Il cybercapitale. Dalla macchina per filare senza dita alla macchina per pensare senza cervello

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Il cybercapitale. Dalla macchina per filare senza dita alla macchina per pensare senza cervello

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Enzo Modugno

Il Cybercapitale Dalla macchina per filare senza dita alla macchina per pensare senza cervello manifestolibri

"La scienza come potere del capitale sul lavoro". Marx 1867

"La scienza è un istituto del mondo borghese". Lukacs 1923

"Il pensiero si reifica in un processo automatico che gareggia con la macchina che esso stesso produce per farsi finalmente sostituire".

Horkheimer e Adorno 1944 "Internet ha portato dappertutto la legge del mercato". Dan Schiller, 19 9 9 "Il cybercapitale manderà la gente a morire nelle fogne". Don de Lillo 2003 "La scienza economica è una tecnica per sottomettere il mondo". Franco '1 Bifo" Berard.i 2015

PREMESSA IL CAPITALE DI KAru, MAfuc UN SECOLO EMEZZODOPO

Il libro primo de Il Capitale fu pubblicato ad amburgo nel 1867. Sono molti gli aspetti d, modo di produzione capitalistico che quest'opera riesce a interpretare con insuperato rigon soprattutto le cause della crisi economica, il rapporto del capitale con il lavoro e con 1

scienza, la critica del carattere feticistico della merce. Senza queste analisi non capiremm,

nulla della merce conoscenza. Sono premesse indispensabili queste per un'indagine sull trasformazioni produttive degli ultimi decenni. Infatti se Marx, nella sua critica storico-sociale, ha considerato "la scienza come poter

del capitale sul lavoro" quando, al culmine di un processo storico, la scienza si

meccanizzata con la cibernetica, quando cioè la calcolabilità - che per Max Weber e GyOrgy

Lukacs è il fondamento dell'azienda capitalistica - ha iniziato la sua crescita esponenziale centuplicandosi a ogni nuovo "supercalcolo", allora è aumentata non solo la capacità pratica e conoscitiva della scienza, ma è aumentato anche il potere del capitale sul lavoro~ (contrariamente a quanto affermano i "cyberutopisti" ) ed è aumentata la concentrazione

della ricchezza. È dunque il nuovo rapporto capitale/scienza meccanizzata con la cibernetica che ha determinato l'accelerazione della produzione (e della sovrapproduzione) e perciò l'ascesa (e la crisi) delle nuove forme di cybercapitale: il neoliberismo non è la causa ma la conseguenza di questo rapporto. Non c'è più bisogno del "compromesso keynesiano", non è più necessario preservare col welfare le virtuosità dei team di operai e tecnici, che ora sono state incorporate nelle macchine e per questo i nuovi lavoratori possono essere più

facilmente dispersi, riassunti, delocalizzati. È dunque il nuovo rapporto capitale/cibernetica ciò che deve essere indagato e che può fornire indizi per il superamento dell'attuale forma dei rapporti di produzione.

I. CONCETTO DI CYBERCAPITALE

1 . Nuovi mezzi di produzione

Il pensiero scientifico messo a punto dal criticismo kantiano - che avrebbe dovuto liberare dal dogmatismo gli uomini universali" dell'industrializzazione, come aveva annunciato e come ancora credono i "cyberutopisti" - si è invece ormai definitivamente reificato. Si è cioè cristallizzato in una struttura esterna, si è separato dall' "uomo che pensa", gli si è 11

contrapposto come ratio estraniata, come condizione oggettiva materiale della produzione, come mezzo di produzione e prodotto di un cybercapitale che, accanto alla macchina "per filare senza dita", possiede ora anche una macchina per pensare senza cervello: la cibernetica, che ha consentito al capitale di portare facilmente a compimento la matematizzazione del mondo, l'appropriazione capitalistica del sapere, la produzione capitalistica di conoscenze ridotte in algoritmi. La scienza realizzata nella macchina non solo conferisce potere sul lavoro al capitale, ma si presenta per di più come opera sua (Marx, Capitolo VI inedito). 2. Nuovi lavoratori

Ma l'affermarsi di questo nuovo capitale va di pari passo col completo svuotamento, con l'alienazione, con la separazione del lavoratore da quella universalità delle conoscenze divenuta la ricchezza sociale che egli cerca di far sua - come sperano i "cyberutopisti" - ma dalla quale, invece, "viene ingoiato". Accumulata dal capitale, prodotta, scambiata, consumata produttivamente dalle nuove macchine, la conoscenza gli si contrappone in questa forma, come condizione della produzione che appartiene ad altri, dalla quale è stato separato e ridotto a sua appendice,

a lavoratore subordinato. Dunque ciò che accade in fabbrica dove - secondo Marx - la divisione del lavoro fa violenza all'essenza umana dell'uomo e "l'individuo stesso viene diviso, atrofizzato e reso abnorme", si ripresenta - secondo Gyorgy Lukacs - quando le "facoltà spirituali" separate, staccate dalla personalità complessiva, sono comprate e vendute sul mercato del lavoro e si trasformano in merce. Questo processo storico non sarà rovesciato - e la conoscenza non sarà riappropriata -

con una più avanzata riforma dell'istruzione o frequentando il web, ma con lotte per la disalienazione di questa nuova ricchezza sociale. Il capitale dunque, che ha perfezionato con la cibernetica il potere di controllo su ogni attività umana, ha ridotto anche le nuove figure di lavoratori in salariati, condannandoli alla subordinazione e a un nuovo dogmatismo.

Questo lavoratore infatti trova ora incorporato nelle macchine un sapere già formato, sul quale non può e non deve intervenire, poiché diverrebbe un "fattore di disturbo" nel calcolo cibernetico: deve solo stargli "accanto" e ri-produrlo infinite volte. Il suo contenuto è sottratto alla sua esperienza, non può indagare il modo in cui si forma, non può guidare né controllare gli algoritmi che trascendono il suo mondo sensibile, che vengono "non si sa da dove, e sul credito di principi di cui non conosce l'origine" come scriveva Kant contro un

altro dogmatismo. Questo sapere è prodotto "prima di lui e alle sue spalle": un tempo dal parroco, ora dai supercreativi delle corporation. "una nuova religione di cui non conosciamo né origine né struttura", secondo i ricercatori di Ippolita. "Finiamo tutti controllati, coccolati, spiati, minacciati, derubati" da "potenti macchine, gli algoritmi, nel cui interno è vietato guardare" scrive Nicola Zamperini. Il computer come "opera aperta" è stata un'illusione del secolo scorso che sopravvive contro ogni evidenza. Questi algoritmi non sono sistemi aperti e interattivi- come invece si ostinano a credere i "cyberutopisti"1 - sono sistemi chiusi, segreti, blindati, "dominati esclusivamente dalla logica del mercato", come scriveva Franco Carlini. Così il "mobile esercito di metafore", che per Nietzsche era ancora una produzione spirituale, è diventato ora il vero motore della produzione capitalistica, la nuova ricchezza

sociale, la nuova comunità che i knowledge worker cercano invano di far propria: perché liberare il sapere dai limiti del cervello umano è la specialità attuale del capitale. Il sapere è potuto diventare una merce prodotta capitalisticamente perché la sua reificazione ha preceduto le nuove forme di capitale, ne è stata un presupposto. Il capitale ha potuto affermarsi ancora una volta perché ha trovato da un lato il sapere reificato, cioè separato dal lavoro intellettuale, portato all'esterno, cristallizzato in un apparato materiale, incorporato in una macchina; e d'altro lato, altrettanto separata dal sapere, una massa di lavoratori mentali dequalificati, più istruiti degli operai ma meno dei vecchi laureati, condannati alla mediocrità dei diplomi e alla liceizzazione delle università, cioè prodotti da un sistema formativo diventato ad ogni livello ciò che era un tempo la scuola di avviamento al lavoro. Dunque i governi non si sono sbagliati quando, non permettendo più a nessuno di fermarsi alla quinta elementare, hanno però liquidato la formazione intellettuale come diritto di tutti, condannando tutti alla dequalificazione. Ma perché si continuano a fare riforme che immiseriscono l'istruzione proprio quando le conoscenze sono diventate la parte più importante della produzione? Questo teorema dei governi, che stabilisce un nesso tra l'importanza crescente delle conoscenze e la qualità decrescente dell'istruzione, esprime in realtà l'essenza stessa delle trasformazioni del modo di produrre, e costituisce un tentativo di razionalizzazione capitalistica del sistema scolastico. Infatti il compito assegnato dal sistema produttivo all'istruzione pubblica non è quello di produrre nuove conoscenze, che si possono comprare più vantaggiosamente sul mercato mondiale, né quello di produrre supercreativi, (ne servono pochi e ci pensano le corporation), bensì quello più urgente dal punto di vista del capitale di produrre in massa il lavoratore mentale dequalificato, cioè una figura intermedia tra il vecchio operaio e il vecchio laureato. Così la formazione, che dovrebbe essere un diritto costituzionale, è stata liquidata dal prevalere planetario del pensiero ridotto a cosa, strumento, utensile universale, "puro organo degli scopi", semplice accessorio dell'apparato economico. L'obbiettivo del movimento operaio di estendere a tutti la formazione che era riservata a pochi, si rivela

impraticabile come la pretesa di quei socialisti ottocenteschi che volevano far diventare tutti capitalisti. Ma a più riprese nuovi movimenti di massa hanno sottratto l'istruzione al monopolio dei pedagogisti del governo, facendone un importante terreno di scontro sociale. È in gioco la felicità di conoscere che, ricorda Adorno, già Lutero e Bacone considerarono con sospetto. E che anche oggi piace poco ai ministri dell'istruzione. Il disciplinamento di questa nuova forza-lavoro diventa ben presto un compito urgente per le classi dominanti perché le lotte cominciate nel Sessantotto sono state la risposta, il conflitto sociale, la "révolte logique" degli strati sociali che hanno dovuto sopportare, privati di ogni rappresentanza politica, i costi della trasformazione del modo di produrre, che ha richiesto la produzione di

nuovi mezzi di lavoro e di nuovi lavoratori. I governi, dunque, hanno eseguito l'importante compito di produrre "piccoli scienziati",

come li ha definiti graziosamente la saggistica manageriale, che "non sono come gli scienziati veri ma hanno un vantaggio, sono tanti". È questa separazione che ha consentito al cybercapitale di affermarsi. È per questo che il

compito affidato al sistema d'istruzione non è stato quello di produrre nuove conoscenze, né quello di produrre "scienziati veri", bensì quello più urgente di produrre "tanti piccoli scienziati1', perché le macchine più avanzate possono essere introdotte solo se è presente in

massa questo genere di forza-lavoro.

3. Marx, la filosofia del Novecento, il Sessantotto. Per fondare materialisticamente un'indagine sulle trasformazioni produttive si dovrebbe dunque tener conto oltre che dell'opera di Marx, della critica del pensiero matematizzato, tema centrale della filosofia del Novecento, e delle lotte di massa cominciate nel Sessantotto contro la produzione, la trasmissione e l'appropriazione capitalistica del sapere: un nuovo

livello dello scontro sociale che la filosofia e i movimenti hanno affrontato e che i partiti comunisti non hanno saputo vedere, determinando così una delle ragioni del loro declino.

4. "Marxismo occidentale"

La prima critica dell'economia della conoscenza può essere considerata quella di Gyiirgy Lukacs che, riprendendo Marx in Storia e coscienza di classe, (1923), con una considerazione illuminante afferma che la scienza è un istituto del mondo borghese. Sostiene cioè che la reificazione prodotta dalla scienza coincide con la reificazione prodotta dal capitalismo, e che è "ingenuo e dogmatico" identificare la conoscenza logico-formale con la conoscenza in generale: è invece solo una sua forma storica che è servita al capitalismo per la sua ascesa ed è stata parte essenziale della sua genesi. In quest'opera sono legate insieme, per la prima volta, due linee di pensiero: da un lato l'analisi della reificazione o "carattere feticistico della merce" condotta da Marx nel

Capitale, fino ad allora totalmente ignorata dagli stessi interpreti Marxisti; d'altro lato la critica filosofica della scienza, fino ad allora considerata irrazionalismo spiritualistico. Due temi strettamente connessi che sono diventati decisivi, perché la scienza - scrive Luk3.cs

- considera gli oggetti separati dal processo complessivo, cioè li considera come cose e non anche come relazioni sociali. Sono rapporti tra persone ma appaiono come rapporti tra cose: è questa la critica del carattere feticistico della merce che Lukacs ha saputo rilevare dal Capitale, primo tra i suoi interpreti perché Plekhanov, Lenin, Kautsky e il Marxismo positivistico della Seconda Internazionale non possedevano gli strumenti teorici per approfondirla. Così i "fatti", separati dalla realtà sociale vivente, isolati dalla totalità, diventano inattendibili, sono "il massimo feticcio teorico e pratico - scrive Luk3.cs - del pensiero

borghese" che perciò è incapace di indagare la questione dell'origine, e del superamento, della mercificazione, della reificazione, cioè delle forme nelle quali si manifesta l'essere in questo modo di produzione. Con questo libro di Lukacs la critica del feticismo entra finalmente nella storia del Marxismo teorico. E la critica filosofica della scienza, cioè la critica dell'intelletto astratto, empirico, matematico, che va da Jacobi, Schelling, Novalis a Hegel e a Bergson, esce

definitivamente dalla sua preistoria romantica. Una critica dunque che non è né ecologia né epistemologia, non riguarda cioè né il suo valore pratico, come già avvertiva Bergson, né il suo valore conoscitivo. Anche se questi valori fossero davvero ciò che ne pensano i tecnoentusiasti, non verrebbe meno l'esigenza, e la radicalità, di una critica storico-sociale

della scienza, cioè una critica del "potere sul lavoro" che la scienza conferisce al capitale. Tuttavia, come abbiamo visto, quanto al suo valore conoscitivo la scienza - nonostante "gli incommensurabili successi e l'inarrestabile sviluppo", come dice Heidegger - non è però in grado di conoscere proprio ciò che sarebbe suo primo compito conoscere, cioè la contraddizione dell'oggetto della conoscenza- come, dopo Lukacs, sostiene anche Adorno-. Questo perché il pensiero matematizzato, col suo ideale conoscitivo di modelli logicamente

inoppugnabili e non contraddittori, non è in grado di vedere e quindi di indagare la contraddizione immanente dell'oggetto da conoscere. "La logica binaria- scrive Roberto Finelli-è priva di ambivalenza e complessità''. Infatti se è vero che gli oggetti sono contraddittori non perché sono "esterni", come credeva Hegel, ma perché hanno assunto la forma di merce, come scrive Marx, è anche vero che non

vi sono più oggetti "esterni" che non abbiano assunto la forma di merce: tanto che è stato calcolato persino il prezzo dell'intero pianeta terra, quattro milioni di miliardi di dollari. Lo stesso Marx già scriveva che "il mondo sensibile è un prodotto storico", e Luk3.cs che la natura è diventata una categoria sociale" perché gli oggetti hanno ricevuto una nuova 11

11

cosalità nella quale si annienta e si dissolve il loro originario ed autentico carattere di cosa". Heidegger lo seguirà nel 1965 scrivendo che "l'oggetto si dissolve in entità che debbono essere costantemente producibili, disponibili e sostituibili ... l'oggettività si trasforma in impiegabilità" (con questo termine sta indicando, anche lui, la mercificazione). E questo diventa sempre più vero quando la matematizzazione del mondo trasforma l'intera realtà in dati che si vendono sul mercato globale. In questo senso oggettivazione e mercificazione hanno finito col coincidere e per questo Adorno può scrivere che l'idealismo di Hegel fu più realistico di Kant. Per questo Storia e coscienza di classe - che ha dato l'avvio

al "Marxismo occidentale" come si chiamarono Lukacs e Korsch a differenza delle burocrazie

sovietiche - ha influenzato così a lungo la cultura del Novecento e lo stesso Heidegger e ci interessa ancora oggi, perché cominciava a interpretare le trasformazioni che ci riguardano.

Per questo delle due correnti nelle quali si è diviso il Marxismo del Novecento, l'una scientifica o dogmatica, l'altra del Marxismo critico o "occidentale" che va dal Lukacs del 19 2 3 ad Adorno a gramsci a Sartre, è quest'ultima che oggi si impone come un indispensabile strumento teorico. Ma appunto, vent'anni dopo questo libro di Lukacs, sotto la spinta dello sviluppo incessante del capitale fisso, il pensiero calcolante si meccanizza con la cibernetica. La prima critica di questa nuova macchina è del 1944: annunciata da Horkheimer e Adorno due anni prima del primo calcolatore e quattro prima degli studi di Claude Shannon e dell'opera di Norbert Wiener che con Cybernetics le impose questo nome. Nelle prime pagine della Dialettica dell'illuminismo infatti si può leggere di un pensiero reificato in un processo automatico che gareggia con la macchina che esso stesso produce per farsi finalmente sostituire.

