dalla personalità dell’educatore, dalle peculiarità individuali del suo carattere e anche, a volte, dalla sua stessa educazione. Tuttavia l’ideale dell’educazione nella cultura pedagogica della famiglia ortodossa era quello evangelico, permeato di amore, di affidamento alla volontà divina, di umiltà. La società russa sotto la guida della Chiesa nel corso dei secoli imparò a comprendere e ad adempire il comandamento dell’amore al prossimo. L’amore al prossimo era inteso in primo luogo come compassione per i sofferenti, e la prima richiesta era di fare l’elemosina. Si prescriveva di compiere opere di misericordia corporale e spirituale. Una delle direttive principali dell’educazione familiare era sviluppare nei figli lo spirito di amore alla Chiesa, alle funzioni religiose, la consuetudine di osservare i precetti. «Non siate pigri nell’andare in chiesa», esortava il vescovo di Novgorod Luka Židjata (prima metà dell’XI secolo). I padri di famiglia e i padri spirituali infondevano ai propri figli la coscienza della necessità di digiunare e fare penitenza: «Risplenderà la primavera dell’astinenza, e il fiore della penitenza: purifichiamoci, fratelli, da ogni sangue carnale e sentimentale», scriveva il Monomach. L’educazione familiare ortodossa era volta a insegnare ai ragazzi l’umiltà e la mitezza. «Nei contrasti sii paziente, riponi la tua speranza in Dio», diceva Luka Židjata. «Nessuno infatti può farvi del male o uccidervi, se non è volontà di Dio», scriveva il Monomach. Simeon di Polock, scrittore religioso, teologo e pedagogo del XVII secolo, chiamava l’umiltà principio di tutte le virtù: «Lo splendore dell’anima cristiana viene dall’umiltà, su di essa si basano tutte le virtù»; «Infatti, come l’orgoglio è la fonte di tutti i mali, così l’umiltà è il principio di ogni virtù» (Il convito spirituale).

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Svetlana Divnogorceva

I rapporti coniugali e l’educazione dei figli nella famiglia ortodossa rispecchiavano dunque l’ideale della vita cristiana, cioè preparavano alla vita eterna attraverso un costante perfezionamento morale e spirituale. La Chiesa ortodossa russa elaborò una serie di importantissimi strumenti sacri per l’educazione morale e spirituale: l’osservanza dei comandamenti cristiani, l’educazione al senso di devozione e di venerazione per le cose sacre, la partecipazione alle celebrazioni liturgiche e ai sacramenti, la preghiera in chiesa e a casa, il digiuno, la penitenza, tutte cose che si imparavano attraverso la vita religiosa comune della famiglia. Nella famiglia ortodossa i figli vengono educati nell’obbedienza ai genitori, il miglior metodo educativo è considerato una ragionevole disciplina unita a un’atmosfera di amore vicendevole. Nella cultura pedagogica ortodossa il sacerdote, nella cura pastorale della famiglia, è chiamato a correggere alcuni errori dell’educazione familiare. Le tradizioni della struttura e della vita quotidiana della famiglia ortodossa, formatesi nell’arco di una millenaria evoluzione, sono oggi parte ineliminabile dei valori culturali della società russa. Nella cultura pedagogica della famiglia ortodossa in Russia si riflettono i seguenti ideali cristiani della bellezza: – la santificazione della famiglia mediante la grazia dello Spirito Santo attraverso il sacramento del matrimonio, che introduce un elemento di sacralità nella sua vita quotidiana; – il carattere “trinitario” della relazione fra marito e moglie (unità spirituale, intimità interiore e carnale), che si fonda sul rispetto e su un amore che non dà priorità all’istintività; sull’unione spirituale e sull’affinità di sensibilità che la rende indissolubile e costante; – il senso gerarchico nei rapporti fra i membri della famiglia ortodossa: il marito obbedisce al padre spirituale, la moglie al marito, i figli ai genitori. L’autorità del marito gli conferisce il dovere di curarsi non solo materialmente ma anche spiritualmente dei membri della famiglia; – l’educazione morale e spirituale dei figli, che nella famiglia ortodossa si basa sulla vita religiosa in comune, si esprime nel pregare insieme, sia in chiesa che a casa, nel digiuno, nella partecipazione alla liturgia, nella confessione, in pellegrinaggi, opere di misericordia e così via; – il legame fra la vita quotidiana della famiglia ortodossa e i cicli liturgici della Chiesa, giornaliero, settimanale e annuale, che le conferiscono ordine e ritmicità.

Uberto Motta*

Tra esperienza e desiderio. Il tema della bellezza nella Commedia di Dante

Il tema del desiderio attraversa tutta la Commedia di Dante, con un’intensità crescente, acquisendo massima rilevanza nel Paradiso. Il desiderio del personaggio protagonista dell’opera è costantemente proteso in avanti; il poeta ci si presenta a ogni passo della storia come animato da un duplice ed egualmente irrefrenabile desiderio, cifra specifica della sua identità e della sua vocazione: desiderio di Dio e desiderio della poesia, che a Dio consente di giungere. Il viaggio di Dante verso Dio è anche un viaggio verso e attraverso la poesia, la bellezza della poesia, che quel primo viaggio rende possibile. Al punto che, in Dante, l’esperienza mistica e quella estetica, l’esperienza cristiana e quella artistica si sommano fino a diventare indistinguibili. Il verbo latino desiderare, derivante da sidus (astro) tramite impiego del prefisso sottrattivo de, significa originariamente (nel linguaggio degli àuguri e degli indovini) ‘cessare di vedere’ (le stelle), e ‘sentire (di esse) la mancanza’, per l’impossibilità, senza il loro soccorso, di trarre gli auspici e ricavarne orientamento. Dietro al desiderio, dunque, per Dante c’è sempre l’esperienza di una perdita, di una alienazione, che coinvolge il rapporto tra il soggetto e il suo destino. L’uomo terreno è per lui fenomeno in attesa di compimento, bisognoso di futuro. Di qui il valore più esteso del termine: ‘desiderare’ è cercare l’assente, in base a una esigenza costitutiva del proprio essere che risolve il rimpianto in attesa, la speranza in tensione spirituale. In questo senso, desiderio ed esilio coincidono, come Dante trovava scritto nel De doctrina christiana di sant’Agostino (I, , -). * Université de Fribourg, CH. Spunti importanti e indispensabile documentazione, per la stesura di questo intervento, si sono desunti da L. Pertile, La punta del disio. Semantica del desiderio nella «Commedia», Cadmo, Firenze . 

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Dante utilizza come fossero complementari, se non addirittura sinonimi, i termini disio e voglia, desiderio e volontà («dilectio naturalis» e «dilectio electiva», secondo san Tommaso), designando con essi le due facoltà dell’anima razionale che armonicamente si traducono in tensione impulsiva dell’intelletto verso la verità e libera propensione del cuore per il bene. Esemplari risultano, ai due estremi del poema, Inf., V, - («Quali colombe dal disio chiamate / con l’ali alzate e ferme al dolce nido / vegnon per l’aere, dal voler portate») e Par., XXXIII,  («Ma non eran da ciò le proprie penne: / se non che la mia mente fu percossa / da un fulgore in che sua voglia venne. / A l’alta fantasia qui mancò possa; / ma già volgeva il mio disio e ’l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa, / l’amor che move il sole e l’altre stelle»). Perché dal suo punto di vista, desiderio di amare e desiderio di conoscere si intrecciano sempre. La ricerca intellettuale, logica e razionale, implica sempre il coinvolgimento delle emozioni e degli affetti, e non avviene a discapito di essi. Il viaggio inizia quando il desiderio di Dante s’identifica con la volontà di Virgilio, e termina quando arriva a coincidere perfettamente con la volontà di Dio. Il sintagma alto disio compare due volte nel Paradiso: «Il tuo alto disio / s’adempierà in su l’ultima spera, / ove s’adempion tutti li altri e ’l mio» (XXII, -) e «L’alto disio che mo t’infiamma e urge, / d’aver notizia di ciò che tu vei, / tanto mi piace più quanto più turge» (XXX, -). L’aggettivo è impiegato per qualificare l’intensità psicologica del desiderio di vedere e conoscere, ma anche per identifi Sui rapporti tra sapere e amare in san Tommaso, dove i due piani sembrerebbero più distinti che in Dante – per influsso, su quest’ultimo, delle istanze francescane –, M. Sherwin, By Knowledge and by Love. Charity and Knowledge in the Moral Theology of St. Thomas Aquinas, Catholic University of America Press, Washington D.C. .  La sistematicità delle evocazioni delle colombe nella Commedia – da quelle portate dal proprio istinto amoroso di Inf. V ai colombi di Par., XXV, -, che traducono i propri sentimenti in un moto di reciproca affezione –, è illustrata da R.A. Shoaff, Dante’s ‘colombi’ and the Figuralism of Hope in the Divine Comedy, in «Dante Studies», , , pp. -.  Di qui in avanti le citazioni dal poema sono tratte da Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. Petrocchi,  voll., Le Lettere, Firenze . Per l’indispensabile corredo esegetico, si è fatto uso capillare di Dante Alighieri, Commedia, con il commento di A. M. Chiavacci Leonardi,  voll., Mondadori, Milano - (= Chiavacci Leonardi), e La Commedia di Dante Alighieri, con il commento di R. Hollander, a cura di S. Marchesini,  voll., Olschki, Firenze  (= Hollander).

Il tema della bellezza nella Commedia di Dante

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care la direzione della sua forza dinamica. È un bisogno di certezza, di perfetto compimento della propria sete, che attira e spinge il disio – «parola dominante della poesia e della vita di Dante» – verso «cose alte, sublimi». Perciò il suo opposto è la bassa voglia di Inf., XXX,  («ché voler ciò udire è bassa voglia»), la smania vile, e avvilente, che appesantisce il cuore dell’uomo e gli impedisce di volare. Le due espressioni, bassa voglia e alto disio, sono gli estremi di una polarità verticale dentro cui si iscrive il poema, itinerario di educazione e conversione dalla cupidigia incontinente e insaziabile, «connessa a tutti gli appetiti incontrollati» («e ha natura sì malvagia e ria, / che mai non empie la bramosa voglia, / e dopo ’l pasto ha più fame che pria», Inf., I, -), alla carità, quale forma di generosa corrispondenza nei confronti di ogni desiderio buono, quale nuova opportunità di comunicazione interpersonale, in cui si rispecchia l’uniformarsi della volontà umana a quella divina (ne riferisce, icasticamente, la «vergine sorella» Piccarda: «La nostra carità non serra porte / a giusta voglia, se non come quella / che vuol simile a sé tutta sua corte», in Par., III, -). Il termine dubbio – ha osservato Lino Pertile –, che nell’Inferno ha sempre connotazioni negative, assume nel Paradiso una funzione positiva, come elemento psicologico che attiva la ricerca e genera la conoscenza. In Par., IV, - Dante dice: la meta dei nostri desideri è come la tana per gli animali. Noi non troviamo riposo fino a che non la raggiungiamo. Il dubbio è quell’inappagamento che da ogni esperienza presente di verità e bellezza fa germogliare il desiderio di qualcosa di più. È il dubbio che produce il desiderio, quella tensione, insieme affettiva e intellettuale, che nasce dall’esperienza dolorosa di una carenza: Io veggio ben che già mai non si sazia nostro intelletto, se ’l ver non lo illustra di fuor dal qual nessun vero si spazia. Posasi in esso, come fera in lustra, tosto che giunto l’ha; e giugner puollo:



Chiavacci Leonardi, III, p. . Hollander, I, p. , ricordando san Paolo ( Tm, , : «Radix malorum est cupiditas»), aggiunge: «È, dunque, il più comune dei peccati e, per la capacità che possiede di contagiare chiunque, è anche il più pericoloso».  Pertile, La punta del disio, cit., p. . 

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Uberto Motta

se non, ciascun disio sarebbe frustra. Nasce per quello, a guisa di rampollo, a piè del vero il dubbio; ed è natura ch’al sommo pinge noi di collo in collo.

Qui è forse descritto uno dei tratti più peculiari della poesia di Dante, della sua stessa vita, implacabilmente rinnovantesi fin tanto che non sia giunta alla verità ultima e suprema, come la fiera al suo covile. In lui ogni conquista estetica genera il dubbio circa il suo valore ultimativo, diventa la molla per chiedere di più: naturalisticamente, per la costituzione elementare e originaria della struttura umana, ogni traguardo costituisce l’occasione per ripartire, e il perpetuo germogliare del dubbio a piè del vero, anziché un difetto, è la virtù che risolve la vita in pellegrinaggio, fino al sommo della meta finale. Più sa, il poeta, più scopre che quel che sa non gli basta; più cresce e più ammette di avere bisogno (secondo la dinamica spiegata, su base aristotelica e tomistica, in Conv., IV, , : «L’uno desiderabile sta dinanzi all’altro alli occhi della nostra anima per modo quasi piramidale, che ’l minimo li cuopre prima tutti, ed è quasi punta dell’ultimo desiderabile, che è Dio, quasi base di tutti. Sì che, quanto dalla punta ver la base più si procede, maggiori apariscono li desiderabili; e questa è la ragione per che, acquistando, li desiderii umani si fanno più ampii, l’uno appresso dell’altro»). Questo è il segreto di Dante: il suo animo sempre commosso e inquieto, pieno di stupore e meraviglia, sempre colmo di ammirazione, ma – a dispetto dei propri dubbi – mai disperato, poiché sicuro che la grazia divina abilita ogni individuo alla soddisfazione dei propri desideri di verità e felicità. Il desiderio di Dante ha la medesima forza della passione amorosa, ardente e vibrante nel proprio inseguimento. Perché la meta del viaggio non si raggiunge se non si è innamorati, se non si è disposti a patire una persistente latitanza del proprio bene. È un’idea che Dante trovava formulata già, come è stato indicato da Pertile, in san Gregorio Magno, «il

 Tutte le citazioni da quest’opera sono tratte da Dante Alighieri, Convivio, a cura di F. Brambilla Ageno,  voll. in  tomi, Le Lettere, Firenze . Per il commento si è fatto riferimento anche a Dante Alighieri, Il Convivio, a cura di G. Busnelli e G. Vandelli, con introduzione di M. Barbi, II edizione a cura di A.E. Quaglio, Le Monnier, Firenze  (= Busnelli-Vandelli), e a Dante Alighieri, Opere minori, I-, a cura di C. Vasoli e D. De Robertis, Ricciardi, Milano-Napoli  (= Vasoli-De Robertis).

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dottore del desiderio»: il cuore del cristiano, assetato e affamato, è incalzato e pungolato dal proprio bisogno. Ciò che manca – aveva teorizzato san Bernardo, in De diligendo Deo, VII,  – è ciò che riempie di sé. La lontananza è un dono per chi cerca. Per Dante, dunque, la ‘conquista’ del Paradiso non comporta il venir meno dei desideri, la fine della sete e della fame: in cielo i desideri umani, invece che estinguersi, raggiungono la loro perfezione, il loro apice di intensità e forza. Desiderio è ardore, avidità, impazienza, audacia, e dura all’infinito. Questa è la gioia vera della contemplazione della bellezza, di cui parla san Bernardo, l’ultima guida di Dante verso l’appuntamento finale. In cielo saremo tutti a bocca aperta, come uccellini in permanente e ricambiata attesa: il desiderio occuperà interamente il nostro essere, sarà il catalizzatore di ogni energia. Nel Convivio (IV, , ) Dante scrive: Lo stupore è uno stordimento d’animo per grandi e maravigliose cose vedere o udire o per alcuno modo sentire: che in quanto paiono grandi, fanno reverente a sé quelli che le sente; in quanto paiono mirabili, fanno voglioso di sapere di quelle. E però li antichi regi nelle loro magioni faceano magnifici lavorii d’oro e di pietre e d’artificio, acciò che quelli che le vedessero divenissero stupidi, e però reverenti e domandatori delle condizioni onorevoli dello rege.

È qui analizzata la fenomenologia elementare dell’esperienza estetica. La bellezza per Dante si riconosce dallo stordimento che ne deriva, dal fatto che essa impone ammirazione e riverenza, e obbliga il cuore a chiedersi qual è il suo segreto, a desiderare e domandare ciò che si nasconde dietro. Lo aveva affermato anche Aristotele nella Metafisica (I, , b): la vera filosofia nasce sempre dall’ammirazione, dalla sorpresa che, anziché rimanere paralizzata su sé medesima in una forma di steri-

 Pertile, La punta del disio, cit., p. . Inoltre: J. Leclercq, Cultura umanistica e desiderio di Dio, Sansoni, Firenze , e P. Catry, Désir et amour de Dieu chez Grégoire le Grand, in «Recherches augustiniennes», , , pp. -.  Sui rapporti tra san Bernardo e Dante esiste una ricca bibliografia; si ricordano solo M. Aversano, San Bernardo e Dante. Teologia e poesia della conversione, Edisud, Salerno , e S. Botterill, Dante and the Mystical Tradition. Bernard of Clairvaux in the «Commedia», Cambridge University Press, Cambridge .  Pertile, La punta del disio, cit., p. .

