Il Costituzionalismo in Turchia fra identità nazionale e circolazione dei modelli

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Il Costituzionalismo in Turchia fra identità nazionale e circolazione dei modelli

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NUOVI STUDI DI DIRITTO PUBBLICO ESTERO E COMPARATO COLLANA DEL DIREZIONE Tania Groppi (Università di Siena) - Alessandro Torre (Università di Bari) COMITATO SCIENTIFICO Salvatore Bonfiglio (Università di Roma Tre); Roberto Borrello (Università di Siena); Marina Calamo Specchia (Università di Bari); Carlo Casonato (Università di Trento); Francesco Clementi (Università di Perugia); Marcelo Figuereido (Pontifícia Universidade Católica de São Paulo); Peter Leyland (London Metropolitan University); Nicola Lupo (Luiss Guido Carli Roma); Bernardo Giorgio Mattarella (Università di Siena); Luca Mezzetti (Università di Bologna); Laura Montanari (Università di Udine); Valeria Piergigli (Università di Siena); Francesco Palermo (Università di Verona); Marie Claire Ponthoreau (Université Montesquieu Bordeaux IV); Dian Schefold (Universität Bremen) COMITATO EDITORIALE Coordinamento: Justin O. Frosini (Università Bocconi di Milano) Claudio Martinelli (Università di Milano Bicocca) Comitato: Giulia Aravantinou Leonidi (Università di Roma La Sapienza) Michele Belletti (Università di Bologna) Laura Fabiano (Università di Bari) Pamela Martino (Università di Bari) Carna Pistan (Università di Bologna) REFEREES Mohammed Benhyahya (Université Mohammed V Rabat); Anthony W. Bradley (University of Edinburgh); Angel Antonio Cervati (Università di Roma La Sapienza); Colin Copus (De Montfort University Leicester); Alberto Dalla Via (Universidad de Buenos Aires); Carmela Decaro (Luiss Guido Carli Roma); Gian Candido De Martin (Luiss Guido Carli Roma); Juan Fernando Duràn Alba (Universidad de Valladolid); Juan Garcìa Roca (Universidad Complutense de Madrid); Stanley Henig (The Federal Trust for Education & Research London); Chris Himsworth (University of Edinburgh); Joseph Jaconelli (University of Manchester); David Jenkins (Università di Copenhagen); George W. Jones (London School of Economics); Dennis Kavanagh (University of Liverpool); Ian Leigh (University of Durham); Michel Leroy (Conseil d’Etat Bruxelles); Kostas Mavrias (Università di Atene); Anton Muscatelli (University of Glasgow); Nino Olivetti Rason (Università di Padova); Sebastian Payne (University of Kent); Otto Pfersmann (Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne); Salvatore Regasto (Università di Brescia); Fernando Rey Martinez (Universidad de Valladolid); Leonid Smorgunov (Università Statale di San Pietroburgo); Pedro Julio Tenorio Sanchez (Uned Madrid); Christopher Thornhill (University of Manchester); Michel Verpeaux (Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne); Luigi Volpe (Università di Bari)

Nuovi Studi di Diritto Pubblico Estero e Comparato Collana del Devolution Club diretta da Tania Groppi e Alessandro Torre

Il costituzionalismo in Turchia fra identità nazionale e circolazione dei modelli Valentina Rita Scotti

Opera sottoposta a peer-review double-blind secondo il protocollo UPI

Il presente lavoro è stato realizzato e pubblicato grazie al contributo del Dipartimento di Scienze Politiche e del CESP – Centro di Studi sul Parlamento della LUISS “Guido Carli”

© Copyright 2014 by Maggioli S.p.A.

Maggioli Editore è un marchio di Maggioli S.p.A. Azienda con sistema qualità certifi cato ISO 9001: 2008

47822 Santarcangelo di Romagna (RN) • Via del Carpino, 8 Tel. 0541/628111 • Fax 0541/622595 www.maggioli.it/servizioclienti e-mail: [email protected] Diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale con qualsiasi mezzo sono riservati per tutti i Paesi.

Finito di stampare nel mese di dicembre 2014 nello stabilimento Maggioli S.p.A. Santarcangelo di Romagna (RN)

A Luigi Carlo, per la sua infinita pazienza

Ringraziamenti Questo volume è frutto della riorganizzazione e dell’aggiornamento dei materiali utilizzati per la tesi di dottorato, discussa nel novembre 2011, nell’ambito della Scuola di dottorato in Diritto ed Economia, sezione di Diritto pubblico comparato, dell’Università degli Studi di Siena. La pubblicazione del volume, la cui stesura ho concluso nell’agosto 2014, è per me fonte di grande gioia, poiché mi consente di condividere con la comunità accademica gli esiti di un lungo percorso. Il lavoro di ricerca, tuttavia, non sarebbe stato possibile senza il sostegno di due donne straordinarie che ho avuto la fortuna di incontrare nel mio percorso di studi: la prof.ssa Decaro, che ha mantenuto la promessa fatta “arruolandomi” di farmi scoprire il mondo, i cui preziosi consigli rappresentano per me, sin dalla tesi di laurea, un costante punto di riferimento e cui sono debitrice per i numerosi stimoli scientifici; la prof.ssa Groppi, coordinatrice del dottorato senese, per avermi insegnato il rigore scientifico nella ricerca, per aver supportato i numerosi periodi di ricerca all’estero che la realizzazione di questo lavoro ha richiesto e per avermi sostenuta nella pubblicazione di questo lavoro nella presente Collana. Accanto alle mie Maestre, ringrazio: il prof. Cherubini, il prof. Lupo, la prof.ssa Soravia e il prof. Sinagra, per i suggerimenti e i consigli nelle successive versioni provvisorie di questo lavoro; i colleghi del dottorato, ed in particolare la dott.ssa Irene Spigno, con cui ho condiviso anni fondamentali per la mia formazione; i colleghi delle cattedre di diritto pubblico comparato e di diritto pubblico della LUISS Guido Carli, che mi hanno rincuorata nei momenti in cui il percorso sembrava in salita. Un ringraziamento speciale va anche alla dott.ssa Sevim Aktaş, Direttrice dell’Istituto di cultura turco “Yunus Emre”, che mi ha insegnato la splendida lingua del suo paese, e ai prof.ri Kaboğlu, Ozcan, Başlar, Turkmen e ai loro giovani collaboratori per gli utili consigli durante i soggiorni in Turchia.

Per il suo sostegno nel percorso di pubblicazione ringrazio, infine, il prof. Torre. Questo lavoro, tuttavia, non sarebbe mai stato scritto senza il supporto dei miei genitori, che mi hanno insegnato la perseveranza, di mia sorella Francesca, indispensabile consulente per tutti i riferimenti artistici dell’Introduzione, e di Luigi Carlo, meraviglioso e paziente compagno di vita. Di ogni mancanza, errore o omissione, resto comunque l’unica responsabile. Roma, agosto 2014

Indicazioni per la lettura della lingua turca Al fine di agevolare la lettura si ritiene opportuno fornire alcune indicazioni in merito al turco moderno. Questa lingua, appartenente al ceppo uralo-altaico, è una evoluzione del turco ottomano, in cui erano presenti numerose influenze delle lingue araba e persiana. In seguito alla dil devrimi (rivoluzione linguistica – 1928), voluta da Atatürk, la lingua turca non è più trascritta con grafemi arabi ma latini; il tentativo di “europeizzare” la lingua della Repubblica turca ha visto anche l’epurazione di numerosi termini arabi e persiani, che sono progressivamente spariti dal linguaggio comune, e la loro sostituzione con nuove parole. Poste tali premesse, si evidenzia come i grafemi del turco moderno abbiano suoni coincidenti con quelli italiani, salvo alcune eccezioni. Alle cinque vocali dell’alfabeto latino, infatti, la lingua turca ne affianca altre tre, la cui lettura si riporta di seguito:  “ı”, ha un suono muto, corrispondente alla pronuncia di una “e” molto chiusa e pronunciata con le labbra rilassate, simile a quella rinvenibile nella lingua francese;  “ö”, si pronuncia con una lieve palatizzazione, come se si volesse far precedere da una “i” e può essere paragonata alla pronuncia del gruppo “eu” nella lingua francese;  “ü”, ha un suono dolce, con una lieve palatizzazione, assimilabile alla pronuncia della vocale “u” nella lingua francese. Relativamente alle consonanti, alcune differenze di pronuncia si affiancano a grafemi assenti nell’alfabeto latino:  “c”, si pronuncia come la “g” dolce della lingua italiana, ad es. genio;  “ç”, ha il suono della “c” italiana nella parola “cena”;  “g”, si pronuncia “gh”, ad es. gatto;  “ğ”, denominata “g” morbida, ha una posizione solitamente intervocalica e consente di allungare il suono della vocale che la precede;  “j”, ha il suono dolce che si rinviene nella parola francese “je”;  “k”, corrisponde al suono duro della “c” italiana, ad es. “casa”;  “r”, ha un suono arrotato, come nella pronuncia di questa lettera nella lingua inglese;  “s”, ha sempre un suono duro, ad es. sole;  “ş”, ha il suono dolce del gruppo “sc” nella lingua italiana, ad es. scena;  “y”, si pronuncia come la “i” nella parola italiana “ieri”;  “z”, ha il suono della “s” dolce nella lingua italiana, ad es. federalismo. Quanto alla lettura delle parole turche, infine, si ricorda che esse hanno solitamente un debole accento sull’ultima sillaba, con l’eccezione dei toponimi, che tendono ad essere accentati sulle prime sillabe: ad es. Istànbul, Ánkara, Amàsya, Sìvas.

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Prefazione..............................................................................

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Introduzione Alterità o contiguità? La Turchia nello spazio mediterraneo 1. Corsi e ricorsi di un dialogo costante ................................. 2. Una storia costituzionale aperta all’Europa .......................

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Capitolo I Il costituzionalismo nella Repubblica di Turchia 1. I cicli costituzionali ............................................................ 1.1 L’Impero ottomano: alle origini del costituzionalismo turco ................................................................ 1.2 I Giovani turchi e l’avvio del costituzionalismo liberale ............................................................................... 1.3 La “rivoluzione” kemalista: dall’assemblearismo all’autoritarismo ................................................................ 1.4 La Presidenza di Inönü e la scelta per l’Occidente ..... 1.5 La “lunga” transizione costituzionale.......................... 1.6 Il decennio riformista (2001-2010) ............................ 2. I cambiamenti sociali e le risposte costituzionali............... 2.1 L’evoluzione del pluralismo sociale............................ 2.2 La trasformazione del sistema dei partiti: l’Adalet ve Kalkınma Partisi................................................................ 2.3 In attesa di una risposta costituente ............................. Capitolo II Identità nazionale e circolazione dei modelli 1. Tradizione e modernità ...................................................... 1.1 La codificazione: quale ruolo per la tradizione islamica? ............................................................................ 1.2 Dalle madrase ai campus: la formazione dei giuristi .. 2. Le “frecce” del kemalismo: identità in movimento........... 3. La Laicità: un gioco di specchi fra modelli .......................

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4. Il Repubblicanesimo e i suoi custodi ................................. 4.1 Le forze armate ............................................................ 4.2 La Corte costituzionale ................................................ 4.2.1 La tutela dell’identità costituzionale e lo scioglimento dei partiti............................................... 5. Il Nazionalismo e la protezione dell’integrità territoriale . 5.1 Dal centralismo “esasperato” alle ipotesi di decentramento ............................................................................. 5.2 La questione curda: dai “turchi di montagna” alla c.d. kurdish opening .......................................................... 6. Il Populismo: separazione dei poteri e questione dei diritti .................................................................................. 6.1 Rappresentanza e decisione: un difficile equilibrio .... 6.2 Il sistema giudiziario: riforme e rischi ........................ 6.3 La tutela dei diritti: il trattamento dei detenuti ............ 7. Lo Statalismo e l’affermazione dell’economia liberale ..... 8. Le questioni irrisolte .......................................................... 8.1 La questione armena .................................................... 8.2 La questione cipriota ................................................... Capitolo III La Turchia nel Consiglio d’Europa …. .............................. 1. L’adesione della Turchia al Consiglio d’Europa e la ratifica della CEDU ................................................................ 2. La CEDU nella gerarchia delle fonti in Turchia ................ 3. Le decisioni della Corte di Strasburgo nella giurisprudenza delle Corti turche ..................................................... 4. L’esecuzione delle sentenze della Corte di Strasburgo ...... 5. Dalla Turchia alla Corte di Strasburgo e ritorno: tre casi di influenza diretta ............................................................. 6. La strategic litigation e l’influenza degli attori esterni ...... Capitolo IV Il lungo e controverso percorso di adesione all’Unione europea .................................................................................. 1. Le ragioni di un negoziato open-ended .............................. 1.1 1959-1963: la richiesta di adesione e l’accordo di Ankara ........................................................................... 1.2 1974-1996: dalla crisi di Cipro all’unione doganale............................................................................

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1.3 1999-2005: il Consiglio europeo di Helsinki e l’avvio dei negoziati per l’adesione................................... 1.4 2005-2012: adesione o unione privilegiata? ................ 2. L’adesione “bloccata” e il possibile ripensamento turco ... 3. La condizionalità europea e le evoluzioni costituzionali della Turchia ......................................................................

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Indice delle sigle ...................................................................

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Bibliografia ...........................................................................

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Conclusioni La Repubblica di Turchia e il costituzionalismo contemporaneo: quali scenari futuri? ................................ 1. Quasi un secolo di vita repubblicana: identità nazionale e circolazione dei modelli.................................................. 2. Il Consiglio d’Europa e l’Unione europea: approcci diversi, esiti diversi............................................................ 3. Possibili scenari per il futuro: regressione autoritaria o consolidamento democratico? ...........................................

Prefazione Il 20 ottobre 2014 la Repubblica di Turchia ha compiuto novant’anni. Per lunghi secoli cuore dell’Impero ottomano dissolto, dopo la sconfitta nella prima guerra mondiale, dal trattato di Sévres (10 agosto 1920) la Turchia ridefinisce la propria identità con la guerra di indipendenza e la leadership vittoriosa del generale Mustafa Kemal, che nel 1934 diventerà Atatürk, il padre della patria. Questa identità rinnega il passato ottomano ma non la religione musulmana, che diviene elemento fondante per la definizione della “turchità”; i confini territoriali della Turchia sono stabiliti con il Trattato di Losanna (23 luglio 1924), a danno delle minoranze etniche di religione musulmana; i modelli europei e la partecipazione alle organizzazioni internazionali – la NATO per la difesa, il Consiglio d’Europa per la tutela dei diritti, e poi il lungo percorso di adesione all’integrazione europea – rappresentano le vie principali per la modernizzazione delle istituzioni e per la progressiva costruzione di una originale democrazia. È in questo contesto che laicità e salvaguardia dell’integrità territoriale rappresentano le “frecce” costanti all’arco delle forze armate, garanti assoluti di stabilità. A tutela della laicità, infatti, i militari intervengono, con due colpi di Stato (1960, 1981), contro partiti politici di ispirazione islamica democraticamente eletti. Nella ideologia kemalista la religione non trova spazio, se non come instrumentum regni per imporre l’omologante identità turca. A tutela dei confini nazionali, lo stato di emergenza nel territorio sudorientale dell’Anatolia rappresenta il presidio militare costante contro la minoranza curda, storico antagonista, in lotta per il riconoscimento della specificità etno-culturale e della indipendenza. Nelle diverse fasi del costituzionalismo della Repubblica di Turchia, i modelli stranieri e le istituzioni sovrastatali rappresentano un costante punto di riferimento. Già al momento dell’indipendenza, i kemalisti guardano all’Europa continentale per la definizione di un moderno assetto istituzionale e per la redazione delle prime due Costituzioni (1921, 1924); a seguito del colpo di Stato del 1960, la Commissione Istanbul definisce il catalogo dei diritti e le garanzie costituzionali sulla scia dei modelli occidentali; dal 1999 lo spazio giuridico europeo, con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani e con il dialogo con le istituzioni comunitarie, influenza il percorso costante di riforma della Costituzione “restrittiva” del 1982 che si sviluppa nel successivo decennio, sino al referendum del 2010. Alla svolta del secolo, l’ascesa al potere dell’Adalet ve Kalkınma Partisi (AKP) apre una nuova, seppur controversa, fase dello sviluppo democratico del sistema. Da un lato, infatti, l’AKP, con la vittoria nelle elezioni del 2002, rappresenta la versione moderata della democrazia islamica e si impegna verso le minoranze per l’attuazione di riforme finalizzate al loro riconoscimento. Dall’altro lato, i militari, tendenzialmente ostili al nuovo

corso, rispettano i risultati elettorali, limitandosi, nel momento di estrema tensione dell’elezione del Presidente Gül nel 2007, a un pronunciamento formale e abbandonando la tradizione della “garanzia diretta” dei principi kemalisti. Per la sua storia costituzionale quasi centenaria, la Repubblica di Turchia rappresenta un laboratorio di frontiera nel diritto comparato: qui la teoria della circolazione dei modelli giuridici trova una originale applicazione. A Valentina Rita Scotti va dato il merito di aver scelto questa frontiera, dimostrando come la circolazione risalga già all’Impero ottomano, quando la Sublime Porta rappresentava un crocevia culturale: il caso dell’ombudsman è il simbolo più emblematico. L’Autrice coglie, con un’analisi accurata, gli effetti delle “frecce” del kemalismo (laicismo, repubblicanesimo, nazionalismo, populismo, statalismo, riformismo) sulle istituzioni nella loro evoluzione, in un contesto di forti relazioni con i modelli giuridici occidentali. È stata così costruita – è questa la tesi di fondo del lavoro – una originale identità costituzionale che può aprire nuove dimensioni di relazioni e circolazioni. Accanto al dialogo orizzontale fra gli ordinamenti, Valentina Rita Scotti approfondisce anche il dialogo verticale, con le organizzazioni sovrastatali, in particolare con il Consiglio d’Europa e l’Unione europea. Esse, sin dalla loro istituzione, hanno avviato con l’ordinamento turco un serrato confronto che ha mostrato di produrre interessanti, reciproche influenze. Sullo sfondo, i rapporti instaurati dalla Turchia con la NATO e con il FMI, che qualificano ulteriormente la scelta per il blocco occidentale nei lunghi decenni dell’equilibrio bipolare. Proprio la fine dell’equilibrio bipolare ha aperto per la Turchia l’opportunità di un nuovo ruolo geopolitico, di potenza regionale dell’area e di ponte fra oriente e occidente. Il lavoro di Valentina Rita Scotti rappresenta, dunque, un interessante tassello di quel percorso di studi comparati, avviato da una parte della dottrina italiana, che estende i tradizionali confini degli interessi di studio, con la curiosità delle frontiere e delle esperienze costituzionali oltre frontiera. La conoscenza di questi sistemi rappresenta la base per un dialogo leale e futuro. Roma, agosto 2014 Carmela Decaro Bonella

Introduzione Alterità o contiguità? La Turchia nello spazio mediterraneo 1. Corsi e ricorsi di un dialogo costante La presa di Costantinopoli (1453)1 segna in modo netto il rapporto fra gli Stati europei e il mondo islamico, facendo emergere un attore strategico – di religione musulmana e di origine etnica uralo-altaica2 – che consolida in tempi rapidi la propria presenza nel Mediterraneo e si spinge verso il cuore del Vecchio continente: l’Impero ottomano. Nei c.d. “secoli classici”3 sembra instaurarsi un confronto fra due blocchi solo apparentemente omogenei al proprio interno: da un lato, la Cristianità, suddivisa in numerosi Regni e Stati spesso contrapposti dall’adesione ai principi della Chiesa di Roma o a quelli della Riforma; dall’altro lato, l’Impero ottomano, che affianca al pluralismo delle diverse credenze islamiche un complesso mosaico di fedi e appartenenze etniche. Se apparente è l’omogeneità interna dei due blocchi, tale è pure l’idea che i 1

Costantinopoli, capitale dell’Impero romano d’Oriente, è posta sotto assedio e conquistata dagli ottomani guidati da Mehmet II il 29 maggio 1453. È l’ultimo atto della conquista dell’Impero bizantino da parte degli ottomani, che si sono insediati in Anatolia sul finire del Duecento, sotto la guida di Osman I, e si sono attribuiti il titolo sultaniale con Murad I nel 1383. 2 I discendenti della casa di Osman, infatti, non sono semiti, come la maggior parte dei fedeli musulmani, ma si considerano discendenti di popolazioni originariamente residenti sui monti Altai. 3 Con questo termine si indicano i secoli tra il 1512 e il 1826, durante i quali l’Impero ottomano partecipa attivamente alla politica delle grandi potenze europee. La periodizzazione che qui si propone vede la storia turca suddivisa in: epoca preislamica (fino al 1000 circa), durante cui si realizza la conversione all’Islam delle tribù turcomanne; epoca islamica (fino al 1500 circa), caratterizzata dagli scontri per il potere fra le tribù turche, i mongoli e l’Impero bizantino e conclusa con la presa di Costantinopoli (1453) e del Cairo (1517); secoli classici, di cui si è detto; età contemporanea, avviata con le riforme della Tanzimat (cfr. K. KREISER, C.K. NEUMANN (a cura di), Turchia. Porta d’Oriente, Beit, Trieste, 2013, pp. 15-29). Una differente periodizzazione, tuttavia, indica come “secoli classici” il periodo tra il 1300 e il 1600 (cfr. H. INALCIK, History of the Ottoman Empire. The Classical Age, 1300-1600, Phoenix Press, Washington, 2000, (1a ed. 1973).

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numerosi conflitti che li interessano abbiano una matrice religiosa4, giacché la Sublime Porta5 è un alleato, più o meno esplicito, delle potenze europee, anche quando la “lotta all’infedele” si pone come richiamo per favorire l’unità del mondo cristiano6. La conferma di questo ambiguo rapporto tra le corti cattoliche e la Porta si trova nella lunga permanenza, fra il 1482 e il 1489, del principe Cem, fratello del Sultano Bayezit II e pretendente al trono ottomano, prima in Francia e poi a Roma7, in cambio della quale il Sultano versa un cospicuo tributo annuale in ducati veneziani8. Del resto, il Gran Turco è anche considerato un implicito alleato dei veneziani all’epoca della “strage di Otranto” (1480), «scandaloso e sanguinoso diversivo atto a procurare nel nome della lotta al barbaro infedele la pace fra i cristiani»9; ancora, nel 1508-09, ai tempi della Lega antiveneziana di Cambrai, la Serenissima ipotizza un accordo con il Sultano Selim II Yavuz (il Terribile)10. Nella seconda metà dello stesso 4

M. FORMICA, Lo specchio turco, Donzelli, Roma, 2012, p. 3 ss. ricorda come questa sia una precisa scelta ideologica, in base a cui si tace come «gli scontri tra musulmani e cristiani siano stati di gran lunga inferiori che non quelli tra inglesi e spagnoli o tra tedeschi e francesi e come lotte ben più cruente abbiano diviso, negli stessi periodi, cattolici e protestanti dell’Europa cristiana». 5 L’Impero ottomano viene denominato in svariati modi dagli europei durante i secoli: la Porta o la Sublime Porta sono nomi originati dall’ingresso attraverso cui gli emissari europei transitano per accedere al cospetto del Sultano, detto anche il Turco o il Gran Turco, espressioni che per sineddoche finiscono per riferirsi a tutto l’Impero. 6 Sulle ragioni che inducono gli europei a considerare per lungo periodo gli ottomani come “altri” e “diversi”, si veda D. GOFFMAN, The Ottoman Empire and the Early Modern Europe, Cambridge University Press, Cambridge, 2002, spec. pp. 1-20. 7 La necessità di “soggiornare” presso altri sovrani del principe Cem origina dalla Legge organizzativa della casata di Osman (kanun-name-i Al-Osman), approvata durante il regno di Mehmet II (1451-1481). Questo “codice”, oltre a regolare le funzioni e le retribuzioni delle più alte cariche al servizio del Sultano, autorizza il fratricidio come strumento per evitare disordini in seguito alle successioni («A chiunque dei miei figli pervenga il potere sovrano, si addice, nel perseguire l’ordine del mondo, l’uccidere i propri fratelli»). Cfr. K. KREISER, C.K. NEUMANN (a cura di), op. cit., p. 74-75. 8 Per una ricostruzione della vicenda legata alla permanenza del principe Cem in Europa si rinvia a M. FORMICA, op. cit., p. 22-23. 9 Così F. CARDINI, Il Turco a Vienna. Storia del grande assedio del 1683, Laterza, Roma-Bari, 2011, p. 9. 10 In effetti, Venezia, definita proprio per la sua vicinanza all’Impero sultaniale come la Porta d’Oriente, mantiene constanti relazioni commerciali con il Gran Turco anche in

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secolo, inoltre, l’Impero ottomano è coinvolto nelle diatribe fra Carlo V di Asburgo e Francesco I di Francia; quest’ultimo, peraltro, è l’artefice della stabile, anche se mai ufficializzata, alleanza antiasburgica con il Sultano Süleyiman al-Qanuni11 (il Legislatore) passata alla storia come impium foedus12. Negli stessi anni, la Corte estense, sull’esempio del Ducato di Borgogna, consolida un’intensa amicizia con la nobiltà ottomana, al punto da modificare i propri costumi in senso orientaleggiante. Non si tratta, peraltro, di un caso isolato e, se parlare di sincretismo nell’area mediterranea pare certamente azzardato, è vero che, sulle sponde del mare nostrum, «le occasioni d’incontro pacifico e di condivisione culturale, anzi perfino religiosa, erano molte» ed «era soprattutto la profonda devozione mariana dei musulmani a favorire queste forme di incontro»13. Da esse deriva, peraltro, una controversa rappresentazione dell’infedele, che già la figura del Saladino aveva adombrato, di un uomo tanto valoroso e crudele in guerra, quando mite ed equo nei periodi di pace14. Una rappresentazione che deve la sua diffusione all’opera di quanti, da Marsilio Ficino a Pico della Mirandola, propongono la possibilità di una convivenza pacifica con i musulmani. A fare da contraltare a questa visione, tuttavia, si pongono le immagini di completa alterità del Turco che in epoca post-tridentina sono diffuse dai missionari inviati nell’Impero nel tentativo di limitare le conflittualità interne alla cristianità periodi di conflittualità militare, al punto che le relazioni dei baili veneziani, capolavori dell’odeporica del tempo, lungamente rappresentano una fonte di informazione sulle abitudini turche anche per le altre corti europee (cfr. M. FORMICA, op. cit., p. 7 e pp. 2527). 11 Costui è fra i sultani più ammirati dalla compagine europea, che preferisce utilizzare l’epiteto “il Magnifico”, piuttosto che quello di “Legislatore” attribuitogli dai suoi sudditi, che ne evidenzia la capacità di guidare con saggezza e giustizia l’Impero. 12 Per completezza si ricorda che lo stesso Carlo V stipula un’alleanza con i musulmani persiani guidati dallo shah Tahmasp con l’obiettivo di assediare i territori ottomani su due fronti. 13 F. CARDINI, op. cit., pp. 84. 14 Su questa considerazione degli ottomani, si veda A. DE FERRARIIS, Dell’Educazione, C. VECCE (a cura di), in Studi e problemi di critica testuale, 36, 1988, pp. 24-82, (1a ed. 1505).

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consolidando una visione che fa della Chiesa l’unico baluardo contro l’altro per antonomasia15. Sono queste le premesse di un evento che simbolicamente rappresenta il momento culminante dello scontro di civiltà della storia moderna16 e che, invece, si colora di numerose sfumature di significato: la battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571), in cui la Lega Santa, voluta da Pio V e guidata da Don Giovanni d’Austria, sconfigge la flotta navale di Müezzinzade Alì Paşa. La storiografia relativa a questo evento ne ridimensiona la portata17 e mostra come l’elemento religioso sia stato il “collante strategico” usato dal Pontefice per richiamare i sovrani europei ad uno spirito della crociata18 che celava la lotta per il controllo del Mediterraneo19. In effetti, l’espansionismo ottomano nel mare nostrum preoccupa notevolmente gli Stati europei20 e anche quelli che con l’Impero della Sublime Porta hanno 15

M. FORMICA, op. cit., p. 8. Al riguardo si veda A. WHEATCROFT, Infidels. A History of the Conflict between Christendom and Islam, Viking, London, 2004, spec. cap. I. 17 Può essere interessante notare come, dal punto di vista militare, la sconfitta a Lepanto non rappresenti un duro colpo per l’Impero ottomano, che nel secolo successivo combatte con successo la guerra di Candia (1645-1699) contro la Repubblica di Venezia per il possesso di Creta. Va comunque ricordato che le dinamiche interne al mondo musulmano sono parzialmente alterate dagli esiti del conflitto. I regni barbareschi del Maghreb, infatti, rientrano nella sfera di influenza ottomana alla ricerca di protezione dal vicino spagnolo; quando diviene chiaro che la flotta ottomana non è sempre in grado di garantire questa protezione e considerando che la Spagna è contemporaneamente impegnata nelle questioni interne per il controllo dei Paesi Bassi, tali regni cominciano ad acquisire margini di autonomia e a riprendere, anche contro gli interessi del Sultano, la guerra di corsa, che ne caratterizza per lungo tempo l’economia. 18 Come già accaduto precedentemente, il supporto papale all’impresa si esprime mediante la benedizione del vessillo, in cui gli apostoli Pietro e Paolo affiancano un crocifisso sormontato dalla scritta di costantiniana memoria «in hoc signo vinces». L’elevato significato religioso attribuito alla vittoria è confermato anche dalla scelta di far coincidere, sin dal 1572, la data della battaglia con la festa di Santa Maria della Vittoria, poi divenuta festa del SS. Rosario, come ringraziamento per l’intercessione della Vergine Maria. 19 Cfr. A. BARBERO, Lepanto. La battaglia dei tre imperi, Laterza, Roma-Bari, 2010, spec. p. 126. 20 In tutto il testo si utilizza l’espressione “Stati europei” per indicare l’Europa nella sua definizione classica, tendenzialmente individuabile con gli attuali membri dell’Unione europea. Tale utilizzo tuttavia non intende escludere la Turchia dal novero degli Stati europei, ma consente comunque di mantenere vivo il ricordo della peculiare 16

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instaurato fiorenti relazioni commerciali21 finiscono per convertirsi alla causa della guerra all’infedele per salvaguardare i propri possedimenti: ancora una volta il caso emblematico è quello della Repubblica di Venezia che, vedendo minacciato il dominio su Cipro, pone fine all’atteggiamento diplomatico verso il Turco che l’ha sino ad allora contraddistinta per cercare di tessere una rete di alleanze in funzione antiottomana. Non si tratta, tuttavia, di una ostilità di lunga durata. Già il 7 marzo 1573 Venezia sottoscrive un trattato di pace separato con il Sultano in cui si riconosce la cessione di Cipro e delle coste albanesi e si gettano le basi per la ripresa delle relazioni commerciali. Una strategia seguita anche dalle altre corti europee22, sempre meno propense a considerare, dopo la sconfitta di Lepanto, gli ottomani come un reale pericolo e sempre più attente alle tensioni interne. Il Seicento si apre così all’insegna di rapporti tendenzialmente pacifici fra l’Impero e l’Europa, anche a causa dei numerosi conflitti interni. In Europa, la Guerra dei Trent’anni (1618-1648) rende impraticabile l’ipotesi di una nuova “crociata”. Nell’Impero ottomano è il conflitto con il vicino persiano a impegnare duramente, già dalla fine del secolo precedente, le forze militari, inducendo il Sultano a rivedere le modalità di amministrazione del proprio territorio; già nel 1587, infatti, il territorio nordafricano viene suddiviso in tre reggenze, con una riforma dall’elevato valore storico giacché introduce nel contesto ottomano la nozione di “confine”23. posizione di questo paese, che si pone, non solo geograficamente e strategicamente, ma anche storicamente, quale ponte tra la dimensione europea “classica” e il Medioriente. 21 Per maggiori approfondimenti da un punto di vista storico, si rinvia ad A. BARBERO, op. cit., spec. p. 41 ss. nonché a F. BRAUDEL, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino, 1953, pp. 801 ss. In questa sede si ricordano, oltre ai più volte menzionati rapporti con la Serenissima, le relazioni instaurate sul finire del Cinquecento fra l’Impero della Sublime Porta e la Corona inglese, incentrate sia sul desiderio ottomano di ottenere lo stagno inglese a prezzi vantaggiosi, sia sulla comune inimicizia nei confronti degli Asburgo. 22 Si ricordino il Trattato ispano-turco del 1580 e i Trattati delle capitolazioni francoturche del 1580. 23 Cfr. F. CARDINI, op. cit., p. 103.

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È il Trattato di Westfalia (24 ottobre 1648), che tanta parte ha nella pacificazione degli Stati europei e nella costruzione degli Stati nazione, ad alimentare nuovamente il fuoco delle ostilità verso gli ottomani, ed anzi proprio la lotta contro il nemico comune rafforza la coesione inter christianos. La coincidenza fra la fine dei conflitti interni in Europa e il termine delle ostilità turco-persiane, peraltro, vede l’Impero della Sublime Porta nuovamente impegnato nell’espansione territoriale a Occidente attraverso la guerra di Candia (1649-69) e la campagna militare nel territorio balcano-ungherese sino all’assedio di Vienna (1683). Anche questo evento, e soprattutto la sconfitta ottomana che ne segue, è spesso enfatizzato come momento di scontro di religione. In realtà, il Re cristianissimo Luigi XIV non invia proprie truppe in aiuto di Vienna, la Kizil Elma24 del tempo, e approfitta della situazione in cui versa la capitale asburgica per annettere le regioni di Alsazia, Lorena, Saar, Lussemburgo e Paesi Bassi spagnoli. Il XVII secolo si chiude quindi con la pace di Carlowitz (26 gennaio 1699), che riduce i possedimenti dell’Impero ottomano in favore degli Asburgo e avvia il declino della Sublime Porta, già fiaccata dal crescente ruolo che le Capitolazioni assumono nell’amministrazione imperiale25. Il Secolo dei lumi vede quindi l’Impero ottomano tecnologicamente meno avanzato dell’Europa e marginalizzato commercialmente dal consolidamento delle rotte atlantiche; all’orizzonte si profila, inoltre, un 24

Letteralmente, “Mela Rossa”. Con questa denominazione si indica dapprima il pomo dorato retto dall’Imperatore Giustiniano nella statua antistante Aya Sofya; con la distruzione della statua nel 1453, il termine passa a indicare gli obiettivi strategici dell’Impero ottomano posti in Occidente. In una prima fase la Mela Rossa è quindi Roma, ma, negli scenari geopolitici del Seicento, tale termine si riferisce alla potente capitale dell’Impero asburgico, Vienna. 25 Le Capitolazioni (ahidname), che prendono tale denominazione dalla suddivisione in capitoli, sono concesse per la prima volta nel 1569 dal Sultano Selim II al Re di Francia come riconoscimento del suo ruolo di tutore dei pellegrini e dei mercanti in Terrasanta (cfr. F. CARDINI, op. cit. p. 45). Con il tempo, esse finiscono per indicare i privilegi concessi a un sovrano straniero nella gestione degli affari connessi ai propri sudditi o ai fedeli di una religione di cui quel sovrano si ritiene garante residenti nel territorio dell’Impero. Tali privilegi, originariamente concessi per mantenere solidi rapporti e per sancire delle alleanze, divengono un ostacolo nella politica ottomana del primo dopoguerra (cfr. S. FAROQHI, L’Impero Ottomano, il Mulino, Bologna, 2008, p. 37).

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attore che contribuisce al declino imperiale: la Russia26. Soprattutto a seguito dell’ascesa al potere della dinastia Romanov, infatti, l’Impero zarista si contrappone al Gran Turco sia nel tentativo di acquisire uno sbocco sul Mediterraneo, sia in ragione del ruolo di tutore delle popolazioni di fede ortodossa che la Russia ha consolidato. Allo stesso modo, anche altre potenze europee avviano propositi di conquista del territorio ottomano. Dalla fine del Settecento, infatti, comincia il vero e proprio declino territoriale della Sublime Porta: dapprima l’Egitto è annesso al territorio francese ad opera del Bonaparte (1798), quindi la Grecia combatte e vince la propria guerra di indipendenza (1820-21), e ancora la Francia sottrae un ulteriore elemento dell’Impero ottomano con la conquista dell’Algeria (1830); seguono la perdita della Tunisia (protettorato francese dal 1881) e della Libia (riconosciuta possedimento italiano con la pace di Losanna del 1912) e quindi il completo smembramento con i trattati conclusivi del primo conflitto mondiale. In termini generali, il XVIII e il XIX secolo rappresentano un momento di svolta nei rapporti fra l’Impero ottomano e l’Europa: agli incontri finalizzati alla sola conclusione di accordi militari si aggiungono più complesse ambascerie, spesso permanenti27. Tali sono, infatti, le rappresentanze ottomane che si insediano a Vienna (1719), a Mosca (1720), a Parigi (1721) e a Varsavia (1730). Le crescenti occasioni di pacifico incontro ampliano ulteriormente gli scambi culturali fra le due parti e la conoscenza reciproca contribuisce a mutare progressivamente l’immagine del Turco presso gli europei28. Peraltro, «scontrarsi regolarmente con lo stesso nemico porta a una relativa consuetudine tra i 26

Il primo casus belli fra le due potenze è rappresentato dall’ospitalità concessa dal Sultano a Carlo XII; l’ultimatum dello Zar, che pretende la consegna del sovrano svedese, è all’origine della dichiarazione di guerra ottomana del 21 novembre 1701. 27 Per un approfondimento sull’evoluzione delle ambascerie e dell’operato degli intermediari tra gli Stati europei e l’Impero ottomano si rinvia a B. LEWIS, I musulmani alla scoperta dell’Europa, Mondadori, Milano, 1992, pp. 81-132. 28 Cfr. A. ÇIRAKMAN, From the “Terror of the World” to the “Sick Man of Europe”. European Images of Ottoman Empire and Society form the Sixteenth Century to the Nineteenth, Peter Lang Publishing, New York, 2002.

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due contendenti soprattutto se i tempi di battaglie alternano regolarmente con tempi assai lunghi di attività diplomatica e se le guerre non sospendono totalmente gli scambi economici»29. E, infatti, già ai tempi dell’assedio di Vienna, l’Europa comincia a consumare caffè in luoghi appositamente a ciò adibiti, sull’esempio degli ottomani kahvehane, e si introduce nella colazione europea il croissant, dolce dalla forma di mezzaluna che richiama gli stendardi militari ottomani. Fra il Settecento e l’Ottocento giungono in Europa altre turqueries, quali i tulipani, le armi ottomane da collezione, i tappeti, i bracieri, i tavolini da caffè intarsiati in avorio. Ad una particolare invenzione tecnologica e alla sua maggiore fruibilità raggiunta in questi secoli, la stampa, si deve inoltre la diffusione di una più puntuale conoscenza da parte cristiana dei princìpi islamici30. Se, infatti, i popoli musulmani hanno potuto conoscere il Cristianesimo attraverso le numerose comunità di dhimmi31, non è così per i cristiani, la cui conoscenza dell’Islam è lungamente limitata dal timore dell’Inquisizione che lo studio della religione dell’infedele favorisca il proselitismo; è solo dal Settecento in poi che gli studiosi europei possono ampliare le proprie conoscenze sulla letteratura ottomana prima sacra e poi profana. È così che a partire dal XVIII secolo in Europa si afferma «une nouvelle silhouette du Turc, più amichevole, sorridente e serena, o talvolta mestamente umiliata, o talaltra saggiamente e dignitosamente composta»32. Una figura del “Turco” che si rinviene anche nei brani d’opera, grazie all’utilizzo di strumenti già “importati” nelle bande militari, che richiamano atmosfere ottomane: è così per il Ratto del 29

M. VIALLON, Venezia ottomana nel Cinquecento, in Epirotica chronica Ioannina, 42, 2008, pp. 41-60, spec. p. 48. 30 La difficoltà di conoscere l’Islam deriva anche dal divieto imposto dal clero musulmano di stampare il Corano in assenza di una precisa autorizzazione. Quest’ultima viene concessa solo nel 1727 al tipografo ungherese Ibrahim Mutafarriqa e solo da quel momento comincia la vera diffusione a scopo conoscitivo e di studio del libro sacro dell’Islam (cfr. G. VERCELLIN, Venezia e l’origine della stampa a caratteri arabi, Il Poligrafo, Padova, 2001, p. 13). 31 Con questo nome l’Islam indica i non musulmani cui si riconosce, essendo essi “genti del libro”, la libertà di professare il proprio culto in cambio del pagamento di un tributo. 32 Cfr. F. CARDINI, op. cit., p. 501.

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Serraglio di Mozart (1781) e più ancora per il movimento finale della Nona Sinfonia di Beethoven (1824), in cui si rievoca una marcia di giannizzeri grazie all’utilizzo di grancassa, triangolo, piatti e flauti. La moda turca, conosciuta dalle élite grazie alla pratica di un grand tour orientale, si impone anche nell’abbigliamento e, da “la Sultana” Madame de Pompadour in poi, sempre più frequenti sono le apparizioni presso le corti europee di nobili abbigliati alla turca33 al punto che il matrimonio di Federico Augusto di Sassonia con l’arciduchessa Maria Giuseppa (1719) viene celebrato in una ambientazione turchesca. Non da ultimi, gli artisti sono contagiati dalla moda orientaleggiante: Liotard, che assume come propri i costumi ottomani, introduce nei propri quadri richiami decorativi turcheschi34; Gros e Girodet-Trioson, chiamati a documentare la presa dell’Egitto, sostituiscono la leggerezza del decoro con il pathos della conquista35; Delacroix traspone la moda turca in scene quotidiane36, come fa anche Vernet37; Ingres si mostra attratto, invece, dalla sensualità delle donne ottomane38; Hayez, infine, utilizza scenari e costumi ottomani per ambientare i propri soggetti biblici39. 33

L’introduzione di costumi turcheschi nell’abbigliamento viene favorita anche dalle lettere redatte da Lady Mary Wortley Montague, che accompagna il marito nella sua ambasceria ad Istanbul fra il 1716 e il 1718, in cui si confrontano, tra l’altro, gli scomodi corsetti indossati dalle donne europee con i comodi abiti della moda ottomana (cfr. M. WORTLEY MONTAGUE, The Turkish Embassy Letters, BBG, Little, 1994 (1a ed. 1763). Sul punto si veda, inoltre, R. ORSI LANDINI, L’abito per il corpo e il corpo per l’abito, in R. ORSI LANDINI (a cura di), L’abito per il corpo e il corpo per l’abito. Islam e Occidente a confronto, Artificio, Firenze, 1998. 34 Si veda il dipinto “Giovane donna che legge in costume orientale”, 1750-1753, Museo degli Uffizi, Firenze. 35 Si vedano, rispettivamente, “Napoleone visita gli appestati di Jaffa”, 1804, Louvre, Parigi, e “Rivolta del Cairo”, 1801, Musée National du Château, Versailles. 36 Si pensi a “Donne d’Algeri nei loro appartamenti”, 1834, Louvre, Parigi. 37 Così in “Camera turca”,1829-1834, Villa de Medici, Roma; ma l’Autore non esita a rappresentare anche episodi di guerra in ambientazione ottomana. 38 I riferimenti al riguardo sono numerosi: “La grande odalisca”,1814, Louvre, Parigi; “Odalisca con schiava”, 1832, Walter Art Gallery, Baltimora; “Bagno turco”, 1862, Louvre, Parigi. 39 Si veda, ad esempio, “Ruth”, 1835, Palazzo Comunale, Bologna.

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A uno studio attento, anche l’influenza dell’Europa in territorio ottomano rivela i propri segni sin dall’inizio dei “secoli classici”: forme gotico-romaniche e paleologhe si rinvengono già nelle moschee costruite dai primi ottomani40 e un richiamo all’architettura italiana si riscontra nella costruzione delle fortificazioni. Nel corso del Seicento l’Europa diviene anche il canale di importazione per alcune colture, come nel caso del tabacco delle Americhe, sconosciuto agli ottomani e importato per la prima volta nell’Impero da commercianti inglesi nel 163541. Tra la fine del Seicento e l’Ottocento, nel periodo noto come Lale Devri (età dei tulipani), i segnali di contaminazione divengono più evidenti. Durante il Sultanato di Ahmed II, infatti, la vita di corte viene innovata da un “consumismo dimostrativo”, utile a rappresentare il sovrano come fonte di ricchezza e di generosità verso il popolo, che si riverbera anche nell’architettura: la città di Istanbul è abbellita con padiglioni di legno allestiti con giochi d’acqua ispirati ai resoconti dell’ambasciatore ottomano in Francia, cui si affiancano grandi fontane installate al centro delle piazze, primo esempio di spazio pubblico non connotato da una appartenenza confessionale. I successori di Ahmed, i sultani Mahmud II e Abdülmecid adottano un atteggiamento ancora più aperto all’influenza europea e non si limitano a introdurre un cerimoniale diplomatico che richiama quello utilizzato nelle corti europee, ma favoriscono anche la diffusione di uno stile di abbigliamento della Corte simile alla moda europea. È in questi stessi anni che trovano spazio nelle case delle élite dapprima i tavoli da pranzo – presto abbandonati, dopo un’iniziale diffusione, perché troppo simili ai tavoli mortuari musulmani – e dipoi gli orologi, considerati come un ritrovato tecnologico di estremo interesse42. È questo un segnale del particolare interesse per le tecnologie 40

Esemplificativamente si può citare il caso del complesso di Fatih, che richiama progetti italiani e la cui costruzione potrebbe essere stata influenzata dall’architetto Filarete, che probabilmente dimora a Istanbul nel 1466 (cfr. K. KREISER, C.K. NEUMANN (a cura di), op. cit., p. 69). 41 Si vedano le memorie dello storico Pecevi cit. in B. LEWIS, op. cit., p. 206. 42 L’interesse per gli orologi è tale che dal 1630 si insedia nel quartiere Galata una corporazione di orologiai capace di una produzione di tale livello qualitativo da sostituire progressivamente le importazioni dall’Europa. Questa esperienza tuttavia non dura e già all’inizio del XVIII secolo non vi è più traccia di questa corporazione (cfr. B. LEWIS, op. cit., p. 249).

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europee, che si dimostra anche nei tentativi di importazione in ambito militare43 e minerario44. Anche nelle arti applicate si tenta di avvicinare il gusto ottomano a quello europeo. Nell’architettura si introducono elementi ispirati al barocco e al rococò, come si nota nella moschea di Nur-u Osmaniye (ultimata nel 1754) e nel palazzo Dolmabahçe (ultimato nel 1856), entrambi a Istanbul, il cui stile di decorazione innovativo introduce il barocco ottomano45. Più complessa è l’introduzione di elementi europei nella pittorica ottomana, a causa del divieto religioso della rappresentazione dell’immagine umana. La ritrattistica, infatti, viene lungamente considerata con sospetto e le si preferiscono la miniatura e la paesaggistica; dal XVIII secolo, tuttavia, essa si diffonde ampiamente e vede all’opera ritrattisti turchi che si ispirano all’arte italiana per ritrarre i sultani. L’istituzione dell’Associazione dei pittori ottomani, inoltre, mostra l’accrescersi dell’attenzione per il movimento impressionista, il cui stile pittorico si diffonde congiuntamente all’introduzione della fotografia, adoperata anche come strumento per la rappresentazione delle principali manifestazioni nazionali46. Continua a riscontrarsi tuttavia un rifiuto per ragioni religiose della scultura, che trova spazio solo in epoca repubblicana47. 43

Come si vedrà, nel contesto ottomano i più alti ranghi delle nobiltà sono espressione della casta militare che, in questi secoli, si confronta con gli omologhi europei. Si ricorda, infatti, che in questi anni i principi elettori di Sassonia istituiscono una propria “guardia giannizzera”, che il Re di Prussia Federico Guglielmo I ha una propria “Guardia Turca” – per la quale fa costruire la prima moschea tedesca nel 1732 – e che Napoleone introduce un reparto di Mamelucchi nella Guardia imperiale francese. 44 A tal fine si fa ampio ricorso alle tecniche di estrazione utilizzate in Germania anche grazie all’assunzione di esperti tedeschi (cfr. B. LEWIS, op. cit., p. 238). 45 Cfr. K. KREISER, C.K. NEUMANN (a cura di), op. cit., p. 214. 46 Cfr. M. SARDAR, The Later Ottomans and the Impact of Europe, in Heilbrunn Timeline of Art History, New York, www.metmuseum.org. 47 Similmente, è la rigida suddivisione sociale dell’Impero a rappresentare il principale motivo per la difficoltà nell’importazione della moda europea nell’abbigliamento, che, difatti, trova spazio solo dall’Ottocento, in un’epoca di profonda crisi dei costumi e delle tradizioni ottomane.

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Come già nel secolo precedente in Europa, nell’Ottocento il mondo ottomano vede fiorire anche il giornalismo, nella lingua ufficiale, nei numerosi altri idiomi parlati nell’Impero e soprattutto in francese, che diviene ormai la seconda lingua dell’élite ottomana48. Interessanti influenze culturali si riscontrano anche nell’evoluzione del teatro. La tradizione ottomana, infatti, affianca al teatro delle ombre Karagöz49 rappresentazioni all’aperto di soggetto buffonesco recitate da attori uomini; è solo a partire dal 1839 che l’Impero si apre alle compagnie itineranti francesi e italiane, cui presto si affiancano compagnie greche e armene. Nel 1867, inoltre, viene fondato il Teatro ottomano, ove si recitano opere europee e trovano spazio le prime operette turche50. In questo contesto si modificano anche i gusti musicali: si accolgono le orchestre europee e gli strumenti da esse utilizzati e le dame della nobiltà cominciano a studiare pianoforte, emulando le altre donne europee dell’epoca. Anche la musica tradizionale, peraltro, sembra subire l’influenza europea, come dimostrano le composizioni di musica sacra del derviscio mevlevi Dede Ismail Hammamizade e la commistione con elementi di musica sarda introdotti, su richiesta delle autorità ottomane, da Giuseppe Donizetti, fratello del più celebre Gaetano, nella sua qualità di direttore della Scuola di musica dell’Impero e della banda imperiale. L’élite ottomana, inoltre, si confronta con le innovazioni giuridiche introdotte in Europa a partire dalla rivoluzione francese. Il desiderio riformatore dei sultani, infatti, consente anche al pensiero politico ottomano di avvicinarsi a quello europeo e crescenti settori della società urbana acquisiscono familiarità con le idee della rivoluzione francese, in primo luogo il concetto di libertà individuale, e con nuove strutture giuridiche, come la monarchia costituzionale. Sul finire dell’Ottocento, infatti, la Sublime Porta realizza interessanti riforme istituzionali e concede Carte ottriate profondamente ispirate agli ordinamenti europei, 48

Sul punto si rinvia a L. BAZIN, La vita intellettuale e culturale nell’Impero ottomano, in R. MANTRAN (a cura di), Storia dell’Impero ottomano, Argo, Lecce, 2011, pp. 743-773, spec. pp. 768-772. 49 La denominazione del teatro delle ombre deriva, per sineddoche, da Karagöz (Occhio nero), la personificazione dell’uomo del popolo che, nella maggior parte delle opere di questo teatro, si confronta con Hacivat, la rappresentazione del letterato. 50 Il Teatro tuttavia viene chiuso e quindi demolito per volere del Sultano Abdul Hamid II nel 1882.

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avviando un percorso che prosegue quando, venuto meno l’Impero, è la Repubblica di Turchia a confrontarsi con la sua eredità. Il perdurante dialogo con gli ordinamenti europei, infatti, consente a quest’ultima di partecipare, pur con alcune battute d’arresto, ad una transizione del tutto peculiare, che talvolta anticipa e talaltra segue le linee di tendenza che interessano anche l’Europa. 2. Una storia costituzionale aperta all’Europa L’approdo alla democrazia della Repubblica di Turchia avviene per fasi successive, ciascuna condivisa con alcuni Stati europei. Dopo una prima fase costituzionale negli anni ’20 del Novecento, è all’indomani della seconda guerra mondiale che la Turchia sperimenta la sua transizione dal sistema monopartitico al pluripartitismo e aderisce alle Nazioni Unite (1945), al Consiglio d’Europa (1950) e alla NATO (1952). Negli anni ’60 del Novecento, un colpo di Stato militare apre la strada ad una importante riforma dell’ordinamento anche mediante l’approvazione di una Costituzione “liberale” (1961), quasi anticipando la fase di maggiore tutela dei diritti fondamentali che interessa gli Stati europei del Mediterraneo. Ancora, negli anni ’80, la Turchia anticipa, a seguito di un ulteriore colpo di Stato e dell’approvazione di un nuovo testo costituzionale (1982), la fase di transizione verso la democrazia che interessa i paesi dell’ex-blocco comunista consolidando il ruolo delle organizzazioni internazionali regionali, Unione europea51 e Consiglio d’Europa in primis, quali agenti del cambiamento.

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Pur nella consapevolezza che questa denominazione è introdotta per la prima volta dal Trattato di Maastricht (1992) e che il termine si afferma definitivamente solo con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (2009), in questa sede si è scelto di indicare il percorso di integrazione europea unicamente con il termine “Unione” e con il relativo aggettivo “unionale” per semplificare la leggibilità del testo. Il termine “comunitario”, pertanto, è utilizzato solo con riferimento a specifici atti delle istituzioni europee, qualora pertinente.

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È grazie alla partecipazione a queste organizzazioni sovrastatali che si innesca un’ulteriore fase di democratizzazione inaugurata dal Piano nazionale di riforma del 2002 e, per il momento, conclusasi con il fallimento del progetto costituente avviato nel 2011. In queste complesse e talvolta contraddittorie evoluzioni, sin dal momento dell’indipendenza, le élite turche guardano agli esempi europei. La rivoluzione kemalista, cominciata con l’attacco al dispotismo ottomano e terminata con l’affermazione di un regime nei fatti autoritario, consente di tracciare numerosi parallelismi con lo spirito che fu della rivoluzione francese: affermazione della classe media, abolizione dei titoli nobiliari, modernizzazione e secolarizzazione dello Stato. Come già nell’esperienza rivoluzionaria francese, tuttavia, anche in Turchia l’Assemblea nazionale che guida la fase rivoluzionaria da espressione della volontà collettiva della nazione diventa espressione di un sistema monopartitico che muta l’originario assemblearismo in autoritarismo. In questa fase di consolidamento di una indipendenza appena raggiunta frequente è anche il richiamo alla retorica delle esperienze indipendentistiche che nel corso del XIX secolo interessano l’Italia e, soprattutto, la Germania, ove molti degli artefici della guerra di indipendenza turca hanno completato la propria formazione. Al termine della seconda guerra mondiale, pur senza una netta cesura con il precedente regime autoritario, la Repubblica turca, mantenendo il medesimo testo costituzionale, si apre al multipartitismo. Il nuovo assetto finisce però per sancire, sin dalle elezioni del 1950, il sostanziale predominio del Partito democratico che, sebbene talvolta affiancato da altre formazioni politiche, rimane lungamente egemone52. Ne deriva un periodo travagliato che, nonostante l’approvazione di un Testo in linea con il costituzionalismo europeo nel 1961, si contraddistingue per una forte presenza militare nelle istituzioni. Una presenza che viene meno solo alcuni anni dopo il colpo di Stato del 1980, quando il nuovo assetto costituzionale consente l’alternanza al Governo, l’accrescersi della 52

La Repubblica turca pare quindi oscillare tra periodi caratterizzati da un sistema partitico a “partito predominante” e periodi retti da governi di coalizione (così è stato tra il 1961 e il 1965 e nel 1977). Sul punto si rinvia a G. SARTORI, Parties and Party Systems. A Framework for Analysis, Cambridge University Press, Cambridge, 2005, spec. cap. 6 e 7.

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stabilità, l’avvio di un più coerente dialogo con la società civile, in primo luogo con le minoranze etniche, religiose e politiche. In queste differenti fasi, dunque, la Turchia sente l’influenza sia degli ordinamenti stranieri, dai quali ha saputo trarre ispirazione per la “rivoluzione” così come per la “manutenzione” dell’ordinamento – evitando però la mera ricezione degli istituti, che vengono adattati al contesto giuridico peculiare del paese – sia della partecipazione alle organizzazioni sovrastatali cui aderisce. Sullo sfondo, la partecipazione alla NATO quale secondo esercito dell’Alleanza, che consente ai militari di ridurre il proprio interesse per le questioni politiche interne per intervenire nelle situazioni di crisi dell’area balcanica e mediorientale, e i rapporti con il Fondo Monetario internazionale e la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, che aiutano il paese a superare la crisi economica degli anni ’90 supportando importanti riforme economiche. Più complesso è, invece, il rapporto con le organizzazioni sovrastatali europee53, con cui la Turchia ha sempre mantenuto una posizione fortemente dialettica, nella costruzione del patrimonio costituzionale comune e degli standard in materia di diritti umani. Se, infatti, la partecipazione al Consiglio d’Europa risale ai primi mesi dell’istituzione dello stesso (1950), tanto da consentire ad una legazione turca di prendere parte alla redazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali (CEDU), non sono mancati episodi di attrito. I rapporti con il Consiglio d’Europa sono perlopiù improntati alla volontà di confrontarsi sulle criticità del paese per trovare soluzioni concordate, mentre più controverso è il percorso di avvicinamento all’Unione europea, intralciato dalle numerose questioni politiche che l’eventuale ingresso della Turchia nell’Unione ha sollevato e continua a sollevare. 53

Si applica qui la scelta terminologica, che preferisce il termine “sovrastatale” a quello “sovranazionale”, già effettuata da A. MANZELLA, Lo Stato «comunitario», in Quaderni costituzionali, 2, 2003, pp. 273-294, spec. 287, con riferimento al sistema comunitario ritenendo che «l’ordinamento nuovo ha una primazia giuridica che modifica la sovranità statuale ma lascia intatta – e anzi se ne giova per la sua compattezza e coesione – la dimensione nazionale dello Stato».