Dunque questa critica del pensiero reificato, dell'intelletto calcolante, diventa essenziale per un'analisi del carattere feticistico delle nuove merci, per fondare materialisticamente un'indagine sulle più recenti trasformazioni produttive. Horkheimer e Adorno lo hanno segnalato per tempo, descrivendo l'estrema, definitiva reificazione del pensiero. Un tema che ha occupato a lungo il dibattito filosofico. Per Husserl, che scrive nel 1936, la Crisi delle scienze europee è la crisi di una società che si vuol servire delle scienze occultando la costituzione di una società razionale. L'opera di Husserl dunque può essere letta, scrive Enzo Paci, come rivelazione dell'occultamento capitalistico di questa verità. Per Sartre "la serialità pietrifica" il sapere, alla "conoscenza astratta del sovrano" si

contrappone la "viva comprensione del proletariato". Ma Heidegger, che finalmente nel 19 6 5 ha letto la versione tedesca di Cybernetics di Norbert Wiener - un matematico che era stato con lui allievo di Husserl - nella conferenza dal titolo La fine del pensiero nella forma della filosofia può affermare che la cibernetica, considerata

l'esito più avanzato del dominio della tecnica in cui sfocia l'intera metafisica occidentale, non solo ha decretato la fine del pensiero nella forma della filosofia e ne ha preso il posto nell'assicurare la conoscenza, ma è a sua volta controllata "da un potere che pianifica e controlla". Bisognerebbe trarre tutte le conseguenze da questo avvertimento: "il pericolo viene dalle scienze" che con la cibernetica hanno colonizzato il mondo, "l'uomo che pensa ha perso il centro".

"La presenza della natura entro l'ambito tematico della fisica nucleare rimane impensabile fintanto che essa è rappresentata ancora come oggettività invece che come impiegabilità". E prosegue: "La cibernetica è ancora agli inizi. Ma il suo dominio è garantito, dal momento che essa stessa è a sua volta controllata da un potere che imprime il carattere di pianificazione e cli controllo non solamente sulle scienze, ma su ogni attività umana". Tuttavia, conclude Heidegger, ''nella misura in cui l'uomo si comprende ancora come libero essere storico, egli potrà riuscire a non consegnare la determinazione di sé al modo di pensare cibernetico".

5. Il Sessantotto

Così, mentre la prima segatrice meccanica "soccombette agli eccessi della plebaglia", la macchina informatica è stata attaccata dai filosofi. E subito dopo, nel Sessantotto, una plebaglia di "liberi esseri storici" - studenti e lavoratori passati dalla "serialità" al ''gruppo in

fusione", come dice Sartre - attacca questo modo di pensare nelle università e nelle scuole, scopre che è il capitale "quella potenza che attraversa e domina ogni produzione tecnica", capisce che non diventerà mai più classe dirigente, diventa perciò capace di movimenti autonomi, stabilisce alleanze con gli operai-massa sotto attacco, progetta con loro mondi nuovi - come sarebbe stato un mondo mao-dadaista? - perché è capace di produrre una ricchezza nuova, diventa una classe. Bakunin e Rosa Luxemburg "tornano in città" e segnano

il declino dei partiti comunisti istituzionalizzati. È un inizio, debutta così, tra il '68 e il '77, il nuovo lavoratore '1mentale".

Dunque la critica del sapere reificato, matematizzato, pietrificato, tema centrale della filosofia del Novecento, ha avuto il suo momento più alto quando è entrata nella storia

come tema centrale dei movimenti cominciati nel Sessantotto contro la produzione, la trasmissione e l'appropriazione capitalistica del sapere. Lotte di massa che hanno identificato praticamente per la prima volta la reificazione prodotta dalla scienza con la reificazione prodotta dal capitalismo, che è ormai la caratteristica principale di questo modo di produzione. Se invece si volesse credere che l'essenziale di questi movimenti siano state le controculture, se ne coglierebbe lo splendore ma si mancherebbe la comprensione del nuovo livello dello scontro sociale che la filosofia del Novecento e questi movimenti stavano annunciando. Una condizione

nella quale,

ancora una

volta,

11

l'ente umano

si oggettiva

11

disumanamente" (Marx) e si rinnova la "reificazione" (Lukàcs), la mercificazione" (Adorno),

la "serialità" (Sartre), l'"impiegabilità" (Heidegger). Queste analisi e queste lotte pertanto dovrebbero costituire le premesse necessarie (ma ignorate dai "cyberutopisti") per l'analisi del capitale che si è meccanizzato con la cibernetica.

6. La merce conoscenza. Ormai dunque il passaggio dal non sapere al sapere non è più un problema critico perché le

conoscenze - gli "avvisi utili dati al genere umano" come dice Giambattista Vico - ridotte in algoritmi si possono comprare sul mercato globale. Sono le merci più vendute, come mezzo di godimento, "valanga di informazioni minute e divertimenti addomesticati", e come mezzo

di produzione, ratio calcolante, componente essenziale e ormai prevalente di ogni altra merce, "prodotte in serie come le automobili" fin dagli anni '70. Tutte le conoscenze prodotte dall'umanità fino al 2003 avrebbero occupato cinque miliardi di gigabyte: la stessa quantità veniva prodotta nel 2010 ogni due giorni e nel 2017 in pochi minuti, una nuova "immane raccolta di merci", industria 4.0 e Big Data in continua evoluzione, dagli anni '90 il settore con

più investimenti, nuovi valori d'uso depositari come prima di valori di scambio. Le conoscenze, già ridotte in algoritmi nel corso del processo storico di reificazione del pensiero - quindi non un risultato ma un presupposto del nuovo capitale - avevano già la forma necessaria per passare dalla mente alla macchina. Un passaggio fondamentale

che ne ha modificato profondamente la struttura e ha permesso al capitale di intervenire direttamente nella loro produzione. Infatti se la merce conoscenza artigianal.e" aderiva 11

così strettamente alla mente che in realtà non circolava, la merce conoscenza prodotta 11

capitalisticamente" può invece circolare sul mercato mondiale perché si è separata dalla

mente, perché è prodotta, trasmessa, ri-prodotta e utilizzata dalle macchine, e ciò vuol dire che dipende interamente dalla crescente capacità di calcolo dell'apparato cibernetico-tecnico saldamente in mano alle forme attuali di capitale. Perché queste conoscenze sono molto diverse dalle conoscenze definitive della scienza dell'B00, che spiegavano realtà "solide", descrivibili con concetti come la causa con l'inevitabile effetto, il principio con la dovuta conseguenza. Ora non è più necessario garantire il ''vero" (il "falso" detiene quote di mercato), né spiegare la conoscenza o assegnare

condizioni al pensiero - era questo il compito della filosofia - la cibernetica ha modificato questi concetti, ne ha negato la necessità. Le conoscenze - con le rappresentazioni che le guidano: informazione, controllo, richiamo - sono diventate determinazioni matematiche

che hanno bisogno di essere aggiornate di continuo, la loro efficacia è misurata incessantemente con l'effetto che produce il loro impiego, si affermano definitivamente come una funzione che permette di operare scelte tra possibilità probabili, con continuo bisogno quindi di correzioni e modifiche secondo l'ordine delle frequenze statistiche. Perciò dipendono dalla capacità di calcolo dell'apparato cibernetico-tecnico che il cybercapitale adopera come mezzo di produzione, perché hanno bisogno di essere costantemente alimentate dal flusso di dati, ad ogni istante sono superate da nuove informazioni, e questo ne fa la merce più deperibile e più attesa. Dice Bernard Stiegler che "ha valore solo perché lo perde". Ma lo riacquista: perso il valore della sua prima utilizzazione, viene riutilizzata nei Big Data, che ricombinano ogni sorta di dati per trarne nuove conoscenze. Diventa così praticamente indistruttibile: come succede per l'oro, sarà rivenduta e ricombinata fino alla fine dei tempi. Una merce perfetta.

7. "Pensiero" ed "essere" finiscono nella macchina.

La cibernetica risolve cosi, definitivamente e a livello planetario, il problema critico fondamentale della produzione di conoscenze. Infatti le frequenze statistiche forniscono incessantemente i dati al calcolo, cioè la realtà alla logica, l'essere al pensiero. Su questi due elementi si era giocata la grande questione filosofica per stabilire se l'essere e il pensiero, vale a dire "le cose e il pensar le cose", fossero o meno "un solo e medesimo contenuto".

La logica non può produrre da sola conoscenza, dice Kant nella Critica della ragion pura che perciò teneva distinto l'essere; mentre l'idealismo pretendeva di unificarlo nel pensiero. La cibernetica va oltre, "le cose" ridotte in dati e "il pensar le cose" ridotto in calcolo, sono ora unificati nell'apparato cibernetico-tecnico. Il cybercapitale dunque, dissolvendo l' "io penso", ha risolto a suo modo le questioni della separazione di soggetto e oggetto, di pensiero ed essere, riducendo entrambi alla medesima condizione di parti costitutive di una macchina che controlla ad ogni istante la formazione e l'origine delle conoscenze. Controllo che era

prima il principale compito di filosofi e scienziati. Per questo nel 2008, sulla rivista Wired, Chris anderson può scrivere che, con i Big Data, perfino il metodo scientifico - cioè la formulazione di ipotesi e la loro verifica - è destinato a scomparire, sostituito da un'analisi statistica delle correlazioni di dati. È "la fine della teoria", bastano i dati e la matematica. Ma Heidegger lo aveva preceduto di quarant'anni: la cibernetica- scriveva nel 1965 come

abbiamo visto - ha decretato "la fine del pensiero nella forma della filosofia", ne ha preso il posto nell'assicurare la conoscenza.

Per questo il passaggio dal non-sapere al sapere non è più un problema critico. La produzione "artigianale" di conoscenze, nel corso di un lungo processo storico, aveva ridotto il sapere a conoscenza logico-matematica: ma, in questa forma, la produzione di conoscenze

può finalmente passare dalla mente alla macchina e diventare così produzione capitalistica. Il pensiero nella forma della filosofia non può più garantire la formazione del sapere e l'unificazione delle scienze, è stato superato dalla cibernetica.

B. Produrre una nuova classe. Postfordismo sovrastrutturale.

"Chi vede solo le cose prodotte non si accorge che i lavoratori sono un prodotto essenziale del processo di valorizzazione del capitale" scrive Marx. Bisogna indagare questa speciale produzione se si vuol capire il livello dello scontro sociale che stava emergendo col Sessantotto. Naturalmente produrre una nuova classe significa prima di tutto distruggere quella vecchia diventata, per il capitale, obsoleta e parassitaria. Lavoro difficile, affidato nei paesi più avanzati ai meccanismi del mercato del lavoro e alla concorrenza tra i lavoratori.

Ma quando questo non è possibile con la sola forza dell'economia, quando sono deboli le strutture, si ricorre alle sovrastrutture. Era già successo. Quando le classi dirigenti, agli inizi del Novecento, non ce la fanno a introdurre il fordismo, a produrre l'operaio-massa e a distruggere il vecchio operaio di mestiere e le sue organizzazioni, ecco i totalitarismi, che possono essere considerati in questo senso come una sorta di fordismo sovrastrutturale.

Col postfordismo si pone lo stesso problema, bisognava distruggere l'operaio-massa, le sue organizzazioni, le sue garanzie e in aggiunta distruggere anche l'autonomia e le garanzie di impiegati, ragionieri, geometri, ingegneri, professori ecc., per arrivare a una

figura intermedia tra il vecchio operaio e il vecchio laureato, un lavoratore flessibile capace di servire una "struttura non vivente" che manipola rappresentazioni simboliche: una macchina informatica. La formazione e il disciplinamento di questo lavoratore mentale" sono la vera questione, 11

il presupposto del cybercapitale, perché le macchine informatiche possono intervenire solo se è presente in massa questa forza-lavoro. E se il capitale non riesce a ottenerla con la coercizione economica, con la concorrenza reciproca tra i lavoratori sul mercato del lavoro non ancora avviato, allora deve intervenire la coercizione politica: "nous massacrerons les révoltes

logique" (Rimbaud). 9. Il caso italiano, una "révolte logique". Questa coercizione fu affidata in Italia, dopo molte tentazioni autoritarie, a un 11

compromesso storico" tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista.

Il movimento del '77 si scontrava con una sorta di postfordismo sovrastrutturale, che

non fu mai paragonato al fascismo: ma operai e studenti sentivano sulla propria pelle che in realtà il "compromesso storico" stava facendo lo stesso sporco lavoro, stava pian piano distruggendo la vecchia classe per produrne una nuova da consegnare, opportunamente disciplinata, al più sofisticato sistema di sfruttamento. E l'episodio del segretario del sindacato CGIL Luciano Lama all'università di Roma nel 1977 ne è stata la messa in scena, la rappresentazione visiva. Lama tornava da un convegno

al teatro Eliseo dove aveva appena attaccato le garanzie dell'operaio-massa avviando una politica di sacrifici". Veniva ora all'università ad attaccare l'autonomia del lavoro 11

intellettuale, a disciplinarlo. Effettivamente far capire all'operaio-massa che con il fordismo finiva anche il suo valore d'uso - e quindi il suo valore di scambio - e agli studenti che non c'era più bisogno di loro come classe dirigente, era un compito arduo. Forse nel Partito Comunista c'era ancora qualcuno che credeva di poter fare ciò che gramsci aveva indicato a proposito del fordismo, la realizzazione cioè, con un sistema di vita nostro, di quel modo più avanzato di produrre, ma volgendo in libertà ciò che altrove era necessità. Quali erano invece realmente gli intenti fu reso evidente dall'episodio di Lama. Rifiutarono un dialogo paritario, tentarono la persuasione autoritaria con altoparlanti da stadio - la sventura cresceva nella piazza mentre si effondeva la sua voce (Marguerite Duras) - persero la pazienza e risposero all'ironia degli studenti con le mazze dei sindacalisti. Furono cacciati ma nel pomeriggio il ministro degli Interni Cossiga continuò la politica con altri mezzi, blindati. Era questo nella realtà il "compromesso storico": "nous massacrerons les révoltes logique 11 •

Infatti, se Enrico VIII usò la frusta e la forca per portare al mercato del lavoro i riluttanti che preferivano il vagabondaggio, Democrazia Cristiana e Partito Comunista invece - ma lo si ricorderà altrettanto a lungo - hanno usato, a seconda delle competenze, le armi in piazza, le bombe, i servizi, la banda armata gladio, oppure le mazze dei sindacalisti, la delazione, la persecuzione politica, l'esilio, la magistratura, processi esemplari come quello ad adriano Sofri, anche dopo decenni, meglio se innocenti, per far intendere a tutti il giusto modo di comportarsi. Eppure, nonostante secoli di galera e discriminazioni senza fine, il movimento continuava a crescere.

Ma appunto il '68-'77 è stato un inizio. Ancora nel 2016 il governo del Partito Democratico macinava le ultime vecchie garanzie: dall'abolizione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori alla riforma della "Buona Scuola". Ancora una volta si trattava di cancellare ciò che restava del vecchio operaio e del vecchio intellettuale per produrre in massa il nuovo salariato. 10. VonHayekvince il Nobel

Produrre e disciplinare questa nuova classe si rivelava dunque una questione sempre più complessa. Il capitale ha sempre usato la macchina consapevolmente come una potenza ostile all'operaio, come l'arma per stroncare le rivendicazioni ecc. E questa volta anche la macchina informatica doveva servire a questo.

Ma per disciplinare i nuovi lavoratori era necessario cambiare non solo le condizioni sociali ma anche le abitudini individuali, non solo la fabbrica ma tutta la società. Una svolta epocale, una questione di vita o di morte per il cybercapitale che ha impegnato in questa operazione tutte le sue risorse.