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le sbalordimento, genera, insieme, devozione e desiderio di sapere, traducendosi in ricerca intellettuale (così san Tommaso, Summa theol., III, q. , art. .: «Admirans refugit in praesenti dare iudicium de eo quod miratur, timens defectum; sed in futurum inquirit. Stupens autem timet et in praesenti iudicare, et in futuro inquirere. Unde admiratio est principium philosophandi, sed stupor est philosophicae considerationis impedimentum»). Si tratta di uno dei capitoli più intriganti della cultura poetica europea del XIII secolo: il rapporto fra desiderio di Dio, di bene e verità, e passione per la bellezza. Come viene affrontato da Dante il problema? Si può rilevare, innanzi tutto, che l’Inferno, a cui approdano le esistenze tragicamente fallite, è il luogo della bruttezza: immenso archivio storico dei mali e degli orrori del mondo. Proprio per questo all’inizio del Purgatorio la mutata disposizione si traduce subito in una scoperta. Elementare ma fondamentale: la bellezza del cielo. L’Inferno finisce con Lucifero, «lo ’mperador del doloroso regno» (Inf., XXXIV, ), una figura disumana e orripilante che Dante descrive nei suoi spaventosi dettagli, con oggettiva e impersonale minuziosità. È l’anti-Dio, il re del brutto opposto al Signore fonte di ogni bellezza: l’effigie spaventosa, e al tempo stesso colossale, del nemico. Era stato l’angelo più splendente di tutti («la creatura ch’ebbe il bel sembiante» di v. : «e mai come in questo punto – chiosa Singleton – il passato remoto italiano ha espresso tutta la forza che gli è propria»), ed ora, trasformato in tragica creatura dalla sua superbia, è serrato per l’eternità in una morsa di ghiaccio. Le sei splendide ali dei Serafini – l’ordine angelico più elevato – sono divenute tre paia di enormi ali di pipistrello, che escono di sotto alle tre facce del mostro, producendo una corrente che costituisce l’ironica negazione di quel soffio d’Amore «che move il sole e l’altre stelle» (Par., XXXIII, ). Aggiunge Dante (vv. -): «S’el fu sì bel com’elli è ora brutto, / e contra ’l suo fattore alzò le ciglia, / ben 

Riportato in Busnelli-Vandelli, p. . Ma si veda anche G. Stancato, Le concept de désir dans l’œuvre de Thomas d’Aquin, Vrin, Paris , p. .  A. Illiano, Sulle sponde del Prepurgatorio. Poesia e arte narrativa nel preludio all’ascesa («Purg.» I-III ), Cadmo, Firenze .  G. Petrocchi, Il canto XXXIV dell’«Inferno», in Id., Itinerari danteschi, premessa e cura di C. Ossola, Franco Angeli, Milano , pp. -.  C. Singleton, La poesia della Divina Commedia, Il Mulino, Bologna , pp. -.

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dee da lui procedere ogni lutto». E perciò è stato possibile vedere in «Lucifer, who emits no sound but sends forth a silent and freering wind of hate, a parody perhaps of the love-inspiring tongues of flame brought to the Apostles by the Holy Spirit». Per arrivare all’eterna luce, bisogna passare di qui: dalla fonte e culmine di ogni male; paradossalmente, è l’esperienza di un simile abisso di bruttezza a purificare lo sguardo del pellegrino, e a liberarlo per sempre dal macabro potere seduttivo delle tenebre, così che egli possa «ritornar nel chiaro mondo» «de le cose belle» (Inf., XXXIV,  e ). Perché, come ha spiegato Singleton, «il Male non ha un’esistenza positiva o assoluta, e l’occhio di un poeta cristiano non attribuirà ad esso tale valore. Il Male è solo negazione dell’unico Assoluto che è il Bene». Facendosi scala del corpo di Lucifero, Dante e Virgilio iniziano la risalita, per arrivare sulla spiaggia del Purgatorio, con cui si apre la seconda parte del poema. S’intende così il significato profondo dell’aggettivo oscura che qualifica la selva in cui il protagonista si trova smarrito all’inizio dell’opera. Il peccato, in Dante, a partire da quello originale è, storicamente, un’infrazione ai danni della bellezza, ai danni del significato autentico del creato, secondo la dialettica antitesi tra luce e tenebre, bene e male, di derivazione evangelica, che percorre il poema. Il Purgatorio si apre con una novità: il mondo infernale, col suo carico di drammatiche sofferenze, è ormai alle spalle. E agli occhi di Dante la prima cosa che si impone è il cielo: il colore del cielo, la sua luce limpida e preziosa (Purg., I, -), che genera un’emozione immediatamente tradotta in sospiro di felicità. La bellezza del cielo è metafora del mondo nuovo: primo annuncio di una gioia più durevole, generata dalla Grazia di Dio. L’azzurro del cielo è l’emblema della novità: della speranza, della fiducia e della pace che si riaffacciano nel cuore di chi inizia a percorrere con fervore la via che conduce al compimento di ogni desiderio.

 Su questo dettaglio: B. Nardi, Il canto XXXIV dell’«Inferno», in Id., «Lecturae» e altri studi danteschi, a cura di R. Abardo, Le Lettere, Firenze , pp. -.  J. Ferrante, The Relation of Speech to Sin in the «Inferno», in «Dante Studies», , , p. .  Singleton, La poesia, cit., p. .  J. Bartuschat, Canto I, in Lectura Dantis Turicensis. Purgatorio, a cura di G. Güntert e M. Picone, Cesati, Firenze , p. . Ma resta fondamentale, intorno a questo passaggio del poema dantesco, il contributo di E. Raimondi, Rito e storia nel I canto del

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Il Purgatorio di Dante, per questo, è il luogo in cui la bellezza si presenta reiteratamente, sotto forma di visioni e suoni, di parole e di colori, come acqua che disseta e, al tempo stesso, accresce la sete, «nella dialettica di morte e rinascita, di sterilità e fioritura» che regola i tempi della seconda cantica. L’esperienza della bellezza, scevra da ogni brama di possesso, è la terapia che genera la piena riscoperta del desiderio di Dio: desiderare Dio e desiderare come Dio desidera. In questo senso è una esperienza dolorosa. La bellezza fa male, fa anche male: perché rieduca e converte il cuore, liberandolo da ciò che impedisce di vedere veramente. L’esperienza della bellezza restituisce l’innocenza. È indispensabile perché gli uomini già peccatori possano essere ammessi al regno celeste, dove i desideri, come si è detto, non sono estinti ma rinnovati. Di fatto il Paradiso dantesco parla solo di questo. Di un uomo che è ormai solo desiderio di testimoniare il proprio silenzio di fronte alla fonte trascendente e ineffabile, da cui ogni bellezza deriva, e in cui ogni bellezza ha il proprio fondamento. Perciò, nel corso del Paradiso, la ricerca di sempre nuove arditezze espressive ha una valenza mistica. Già Aristotele nel I libro dell’Etica Nicomachea aveva sottolineato che la felicità consiste nel raggiungere ciò che si desidera: e nello stesso paragrafo egli aveva poi registrato come la bellezza sia indispensabile all’uomo per essere felice (I, , b-a). Dante riprende e ridiscute la questione nel Convivio (IV, , -) a partire dal medesimo assunto: la bellezza è necessaria alla buona vita e ne è, insieme, la conseguenza. La bellezza fisica, dice Dante, è innanzi tutto ordine e armonia, grazia ed eleganza, un equilibrio e una dolcezza che si impongono allo sguardo e suscitano meraviglia: L’ordine debito delle nostre membra rende uno piacere non so di che armonia mirabile, e la buona disposizione, cioè la sanitate, getta sopra quelle uno colore dolce a riguardare. E così dicere che la nobile natura lo suo corpo abelisca e faccia conto e accorto, non è altro a dire se non che l’aconcia a perfezione d’ordine, e, co[sì questa come l’]altre cose che ragionate sono, appare essere necessarie all’adolescenza: le quali la nobile anima, cioè la

«Purgatorio», in Id., Metafora e storia. Studi su Dante e Petrarca, Einaudi, Torino , pp. - (poi Aragno, Torino , pp. -, da cui si cita).  Raimondi, Rito e storia, cit., p. .

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nobile natura, [dà, e] ad esse primamente intende, sì come cosa che, come detto è, dalla divina providenza è seminata.

Solo ciò che è sano è bello: questo è il concetto decisivo, di derivazione ciceroniana (De officiis, I, , : «Ut venustas et pulchritudo corporis secerni non potest a valetudine, sic hoc, de quo loquimur, decorum totum illud quidem est cum virtute confusum, sed mente et cogitatione distinguitur»). Per Dante, quindi, la bruttura è sempre la conseguenza di una malattia, di un deficit materiale e spirituale, di un virus che inquina e contamina la realtà: perché questa, invece, è di per sé (quando è sana: quando è fedele alla sua vocazione e natura) sempre bella, poiché misteriosamente partecipe dell’essenza stessa di Dio. La bellezza e il desiderio di bellezza – conclude Dante – sono un seme che la divina provvidenza mette nel cuore di ogni uomo, in ogni angolo del mondo. E in questo consiste la nobiltà del creato: mentre il peccato è, essenzialmente, un tradimento di tale destinazione. Rispetto ad Aristotele e Cicerone, però, nel canto XV del Paradiso (vv. -) Dante aggiunge un’osservazione interessante: Ma voglia e argomento ne’ mortali, per la cagion ch’a voi è manifesta, diversamente son pennuti in ali; ond’io, che son mortal, mi sento in questa disagguaglianza, e però non ringrazio se non col core a la paterna festa.

Negli uomini la capacità di desiderare (la voglia o affezione) è molto più forte della facoltà di realizzare da sé i propri desideri con lo strumento (argomento) dell’intelletto che opera per mezzo della parola. Questa dolorosa disagguaglianza – come la chiama Dante – è una sproporzione che a ognuno tocca di misteriosamente subire, senza riuscire a coglierne la ragione; essa, anzi, identifica la condizione o esperienza tipica del cristiano, che, per quanto afferma san Bernardo, può sì desiderare, ma solo grazie a qualcun altro può colmare la propria sete. Solo l’intervento gratuito di Dio può realizzare il felice e perfetto equilibrio (equalità si legge in Par., XV, ) tra affetto e intelligenza, tra corpo e anima, a cui Dante ha aspirato per tutto il poema. E questa, solo questa è la vera bellezza, postulata dall’estetica cristiana: «summa aequalitas»,

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afferma Riccardo di San Vittore (De Trinitate, VI, ), «ubi oportet omnes aeque perfectos esse». Nel De virginitate (XVII, ) sant’Ambrogio esorta i cristiani a non essere pigri, a non accontentarsi mai nella ricerca della bellezza, perché il desiderio acquista forza e virtù quanto più viene esercitato. E san Bernardo, nei Sermones in Cantica (XXXII, ), aggiunge: il cuore dell’uomo, sollevato dalle ali del desiderio, segue la bellezza amata dovunque («Et hoc tamdiu necesse est pati dilectam, donec, semel posita corporeae sarcina molis, avolet et ipsa levata pennis desideriorum suorum, libere iter carpens per campos contemplationis, et mente sequens expedita dilectum quocumque ierit»). Tutta l’esperienza del Paradiso consiste in un progressivo appressamento all’oggetto dei propri desideri. Desiderio di Dio, desiderio di verità, desiderio di bellezza per Dante coincidono. Sotto il segno non dell’immobilità ma del dinamismo, non della fissità atemporale, ma del divenire storico. Si dipana, nel Paradiso di Dante, il desiderio di sperimentare Dio come amore, e il desiderio di vederLo come bellezza e verità. Sono forme di contemplazione già individuate da san Bernardo (Sermones in Cantica, XLIX, : «Cum enim duo sint beatae contemplationis excessus, in intellectu unus et alter in affectu, unus in lumine, alter in fervore, unus in agnitione, alter in devotione»): l’una affettiva e l’altra intellettuale. Ad un certo momento (Par., XXVIII, -), Dante sembra anzi suggerire, in base alla dottrina di san Tommaso (Summa theol., I-II, q.  art. : «non enim diligitur nisi cognitum»), che all’amore si arriva nel tempo solo attraverso la conoscenza. Noi possiamo volere solo ciò che abbiamo già ammirato, poiché la fonte dell’amore è la visione, che «si fonda sull’atto della mente che intende»: Quinci si può veder come si fonda l’esser beato ne l’atto che vede, non in quel ch’ama, che poscia seconda; e del vedere è misura mercede,

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Hollander, III, p. . Pertile, La punta del disio, cit., p. . Cfr. inoltre D. Boquet, L’ordre de l’affect au Moyen Age, Publ. du CRAHM, Caen .  Chiavacci Leonardi, III, p. . 

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che grazia partorisce e buona voglia: così di grado in grado si procede.

Ma nella pratica del testo le due forme (intelletto e amore) sono sistematicamente intrecciate: «l’una ha una funzione complementare all’altra, e insieme formano un atto totale», per cui la beatitudine della visione della bellezza assoluta è ottenuta nella misura in cui viene desiderata, tramite il simultaneo concorso di grazia divina e libera volontà. L’impiego del linguaggio dell’amore mistico per connotare la tensione del cuore in cerca della verità è il tratto più originale e ardito del Paradiso. In XXX, - Dante descrive come bevve al fiume di luce che promana da Dio con i suoi occhi: «e sì come di lei bevve la gronda / de le palpebre mie, così mi parve / di sua lunghezza divenuta tonda». La sinestesia (bere con gli occhi) compare già nei Moralia di san Gregorio Magno (XVIII, , : «Quae nimirum visio nunc fide inchoatur, sed tunc in specie perficitur, quando coaeternam Deo sapientiam, quam modo per ora predicantium quasi per decurrentia flumina sumimus, in ipso suo fonte biberimus»), e documenta retoricamente come qui contemplazione e amore coincidono, ragione e affezione si fondono. La speranza, la promessa che è nel cuore dell’uomo raggiunge simile traguardo (XXX, -: «ma di quest’acqua convien che tu bei / prima che tanta sete in te si sazi»): ritrova l’unità e l’identità di conoscenza e felicità sotto il segno della bellezza, come forma di una esperienza fisica, e al tempo stesso mentale, che coinvolge e sconvolge tutto l’essere a partire dal suo sguardo. «Dante ‘beve’ il ‘battesimo’ con le ciglia [...]: il tempo è divenuto per lui eternità; la storia ha raggiunto il proprio compimento nella rivelazione. La linearità che caratterizzava la prospettiva sul mondo è divenuta la circolarità della perfezione». Il potere della bellezza – beatitudine della visione – ferma il respiro del mondo e lo incanta: la realtà non scompare, ma viene per la prima volta fino in fondo compresa. Quel che Dante vive è dichiarato con precisione: «me sormontar di sopr’a mia virtute; / e di novella vista mi raccesi» (XXX, -). Sconfitto e invaso dalla luce divina, egli cresce, sviluppando ogni propria facol

Singleton, La poesia, cit., p. . Pertile, La punta del disio, cit., p. .  Hollander, III, p. . 

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tà, e percepisce nella realizzazione estetica la grammatica misteriosa dell’essere. È una esperienza, oltre che inebriante, dura e faticosa. Perché pure di questo parla a lungo il Paradiso: della fatica, anzi della battaglia de’ debili cigli (Par., XXIII, ) che l’uomo deve sostenere per educare e irrobustire il suo sguardo, per far crescere la sua capacità di vedere davvero come Dio vede, e attingere così alla vera bellezza. Si tratta di uscire da sé per diventare più grandi, per imparare a osservare e giudicare davvero, nutrendosi di un cibo soprannaturale: «Come foco di nube si diserra / per dilatarsi sì che non vi cape, / e fuor di sua natura in giù s’atterra, / la mente mia così, tra quelle dape / fatta più grande, di sé stessa uscìo, / e che si fesse rimembrar non sape» (Par., XXIII, -). Lo smemoramento (ossia, l’impossibilità di razionalizzare logicamente i termini del proprio vissuto) non cancella però, o neutralizza, gli effetti di questa vittoriosa lotta del soggetto con se stesso; «è una trasformazione della capacità ricettiva [...] dell’intelletto che si adegua al nuovo oggetto più potente della sua natura». E infatti Beatrice dice a Dante (vv. -): «Apri li occhi e riguarda qual son io; / tu hai vedute cose, che possente / se’ fatto a sostener lo riso mio». La bellezza richiede intimità, tempo, forza. Non è nutrimento che si possa apprezzare di sfuggita: si gusta solo tramite un amore devoto e assolutamente innocente. C’è una similitudine, in Par., XXX, -, che impressiona: Non è fantin che sì sùbito rua col volto verso il latte, se si svegli molto tardato da l’usanza sua, come fec’io, per far migliori spegli ancor de li occhi, chinandomi a l’onda che si deriva perché vi s’immegli.