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Una così intensa partecipazione alle organizzazioni sovrastatali europee supera il dibattito circa l’alterità della Turchia e delle sue origini rispetto alla tradizione europea, per affermare più saldamente quell’idea di unità nella diversità anche relativamente ai paesi che si affacciano sul quel “continente liquido”54 che è il Mediterraneo, in cui si riscontrano, come nel continente europeo, profili culturali di distinzione e profili di contiguità. La Turchia rappresenta dunque un interessante “laboratorio” in cui i principi del costituzionalismo contemporaneo si confrontano con una tradizione giuridica complessa e piena di sfumature alla ricerca di una propria dimensione democratica. In questa sede ci si propone di dimostrare come l’adesione della Turchia al Consiglio d’Europa e l’interazione con le principali organizzazioni sovrastatali che insistono nello “spazio europeo” abbiano consentito al Paese della mezzaluna di partecipare alla costruzione del patrimonio comune del costituzionalismo. Una partecipazione che viene riconfermata, e non sminuita, dal ruolo di ponte verso il Medio e Vicino Oriente, che prescinde dai risultati del percorso di adesione all’Unione europea e che coniuga la volontà di preservare le peculiarità identitarie, storiche e culturali, con i valori del costituzionalismo europeo. Se, infatti, i confini della dimensione europea non sono solo quelli dell’Unione, ma anche quelli del Consiglio d’Europa, in questo percorso quest’ultimo si è dimostrato capace di innescare profonde dinamiche interne alla società turca e di riconoscerne gli spazi di identità, come dimostrano le frequenti scelte della Corte EDU di utilizzare il test del margine di apprezzamento55. Ne deriva una volontà di adeguamento dell’ordinamento agli attuali standard democratici europei, che il recente tentativo costituente conferma e rispetto al quale non pare influire lo 54

Questa definizione rinvia al titolo di T. BACONSKY, A. CAMPI, F. CARDINI, A. COLOMBO, D. NEGRO, R.A., STACCIOLI (a cura di), Il continente liquido. L’Europa e il mare, Il Cerchio, Roma, 2000. 55 Si tratta, come noto, di quell’atteggiamento di self-restraint che la Corte di Strasburgo utilizza per giustificare alcune deroghe da parte degli Stati alle disposizioni della Convenzione in nome del rispetto delle diversità statali. A fronte dell’ampia produzione della dottrina in materia, per ulteriori approfondimenti si veda S. GREER, The Margin of Appreciation and Discretion under the European Convention of Human Rights, Edizioni del Consiglio d’Europa, Strasburgo, 2000.

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stallo nelle negoziazioni in sede unionale. Uno stallo, peraltro, che potrebbe considerarsi all’origine del rinnovato “sogno ottomano” che contraddistingue non solo la politica estera turca degli ultimi anni, ma anche la più generale ambizione politica dell’Adalet ve Kalkınma Partisi (AKP – Partito della Giustizia e Sviluppo). Il partito di governo di ispirazione islamica, infatti, richiama con crescente attenzione i c.d. alternative paradigms56, espressione di quella nostalgia neo-ottomana «in forza del[la] quale la riespansione del principio ordinatore islamico si presenta anche come una risposta alla crisi dei paradigmi “occidentali” (stato-nazionali, territoriali e democratico-costituzionali)»57. Peraltro, l’AKP mostra tutta la propria insofferenza ai “vincoli” posti dall’Unione in occasione della crisi di Gezi Parkı58, che ha generato tensioni presto accantonate in nome della necessità di trovare nuovi spazi di dialogo con la Turchia quale attore strategico per la soluzione della vicenda siriana e, più in generale, per la gestione delle questioni mediorientali.

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Per un approfondimento si veda A. DAVUTOĞLU, Alternative Paradigms: The Impact of Islamic and Western Weltanschaungs on Political Theory, University Press of America, Lanham, 1994. 57 C. SBAILÒ, La riespansione del principio ordinatore islamico: riflessioni di metodo comparatistico e di dottrina costituzionale sulla “primavera araba”, in Diritto Pubblico Comparato ed Europeo, 3, 2012, pp. 801-835, spec. p. 810. 58 Il riferimento è all’ondata di proteste che interessa la Turchia dalla fine di maggio 2013, alla cui origine si rinviene la scelta di modificare la destinazione d’uso del parco Gezi a Istanbul.

Capitolo I Il costituzionalismo nella Repubblica di Turchia 1. I cicli costituzionali In un contesto fortemente caratterizzato dall’emergere di un nuovo ruolo per il fenomeno religioso nello spazio pubblico, si pone l’ormai annosa questione della compatibilità fra i valori del costituzionalismo1 e l’Islam2. La Turchia, nelle sue “tappe costituzionali”, sembra far venir meno le tesi sull’incompatibilità fra democrazia e Islam e dimostra come anche un paese con popolazione a maggioranza musulmana possa a pieno titolo inserire il proprio percorso storico-istituzionale nei cicli costituzionali3 che hanno caratterizzato l’evoluzione del costituzionalismo 1

Per alcune definizioni di questo termine in dottrina, si vedano, tra i molti: P. BISCARETTI DI RUFFIA, Costituzionalismo, in Enciclopedia del diritto, Giuffré, Milano, 1962, XI, pp. 130-132; N. MATTEUCCI, Costituzionalismo, in Enciclopedia delle Scienze sociali, Treccani, Roma, 1992, p. 521 ss.; A. BARBERA, Le basi filosofiche del costituzionalismo, Laterza, Roma-Bari, 1997, spec. p. 4; L. ALEXANDER, G. POSTEMA (a cura di), Constitutionalism. Philosophical Foundations, Cambridge University press, Cambridge-NewYork, 1998; M. FIORAVANTI, Constitutionalism, in D. CANALE, P. GROSSI, H. HOFMANN (a cura di), A History of the Philosophy of Law in the Civil Law World, 1600–1900, Springer, London-New York, 2009, pp. 263-300; P. RIDOLA, Preistoria, origini e vicende del costituzionalismo, in P. CARROZZA, A. DI GIOVINE, G.F. FERRARI (a cura di) Diritto costituzionale comparato, Laterza, Roma-Bari, 2009, pp. 2158; F. VIOLA, Costituzione e costituzionalismi, in Iustizia, 2, 2009, pp. 247-255; M. FIORAVANTI, Costituzionalismo. Percorsi della storia e tendenze attuali, Laterza, RomaBari, 2009. 2 Fra i molti testi che hanno provato a rispondere a questo quesito, in questa sede basti ricordare R. GUOLO, L’Islam è compatibile con la democrazia?, Laterza, RomaBari, 2007. 3 Sul punto, tra i molti, si vedano: C.H. MCILWAIN, Costituzionalismo antico e moderno, il Mulino, Bologna, 1990 (1a ed. 1940), p. 44 ss.; G. REBUFFA, Costituzioni e Costituzionalismi, Giappichelli, Torino, 1990; N. MATTEUCCI, Lo Stato moderno, il Mulino, Bologna, 1993; G. DE VERGOTTINI, Le transizioni costituzionali, il Mulino, Bologna, 1998; G. DE RUGGERO, Storia del liberalismo europeo, Laterza, Roma-Bari, 2003 (1a ed. 1925), p. 18 ss.; A. BARBERA, “Ordinamento costituzionale” e testi costituzionali, in Quaderni costituzionali, 2, 2010, pp. 311-358; G. MORBIDELLI, Costituzioni e costituzionalismo, in G. MORBIDELLI, L. PEGORARO, A. REPOSO, M. VOLPI, Diritto Pubblico Comparato, Giappichelli, Torino, 2012.

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e partecipare al fenomeno della c.d. circolazione dei modelli giuridici4. Una partecipazione riconoscibile a pieno titolo, giacché la Turchia, oltre ad adattare i modelli giuridici da cui ha tratto ispirazione alle peculiarità nazionali, ha anche rappresentato, a sua volta, un modello di esportazione. Il caso più eclatante è quello dell’istituto dell’ombudsman, “circolato” dai territori ottomani agli Stati europei. Già i Sultani abbasidi (750-847), infatti, istituiscono il Diwan-al-Mazalim, competente ad esaminare le eventuali rimostranze dei sudditi per atti dei pubblici ufficiali, che resta in vigore anche durante l’epoca ottomana; il suo funzionamento interessa Carlo XII durante il suo esilio in Turchia (1709-1714)5, al punto che, 4

La circolazione dei modelli giuridici è considerabile un fenomeno antico, risalente all’epoca dei grandi imperi, in cui la dialettica fra gli ordinamenti è perlopiù determinata dall’incontro/scontro delle culture dei popoli in conflitto. Il diritto viaggia con le carovane commerciali ovvero al seguito degli eserciti, così che le legioni dell’Impero romano sono il principale strumento di contaminazione giuridica nei territori conquistati da Roma, dettando un esempio seguito da tutti gli altri Imperi colonizzatori sino alla fine del secondo conflitto mondiale (sulla penetrazione del diritto romano, anche con riferimento alle resistenze opposte a quest’ultima, si veda, tra gli altri, R. MARTINI, Sulla “recezione” del diritto romano (nella visione degli autori delle provincie orientali), www.dergiler.ankara.edu.tr). Allo stesso tempo la circolazione dei modelli è epifenomeno della globalizzazione giuridica, che usufruisce delle nuove tecnologie, della velocità di comunicazione, della progressiva costituzione di un contesto giuridico e accademico mondiale sempre più interconnesso (cfr. S. CHOUDHRY, The Migration of Constitutional Ideas, Cambridge University Press, Cambridge, 2006). La circolazione dei modelli ha come esito i c.d. legal transplants, teorizzati per la prima volta da A. WATSON, Legal Transplants: an Approach to Comparative Law, University of Georgia Press, Athens, 1993 (1a ed. 1974). Sui rischi dei “trapianti” si esprime già Montesquieu evidenziando come le leggi debbano essere realizzate con riferimento al popolo cui si riferiscono e per questo «sarebbe un gran rischio se quelle di una nazione potessero andar bene ad un’altra» (cfr. De l’esprit de loi, I libro, III Capitolo). Al riguardo interviene anche la dottrina giuridica contemporanea, al punto che alcuni autori si spingono a ritenere i legal transplants “impossibili” (così P. LEGRAND, The Impossibility of Legal Transplants, in Maastricht Journal of European and Comparative Law, 4, 1997, pp.111-124; si vedano anche P. LEGRAND, R. MUNDAY (a cura di), Comparative Legal Studies: Traditions And Transitions, Cambridge University Press, Cambridge, 2003, O. KAHN-FREUND, On Uses and Misuses of Comparative Law, in The Modern Law Review, 1, 1974, pp. 1-27 e E. STEIN, Uses, Misuses and Non-uses of Comparative Law, in Northwestern University Law Review, 2, 1977-78, pp. 198-216). 5 I legami tra il sovrano svedese e la Sublime Porta sono particolarmente saldi, al punto che si ipotizza la costituzione di una alleanza ottomano-svedese in funzione antirussa (Cfr. K. KREISER, C.K. NEUMANN (a cura di), op. cit., pp. 197-198).

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dopo il suo reinsediamento sul trono, propone di stabilire una istituzione simile anche in Svezia6. Nell’epoca repubblicana, invece, la Turchia anticipa molti ordinamenti europei procedendo all’estensione del suffragio, visto che già la Costituzione del 1924 riconosce l’elettorato attivo e passivo senza distinzione di sesso. Il percorso della Turchia diviene un ancor più interessante oggetto di analisi, inoltre, se si ricorda la notevole asimmetria storica che caratterizza i suoi cicli costituzionali: le carte ottriate degli ultimi decenni dell’Impero ottomano, infatti, si inseriscono nel ciclo delle costituzioni liberali, mentre interessanti elementi del ciclo delle costituzioni rivoluzionarie si rinvengono nelle prime fasi della Repubblica7. I cicli di questo ordinamento sono infatti caratterizzati da un andamento “sussultorio” derivante dalla tensione tra modernità e tradizione, in cui le evoluzioni del costituzionalismo sono spesso frutto di colpi di Stato e costante è l’alternanza fra periodi di autoritarismo e fasi di ripresa della democrazia, in un percorso che negli ultimi decenni è influenzato anche dalle organizzazioni sovrastatali europee. 1.1 L’Impero ottomano: alle origini del costituzionalismo turco Agli inizi dell’Ottocento, il “malato d’Europa”8 acquisisce una struttura assimilabile più a un impero burocratico che al sistema feudale 9, 6

Cfr. AA.VV., Ombudsman: an Introduction, www.policy.hu. Sulla rilevanza, per il comparatista, della “rivoluzione” kemalista, si rinvia a C. DECARO BONELLA, Introduzione, in C. DECARO BONELLA (a cura di), Itinerari costituzionali a confronto: Turchia, Libia, Afghanistan, Carocci, Roma, 2013, pp. 11-25. 8 L’espressione viene utilizzata per la prima volta dallo zar Nicola I nel 1853, in occasione di una conversazione con l’ambasciatore britannico circa le sorti dell’Impero. 9 Circa le origini e la struttura dell’Impero ottomano e le sue conseguenze sulla struttura socio-statale della Repubblica turca nei suoi primi anni di vita, si veda E. ÖZBUDUN, Development of Democratic Government in Turkey: Crises, Interruption and Reequilibrations, in E. ÖZBUDUN (a cura di), Perspectives on democracy in Turkey, Turkish Political Science Association, Ankara, 1988, pp. 3-28, spec. pp. 27-28. Relativamente alla distinzione tra sistemi burocratici e sistemi feudali si rinvia, invece, a 7

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consolidando un ordinamento in cui i territori approssimativamente coincidenti con l’attuale Turchia rappresentano lo Stato suzerain10 dell’Impero, che ne controlla la politica estera senza interferire nelle questioni di diritto interno delle entità “decentrate”. È per questa ragione che, nell’analisi che qui si conduce, è possibile distinguere il territorio della Turchia da quello delle altre parti dell’Impero, le quali, in virtù del diritto di gestire autonomamente le proprie questioni interne, avevano acquisito crescenti sfere di autonomia. Tale autonomia, peraltro, non risulta sempre gradita al Sultano, che ancora all’inizio dell’Ottocento prova a rinsaldare, senza successo, il ruolo della Sublime Porta nei confronti dei capi locali mediante l’emanazione, nel 1808, di una Carta di Unione (Sened-i Ittifak), con cui si definiscono i rispettivi ambiti di competenza11. Il peculiare ruolo del territorio che oggi si denomina “Turchia” all’interno dell’Impero ottomano si evince anche da alcune ambiguità onomastiche dell’epoca. È possibile notare, infatti, come a livello nazionale il concetto di Turchia sia scarsamente utilizzato, in favore dell’idea di Devlet-i Osman (Stato ottomano), che rimanda all’unità dell’Impero. In ambito europeo, invece, si utilizza la denominazione di Turchia, a cui le autorità ottomane sembrano non opporsi in occasione dei consessi internazionali12. In virtù di questo carattere separato e sovraordinato rispetto alle altre componenti dell’Impero, dunque, la Turchia rappresenta il luogo principale per sperimentare le riforme istituzionali che trasformano

S.P. HUNTINGTON, Political Order in Changing Societies, Yale University Press, New Haven, 1968, cap. 3. 10 Dal francese medio souserain. Cfr. voce Suzerainetè, La Piccola Treccani, Dizionario Enciclopedico, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1997, XI, p. 858. 11 Cfr. K. KREISER, C.K. NEUMANN (a cura di), op. cit., p. 229-232. 12 Sul punto si veda S. AKGÖNÜL, De la de nomination en turc actuel. Appartenances, perceptions, croyances, Istanbul, Isis, 2006, spec. pp. 41-42. Pare, peraltro, che gli Europei si siano lungamente interrogati sull’origine etno-culturale dei Turchi, al punto da affermare una loro discendenza dagli sciiti nei periodi di più forti contrasti, ovvero una origine comune ai romani dall’antenato troiano. Sul punto F. CARDINI, Europa e Islam. Storia di un malinteso, Laterza, Roma-Bari, 1999, pp. 217221.

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progressivamente il Sultano in un monarca costituzionale13. Riprendendo la tradizione coranica della convocazione della shura14, infatti, i sultani ottomani applicano nel tempo una sorta di principio costituzionale non scritto che prevede la convocazione, in periodi di particolare crisi, di una Assemblea consultiva composta da civili, militari e rappresentanti del clero. Tale Assemblea, la cui composizione è interamente frutto di una scelta del sovrano, viene istituzionalizzata, con la denominazione di Consiglio Supremo delle Ordinanze Giuridiche (Meclis-i vala-yi ahkam-i adliye), nel 1838 dal Sultano Mahmud II. Il suo successore, Abdülmecid I, attribuisce al Consiglio il compito di discutere e redigere progetti di legge in materia di diritti civili e di tasse, avviando così la Tanzimat (c.d. periodo di riforme 1839-1876), inaugurata dal Gülhane Hatt-ı Hümayunu (Rescritto imperiale di Gülhane) del 183915 e dall’Islahat Fermanı (Editto di riforma) del 185616. Questi due Testi consentono una prima, ed embrionale, applicazione del principio di rappresentatività, introducono nell’ordinamento ottomano alcune diposizioni per la tutela dei diritti fondamentali e mostrano le prime influenze dei testi costituzionali ottriati nello stesso periodo dagli altri Stati europei. Già al momento della redazione del Rescritto di Gülhane del 1839, infatti, gli ambasciatori francese, inglese e austriaco, esponenti delle principali potenze che in quel periodo tentano di estendere la propria influenza sull’Impero, si

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Fra il 1299, anno in cui può farsi risalire la fondazione del primo nucleo territoriale ottomano ad opera di Osman I, e il 1839, la forma di Stato dell’Impero è in tutto assimilabile a una monarchia assoluta a legittimazione divina. 14 Letteralmente, consiglio, consultazione. Il carattere non vincolante per il sovrano delle decisioni prese nell’ambito di questi Consigli trae la sua origine dall’interpretazione della sura IV, 59: «O voi che credete! Obbedite a Dio, al Suo Messaggero, e a quelli fra voi che hanno l’autorità». 15 Il Rescritto, peraltro, è pubblicato sia in turco sia in francese, ormai divenuto la seconda lingua con cui l’Impero redige gli atti rilevanti anche in ambito internazionale. 16 Per un approfondimento sulla Tanzimat si veda C. CAKIR, voce Tanzimat, in G. AGOSTON, B. MASTERS, Encyclopedia of the Ottoman Empire, Facts on File, New York, 2009, pp. 553-555.

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rivelano esperti “consulenti”17. Il supporto esterno nella fase di redazione dei testi si indovina anche dalla lettura della formula di promulgazione del Rescritto in cui si chiarisce che le riforme introdotte sono una concessione del Sultano per il benessere dei propri sudditi e si chiamano le potenze amiche residenti in Istanbul a testimonianza del buon funzionamento delle istituzioni. Le potenze europee sono nuovamente chiamate in causa con l’Islahat Fermanı del 1856, che ricorda come l’estensione del benessere materiale e il miglioramento delle infrastrutture dell’Impero debba essere attribuito ai finanziamenti provenienti dall’Europa. Il principio rappresentativo trova una nuova applicazione nel 1867, quando si realizza un primo tentativo di elezioni per i membri dei Consigli amministrativi locali18, estendendo al territorio anatolico un “esperimento” condotto già nel 1864 nella provincia del Danubio. Nel 1876, infine, il Sultano, approva una Legge fondamentale (Kanûn-ı Esâsî – 23 dicembre 1876) e acconsente, nell’ambito di un sistema bicamerale, all’elezione di una Camera dei Deputati19, rappresentativa anche delle minoranze presenti nell’Impero20, che si riunisce in due sessioni21; allo 17

E.J. ZÜRCHER, Storia della Turchia. Dalla fine dell’Impero Ottomano ai giorni nostri, Donzelli, Roma, 1993, pp. 89-99. 18 L’effettiva rappresentatività di tali Consigli può essere messa in dubbio dalla limitata possibilità di accesso all’elettorato attivo e passivo, la cui disciplina differisce a seconda delle province ma è comunque limitata da barriere di censo e classe, nonché dalla possibilità che il livello centrale di governo nomini membri ex officio qualora la composizione del Consiglio amministrativo locale sia ritenuta “non soddisfacente”. Si veda M. WEINER, E. ÖZBUDUN, Competitive Election in Developing Countries, Duke University Press, North Carolina, 1987, spec. p. 331. 19 La legge contenente il sistema elettorale viene approvata il 28 ottobre 1876, ben prima che la redazione della Carta costituzionale sia terminata; è per questo motivo che si rinvengono alcune discrasie tra i due testi. In primo luogo, infatti, la legge fissa in 130 il numero dei parlamentari, mentre la Carta sancisce l’elezione di un deputato ogni 50.000 abitanti. Ancora, la legge fissa l’elettorato passivo a 25 anni, la Carta a 30. Entrambi i testi, comunque, limitano il suffragio sulla base del censo e del livello di istruzione. Per un approfondimento in dottrina, Ibidem, p. 332 ss. 20 Sul punto si evidenzia che una rappresentanza preponderante è riconosciuta alla popolazione di religione musulmana, sebbene una certa rappresentanza proporzionale sia riconosciuta anche agli ebrei e ai cristiani. Rispetto ai rappresentanti di religione islamica, inoltre, è opportuno precisare come essi comprendano tutte le etnie musulmane del paese e quindi la percentuale di turchi rappresentata nell’Assemblea è ridimensionata dalla presenza di rappresentanti di etnia araba, albanese, bosniaca, etc... . Non può

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scoppiare della guerra con la Russia, tuttavia, la Legge fondamentale viene sospesa e l’Assemblea sciolta. La forma di governo prevista dal Testo del 1876 sembra ispirarsi alla Costituzione belga del 183122, prevedendo l’istituzione di una monarchia costituzionale ereditaria in cui il potere esecutivo è appannaggio del monarca mentre il legislativo è affidato a un Parlamento bicamerale, dotato di un certo grado di autonomia dal sovrano e la cui Camera bassa, come accennato, è eletta direttamente dai cittadini. Le somiglianze fra i due testi riguardano anche la “scelta” del monarca: ai sensi dell’art. 60 della Costituzione belga l’erede è individuato «nella discendenza diretta, naturale e legittima di S. M. Leopoldo Giorgio Cristiano Federigo di Sassonia Coburgo, di maschio in maschio, per ordine di primogenitura con la esclusione perpetua delle donne e loro discendenza»; per l’art. 3 del Kanûn-ı Esâsî ha diritto alla successione al trono della Sublime Porta il «primogenito dei principi della dinastia di Osmano». Dal modello belga, inoltre, deriva il principio dell’irresponsabilità del monarca, comune alle Costituzioni dell’epoca e rinvenibile ancora oggi nelle disposizioni costituzionali concernenti i Presidenti della Repubblica23. Un ulteriore elemento di “sintonia” tra il Testo belga e quello ottomano si ritrova nella disposizione per cui «qualora la Camera dei deputati, con ignorasi tuttavia il paradosso per cui sono proprio le minoranze religiose non musulmane, formali prime beneficiarie delle riforme, a osteggiarne l’attuazione in ragione dei nuovi doveri che sono chiamate ad adempiere nei confronti dello Stato, primo fra tutti il servizio militare. 21 Le sessioni si svolgono nel periodo compreso fra il 19 marzo 1877 e il 14 febbraio 1878. 22 Al riguardo si veda Ç. ÜÇOK, 1876 Anayasasinin Kaynakları (La nascita della Costituzione del 1876, trad. mia), in Türk Parlamentoculuğun Ilk Yüzyili, 1, 1977, pp. 125, in cui si evidenzia come anche la Costituzione prussiana del 1851 viene presa in considerazione. Per una versione in italiano del testo del Kanûn-ı Esâsî si rinvia a www.dircost.unito.it. 23 A riguardo basti ricordare la previsione del medesimo istituto derivabile dal combinato disposto degli artt. 4 e 67 dello Statuto Albertino rispettivamente relativi all’inviolabilità del Monarca e alla responsabilità dei Ministri. Con riferimento alla sua applicazione attuale, invece, può farsi riferimento all’istituto della controfirma previsto dall’art. 89 della Costituzione italiana.

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voto motivato, respinga un progetto di legge per la cui adozione il Ministro crede di dover insistere, Sua Maestà il Sultano, nell’esercizio della sua sovranità, ordina il cambiamento del ministero, o lo scioglimento della Camera, provvedendo all’elezione di nuovi deputati, nel termine fissato dalla legge» (art. 35)24. Una disposizione che, pur in un contesto caratterizzato dalla separazione dei poteri, sancisce, dunque, una netta preminenza del Sultano. A ciò si aggiunga che il Kanûn-ı Esâsî prevede l’Islam come religione di Stato e attribuisce al Sultano anche il ruolo di guida spirituale – Califfo25 – segnando una netta differenza con la divisione fra le cariche del potere civile e quelle religiose prevista dalla Costituzione belga. Si tratta, tuttavia, di una sovrapposizione di cariche non estranea alla tradizione europea: sin dallo scisma del XVI secolo, il sovrano britannico è Supreme Governor della Chiesa d’Inghilterra26 ed uno stretto legame è previsto anche fra le Chiese luterane dei Regni nordici e i relativi monarchi27. L’influenza della Costituzione belga su quella ottomana emerge anche dalla comparazione fra i cataloghi dei diritti. In primo luogo, entrambi tutelano la libertà individuale, pur con una “curiosa” differenza: la Costituzione del 1831 ne sancisce la garanzia, il Testo ottomano ne prevede l’«assoluta inviolabilità». A differenza della Costituzione belga, in ambito ottomano si manifesta una maggiore attenzione per l’integrità della persona, tanto da vietarsi, all’art. 26, la tortura sotto qualsiasi forma. Si tutelano la libertà di stampa, la libertà di insegnamento, la libertà di

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Sul punto si veda L. LACCHÈ, Le carte ottriate. La teoria dell’octroi e le esperienze costituzionali nell’Europa post-rivoluzionaria, in Giornale di Storia Costituzionale “Politiche del Popolo”, 23, 2009, pp. 229-254, spec. pp. 243-245. La centralità data al Sultano dalla Costituzione del 1876 consente di ravvisare elementi di similitudine anche con la coeva Charte francese. 25 Il termine Califfo di Dio è utilizzato per la prima volta con riferimento a Mehmet I nel 1421, che si proclama tale nel tentativo di consolidare la propria legittimità islamica al termine di un periodo contrassegnato dalle sollevazioni contro il potere sultaniale ispirate da mistici religiosi che interessano la regione balcanica e l’isola di Chio (cfr. K. KREISER, C.K. NEUMANN (a cura di), op. cit., p. 66). 26 Cfr. l’art. 37 dei Trentanove Articoli della Religione del 1563. 27 A titolo esemplificativo si ricorda che dal 1536 la Chiesa di Danimarca attribuisce funzioni di rilievo al monarca mentre dall’anno successivo un decreto regio pone il Re di Norvegia a capo della Chiesa di Norvegia.

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religione; il diritto alla proprietà privata e il principio di uguaglianza sono inoltre sanciti. Al contrario, forti limiti, apparentemente dettati dalla necessità di mantenere unito l’Impero nonostante il pluralismo etnico e religioso, si riscontrano con riferimento alla libertà d’associazione. Con una impostazione che segna anche la storia della Turchia repubblicana, infatti, da un lato l’art. 120 prevede la possibilità di sciogliere i gruppi «aventi per fine di modificare il regime costituzionale e la forma di governo e di disunire politicamente i vari elementi ottomani», dall’altro lato, le leggi attuative della Costituzione limitano i diritti delle organizzazioni politiche delle minoranze non musulmane. Il riferimento alle comunità non musulmane assume una particolare valenza anche relativamente alla concezione di cittadinanza che si rinviene nel Testo del 1876. Sino a quel momento, infatti, l’Impero non aveva mai considerato questa categoria giuridica e la popolazione era suddivisa fra gli appartenenti alla umma islamyya28, identificati dalla comune fede nell’Islam, e gli “altri” sudditi non musulmani tutelati attraverso il c.d. sistema della millet29. La Carta del 1876, invece, pur salvaguardando questa distinzione in linea di massima, introduce il concetto di nazione ottomana, cui gli individui appartengono in quanto sudditi dell’Impero. La Carta del 1876, infine, ha una particolare rilevanza in ragione del suo carattere di vera e propria Costituzione ottomana, a differenza dei testi precedenti che rappresentano soltanto i primi passi costituzionali dell’ordinamento ottomano. Pur se il Testo non contiene alcun Preambolo o formule di promulgazione che richiamino il carattere ottriato della Carta, che si tratti di una concessione del sovrano è evidente dalle vicende relative alla sua permanenza in vigore. La previsione di procedure 28

Come noto, il termine indica la comunità dei fedeli in cui si riconoscono i musulmani. Per ulteriori approfondimenti si rinvia a C. DECARO BONELLA (a cura di), Tradizioni religiose e tradizioni costituzionali. L’Islam e l’Occidente, Carocci, Roma, 2013. 29 F. PALERMO, J. WOELK, Diritto pubblico comparato dei gruppi e delle minoranze, CEDAM, Padova, 2008, pp. 65-66.

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rinforzate di revisione, per cui ogni modifica deve essere sottoposta ad una votazione a maggioranza dei due terzi da parte di entrambe le Camere e alla successiva approvazione del Sultano (art. 116), non basta ad evitare che il Sultano recuperi in via di fatto le prerogative di un sovrano assoluto e sospenda la Costituzione durante la guerra con la Russia, peraltro in palese violazione della disposizione che sanciva l’assoluta impossibilità di sospendere la Carta o ignorare le procedure di revisione menzionate (art. 115). 1.2 I Giovani turchi e l’avvio del costituzionalismo liberale A causa della sua sospensione nel corso della guerra con la Russia, il Kanûn-ı Esâsî rimane così un mero esercizio di drafting costituzionale sino alla “rivoluzione” dei Giovani turchi30 del 1908. Questa organizzazione, raccogliendo l’eredità dei Giovani ottomani fondati dal principe egiziano Mustafa Fazil31, si oppone al dispotismo in favore della monarchia costituzionale. All’origine di tale movimento32 vi è, da un lato, il malcontento generato dai ritardi nell’attuazione delle riforme previste durante la Tanzimat e dalle “amputazioni” territoriali decise al Congresso di Berlino (1878), dall’altro, il desiderio di procedere ad una effettiva modernizzazione del paese, sull’esempio della modernizzazione giapponese coeva e dell’esperimento costituzionale della monarchia iraniana del 1905-1906. La maggior parte dei Giovani Turchi appartiene, infatti, all’alta borghesia ottomana o ai ranghi militari e, in ragione di ciò, 30

Per le vicende storiche di questo movimento, che deve la sua denominazione alle somiglianze che il giornalista francese H. Castile vi riscontra con la Giovane Italia mazziniana, si veda M. ŞUKRU HANIOĞLU, voce Young Turks, in G. AGOSTON, B. MASTERS, op. cit., pp. 604-606. 31 Sul movimento dei Giovani ottomani si rinvia a S. MARDIN, The Genesis of Young Ottoman Thought: A Study in the Modernization of Turkish Political Ideas, Princeton University Press, Princeton, 1962. 32 Definire una data storica per la fondazione di questo movimento è particolarmente complesso; in questa sede si accoglie la scelta di G. GEORGEON, L’ultimo sussulto (18781908) in R. MANTRAN (a cura di), Storia dell’Impero ottomano, Argo Editrice, Lecce, 2011, pp. 563-619, spec. p. 611, che la fissa nel 1889, centenario della rivoluzione francese, quando alcuni studenti della Scuola di Medicina di Istanbul fondano un gruppo di opposizione clandestina al Sultano.

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ha modo di effettuare lunghi periodi di formazione nelle principali capitali europee, dove frequenti sono anche le possibilità di incontro con i dissidenti esiliati. È proprio nelle capitali europee che le convinzioni liberali si consolidano e che si stringono alleanze con le forze politiche straniere. Per lungo tempo, tuttavia, questi gruppi rappresentano più una minaccia ideale che un pericolo concreto ed è solo in seguito alla ribellione di una parte dell’esercito, nel luglio 1908, che il Sultano, temendo un vero e proprio colpo di Stato, emette un decreto imperiale (24 luglio 1908) con cui ripristina la Costituzione, indice nuove elezioni per la Camera33 e abolisce la censura34. Le elezioni, cui i Giovani Turchi partecipano con la denominazione di Comitato Unione e Progresso (CUP), si svolgono nei mesi di novembre e dicembre 1908 in un clima di grande tensione che, nonostante la vittoria elettorale del CUP e la convocazione del Parlamento il 17 dicembre 1908, sfocia in un vero e proprio conflitto interno conclusosi, nell’aprile 1909, con la proclamazione della legge marziale, l’istituzione di tribunali speciali e la proclamazione da parte del Parlamento della destituzione del Sultano. Sebbene Mehmet V venga formalmente nominato quale successore del destituito Abdül Hamid II, a seguito di questi eventi il potere è, di fatto, accentrato nelle mani del triumvirato militare composto dai leader del movimento dei Giovani Turchi, i c.d. tre Paşa Enver, Cemal e Talat35. Il 21 agosto 1909 è quindi approvata la Legge di revisione costituzionale, che segna un passo fondamentale verso il costituzionalismo di matrice

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Sul punto si vedano D. QUATAERT, The Ottoman Empire 1700-1922, Cambridge University Press, Cambridge, 2005, pp. 54-75; K. KREISER, C.K. NEUMANN (a cura di), op. cit., pp. 277-281. 34 L’abolizione della censura ha una rilevanza particolare nell’evoluzione del pensiero politico dell’epoca, giacché consente la stampa di numerosi periodici e l’avvio di dibattiti sulla gestione dell’Impero che vedono coinvolti i liberali tanto quanto i tradizionalisti. 35 Per un approfondimento in merito alla distribuzione del potere fra i Tre Paşa, si veda E. ZÜRCHER, Turkey: a Modern History, I.B. Tauris, London, 2004, spec. p. 110.

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europea, emendando il Testo del 1876 sull’esempio delle costituzioni liberali approvate in Europa. La Legge di revisione, infatti, sembra riprendere il cammino avviato con la Tanzimat. Si prevede un giuramento di fedeltà alla Costituzione, alla Shari’a, alla Patria e alla Nazione dinanzi alle Camere da parte del Sultano (art. 3); si attribuisce il potere di nomina e revoca dei Ministri al Presidente del Consiglio, introducendo il rapporto di fiducia con il Parlamento (art. 7); si svincola la funzione legislativa dalla preventiva autorizzazione del Sultano (art. 53). Sul piano dei diritti, infine, la revisione consente di introdurre disposizioni volte a limitarne le possibilità di compressione ovvero ad ampliarne la portata. È questo il caso del diritto di riunione e di sciopero per i lavoratori, che è costituzionalmente sancito e che consente la nascita della Confederazione dei lavoratori a Salonicco. La generale previsione di un diritto di associazione, peraltro, consente la nascita di partiti e leghe, di cui si giovano soprattutto le minoranze, come dimostra la fondazione della Società curda per la solidarietà e il progresso. L’influenza dei modelli europei, tuttavia, non basta a risolvere le questioni derivanti dal pluralismo etnico e religioso, una delle principali caratteristiche dell’Impero. Il Comitato Unione e Progresso deve infatti dimostrarsi capace di consolidare proprio l’unità dell’Impero, confrontando la propria visione di “Unione” come centralismo decisionale con quella delle numerose millet che abitano l’Impero e che sono abituate a percepirsi prima che come sudditi come unità connotate etnicamente o religiosamente. Le posizioni del CUP sull’assetto dell’Impero, pertanto, non sono sempre accolte con favore e soprattutto le classi intellettuali di alcune millet, arabi, albanesi e curdi, cominciano a coltivare sogni di indipendenza. L’emergere di una giovane classe dirigente, che nel clima di libertà d’espressione instauratosi si giova soprattutto della stampa per diffondere le proprie idee, lascia emergere anche un ulteriore cleavage sociale. Ai burocrati e ai giovani capi militari, che ambiscono ad adottare leggi e pratiche amministrative moderne ispirate all’Europa, si oppongono i vecchi ranghi della burocrazia imperiale, i più alti gradi dell’esercito e il clero, che aspirano a un ritorno alla tradizione ottomana sia per ragioni tradizionali che per il timore che le riforme minino il loro status all’interno della struttura sociale. L’Impero si trova quindi a confrontarsi sia con la frattura

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centro-periferia, con la quale ha imparato da tempo a relazionarsi ma che ora assume rinnovata importanza, sia con questa nuova linea di scontro essenzialmente intergenerazionale36. Se controverso è lo scenario interno che il CUP deve affrontare, non migliore è la situazione internazionale che coinvolge l’Impero in una serie di conflitti: la guerra di Libia (1911-1912), che comporta la perdita della Tripolitania in favore dell’Italia, e le guerre balcaniche (1912-1913), da cui deriva la perdita della quasi totalità dei territori europei. Per tentare di porre rimedio a questa situazione di costante perdita di territori, il Ministro dell’Interno Enver propone di stipulare un’alleanza con una forte potenza europea, possibilmente non confinante, capace di sostenere la posizione dell’Impero a livello internazionale. La potenza prescelta è la Germania e proprio questa alleanza è all’origine della partecipazione dell’Impero alla prima guerra mondiale. 1.3 La “rivoluzione” kemalista: dall’assemblearismo all’autoritarismo La partecipazione al primo conflitto mondiale al fianco della Germania viene pagata con lo smembramento dell’Impero in favore delle potenze vincitrici. L’armistizio di Moudros, siglato dall’Impero il 30 ottobre 1918, non serve a dare attuazione all’idea del Presidente statunitense Wilson di istituire «specific covenants for the purpose of affording mutual guarantees of political independence and territorial integrity to great and small states alike»37 né a evitare l’istituzione dei Mandati38. Al termine del conflitto, infatti, il Sultano firma, come accordo di pace, il Trattato di

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Cfr. E. ÖZBUDUN, Development of Democratic Government in Turkey: Crises, Interruption and Reequilibrations, cit., pp. 6-7. 37 È questo il XIV punto dei “Quattordici punti” enunciati dal Presidente Wilson l’8 gennaio 1918 dinanzi al Senato USA e ribaditi in occasione della Conferenza di pace di Parigi del 18 gennaio 1919. 38 Cfr. art. 22 Covenant della Società delle Nazioni.

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Sévres (1920) che ripartisce i territori dell’Impero tra le potenze vincitrici39. L’incapacità della Società delle Nazioni di salvaguardare la sovranità imperiale e il favore mostrato verso il Trattato di Sévres compatta le forze indipendentiste turche, le quali, convinte che la Società sia uno strumento per favorire la conquista territoriale delle potenze alleate, denunciano il Trattato, sconfessano l’autorità del Sultano e avviano la guerra di liberazione dell’Anatolia. Mentre le potenze europee, in primo luogo la Gran Bretagna, sostengono il Sultano40, alla guida del movimento “rivoluzionario” si pone la figura carismatica di Mustafa Kemal Atatürk41, il quale, già nel corso del Congresso di Sivas (22 giugno 1919), consolida la propria posizione di leader del movimento repubblicano con un 39

In particolare: la Gran Bretagna ottiene il mandato su l’Iraq, la Transgiordania e la Palestina, nonché una zona di influenza nella provincia curda di Musul, che rimane lungamente contesa con la Francia; la Francia ottiene il mandato sui territori attualmente appartenenti a Libano e Siria, oltre ad ampie zone di influenza nell’Anatolia sudorientale; la Grecia estende il proprio territorio sulla provincia di Smirne, sulla Tracia e su gran parte dell’Anatolia occidentale; l’Italia ottiene la riconferma del proprio possesso sulle isole del Dodecaneso e il riconoscimento di una zona di influenza nell’Anatolia meridionale e centro-orientale. Il Trattato assicura, inoltre, l’indipendenza dell’Armenia, che, rispetto ai suoi confini attuali, si sarebbe estesa sino alla provincia di Trabzon, e dei territori dello Hijaz, nonché la possibilità di istituire uno Stato curdo. La capitale Istanbul, infine, viene sottoposta al controllo congiunto dei vincitori e gli Stretti sono smilitarizzati e posti sotto il controllo internazionale (cfr. K. KREISER, C.K. NEUMANN (a cura di), op. cit., pp. 298-302). 40 Al riguardo è possibile notare che il Sultano tenta di limitare l’avanzata del kemalismo annunciando elezioni politiche anticipate e modificando la composizione del Governo di Istanbul introducendovi elementi nazionalisti. Per avvalorare la propria scelta anche con lo strumento religioso, inoltre, il Sultano emette una Fètva, con cui si dichiarano fuorilegge tutti gli aderenti ai movimenti nazionalisti riconosciuti a Sivas. Dal canto suo, la Gran Bretagna sostiene la Grecia nelle sue ambizioni sui territori ottomani. 41 Si ritiene opportuno ricordare che in epoca ottomana non si prevede l’utilizzo dei cognomi, introdotto solo in epoca repubblicana con la Legge sui cognomi del 21 giugno 1934. Utilizzando come riferimento la vita di Kemal è possibile notare che egli nasce come Mustafa, figlio di Ali Riza e di Zübeyde, nei primi anni della carriera militare ottiene l’appellativo, non particolarmente raro, di Kemal (perfezione) che utilizza poi come nome proprio nel momento in cui, per suo stesso volere, viene approvata la legge che prevede l’obbligo per i cittadini turchi di dotarsi di un cognome; in quell’occasione è la Grande Assemblea Nazionale Turca ad attribuirgli il cognome di Atatürk, padre dei turchi (cfr. F.L. GRASSI, Atatürk, Salerno editrice, Roma, 2009, passim).

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programma che ambisce al riconoscimento dell’unità territoriale delle zone dell’Impero in cui si riscontra una predominanza dell’etnia turcomanna e all’estromissione delle ingerenze europee dalla politica interna dello Stato nascente. In questa prima fase, peraltro, Kemal ottiene il sostegno dell’Unione sovietica42. Nell’aprile 1920, infatti, la Grande Assemblea Nazionale approva una proposta scritta per il Governo di Mosca in cui si dichiara la disponibilità della Turchia ad avviare un conflitto con «l’Armenia imperialista» e a riconoscere l’inserimento dell’Azerbaijan tra gli Stati bolscevichi in cambio di un finanziamento in rubli d’oro43. I rubli messi così a disposizione sino al 1922 garantiscono lo sforzo kemalista per il coinvolgimento delle masse contadine nella lotta per l’indipendenza attraverso la Yeşil Ordu (armata verde), incaricata del mantenimento dell’ordine pubblico e della sicurezza dei confini, che inizia a predicare l’abolizione della proprietà privata e la redistribuzione delle ricchezze e delle proprietà fondiarie. L’interruzione dei finanziamenti da Mosca e il timore che le idee sostenute dalla Yeşil Ordu minino l’unità del paese inducono Kemal a lasciare mano libera all’esercito, conferendogli così un esplicito – e durevole – riconoscimento quale tutore dell’identità repubblicana che si va formando. Accanto all’influenza nelle vicende belliche, l’ideologia socialista, affiancata all’ideale roussoviano di derivazione francese, si riscontra anche nelle prime fasi della vita politica della Repubblica. Il 18 marzo 1920, infatti, le forze repubblicane convocano la prima Grande Assemblea Nazionale che assomma temporaneamente la funzione legislativa e quella esecutiva, procedendo alla nomina di alcuni Commissari – che, sotto la guida di Kemal e il controllo dell’Assemblea,

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Questa posizione è sostenuta da una delle due grandi correnti in cui si dividono i repubblicani all’indomani dell’indipendenza: il c.d. ideale orientale (Sark Mefkuresi), propenso a una rottura con il passato ottomano, ostile ai valori occidentali e sostenuto dalla Russia bolscevica, e il c.d. ideale occidentale (Garb Mefkuresi), favorevole a un ritorno all’esperienza della Tanzımat. 43 Per approfondimenti cfr. K. KREISER, C.K. NEUMANN (a cura di), op. cit., pp. 316317.

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gestiscono concretamente il potere esecutivo – e all’approvazione di un breve testo costituzionale44, entrato in vigore il 20 gennaio 1921. Il Manifesto costituzionale del 1921 assegna il potere sovrano non più al Sultano, bensì alla Nazione «senza riserva né condizioni […]. Il sistema di amministrazione si basa sul principio che il popolo gestirà direttamente ed effettivamente i suoi destini» (art. 1), aprendo così la strada al percorso repubblicano. Il Testo, privo di Preambolo, si compone di soli 23 articoli, prevalentemente incentrati sulle funzioni e sulle numerose attribuzioni della Grande Assemblea Nazionale. Questa diviene, infatti, il vessillo dello spirito di libertà che segna gli anni della guerra di indipendenza, al punto che si preferisce non introdurre un organo per il controllo di costituzionalità della legge al fine di non intaccare la sovranità del Parlamento «in its role as the sole constructor of the new legal order»45. Di fatto, il destino del popolo è lungamente mantenuto nelle mani di Atatürk, che riesce a imporre il riconoscimento internazionale degli attuali confini turchi attraverso la firma del Trattato di Losanna (24 luglio 1923)46. Ne deriva la proclamazione della Repubblica di Turchia (29 ottobre 1923) e l’insediamento di Atatürk quale primo Presidente della Repubblica. La sua Presidenza è essenzialmente fondata sul perseguimento delle “sei frecce” del kemalismo, che chiaramente riecheggiano principi che già hanno fatto la propria comparsa nel Vecchio 44

Il Testo, che non prevede un Preambolo, si compone di 23 articoli e 12 disposizioni transitorie (www.anayasa.gen.tr). 45 C. RUMPF, The Importance of Legislative History Materials in the Interpretation of Statutes in Turkey, in North Carolina Journal of International Law and Commercial Regulation, 19, 1993, pp. 267-292, spec. p. 272. 46 Il Trattato viene siglato il 24 luglio 1923 tra la Turchia e le potenze dell’Intesa. Oltre a porre fine al conflitto con la Grecia e a disciplinare il c.d. “scambio di popolazione” fra i due paesi, il Trattato definisce i confini della Turchia come attualmente consolidati, sancisce la fine del regime delle Capitolazioni e disciplina i diritti dei non musulmani di Turchia. Si esclude quindi la possibilità di riconoscere dei diritti alle minoranze musulmane del paese, influenzando così la tutela dell’identità etnica e religiosa di curdi, aleviti, yazidi e doenme. Sulle evoluzioni diplomatiche dal Trattato di Sévres a quello di Losanna, si veda F.L. GRASSI, Sévres e Losanna. Condanne esplicite, condanne silenziose, in M. RUOCCO (a cura di), Pace e guerra in Medio Oriente in età moderna e contemporanea, Congedo, Galatina, 2008, vol. 1, pp. 195-205.

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continente, ma sostanzialmente innovativi per lo Stato erede dell’Impero ottomano: laicismo, repubblicanesimo, nazionalismo, populismo, statalismo, riformismo47. Tali principi divengono così il richiamo ideologico irrinunciabile anche nelle successive fasi della vita repubblicana, consolidandosi anche grazie al periodo di autoritarismo che si inaugura durante la presidenza di Atatürk. Sulla scia di quanto avviene nel resto del continente europeo, infatti, anche in Turchia si afferma un regime autoritario fondato su un rigido monopartitismo, in cui tuttavia il dialogo politico è parzialmente assicurato dall’elevata burocratizzazione dell’apparato statale voluta dall’allora Primo Ministro Ismet Inönü48, che in molti casi si oppone all’interferenza di Atatürk nella vita quotidiana delle istituzioni49. Il 20 aprile 1924 il Manifesto costituzionale del 1921 viene sostituito da una Costituzione più ampia e dettagliata50, il Teskilâtı Esasiye Kanunu. Il Testo del 1924, se da un lato ribadisce i principi già enunciati nel Manifesto del 1921, dall’altro accelera ulteriormente l’avvicinamento della Repubblica al costituzionalismo di matrice occidentale. Si afferma, infatti, la superiorità della Costituzione sulla legislazione ordinaria (art. 103, c. 2, Cost.) – e più in generale una gerarchia delle fonti in tutto aderente a quella del positivismo classico di matrice europea – congiuntamente alla rigidità della legge fondamentale, la cui procedura di revisione viene attentamente disciplinata (artt. 102 e103, c.1, Cost.). Nei 105 articoli di questo testo, ancora privi di Preambolo, si prevede inoltre una più dettagliata articolazione dei poteri. Confermato l’assetto 47

Enunciate nel Congresso del Partito repubblicano del 1931, le “sei frecce” trovano la loro origine nel Nutuk, il discorso pronunciato nel corso di quasi sei giorni da Atatürk nell’ottobre 1927 in cui si ripercorre la storia dell’indipendenza turca dalla guerra del 1919 alla nascita della Repubblica. 48 Primo Ministro per la maggior parte del periodo compreso fra il 1923 e il 1935, ricopre, alla morte di Atatürk, la carica di Presidente della Repubblica (1938-1950). 49 Questa opposizione tra i due leader della neonata Repubblica è ricordata in M. HEPER, The State Tradition in Turkey, The Eothen Press, Beverley, 1985, p. 2. Si veda anche C.H. SHERILL, A Year’s Embassy to Mustafa Kemal, Schribner, New York, 1934. 50 Per un commento, si rinvia a E. MEAD EARLE, The New Constitution of Turkey, in Political Science Quarterly, 40, 1925, pp. 73-100.

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repubblicano della forma di Stato (art. 1) e l’appartenenza della sovranità al popolo (art. 3), si disciplinano con attenzione le modalità di esercizio della rappresentanza51. Ai sensi dell’art. 4, essa è esercitata per il tramite della Grande Assemblea Nazionale Turca – GANT (Türkiye Büyük Millet Meclisi – TBMM)52, un organo monocamerale, eletto a suffragio universale maschile e femminile53, che non può essere sciolto se non per volontà della maggioranza dei deputati (art. 25). Alla GANT spetta anche il compito di eleggere, tra i suoi componenti, il Presidente della Repubblica (art. 31), con un mandato di quattro anni, rinnovabile. A differenza del Manifesto costituzionale del 1921, il Testo del 1924 distingue il potere legislativo da quello esecutivo e affida quest’ultimo a un organo composto dal Consiglio dei Ministri e dal Presidente della Repubblica, che lo esercita congiuntamente al Presidente del Consiglio. In questa fase, similmente a quanto accade negli autoritarismi coevi, non vi è distinzione tra la vita istituzionale e quella politica54: il Presidente della Repubblica, infatti, è il presidente del Partito Repubblicano del Popolo55 (Cumhuriyet Halk Partisi – CHP), unico 51

Cfr. M.G., LOSANO, L’ammodernamento giuridico della Turchia (1839-1926), Unicopli, Milano, 1990, spec. pp. 23-28. 52 In tema di interpretazione e revisione è opportuno tenere presente che i primi 4 articoli della Costituzione, inaugurando una tradizione che caratterizza anche i testi approvati successivamente, sono sottratti alla revisione costituzionale (art. 102). 53 Ai sensi del Titolo II della Costituzione del 1924 e della legge elettorale n. 2599 del 1934, l’elettorato attivo spetta a tutti i cittadini turchi, senza distinzione di sesso, che abbiano compiuto 18 anni; l’elettorato passivo, invece, è attribuito ai cittadini, anche in questo caso senza distinzione di sesso, che abbiano compiuto trent’anni. 54 C. KOÇAK, Parliament Membership during the Single-Party System in Turkey (1925-1945), in European Journal of Turkish Studies, 3, 2005, www.ejts.org, evidenzia come la selezione dei membri della Grande Assemblea è interna al Partito repubblicano e il ruolo degli elettori si limita all’approvazione delle decisioni dei vertici del partito. 55 Il CHP viene fondato il 9 settembre 1923 e raccoglie gli esponenti politici più vicini a Kemal. Mantenutosi ininterrottamente al potere sino al 1950, diviene il principale partito d’opposizione durante gli anni del Governo Menderes. In seguito al colpo di Stato del 1960 e alle elezioni dell’anno successivo torna a esercitare funzioni di governo, ottenendo il 36,74% delle preferenze. Negli anni in cui vige la Costituzione del 1982 ritorna a ricoprire prevalentemente il ruolo di partito d’opposizione. Dal 21 maggio 2010 il leader del CHP è Kemal Kılıçdaroğlu, succeduto a Deniz Baykal dimessosi in seguito allo scandalo derivato dalla notizia di una relazione con la sua segretaria personale. Circa la collocazione del CHP nello scacchiere politico internazionale, si

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partito allora legittimo56, mentre la carica di Presidente del Consiglio è assegnata al vicepresidente del Partito. Resta saldo, tuttavia, il parlamentarismo di matrice francese, che attribuisce un ruolo centrale all’Assemblea, cui l’Esecutivo è legato dal vincolo della fiducia sia individuale che collettiva. L’organo assembleare, peraltro, si dimostra prevalente anche nei confronti del potere giudiziario, avendo la competenza di concedere dilazioni sulle istruttorie penali e di deliberare sulle esecuzioni delle condanne a morte. La GANT, infine, ha un ruolo determinante nell’interpretazione della Costituzione, la cui rigidità si dimostra fittizia dinanzi alla competenza dell’organo parlamentare di interpretarne le disposizioni in modo da salvaguardare la sovranità e l’unità della Nazione turca (art. 26). Ulteriori elementi che confermano l’influenza del diritto straniero, e in particolare degli ordinamenti dell’Europa continentale, sono l’istituzione del Consiglio di Stato, con funzioni sia consultive che di tribunale amministrativo di ultima istanza, e della Corte dei Conti; quest’ultima, in particolare, rappresenta una profonda innovazione, se si considera che in epoca ottomana non era neppure prevista la compilazione del bilancio statale. All’origine della nuova Costituzione si pone il tentativo di modernizzazione del paese in senso occidentale, ritenuto dalle élite kemaliste il principale strumento per favorire l’affermazione di un’identità nuova e distinta da quella ottomana. È in quest’ottica che il principio di laicità, introdotto dalla legge costituzionale del 20 maggio 1928 e successivamente costituzionalizzato nel 1937, sancisce la separazione tra lo Stato e le confessioni religiose, oltre all’abolizione dei Tribunali religiosi e del Califfato. È in questa sede che l’influenza del diritto straniero torna a manifestarsi: le modalità di separazione dello Stato dalle confessioni religiose introdotte nell’ordinamento turco ricorda l’associazione al Partito socialista europeo e la partecipazione all’Internazionale socialista. 56 Sul punto è opportuno sottolineare che il monopartitismo non è sancito dalla Costituzione del 1924 ma è una conseguenza della Legge per il mantenimento dell’ordine pubblico del 1925.

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richiamano, come si vedrà in seguito, la legge francese sulle associazioni religiose del 1805 e, almeno in principio, la laicità turca pare ricalcare il modello francese. L’applicazione di questo principio, peraltro, consente l’approvazione di specifiche norme volte a favorire l’uguaglianza di genere57. In primo luogo, si prevedono l’abolizione del velo negli edifici pubblici e l’estensione alle donne di alcune facoltà precedentemente negate dal diritto islamico, come il divorzio58. Si tratta di nuove disposizioni che incentivano l’emancipazione femminile e favoriscono l’accesso delle donne alla vita culturale del paese, che in quegli anni vede un notevole aumento delle iscrizioni femminili agli istituti scolastici e alle università59. Un ulteriore elemento che vale pena di considerare in materia di emancipazione femminile concerne la partecipazione delle donne alla vita pubblica. Se sino al crollo dell’Impero esse sono legate ai vincoli sociali prescritti dall’Islam e ignorate, come del resto avveniva al tempo anche in molti Stati europei, con riferimento ai principali diritti politici, l’avvento della Repubblica attribuisce loro diritto di voto dapprima alle elezioni comunali, mediante la legge elettorale comunale del 1930, e successivamente anche alle elezioni nazionali, grazie all’approvazione della legge elettorale nazionale del 1934. Ciò consente, peraltro, l’elettorato passivo femminile nelle elezioni per la Grande Assemblea Nazionale del 1935, che vedono l’elezione di sette donne su 339 seggi.

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Finalizzate più in generale a garantire una sorta di uguaglianza sostanziale fra i cittadini sono le leggi approvate nel 1925 relative al divieto dell’uso del fez e del turbante; nell’Impero ottomano, infatti, la differente foggia dei cappelli consente di individuare al primo sguardo la classe sociale di provenienza degli individui. Risultano interessanti, per comprendere il processo di modernizzazione del paese voluto da Atatürk, anche alcune leggi approvate tra il 1924 e il 1937 rispettivamente relative all’adozione del calendario europeo e all’introduzione dell’alfabeto latino per la trascrizione della lingua turca, con il quale, peraltro, si provvide anche a realizzare una traduzione del Corano. Per un approfondimento, si veda M.G. LOSANO, op. cit., spec. p. 23. 58 In materia di diritto di famiglia, peraltro, è opportuno ricordare anche l’abolizione della poligamia e della possibilità, per le donne, di essere ripudiate. 59 Nella retorica kemalista, infatti, la donna, in quanto principale elemento della famiglia dedito alla crescita e all’istruzione dei figli, deve possedere un buon livello di istruzione per educare dei “buoni” cittadini turchi.