Diventava necessario cioè avviare un processo storico - un presupposto non un risultato

del cybercapitale - che separasse l'operaio-massa dalle sue conquiste sociali e i diplomati e i laureati dalla loro autonomia: perché tutti perdessero ogni oggettività, e cioè quel sistema di garanzie che erano percepite come una vera proprietà collettiva, unica difesa contro le vicissitudini dell'economia di mercato. Infatti le virtuosità dei lavoratori che prima andavano preservate con lo stato sociale, sono ora incorporate nelle nuove macchine

e diventa più facile dislocare, disperdere o ricombinare il lavoro. Per questo tramonta irrimediabilmente il compromesso keynesiano, e tutti sono costretti a trovare l'unica fonte

di guadagno nella vendita precaria e non garantita della propria forza-lavoro. Per questo torna in auge il liberismo, von Hayek vince il Nobel (1974), e tutti devono essere costretti a lavorare alle nuove condizioni poste dal cybercapitale. Perciò, come ha mostrato Guido Viale sul quotidiano il manifesto (20-11-2018), "nativi" e migranti hanno gli stessi interessi: infatti quello che Marx ha chiamato "esercito industriale

di riserva" deve essere numeroso perché possa funzionare sul mercato del lavoro la concorrenza tra lavoratori che tiene bassi i salari. Ma se questo "esercito" contiene anche

i migranti senza difesa e senza diritti a causa della propaganda incessante di sovranisti e xenofobi allora anche i salari dei "nativi" tendono a scivolare sotto il livello di sussistenza. Il nuovo capitale cerca di ridurre i salari alla media dei paesi emergenti perché, con le nuove tecnologie, può spostare facilmente il lavoro in quei paesi o utilizzare quei paesi in patria attraverso i migranti. È la storia di tutte le migrazioni: il razzismo serve a non concedere diritti ai migranti per

mantenere bassi i loro salari, e per conseguenza i salari di tutti: a loro dunque andrebbe data non solo accoglienza ma perseguita anche una alleanza politica e rivendicativa contro l'avversario comune.

Robert Owen avrebbe detto: a partire dall'introduzione generale delle macchine informatiche le persone, salvo poche eccezioni, sono trattate come macchine secondarie e subordinate, e si è dedicata più attenzione al perfezionamento della materia prima fatta di silicio che a quella fatta di corpo e di spirito. Si dedica dunque più attenzione al "capitale fisso". Quindi non si possono prendere per buone, come alcuni fanno, le dichiarazioni dei ministri quando parlano dell'importanza del "capitale umano", come se i mezzi di produzione, così credono i "cyberutopisti", fossero diventati ora i nostri cervelli. Che invece ormai, "salvo poche eccezioni", sono venduti al

mercato, subordinati alle macchine e, se va bene, diventano tutt'al più "capitale variabile". A questo punto un'altra révolte sarebbe logicissima. 11. Lajilosojiajinisce nella macchina.

Come abbiamo visto, non solo il criticismo kantiano, da dispositivo contro il dogmatismo, è finito invece cristallizzato nella nuova macchina, ma questa realizza, a suo modo, anche la

pretesa dell'idealismo. Finiscono quindi nella macchina i trecento anni della "sovranità del cogito". Che questa fosse tramontata è stato più volte segnalato, da Whitehead a Foucault, da Lévi-Strauss a

Merleau-Ponty. Ma è Heidegger che, con più precisione, vede nella cibernetica la ferraglia pensante che ha causato questa fine. Ha avuto la stessa sorte la filosofia superstite che, per affrontare l'azione disgregatrice delle tecnologie dell'informazione, ha cercato scampo ponendosi al loro servizio su un tema che le riguarda: la validità e la struttura del linguaggio. Dalla filosofia analitica all'epistemologia, dall'empirismo logico alle neuroscienze, sono state approfondite le problematiche dei linguaggi artificiali che elaborano informazione. Invece ha cercato di resistere chi ha tentato di ristabilire il primato della mente, sia negando che il linguaggio possa essere ridotto a mero strumento dell'espressione concettuale, sia rivendicando la facoltà di pensare e di parlare come mezzo di produzione non oggettivabile nel sistema di macchine (Paolo Virno, Esercizi di esodo. Linguaggio e azione politica, ombre Corte, 2002). Tentativi però che ci appaiono ormai come esercizi di critica romantica perché nel frattempo la situazione è precipitata irrimediabilmente. "Gli incommensurabili successi dell'inarrestabile sviluppo della tecnica fanno ancor sempre credere che sia l'uomo il signore della tecnica. In verità invece egli è il servo di quella potenza che attraversa e domina ogni produzione tecnica - aveva detto Heidegger - l'uomo che pensa ha perso il centro". In realtà dovremmo dire che ha perso valore d'uso - e quindi valore di scambio - perché non è più in grado di produrre tutte le conoscenze richieste dal movimento incessante del capitale fisso. Calcolare la traiettoria per la luna avrebbe richiesto duemila matematici al lavoro per duemila anni. Le conoscenze perciò non possono più essere prodotte "artigianalmente" come, romanticamente, vorrebbero i "cyberutopisti": perché ormai dipendono interamente dalla

capacità di calcolo dell'apparato cibernetico-tecnico, mezzo di produzione delle nuove forme di capitale. Finisce infine nella macchina, ma sembra addirittura che vi si inveri, come pretende la

retorica della Rete, quella sorta di deposito sacro della sapienza del genere umano che da aristotele, e a lungo dall'aristotelismo, è stato attribuito a una particolare funzione dell'anima capace di trascendere i singoli sensi: che oggi i "cyberutopisti" attribuiscono al

Web 2.0 proprio come i rabbini l'attribuivano a una macchina immaginaria, il golem.

12. Nuovi "istituti oggettivi".

Il nuovo capitale volge a suo vantaggio il contrasto tra le forme che la vita produce e gli istituti oggettivi nei quali queste forme si consolidano, si autonomizzano, si separano e si contrappongono. Una contrapposizione che Hegel si proponeva di risolvere, che Simmel riteneva irrisolvibile, che Marx ha analizzato come forze che agiscono "alle spalle degli uomini", che Sartre ha descritto come passaggio dal gruppo in fusione all'istituzione. Questo contrasto ora si acuisce fino a diventare una caratteristica essenziale della produzione

capitalistica: cioè l'accelerata capacità del capitale di trasferire incessantemente nella nuova macchina - un istituto oggettivo divenuto condizione materiale della produzione - le forme che la vita produce, cioè le nuove pluriquali:ficazioni del lavoro, che ne risulta così

irrimediabilmente dequalificato. È questa la specialità sviluppata dal capitale, la capacità di usare le macchine per appropriarsi, con una rapidità senza precedenti, di ogni fiato creativo, di ogni virtuosità dell'intelligenza collettiva, riducendo sul lastrico questi lavoratori. Infatti è il "mezzo di lavoro" a dare l'avvio alla nuova produzione come avvenne, secondo Marx, con la grande industria, non il "lavoro" come avvenne invece con la manifattura, e

come credono oggi i "cyberutopisti" che si entusiasmano per le pluriqualificazioni del lavoro: gli scienziati sociali usa le hanno chiamate empowennent, che i "teorici della moltitudine" hanno tradotto con "eccedenze", cioè virtuosità del nuovo lavoro considerate insussumibili

dal capitale. Invece proprio la facilità di sussumerle è la caratteristica del nuovo capitale che deve essere indagata. Come ha mostrato un pensiero critico radicale e una recente ondata di critici della

Rete, è ormai evidente che anche i 11 lavoratori della conoscenza" debbano essere considerati nei termini dell'opera di Marx, perché lo sfruttamento e la precarietà del lavoro, i "rapporti di cose tra persone" e i "rapporti sociali tra cose", caratterizzano sempre più questo modo di produzione. !

"CYBERUTOPISTI". Questi autori, come vedremo meglio, hanno creduto nelle capacità liberatorie delle nuove

tecnologie come i positivisti credettero nelle tecnologie industriali. Una letteratura vastissima, iniziata con

Norbert Wiener che nel 1948, con Cybernetics, annunciò la nuova teoria dell'informazione e la funzione salvifica del nuovo sapere. Potrebbe essere considerato tra questi autori anche antonio Negri perché - pur avendo utilizzato categorie Marxiane per interpretare il presente con prospettive rivoluzionarie, a differenza delle diatribe degli accademici - ritiene però che le nuove tecnologie non siano macchine capitalistiche che dequalificano i loro addetti, ma strumenti che richiedono la virtuosità di produttori autonomi perché, secondo Negri, nella produzione immateriale il mezzo di lavoro è il cervello. Crede quindi che con le nuove tecnologie siano poste le basi di strutture produttive per una diversa società e che basterà sbarazzarsi di un capitale ormai privo dei mezzi di produzione, ridotto a puro dominio, come l'Anden régime prima della rivoluzione, che sopravvive con la sopraffazione e la violenza. Ma, come abbiamo visto, la situazione potrebbe essere anche peggiore se il potere del capitale fosse aumentato, non diminuito, con l'uso delle nuove macchine che per capacità di calcolo e memoria hanno superato da tempo il cervello umano.

II. FONDAMENTI E PREMESSE

1. Marx e Lukacs. Il sapere costituisce una ricchezza per qualunque società ma, in questa, ha assunto la forma storica di pensiero calcolante e la forma storico-sociale di merce.

E quando il sapere si presenta come "organizzazione cibernetico-tecnica della scienza" posseduta da una nuova forma di cybercapitale che l'adopera per produrre conoscenze e venderle come algoritmi sul mercato mondiale, allora dovrebbe essere compito di un

pensiero critico spiegare non solo perché, dopo un lungo processo storico, le conoscenze siano state ridotte in algoritmi, ma anche perché siano diventate le merci più diffuse. La critica dell'economia dovrebbe perciò contenere, come sua parte costitutiva, accanto alla

critica della produzione materiale anche una critica della produzione di idee. È stato Marx il modello di questo ricongiungimento, ritenendo inseparabili economia e società, lavoro manuale e lavoro intellettuale, merci e feticismo delle merci, produzione e

conflitto di classi. Come si è visto, ha considerato la scienza come "potere del capitale sul lavoro", l'ha storicizzata - nell'Ideologia Tedesca - come "rapporto limitato con la natura condizionato da comportamenti limitati tra uomini"; ha stabilito insomma la connessione

tra produzione e rapporti sociali che mancava agli economisti e ai filosofi e che oggi assume inediti significati confermando la sua centralità. E proprio questa visione più ampia sarà alla base del "Marxismo occidentale", come fu chiamato il pensiero di Gyéirgy Lukacs e Karl Korsch. Una critica del sapere reificato e matematizzato che ha influenzato a lungo la cultura del Novecento e che si rivela ora

essenziale per fondare materialisticamente un'indagine sulle trasformazioni produttive. La filosofia, a partire dai romantici, aveva segnalato per tempo i pericoli delle scienze (ciò che muove le ferrovie muove anche la testa dei filosofi, dice Marx). Ma la critica della

scienza ora non ha più nulla di romantico. Perché il pensiero matematizzato è visto come

una forma storica del sapere che si sviluppa con l'affermarsi del capitale e gli consente di appropriarsene. Perché è "ingenuo e dogmatico" credere che questo pensiero sia la forma naturale eterna finalmente scoperta del sapere. Questa analisi, che può essere considerata la prima critica dell'economia della conoscenza è - come si è già ricordato-al centro dell'opera di Lukacs del 1923, Storia e coscienza di classe, giudicato il primo libro dopo Marx che abbia dato dignità teorica al Marxismo filosofico. Quest'opera introduce due temi, diventati oggi decisivi, utilizzando per la prima volta l'opera di Marx per l'analisi delle trasformazioni produttive che si stavano preparando. Il tema della riduzione del pensiero a procedimento logico-matematico è diventato a tal punto centrale che, con l'avvento dei Big Data, perfino le ipotesi del metodo scientifico cedono il passo, nella produzione di nuove conoscenze, alla sola elaborazione matematica dei dati. Sempre più la scienza, per le sue procedure e i suoi controlli, deve ridurre il pensiero a procedimento logico-formale e deve tenere ben distinti soggetto e oggetto: ma così facendo si rivela come il modo di apprendere la realtà proprio del capitalismo. Infatti è il capitale che, per trasformare senza sosta le cose in merci, deve separare produttore e prodotto, soggetto e oggetto, e ridurre il pensiero a calcolo. Reificato in un processo automatico che si svolge per conto proprio, il pensiero non è più coscienza, intenzionalità, certezza interiore, essere per

sé, io penso, progettualità rivolta al futuro, libertà. Tutto questo è rimosso perché il capitale riconosce come unica possibilità di conoscenza affidabile il procedimento logico-formale. Insomma il capitale, diventato capace - con la cibernetica - di calcolare ogni aspetto della

realtà, sta ormai realizzando a suo modo quell'ideale moderno della conoscenza che è la matematica universale". Ma questa, secondo Horkheimer e Adorno, è solo l'ultimo atto di un

11

sapere che fin dalle origini si è sviluppato al servizio del dominio mostrando la sua attitudine all'asservimento delle creature" e alla docile acquiescenza ai signori del mondo".

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11

L'accresciuta calcolabilità rende possibile la definitiva trasformazione di ogni oggetto in entità "producibili, disponibili e sostituibili", che perdono la loro precedente oggettività

naturale: una trasformazione che Luk3.cs ha chiamato ''reificazione" e Heidegger "impiegabilità". Ogni attività umana, diventata oggetto di calcolo esatto, può essere ora penetrata, prevista,

controllata. La cibernetica dunque realizza la possibilità di produrre anche le conoscenze come merci, quindi può unificare le scienze - sostituendo la filosofia - e misurare la libertà vanificando la politica. Questo nuovo "potere del capitale" però, ha portato con sé anche nuove forme di lotta con nuove indicazioni per il "che fare". 2. La teoria del valore.

Che ci sia Marx a fondamento dell'analisi di Luk3.cs si deve sia alla critica del ''feticismo",

senza la quale non si capirebbe nulla di questo modo di produzione, sia al fatto che la critica Marxiana introduce una visione più ampia, storico-sociale, che mancava agli economisti

classici e che segna la differenza con loro. Infatti - mentre i fisiocratici avevano creduto che la rendita fondiaria venisse dalla terra e non dal lavoro - Smith e Ricardo invece avevano sì analizzato, ''sia pur incompletamente", il valore e la grandezza di valore, e avevano scoperto

che il lavoro è il contenuto nascosto in queste forme. Ma questo è solo l'aspetto "quantitativo" della teoria del valore. Marx invece ha spiegato perché "quel contenuto assuma quella forma, e dunque perché il lavoro rappresenti se stesso nel valore, e la misura del lavoro mediante la sua durata

temporale rappresenti se stessa nella grandezza di valore del prodotto del lavoro". Accanto all'aspetto "quantitativo" infatti ha introdotto l'aspetto "qualitativo" o storico-sociale: considerando inseparabili economia e società, ha identificato il processo sociale nel quale il lavoro privato, utile o concreto rappresentato in un prodotto determinato, per essere

scambiato, per essere trasformato da un valore d'uso in ogni altro, deve diventare lavoro sociale o astratto. E questo può avvenire solo con un equivalente generale, il denaro, quindi

con la sua alienazione (si vedano gli studi di Riccardo Bellofiore). Marx espone più volte

l'opposizione dialettica tra lavoro concreto e lavoro astratto (che dunque non vuol dire 1 '

immateriale" come invece credono i ''teorici della moltitudine": infatti anche il lavoro

immateriale è un lavoro utile o concreto che per essere scambiato deve diventare lavoro sociale o astratto). È così che le cose si animano, diventano "sensibilmente sovrasensibili o cose sociali", non

sono più le persone ma le merci a stabilire il rapporto sociale. È questo il "feticismo che si appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci". Senza questa critica non capiremmo nulla della merce conoscenza. Non si tratta di una necessità naturale, come crede la coscienza borghese, ma invece di '1una

formazione sociale nella quale il processo di produzione padroneggia gli uomini e l'uomo non padroneggia ancora il processo produttivo". La teoria del valore di Marx dunque è unità dei due aspetti, quantitativo" e "qualitativo", 11

che determinano e spiegano la formazione del valore. Chi si ferma al primo aspetto invece è fermo a Ricardo e non riesce a vedere - per esempio i ''teorici della moltitudine!) - come la teoria del valore operi anche nell'economia della conoscenza.

Marx ha sottolineato più volte che il "feticismo" riguarda anche la merce conoscenza, e

Lukacs è stato il primo dei suoi interpreti a riprendere questa visione più ampia: con la sua opera del 192 3 la critica del "feticismo" e la critica della scienza entrano nella storia del Marxismo teorico.