Ci si aspetterebbe, forse, che Dante, giunto pressoché alla fine del suo viaggio, conosca finalmente la pace, la quiete di una imperturbabile beatitudine. E invece, per descrivere la propria reazione commossa alla bellezza del fiume di luce a cui si trova davanti, egli dice: mi ci sono buttato con l’irruenza con cui un neonato affamato si rivolge al seno 

A. Gagliardi, Sulle tracce del pipistrello, in Esperimenti danteschi. Paradiso , a cura di T. Montorfano, Marietti, Genova-Milano , p. .

Il tema della bellezza nella Commedia di Dante

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materno. È immagine di una fisicità e sensualità straordinarie, che testimonia il tratto irriducibile della vera bellezza. Per quanto infinite e sempre nuove appaiano le forme del suo manifestarsi agli uomini, essa è per sua stessa natura irresistibile. È un richiamo veemente che ci tocca nella carne, che pungola il nostro più radicale desiderio e ci induce al più fiducioso abbandono. La bellezza, umiliandoci col suo potere, ci redime e ci salva. Ma di quale bellezza stiamo parlando? La risposta si trova in Par., XXXIII, -: «Nel suo profondo vidi che s’interna, / legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna: / sustanze e accidenti e lor costume / quasi conflati insieme, per tal modo / che ciò ch’i’ dico è un semplice lume». La bellezza sublime di Dio è il misterioso e purissimo concentrato di tutte le occasioni di bellezza che si squadernano agli occhi dell’uomo nell’universo sensibile. Ovvero: il mondo materiale, esteso nel tempo e nello spazio, è per Dante la declinazione ricchissima, infinita, e per ciò frammentaria e comunque parziale, di un unico verbo. Per cui ogni episodico brandello consente di riconoscere, predicata in esso, la sua matrice reale, il soffio divino da cui è stato forgiato, ricavandone il proprio ordine e il proprio senso. Viene così affermata «l’assunzione nell’amore di Dio di tutta la realtà, con le sue contraddizioni aspre, con le sue ingiustizie e le sue dissonanze, che Dante ha così intensamente sofferto e denunciato lungo il corso difficile della sua vita». La questione ha un elementare risvolto linguistico che ora giova almeno sveltamente menzionare. Già nella Vita Nova (XVI, ) Dante aveva introdotto la rivoluzionaria definizione di «poete volgari», ed affermato che «dire per rima in volgare tanto è quanto dire per versi in latino, secondo alcuna proportione», così riconoscendo alla poesia moder La premessa dell’invenzione, come allegato in Dante Alighieri, La Divina Commedia, commentata da G.A. Scartazzini e G. Vandelli, Hoepli, Milano , p. , è forse in un passo della prima lettera di Pietro (, ): «sicut modo geniti infantes, rationale sine dolo lac concupiscite, ut in eo crescatis in salutem».  Su fonti e implicazioni di questo passo: A. Battistini, L’universo che si squaderna: cosmo e simbologia del libro, in «Letture Classensi», , , pp. -, e G. Güntert, Canto XXXIII, in Lectura Dantis Turicensis. Paradiso, a cura di G. Güntert e M. Picone, Cesati, Firenze , pp. -.  L. Azzetta, La geometria e il volto, in Esperimenti danteschi. Paradiso , cit., p. .

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na una dignità pari a quella classica. Nel Convivio aveva tuttavia registrato che, poiché il latino, «perpetuo e non corruttibile», sembrerebbe più «nobile» del volgare, «non stabile e corruttibile» (I, , ), tocca appunto ai poeti, e alla poesia – tessitura verbale armonicamente configurata –, di conferire stabilità, ovvero valenza artistica e intrinseca bellezza (claritas secondo la concezione tomistica), all’idioma dell’uso, arginandone con la grammatica e la retorica l’incessante mutabilità. Dante non ha scritto dunque la Commedia in latino, come sarebbe stato possibile e forse anzi auspicabile per la cultura del suo tempo, e ha scelto – controcorrente – di dedicarsi con preveggenza quasi profetica al volgare («vulgare inlustre», secondo la formula di De vulgari eloquentia, II, , ), oltre che per varie altre ragioni (insieme sociologiche, politiche e stilistiche: come ultimamente dimostrato da Marco Santagata), anche perché l’esperienza che egli vuole narrare – il supremo incontro dell’uomo con la bellezza – è radicata nella storia, ed è dunque con la lingua mutevole (e corruttibile) della storia, del qui e ora, che se ne deve parlare (se pure quella lingua elevando al piano «cardinale, aulicum et curiale» teorizzato in De vulgari eloquentia, I, , ). Perché con l’incarnazione del Verbo, secondo la concezione cristiana del mondo, nella realtà terrena, pur contingente e fragile, viene posto un germe per cui tutto ciò che è mortale e caduco partecipa dell’eterno, o è comunque passibile di tale promozione. Che in effetti la bellezza della poesia di Dante consista nel suo realismo, nella sua disponibilità ed accoglienza nei confronti della realtà, per cui non c’è aspetto del tempo e dello spazio che (per quanto grottesco o repellente) non possa essere poeticamente nominato, rappresentato in modo esatto e schietto, è la tesi che, nel corso del Novecento, molti hanno con vario tono sostenuto, tra cui, esemplarmente, Auerbach, il quale in ciò aveva scorto il cuore della sua visione cristiana del mondo. Di questa tesi bisognerà allora trarre tutte le conseguenze. E riconosce

Dante Alighieri, Vita Nova, a cura di G. Gorni, Einaudi, Torino , pp. -. Cfr. P.V. Mengaldo, Introduzione a Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, Antenore, Padova , pp. L-LXXVII.  M. Santagata, L’io e il mondo. Un’interpretazione di Dante, Il Mulino, Bologna , pp. -.  E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino , I, pp. -. 

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re che per Dante quanto più si sale verso il Paradiso, verso l’oltremondo e l’oltretempo, tanto più cresce la disponibilità a riscoprire, con commozione, tutta la bellezza della dimensione evenemenziale. Perché l’esperienza terrena costituisce per ciascuno il fondamento dell’incontro con il Verbo incarnato, con il Dio presente. Tutta la creazione è per Dante – scriveva già Auerbach in Mimesis – una continua moltiplicazione e irradiazione del moto amoroso divino, e in ciò consiste la ragione prima della sua bellezza. In Par., XIII, - si legge: Ciò che non more e ciò che può morire non è se non splendor di quella idea che partorisce, amando, il nostro Sire; ché quella viva luce che sì mea dal suo lucente, che non si disuna da lui né da l’amor ch’a lor s’intrea, per sua bontate il suo raggiare aduna, quasi specchiato, in nove sussistenze, etternalmente rimanendosi una.

«L’universo creato è metaforicamente un riflesso del Verbo, o idea divina, in quanto tutti gli archetipi o esemplari delle cose esistenti sono originariamente nella mente di Dio», e vengono da Lui generati con un atto d’amore; la dottrina «dell’indivisa unità divina da cui procede il molteplice» è «derivata dalla filosofia neoplatonica», e dalla teologia cristiana riplasmata in armonia con il dogma trinitario, secondo una delle tessere più vive e feconde nella fantasia dantesca. Il motivo è ripreso nel canto più semplice e intimo del Paradiso, il XXIII, dove si assiste al trionfo di Cristo e all’incoronazione di Maria da parte dell’arcangelo Gabriele. La poesia di Dante tocca qui il suo culmine di naturale incanto, lasciando da parte ogni complicazione filosofica o teologica, morale o politica. Nuda poesia, restituzione del puro fascino di una esperienza unica: testimonianza sulla profonda gioia che si effonde dal grembo di Maria, dalla maternità divina che generò il redentore, sospirato e atteso nei secoli: «l’alta letizia che spira del

 Chiavacci Leonardi, III, pp. -. Ma su questo passo cfr. anche R. Fasani, Canto XIII, in Lectura Dantis Turicensis. Paradiso, cit., pp. -, e C. Moevs, The Methaphysics of Dante’s «Comedy», Oxford Univeristy Press, Oxford , p. .

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ventre / che fu albergo del nostro disiro» (vv. -). La bellezza più alta e la felicità più profonda emanano dal respiro, dal battito di quel ventre in cui è stato concepito (fatto carne) l’oggetto di tutti i nostri desideri. Lo splendore di Cristo è allora paragonato da Dante a quello della luna piena in un cielo sereno (vv. -): Quale ne’ plenilunïi sereni Trivïa ride tra le ninfe etterne che dipingon lo ciel per tutti i seni, vid’i’ sopra migliaia di lucerne un sol che tutte quante l’accendea, come fa ’l nostro le viste superne; e per la viva luce trasparea la lucente sustanza tanto chiara nel viso mio, che non la sostenea.

Il notturno è trasparente dimostrazione della visibilità della bellezza divina; ma la comparazione di Cristo sole del mondo alla femminile luna, rappresentata come il fiore più luminoso di un prato trapunto di stelle, è motivata da una carica affettiva profonda, che s’innesta sulla fitta trama dei rimandi intertestuali evidenziati da Perugi. La notte, infatti, è il simbolo materno per eccellenza, dal quale sorge e al quale ritorna ogni giorno il sole con la sua luce. La notte allude dunque al grembo di Maria, albergo di Cristo. Auerbach a questo proposito osserva: per la coscienza di Dante «è la verità della dottrina razionale che genera l’immagine sensibile e le dà vigore»; recepire la bellezza della circostanza pratica e dimenticarsi di ciò che la fonda è come – dice Auerbach – rubare «lo zibibbo dalla torta» e scordarsi della torta stessa («l’apparenza» del fatto – chiosa ancora lo studioso – «per bella che sia, serve a comunicare un contenuto» che la trascende, «e soltanto dal 

Sulla particolare bellezza evocata da Dante in relazione a Maria, quale vertice sublimante della femminilità, si vedano le considerazioni di E. Fumagalli, Sulla preghiera di san Bernardo alla Vergine madre, in Id., Il giusto Enea e il pio Rifeo. Pagine dantesche, Olschki, Firenze , pp. -.  A. Scaglione, Imagery and Thematic Patterns in «Paradiso» XXIII, in From Time to Eternity. Essays on Dante’s «Divine Comedy», a cura di T.G. Bergin, Yale University Press, New Haven , pp. -.  M. Perugi, Canto XXIII, in Lectura Dantis Turicensis. Paradiso, cit., pp. -.  Pertile, La punta del disio, cit., pp. -.

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contenuto si deve provare se l’incanto dei sensi è surrettizio o legittimo»). Il paesaggio lunare – ossia, ogni concreta esperienza di bellezza a cui l’uomo, nel tempo e nello spazio, può accedere – è presenza e testimonianza che, per induzione, dichiara la realtà di una destinazione infinitamente più dolce e appagante. Acuendo il nostro desiderio, l’accadimento terreno è garanzia e promessa della soddisfazione. Si tratta di una verifica estetica che non nega o riduce in alcun modo il ruolo della ragione. La ragione, per Dante, è più che mai necessaria in questo sforzo di avvicinamento alla suprema bellezza: in Paradiso, nell’uomo liberato dalla schiavitù, ragione e amore, intelligenza e volontà operano in un rapporto di reciproca intensificazione. Mente, cuore e occhi, al cospetto della bellezza, sono simultaneamente coinvolti. Si prenda Par., XXVIII, -: Come rimane splendido e sereno l’emisperio de l’aere, quando soffia Borea da quella guancia ond’è più leno, per che si purga e si risolve la roffia che pria turbava, sì che ’l ciel ne ride con le bellezze d’ogne sua paroffia; così fec’ïo, poi che mi provide la donna mia del suo risponder chiaro, e come stella in cielo il ver si vide.

Per arrivare alla bellezza occorre che il vento spazzi via tutte le incrostazioni che turbano il nostro sguardo. Similitudine analoga, come rilevato dai commentatori, ricorre nel primo libro della Consolatio Philosophiae di Boezio, allorché il protagonista, liberato dalle «nebulis tristitiae», innalza un inno alla luce della verità che ha inondato il suo intelletto; ma la parola usata da Dante – roffia – è molto rara (deriva dal longobardo hruf, ‘forfora’, ed è letterariamente già attestata nell’antico francese), e indica propriamente le desquamazioni della lebbra, nonché ogni forma di sudiciume e immondizia, come le scorie e i rifiuti in genere. Non è difficile cogliere, dunque, il significato simbolico, anzi  E. Auerbach, Dante poeta del mondo terreno, in Id., Studi su Dante, Feltrinelli, Milano , p. .  M. Picone, Canto XXVIII, in Lectura Dantis Turicensis. Paradiso, cit., pp. -.  Famosa, per la rima roffia : paroffia e per il riconosciuto «incanto» del brano,

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catartico (oltre che storico), di questa allusione: solo aprendo la nostra mente e il nostro cuore al mite soffio dello Spirito potremo riconquistare la sanità che consente di vedere lo splendore che ci chiama a sé. Il tirocinio previsto da Dante è tutt’altro che agevole: è una liturgica purificazione, tanto dolorosa quanto necessaria, senza la quale il sorriso del mondo (splendido e sereno), riverbero del sorriso di Dio su di noi, non ci si svela. Come ha dimostrato Romano Guardini, la bellezza, per Dante, è essenzialmente una questione di luce. In Par., XXX, - scrive: «Luce intellettüal, piena d’amore; / amor di vero ben, pien di letizia; / letizia che trascende ogni dolzore». Secoli di pensiero e di esperienza sono sintetizzati in questa terzina «travolgente», splendida e perfetta, forse intraducibile. La bellezza si riconosce e descrive a partire dai suoi effetti: è una dolcezza che invade il cuore dell’uomo e, innamorandolo, lo provoca, lo chiama al bene. Dante usa tre parole: luce, amore, letizia, per dire che l’incontro con la ‘vera bellezza’ è l’esperienza più sublime che a un uomo possa toccare, incomparabilmente più dolce e squisita di ogni altra. La posizione dottrinale di Dante, a questo proposito, non differisce da ciò che avevano notato i più antichi scrittori cristiani, sulla base del pensiero greco. E può essere collegata, per esempio, a quanto si legge nel IV capitolo del De divinis nominibus dello pseudo Dionigi Areopagita: Il Bello soprasostanziale è chiamato Bellezza a causa della bellezza che da parte sua viene elargita a tutti gli esseri secondo la misura di ciascuno; essa che, come causa dell’armonia e dello splendore di tutte le cose, getta su tutti, a guisa di luce, le effusioni che rendono belli del suo raggio sorgivo, chiama a sé tutte le cose – donde appunto si dice anche Bellezza – e raccoglie in se stessa tutto in tutto.

l’esecuzione di G. Contini del , Un esempio di poesia dantesca (Il canto XXVIII del «Paradiso»), poi in Id., Un’idea di Dante, Einaudi, Torino , pp. - e .  R. Guardini, Il fenomeno della luce nella «Divina Commedia», in Id., Studi su Dante, Morcelliana, Brescia , pp. -.  Chiavacci Leonardi, III, p. .  Si cita l’originale greco nella trad. it. contenuta in Dionigi Areopagita, Tutte le opere, a cura di P. Scazzoso ed E. Bellini, Bompiani, Milano , p. .

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Dante fa proprio questo modello speculativo e, da poeta, ne scandaglia i risvolti comunemente sperimentabili. Perché la bellezza, dal suo punto di osservazione, non è che la manifestazione esterna, l’incarnazione vivente di un ardore spirituale, il quale – a propria volta – deriva da un movimento di tipo conoscitivo, commisurato, più che ai meriti individuali, alla grazia divina (così spiega Salomone in Par., XIV, -: «La sua chiarezza séguita l’ardore; / l’ardor la visïone, e quella è tanta, / quant’ha di grazia sovra suo valore»). Si provi a dirlo più chiaramente: la bellezza è per Dante l’espressione materiale di Dio nello spazio e nel tempo. È bello – fisicamente – ciò che dentro brucia d’amore, arde di carità e gratitudine: la bellezza non è dunque un talento acquisibile per singolare e autonoma capacità, ma un effetto, una pienezza che s’ottiene quando l’uomo consente alla Grazia a cui è chiamato. È bello chi sa dire di sì. Luce che non nega la materia, ma l’attraversa, la fa palpitare: santificazione e glorificazione della carne; questa è per Dante la bellezza. Forse nessun altro poeta ha mai espresso con tale leggerezza lo stato della sublime felicità che l’uomo sperimenta di fronte allo splendore della verità che trova spazio nel suo cuore. È – dice Dante (con una similitudine «domestica», simmetrica e speculare a quella di Par., XXX, - sopra citata) – come la condizione del neonato pieno di riconoscente trasporto per la mamma da cui ha appena attinto il nutrimento vitale: «E come fantolin che ’nver’ la mamma / tende le braccia, poi che ’l latte prese, / per l’animo che ’nfin di fuor s’infiamma; / ciascun di quei candori in su si stese / con la sua cima, sì che l’alto affetto / ch’elli avieno a Maria mi fu palese» (Par., XXIII, -). Lo splendore, cioè la bellezza, deriva per Dante dalla tensione fisica di chi si riconosce di tutto debitore, di tutto bisognoso e mendicante; è l’espressione di un senso di gratitudine incontenibile, proprio di chi (per conseguenza della grazia elargita a ogni uomo dal mistero dell’incarnazione) può chiamare la Vergine Maria mamma. Dal cuore esso giunge a far vibrare il volto e gli  U. Madison Sowell, «Paradiso» XIV, in Dante’s «Divine Comedy». Introductory Readings III: «Paradiso», a cura di T. Wlassics, University of Virginia Press, Charlottesville , pp. -.  Sulla semplice intimità del dimesso paragone, e sulle sue ragioni teologiche, nell’uno e nell’altro caso, ha scritto U. Bosco, Domesticità del «Paradiso», in Id., Altre pagine dantesche, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma , pp. -.