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Il consolidamento della “turchità”, ossia dei vincoli nazionali, del nuovo Stato si avvale anche di ulteriori misure. È a questo scopo, ad esempio, che l’art. 88 della Costituzione attribuisce la denominazione di “turca” all’intera popolazione stanziata sui confini individuati al momento dell’indipendenza, senza alcuna distinzione etnica o religiosa, invertendo totalmente la logica dell’Impero che aveva salvaguardato le specificità dei propri abitanti mediante il menzionato sistema della millet. Il riconoscimento della cittadinanza, peraltro, avviene, similmente ad altri ordinamenti europei interessati a mettere in evidenza l’omogeneità etnoculturale della propria popolazione, sulla base del principio dello ius sanguinis, che rende tutti i cittadini turchi vatandaşlar (compatrioti). Gli anni della Presidenza di Atatürk, quindi, sono contraddistinti da un costante confronto con le altre esperienze europee, nel tentativo di fondare, anche giuridicamente, la neonata Repubblica su valori nuovi e moderni60. Rileva anche la scelta di non seguire un solo esempio, per non dimostrare una sudditanza culturale foriera di un mero trapianto di istituti giuridici e per realizzare una summa delle più moderne scelte di ingegneria giuridica al momento disponibili. Ne deriva un ordinamento «based on large scale eclectic receptions from western models»61. Va ribadito, inoltre, che la possibilità di effettuare una scelta fra le differenti opzioni disponibili conferma come la Turchia, che non ha mai conosciuto la condizione di colonia né la presenza sul proprio territorio di un esercito “invasore” o “liberatore”, non è soggetta all’imposizione di modelli stranieri e che si tratta piuttosto di un recepimento ponderato e volontario di alcuni istituti degli ordinamenti esportatori. Nei primi decenni di vita 60

Cfr. S. AKŞIN, The Nature of the Kemalist Revolution, in AA.VV. Atatürk and Modern Turkey, Conferenza Internazionale, ottobre 1998, in Ankara Üniversitesi Syasal Bilgiler Facültesi Yayını, 582, 1998, pp. 19-28, spec. p. 21, in cui l’Autore evidenzia come il modello di sviluppo proposto dalla rivoluzione kemalista sia un integral development, capace di coinvolgere ogni aspetto della vita del paese. Per questa ragione, peraltro, l’Autore distingue il modello turco da quello del material development tipico delle petrol-monarchie arabe. 61 E. ÖRÜCÜ, Critical Comparative Law: Considering Paradoxes for Legal Systems in Transition, in Electronic Journal of Comparative Law, 2000, www.ejcl.org.

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della Repubblica turca, inoltre, il ricorso a modelli stranieri è strumentale alla soluzione della situazione di arretratezza che il paese vive. La tradizione ottomana, infatti, non ha consentito l’emersione di una società civile capace di un’articolazione politica in grado di guidare il paese ed ha “bloccato” la nascita del nazionalismo, che tanta parte ha nell’evoluzione dei sistemi europei. In Turchia, dunque, la modernizzazione è un fenomeno interamente guidato da una élite che realizza riforme radicali sotto il suo stretto controllo, al punto che non è mancato chi ha visto nell’autoritarismo kemalista una necessità più che una opzione ideologica62. Il confronto con i modelli europei è favorito anche dalla crescente partecipazione della Turchia ai consessi internazionali, che progressivamente portano il paese ad aderire alla Società delle Nazioni. Nel tentativo di costruire stabili e pacifici rapporti tanto con gli Stati confinanti – che all’epoca sono prevalentemente Mandati delle potenze occidentali – quanto con l’intera comunità internazionale e per consolidare il riconoscimento della Repubblica, infatti, la Turchia kemalista accetta di risolvere attraverso arbitrati internazionali e con la mediazione della Società delle Nazioni o della Corte Permanente di Giustizia internazionale le questioni non risolte a Losanna, quali la gestione degli Stretti, l’appartenenza del villayet di Musul e le modalità per realizzare lo scambio di popolazione con la Grecia63. In questa fase, inoltre, la Repubblica turca mostra il proprio senso di appartenenza alla comunità internazionale partecipando ai lavori del Comitato consultivo sul traffico d’oppio (1922) e successivamente ratificando la Convenzione da esso elaborata (1933), accettando l’invito a partecipare alla Commissione preparatoria per la Conferenza sul disarmo (1928)64, inviando rappresentanti alla Commissione d’inchiesta Briand per 62

Così A. KAZANCIGIL, Turkey’s Democracy in the 1990s: a Retrospective and Prospective View, in AA.VV. Atatürk and Modern Turkey, Conferenza Internazionale, ottobre 1998, in Ankara Üniversitesi Syasal Bilgiler Facültesi Yayını, 582, 1998, pp. 231-250, spec. p. 235. 63 Per ulteriori approfondimenti si rinvia a Y. GÜÇLÜ, Turkey’s entrance into the League of Nations, in Middle Eastern Studies, 1, 2010, pp. 186-206, spec. pp. 192-193. 64 La partecipazione della Turchia è essenziale per la riuscita della Conferenza giacché gli Stati balcanici non avrebbero accettato di discutere clausole di disarmo fintanto che la Turchia non si fosse mostrata concorde circa la loro entrata in vigore.

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l’Unione europea (1931)65 e osservatori alle Conferenze dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO)66. L’ingresso nella Società delle Nazioni, nonostante questa sollecita partecipazione alle sue attività, si rivela tuttavia complesso. Ancora nel 1931 il Ministro per gli Affari esteri Arras, interrogato sulla questione, chiarisce che i principi posti a fondamento della Società delle Nazioni sono parte integrante dei principi della rivoluzione turca e della Repubblica, ma che permangono delle perplessità sulle modalità di attuazione di tali principi; in particolare resta da risolvere la questione circa la possibilità che la Turchia si veda comminata delle sanzioni dal Consiglio, pur se al suo interno non è detto che vi sia un rappresentante turco67. È solo in occasione della Conferenza sul disarmo del 13 aprile 1932 che il Ministro Arras afferma che la politica estera della Turchia si conforma ai principi della Società e pertanto non vi sarebbero ostacoli nella partecipazione alla «causa comune»68. Si apre così la strada dell’invito ufficiale a partecipare alla Società delle Nazioni, sottoposto all’Assemblea dalla delegazione spagnola il 1° luglio 1932 e discusso nella seduta del 6 luglio. Può essere interessante notare come in quell’occasione il delegato greco sostenga che la Turchia abbia dimostrato ampiamente il proprio desiderio di lavorare per la pace e per la definitiva soluzione della conflittualità fra i due paesi69; a sua volta 65

La Commissione è frutto dei tentativi avviati nell’ambito della Società delle Nazioni di istituire uno strumento di cooperazione economica in ambito europeo. La complessa situazione economica e la difficoltà di conciliare i differenti punti di vista delle diplomazie coinvolte, britannica e francese in primis, portano a una rapida quanto fallimentare conclusione dei lavori. Cfr. Z.S. STEINER, The Lights that Failed: European International History, 1919-1933, Oxford University Press, Oxford, 2005, pp. 585-587. 66 L’ILO viene fondata nel 1919 in seno alla Società delle Nazioni per poi divenire una agenzia specializzata dell’ONU nel 1946. 67 Così, in occasione del dibattito alla Grande Assemblea Nazionale di Turchia per l’approvazione della legge finanziaria nel luglio 1931 si pronuncia il Ministro Arras (cfr. Zabit Ceridesi, 3, 1931, p. 133). Per ulteriori approfondimenti, si rinvia a Y. GÜÇLÜ, cit., p. 194. 68 Cfr. League of Nations, O.J. Supplemento speciale n. 102, p. 9. 69 Ibidem, p. 10.

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il delegato italiano definisce la Turchia «an important element of the European system». Così, il 9 luglio 1932, la Grande Assemblea turca accetta per acclamazione l’invito e la Repubblica turca è quindi ufficialmente ammessa nella Società delle Nazioni nel corso della seduta dell’Assemblea del 18 luglio. 1.4 La Presidenza di Inönü e la scelta per l’Occidente Alla morte di Atatürk (1938), la Presidenza della Repubblica turca, come pure del Partito repubblicano, è assunta da Ismet Inönü, che guida il paese nei difficili tempi del secondo conflitto mondiale e gli assicura un definitivo schieramento a Occidente. Sin dal suo insediamento, Inönü si impegna per il ripristino di buone relazioni diplomatiche con la Francia e il Regno Unito, con cui la Turchia sigla un trattato di mutua assistenza nel maggio 1939 e prova a gestire l’acuirsi delle conflittualità con l’Unione sovietica per il controllo sugli Stretti, che la Turchia ritiene da sempre soggetti alla propria sovranità e che l’U.R.S.S., al contrario, vorrebbe sottoporre a un controllo congiunto70. Allo scoppio della seconda guerra mondiale da un lato l’incombente presenza sovietica ai confini e il susseguirsi delle vittorie tedesche in Europa, dall’altro il desiderio di non alterare le relazioni con l’alleato franco-britannico spingono la Turchia ad adottare un atteggiamento “temporeggiatore”. Da un punto di vista strategico, tuttavia, tale atteggiamento favorisce, di fatto, l’avanzata tedesca in Medioriente e spinge la diplomazia di Hitler ad aumentare le pressioni sulla Turchia perché firmi un accordo di neutralità con la Germania, come effettivamente avviene il 18 giugno 1941. È in nome di questo trattato, peraltro, che la Turchia respinge la richiesta di ospitare basi militari 70

Il controllo congiunto degli Stretti è una condizione posta dall’Unione Sovietica sia nel 1939, nelle fallimentari trattative del Ministro degli Esteri turco Saraçoğlu per negoziare un patto di non aggressione, sia nel 1945 quando la Turchia propone di rinnovare il Trattato di Amicizia stipulato fra i due paesi nel 1935. Le differenti visioni circa la gestione degli Stretti, peraltro, sono anche all’origine del fallimento della revisione degli accordi di Montreux, siglati nel 1936 proprio per regolamentare la circolazione negli Stretti.

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britanniche sul proprio territorio formulata durante la Conferenza del Cairo (22-26 novembre 1943). Nonostante le pressioni di Churchill e Roosevelt, inoltre, Inönü sostiene lungamente che la Turchia non sia militarmente pronta per affrontare il conflitto con la Germania. Solo dopo lo sbarco in Normandia degli Alleati (6 giugno 1944), dunque, la Turchia comincia ad assumere posizioni apertamente anti-tedesche, allontanando dalla burocrazia statale coloro che si sono apertamente dichiarati filonazisti, abrogando le leggi razziste approvate nel lustro precedente e interrompendo le relazioni commerciali con la Germania. Il 23 febbraio 1945, infine, la Repubblica turca dichiara guerra alle potenze dell’Asse e, pur rimanendo di fatto non belligerante sino al 14 agosto, pone le “premesse formali” per l’ingresso nelle Nazioni Unite. La politica di Inönü consente alla Turchia di non riportare vittime e di preservare il proprio territorio dalla presenza straniera durante tutta la durata del conflitto. Il Presidente conquista così un forte consenso popolare che gli permette, sul piano interno, di avviare una progressiva apertura al pluripartitismo71, attuando un presupposto in via di principio già previsto alle origini del kemalismo72 anche grazie al supporto delle stesse élite che hanno guidato il periodo autoritario73. Dapprima, si 71

Circa la volontà di questo statista di procedere all’apertura democratica soprattutto per migliorare le capacità di decision-making delle istituzioni del paese, si veda M. HEPER, Ismet Inönü: a Rationalistic Democrat, in M. HEPER, S. SAYARI (a cura di), Political Leaders and Democracy in Turkey, Lexington Books, New York, 2002, pp. 2544. 72 E. ÖZBUDUN, op. cit., p. 15 ss., chiarisce come il kemalismo, pur avendo prodotto, di fatto, un autoritarismo, sia basato su una ideologia liberale, che non prende mai in considerazione i coevi regimi fascisti e comunisti. A dimostrazione di ciò va ricordato che un primo tentativo di istituire un sistema multipartitico viene realizzato già durante la presidenza di Atatürk nel 1924, all’indomani della proclamazione della Repubblica, seguito da un ulteriore tentativo nel 1930. Nella prima occasione Atatürk dapprima incentiva la nascita del Partito Progressista Repubblicano e poi ne proibisce le attività ritenendo che il dibattito democratico non consenta l’agevole procedere delle riforme. Simili sono le ragioni che, nel 1930, lo inducono a evitare l’apertura delle sedi decisionali al Partito Libero Repubblicano. 73 Che queste ultime non siano pregiudizialmente contrarie al multipartitismo pare dimostrato anche dal fatto che sono alcuni membri del CHP a fondare, nella primavera

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incentiva il dibattito interno al Partito repubblicano al punto da accogliere, nel giugno 1945, l’opposizione interna degli autori del Manifesto dei Quattro (Dörtlü Takrir)74, in cui si chiede di dare effettività alle disposizioni costituzionali relative al controllo parlamentare sull’attività del Governo e ai diritti dei cittadini75. In seguito, è lo stesso Presidente ad invitare, in occasione della seduta della Grande Assemblea Nazionale del 1° novembre 1945, l’opposizione interna a formare un proprio partito politico, che viene istituito ufficialmente il 7 gennaio 1946 con la denominazione di Partito democratico (Demokrat Partı – DP), con un programma di destra moderata che si propone di mitigare l’occidentalizzazione del paese e il secolarismo militante e che si pone in aperto dissenso con le politiche economiche del Partito repubblicano76. La scelta per il riconoscimento del pluralismo politico porta alla Turchia anche il supporto degli Stati Uniti, che seguono le vicende turche attraverso i report dell’Ambasciata ad Ankara77. In quegli anni, peraltro, la Turchia è considerata «the stopper in the neck of the bottle through del 1924, il Partito Progressista Repubblicano (Terakkiperver Cumhurriyet Fırkası – TCF). Nell’opinione di F.W. FREY, The Turkish Political Elite, M.I.T. Press, Cambridge, 1965, p. 326, il TCF rappresenta un caso classico di movimento post-indipendentista, avendo lo scopo di procedere ad una riforma delle istituzioni che non si discosti eccessivamente dalle tradizioni e dai costumi del passato. Esso tuttavia viene sciolto dal Consiglio dei Ministri nel febbraio 1925 a causa di non ben dimostrati legami con la ribellione curda guidata da Şeyh Said Pirani che interessa l’Anatolia orientale nell’autunno di quello stesso anno (cfr. E. ÖZBUDUN, op. cit., pp. 10-11). Per una più ampia panoramica circa i tentativi di multipartitismo avviati in Turchia prima del 1946, si vedano: W.F. WEIKER, Political Tutelage and Democracy in Turkey. The Free Party and its Aftermath, Brill, Leiden, 1973; F. AHMAD, The Turkish Experiment in Democracy, 1950-1975, Hurst, London, 1977, spec. pp. 1-3. 74 Si tratta di Adnan Menderes, Celal Bayar, Refik Koraltan e Fuat Köprülü. 75 Sul punto si veda H. TOPUZ, H. ÜNSAL (a cura di), Cumhurriyet’in Beş Dönemeci (Cinque punti di svolta della Repubblica), Sergi, Izmir, 1984. 76 Per un approfondimento circa il programma politico del Partito democratico si veda H. ERDEMIR, Turkish Political History, Ofset, Izmir, 2007, spec. pp. 108-109. 77 L’attenzione allo sviluppo della democrazia nel paese attraverso i rapporti dell’Ambasciata, in realtà, risale ai primi momenti di affermazione del kemalismo. Al riguardo, si vedano le relazioni predisposte tra il 1927 e il 1932 dall’Ambasciatore statunitense Grew, in cui si evidenzia come Atatürk sia consapevole che l’esistenza di un sistema monopartitico rappresenti un «segno di inferiorità della Turchia rispetto all’Europa e all’Occidente» (cfr. J.C. GREW, Turbulent Era: A Diplomatic Record of Forty Years, 1904-1945, Hammond, London, 1953, spec. p. 869).

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which Soviet political and military influence could most effectively flow into the eastern Mediterranean and Middle East»78 ed è principalmente per questo motivo che il Presidente Truman include anche la Turchia nel famoso discorso del 12 marzo 1947 in cui afferma che la politica estera degli USA dovrebbe «support the free people who are resisting attempted subjugation by armed minorities or by outside pressures»79. Sono queste le motivazioni all’origine della c.d. dottrina Truman che apre la strada all’inclusione della Turchia nei programmi per il finanziamento della ricostruzione dell’Europa occidentale80, accolti dal Presidente Inönü come una dimostrazione di sostegno alle istituzioni turche per il processo di apertura al pluralismo, oltre che come momento di rafforzamento delle relazioni con gli USA81. E, infatti, la modifica della legge elettorale del 16 febbraio 195082, per garantire un pluralismo maggiore di quello del 194683– allorché le elezioni sono considerate 78

Così il Direttore del Dipartimento di Stato statunitense per il Vicino oriente e l’Africa Loy Henderson nell’ottobre 1946 (cfr. L.W. HENDERSON, Memorandum on Turkey, Washington 21 ottobre 1946, cit. in B. KAYAOĞLU, Bringing Them Together: Turkish-American Relation and Turkish Democracy, 1945-1950, Ankara, Bilkent University, 2005, p. 17). 79 H. TRUMAN, Recommendations on Greece and Turkey: Message of the President to Congress, in Department of State Bulletin, 403, 1947, spec. p. 536. 80 Con riferimento alla Turchia, già in seguito al discorso del Presidente Truman vengono stanziati 400 milioni di dollari, cui seguono numerosi ulteriori finanziamenti, per il cui ammontare, anche con riferimento alle motivazioni che ne supportarono lo stanziamento, si vedano i Memorandum of Conversation del 1951 riportati in Foreign Relations, 1951, V – The Near East and Africa, US Department of State (http://20012009.state.gov). 81 Si veda la dichiarazione rilasciata da Inönü al corrispondente dell’Associated Press e riportata sul New York Times del 12 aprile 1947 (cit. in K. KARPAT, Turkey’s Politics: the Transition to a Multi-Party System, Princeton University Press, Princeton, 1959, pp. 189-190). 82 Nel tentativo di garantire un maggiore pluralismo politico il sistema elettorale maggioritario uninominale, basato sulla formula first past the post, viene modificato introducendo collegi plurinominali. 83 In effetti, le elezioni del 21 luglio 1946 assegnano al CHP 395 dei 465 seggi della Grande Assemblea, in cui l’unica forma di opposizione è rappresentata dai 64 deputati eletti fra le fila del Partito democratico.

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“pilotate” ed il risultato in favore del CHP “scontato”– è considerata con estremo favore dall’amministrazione statunitense84 che si spinge a definirla «a decisive step forward on the road leading to the establishment of western democracy in Turkey»85 e porta alla Turchia anche il sostegno delle più influenti amministrazioni europee86. La maggiore democrazia elettorale e la volontà di mantenere saldo il legame con la Turchia in funzione anticomunista induce gli Stati Uniti ad includere anche questo Stato fra i beneficiari dello European Recovery Program, di cui il paese si giova principalmente per procedere ad una più stringente industrializzazione87 e all’avvio della liberalizzazione

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Il plauso statunitense alle riforme elettorali volute da Inönü non passa inosservato all’opinione pubblica e ai giornalisti, che sottolineano in più occasioni quanto la stessa enunciazione della dottrina Truman rappresenti un segno del supporto statunitense alla democrazia turca. Al riguardo si vedano: N. ERIM, Amerika’nın Kararlı Tutum (La posizione salda dell’America), Ulus, 13 marzo 1947; N. SADAK, Dünya Siyasetinde Bu Yüzyılın En Önemli Dönü, Noktası (Il più importante punto di svolta della politica mondiale di questo secolo), Akşam, 14 marzo 1947; F.R. ATAY, Bariş Kurucu Amerika (America fondatrice di pace), Ulus, 15 marzo 1947. 85 Dispaccio n. 26 al Segretario di Stato, Ankara, 17 gennaio 1948, cit. in B. KAYAOĞLU, op. cit., p. 59. 86 Esemplificative in tal senso le parole del Ministro degli Esteri britannico Bevin al suo omologo statunitense Byrnes nel dicembre del 1945: «His Majesty’s Government could not be indifferent to a Russian threat to Turkey and would stand by her» (cfr. Dipartimento di Stato americano, Foreign Relations of United States, 1945, Washington, US Government Printing Office, 1967, p. 630). 87 Va ricordato, infatti, che la Turchia non necessita di particolare supporto per la ricostruzione, non essendo stata coinvolta negli scontri bellici del secondo conflitto mondiale in ragione della sua neutralità. Per ulteriori approfondimenti circa le ragioni che inducono gli USA a estendere il c.d. Piano Marshall anche a questo paese e a stanziare, fra il 1948 e il 1952 circa 213 milioni di dollari, nonché con riferimento al ruolo che tali finanziamenti hanno nella sua evoluzione economica, si vedano: B. MACHADO, In Search of a Usable Past: the Marshall Plan and Post War Reconstruction Today, George Marshall Foundation, The Sheridan Press, Lexington, 2007, con particolare riferimento al cap. IV Implementing the Marshall Plan, pp. 57-109, spec. pp. 86-96; S. ÜSTÜN, Turkey and the Marshall Plan: Strive for Aid, in The Turkish Yearbook, 27, 1997, pp. 31-52; Ş.A. BAHADIR, Turkish Economy on the Threshold of the 21th Century: a Critical Review of Some Recent International Appraisal, in AA.VV. Atatürk and Modern Turkey, Conferenza Internazionale, ottobre 1998, in Ankara Üniversitesi Syasal Bilgiler Facültesi Yayını, 582, 1998, pp. 761-772, spec. pp. 767-768.

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economica88, in controtendenza con lo statalismo previsto dalle “frecce” del kemalismo, soprattutto con riferimento al settore agricolo. Questa non sembra essere una scelta casuale: se si ricorda che la fase monopartitica aveva garantito il consolidamento delle élite provinciali quali principali attori nelle vicende politiche del paese precedenti al 1946, infatti, si capisce perché una liberalizzazione del settore significhi anche una maggiore competizione nell’arena politica89. L’impegno riformista di Inönü si rivela presto controproducente per le sorti del Partito repubblicano90, che viene sostituito alla guida del paese 88

Si ricorda che, nell’aprile 1948, la Turchia aderisce all’Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica nell’intento di mostrare la propria volontà di cooperazione in materia economica a livello europeo e di accedere con maggiore facilità non soltanto ai fondi disponibili grazie allo European Recovery Program, ma anche agli altri finanziamenti e ai prestiti che le banche statunitensi cominciano a elargirle in quel periodo per favorire l’industrializzazione del paese. 89 A conferma di ciò si pongono anche le riforme del settore agricolo realizzate negli anni ’50 dal Partito democratico, a seguito della sua ascesa al potere in sostituzione del CHP. Per un ulteriore approfondimento sul punto, si veda F.C. ÖZCAN, U.S. Aid and Turkish Macroeconomic Policy: a Narration of the AID Bargain in the 1946-1958 Period, in The Turkish Yearbook, 34, 2003, pp. 119-136, spec. p. 120. 90 L’art. 67 Cost., come modificato il 23 luglio 1995, sancisce la libertà, la segretezza e l’uguaglianza del voto nonché la pubblicità degli scrutini e il successivo art. 80 Cost. pone il divieto di mandato imperativo. Circa la trasparenza e la correttezza delle elezioni è interessante notare come il tentativo, nel 1946, di portare a termine le prime elezioni a suffragio universale democratiche e libere si conclude in un nulla di fatto per i numerosi brogli miranti a evitare l’ascesa al potere del neonato Partito democratico guidato da Celal Baylar e Adnan Menderes. La situazione di tensione che ne deriva induce il Presidente Inönü ad avviare una campagna, condotta anche attraverso un tour nel paese, per il rispetto reciproco tra maggioranza e opposizione. Il risultato dell’impegno presidenziale è la felice conclusione di nuove elezioni nel 1950, in cui la vittoria elettorale arride al Partito democratico, spingendo il Presidente a rassegnare le dimissioni per divenire il leader del principale partito d’opposizione. Da quel momento, come dimostrano anche i report dell’OSCE circa le elezioni politiche turche, la trasparenza e l’assenza di corruzione caratterizzano le tornate elettorali turche, alle quali, è bene non dimenticare, si affiancano colpi di stato militari (1960-61; 1971-73, 1980-83) e una lunga dittatura della maggioranza sotto la guida del Partito democratico (19501960).

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dal Partito democratico in occasione delle elezioni del 14 maggio 195091. L’alternanza al potere non è tuttavia sufficiente a garantire che il pluralismo formale trovi concreta attuazione e il Partito democratico sembra avviare una nuova fase di autoritarismo grazie all’approvazione di numerosi atti legislativi miranti a “imbavagliare” l’opposizione. Dapprima, il 9 marzo 1954, si approva una legge sulla stampa con cui si prevede la possibilità di comminare una pena detentiva sino a tre anni a coloro che abbiano compiuto «attività di disinformazione»; in seguito, il 27 aprile 1960, si giunge a nominare una Commissione d’inchiesta cui si attribuisce l’autorità per censurare la stampa e vietare le pubblicazioni, per spiccare mandati di comparizione e per comminare pene detentive fino a tre anni. Le scelte economiche liberiste, su cui torneremo in seguito, del Partito democratico, l’introduzione di norme che alterano il secolarismo kemalista in favore di una maggiore aderenza ai principi islamici e le menzionate previsioni per il controllo del dissenso sono all’origine di manifestazioni di piazza e di violenti scontri fra la polizia e i manifestanti, prevalentemente studenti, a cui il Governo reagisce dichiarando lo stato di emergenza. Questa misura, tuttavia, non viene accolta con favore dai militari, che si associano alla protesta degli studenti, formando così un fronte compatto che alla comunità accademica associa i più alti ranghi dell’esercito92. Un’alleanza che diviene ben evidente quando la direzione dell’Università di Istanbul emette la c.d. fatwa laica con cui si afferma la 91

Il CHP lascia infatti il posto al Partito democratico. In occasione delle elezioni del 14 maggio 1950, il DP ottiene il 52,6% delle preferenze ed esprime sia il Presidente del Consiglio, nella figura di Adnan Menderes, sia il Presidente della Repubblica, Celal Bayar. Sciolto in seguito al colpo di Stato del 1960, il DP ritorna sulla scena politica nel 1992, sotto la guida di Hayrettin Erkmen e di Aydin Menderes, figlio di Adnan. Il partito non si afferma a livello nazionale e, alle elezioni politiche del 2007, non riesce a superare la soglia di sbarramento del 10%. Nell’ottobre 2009 confluisce nel DP il Partito della Madrepatria (Anavatan Partisi – ANAP), fondato nel 1983 e di ispirazione liberalconservatrice che esprime più volte, tra il 1983 e il 2002, la compagine governativa e alle cui fila apparteneva il Presidente della Repubblica Turgut Özal. 92 L’alleanza fra queste due importanti componenti della società turca diviene evidente quando, in seguito ad alcuni scontri nelle Università di Ankara e Istanbul represse con la forza dal Governo anche mediante la chiusura delle stesse strutture universitarie, il generale Cemal Gürsel emette un comunicato in cui intima il Governo a non utilizzare nuovamente le forze armate negli scontri con gli studenti.

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legittimità del colpo di Stato che le forze armate attuano il 27 maggio 1960. 1.5 La “lunga” transizione costituzionale Il colpo di Stato dà l’avvio a una sorta di seconda Repubblica che, nelle more dell’approvazione di un nuovo testo costituzionale, è retta dal Milli Birilik Komitesi (Comitato di Unità Nazionale)93. Il Comitato, che gestisce il paese assommando le funzioni legislative ed esecutive sulla base della legge per il periodo transitorio approvata il 12 giugno 1960, nomina un gruppo di docenti universitari, la c.d. Commissione Istanbul, con l’incarico di predisporre una nuova Costituzione, capace di garantire lo sviluppo di una reale democrazia pluralista. Il Testo così compilato è quindi approvato il 31 maggio 1961 e sottoposto a referendum il 9 luglio 1961, ottenendo il 61,7% delle preferenze. La nuova Costituzione innova profondamente l’ordinamento e l’influenza del rivoluzionarismo kemalista sembra decisamente “diluirsi” in un Testo che, pur frutto di un colpo di Stato, segna la definitiva adesione della Turchia al costituzionalismo liberal-democratico. I 157 articoli e le 11 disposizioni transitorie di questo Testo sono accompagnati da un eloquente Preambolo, parte integrante della Costituzione (art. 156), in cui si legittima la fase costituente come espressione del diritto di resistenza contro l’oppressione dei poteri politici contrari allo stato di diritto. Non mancano, comunque, i riferimenti al kemalismo. Nel Preambolo della Costituzione, infatti, si richiama il motto di Atatürk «pace in patria, pace nel mondo», che prelude alla salvaguardia di alcune “riforme” del periodo kemalista, come la legge sull’unificazione del 93

I militari golpisti istituiscono anche un’Alta Corte di Giustizia, incaricata di giudicare la commissione di eventuali reati da parte delle cariche dello Stato appena destituite. Il processo, svoltosi nell’ottobre 1960 nell’isola di Yiassiada, termina con la condanna all’impiccagione per il Presidente del Consiglio Menderes, accusato di alto tradimento della Costituzione e appropriazione indebita di denaro pubblico, che viene eseguita il 17 settembre 1961.

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sistema di istruzione94, la cd. legge sul cappello95, la legge sulla chiusura dei conventi dei dervisci e per l’abolizione dei titoli96 (art. 153). La Costituzione viene confermata al vertice della gerarchia delle fonti e se ne sancisce il carattere sovraordinato rispetto all’azione dei poteri dello Stato (art. 8); per ciò che concerne la sua revisione, da cui si esclude la forma repubblicana sancita all’art. 1 (art. 9), si prevede che gli emendamenti siano presentati da almeno un terzo dei componenti di una Camera e approvati a maggioranza dei due terzi in ciascuna di esse (art. 155). La Costituzione del 1961 introduce anche un nuovo concetto di sovranità e di repubblica, ben diverso da quello sancito dalla Costituzione del 1924. Se, infatti, l’art. 4 della Costituzione del 196197 riprende integralmente l’art. 3 della Cost. 1924 per affermare che «la sovranità appartiene al popolo senza riserve o condizioni», esso prevede anche un comma 2 in cui si chiarisce che: «la nazione turca deve esercitare la propria sovranità attraverso gli organi autorizzati come disciplinati dai principi previsti dalla presente Costituzione». Quanto al concetto di repubblica, inoltre, l’art. 2 della Costituzione del 1961 afferma che «la Turchia è una repubblica nazionale, democratica, laica e fondata sullo Stato sociale, sullo stato di diritto e sui diritti umani e le libertà fondamentali». Va evidenziato, al riguardo, il recepimento del concetto di hukuk Devleti (stato di diritto), nella sua accezione anglo-americana, che vincola alla conformità con la legge l’azione dei pubblici poteri. È in quest’ottica che si introduce la distinzione fra yetki (potere) e görev (funzione) con cui la Costituzione del 1961 identifica, nell’ambito della forma di governo parlamentare da essa istituita, da un lato il potere legislativo e giudiziario e dall’altro il potere esecutivo, a voler così rimarcare la volontà di limitare il potere arbitrario dell’Esecutivo. L’insieme di questi principi, peraltro, 94

Cfr. la Legge n. 1340 del 3 marzo 1924, contestualmente alla quale la Costituzione del 1961 fa salva la legge per l’adozione dell’alfabeto latino n. 1353 del 1 novembre 1928 e la legge per l’introduzione della numerazione internazionale n. 1288 del 20 maggio 1928. 95 Cfr. la Legge n. 1341 del 25 novembre 1925, riconfermata in vigore insieme alla legge sul divieto di indossare alcuni indumenti n. 2596 del 3 novembre 1934. 96 Cfr. le Leggi n. 1941 del 30 novembre 1925 e n. 2590 del 26 novembre 1934. 97 Si anticipa che la stessa concezione è ribadita dall’art. 6 della Costituzione del 1982.

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rappresenta il principale strumento di legittimazione per l’istituzione della Corte costituzionale, organo di bilanciamento della supremazia del Legislativo98 mediante il controllo di costituzionalità99. È proprio la Corte costituzionale, nella decisione resa il giorno 11 ottobre 1963 relativamente alla costituzionalità della legge n. 6195, a chiarire che si configura come stato di diritto quello Stato «che rispetta i diritti umani e stabilisce un giusto ordinamento in cui tali diritti sono protetti e garantiti. Tutte le azioni e le funzioni di tale Stato devono essere in conformità con la legge e la Costituzione. In uno Stato retto dallo stato di diritto, la legge assolutamente prevale sulle istituzioni, compreso il legislativo»100. Un ulteriore elemento di “equilibrio” fra i poteri è la competenza del Danıştay (Consiglio di Stato) a controllare la validità degli atti amministrativi. Fra le innovazioni nell’architettura istituzionale, è opportuno ricordare il ritorno al bicameralismo mediante la previsione di una Assemblea nazionale e di un Senato101, Camera di refroidissement nel

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Sin dalla fondazione della Repubblica, infatti, il Legislativo gode di particolare potere e, soprattutto, di un elevato livello di legittimazione, anche in ragione del ruolo che la Grande Assemblea Nazionale Turca svolge nei primi anni dell’indipendenza, tanto da essere definita da Atatürk il simbolo concreto della nazione (cfr. M. HEPER, The State Tradition in Turkey, cit., p. 57). 99 Sul punto si veda M. TURHAN, The Constitutional Court of Turkey, in Anayasa Mahkemesi Yayınları, 22, 1991, pp. 401-420, spec. p. 5 e p. 16, dove si richiama il pensiero di C.J. FRIEDICH, Constitutional Government and Democracy, Ginn and Co., Boston, 1950, p. 236, per cui se non esiste una Costituzione radicata nelle tradizioni del paese solo la previsione di un organo giudiziario capace di procedere al controllo di costituzionalità delle leggi consente di far rispettare la separazione dei poteri che la Costituzione afferma. 100 Corte costituzionale, E11572, 11 ottobre 1963. 101 Ad una Assemblea Nazionale composta da 450 rappresentanti eletti direttamente dalla popolazione, si affianca un Senato composto da 150 membri eletti direttamente dal popolo e 15 membri nominati dal Presidente della Repubblica fra illustri personalità. La composizione del Senato, peraltro, riconferma la volontà di preservare l’assetto estremamente centralizzato della Repubblica, non prevedendosi alcuno spazio per la rappresentanza di autorità decentrate.

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procedimento legislativo102; sull’esempio del bicameralismo francese, tuttavia, il Senato non partecipa alla votazione della fiducia all’Esecutivo e, in caso di disaccordo fra le due Camere, l’Assemblea gode di una sorta di supremazia, essendo il suo voto determinante per l’approvazione delle leggi. Si conferma, peraltro, l’idea dell’indivisibile integrità statale (art. 3), ribadita dall’affermazione che l’amministrazione è unica, nonostante la suddivisione in dipartimenti insediati sul territorio, nonché dalla previsione dello strumento dell’idari vesayet. Tale principio, traducibile approssimativamente con il termine “tutela”, è utilizzato per chiarire che l’amministrazione a livello locale è comunque sottoposta al controllo dell’amministrazione centrale che garantisce, appunto, l’unità e l’indivisibilità dello Stato. Come si avrà modo di approfondire, l’insistenza sulla indivisibilità territoriale si ricollega fortemente alla omogeneità culturale ed etnica utilizzata dall’élite fondatrice della Repubblica come elemento di aggregazione. Se si guarda al catalogo dei diritti, inoltre, è possibile notare come esso superi la classica elencazione delle libertà negative per accogliere anche i diritti sociali ed economici, il cui riconoscimento coincide con l’impegno dello Stato a procedere al miglioramento delle condizioni dei propri cittadini secondo i dettami dello stato sociale che, nella declinazione turca, si conforma all’interpretazione anglosassone del concetto di welfare state103. Pur se presenti nella parte relativa alle disposizioni economiche e fiscali in materia di sviluppo, alcuni articoli aprono anche alla tutela del diritto all’ambiente, prevedendo norme sullo sfruttamento delle risorse naturali (art. 130) e sulla preservazione del patrimonio forestale (art. 131). Una riflessione può essere condotta, infine, circa gli aspetti formali della Costituzione. Il Testo, infatti, si mostra più “strutturato” delle precedenti costituzioni, con una accorta suddivisione per capitoli e sezioni e una indicazione dei titoli degli articoli. Secondo alcuni autori, la scelta 102

Al riguardo, si veda C. DECARO, I bicameralismi nell’Unione europea, in C. DECARO (a cura di), Bicameralismo in discussione: Regno Unito, Francia, Italia. Profili comparati, Luiss University Press, Roma, 2008, pp. 7-39, spec. pp. 11-17. 103 R. AYBAY, The Constitution and Judicial Review in Turkey, contributo presentato in occasione del Simposio internazionale organizzato per il centenario dell’Associazione degli Avvocati di Istanbul, 5-9 aprile 1978, Istanbul, in Armağan Kanun'u Esası'mn 100. Yılı. Siyasal Bilgiler Fakültesi, 1978, pp. 331-350, spec. p. 336.

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di introdurre una disciplina più precisa delle materie costituzionali rappresenterebbe un’indicazione di ingegneria sociale, ossia un’espressione del desiderio di risolvere i problemi sociali del paese mediante una più attenta normazione104. Accanto alla Costituzione, è il sistema elettorale previsto a rappresentare lo strumento per la garanzia del pluralismo politico. La legge elettorale n. 298 del 26 aprile 1961, infatti, sostituisce il sistema maggioritario precedentemente in vigore con un sistema proporzionale temperato da una soglia di sbarramento al livello delle singole circoscrizioni. La Costituzione del 1961 e l’assetto liberale dello Stato da essa predisposto hanno tuttavia vita breve: paradossalmente, proprio il suo carattere liberale consente l’emersione sulla scena politica di partiti estremisti cui può addebitarsi il clima di instabilità del decennio successivo, all’origine di un ulteriore intervento militare. Il 12 marzo 1971, infatti, i militari intervengono con un memorandum che, pur non comportando l’effettiva presa del potere nelle mani dei Generali, provoca le dimissioni del Partito della giustizia, che all’epoca deteneva le funzioni di governo, e la nomina di un governo di tecnici che provvede a riformare ampiamente la Costituzione tra il 1971 e il 1973. Gli interventi principali al Testo consentono, da un lato, il rafforzamento dei poteri del Governo rispetto al Legislativo e, dall’altro, la limitazione di alcuni diritti in nome dell’ordine pubblico e dell’interesse nazionale. Anche queste “riforme”, tuttavia, non aumentano la stabilità politica e istituzionale: alle elezioni del 1973 l’emersione dei partiti estremisti, di destra e di sinistra, induce il Partito repubblicano a procedere a governi di coalizione particolarmente soggetti ai volatili accordi tra gli alleati; questa situazione aggrava la crisi economica, di cui approfitta l’estremismo curdo del Partito dei lavoratori curdo (Partiya Karkerên Kurdistan – PKK)105 per radicare la propria presenza sul territorio dell’Anatolia 104

R. AYBAY, op. cit., spec. p. 335. Il PKK è istituito il 27 novembre 1978 sotto la guida di Abdullah Öcalan allo scopo di guidare l’indipendentismo curdo. In ragione delle pratiche violente con cui tale 105

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orientale e avanzare le proprie rivendicazioni separatiste. Si palesa così una delle principali contraddizioni della Costituzione del 1961 che, pur essendo stata considerata la Costituzione più liberale nella storia del paese, ha di fatto contribuito all’affermazione dell’esercito come garante della democrazia. La permanente assenza di stabilità, infatti, lascia nuovo spazio ai militari e al colpo di Stato del 12 settembre 1980, organizzato dai Generali che compongono il Consiglio di Sicurezza Nazionale. È a quest’organo che si deve la nomina dell’Assemblea consultiva che procede alla redazione del testo costituzionale del 1982106, della legge sui partiti e della legge elettorale107 che portano al terzo ciclo costituzionale turco. In una prima fase, i militari assicurano la Presidenza al Generale Evren, amato dalla popolazione e rispettato dalle gerarchie militari, “assistito”, per un periodo di sei anni, dal Consiglio presidenziale, un organo consultivo che, con nuovo nome, ripropone il Consiglio di Sicurezza Nazionale. In questo periodo, inoltre, si attribuisce al Presidente il potere di veto sugli emendamenti costituzionali superabile solo con un voto contrario a maggioranza dei tre quarti della GANT108. Nella sua versione originale, la Costituzione del 1982 mantiene, con la sola eccezione del ritorno al monocameralismo, l’assetto istituzionale sancito dal Testo del 1961, ma i suoi riferimenti ai modelli stranieri servono per introdurre restrizioni alla tutela dei diritti. obiettivo è perseguito, soprattutto a partire dalla metà degli anni ’80, il partito è oggi inserito fra le organizzazioni terroristiche sia dall’Unione europea che dagli USA. 106 Come già accaduto per la Costituzione del 1961, anche in questa occasione il Testo viene sottoposto a referendum popolare, svoltosi il 7 novembre 1982. L’elevato livello di partecipazione (91,27% degli aventi diritto), tuttavia, non può essere imputato alla volontà della popolazione di esprimere la propria opinione circa il nuovo testo costituzionale quanto, piuttosto, alla disposizione della legge elettorale all’epoca vigente che sancisce la perdita del diritto di voto in caso di mancata partecipazione. Deve inoltre ricordarsi che il voto referendario è, in maniera decisamente peculiare anche per l’ordinamento turco, congiunto all’espressione della preferenza per la Presidenza del gen. Evren. Di fatto, dunque, votare “si” al referendum significa automaticamente votare affinché Evren, particolarmente popolare e amato dalla popolazione turca dell’epoca, mantenga la Presidenza della Repubblica per un periodo di sette anni. 107 Legge elettorale n. 2839 del 10 giugno 1983. 108 Si ritiene opportuno ricordare che il Presidente Evren non si è mai avvalso di questa possibilità.

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Costituzione lunga e dettagliata (176 articoli e 2 disposizioni provvisorie), essa è anticipata da un Preambolo in cui più pregnanti, se paragonati al Preambolo del 1961, sono i riferimenti al kemalismo. Atatürk, infatti, è considerato come «il capo immortale e l’eroe senza rivali» e lo spirito nazionalista, congiuntamente all’integrità territoriale dello Stato, è più volte ribadito. Similmente, l’art. 2 Cost., che riprende il medesimo articolo della Costituzione del 1961 e sancisce il carattere repubblicano, laico, improntato allo stato sociale, allo stato di diritto, alla solidarietà nazionale e alla giustizia nonché al rispetto dei diritti umani, conferma la lealtà della Turchia al nazionalismo di Atatürk. A sua volta, l’art. 3 ribadisce che la Turchia «con il suo territorio e la sua nazione rappresenta un’entità indivisibile»109. Rispetto alla Costituzione dei poteri, il Testo del 1982 non modifica l’adesione dell’ordinamento alla forma di governo parlamentare, facendone salvi i principali istituti: voto di fiducia, mozione di sfiducia, controllo dell’organo legislativo sull’operato del Governo. Analizzando quasi trent’anni di evoluzione delle istituzioni, tuttavia, è possibile notare come l’architettura istituzionale del paese sia passata dal modello assemblearistico, che pone al centro la Grande Assemblea Nazionale, a un modello incentrato sull’Esecutivo110: esempio per antonomasia di questa evoluzione sono il ruolo e le modalità di elezione del Presidente della Repubblica, di cui si dirà nel prossimo capitolo. Anche il nuovo sistema elettorale, introdotto nel 1983 e su cui ci soffermeremo in seguito, rappresenta un elemento caratterizzante di questa ulteriore fase costituzionale, essendo essenzialmente mirato a garantire la stabilità delle istituzioni limitando la possibilità di accesso dei partiti all’Assemblea. Sullo sfondo, la c.d. sintesi turco-islamica, una teoria politica elaborata negli ambienti della destra turca già negli anni ’70 e che viene trasposta dai militari nella nuova Costituzione. Questa teoria, pur rispettando formalmente i principi kemalisti, si propone di evitare possibili derive 109

Sul punto si ricorda che i primi tre articoli della Costituzione del 1982 sono immodificabili ai sensi dell’art. 4 della medesima. 110 M. CARDUCCI, B. BERNARDINI D’ARNESANO, Turchia, il Mulino, Bologna, 2008, p. 69.

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socialiste stabilendo uno stretto legame tra l’identità turca e l’Islam sunnita, i cui valori di base divengono lo strumento per delegittimare ogni possibile richiamo alla lotta di classe. Di fatto, questa visione altera l’identità prefigurata nel periodo kemalista, soprattutto poiché sostituisce ai richiami centro-asiatici e panturanici un costante riferimento all’Impero ottomano come età dell’oro e fonte di ispirazione111. 1.6 Il decennio riformista (2001-2010) L’impossibilità di conciliare il Testo del 1982 con gli impegni che la Turchia ha frattanto assunto nelle sedi internazionali e con le crescenti richieste di democrazia da parte della popolazione inducono i decisori politici ad avviare un intenso percorso di riforme che, pur sviluppandosi per fasi successive, dimostra l’intento univoco di ampliare le garanzie dei diritti112. Con la legge costituzionale dell’ottobre 2001113, infatti, si provvede a emendare l’art. 13 Cost. affinché la limitazione dei diritti e delle libertà fondamentali rispetti comunque la lettera e lo spirito della Costituzione, i principi di una società democratica e il principio di proporzionalità. Allo stesso modo, le coeve modifiche all’art. 14, che configurava l’impossibilità di esercitare i diritti e le libertà sanciti in Costituzione al fine di danneggiare l’integrità statale, di porre lo Stato sotto il controllo di una oligarchia, di stabilire il predominio di una classe sociale sulle altre o di creare discriminazioni all’interno della popolazione, fanno salvo il solo riferimento alla tutela dell’integrità statale. L’articolo novellato, inoltre, vieta l’esercizio dei diritti garantiti dalla Costituzione «allo scopo di danneggiare l’esistenza democratica e l’ordine secolare della Repubblica turca basato sui diritti umani», chiarendo che possono essere considerate 111

Sul punto si veda F. ÜSTEL, La synthèse turco-islamique entre traditionalisme et modernisme, in J. THOBIE, S. KANÇAL, Industrialisation, communication et rapports sociaux en Turquie et en Méditerranée orientale, L’Harmattan, Paris, 1994, pp. 387-400. 112 Per ulteriori approfondimenti circa l’evoluzione della tutela dei diritti nella Costituzione del 1982 sia consentito rinviare al mio contributo in F. PIAZZA, V.R. SCOTTI, La Turchia: un processo costituzionale continuo, in C. DECARO BONELLA (a cura di), Itinerari costituzionali a confronto, cit., pp. 27-131, spec. par. 1.5. 113 Cfr. Legge costituzionale n. 4709 del 3 ottobre 2001.

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come lesive dei diritti umani le attività compiute sia dagli individui che dallo Stato114. Ancora, l’art. 15, emendato nel 2001 e nel 2004, dispone, in caso di guerra o a seguito della dichiarazione dello stato di emergenza, «la possibilità di sospendere parzialmente o per intero i diritti fondamentali e le libertà, o, se richiesto dalle circostanze, di derogare alle garanzie previste dalla Costituzione», ma sempre nel rispetto dei trattati internazionali in materia di diritti umani115. Si aggiunga che l’art. 17, anch’esso emendato nel 2004, sancisce l’inviolabilità della persona, dell’«entità materiale e spirituale dell’individuo», e prevede che «nessuno possa essere sottoposto a tortura, a punizioni o trattamenti incompatibili con la dignità umana»: unica deroga prevista al diritto alla vita riguarda «l’uccisione per legittima difesa o come risultato del legittimo uso di armi da parte della forza pubblica durante l’arresto, l’esecuzione di mandati, la prevenzione della fuga nonché le attività volte a reprimere rivolte o insurrezioni o nel corso di esecuzione di ordini emanati dalle autorità in caso dello stato di stato di emergenza o di legge marziale» (art. 17, c. 4). A garanzia della libertà e sicurezza personale, inoltre, i termini per la custodia cautelare sono abbreviati e portati alle quarantotto ore previste dalla CEDU (art. 19). L’adeguamento alle norme CEDU in materia di tutela della dignità umana porta, mediante le riforme costituzionali del 2002 e del 2004, all’abolizione della pena di morte (art. 38), mentre a seguito della sottoscrizione del Trattato istitutivo della Corte penale internazionale, il novellato art. 38 prevede che il cittadino turco possa essere estradato solo in conformità allo Statuto della Corte. Va rilevato che le revisioni costituzionali al catalogo dei diritti incidono anche sulla tutela formale degli stessi. Nel 2001, infatti, il quinto capoverso del Preambolo, in base al quale «nessuna protezione sarebbe stata accordata ai pensieri e alle opinioni contrarie all’interesse nazionale …» è modificato sostituendo «i pensieri e le opinioni» con «le azioni», ad 114

Con riferimento a questo articolo, peraltro, può ricordarsi come esso ricalchi in maniera fedele l’art. 17 della CEDU. 115 Cfr. M. MISTÒ, Turchia: approvate numerose modifiche costituzionali volte a rafforzare la tutela dei diritti fondamentali e lo stato di diritto, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 3, 2004, p. 1303.

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indicare che non si intende porre vincoli ai pensieri e che le sanzioni possono riguardare solo le azioni. In materia di libertà di espressione, peraltro, la riforma del 2001 interviene per riconoscere, sia pure parzialmente, il pluralismo linguistico: come novellati, l’art. 26 consente limitati, e ben disciplinati, utilizzi di lingue differenti dal turco, con un riferimento implicito alla lingua curda116, mentre l’art. 28 sulla libertà di stampa non contiene più il riferimento al divieto di pubblicare in lingue proibite dalla legge. Da ultimo, l’art. 31, concernente l’utilizzo di mezzi di comunicazione diversi dalla stampa, limita tale diritto nei soli casi di minaccia alla sicurezza nazionale, all’ordine, alla morale e alla salute pubblica. Nel 2004, infine, le garanzie per il pluralismo nell’informazione sono ampliate rispetto ai casi di sequestri e confische per presunti crimini contro l’integrità dello Stato (art. 30). Le revisioni costituzionali incidono notevolmente anche sulla tutela dei diritti politici – limitabili solo nei già richiamati casi in cui sia necessario «proteggere la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico, prevenire i crimini, proteggere la morale pubblica e la salute pubblica» – e sull’attività dei partiti (art. 69 emendato nel 1995, nel 2001 e, da ultimo, nel 2010). Già la revisione del 1995 ha abrogato i divieti allo svolgimento di attività politica da parte di associazioni commerciali, fondazioni, cooperative e organizzazioni professionali di diritto pubblico per rendere possibile la collaborazione tra tali soggetti e i partiti politici. Al contempo, la riforma ha riconosciuto il diritto di voto ai cittadini turchi residenti all’estero e il diritto di sciopero ai pubblici impiegati. Ripristinando norme della Costituzione del 1961, inoltre, essa reintroduce il diritto dei docenti universitari e degli studenti delle scuole superiori di iscriversi ai partiti politici; lo stesso diritto è esteso in generale a tutti i maggiorenni. Per i partiti, peraltro, diviene possibile fondare sezioni interne dedicate alle donne, ai giovani, nonché fondazioni e sedi all’estero. Inoltre, con le riforme costituzionali del 2001, del 2004 e del 116

Sui limiti alla libertà di espressione, si ricorda che l’art. 301 del Codice penale sanziona con la detenzione l’offesa alle istituzioni della Repubblica e all’identità turca, mentre l’art. 125 del medesimo Codice, riprendendo in forma attenuata i divieti dell’art. 175 del Codice precedentemente in vigore, punisce l’insulto alle credenze religiose con la prigione da sei mesi a due anni. Da ultimo, la legge del 31 luglio 1951 sui crimini commessi contro la figura di Atatürk punisce con la reclusione da 1 a 3 anni chiunque insulti la memoria dello statista.

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2010 la disciplina per lo scioglimento dei partiti, di cui si dirà, diventa meno rigida e più garantista. Con riferimento ai diritti sociali, la famiglia è definita il «cardine su cui poggia la società turca» e spetta allo Stato impegnarsi per garantirne il benessere (art. 41), con una specifica attenzione alle necessità della madre e del fanciullo, la cui educazione primaria è obbligatoria (art. 42). I diritti dell’infanzia, così come quelli degli anziani e dei disabili, sono ulteriormente rafforzati in occasione della riforma costituzionale del 2010 (art. 10 e 41 Cost.). Quanto ai diritti economici si afferma il diritto-dovere al lavoro (art. 49) e si disciplinano la formazione e le attività dei sindacati «al fine di salvaguardare e sviluppare i diritti sociali ed economici e gli interessi nelle relazioni lavorative dei propri membri» (artt. 51 e 52), riconoscendo il diritto alla contrattazione collettiva (art. 53). Nel 2010 le disposizioni che consentono di limitare il diritto allo sciopero (art. 54) sono abrogate e le garanzie in favore dei dipendenti pubblici sono ampliate. Al riguardo si è infatti istituito il Consiglio arbitrale per gli impiegati pubblici, incaricato di giudicare le controversie tra la pubblica amministrazione e gli impiegati pubblici; si è aperta loro la possibilità di ricorrere in giudizio contro le sanzioni emesse nei propri confronti (art. 129) e di iscriversi ai sindacati (art. 53). Il referendum costituzionale del 2010, infine, introduce il diritto alla privacy (art. 10), nella sua formulazione di matrice anglosassone117, il ricorso diretto presso la Corte costituzionale per violazione dei diritti (art. 148) e un ombudsman (art. 74), quale organo dipendente dalla Grande Assemblea Nazionale e competente ad accertare le violazioni dei diritti dei cittadini commesse dall’amministrazione118. 117

In merito a questo diritto si segnala anche la Parte IX (artt. 132-139) del Codice penale, che prevede specifiche sanzioni per la violazione della privacy. 118 Circa questa istituzione è interessante notare come la Turchia rifletta da tempo sulla possibilità di introdurla nell’ordinamento, cfr. O. BAYLAN, Vatandasin devlet yonetimi hakkindaki sikayetleri ve Turkiye icin Isvec ombudsman formulu (I ricorsi dei cittadini contro l’amministrazione pubblica e il modello dell’ombudsman svedese per la Turchia), Icisleri Bakanligi Tetkik Kurulu, Ankara 1977. Un primo tentativo concreto

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Il decennio riformista non riguarda solo il testo costituzionale, ma, soprattutto dal momento dell’ascesa al potere dell’Adalet ve Kalkınma Partisi (AKP – Partito della Giustizia e dello Sviluppo), vede svilupparsi progressive riforme che incidono sull’economia turca e, come si vedrà, pongono le premesse per la crescita economica con cui la Turchia ha salutato l’inizio del secondo decennio del XXI secolo. 2. I cambiamenti sociali e le risposte costituzionali Per comprendere le ragioni che hanno condotto al c.d. decennio riformista e che rappresentano le premesse per il tentativo costituente avviato nel 2011 e conclusosi senza esiti nel 2014, è opportuno considerare l’evoluzione della società civile e la progressiva emersione di forze politiche di ispirazione islamico-moderata le quali, lungi da porsi come mero baluardo del conservatorismo, hanno rappresentato e rappresentano un importante motore di pluralismo e dinamismo. La spinta riformatrice della società civile, da un lato, e il desiderio delle forze islamico-moderate ormai saldamente al Governo dal 2002 di ottenere un riconoscimento, anche internazionale, della propria capacità di rispettare i principi democratici sono all’origine di un costante tentativo costituente, dapprima esplicitatosi nelle successive riforme della Costituzione del 1982, di cui si è già detto, e quindi inveratosi nell’istituzione di una apposita Commissione parlamentare con funzioni costituenti, che, pur non essendo riuscita a completare il proprio lavoro, rappresenta una solida premessa da cui far ripartire il dibattito. risale 15 giugno del 2006, quando la Grande Assemblea Nazionale approva la legge sull’istituzione dell’Ombudsman pubblico n. 5521. Il 1 luglio 2006, tuttavia, l’entrata in vigore della legge viene fermata dal veto del Presidente Sezer, il quale rinvia il testo alla GANT ritenendo incostituzionale l’istituzione di un organo dipendente dal potere legislativo competente a esprimersi sulla legittimità di atti della pubblica amministrazione. La riapprovazione del medesimo testo, il 26 settembre 2006, costringe il Presidente a firmare la legge, che entra in vigore il 13 ottobre 2006. Facendo valere il proprio diritto di ricorso alla Corte costituzionale, però, il Presidente chiede un controllo di costituzionalità dell’atto; il 4 aprile 2009, i giudici costituzionali ritengono incostituzionale la legge (cfr. E. SAYGIN, Improving Human Rights through Non-judicial National Institutions: the Effectiveness of the Ombudsman Institution in Turkey, in European Public Law, 3, 2009, pp. 403-428).

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2.1 L’evoluzione del pluralismo sociale La sivil toplum (società civile) turca si compone di differenti anime119, sempre più inclini a sostenere il processo di democratizzazione del paese, ma all’interno delle quali non mancano i sostenitori del tradizionalismo euro-scettico e nazionalista120. Ciò che si segnala, in generale, è la vivacità e il dinamismo dei gruppi sociali. Esemplificativo è il caso delle vakıflar (fondazioni), portato della tradizione ottomana e interessate soprattutto alla gestione degli aspetti religiosi e dell’educazione. Esse svolgono un ruolo di primo piano nella mediazione con i decisori politici in merito alle questioni in cui più presente è il legame con le tradizioni religiose; in particolare, le vakıflar espressione delle comunità non musulmane, come si evidenzierà in seguito, proprio in ragione dei loro profili di interesse e a causa della peculiare concezione turca di laicità, sono tra le principali artefici dell’evoluzione del diritto di proprietà, in cui tanta parte ha avuto anche il Consiglio d’Europa. Un ruolo di rilievo è attribuito anche ai sendikalar (associazioni dei lavoratori e degli studenti universitari). L’attività dei sendikalar nel consolidamento del ruolo della società civile può essere fatto risalire alla fine degli anni ’60. In quel periodo, infatti, le università divengono un luogo di dibattito politico e di organizzazione della contestazione che rappresenta il collante per il movimento studentesco che, sulla scia del maggio francese del 1968, si compatta nelle proteste contro la NATO e

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Per una analisi, anche statistica, circa i gruppi di interesse in Turchia all’indomani della Costituzione del 1982 e l’influenza che essi hanno sulla transizione del paese, si vedano R. BIANCHI, Interest Groups and Political Development in Turkey, Princeton University Press, Princeton, 1984 e F. TACHAU, Turkey: the Politics of Authority, Democracy and Development, Praeger Publisher, New York, 1984. 120 Per una analisi che consideri anche i riflessi sociologici dell’evoluzione della società civile turca, si veda H. SECKINELGIN, Contraction of a Sociocultural Reflex. Civil Society in Turkey, in M. GLASIUS, D. LEWIS, H. SECKINELGIN (a cura di), Exploring Civil Society. Political and Cultural Context, Routledge, London, 2004, pp. 173-180.