Negli stessi anni anche Isaak Rubin, un economista russo che fu vittima di Stalin nel 19 3 7, ha rilevato l'importanza del "feticismo" nell'opera di Marx. E Alfred Sohn-Rethel, in Lavoro manuale e Lavoro intellettuale, ha mostrato lo stretto legame tra l'emergere del pensiero scientifico e l'affermarsi del modo di produzione capitalistico. Il tema invece della totale, definitiva, riduzione in merce delle cose, si realizza a livello planetario quando, con la cibernetica e i Big Data, il procedimento logico-matematico completa la trasformazione della materia in dati che si vendono sul mercato mondiale. Le cose hanno perso irrimediabilmente la loro oggettività naturale. Ed è proprio su questo tema che il libro di Lukacs, come è noto, fu duramente attaccato

dall'ortodossia sovietica. I suoi critici, a più riprese, gli hanno contestato l'identificazione, come in Hegel, di reificazione e oggettivazione. E Lukacs, come imponevano le burocrazie di partito, dovette fare "autocritica". Disse di aver capito il suo "fondamentale e grossolano errore", che in realtà non aveva commesso, dopo la lettura di quel passo degli scritti giovanili di Marx - Manoscritti economico-filosofici del 1844 - che egli poté vedere prima della loro pubblicazione, dove si sostiene che l'ente umano si oggettiva disumanamente in opposizione a se stesso non perché l'oggetto è esterno, come pensa Hegel, ma perché assume il carattere storico-sociale di merce (Opere Filosofiche Giovanili, 296). Si è discusso a lungo di questa "autocritica" che, ancora oggi, appare inquietante e rivela la durezza dei tempi. Innanzitutto perché è lo stesso Luk8.cs che confessa un "grossolano errore": ma non si

capisce dove sia l'errore visto che, a differenza di Hegel, aveva costantemente indicato nel capitale la causa della reificazione. Tanto che i suoi critici sono costretti a obiettargli che sì, "in apparenza" il suo discorso verte sul capitale mentre "in realtà" il vero imputato

è l'intelletto calcolante: non avendone colto il nesso, finiscono col fare un processo alle

intenzioni (così Lucio Colletti). E poi perché, in quegli stessi scritti giovanili, Marx sostiene che il mondo sensibile è un prodotto storico, un risultato dell'industria, delle condizioni sociali, dell'attività di una serie di generazioni, non è una cosa data immediatamente dall'eternità, torna a dire cioè che è un

prodotto storico. E con l'avanzare del capitalismo questo diventa sempre più vero: secondo

Lukélcs le cose, l'essere, insomma i "fatti" su cui la scienza lavora, si rivelano ora sempre di più non un'oggettività reale ma un'oggettivazione umana, cioè la reificazione, l'alienazione

dei rapporti sociali che col modo di produzione capitalistico hanno preso la forma oggettiva di "cose". Ecco perché il libro di Lukacs ci appare oggi come un passaggio decisivo per fondare materialisticamente un'analisi del nuovo capitale. Egli stesso, nelle pieghe dell"'autocritica",

suggerirà che proprio aver messo l'estraneazione sullo stesso piano dell'oggettivazione aveva 1 '

sicuramente contribuito in notevole misura" al successo del suo libro. Oggi possiamo dire

che Lukacs aveva ragione, l'identificazione Hegeliana di oggettivazione ed estraneazione, sotto l'azione incessante del capitale, stava diventando praticamente vera. Il suo libro stava interpretando un modo di produrre in via di trasformazione: per questo ha influenzato così a fondo la cultura del Novecento. Tuttavia Lukélcs, nel 1923, non poteva ancora considerare le conoscenze come una merce

vera e propria prodotta capitalisticamente: e pure ne constatava la forma di merce. Ma vent'anni dopo, il processo storico di reificazione del pensiero - che ha portato progressivamente il sapere all'esterno separandolo dalla mente - si stava avvicinando al suo risultato più maturo. Lo sviluppo incessante del capitale fisso spingeva il pensiero matematizzato verso il suo compimento, che si sarebbe perfezionato con il passaggio della produzione di conoscenze dalla mente alla macchina. Come si è già visto, la prima critica di questa nuova macchina si deve a Horkheimer e Adorno che, nel 1944, scrivono di un pensiero reificato che produce una macchina ''per farsi finalmente sostituire".

III. QUATTRO INTERPRETAZIONI

L'interpretazione esposta finora è solo un primo punto di vista perché, col passaggio epocale dalla mente alla macchina della produzione, della trasmissione e dell'utilizzazione delle conoscenze, l'emergere di questa nuova ricchezza sociale, e del lavoro per produrla, ha portato

con sé nuove forme dello scontro sociale, ha sconvolto i partiti politici e ha dato l'avvio a ogni sorta di interpretazioni. Che però, a parte la saggistica manageriale, si possono ricondurre, a guardar bene, ad alcune tendenze già emerse nella storia del movimento operaio. L'interpretazione che è stata qui esposta finora riprende, come si è accennato, la critica

radicale del "Marxismo occidentale", e considera la nuova forma di capitale e l'alienazione del nuovo lavoro nei termini dell'opera di Marx. Può contare su una vasta letteratura, da Tony Smith dell' "Intemational Symposium on Marxian Theory" a Dan Schiller dell' 'university of California", dalla critica del "millenarismo 1

tecnoglobale" di armand Mattelart ai saggi di Ricardo antunes, fino alle frequenti ondate di critici della Rete. 1. "Cyberutopisti"

Proprio come il Marxismo positivistico credette nelle tecnologie industriali, questi autori in vario modo hanno creduto nelle capacità liberatorie delle nuove tecnologie. Un'interpretazione trasversale - come abbiamo già visto - da Norbert Wiener che in Cybernetics formulò la teoria dell'informazione mostrandone le potenzialità, ai mediologi

postmodernisti e agli scienziati sociali come Womack e Tapscott-Caston, da Manuel Castells fino ai "teorici della moltitudine" come antonio Negri. Rivivono con loro le illusioni di Kautsky e di Plekhanov che, sull'onda del positivismo di Comte e Saint-Simon, contagiarono tra ottocento e Novecento i partiti socialdemocratici della Seconda Internazionale.

Valga anche per questi autori l'avvertimento di Marx che nel capitolo sulle macchine cita John Stuart Mili (che pure era un positivista): "È dubbio se tutte le invenzioni meccaniche fatte finora abbiano alleviato la fatica quotidiana di un qualsiasi essere umano". "Che non sia

nutrito dal lavoro altrui", aggiunge Marx. I "cyberutopisti" pensano che il nuovo lavoro trascenda le caratteristiche alienanti delle precedenti attività lavorative, ritengono che il capitale abbia perso ogni capacità produttiva e sopravviva come puro dominio, perché pensano che il nuovo mezzo di produzione non

sia una macchina capitalistica ma la facoltà di pensare e di parlare che tutti hanno. Riprendendo un'opinione molto diffusa che va dal "popolo della rete" ad autori come yochai Benkler, antonio Negri scrive che "nel lavoro produttivo immateriale lo strumento è il cervello". Quindi hanno abbandonato la teoria Marxiana del valore perché, romanticamente, considerano produttivi tutti i viventi. Un'umanità di nuovi artigiani. Per i 'positivisti informatici", per i "cyberutopisti" e in particolare per i "teorici della 1

moltitudine" dunque, le nuove tecnologie andrebbero considerate non come una macchina capitalistica che dequalifica i suoi addetti, ma come un mezzo di libera condivisione di informazioni, come uno spazio di cooperazione produttiva extraeconomica, cioè come uno

strumento a disposizione di lavoratori ancora autonomi proprietari del proprio lavoro, una sorta di nuovo "artigianato" che ha spostato la capacità produttiva dal capitale al nuovo

lavoro pluriqualificato (la stessa illusione si ebbe quando fu inventata la macchina da cucire). Quindi ritengono che il capitale, rimasto senza macchine, perciò senza più alcuna funzione nella produzione, senza più legge del valore per regolare il mercato del lavoro, sia ridotto a puro dominio, un parassita che sopravvive con la sopraffazione e la violenza. Secondo questi autori infatti le trasformazioni della produzione, come abbiamo visto, non avrebbero come punto di partenza la macchina, come avvenne secondo Marx nella

rivoluzione industriale e come - qui si sostiene - avviene anche oggi, bensì il lavoro, come avvenne invece nella manifattura. Ritengono quindi che, con la cooperazione tra lavoratori indipendenti, ifreelance potrebbero aggirare la subordinazione al capitale che ne risulterebbe dimezzato, privo di mezzi di lavoro, quindi senza ruolo nella produzione. Sono perciò poi

costretti a spiegare la precarietà e la continua perdita di valore di questi lavoratori come il risultato di un attacco politico. Inoltre, con una nuova forma di "Leninismo", informatico questa volta, attribuiscono alle

nuove tecnologie la capacità organizzativa che agli inizi del Novecento fu attribuita da Lenin al partito politico. Ma le nuove tecnologie, come il partito politico, sono solo una mediazione esterna, un'ulteriore versione del nesso sociale reificato creato dal valore di scambio e dallo Stato per collegare gli individui isolati, prodotti da questo modo di produzione, mantenendone l'isolamento. Che invece può essere superato solo da un diverso nesso sociale che assicuri l'unificazione diretta, dai soviet, dai consigli e da altre forme ricorrenti nella storia della lotta di classe, quando la volontà non è delegata e la parola è ai protagonisti, come vedremo meglio nell'ultima parte. Insomma con un'interpretazione mainstream che coincide con le speranze del "popolo della Rete", i "cyberutopisti" pensano che il modo di produzione sia già cambiato, che basti poco

per sbarazzarsi del dominio di un capitalismo privo dei mezzi di produzione, ormai inutile.

2. "Antineoliberisti" e crisi economica Le posizioni dei "cyberutopisti" coincidono su questo punto con l'interpretazione degli "antineoliberisti" (erano anche le tesi di Fausto Bertinotti). Anche questi hanno letto l'avvento del neoliberismo non come la conseguenza del nuovo modo di produrre, ma come un attacco politico ai lavoratori, dovuto all'antidpatio mentis di von Hayek e di Friedman, come se il cambiamento della forma della produzione fosse dovuto al cambiamento del metodo di pensiero, "come credevano Bacone e Cartesio". Un attacco politico che, pensavano, avrebbe potuto essere battuto da un attacco politico uguale e contrario. Non è stato così. Contro questa interpretazione sovrastrutturale valga invece quella di chi sostiene che le trasformazioni produttive abbiano come punto di partenza il mezzo di lavoro, e che quindi le nuove tecnologie siano una macchina capitalistica che, accelerando il processo di qualificazione/dequalificazione del lavoro, ne incorpora incessantemente le virtuosità. È questa la ragione strutturale che riduce i "creativi" in working poors, che costringe il lavoro

alla precarietà, che rende superfluo il welfare: il dominio politico - il neoliberismo - non ne è la causa ma una conseguenza. Il nuovo lavoro può essere quindi considerato negli stessi termini dellJopera di Marx: coercizione strutturale, sfruttamento e sussunzione reale

sotto la forza aliena di un capitale che non è puro dominio, che non sopravvive solo con la sopraffazione e la violenza, incapace di produrre. Ma al contrario un capitale che fonda il suo dominio - e la sua crisi - proprio sull' accelerazione cibernetica della produzione. Dunque al nuovo rapporto capitale-scienza meccanizzata con la cibernetica bisogna rivolgersi per accertare le caratteristiche che questa volta ha assunto la crisi economica iniziata nell'estate del 2007. Perché, se è necessario stabilire le circostanze che hanno accompagnato a un tempo l'ascesa e la caduta del "nuovo" capitalismo, c'è da chiedersi se abbia fondamento l'interpretazione sovrastrutturale che ritiene determinanti le innovazioni finanziarie e di politica economica del ,ineoliberismo", inteso come attacco politico al welfare, come "colpo di stato" da rovesciare con un azione politica. 1

O se invece l'accelerazione cibernetica della produzione abbia determinato l'ascesa del

nuovo capitale e la sua crisi di sovrapproduzione. Il neoliberismo dunque non è la causa della crisi, è solo la conseguenza di una trasformazione produttiva dovuta a un lungo processo storico culminato con la nuova forma di capitale emersa con la cibernetica. Un'innovazione quest'ultima che, se non ha la capacità liberatoria che le attribuiscono i "cyberutopisti", ha invece reso inutile l'industria

di stato perché ha reso produttive di profitti quelle industrie strategiche che prima non lo erano e perciò venivano affidate allo stato. E ha reso inutile il welfare perché le virtuosità di operai e tecnici - che prima andavano preservate con lo stato sociale dalle vicissitudini del ciclo economico - ora sono incorporate nelle nuove macchine che consentono perciò di

disperdere, riassumere o delocalizzare facilmente i nuovi lavoratori. Per questo le speranze dei Marxisti keynesiani sono andate deluse, non si è tornati al welfare e di keynesismo, come vedremo, è sopravvissuto solo quello militare, come ha scritto Samir Amin.

3. ''Antimperialisti ortodossi 11•

Questi interpreti considerano produttivi solo gli operai industriali dei paesi dominati e parassitarie le attività nei paesi dominanti. Un'interpretazione intransigente nella tradizione dei partiti comunisti: ma, dilatando la portata dell'imperialismo, hanno ragione solo per metà, come se nella prima rivoluzione industriale si fosse considerato produttivo soltanto il lavoro in agricoltura e parassitario il lavoro in fabbrica.

IV. ARCHEOLOGIA DELLA MERCE CONOSCENZA

Theodor W. Adorno, tornando a parlare della mercificazione dei "prodotti dello spirito" in due conferenze radiofoniche del 1962 (pubblicate sul n.3 della rivista "Communications", Parigi 1964), ricorda che questi prodotti sono stati merce anche prima dell'avvento dell'industria culturale. Il capitale infatti ha trovato le conoscenze già ridotte in merci e reificate in espressioni matematiche, quindi già pronte per il passaggio della loro produzione dalla mente alla macchina e perciò, appena ha potuto disporre di una macchina per produrle, ha potuto colonizzare facilmente anche questo settore dell'attività sociale. Dunque le conoscenze, alla stregua dei prodotti artigianali, erano merci. Infatti la merce 1 '

mena un'esistenza antidiluviana", anche se nei modi di produzione precapitalistici la gran

parte dei beni è destinata al consumo diretto e solo una parte viene scambiata. Con la divisione del lavoro era emerso un artigianato che produceva per lo scambio e così facendo rompeva l'unità di produzione e prodotto perché questi artigiani potevano sostentarsi solo a condizione di scambiare, cioè di disfarsi dei loro prodotti che per questo diventano "estranei": dunque non perché "esterni" come crede Hegel, ma perché, come dice Marx, hanno assunto il

carattere storico-sociale di merce.

La produzione di conoscenze ha assunto fin dagli inizi questo carattere perché poteva sostentare i suoi autori soltanto se riusciva a essere recepita e remunerata. Il distacco tra

produttore e prodotto, all'origine della separazione tra soggetto e oggetto, è qui inevitabile. Hegel voleva ricomporre questa separazione nello spirito. Ma se ha origine con la forma di merce, solo il superamento di questa forma potrà ricomporla. Per considerare più da vicino il processo storico che ha preparato il passaggio epocale alla

produzione capitalistica di conoscenze, è quindi necessario innanzitutto stabilire che queste sono sempre state merci e che la loro reificazione è cominciata con la divisione del lavoro per

concludersi con la loro completa matematizzazione. Dice dunque Adorno che la mercificazione dei "prodotti dello spirito" si è verificata prima e dopo l'industria culturale, anche se con un'importante differenza. Prima questi prodotti, pur essendo merci, avevano una loro autonomia - che però "non è quasi mai esistita in maniera pura" - e tuttavia potevano persino denunciare le condizioni sociali. Erano perciò "anche delle merci".