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atti: quale la prima stella che si accende nel cielo sereno, bellissima testimonianza di una luce che viene da altrove. Sono spettacoli per cui il mondo intero sorride. Ecco: questa potrebbe essere la prova indicataci da Dante per riconoscere la bellezza autentica di cui il cuore umano è in cerca. Il sorriso.



Per questo, cfr. Botterill, Dante and the Mystical Tradition, cit., pp. -.

Elizaveta Materova*

Alla ricerca della perfezione: la poesia del Rinascimento carolingio

Nella storia della letteratura medievale il periodo carolingio ha un posto speciale: è il periodo in cui la letteratura latina, perdute le proprie posizioni dopo la caduta dell’Impero romano, vive un nuovo, possente slancio. Nel periodo precedente a questo risveglio culturale, i cosiddetti “secoli bui” (VI-VIII sec.), in cui lo sviluppo culturale non tiene dietro a quello economico e sociale, nell’Europa romanica praticamente cessa di esistere la scuola di grammatica di tipo romano, sostituita dalla scuola episcopale o monastica, che rifiuta lo studio dell’eredità antica. In questo periodo il latino smette di essere la lingua parlata e in questa situazione non si leggono più gli autori classici, privando così la nuova letteratura di punti di riferimento, di modelli su cui poggiare. La poesia latina, pur non smettendo del tutto di esistere, si indebolisce molto. La letteratura non costituisce più un flusso unitario, le esperienze poetiche sono frammentate, i focolai letterari, distanti uno dall’altro, non hanno praticamente contatti. La situazione cambia coi carolingi. Carlo Magno porta a compimento l’opera iniziata dai suoi avi, il nonno Carlo Martello e il padre Pipino il Breve: la riunificazione politica dell’Europa. In seguito alle campagne militari, riesce ad ampliare considerevolmente i confini dello Stato merovingio, sottomettendo Sassonia, Baviera, Longobardia, la regione da Navarra a Barcelona (ossia la marca ispanica). Così le dimensioni del * Università Ortodossa Umanistica San Tichon, Mosca. Ad esempio, la tradizione della poesia epica secondo Virgilio e Claudiano viene proseguita da un poeta dell’Africa bizantina, Flavio Cresconio Corippo (†  ca.), che scrive il poema panegirico Gioanneide o De bellis Libycis, sulla guerra contro i mauri del -. In Gallia, alla corte Merovingia, Venanzio Fortunato (- ca.) scrive versi in vari metri, e ci ha lasciato undici libri di poesia varia (epistole-panegirici, epigrammi, elegie ecc.). Cfr. PL , coll. -. 

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suo Stato vengono quasi a coincidere con quelle dell’Impero romano d’Occidente. Per governare l’immenso Stato multietnico Carlo cerca di creare un sistema amministrativo unico, per la qual cosa gli servono quadri istruiti, sia ecclesiastici che laici. Dopo aver assunto il latino classico come lingua ufficiale dell’Impero, incomincia la riforma dell’istruzione, si aprono le scuole. Verso la corte affluiscono, su invito di Carlo, i maestri più colti e dotati da tutti gli angoli d’Europa. Negli anni  sono gli italiani Pietro Pisano, Paolino d’Aquileia, Paolo Diacono, in seguito saranno anglosassoni e irlandesi, che sono tra i monaci più istruiti e colti dell’Europa continentale. Il governo di Carlo, agli occhi dei contemporanei, rappresenta la rinascita dell’impero di Roma. Sono ben noti i versi di Modoino-Nasone (Modoino di Autun), un poeta formato all’Accademia palatina, che nella sua egloga  proclama: agli antichi usi fanno ritorno i costumi umani: di nuovo l’aurea Roma rinnovata, nasce al mondo....

Al consesso degli studiosi, raccolto attorno all’Accademia carolingia, si pone un compito di grande respiro: trasformare Aquisgrana nella capitale spirituale e intellettuale dell’impero. Attraverso la mediazione del latino a questo punto si crea una letteratura chiamata ad unire i popoli che abitano il vasto regno franco. Questa letteratura, che possiede unità di forma poetica, di stile, di genere, non serve solo  La conservazione della tradizione culturale latina nell’Irlanda celtica e nella Britannia germanica fu permessa dal fatto che là, a differenza dei paesi romanzi, il latino era una lingua straniera che non si poteva imparare a orecchio ma solo sui libri. Si poteva affrontare lo studio della Sacra Scrittura e dei Padri solo dopo aver acquisito una precisa preparazione grammaticale basata sulla lettura di vari autori, anche pagani. Essendosi resi conto di questo, i monasteri locali incominciarono a portare dal continente libri latini, a creare biblioteche e scrittori. Gli sforzi principali dei latinisti anglosassoni si indirizzarono alla rielaborazione dei testi scolastici esistenti, per adattarli a una nuova metodologia di apprendimento del latino libresco. L’attività più efficace in questa direzione fu quella di Beda il Venerabile (-), che creò dei manuali di grammatica, ortografia, versificazione e arte oratoria che vennero usati dalle scuole medievali fino al XII secolo.  Cit. da M.L. Gasparov, Karolingskoe vozroždenie (VIII-IX vv.) (Rinascimento carolingio), in Pamjatniki srednevekovoj latinskoj literatury IV-IX vv. (Monumenti della letteratura latina medievale dei secoli IV-IX), Nauka, Mosca , p. .

Alla ricerca della perfezione: la poesia del Rinascimento carolingio

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da anello di congiunzione tra le cosiddette tribù barbare ma, come dice B. Jarcho, «creava un ponte tra i secoli di mezzo e l’antichità classica». Inchinandosi ai poeti dell’«aurea Roma» (soprattutto a Virgilio), gli “accademici” carolingi Alcuino, Teodulfo, Angilberto ecc. saggiano le loro forze nel riprodurre i modelli antichi. Seguono la metrica antica e normalmente scrivono in esametri e distici elegiaci, orientandosi allo stile classico. I classici sono dei maestri, le loro opere si distinguono per il mestiere raffinato, eppure gli interrogativi spirituali dell’epoca in cui vivono e creano i nuovi “accademici” li spingono ad andare oltre la pura imitazione. Il loro scopo non è solo quello di eguagliare il livello, poniamo, di un Virgilio, ma di superarlo, di imparare dai classici la bellezza della forma e portare l’arte letteraria sino alla perfezione arricchendola dello spirito cristiano. Questa aspirazione trova conferma in una lettera di Alcuino a Carlo nella quale il maestro dell’Accademia palatina dà il seguente giudizio sull’attività svolta: «Non è una nuova Atene quella che è nata in terra franca ma qualcosa di infinitamente più luminoso poiché, esaltato dall’insegnamento di Cristo Signore, supera la sapienza degli esercizi accademici». I poeti fissano lo splendore e la bellezza della «nuova Atene» in lettere-panegirici, seguendo l’esempio di Venanzio Fortunato, che nel VI secolo aveva celebrato i re della dinastia Merovingia. L’interesse per questo genere determinava la posizione a corte del circolo di studiosi. L’atteggiamento tipico di tali panegirici è l’ammirazione, nella forma abituale si rivolgono all’oggetto di lode alla seconda persona, contengono formule di saluto introduttive e conclusive, auguri di ogni bene e, come si suol dire, cercano di “accattivarsi le simpatie”. Nella descrizione, che rappresenta la parte maggiore del panegirico, prevalgono i motivi dello splendore, della magnificenza. Così appare,

 B.I. Jarcho, Poezija Karolingskogo Vozroždenija (Poesia del Rinascimento Carolingio), RGGU, Mosca , p. . D’ora in poi citato come Jarcho.  Cfr. ad esempio M.R. Nenarokova, Karolingskaja ekloga: christianizacija anticˇ nogo žanra (L’egloga carolingia: cristianizzazione di un genere antico), in «Gosudarstvo, religija, cerkov’ v Rossii i za rubežom» (Stato, religione, Chiesa in Russia e all’estero), , , pp. -.  Cit. da M.L. Gasparov, Karolingskoe vozroždenie (Rinascimento carolingio), in Pamjatniki srednevekovoj latinskoj literatury VIII-IX vv., Nauka, Mosca , p. .

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ad esempio, il ritratto di Carlo in una lettera di Teodulfo (Ad Carolum regem): Oh figura, figura più brillante dell’oro lavato tre volte, felice colui che ti può stare accanto, (può) vedere una fronte degnamente cinta del diadema, che non ha simili nelle (altre) terre, e la testa regale, il mento e il bel collo, e le mani piene d’oro, che distruggono il bisogno. Il petto, le gambe, i piedi: tutto in lui merita lode. Tutto fiorisce di bellezza, tutto splende di magnificenza (-).

La bellezza esteriore dell’imperatore (pulchritudo) si unisce alla bellezza morale (decus). Lo splendore esterno, la maestosità è presa come riflesso della bellezza interiore e dell’autentica grandezza. Davanti al lettore si dispiega una corona di immagini. Dietro al ritratto di Carlo, che è composto dalla descrizione dei tratti esteriori, delle qualità interiori, delle opere, la maggiore delle quali è aver sottomesso i popoli pagani e averli convertiti al cristianesimo, l’autore dipinge la numerosa schiera che circonda l’imperatore: i figli e le figlie raccolti attorno al trono, la regina Liutgarda, il consesso degli studiosi, tra l’altro ad ogni “accademico” in vista è dedicato uno schizzo chiaro e vivace. Il finale ci riporta direttamente alla figura di Carlo, cui si augura ogni bene. Questo panegirico somiglia a una grande tela dipinta, dove la figura centrale più importante è circondata da un gran numero di dettagli e di figure minori, a comporre una sorta di ornamento. Questo ornamento verbale è composto di svariati elementi biblici e antichi. Ad esempio, per dare un valore supremo alle qualità di Carlo, il poeta ricorre alle immagini dell’Antico Testamento e paragona l’imperatore a Salomone per sapienza, a Davide per forza, a Giuseppe per bellezza. Quando invece si parla dei popoli che Carlo deve condurre al cristianesimo, Teodulfo intreccia nel suo testo citazioni del satirico latino Marziale, in un altro



PL , coll. -. «Con lui (l’unno) venga pure anche l’arabo: tutti popoli dai lunghi capelli, / Ma uno intreccia i ricci mentre l’altro / li tiene sciolti» (-). Cfr. Marziale: «Crinibus in nodum tortis uenere Sygambri, / atque aliter tortis crinibus Aethiopes» («Ed ecco i sicambri avevano i capelli raccolti in un nodo, e gli etiopi capelli dai fitti ricci»: Spec., III, ). 

Alla ricerca della perfezione: la poesia del Rinascimento carolingio



episodio il poeta cita Ovidio, usa pure ampiamente i nomi propri di personaggi mitologici dell’Antichità come emblemi, chiamando il vino Bacco, il pane Cerere eccetera. Bisogna dire che i tentativi poetici dei carolingi portano il segno di un rapporto controverso con la letteratura pagana. Così, ad esempio, Alcuino nel preludio in versi all’opera De dialectica ha un giudizio ammirato verso l’antichità, la cui conoscenza eleva l’uomo: Mi legga chi brama conoscere il pensiero degli antichi, chiunque mi assimila si libera dall’ignoranza.

Per gli intellettuali carolingi il compito principale del loro tempo è quello di far superare l’ignoranza, la barbarie, la cosiddetta rusticitas. Agli uomini ignoranti, illetterati che chiamano rustici, si contrappongono i sapientes, i cittadini del nuovo Impero iniziati alla sapienza, che hanno acquisito le “arti liberali” e le scienze divine. Ma lo stesso Alcuino, rivolgendosi alla gioventù, parla dei classici in modo sprezzante, quando si esorta a leggere i libri della Sacra Scrittura. Si veda l’introduzione al codice del Cantico dei cantici: In questo libro Salomone ha effuso un’indicibile dolcezza: tutto è pieno degli alati canti dello Sposo e della Sposa, ossia della Chiesa e di Cristo che cantano lodi in alternanza, ricordando le pronube e le fedeli amiche. E tu, giovane adolescente, ti prego, non dimenticare di imparare questi canti: sono molto più belli di quelli del falso, pagano Marone. Essi ci insegnano cose vere sulla vita futura, questo ci riempie le orecchie di menzogne imprudenti (Jarcho, p. ).

È significativo che nella biografia di Alcuino scritta, a quanto pare, subito dopo la sua morte, si narra che in gioventù egli preferiva Virgilio al Salterio, e talvolta restava nella cella a leggere di nascosto il classico

 Teodulfo dice di un certo Viboda: «Concutiat crassum terque quaterque caput» («Che scuota tre, quattro volte il grosso capo»: ). Cfr. quello che dice Ovidio di Giove: «Terrificam capitis concussit terque quaterque casearie» («Crollò tre, quattro volte i ricci terrificanti del capo»: Metamorfosi, I, ).  «Me lege, qui veterum cupias cognoscere sensus, / Me quicunque capit, rusticitate caret» (PL , col. ).



Elizaveta Materova

invece di andare alla preghiera serale, e tuttavia in seguito Alcuino, quando diventa egli stesso un educatore, non incoraggia negli allievi questa passione e proibisce loro di leggere il «falso, pagano Marone». Il maggior rimprovero mosso ai classici è la povertà di contenuto. I poeti pagani sono verbosi, ai poeti cristiani la loro bellezza appare troppo “esteriore”, frivola e poco profonda, una simile poesia può attirare ma non può nutrire l’anima. Così il poeta carolingio Giovanni Didascalo di Fulda, contrapponendo Virgilio e Aratore, poeta del IV secolo autore di un poema didascalico sugli Atti degli Apostoli (De actibus Apostolorum), ammonisce i giovani: Marone vi darà solo paglia, la buona erba ve la darà Aratore, Questi canta l’eterno, l’altro ci offre putredine (Jarcho, p. ).

Espressioni tanto dure e al tempo stesso l’interesse per la tradizione classica che si trova nei testi ci testimoniano i dubbi che agitavano i poeti carolingi. L’antichità li attrae e li respinge ad un tempo. Una possibile via per uscire da questi dubbi e indecisioni ce la indica Teodulfo di Orléans nella poesia Dei libri che usavo leggere (De libris, qui legere solebam), dalla quale possiamo avere un’idea dell’ambito di letture di una persona colta dell’epoca carolingia. Dopo aver elencato per primi gli autori cristiani, di cui dice «li rileggo spesso» (Agostino, Ambrogio, Geronimo, Isidoro, Paolino, Juvencus, Aratore, Prudenzio ecc.), il poeta passa a giudicare i poeti pagani: [...] leggevo ora Virgilio ora te, loquace Nasone. Anche se nelle loro parole vi sono molte futili cose, ancor più verità si nascondono sotto il velo del falso. Lo stilo fissa la menzogna dei poeti, la verità dei sapienti. La menzogna di questi essi [ovvero i sapienti] volgono in verità.



«Virgilii amplius quam psalmoram amator» (PL , coll. -). Cfr. anche il racconto della passione per l’Eneide negli anni di studio e il pentimento successivo di sant’Agostino, nelle Confessioni (I, ).  «Legebam / et modo Virgilium, te modo, Naso loquax. / In quorum dictis quanquam sint frivola multa, / plurima sub falso tegmine vera latent. / Falsa poetarum stylus affert, vera sophorum, / falsa horum in verum vertere saepe solent» (PL , coll. ).