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gli Stati Uniti121. Come in molti Stati europei, la protesta studentesca si fonde con quella del movimento operaio, cui nel 1963 era stata data autorizzazione per la formazione dei sindacati. Anche nei confronti degli operai, tuttavia, l’atteggiamento dello Stato si è rivelato spesso ambiguo: al consenso per l’istituzione dei sindacati, ad esempio, fa da contraltare, dieci anni dopo, la repressione della manifestazione per il 1° maggio 1977, quando nella piazza Taksim di Istanbul vengono uccise 34 persone. Sin da quel momento la piazza diviene il luogo prescelto per la manifestazione del dissenso e le associazioni dei lavoratori continuano ad organizzare lì le dimostrazioni per la festa dei lavoratori, anche quando non autorizzate. Il diritto di sciopero connesso alla partecipazione alle attività dei sindacati, peraltro, segna un ulteriore momento di confronto fra la Repubblica di Turchia e la Corte di Strasburgo che chiarisce più volte come il diritto di sciopero rappresenti una delle principali declinazioni del diritto all’associazione sindacale122, che deve essere riconosciuto anche ai funzionari pubblici123. La normativa turca in materia di sciopero e partecipazione all’attività dei sindacati per i funzionari pubblici turchi, peraltro, fornisce alla Corte l’occasione per una interpretazione evolutiva della Convenzione. Nel caso Karaçay124 la Corte precisa che le sanzioni disciplinari imposte a carico dei funzionari che partecipano alle attività sindacali – nel caso specifico si tratta di una giornata di sciopero – sono considerabili come una violazione dell’art. 11 giacché contribuiscono a «dissuadere i membri dei sindacati dal partecipare legittimamente alle giornate di sciopero o alle azioni per la difesa degli interessi dei propri affiliati». La libertà sindacale è ulteriormente arricchita di contenuto con la decisione Demir e Baykara125, 121

Le manifestazioni di protesta sono particolarmente dure in occasione dell’arrivo della VI flotta NATO a Istanbul sia nel 1968 sia nel 1969, quando gli scontri fra gli studenti, la polizia e alcuni gruppi di destra portano alla morte di due giovani nella c.d. Kanlı Pazar (domenica di sangue). Sul punto si veda L. NOCERA, La Turchia contemporanea. Dalla repubblica kemalista al governo dell’AKP, Carocci, Roma, 2011, pp. 65-66. 122 Si veda la decisione nell’affaire Karaçay, 27 marzo 2007, n. 6615/03, confermata nella pronuncia Saltimis e alt. c. Turchia, 17 luglio 2007, n. 74611/01, 26876/02 e 27628/02. 123 Eneji Yapi-Yol Sen c. Turchia, 21 aprile 2009, n. 68959/01. 124 Karaçay c. Turchia, 27 marzo 2007, n. 6615/03. 125 Demir e Baykara c. Turchia, 12 novembre 2008, n. 34503/97.

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in cui si fa rientrare il diritto alle negoziazioni collettive nell’ambito delle attività sindacali. Nel caso in questione, la Turchia è condannata per violazione dell’art. 11 a causa delle ingerenze cui i ricorrenti, dei funzionari municipali, sono sottoposti nell’esercizio del legittimo diritto di fondare sindacati. Di fatto, la necessità di adeguare la burocrazia statale, tradizionalmente fedele ai principi del kemalismo, con il volto della Turchia del XXI secolo è ben evidente sia per quel che riguarda i diritti dei lavoratori pubblici sia relativamente alla capacità di questi ultimi di adempiere ai propri doveri. Rispetto al primo punto, è la riforma costituzionale del 2010 a introdurre nell’ordinamento il diritto di sciopero, di associazione sindacale e di contrattazione collettiva per i dipendenti pubblici. Quanto alla percezione che la burocrazia ha di sé126, basti citare le motivazioni che accompagnano un progetto di legge per la riforma dell’apparato burocratico statale avanzato nel 2003 da 43 deputati e accantonato in seguito al veto del Presidente Sezer, il quale ritiene tale progetto in contrasto con il principio di unità dello Stato. I proponenti evidenziano, infatti, come la burocrazia statale turca «è tradizionalmente autoritaria e oppressiva» e i suoi esponenti, anche dei livelli più bassi, «non si considerano al servizio dei cittadini ma rappresentanti dello Stato»127. Particolarmente influenti per la disciplina e l’evoluzione della tutela dei diritti umani si sono rivelati i barolar (ordini degli avvocati), che si battono soprattutto per la tutela dei diritti delle minoranze e per il riconoscimento dell’uguaglianza di genere. L’associazionismo di genere, del resto, ha un ruolo fondamentale per il miglioramento della condizione 126

La presenza di un forte apparato burocratico induce gli analisti a ritenere che in Turchia non possa proporsi una distinzione fra ideologie di destra o di sinistra quanto piuttosto tra ideologie democratiche o burocratiche. Così A. MANGO, The State of Turkey, in Middle Eastern Studies, 13, 1977, pp. 261-274, spec. p. 265. Al riguardo, anche E.D. AKARLI, The State as a Socio-Cultural Phenomenon and Political Participation in Turkey, in E.D. AKARLI (a cura di), Political Participation in Turkey: Historical Background and Present Problems, Boğazçi University Press, Istanbul, 1975, pp. 137-155, propone una distinzione fra élite burocratiche e anti-burocratiche. 127 Cfr. Resoconto della Grande Assemblea Nazionale Turca del 4 giugno 2003, www.tbmm.gov.tr.

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delle donne del paese. Già nel 1975 la Ilerici Kadınlar Derneği (Associazione delle donne progressiste) avvia forti sinergie con il Partito comunista illegale e con alcune associazioni femministe straniere per indurre il Governo alla ratifica, nel 1985, della Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW). Si tratta di una notevole evoluzione rispetto alle “associazioni celebrative”128 che sino ad allora hanno coinvolto le donne e che dimostra una importante capacità di lobbying di cui le associazioni usufruiranno, sostenute dalla Corte di Strasburgo e dalle condanne per violazione dei diritti delle donne che essa emana, per guidare la Grande Assemblea Nazionale verso l’introduzione di norme a tutela delle donne e in occasione della riforma del Codice civile nel 2001 e del Codice penale nel 2004. Influenti sono anche le odalar (associazioni di settore), che, in quanto espressione del mondo economico, hanno progressivamente sviluppato una capacità di impatto sulle decisioni politiche proprio per la loro importante influenza sulla gestione dell’economia del paese. L’élite economica turca, mostratasi tradizionalmente incline al mantenimento dello status quo e della stabilità anche nei periodi in cui tale mantenimento significa sostenere l’autoritarismo, segue un nuovo corso a partire dagli anni ’70 del Novecento. In quegli anni, infatti, l’Associazione degli Industriali e Imprenditori Turchi (Türk Sanayicileri ve İşadamları Derneği – TÜSIAD), avvia una intensa campagna per sostenere l’idea che una maggiore democraticità del sistema comporti anche un miglioramento del benessere economico del paese 129. Tale 128

L’espressione si rinviene in S. TEKELI, Les femmes: le genre mal-aimé de la République, in S. VANER (a cura di), La Turquie, Fayard-Ceri, Paris, 2005, pp. 251-282, spec. p. 270. Essa è utilizzata con riferimento a quelle associazioni non politiche, come l’Associazione delle madri o l’Associazione delle donne laureate, che sin dagli anni ’50 mostrano il proprio attivismo solo in occasioni celebrative come la Festa della Repubblica. 129 Sul punto si veda Z. ÖNIS, U. TÜREM, Entrepreneurs, Democracy and Citizenship in Turkey, in Journal of Comparative Politics, 34, 2002, pp. 439-456, in cui si mette in evidenza come il crescente interesse del mondo imprenditoriale turco per la democrazia sia dovuto ad un insieme di fattori tanto endogeni, giacché l’aumento della democrazia consente una limitazione agli interventi statali arbitrari nell’economia del paese, quanto esogeni, vista l’apertura ai nuovi mercati che l’accreditamento quale Stato democratico consente.

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interesse aumenta nel decennio riformista, cui la TÜSIAD partecipa promuovendo, ad opera di professori ed esperti130, l’elaborazione di numerosi report di analisi sulle prospettive di miglioramento del sistema che l’aumento della democrazia comporterebbe, in cui si cerca di porre in luce la necessità di un più accorto rispetto, sia formale che sostanziale, dei diritti umani e di limitare le ingerenze statali nella sfera economica e in quella privata131. Nonostante sia possibile evidenziare un contrasto, anche generazionale, che oppone il conservatorismo dei membri più anziani dell’associazione ai soci giovani, la TÜSIAD ha ormai avviato un processo di scambi e di incontri con le omologhe associazioni europee tanto da poter essere considerata «the most vocal force within civil society and possibly the polity at large to push in the direction of the extension of civil and human rights as well as the establishment of a transparent and accountable State»132. Una voce, peraltro, particolarmente ascoltata dal mondo politico, se si considera che essa rappresenta il cuore del sostegno al Governo dell’AKP, cui costantemente ricorda la promessa elettorale di procedere all’approvazione di una nuova Costituzione che consenta al mondo economico di sfuggire dallo statalismo imposto dai militari nel 1982 e, più in generale, il consolidamento di una democrazia effettiva. Circa questo tipo di associazioni, peraltro, deve ricordarsi l’istituzione, nel 1990, della Müstakil Sanayici ve İşadamları Derneği (Associazione degli Industriali Indipendenti e degli Imprenditori – MÜSIAD), una ulteriore associazione di industriali non provenienti dalla burocrazia cittadina, ministeriale e militare, legata al kemalismo, il cui attivismo è all’origine del fenomeno delle c.d. tigri anatoliche. Questa associazione ha mostrato di essere particolarmente propensa a sostenere l’AKP in 130

Si considerino, a titolo esemplificativo, i report Türkiye’de demokratikleşme perspektifleri (Prospettive di democratizzazione in Turchia) del 1997, Türkiye’de demokratik standartların yükseltilmesi (Accrescimento degli standard democratici in Turchia) del 1999, Türk Demokrasısı’nde 130 yil 1876-2006 (130 anni di democrazia turca 1876-2006) del 2006. 131 È questo, nello specifico, il contenuto del report Türkiye’de demokratikleşme perspektifleri (Prospettive di democratizzazione in Turchia) del 1997. 132 Cfr. Z. ÖNIS, U. TÜREM, op. cit., p. 450.

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ragione delle politiche economiche che esso persegue e che hanno consentito agli imprenditori del terziario, che negli anni ’90 fondarono banche e istituti finanziari privati, di superare la crisi di fine Novecento e di dare vita alla sostenuta crescita economica dell’ultimo decennio133. Da ultimo, vanno considerate le hemşeri dernekleri (associazioni dei cittadini), ossia quelle associazioni, non sempre ufficiali, né individuate da un preciso statuto e riconosciute dallo Stato, che rappresentano il naturale nucleo attorno a cui si riuniscono i c.d. migranti interni, che raggiungono le grandi città dalle province periferiche. Pur nella loro “fluidità”, queste associazioni rappresentano il primo e più naturale luogo di discussione politica e di consolidamento di un eventuale dissenso con riferimento ai nutriti gruppi di individui che migrano all’interno del paese alla ricerca di migliori condizioni di vita. Per la loro informalità, a questi gruppi possono assimilarsi i kahvehane (caffè), luoghi di ritrovo prevalentemente maschile che sin dall’epoca ottomana consentono momenti di confronto fra le alte classi della società e che ancora oggi sembrano rappresentare i luoghi più adatti agli incontri “informali” fra professionisti, imprenditori, intellettuali e classe politica134. Nell’analisi della società civile turca, infine, occorre tenere conto del ruolo di gruppo di pressione che esercitano i musulmani ortodossi, anche geograficamente distanti dal resto della popolazione per la loro scelta di costruire gated communities in lussuosi quartieri ai margini delle città. Se un tempo questa scelta di emarginazione volontaria poteva considerarsi un segnale della polarizzazione della società civile, oggi non è più così e sempre più “vivace” è il dibattito fra gli ortodossi e i liberali. Quanto sin qui detto mostra come la società civile turca abbia avuto uno sviluppo costante nel corso della seconda metà del Novecento, in una posizione fortemente dialettica con uno Stato forte, che non sempre ne ha facilitato l’emersione135. Possono tuttavia individuarsi alcuni momenti storici che hanno particolarmente segnato il rapporto Stato-società, invogliando la 133

Rispetto a questo punto, si veda anche M. CARDUCCI, B. BERNARDINI Turchia, cit., p. 18. 134 Si veda U. KÖMENÇOĞLU, New Sociabilities: Islamic Cafè in Istanbul, in N. GÖLE, L. AMMAN (a cura di), Islam in Public. Turkey, Iran and Europe, Bilgi University Press, Istanbul, 2006, pp. 163-190. 135 M. HEPER, The State tradition in Turkey, cit., p. 16. D’ARNESANO,

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popolazione a un maggiore impegno civile. Una effettiva presa di coscienza della capacità aggregativa probabilmente si verifica grazie agli incontri fra più di mille ONG turche e straniere svoltesi nel giugno 1996 a margine della Conferenza internazionale dell’ONU Habitat II ad Istanbul136. Lo scandalo Susurluk137 del 3 novembre 1996 viene quindi accolto con una manifestazione che coinvolge l’intera società civile: la popolazione delle grandi città per un mese dà vita all’iniziativa “Un minuto di buio per una trasparenza duratura”. Anche il terremoto del 1999 che colpisce la regione di Marmara segna una nuova svolta per il consolidamento della società civile: proprio la pronta reazione delle organizzazioni volontarie consente di porre rimedio, nel supporto ai terremotati, all’impreparazione e ai ritardi dell’intervento dello Stato138. Dal lato dello Stato, è il decennio riformista a modificare profondamente il rapporto con l’associativismo. La legge n. 5231 del 17 giugno 2004, infatti, modifica la legge n. 2908 del 6 ottobre 1983 139 per eliminare i divieti all’istituzione di associazioni che riconoscono l’esistenza di minoranze razziali, linguistiche, religiose, confessionali e culturali o che si propongano come obiettivo la diffusione di lingue o 136

Sulla rilevanza di questo evento per la società civile turca si veda G. GROC, La “société civile” turque entre politique et individu, in CEMOTI, 26, 1998, p. 9, http://cemoti.revue.org. 137 Lo scandalo segue un incidente stradale in cui sono coinvolti alcuni deputati, un capo della polizia, un esponente dei Lupi grigi (partito politico nazionalista) ricercato per terrorismo. L’incidente, infatti, dà prova concreta delle connivenze fra le organizzazioni sovversive e la politica, nonché dell’elevato livello di corruzione da essa raggiunto (Cfr. E. BERBEROĞLU, Susurluk. 20 yillik domino oyunu (Susurluk. Venti anni di dominio), İletişim, Istanbul, 1997; F. BOVENKERK, Y. YEŞILGÖZ, The Turkish Mafia and the State, in C. FIJNAUT, L. PAOLI (a cura di), Organized Crime in Europe: Concepts, Patterns and Control Policies in the European Union and Beyond, Springer, The Hague, 2004, pp. 585-602). 138 Cfr. L. NOCERA, La Turchia contemporanea. Dalla repubblica kemalista al governo dell’AKP, cit., p. 79. 139 Per una panoramica circa l’evoluzione del regime giuridico delle associazioni in Turchia precedentemente alle riforme che qui si discutono, si rinvia a İ.Ö. KABOĞLU, Le régime juridique des associations en droit turc, in Revue française de droit administratif, 7, 1991, pp. 301-308.

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culture diverse da quella turca. Essa, inoltre, semplifica la disciplina delle attività estere delle associazioni fondate in Turchia, consente l’esercizio nel paese delle attività delle associazioni fondate all’estero e riconosce la libertà di associazione anche per i funzionari pubblici e gli studenti. La medesima riforma del 2004 provvede infine a semplificare le procedure di istituzione delle associazioni, trasferendo la competenza per il rilascio dell’autorizzazione dalle autorità di pubblica sicurezza al Ministero dell’Interno; in tale Ministero viene istituito, peraltro, il Dipartimento per le Associazioni, cui si attribuisce il compito, precedentemente spettante alla polizia, di gestire tutte le questioni legate alle associazioni. Anche gli artefici della nuova fase costituente sembrano consapevoli del ruolo ormai acquisito dalla società civile e scelgono di coinvolgere direttamente i cittadini, che si associano sempre più frequentemente in ONG il cui scopo risiede principalmente nella mobilitazione in favore dell’aumento degli standard di tutela dei diritti umani e a sostegno dei diritti delle minoranze del paese140. Nella formazione di questa nuova coscienza civile, peraltro, non possono ignorarsi i c.d. turchi bianchi, ossia quegli emigrati negli Stati europei, prevalentemente in Germania o in Francia, che ne hanno progressivamente assimilato i tratti culturali più marcati tentando quindi di trasferirli al proprio Stato di provenienza141. 2.2 La trasformazione del sistema dei partiti: l’Adalet ve Kalkınma Partisi «Il 3 novembre 2002 ha segnato la fine della vecchia classe politica turca. I gerontocrati novantenni o i più giovani sessantenni sono stati spazzati via»142 dall’avanzata dell’Adalet ve Kalkınma Partisi, un partito nuovo ma dalle profonde radici, il cui ruolo nella vita politica della 140

Sul punto si rinvia allo studio presente in E.E. GÜLZDERE, Civil Society, Human Rights and the Kurdish Question, presentato il 24 maggio 2009 al Convegno SHUR svoltosi presso l’Università LUISS “Guido Carli”, www.luiss.it/shur, in cui si evidenzia come dall’assenza di ONG nel 1983 si sia passati, ad una rilevazione del maggio 2009, a 81.713 organizzazioni non governative operanti sul territorio turco. 141 Una visione critica rispetto a questo ruolo dell’emigrazione si rinviene in H. BOZARSLAN, La Turchia contemporanea, cit., pp. 95-96. 142 Ibidem, p. 106.

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Turchia dell’ultimo decennio merita di essere analizzato per comprendere tanto le evoluzioni istituzionali quanto quelle sociali di questo complesso Stato. L’AKP nasce il 14 agosto 2001 dal disciolto Refah Partisi (Partito della Prosperità – RP) come espressione dei c.d. innovatori (yenilikçiler) che, guidati da Recep Tayip Erdoğan e da Abdullah Gül, propongono un programma improntato ai principi della destra liberale143 che s’ispira a principi islamici, ma non assume la retorica dei precedenti partiti religiosi. L’AKP, infatti, si richiama più al pensiero politico di ispirazione religiosa di tradizione occidentale, e in particolare ai cristiano-democratici tedeschi e italiani144, che alle idee dei pensatori islamici classici, come Al-Banna o Qutb. Queste differenze rispetto ai precedenti partiti “islamici” della Turchia, peraltro, sono frequentemente evidenziate dagli stessi membri dell’AKP, che preferiscono definirsi fautori di un conservatorismo democratico145 più che espressione dell’Islam politico turco e che rifuggono dalla definizione di musulmani democratici, preferendo evitare l’utilizzo di termini religiosi per l’individuazione dei propri connotati politici. Questo partito, inoltre, appare sulla scena politica mostrando un approccio dichiaratamente filo-europeo, contrapponendosi anche in questo sia alle tradizioni nazionaliste dei partiti che hanno retto il potere sino a quel momento146 sia ai partiti islamici che hanno sostenuto 143

È opportuno ricordare, tuttavia, che gli esponenti dell’AKP mostrano una certa riluttanza a utilizzare l’aggettivo “liberale” per qualificare il programma del proprio partito, probabilmente perché l’opinione pubblica turca tende ad associarlo ad atteggiamenti permissivisti e lassisti (cfr. W. HALE, E. ÖZBUDUN, Islamic, Democracy and Liberalism in Turkey. The Case of the AKP, Routledge, London-New York, 2010, spec. p. 24). 144 Cfr. Ö. ÇAHA, Turkish Election of November 2002 and the Rise of “Moderate” Political Islam, in Alternatives. Turkish Journal of international relations, 2, 2003, pp. 95-116. 145 Si veda H. TURUNC, Islamicist or Democratic? The AKP’s Search for Identity in Turkish Politics, in Journal of Contemporary European Studies, 15, 2007, pp. 79-91. 146 Per un approfondimento del programma politico dell’AKP e delle trasformazioni sociali che hanno consentito la sua ascesa, si veda R. AHMADOV, Counter

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l’incompatibilità tra l’Occidente e l’Islam e che vedono nel ripudio dei valori occidentali l’unico strumento per ripristinare la grandezza della Turchia a livello internazionale. Il consolidamento della democrazia pare dunque il principale “cavallo di battaglia” di questo partito, che fa tesoro dell’esperienza del “28 febbraio”147 per comprendere quanto la concezione occidentale di democrazia possa consentire una maggiore tutela soprattutto a coloro che intendono contrapporsi, in Turchia, alla rigida tradizione secolare del paese. Quanto detto sin qui non significa, tuttavia, una negazione dei principi religiosi o un’assenza di influenza di questi ultimi sulle opzioni politiche dell’AKP, quanto piuttosto una manifestazione della volontà di prendere le distanze dai tratti più estremisti dell’Islam politico, accogliendo una visione più moderata e rispettosa dei valori e delle istituzioni democratiche. Ciò pare confermato anche dai programmi politici e dalle piattaforme programmatiche proposte dal partito in occasione delle elezioni politiche del 2002 e del 2007. Al di là delle radici religiose, infatti, i manifesti elettorali dell’AKP includono continui riferimenti ai valori universali della democrazia, dei diritti umani, dello stato di diritto, del pluralismo, della tolleranza e del rispetto della diversità148. Lo stesso testo costituente del partito descrive la Repubblica come il traguardo più importante raggiunto dalla nazione turca e afferma che «il partito considera la volontà popolare, lo stato di diritto, la ragione, la scienza, l’esperienza, la democrazia, i diritti e le libertà fondamentali come le principali linee guida per la sua concezione di governo. […] L’AKP rispetta le differenze tra le persone, in termini di credenze, razza e lingua, Transformation in the Center and Periphery of Turkish Society and the Rise of the Justice and Development Party, in Alternative. Turkish journal of International relations, 7, 2008, pp. 15-35. 147 È questa l’espressione solitamente utilizzata per ricordare la decisione del 28 febbraio 1997 con cui il Consiglio di Sicurezza Nazionale avvia una vera e propria battaglia istituzionale contro i partiti e i movimenti di ispirazione religiosa, che culmina con le dimissioni del Presidente del Consiglio Necmettin Erbacan, eletto tra le fila del Refah Partisi. 148 Si vedano le piattaforme programmatiche Herşey Türkiye Için (Tutto per la Turchia) e Nice Ak Yillara (Verso molti anni splendenti) rispettivamente presentati dall’AKP nel 2002 e nel 2007.

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garantisce la libertà di espressione e di associazione […] Lo Stato non deve favorire o ostacolare qualsiasi forma di pensiero, e i principi costituzionali del secolarismo e dell’eguaglianza di fronte alla legge garantiscono tali libertà». Non può tuttavia negarsi che l’approvazione di norme finalizzate a ridurre il consumo di alcol e di tabacco e gli interventi per la rimozione del divieto di indossare il velo sembrano sostenere la teoria dell’opposizione kemalista circa l’esistenza di una hidden agenda per il ripristino della legge sharaitica149. L’affermazione politica dell’AKP, peraltro, innova non solo il panorama politico del paese, ma anche le dinamiche partitiche. L’elevata soglia di sbarramento prevista dal sistema elettorale, congiuntamente all’elevato numero di preferenze che questo partito riesce a raccogliere, consente, infatti, un sostanziale bipartitismo, avveratosi concretamente in seguito alle elezioni del 2002 e che dal 2007 si struttura comunque nell’individuazione di due coalizioni in cui l’AKP, sostenuto dai nazionalisti del MHP (Milliyetçi Hareket Partisi – Partito del Movimento Nazionalista)150, si confronta con gli eredi del partito di Atatürk, il CHP, e le formazioni con esso in coalizione. Da ultimo è opportuno ricordare come l’AKP abbia guidato la Turchia verso un periodo di particolare stabilità economica, se si considera che dal 2002 il paese gode di una crescita media del PIL del 7% l’anno, di un consistente aumento degli investimenti diretti esteri e un incremento costante del volume delle esportazioni, che non è inficiato neppure dalla crisi che colpisce l’Europa dal 2008. 149

Sul punto si vedano le riflessioni proposte nei saggi raccolti in B. YEŞILADA, B. RUBIN, Islamization of Turkey under AKP Rule, Routledge, London, 2011. Dell’esistenza di una hidden agenda, tuttavia, non vi sono prove concrete e la già menzionata sentenza della Corte costituzionale che rifiuta lo scioglimento dell’AKP per ragioni religiose sembra mostrare una posizione divergente da quella dell’opposizione politica. 150 Questo partito è riuscito, mediante la cooperazione con l’AKP, a trovare un nuovo ruolo politico, superando così l’umiliazione che lo stesso AKP gli ha procurato nel 2002, quando il MHP è parte della coalizione di governo guidata da Bülent Ecevit del partito di sinistra DSP, cui partecipa anche un partito di centro-destra, l’ANAP. Sul punto si veda S. ÖZEL, op. cit., pp. 163-164.

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2.3 In attesa di una risposta costituente L’impostazione “autoritaria” del Testo del 1982 e la necessità di procedere più volte ad una sua revisione per l’adeguamento al costituzionalismo sono bene note al governo dell’Adalet ve Kalkınma Partisi che, sin dalla campagna elettorale del 2002, promette ai propri elettori di procedere ad una nuova fase costituente caratterizzata da un’ampia condivisione del Testo e frutto di un processo costituente non più espressione dei militari. Forte del consenso elettorale ricevuto nel 2002 e nel 2007, il partito di governo nomina una Commissione di esperti, guidata dal costituzionalista Ergun Özbudun151, incaricata di redigere un documento che sarebbe dovuto essere sottoposto prima all’approvazione interna del partito e quindi alla Grande Assemblea. Sino al 2010, tuttavia, il percorso parlamentare della nuova Costituzione è ostacolato dapprima dalle difficoltà politiche occorse in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica nel 2007 e successivamente dalla querelle per la riforma sull’utilizzo del velo islamico nelle istituzioni universitarie, su cui ci soffermeremo a breve. Nel 2012, la fase costituente sembrava aver trovato nuovo vigore grazie alla convocazione della Anayasa Uzlaşma Komisyonu (Commissione per la conciliazione costituzionale), istituita il 19 ottobre 2011 e le cui riunioni, precedute da un lungo periodo di consultazioni e di raccolta di osservazioni della popolazione, cominciano nel maggio 2012 con l’esplicito intento di concludere il percorso mediante l’approvazione di un nuovo Testo entro dicembre dello stesso anno. «The new constitution should reflect all colors, smells, motives, cultures and expectations of the citizens. This is the liability of the four parties and the Parliament as well»; con queste parole il Presidente della Grande Assemblea Nazionale, Cemil Çiçek, espone sinteticamente i contenuti che la nuova Costituzione avrebbe dovuto avere, in occasione dell’ultimo

151

Ergun Özbudun è un affermato giurista dell’Università Bilkent di Ankara che si è opposto lungamente e pubblicamente al Refah Partisi e il cui impegno per la democratizzazione del paese si concretizza anche nella partecipazione, quale membro turco, alle riunioni della Commissione di Venezia.

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incontro della Turkey Speaks platform152 (28 aprile 2012), svoltosi a soli due giorni dall’inaugurazione delle sedute della Commissione153. Il regolamento predisposto per i lavori della Commissione154 prevedeva riunioni almeno due volte a settimana, da ritenersi legittimamente convocate solo in presenza dei rappresentanti di almeno tre dei quattro partiti coinvolti155 (art. 5); le decisioni dovevano avvenire con l’unanimità dei presenti (art. 6)156. Al fine di annullare i rapporti di maggioranza definiti in seno alla Grande Assemblea a seguito delle elezioni politiche del 12 giugno 2011, ogni partito aveva diritto a nominare tre rappresentanti, assistiti da consulenti cui era consentito, senza diritto di voto, l’accesso alle sedute della Commissione (art. 9), da svolgersi a porte chiuse ma la cui pubblicità sarebbe stata assicurata dalla pubblicazione dei resoconti (art. 10). A fortiori, il desiderio di impostare su base paritaria il confronto in Commissione sembrava dimostrato dall’assegnazione della presidenza delle sedute a rotazione fra i vari componenti qualora il Presidente della Grande Assemblea Nazionale, cui tale ruolo spetta di diritto, non avesse potuto partecipare (art. 3). Da ultimo è interessante soffermarsi sul calendario dei lavori previsto dal regolamento (art. 11). Dopo una prima fase, ritenuta conclusa nell’aprile 2012, di confronto fra il Presidente della Grande Assemblea ed 152

Con questo nome sono indicati gli incontri tra i componenti della Commissione e gli esponenti della società civile realizzati con il supporto dell’Unione delle Camere di commercio turca, la Türkiye Odalar ve Borsalar Birliği (TOBB), in 13 province del paese al fine di raccogliere indicazioni e auspici i possibili contenuti della nuova Costituzione. 153 H. HAYATSEVER, Panel for New Charter Starts Landmark Duty in Turkey, in Hürriyet Daily News, 30 aprile 2012. 154 Il testo è disponibile, in turco, al sito http://yenianayasa.tbmm.gov.tr. 155 Si tratta dei quattro partiti presenti nella Grande Assemblea Nazionale a seguito delle elezioni del 2011: Adalet ve Kalkınma Partisi (Partito della Giustizia e dello Sviluppo); Cumhuriyet Halk Partisi (Partito Repubblicano del Popolo); Milliyetçi Hareket Partisi (Partito del Movimento Nazionalista); Barış ve Demokrasi Partisi (Partito della Pace e della Democrazia). 156 Il regolamento si limita a disporre, all’art. 6, che in caso di mancata unanimità la Commissione proceda secondo le modalità ritenute opportune.

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eminenti costituzionalisti per la discussione delle più opportune modalità di redazione, si prevedeva un ciclo di audizioni svolte in contemporanea con i primi dibattiti costituenti. Il testo, quindi, sarebbe dovuto essere sottoposto all’opinione pubblica al fine di raccogliere osservazioni da recepire, nell’ultima fase prevista, prima della presentazione del testo alla Grande Assemblea e dell’indizione del referendum per la sua approvazione popolare. In realtà, il percorso costituente si è interrotto già nel novembre 2013157 a causa della difficoltà dei partiti di trovare soluzioni di compromesso sui principali “nodi critici”: cittadinanza, tutela delle minoranze, libertà religiosa, forma di governo. Nonostante il tentativo di conciliare le differenti bozze presentate affrontando dapprima i profili meno problematici158, sono stati gli stessi componenti della Commissione a disertare progressivamente le riunioni, rendendo questo organo di fatto non più operativo. Le dichiarazioni rilasciate durante i lavori, tuttavia, lasciano emergere ancora una volta l’attenzione per alcuni specifici ordinamenti dell’Europa continentale, pur avendo sullo sfondo la più generale influenza del patrimonio costituzionale europeo. È questo, ad esempio, il caso della Costituzione tedesca, da cui si voleva riprendere il principio della tutela della dignità umana. L’attenzione al costituzionalismo europeo sarebbe stata dimostrata anche dalla volontà di introdurre una disposizione che abolisse l’obbligo della frequenza ai corsi di religione nel rispetto del Protocollo aggiuntivo alla CEDU n. 1. La sospensione a tempo indeterminato dei lavori della Commissione non deve tuttavia intendersi come una generale rinuncia a una nuova fase costituente da parte dell’AKP ed anzi non è escluso che la vittoria elettorale in occasione delle elezioni presidenziali dell’agosto 2014 dia un

157

Per una cronologia relativa allo svolgimento dei lavori della Commissione si veda il sito Turkey Constitution Watch (www.turkeyconstitutionalwatch.org), realizzato dalla TESEV (Türkiye Ekonomik ve Soysal Etüdler Vakfı – Fondazione Turca per gli Studi Economici e Sociali). 158 A dimostrazione di ciò, si pone la scelta, annunciata dal Presidente della Grande Assemblea, di cominciare i dibattiti dal capitolo relativo ai diritti e alle libertà fondamentali, accantonando temporaneamente le questioni aperte dalla redazione del Preambolo, su cui più divergenti paiono le posizioni dei partiti (cfr. Weekly Zaman, Turkey Starts Drafting of New Constitution with Rights and Freedoms, 12 maggio 2012).

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nuovo slancio nel percorso per l’approvazione della prima Costituzione redatta senza l’intervento dei militari.

Capitolo II Identità nazionale e circolazione dei modelli 1. Tradizione e modernità La tensione fra la modernizzazione dell’ordinamento e la preservazione delle tradizioni nella costruzione dell’identità turca si avverte già prima dei cicli costituzionali repubblicani nei processi di codificazione che si avviano in epoca tardo-ottomana. Come per i codici napoleonici nei territori conquistati dalla Francia del Général, anche nella Turchia ottomana i codici rappresentano le premesse per la modernizzazione, attraverso le successive Carte costituzionali, di un ordinamento ancorato a tradizioni antiche, pur con una notevole differenza: se i codici napoleonici rappresentano la consacrazione della prevalenza del diritto civile su quello religioso, nel caso ottomano il parallelismo tra fonti sacre e fonti laiche si mantiene immutato. La codificazione realizzata nell’epoca della Tanzimat tuttavia rappresenta una premessa della progressiva marginalizzazione delle disposizioni derivanti dal diritto religioso, che saranno definitivamente espunte in seguito all’approvazione dei codici repubblicani. A favorire quest’opera contribuisce anche una classe di giuristi sempre più orientata al confronto con gli altri ordinamenti europei e a beneficio della quale lo Stato imposta percorsi formativi che dedicano una crescente attenzione allo studio della disciplina dei diritti umani sia a livello statale che internazionale. Il rispetto delle tradizioni ispirate al diritto religioso un tempo vigente, tuttavia, resta sempre sullo sfondo e anche la nuova codificazione del XXI secolo non sembra capace di superare quel retaggio che, in nome della salvaguardia dell’onore, “attenua” la garanzia dei diritti e l’identificazione dei reati. 1.1 La codificazione: quale ruolo per la tradizione islamica? Il percorso di codificazione turco, come si diceva, merita di essere studiato in ragione della profonda commistione fra fonti religiose e fonti

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laiche che la forte carica normativa dell’Islam impone nella definizione del diritto statale e con cui la Repubblica turca deve confrontarsi per affermare quel laicismo modernizzatore che orienta l’intero percorso repubblicano. In realtà, anche in questo, rileva il precedente rappresentato dalla tradizione ottomana. I sultani, infatti, introducono la pratica di redigere dei kanuname, libri di raccolta delle prescrizioni normative non direttamente derivanti dalle fonti religiose e finalizzati a disciplinare quegli aspetti su cui queste ultime tacciono. Nell’applicazione del diritto, inoltre, non si procedeva ad una distinzione delle norme fra quelle risalenti al fiqh e quelle frutto di un intervento sultaniale, che, per altro, ha nella carica di Califfo la sua legittimazione religiosa. Ne deriva, dunque, una tradizione giuridica che fonde entrambi gli elementi e produce codici ante litteram capaci di consolidare un diritto laico, armonizzato alla shari’a e solo teoricamente ad essa subordinato1. I tentativi modernizzatori della Tanzimat riguardano così anche questi testi che vengono riformati seguendo la best practice dell’epoca dei codici napoleonici2. Nel 1850, infatti, il Sultano, decide di abrogare il Codice penale in vigore dal 1840 per sostituirlo con uno ispirato al Codice francese. Deve tuttavia evidenziarsi come questo testo intrecci ancora l’esperienza francese con principi derivanti dal diritto islamico, instaurando così un dualismo nelle fonti poi riproposto anche nel Codice civile (Mecelle) approvato nel 1876. La Mecelle, infatti, si presenta come una raccolta in 16 libri di tutte le leggi musulmane di scuola hanafita, in cui il diritto secolare trova spazio solo con riferimento a quegli ambiti non direttamente disciplinati dalle fonti del diritto islamico. Se il testo non rappresenta pertanto una particolare evoluzione nel superamento del 1

Per un approfondimento sulla distinzione fra diritto religioso e diritto “laico” nel mondo islamico, si rinvia a C. DECARO BONELLA, Le questioni aperte: contesti e metodo, in C. DECARO BONELLA (a cura di), Tradizioni religiose e tradizioni costituzionali, Carocci, Roma, 2013, pp. 34-38. 2 Sul punto si veda A. RUBIN, Legal Borrowing and Its Impact on Ottoman Legal Culture in the Late Nineteenth Century, in Continuity and Change, 2, 2007, pp. 279-303 in cui l’Autore evidenzia l’influenza del modello francese sulle riforme della Tanzimat attraverso l’esempio delle Nizamiye, le Corti istituite dal 1860 con cui si ridimensiona il ruolo delle Corti sharaitiche e si afferma un sistema giurisdizionale secolare per tutte le materie non inerenti lo statuto personale.

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dualismo delle fonti, esso ha comunque una particolare valenza in ragione delle inedite modalità con cui viene composto. I differenti ambiti di disciplina, infatti, sono ordinati in maniera metodica e le disposizioni formulate con chiarezza. Anche questo Codice, dunque, con il suo tentativo razionalizzatore, può ben rappresentare «un degno pendant islamico del Codice napoleonico e delle sue diverse modificazioni»3. All’inizio dell’epoca repubblicana, il ricorso al diritto straniero per la codificazione è molto più evidente, introducendosi una distinzione fra diritto pubblico e diritto privato che vede prevalere l’influenza francese nel primo ambito e quella svizzera e tedesca nel secondo. Va tuttavia ricordato che in un primo tempo il nazionalismo kemalista preferisce tentare una codificazione interamente frutto dei giuristi nazionali; al momento della costituzione del primo Governo, infatti, Mustafa Kemal nomina come Ministro della Giustizia Mahmut Esad Bey e lo incarica di istituire una Commissione per la redazione di un nuovo Codice civile. Solo a seguito del fallimento di questa Commissione si sceglie di procedere a un più diretto recepimento di modelli stranieri. Nel 1926, infatti, è adottato un Codice civile che non contiene riferimenti al diritto religioso e riprende, con limitate modifiche e obliterazioni, il Codice civile svizzero, in vigore dal 1912, nella sua traduzione francese; l’anno successivo viene invece adottato il Codice di procedura civile del cantone svizzero di Neuenburg4. Sul punto è opportuno ricordare che il recepimento dei codici svizzeri è volontario e realizzato a partire dall’influenza per imitazione in ragione del carattere innovativo e modernizzatore che a tali documenti viene attribuito. A prova di ciò vi sono le modifiche apportate alle disposizioni svizzere per adeguare i testi alle esigenze politiche, economiche e morali 3

Così P. DUMONT, Il periodo dei Tanzimat, in R. MANTRAN (a cura di), Storia dell’Impero ottomano, cit., pp. 493-561, spec. p. 513. 4 La scelta di considerare l’esperienza svizzera non deve stupire. Il Ministro della Giustizia Esad Bey, infatti, svolge i propri studi a Losanna, dove apprezza di persona il funzionamento dei Codici approvati nel 1912. Pare così confermarsi il ruolo di rilievo, su cui si tornerà nel prossimo paragrafo, da attribuirsi alla formazione dei giuristi nella scelta dei modelli per i legal transplant.

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della Turchia repubblicana. In primo luogo, infatti, non si recepiscono le disposizioni, necessarie nell’ordinamento confederale svizzero, che potrebbero alterare il centralismo turco o incidere sul carattere “rivoluzionario” dello Stato che si sta costruendo. È questo il caso delle norme in materia di matrimonio civile5. A differenza dei legislatori svizzeri, infatti, quelli turchi pongono una particolare attenzione nel chiarire che solo il matrimonio civile celebrato da un ufficiale dello Stato è considerato valido, negando qualunque riconoscimento ai matrimoni religiosi; ben evidente è l’intento di non intaccare l’applicazione “militante” del principio di laicità su cui si sta rifondando l’ordinamento. Simile scelta è effettuata con riferimento ad alcune disposizioni relative al diritto di famiglia, dove non si lascia spazio per l’inserimento di norme o di consuetudini derivanti dal diritto religioso. Ancora, il legislatore turco preferisce non recepire il regime di comunione dei beni a seguito del matrimonio e disporre la separazione dei beni quale regime ordinario, al fine di ribadire la volontà di garantire l’emancipazione femminile anche dal punto di vista economico. Le consuetudini del paese, tuttavia, sono considerate con riferimento alle norme relative al divorzio, ai periodi di separazione fra i coniugi per la configurazione dell’abbandono del tetto coniugale e all’eredità delle vedove, rispetto alle quali si preferisce non ignorare la struttura familiare tradizionale della Turchia dell’epoca6. Il tema della codificazione, infine, chiama in causa il profilo dell’interpretazione, che si pone quale ulteriore elemento a testimonianza dell’interesse dei giuristi turchi per il patrimonio europeo7. L’introduzione

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Circa il successo di questo “trapianto” si veda N. ATAR, The Impossibility of a Grand Transplant Theory, in Ankara Law Review, 4, 2007, pp. 177-197, in cui l’Autore utilizza il caso delle disposizioni relative al matrimonio per dimostrare le più generali difficoltà di adattamento della popolazione alle norme introdotte dal Codice svizzero. 6 Per ulteriori approfondimenti sul punto, si veda E. ÖZUNAY, Legal Culture and Legal Transplants. Turkish National Report, in J.A. SÀNCHEZ CORDERO (a cura di), Legal Culture and Legal Transplants, XVIII International Congress of Comparative Law, in ISAIDAT Law Review, 2, 2011, www.isaidat.di.unito.it., pp. 8-10. 7 Si veda E. BUCHER, The Position of the Civil Law of Turkey in the Western Civilization, in International Conference “Atatürk and Modern Turkey”, Ankara 22-23 ottobre 1998, in Ankara Üniversitesi Siyasal Bilgiler Fakültesi Yayini, 582, 1999, pp. 217-230, in cui l’Autore evidenzia come la codificazione turca dei primi decenni del Novecento risenta del patrimonio comune europeo poiché tale influenza è già presente

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dei codici svizzeri, infatti, introduce definitivamente la Turchia nella “sfera giuridica” europea, abolendo il dualismo delle fonti che ha contraddistinto gli ultimi anni dell’Impero e ponendo i giuristi turchi dinanzi alla sfida dell’adeguamento dell’intera cultura giuridica del paese. Si sceglie di seguire non solo la codificazione formale, ma anche l’interpretazione delle disposizioni dei codici effettuata dalla dottrina svizzera; a dimostrazione di ciò si pone una importante sentenza della Corte di Cassazione che, nel 1945, chiarisce che «nell’interpretazione delle nostre leggi, sebbene sia necessario considerare, in via di principio, i nostri testi, non si può non prendere in considerazione le loro origini e la dottrina giuridica relativa alla loro interpretazione»8. A tal fine si procede alla traduzione dei principali commentari dei codici elaborati in Svizzera e all’organizzazione di periodici incontri fra i giuristi svizzeri e quelli turchi, al fine di favorire la comparazione fra le modalità di applicazione dei testi. Nel corso del decennio riformista l’attenzione per la codificazione torna nuovamente a porsi, sostenuta anche dal dialogo con le organizzazioni sovrastatali europee. Nel 2000, infatti, si procede a un’ampia riforma del Codice civile9, frutto dell’elaborazione di una Commissione appositamente nominata e composta da esponenti provenienti dalle diverse categorie di giuristi del paese (giudici, avvocati, accademici, rappresentanti del Ministero della Giustizia) che hanno mostrato una particolare propensione per la comparazione con i Codici degli altri paesi europei. In particolare, si studiano le modifiche introdotte negli anni al Codice civile svizzero e si valutano le disposizioni contenute nelle versioni all’epoca in vigore dei codici tedesco e francese. In questa fase, tuttavia, si avverte anche l’influenza del livello sovrastatale, procedendosi a un completo riassetto delle norme anche alla luce dei

nei Codici svizzeri, alla cui redazione partecipano esperti giuristi la cui formazione è avvenuta nelle principali capitali europee. 8 Cfr. Corte di Cassazione, 13/15, 28 novembre 1945. 9 Il nuovo Codice civile viene approvato con la legge n. 4721 del 22 novembre 2001.

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trattati internazionali progressivamente ratificati dalla Turchia e della normativa europea vigente10. Alcune notazioni in materia di diritto penale, invece, consentono di evidenziare l’influenza della codificazione italiana. Nei primi anni del kemalismo, infatti, si sostituisce il Codice francese del 1810 recepito in epoca ottomana con il Codice penale italiano, c.d. Codice Zanardelli, del 1889, nella convinzione che «the French Code was qualified for regulating a royal and absolutist system, whereas the new Republic was said to be a most populist and secular regime»11. Per tali ragioni, dunque, il 1° marzo 1926 la Grande Assemblea Nazionale adotta il testo del Codice penale italiano, sancendone l’entrata in vigore a partire dal 1° luglio dello stesso anno. Proprio negli anni in cui la Turchia recepisce il Codice Zanardelli, tuttavia, in Italia si elabora un nuovo Codice, i cui lavori cominciano nel 1926 per concludersi il 19 ottobre 1930 con l’entrata in vigore del c.d. Codice Rocco. Non ignorando questa evoluzione e a conferma della volontà di “disegnare” la disciplina penale turca sul modello italiano, il legislatore turco modifica dapprima 84 articoli del Codice nel 1933 e quindi, con una riforma decisamente più consistente, emenda 146 articoli nel 1936. Il nuovo Codice penale turco, anche in questo caso in gran parte aderente alle disposizioni del Codice italiano, entra quindi in vigore l’11 giugno 1936. La lunga vigenza di questo Codice si interrompe, come nel caso del Codice civile, nel decennio riformista, quanto il Codice penale è interamente sostituito da un nuovo testo, nel 200412. Una breve digressione sul contenuto del nuovo Codice penale, relativa alle norme in materia di tutela delle donne consente di evidenziare quanto forte sia ancora la tensione tra desiderio modernizzatore e tradizione. Il Codice del 2004, infatti, pur introducendo dei limiti al c.d. “delitto d’onore”, di cui sono vittime le donne dalla condotta sessuale ritenuta non irreprensibile dai padri, dai fratelli, dai mariti, non ne prevede un divieto assoluto e anzi disciplina l’«omicidio in nome delle tradizioni» (artt. 29 e 10

Anche su questo punto, per più dettagliati approfondimenti si rinvia a E. ÖZUNAY, Legal Culture and Legal Transplants. Turkish National Report, op. cit., pp. 18-19. 11 Così I. GÖZAYDIN, The case of rape and prostitution in Turkey, in J.T. PARRY, Evil, Law and the State. Perspective on State Power and Violence, Rodopi, Amsterdam, 2006, pp. 59-70, spec. p. 62. 12 Cfr. la legge n. 5237 del 26 settembre 2004, in vigore dal 1 aprile 2005.

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82), fornendo così un implicito riconoscimento della sottomissione dovuta dalle donne al giudizio dei familiari di sesso maschile. Allo stesso modo, il nuovo Codice introduce una disciplina relativa ai c.d. “test di verginità”, cui sono frequentemente sottoposte le giovani sospettate di aver praticato attività sessuale prematrimoniale. L’art. 287 del Codice intitolato “Esami genitali”, infatti, chiarisce che tale genere di accertamento può avvenire solo previo consenso di un giudice o di un magistrato, pur senza esplicitare il riferimento ai “test di verginità”, né disporre la necessità del consenso della donna interessata13. Occorre ricordare, comunque, che la riforma del 2004 ha anche introdotto riforme di notevole rilevanza, intervenendo, ad esempio, a innovare la disciplina del reato di violenza sessuale che viene rubricato come crimine contro la persona – e non più come crimine contro la società – chiarendo che è considerata violenza «ogni atteggiamento sessuale capace di violare l’integrità fisica dell’individuo». Il Codice, inoltre, ritiene perseguibile, su istanza della parte lesa, anche le violenze sessuali commesse dal coniuge nonché dai custodi, dalle forze pubbliche e dai pubblici ufficiali14. Nonostante le nuove norme, forti sono i pregiudizi culturali in materia di violenza sessuale sulle donne non più vergini, nonché sulla possibilità che il disonore per la violenza subita sia sanato da un successivo matrimonio15. Da un lato, infatti, le stesse forze di polizia sarebbero inclini a giudicare secondo stereotipi sessisti la vittima di violenza come parzialmente colpevole di aver provocato il proprio aggressore, dall’altro frequenti

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Questa disposizione viene introdotta nonostante la pronuncia della Corte di Strasburgo nel caso Y.F. c. Turchia, 22 luglio 2003, n. 24209/94 in cui la Corte chiarisce che l’integrità fisica individuale può essere violata solo se previsto da una legge e previo consenso dell’interessato (corsivo mio). 14 L’introduzione di quest’ultima fattispecie è connessa soprattutto alla necessità di disciplinare un comportamento verificatosi con frequenza da parte delle forze di polizia nei confronti delle donne del sud-est anatolico, prevalentemente di etnia curda, sottoposte a custodia cautelare. 15 Cfr. Word Organization against Torture, Violence against Women in Turkey. Report to the Committee against Torture, report presentato in occasione della 30a seduta del Comitato, 28 aprile-17 maggio 2003 (www.omct.org).

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sarebbero le pressioni familiari nei confronti delle vittime in favore di “matrimoni riparatori”16. 1.2 Dalle madrase ai campus: la formazione dei giuristi La formazione dei giuristi rappresenta un elemento metagiuridico fondamentale per comprendere l’evoluzione della cultura giuridica prima ottomana e poi turca nonché per analizzare le differenti fasi che hanno consentito l’abrogazione di tutte le norme di derivazione religiosa nell’ordinamento repubblicano. Nella Turchia imperiale, infatti, l’insegnamento del diritto, sia quello impartito nelle scuole religiose (madrase) sia quello della scuola del Palazzo (Enderun Mektebi) era strettamente collegato allo studio della shari’a e del fiqh e la stessa casta degli ulema, i dotti islamici, ricopriva un ruolo di primo piano nella formazione delle élite poi destinate a prestare servizio nell’apparato giudiziario e nell’amministrazione pubblica. Nel periodo della Tanzimat, tuttavia, si comprende velocemente la necessità di dotare l’Impero di strutture educative più efficienti, capaci di marginalizzare lo studio dei precetti sharaitici in favore dello studio del diritto “laico”. E ciò anche nella consapevolezza che questo tipo di approccio avrebbe agevolato il confronto con i modelli stranieri e il loro adattamento, nell’ottica modernizzatrice che si intendeva perseguire, per il tramite del formante dottrinario17. Questo costante dialogo con gli 16

Cfr. Amnesty International, Turkey: Women Confronting Family Violence, 2004 (www.amnesty.org) nonché Z. GÖLGE, M. YAVUZ, Y. GÜNAY, Professional Attitudes and Beliefs Concerning Rape, in Archives of Neuropsychiatry, 1999, 36, pp. 146-153. 17 Tale termine è utilizzato da R. SACCO, Legal Formants: a Dynamic Approach to Comparative Law, in The American Journal of Comparative Law, 39, 1991, pp. 1-34 per indicare gli strumenti di produzione del diritto nel cui ambito il dialogo fra modelli giuridici prende corpo. L’Autore individua, in particolare, tre formanti: dottrinario, legislativo e giurisprudenziale. Il formante dottrinario, che comprende non solo la comunità degli accademici ma la società civile, consente la circolazione attraverso lo studio delle esperienze straniere quale strumento per riflettere sull’efficienza del proprio ordinamento e proporne eventuali modifiche ai decisori politici. Il dialogo che avviene mediante questo formante è forse il più sfuggente e il meno dimostrabile, sebbene non possa negarsi come il miglioramento delle vie di accesso alle informazioni e delle vie di

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omologhi europei, peraltro, mostra come i giuristi turchi, già sul finire dell’epoca ottomana, abbiano considerato essenziale per la propria formazione associare all’educazione in patria lunghi periodi di studio all’estero.

comunicazione abbia reso sempre più facile il confronto fra i giuristi e sia ormai innegabile che esistano filoni di dibattito su cui tutta la comunità accademica mondiale si confronta da tempo. Lo studio della circolazione attraverso il formante legislativo, invece, è più agevole, giacché l’analisi dei dibattiti parlamentari e del drafting normativo consente di individuare le fonti di ispirazione dei decisori politici. A favorire la circolazione per il tramite di questo formante, peraltro, interviene il crescente peso della diplomazia parlamentare (cfr. C. DECARO, N. LUPO (a cura di), Il “dialogo” tra Parlamenti: obiettivi e risultati, cit., spec. II sezione, nonché D. BARAK-EREZ, Una comunità internazionale di legislatori?, in Il Filangieri, 1, 2005, pp. 57-83). Compongono il formante giurisprudenziale, infine, le Corti che, nella formazione della propria giurisprudenza, traggono ispirazione e/o si confrontano con le soluzioni adottate dai giudici di altri Stati in circostanze ritenute assimilabili. Non è tuttavia pacifico che questo dialogo sia ragionevole e corretto e vi è chi sottolinea che l’analisi comparata, pur essendo utile per il drafting normativo, è inappropriata nella fase di interpretazione delle norme (cfr. il giudice Scalia nella decisione della Corte Suprema americana in Printz v. United States, 521 US 898 (1997). In dottrina, sul punto si vedano S. CHOUDHRY, Globalization in Search of Justification: toward a Theory of Comparative Constitutional Interpretation, in Indiana Law Journal, 74, 1999, pp. 819-892; V.C. JACKSON, Ambivalent Resistance and Comparative Constitutionalism: Opening up the Conversation on Proportionality, Rights and Federalism, in University of Pennsylvania Journal of Constitutional Law, 1, 1999, p. 583 ss.; L. EPSTEIN, J. KNIGHT, Constitutional Borrowing and Non-borrowing, in I-Con, 1, 2003, pp. 196-223; T. GROPPI, M.C. PONTHOREAU (a cura di), The Use of Foreign Precedents by Constitutional Judges, Hart, Oxford, 2013. Mediante i summenzionati formanti si realizza la c.d. circolazione orizzontale dei modelli, la quale certamente agisce secondo direttrici che, seppur formalizzate, non acquisiscono mai carattere vincolante per lo Stato “recepente”. Discorso a parte merita la c.d. circolazione verticale dei modelli, che si realizza per il tramite del dialogo a livello sovrastatale. Questo tipo di “comunicazione” si inserisce nel più generale contesto del dialogo tra gli Stati, che può avvenire sia in sedi bilaterali sia, come accade sempre più di frequente, attraverso i canali delle organizzazioni internazionali e sovrastatali. Sono queste ultime che forniscono il quadro istituzionale al cui interno il dialogo si realizza in ragione della loro più o meno consolidata vocazione al mantenimento della pace, alla promozione dello Stato di diritto, alla garanzia dei diritti fondamentali e, quindi, alla diffusione della democrazia a livello mondiale.

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E, infatti, negli ultimi decenni di vita dell’Impero ottomano la presenza di studenti turchi nelle aule universitarie di alcuni paesi europei, in primo luogo Francia e Germania, è un dato consolidato e numerosi sono gli interventi del Sultano per favorire la corretta e moderna formazione dei giuristi. Soprattutto il modello di istruzione francese viene considerato di grande prestigio18, come dimostra la scelta di istituire nel 1868 una sorta di liceo, il Mekteb-i Sultani (la Scuola del Sultano) di Galatasaray, i cui programmi di insegnamento erano quasi interamente importati dalla Francia e impartiti in francese. La Scuola del Sultano è uno dei molti esempi di Scuole istituite nella seconda metà dell’Ottocento per consentire ai giovani ottomani, senza distinzione di razza o religione, di completare la propria formazione: nel 1859 è istituita la Scuola d’amministrazione; nel 1866 la Scuola di medicina; nel 1862 la Scuola normale superiore; nel 1870 la Scuola di diritto e la Scuola normale femminile. Non deve dimenticarsi come a queste Scuole “pubbliche” si affianchino anche Scuole istituite dalle singole comunità, che agiscono ulteriormente come strumenti per favorire la circolazione dei modelli educativi19. Grazie a questi nuovi centri culturali, i giovani giuristi turchi usufruiscono in patria della formazione al pensiero positivista dell’Europa continentale anche attraverso la presenza di docenti stranieri, prevalentemente francesi, tedeschi, svizzeri e italiani.

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Questa influenza potrebbe derivare anche dai rapporti fra il Ministro della Pubblica istruzione di Napoleone III, Victor Duruy, e la Sublime Porta, che si intensificano notevolmente proprio durante il periodo della Tanzimat e che vedono il Sultano prestare particolare ascolto al Ministro francese in tema di riforma del settore scolastico. Sul punto di veda J.CH. GESLOT, Victor Duruy: historien et ministre (1811-1894), Presses Universitaires de Septentrion, Villeneuve d’Ascq, 2009, pp. 249-250. 19 Per alcuni riferimenti circa l’organizzazione del sistema scolastico ottomano, non essendo rilevante in questa sede soffermarsi ulteriormente sul punto, si rinvia a H. CLARKE, On Public Instruction in Turkey, in Journal of the Statistic Society of London, 4, 1867, pp. 502-534, in cui l’Autore evidenzia come, già prima dell’istruzione a livello universitario, da un lato i rapporti con le comunità etniche o con i correligionari abitanti fuori dall’Impero, dall’altro le scuole straniere progressivamente istituite con il consenso della Sublime Porta influiscano sulla capacità degli studenti ottomani di confrontarsi con i modelli europei.