Dopo invece, con l'industria culturale, diventano "integralmente merci": si verifica "uno spostamento così enorme da produrre caratteristiche interamente nuove". Prevale, come

aveva già detto Brecht trent'anni prima, l'attitudine alla commercializzazione. La loro autonomia tende a scomparire, 11un fenomeno - conclude Adorno - che deriva dall'economia,

dalla ricerca di nuove possibilità per far fruttare il capitale". Tuttavia l'aspetto che qui ci interessa è che i "prodotti dello spirito" sono stati e sono merci. Quali che siano i loro contenuti - che comunque assumono "caratteristiche interamente nuove" - ciò che va indagato è perché quei contenuti abbiano assunto questa forma. Quando i "prodotti dello spirito" diventano merci prodotte capitalisticamente, è possibile considerare più realisticamente la storia della loro produzione. Almeno a partire dalla divisione del lavoro, quando lavoro manuale e lavoro intellettuale, inizialmente connessi, si separano, "fino all'antagonismo e all'ostilità" dice Marx. Ma entrambi costituiscono l'insieme del processo lavorativo e i loro prodotti costituiscono l'insieme del prodotto sociale. Fin dagli inizi infatti, come parte del lavoro sociale, le conoscenze dovevano essere scambiate con i prodotti del lavoro manuale per assicurare il sostentamento dei loro produttori, erano cioè fin dall'inizio prodotte "artigianalmente0 , e per questo sono finite poi

come le altre merci artigianali quando il capitale ha potuto disporre di una macchina per produrle. Dice Adorno che i prodotti dello spirito "sin da quando, nella loro qualità di merci sul mercato, fanno vivere i loro autori, li hanno anche un po' contaminati". Insomma dovremmo

ammettere che il lavoro intellettuale sia stato fin dagli inizi più un "agire strumentale" che un "agire comunicativo", cioè un'attività tesa più all'autoaffermazione, al successo, all'influenza sugli altri, che non alla comprensione, al sapere intersoggettivo, all'intesa, come invece ha sempre preteso di essere. Qui non è necessario approfondire i complessi rapporti tra questi due modelli d'azione analizzati da Habermas, né considerare le prospettive che egli attribuisce all'intersoggettività comunicativa. O che Husserl attribuisce al mondo della vita, Lukacs alla coscienza di classe, i "teorici della moltitudine" all'intellettualità diffusa. Insomma, prima del "che fare", sarebbe necessario tener presente ciò che è realmente

accaduto al sapere, come si è svolto il processo storico della sua reificazione. Perché il sapere reificato è lo strumento di dominio del nuovo capitale, la sua merce principale e il suo mezzo di produzione, e porta segnata in fronte la sua appartenenza ad una società divisa in classi. È singolare che anche i "teorici della moltitudine" non solo omettano una critica del sapere reificato, ma considerino l'acquisizione di questo sapere come una autovalorizzazione

del lavoro: Carlo Vercellone per esempio ritiene che vi siano "eccedenze" non sussumibili

dal capitale dovute all'istruzione di massa. Anche ciò che resta della sinistra pensa che sia possibile riappropriarsi questo sapere andando a scuola. Questo invece non è più possibile. Ma anche se lo fosse, il sapere reificato non potrebbe comunque essere riutilizzato in questa forma, come già aveva avvertito la filosofia del '900, e Marcuse in particolare: finirebbe per riprodurre i rapporti sociali che lo hanno generato, come è già accaduto più volte. Infatti il sapere - come dice Marce! Mauss -è stato fin dall'inizio potere: pagato dal dominio si è sviluppato come suo strumento. E questa sua funzione si è depositata nelle forme di pensiero che denunciano questa appartenenza: quando la cosa diventa pensiero e il pensiero cosa, quando "ogni cosa è ciò che è solo in quanto diventa ciò che non è", come dicono Horkheimer e Adorno, lavoro e dominio si dividono, chi non lavora può conoscere senza lavorare.

La riappropriazione dei mezzi di produzione dunque si rivela un problema più complesso, che richiede un percorso più lungo. Per questo, per cominciare ad affrontare questo argomento, può essere utile rivedere la

storia dei rapporti sociali che si sono stabiliti a proposito della produzione di conoscenze. Il lavoro intellettuale dunque, fin dagli inizi, si è affermato come una parte del lavoro sociale che otteneva in cambio i prodotti del lavoro manuale. Secondo Marce! Mauss già gli stregoni attribuivano grande importanza alla conoscenza perché esercitavano un vero e proprio mestiere e avevano bisogno di affermarsi, di avere influenza sugli altri. Si comportavano cioè come qualunque altro artigiano - quasi sempre producevano anche strumenti artigianali che aveva bisogno di scambiare i propri prodotti. Secondo Adorno lo scambio è la chiave della società, e secondo Mauss il mercato è un fenomeno umano presente in ogni società conosciuta, ben prima quindi della moneta legale e del contratto. Quindi fin dagli inizi, in società nelle quali è sempre presente una sia pur primitiva forma di mercato, è all'opera una sia pur primitiva legge del valore. È all'opera cioè, fin dagli inizi, quel processo sociale che, con più evidenza nel capitalismo industriale, da un lato determina la formazione della grandezza di valore, cioè misura la quantità di lavoro necessario per produrre un bene (già le prime comunità che scambiano tra loro sono attentissime a questo aspetto "quantitativo" della legge del valore). D'altro lato, accanto a questo, opera fin dagli inizi anche l'aspetto "qualitativo" della legge del valore, perché il lavoro privato, utile o concreto rappresentato in un prodotto determinato, per essere scambiato deve essere

trasformabile da un valore d'uso in ogni altro. Perciò anche il lavoro intellettuale, come qualunque altro lavoro utile o concreto, deve essere trasformato in lavoro sociale o astratto: ma per far ciò è necessario un equivalente generale. Questo è un processo sociale più evidente con la moneta legale, ma opera anche prima. La necessità di un equivalente generale infatti, dai capi di bestiame alle conchiglie, precede di molto l'uso della moneta metallica. Dunque questo processo sociale inizia con gli scambi e determina, per ciò che riguarda il lavoro intellettuale, l'inarrestabile reificazione del pensiero. Insomma le conoscenze sono state fin dall'inizio prodotte per essere scambiate, alla stregua dei prodotti artigianali, e come questi hanno poi finito con l'essere prodotte capitalisticamente. Il capitale dunque ha trovato già sul mercato ogni sorta di merci prodotte artigianalmente, e appena ha potuto

disporre di mezzi per trasportarle prima, come capitale commerciale, per produrle poi, come capitale industriale, lo ha fatto. Salsicce o conoscenze "non cambia nulla", scrive Marx, come vedremo. Le conoscenze sono state anche, fin dagli inizi, confezionate per lo scambio, come tutte le altre merci. Nel caso della mela, non solo il servo deve raccoglierla per il signore-consumatore, ma quando interviene il capitalista gliela deve sbucciare, inscatolare, consegnare a domicilio. Perché una merce è vendibile nella misura in cui il suo consumo comporta il minimo di fatica. Così è stato anche per le conoscenze: la funzione separante del concetto, che prescinde dalla variabilità delle apparenze, "strumento ideale che si apprende a tutte le cose nel punto in cui si possono afferrare" (Horkheimer e Adorno) ha consentito una decisiva semplificazione, ma ha anche approfondito la frattura tra soggetto e oggetto e la progressiva perdita dell' "aura" delle conoscenze. Così era avvenuto anche per il passaggio

dall'oralità alla scrittura, una inarrestabile facilitazione, "esponibilità", lungo un percorso che ha progressivamente portato all'esterno il pensiero separandolo dalla mente, fino a un "processo automatico che si svolge per conto proprio", fino alla sua completa reificazione

nella matematica e nella macchina. Possiamo ora anche rileggere le principali interpretazioni di questa reificazione. Sia Lukacs che Sohn-Rethel constatano la forma di merce delle conoscenze, ma non le considerano vere e proprie merci, anche se lo erano già, sia pure prodotte "artigianalmente".

Secondo Lukacs, come si è visto, la scienza è il modo di apprendere la realtà proprio del capitalismo, e gli oggetti della scienza - in conseguenza di particolari rapporti sociali hanno assunto la forma di merce. Anche se, con le trasformazioni produttive che si stavano preparando, era imminente la loro produzione capitalistica, Lukacs nel 1923 non poteva ancora considerare la conoscenza scientifica come una merce prodotta capitalisticarnente, e

tuttavia ne constatava la forma. Un percorso apparentemente speculativo, che era invece del tutto empirico: in realtà le conoscenze assumevano la forma di merci perché si compravano e

si vendevano, anche se non ancora compiutamente sussunte dal capitale.

E questo vale anche per le interpretazioni che risalgono agli inizi del lavoro intellettuale. Per esempio si vedano le considerazioni di Sohn-Rethel sull'astrazione nella filosofia greca che aveva la forma di quell'altra astrazione che i greci avevano in tasca, il denaro. In realtà le conoscenze avevano la forma di merce perché si compravano e si vendevano non solo al mercato ad opera dei sofisti, ma a Delfi, nell'accademia, nella reggia macedone. Horkheimer e Adorno ricordano che, per Vico, i concetti con cui Platone e aristotele esponevano il mondo

uscivano dalla piazza del mercato di Atene. I greci consideravano le conoscenze il maggior valore della vita ed erano disposti a pagarle. Per questo l'offerta è sempre stata abbondante e fortemente competitiva: buona parte del lavoro dei filosofi è dedicata proprio a certificarne la qualità. Platone ha attaccato i suoi concorrenti come "mercanti" nell'epoca del capitale commerciale. (Marx invece, nell'epoca del capitale industriale, definirà i filosofi "industriali dello spirito"). A confutare il sofista Protagora dunque Platone dedica un intero dialogo. Bertrand Russell si meraviglia che i nostri professori, che ricevono uno stipendio in cambio di cognizioni, parteggino per lui che era ricco di famiglia. Dice Platone nel Sofista: "Chi vende cognizioni, per divertire o per uno scopo serio, è un mercante come chi vende cibi e bevande. Questo scambia e vende per

denaro tutto ciò di cui il corpo si nutre e si serve, l'altro, invece, tutto ciò di cui si nutre e si serve l'anima". Questo si ritrova tale e quale- anche se i 11cibi" diventano "salsicce" - nel Capitale dove Marx,

nelle prime righe, cita Nicholas Barbon: "Desiderio implica bisogno; è l'appetito della mente, naturale anche esso come la fame per il corpo. La maggior parte delle cose ha valore perché soddisfa i bisogni della mente". E, per parte sua, Marx aggiunge: "Che i bisogni provengano dallo stomaco o che provengano dalla fantasia, non cambia nulla". E nel Capitolo 14: "Che l'imprenditore della scuola abbia investito il suo denaro in una fabbrica d'istruzione invece che in una fabbrica di salsicce, non cambia nulla".

V. PRODUZIONE CAPITALISTICA DI CONOSCENZE: IL CASO DEL KEYNESISMO MILITARE

Con l'accelerazione cibernetica della produzione e la conseguente ricomparsa del liberismo,

venuto meno il keynesismo civile, l'esigenza di gestire la domanda globale è stata affidata tutta al keynesismo militare. Il presidente usa Ronald Reagan non fece altro che spostare la

spesa pubblica dagli impieghi civili a quelli militari. Il welfare fu smantellato, ma lo stato invece continuò come prima, nonostante il neoliberismo, ad assorbire la sovrapproduzione

sostenendo l'economia. Vi era quindi l'esigenza di motivare con i contribuenti l'aumentata

spesa pubblica militare, con le necessarie giustificazioni del caso: esistenza del nemico e notizie dal fronte. Ma con la cibernetica, che ha meccanizzato il controllo delle informazioni,

diventava più facile sia enfatizzare o creare il nemico, sia monopolizzare le notizie militari con i giornalisti "embedded", cioè incorporati nell'esercito.

È noto che sia in afganistan che in Iraq i giornalisti non 14 embedded" non erano tollerati e

molti di loro furono uccisi, Giuliana Sgrena del quotidiano il manifesto scampò ai colpi di una mitragliatrice dei marines.

anche il lavoro dei giornalisti quindi, che già Lukacs aveva definito come la punta estrema della reificazione capitalistica, stava perdendo la sua forma "artigianale", subordinato a

imprese capitalistiche sempre più grandi, agli ordini dei comandi militari. Infatti John Keegan, massimo storico militare inglese, in un volume sulla prima guerra

in Iraq - sul quale è sceso il silenzio (in Italia, a differenza di tutti gli altri suoi libri, non è stato nemmeno tradotto) - definisce la stampa come un'altra armata accanto a quella vera e propria, un enormous press corps. Keegan smentisce la versione ufficiale definendo 11

misteriosa" la guerra, cioè militarmente priva di senso.

Eppure la guerra un senso ce l'aveva. Se il vero è l'intero, il militarismo acquista significato se lo si considera nel fluire

dell'economia capitalistica. Quel particolare settore che è l'economia militare infatti ha un ruolo decisivo nella produzione, non solo per la sua funzione aggressiva nell'imporre l'egemonia su risorse, mercati e campi d'investimento, e nell'assicurare il dominio di classe interno, ma soprattutto per la sua funzione economica, per frenare le fasi recessive del ciclo. Perché la tendenza permanente alla crisi economica può essere contrastata col ricorso permanente alla spesa pubblica militare che deve essere giustificata con una minaccia permanente. Come ha mostrato con chiarezza un saggio del 1960, Teoria della politica estera

americana, nel quale Paul M. Sweezy individuava le ragioni profonde della politica estera degli Stati uniti nella tendenza permanente dell'economia capitalistica alla depressione, che può essere superata da adeguati "stimoli esterni": ma non eliminata in quanto tendenza

perché la depressione riaffiora se diminuiscono questi stimoli. Tra questi è sempre disponibile una vasta spesa pubblica, preferibilmente militare perché quella civile lede molti interessi (il neoliberismo poi ha esasperato questa tendenza). E poiché la pressione degli interessi di un capitalismo sempre sull'orlo di crisi devastanti reclama la corsa al riarmo - scrive Sweezy- il compito principale della politica estera diventa

quello di offrirne le necessarie giustificazioni. Infatti, a riprova di queste virtù inconfessabili del militarismo, dell'importanza del complesso militare-industriale come vero motore dell'economia usa, molti studi hanno concordemente dimostrato (tra gli altri anche quelli di Francesco giavazzi e di Perotti

e Blanchard, Working Paper n. 7269) che ogni dollaro dato al Pentagono per le armi fa aumentare il Pii di circa tre dollari entro un anno e con effetto duraturo. Una prospettiva irresistibile per un capitalismo sempre sull'orlo della crisi economica, che è il vero inconfessabile nemico che rode dall'interno l'impero. Perciò la versione ufficiale deve scomporre di continuo questa totalità complessa, ne spezza artificialmente il divenire, esibendo ossessivamente la minaccia esterna, mostrando cioè un solo momento separato, estrapolato dal procedere della società capitalistica. Sono queste le

fake news che governano il mondo, indispensabili alla gestione militare del ciclo economico

che deve occultare la connessione tra guerra e affari. Nell'S00 le crisi di sovrapproduzione erano devastanti ed estese. Venivano superate quando i fallimenti distruggevano una buona parte dei capitali, permettendo ai capitali superstiti di ritrovare un mercato. Ma perché, invece di attendere la distruzione dei propri, non andare

a distruggere i capitali degli altri, prendendo loro i mercati, le colonie, le risorse? È quello che avvenne con la prima guerra mondiale. "Il ciclo economico" ha scritto Paul Mattick "era diventato un ciclo di guerre mondiali". Emest Hemingway, che ne fu sconvolto, ha scritto: "Chi fa profitti con la guerra e aiuta a provocarla, dovrebbe essere fucilato, il giorno stesso che comincia a farlo, da rappresentanti accreditati dei leali cittadini che la combatteranno". Negli anni '30 si sperimentò l'importanza delle spese militari con le quali lo stato impedisce la distruzione di capitali indebitandosi col settore privato, assorbendone la sovrapproduzione, realizzando i vantaggi dell'economia di guerra anche in tempo di pace. Al comune buon senso può apparire contraddittorio che l'ingente spesa pubblica militare, invece di aggravare la crisi economica la risolva, anche senza aspettare il buon andamento della guerra. La ragione sta nel fatto che la crisi capitalistica non è più dovuta a sottoproduzione, come accadeva nell'economia agricola, ma viceversa si verifica quando

la capacità produttiva eccede la capacità di assorbimento del mercato. La spesa pubblica quindi, e specialmente quella militare, possono assorbire la capacità produttiva eccedente, favorendo la ripresa generale dell'economia. Su questo c'è stato un lungo dibattito tra gli economisti radical. Partendo dalla teoria Marxiana della crisi, che ne vede l'origine nella sovrapproduzione, cioè nella contraddizione tra produzione e mercato, si sono sviluppate diverse interpretazioni.

Da un lato Rosa Luxemburg ha sostenuto, come vedremo, che le spese militari consentono al capitale di realizzare il plusvalore, influenzando i "neoMarxisti" come Kalecki e Sweezy. D'altro lato i Marxisti "ortodossi" sostengono invece che questo non è vero per la totalità del mercato mondiale capitalistico, ma è solo vero per la nazione dominante che se ne

avvantaggia a spese di quelle dominate. In entrambi i casi comunque si attribuisce alla spesa pubblica militare un ruolo decisivo nella storia del Novecento. Infatti, dopo qualche esperienza di spesa pubblica in Svezia, furono in particolare le spese militari a favorire la ripresa in gran Bretagna ma soprattutto nella germania nazista, quando nel 1934 lo stato emise le cambiali Mefo, che finanziarono il riarmo e rilanciarono in poco tempo l'economia. Scadevano nel '39 e gli economisti occidentali prevedevano un crollo: ma nel '39, invece di pagarle, Hitler entrò in guerra. Gli usa invece privilegiarono la spesa pubblica civile che si rivelò meno efficace di quella militare. Infatti, nonostante il New Deal, non riuscirono a superare la depressione, che

durava dal '29, fin quando, disse il presidente Roosevelt, "il dottor New Dea! lasciò il posto al dottor Vinciamo la guerra", fin quando cioè la spesa militare rilanciò l'economia già nei primi mesi di guerra, il cui inizio nel dicembre 1941 nonostante un'opinione pubblica contraria - fu giustificato dal provvidenziale attacco del giappone a Pearl Harbour (ma le navi migliori non erano in porto quel giorno). Si veda il memorandum del capitano Mc Collum capo della Naval Intelligence, che un anno prima aveva presentato a Roosevelt un piano in otto punti per poter provocare un attacco giapponese. E questa fu un'esperienza che ha segnato profondamente la classe dirigente usa per la successiva gestione dell'economia. Così i capitani Mc Collum si sono moltiplicati, dal rapporto della Cia usato da Kennedy che giudicava le armi nucleari sovietiche trenta volte più numerose della loro reale consistenza per poter aumentare le spese militari, alle menzogne sull'incidente del golfo del Tonchino per giustificare nel 1964 l'intervento in Vietnam, alle false prove delle armi di distruzione di massa esibite dal segretario di stato per intervenire in Iraq, e così via: menzogne volte ad ingannare non i nemici, ma i propri cittadini, come ha scritto Hannah Arendt.