Alla ricerca della perfezione: la poesia del Rinascimento carolingio



Teodulfo sta dicendo che si può trarre da ciò che è esternamente futile e «falso» una certa utilità. Occorre riconoscere il meglio che è stato creato dai poeti latini, e mettere ciò che ha bella forma (l’antico) al servizio del bello in sé, cioè all’ideale dell’epoca. Il desiderio di servire l’imperatore col «pensiero cristiano e la parola antica» porta a trasformare i generi ereditati dall’antichità, e a reinterpretarli cristianamente. Lo si vede, ad esempio, in una lettera di Alcuino (Ad cellam meam) scritta in distici elegiaci. È indirizzata alla cella che l’eroe lirico ha dovuto lasciare: evidentemente il monaco scienziato è partito per terre straniere. L’appello che apre il discorso d’addio è pieno di caldi sentimenti, di amore e affetto: la cella è chiamata habitatio dulcis (dolce rifugio), riceve pure l’epiteto di amata. Segue poi la parte descrittiva, che è uno schizzo paesaggistico: Da ogni lato ti circondano alberi, lo stormire delle foglie, il boschetto è sempre ricoperto di pingui fiori: i prati fioriscono di erbe mediche, che il medico raccoglie con la destra per rafforzare la salute. Da ogni lato ti circondano fiumi dalle ripe fiorite, dove il pescatore, trionfante, raccoglie le sue reti (-).

Dipingendo il mondo circostante, il poeta usa il topos, classico nelle egloghe antiche, del “luogo piacevole” (locus amoenus), i cui elementi tradizionali sono: la fonte, gli alberi ombrosi, i fiori, i prati, gli uccellini cinguettanti. Le dominanti del paesaggio sono la fioritura, l’opulenza, la bellezza del mondo. Nei versi che seguono si nota un passaggio caratteristico, che segna l’abbandono del topos antico e la reinterpretazione dei suoi elementi in senso cristiano. Olezzano le tue porte del ramo ferace del giardino,



M. Gasparov così formula l’ideale dell’epoca carolingia: «Il Regno di Dio in terra, unificato dalla fede in Cristo e dalla lingua latina; al suo vertice l’imperatore universale, Carlo-Davide unto del Signore nelle cui mani stanno il potere secolare e quello spirituale; attorno a lui i suoi compagni e cantori, che affermano il suo potere e la sua gloria in tutto il mondo latino con la spada franca, il pensiero cristiano e la parola antica»: cfr. Gasparov, Karolingskoe vozroždenie, cit., p. .  MGH, PLAC, vol. , p. .



Elizaveta Materova

dei nivei gigli frammisti alle rose purpuree. Ogni famiglia di pennuti canta odi al mattino, e loda col canto Dio creatore (-).

Il distico (-) inteso in senso letterale sottolinea la partecipazione della cella alla generale fioritura, anch’essa è percepita come parte del locus amoenus. Allo stesso tempo i fiori che vengono nominati fanno parte delle immagini che nella poesia cristiana hanno valore simbolico. Ne troviamo l’interpretazione nei poeti carolingi, ad esempio in Valafrido Strabone che nell’opera La cura dell’orto (De cultura hortorum) dà questa spiegazione (-): [...] entrambi questi lodabili fiori indicano le due supreme virtù della Chiesa: essa raccoglie il sangue dei martiri, come la rosa, i gigli Essa porta splendente della chiara sua fede (Jarcho, p. ).

Vedi anche in Sedulio Scoto nella Logomachia della Rosa e del Giglio (-): Rosa, fiore purpureo ci rappresenti i martiri; delle vergini mostran la bellezza i gigli in bianche vesti (Jarcho, p. ).

In tal modo nei versi citati della lettera si trova anche un’originale citazione della gloria della Chiesa. Anche l’elemento classico del “cinguettìo degli uccellini” subisce una trasformazione in senso cristiano diventando il canto che quotidianamente glorifica il Creatore. I versi che seguono raccontano della vita monastica e della cella come luogo di dotte occupazioni e di preghiera: In te un tempo risuonava la voce vivificante del maestro, che illustrava la parola del santo libro della sapienza. In te all’ora stabilita la sacra lode del Tonante risuonava, [elevandosi] con voce e spirito di pace (-).

Da notare che parlando di Dio il poeta, come molti suoi contemporanei, usa un epiteto classico di Giove: tonante (tonans). Dopo aver descritto la cella come luogo consolatorio, l’autore passa all’afflizione per la sua perdita. I lamenti dell’esiliato che piange i luoghi

Alla ricerca della perfezione: la poesia del Rinascimento carolingio



natii sono un motivo della poesia antica, noto dalle Bucoliche di Virgilio (egloghe I, IX) e dalle elegie di Ovidio del periodo dell’esilio (Tristia). Il poeta medievale è rattristato non solo dal distacco ma dal casus, il possibile decadimento, abbandono, lontananza dagli ideali dell’Accademia. Te, mia cella, piango con caméne lacrimose e, col cuore addolorato, piango la tua caduta, poiché ti sei dileguata dai canti dei poeti, ed una mano ignota ti ha afferrata per intero. Ora né Flacco, né il retore Omero ti avranno, sotto il tuo tetto i fanciulli più non canteranno (-).

Mentre soffre della prossima caduta, del fatto che il circolo di dotti non esisterà più, l’autore sottolinea particolarmente la propria appartenenza ai sapientes, cioè alle persone colte. Lo ribadiscono anche gli pseudonimi accademici che usa: Flacco e Omero (cioè lo stesso Alcuino e il suo allievo Angilberto), come pure l’uso, in pochi versi, di tre diverse parole per indicare la poesia. Accanto al carmen (canzone), stilisticamente neutro, il poeta ricorre anche ai più poetici ed elevati camena () e musa (), oltre al sinonimo oda, un grecismo. La successiva svolta del pensiero è l’introduzione del tema omnia mutantur (tutto cambia), che il poeta sviluppa sulla base di alcuni contrasti: giorno-notte, fioritura-gelo mortale, quiete-tempesta, giovinezzavecchiaia. Si intende l’instabilità, la precarietà della bellezza mondana (decus secli), il fatto che tutto ciò che è terreno è transitorio, corruttibile, e che la fine dei beni terreni giunge sempre improvvisa (repente, subito): Ogni bellezza mondana cambia e subito tutto muta un nuovo ordine. Nulla rimane in eterno, davvero non c’è nulla di immutabile. La notte tenebrosa offusca il sacro giorno, e l’algido inverno distrugge i fiori stupendi d’un tratto, e un vento insolente agita il mare tranquillo (-).



Cfr. in Ovidio, nel libro dedicato alla dottrina di Pitagora: «Omnia mutantur, nihil interit» («Tutto cambia, nulla scompare»: Metamorfosi, XV, ).



Elizaveta Materova

Anche il tempo umano fugge altrettanto veloce: La giovinezza gentile che or ora pasceva i cervi nel campo, ora è un vecchio decrepito che si appoggia al bastone (-).

Questo ricordo suscita nell’eroe lirico un’afflizione diversa da quella che lo angustiava all’inizio della lettera. Il poeta esclama: Mondo, perché noi infelici amiamo te che fuggi? Tu sempre ci sfuggi, cadendo ovunque in rovina. Tu fuggi, va’ pure, noi amiamo Cristo. Sempre incateni i nostri cuori l’amore di Dio. Egli è il buon difensore dei suoi servi dal nemico, rapisce i nostri cuori al cielo. Con tutta l’anima, assieme lo lodiamo, lo amiamo, poiché è buono, nostra gloria, salvezza, vita (-).

In tal modo, nel finale si sente la voce del predicatore che medita sull’eccessivo attaccamento dell’uomo alle cose terrene e transitorie, e che esorta se stesso e gli ascoltatori a liberarsi da queste catene, innalzando il cuore a Dio. Alla luce di tali meditazioni il quadro idilliaco dipinto nella prima parte della lettera-egloga diventa in qualche modo segno di un certo benessere terreno che imprigiona l’uomo e gli fa perdere di vista l’Eterno. Ma allo stesso tempo, descrivendo questo mondo terreno, visibile, Alcuino non si accontenta di elencare gli elementi tipici del paesaggio idealizzato, ma cerca di inserire l’idea che il mondo è opera di Dio, che la bellezza del mondo ricorda all’uomo Dio, e la sua contemplazione deve spingerci a ringraziarlo e rendergli gloria. Pur prendendo a prestito dall’Antichità la metrica, lo stile, alcuni “luoghi comuni” (i topoi locus amoenus, il “lamento dell’esule”), Alcuino è pieno di spirito contemplativo cristiano, i suoi versi esprimono il desiderio di vedere, al di là della bellezza di questo mondo, il riflesso dell’Eterno; il desiderio di non essere ostaggio dei beni terreni, del timore di perderli, ma di aspirare al celeste ed eterno. Ricercando la perfezione poetica, cioè una poesia che rispondesse agli interrogativi spirituali della sua epoca, i carolingi scelgono di reinterpretare le conquiste della letteratura classica.

Alla ricerca della perfezione: la poesia del Rinascimento carolingio



Le forme antiche servono ai carolingi per esprimersi sugli avvenimenti contemporanei (encomiare l’imperatore, rappresentare la vita della corte palatina ecc.), ma servono anche a rappresentare l’eterno e il perenne, cristianizzando il genere antico e parlando di temi cristiani con una lingua presa a prestito dalla poesia dei classici latini.

Timofej Voronin*

La concezione del bello nel mondo artistico di Žukovskij e di Puškin

In uno dei taccuini di Puškin degli anni Trenta, fra abbozzi di poesie e appunti di uso domestico si trova un’annotazione dal seguente contenuto: Rousseau dice: «Il bello è quello che non c’è!». Questo non significa che il bello non esista: non c’è, perché ci appare unicamente per comunicarsi a noi, per ridestare, elevare la nostra anima, mentre non siamo in grado né di trattenerlo, né di scorgerlo, né di comprenderlo.

Queste parole furono erroneamente intese da alcuni biografi di Puškin (ad esempio, dalla scrittrice dell’emigrazione Ariadna Tyrkova-Vil’jams) come sue proprie, ma in realtà appartengono a Žukovskij e sono riportate nel suo diario nel , nel periodo in cui stava viaggiando per l’Europa insieme alla sua allieva, la futura imperatrice Aleksandra Fëdorovna, ed era impegnato in una riflessione sulla cultura europea. Il fatto che Puškin ricopiasse senza alcuna aggiunta sul suo taccuino le parole di Žukovskij è una riprova del suo assenso interiore o, perlomeno, di un’affinità con il pensiero del suo amico, di qualche anno più anziano di lui, e maestro. Nell’opera di entrambi gli scrittori si svela una comune interpretazione di questo concetto, che per essi è contemporaneamente estetico e mistico. È proprio il concetto di bello, dal loro punto di vista, a collegare la creatività con l’essenza misteriosa dell’essere, la singola persona con l’unità sovrapersonale dell’esistente. Vorrei innanzitutto chiarire la concezione del bello posseduta da Žukovskij. Nel proprio appunto, questi aggiunge:

* Università Ortodossa Umanistica San Tichon, Mosca.



Timofej Voronin

Il bello ci fa visita negli istanti migliori della vita. Il grandioso spettacolo della natura, l’ancor più grandioso spettacolo dell’anima umana, la felicità, la poesia, l’infelicità stessa ci offrono queste sublimi percezioni del bello.

In tal modo, Žukovskij non intende il bello in maniera puramente estetica, come una bellezza di forme esteriori, ma come una bellezza di contenuto morale e mistico. Per lui il bello è ciò che corrisponde a un ideale eterno e unico che dimora nell’anima umana. Il bello è il manifestarsi sensibile, materiale di questo ideale. Inoltre, la percezione del bello non arresta l’uomo all’oggetto recepito, ma guida la sua coscienza alla consapevolezza della fonte misteriosa e invisibile del bello. «In questi istanti di vivo sentimento – scrive Žukovskij – tu non sei teso a ciò che lo riproduce e che ti trovi davanti, ma a qualcosa di migliore, misterioso, remoto, che ad esso si unisce». La percezione del bello coincide per il poeta con il tema dell’“inesprimibile”, che echeggia nella celebre poesia Inesprimibile. Parlando del desiderio del poeta di esprimere l’impressione provocataci dalla natura, Žukovskij afferma l’impossibilità di riprodurre questo sentimento attraverso la semplice descrizione di ciò che si contempla, perché l’essenza della contemplazione non consiste negli oggetti della natura che l’eroe lirico vede, ma in ciò che misteriosamente si unisce ad essi: Questa sacralità che scende dalle altezze.

Questa presenza del Creatore nella creatura (l’inesprimibile, sinonimo del quale è, in ultima analisi, il bello, costituisce dunque, in primo luogo, proprio l’esperienza della presenza del divino) è epifania di Dio, è ogni manifestarsi dell’essere che si dispiega secondo il Suo disegno, il Suo amore. Aleksandra Voejkova, fedele seguace e figlioccia di battesimo di Žukovskij, sua corrispondente e, si può dire, protagonista della sua celebre Svetlana, esprime con estrema laconicità quest’esperienza di Žukovskij in una delle lettere scritte durante il viaggio compiuto in Europa prima di morire. «Avrò visto venti volte il tramonto del sole sul Monte Bianco – scrive – ma non riesco ad abituarmi a questo mirabile spettacolo. Mia figlia Katja qualche giorno fa ha detto, guardando il 

V.A. Žukovskij, Polnoe sobranie socˇ inenij i pisem (Raccolta completa delle opere e delle lettere), Mosca , p. .

La concezione del bello nel mondo artistico di Žukovskij e di Puškin



tramonto: “Mamma, Dio esiste”. E davvero in questo spettacolo c’è Dio stesso». L’imbattersi nella bellezza, attraverso la natura e l’uomo, costituisce quindi, per Žukovskij, l’incontro con Dio; il bello è il Suo modo di manifestarsi all’animo umano. E tutto il senso della vita consiste in questo incontro con il bello. Ognuno di questi incontri diventa una nuova stella che illumina la vita umana. Queste stelle, dice il poeta, «non brillano di piena luce, ma adornando il nostro cielo, facendocelo conoscere, fungono al tempo stesso da guide sulla terra». Alla fine della vita, quando la percezione religiosa di Žukovskij assume lineamenti cristiani più concreti, egli precisa questa immagine. I momenti cruciali della vita dell’uomo, le stelle comete che gli rischiarano il cammino divengono per lui non semplicemente gli incontri con il bello, ma l’Eucarestia, che costituisce per lui l’incontro con la bellezza per eccellenza. Nei suoi Frammenti filosofico-religiosi, nel capitolo dedicato alla comunione, riferendosi al sacramento dell’Eucarestia Žukovskij scrive: E che cosa dev’essere la vita cristiana, se sarà costituita da questi passaggi da un incontro di grazia all’altro con il Redentore, ognuno dei quali produrrà il suo effetto appieno, come sacramento purificatore nel senso dell’eternità, e moralmente rinfrancante nel senso della vita temporale, e nell’intervallo tra i quali il ricordo e l’attesa, come stelle divine, risplenderanno fra le tenebre della terra, senza di esse disperanti ed esiziali per la nostra anima.

L’essenza del bello coincide quindi per Žukovskij con il sacramento della Comunione, che è per lui l’incontro con il Salvatore, il momento in cui «Lui stesso gli appare». Nel sacramento, come dice Žukovskij, ogni credente «diviene per tutta la vita Suo contemporaneo». La bellezza, dunque, è il Salvatore stesso. Incarnatosi sulla terra, Egli ha mostrato l’immagine della perfetta bellezza, sia esteriore che interiore. In risposta alla nobile aspirazione di Žukovskij a conseguire la bellezza, gli venne donato l’incontro autentico con questa Bellezza negli ultimi giorni della vita. Al momento della comunione dei figli, prima di comunicarsi lui stesso poco prima di morire, tormentato dai pensieri sul loro 

A.M. Solov’ëv, Aleksandra Protasova-Voejkova, San Pietroburgo , vol. , p. . V.A. Žukovskij, Polnoe sobranie socˇ inenij (Opera omnia), San Pietroburgo , vol. , p. . 



Timofej Voronin

futuro, egli vide il Salvatore che entrava nella stanza e si metteva alle spalle dei figli. «Sì, amica mia – disse Žukovskij alla moglie qualche ora prima di morire – non è stata una visione, L’ho visto in carne e ossa; L’ho visto in piedi alle spalle dei miei figli mentre stavano comunicandosi ai Santi Misteri. Egli sarà con loro. Me l’ha detto Lui stesso». Il significato dell’arte è per Žukovskij profondamente legato al concetto di bello descritto sopra. Nel suo articolo programmatico Il poeta e il suo significato attuale, scritto negli anni Quaranta, riprende integralmente le riflessioni sul bello che aveva annotato nel diario. Lo fa perché intende la creatività proprio come attuarsi della bellezza. Lo scopo dell’arte, dice Žukovskij, non può essere altro che il realizzarsi della bellezza, il cui mistero l’anima scopre nel mondo creato da Dio, e che si sforza di esprimere con nettezza nella propria creazione. Questa percezione ed espressione del bello, questa ricreazione con i propri mezzi del creato divino è appunto l’arte.