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Si avvia così un processo che si consolida nei primi anni del kemalismo20. Il 3 marzo 1924, infatti, è approvata la legge n. 430 per l’unificazione del sistema educativo, grazie alla quale si abolisce la distinzione fra scuole religiose e scuole laiche e si esclude la religione dalle materie di insegnamento. Con il decreto n. 1353 del 1 novembre 1928, inoltre, il sistema alfabetico viene adeguato a quello latino, abolendo la grafia araba e procedendo alla definizione delle regole grammaticali e lessicali del turco moderno. Soprattutto la scelta di “modernizzare” la lingua può essere considerata come un tentativo di marcare un chiaro discrimine con il passato ottomano e dichiarare la piena appartenenza della Turchia all’Occidente21. Nei primi anni ’30, l’impegno delle autorità si concentra nel favorire la nascita delle università anche grazie all’arrivo di personale proveniente dall’Europa. Se in Germania molti docenti sono allontanati dalle università tedesche per le loro origini etniche o per il loro dissenso verso le politiche hitleriane, in Turchia il Ministro dell’Istruzione Reşit Galip li accoglie come soluzione per la carenza di professori nelle università del paese e anche come consulenti in molti ministeri22. La presenza di questi 20

Circa i rapporti fra il mondo accademico europeo e quello turco nella prima metà del Novecento, si veda C. RUMPF, The Importance of Legislative History Materials in the Interpretation of Statutes in Turkey, cit., spec. p. 271, in cui si evidenzia, peraltro, come anche il cursus studiorum dei giuristi turchi venga progressivamente strutturato sull’esempio europeo, e principalmente francese. 21 La modernizzazione della lingua passa anche attraverso un processo di ricostruzione della storia della linguistica. In occasione del primo Congresso di storia turca tenutosi ad Ankara nel 1932, infatti, si avvia un percorso di studi finalizzato a dimostrare che il turco è la guneş dil (lingua sole), ovvero la lingua della prima civiltà da cui deriverebbero sia le lingue indoeuropee che quelle semitiche; a questo scopo nello stesso anno si procede anche all’istituzione della Società per la lingua turca. A sostenere fortemente la teoria della lingua sole, e il suo corollario che distingue la razza turca da tutte le altre, vi è la figlia adottiva di Atatürk, Ayşe Afet, che dal 1937 conduce anche indagini antropometriche sulla popolazione. Sul punto si veda K. KREISER, C.K. NEUMANN, op. cit., pp. 21-22 e pp. 330-331. 22 Nonostante la volontà di distinguersi dal passato ottomano, questa scelta dell’élite kemalista richiama da vicino quella del Sultano Beyazit II, che accoglie gli ebrei allontanati dalla Spagna nel 1492. Per un approfondimento circa i rapporti tra gli

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docenti favorisce non solo la circolazione del pensiero europeo nelle università turche ma anche un più generale adeguamento dei percorsi curriculari e della stessa struttura degli istituti universitari al modello tedesco. Negli anni ’50, l’influenza tedesca pare ridimensionarsi, lasciando spazio a una maggiore attenzione per i modelli educativi statunitensi23. In quel periodo, infatti, le buone relazioni instaurate con gli Stati Uniti e l’ammirazione crescente per l’american life-style24 vedono l’istituzione di nuove università sul modello dei campus americani, che si diffonde in maniera uniforme. E tuttavia va sottolineato che, pur dotate di autonomia, le università pubbliche turche sono sottoposte al controllo e alla supervisione dello Stato. Per assicurare tale controllo nel 1981 è istituito il Consiglio di istruzione superiore, attualmente disciplinato dall’art. 131 della Costituzione in vigore, quale organo autonomo con poteri di pianificazione, organizzazione e controllo degli istituti di istruzione superiore, finalizzato ad indirizzare le attività di educazione, ricerca scientifica e insegnamento, i cui membri sono nominati dal Presidente della Repubblica, cui spetta anche la nomina dei rettori universitari. In tempi recenti, nel curriculum di studi dei giuristi turchi predisposto dalle università, sia pubbliche sia private, è obbligatoriamente previsto lo studio del diritto internazionale25. Questo obbligo, peraltro, pare essere all’origine del contrasto intergenerazionale che si avverte con riferimento agli atteggiamenti degli operatori legali. Gli esponenti più anziani, strenui accademici tedeschi esuli e la Turchia kemalista, si veda A. REISMAN, Turkey’s Modernization: Refugees from Nazism and Atatürk’s Vision, New Academia Publishers, Washington, 2006. 23 Permane anche un’influenza francese, come dimostra l’istituzione, alla fine della seconda guerra mondiale, della Scuola d’Amministrazione con la collaborazione dell’École National d’Administration. 24 Si ricorda come in un discorso elettorale tenuto nell’ottobre 1957, l’allora Presidente della Repubblica Celal Bayar giunga ad affermare che la Turchia sarebbe divenuta una piccola America. 25 Per ulteriori approfondimenti circa il percorso accademico dei giuristi turchi, le modalità della loro selezione e la disciplina della successiva carriera si rinvia a A.C. TUNCAY, The Three Most Important Features of Turkey’s Legal System Than Others Should Know, in Learning from Each Other: Enriching the Law School Curriculum in and Interrelated World, IALS Conference, 17-19 ottobre 2007, www.ialsnet.org, pp. 241-247, spec. pp. 246-247.

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sostenitori dei principi del kemalismo, infatti, paiono opporsi alle incalzanti idee dei più giovani, che auspicano una maggiore apertura agli standard internazionali, soprattutto in materia di tutela dei diritti umani. Tale opposizione è evidente anche guardando ai lavori della Corte costituzionale. Qui, infatti, è possibile notare da un lato l’avanzata dell’utilizzo delle norme di diritto internazionale, e soprattutto dei riferimenti alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, nei lavori dei referendari, che tuttavia trovano uno spazio ancora esiguo nelle sentenze che poi i giudici costituzionali redigono26. 2. Le “frecce” del kemalismo: identità in movimento L’originale identità storico-politica ha sempre rappresentato il filtro attraverso cui la Repubblica di Turchia ha guardato agli altri ordinamenti nei percorsi di riforma che l’hanno interessata. Se la modernizzazione passa per lo studio degli altri ordinamenti, infatti, all’origine della nuova identità si pone la consapevolezza che ne multu Türküm diyene (beato chi può dirsi turco)27. Del resto, il costante bilanciamento fra modelli esteri e peculiarità nazionali è particolarmente evidente con riferimento alla disciplina di quelle materie che più strettamente hanno incarnato i principi del kemalismo e nei cui confronti più intensi sono i tentativi di riforma degli ultimi decenni. Principi che, pur presenti nella visione riformatrice di Atatürk sin dagli anni della guerra di indipendenza, possono essere riassunti nelle menzionate “sei frecce” del kemalismo. 26

Sono queste le opinioni espresse dal Segretario della Corte costituzionale e da due assistenti della Corte nel corso di un’intervista realizzata dall’Autrice della presente ricerca nel dicembre 2009 e confermate anche in F. TÜRKMEN, The European Union and Democratization in Turkey. The Role of the Elites, in Human Rights Quarterly, 30, 2008, pp. 146-163. 27 Questa è una delle celebri massime di Atatürk, enunciata durante il discorso per il 10° Anniversario della Repubblica (29 ottobre 1933), in cui si sottolinea la centralità della “turchità” fra i valori kemalisti.

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Così, sebbene tutte le “frecce” abbiano inciso profondamente, nel momento fondativo, sull’intera definizione dell’ordinamento, la laicità ha impostato i rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose su un preteso assetto secolare ispirato al modello francese che ha imposto una visione monolitica dell’Islam per poi tendere, nel nuovo millennio, verso il “secolarismo passivo” di matrice statunitense. È in questa nuova definizione di secolarismo che trova spazio la costruzione di pacifici rapporti con le minoranze religiose, per lungo tempo soggette alla disciplina definita ai tempi del Trattato di Losanna. Il repubblicanesimo ha invece informato di sé la disciplina di quelle istituzioni che hanno rappresentato i più strenui custodi del kemalismo: i militari e la Corte costituzionale. Solo un difficile e controverso percorso ha consentito il “ritorno alle caserme” dei primi e una evoluzione della seconda affinché divenisse garante della Costituzione e dei diritti dei cittadini. Permane, comunque, la competenza della Corte a verificare l’adesione dei partiti politici ai valori della Costituzione, sebbene anche in questo caso la partecipazione alle organizzazioni sovrastatali abbia consentito una progressiva evoluzione che rende i giudici costituzionali non più arbitri nelle vicende politiche del paese. Il nazionalismo, su cui l’identità della Turchia è stata costruita, ha lungamente posto la tutela dell’integrità territoriale al centro dell’attenzione delle autorità e solo negli ultimi decenni si sono potute avviare riflessioni più puntuali per la riforma dell’assetto a “centralismo esasperato”, anch’esso di ispirazione francese, delle autorità territoriali e il riconoscimento, per il tramite del decentramento, dei diritti della popolazione curda. Il populismo kemalista ha modellato le forme della rappresentanza e ha profondamente inciso sulla forma di governo della Repubblica di Turchia, aprendo la strada a un perdurante dibattito. Una specifica influenza del populismo, seppur con nuove forme, si riscontra anche nella concezione di separazione dei poteri che, prescindendo dalle dichiarazioni formali presenti nei Testi, influisce sulla riforma del potere giudiziario al punto da vincolarlo sempre più al controllo del potere politico. Il principio statalista, inteso come costante intervento dello Stato nell’economia, ha informato di sé un’intera epoca della fase repubblicana e, come detto, solo l’avvento al potere dell’AKP è riuscito a consolidare un’economia liberale.

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Il riformismo, ultima freccia del kemalismo a dover essere considerata, rappresenta dunque una costante della vita della Repubblica di Turchia e consente una progressiva trasformazione dell’ordinamento28, anche attraverso il confronto con il patrimonio comune europeo. 3. La Laicità: un gioco di specchi fra modelli Alla fine della guerra di indipendenza, le forze kemaliste si trovano a dover rifondare uno Stato prevalentemente abitato da una popolazione di fede islamica e, per mantenere la stabilità sociale in un periodo ancora contraddistinto dall’ostilità internazionale, in un primo momento l’Islam viene riconosciuto come un elemento fondante dello Stato, al punto che una serie di decreti, emanata tra il 1920 e il 1924, vieta la produzione, l’importazione, la vendita e l’uso delle bevande alcoliche e stabilisce il venerdì come giorno festivo, in ottemperanza ai dettami sharaitici. Su questa scia si pone anche l’art. 2 della Costituzione della Repubblica di Turchia del 1924, che sancisce: «La religione dello Stato turco è l’Islam». In ottemperanza a questo articolo, si tutela il Sultano decaduto Abdülmecid nella sua carica di Califfo, che continua a detenere sino al 2 marzo 1924, quando si sancisce la definitiva abolizione del Califfato29. Si tratta di un primo passo per l’introduzione nell’ordinamento del principio di laicità. Seguono la chiusura delle tekye, i conventi dei dervisci, ufficialmente proclamata il 13 dicembre 1925 e l’introduzione di Codici che, come si è visto, non contengono alcun riferimento alle fonti 28

Del resto, la parola turca utilizzata per indicare questa freccia, devrimçilik, è traducibile come trasformazione, nel senso di dinamica evoluzione nella continuità piuttosto che come rivoluzione e rottura con l’assetto precedente. Sul punto, si rinvia a M. CARDUCCI, B. BERNARDINI D’ARNESANO, op. cit., p. 53. 29 È il deputato di Urfa Saffet Efendi Seyh che propone la legge, approvata il 2 marzo 1924, con cui si richiede l’abolizione del Califfato e l’espulsione dalla Turchia di tutti i membri della casata di Osman ricordando che «nell’Islam non ci sono né un clero né un’amministrazione della religione» (la massima è citata in K. KREISER, C.K. NEUMANN (a cura di), op. cit., p. 325).

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religiose. Il 10 aprile 1928, la disposizione costituzionale che faceva dell’Islam la religione di Stato viene abrogata e, infine, la riforma del 5 febbraio 1937 costituzionalizza il principio della laicità e, esplicitamente introducendo tale concetto fra i principi fondanti della Repubblica previsti dall’art. 2 Cost., sancisce la separazione fra lo Stato e le confessioni religiose. Si definisce così un approccio che, pur evolutosi nel tempo, ha la sua origine nel “secolarismo assertivo” di matrice francese. Nella convinzione che la religione è un elemento della sfera privata della vita del cittadino e non deve influenzare in alcun modo la sfera pubblica, sin dalla legge del 9 dicembre 1905 sulla separazione fra Chiese e Stato la Francia elabora una struttura normativa mirante a limitare non solo la possibilità che le confessioni religiose abbiano occasione di manifestarsi in quanto tali nella sfera pubblica30, ma anche che i simboli più evidenti dell’appartenenza religiosa siano proibiti negli edifici pubblici31, ed in particolare nelle scuole, per evitare che essi possano influenzare la formazione degli individui. Ma è qui che il gioco di specchi è evidente: il secolarismo assertivo, infatti, è adattato alle peculiarità del paese32, rendendo di fatto la laicità un ulteriore strumento per consolidare l’unità del paese33, secondo la celebre massima di Atatürk: «poiché siamo tutti turchi e quindi musulmani possiamo essere tutti laici». Da un lato, dunque, la laicità è lo strumento per negare l’esistenza del pluralismo, dall’altro, e in maniera più “sottile”, essa è lo strumento per ribadire il collante sociale che già ha contribuito a tenere insieme l’Impero. E, infatti, «since Sunnis and Alevis are, after all, 30

In particolare, tale legge configura le comunità religiose come associazioni di culto sottoposte alla medesima disciplina predisposta in generale per le associazioni dalla legge del 1 luglio 1901 sulle associazioni. 31 Questa volontà è chiaramente manifestata, in tempi recenti, in occasione dell’approvazione della legge n. 2004-228 del 15 marzo 2004 ed è ancor più evidente in seguito all’approvazione della legge n. 2010-1192 del 11 ottobre 2010 che pone il divieto di utilizzo del burqa vietando la dissimulazione del viso nei luoghi pubblici. 32 Cfr. İ.Ö. KABOGLU, L’impact de la loi de 1905 sur la laicitè en Turquie, in Hommes & Migration, 1259, 2006, pp.79-83. 33 Circa il ruolo dell’Islam in Turchia, si veda A.A. AĞAOĞULLARI, L’Islam dans la vie politique de la Turquie, Edizioni della Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Ankara, Ankara, 1979.

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Muslim, and so are Turks and Kurds, Islam can serve as an effective link between them»34. In nome della modernità35, dunque, si afferma una idea di laicità che, di fatto, consolida il ruolo di preminenza che già il Trattato di Losanna riconosce al culto sunnita e sottopone le confessioni religiose al rigido controllo da parte dello Stato. A consacrare questa concezione, perpetuatasi nelle varie fasi della vita istituzionale del paese, interviene, da ultimo, la Costituzione del 1982, che costituzionalizza il Diyanet İşleri Başkanlığı (Presidenza per gli affari religiosi) alle dipendenze della Presidenza del Consiglio, con il compito di monitorare la vita delle moschee, con particolare riferimento alla nomina, la remunerazione e la destituzione di imam e muezzin36. L’ordinamento turco prevede anche il Vakiflar Genel Mudurdlugu (Direzione generale per le fondazioni), la cui disciplina attuale è contenuta nella legge n. 5176 del 2004 che gli conferisce il controllo su circa 160 fondazioni non musulmane e sulle proprietà delle stesse, oltre ad attribuirgli la competenza, congiuntamente al Diyanet İşleri Başkanlığı, per il controllo sulle fondazioni musulmane. La legge del 2004, pur approvata nel periodo di intense riforme già ricordato, conferma, di fatto, le importanti discriminazioni a carico delle comunità 34

Così D. KUSHNER, Some Observation on Islam and Secularism in Turkey, in AA.VV. Atatürk and Modern Turkey, Conferenza Internazionale, ottobre 1998, in Ankara Üniversitesi Syasal Bilgiler Facültesi Yayını, 582, 1998, pp. 197-203, spec. p. 199. 35 In merito alla connessione tra modernizzazione del paese e laicità si rinvia a Z.Ö. ÜKSÜL, L’affirmation de la laïcité en Turquie: un gage de modernité, in Politique et sécurité internationales, 3, 1999, pp. 20-36. 36 Si tratta, tuttavia, di una istituzione che non si discosta molto dalla tradizione esistente in epoca ottomana. Già sotto Solimano I, infatti, è in vigore un sistema di nomina degli ulema attraverso il controllo delle scuole coraniche che consente l’educazione di eccellenti giusperiti devoti al potere sultaniale. Allo stesso modo, peraltro, l’interpretazione ottomana dell’Islam modifica anche il ruolo del mufti, che diviene un funzionario pubblico; i responsi del mufti di Istanbul, che assume la denominazione di Şeyh-ül Islam, inoltre, sono considerati come veri e propri precetti legalmente vincolanti (cfr. K. KREISER, C.K. NEUMANN (a cura di), op. cit., pp. 119120).

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non musulmane, imponendo loro severi limiti nei diritti di proprietà e nella gestione delle pratiche di culto e sottoponendo l’istruzione confessionale al rigido controllo delle summenzionate istituzioni. In materia di diritto di proprietà, peraltro, i limiti erano già stati introdotti in via giurisprudenziale dal Consiglio di Stato che, nel 1974, adottando un’interpretazione restrittiva dell’art. 39 del Trattato di Losanna sul diritto di proprietà delle minoranze non musulmane, dichiarava illegali tutti i beni acquisiti dalle minoranze religiose riconosciute, ossia quella greca, armena e ebraica, successivamente alla registrazione censitaria del 1936. In questa prospettiva, peraltro, la legge del 2004 attribuisce alla Direzione generale per le fondazioni la titolarità per revocare la proprietà di beni e immobili delle fondazioni qualora essa ritenga che gli stessi siano utilizzati in maniera difforme dalla destinazione d’uso originaria o siano gestite da un organo non riconosciuto dall’ordinamento turco. Il quadro normativo così configurato è all’origine di un lungo confronto che coinvolge anche la Corte di Strasburgo. Nonostante il Governo turco abbia cercato di limitare le sentenze di condanna per la violazione del diritto di proprietà mediante composizioni amichevoli delle controversie37, l’affaire Fener Rum Lisesi Vakfı38, il cui ricorso viene presentato nel 1997 ma che viene deciso solo nel 2007, ha segnato in maniera chiara la posizione della Corte. In questo caso, infatti, per la prima volta i giudici di Strasburgo riconoscono una violazione dei diritti convenzionali ai danni di una fondazione non musulmana e impongono al Governo turco non solo la restituzione dei beni confiscati ma anche il pagamento di una compensazione di circa 890 mila euro. La posizione della Corte si intreccia con il percorso di riforme avviato in materia dal legislatore turco che, attraverso l’approvazione delle leggi n. 4771 dell’agosto 2002 e n. 4778 del gennaio 2003, consente alle fondazioni non musulmane di possedere legalmente beni propri e di disporre a piacimento degli stessi. Si tratta tuttavia di una soluzione solo apparente, giacché il godimento di tali beni è subordinato alla loro registrazione previo 37

Così nei casi Institut de Prêtres Français c. Turchia, 14 marzo 2001, n. 26308/95 nonché Yedikule Surp Pırgış Ermeni Hastanesi Vafkı c. Turchia, 26 giugno 2006, n. 50147/99 e n. 51207/99, e 4 dicembre 2007, n. 31441/02. 38 Cfr. Fener Rum Lisesi Vakfı c. Turchia, 9 gennaio, 2007, n. 34478/97.

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ottenimento di un permesso da parte della Direzione generale per le fondazioni. A ciò si aggiunga che il Regolamento di attuazione della legge n. 4778/2003, relativo alle acquisizioni e al godimento dei beni immobili da parte delle fondazioni e alla registrazione a nome delle medesime dei beni immobili di loro utilizzo, entrato in vigore il 24 gennaio 2003, impone alle fondazioni non musulmane gravose procedure burocratiche (art. 5, c. 2) e limita il tipo di beni immobili registrabili a quelli utilizzati per scopi religiosi, caritatevoli, sociali, educativi, medici e culturali (art. 2). La normativa sin qui discussa pare ignorare il principale punto di attrito tra le fondazioni non musulmane e la Repubblica turca, che consiste non tanto nella possibilità di registrare i beni di proprio utilizzo, quanto piuttosto di rientrare in possesso dei beni precedentemente confiscati ovvero di ottenere un indennizzo qualora ciò non sia possibile. Per risolvere anche questo problema, il governo dell’AKP prova una prima volta nel novembre 2006 a far approvare una nuova legge in materia su cui tuttavia l’allora Presidente della Repubblica Necdet Sezer pone il proprio veto ritenendo che la legge violi il principio di uguaglianza e le disposizioni del Trattato di Losanna. È solo in seguito alle elezioni del 22 luglio 2007 e alla successione di Abdullah Gül alla più alta carica dello Stato che la Grande Assemblea Nazionale procede a una nuova approvazione della legge, la quale, tuttavia, viene sottoposta a controllo di costituzionalità per volere dell’opposizione parlamentare. La sentenza della Corte39, di fatto, non interviene sul contenuto della legge, limitandosi a ritenere non conforme alla Costituzione la sola disposizione che limita il diritto a divenire membro di una fondazione e consentendo la definitiva entrata in vigore del testo40. Circa il contenuto di questa legge, rileva sottolineare come essa, pur migliorando la condizione delle fondazioni non musulmane, non paia ancora capace di risolvere il problema, limitandosi a prevedere la restituzione delle proprietà

39 40

Corte costituzionale, K2005/14 E2008/92, 17 aprile 2008. Cfr. Legge n. 5737 del 20 febbraio 2008.

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confiscate attualmente in possesso dello Stato senza alcuna forma di risarcimento per la proprietà cedute a terzi41. Le difficoltà di disciplinare i rapporti tra lo Stato e le fondazioni religiose non musulmane sono anche all’origine della querelle che riguarda le scuole confessionali. Diversamente da quanto disposto dall’art. 40 del Trattato di Losanna, che consente alle comunità religiose riconosciute la possibilità di fornire a proprie spese l’istruzione del clero e di istituire scuole confessionali, le autorità turche, infatti, hanno frequentemente chiuso istituti di educazione religiosa. È questo il caso, ad esempio, della scuola teologica del Patriarcato ortodosso situato nell’isola di Halkı, chiusa nel 1971. Sul punto è opportuno ricordare che nel maggio 2006 il Governo turco si dichiara disposto a riaprire la scuola come parte dell’Università di Istanbul, ma il Patriarcato ortodosso rifiuta tale possibilità ritenendo che ciò comporti una perdita di potere in materia di educazione del proprio clero giacché i programmi accademici sarebbero sottoposti al vaglio e al controllo del Ministero dell’Istruzione. Sul trattamento delle fondazioni religiose non musulmane in Turchia si esprime anche la Commissione per la democrazia attraverso il diritto, nota anche come Commissione di Venezia42. In particolare, in seguito ad una richiesta dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa43 del 7 41

Per una più approfondita analisi della legge in questione si veda a D. KURBAN, The Draft Law on Foundation Does Not Solve the Problems of Non-muslim Foundations, TESEV, Ankara, 2007. 42 Istituita nel 1990 da un accordo misto, la Commissione svolge funzioni di consulenza per le questioni di natura costituzionale e si compone, ai sensi dell’art. 2 del proprio Statuto, di esperti indipendenti nominati dagli Stati membri per un periodo di quattro anni. Al 2014 la Commissione si compone di 59 membri (Albania, Algeria, Andorra, Armenia, Austria, Azerbaijan, Belgio, Bosnia-Erzegovina, Brasile, Bulgaria, Cile, Croazia, Repubblica di Corea, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, FYROM, Georgia, Germania, Grecia, Ungheria, Islanda, Irlanda, Israele, Italia, Kazakistan, Kirgizstan, Lettonia, Liechtenstein, Lituania, Lussemburgo, Malta, Messico, Repubblica di Moldova, Monaco, Montenegro, Marocco, Norvegia, Olanda, Perù, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Romania, Russia, S. Marino, Serbia, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera, Tunisia, Turchia, Ucraina, USA), 1 associato (Bielorussia), 5 osservatori (Argentina, Canada, Vaticano, Giappone, Uruguay) e 3 membri con status speciale (Unione europea, ANP, Sud Africa). Alla stessa data il rappresentante turco è il prof. Osman Can, affiancato dalla supplente Oykudidem Aydin. 43 L’Assemblea parlamentare acquisisce questa denominazione solo nel settembre del 1994, grazie ad una decisione del Comitato dei Ministri, senza che tuttavia sia

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aprile 2009, un’Opinione della Commissione44 valuta la compatibilità con il sistema convenzionale della mancata attribuzione di personalità giuridica alle comunità religiose turche nonché la possibilità di riconoscere al Patriarcato greco-ortodosso di Istanbul il diritto di utilizzare l’aggettivo “ecumenico”. Dallo studio emerge con chiarezza la difficoltà di ricondurre il differente trattamento riservato alle comunità musulmane, che, come si è avuto modo di ricordare, sono rappresentate dal Diyanet, rispetto alle comunità religiose non musulmane, la cui capacità giuridica è strettamente legata all’istituzione di fondazioni. Con riferimento alle minoranze musulmane, invece, è interessante notare come il rapporto instaurato fra la Direzione generale per le fondazioni e la comunità alevita45 induce da tempo a considerare modificato lo Statuto del Consiglio d’Europa, nel quale essa figura ancora come «Consultative Assembly». Tale organo si compone di un numero di rappresentanti per ogni Stato membro del Consiglio che varia in base alla rispettiva importanza demografica – dai 18 ai 2 rappresentanti più altrettanti supplenti (al 2014 la Turchia conta 12 rappresentanti), per un totale di 636 componenti più 18 osservatori; tali rappresentanti sono selezionati da ciascuno Stato, con modalità differenti, nell’ambito dei parlamenti nazionali purché sia assicurata la proporzionalità tra i partiti politici nazionali. Tale organo non è dotato di poteri decisionali propri ma, anche in ragione della sua composizione, ha finito per rappresentare «la coscienza democratica dei popoli che compongono il nostro continente», oltre ad essere un importante forum di discussione politica e di confronto a livello europeo in cui si dibattono progetti e accordi di cooperazione fra gli Stati membri e si elaborano le proposte di convenzioni. Di particolare rilevanza è la partecipazione dell’Assemblea al monitoraggio, congiuntamente al Comitato dei Ministri, del rispetto da parte degli Stati parte degli impegni assunti mediante la partecipazione al Consiglio d’Europa (Cfr. M. DE SALVIA, Compendium de la CEDU: le linee guida della giurisprudenza relativa alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, ESI, Napoli, 2000, p. 43). 44 Cfr. l’Opinione n. 535/2009 del 15 marzo 2010. 45 L’origine di questa comunità potrebbe rinvenirsi nelle persecuzioni per eresia dei turkmeni volute dal Sultano Selim I durante il suo regno (1512-1520), nel corso del conflitto con i savafidi iraniani. Per sfuggire a tali persecuzioni, infatti, gran parte della popolazione turkmena si rifugia nelle più remote regioni anatoliche, dove avrebbe sviluppato una forma sincretica di Islam sciita, embrione dell’alevismo anatolico poi discostatosi dallo sciismo ortodosso sino a divenire un culto autonomo (cfr. K. KREISER, C.K. NEUMANN (a cura di), op. cit., p. 84)

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quest’ultima come una mera comunità di tipo culturale e non religiosa, tanto che le cemevis, i tradizionali luoghi di culto aleviti, sono classificate dalla Presidenza per gli affari religiosi come centri culturali. Il tentativo di assicurare la prevalenza del credo musulmano-sunnita è evidente anche se si considerano i programmi scolastici per l’insegnamento della religione, rigidamente strutturati intorno all’insegnamento della professione sunnita dell’Islam e la cui esenzione è prevista solo per i membri delle minoranze riconosciute46. Anche in questo caso è un ricorso proveniente dalla comunità alevita, e la conseguente decisione della Corte di Strasburgo, ad aver aperto la strada per l’intervento del Governo. La fattispecie è concretamente discussa nel caso Hasan e Eylem Zengi47, in cui i ricorrenti sono i genitori di uno studente minorenne di fede alevita che richiedono per quest’ultimo l’esonero dalla frequenza del corso di cultura religiosa e conoscenza morale previsto nel programma della scuola primaria in ragione della predominanza dell’insegnamento dell’Islam sunnita nel medesimo corso. In seguito all’affermazione dell’obbligatorietà del corso48 da parte delle autorità scolastiche ed esperite le vie di ricorso interne, i genitori del fanciullo si rivolgono alla Corte europea dei diritti umani. La Corte sceglie di non valutare la questione sulla base della libertà religiosa e di opinione, ma a partire dal diritto all’istruzione, tutelato dall’art. 2 del Protocollo addizionale alla Convenzione n. 1, ritenendo tale diritto violato dalla decisione delle autorità scolastiche di rifiutare l’esenzione dalla frequenza del corso; nell’opinione della Corte, peraltro, tale scelta rischia di mettere in crisi il sistema di valori su cui poggia l’educazione domestica del fanciullo49. In seguito a questa 46

Cfr: New Anatolian/HRWF, No Obligatory Classes Means Religious Illiteracy, 6 luglio 2006, www.hrwf.net. 47 Hasan e Eylem Zengi c. Turchia, 9 ottobre 2007, n. 1448/04. 48 Al riguardo si ricorda che l’obbligatorietà del corso è prevista per i soli musulmani, mentre una circolare del Consiglio supremo dell’educazione del luglio 1990 stabilisce l’esenzione per gli studenti di fede cristiana ed ebraica. 49 Sul punto pare opportuno ricordare che la Corte poggia il proprio ragionamento sulla pronuncia della Commissione nel caso Angeleni (Anna-Nina Angeleni c. Svezia, 3 dicembre 1986, n. 10491/83), in cui si chiarisce che il combinato disposto degli art. 9 CEDU e 2 del Protocollo addizionale n. 1 assicura il diritto ad essere esonerati dai corsi di religione. Questa decisione ha inoltre un valore fondante nella più generale impostazione giurisprudenziale della Corte poiché è l’occasione per precisare la nozione

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decisione il Ministero dell’Istruzione turco introduce, sin dal 2007, lo studio dell’alevismo nei programmi di religione, cultura e conoscenza della morale. A complicare il senso del principio di laicità alla turca interviene il paradosso per cui l’art. 24 della Costituzione del 1982 vieta l’utilizzo di simboli religiosi nelle istituzioni pubbliche50 e sancisce il divieto di utilizzare la religione come strumento per esercitare influenze personali o politiche in ambito pubblico ovvero per rifondare l’ordine politico, sociale ed economico del paese su basi religiose51. Si aggiunga la scelta del di convinzione, implicante un certo livello di «cogenza, serietà, coesione ed importanza» tale da differenziarla dalle nozioni di opinione e idea. 50 A sancire una interpretazione del principio di laicità come vietante tale tipo di abbigliamento interviene la sentenza n. 2788 del 20 dicembre 1983 del Consiglio di Stato in cui si ritiene «inaccettabile che delle donne istruite abbiano la stessa attitudine di donne che si coprono con il velo, condizionate dal peso della tradizione». A confermare il divieto interviene anche la sentenza n. 12 del 7 marzo 1989 della Corte costituzionale, con cui si dichiara l’incostituzionalità di uno dei primi tentativi legislativi di modificare il divieto di indossare il velo islamico negli edifici universitari. Per un approfondimento a riguardo, si veda E. SALES, La protection du principe de laicitè par la Cour constitutionnel turque, in Revue du droit public et de la science politique en France et à l’étranger, 6, 2009, pp. 1649-1682, spec. p. 1652. 51 L’importanza di tale divieto nell’ordinamento turco diviene evidente nel 2008, in seguito all’approvazione di un emendamento costituzionale per consentire l’utilizzo del velo islamico nelle università. In seguito all’approvazione da parte della GANT di tale emendamento, infatti, il Presidente della Corte di Cassazione inoltra alla Corte costituzionale un ricorso in cui si richiede lo scioglimento del partito di governo AKP per il presunto tentativo di islamizzare la società turca introducendo in via legislativa la shari’a nell’ordinamento. Nella sentenza emessa il 30 luglio 2008, tuttavia, la Corte costituzionale, riscontrando l’assenza di fondati motivi per lo scioglimento, si limita ad invitare l’AKP ad una maggiore prudenza nelle esternazioni pubbliche e nell’attività politica dei propri membri e a comminare al medesimo partito una sanzione consistente nella riduzione dei fondi per il finanziamento pubblico ai partiti (T. RAMBAUD, Les arrêts de la Cour constitutionnelle turque du 5 juin 2008 sur l’interdiction du voile islamique dans les universités turque et du 30 juillet 2008 sur la dissolution de l’AKP: principe de laïcité, universités publiques et dissolution d’un partis politique, in Revue française de droit administratif, 6, 2008, pp. 1244-1247. Al riguardo si ritiene opportuno sottolineare, infine, come questa sentenza della Corte apra un acceso dibattito in dottrina, in ragione della sua competenza a pronunciarsi sulla illegittimità degli emendamenti

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costituente del 1982 di attribuire rango costituzionale alle leggi per la salvaguardia della laicità approvate nel primo decennio della Repubblica, mediante l’art. 174 Cost., che, appunto, pone il divieto di introdurre nell’ordinamento norme contrarie alle disposizioni presenti nelle summenzionate leggi. Quanto sin qui detto pare dimostrare come la Turchia, pur guardando alla Francia per la definizione del proprio modello di laicità, non abbia proceduto a un mero innesto giuridico, ma abbia adattato la fonte di ispirazione alle peculiarità del paese. Ne è derivato così il concetto di laiklik, che si distingue dal modello francese innanzitutto per le divergenze storiche che caratterizzano i due paesi. Se, infatti, la laicitè si consolida attraverso i secoli in quella dialettica che ha visto la Chiesa cattolica, e il Cristianesimo in generale, confrontarsi con la fede dei cittadini di Stati indipendenti52, la Turchia ha provato ad acquisire in pochi decenni una dinamica del tutto estranea al contesto ottomano, dove l’idea di umma islamiya si contrappone alle nozioni di cittadinanza e nazionalità già richiamate. Il diaframma storico produce anche una diversa consapevolezza del rapporto tra religione e Stato: in Francia il fenomeno religioso è perlopiù relegato nella sfera privata; in Turchia, invece, il secolarismo si manifesta come controllo dello Stato sulla religione. Ciò anche in ragione della carica normativa presente nell’Islam e, invece, progressivamente sfumata nel Cristianesimo. Per evitare l’influenza del fattore religioso nella sfera politica, quindi, i padri fondatori della Turchia preferiscono porlo sotto il controllo della burocrazia statale, nel tentativo di evitare il radicalismo religioso. Ciò pare dimostrato anche dalla volontà di offrire ai musulmani turchi una visione progressista dell’Islam, in linea con i tentativi modernizzatori che caratterizzano la Turchia sin dai primi decenni della sua nascita53. costituzionali solo da un punto di vista formale e non, come invece pare accaduto nel caso in oggetto, con riferimento al contenuto degli stessi. Sul punto si veda İ.Ö. KABOGLU, Le contrôle juridictionnel des amendements constitutionnels en Turquie, in Le cahiers du Conseil constitutionnel, 27, 2009, pp. 38-42, spec. pp. 40-41. 52 Cfr. F. ALICINO, Costituzionalismo e diritto europeo delle religioni, CEDAM, Padova, 2011, spec. cap. III. 53 Sul punto si veda B. SILVERSTEIN, Islamist Critique in Modern Turkey: Hermeneutics, Tradition, Genealogy, in Comparative Studies in Society and History, 47, 2005, pp. 134-160.

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La difficoltà di confrontarsi con un tema così complesso come il rapporto tra lo Stato e la religione, soprattutto in ordinamenti che devono fronteggiare i rischi di radicalismo religioso come quello turco, è evidente anche dall’ambiguo atteggiamento adottato dalla Corte di Strasburgo che talvolta condanna la Turchia e talaltra giustifica le violazioni in ragione del margine di apprezzamento statale. È così che la Turchia viene condannata per violazione della libertà di espressione (art. 10 CEDU) nei casi Gündüz54 e Kutlular55. Nel primo caso, la Corte ritiene che il semplice richiamo alla shari’a effettuato dal ricorrente nel corso di una trasmissione televisiva sul ruolo della religione nella società non possa configurarsi come «incitazione del popolo all’ostilità e all’odio sulla base di una distinzione fondata sull’appartenenza ad una religione» per cui le Corti nazionali l’avevano condannato. Nel caso Kutlular, invece, la Turchia viene condannata per la pena detentiva, ritenuta non proporzionata all’obiettivo, comminata al sig. Kutlular per aver incitato il popolo alla violenza avendo qualificato il sisma del 17 agosto 1999 come un avvertimento divino. Al contrario, nel caso İ.A.56, la Corte afferma che la condanna per la pubblicazione di un’opera critica nei confronti della religione, emessa dai giudici turchi sulla base dell’art. 175 del Codice penale all’epoca vigente, non rappresenta una violazione dell’art. 10 in quanto rientrante nel c.d. margine d’apprezzamento statale. Controversa è anche la giurisprudenza convenzionale relativa al divieto di utilizzo del türban57 nelle università e negli edifici pubblici. I 54

Gündüz c. Turchia, 4 dicembre 2003, n. 35071/97. Kutlular c. Turchia, 29 aprile 2008, n. 73715/01. 56 İ.A. c. Turchia, 13 settembre 2005, n. 42571/98. 57 Tale termine indica il tradizionale velo islamico che copre i capelli e si chiude sotto il mento lasciando il volto scoperto. Come ricorda M. OTTAVIANI, Cose da turchi. Storie e contraddizioni di un paese a metà tra Oriente e Occidente, Mursia, Milano, 2008, p. 53, questo peculiare capo d’abbigliamento si compone del bose, una cuffia elastica in cui si raccolgono i capelli e che può coprire anche una parte della fronte, cui si sovrappone un foulard fissato al bose e acconciato sulla testa mediante l’utilizzo di spilli. Le donne più religiose, inoltre, sono solite abbinare il türban al teşettür, un lungo soprabito, ma non mancano donne che hanno invece deciso di indossare solo una 55

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primi ricorsi, presentati quando l’organo giudicante era ancora la Commissione58, infatti, sono ritenuti manifestamente infondati59; a seguito dell’istituzione della Corte, invece, si riscontrano difficoltà nel riconoscimento delle violazioni. Così, in occasione del ricorso di una insegnante della scuola d’infanzia licenziata in ragione dell’utilizzo del velo islamico60, la Corte ritiene che la scelta delle autorità scolastiche sia giustificata dalla necessità di preservare la neutralità della scuola rispetto alle confessioni religiose e pertanto non ravvisa una violazione dell’art. 9 della CEDU. Similmente accade nel caso del licenziamento di una insegnante universitaria che indossa il türban, ove il giudice convenzionale ritiene non configurata la violazione della libertà religiosa ed anzi giustifica il licenziamento sulla base del principio di laicità61. Nei casi appena esposti, tuttavia, la Corte non si pronuncia approfonditamente sull’oggetto dei ricorsi, come invece accade nel caso Leyla Şahin62. versione light del copricapo, eliminando il bose; in questo caso si dirà che esse indossano semplicemente un eşarp. 58 Per il funzionamento della Commissione e della Corte nonché per l’interpretazione della Convenzione, tra i molti, si vedano: A. GIARDINO CARLI, Stati e Corte europea di Strasburgo nel sistema di protezione dei diritti dell’uomo. Profili processuali, Giuffrè, Milano, 2005; S. BARTOLE, B. CONFORTI, G. RAIMONDI, Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, CEDAM, Padova, 2001; M. DE SALVIA, Compendium de la CEDU: le linee guida della giurisprudenza relativa alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ESI, Napoli, 2000; P. PITTARO, (a cura di), La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Giuffré, Milano, 2000; C. RUSSO, P.M. QUAINI, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, Giuffrè, Milano, 2000; P. PUSTORINO, L’interpretazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nella prassi della Commissione e della Corte di Strasburgo, ESI, Napoli, 1998. Con particolare riferimento all’evoluzione dalla Commissione alla Corte, invece, si rinvia a: C. PINELLI, Judicial Protection of Human Rights in Europe and the Limits of a Judgment Made System, in Diritto dell’Unione Europea, 1996, pp. 987-1013; R. ABRHAM, La réforme du mécanisme de contrôle de la Convention européenne des droits de l’homme, in Annales françaises de droit international, 1994, pp. 619-632; A. BULTRINI, Corte europea dei diritti dell’uomo, in Digesto delle discipline pubblicistiche, IV Agg., UTET, Torino, 2000, pp. 148-173. 59 Ci si riferisce ai casi T. c. Turchia, 25 febbraio 1991, n. 15574/89, Karaduman c. Turchia, 3 maggio 1993, n. 16278/90 e Bulut c. Turchia, 3 maggio 1993, n. 18783/91. 60 Dahlab c. Turchia, 15 febbraio 2001, n. 42393/98. 61 Kurtulmuş c. Turchia, 24 gennaio 2006, n. 65500/01. 62 Grande Chambre, Leyla Şahin c. Turchia, 10 novembre 2005, n. 44774/98.

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Studentessa all’Università di Istanbul, la ricorrente si vede rifiutare l’accesso alle prove scritte di alcuni corsi e non è ammessa alla partecipazione ad alcune lezioni in ragione del divieto, derivante da una circolare del vice-rettore, di indossare il velo islamico all’interno della facoltà. Pur avendo scelto di iscriversi presso la medesima facoltà all’Università di Vienna per proseguire i propri studi, Leyla Şahin decide di ricorrere contro la Turchia per violazione della propria libertà di coscienza e di religione. In primo grado, la Chambre giudicante, facendo riferimento alla decisione presa nel caso Refah Partisi, ritiene che l’adozione di misure miranti a prevenire l’emergere del fondamentalismo islamico, soprattutto in un paese a preponderante maggioranza musulmana, non rappresenti una violazione dell’art. 9 CEDU ed anzi rientri nello scopo, giustificabile ai sensi del medesimo articolo, di assicurare il rispetto delle credenze religiose anche degli studenti che praticano culti differenti da quello islamico. A fortiori, la Grande Chambre ritiene che l’ingerenza delle autorità nell’esercizio del diritto della ricorrente di manifestare il proprio credo sia giustificata in quanto prevista da una legge dello Stato, necessaria in una società democratica e proporzionata allo scopo di salvaguardare i fondamenti stessi della democrazia. Emerge con chiarezza come la Corte, in assenza di una disciplina uniforme sui simboli religiosi negli edifici scolastici nei paesi firmatari, scelga di attribuire agli stessi un ampio margine di apprezzamento anche in ragione della convinzione che tali misure debbano tenere conto del contesto e delle epoche in cui esse sono applicate63. Pare, dunque, che una stringente limitazione della libertà religiosa dei cittadini turchi di fede musulmana sia giustificata essenzialmente dalle specificità culturali e sociologiche del paese che, da quanto desumibile dalla giurisprudenza

63

Sul punto si ricorda la pronuncia relativa all’utilizzo del crocefisso nella scuole italiane (cfr. Grande Chambre, Lautsi e altri c. Italia, 18 marzo 2011, n. 30814/06).

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convenzionale, sarebbe considerato ad elevato rischio di evoluzioni in senso fondamentalista64. La concezione turca di laicità, tuttavia, è messa in discussione dall’ascesa al potere dell’Adalet ve Kalkınma Partisi, che non nega la sua ispirazione religiosa. L’approccio di questo partito alla questione religiosa, che ne orienta i vari tentativi di intervenire sulla disciplina della materia, infatti, sembra seguire il c.d. secolarismo passivo del modello statunitense, che implica un atteggiamento neutrale dello Stato nei confronti della religione. Esempio archetipo della volontà di questo partito di aprire l’ordinamento a un più moderato atteggiamento nei confronti degli orientamenti religiosi pare essere proprio la questione legata all’eliminazione del divieto per l’utilizzo del türban. Il caso più recente va ricondotto all’approvazione, il 9 febbraio 2008, della legge costituzionale n. 5735 di iniziativa governativa, che modifica gli artt. 10 e 42 Cost. rispettivamente relativi ai diritti all’eguaglianza e all’educazione, per consentire l’utilizzo del velo islamico nelle Università. Ai sensi della riforma, promulgata dal Presidente della Repubblica il successivo 22 febbraio, «nessuno può essere privato del diritto all’educazione superiore», rimandando così ai molteplici casi di studentesse di religione musulmana che hanno abbandonato gli studi per non dover mostrare il proprio volto senza il velo. L’elevato numero di voti favorevoli alla riforma (441 favorevoli e 103 contrari), ampiamente superiore alla maggioranza dei due terzi costituzionalmente prevista e indicativa del sostegno che l’AKP raccoglie sul punto, in particolare tra le fila del Partito del movimento nazionalista (Milliyetçi Hareket Partisi – MHP) e del gruppo parlamentare curdo, in un primo tempo consente di superare l’ostruzionismo del Partito repubblicano e dei settori tradizionalmente laici della società turca, quali i rettori universitari. Mentre la riforma viene votata, resta silente l’esercito, tradizionalmente schieratosi in difesa della laicità e degli altri principi del kemalismo. Benché i sostenitori della riforma costituzionale ritengano che la necessità di emendare gli artt. 10 e 42 abbia lo scopo di preservare la libertà di espressione e che la possibilità di partecipare alla vita 64

Al riguardo si veda S. MANCINI, M. ROSENFELD, Unveiling the limits of tolerance, in L. ZUCCA, C. UNGUREANU, Law, State and Religion in the New Europe, Cambridge University Press, Cambridge 2012. pp. 160-191.

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universitaria indossando il türban risponda all’esigenza di rispettare l’uguaglianza fra tutte le studentesse, senza discriminazioni di carattere religioso65, la Corte costituzionale, il 5 giugno 2008, dichiara incostituzionale la riforma perché in contrasto con l’art. 4 Cost., che vieta la revisione degli artt. 1, 2 e 3 Cost. in cui si stabilisce che la forma di Stato è la Repubblica e se ne chiariscono i principi fondanti, tra cui si rinviene anche il principio di laicità. Il dibattito sul tema non si è comunque concluso con la decisione della Corte costituzionale. La rilevante maggioranza ottenuta in seno alla Grande Assemblea con le elezioni del 2011, infatti, consente all’AKP di far approvare, il 30 settembre 2013, un progetto di legge in cui, tra l’altro, si rimuove il divieto di indossare il türban nei pubblici uffici, con la sola eccezione degli impiegati nell’esercito e nel giudiziario66. Resta da sottolineare come il modello seguito dall’AKP sia oggetto di dibattito anche nei paesi a maggioranza islamica interessati dalle c.d. rivolte arabe, confermando come la Turchia rappresenti un modello potenzialmente esportabile. 4. Il Repubblicanesimo e i suoi custodi La scelta della forma repubblicana rappresenta un ulteriore strumento per segnare il netto distacco con la precedente tradizione ottomana. Nelle opinioni di Atatürk, infatti, l’instaurazione della Repubblica avrebbe non solo garantito l’allineamento modernizzatore con gli altri Stati europei, ma anche evitato un ritorno al potere di quei potentati locali che per lungo tempo avevano intrappolato l’Impero in una struttura pressoché feudale impedendone lo sviluppo. Allo stesso tempo, il repubblicanesimo avrebbe 65

Sul punto, lo stesso Primo Ministro Erdoğan ritiene che consentire di indossare il türban sia «un importante segno di democrazia» e allontani l’uso da parte delle giovani turche di chador, hijab e kara carsaf, ossia degli altri copricapi tradizionalmente legati alla figura femminile nel mondo islamico. 66 La più immediata conseguenza è la partecipazione alla seduta della GNAT del 31 ottobre 2013 di 4 donne “velate”.

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più saldamente garantito al popolo la partecipazione al momento decisionale, evitando la possibilità di un ritorno all’assolutismo, com’era accaduto quando il Sultano aveva scelto di sospendere la Costituzione del 1876. In quest’ottica può leggersi anche la già richiamata introduzione del suffragio universale «considerato il mezzo attraverso cui avviene la costituzionalizzazione del potere del popolo di rovesciare i governanti, seppure anche qui entro i limiti di regole prestabilite, di un potere che prima era riservato esclusivamente al fatto rivoluzionario»67. Anche nel caso del repubblicanesimo, tuttavia, l’ideale viene adattato e alla libertà dei cittadini di rovesciare i governanti viene posto un (implicito) limite: l’operato dei governanti è controllato dalle forze armate, vere artefici dell’indipendenza, per evitare un “allontanamento” dai principi del kemalismo. All’indomani dell’approvazione della Costituzione del 1961, alla previsione dell’esercito quale “nume tutelare” per la Repubblica si affianca l’istituzione di una Corte costituzionale, formalmente garante della Costituzione ma, nei fatti, garante dei principi del kemalismo che in essa sono contenuti. I militari e i giudici costituzionali divengono, soprattutto nella vigenza del Testo del 1982, i veri e propri custodi del kemalismo e solo con il c.d. decennio riformista la Grande Assemblea Nazionale trova i modi e i tempi per intervenire sulla disciplina di queste due istituzioni e ricondurre il loro funzionamento in linea con il costituzionalismo contemporaneo. 4.1 Le forze armate Nelle varie fasi costituzionali della Turchia, sin dalla sua stessa fondazione, la partecipazione dei militari alla gestione della res publica è particolarmente evidente e spesso gode del consenso della popolazione. L’influenza dei militari nel contesto turco pare giustificabile alla luce di quella costante delle società instabili e scarsamente istituzionalizzate, com’era la Turchia delle origini, che vede la popolazione supportare le forze armate poiché le percepisce come capaci di ristabilire l’ordine grazie al potere coercitivo che la rigida catena gerarchica di controllo 67

Così N. BOBBIO (a cura di BOVERO M.), Teoria generale della politica, Einaudi, Torino, 1999, p. 205.

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consente; a ciò si aggiunga che i militari turchi, potendo vantare un ruolo di autorevolezza nel percorso per l’indipendenza, assumono un elevato valore politico nella tradizione fondante dell’ordinamento68. Non manca, infatti, chi ha evidenziato come in tali circostanze le dittature militari possano compararsi con la dittatura romana, instaurata allo scopo di ripristinare l’ordine prima di assicurare un ritorno al normale funzionamento delle istituzioni69. I militari turchi, inoltre, rappresentano, agli albori della Repubblica, uno dei più validi strumenti di modernizzazione e di occidentalizzazione anche in ragione del costante confronto con gli omologhi europei di cui hanno potuto usufruire già durante tutto l’ultimo secolo di vita dell’Impero ottomano. Il rifiuto dei giannizzeri70 di recepire le innovazioni militari provenienti dall’Europa, infatti, induce il Sultano Mahmud II a procedere con il cruento scioglimento del più prestigioso corpo dell’esercito (1826)71 e ad avviare, nel tentativo di migliorare le performance militari del proprio esercito, un programma di formazione delle forze armate ottomane che si avvale di istruttori europei. Durante la guerra di Crimea (1854-1856), inoltre, si consolida una collaborazione franco-anglo-turca che consente l’invio dei soldati ottomani in Europa per apprendere le 68

Cfr. Z.F. ARAT, Democracy and Human Rights in Developing Countries, Lynne Rienner Publisher, London, 1991, p. 63. 69 Questo punto di vista è espresso in G. SAPELLI, L’Europa del Sud dopo il 1945. Tradizione e modernità in Portogallo, Spagna, Italia, Grecia e Turchia, Rubbettino, Soveria Manelli, 1996, p. 271. Del resto una posizione affine, finalizzata a giustificare la dittatura come strumento di rinnovamento dell’ordine politico e sociale, si rinviene già in C. Schmitt, La dittatura, Settimo Sigillo, Roma, 2006 (1a ed. 1921). 70 Il nome origina dal turco yeniçeri (nuove truppe). Istituiti nel 1330 dal Sultano Murad I, i giannizzeri sono il primo corpo dell’esercito regolare ottomano addetto alla guardia personale del sovrano e dei suoi beni. Essi vengono reclutati, a partire dal Sultanato di Selim I, grazie alla devşirme (letteralmente: ramazzata, spazzata), ossia alla chiamata alle armi dei sudditi non musulmani del confine balcanico in età compresa fra i 6 e i 9 anni, abolita solo nel 1676. 71 In effetti, i giannizzeri reagiscono all’introduzione delle nuove tecniche militari con una rivolta, cominciata il 14 giugno 1826, cui il Sultano risponde ordinando all’artiglieria a lui fedele di sparare sui rivoltosi e di radere al suolo la caserma dei giannizzeri di Et Meydanı (cfr. K. KREISER, C.K. NEUMANN (a cura di), op. cit., p. 260).

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nuove tecniche militari. È attraverso questi programmi di scambio che le prime idee di nazionalismo e di opposizione all’assolutismo monarchico permeano i ranghi militari ottomani. Sulla scia dell’influenza europea, inoltre, gli studenti dei collegi militari cominciano a fondare società segrete le cui attività sono spesso censurate dal Sultano con la pena dell’esilio. Tale misura si rivela essere un ulteriore strumento per favorire il confronto con i modelli occidentali, visto che la maggior parte degli ufficiali esiliati finisce per ritrovarsi a Parigi e Ginevra72 per poi convergere nei ranghi dei Giovani Turchi e, successivamente, in quelli del Comitato Unione e Progresso, ove si pongono le basi ideologiche per il kemalismo73. Anche per la popolazione, dunque, nel periodo della guerra di indipendenza il sostegno ai giovani kemalisti sembra naturale rispetto a quello verso la burocrazia civile, le cui connivenze con il potere del Sultano e la cui fedeltà a quest’ultimo sono ben note74. Nel momento in cui si comprende il ruolo testé accennato delle forze militari si capiscono anche le motivazioni per cui i colpi di Stato che hanno interessato la Turchia non sono mai stati considerati dalla popolazione come attentati all’ordinamento democratico del paese, bensì come tentativi di restaurarlo75. Così, all’indomani dell’indipendenza, l’ordinamento turco prevede una posizione particolarmente rilevante per le forze armate, istituendo un labile, e talvolta ambiguo, confine tra lo Stato e l’esercito, cui è attribuita 72

Al riguardo, interessanti riflessioni si rinvengono in E.E. RAMSAUR, The Young Turks: Prelude to the Revolution of 1908, Princeton University Press, Princeton, 1957. 73 Le modalità istitutive e operative di questa organizzazione consentono di evidenziare come, anche da un punto di vista ideologico, i gruppi di esiliati abbiano recepito le dinamiche europee. Esse, infatti, sono ispirate alla massoneria francese e alle società carbonare, come mostra l’apparizione, nella Salonicco del 1906, della Società per la libertà ottomana e del Grande Oriente ottomano (cfr. A. DESTRO, I volti della Turchia. Come cambia un paese antico, Carocci, Roma, 2012, p. 176). 74 Sulle ragioni per il sostegno della popolazione ai militari cfr. D.A. RUSTOW, The Army and the Founding of the Turkish Republic, in World Politics, 4, 1959, pp. 513-552. 75 Cfr. M. BOZDEMIR, La marche turque vers la démocratie, in AA. VV., Turquie: l’ère post-kemaliste?, in Peuples Méditerranéens, 60, 1992, pp. 9-24, spec. p. 15; F. AGUERO, Democratic Consolidation and the Military in Southern Europe and South America, in R. GUNTHER, P.N. DIAMANDOROUS, H.J. PUHLE (a cura di), The Politics of Democratic Consolidation, John Hopkins University Press, Baltimore, 1995, pp. 124165; E. ÖZBUDUN, Contemporary Turkish Politics. Challenges to Democratic Consolidation”, Lynne Rienne Publishers, London, 2000, pp. 105-121.