Così, entrati in guerra nel 1941, tra guerre calde, fredde e asimmetriche, non ne sono più usciti: gli usa insomma avevano sperimentato che la ripresa avviene già con la spesa pubblica militare, cioè prima della vittoria, prima della distruzione dei capitali degli altri, prima di aver loro sottratto i mercati ecc.

Per questo, per fronteggiare una sovrapproduzione permanente, gli Stati uniti hanno organizzato la guerra permanente, per giustificare un flusso di spese militari permanente. Come Rosa Luxemburg per prima aveva previsto. Ma dei vantaggi del militarismo non si parla perché le crisi economiche non possono essere addebitate alle contraddizioni di un modo di produzione irrazionale che tende costantemente alla depressione. È inconfessabile l'instabilità del capitalismo che può ridurre sul lastrico milioni di persone. Per questo non le cause endogene, ma altri colpevoli debbono essere indicati. Per esempio gli speculatori o ancora meglio i nemici esterni: i media e i

politici hanno ripetuto per anni che l' 11 settembre era stato la causa della crisi economica del 2001. Naturalmente gli addetti ai lavori invece sapevano come stavano le cose. Per esempio

I' Economist del 20 ottobre 2001 scriveva che la crisi "non deriva dal terrorismo ma dagli squilibri economici e finanziari dei tardi anni Novanta". E Lester Thurow dichiarava (Il sole 24 ore, 24 ottobre 2001): "il 99,9% dell'attuale crisi economica era già in corso, anche se ora

tutti danno la colpa al terrorismo". E a volte qualcosa affiora anche nei messaggi che si rimandano i governanti. Paul M. Sweezy, in Monopoly Capitai, riporta le dichiarazioni di un senatore usa che, agli inizi della guerra Fredda, la paragona a "una pompa automatica, si gira un rubinetto e la gente strepita per aumentare gli stanziamenti militari, se ne gira un altro e lo strepito cessa. È la formula magica per far durare all'infinito il periodo delle vacche grasse". E a quelli che pensavano che i conflitti avrebbero danneggiato l'economia e la supremazia degli Stati uniti, la repubblicana Condoleeza Rice, quando era Segretario di Stato, rispondeva che ''la guerra è sempre un buon investimento" e perciò dovevano essere "aumentate le spese

militari". Ma la democratica Hillary Clinton rilanciava promettendo "un arsenale militare molto più ampio". Perfino giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica italiana, assicurava a sua volta che l'Italia avrebbe aumentato le spese militari - mentre a Foggia si costruivano le ali del supercaccia usa a decollo verticale F3 5. Lo stretto legame tra l'andamento del Pii e la guerra

permanente serve loro da ideologia, ne cementa gli interessi, rinsalda le gerarchie, sancisce la necessità sociale del militarismo, ne legittima le incongruenze, ne giustifica i massacri,

confuta materialisticamente i profeti della prosperità senza commesse belliche. Va però ricordato che c'è stata una svolta nei media ufficiali quando è diventato possibile chie dersi ''chi finanzia" l'Isis, cioè lo stato islamico in guerra da tempo e apparentemente senza alleati. Una domanda, prima confinata nel "complottismo", che invece ormai esigeva

una risposta. Si sa, per esempio, che quando Israele era in guerra avrebbe potuto continuare solo per qualche giorno senza i rifornimenti quotidiani dagli Stati uniti. E nel caso dell'Isis? Non era più possibile tacere. Perciò dapprima le dichiarazioni di Joe Biden, allora vicepresidente usa, che aveva indicato l'arabia Saudita, e di Hillary Clinton, quando era candidata alla presidenza, che aveva ammesso 11 li abbiamo addestrati noi"; ma avevano

smentito il giorno dopo. È stato invece un passante intervistato a Parigi dopo l'attentato al Bataclan a rilanciare

l'argomento, e da allora non c'è stato commentatore che non abbia indicato la lista dei paesi finanziatori, tutti sunniti però.

Per questo, quanto ai "perché", non si è andati oltre il solito scontro tribale-etnico-religioso, una vera epidemia dopo la fine della guerra Fredda. Altri "perché" sono sempre assenti, anche se il Parlamento europeo ha provato a chiedersi dove andavano a finire le armi esportate. Bisognerebbe poi valutare se siano o no da considerare "complottismo" le affermazioni di un mercante d'armi intervistato dal programma televisivo Report, se condo il quale "nel nostro ambiente si sa perfettamente che l'Isis è una creatura dell'occidente". Ma, a parte questi casi, sulle virtù inconfessabili del militarismo regna il silenzio, sembra che si stia perdendo un patrimonio teorico di analisi sul keynesismo militare, che ha avuto inizio ben prima che lord Keynes gli concedesse questo nome, da Rosa Luxemburg ad antonio gramsci, e che poi è continuato da Kalecki a Sweezy a Joan Robinson, fino a riparare in Vaticano. Ne riproponiamo perciò un breve promemoria. 1. Bergoglio, Rosa Luxemburg e Gramsci

Papa Bergoglio, che va al fondo dei problemi, condannando la guerra ha parlato dei profitti derivanti dagli armamenti "che spiegano molti conflitti, compreso quello in Siria". È il solo leader mondiale che ha rinnovato l'attenzione su quell'importante aspetto del militarismo che è la sua funzione economica. La cui prima analisi appunto si deve a Rosa Luxemburg, in un saggio del 18 9 8 e in articoli e discorsi, 1913-1915, sul militarismo tedesco. Bergoglio infatti è un gesuita e conosce i sacri testi suoi e i sacri testi del movimento operaio.

Dunque Rosa Luxemburg, in polemica con Bernstein, con preveggente chiarezza, descriveva la funzione economica del militarismo come "una forza impulsiva, propria, meccanica, destinata a rapida crescita" perché le spese militari erano indispensabili al capitalismo: costituivano un mercato addizionale per assicurare alla produzione una nuova domanda più regolare, con un ritmo di sviluppo costante. Lo stato è il più vantaggioso acquirente e le forniture a esso dirette sono il più splendido affare per il capitale, scrive Rosa Luxemburg, che spiega il perché della costante preferenza dei governi nei riguardi della spesa pubblica per le armi: "nel caso di forniture di carattere militare si aggiungono, come vantaggio estremamente importante - rispetto alle spese statali per scopi sociali come scuole, strade, ecc. - le incessanti trasformazioni tecniche e l'incessante aumento delle spese", oltre al fatto che le armi servono 11come strumento di lotta per gli interessi unazionali" contro altri gruppi

stranieri e come strumento di dominio di classe interno. Il militarismo quindi rappresenta il più proficuo e imprescindibile tipo di investimento, promosso dagli stessi capitalisti

tramite l'apparato parlamentare e la manipolazione operata dalla stampa". Così scriveva Rosa Luxemburg, che fu uccisa perché militante di un partito operaio, e che oggi sarebbe stata accusata di "complottismo": si trattava invece di una lucida analisi di ciò che si sarebbe chiamato keynesismo militare, "il più proficuo investimento" che ha dominato il Novecento. Un tema ripreso da antonio gramsci che nel 191 7 denunciava "le trame dei seminatori di panico stipendiati dall'industria bellica che dalla guerra ci guadagna". Gramsci fu vittima del fascismo, ma oggi quegli "stipendiati" avrebbero accusato anche lui di "complottismo". 2. Dialettica del militarismo.

Il rapporto tra la funzione economica del militarismo dunque, e la sua funzione più propriamente militare, è la chiave per capire qualcosa sia dello stato di tensione permanente, sia delle relative operazioni militari apparentemente senza senso. I politici più avanzati le definiscono "controproducenti" e parlano di "errori" commessi dai presidenti usa. Ma non è così.

Infatti se, da un lato, la funzione aggressiva del militarismo, che serve al dominio imperiale e al dominio di classe, tende rapidamente alla vittoria e all'annientamento del nemico ("Ventimila marines avrebbero spazzato via l'Isis in qualche giorno" ha detto Edward Luttwak, che è stato consigliere strategico del governo usa), d'altro lato invece la funzione economica del militarismo tende a prolungare lo scontro, evoca il nemico, lo sceglie, lo provoca, lo enfatizza, lo produce se non c'è: e questo, come ha scritto Paul M. Sweezy, è uno dei compiti principali della politica estera del governo usa. Se le tensioni internazionali devono giustificare le spese militari che devono durare, devono durare anch'esse e se c'è la guerra, cela va sans dire, non deve essere vinta, deve durare. I comandi militari, che subiscono per questo il sarcasmo degli storici, devono diluire le operazioni, non dissipare i nemici, utilizzare gli scontri interetnici, preferire le situazioni

di stallo nel corso di battaglie logoranti. La funzione militare in questi casi, nonostante l'esibizione del massacro, è solo mimata, come hanno rilevato in molti. Da un punto di vista solo militare è impossibile spiegare perché gli Stati uniti da molti decenni conducano guerre interminabili. Sulla guerra in Vietnam, per esempio, cinquecentomila marines dell'esercito più armato della storia, che aveva conquistato in quattro anni l'Estremo oriente e l'Europa, e questa volta invece in dodici anni non riesce a conquistare un paese ad economia agricola e con

un territorio poco più grande della Calabria, si vedano Hannah Arendt e le polemiche sui Pentagon Papers. Gli interventi in Iraq sono durati più a lungo della Seconda guerra Mondiale, e questo significa che qualche gruppo di insurgentes iracheni ha resistito nel "triangolo sunnita", 50 chilometri di lato, senza alleati, più a lungo di giapponesi e nazisti messi insieme. John

Keegan - lo storico militare inglese - ha giudicato "misteriosi" tutti gli aspetti di questa guerra, dal casus belli all'andamento delle operazioni: sostiene insomma che "non poteva nemmeno chiamarsi guerra, ma tutto il mondo, dai governi ai leader religiosi, ai pacifisti, la presero sul serio".

Per non parlare dell'afghanistan. Dunque la funzione economica si presenta come militare ma è militarmente priva di

senso. La funzione militare invece diventa inessenziale perché ha la sua verità nell'altra, si rivelerà l'opposto di ciò che sembrava. Troveranno la sintesi non nella vittoria ma nella guerra infinita, nella ossessiva esibizione di morte, insomma nella gestione militare del ciclo economico.

La cui crescente efficienza può essere considerata come uno dei principali risultati del controllo cibernetico delle informazioni, che fluidifica il capovolgersi dell'economico e del militare: cioè dell'essenziale e dell'apparente che diventano, con le amministrazioni usa, le figure ricorrenti di un oscuro processo dialettico. È necessario rove sciarlo per scoprire il nocciolo economico entro il guscio militare. Come quando, 1'11 settembre 2001, l'incombente crollo di Wall Street si trasformò nel crollo delle Twin Towers, chi si ritrasformò nella ripresa di Wall Street: dialettica a Manhattan, da un isolato all'altro. Come stanno davvero le cose lo ha mostrato con chiarezza sulla New Left Review anche Joan Robinson, economista tra i maggiori del '900: "Le recessioni non si possono evitare se non

con le spese militari, e poiché per giustificare gli armamenti si deve tenere viva la tensione internazionale, risulta che la cura è peggiore del male".

3. Lévi-Strauss, guerra e stregoneria. Tuttavia contestare la versione ufficiale della guerra non è facile perché non si tratta soltanto di una menzogna sostenuta dai media. Come ha mostrato Claude Lévi-Strauss confrontando guerra e stregoneria, si riproducono, nel nostro atteggiamento verso la guerra, le opposte opinioni dei primitivi tra chi riteneva che lo stregone esercitasse effettivamente poteri soprannaturali, e chi invece sospettava che

la sua attività fosse rivolta al suo tornaconto. "Il punto importante era che le due eventualità non fossero reciprocamente esclusive, come non lo sono, per noi, l'interpretazione della guerra: o come l'ultimo sussulto dell'indipendenza nazionale, o come il risultato delle macchinazioni dei mercanti di cannoni."

Due interpretazioni entrambe credibili. Nel caso dello stregone, è difficile dubitare dei suoi poteri, perché ha guarito molte malattie

- quelle psicosomatiche, quelle che guariscono con rimedi naturali o che guariscono da sé. Questo spiega il successo diffuso e duraturo della stregoneria, che non può essere considerata sbrigativamente come una messa in scena. Ma è del pari credibile che lo stregone stia facendo gli affari suoi. Lo stesso vale per la guerra. Nessuno ha motivo di dubitare che le spese militari possano servire alla sicurezza del paese, che ha dovuto più volte affrontare nemici aggressivi. Questo spiega, nonostante tutto, la buona tenuta della versione ufficiale. Tuttavia è del pari credibile che il complesso militare-industriale tenga viva la tensione internazionale per giustificare il riarmo e rilanciare i profitti. "Siccome le due interpretazioni si muovono nell'ambito delle congetture, e quindi sono entrambe plausibili" - continua Lévi-Strauss - è necessaria un'elaborazione per "oggettivare stati soggettivi, per formulare impressioni non formulabili". È ciò che fanno ostinatamente i movimenti antimilitaristi.

Applicando il test del cui prodest ai fatti dell' 11 settembre 2001 - scrive odifreddi - "si arriva facilmente ai colpevoli morali se non materiali" e cioè i responsabili della Difesa degli Stati uniti che avevano affermato, nel Project for the New American Century e in altri documenti ufficiali, che fosse necessario "un evento catastrofico e catalizzante come una nuova Pearl

Harbor" per giustificare "un aumento sostanziale della spesa per la difesa e per sfidare i regimi ostili ai nostri interessi". "E cosa meglio potrebbe soddisfare questa necessità, se non gli attacchi alle Torri gemelle e al Pentagono? a questo punto che il governo usa abbia attivamente organizzato gli attacchi, che li abbia passivamente subiti sapendo che sarebbero

stati compiuti, o che si sia limitato ad accoglierli come una benedizione celeste, conta poco" conclude odifreddi. 4. La grande scacchiera. Di "tensione internazionale" si è occupato il consigliere per la sicurezza del presidente americano Carter, Zbigniew Brzezinski, che in un libro del 19 9 7, La grande scacchiera, scrive: "L'america è troppo democratica e questo limita l'uso della sua potenza, perché non sono congeniali agli istinti democratici né gli stanziamenti alla difesa, né i caduti in guerra, necessari alla mobilitazione imperiale. Si possono ottenere solo in presenza di una minaccia o di una sfida improvvisa a ciò che l'opinione pubblica considera il proprio benessere". Più chiaro di così! Notevole il caso di Monica Maggioni che, pur dal suo posto di "embedded", cioè incorporata nell'esercito usa in Iraq, scrive un libro - La fine della verità - sulle menzogne della versione ufficiale della guerra. Una "embedded" irrispettosa che denuncia "il medioevo della ragione e la paralisi mentale del mondo dell'informazione. La guerra è stata venduta come 'guerra al terrore' mentre qualcuno a Washington l'aveva già pianificata ben prima degli attacchi alle Due Torri. Attacchi dei quali qualcuno a Washington sapeva". Monica Maggioni sostiene che lo scontro di civiltà sia "una mistificazione" e conclude denunciando: 11chi vuole i conflitti ha qualcosa

da guadagnarci". Quando, oltre agli antimilitaristi, anche una diffusa percezione di base sostiene che le guerre degli Stati uniti servono a 1'smagazzinare11, cioè a svuotare i magazzini troppo pieni,

siamo sicuri che è all'opera quella particolare funzione dell'anima - cara ad Aristotele - alla quale si devono le conoscenze che non derivano dai singoli sensi, ora in balia dei media, ma da una sorta di deposito sacro della sapienza del genere umano, che sa sempre come stanno davvero le cose. Se però quella funzione è all'opera anche nell'anima di una giornalista ingaggiata per

riferire la versione ufficiale dei comandi militari, il suo libro diventa una testimonianza di prim'ordine.