Vale a dire, il senso dell’arte non consiste nel riprodurre la realtà, ma in una traduzione linguistico-figurativa dell’inesprimibile, metafisica Bellezza con la maiuscola, che è presente alla realtà ed è, per sua essenza, come si dice nell’articolo, «sensazione ed eco, avvertiti dall’anima, di Dio nel creato». Naturalmente Žukovskij era profondamente estraneo alle ricerche realistiche, anzi naturalistiche della nuova generazione di scrittori russi che cominciarono ad operare negli ultimi decenni della sua vita. «Liberateci dai disgustosi Eroi del nostro tempo, dagli Onegin e dai tanti altri simili a lui, sono demoni che si librano in volo dalla sudicia pozzanghera del nostro tempo», scriveva negli anni Quaranta, vedendo in molte espressioni della letteratura a lui contemporanea una poesia «dissacrante ogni sacralità». Žukovskij resta un romantico, e il romanticismo è per lui innanzitutto idealismo, cioè una concezione dell’arte finalizzata a tradurre in immagini terrene l’ideale di una bellezza ultraterrena. Questa visione della poesia non è propria solo di Žukovskij, nella  Žukovskij v vospominanijach sovremennikov (Žukovskij nei ricordi dei contemporanei), Mosca , p. .  A. Veselovskij, V.A. Žukovskij. Poezija cˇ uvstva i «serdecˇ nogo vyraženija» (V.A. Žukovskij. La poesia del sentimento e dell’«espressione del cuore»), Mosca , p. .

La concezione del bello nel mondo artistico di Žukovskij e di Puškin

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letteratura russa di quel periodo, ma è ricorrente nel nostro romanticismo. Sia Venevitinov, che parla del poeta come di un profeta «che ha parole di cielo sulla terra», sia Jazykov con il suo celebre Terremoto, in cui leggiamo che il poeta deve «recare ai tremanti uomini preci dalle superne alture», sia Puškin, che mette sulle labbra del poeta, nella poesia Il poeta e il volgo, le parole: «Siamo nati per l’ispirazione, per dolci suoni e preghiere», intendevano in maniera analoga la missione della poesia. Puškin, certamente, ha una visione più ampia del significato dell’arte rispetto al suo amico e maestro. Ma, pur presentando alcune deviazioni dalla percezione idealista, romantica della letteratura, riconosceva tuttavia la posizione di Žukovskij come affine, prossima a sé, altrimenti non avrebbe inserito nel suo taccuino le riflessioni di Žukovskij sulla bellezza. Nell’opera di Puškin il concetto del bello traspare nelle celebri parole della poesia  ottobre del , rivolte a Küchelbecker: «Il culto delle Muse non soffre frivolezza; ciò ch’è bello dev’essere solenne, maestoso». Qui è importante osservare, in primo luogo, che il «culto delle Muse» e il bello nella poesia fungono da sinonimi, e in secondo luogo che, fra tutti i liceali di Carskoe Selo, Puškin affida al solo Küchelbecker le sue riflessioni su questo «culto delle Muse», sebbene questi, com’è noto, fosse su posizioni arcaicizzanti e in un certo senso fosse un oppositore letterario del giovane Puškin. Küchelbecker coltivava una concezione religiosa della creatività e introdusse nel suo mondo artistico la figura di Isfraele, l’angelo protettore della poesia, che svela al poeta il vero significato della poesia, misterioso incarnarsi dei suoni della vita eterna, rievocazione verbale di fenomeni del mondo superno In cui tutto è sommesso alla Bellezza, dove son Giustizia, Luce e Perfezione.

L’angelo desta lo spirito del poeta, lo libera da un’opprimente apatia, lo inizia alla contemplazione delle sorti recondite del mondo. La poesia è per Küchelbecker l’espressione della bellezza del mondo superno, un mistico processo di unione con l’aldilà, un misterioso incontro con un’altra sfera dell’essere e, in ultima analisi, come già per Žukovskij, l’espressione dell’eterna bellezza. L’appello di Puškin a Küchelbecker, in cui il poeta formula l’essenza

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Timofej Voronin

del «servizio alle muse», indica che egli condivide le concezioni del compagno di liceo. Evidentemente, verso la metà degli anni Venti Puškin passa dalla «poesia leggera» di Batjuškov – che nella poesia programmatica Agli amici affermava di descrivere nei suoi versi «cure e vanità» – a una concezione della poesia come assorto servizio al bello, simile alla sublimità di intenti di Küchelbecker e Žukovskij. Puškin traduce in atto questa concezione del bello nell’opera Mozart e Salieri. Nessuno dei “piccoli drammi” ha visto tante diverse interpretazioni come questo. Quest’opera doveva evidentemente rivestire un significato particolare per lo stesso Puškin, e del resto il suo tema centrale è la creatività artistica, che nella sua vita costituiva il valore più prezioso. Qual è l’essenza del conflitto tra Mozart e Salieri? Mi sembra di ravvisarla nel loro atteggiamento opposto nei confronti dell’arte e della bellezza. L’opera inizia con le celebri parole di Salieri: Non v’è giustizia in terra, dice ognuno, ma neppure più in alto v’è giustizia.

Egli non crede nella bontà del principio supremo, secondo lui l’uomo è senza protezione, abbandonato a una cieca lotta solitaria, e per questo l’arte non ha alcun legame con il cielo e, in generale, nell’universo non esiste nulla di oggettivamente bello. L’arte per Salieri è semplicemente il frutto degli sforzi dell’uomo, il trionfo della sua volontà e della sua ragione. Salieri ottenne il successo nella musica grazie a immani sforzi («verificai con algebra armonia»), e raggiunse la perfezione che gli era possibile esclusivamente grazie alle proprie forze. Il bello, di cui possiamo ravvisare in questo caso il sinonimo nella parola «armonia», è sostanzialmente qualcosa di costruito, algebricamente calcolato; in altri termini, il bello è solo un modo corretto di disporre, dal punto di vista estetico e logico, le varie componenti dell’opera d’arte. Mozart ha un atteggiamento diverso nei confronti della creatività. Egli chiama i musicisti, ma in senso più lato tutti gli artisti, «della bellezza sola sacerdoti». Egli intende l’essenza dell’arte nello spirito di Žukovskij, perché considera l’artista un ministro e un interprete dell’eterno principio esteticamente perfetto. L’arte deve incarnare l’ineffabile esperienza della comunione con l’eterno. La bellezza è ultimamente inconoscibile. È illimitata e inesauribile. Ogni artista contempla un cer-

La concezione del bello nel mondo artistico di Žukovskij e di Puškin

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to aspetto della bellezza, e tutti insieme gli uomini d’arte sono tesi a un unico eterno ideale. L’odio di Salieri per Mozart non nasce tanto dall’invidia, quanto da una diversa concezione dell’arte. L’invidia è semplicemente la conseguenza della visione priva di grazia, legalistica che Salieri ha della natura della creatività. Egli non riesce ad accettare la naturalezza con cui Mozart crea. Vede in questo una violazione delle leggi dell’arte, la figura di Mozart contraddice tutta la sua concezione del mondo. Mozart da parte sua è completamente estraneo agli umori del suo segreto nemico, poiché, dal momento che tutti gli artisti sono «della bellezza sola sacerdoti», dal momento che essa si svela in maniera particolarissima a ciascuno di essi, non c’è posto per l’invidia, esiste solo la gioia per la sempre nuova scoperta dell’eterna bellezza. Il conflitto fra Mozart e Salieri, in realtà, può ampliarsi fino a diventare un archetipo. È lo scontro fra due tipi di coscienza: nel primo caso, una coscienza concentrata su se stessa, che si basa in tutto solo sulle proprie forze e non vuole aprirsi alla Provvidenza divina che opera nell’universo. Nel secondo caso, è una coscienza che recepisce la dimensione verticale dell’essere, respira l’aria delle vette, si alimenta entrando in contatto con l’essenza della bellezza di “mondi altri”. Lo scontro fra Mozart e Salieri è, in ultima analisi, il conflitto tra Abele e Caino, tra Cristo e i farisei, tra i martiri cristiani delle origini e i governanti romani. Certo, la concezione dell’arte espressa da Mozart nell’opera non può essere identificata in termini assoluti con la visione di Puškin, ma è evidente che l’autore sente una profonda affinità con il suo personaggio, e la posizione di Mozart rispecchia un aspetto fondamentale della ricchissima coscienza estetica del poeta. Dunque, sia per Žukovskij che per Puškin, il concetto di bellezza risale al principio mistico eterno. La bellezza viene concepita come un aspetto dell’epifania del divino e diventa centrale nella concezione dell’essenza della creatività. La creatività è il culto del Bello, è la sua traduzione in atto e incarnazione, che introduce nel mondo ciò che in questo mondo non esiste nella sua stabile condizione visibile, ma di cui il mondo vive, in cui si muove ed esiste.

Maria Cristina Gatti*

La bellezza sub specie linguistica

In una delle pagine più belle del Sofista, opera della maturità di Platone, l’autore, per bocca del personaggio principale del dialogo, lo Straniero, si intrattiene con il giovane Teeteto sul modo sorprendente e nel contempo misterioso con cui avviene la combinazione delle parole nel discorso. Le parole, ricorda lo Straniero al suo interlocutore, non si combinano a caso. Se prendiamo nell’ambito degli onómata parole che indicano azioni, ossia verbi (rémata) quali ad esempio cammina, corre, dorme e le uniamo, otterremo una enumerazione. In modo analogo se selezioniamo nomi che indicano coloro che compiono le azioni, ad esempio leone, cervo, cavallo e li combiniamo, avremo una semplice successione di elementi. Se scegliamo invece un elemento del primo gruppo (ad es. impara) e lo combiniamo con uno del secondo (ad es. uomo), solo in questo caso, dice lo Straniero, otterremo symploké (ad es. L’uomo impara). Il termine greco, derivato dalla radice ie. *plek-, produttiva oltre che nel greco pléknymi nel lat. plectere, nel russo plesti e nel tedesco flechten, rimanda all’idea di “intreccio”. È grazie a questo intreccio di parole, ricorda sempre lo Straniero a Teeteto, che si forma «il primo e il più breve dei discorsi (lógos)». In questo importante dialogo fra lo Straniero e Teeteto sono posti i termini della questione che si vuole qui mettere a tema, ossia per quali * Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano.  Cfr. Platone, Sofista  d -  e.  Con questo termine il greco designa sia il lessico nella sua totalità sia la particolare classe lessicale dei nomi.  Si vedano J. Pokorny, Indogermanisches etymologisches Wörterbuch, I. Band, Francke Verlag, Tübingen-Basel , pp. - e M. Fasmer, Ètimologicˇ eskij slovar’ russkogo jazyka (Dizionario etimologico della lingua russa), Moskva , vol. , p. , lemma pletu; www.fasmer.net.  Platone, Sofista  d, in Tutti gli scritti, Bompiani, Milano , p. .

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vie la bellezza abbia a che vedere con il livello più profondo della coesione del discorso, là dove si origina la sua sensatezza, ossia la capacità del discorso di far riferimento alla realtà. . Coesione del discorso e congruitas Uno sguardo preliminare alla struttura semantica del termine bellezza in alcune delle nostre lingue (krasota, Schönheit, beauty, beauté), nome astratto ottenuto per derivazione dalle rispettive forme aggettivali, può aiutare nel circoscrivere la questione che intendiamo indagare. Una diffusa errata identificazione dell’“astratto” con l’immateriale, con il non fisico e con l’invisibile in opposizione al “concreto”, inteso invece come ciò che è fisico, materiale, visibile potrebbe impedire di cogliere la funzione comunicativa del sostantivo astratto. L’italiano astratto è participio passato di astrarre, dal lat. abs-trahere, che significa “strappar via”. Astrarre, come suggerisce l’etimologia stessa del termine, consiste sostanzialmente nello “strappar via” il modo d’essere dall’entità che lo possiede mediante un processo appunto di “astrazione”, l’operazione con cui dall’esperienza si ottengono i concetti. A differenza quindi del nome concreto, che designa un’entità di cui si può dire “esiste” o “non esiste”, il nome astratto, proprio per la sua natura depredicativa, in quanto nome di un modo di essere, ossia di un predicato, indica qualcosa che accade o non accade, che ha luogo o non ha luogo. Vediamo ora in quali termini la bellezza sia preposta al costituirsi del senso, il munus che ci scambiamo nell’attività comunicativa.



Cfr. E. Rigotti, S. Cigada, La comunicazione verbale, Apogeo, Milano , p. . Cfr. ivi, p. .  Come suggerisce l’etimologia di comunicazione, che rimanda alla radice lat. munus, i sensi che ci scambiamo nell’atto comunicativo sono beni accostabili al munus, termine polisemico con cui il latino indica sia il dono sia la responsabilità che esso implica. Si veda in proposito E. Rigotti, Conoscenza e significato. Per una didattica responsabile, Mondadori Università, Milano , pp. -. Per la polisemia di munus, con il triplice significato di donum, onus e officium cfr. E. Forcellini, Lexicon Totius Latinitatis, Padova , , pp. -, lemma munus; www.syntax.t.org./lexical/forc.php. Un’approfondita analisi del semantismo del termine si deve a É. Benveniste, Don et échange dans le vocabulaire indo-européen, in Id., Problèmes de linguistique générale, Gallimard, Paris , pp. -. 

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Nel passo del dialogo platonico sopra citato l’autore sostanzialmente si interroga sulle condizioni necessarie perché possa avvenire la combinazione delle parole nel discorso. Anticipando alcuni principi della coesione del discorso messi in luce nella riflessione linguistica moderna, egli segnala che si ottiene connessione (symploké) solo quando le parole che vengono combinate sono “fatte”, sono “predisposte”, sono “adatte” a stare le une con le altre. Dal passo platonico emerge inoltre che le parole sono predisposte a stare le une con le altre quando si differenziano dal punto di vista della funzione comunicativa svolta. Così i verbi, che hanno la funzione di indicare le azioni, sono fatti per stare con i nomi, la cui funzione consiste appunto nell’indicare coloro che compiono le azioni. Per avere sia pure il più breve dei discorsi occorrerà quindi combinare almeno due elementi che siano complementari dal punto di vista logico-semantico: essi dovranno indicare modi di essere, come ad es. verde, intelligente, camminare, ed esseri che possono essere in quel modo, come ad es. prato e uomo. Poiché in sede logica i modi di essere coincidono con i predicati e le entità da loro coinvolte con gli argomenti, possiamo affermare che perché si dia symploké occore che la combinazione degli elementi in gioco attivi un nesso predicativo-argomentale. Non si potrà però dire che La montagna è intelligente, che Le idee sono verdi o che Il sasso cammina. Ciascun predicato stabilisce infatti come debbano essere le entità da lui selezionate come argomenti, imponendo su di essi precisi requisiti di natura logico-semantica. La differenziazione funzionale delle parole che si intrecciano nel discorso mette in luce innanzitutto una sostanziale corrispondenza (adaequatio) tra articolazione della realtà (rei) e strutturazione della categorialità linguistica con cui la ragione categorizza la realtà (intellectus). Come la realtà si struttura in entità e relative proprietà, statiche (qualità) o dinamiche (azioni), così la lingua dota i parlanti di categorie che consentono di individuare le entità, le parole-argomento, e di categorie che permettono di individuare le loro proprietà, ossia le parole-predicato.

 Nel De veritate Tommaso d’Aquino così definisce la verità: «Praeterea, veritas est adaequatio rei et intellectus (De veritate, q. a. s. c. , in Corpus Thomisticum -; www.corpusthomisticum.org/).