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una funzione costituzionalmente garantita di sorveglianza e supervisione del rispetto dei valori kemalisti. All’indomani del secondo conflitto mondiale, l’esercito turco diviene anche un importante attore internazionale quale baluardo contro la possibile avanzata sovietica76. È per questa ragione che la comunità internazionale, Stati Uniti in primis e soprattutto a seguito della dichiarazione britannica del febbraio 1947 di non poter proseguire nell’assistenza militare alla Turchia, procede sin da subito ad inviare nel paese consulenti militari e armi per consentire all’esercito di organizzare le difese in caso si realizzino i tre più plausibili attacchi da parte dei sovietici, ossia sul Bosforo, sul Mar Nero e nel Caucaso. Fornire supporto militare, tuttavia, non equivale a controllare l’utilizzo delle armi e la strategia militare in caso di attacco; per questo si valuta la possibilità di inserire il paese nella North Atlantic Treaty Organization (NATO) nonostante la conseguente ulteriore estensione, in termini sia territoriali sia economici, dell’impegno statunitense in Europa77. Per tentare una soluzione che accontenti le sempre più recalcitranti forze armate turche, nel settembre 1950 la Commissione Difesa del Consiglio dell’Atlantico del Nord propone alla Turchia di coordinare le proprie strategie militari con quelle della NATO78. È solo il 18 febbraio 1952, anche a seguito della partecipazione di truppe turche alla guerra di Corea79, che l’ingresso della Turchia nella NATO è 76

Cfr. S. LAÇINER, Turkish Foreign Policy Between 1961-1971: Neo-Kemalism vs. Neo-Democrats?, in USAK Yearbook of International Politics and Law, 3, 2010, pp. 171-234, spec. p. 192. 77 Ancora nel 1949 il Segretario di Stato Acheson respinge la richiesta informale della Turchia di essere ammessa nella NATO (cfr. M.P. LEFFLER, Strategy, Diplomacy and the Cold War: the United States, Turkey and NATO, 1945-1952, in The Journal of American History, 4, 1985, pp. 807-825, spec. p. 819). 78 Cfr. la Risoluzione del Consiglio dell’Atlantico del Nord del 20 settembre 1952 (c7-R/11) e il Protocollo di adesione di Turchia e Grecia, del 17 ottobre 1951, entrato in vigore nel 1952. Come si nota, si sceglie di procedere alla contestuale adesione di Turchia e Grecia in ragione delle comuni questioni circa il controllo del territorio e dell’influenza sovietica a fronte della limitatezza delle risorse statunitensi. 79 In effetti, la Turchia invia in Corea 25.000 soldati affinché partecipino alle attività belliche realizzate sotto l’egida dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Può essere

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ufficialmente formalizzato consentendole di prendere parte alla Conferenza di Lisbona del 16 febbraio 1952. L’ingresso nella NATO significa per la Turchia, almeno nel breve periodo, un supporto economico annuo di 1.314 milioni di dollari; nell’opinione degli USA80, che materialmente procedono allo stanziamento dei fondi, essi dovrebbero essere utilizzati sia per favorire il consolidamento delle forze militari del paese sia per contribuire alle politiche economiche miranti a elevare il tenore di vita della popolazione81. L’accresciuta consapevolezza dei propri mezzi e anche la possibilità del costante dialogo con l’Occidente, forse, possono essere considerate all’origine, negli anni della crescente crisi economica e dei tentativi di “annacquare” il laicismo kemalista, del colpo di Stato del 1960. Non deve dimenticarsi, inoltre, che in questi stessi anni la NATO rafforza la posizione di alcune élite militari promuovendo le c.d. operazioni stay behind cui sono attribuibili numerose attività condotte dallo “Stato profondo” per orientare la vita politica del paese82. interessante ricordare come la partecipazione della Turchia alla guerra di Corea è all’origine della decisione della Bulgaria comunista di espellere i circa 250.000 cittadini musulmani turcofoni avviando così un periodo di tensioni concluso solo nel 1953, quando la Turchia sigla anche il Patto balcanico con Grecia e Iugoslavia. 80 Questa identificazione fra la NATO e gli Stati Uniti pare dovuta anche al dibattito interno all’Alleanza che vede gli USA, convinti sostenitori del ruolo della Turchia in funzione antisovietica, opporsi agli Stati europei, detentori di una visione più limitata dei confini “occidentali” da difendere dal pericolo sovietico. Nonostante le difficoltà diplomatiche, infatti, il supporto statunitense alla Turchia è così solido da indurre alcuni studiosi a parlare di «un’alleanza all’interno dell’Alleanza». Così M. KIBAROĞLU, Turchia, Stati Uniti e NATO: un’alleanza all’interna dell’Alleanza, in ISPI Policy Brief, 30, 2005, in cui l’Autore evidenzia come i partner europei dell’Alleanza ancora in occasione dei conflitti in Iraq si mostrino riluttanti a supportare le richieste della Turchia di applicare l’art. 5 del Trattato. 81 Questo secondo obiettivo ha il dichiarato scopo di annullare le ragioni per il supporto di partiti di ispirazione comunista (cfr. J.B. DUROSELLE, Storia diplomatica dal 1919 ai giorni nostri, LED, Milano, 1998, pp. 447-448). 82 Nel giugno 2007 tali attività sono chiamate in causa dallo scandalo Ergenekon. Le indagini al riguardo, infatti, evidenziano la responsabilità di una rete “sotterranea” in alcuni dei principali attentati che hanno interessato il paese (cfr. L. NOCERA, op. cit., pp. 123-125; N. BOLAT, L’affaire Ergenekon: quels enjeux pour la démocratie turque?, in Politique étrangère, 1, 2010, pp. 41-53). Nel giugno 2014 la questione si è nuovamente posta in seguito al controverso caso Balyoz, che ha visto numerosi esponenti dell’esercito incriminati per un tentativo di colpo di Stato che sarebbe stato pianificato

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È così che l’art. 111 della Costituzione del 1961 provvede a costituzionalizzare la funzione tutelare dell’esercito83 istituendo il Consiglio di Sicurezza Nazionale. Quest’organo, con la denominazione di Consiglio Presidenziale, coadiuva il Presidente della Repubblica Evren nei primi sei anni di vigenza della Costituzione del 1982. Tale organo, riprendendo la denominazione di Consiglio di Sicurezza Nazionale, è quindi rafforzato nelle sue competenze dalla Costituzione del 1982, che lo disciplina agli artt. 118, 119 e 120. Il Consiglio si compone prevalentemente dei vertici delle forze armate (sei generali), cui si aggiunge un esiguo numero di membri provenienti dal Governo (Presidente della Repubblica, che lo presiede, Presidente del Consiglio, e i Ministri della Difesa, degli Interni e degli Esteri). Incaricato di occuparsi di questioni relative alla sicurezza nazionale, al Consiglio di Sicurezza è attribuita una funzione consultiva, potendo presentare pareri all’Esecutivo84. È rinviata alla legge sul Consiglio di sicurezza nazionale, approvata nel 198385, la definizione di “sicurezza nazionale”: tutela dell’ordinamento costituzionale dello Stato, della sua integrità nazionale e territoriale; garanzia di tutti gli interessi politici, economici, sociali in campo internazionale; protezione degli interessi derivanti da accordi internazionali contro minacce esterne o interne. Una così ampia nozione di sicurezza nazionale, volta a includere la tutela dello Stato non solo da pericoli esterni, ma anche interni, legittima un interventismo militare in molteplici settori della vita politica, sociale ed economica del paese, sia di nel 2003 (cfr. G. JENKINS, The Balyoz Retrial and the Changing Politics of Turkish Justice, in Turkish Analyst, 7, 2014, www.turkeyanalyst.org). 83 Sul punto si veda L. ÜNSALDI, L’institution militaire en Turquie. Un acteur incontournable, in Questions internationales, 12, 2005, pp. 19-20. 84 Nella sua formulazione originaria l’art. 118 dispone: «Il Consiglio di sicurezza nazionale può presentare pareri al Consiglio dei Ministri riguardanti la formulazione, la determinazione e l’attuazione della politica di sicurezza nazionale. Il Consiglio dei Ministri deve dare prioritaria considerazione alle decisioni del Consiglio di sicurezza nazionale relative alle misure necessarie alla conservazione dell’indipendenza dello Stato, della sua integrità e indivisibilità, a garanzia della pace e della sicurezza nella società». (corsivo mio) 85 Legge n. 2945 del 9 novembre 1983.

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tipo “negativo”, di reazione cioè a minacce esistenti, sia di tipo “positivo”, attraverso la promozione di attività nazionali volte a tutelare gli interessi del paese. Questa posizione delle forze armate, del resto, è legittimata sin dal Preambolo della Costituzione, in cui si afferma che «nessuna protezione va accordata ad attività contrarie agli interessi nazionali turchi […], ai principi e alle riforme modernizzatrici di Atatürk», riconoscendo così all’esercito il ruolo di garante dei valori posti a fondamento della nazione. Un tentativo di limitare l’influenza del Consiglio è effettuato con la riforma del 2001, che interviene sul testo costituzionale per ampliare la partecipazione di membri civili affinché acquisiscano la maggioranza all’interno dell’organo e che, modificando la legge contenente la disciplina di dettaglio, chiarisce il valore di pareri non vincolanti delle raccomandazioni emesse dal Consiglio. Ancora più incisiva è la riforma approvata con il referendum costituzionale del settembre 2010. In primo luogo è abrogata la quindicesima disposizione transitoria, che sottrae le leggi approvate durante il regime militare alla giurisdizione della Corte Costituzionale, anche al termine della transizione, garantendo così un’immunità perenne a circa cinquecento leggi e novanta decreti. La stessa disposizione, peraltro, garantisce l’immunità ai responsabili del colpo di stato del 1982; la sua abrogazione di fatto consente al potere giudiziario turco di procedere per le violazioni dei diritti umani risalenti a quel periodo e pone fine a un lungo periodo di sudditanza psicologica verso i militari anche da parte delle istituzioni86. Modificando l’art. 157 Cost., inoltre, si prevede che i militari siano giudicati da tribunali civili per le violazioni commesse contro lo Stato, come l’organizzazione di colpi di Stato. Le riforme costituzionali, peraltro, sono lo strumento utilizzato dal Governo dell’AKP per eliminare, attraverso tappe successive di cui parleremo in seguito, le Corti di Sicurezza Nazionale, potenziali giudici dall’ampia discrezionalità di tutti i cittadini turchi, sia civili che militari, coinvolti in questioni eventualmente rilevanti per la sicurezza nazionale. 86

Si pensi che, ancora nel 2008, la Turchia è condannata dalla Corte di Strasburgo per violazione della libertà d’espressione in ragione delle sanzioni comminate nei confronti di un Procuratore della Repubblica accusato di aver offeso le forze armate artefici del colpo di Stato del 12 settembre 1980 (cfr. Kayasu c. Turchia, 13 novembre 2008, n. 64119/00 e 76292/01).

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Le scarse resistenze alle riforme istituzionali relative al ruolo dell’esercito mostrano un nuovo approccio delle forze armate, che non paiono più interessate ad interventi politici. Piuttosto, esse sembrano ormai consapevoli del loro ruolo nella difesa dei valori comuni in situazioni di crisi definendo per se stesse un nuovo ruolo che si declina anche nella partecipazione alle missioni militari della NATO. A titolo esemplificativo si ricorda la partecipazione di truppe turche in occasione della crisi balcanica. Nel 1993, infatti, la Turchia partecipa con truppe navali alla missione NATO nell’Adriatico e con truppe aeree alla costituzione della no fly zone prima di spiegare anche forze terrestri nell’ambito della missione IFOR87. In seguito, truppe turche prendono parte alla missione KFOR in Kosovo e, da ultimo, alle missioni di formazione professionale in Iraq e in Afghanistan. Non deve dimenticarsi, inoltre, che sono stanziati in Turchia sia l’Allied Land Command – che nel dicembre 2012 sostituisce l’Allied Air Command – di Izmir, sia il Partnership for Peace Training Center di Ankara, istituito nel 1998 allo scopo di favorire la formazione congiunta e l’interoperabilità delle truppe dei vari Stati membri. Da ultimo, è opportuno ricordare che la Turchia dimostra un notevole impegno nel Mediterranean Dialogue88, oltre ad essere fra gli Stati promotori della Istanbul Cooperation Initiative89. Il ruolo militare della Turchia contemporanea nell’Alleanza Nordatlantica potrebbe assumere nuove sfaccettature nell’ottica dello spostamento della linea di intervento militare, finalizzato non più al contenimento sovietico ma al controllo, anche per ragioni geo-politiche e di approvvigionamento energetico, del Medio Oriente. In questo nuovo 87

Per la rilevanza di queste missioni percepita dall’opinione pubblica turca, si veda A. ÇAĞLAYAN, Turkey Exerts Its Influence in the Balkans, in Turkey Daily News, 19 luglio 1994. 88 Si tratta di una iniziativa avviata dalla NATO nel 1994 che coinvolge anche alcuni Stati non aderenti all’Alleanza (Algeria, Tunisia, Marocco, Egitto, Israele, Giordania e Mauritania) allo scopo di favorire la stabilità e la sicurezza della regione. 89 L’Initiative è avviata in occasione del summit NATO svoltosi ad Istanbul nel settembre 2004 al fine di coinvolgere gli Stati del Golfo Persico nella definizione di una nuova strategia per il contrasto delle attività terroristiche e il mantenimento della sicurezza.

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scenario i militari, progressivamente esclusi dalla sfera decisionale interna al punto che la Grande Assemblea Nazionale non esita a negare il transito nello spazio aereo turco alle truppe delle coalition of willing in occasione del secondo conflitto in Iraq (2003), potrebbero trovare nuovo spazio attraverso la cooperazione nelle politiche di sicurezza e di difesa dell’Unione europea90. Un ruolo che essi potrebbero svolgere anche nell’ambito della Black Sea Economic Cooperation – BSEC, strumento attorno a cui ruota la crescente cooperazione, fortemente sostenuta dalla Turchia, nel Mar Nero91. La crisi politico-istituzionale che nel 2014 interessa l’Ucraina, peraltro, potrebbe dare nuovo vigore a questo strumento di cooperazione come forum di mediazione nelle relazioni con la Russia, secondo una strada già avviata con la mediazione nel conflitto russo-georgiano nel 2008. L’avvicinamento a questo antico nemico attraverso l’annessione de facto della Crimea da parte della Russia, inoltre, conferma ancora una volta il ruolo centrale della Turchia, che si pone in maniera sempre più evidente come perno ed elemento di congiunzione fra i vari assi geopolitici globali. La partecipazione della Turchia alla NATO, dunque, si rivela di fondamentale importanza per il paese. Dapprima, la NATO supporta il consolidamento del ruolo dei militari a livello interno attraverso il potenziamento delle loro capacità in funzione antisovietica; oggi la stessa organizzazione si pone quale “valvola di sfogo” per l’esercito, aprendo a nuove possibilità di azione e alla sua riconfigurazione quale garante dei valori occidentali non più nella dimensione interna, ma in quella 90

Sul punto interessanti riflessioni si rinvengono in P. BILGIN, The “Peculiarity” of Turkey’s Position on EU-NATO Military/Security Cooperation: a Rejoinder to Missiroli, in Security Dialogue, 3, 2003, pp. 345-349. Circa la posizione della Turchia nella NATO, anche con riferimento al nuovo ruolo che l’Alleanza dovrebbe assumere nel nuovo scenario mondiale, si veda l’intervento del Ministro degli Esteri turco A. DAVUTOĞLU, Transformation of NATO and Turkey’s Position, in Perceptions, 1, 2012, pp. 7-17. 91 Nello specifico, si ricorda che la Turchia figura come Stato fondatore della BSEC (1992) e ne ospita il segretariato dell’Assemblea parlamentare presso il Dolmabahçe Sarayi di Istanbul. Al riguardo, si veda M. DARTAN, Black Sea Economic Cooperation. A New Regional Integration Project, in Avrupa Araştırmaları Dergisi, 1-2, 1993-1994, pp. 123-153, nonché Idem, Black Sea Economic Co-operation (BSEC): Proposal and Possibilities with Particular Reference to the EU, in Avrupa Araştırmaları Dergisi, 1-2, 1999, pp. 7-51.

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internazionale, ove il coordinamento con gli altri Stati ne attenua anche la portata “eversiva”. Ai militari resta comunque non solo la difesa del paese, ma anche un rilevante ruolo quale agente economico, consolidatosi progressivamente in seguito al colpo di Stato del 1960. In quell’occasione, infatti, è istituito l’Ordu Yardimlaşma Kooperatıfı (OYAK – Cooperativa per il mutuo soccorso dell’esercito) che dispone di un proprio fondo, accumulato mediante contributi sia volontari che obbligatori del personale militare. Nel tempo questa cooperativa si afferma come un attivo e importante attore economico avendo compiuto investimenti nel settore siderurgico, petrolchimico, alimentare, dei trasporti su gomma e dei servizi ed essendo divenuto partner di aziende nazionali e straniere come la Renault e la Goodyear92. Si configura così un vero e proprio settore capitalistico militare mediante cui l’esercito estende la propria influenza anche in altri campi come quello dei sindacati e degli interessi dei patronati93 e che si conferma, nonostante le riforme, come uno dei principali vettori sociali che influiscono sulla transizione democratica e sui suoi esiti. 4.2 La Corte costituzionale Il controllo di costituzionalità è introdotto per la prima volta nell’ordinamento turco dalla Costituzione del 196194, sebbene in materia si avvii un intenso dibattito sin dalla nascita della Repubblica. È possibile ricordare, infatti, che l’assenza di disposizioni al riguardo all’interno della 92

Cfr. Z.F. ARAT, op. cit., pp. 64-65, la quale evidenzia anche come questa holding sia di fatto divenuta uno dei principali sbocchi lavorativi e di sussistenza per gli alti gradi militari in pensione. 93 Sul punto cfr. F. AHMAD, The Turkish Experiment in Democracy: 1950-1975, Westview Press, Boulder, 1987, pp. 280-281 e P.J. MAGNARELLA, Turkey’s Experience with Political Democracy, in V.H. SUTLIVE, The Rise and Fall of Democracies in the Third World Societies, College of William and Mary, Williamsburg, 1986, pp. 43-60, spec. p. 52. 94 Concretamente, la prima Corte costituzionale turca viene nominata il 25 aprile 1962 e si riunisce per la prima volta il 28 agosto dello stesso anno.

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Costituzione del 1924 produce una oscillazione tra la scelta di ignorare la possibilità di procedere a un controllo di legittimità costituzionale delle leggi e quella di affidare tale compito ai giudici ordinari secondo un modello diffuso di ispirazione statunitense. Per questa soluzione sembra propendere soprattutto il giudice Refik Gür della Corte civile di Aksehir, che si pronuncia più volte circa i rischi per l’ordinamento derivanti dall’assenza del controllo di costituzionalità, sostenendo che tale assenza autorizzi i giudici ordinari ad assumere questa competenza. Di avviso contrario si mostra la Corte di Cassazione, che nega definitivamente la competenza delle Corti ordinarie in materia di controllo di costituzionalità nel 193195. Sul punto ritornano i costituenti del 1961, che ritengono necessario introdurre un sistema di judicial review of legislation in seguito al riaccendersi del dibattito che coinvolge dapprima gli intellettuali e, successivamente, le forze dell’opposizione parlamentare96. Principale elemento di confronto è non tanto la possibilità di introdurre o meno il controllo di costituzionalità, quanto, piuttosto, la scelta di un modello di riferimento. Alla fine, si sceglie di guardare ai modelli europei, e in particolare a quello tedesco e italiano, così come definiti dalle rispettive costituzioni nel secondo dopoguerra. In occasione del referendum del 2010, inoltre, si modificano la composizione e il funzionamento della Corte costituzionale (Anayasa Mahkemesi), introducendo anche un ricorso diretto ispirato alle esperienze tedesca e spagnola. Come si vedrà, ancora una volta non si è trattato di un mero legal transplant ma di un adattamento dei modelli stranieri alle necessità dell’ordinamento turco. 95

Cfr. Corte di Cassazione, E109/ K11, 4 febbraio 1931. Per un ulteriore approfondimento si rinvia a E. SALES, La Cour constitutionnelle turque, in Revue du droit public et de la science politique en France et à l’étranger, 5, 2007, pp. 1264-1290, spec. pp. 1265-1266. 96 Le ragioni che vedono la coincidenza delle opinioni di questi due gruppi devono essere rintracciate nel comportamento del Partito democratico, scarsamente conforme al rispetto dei principi dello Stato di diritto, che utilizza la propria maggioranza nell’Assemblea nazionale per distorcere il principio democratico e trasformarlo in mera dittatura del numero. Tali gruppi ritengono quindi che solo l’affermazione di un organo titolare a effettuare il controllo di costituzionalità delle leggi potrebbe evitare il proliferare di una produzione normativa contraria ai principi costituzionali (cfr. R. AYABAY, The Constitution and judicial review in Turkey, in Siyasal Bilgiler Fakültesi, Istanbul, 1978, 331-350, p. 342).

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A seguito della riforma del 2010, l’art. 146 della Costituzione del 1982 prevede che la Corte sia composta di diciassette giudici (e non più undici più quattro supplenti). La loro nomina, precedentemente attribuita al solo Presidente della Repubblica, inoltre, coinvolge le più alte istituzioni dello Stato: la Grande Assemblea Nazionale è competente a nominare tre giudici, eleggendone due tra i candidati proposti dalla Corte dei Conti e uno tra quelli proposti dal Consiglio Forense. Al Presidente resta la nomina di quattordici giudici, di cui tre giudici devono essere individuati tra quelli candidati dalla Corte di Cassazione; due fra quelli proposti dal Consiglio di Stato; uno dalla lista presentata dalla Corte militare di Cassazione; uno dal novero delle candidature dell’Alta Corte militare amministrativa. È interessante notare come la procedura di selezione coinvolga anche l’Alto Consiglio per la formazione, cui spetta redigere una lista da cui il Presidente della Repubblica è tenuto a individuare tre giudici. Da ultimo, il Presidente nomina quattro giudici tra i funzionari amministrativi di rango elevato, avvocati, giudici o pubblici ministeri o tra i rapporteur (referendari) della Corte costituzionale che abbiano almeno cinque anni di esperienza. Questa nuova composizione della Corte rappresenta un rilevante meccanismo di garanzia giacché, ampliando gli organi coinvolti nella nomina non sarà più espressione della sola corrente politica cui appartiene il Presidente della Repubblica. L’aumento del numero dei giudici consente anche una maggiore articolazione dell’Anayasa Mahkemesi, che lavora suddivisa in due Camere, eventualmente riunibili in plenum. La legge n. 2949 dell’11 novembre 1983 prevede che la Corte elegga al suo interno un Presidente e il suo vice e pone il divieto circa la possibilità di candidature ufficiali per tali cariche (art. 14). Ai sensi dell’art. 16 della medesima legge un numero congruo di referendari, coordinati dal Segretario Generale istituito alle dipendenze della Presidenza della Corte, assiste ciascun giudice nel proprio lavoro. Anche il mandato dei giudici costituzionali viene modificato nel 2010, prevedendosi una durata di dodici anni non rinnovabile, la cui scadenza è comunque fissata, sulla scia di quanto disposto precedentemente al referendum, al compimento del 65° anno di età. I giudici, inoltre,

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decadono in caso di reati da cui derivi la cessazione della professione giudiziaria ovvero per ragioni di salute97 e non possono svolgere altre funzioni ufficiali o private durante la permanenza in carica. Le funzioni della Corte ricalcano fedelmente quanto previsto negli ordinamenti tedesco e italiano. Essa, infatti, può essere adita sia in via principale che in via incidentale al fine di giudicare, da un punto di vista sia formale che sostanziale, la costituzionalità di una legge o di un atto avente forza di legge; sono totalmente esclusi dal controllo di costituzionalità, invece, i trattati internazionali e i decreti-legge varati durante il periodo di emergenza. I ricorsi in via principale sono astratti e consentono di richiedere l’annullamento di una legge o un atto approvato dalla Grande Assemblea Nazionale; essi possono essere avanzati dal Consiglio Supremo dei giudici e dei pubblici ministeri, dalla Corte di Cassazione, dal Consiglio di Stato, dalla Corte di Cassazione militare e dalle Università solo nelle materie che concernono le proprie funzioni; una competenza piena è attribuita al Presidente della Repubblica, ai gruppi parlamentari che sostengono il Governo e al principale partito dell’opposizione nonché, in una sorta di saisine parlamentaire di ispirazione francese, a un quinto dei parlamentari. Tale tipo di ricorso è tuttavia soggetto a limiti temporali, potendo essere esperito non oltre sessanta giorni dalla pubblicazione in Gazzetta ufficiale (art. 151). Non è soggetto ad alcun limite temporale, invece, il ricorso per incostituzionalità in via incidentale, che può essere mosso da qualsiasi cittadino nell’ambito di un procedimento che lo riguardi o dal competente tribunale. Come nell’ordinamento italiano, l’accesso alla Corte è subordinato a due condizioni: la rilevanza della questione ai fini della definizione del giudizio pendente e la sua non manifesta infondatezza. La valutazione di tali aspetti è attribuita al giudice ordinario, il quale, se lo reputa necessario, sospende il giudizio e rimette gli atti alla Corte costituzionale, che deve emettere una decisione entro cinque mesi. Qualora la decisione non giunga nel termine previsto, il giudice a quo è

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L’art. 147 Cost. ricorda tuttavia che perché si possa destituire un giudice per ragioni connesse allo stato della sua salute è necessaria una votazione a maggioranza assoluta dei membri della Corte.

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chiamato a risolvere la controversia applicando la legge esistente98. Se invece la Corte emette un verdetto prima che abbia termine il processo in cui la questione di costituzionalità è sorta, esso deve essere definito sulla base della decisione presa. Ancora, nel caso in cui la Corte costituzionale respinga la questione per ragioni non procedurali, non può esserci alcun sindacato di costituzionalità sulla medesima questione per i dieci anni successivi alla pronuncia di rigetto (art. 152)99. Le pronunce di accoglimento dei ricorsi dell’Anayasa Mahkemesi dispongono l’annullamento dell’atto ex nunc ed erga omnes, pur essendo possibile che la Corte scelga di posticipare l’entrata in vigore degli effetti della decisione per un periodo che tuttavia non può essere superiore a un anno. Si configurano così delle sentenze assimilabili a quelle “dilatorie” previste negli ordinamenti tedesco e austriaco, in cui la posticipazione degli effetti della dichiarazione di incostituzionalità dovrebbe spingere il legislatore ad intervenire sulla materia per evitare che la pronuncia produca lacune normative100. Restano da evidenziare i parametri di giudizio della Corte. Ai sensi dell’art. 176 Cost., il Preambolo della Costituzione è parte integrante della stessa, rinforzando così la possibilità di considerare come parametri per il 98

Sul punto si segnala una evidente discrasia con la Costituzione del 1961, ai sensi della quale nel caso in cui la Corte costituzionale non si pronunci entro un periodo di sei mesi, la questione di costituzionalità deve essere risolta dal giudice a quo. È evidente, dunque, come questa modifica comporti un passaggio da un sistema potenzialmente diffuso di controllo di costituzionalità, a un sistema decisamente accentrato. La ragione di questa modifica può essere rinvenuta nella riluttanza con cui i tribunali ordinari utilizzano questo potere. Al riguardo si veda M. TURHAN, op. cit., p. 13. 99 Al riguardo non manca chi evidenzia come questa previsione, pur avendo come scopo la garanzia della “stabilità legislativa”, si traduca di fatto in una grave limitazione della tutela dei diritti. Così, soprattutto, T. ANSAY, D. WALLACE, Introduction to Turkish law, cit., p. 44. 100 Si veda E. MALFATTI, S. PANIZZA, R. ROMBOLI, Giustizia Costituzionale, Giappichelli, Torino, 2007, spec. pp. 126-127, in cui si richiama anche il dibattito circa il differimento nel tempo degli effetti delle sentenze dei giudici costituzionali. Sul punto si rinvia anche a T. GROPPI, Corte costituzionale e principio di effettività, in Rassegna Parlamentare , 1, 2004, pp. 189-221.

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controllo di costituzionalità i principi fondanti del kemalismo, cui nel Preambolo si fa riferimento. Interessanti sono anche le attribuzioni della Corte costituzionale in materia di revisione costituzionale. Essa, infatti, può annullare, a maggioranza qualificata di tre quinti dei suoi componenti, gli emendamenti costituzionali per motivi procedurali, ma non sostanziali (artt. 148 e 149 Cost.). In realtà, l’art. 148 è oggetto da parte della Corte di interpretazione estensiva delle proprie competenze, attribuendosi, in via concreta, la possibilità di verificare che la legge rispetti il “nucleo duro” della Costituzione101. Come si è accennato, la principale innovazione introdotta con la riforma del 2010 è il ricorso diretto (bireysel başvuru), per la definizione della cui disciplina il legislatore turco si è avvalso anche della funzione consultiva della Commissione di Venezia. Quest’ultima si è espressa in occasione della 59a sessione plenaria (18-19 giugno 2004)102 in seguito ad una lettera di richiesta di assistenza, presentata dal Presidente della Corte costituzionale il 2 aprile 2004, circa un progetto di legge elaborato dalla medesima Corte, e presentata alla Grande Assemblea Nazionale, per la riforma della giustizia costituzionale. La Commissione si sofferma, in particolare, su due aspetti del progetto di legge, successivamente adottato a seguito del referendum costituzionale del 2010: la composizione della Corte e l’introduzione del ricorso diretto per violazione dei diritti fondamentali. Rispetto a tali elementi, la Commissione ritiene che le proposte di modifica avanzate dalla Corte siano giustificate e in linea con le soluzioni adottate dagli altri ordinamenti europei per garantire un migliore funzionamento della giustizia costituzionale. Pur se ispirato ai ricorsi diretti previsti dagli altri ordinamenti europei, il bireysel başvuru turco, disciplinato nel Capitolo IV della legge n. 6216 del marzo 2011 sulla composizione e il funzionamento della Corte costituzionale, è caratterizzato da una particolare peculiarità che ne sottolinea la differenza rispetto al verfassungbeschwerde tedesco o 101

Corte costituzionale, E1970/1 K1970/31, 16 giugno 1970. Sul punto si veda İ.Ö. KABOĞLU, Le contrôle juridictionnel des amendements constitutionnels en Turquie, cit., in cui si evidenziano le modalità con cui la Corte ha progressivamente esteso, in via giurisprudenziale, la propria competenza a giudicare la legittimità degli emendamenti costituzionali. 102 Si veda l’Opinione della Commissione n. 296/2004 del 29 giugno 2004.

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all’amparo spagnolo. L’art. 45 della legge n. 6216/ 2011, infatti, chiarisce che i ricorsi possono essere effettuati, previo esperimento di tutti gli altri ricorsi amministrativi o giudiziali previsti dall’ordinamento, per violazione dei diritti e delle libertà fondamentali «garantiti dalla Costituzione e rientranti negli scopi della CEDU e dei protocolli addizionali» da parte delle pubbliche autorità mediante «procedure, atti o negligenze». Sono titolari della capacità di ricorrere solo coloro i cui diritti sono stati violati, prevedendosi che le persone giuridiche pubbliche non abbiano titolo al ricorso, che le persone giuridiche private possano ricorrere solo limitatamente alla propria titolarità dei diritti che si pretendono violati e che gli stranieri non possano ricorrere per violazione di diritti che la Costituzione riconosce ai soli cittadini (art. 46). Da un punto di vista procedurale, il ricorso può essere presentato direttamente alla Corte costituzionale, ovvero attraverso le Corti distrettuali o le rappresentanze dello Stato turco all’estero in seguito al pagamento di una tassa; ciò deve avvenire entro trenta giorni dall’esperimento di tutti gli altri ricorsi interni ovvero, nei casi in cui l’ordinamento non preveda alcuna possibilità di ricorso, entro trenta giorni dal configurarsi della violazione. In caso di gravi impedimenti al rispetto delle scadenze fissate, si prevede la possibilità di avanzare il ricorso non oltre quindici giorni dalla cessazione dell’impedimento, presentandone una valida prova (art. 47). Tali limiti temporali sono oggetto della valutazione di ammissibilità da parte della Anayasa Mahkemesi, congiuntamente ai criteri di merito definiti dall’art. 48. Rileva sottolineare che la Camera della Corte chiamata a valutare nel merito l’ammissibilità può ritenere non ammissibili i ricorsi manifestamente infondati e anche quelli che non hanno un significativo rilievo in termini di interpretazione della Costituzione (art. 49). Rispetto agli esiti del ricorso, la Corte può decidere tutte le misure necessarie alla cessazione della violazione e delle sue conseguenze, potendo anche prevedere, qualora la violazione derivi da una sentenza e la mera dichiarazione di invalidità della stessa non faccia cessare la violazione, la ripetizione del processo (art. 50).

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Ai sensi dell’art. 69 Cost., infine, la Corte costituzionale turca è competente a sciogliere i partiti politici la cui attività sia ritenuta non conforme alla Costituzione. 4.2.1 La tutela dell’identità costituzionale e lo scioglimento dei partiti La Turchia rientra nel novero degli ordinamenti a “democrazia protetta”, in cui si prevede l’istituzione di un organo specifico o l’attribuzione di una competenza a un organo precostituito per evitare il sovvertimento dell’ordinamento. Anche rispetto a questa tematica, la disciplina attualmente prevista dall’ordinamento turco è frutto di un sapiente intreccio fra la necessità di preservare le caratteristiche nazionali, l’influenza dei modelli dell’Europa continentale e il confronto con il sistema di valori definitosi al livello sovrastatale. È così che la Costituzione turca riconosce ai partiti il valore di «elementi indispensabili per la vita politica» (art. 62 Cost.), ma vincola fortemente la loro attività all’adesione ai valori costituzionali prevedendo che la Corte costituzionale possa sciogliere, su ricorso del Presidente della Corte di Cassazione, i partiti politici i cui statuti, programmi o attività siano in contrasto con i diritti umani, l’indipendenza dello Stato, i principi di uguaglianza e dello stato di diritto, l’integrità territoriale e nazionale, la sovranità nazionale, i principi della Repubblica democratica e secolare (art. 68 Cost.). I medesimi criteri per procedere allo scioglimento sono ribaditi anche dagli artt. 78-90 della legge n. 2820 del 22 aprile 1983 recante la disciplina dei partiti politici. L’art. 95 della legge prevede che i membri degli organi direttivi del partito disciolto e i deputati eletti tra le sue fila non possano divenire fondatori o dirigenti di un nuovo partito; ai sensi dell’art. 107 della legge, inoltre, le proprietà del partito disciolto sono acquisite dal Ministero del Tesoro. I membri del partito che con le proprie azioni e dichiarazioni ne causano lo scioglimento, inoltre, sono esclusi dalla vita politica del paese per un periodo di dieci anni; dal 2002, tuttavia, un emendamento alla legge n. 2820 prevede che tale sanzione colpisca solo i colpevoli di istigazione alla violenza e al terrorismo e non coloro le cui dichiarazioni abbiano ispirazioni religiose103. 103

Gli emendamenti sono approvati nel dicembre 2002 e di essi usufruisce poco dopo il Presidente del Consiglio Erdoğan, accusato di istigazione all’odio religioso nel 1998.

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Nella prassi la Corte ha ampiamente fatto uso di questo suo potere, utilizzando come parametro sia le disposizioni costituzionali in materia sia la legge sui partiti politici104. Quest’ultima chiarisce che il mero utilizzo di termini quali “comunista”, “fascista”, “anarchico”, “teocratico” o “nazionalsocialista” nella denominazione dei partiti rappresenta un elemento valido per procedere a uno scioglimento105. Essa, inoltre, vieta la costituzione di partiti che siano espressione di peculiarità nazionali, religiose, culturali, confessionali, razziali o linguistiche (art. 81, c.1) e al contempo punisce come attentato all’integrità della nazione la promozione di culture o lingue diverse dal turco (art. 81, c. 2), nonché l’utilizzo di lingue diverse dal turco nello svolgimento delle attività politiche106 (art. 82). E tuttavia all’art. 83 della legge si ricorda che l’attività dei partiti deve essere svolta in conformità con il principio di equità e il divieto di discriminazione. In seguito agli emendamenti, infatti, egli può partecipare alle elezioni suppletive nella provincia di Sirte. 104 M. KOÇAK, E. ÖRÜCÜ, Dissolution of Political Parties in the Name of Democracy: Cases form Turkey and the European Court of Human rights, in European Public Law, 9, 2003, pp. 399-424. 105 Concretamente questa disposizione è alla base dello scioglimento del Partito comunista turco. Tale partito, istituito il 4 giugno 1990, è da subito accusato dal Procuratore capo generale della Repubblica di attività illegali e contrarie alla Costituzione, per incorporare la parola “comunista” nella sua denominazione, in violazione delle norme fissate dalla legge n. 2820. Un anno più tardi, nel 1991, la Corte Costituzionale ne dispone lo scioglimento. 106 Al riguardo si ricorda il caso della prima parlamentare donna di origini curde, Leyla Zana, che, in seguito alle elezioni del 1994, incorre in una condanna penale di 15 anni per aver pronunciato nella propria lingua madre la frase finale del giuramento di lealtà alla Repubblica e aver richiamato, nella medesima occasione, la fratellanza tra i popoli turco e curdo. Il suo caso è sottoposto, nel 2001, al giudizio della Corte europea dei diritti umani, che condanna la Turchia alla ripetizione del processo. Di fatto, ciò diviene possibile solo in seguito all’approvazione del “pacchetto di armonizzazione” entrato in vigore nel 2004. In seguito alla ripetizione del processo, conclusosi nel giugno dello stesso anno, Leyla Zana viene prosciolta e ottiene, nel 2005, il riconoscimento della violazione della propria libertà d’espressione da parte della Corte di Strasburgo, che contestualmente condanna la Turchia al pagamento di una ammenda di 9000 euro (cfr. Leyla Zana e alt. c. Turchia, 11 gennaio 2005, n. 51002/99 e 51489/99).

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Si rinviene qui tutta l’influenza esercitata sul costituzionalismo turco da parte degli altri ordinamenti che prevedono strumenti di “protezione” della democrazia, in primo luogo l’ordinamento tedesco. L’art. 21 della Costituzione tedesca, infatti, dichiara incostituzionali i partiti che «per le loro finalità o per il comportamento dei loro aderenti si prefiggono di danneggiare o eliminare l’ordinamento fondamentale democratico e liberale o di minacciare l’esistenza della Repubblica Federale Tedesca»107. È evidente come, anche in questo caso, possa individuarsi una difesa della Costituzione e dell’ordinamento mediante l’instaurazione di una democrazia militante, sebbene la sua applicazione sia decisamente più estensiva da parte dell’ordinamento turco rispetto a quello tedesco. Alcune distinzioni si riscontrano, invece, con l’altro ordinamento europeo in cui si prevede la possibilità di scioglimento dei partiti: la Spagna. Sebbene la legge spagnola che introduce il controllo dei partiti sia successiva a quella turca, infatti, sono evidenziabili alcuni legami tra le previsioni dell’ordinamento spagnolo e le modifiche apportate in Turchia alla legge del 1983. La Costituzione spagnola del 1978, infatti, non prevede un controllo sulla costituzionalità dei fini perseguiti dai partiti politici da parte della Corte costituzionale (Tribunal Constitucional) ed è la Legge organica n. 6 del 27 giugno 2002 sui partiti politici a prevedere la possibilità di un controllo giurisdizionale, stabilendo che i partiti possano essere sciolti quando incorrano in illeciti penali o violino i principi democratici, purché le violazioni siano continue, reiterate e gravi. A differenza di quanto accade nei casi turco e tedesco, in Spagna la competenza a giudicare sullo scioglimento dei partiti politici è attribuita alla Sala Especial del Tribunal Supremo, pur essendo il Tribunal Constitucional competente a giudicare i ricorsi degli iscritti ai partiti politici sciolti che ritengano così leso il proprio diritto di associazione. Un’ulteriore distinzione rinvenibile fra i tre casi concerne i presupposti per lo scioglimento. Nei casi tedesco e turco, infatti, lo scioglimento di un partito può essere giustificata dall’adesione ad una ideologia “antisistema”; in quello spagnolo, invece, non si guarda alla contrarietà ai 107

Si ricorda che sulla base di questa disposizione il Tribunale costituzionale federale tedesco (Bundesverfassungserich) dichiara incostituzionale dapprima il partito nazista (1952), e poi quello comunista (1956).

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principi democratici espressa nei programmi politici ma al metodo con cui essa si manifesta, in ottemperanza all’art. 6 della Costituzione spagnola in cui si stabilisce che i partiti politici «possono agire liberamente nel rispetto della legge e della Costituzione»108. Rispetto allo scioglimento dei partiti, intenso è anche il confronto con la Corte di Strasburgo, cui frequentemente hanno fatto ricorso i leader politici dei partiti che hanno subito la messa al bando. Come in altri casi, anche per valutare la conformità alla Convenzione dello scioglimento dei partiti, la Corte applica un test di proporzionalità mirante a valutare se lo scioglimento si pone quale misura proporzionata e necessaria al fine di limitare l’incitazione alla violenza, elemento su cui si fonda sovente la giustificazione turca per lo scioglimento. È tuttavia possibile notare come l’orientamento giurisprudenziale di Strasburgo propenda per considerare lo scioglimento come una violazione della libertà d’associazione capace di arrecare un vulnus alla stessa democrazia109. Particolarmente corposo appare l’insieme delle pronunce relative allo scioglimento delle formazioni filocurde. Dapprima il contenzioso riguarda il solo Segretario generale dello Halkın Emek Partisi (Partito Popolare del Lavoro – HEP), nato nel 1990 dalla scissione di 11 deputati curdi dal Sosyaldemokrat Halk Partisi (Partito Socialdemocratico Populista – SHP) e sciolto dalla Corte costituzionale nel 1993. Il sig. Aksoy, infatti, ricorre a Strasburgo110 ritenendo una violazione della propria libertà di espressione la condanna per propaganda separatista comminatagli dalle Corti nazionali per aver sostenuto l’esistenza in Turchia di due nazioni, quella turca e quella curda. La Corte di Strasburgo valuta le misure adottate dalle autorità turche non proporzionate allo scopo di tutelare 108

Circa lo scioglimento dei partiti politici in Spagna si veda S. CURRERI, Partiti e gruppi parlamentari nell'ordinamento spagnolo, Firenze University Press, Firenze, 2004, spec. pp. 30-40. 109 Per una panoramica relativa alle pronunce della Corte EDU in materia di scioglimento dei partiti politici si vedano Y.Ş. HAKYEMEZ, B. AKGÜN, Limitation on the Freedom of Political Parties in Turkey and the Jurisdiction of the European Court of Human Rights, in Mediterranean Politics, 7, 2002, pp. 54-78. 110 Aksoy c. Turchia, 18 dicembre 1996, n. 21987/93.

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l’integrità statale e non necessarie in una società democratica. Dipoi, i ricorsi vengono avanzati direttamente per lo scioglimento dei partiti. Rientra in questo novero la decisione contro la Turchia per lo scioglimento del Sosyalist Partisi (Partito socialista – SP), avvenuto il 10 luglio 1992 in ragione delle dichiarazioni dei suoi dirigenti che invocano l’instaurazione di una federazione turco-curda. Chiamata a pronunciarsi sul punto111, la Corte adotta la medesima soluzione già impiegata nel caso del Türkiye Birlesik Komünist Partisi (TBKP – Partito Comunista Unito della Turchia)112, ritenendo che nessuna formazione politica possa essere sciolta per aver discusso pubblicamente e nel rispetto delle regole democratiche la situazione di una parte della popolazione. Lo stesso ragionamento è riproposto nel caso dell’Özgürlük ve Demokrasi Partisi (Partito per la libertà e la democrazia – ÖZDEP)113, sciolto il 23 novembre 1993, allorché la Grande Chambre chiarisce che la mera espressione pacifica di posizioni e progetti miranti a rimettere in discussione l’organizzazione di uno Stato non rappresenta un rischio per la democrazia ma, al contrario, è uno degli elementi di cui essa si sostanzia. Si consolida così una giurisprudenza convenzionale che condanna la Turchia per lo scioglimento dello Halkın Emek Partisi (Partito popolare del lavoro del popolo – HEP)114, del Demokrasi Partisi (Partito della Democrazia – DEP)115, del Sosyalist Türkiye Partisi (Partito Socialista della Turchia – STP)116 e del Emek Partisi (Partito dei lavoratori – EMEP)117. Nonostante le condanne e il continuo riaggregarsi in nuove formazioni dei politici curdi, la Corte costituzionale non ha smesso di procedere allo scioglimento di quei partiti che, nella sua opinione, attentano all’integrità statale. Lo dimostra, ancora nel 2009, lo scioglimento del filocurdo 111

Grande Chambre, Partito socialista e alt. c. Turchia, 25 maggio 1998, n. 21237/93. 112 Grande Chambre, Partito comunista unito della Turchia c. Turchia, 30 gennaio 1998, n. 19392/92. 113 Grande Chambre, ÖZDEP c. Turchia, 8 dicembre 1999, n. 23885/94. 114 Yasar, Karataş, Aksoy e HEP c. Turchia, 9 aprile 2002, n. 22723/93, 22724/93 e 22725/93. 115 DEP c. Turchia, 10 dicembre 2002, n. 25141/94. 116 Partito socialista della Turchia e alt. c. Turchia, 12 novembre 2003, n. 26482/95. 117 Emek Partisi e Senoi c. Turchia, 31 maggio 2005, n. 39434/98.

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Demokratik Toplum Partisi (Partito per la società democratica – DTP). Nella relativa sentenza dell’11 novembre 2009, la Corte costituzionale, condividendo le accuse del Pubblico Ministero che il 16 novembre 2007 chiede lo scioglimento del partito, afferma all’unanimità l’incostituzionalità del DTP ritenendolo autore di attività separatiste e di incitamento all’odio, nonché connivente con il PKK118. La Corte di Ankara ugualmente scioglie alcune formazioni politiche in ragione della presunta violazione del principio di laicità: Milli Nizam Partisi (Partito dell’Ordine Nazionale – MNP), nel 1971; lo Huzur Partisi (Partito della Quiete – HP) nel 1983; il Refah Partisi (Partito della Prosperità – RP) nel 1998; il Fazilet Partisi (Partito della Virtù – FP) nel 2001. Fra tutti i partiti religiosi “sciolti”, tuttavia, solo il Refah Partisi (Partito della Prosperità) sceglie di adire la Corte europea dei diritti umani119. Questa pronuncia rappresenta un unicum nella giurisprudenza convenzionale, essendo l’unico caso in cui la Corte ritiene che il partito, volendo instaurare un regime sharaitico in Turchia, non sia compatibile con i valori democratici su cui la Convenzione stessa si fonda e quindi il suo scioglimento non rappresenta una violazione dell’art. 11 CEDU. Anche in questo caso la Corte coglie l’occasione per fornire ulteriori chiarimenti circa le modalità di esercizio della libertà di associazione affinché essa possa essere protetta dalla Convenzione. I partiti, infatti, devono utilizzare mezzi legali e democratici, non ricorrere alla violenza ed elaborare progetti politici rispettosi delle regole democratiche e dei diritti e delle libertà su cui esse si fondano. Come già ricordato con riferimento al caso Gündüz del 2003, la Corte ritiene che la semplice difesa della shari’a non sia sufficiente a giustificare una sanzione e sarebbe quindi l’azione volta alla sua instaurazione quale fondamento dell’ordinamento a poter essere censurata. Non può negarsi, tuttavia, come tale sentenza si discosti notevolmente dalla giurisprudenza in 118

Corte costituzionale, K 2009/4 E2007/1, 11 dicembre 2009. Grande Chambre, Refah Partisi e alt. c. Turchia, 13 febbraio 2003, n. 4134041344/98 (Cfr. B. RANDAZZO, Turchia. Lo scioglimento del Refah partisi turco. Strasburgo non ci ripensa, consultabile al sito www.forumcostituzionale.it). 119

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materia elaborata dalla Corte e come essa apra il fianco a molteplici critiche anche in ragione dei presupposti su cui si sceglie di giustificare lo scioglimento; secondo alcuni autori, infatti, la Corte avrebbe accolto una visione caricaturale dell’Islam politico commettendo il grave errore di assimilare quest’ultimo al fondamentalismo islamico120. Il diverso atteggiamento tenuto dalla Corte verso lo scioglimento di un partito religioso, rispetto agli altri casi, potrebbe derivare, da un lato, dalla volontà della Corte di contenere i presunti rischi cui la stabilità e la pace europea sarebbero sottoposte in seguito ad una avanzata dei movimenti islamici, dall’altro, da una più generale attitudine psicologica inconscia dei giudici che siedono a Strasburgo, la cui provenienza da paesi di tradizione cristiana agirebbe quale incentivante psicologico inconsapevole nell’accettare l’imposizione di limiti alla libertà d’espressione e di associazione di suddetti movimenti. Se il confronto con il sistema convenzionale non è servito a porre un freno allo scioglimento dei partiti, esso ha tuttavia indotto la Grande Assemblea Nazionale di Turchia a introdurre meccanismi di proporzionalità. Così, la sanzione nei confronti del legame tra religione e politica pare attenuarsi progressivamente: nel 2002 è eliminata l’istigazione all’odio religioso fra le cause dell’allontanamento dalla vita politica del paese per almeno dieci anni; nel 2007 si prevede che la Corte possa sanzionare i partiti senza scioglierli, ma precludendo loro, in tutto o in parte, l’accesso ai fondi per il finanziamento pubblico. Quest’ultima riforma consente alla Corte di rigettare la richiesta di scioglimento dell’AKP avanzata nel 2007 dal Presidente della Corte di Cassazione, sulla base della presunta introduzione della shari’a nell’ordinamento, e di condannare il partito alla sola sospensione nell’accesso al finanziamento pubblico121. Sulle disposizioni costituzionali e legislative relative allo scioglimento dei partiti politici in Turchia, si pronuncia anche la Commissione di Venezia in occasione della 78a sessione plenaria (13-14 marzo 2009)122, 120

È questa l’opinione espressa da G. LEBRETON, L’Islam devant la Cour européenne des droits de l’homme, in Revue de Droit Public et de la Science Politique en France et à l’étranger, 5, 2002, pp. 1493-1510, spec. p. 1497. 121 Corte costituzionale, K2009/3 E2002/3, 7 ottobre 2009. 122 Si veda l’Opinione n. 489/2008 del 13 marzo 2009.

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sottolineando come i progressi siano notevoli, ma sia necessario «riprendere il processo di riforme costituzionali». Di fatto, la disciplina, come novellata, lascia più ampi margini decisionali alla Corte, che li ha utilizzati per procedere a una sorta di selfrestraint, in base al quale lo scioglimento continua a colpire quei partiti capaci di minare l’integrità statale – come il richiamato scioglimento del DTP nel 2009 dimostra – mentre sono le sanzioni pecuniarie ad intervenire contro i partiti di ispirazione religiosa, soprattutto quando questi sono fortemente sostenuti dal consenso popolare, come nel caso dell’AKP. 5. Il Nazionalismo e la protezione dell’integrità territoriale L’identità della Repubblica di Turchia, come detto, si costruisce a partire da un forte nazionalismo, costantemente ribadito nelle Costituzioni, quasi come se in questo modo si potesse superare quel “ritardo” che ha consentito l’affermazione di questa idea solo agli inizi del Novecento123. In effetti, il nazionalismo, non essendo frutto di un sentimento popolare, è imposto dall’alto e utilizzato strumentalmente dalle élite per mantenere la coesione territoriale al punto che il Preambolo della Costituzione del 1982 esplicitamente cita il «nazionalismo di Atatürk» per sottolineare l’omogeneità etnica, culturale e linguistica della popolazione della Repubblica124. E, infatti, con riferimento alla gestione del territorio, il nazionalismo si manifesta in un centralismo “esasperato” che è stato solo parzialmente intaccato nonostante numerosi tentativi di riforma. La peculiare posizione geografica di questo Stato, infatti, ha per lungo tempo rappresentato un elemento di possibile debolezza nei confronti delle grandi potenze confinanti, soprattutto in considerazione del fatto che l’elevato grado di 123

Alcuni Autori, infatti, associano alla Turchia un «nazionalismo tardivo» (cfr. M. CARDUCCI, B. BERNARDINI D’ARNESANO, op. cit., passim). 124 Cfr. Ibidem, p. 64.

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pluralismo etno-territoriale avrebbe potuto dare vita a richieste autonomistiche, sostenute proprio dagli Stati confinanti, che avrebbero indebolito la Turchia, prima imperiale e poi repubblicana. Senza risalire all’influenza storicamente esercitata dall’Impero persiano sulle comunità sciite dell’Impero, infatti, deve ricordarsi che proprio il pluralismo religioso è all’origine di quel regime delle Capitolazioni che tanto ha influito sulla storia imperiale e che, fra le due guerre mondiali, il supporto alle ispirazioni autonomistiche di alcuni gruppi etnici, come i curdi e gli armeni, ha giustificato la drastica riduzione territoriale prevista dal Trattato di Sévres. Anche il successivo Trattato di Losanna, pur sancendo i confini attuali, non modifica la concezione per cui tali confini siano giustificati dall’omogeneità etno-religiosa. Lo dimostra la Convenzione, firmata a margine del Trattato, per lo scambio di popolazione con la Grecia che, peraltro, non fa venire meno le questioni legate ai rapporti con il Patriarcato ortodosso, di cui si è detto, e conferma la necessità di un rigido controllo statale su tutti i gruppi presenti sul territorio della Repubblica. Se disciplinare i rapporti in maniera rigida può essere sufficiente per gestire le relazioni con le comunità non musulmane, più complessa è la questione relativa alle comunità musulmane etnicamente non turche, ossia i curdi, soprattutto se si ricorda che in nome di questa diversa appartenenza etnica gli accordi conclusivi della prima guerra mondiale paventavano l’istituzione di uno Stato indipendente. La c.d. sindrome di Sévres125 è così la principale ragione per l’applicazione a livello territoriale del nazionalismo kemalista, da cui deriva una struttura centro-periferia fortemente centralista per la quale il confronto con gli altri modelli europei rappresenta una fonte di ispirazione sia per la disciplina della materia sia per la sua evoluzione. Una evoluzione che si è certamente giovata della partecipazione della Turchia al Consiglio d’Europa, se si considera che la Corte di Strasburgo ha più volte indicato la strada per la rimozione delle violazioni ai danni della popolazione curda e l’avvio di un dialogo pacificatore. 125

È con questo termine che si è soliti indicare il timore di smembramento territoriale che caratterizza la Turchia repubblicana a seguito dalla firma del mai ratificato Trattato di Sévres del 1920 che, appunto, riduce drasticamente i confini dell’Impero ottomano riconoscendo alla Turchia, come già ricordato, una sovranità sui soli territori dell’Anatolia centrale.

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5.1 Dal centralismo “esasperato” alle ipotesi di decentramento Un primo riferimento per comprendere le evoluzioni che hanno riguardato la gestione del territorio in epoca repubblicana deve riguardare l’organizzazione territoriale dell’Impero ottomano che imposta l’amministrazione del territorio su base feudale attraverso l’individuazione di piccoli potentati locali, spesso legati anche alle autorità religiose126. Solo nell’epoca della Tanzimat il controllo dell’amministrazione locale viene sottratto alle autorità religiose e affidato a governatori nominati dal Sultano, ma cui vengono riconosciuti limitati ambiti di autonomia. Il 16 agosto 1854, allo scopo di ribadire la propria volontà di garantire la rappresentanza di tutti i sudditi e controllare l’assenza di corruzione nell’amministrazione, il Sultano istituisce per decreto la Istanbul Şehremaneti (Municipalità di Istanbul), sperimentando una soluzione poi estesa a tutte le province dell’Impero con il decreto sulla pubblica amministrazione provinciale del 1870. Il decreto prevede la nomina da parte del potere centrale di sindaci incaricati di governare le realtà provinciali con il supporto di Consigli cittadini. La prevalenza del potere centrale è ribadita, tuttavia, dall’assenza di una autonomia finanziaria delle province, perlopiù considerate come organi consultivi del Sultano127. Una prima evoluzione ha luogo nel 1913, quando le spinte riformatrici del Comitato dell’Unione e Progresso, ispirate al modello francese della legge sui dipartimenti del 1871, riconoscono la personalità giuridica delle province e attribuiscono loro la gestione di limitate risorse finanziarie per la fornitura di servizi locali128. 126

L’amministrazione a livello locale è demandata, infatti, alle istituzioni religiose musulmane, e in particolare ai kadì, alle fondazioni religiose non musulmane e alle corporazioni commerciali. Per un approfondimento al riguardo, si veda H. KAVRUK, The System of Local Government in Turkey, in G.Ü.I.I.B.F. Dergisi, 1, 2004, pp. 181-205. 127 Ibidem. 128 Nell’ambito dell’Impero si mantengono tuttavia delle circoscrizioni “indipendenti”, come la città di Gerusalemme, la cui gestione è attribuita direttamente al Ministero dell’Interno.

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Con la nascita della Repubblica turca, il Manifesto costituzionale del 1921 affronta il tema dell’organizzazione territoriale sotto la dura influenza della c.d. sindrome di Sévres, che induce a recepire il modello francese in virtù dell’elevato livello di centralizzazione del potere da esso proposto. In un primo momento, tuttavia, le funzioni delle province sono preservate e solo a seguito della rivolta filocurda e di ispirazione religiosa guidata da Said Pirani l’impegno dei legislatori si concentra sulla necessità di tutelare l’integrità statale. Ne deriva uno “sforzo accentratore” ben evidente nel decoupage politico-amministrativo attuato sin dal 1925129. A partire da quel momento, infatti, si procede a ridisegnare il profilo territoriale del paese, anche in ragione della sua estensione decisamente più ridotta di quella dell’Impero ottomano. Si prevedono 63 iller (dipartimenti)130, con una estensione territoriale di circa 12 400 km2 ciascuno, raggruppati in occasione del primo Congresso geografico turco del 1941 in sette bölgeler (regioni)131, le cui funzioni sono, allora e tuttora, limitate ad aspetti strettamente statistici non essendo attribuito loro alcun potere amministrativo né una struttura istituzionale propria. L’individuazione geografica delle regioni, peraltro, conferma l’approccio assimilazionista del kemalismo, non tenendo conto delle preesistenti realtà culturali, linguistiche e religiose del paese, come dimostra anche l’assegnazione di toponimi in turco132. A confermare il carattere accentrato della Turchia dell’epoca concorre il fatto che i neocostituiti dipartimenti sono privati di risorse finanziarie proprie, sottoposti al controllo del Governo centrale e dotati di funzioni unicamente amministrative133. Di fatto, le stesse Assemblee elettive provinciali, le cui funzioni legislative non sono revocate formalmente, 129

Sul punto si veda U. BAYRAKTAR, E. MASSICARD, La décentralisation en Turquie, Rapporto dell’agenzia francese per lo sviluppo, agosto 2011, spec. p. 15 (www.afd.fr). 130 Si evidenzia, per dovere di completezza, che al 2014 i dipartimenti turchi sono 81. 131 Le regioni individuate sono: Marmara, Mar Egeo, Mediterraneo, Mar Nero, Anatolia centrale, Anatolia orientale, Anatolia sud-orientale. 132 Sul punto si veda E. MASSICARD, Régionalisme impossible, régionalisation improbable. La gestion territoriale en Turquie à l’heure du rapprochement avec l’Unione européenne, in Revue d’études comparatives Est-Ouest, 39, 2008, pp. 171-203, spec. p. 176. 133 Così si esprime U. BAYRAKTAR, From “Centre-Periphery” to “Centre of Periphery”. The Need of a New Conceptualisation of Local Democracy in Turkey, in European Journal of Turkish Studies, 2007, www.ejts.revue.org.