Anche secondo Brzezinski dunque i nemici che minacciano il benessere, regolarmente

apparsi in questi anni fino agli ultimi kamikaze islamisti, sono necessari al mantenimento dell'impero. Infatti, quando il presidente russo Gorbaciov concluse la guerra Fredda, il suo consigliere arbatov osservò che "l'atto più ostile contro gli Stati uniti è stato sottrargli il nemico". Ed Henry Kissinger, già segretario di stato usa, intervenne segnalando l'urgenza del problema: "qualcuno dovrà pur fare il nemico". La soluzione - secondo le indicazioni di von Clausewitz - fu annunciata al mondo dal presidente usa Bush in un discorso tenuto a Praga dopo 1'11 settembre 2001: "abbiamo finalmente capito chi sono i nuovi nemici11• L'antislamismo è cominciato così, per rimediare

alla fine della guerra Fredda. O, come è stato notato più volte, è la sua continuazione. Su Le Monde diplomatique lgnatio Ramonet commentava: "L'anticomunismo vi era piaciuto? L'antislamismo vi entusiasmerà".

5. GliHegeliani in forza al Pentagono.

G.W.F. Hegel: "una nazione per esistere ha bisogno di nemici". Il Dipartimento della Difesa degli Stati uniti ha deciso quanto far durare la guerra al terrorismo. Questa potrebbe essere un'affermazione 11complottista" se non fosse, alla lettera, ciò che

si legge nei documenti ufficiali, per esempio nella Quadrennial Defense Review del 2006 (nel 201 7 è stata sdoppiata in due nuovi documenti strategici, uno dei quali direttamente indirizzato alle industrie delle armi): "La guerra contro il terrore islamista durerà venticinque anni".

Non un dato empirico dunque, ma l'annuncio di un universale inesorabile. Gli universali sono sempre stati al servizio del dominio, e il teologo medievale abelardo li chiamò sermones,

una buona definizione per i ripetuti annunci di questa guerra globale al Terrore. Se per militarismo si intende la crescita abnorme di un apparato bellico che oltrepassa gli scopi propriamente militari, ciò che emerge dai documenti del Pentagono, che tracciano le linee della sicurezza strategica degli Stati uniti, ne è un esempio ragguardevole. Anziché indicare la strategia per una rapida vittoria, come sarebbe stato lecito aspettarsi, si afferma invece che "la vittoria della guerra globale al Terrore non arriverà prima di vent'anni". "Venticinque", appunto. Incapacità dei generali, intelligenza col nemico? appare

inspiegabile infatti la previsione di una guerra che dovrebbe essere una delle più lunghe della storia, come se fosse realmente possibile prevedere gli avvenimenti di un ventennio. La consistenza del nemico poi giustificherebbe un rafforzamento dell'intelligence, non l'enorme spesa pubblica per produrre nuovi supercaccia invisibili a decollo verticale. Sembrerebbe quindi giustificato il giudizio dei principali studiosi di strategia che hanno già da tempo deplorato il basso livello dei generali del Pentagono. Eppure non è così. Al contrario. Il militarismo degli Stati uniti assume queste forme proprio per raggiungere quegli scopi non propriamente militari, come abbiamo visto, che sono indispensabili alla sopravvivenza del capitalismo. Questi documenti ufficiali ci mostrano dunque come l'amministrazione usa assolve questo compito. Si afferma, per esempio: "Non dobbiamo aspettare che si verifichino le crisi, dobbiamo creare il futuro". Per un ministro del welfare sarebbe stata una buona intenzione, ma al Pentagono significa: dobbiamo produrre

conflitti (questo spiegherebbe i "25 anni"). Non si tratta però di retorica o di errori, come sostiene la nostra sinistra, bensì di un concetto di produzione più ampio, nell'accezione

mediatica. La produzione capitalistica di conoscenze realizza qui uno dei suoi risultati maggiori, la connessione tra militarismo e industria culturale.

Stabilita in anticipo la lunghezza del conflitto, e la dimensione del massacro, si riorganizzano elementi presi dalla realtà: il razzismo può diventare antislamismo, l'antiamericanismo ormai è una categoria kantiana e lo si trova dappertutto, i conflitti

interetnici assicurano lo sfondo, la sofferenza dei popoli aggrediti invece non deve apparire

sugli schermi se non derubricata e presentata come terrore, la loro resistenza utilizzata per la continuazione dello scontro. Per ''creare il futuro" dunque la versione ufficiale rilancia gli estremisti violenti che per 11

i prossimi vent'anni potranno distruggere la nostra nazione". Questa affermazione, che a prima vista potrebbe sembrare una dichiarazione di impotenza, ha invece un fondamento filosofico di tutto rispetto. Hegel infatti non considerava gli Stati uniti uno stato perché sul loro continente non avevano nemici: uno stato invece, nella visione Hegeliana, deve avere dei nemici, perché può nascere e durare solo nel gioco di un conflitto militare. La versione ufficiale dunque, assicurando nemici per alcuni decenni, assicurerebbe la durata e l'esistenza stessa degli Stati uniti. Quindi non dovremmo liquidarla come la rappresentazione ansiosa di generali incapaci, che pure non mancano. Potrebbe trattarsi invece della elaborazione avveduta di una classe dirigente che, oltre al senso degli affari, non ignora le radici filosofiche delle teorie militari. A ben guardare infatti, la versione ufficiale, nonostante le difficoltà logiche, si rivela un efficace strumento di dominio, regola e ricompone interessi diversi. Soddisfa sia gli idealisti conservatori che i materialisti del complesso militare-industriale, polarizza l'intero pianeta determinando i due campi contrapposti: da una parte chi teme che la civiltà occidentale possa essere distrutta, con conseguente necessità di altre spese per la difesa, antislamismo, scontro di civiltà; dall'altra parte invece chi spera che l'occidente possa essere davvero

distrutto, visto che è proprio ciò che teme. Così la versione ufficiale, annunciando la ventennale capacità apocalittica degli islamisti, viene universalmente accolta. È l'importante risultato della produzione capitalistica di conoscenze. Tuttavia la versione

del Pentagono si è affermata, nonostante la sua logica improbabile, anche perché ripercorre i modelli dell'industria culturale che hanno avuto successo. Si rivolge ai contribuenti considerati come spettatori per illustrare, esporre, commentare il grande spettacolo della guerra. E ne pretende l'esclusiva con la soppressione dei giornalisti non embedded. Liquidati sia il determinismo ineluttabile che la casualità dell'accadere, la storia torna ad essere

prodotta da un solo popolo dominante come voleva Hegel, che ormai si rivela come il filosofo di riferimento del Pentagono. Produrre conflitti dunque o, come si dice al Pentagono, "creare il futuro", diventa compito

delle amministrazioni usa che coinvolgono per questo numerose istituzioni, dalla Difesa ai mass media, all'industria culturale. Quando si rappresentano i nemici come "estremisti violenti che cercano di distruggere il nostro modo di vivere libero", che 14 Vogliono procurarsi

armi di distruzione di massa", diventa persino imbarazzante notare che l'industria culturale

aveva già rappresentato questo tipo di nemico: per esempio la Spectre nelle riduzioni cinematografiche dei romanzi di lan Fleming (dai romanzi ai film c'è già il passaggio dalla guerra fredda alla guerra al Terrore). Queste storie si ripetono ciclicamente, con caratteristiche sempre uguali, come hanno

notato Horkeimer e Adorno. Si cambiano di volta in volta, come nelle ultime guerre, soltanto i particolari, si modifica qualche effetto. Ma il capo efferato che aveva così efficacemente indignato gli spettatori deve esserci sempre, spesso affidato a ex-agenti della Cia, da Noriega a Saddam, o a vecchie conoscenze, Milosevic era stato assistente di Kissinger, e Bin Laden

amico d'infanzia e socio d'affari del presidente Bush. Quanto all'intramontabile minaccia nord-coreana, una scheggia sopravvissuta di guerra fredda, ha scritto già da tempo Alain Joxe, maggior esperto francese di studi strategici: "La Corea del Nord è un caso raro, quindi diventa necessario, per rilanciare l'economia con la corsa agli armamenti e la guerra, produrre continuamente zone di intervento, e gli usa procedono in tal senso". Infatti si son

viste procedere, con il presidente Donald Trump, sia la guerra al Terrore sia la tradizionale tensione con la Corea del Nord che in alcune occasioni ha toccato livelli mai raggiunti con le precedenti amministrazioni, sia soprattutto la continuazione delle operazioni nelle

predilette "zone di intervento" in Medio Oriente. Ma c'è sempre il capo efferato che tenta di possedere o meglio ancora che mostra di avere armi di distruzione di massa. E questo si è affermato ormai come l'argomento forte che tiene gli spettatori col fiato sospeso, e perciò viene riproposto ogni volta. Anche l'eroe in difficoltà che rischia sempre di soccombere - come i marines nelle zone più

calde - e che si destreggia per tutto il racconto avvincendo gli spettatori, diventa un motivo di successo ripetuto. E così i modi bruschi con gli ignobili nemici, dai cazzotti alle torture che, se indignano qualche democratico, in realtà deliziano i repubblicani. La sofferenza dei popoli aggrediti dunque emerge ma solo come risultato della sacrosanta energia deijarhead. E non si può badare a spese per dotare l'eroe della migliore tecnologia offensiva - dall'Aston Martin micidiale al fiume di miliardi per sempre nuovi armamenti. La produzione di questo reality war decide quali effetti inserire e quanti morti, misurando di continuo le oscillazioni del pubblico. Al quale, anche per l'azzeramento dei giornalisti indipendenti, resta poco da valutare che non sia già stato stabilito dai comunicati dei comandi militari. È riuscito il prudente inserimento di qualche caduto usa dopo decenni di "sindrome vietnamita" che lo impediva, con una media giornaliera che è scesa dai venti soldati, di leva, del Vietnam, che l'opinione pubblica non tollerava, ai più accettabili due caduti, soldati di mestiere e prevalentemente ispanici: comunque molto meno degli omicidi quotidiani in California. Inserimento necessario perché i caduti in guerra sono necessari alla mobilitazione imperiale, come dice Brzezinski e come aveva detto Napoleone.

C'è poi la questione della guerriglia, altro scenario ricorrente che ormai segue sempre agli interventi militari. Monica Maggioni scrive che gli usa in Iraq non hanno fatto nulla per impedirla. E John Keegan spiega che gli usa "favorendo lo sbandamento dell'esercito iracheno e della polizia, e abolendo ogni controllo ai confini, hanno permesso la formazione di combattenti con l'infiltrazione di estremisti islamici da altri paesi arabi che si sono aggiunti ai miliziani di Saddarn e del partito Baath". Ma qualche tempo prima l'economista augusto graziani l'aveva addirittura prevista spiegandone le ragioni: "La ripresa dell'economia si verifica quando con l'occupazione del territorio occorrono forniture di ogni genere, e se la guerra si trasforma in guerriglia,

non vi sono tecnologie o equipaggiamenti che possano avere ragione con certezza della resistenza delle popolazioni attaccate. I conflitti prolungati esercitano un influsso favorevole

sull'attività economica di tutti i paesi che direttamente o indirettamente vi sono coinvolti". È comunque facile supporre che questo "prolungamento" del conflitto venga previsto non

solo dagli economisti. Dunque interpretarlo come fallimento dell'invasione è generoso con le popolazioni attaccate - come ha spesso fatto la sinistra - ma non corrisponde alla situazione reale. Se i comandi militari prevedevano molti anni di interventi, poteva rientrare nei piani d'attacco provocare le popolazioni che venivano spinte continuamente sulla linea del fuoco, lasciate in condizioni di totale insicurezza, bombardate, torturate, a volte perfino spinte ad armarsi, con l'abbandono di interi arsenali di armamenti leggeri di cui si perdevano le tracce, come è successo in Iraq. Dunque col nuovo nemico islamista si passa alla nuova, dinamica "guerra del xxi secolo"

che - dice la versione ufficiale - durerà a lungo perché si potranno 11condurre guerre in paesi

con i quali non siamo in guerra". Un brillante ossimoro strategico che risolve la questione posta da van Clausewitz: come costringere allo scontro un nemico che lo rifiuta. Ci aspettano dunque - secondo i futurologi del Pentagono - decenni di interventi "ovunque intorno al globo con le nuove unità mobili di combattimento". Avvertimento pacifista: "Visitate la California prima che la California visiti voi". La breve sintesi esposta finora di ciò che per più di un secolo è stato scritto su 11chi", e "perché", ha interesse a 11tener viva la tensione internazionale", può essere utile per identificare anche oggi- nonostante la versione ufficiale - lo stesso inconfessabile interesse.

VI. MARX, LA CRITICA DELLA POLITICA E LE NUOVE TECNOLOGIE

I. Critica della politica, del diritto e delle nuove tecnologie. Una critica della politica e del diritto, nel modo di produzione capitalistico è già contenuta - come indica l'opera di Marx- nella critica dell'economia politica, perché non può che essere una critica del nesso sociale reificato che collega gli individui isolati, prodotti da questo modo di produzione, ma mantenendoli nell'isolamento.

Come ha mostrato Marx con la critica del carattere feticistico della merce, nella società borghese i produttori si presentano come individui isolati perché in questa società i caratteri sociali del lavoro si oggettivano nei prodotti, appaiono come proprietà sociali delle merci, e il rapporto sociale tra i produttori appare come rapporto sociale fra le merci, esistente al di fuori dei produttori. Questo individuo isolato dunque entra in società con un nesso sociale reificato creato dal valore di scambio "mediatore universale" che col potere del denaro collega le cose e gli uomini. Un nesso sociale reificato che si riproduce con lo Stato, col partito politico o con qualunque altro "mediatore" si presenti a collegare questi individui isolati mantenendone l'isolamento: che è anche il risultato delle nuove tecnologie che rientrano perciò a pieno titolo, per questo aspetto, in una critica della politica. Perché realizzano un'ulteriore mediazione esterna accanto a quella del valore di scambio, dello Stato, del denaro o del partito politico, che infatti tendono a integrare e a sostituire. Nel modo di produzione capitalistico l'individuo che produce si presenta come individuo isolato in seguito alla dissoluzione delle forme sociali feudali e allo sviluppo delle nuove forze produttive: la forza sociale del mezzo di scambio sostituisce la forza della comunità, del rapporto patriarcale, del feudalesimo, "strappate al mezzo di scambio questo potere

sociale e dovrete darlo alle persone sulle persone". Quindi l'individuo isolato non è un dato naturale, come invece crede il pensiero politico moderno, ma un risultato storico. Quanto più risaliamo indietro nella storia, tanto più l'individuo che produce ci appare non autonomo,

parte di un insieme più grande - scrive Marx. Dunque la società dei produttori isolati, cioè il nesso che li lega, si presenta come qualcosa di estraneo e di oggettivo di fronte agli individui; non come loro relazione reciproca, ma come loro subordinazione a rapporti che sussistono indipendentemente da loro. La relazione sociale tra le persone si trasforma in rapporto sociale tra le cose. Insomma è questo tipo di unità che genera l'isolamento.