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La complementarietà fra predicati e argomenti e la rispondenza di questi ultimi ai presupposti imposti dai predicati affinché il nesso predicativo-argomentale sia congruo (Luigi cammina vs. *La casa cammina) evidenzia inoltre che la sensatezza del discorso, esito di una congruità, nasce dallo splendore di una consonanza, ossia dall’accadere di una bellezza. . Il discorso al crocevia di denominazione e predicazione: alcune implicazioni antropologiche Quando combiniamo le parole nel discorso, anche il più breve, ciò che otteniamo si situa all’intersezione di un atto di denominazione e di uno di predicazione. Osserviamo brevemente in primo luogo il processo di denominazione, che ci permetterà di cogliere la rilevanza dell’impositio nominis dal punto di vista comunicativo e conoscitivo. Non possiamo non partire dalla caratterizzazione dello statuto semantico del nome che è stata proposta nell’ambito della riflessione grammaticale antica, in particolare da Prisciano, la cui approfondita trattazione della nominalità ha costituito uno dei punti di riferimento canonici della riflessione grammaticale successiva.  «Pulchritudo − afferma Ulrich von Straßburg − est consonantia cum claritate» (De summo bono, l. II, fr. , c. ); il passo richiama una formulazione dello Pseudo Dionigi, ripresa anche da san Tommaso :«[...] ad rationem pulchri, sive decori, concurrit et claritas et debita proportio» (Summa theologiae, II-a II-ae, q. , a. ; in Corpus Thomisticum -; www.corpusthomisticum.org/).  Per il nesso bellezza-splendore può essere significativo osservare gli sviluppi del semantismo del termine russo krasa. Da un significato originario di “splendore” (blesk) il sostantivo ha sviluppato il significato di “ornamento”, nel senso di qualcosa di splendente, e poi quello di “bellezza, beltà”. Cfr. N.M. Šanskij, T.A. Borbova, Ètimologicˇ eskij slovar’ russkogo jazyka (Dizionario etimologico della lingua russa), Prozerpina, Moskva .  L’elaborazione della categoria dei nomina substantiva nella tradizione grammaticale greca e latina è trattata approfonditamente in S. Cigada, Nomi e cose. Aspetti semantici e pragmatici delle strutture nominali, ISU, Milano , pp. -.  Sulla importanza di Prisciano per la riflessione grammaticale medioevale si veda E. Vineis, A. Maierù, La linguistica medioevale, in Storia della linguistica, a cura di G.C. Lepschy, Il Mulino, Bologna , pp. -. La teoria dei modi significandi proposta dai Modisti si pone in linea di continuità con la caratterizzazione delle parti del discorso

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Il nomen substantivum, ricorda Prisciano, è quella «pars orationis» che presenta la proprietà di «significare substantiam et qualitatem», a differenza dell’aggettivo (nomen adiectivum), che indica invece solo la qualità («significat qualitatem»). Il sostantivo è pertanto il «nome di una realtà» e si oppone per questo aspetto all’aggettivo, così chiamato in quanto «nome che si appoggia» (adiectivum) al precedente. Mentre l’aggettivo esprime la qualitas in se stessa, in quanto suscettibile di appartenere ad entità diverse, il sostantivo ricorre alla qualitas per individuare una certa entità (substantiam). Esso attesta che qualcosa si dà e che è fatto in un determinato modo. Il sostantivo coincide sostanzialmente con un segmento di realtà esperita, che viene semioticizzata. Di fronte ad una serie di occorrenze di una determinata realtà (per es. tigre), la percezione di una «comunanza di natura» (communio naturalis), nel nostro esempio una comunanza di natura tigrina, porta l’uomo a cogliere tali elementi come simili e ad attribuire loro un nome, che li comprende in uno sguardo unificante. Attraverso la denominazione l’uomo attesta inoltre la convinzione che quell’aspetto di realtà esperita può tornare a presentarsi, anche se secondo modalità nuove. Per la sua natura linguistico-semiotica il nome ha una istanza strutturale alla referenza. Esso è portatore di un’ipotesi ontologica di esistenza o di accadimento, ossia indica qualcosa che esiste o che accade in un certo modo. Dare il nome alle cose è profondamente relato a quell’attività originaria con la quale l’uomo si accorge dell’esserci della realtà. Questa non si presenta al suo sguardo come una continuità indifferenziata. In essa egli scopre le cose con le loro distinzioni e se stesso fra le cose, diventando così consapevole della propria collocazione particolare all’interno della totalità del reale. La distinguibilità è quindi una condizione impredella grammatica antica. Va in ogni caso segnalato che con la grammatica speculativa dei Modisti la teoria grammaticale si stacca dal ruolo di strumento ermeneutico nei confronti del testo, che caratterizzava invece la grammatica antica. Cfr. Cigada, Nomi e cose, cit., p. .  Prisciani Institutio grammatica I, , -, H. Keil ed., Teubner, Lipsiae .  Cfr. Cigada, Nomi e cose, cit., p. .  Cfr. H. Putnam, Significato, riferimento e stereotipi, in Filosofia del linguaggio, a cura di P. Casalegno, P. Frascolla, A. Iacona, E. Paganini, M. Santambrogio, Cortina, Milano , p. .  Cfr. Cigada, Nomi e cose, cit., p. .

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scindibile per il conferimento del nome, che viene dato alle differenze individuate nella realtà. Un ulteriore tratto caratteristico del nome è la rilevanza del frammento di mondo a cui esso rimanda. Si conferisce un nome a ciò che è riconosciuto come significativo, meritevole di attenzione. Non c’è soluzione di continuità tra il processo denominativo e il dinamismo della ragione, la quale coglie nella realtà la presenza di entità che sono un bene per lei e ne destano l’interesse. Adamo che impone i nomi «a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche» (Gn , ) si distingue dalle altre creature proprio per la sua attività di nomoteta, momento emblematico della «manifestazione della ragione» (projavlenie rasuma) propria della soggettività umana. L’impositio nominis, oltre a documentare l’esistenza di aspetti della realtà percepiti come significativi, introduce alla presa di possesso della realtà nominata. Pur non potendo esaurire la totalità dell’oggetto designato, il nome è un’importante chiave di accesso al reale. Nelle sue profonde riflessioni sulla portata ontologica della denominazione (naimenovanie) Pavel Florenskij sottolinea in modo insistito la natura rivelativa del nome. Ponte tra soggetto e oggetto, la parola introduce il soggetto nella sostanza della cosa, realizzando la rivelazione dell’oggetto in noi e di noi nell’oggetto. Lo sguardo incapace di fissarsi sulle cose del sedicenne Victor dell’Aveyron, l’enfant sauvage allevato dai lupi trovato nei boschi del Sud della Francia, evidenzia in modo palese le lesioni irrecuperabili nella percezione della realtà provocate dal man-

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Cfr. Rigotti, Cigada, La comunicazione verbale, cit., p. . Si rimanda in proposito a P. Florenskij, Termin (Il termine), in Id., Socˇ inenija v cetyrëch tomach (Opere in quattro volumi), Tom  (), Mysl’, Moskva , p. ; trad. it. Termine, in Id., Attualità della parola. La lingua tra scienza e mito, a cura di E. Treu, Guerini e Associati, Milano ,pp. -.  Anche se negli anni Venti «si era già spenta la polemica sull’imeslavie e consumata la forza creativa del simbolismo», entrambi i fattori hanno senza dubbio contribuito all’interesse di Florenskij per il nome e per la sua valenza ontologica; cfr. G. Lingua, Introduzione a P. Florenskij, Il valore magico della parola, Medusa, Milano , p. .  Mediatrice (posrednik) fra mondo esterno e interno, la parola, afferma Florenskij, è un’«entità anfibia»; essa vive sia nell’uno sia nell’altro mondo ed intesse specifiche relazioni fra i due. Si veda in proposito P. Florenskij, Magicˇ nost’ slova (Il valore magico della parola), in Id., Socˇ inenija (Opere), cit., p. ; trad. it. Florenskij, Il valore magico della parola, cit., p. . 

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cato apprendimento del linguaggio. Quando prendiamo per mano i nostri piccoli e li accompagniamo per il giardino della vita, insegnando loro a dare i nomi alle cose, li introduciamo a una prima conoscenza e per un certo verso mettiamo loro in mano la realtà. Non possiamo non accennare a questo punto alla dimensione comunitaria dell’attività denominativa, che viene esercitata dall’uomo nella comunità linguistica. Si procede alla denominazione quando esiste un bisogno condiviso di dare il nome a un’entità, ritenuta meritevole di attenzione da parte non solo del singolo ma di un’intera comunità. L’intreccio delle parole, si diceva poc’anzi ad inizio di paragrafo, si situa al crocevia di un atto di denominazione e di uno di predicazione. Riandiamo brevemente al passo del Sofista, quando sul finire del dialogo lo Straniero ricorda a Teeteto che il più elementare dei discorsi, ottenuto dalla symploké, «afferma e non solo denomina». Questo invita a soffermarsi, sia pur brevemente, sulla capacità che ha il discorso, attraverso la sua sensatezza, di far riferimento alla realtà. La constructio congrua ottenuta dall’intreccio delle parole non va identificata con una somma di parole, sebbene queste si presentino in una successione lineare. Si tratta di qualcosa di qualitativamente diverso, un po’ come la combinazione degli elementi in chimica produce

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Cfr. J.M.G. Itard, Mémoire et rapport sur Victor de l’Aveyron, in L. Malson, Les enfants sauvages. Mythe et réalité, Union Générale des éditeurs, Paris , pp. -; C. Navarini, Filogenesi e ontogenesi del linguaggio. L’umanità contesa dei ‘bambini selvaggi’, in «L’analisi linguistica e letteraria», II, , , pp. -.  Platone, Sofista  d, in Tutti gli scritti, cit., p. .  Prisciano così definisce la combinazione significativa delle parole nel discorso: «Constructio est dictionum congrua in oratione ordinatio» (Institutio grammatica, VIII).  Molta riflessione linguistica russa, intenta a motivare semanticamente la connessione sintattica, si fonda su una concezione di composizionalità di tipo logico-semantico. Si pensi ad esempio all’orientamento categoriale e non concatenativo del modello linguistico di Šaumjan (cfr. K.S. Šaumjan, Strukturnaja lingvistika [Linguistica strutturale], Nauka, Moskva , Id. Applikativnaja grammatika kak semanticˇ eskaja teorija estestvennych jazykov [Grammatica applicativa come teoria semantica delle lingue naturali], Nauka, Moskva, ), all’approccio alla sintassi nell’ambito della Teoria Smysl-Tekst (cfr. I.A. Mel’cˇuk, Opyt teorii lingvisticˇ eskich modelej Smysl-Tekst: semantika, sintaksis [Per una teoria dei modelli linguistici Senso-Testo: semantica, sintassi], Nauka, Moskva, , , Id., Semantics. From meaning to text, John Benjamins, Amsterdam, ), alle riflessioni sulla semantica della sintassi di Elena Paducˇeva (O semantike sintaksisa [La semantica della sintassi], Nauka, Moskva ).

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sostanze composte non riconducibili alla semplice somma dei singoli componenti. Metafore suggestive, quali ad esempio quella del corpo umano, usata da Platone nel Fedro, o la metafora della costruzione di una nave, proposta da Prisciano, aiutano a cogliere la natura profonda dell’organizzazione del discorso. «Ogni discorso», dice Socrate a Fedro, è quasi «un che di vivente», un corpo appunto, in cui testa, tronco ed estremità sono disposte «in modo conveniente l’una rispetto all’altra e rispetto al tutto». Il discorso può essere paragonato anche alla costruzione di una nave, in cui «l’insieme organizzato» di tavole, corde, chiodi e pece «dà origine a qualcosa di unitario e di totalmente nuovo», per l’appunto una nave. L’atto predicativo, attribuendo un modo di essere, ad esempio dorme, ad una entità, ad esempio bambino, non aggiunge una parola-predicato ad una parola-argomento, ma fa passare da due elementi dotati di significato ad una espressione anch’essa significativa, Il bambino dorme, che costituisce la rappresentazione di un frammento di mondo possibile. La consapevolezza della propria collocazione particolare all’interno della realtà totale permette all’uomo, proprio grazie alla lingua, di distanziarsi dalla realtà rappresentandola. Le strutture linguistiche ottenute dalla combinazione significativa delle parole prima ancora che rappresentazioni di frammenti di mondo reali si configurano come descrizioni di frammenti di mondo possibili. Se il confronto con l’esperienza consente di individuare stati di cose descrivibili nei termini delle espressioni linguistiche ottenute composizionalmente, quanto asserito verrà a coincidere con la rappresentazione di un frammento di mondo reale, passando dall’ambito della potenzialità a quello dell’attualità. Qualora invece lo stato di cose affermato non corrisponda ad uno stato di cose reale, l’affermazione sarà mendace. La lingua, attraverso la denominazione e la predicazione, apre così all’uomo lo spazio della libertà e della responsabilità nei confronti della verità. Si conclude qui il nostro percorso, che ci ha portato a vedere per quali vie la bellezza interpella il nostro dire nel suo livello più profondo, 

Platone, Fedro  c, in Tutti gli scritti, cit., p. . Cfr. Prisciano, Institutio grammatica, l. XVIII; . XI, I,-II,.  Sulla composizionalità come ambito della potenzialità o virtualità cfr. Rigotti, Cigada, La comunicazione verbale, cit., pp. -. 

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quello della coesione del discorso, là dove si origina la sua sensatezza − una claritas conseguente a una consonantia − e da qui la sua capacità di far riferimento alla realtà. È forse a questo punto più evidente il commitment, la responsabilità a cui chiama il munus che i parlanti si scambiamo nell’attività comunicativa. Riferimenti bibliografici AQUINAS T., -: De veritate, in Id., Corpus Thomisticum, www. corpusthomisticum.org/ AQUINAS T., -: Summa theologiae, in Id., Corpus Thomisticum, www. corpusthomisticum.org/ BENVENISTE É., : Don et échange dans le vocabulaire indo-européen, in Id., Problèmes de linguistique générale, Gallimard, Paris, pp. -. BURNET I., : Platonis Opera, voll. I-II, Oxford University Press, Oxford. CIGADA S., : Nomi e cose. Aspetti semantici e pragmatici delle strutture nominali, ISU, Milano. FASMER M., : Ètimologicˇ eskij slovar’ russkogo jazyka (Dizionario etimologico della lingua russa), Moskva, vol. ; www.fasmer.net FLORENSKIJ P., : Attualità della parola. La lingua tra scienza e mito, a cura di E. Treu, Guerini e Associati, Milano. FLORENSKIJ P., a: Antinomija jazyka (Le antinomie del linguaggio), in Id., Socˇ inenija v cetyrëch tomach (Opere in quattro volumi), Tom  (), Mysl’, Moskva, pp. -. FLORENSKIJ P., b: Magicˇ nost’ slova (Il valore magico della parola), in Id., Socˇ inenija v cetyrëch tomach (Opere in quattro volumi), Tom  (), Mysl’, Moskva, pp. -. FLORENSKIJ P., c: Termin (Il termine), in Id., Socˇ inenija v cetyrëch tomach (Opere in quattro volumi), Tom  (), Mysl’, Moskva, pp. -. FLORENSKIJ P., : Il valore magico della parola, Medusa, Milano. FORCELLINI E., , : Lexicon Totius Latinitatis, Padova; www.syntax.t. org./lexical/forc.php ITARD J.M.G., : Mémoire et rapport sur Victor de l’Aveyron, in L. Malson, Les enfants sauvages. Mythe et réalité, Union Générale des éditeurs, Paris, pp. -. LINGUA G., : Le parole e le cose. La filosofia del nome di P.A. Florenskij, in «Dialegesthai», , www.mondodomani.org/dialegesthai/ MEL’Cˇ UK I.A., , : Opyt teorii lingvisticˇ eskich modelej Smysl-Tekst: semantika, sintaksis (Per una teoria dei modelli linguistici Senso-Testo: semantica, sintassi), Nauka, Moskva.

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Irina Celyševa*

Gli aggettivi di valutazione estetica dal latino alle lingue romanze

Io sono una linguista e mi occupo soprattutto di storia delle lingue romanze. La storia della lingua, che sembra occuparsi di particolari e dettagli, spesso può dirci molto non solo della lingua in quanto tale ma anche della percezione del mondo, della mentalità di epoche lontane, del contenuto di concetti chiave, e lo fa sulla base della coscienza consuetudinaria. Il mio intervento è dedicato al processo formativo nelle lingue romanze degli aggettivi usati per indicare la valutazione linguistica, e in particolare un tipo specifico di valutazione linguistica, quella estetica, ossia le parole col significato di “bello”, “magnifico”, “carino” ecc.. I linguisti, sia gli specialisti di linguistica generale che gli specialisti di storia delle varie lingue, hanno studiato molto il problema della formazione del significato delle parole, gli spostamenti semantici, la polisemia, sia nell’ambito della tradizionale semantica storica che risale a Michel Bréal, sia nell’ambito delle recenti tendenze della ricerca come la linguistica cognitiva e la tipologia lessicale (ad esempio, nel campo della romanistica i lavori di A. Blank e P. Koch, o i lavori di linguistica generale di specialisti russi come A. Zaliznjak, E. Rachilina e altri). Noi ci poniamo l’obiettivo di comparare i dati di varie lingue romanze e su questa base cercare di capire quali concezioni del bello siano state alla base della formazione del vocabolario, prendendo particolarmente in esame lo spostamento semantico nel passaggio dal latino alle * Istituto di Linguistica dell’Accademia Russa delle Scienze; Università Ortodossa Umanistica San Tichon, Mosca.  Il presente lavoro è solo una parte della ricerca svolta nel quadro del Programma di ricerche fondamentali della Sezione si scienze storico-filologiche dell’Accademia delle Scienze russa; il progetto si intitola Isoglosse semantiche dell’area culturale europea (responsabile A.A. Zaliznjak).