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vedono le proprie deliberazioni sottoposte all’approvazione da parte del vali (governatore), nominato dal Consiglio dei Ministri quale rappresentante del Governo centrale. Nell’ottica di una migliore allocazione delle risorse, la Costituzione del 1961 provvede a una separazione fra il livello centrale e quello locale di governo, sebbene l’assenza di leggi di attuazione non consenta una concreta realizzazione di questo obiettivo. Nonostante la scelta di rendere i vali non più di nomina governativa ma direttamente eletti dai cittadini, è la concomitanza con la gestione pianificata dell’economia a privare di un risvolto concreto i tentativi di decentramento. Negli anni ’70, tuttavia, le autorità locali di molte municipalità tentano di reagire alla oppressione centralista, dando inizio al movimento definito “nuovo municipalismo”, volto a indurre il Governo a dare concreta attuazione al principio della democrazia partecipativa a livello locale e a concedere maggiore autonomia finanziaria e organizzativa. Il movimento, se riesce a sensibilizzare al tema larga parte della cittadinanza, non è tuttavia capace di trasformare in successi le proprie istanze, e la pervicace ostilità del livello centrale prima, e l’intervento militare del 1980 poi, non gli consentono di affermarsi e di raggiungere i risultati sperati. Chiara eco della tradizione accentratrice della Repubblica turca si rinviene a seguito dell’approvazione della Costituzione del 1982. Il Testo suddivide il paese in province, a loro volta formate da unità locali più piccole, in base alle esigenze economiche, geografiche e sociali (art. 126 Cost.). Le unità di governo locale devono essere disciplinate dalla legge e rappresentano entità pubbliche con il compito di amministrare i territori di loro competenza, in base al principio di autogoverno (art. 127). A tutela dell’integrità dello Stato, si prevedono la stretta collaborazione e l’unità di intenti circa l’attività e la struttura degli enti locali (art. 123). Le amministrazioni provinciali sono ulteriormente suddivise in sottoprovince (ilçe) e distretti (bucak). A capo delle amministrazioni provinciali si trovano i governatori (vali), nominati dal Consiglio dei Ministri, mentre a capo delle sotto-province sono posti i vicegovernatori (kaymakam), nominati con decreto del Presidente della Repubblica, del Presidente del Consiglio e del Ministro degli Interni; i distretti, infine,

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sono retti da un direttore (müdür), nominato dal Ministro dell’Interno su proposta del Governatore della provincia cui essi afferiscono. Alla struttura così delineata si affiancano ramificazioni locali dei singoli Ministeri134 che svolgono le proprie funzioni eseguendo le direttive dei governatori e dei loro vice, rappresentano ciascun Ministero nei territori di loro competenza e sono autorizzate, seppur entro limiti ben definiti, a prendere decisioni anche indipendentemente dal Governo centrale. Nonostante l’incremento delle disponibilità economiche locali che si verifica negli anni ’80, l’aumento della ricchezza non si traduce in una crescita dell’autonomia finanziaria, dal momento che gli enti territoriali di fatto non hanno il controllo dell’allocazione di tali trasferimenti e le nuove imposte all’origine del flusso finanziario continuano ad essere stabilite dal Governo centrale. Una parziale apertura si ha con l’approvazione della legge n. 3030 del 1984, recante l’istituzione delle città metropolitane. Esse però finiscono per sovrapporsi alle municipalità preesistenti, sottraendo loro risorse e potere ed indebolendo ulteriormente la democrazia a livello locale giacché al controllo del Governo si somma quello delle municipalità metropolitane. In questo periodo, inoltre, si rafforzano i poteri attribuiti alla carica di Sindaco, tanto che molti attori politici locali guadagnano un posto di primo piano sulla scena politica nazionale135. Ciò anche perché le competenze e le risorse trasferite alle unità territoriali non sono equamente suddivise tra i vari organi locali, ed anzi determinano un preponderante rafforzamento degli esecutivi. Sembra dunque che il pressante controllo dell’amministrazione centrale sia sostituito dal potere degli esecutivi municipali, come se la dicotomia centro-periferia sia sostituita da un preoccupante scenario di “centro in periferia”136.

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Per una maggiore completezza, si ricorda che i Ministeri, ai sensi della legge n. 3058 del 1984, costituiscono la componente principale della pubblica amministrazione e sono istituiti per legge con l’obiettivo di garantire servizi primari alla cittadinanza (sanità, istruzione, commercio, energia, lavoro): ogni dicastero è guidato da un Ministro (bakan), figura politica e capo gerarchico del Ministero, che fissa le linee guida dell’attività ministeriale. I Ministeri hanno ognuno il proprio personale, al vertice del quale è posto il sottosegretario (müsteşar). 135 Si pensi che Recep Tayip Erdoğan è stato sindaco di Istanbul tra il 1994 e il 1998. 136 S.U. BAYRAKTAR, op. cit., p. 32.

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Una certa consapevolezza di questa situazione sembra trapelare dai tentativi di riforma dell’amministrazione pubblica e delle collettività locali avviata nel 2003137 dal Governo dell’AKP e frequentemente ostacolata dalle opposizioni, tanto che solo una legge del pacchetto per il decentramento che il Governo ha proposto è stata effettivamente promulgata. Si tratta della legge n. 5297 del 2005138, concernente l’amministrazione delle province, con cui si sancisce la fine della presenza del vali nei Consigli di dipartimento chiamati ora ad eleggere il proprio presidente. Rispetto a tale legge, è possibile notare una limitata influenza del livello sovrastatale. Nella relazione tecnica di accompagnamento, infatti, si cita esplicitamente la Carta europea delle autonomie locali, elaborata nell’ambito del Consiglio d’Europa, entrata in vigore nel 1988 e ratificata dalla Turchia nel 1992 e, più in generale, la concezione del potere amministrativo locale consolidatasi in ambito europeo. A prescindere da questi riferimenti, tuttavia, l’intero impianto della legge sembra giustificato più dalla volontà di rispondere alle richieste di una gestione dei pubblici servizi più vicina ai cittadini139, da cui deriverebbe anche

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Al riguardo deve ricordarsi che la riforma del 2003 è frutto di un lungo processo che vede le forze politiche turche avanzare proposte di legge in materia sin dal 1998. Per una rassegna di tali riforme si veda E. MASSICARD, op. cit., pp. 188 ss., in cui l’Autrice evidenzia anche come il decentramento sia un elemento che caratterizza il programma politico dell’AKP sin dalla sua fondazione, nel 2001, anche in ragione della provenienza dei suoi principali componenti, la maggior parte dei quali comincia la propria carriera politica nelle istituzioni locali. 138 È necessario spendere alcune parole circa l’iter di questa legge, duramente contestata dall’opposizione del CHP che la ritiene in contrasto con la tutela del carattere unitario dello Stato; adducendo la medesima motivazione l’allora presidente della Repubblica Sezer pone il proprio veto alla legge che, con alcune modifiche, viene quindi riapprovata dalla Grande Assemblea Nazionale. Il Presidente Sezer fa allora valere il proprio diritto al ricorso in via principale alla Corte costituzionale che tuttavia nel 2007 sancisce la costituzionalità della legge, entrata definitivamente in vigore nello stesso anno. 139 Cfr. B. ÇAĞLAR, Droit constitutionnel turc et intégration européenne: une perspective turque, in Consiglio d’Europa (a cura di), Constitutional implication of

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l’istituzione di enti pubblici indipendenti con competenze nel settore dei servizi economici di pubblica utilità (hismetin yerinden yönetim idareleri), che non da un genuino desiderio di adesione al modello europeo. Quest’ultimo è considerato piuttosto un possibile vulnus rispetto alla tutela dell’indivisibilità dello Stato. Quanto sin qui detto consente di notare come il principio fondamentale dell’unità statale continui ad essere prevalente, distinguendo così la Turchia dal modello istituzionale delle democrazie occidentali, in cui si sta consolidando il riconoscimento di forti autonomie agli enti territoriali, almeno a livello amministrativo quando non anche a livello legislativo e di gestione finanziaria. Anche la dottrina turca140, peraltro, dibatte sulla democraticità di questa organizzazione territoriale, in cui le province appaiono troppo “lontane” dai cittadini, i villaggi troppo deboli e le municipalità, considerabili le autentiche unità di governo locale, sono comunque poste sotto lo stretto controllo dell’amministrazione centrale e hanno pochi margini di manovra in materia finanziaria. 5.2 La questione curda: dai “turchi di montagna” alla c.d. kurdish opening L’assetto centralista così definito consente la negazione della presenza della popolazione curda nella parte sud-orientale del paese; una negazione strumentale, finita la guerra di indipendenza, per la definizione degli attuali confini, il cui riconoscimento è strettamente legato alla capacità della Repubblica di Turchia di sostenere, nei consessi di pace internazionali, l’omogeneità etno-culturale della popolazione. Per celare l’esistenza di una millet curda e della sua differente appartenenza etnica e talvolta religiosa141 si introduce quindi l’idea dei “turchi della montagna”, accession to the European Union, 2002, Edizioni del Consiglio d’Europa, Strasburgo, pp. 109-130, spec. pp. 122-124. 140 S.U. BAYRAKTAR, Turkish Municipalities: Reconsidering Local Democracy beyond Administrative Autonomy, in European Journal of Turkish studies, 2007, www.ejts.revue.org. 141 Da un punto di vista etnico i curdi sono una popolazione di origine indoeuropea che utilizza una lingua di ceppo ariano e professa l’Islam sunnita. Una eccezione, dal

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più arretrati e differenti dal resto dei turchi solo perché abitanti le zone montuose dell’Anatolia orientale142. Non si tratta solo di una, decisamente poco credibile, teoria etno-antropologica, ma piuttosto di un presupposto ideologico per giustificare le discriminazioni verso la popolazione curda che si perpetuano durante tutta la storia repubblicana e le cui premesse si rinvengono nei primi anni del kemalismo. Se, infatti, la fratellanza turco-curda viene richiamata negli anni della lotta per l’indipendenza143, una volta che il partito kemalista consolida il proprio potere la situazione cambia decisamente. Già nel 1924, infatti, l’art. 2 della Costituzione e il decreto n. 430/1924 vietano l’utilizzo della lingua curda e impongono il turco come unica lingua ufficiale. A peggiorare la situazione dei curdi interviene anche la legge n. 1505, che autorizza una vasta campagna di espropri ai danni della popolazione curda e favorisce l’insediamento nei territori sud-orientali dei turcomanni. Alle rivolte che seguono, il Governo risponde con la dichiarazione della legge marziale, nel febbraio 1925, e con l’istituzione di tribunali speciali, nell’aprile dello stesso anno. Sono queste le premesse per l’avvio del Piano di riforma per l’Anatolia orientale144, il cui nome altisonante nasconde una politica di deportazioni forzate in base a cui i curdi sono allontanati dai territori d’origine per essere insediati in nuove aree del paese secondo una proporzione che non consente loro di superare mai il 5% della popolazione dell’intera area. Il Piano di riforma, peraltro, influisce in maniera netta sui diritti culturali della popolazione curda, punto di vista religioso, è rappresentato dall’enclave di Dersim, che si riconosce nel culto alevita. 142 Definizioni dispregiative di questa comunità saranno proposte per lungo tempo. Il dizionario ufficiale della società linguistica compilato nel 1944, ad esempio, definisce come Kürt (curdi) «un gruppo che vive in Turchia, Iraq e Iran, composto per la maggior parte di turchi che hanno abbandonato la loro lingua e parlano un persiano corrotto». 143 In merito alla pacifica convivenza fra turchi e curdi in epoca ottomana e sulla partecipazione di questi ultimi alla guerra di indipendenza si veda M. GALLETTI, I curdi nella storia, Editrice Vecchio Faggio, Chieti, 1990. 144 Il Piano di riforma è approvato mediante la legge n. 1097 del 1925. Per consentire un migliore controllo del territorio, nel 1932 e nel 1934 la legge viene modificata per aggiornare le aree in cui è possibile dislocare la popolazione curda.

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introducendo il divieto di utilizzare il curdo in tutti gli edifici pubblici e nei rapporti con l’amministrazione statale (art. 14) e prevede la costruzione di scuole per l’insegnamento del turco (art. 17). L’approvazione del decreto n. 1353 del 1928, inoltre, sostituendo l’alfabeto arabo con quello latino, recepisce solo le lettere necessarie alla trascrizione della lingua turca, di fatto eliminando alcune lettere utilizzate nella lingua curda. Nuovi interventi legislativi degli anni ’30, infine, vietano ai curdi l’utilizzo dei cognomi145 e degli abiti tradizionali146. È questo il quadro normativo che si perpetua durante tutta la vigenza della Costituzione del 1924 e che non viene modificato neppure quando la “Costituzione dei professori” del 1961 dota il paese di una Carta più attenta alla tutela dei diritti. Il principio del nazionalismo, infatti, continua a rimanere fondante e la tutela dell’integrità territoriale resta una priorità dello Stato, da perseguire anche riducendo al silenzio le peculiarità culturali dei gruppi minoritari. È questo il senso del decreto n. 6/7635 del 25 gennaio 1967 che proibisce «l’introduzione e la diffusione sul territorio della Repubblica di ogni tipo di stampa, nastri, dischi magnetici ed altro, pubblicati in curdo all’estero». La Costituzione del 1982 e le severe restrizioni dei diritti che essa sancisce incidono in maniera determinante sulla situazione della popolazione curda che, dinanzi ad una crescente privazione dei propri spazi di libertà, non esista a sostenere le rivendicazioni indipendentistiche del gruppo armato PKK. Proprio per limitare la lealtà nei confronti di tale gruppo, nel 1985 il Governo istituisce il sistema dei guardiani di villaggio (koy koruculari), una milizia di circa 60 mila unità con incarichi di controllo dei villaggi e di spionaggio rispetto alle potenziali attività di supporto al PKK147. Nel 1987, inoltre, il decreto n. 425 sostituisce la legge marziale in vigore dal 1925 con la dichiarazione dello stato di emergenza, nella vigenza del quale un Governatore appositamente nominato, e contro le cui decisioni non è possibile ricorrere presso alcuna Corte, ha il potere di vietare, per una durata indefinita, qualunque 145

Cfr. la legge n. 2596 del 28 novembre 1934. Cfr. la legge n. 2597 del 3 dicembre 1934. 147 La lealtà di questi individui, di origine curda ma che sostengono posizioni filogovernative, in realtà è spesso estorta con la minaccia. Al riguardo si rinvia a H.J. BARKEY, G.E. FULLER, Turkey’s Kurdish Question, Rowman and Littlefield Publishers, Boston, 1998, spec. pp. 147-148. 146

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pubblicazione sia ritenuta capace di turbare l’ordine pubblico e di chiudere le case editrici il cui operato è ritenuto contrario agli interessi dello Stato. Il Governatore si vede altresì riconosciuto il potere di “trasferire” per un periodo non superiore alla durata dello stato di emergenza tutti gli individui sospettati di attentare all’ordine pubblico e di sottoporre alla concessione di un’autorizzazione alcune attività lavorative148. Limitati segnali di cambiamento si riscontrano quando, nel 1989, la Presidenza della Repubblica viene affidata a Turgut Özal, di madre curda. Si apre, infatti, una riflessione intensa sulla necessità di risolvere la c.d. questione curda in cui l’ipotesi risolutiva di Özal, che propende per una “soluzione basca” improntata sul decentramento amministrativo e la concessione di spazi di autonomia per i curdi, si scontra con la teoria della “terra bruciata” fondata sull’intransigenza assoluta e il rifiuto di qualsiasi negoziato con i curdi, sostenuta da Süleyman Demirel – che nel 1993 succede ad Özal – e dalla Primo Ministro Tansu Ҫiller. Durante gli anni ’90, dunque, la questione curda è al centro di un dibattito particolarmente “spinoso”, che segna tanto la politica interna quanto i rapporti fra la Turchia e le organizzazioni sovrastatali europee. Se per l’Unione europea la soluzione della questione curda è pregiudiziale per la conclusione del percorso di adesione, per Strasburgo essa è all’origine di un lungo contenzioso che vede contestata alla Turchia la violazione dei più fondamentali fra i diritti umani. I primi ricorsi contro la Turchia per la violazione del diritto alla vita, infatti, sono intrapresi da esponenti della minoranza curda in ragione degli interventi delle forze armate durante le attività volte a contrastare il movimento terrorista autonomista PKK. Ricordando il dettato dell’art. 2, c. 2, della Convenzione, dunque, la Corte ritiene non necessarie e proporzionate alla situazione sia l’utilizzo di una mitragliatrice per disperdere i manifestanti149, sia quello di armi automatiche nel corso di 148

Le funzioni e le modalità di nomina del Governatore sono contenute nel decreto n. 424/1987. 149 Gülec c. Turchia, 27 luglio 1998, n. 21593/93.

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una perquisizione domiciliare150. Numerose sono anche le condanne in cui la Turchia incorre per i trattamenti inumani e degradanti 151 cui è sottoposta la popolazione curda. Il primo caso è l’affaire Aksoy152, che origina dall’arresto presso il proprio domicilio di un cittadino turco di etnia curda accusato di essere membro e sostenitore del PKK il quale, nel corso del fermo di polizia, viene sottoposto a trattamenti tali da comportare serie lesioni fisiche153; qualche anno dopo la fine della detenzione, Aksoy è assassinato da alcuni membri delle forze armate turche per evitare che avanzi un ricorso dinanzi alla Commissione EDU, cui allora competeva il giudizio per le violazioni della Convenzione. La Corte, pronunciandosi sul caso, ritiene che tale comportamento rappresenti un «trattamento di natura talmente grave e crudele da poter essere qualificato come tortura», decidendo così di imporre alla Turchia il pagamento di un gravoso risarcimento ai familiari della vittima. Le condanne si susseguono anche per violazione del diritto alla vita privata e famigliare nella sua declinazione di diritto al domicilio154, spesso in combinato disposto con l’art. 3 CEDU. Così, nel caso Akdivar155 – in cui i ricorrenti sostengono che l’incendio delle proprie abitazioni da parte delle 150

Questo utilizzo è all’origine del caso Gül c. Turchia, 14 dicembre 2000, n. 22676/93. 151 Per una distinzione tra questi due tipi di trattamenti, si veda Tyrer c. Regno Unito, 25 aprile 1978, n. 5856/72, in cui la Corte afferma che può considerarsi come trattamento inumano quello mirante a provocare volontariamente sofferenze mentali o fisiche di intensità particolare, mentre per trattamento degradante si intende quello che umilia l’individuo in misura grave dinanzi ad altri o che influisce sulla volontà o sulla coscienza dello stesso. Con riferimento al caso in oggetto, si ricorda che la pronuncia della Corte origina dal ricorso di un cittadino dell’isola di Man, dipendenza della Corona britannica, cui viene comminata la pena della fustigazione ai sensi di una legge locale relativa al reato di disturbo della quiete pubblica commesso da individui di sesso maschile di età compresa fra i 10 e 16 anni. 152 Aksoy c. Turchia, 18 dicembre 1996, n. 21987/93. 153 Nella sentenza si legge che il detenuto riporta una paralisi temporanea agli arti inferiori e superiori per essere stato sottoposto alla c.d. forca palestinese, che consiste nel restare sospeso per le braccia, nudo e con gli arti legati; oltre a ciò, ad Aksoy è somministrata una serie di scariche elettriche attraverso elettrodi collegati ai genitali. 154 Al riguardo deve tuttavia ricordarsi come il Governo turco abbia tentato di risolvere la maggior parte dei ricorsi in materia mediante una composizione amichevole delle controversie. 155 Grande Chambre, Akdivar e alt. c. Turchia, 16 settembre 1996, n. 21893/93.

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forze armate in occasione di scontri con i miliziani del PKK abbia lo scopo di obbligare la popolazione ad abbandonare i villaggi senza ricevere alcun risarcimento – la Grande Chambre sostiene che la Turchia abbia violato l’art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 nonché l’art. 8 della Convenzione, relativi al diritto di proprietà e al diritto al rispetto del domicilio; mentre nell’affaire Selçuk e Asker156, la Corte arriva a sostenere che l’incendio volontario di abitazioni rappresenta un trattamento inumano. Questo orientamento è quindi perseguito nel tempo, come dimostrano le pronunce nel caso Yöyler157, in cui la Corte ritiene che la distruzione delle abitazioni di un villaggio curdo violi sia il diritto al domicilio sia l’art. 3 per le sofferenze inflitte al ricorrente e ai suoi familiari, e nel caso Ahmet Özkan158, in cui la Corte qualifica come degradanti l’evacuazione nottetempo e la detenzione cui sono sottoposti gli abitanti di un villaggio. In particolare, nelle parole del giudice convenzionale, questi trattamenti collettivi rivelerebbero «l’intenzione di intimidire e umiliare» gli abitanti del villaggio. Gli interventi armati nei villaggi curdi sono anche all’origine del caso Doğan159, in cui la Corte, adita a seguito della distruzione di un villaggio curdo e dell’allontanamento degli abitanti dello stesso, precisa l’interpretazione del concetto di “bene” e afferma che anche un’abitazione “di fortuna” può essere considerata un bene rispetto al quale il ricorrente ha interessi economici che devono essere tutelati.. Le case costruite sulle terre degli antenati, le terre rientranti nel demanio del villaggio e le attività svolte su di esse sono infatti da considerarsi come beni, nonostante i ricorrenti non abbiano presentato titoli indicanti la proprietà su di essi. Contestualmente la Corte di Strasburgo, applicando il principio di proporzionalità, chiarisce che il rifiuto delle autorità di consentire il ritorno degli abitanti del villaggio alle proprie case rappresenta un’ingerenza sproporzionata nel diritto al rispetto dei beni. 156

Selçuk e Asker c. Turchia, 24 aprile 1998, n. 23184/94 e n. 23185/94. Yöyler c. Turchia, 23 luglio 2003, n. 26973/95. 158 Ahmet Özkan e alt. c. Turchia, 6 aprile 2004, n. 21689/93. 159 Doğan e alt. c. Turchia, 29 giugno 2004, n. 8803-8811/02 e 8815-8819/02. 157

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Rilevante è anche la giurisprudenza convenzionale per violazione della libertà di espressione della popolazione curda. Dapprima, i ricorsi sono avanzati da esponenti della comunità curda condannati per aver utilizzato la propria lingua madre in occasioni pubbliche. Il primo caso è l’affaire Zana160 del 1997, in cui il ricorrente è Mehdi Zana, un militante curdo che sostiene a mezzo stampa il PKK161 incorrendo così in una condanna per apologia di attività terroristica e per minaccia alla sicurezza pubblica. La Corte di Strasburgo ritiene che la peculiare situazione di minaccia per l’integrità territoriale consenta alla Turchia di disporre di un margine di apprezzamento superiore a quello prevedibile in altre circostanze, che la misura adottata si configuri come rispondente a un bisogno sociale imperativo e che sia motivata dalle autorità turche in maniera pertinente e sufficiente a escludere una violazione dell’art. 10. La Corte affronta nuovamente la questione nel caso Özkaya c. Turchia162, in cui il ricorrente è un cittadino di origine curda che, in occasione della festa nel Nawroz, ha pronunciato un discorso particolarmente duro in cui si assimila il Governo, all’epoca guidato dal Refah Partisi, a una potenza coloniale. Ne deriva, nel 1997, un processo per incitamento della popolazione all’odio e alla violenza, nonché per sostegno all’attività terroristica del PKK conclusosi con una condanna a tre anni di detenzione e ad una elevata ammenda pecuniaria. In questo caso, tuttavia, la Corte di Strasburgo riconosce una violazione della libertà d’espressione ed esclude che le pene comminate possano rientrare nel margine di apprezzamento statale. In seguito, la Corte si pronuncia su numerosi ricorsi163 originati dalla condanna di redattori o proprietari di diverse riviste e quotidiani per diffusione di propaganda contro l’integrità e l’indivisibilità dello Stato in seguito alla pubblicazione di articoli e opere in cui si critica la politica del 160

Grande Chambre, Zana c. Turchia, 25 novembre 1997, n. 18954/91. In particolare il sig. Zana dichiara: «Sostengo il movimento di liberazione nazionale del PKK, tuttavia non sono in favore dei massacri. Tutti possono commettere errori ed è per errore che il PKK ha ucciso donne e bambini…» (cfr. Cumhuriyet, 30 agosto 1987) 162 Özkaya c. Turchia, 30 novembre 2004, n. 42119/98. 163 Cfr. le pronunce della Grande Chambre del giorno 8 luglio 1999, Erdoğdu e Ince c. Turchia, n. 25067/94 e 25068/94; Sürek e Özdemir c. Turchia, n. 23927/94 e 24277/94; Sürek (4) c. Turchia, n. 24762/94; Ceylan c. Turchia, n. 23556/94; Okçuoğlu c. Turchia, n. 24246/94; Arslan c. Turchia, n. 23462/94; Polat c. Turchia, n. 23500/94, Gerger c. Turchia, n. 24919/94. 161

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Governo, allora guidato da Tansu Çiller, nel sud-est anatolico. In particolare, il giudice convenzionale sostiene che la pubblicazione a mezzo stampa di rivendicazioni riguardanti la situazione del sud-est del paese non può considerarsi, tenuto conto del contesto, una incitazione alla violenza e che quindi le pene detentive comminate dalla Corte di Sicurezza Nazionale rappresentano una sanzione severa e non proporzionata all’obiettivo di tutelare la sicurezza nazionale e l’integrità territoriale. Nel caso Karataş164, in particolare, la Corte si interroga sulla natura della pubblicazione, affermando che una raccolta di poesie per sua stessa natura si rivolge ad un pubblico limitato e tale sarebbe anche la sua capacità di impatto potenziale sulla sicurezza nazionale, l’ordine pubblico e l’integrità territoriale, potendo così configurarsi una violazione dell’art. 10 della CEDU da parte della Turchia, che ne ha sanzionato l’autore per minaccia all’integrità statale. Nel 2000, inoltre, la Corte chiarisce che lo Stato ha l’obbligo di intervenire a porre fine alle ripetute azioni di violenza nei confronti di un quotidiano filocurdo, la cui chiusura è determinata da una campagna di omicidi, “scomparse”, minacce e incendi dolosi rispetto a cui le autorità turche non adottano adeguate misure di protezione165. Decidendo un ricorso avanzato da un cittadino di etnia curda, infine, la Corte interpreta anche l’art. 2 del Protocollo addizionale n. 1 alla Convenzione alla luce dell’art. 10 CEDU, chiarendo che l’espulsione di uno studente dall’Università per aver promosso una petizione mirante all’attivazione di un corso opzionale in lingua curda rappresenta una violazione del dettato convenzionale in materia166. Le numerose condanne emesse dal giudice convenzionale contro la Turchia e la necessità avvertita dal Governo dell’AKP di risolvere una delle più controverse questioni interne per consolidare il consenso interno e internazionale, sono all’origine delle riforme introdotte dagli anni ’90 e soprattutto dall’inizio del XXI secolo.

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Grande Chambre, Karataş c. Turchia, 8 luglio 1999, n. 23168/94. Ozgür Gundem c. Turchia, 16 marzo 2000, n. 23144/93. 166 Irfan Temel e alt. c. Turchia, 3 marzo 2009, n. 36458/02. 165

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Già la legge n. 3713 del 12 aprile 1991 per il contrasto delle attività terroristiche, infatti, emenda il Codice penale per abrogare il reato di opinione e di propaganda di idee comuniste, anarchiche o religiose. La successiva legge n. 4126 del 27 ottobre 1995 emenda l’art. 8 della legge n. 3713/1991, che vieta «la propaganda, le riunioni e le manifestazioni che minaccino l’integrità indivisibile dello Stato della Repubblica di Turchia»167, rendendo tali reati perseguibili solo qualora ad essi sia connesso il concreto verificarsi di un fatto penalmente perseguibile. Anche a seguito della risoluzione sulla libertà d’espressione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa DH(2004)38 adottata il 2 giugno 2004, la Grande Assemblea approva, inoltre, la legge n. 5532 del 29 giugno 2006, che, tra l’altro, modifica gli artt. 6 e 7 della legge n. 3713/1991 con cui si punisce la diffusione di pubblicazioni realizzate da organizzazioni terroristiche e le attività di propaganda delle stesse; la legge n. 5532/2006, infatti, introduce pene più lievi per i reati minori e specifica il rapporto reato-sanzione previsto dall’art. 7, il cui carattere generale è all’origine del biasimo espresso nella menzionata risoluzione del Consiglio dei Ministri del Consiglio d’Europa. Da ultimo, la legge n. 6352 del 13 aprile 2013 specifica ulteriormente che il reato ex art. 6 concerne la propaganda e l’apologia di atti violenti e, emendando l’art. 220 del Codice penale, estingue il nesso causale che consentiva di incriminare come terroristi gli autori di propaganda politica. Va inoltre ricordato che già al momento della sua emanazione, la legge n. 3713/1991 assume un valore fondamentale per la tutela della libertà di espressione anche sotto un altro profilo. Essa, infatti, abroga la legge n. 2832 del 1983 che vieta le pubblicazioni in lingue diverse dal turco, introducendo così un primo riconoscimento delle lingue minoritarie presenti nel paese. Tale riconoscimento non può tuttavia dirsi completo per la permanenza in vigore dell’art. 26, c. 3, che contiene un espresso divieto di utilizzare lingue diverse dal turco. È solo con la legge di revisione costituzionale n. 4709 del 3 ottobre 2001 che tali disposizioni discriminatorie sono abrogate dal testo costituzionale, consentendo 167

L’articolo, peraltro, assume un valore fondamentale nelle aule dei Tribunali, ove è associato all’art. 312 del Codice penale, che punisce «chi invita a disubbidire alle leggi dello Stato e chi incita all’odio basato sulla distinzione di classe, razza o religione o sulle differenze regionali».

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l’apertura verso un utilizzo di lingue diverse dal turco da parte dei massmedia e nel campo dell’istruzione168. La legge n. 130 del 2003 emenda così l’art. 4 della legge sull’istituzione di aziende radiofoniche e televisive per consentire trasmissioni televisive in lingue diverse dal turco, in primo luogo il curdo, da parte delle emittenti private e, intervenendo sul testo della legge sull’insegnamento e l’educazione delle lingue straniere, disciplina l’insegnamento delle lingue e dei dialetti «utilizzati dai cittadini turchi nella vita quotidiana»169. La difficoltà di dare effettiva attuazione allo scenario normativo sin qui tracciato è dimostrata dalla nuova versione del “Regolamento per le trasmissioni in lingue e dialetti che i cittadini turchi usano nella vita quotidiana”, redatta nel 2004 dall’Alto Consiglio per le emittenti radiofoniche e televisive, organo governativo istituito in seguito alla rivoluzione kemalista. Il documento in questione prevede la possibilità di emissioni radiofoniche in lingue differenti dal turco solo per le emittenti con copertura nazionale e per una durata non superiore ai 45 minuti giornalieri e alle 4 ore settimanali; le trasmissioni televisive, invece, non devono superare i 30 minuti giornalieri e le 3 ore settimanali e i programmi trasmessi in questi esigui lassi di tempo non possono riguardare la divulgazione linguistica. Vanno ricordate, inoltre, le difficoltà di attivare i corsi di lingua curda,170 sebbene il 19 gennaio 2004 il Ministero per l’educazione abbia completato la redazione del programma per l’insegnamento della stessa, 168

Il nuovo testo dell’art. 26, infatti, recita: «Chiunque ha il diritto di esprimere e diffondere le proprie idee e opinioni, con discorsi, pubblicazioni o immagini e attraverso altri mezzi, individualmente o collettivamente. Questo diritto include la libertà di ricevere o trasmettere informazioni o idee senza interferenze da parte delle autorità. Questa previsione non preclude la possibilità di sottoporre ad un sistema di licenze le trasmissioni via radio, televisione, cinema e strumenti simili …». 169 È questa l’espressione con cui il legislatore turco è solito definire le lingue parlate dalle minoranze etniche del paese, con particolare riferimento alla comunità curda, al fine di ampliare le libertà di suddette minoranze pur senza inficiare il concetto di sovranità e unità nazionale su cui la Costituzione fonda la Repubblica. 170 In molti casi, infatti, le autorità cercano di limitare l’istituzione di tali corsi sostenendo che i luoghi in cui gli stessi devono essere svolti non sono conformi alle norme sulla sicurezza nei luoghi di lavoro.

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prevedendo la possibilità di effettuare corsi della durata di 10 settimane per 18 ore settimanali. In materia di educazione, infine, va sottolineato come la legge n. 625 del 2004 sugli istituti scolastici privati preveda, all’art. 24, la nomina di un referente «di origine e nazionalità turca» che controlli l’operato delle istituzioni scolastiche straniere. La difficoltà di riconoscere non solo l’esistenza della lingua curda, ma anche i diritti della popolazione che la parla si è resa evidente nel corso della vicenda giudiziaria relativa al Consiglio consultivo per i diritti umani171, istituito con la legge n. 4643 del 21 aprile 2001172. Nell’ottobre 2004, la presentazione del Rapporto sui diritti delle minoranze e i diritti culturali suscita forti reazioni da parte dell’opinione pubblica e del Governo173 e il Procuratore generale, il 3 febbraio 2005, apre un procedimento penale a carico del rapporteur, Baskin Oran, e del Presidente del Consiglio dei Diritti Umani, İbrahim Ö. Kaboğlu, per violazione degli artt. 301, c. 11, e 216, c. 1, del nuovo Codice penale, ossia per aver istigato una parte della popolazione alla rivolta e per aver pubblicamente insultato gli organi giudiziari dello Stato. La reazione delle autorità giudiziarie turche è causata, soprattutto, dalla proposta, contenuta

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Il CCDU si compone di rappresentanti dei Ministeri, delle istituzioni pubbliche e degli ordini professionali, delle organizzazioni della società civile e da personalità esperte in materia, allo scopo di assicurare il dialogo fra le istituzioni e le organizzazioni della società civile. Si tratta di 76 membri, poi divenuti 81, suddivisi in 13 comitati di lavoro e presieduti dal professor İbrahim Ö. Kaboğlu. 172 La legge viene approvata in seguito alla Risoluzione n. 48/134 del 1993 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite relativa alle istituzioni nazionali per la promozione e la protezione dei diritti dell’uomo, e alla Raccomandazione R(97)14 del 1997 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa relativa alla creazione di istituzioni nazionali indipendenti per la promozione e la protezione dei diritti dell’uomo. Il Preambolo della legge, inoltre, ricorda come essa sia fondamentale per assicurare il proseguimento dei lavori relativi nel rispetto dei criteri di Copenhagen. 173 Per una più dettagliata ricostruzione delle vicende legate al processo dei prof.ri Kaboğlu e Oran, si veda İ.Ö. KABOĞLU, Libertà di espressione e diritti umani in Turchia: il Consiglio consultivo dei diritti dell’uomo dinanzi al giudice penale, in Politica del Diritto, 1, 2008, pp. 165-188 e İ.Ö. KABOĞLU, Quelques remarques préliminaires à propos d’une institution nationale des droit de l’homme (Le cas de la Turquie), in Revue Trimestrielle des Droits de l’Homme, 68, 2006, pp. 1057-1069.

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nel rapporto, di introdurre una sovra-identità per i cittadini turchi174. Il Tribunale di Ankara dapprima ritiene non fondato il secondo capo d’imputazione e successivamente assolve i due professori ritenendo non configurato il reato di istigazione alla rivolta; in seguito al ricorso in Cassazione del Procuratore, l’VIII Camera penale della Corte di Cassazione rigetta l’assoluzione, al contrario confermata in via definitiva dall’Assemblea plenaria penale della stessa Corte175. La sentenza allontana così i dubbi rispetto ad un ripristino del reato d’opinione e apre la strada ad una giurisprudenza garante della libertà d’espressione. È interessante notare come non manchino casi in cui l’intervento del legislatore turco è strettamente legato alle decisioni della Corte di Strasburgo. È così che pochi giorni prima della conclusione del caso Doğan, la Grande Assemblea Nazionale approva la legge n. 5233 del 27 giugno 2004, che prevede il ritorno ai villaggi di origine per la popolazione di etnia curda “trasferita” durante il periodo di emergenza176 e il rimborso dei danni subiti durante la lotta al terrorismo. Non si può negare, però, come questa legge sembri avere l’obiettivo di limitare il numero di ricorsi alla Corte di Strasburgo piuttosto che intervenire realmente sul problema, come dimostrerebbe la scarsa entità dei rimborsi, che non supera i 7 mila euro, e le numerose impossibilità addotte dalle

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In particolare, nel rapporto si sostiene la possibilità di abolire la nozione di «cittadino turco» in favore di «cittadino della Turchia», confacente, secondo i redattori del rapporto, anche ai cittadini di nazionalità non-turca. 175 L’assoluzione dei due imputati avviene in concomitanza con la modifica dell’art. 301 del Codice penale del 1° maggio 2008. Pare probabile che la scelta del giudice turco sia influenzata anche dalla solidarietà internazionale dimostrata ai due professori dagli accademici che hanno raccolto in pochi mesi 1257 firme in 38 Stati nonché dal rischio di un nuovo ricorso alla Corte di Strasburgo per violazione dell’articolo 10 della CEDU (cfr. İ.Ö. KABOĞLU, Libertà di espressione e diritti umani in Turchia, cit., p. 185 ss.). 176 Concretamente, l’attuazione di questa legge è possibile grazie al Support to the Development of Internally Displaced Persons Program in Turkey, sviluppato dal Governo turco in collaborazione con l’UNDP e con numerose ONG nazionali e internazionali.

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autorità per evitare un ritorno concreto dei curdi nei propri villaggi177. Un simile intreccio si riscontra anche con riferimento al caso Nusret Kaya178 dell’aprile 2014, in cui una violazione del diritto alla vita privata e familiare è riconosciuta nella scelta delle autorità carcerarie di vietare l’utilizzo della lingua curda nelle conversazioni telefoniche di un detenuto con i propri parenti. La rilevanza di tale decisione è data dal fatto che, meno di un mese prima della sentenza, la Grande Assemblea Nazionale provvedeva all’approvazione del c.d. pacchetto di democratizzazione, ossia un insieme di emendamenti a leggi ordinarie e costituzionali grazie a cui, tra l’altro, si ribadisce la possibilità di insegnare la lingua curda nelle scuole, si introduce il diritto a condurre le campagne elettorali in curdo e si riconoscono le lettere curde non presenti nell’alfabeto turco179. Accanto a queste evoluzioni di natura normativa deve segnalarsi, infine, l’impegno del Governo dell’AKP per una pacificazione con i curdi anche su un piano “politico”. In questo clima di distensione con la popolazione curda, mediaticamente denominato kurdish opening, infatti, il Governo di Erdoğan avvia per il tramite dei servizi segreti dei contatti con leader storico del PKK Abdullah Ocalan, da tempo detenuto nella prigione di Imrali. Primi esiti di questi contatti si hanno nel marzo 2013, quando Ocalan emette un comunicato in cui dichiara l’immediata cessazione della resistenza armata curda e si pronuncia favorevolmente rispetto all’avvio di un dialogo con le autorità turche affinché la Costituzione in fase di redazione rappresenti anche il momento conclusivo del lungo periodo di discriminazioni subito dalla popolazione curda. A dimostrare il desiderio del Governo di sostenere la posizione di Ocalan ed evitare che il suo stato di detenzione possa minare la capacità di influire sulle scelte dell’autonomismo curdo si pone la decisione di

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Per un approfondimento, si rinvia al Memorandum dell’Associazione per i popoli minacciati del 25 febbraio 2004, www.gfbv.it. 178 Nusret Kaya c. Turchia e Svizzera, 22 aprile 2014, n. 3750/06, 43752/06, 32054/08, 37753/08 e 60915/08. 179 Si tratta delle lettere Q, X e Z che, a seguito della riforma, possono essere utilizzate per le registrazioni anagrafiche e le denominazioni toponomastiche.

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consentire per la prima volta nella storia, la lettura del comunicato anche da un canale turco180. Sullo sfondo, a spiegare l’accresciuta attenzione politica verso la questione curda, si pongono certamente gli eventi che hanno modificato profondamente gli assetti geopolitici mediorientali dopo l’11 settembre 2001 e che hanno indotto la Turchia a confrontarsi con la presenza, al proprio confine meridionale, della Regione Autonoma del Curdistan del Nord. Se la prima guerra del Golfo (2 agosto 1990 - 28 febbraio 1991), mediante l’istituzione di una no fly zone ha contribuito ad individuare i confini del Curdistan iracheno, è la seconda guerra del Golfo (20 marzo 1 maggio 2003) – con la caduta del dittatore Saddam Hussein e l’approvazione di una Costituzione (2005) che sancisce la forma di Stato federale – che riconosce, per la prima volta nella storia, un legame tra la popolazione curda e il territorio che essa abita nell’Iraq del Nord e rende necessario per la Turchia avviare contatti diplomatici con il Governo autonomo soprattutto per la gestione congiunta delle questioni connesse al terrorismo del PKK. L’avanzata, nell’estate 2014, di un fronte islamista fondamentalista, l’ISIS – Islamic State of Iraq and Syria, intenzionato ad istituire un nuovo califfato islamico, inoltre, induce la Turchia a rafforzare i legami con i curdi iracheni anche nell’ottica di organizzare insieme una azione di contrasto a tali forze, del tutto divergenti dalla visione islamicomoderata che il Governo di Erdoğan tenta di affermare. Non da ultimo devono considerarsi gli eventi connessi alla crisi siriana, in cui il conflitto interno per l’allontanamento dal potere dell’autocrate Al-Assad ha messo la Turchia di fronte alla necessità di gestire, proprio in quei territori di confine tra i due Stati tradizionalmente abitati dalla popolazione curda, un ingente flusso di rifugiati, possibile alibi per la penetrazione nel territorio turco di forze indipendentiste e, al contempo, epifenomeno di una crisi umanitaria che solo il raccordo con le forze politiche locali può consentire di gestire con efficacia. 180

Con riferimento alla vicenda che ha condotto alla riapertura del dialogo fra le due parti si veda J. REYNOLDS, Turkey Kurds: PKK Chief Ocalan Calls for Ceasefire, BBC News, 21 marzo 2013.

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6. Il Populismo: separazione dei poteri e questione dei diritti Il concetto di populismo, che nell’evoluzione del pensiero occidentale fra Ottocento e Novecento ha finito per assumere un’accezione negativa181, viene accolto tra i valori kemalisti come lo strumento per evitare le “storture” della democrazia e consentire un costante rapporto tra il popolo e i suoi rappresentanti. Di fatto, nei primi anni della Repubblica il mantenimento di questo rapporto è assicurato proprio dalla figura di Kemal che, secondo il cognome che la Grande Assemblea gli attribuisce, è Atatürk, padre dei turchi. Il “paternalismo” del fondatore è strettamente collegato all’esigenza di costruire una nuova identità per la Turchia, che solo in controluce mostra i propri legami con il passato ottomano. Nel volgere dei decenni, invece, il populismo diviene una costante profonda della forma di governo turca che, sebbene formalmente parlamentare, si è spesso “piegata” dinanzi alle figure forti dell’Esecutivo che hanno saputo usare il proprio carisma per rivolgersi direttamente al popolo e ottenere il suo sostegno diretto. È, questa, una linea di continuità che caratterizza l’intera fase repubblicana e di cui i numerosi referenda con cui il Primo Ministro Erdoğan ha potuto riformare profondamente la Costituzione del 1982, buoni ultimi, danno dimostrazione. L’influenza del principio populista sui rapporti fra i poteri non rileva solo con riferimento al ruolo del Presidente e del Primo Ministro, ma anche nei rapporti fra l’Esecutivo e il potere giudiziario, caratterizzati da costanti tentativi di ingerenza al punto che l’indipendenza dei giudici sancita in Costituzione sembra frequentemente in pericolo. Allo stesso tempo, l’aspetto autoritario del controllo si esprime nell’istituzione di Corti speciali, come le Corti di Sicurezza Nazionale, che minano alle fondamenta l’equo processo e l’imparzialità dei giudici. Il populismo, dunque, viene in rilievo con riferimento alla Costituzione dei poteri e, a specchio, rispetto alla tutela dei diritti: l’esempio più emblematico riguarda la controversa situazione dei detenuti in cui, in nome della tutela dello Stato, padre-padrone di tutti i cittadini, i diritti fondamentali sono gravemente violati. 181

Sull’evoluzione di questo concetto e sul suo controverso legame con la democrazia si rinvia a Y. MÉNY, Y. SUREL, Populismo e Democrazia, il Mulino, Bologna, 2001, pp. 35-38 e pp. 41-80.

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6.1 Rappresentanza e decisione: un difficile equilibrio Superata la fase transitoria del Manifesto del 1921, che prevedeva una forma di governo di tipo assemblearistico, i testi costituzionali della Repubblica di Turchia hanno sempre previsto una forma di governo parlamentare che pone al centro del quadro istituzionale la Grande Assemblea Nazionale, nelle fasi monocamerali, e la Camera bassa, nella parentesi del bicameralismo. Si tratta, tuttavia, di un parlamentarismo che deve essere letto attraverso la lente del principio kemalista del populismo, per cui compito dell’Assemblea è mantenere la stabilità politica e assicurare la governabilità del paese. La ricerca della stabilità è particolarmente evidente nella legislazione elettorale approvata a seguito della Costituzione del 1982, che sembra particolarmente incentrata sulla necessità di garantire un limitato accesso dei partiti all’Assemblea. La legge elettorale n. 2839 del 10 giugno 1983 così come modificata dalla legge n. 4125 del 27 ottobre 1995 e attualmente in vigore, infatti, pur riproponendo una formula elettorale proporzionale come nella vigenza della Costituzione del 1961, tempera il modello con un riparto dei seggi secondo il metodo d’Hont. A tale metodo, che già nella sua formulazione tradizionale tende a favorire i partiti più grandi, sono inoltre associati ulteriori elementi che, di fatto, consentono solo a poche formazioni l’ingresso nella Grande Assemblea Nazionale182: suddivisione del paese in 85 distretti elettorali e soglia di sbarramento del 10% su base 182

Ricordando che la legge elettorale n. 2839 del 10 giugno 1983 è una diretta conseguenza del colpo di Stato del 12 settembre 1980, si comprende come la necessità di rinvenire strumenti per limitare la proliferazione dei partiti derivi dalla convinzione dei militari golpisti che l’instabilità del paese negli anni ’70 sia dipesa dal sistema a multipartitismo estremo precedentemente vigente. A questo scopo, infatti, i militari, mediante l’art. 4 della legge sui partiti n. 2820 del 1983, prevedono la possibilità che il Consiglio di Sicurezza Nazionale possa porre il veto sulla fondazione dei partiti; da questa disposizione consegue la partecipazione di tre soli partiti alla successiva tornata elettorale del 6 novembre 1983 (cfr. E. ÖZBUDUN, Development of democratic government in Turkey: crises, interruption and reequilibrations, cit.; T. ANSAY, D. WALLACE, Introduction to Turkish law, Kluwer Law International, London, 2005, pp. 34-37).

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nazionale (art. 33 L. n. 2839 del 1983). A ciò si aggiunga che per l’accettazione delle candidature da parte del Consiglio superiore delle elezioni è necessario che il partito presenti candidature in almeno metà delle province e un terzo dei distretti delle medesime, ovvero presenti non meno di due candidati per ogni seggio in almeno la metà delle province183; non è possibile, per raggiungere tali soglie, che i partiti formino delle liste comuni (art. 16 L. n. 2839), ed è per questo che nell’imminenza di nuove campagne elettorali si assiste con frequenza alla fusione di alcuni partiti184. Se la disciplina dei partiti concorre a inverare il principio populistico attraverso la limitazione del numero delle formazioni politiche che hanno accesso all’Assemblea, un riscontro ancora più diretto della volontà di dare applicazione a questo principio attraverso la forma di governo si rinviene nella disciplina relativa al Presidente della Repubblica. In quest’ambito, peraltro, si avverte in maniera decisa l’intreccio tra i princìpi fondanti della Repubblica turca e le evoluzioni del costituzionalismo contemporaneo. Tale intreccio è ancora più evidente con riferimento alle più recenti vicende che hanno modificato le modalità di elezione del Presidente della Repubblica e che paiono ricalcare una parabola comune a molti Stati europei185. Pur con le distinzioni dovute alle competenze attribuite a questa figura, infatti, è possibile notare come nel contesto europeo si stia consolidando un trend verso la presidenzializzazione degli esecutivi in cui sempre più rilevante è il ruolo del Capo dello Stato186. Ripercorrendo le fasi storiche sin dall’istituzione della Repubblica, infatti, Kemal Atatürk ricopre la carica di Presidente utilizzando il proprio 183

Cfr. la legge sui partiti politici n. 2820 del 24 aprile 1983, art. 36. Per restare agli eventi che caratterizzano l’ascesa al potere dell’attuale partito di governo, si ricorda la decisione del settembre 2002 dei tre partiti “di sinistra” HADEP, EMEP e SDP di fondersi nel DEHAP per contrastare l’avanzata del partito di ispirazione religiosa AKP, poi vincitore della tornata elettorale. 185 Non essendo questa la sede per approfondire la questione del consolidamento di un ruolo preminente dell’Esecutivo nelle democrazie europee, si rinvia a A. DI GIOVINE, A. MASTROMARINO, La presidenzializzazione degli esecutivi nelle democrazie contemporanee, Giappichelli, Torino, 2007. 186 Per un approccio critico alla presidenzializzazione dell’Esecutivo in Turchia, si veda İ.Ö. KABOĞLU, Les limites d’imitation du régime présidentiel, in Politeia, 14, 2008, pp. 61-74. 184

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carisma per “riempire” la funzione affidatagli in modo da intervenire concretamente nella vita politica del paese. La successione ad Atatürk di Inönü (1938), l’apertura al pluralismo politico (1945) e la Costituzione del 1961, tuttavia, riconducono la Presidenza della Repubblica nell’alveo delle funzioni e delle competenze tradizionalmente attribuitele nella forma di governo parlamentare. Al contrario, la Costituzione del 1982, pur aderendo formalmente al parlamentarismo, avvia il menzionato percorso di presidenzializzazione187 dell’Esecutivo. Il testo costituzionale, infatti, attribuisce al Presidente importanti poteri di nomina – soprattutto con riferimento ai giudici delle Alte Corti – esercitati in modo autonomo dal Consiglio dei Ministri, il quale resta legato alla Grande Assemblea Nazionale dal voto di fiducia. Il Presidente, inoltre, è titolare del potere di sottoporre a referendum gli emendamenti costituzionali e di avviare un ricorso di incostituzionalità dinanzi alla Corte costituzionale per le leggi approvate dal Legislativo. Nei fatti, l’aumentato potere del Presidente della Repubblica si nota con chiarezza a seguito delle elezioni del 1991, quando il Refah Partisi ottiene 62 seggi alla Grande Assemblea e “costringe” il Partito democratico a formare un Governo di coalizione in cui la carica di Primo Ministro è attribuita a Tansu Çiller, membro del Partito democratico, all’epoca guidato da Süleyman Demirel. Quando quest’ultimo, nel 1993, viene eletto Presidente della Repubblica utilizza il proprio duplice ruolo di leader del principale partito della coalizione e di Presidente per controbilanciare la potenziale instabilità della coalizione. La Costituzione del 1982, dunque, sembra superare l’assemblearismo tipico delle leggi fondamentali precedenti e, pur facendo salva la forma di governo parlamentare, riconosce un ruolo di rilievo al Presidente della 187

Si ritiene opportuno precisare che si utilizza qui il termine di presidenzializzazione per intendere quel processo che sta interessando la maggior parte degli Stati europei per cui, sia mutando la prassi interpretativa delle dinamiche istituzionali, sia procedendo a vere e proprie riforme costituzionali o legislative, si sta affermando una costante centralizzazione del ruolo del leader dell’Esecutivo, sia nella gestione della fase elettorale che nella gestione dell’indirizzo politico (cfr. A. DI GIOVINE, A. MASTROMARINO, op. cit., p. 1).

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Repubblica, che diviene ancor più evidente nei periodi in cui questa carica è ricoperta da politici carismatici. Anche a seguito dell’ascesa dell’AKP, in un periodo in cui la figura del primo Ministro è in messa in rilievo dal carattere e dalle scelte politiche di Erdoğan, la carica di Presidente della Repubblica non perde rilievo. Lo dimostrano i numerosi veti posti dal Presidente Sezer e, più ancora, la vicenda che ha condotto all’elezione del suo successore e alla modifica del sistema elettorale presidenziale. Nella primavera del 2007, infatti, la Grande Assemblea Nazionale è chiamata a eleggere il successore del Presidente Sezer, in carica dal 2000, e il partito di maggioranza, l’AKP, propone Abdullah Gül, all’epoca Ministro degli Esteri e vice Presidente del Consiglio. La scelta di portare per la prima volta alla Presidenza un esponente di un partito di ispirazione islamica188, incontrando l’ostilità dei kemalisti, impedisce all’AKP di raggiungere i quora richiesti ai primi due scrutini, pur potendo facilmente ottenere l’elezione del proprio candidato nella terza votazione. Questa consapevolezza pare essere all’origine dell’intervento dei militari, che in un comunicato mettono in guardia il Paese da una deriva islamista e “si augurano” che il nuovo Presidente sia una personalità laica in grado di rappresentare la Turchia moderna. All’avversione delle forze armate, si aggiunge quella dell’opposizione parlamentare del CHP che boicotta la prima votazione, tenutasi il 27 aprile 2007. Il comportamento politico del partito di ispirazione kemalista apre la strada a un lungo dibattito circa l’interpretazione del sistema previsto per l’elezione presidenziale. Ai sensi dell’art. 102 Cost., l’elezione del Presidente della Repubblica richiede una maggioranza dei due terzi per i primi due turni, al terzo turno è sufficiente la maggioranza assoluta, e, in caso di mancata elezione, al quarto turno si procede al ballottaggio tra i due candidati che abbiano ottenuto la maggioranza dei voti al turno precedente. Il boicottaggio del CHP influisce notevolmente sul primo turno di voto, giacché il candidato Abdullah Gül ottiene 357 voti su 361 votanti. Il CHP ricorre quindi alla Corte costituzionale adducendo l’assenza del numero legale per ritenere valida la votazione. La questione da risolvere concerne l’interpretazione 188

Abdullah Gül è uno dei fondatori dell’AKP e ha più volte palesato la propria contrarietà rispetto al ruolo attribuito alla laicità nell’ordinamento e la propria vicinanza ad alcuni movimenti islamici. Notevole scalpore suscita, inoltre, la scelta della moglie del candidato, Hayrüsa Gül, di accompagnarlo nelle sue apparizioni pubbliche indossando il türban.

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della prima frase dell’art. 102, c. 3, Cost. «… il Presidente della Repubblica è eletto a maggioranza dei due terzi del numero totale dei membri della Grande Assemblea Nazionale …». La Corte, agendo come importante veto player189, conferma la sua tendenza a porsi come garante dei valori fondanti dell’ordinamento190 e il 30 aprile 2007 accoglie il ricorso del CHP, annullando il primo scrutinio e interpretando la norma costituzionale in modo che il quorum necessario per procedere all’elezione sia di 367 deputati, ossia dei due terzi degli aventi diritto e non, come avrebbe voluto il partito di governo, dei presenti e votanti. Nella situazione di stallo che segue, si decidono lo scioglimento anticipato della GANT e l’indizione delle elezioni, che hanno luogo il 22 luglio 2007. Intanto, in attesa delle nuove elezioni, il Governo presenta un pacchetto di riforme costituzionali, approvato il 31 maggio 2007, il cui perno è costituito dalla legge n. 5660 che consente l’elezione diretta del Presidente della Repubblica; il Presidente uscente Sezer, pur rinviando la legge all’Assemblea, è obbligato da una nuova approvazione in testo identico a promulgarla, pur esercitando, ex art. 175 Cost., la propria titolarità a indire un referendum191. Il 21 ottobre 2007, pertanto, il popolo turco si pronuncia in favore della riforma192. 189

Sul ruolo della Corte costituzionale come garante dei principi della Repubblica, e in primo luogo del principio di laicità – che fa da sfondo costante alla vicenda che qui si discute – si veda E. SALES, op. cit., pp. 1649-1682. 190 L. GÖNEÇ, Presidential Elements in Government. Turkey, in European Constitutional Law, 4, 2008, pp. 448-523, spec. p. 520. 191 Il veto del Presidente è il frutto di una lunga e complessa riflessione costituzionale, ben illustrata nelle motivazioni con cui il Presidente accompagna il proprio rinvio alla GANT, in cui si evidenzia come l’introduzione dell’elezione presidenziale diretta abbia messo in discussione la natura parlamentare della forma di governo turca. Nel testo il Presidente Sezer ripercorre, infatti, le tre caratteristiche fondamentali dei sistemi parlamentari – responsabilità dell’Esecutivo di fronte al Legislativo, promanazione del Governo dall’organo legislativo, esistenza di un capo dello Stato politicamente neutrale e imparziale – che la riforma costituzionale, nell’opinione di Sezer, mette fortemente in discussione. L’eliminazione del quorum dei due terzi nei primi due turni e la sua sostituzione con una elezione popolare, infatti, eliminerebbero la garanzia di imparzialità, mentre l’elezione diretta potrebbe causare

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Le elezioni per la Grande Assemblea, dunque, hanno luogo nel lasso di tempo intercorso tra l’indizione del referendum e il suo svolgimento e in qualche misura ne anticipano il successo. Il 22 luglio 2007, infatti, l’AKP ottiene il 46,5% dei voti e 341 su 550 seggi nella Grande Assemblea Nazionale; la nuova composizione dell’Assemblea consente quindi all’AKP di eleggere il proprio candidato il 28 agosto 2007. Non può negarsi che questi emendamenti costituzionali rafforzino particolarmente il carattere bicefalo del potere esecutivo, tanto da poter mettere in discussione l’appartenenza della Repubblica turca al novero dei paesi dalla forma di governo parlamentare. Si discute, infatti, della possibilità di accogliere una definizione diversa, che, pur non arrivando a definire la Turchia un semipresidenzialismo, la caratterizza come un “parliamentarisme attenué”193. Non manca, tuttavia, chi, anche nel dibattito costituente svoltosi in seno alla Commissione per la conciliazione costituzionale, discute della possibilità di procedere a un ulteriore potenziamento della carica di Presidente della Repubblica, modificando la forma di governo in senso – almeno – semipresidenziale194. Il riferimento alle influenze esterne per il legislatore costituzionale turco nell’introduzione di questa riforma parrebbe essere la Francia della V Repubblica195, ispiratrice anche di altri ordinamenti che, pur propensi a situazioni di coabitazione. (cfr. E. ÖRÜCÜ, Whither the Presidency of the Republic of Turkey?, in European Public Law, 14, 2008, pp.35-53, spec. p. 48). 192 Il tasso di partecipazione al referendum costituzionale è del 67,54%; rispetto a questa percentuale, il 68,92% dei partecipanti vota “sì”, mentre il 31,08% vota “no”. 193 È questa, peraltro, una definizione che E. ÖZBUDUN, op. cit., pp. 59-60 attribuisce alla Repubblica turca già prima dell’entrata in vigore degli emendamenti costituzionali del 2007. 194 Sul punto si veda anche L. GÖNEÇ, op. cit., p. 500, in cui si ricorda il dibattito circa la possibile evoluzione in senso semipresidenziale, avviato già durante la presidenza di Turgut Özal (1989-1993) e di Süleyman Demirel (1993-2000). 195 Va peraltro sottolineato che se la Francia propende per Une Vème République plus démocratique – questo il titolo del rapporto del Comitato Balladur da cui origina il percorso di modernizzazione attuato sin dal 2008 – la Turchia pare invece aver colto proprio gli elementi del sistema francese che il trend riformatore sta cercando di attenuare. Per un approfondimento circa il processo di modernizzazione della V Repubblica, si veda M.C. PONTHOREAU, L’enigma del buon governo sotto la Quinta Repubblica, in A. DI GIOVINE, A. MASTROMARINO, op. cit., pp. 77-95.