Che ruolo abbia la politica in questo processo indiretto, che ruolo svolgano lo Stato e il diritto, Marx lo ha esposto in innumerevoli passi. Lo Stato moderno si sviluppa con l'affermarsi del modo di produzione capitalistico perché ciò che si presentava prima come un processo reale si presenta ora come un rapporto giuridico. Perché ciò che prima, nel bene e nel male, era proprietà del prodotto del proprio lavoro, appropriazione mediante il lavoro, diventa ora separazione di lavoro e proprietà, cioè proprietà di lavoro oggettivato, che è un'oggettività contrapposta al lavoratore, è proprietà di altri che hanno "un titolo giuridico a una cosa senza avere realmente la cosa": si tratta dunque di un rapporto giuridico

che è condizione generale della produzione e ha quindi bisogno di essere "legalmente riconosciuto", di essere "posto come espressione della volontà generale" - scrive Marx nei

Grundrisse1. Così il nesso sociale reificato creato dal valore di scambio, si riproduce con lo

Stato, col partito politico e con chiunque altro compaia a collegare gli individui che tuttavia rimangono isolati. Le nuove tecnologie costituiscono un'ulteriore versione di questo nesso sociale reificato, "potenti macchine nelle quali è vietato guardare dentro", che non hanno di

per sé capacità liberatorie perché appartengono ad altri, che le hanno prodotte e le usano per i loro scopi, che le possono spegnere dove e quando vogliono: algoritmi blindati, estranei, oggettivi che, come il valore di scambio, lo Stato e il partito politico, sono strumenti di dominio anche quando non violano l'uguaglianza e la libertà (cioè non soltanto nel caso degli abusi di Facebook), ma per il solo fatto che collegano gli individui isolati con un nesso che

non supera l'isolamento, che sussiste indipendentemente da loro, che non gli appartiene. Per questo, come abbiamo visto, la funzione salvifica, la capacità organizzativa che i "cyberutopisti" attribuiscono oggi alle nuove tecnologie può essere considerata 11 Leninismo

informatico", se paragonata alla funzione salvifica che agli inizi del Novecento Lenin volle attribuire al partito politico. Di un'altra funzione scrive Dan Schiller (Digitai Capitalism, M.I.T.1999, università Bocconi 2000) quando sostiene che Internet ha portato dappertutto la legge del mercato. Questa affermazione può essere letta sia contro i "cyberutopisti", che hanno creduto nelle capacità

liberatorie delle nuove tecnologie, sia contro coloro che, in particolare, credono che queste tecnologie porteranno la democrazia diretta, superando la democrazia rappresentativa ritenuta finora necessaria perché nei grandi Stati non si può stare tutti in una piazza. Qui si sostiene invece che la democrazia rappresentativa non sia dovuta alla grandezza degli Stati, che d'altra parte è una conseguenza del prevalere del valore di scambio, ma al nesso sociale reificato che si stabilisce nel modo di produzione capitalistico col valore di scambio. Quindi, in mancanza di un diverso nesso sociale, le nuove tecnologie non solo non possono

produrre di per sé forme più avanzate di democrazia ma, al contrario, queste tecnologie costituiscono il mezzo principale per imporre ovunque il mercato e perciò le forme politiche che vi corrispondono. Ma questo tipo di unità reificata, che genera l'isolamento, sempre più genera anche - come mostra la storia della lotta di classe - il suo contrario, l'unificazione diretta. Infatti, mentre nelle epoche precapitalistiche prevalevano la politica e la religione che rendevano difficile la coscienza di classe, nel capitalismo prevale l'economia e i rapporti economici non sono più nascosti ma diventano evidenti: "la coscienza di classe entra nella fase in cui può diventare cosciente". E con gli ultimi sviluppi del capitalismo, con la cibernetica che ha portato dappertutto la legge del mercato, questa tendenza potrebbe rafforzarsi. Perciò i lavoratori i cui collegamenti, in quanto loro relazioni proprie, comuni, sono assoggettati al loro comune

controllo- consigli, comitati d'azione, forse cybersoviet'-potrebbero essere i lavoratori della fase storica che ci sta dinnanzi.

Quando le rivoluzioni proletarie producono l'organo di lotta che, come scrive Lukacs, supera politicamente ed economicamente la reificazione capitalistica; quando i lavoratori non si considerano più come possessori della merce forza-lavoro ma come "liberi esseri

storici"; quando le lotte per la difesa dei salari - alle quali si fermavano i partiti politici della sinistra - diventano invece lotte contro la condizione di salariati; quando - come dice Marx - i lavoratori capiscono che "finché la forza sociale si separerà nella figura della forza politica, non sarà possibile nessuna emancipazione umana"; quando prevale qualcosa che

è stato descritto come "mondo della vita" o come "agire comunicativo"; quando si passa dalla 11 serialità", come Sartre definisce l'isolamento, ai soviet, ai consigli operai, che Sartre ha chiamato "gruppi in fusione" e "motori del processo storico"; quando prevalgono i comitati

che si unificano nell'azione superando il nesso "pietrificato" del valore di scambio, dello Stato, del partito politico, come avvenne nel Sessantotto che si definì movimento perché rifiutò il nesso reificato di qualunque partito; allora si afferma un diverso nesso sociale e l'isolamento cessa. E solo allora le tecnologie della comunicazione, se non sono state spente prima, potranno avere un ruolo accelerando l'unificazione.

Ma Spartaco, la Comune di Parigi o i marinai di Kronstadt comunicarono benissimo anche senza l'elettronica.

2. La critica Marxiana della politica e del diritto. Questa critica è indispensabile sia per l'analisi del capitalismo e dei suoi sviluppi più recenti, sia per considerare la transizione a un'altra società. Le organizzazioni del proletariato

non sfuggono a questa critica, soprattutto i grandi partiti politici e i sindacati nazionali. Quando Rosa Luxemburg sostiene che gli errori di un movimento valgono più delle scelte giuste del comitato centrale di un partito, fonda il suo giudizio sulla critica Marxiana della politica e del diritto. Una critica ripresa dai russi Stucka e Pasukanis, in Italia da umberto Cerroni e più recentemente da Luca Basso, ma ignorata dai teorici del diritto. Va detto innanzitutto che è impossibile una separazione, sia pure per comodità di lavoro, della critica dell'economia da quella della politica e del diritto: negli scritti di Marx quasi ad

ogni pagina vi sono elementi di "critica della politica''. Se prevale la critica dell'economia, ciò non è dovuto al fatto che Marx sia un economista", ma al fatto - come egli scrive 11

che il modo di produzione della vita materiale spiega perché nella società borghese la parte principale è rappresentata dall'economia, così come è sempre il modo di produrre che spiega perché nel mondo antico la parte principale era rappresentata dalla politica e nel Medioevo era rappresentata dal cattolicesima1. Nella società borghese insomma, la produzione precede la comunità, vi sono rapporti sociali tra le cose e rapporti di cose tra le persone, e chi

vuole analizzare questa società deve analizzare questi rapporti. Infatti ora non ci sono più rapporti di dipendenza personale, il lavoratore è libero dagli antichi vincoli di clientela, di servitù, di prestazione, perché lo scambio "rende superfluo il gregarismo e lo dissolve"'. I legami dovevano essere organizzati su base politica, religiosa, ecc. Fin quando il potere del denaro non era ancora diventato il nexus rerum et hominum. Quando invece questo prevale,

il lavoratore è libero. Ma è una libertà duplice", perché il lavoratore liberato da quegli antichi

rapporti è anche libero da ogni avere, da ogni proprietà. È privo delle condizioni oggettive, dei mezzi di sussistenza, dello strumento di lavoro, che sono ora la vera comunità "che egli cerca di far sua ma dalla quale invece viene ingoiato"'· Dunque sembra questa la ragione per cui Marx, invece di un trattato sullo Stato, ci ha lasciato la critica dell'economia politica. La critica di Marx, insomma, scopre la priorità dei rapporti socio-economici su quelli politicogiuridici: se si affrontassero solo questi ultimi, saremmo costretti, per spiegarli, a uscir fuori dalla loro dimensione. Già Rousseau d'altra parte aveva intuito che un popolo è un popolo prima di darsi a un re1. 3. I fondamenti della legge, del diritto e della volontà generale.

Marx mostra in modo definitivo come volontà, libertà e uguaglianza, che sono i pilastri del pensiero politico moderno, presuppongano rapporti di produzione borghesi ed abbiano come base il valore di scambio. "Non solo dunque uguaglianza e libertà sono rispettati nello scambio basato sui valori di scambio", scrive nei Grundrisse, ma questo scambio è anzi la 11

base produttiva, reale di ogni uguaglianza e libertà. Come idee pure esse ne sono soltanto le

espressioni idealizzate; e in quanto si sviluppano in rapporti giuridici, politici e sociali, esse sono soltanto questa base ad una diversa potenza"1. L'uguaglianza si pone materialmente,

esiste in forma oggettiva, dice Marx, un lavoratore o un re che acquistino la stessa merce sono completamente uguali, qualsiasi differenza tra loro è cancellata perché tutti e due si presentano come possessori di denaro. D'altra parte si tratta di una transazione volontaria, l'individuo agisce in piena libertà. È dunque qui nella circolazione, nei rapporti di denaro, la base dei rapporti giuridico-politici della società borghese. Ed è qui, nella circolazione, che cerca scampo la democrazia".2.. Nella circolazione dunque, in questo processo di superficie

11

dove tutte le antitesi immanenti appaiono cancellate, dove i vincoli di dipendenza personale sono spezzati, dove non ci sono più differenze di sangue, di educazione, ecc. Dove gli individui scambiano come persone libere e indipendenti. Questa sfera insomma "seduce la democrazia".!.2. ("élections piège a cons- scrive Sartre- si annega la rivoluzione nelle urne, che

sono fatte per questo"). "Viene in luce - scrive Marx - l'inettitudine dei socialisti, soprattutto dei francesi, che pretendono di additare il socialismo come realizzazione delle idee della società borghese espresse dalla rivoluzione francese, i quali dimostrano che lo scambio, il valore di scambio ecc. Sono[ ... ] un sistema della libertà e uguaglianza di tutti, ma sono stati poi adulterati dal denaro, dal capitale ecc.''11. È lo stesso atteggiamento dei "cyberutopisti" i quali sostengono che le nuove tecnologie hanno capacità liberatorie che però sono state adulterate da un capitale parassita. Questa "inettitudine dei socialisti" dunque accompagnerà la società borghese sino alla sua fine. Si è ripresentata con i socialdemocratici che hanno preteso di ricavare dai principi liberali tradizionali una problematica socialista: Bernstein, Laski, Strachey, che con Locke e Kant in tasca si sono assunti il compito superfluo, direbbe Marx, di voler realizzare la libertà e l'uguaglianza, cioè l'espressione ideale della società borghese. Vede questa "inettitudine"

Solari che scrive: "Illogici sono quelli che in favore del quarto stato invocano i principi individualisti dello stato di diritto, dando ad essi una estensione e un significato che certamente non comportano"ll. D'altra parte questo punto di vista riaffiora in coloro che

ritengono che lo Stato sia uno Stato di classe perché non realizzerebbe le affermazioni

contenute nelle dichiarazioni dei diritti. Quindi allo "Stato socialista" spetterebbe il compito di attuare quei diritti che lo Stato borghese userebbe solo come facciata. Questo punto di

vista ricorda Proudhon quando afferma che "la proprietà è un furto": in realtà se è vero che il capitalista cerca sempre di pagare la forza-lavoro al di sotto del suo valore, è però vero che non è questo il modo di funzionare della società borghese: Marx mostra che lo sfruttamento non è un furto, ma che si verifica proprio quando viene rispettata la legge del valore. La stessa cosa si può dire dello Stato moderno rappresentativo: è uno Stato di classe non solo quando non rispetta le dichiarazioni dei diritti, che è certamente una vocazione della borghesia; ma è uno Stato di classe proprio nel suo normale funzionamento per il solo fatto che tratta in modo uguale, nella sfera della circolazione, individui che, nella sfera della produzione, sono disuguali. Che è ad un tempo la caratteristica comune dello scambio di

valori di scambio e della norma astratta e generale del diritto formale1'. 4. La "sfera rumorosa" del web di superficie.

Dunque la sfera giuridico-politica è espressione dei rapporti economici più semplici, della

circolazione cioè, dello scambio di merci, del mercato, di questa ' sfera rumorosa che sta alla superficie ed è accessibile a tutti gli sguardi", nella quale cerca scampo la democrazia", e "il 1

11

libero-scambista vulgaris prende a prestito concezioni, concetti e norme per il suo giudizio

sulla società del capitale"li. La sfera della circolazione - dice Marx - presa autonomamente, è una pura astrazione,

perché si tratta di un processo superficiale al fondo del quale si verificano altri processi; quindi se non si lascia questa sfera, se non ci si addentra nel "segreto laboratorio della produzione"11 non si può vedere come il valore di scambio si sviluppa in capitale e come

il lavoro che produce valore di scambio si sviluppa in lavoro salariato, e quindi non si vedrà neanche come il sistema del denaro, che è effettivamente il sistema della uguaglianza,

della libertà, della volontà, del diritto, si converta poi in disuguaglianza, illibertà, moderno privilegio. allo stesso modo le libertà che i "cyberutopisti" attribuiscono alle nuove tecnologie sono le libertà della circolazione, del web di superficie, di questa "sfera rumorosa", "valanga

di informazioni minute e divertimenti addomesticati" che porta dappertutto la legge del mercato. Ma se non si lascia questa sfera "che sta alla superficie ed è accessibile a tutti gli sguardi", se non ci si addentra là dove le nuove tecnologie diventano un mezzo di produzione,

nella ratio calcolante, nel web profondo, dove si produce plusvalore con sistemi "chiusi, segreti, blindati", non si vedrà come la libertà si converta nell'illibertà e nello sfruttamento. ! Karl Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Oekonomie, Dietz Verlag 19 53, trad. It. Di Enzo grillo: Lineamenti

fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze 1970, volume Il, p. 148. Citato come Lineamenti. !

Si veda il libro di Carlo Fermenti.

lKarlMarx,IICapitale, Roma 1970, volume I, tomo I, p. 96

!Lineamenti, cit. II, p. 123. 1Ivi,II,p.135.

!Ivi,II,p.124. ! J.J. Rousseau, Le contrat social, III,

15. E si veda Umberto Cerroni, Società civile e Stato politico in Hegel, Bari 19 74,

p. 76. ! Lineamenti, cit.

I, p. 214.

! Ivi, I, p. 209 . .il! Ivi,

I, p. 106.

ll Ivi, I, p. 209.

ll G. Solari, Individualismo e Diritto Privato, Torino 1939, p. 287.

ll Cfr. Cerroni, cit. ilJl Capitale, cit. I, 1, p. 193.

llfbid.

APPENDICE

UN DIBATTITO SU INTERNET

La prima sezione di questo volume riproduce un articolo apparso qualche anno fa sul quotidiano "il manifesto", che è stato ripreso, tradotto e discusso su un centinaio di siti

Internet. Uno di questi, "La battaglia soda", ha confrontato le tesi di questo articolo con quelle dei "teorici della moltitudine" antonio Negri, Paolo Virna, ecc. Rilevando i due modi di intendere l'economia della conoscenza.

Se ne riporta qui qualche brano. °Consideriamo due discorsi sul lavoro contemporaneo che si richiamano a Marx e al

passo dei Grundrisse di Marx. Non intendiamo parteggiare per l'uno o per l'altro. Ognuno potrà aderire al discorso che ritiene più corretto, riflettere su limiti, punti importanti o da sviluppare". "Il primo discorso (v. Enzo Modugno su "il manifesto"), in opposizione a coloro che ritengono le nuove pratiche di lavoro immuni da rischi di alienazione, si schiera con coloro che leggono le relazioni tra capitale e lavoro ancora schiacciate sotto il peso dell'alienazione e della

sussunzione reale, e afferma che un'analisi critica del capitalismo cognitivo deve procedere con un'analisi critica del pensiero scientifico".

"Il secondo discorso (v. Negri a., Dalla fabbrica alla metropoli, Roma, 2008) non parla più di

forzalavoro ma di lavoro vivo o sapere vivo. Si ritiene che i lavoratori della conoscenza siano dotati di qualità e competenze non oggettivabili nelle macchine e non misurabili col tempo dilavoro. Cioè si sottolinea il carattere di eccedenza delle capacità umane di cooperare rispetto ai sistemi e processi di disciplina e di controllo del capitale. Si considera il cervello umano, cioè

la facoltà di pensare e di parlare, come la vera macchina che produce conoscenze. Si ritiene dunque che il capitale, rimasto senza macchine, sia ridotto a puro dominio, un parassita che sopravvive con la sopraffazione e la violenza".

"Il primo discorso parla di sussunzione reale, di gerarchia, di sapere automatizzato e di lavoratori della conoscenza ridotti alla condizione di operai massa, la gran massa dei lavoratori mentali addetti alle macchine informatiche, di cui non sanno e non debbono sapere nulla". "Il secondo discorso afferma la fine della legge del valore e il ruolo parassitario che il capitale ricopre nei confronti del lavoro: considera dunque il controllo del capitale sul lavoro non solo a livello di sussunzione reale ma di sussunzione formale parlando a volte di sussunzione totale a volte di sussunzione biopolitica (v. Fumagalli a., Bioeconomia e capitalismo cognitivo, Roma, 2007), di saperi condivisi che il capitale cerca di risucchiare, di riprodurre, sui quali afferma di possedere diritti e ne rivendica la proprietà (v. Roggero g., La produzione del sapere vivo, Verona, 2009}'1.

"Il primo discorso parla del cervello artificiale come macchina che fagocita l'uomo, che elabora conoscenze senza bisogno dei "fallibili" cervelli umani.

Il secondo discorso parla di cervelli comunicanti o sciame di intelletti. Le eccedenze producono conoscenze, condividono saperi che il capitaleparassita cerca, come un pidocchio, di succhiare". "Il primo discorso legge 1984 di george orwell, ma rimanda a più recenti opere letterarie come il racconto Occhi di serpente di Tam Maddox. Il secondo discorso è fedele a William gibson, il racconto La notte che bruciammo Chrome e il

celebre Neuromante". "Il primo discorso sembra rimandare a un paradigma cognitivo legato a Chomsky, agli studi sull'Intelligenza artificiale, a un certo funzionalismo. Il secondo discorso muove verso la neurofenomenologia e introduce la categoria di embodiement ("azione incarnata"),

in riferimento anche agli studi delle neuroscienze sui neuroni (V. Hardt M., Negri A., Moltitudine, Milano, 2004)".