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lingue romanze. Si tratta dello spostamento da una sfera semantica all’altra, spostamento che dice molto anche sul contenuto del concetto di “bellezza”, nonché delle associazioni ad esso legate. Ci accontenteremo qui, fondamentalmente, di alcuni esempi presi dal vocabolario e di materiale dei corpora elettronici, ben sapendo che usare i testi arricchirebbe molto la nostra esposizione e renderebbe più variegato il quadro. Inoltre è chiaro che l’elemento assiologico in questo contesto può essere applicato a varie sfere, e che noi, partendo dal significato fondamentale lo confrontiamo con una valutazione estetica che può estendersi a varie sfere valutative. Com’è noto, il termine latino fondamentale per indicare un alto valore estetico è l’aggettivo pulcher, che è andato perso nelle lingue romanze. Probabilmente ha contribuito il fatto che era percepito come appartenente a un registro stilistico alto e, con la parziale perdita della tradizione di leggere i classici latini, è entrato a far parte di una serie di perdite lessicali come vir (uomo, marito), tellus terra, sidus stella, cruor sangue, ecc. È molto rara nei testi romanzi la presenza di varianti che risalgano a pulcher, di solito in seguito a latinizzazioni artificiali o a trasposizione di fonti latine; si veda ad esempio il testo spagnolo Liber Regum, del , dove pulcra compare ma spiegato col termine formosa: «Noemi la fermosa, ond dizen pulcra Noemi» [CNDHE]. In base alla scelta del termine fondamentale, il mondo romanzo si è diviso in due regioni: in una è continuato l’aggettivo latino bellus, nell’altro formosus (a voler essere precisi, nel rappresentare le parole latine come fonte delle forme romanze bisognerebbe indicarle all’accusativo, ma dato che noi consideriamo il significato e non la forma, lasciamo i lessemi latini al nominativo). Se bellus, rispetto a pulcher, significava nel latino classico un grado minore della qualità, formosus, senza avere ancora perso il legame con il sostantivo forma, oltre al significato generico di “bello, magnifico”, conservava anche il significato etimologico di “elegante, di bella forma”. È più facile delineare la seconda regione del mondo romanzo dove ha prevalso formosus, rappresentata da Spagna (hermoso), dalla Balcanoromania (romeno frumos) e, in una certa misura, dai dialetti dell’Italia meridionale. Nelle altre regioni linguistiche prevalgono i successori di bellus. Basti ricordare i versi della prima opera poetica in francese: la

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Sequenza di sant’Eulalia (IX sec.), dove bel esprime una valutazione estetica ed etica: di Eulalia si dice «bel auret cors, bellezour anima» (bello era il suo corpo, ancor più bella la sua anima). Per quanto riguarda le regioni di diffusione di formosus, uno sviluppo linguistico coincidente in regioni così distanti non è un fatto comune, però non è neppure unico. Le coincidenze linguistiche sulle ali della Romània (come vengono chiamate in linguistica le regioni estreme, a est e ad ovest, di diffusione delle lingue romanze) si incontrano (ad es. lo spagnolo e portoghese mesa “tavolo” e il rumeno mas˘a, mentre abbiamo il francese table, e l’italiano tavola; lo spagnolo pedir “chiedere” dal latino petere e il rumeno pet¸i che vuol dire “chiedere in sposa”, con uno spostamento semantico). Il motivo è che non arrivavano alla periferia le innovazioni linguistiche nate nel cuore del mondo romanzo. Ma la distribuzione del gruppo di parole che stiamo esaminando è un po’ più complessa, poiché in portoghese, lingua vicina allo spagnolo, i principali aggettivi attinenti alla sfera estetica sono invece belo e lindo. Anche in spagnolo bello ha una sua nicchia d’esistenza, cfr. l’espressione “belle arti” che in rumeno fa arte frumoase mentre in spagnolo fa bellas artes. In più, formosus e alcuni derivati da forma sono piuttosto frequenti nei dialetti dell’Italia meridionale: furmusu, furmanti per “bello” [Giammarco]. La diffusione nell’Italia del sud dei derivati del latino formosus, come dei derivati del verbo latino polire (si veda sotto), probabilmente è stata resa possibile da alcuni fattori linguistici interni: le due forme distinte in italiano di “bello” e “veglio” (vecchio), in questa zona dove si confondono i fonemi /b/ e /v/, avrebbero potuto unirsi e creare una spiacevole omonimia. L’etimologia del portoghese e spagnolo lindo testimonia la percezione della bellezza come corrispondenza a determinati canoni e “leggi” fra virgolette. La parola deriva dal latino legitimus “legale”, “legittimo” e quindi “perfetto”, mentre la forma fonetica (sincope della vocale post tonica e metatesi tm > mt > nd) indicano del passaggio orale della parola nello spagnolo (cfr. il doppione dotto etimologico legitimo). E tuttavia è stata proposta anche un’altra etimologia per lindo con le relative associazioni che avrebbero portato a formare il significato della parola a partire dal latino lindus, “puro” [Machado]. Da un lato, come vedremo in seguito, i concetti di “puro” e “bello” nelle lingue romanze si trovano costantemente legati. Ma, dall’altro, l’esame del corpus stori-

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co della lingua spagnola dimostra che lo sviluppo del significato “bello” in diacronia proviene dal significato “legittimo”, “corrispondente alle norme”. Nei primi testi ispanici in lindo prevale esattamente il significato di “legittimo”; si veda ad esempio la Cronaca di Alfonso X (): «Rey [...] ouera dos filios. Ell uno lindo» (Il re aveva due figli. Uno legittimo). Nei monumenti letterari del XIII - prima metà del XIV secolo mujer linda significa “moglie legittima” e non ”bella donna” come nello spagnolo moderno [CNDHE]. In italiano la parola lindo si considera un prestito dallo spagnolo, ma nel suo significato di “assolutamente pulito” si concretizza appunto l’associazione di purezza e bellezza, cosa che appare in modo ancor più evidente nello sviluppo degli esiti romanzi del latino politus: italiano pulito, francese poli, occitano poulit, polit. Dal punto di vista etimologico, politus discende dal participio del verbo latino polire: “rendere liscio, allineare, accomodare”. Per ricostruire nei particolari la linea di sviluppo del latino politus nelle varie regioni della Romània ci vorrebbe una ricerca a sé; osserviamo soltanto alcune linee generali. Nella lingua occitana (Francia del sud) polit (pulid) è diventato il lessema fondamentale per esprimere la valutazione estetica accanto a bel: in Provenza abbiamo uno chato pulido, “una bella ragazza”. A questo corrisponde il francese poli “gentile” e l’italiano pulito. In spagnolo esiste l’aggettivo ormai antiquato pulido “caro, piacevole alla vista”, mentre in spagnolo antico la forma polido, pulido si trovava anche nel significato di “gentile”: «nudrido polido y delicatamente» (educato per essere gentile e delicato) [CNDHE, XV sec.]. Come vediamo, qui le lingue romanze si sono distanziate radicalmente nei significati. In tutti i casi è avvenuto il passaggio dal concreto all’astratto: l’aggettivo col significato di “liscio, lucido, splendido” incomincia a indicare il “pulito in genere”, il “bello in genere”. Nei dialetti dell’Italia meridionale pulitu ha anche il significato di “bello”: il calabrese fimmana pulita è l’italiano “bella donna” [Martino, Alvaro]. Va detto che anche l’antico francese poli aveva il significato di “grazioso, attraente”: main polie “bellissima mano”, bouche polie “bella bocca” [DMF]. Interessante che ora in francese questa parola, viceversa, non riguarda più una qualità esterna degna di alto apprezzamento estetico (ben resa dalla frase scherzosa: Sois poli, si t’es pas joli, «se non sei bello, sii almeno gentile»).

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D’altro canto, nella lingua dei poeti del movimento Félibrige (occitano, seconda metà del XIX sec.) poulit significava sia “bello” che “gentile”, come in francese [Fourvières]. Pur con tutta la varietà degli spostamenti semantici, sembra che per politus la linea di sviluppo sia andata dal significato di “pulito” al significato di “bello”; su questa base risulta ancora più interessante l’italiano lindo dove, probabilmente, è avvenuto il contrario: la parola spagnola col significato di “bello” ha prodotto quella italiana col significato di “assolutamente pulito”. Ma a prescindere dalla direzione generale di sviluppo del significato, l’aggettivo italiano lindo conferma una volta di più l’associazione tra purezza e bellezza. Passiamo ora agli aggettivi che indicano un livello meno alto di valutazione e quindi un grado minore della qualità, ossia “carino, grazioso”. Come abbiamo già detto, questa sfera in latino era espressa dall’aggettivo bellus, ma dopo che questo aggettivo che ha preso il posto di pulcher, la sua nicchia semantica doveva essere riempita da un altro termine, e qui le lingue romanze hanno scelto varie vie. Forse la valutazione estetica più originale per formazione è il francese joli, parola di origine scandinava che probabilmente è arrivata all’antico francese attraverso i normanni [DHF]. In antico francese indicava piuttosto uno stato d’animo che una qualità esteriore: “allegro, contento”. Dall’aggettivo deriva il verbo joliver, con significato di “divertirsi, rallegrarsi”. Si veda un esempio significativo del XIV secolo, dove joli completa beau “bello” ma non ne è il sinonimo: «Fame est d’atrative nature, Combien que soit et bele et pure; Mez de tant est plus atrative Qu’est plus curieuse et jolive» (La donna è attraente di natura ma, per quanto essa sia magnifica [belle] e pura, essa è ancor più attraente se è curata e allegra [jolive]) [DMF]. Proprio il significato di “allegro” si è conservato in parte nell’inglese jolly, prestito dall’antico francese, e nell’antico italiano giulivo, il cui significato nel TLIO è definito «che è o appare lieto, gioioso, spensierato». Joli è legato al germanismo jöl, nome di una festa pagana che cadeva a metà inverno poi, come capitava non di rado, assimilata alla festa cristiana del Natale; etimologicamente significa “festivo” [DMF] (cfr. l’inglese Yule “Natale, festività natalizie”, che risale allo stesso etimo germanico). E siccome alla festa tutti sono contenti, diventa “allegro”. Ma non si può non vedere che joli suona simile al francese joie “gioia”,

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cosa che può aver facilitato il passaggio semantico a “festivo”, “allegro, contento”. E dunque, in questo caso c’è il passaggio dallo stato interiore alla descrizione di qualità esteriori: “allegro” significa “carino, piacevole” e “bello”. L’indicazione dell’avvenenza estetica può unirsi all’idea di qualcosa di piccolo, minuscolo, e naturalmente in questo caso non si può parlare del massimo grado di una qualità. Cfr. ad esempio il francese mignon, dove il legame tra “carino” e “piccolo” si esplicita chiaramente se lo accostiamo all’italiano mignolo, o con il catalano minyò “bambino”, che derivano dalla stessa radice, probabilmente di provenienza onomatopeica. Nella stessa linea si inserisce l’aggettivo friulano ninin “carino, bellino”, pure formato da una radice onomatopeica che dà l’idea del piccolo. Cfr. il friulano: un ninin “un pochino”. Ancora un altro modo di formazione degli aggettivi di valutazione estetica è il passaggio in questa sfera di parole che indicano una valutazione generica, di solito formati con suffissi diminutivi, ad esempio i derivati di bonus come lo spagnolo e il portoghese bonito (bello, carino) o il catalano bonic con uguale significato. Lo stesso passaggio sta alla base del russo chorošen’kij, derivato da chorošij. In tal modo, in questi aggettivi si manifestava lo stesso legame tra bello e buono che esiste nel latino bellus derivato da bonus. Nella storia delle lingue romanze si trovano spesso esempi simili per cui, su un certo materiale linguistico, in certe epoche si ripete un passaggio semantico simile, ossia lo sviluppo avviene a spirale. L’italiano carino non deriva da buono, come gli aggettivi elencati sopra, ma da caro, cioè avviene un’indicazione di valore legata non alle qualità dell’oggetto, ma al rapporto con esso. Osserviamo che nell’italiano lo spostamento semantico è sottolineato anche dall’uso dei suffissi: carino e tutt’altra cosa che caretto, anche se si tratta in entrambi i casi di suffissi diminutivi il cui significato categoriale coincide. Un posto particolare occupano i termini legati alle azioni magiche, che sottolineano l’influenza dell’oggetto della valutazione sul soggetto: il francese charmant participio dal verbo charmer “esorcizzare, fare un incantesimo”, che deriva dal latino carmen, “esorcismo, formula magica”. Lo stesso in russo: ocharovatel’nyj “incantevole” viene dal verbo ocharovat’ (incantare). Lo spagnolo guapo, oltre al significato di attrattiva esteriore, ha anche

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ulteriori sfumature di significato: “audace”, “insolente”, “attaccabrighe”, “bellimbusto”. La parola viene fissata relativamente tardi (nel CNDHE il primo esempio risale al ), proveniva dalla lingua parlata per la quale si propone un’etimologia basata su una trasposizione metaforica: dal latino vappa “vino andato a male”, da cui, sempre in latino, il significato di “uomo cattivo, fannullone”. A dire il vero, questa etimologia può essere messa in dubbio a causa dell’occorrenza tardiva di questa parola nella lingua spagnola. Dallo spagnolo la parola è stata presa a prestito nei dialetti dell’Italia meridionale per poi diffondersi in tutto il paese, spesso come sostantivo: italiano guappo, siciliano e calabrese vappu, lombardo vap. Nelle parole italiane si uniscono in varia misura il senso dell’attrattiva esteriore, da bellimbusto, e il significato di delinquenza, appartenenza al mondo criminale, “bellezza”, “bellimbusto”, “attaccabrighe”, “membro di una banda”, “camorrista” [Cortellazzo, Marcato]. Viene subito in mente l’uso gergale nel russo moderno del termine krasavcˇ ik “figo”, che sottintende il comportamento non del tutto lecito di una data persona. Osserviamo alcuni altri prestiti nella sfera della valutazione estetica. Il catalano maco “bello” viene considerato un prestito dallo spagnolo majo [Corominas], nel quale, come in guapo, l’idea dell’attrattiva esteriore si unisce all’idea di monelleria, insolenza, sfrontatezza. Come aggettivo, questa parola spagnola è diventata notissima grazie ai quadri di Francisco Goya, che l’ha resa popolare usandola per indicare il popolino di Madrid: majo e maja. È interessante che in catalano, nell’assumere lo spagnolo majo, si afferma soprattutto la prima idea, mentre nei dialetti italiani che assumono guapo si afferma la seconda. Gli esempi che abbiamo fatto non esauriscono certo tutte le possibilità che ci offre la storia della lingua per capire a cosa si collegava nella coscienza quotidiana il concetto di bellezza. Abbiamo lasciato da parte tutta l’area balcano-romena, dove pure sono presenti numerose testimonianze interessanti in questo senso, ad esempio l’unione nel romeno mîndru del significato di “orgoglioso” e “bello”, benché questo lessema romeno risalga allo stesso etimo slavo del russo mudryj “saggio”; purtroppo la fissazione tardiva del romeno scritto (XVI sec.) non permette allo studioso di ricostruire correttamente tutte le tappe dei passaggi semantici. In tal modo, considerando la formazione del significato degli agget-

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tivi di valutazione estetica si può vedere che il concetto di bellezza era legato all’idea di un canone da seguire, all’idea di purezza, era correlato alla festa e alla letizia; ma la bellezza esteriore poteva rappresentare anche una minaccia se era generata dalla magia, oppure se era l’attributo di un mascalzone o di un criminale. Questi legami non sono frutto di un’elaborazione filosofica, nessuno vi ha ragionato sopra, semplicemente così si pensava e così si parlava. Riferimenti bibliografici CORAMINAS J., -: Diccionari etimològic i complementari de la llengua catalana, voll. -, Barcelona. CORTELLAZZO M., MARCATO G., : I dialetti italiani: dizionario etimologico, Torino. CNDHE: Corpus del Nuevo Diccionario Histórico del Español, versione elettronica http://web.frl.es/CNDHE/org/publico DHF, : Dictionnaire historique de la langue française, sous la dir. d’A. Rey, tt. -, Paris. DFM: Dictionnaire du Moyen Français (-), versione elettronica www.atilf. fr/dmf FOURVIÈRES X., DE, : «Lou Pichot Tresor», Dictionnaire provençal-français; français-provençal, Paris. GIAMMARCO E., : Dizionario abruzzese e molisano, Roma. MACHADO J.P., : Dictionário Etimológico da Língua Portuguesa, voll. -, Lisboa. MARTINO G.A., ALVARO F., : Dizionario dei dialetti della Calabria meridionale, Roma. TLIO: Tesoro della lingua italiana delle origini, versione elettronica http://tlio. ovi.cnr.it/TLIO