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una elezione diretta della massima carica dello Stato, hanno preferito il semipresidenzialismo al modello presidenziale di origine statunitense196. Rispetto alla scelta turca per l’elezione diretta non manca tuttavia chi evidenzia che la legge n. 5660 del 10 maggio 2007, più che il frutto di un’attenta riflessione, sia dettata dalla necessità di superare la fase di stallo politico dovuta alla difficoltà di eleggere un nuovo Presidente197. Al riguardo va ricordato, peraltro, che la stessa durata del mandato presidenziale è stata al centro di aspre polemiche. Secondo l’AKP il mandato del presidente Gül sarebbe dovuto scadere nel 2014, essendo previsto un mandato di sette anni al momento della sua elezione, mentre per il CHP esso sarebbe dovuto terminare nel 2012, ai sensi della riduzione da sette a cinque anni prevista dalla riforma del 2007. Sostenendo quest’ultima posizione, l’8 novembre 2007, 110 deputati dell’opposizione ricorrono alla Corte costituzionale per chiedere di invalidare i risultati del referendum sostenendo la difformità tra il testo approvato dalla Grande Assemblea Nazionale e quello sottoposto ad approvazione popolare. Nel testo sottoposto a referendum, infatti, mancherebbe un esplicito riferimento all’undicesimo Presidente, Gül appunto, contenuto invece nel testo presentato in Assemblea. Il 21 giugno 2012 la Corte si pronuncia198 rigettando il ricorso e sostenendo che il Presidente Gül vedrà scadere il proprio mandato nel 2014 e potrà ricandidarsi per una rielezione. Un’opzione che tuttavia non viene perseguita, visto che il candidato dell’AKP, poi eletto, per le presidenziali dell’agosto 2014 è stato Recep Tayip Erdoğan. 196

Al riguardo si pensi anche al dibattito che interessa in questi anni l’Italia, ove non mancano forze politiche che auspicano una revisione della forma di governo in senso semipresidenziale. Per una ricognizione dottrinaria si veda A. TORRE, Percorsi dottrinali italiani sulla Costituzione della Quinta Repubblica francese, in M. CALAMO SPECCHIA (a cura di), La Costituzione Francese/La Constitution Française, Giappichelli, Torino, 2009, pp. 513-553, nonché F. LANCHESTER, La transizione italiana e la quarta fase nel rapporto con le istituzioni francesi della Quinta Repubblica in www.associazionedeicostituzionalisti.it. 197 L. GÖNEÇ, op. cit., pp. 488-523. 198 Corte costituzionale, E2011/44 K2012/99, 21 giugno 2012.

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6.2 Il sistema giudiziario: riforme e rischi La disciplina “materiale” del sistema giudiziario, come detto, in molti casi vede tentativi di controllo che mettono a rischio sia la capacità di assicurare i diritti processuali dei cittadini sia l’indipendenza stessa della Magistratura. Rispetto al primo punto, la principale questione che viene in rilievo concerne l’equità e l’imparzialità del giudice nonché la capacità dell’ordinamento di assicurare un giusto processo. È questo il caso che si pone nel momento in cui i cittadini possono essere sottoposti al giudizio di Corti militari, come accaduto per lungo tempo in Turchia dove, nel 1984, sono istituite Corti di Sicurezza Nazionale. Giurisdizioni speciali per la garanzia della sicurezza dello Stato e per il contrasto del terrorismo, tali Corti sono tribunali militari composti da giudici sia civili che militari competenti a giudicare i casi di attentati alla sicurezza nazionale e i crimini contro la Repubblica o contro l’integrità statale, ai sensi dell’art. 153 e 155 del vecchio Codice penale (oggi sostituiti dagli artt. 319 e 318). La vicenda che progressivamente conduce all’abolizione di queste Corti segnala, ancora una volta, quanto stretta sia l’influenza dell’appartenenza allo spazio europeo. La Corte di Strasburgo si pronuncia per la prima volta in materia in occasione del caso Incal199, relativo alla condanna di un membro del partito filocurdo HEP da parte della Corte di Sicurezza Nazionale di Ankara per incitamento all’ostilità e all’odio razziale mediante la distribuzione di materiale in cui si invoca la difesa dei diritti sindacali dei lavoratori di origine curda. Oltre ad evidenziare come la sentenza della Corte turca violi l’art. 10 CEDU sulla libertà d’espressione, la Grande Camera si sofferma sulla composizione del Consiglio giudicante, ritenendo il giudice militare non imparziale in quanto influenzabile da considerazioni differenti dal mero giudizio della vicenda e riconoscendo, pertanto, una violazione dell’art. 6, c. 1, ai danni del ricorrente. Similmente, la Turchia viene condannata per violazione dell’art. 6 nel caso Sadak e altri c. Turchia200, in cui si riconosce ai danni del ricorrente, già deputato nelle fila del partito filocurdo DEP, una 199

Grande Chambre, Incal c. Turchia, 9 giugno 1998, n. 22678/93. Sadak e altri c. Turchia, 17 luglio 2001, n. 29900/96, 29901/96, 29902/96 e n. 29903/96. 200

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violazione del diritto a un processo equo perché sottoposto al giudizio di una Corte di Sicurezza Nazionale. Non differentemente la Corte decide nel caso Haydar Yildrim201. A seguito di queste sentenze, e di notevoli pressioni da parte dell’Unione europea che evidenzia più volte come esse rappresentino un unicum nel panorama europeo, queste Corti sono progressivamente abolite. Nel 1999, infatti, la legge n. 4390 del 22 giugno 1999, che emenda la legge n. 2845 relativa all’istituzione e alle procedure delle Corti di Sicurezza Nazionale, attua la riforma costituzionale introdotta il 18 giugno dello stesso anno con cui si modifica l’art. 142, c. 2, Cost. al fine di eliminare la componente militare da tali Corti. Nel 2004, infine, la legge n. 5190 del 16 giugno 2004 abroga definitivamente l’art. 143 Cost. e con esso la legge n. 2845; le Corti di Sicurezza Nazionale sono così sostituite da Corti penali speciali che, almeno formalmente, presentano tutte le garanzie per lo svolgimento di processi equi e allineano la Turchia al contesto europeo. La progressiva abolizione di queste Corti coincide con una riforma fondamentale per l’ordinamento turco, la cui Costituzione prevede il diritto dei cittadini a un processo equo solo a seguito dell’emendamento all’art. 36 Cost. effettuato con la riforma del 2001202. Nel tentativo di consentire un’equa riparazione per i processi svolti dalle Corti di Sicurezza nazionale, nel 2002 si è provveduto a modificare profondamente gli artt. 445 e 448 del Codice di procedura civile e gli artt. 327 e 335 del Codice di procedura penale al fine di consentire la ripetizione dei processi da cui è derivata una condanna della Corte di Strasburgo203. 201

Haydar Yildrim c. Turchia, 15 luglio 2004, n. 42920/98. La riforma, peraltro, modifica anche l’art. 19, c. 4, Cost., sancendo il diritto a essere condotti dinanzi ad un giudice non oltre le 48 ore dall’arresto, riducendo da 15 a 4 giorni il termine previsto in caso di reati associativi. 203 La necessità di introdurre disposizioni per consentire la ripetizione dei processi pare strettamente connessa al fatto che le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo non hanno un effetto diretto nell’ordinamento dello Stato condannato e pertanto non possono abrogare disposizioni legislative, annullare atti amministrativi 202

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Sul punto il legislatore turco torna con legge n. 4793 approvata il 21 gennaio 2003, eliminando dalle condizioni per la ripetizione dei processi la necessità che la violazione produca conseguenze cui non è possibile rimediare mediante compensazione e vietando la ripetizione dei processi solo qualora sia trascorso un anno dall’approvazione della legge per le sentenze già passate in giudicato ovvero, con riferimento alle sentenze future, qualora sia trascorso più di un anno dalla decisione della Corte di Strasburgo. La valutazione sull’opportunità di ripetere il processo, inoltre, è spostata dalle competenze della Corte di Cassazione a quelle della Corte di prima istanza. Nel giugno dello stesso anno, infine, la legge n. 4298, approvata il 15 luglio 2003 ed entrata in vigore quattro giorni dopo, emenda l’art. 53 del Codice di procedura amministrativa estendendo la possibilità di ripetizione anche ai processi amministrativi204. La possibilità di consentire la riapertura dei processi, tuttavia, viene introdotta in maniera “peculiare”. L’entrata di vigore della legge n. 4793/2003, pur approvata nel mese di gennaio, viene posticipata al 4 febbraio 2003 per evitare la possibilità di riaprire il processo riguardante il caso Öcalan. La legge, infatti, garantisce la riapertura dei processi solo per i casi decisi dalla Corte di Strasburgo prima del 4 febbraio 2003 o i cui ricorsi siano stati presentati successivamente a questa data. In seguito all’intervento del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa205 per ovvero “cassare” una decisione di un giudice nazionale. La Corte, infatti, non svolgendo una funzione di Revisiongericht o di Corte di Cassazione e non potendo intervenire sulla misura che ha causato la violazione, può solo garantire alla vittima una restitutio in integrum ovvero, sussidiariamente, un’equa soddisfazione. 204 In realtà, la possibilità di consentire la riapertura di un processo già definito è un argomento che apre un ampio dibattito in ragione della sua forza innovatrice, ma anche perché in questo modo la pronuncia del giudice convenzionale incide sulla funzione giurisdizionale interna. Per un approfondimento si veda A. GIARDINO CARLI, Stati e Corte europea di Strasburgo, cit., pp. 108-113. 205 Il Comitato riunisce settimanalmente i rappresentanti permanenti, ossia gli Ambasciatori e i Ministri plenipotenziari delegati dai Ministeri degli Esteri degli Stati parte; a livello ministeriale, invece, sono previsti incontri semestrali, in occasione del cambio di presidenza (circa la composizione e il funzionamento di quest’organo si veda M. DE SALVIA, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ESI, Napoli, 2001, p. 42 ss.). La scelta di affidare al Comitato il follow-up dell’esecuzione delle sentenze è una peculiarità del sistema convenzionale, che affida agli Stati, considerati uti universi, il compito di verificare il rispetto degli obblighi che essi stessi hanno assunto uti singuli (Cfr. P.H. IMBERT, L’exécution des arrêts de la Cour européenne des droits de l’homme.

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sollecitare la rimozione dei limiti temporali nella possibilità di ripetizione del processo, si procede alla revisione di numerose altre sentenze, ma la richiesta del principale leader del PKK di essere nuovamente processato viene respinta dalle Corti nazionali che evidenziano come, vista la natura dei crimini commessi e confessati dell’imputato, anche in caso di una eventuale ripetizione il processo non potrebbe dare un esito diverso dalla condanna alla detenzione a vita già comminata. L’intervento della Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa si rivela determinante anche per un altro motivo. A seguito delle sentenze nei casi Sadak, Zana, Dicle e Doğan, infatti, la Turchia, pur avendo predisposto la ripetizione dei processi, mantiene in stato di detenzione gli imputati violando in questo modo il principio della presunzione di innocenza. Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, quindi, dapprima richiede la riapertura dei processi206 e la messa in libertà dei detenuti in attesa della riapertura del processo207, e successivamente adotta la Risoluzione finale ResDH (2004) 86 del 9 dicembre 2004, in cui dichiara la chiusura del caso avendo la Turchia adempiuto ai propri obblighi convenzionali. Mediante la scelta di modificare il proprio sistema giurisdizionale per consentire la ripetizione dei processi, peraltro, la Turchia mostra una Le rôle du Comité des Ministres du Conseil d’Europe, in La Comunità internazionale, 7, 2003, pp. 20-21). All’origine di questa scelta, inoltre, vi sarebbe il carattere essenzialmente intergovernativo del Comitato, che consentirebbe di porre l’accento sulle questioni relative ai diritti umani senza minare la sovranità nazionale dei singoli Stati, agendo piuttosto attraverso una sorta di soft power. Per ulteriori approfondimenti si rinvia a F.G.E. SUNDBERG, Control of Execution of Decision Under the ECHR, in G. ALFREDSSON (a cura di), International Human Rights Monitoring Mechanism, Martinus Nijhoff Publisher, The Hague, 2001, pp. 561-585. Una posizione critica nei confronti dell’operato del Comitato, inoltre, è espressa da S.K. MARTENS, Commentary, in M.K. BULTERMAN, M. KUIJER (a cura di), Compliance with Judgments of International Courts, Martinus Nijhoff Publishers, The Hague, 1996, pp. 71-84, in cui si sostiene che quest’organo abbia adottato un approccio minimalista e particolarmente sottomesso all’autorità degli Stati. 206 ResDH (2002) 59 del 30 aprile 2002. 207 ResDH (2004) 31 del 6 aprile 2004.

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precisa volontà di conformarsi anche alla soft law del sistema convenzionale. Sebbene sia evidente che in alcuni casi – soprattutto quelli in cui le violazioni dei diritti processuali sono tali da inficiare l’esito stesso del giudizio interno – solo la ripetizione del processo possa consentire una restitutio in integrum, non deve dimenticarsi che nessuna disposizione della Convenzione, né dei suoi protocolli addizionali, impone agli Stati tale tipo di riforma del sistema nazionale. È invece in una raccomandazione del gennaio 2000 che il Comitato dei Ministri incoraggia gli Stati firmatari a «examiner leur systèmes juridiques nationaux en vue d’assurer qu’il existe des possibilités appropriées pour le réexamen d’une affaire, y compris la réouverture de la procédure […]»208. A muovere la Turchia in questa direzione, probabilmente, è anche la consapevolezza, manifestata implicitamente ma con chiarezza, che la raccomandazione del Comitato sia frutto di una riflessione circa l’inerzia seguita alla condanna nell’affaire Partito Socialista209. Del resto, è sempre a seguito di una risoluzione temporanea del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa (23 luglio 2001) che la Grande Assemblea Nazionale approva la legge n. 5275 del 2004 relativa all’attuazione delle sentenze della CEDU e progressivamente aumenta il budget a disposizione del Ministero della Giustizia al fine di finanziare un progetto per la costruzione di nuovi uffici per le Corti, nonché per l’avvio dell’informatizzazione del sistema giudiziario per migliorare la conoscibilità delle decisioni delle medesime. Rispetto al secondo punto “critico”, la tutela dell’indipendenza della Magistratura è formalmente assicurata dalla Costituzione del 1924, che la sancisce esplicitamente (art. 54), mentre demanda alla legge ordinaria la disciplina dell’organizzazione del Giudiziario. L’attenzione per l’indipendenza dei giudici si riscontra anche nel Testo del 1961 (art. 5) e nella Costituzione del 1982 (art. 9), che la inseriscono nei principi 208

Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, Raccomandazione n. R (2000) 2 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sul riesame o la riapertura di alcuni casi a livello interno in seguito alle decisioni della Corte europea dei diritti umani, 19 gennaio 2000, 694a riunione dei Delegati dei Ministri. 209 In realtà, dalla nota esplicativa che accompagna la Raccomandazione è possibile notare come il Comitato faccia implicitamente ma indubitabilmente riferimento sia all’affaire Partito Socialista, sia al caso Hakkar c. Francia, 14 giugno 1991, n. 19033/91.

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fondamentali della Repubblica turca, oltre che nelle sezioni dedicate alla disciplina di questo potere dello Stato. Il Testo attualmente in vigore, inoltre, chiarisce che i giudici non possono essere rimossi dal proprio incarico né privati della retribuzione e che la loro carica cessa solo al compimento del 65° anno di età (art. 140). A garanzia della Magistratura, infine, la Costituzione del 1961 istituisce il Consiglio superiore dei giudici, composto da sette giudici selezionati dalla Corte di Cassazione fra i propri membri. Nel Testo del 1982 questo organo modifica la propria denominazione, divenendo Consiglio supremo dei giudici e dei pubblici ministeri (Hakimler ve Savcılar Yüksek Kurulunun –HSYK), e la propria composizione. Secondo la legge n. 2802 del 24 febbraio 1983, infatti, cinque membri sono selezionati dal Consiglio di Stato e dalla Corte di Cassazione fra i propri membri e due dei sette componenti sono il Ministro di Giustizia, con funzioni di presidente, e il suo sottosegretario. A seguito della riforma costituzionale del 2010, il Consiglio si compone di 22 giudici, di cui 4 nominati dal Presidente della Repubblica e i restanti dalle alte magistrature dello Stato, fatta salva la presenza del Ministro di Giustizia e del suo sottosegretario. La perdurante presenza nel Consiglio del Ministro di Giustizia, nonostante la riforma del 2010, sembra confermare il desiderio di mantenere ampi spazi di ingerenza per l’Esecutivo, che divengono ancor più evidenti se si considera che il Consiglio non è dotato di un bilancio e di un segretariato autonomi dal Ministero della Giustizia. L’indipendenza della Magistratura è sembrata ancor più a rischio a seguito del tentativo di riforma perseguito nel 2014 dal Governo dell’AKP. Il 15 febbraio 2014, infatti, la Grande Assemblea Nazionale approva la legge di iniziativa governativa n. 6524, di modifica della legge n. 2802/1983, mirante ad estendere i poteri di controllo del Governo, e in particolare del Ministro di Giustizia, sia sul Consiglio supremo dei giudici e dei pubblici ministeri che sull’Accademia della Magistratura. Tra le altre possibilità di intervento, la legge, approvata a seguito di un duro scontro – non solo verbale – tra i deputati dell’AKP e l’opposizione del Partito repubblicano, consente al Ministro della Giustizia di intervenire

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sulla composizione delle Corti rimuovendo i giudici qualora esistano «fondate motivazioni». È, questo, il principale punto di attrito con l’opposizione, che vi ha visto un dichiarato tentativo di ostruzionismo nei confronti delle numerose inchieste per corruzione aperte contro i componenti del Governo di Erdoğan; un tentativo che parrebbe confermato dalla decisione del Ministro di procedere alla rimozione di alcuni giudici e alla successiva nomina di sostituti già nei giorni immediatamente successivi all’approvazione della legge210. Contemporaneamente all’emanazione dei decreti ministeriali per la sostituzione dei giudici, l’opposizione ha inoltrato un ricorso alla Corte costituzionale, che si è pronunciata il 10 aprile 2014211 dichiarando l’incostituzionalità proprio delle disposizioni che avevano consentito un così massiccio intervento ministeriale. 6.3 La tutela dei diritti: il trattamento dei detenuti Senza voler richiamare scenari da Fuga di mezzanotte212, non può disconoscersi come, in un panorama giuridico sempre più allineato con gli standard europei, la situazione in cui versano i detenuti turchi rappresenti un punto dolente che dovrebbe essere al centro di un maggiore interessamento da parte delle istituzioni. Una situazione che appare ancor più grave se si considerano anche i comportamenti di alcuni settori della polizia che non esitano ad utilizzare i poteri attribuiti loro per il controllo del territorio per perpetrare serie violazioni dei diritti fondamentali. Quanto detto è particolarmente evidente se si guarda al contenzioso dinanzi alla Corte di Strasburgo da cui sono derivate numerose condanne per la Repubblica turca. La Grande Chambre, infatti, ha avuto modo di pronunciarsi più volte contro la Turchia sulla necessità di tutelare coloro 210

Il Ministro ha provveduto a una profonda ristrutturazione di tutti i giudici operanti presso il Consiglio, lasciando immutata la sola composizione dello stesso. 211 Corte costituzionale, E2014/57 K2014/8, 10 aprile 2014. 212 Come noto, questo è il titolo in italiano (Midnight Express nella versione originale) del film, diretto da Alan Parker nel 1978, che traspone, non sempre fedelmente, sul grande schermo l’autobiografia dello studente statunitense Billy Hayes, condannato per possesso di droghe a scontare una detenzione particolarmente cruenta in un carcere turco da cui riesce a scappare solo a seguito di fortunose vicende.

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che si trovano in stato di privazione della libertà personale. Nel caso Çakici213, concernente la “sparizione” di un detenuto, la Corte, dando per acquisita la morte della vittima, sostiene che essa rientri nella responsabilità dello Stato. Simile soluzione è adottata anche nel caso di decessi avvenuti durante un fermo di polizia214 e in seguito ad un arresto215. La Corte, peraltro, sanziona lo Stato turco non solo in seguito ai decessi, ma anche qualora sia leso lo stato di salute dei detenuti. Così, nel caso Berktay216, in cui il ricorrente riporta delle lesioni in seguito alla caduta da un balcone nel periodo di fermo di polizia, la Corte valuta la questione anche alla luce dell’art. 2 della CEDU, sebbene non si sia in presenza di un decesso e pur non poggiando la condanna esclusivamente su questo fondamento. Una condanna è l’esito anche del caso Huylu217, originato dal decesso di un detenuto derivante da gravi problemi di salute. La Corte ritiene che la Repubblica turca violi sia l’art. 2 della Convenzione, giacché le autorità sanitarie carcerarie non hanno preso nella giusta considerazione il cattivo stato di salute di Huylu, sia l’art. 6, valutando una mancata efficienza da parte delle autorità turche nell’accertamento delle responsabilità rispetto al decesso. Il diritto alla vita come diritto a ricevere le opportune cure mediche viene in causa anche nell’affaire Horoz. In questo caso la Corte esclude la configurazione di una violazione dell’art. 2 sostenendo che il detenuto, impegnato in uno sciopero della fame successivamente al rifiuto delle autorità di dare seguito alla sua richiesta di scarcerazione, riceva in carcere le stesse cure che riceverebbe se fosse libero. Quanto all’interpretazione del diritto alla vita inteso in ragione del suo corollario logico che impone agli Stati l’obbligo di condurre un’inchiesta efficace, essa viene in rilievo nel caso A.A. c. Turchia218, in cui la Corte, 213

Grande Chambre, Çakici c. Turchia, 8 luglio 1999, n. 23657/94. Grande Chambre, Salman c. Turchia, 27 giugno 2000, n. 21986/93. 215 Ikincisoy c. Turchia, 27 luglio 2004, n. 26144/95. 216 Berktay c. Turchia, 1 marzo 2001, n. 22493/93. 217 Huylu c. Turchia, 16 novembre 2006, n. 52955/99. 218 A.A. c. Turchia, 27 giugno 2004, n. 30015/96. 214

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pur non riconoscendo una violazione del diritto alla vita tout court, condanna la Turchia per non aver svolto tutte le indagini necessarie a determinare le cause della morte di un detenuto. La Corte, infatti, ritiene che gli Stati firmatari della Convenzione siano tenuti a condurre inchieste effettive nei casi in cui l’utilizzo della forza da parte di agenti dello Stato comporti delle vittime, al fine di punire i responsabili di comportamenti illegali, e, nel caso in cui non sia possibile individuare con esattezza i responsabili, a rispondere dell’obbligo di proteggere gli individui sottoposti alla propria giurisdizione sia da lesioni effettive che dalla minaccia delle stesse, anche nel corso di attività per il mantenimento dell’ordine pubblico. Quest’ultima fattispecie è quella che più interessa la popolazione di etnia curda. Esemplificativo può essere considerato il caso Ergi219, in cui la Corte condanna la Turchia ritenendo che «la responsabilità dello Stato sia riscontrabile in tutti i casi in cui i suoi agenti, nella scelta dei mezzi e dei metodi da impiegare per condurre una azione di sicurezza contro gruppi di oppositori, non abbiano preso tutte le precauzioni in loro potere per evitare accidentali morti di civili». Lo stato d’emergenza all’epoca vigente nell’Anatolia sudorientale, inoltre, non può considerarsi un’esimente né rispetto alla necessità di prendere tali precauzioni né con riferimento alla lacunosità delle inchieste per accertare la responsabilità rispetto ai decessi. Le violazioni che la Corte contesta alla Turchia, infine, riguardano anche l’art 3 CEDU, concernente il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti. Sul punto, infatti, vi è un vasto filone che vede la Turchia condannata per le condizioni di detenzione, i trattamenti subiti durante le stesse e durante i fermi di polizia, nonché per le violenze inflitte nel corso delle operazioni per il controllo del territorio, soprattutto nel sud-est del paese e nella zona nord di Cipro220. Significative sono le pronunce Salman c. Turchia221, in cui la Grande Camera condanna la 219

Ergi c. Turchia, 28 luglio 1998, n. 23818/94. Al riguardo si ricorda che l’art. 5 della Convenzione interviene in materia proteggendo il diritto alla libertà e alla sicurezza fisica dell’individuo anche con riferimento alle situazioni di detenzione, ponendo una condizione di legalità e una condizione di regolarità, giacché la privazione di libertà deve essere conforme alle norme di diritto interno e la privazione deve essere conforme e proporzionata allo scopo per cui essa è prevista. 221 Grande Chambre, Salman c. Turchia, 27 giugno 2000, n. 21986/93. 220

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Turchia per i trattamenti degradanti – nello specifico la falaka222 e le percosse al petto – cui è sottoposto un detenuto accusato di legami con il PKK, e Ilhan c. Turchia223, in cui la nozione di “tortura” è interpretata non solo come lesione arrecata al detenuto, ma anche come rifiuto di prestare le cure mediche necessarie224. Le condizioni dei detenuti vengono in rilievo anche nel caso X c. Turchia225 in cui il ricorrente, un giovane omosessuale detenuto per frode, sostiene che la scelta di detenerlo in una camera di isolamento rappresenti una violazione dell’art. 3 CEDU e sia una misura non proporzionata all’obiettivo di tutelarlo dalle violenze e dai maltrattamenti che avrebbe potuto subire dagli altri detenuti. Riconoscendo il carattere non proporzionato della misura, la Corte condanna la Turchia e, per la prima volta nella propria giurisprudenza, riconosce lo stato di seria discriminazione cui sono frequentemente sottoposti gli omosessuali e le lesbiche nei loro rapporti con le autorità pubbliche, equiparandolo a un trattamento inumano e degradante226. Nel caso Kaya c. Turchia227 la Corte estende sensibilmente il contenuto dell’art. 2 CEDU affermando che esso contiene un implicito obbligo per gli Stati parte della Convenzione di proteggere la vita degli individui sia nel corso delle operazioni per il mantenimento dell’ordine pubblico sia nei confronti di soggetti sottoposti a un regime di restrizione della libertà. L’obbligo di facere degli Stati, inoltre, si estenderebbe anche alla protezione degli individui da se stessi. È questa la fattispecie 222

Il termine indica la fustigazione delle piante dei piedi mediante verghe di legno flessibile o di cuoio. 223 Grande Chambre, Ilhan c. Turchia, 27 giugno 2000, n. 22277/93. 224 Sul punto si veda E. VAN NUFFEL, L’appréciation des faits et leur preuve par la Cour européenne des droits de l’homme dans les affaires mettant en cause les force de sécurité accusées d’homicides et d’actes de torture: le doute raisonnable et l’inhumain. En marge de l’arrêt CEDH, Gr. Ch., 27 giugno 2000, Salman contre Turquie, in Revue Trimestrielle de Droit de l’Homme, 47, 2001, pp. 856-897, spec. p. 857. 225 X c. Turchia, 9 ottobre 2012, n. 24626/09. 226 Per ulteriori approfondimenti sulla giurisprudenza della Corte in materia si veda P. JOHNSON, Homosexuality and The European Court of Human Rights, Routledge, London, 2012. 227 Kaya c. Turchia, 19 febbraio 1998, n. 21593/93.

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configuratasi nel caso Tanribilir228, relativa al suicidio tramite impiccagione di un detenuto. Pur escludendo la violazione del diritto alla vita – il Governo riesce a dimostrare che non si tratta di un caso di omicidio “camuffato” – la Corte ritiene che l’art. 2 possa interpretarsi come imponente agli Stati l’obbligo di assumere misure preventive di ordine pratico per difendere i detenuti sia dagli altri che da sé: quest’obbligo tuttavia deve essere tale da non imporre oneri insopportabili o eccessivi agli Stati. Nel caso specifico, quindi, si conclude per una non colpevolezza della Turchia, ritenendosi che le autorità carcerarie abbiano preso tutte le misure di routine e che nulla potesse far prevedere un’intenzione suicida del detenuto. Non deve dimenticarsi, da ultimo, la condanna della Turchia per violazione della libertà di manifestazione nel caso Oya Ataman229 relativo all’utilizzo della forza da parte delle autorità di pubblica sicurezza per disperdere una manifestazione tenutasi nell’aprile 2000 ad Istanbul. In questo caso, la Corte, pur riconoscendo l’illegittimità della manifestazione e il rifiuto dei manifestanti di eseguire l’ordine delle forze di sicurezza di disperdere il corteo, ritiene comunque violato il diritto di riunione non essendosi palesati comportamenti violenti da parte dei manifestanti tali da giustificarne la dispersione: l’intervento della polizia è pertanto considerato non necessario né proporzionato al fine di tutelare la sicurezza pubblica. La necessità di intervenire sulle numerose questioni sin qui sollevate induce la Grande Assemblea Nazionale, già nel 1992, a emendare il Codice di procedura penale per esplicitare in maniera netta il divieto di utilizzare la tortura durante gli interrogatori. Ciò tuttavia non è sufficiente a evitare che i casi di tortura e di trattamenti inumani si moltiplichino, rendendo necessaria l’approvazione di uno specifico provvedimento legislativo. La legge n. 4229 del 6 marzo 1997 relativa alle garanzie procedurali e alla durata del fermo di polizia, infatti, riconosce formalmente all’indagato il diritto a consultare un avvocato in seguito all’arresto e alla notifica alla famiglia dello stesso, riduce il fermo giudiziario a non più di 24 ore e apre la strada alla possibilità di ottenere un risarcimento per le detenzioni illegali. Il Ministero dell’Interno e il 228 229

Tanribilir c. Turchia, 16 dicembre 2000, n. 21422/93. Oya Ataman c. Turchia, 5 dicembre 2006, n. 74552/01.

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Presidente del Consiglio, inoltre, inviano ai governatori delle province della Turchia rispettivamente la circolare n. 071618 del 31 marzo 1997, in cui si ricorda la necessità di garantire il rispetto degli impegni internazionali in materia di tutela dei diritti umani assunti dalla Repubblica turca, e la circolare n. 1997/73 del 3 dicembre 1997, con cui si invitano le forze di sicurezza ad attenersi alle nuove norme sulla custodia giudiziaria, gli interrogatori e i verbali. Nonostante questi interventi, la normativa turca in materia di detenzione in attesa del processo non si conforma ancora agli standard convenzionali, formalmente raggiunti solo con l’entrata in vigore della legge costituzionale del 17 ottobre 2001 che modifica l’art. 19 della Costituzione prevedendo che la durata massima della detenzione in attesa del primo incontro con i giudici non possa superare i quattro giorni. Sul punto, la Turchia interviene anche successivamente, modificando il Regolamento sull’arresto, la custodia e gli interrogatori nel 2002 e nel 2004 ed adottando un nuovo Codice di procedura penale, entrato in vigore il 1 giugno 2005. L’insieme di queste norme riconosce quindi a tutti i sospettati il diritto a consultare un avvocato entro 24 ore dall’arresto – o entro tre giorni in casi eccezionali – e, più in generale, di consultarsi con lui in confidenza e senza restrizioni temporali in ogni fase del procedimento investigativo, il diritto ad un avvocato d’ufficio nel caso di indigenza, il diritto alla presenza del proprio avvocato nel procedimento investigativo per i reati la cui pena ammonta ad un minimo di cinque anni di reclusione, e, infine, il diritto a ricorrere ad un giudice per sostenere l’illegalità del fermo giudiziario. Il legislatore turco, inoltre, interviene per eliminare la reticenza a procedere nei casi di violazioni dei diritti da parte dei membri delle forze di sicurezza. La riforma del Codice penale del 26 agosto 1999 introduce un aggravio della pena nel caso in cui gli atti di tortura siano posti in essere da rappresentanti delle forze armate: la disciplina del procedimento nei confronti di questi ultimi è inoltre aggravata con la legge del 2 dicembre 1999. Da ultimo, nel 2002, si dispone che siano gli stessi funzionari colpevoli della violazione a pagare le riparazioni concesse alle vittime da parte delle Corte di Strasburgo. Il nuovo Codice penale del 2005, infine, impone ai giudici l’obbligo di considerare come prioritari i casi

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concernenti la tortura e fa loro divieto di ridurre le pene dei responsabili ovvero di commutarle in una semplice ammenda pecuniaria. Per ampliare l’efficacia dei provvedimenti legislativi miranti a garantire un più ampio rispetto del diritto alla vita i Ministeri competenti emettono circolari specificamente rivolte agli operatori giuridici e predispongono programmi di formazione appositi. Il Ministero della Giustizia, in particolare, emette circolari rivolte ai giudici e ai pubblici ministeri230, mentre il Ministero dell’Istruzione vara nel 1998 il Piano per l’inserimento dei diritti umani nei programmi scolastici al fine di favorire una maggiore sensibilizzazione e consapevolezza nelle future generazioni231. Accanto al sostegno agli interventi legislativi sin qui descritti, il Governo dell’AKP sin dal suo primo mandato avvia nei confronti degli autori di atti di tortura una politica di “tolleranza zero”, accolta positivamente dalle istituzioni sovrastatali europee. Non può tuttavia negarsi che, nonostante i numerosi interventi, i comportamenti delle forze di polizia non siano sempre rispettosi delle procedure previste e dei diritti che le disposizioni enunciate vorrebbero tutelare. Lo dimostrano i comportamenti violenti contro i manifestanti di Gezi Parkı e contro gli scioperanti a seguito del disastro minerario di Soma232, in cui, peraltro, la polizia è sembrata sostenuta anche dal Governo, che non ha esitato a definire i manifestanti di Gezi come capulçu (saccheggiatori).

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Cfr. le circolari del Ministero della Giustizia del 20 ottobre 2003 rivolta ai pubblici ministeri e del 1 giugno 2005 rivolta ai giudici e ai procuratori. 231 Sul punto si veda B. AYDAGÜL, The Impact of the ECHR on Rights in and to Education in Turkey, in J. DE GROOF, G. LAUWERS (a cura di), No Person Shall Be Denied the Right to Education: the Influence of the European Convention on Human Rights to Education and Rights in Education, Wolf Legal Publisher, Nijmegen, 2004, spec. p. 532. 232 Si tratta dell’esplosione della miniera di carbone di Soma, nella provincia di Manisa, avvenuta il 13 maggio 2014, di cui sono stati vittima 301 minatori, e la cui causa potrebbe essere ricondotta allo scarso rispetto delle norme sulla sicurezza da parte dei proprietari della miniera.

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7. Lo Statalismo e l’affermazione dell’economia liberale Lo statalismo, inteso come quella politica economica che prevede il diretto intervento dello Stato nell’economia, è frutto, anche in Turchia, della reazione alla crisi del 1929 che dagli Stati Uniti estese le proprie conseguenze anche al continente europeo. E, infatti, tale principio vede una prima applicazione diretta negli anni ’30 del Novecento, quando Inönü, all’epoca Presidente del Consiglio, sostiene fortemente l’istituzione delle Kamu İktisadi Teşekkülleri (Imprese Economiche di Stato – KIT). Nell’idea di Inönü, tali imprese non avrebbero dovuto sostituire l’impresa privata233, ma affiancarsi a essa per consentire l’eliminazione degli ostacoli che ne limitano lo sviluppo e garantire l’autosufficienza delle risorse interne, in linea con la teoria economica dell’import substitution che nei primi anni ’30 viene applicata anche dagli altri Stati europei. Per dare applicazione a questa teoria, si sviluppa, nell’ambito del piano quinquennale 1933-1937, il progetto del rifornimento autarchico dei “tre bianchi” (zucchero, farina e cotone)234. Circa i risultati che il protezionismo statalista produce in Turchia, infine, è possibile notare come le misure governative adottate in quel periodo favoriscono un ambiente economico propenso all’accumulazione di capitale e allo sviluppo di tipo industriale, e cioè una trasformazione del paese da un’economia prevalentemente agraria a una a industrializzazione incipiente235. Nel caso turco, inoltre, l’adozione delle menzionate strategie economiche consente l’emersione di una classe borghese che si impone

233

Per un approfondimento circa l’evoluzione dello statalismo turco si rinvia a K. BORATAV, 100 Soruda Türkiye’de Devletçilik (Lo statismo in Turchia in 100 domande), Gerçek Yayınları, Istanbul, 1974. 234 Cfr. K. KREISER, C.K. NEUMANN (a cura di), op. cit., p. 310. 235 I margini di profitto del settore industriale turco nel periodo tra il 1932 e il 1935, ad esempio, vedono un passaggio dal 28,8% al 36,6%. I dati qui forniti sono discussi più ampiamente nel volume I. TEKELI, S. ILKIN, Uyugulmaya Geçerken Türkiye’de Devletçiligin Olusumu (La formazione del concetto di statalismo prima della sua attuazione), Orta Doğu Teknik Üniversitesi, Ankara, 1982.

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come principale attore nei processi decisionali anche durante i periodi di autoritarismo militare236. All’indomani del conflitto, tuttavia, le scelte economiche della Turchia si modificano in favore di una progressiva apertura al liberalismo economico che avvicina la Turchia anche agli organismi istituiti dagli accordi di Bretton Woods (1944), ossia la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo e il Fondo Monetario Internazionale. Sono proprio queste organizzazioni che sostengono l’economia turca durante gli anni di crisi che colpisce il paese a partire dagli anni ’50237. Nel 1956, infatti, il Governo turco chiede l’intervento di un consulente economico statunitense, indicando esplicitamente Clarence B. Randall, già consulente del Presidente Eisenhower; è proprio Randall a proporre di consultare il FMI per la definizione di una strategia relativa alla ristrutturazione del debito estero del paese238. Ne deriva, previo accordo con il Fondo, l’approvazione della legge n. 6731 del 6 giugno 1956 per la stabilizzazione e la definizione di un sistema di tassi di cambio. A partire da quel momento, la politica macroeconomica del paese è gestita attraverso accordi che coinvolgono l’OECE (oggi OCSE), il FMI e il Governo degli Stati Uniti, soprattutto a seguito della predisposizione del nuovo accordo di stabilizzazione del 1958. Negli anni ’50 si determina quindi una importante evoluzione nella percezione da parte dell’élite turca dei vincoli esterni per l’elaborazione delle politiche economiche. Se, infatti, i governi del CHP hanno attuato un rigido controllo del debito 236

Uno studio condotto dall’Euromoney in seguito al colpo di Stato del 1980 dimostra come la borghesia turca sia un attore attivo non solo della vita economica, ma anche politica del paese. I componenti di questa classe, infatti, supportano frequentemente i conservatori, favorendo l’affermazione di governi liberisti capaci di limitare le rivendicazioni sindacali e le richieste per l’aumento della giustizia sociale nel paese (cfr. AA.VV., Turkey: the Problem of Transition, Euromoney Publication, London, 1982, e R. BIANCHI, Interest Group and Political Development in Turkey, Princeton University Press, Princeton, 1984, spec. pp. 251-274). 237 Grave è la crisi economica che colpisce la Turchia negli anni ’50 del Novecento. Basti pensare che nel 1954 il deficit commerciale ammonta a circa quattrocento milioni di lire turche e l’indice del costo della vita aumenta in cinque anni (1950-1955) del 100%, con picchi anche del 140%. 238 Per ulteriori approfondimenti, F.C. ÖZCAN, U.S. Aid and Turkish Macroeconomic Policy: a Narration of the AID Bargain in the 1946-1958 Period, in The Turkish Yearbook, 34, 2003, pp. 119-136, spec. p. 131.

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pubblico sia interno che estero memori dell’esperienza ottomana che ha portato al regime delle Capitolazioni, i nuovi vertici del paese non esitano avviare una politica di crescenti svalutazioni e di ricorso a prestiti stranieri239. Nonostante questa inversione di rotta, la crisi economica non cessa e viene affiancata, a seguito dell’approvazione della Costituzione del 1961, da una forte instabilità politica. Già all’inizio degli anni ’60, quindi, la politica liberista del Partito democratico viene sostituita con una politica economica nuovamente incentrata sullo statalismo e sull’import substitution. A dimostrazione di queste politiche si può citare la scelta di fondare industrie nazionali che, grazie ad accordi con società straniere per l’acquisizione del know-how, procedono alla realizzazione di prodotti “nazionali” 240. Questa scelta non porta però ai risultati sperati e, alla fine degli anni ’70, determina un ampio deficit del settore pubblico nonché un considerevole aumento delle importazioni a fronte di un calo significativo delle esportazioni. Il ricorso alle riserve del paese in concomitanza con una grave carenza di valuta estera induce il Governo a ricorrere alla svalutazione della moneta, senza che tuttavia questo sia sufficiente, in assenza di ulteriori misure, a risolvere la crisi; anche l’approvazione di nuovi piani di stabilizzazione finanziati dal FMI nel 1978 e nel 1979 non comporta risultati apprezzabili e non è mancato chi ha evidenziato come lo scarso successo delle politiche “suggerite” dal Fondo abbia contribuito al collasso delle istituzioni democratiche241 e al colpo di Stato del 1980. Il FMI, tuttavia, continua ad essere il principale interlocutore con cui le autorità turche dialogano per la soluzione della crisi economica. Già pochi 239

Circa il debito pubblico accumulato dall’Impero ottomano e la sua influenza sui rapporti con le potenze europee, si veda C. MORAWITZ, The Public Debt of Turkey, in The North American Review, 549, 1902, pp. 275-288. 240 È questo il caso della Anadol, la prima vettura turca prodotta dal 1966 sul modello della Reliant di fattura inglese, e della Murat 124, prodotta dal 1968 come versione turca della Fiat 124 (cfr. L. NOCERA, op. cit., p. 59). 241 È questa l’opinione sostenuta da D.H. DODD, The Crisis of Turkish Democracy, Eothen Press, London, 1983 e da C. KEYDER, State and Class in Turkey, Verso, New York, 1987, spec. pp. 223-227.

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mesi dopo il colpo di Stato, il 14 gennaio 1980, si approva un Piano di austerità che consente un rigido controllo sulla spesa pubblica e l’introduzione di un tasso di interesse variabile. La Turchia sembra allinearsi al trend europeo anche nelle scelte di politica economica, conducendo una politica di privatizzazioni di ispirazione tatcheriana. Così, le imprese economiche statali, istituite già nel 1930 per contribuire allo sviluppo industriale e favorire l’intervento dello Stato come “imprenditore” nei settori dell’industria, della finanza e del commercio e in questi anni disciplinate dalla legge n. 233 dell’8 agosto 1984242, cominciano ad essere al centro di un vivace dibattito sull’opportunità di una loro privatizzazione, poi realizzata mediante la legge n. 4046 del 1994243. In questi anni, quindi, il paese accantona la politica statalista che, seppur a fasi alterne, l’ha caratterizzata sin dal periodo kemalista, e realizza una rapida espansione del settore bancario; sulla scena economica, infine, compare come nuovo attore imprenditoriale l’esercito, che, per il tramite del Fondo pensioni per gli ufficiali, si avvantaggia delle privatizzazioni per acquisire ampi settori dell’economia nazionale. Anche negli anni ’90, la Turchia ricorre al supporto del Fondo per risolvere una nuova fase di crisi economica, esito dell’influenza sui mercati delle economie emergenti della crisi economica russa del 1998 e delle conseguenze del terremoto nella regione di Marmara del 1999 che, oltre a danneggiare gravemente la popolazione, colpisce duramente una delle zone più industrializzate del paese. Il FMI supporta quindi un primo 242

La legge n. 233/1984 regola il funzionamento e l’organizzazione delle imprese economiche statali e sancisce che il controllo statale è esercitato dai Ministri competenti a seconda del settore di attività. 243 L’unica azienda che rimane sotto il controllo statale è la TRT (Amministrazione radiotelevisiva turca – Türkiye Radyo ve Televizyon Kurumu), che si configura come ente pubblico indipendente, dotato di autonomia funzionale e organizzativa, le cui attività sono controllate dalla Grande Assemblea attraverso l’Alto Consiglio di controllo (Yüksek Denetleme Kurulu) e il Comitato Supremo di Controllo sulla Radio e la Televisione (Radyo ve Televizyon Üst Kurulu) e il cui direttore generale è nominato dal Consiglio dei Ministri. La TRT ha il potere di introdurre tariffe e adottare regolamenti riguardanti l’attività di sua competenza, di utilizzare i finanziamenti pubblici e di stabilire l’apertura di nuovi canali, senza che sia necessario l’appoggio dell’amministrazione centrale. Circa le trasmissioni televisive, si ricorda, inoltre, che la legge n. 3913 del 1993 abolisce il monopolio radiotelevisivo di Stato e apre le frequenze ai canali privati.

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programma di riforme economiche che incide sulla disciplina pensionistica244 ed àncora il tasso di cambio nominale della lira turca al dollaro. Nel dicembre 1999 il Governo Ecevit procede a una ristrutturazione del sistema finanziario finalizzato a ridurre l’influenza politica sul settore bancario e riforma il funzionamento della Banca centrale prevedendo che essa possa immettere liquidità sul mercato solo a fronte di aumenti delle riserve in valuta estera, ponendo così fine alla politica di svalutazioni della lira turca. Nel 2001, infine, il Governo vara politiche di forte contenimento della spesa pubblica, che tuttavia comportano il drastico aumento della disoccupazione e della pressione fiscale. Per sfruttare anche il malcontento della popolazione per questa situazione, l’AKP imposta il proprio programma economico per la campagna elettorale del 2002 sulla necessità di superare il rapporto di dipendenza dal FMI e non esita ad attribuire la crisi economica in cui il paese versa alla scelta del Governo di sottostare alle direttive di questa organizzazione, ritenute non adatte alla situazione del paese245 e lesive della sovranità dello Stato246. Si tratta, tuttavia, di una dichiarazione programmatica solo formale e anche la politica economica dell’AKP è condotta, sin dall’ascesa al potere, con il supporto e la consulenza del Fondo Monetario Internazionale. Nel dicembre 2003, infatti, una legge di 244

Una prima riforma a riguardo viene varata nell’agosto 1999, cui fa seguito la riforma del maggio 2006 (cfr. A.M. BROOK, E. WHITEHOUSE, The Turkish Pension System: Further Reforms to Help Solve the Informality Problem, OECD Working paper, 59, 2006, www.oecd.org). 245 A dimostrazione dello scarso sostegno popolare alle soluzioni proposte dal Fondo Monetario Internazionale per la soluzione della crisi economica si pone il risultato elettorale del Partito della Gioventù, fondato in occasione delle elezioni del 2002, che, presentando un programma elettorale intitolato “No al FMI”, ottenne il 7,2% dei voti. 246 È opportuno ricordare che a seguito delle elezioni, nella consapevolezza che il sostegno del Fondo agisce spesso come strumento per rassicurare i mercati e gli investitori stranieri, anche l’AKP attua strategie di riconciliazione con il FMI e avvia una politica economica che, seppur meno restrittiva, non sembra discostarsi troppo dalle indicazioni da esso ricevute (cfr. A.E. YELDAN, Turkey and the Long Decade with the IMF: 1998-2008, 2008, www.networkideas.org).

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iniziativa governativa introduce la Nuova Lira Turca (Yeni Turk Lirası – YTL) con un tasso di cambio di 1:1'000'000, di fatto in vigore dal 1° gennaio 2005 al 1° gennaio 2009, quando l’aggettivo “nuova” viene rimosso. A ciò si aggiunge una politica di forte contenimento della spesa pubblica, attuata soprattutto grazie ad interventi in materia fiscale, e una ristrutturazione del debito pubblico mediante un prolungamento della validità dei buoni dello Stato247. Nel maggio 2005, inoltre, il Governo rinnova l’accordo con il FMI per rinviare il pagamento del debito contratto dalla Turchia, definitivamente saldato nel maggio 2013. Proprio il supporto finanziario del Fondo, peraltro, permette all’AKP di avviare una serie di riforme in campo economico che aumentano la capacità occupazionale del paese e consente il rilancio di alcuni settori fondamentali per la vita economica turca, quali l’edilizia e l’imprenditoria. Sempre nel 2005, infatti, la legge n. 429252 riforma il mercato del lavoro nell’intento di favorire l’occupazione giovanile248 e di sostenere le piccole e medie imprese249. A tal fine, nel 2006, viene anche istituita l’Agenzia per la promozione degli investimenti e, nel 2012, si introduce un sistema di incentivi per gli investimenti. È opportuno ricordare, infine, che la lunga familiarità della Turchia con il Fondo contribuisce a consolidare la posizione dello Stato nella comunità internazionale. Nel tempo, infatti, la Turchia ha acquisito crescenti quote di influenza, anche in termini di voti esprimibili, all’interno del FMI e si è vista riconosciuto un ruolo di primo piano fra le economie emergenti del globo250. La rilevanza economica della Turchia si 247

Per ulteriori approfondimenti, si vedano C. MILLER, Pathways Through Financial Crisis: Turkey, in Global Governance, 12, 2006, pp. 449-464, spec. pp. 451-453 e O. ARPAC, G. BIRD, Turkey and the IMF: a Case Study in the Political Economy of Policy Implementation, in Review of International Organization, 4, 2009, pp. 135-157. 248 Cfr. Legge n. 429252 del 12 ottobre 2005. 249 Che tali politiche siano in parte influenzate dall’intervento del FMI sarebbe dimostrato dal fatto che l’accordo per il rinnovo del prestito è oggetto di una lunga negoziazione in ragione delle perplessità del Fondo rispetto alla capacità del Governo di procedere alla riforma del sistema fiscale, di quello previdenziale e degli istituti finanziari (Cfr. L. NOCERA, op. cit., p. 109). 250 Forte di questa affermazione, la Turchia, per il tramite del suo rappresentante Ali Babacan, supporta, in occasione della riunione dei Ministri delle Finanze del G20 e dei Governatori delle Banche Centrali del 26 febbraio 2012 a Città del Messico, il progetto di riforma relativo alla redistribuzione delle quote del Fondo e alla modifica della sua

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riscontra anche nei rapporti fra questa Repubblica e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (BERS)251. Gli investimenti della BERS, che al 2014 ammontano a circa 3.556 milioni di euro252, infatti, riguardano soprattutto il supporto alle piccole e medie imprese nelle aree rurali del paese, all’agricoltura, alla realizzazione di infrastrutture nelle zone lontane dai principali centri urbani, alla privatizzazione. Queste attività impattano notevolmente sul “clima” economico della Turchia consentendo un consolidamento del settore imprenditoriale privato che, ulteriore limite all’invadenza dello Stato, rappresenta un chiaro segnale dell’evoluzione del paese. Non da ultimo rileva il supporto allo sviluppo di energie sostenibili. Negli anni in cui le istituzioni europee sono sempre più impegnate nella salvaguardia dell’ambiente, infatti, la BERS sigla con la Turchia un Piano di azione per l’energia sostenibile (marzo 2011) finalizzato a migliorare le performances del paese al riguardo e quindi a garantire una maggiore tutela dell’ambiente, riconosciuto come un diritto fondamentale dei cittadini turchi in seguito alla riforma costituzionale del 2010. La Turchia, tuttavia, non si limita ad usufruire degli interventi della BERS ma ne è azionista e partecipa alle attività da essa realizzate per la promozione degli investimenti stranieri nei paesi dell’Europa centrale ed orientale. In particolare, gli imprenditori turchi supportano le attività della Banca

governance, che, qualora entri in vigore, consentirebbe di aumentare il peso politico delle economie emergenti in seno al FMI (cfr. Turkey on the IMF Quota and Governance Reforms, in Today Zaman, 16 marzo 2012). 251 La Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo è istituita a Parigi il 16 aprile 1991 come istituzione indipendente dalla Comunità e assimilabile alle banche multilaterali per lo sviluppo regionale. Il suo Statuto, tuttavia, stabilisce un forte legame con le istituzioni dell’Unione europea prevedendo che il complesso delle azioni detenute dai membri dell’Unione, dall’Unione Europea stessa e dalla BEI non possa essere inferiore al 51% del capitale sociale della Banca. 252 Al riguardo si veda il report della BERS relativo alla Turchia del marzo 2014 (www.ebrd.com).

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procedendo a investimenti mirati nei settori tessili di Romania e Polonia253. L’attivismo economico della Turchia sul piano internazionale trova un riscontro, infine, nella partecipazione a numerosi “gruppi” che raggruppano Stati in forte espansione economica. È così che, ad esempio, la Turchia viene annoverata fra i CIVETS (Colombia, Indonesia, Vietnam, Egitto, Turchia e Sud Africa), accomunati dalla forte espansione demografica ed economica, e i MINT (Messico, Indonesia, Nigeria e Turchia), paesi in cui il settore degli investimenti è in forte espansione. Più strutturata e basata su una precisa scelta governativa, invece, è la partecipazione nel MITKA (Messico, Indonesia, Turchia, Sud Corea e Australia), gruppo informale di cooperazione per il supporto reciproco a livello internazionale. Sono questi solo alcuni esempi dei numerosi “gruppi economici” cui appartiene la Turchia, che dimostrano quanto il paese abbia ormai abbandonato la visione improntata sullo statalismo economico e abbia fatto nuove, e innovative, scelte per consolidare la propria economia. 8. Le questioni irrisolte Se, per molti aspetti, la Turchia è riuscita a consolidare un ordinamento interno in linea con quel patrimonio comune europeo che essa stessa ha contribuito a costituire, rimangono tuttavia ancora (almeno) due questioni aperte particolarmente rilevanti per la proiezione esterna della Repubblica. Se il riconoscimento delle minoranze, sull’esempio della kurdish opening, sembra ormai sulla strada per superare la disciplina imposta dal Trattato di Losanna, ancora non si trovano soluzioni di compromesso per “qualificare” le violazioni subite da alcune di esse, come dimostra il difficile dibattito sulla questione armena, ovvero per chiudere il lungo percorso, anche in questo caso generato da accordi internazionali, che ha 253

Per ulteriori approfondimenti sul punto e circa l’influenza di questa partecipazione sulla politica estera turca, si rinvia a J. THOBIE, La République de Turquie: la Voie de la Puissance Régionale, in AA.VV. Atatürk and Modern Turkey, Conferenza Internazionale, ottobre 1998, in Ankara Üniversitesi Syasal Bilgiler Facültesi Yayını, 582, 1998, pp. 395-422, spec. pp. 403-404.

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condotto alla nascita della Repubblica Turca di Cipro Nord. Questioni, queste, all’origine di numerose criticità nei rapporti con il Consiglio d’Europa e l’Unione europea. 8.1 La questione armena La questione armena non si riconnette direttamente all’epoca repubblicana, ma, piuttosto, al periodo in cui l’Impero era guidato dai Giovani turchi e si vedeva coinvolto nelle vicende belliche della prima guerra mondiale. Nonostante fra le politiche di questi “riformatori” vi sia l’intenzione di procedere ad una maggiore integrazione dei non musulmani nell’Impero, infatti, lo scoppio del conflitto chiarisce quanta parte i reciproci pregiudizi abbiano nei rapporti fra le comunità abitanti l’Impero, i cui alti ranghi militari, ad esempio, preferiscono assoldare greci e armeni in battaglioni di lavoro piuttosto che fra le truppe dedicate al combattimento. È così che quando, tra il 20 aprile e il 17 maggio, la popolazione armena della città di Van decide di schierarsi dalla parte della Legione Ararat e del IV Corpo d’armata russo che stava occupando la regione, la risposta delle autorità è cruenta: ad Istanbul, il 24 aprile 1915, circa 235 notabili armeni vengono arrestati; a Van si dà luogo ad una vigorosa controffensiva che, il 31 luglio 1915, scaccia i russi, alla cui ritirata si aggregano circa 200mila armeni254. Mentre le truppe si combattono sul fronte, il 27 maggio 1915, il Governo dei Giovani turchi decide, per evitare nuove sollevazioni a supporto dell’esercito invasore, di approvare la legge sul trasferimento della popolazione, in base alla quale tutte le comunità non musulmane avrebbero dovuto abbandonare la zona del fronte. Per realizzare questo progetto, anticipando una strategia che diverrà tristemente nota per l’olocausto della seconda guerra mondiale, si individuano due centri principali di raccolta, Eskişehir e Konya, e si utilizzano massicciamente il

254

Per i dati qui forniti, si veda K. KREISER, C.K. NEUMAN, op. cit., pp. 295-296.

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trasporto ferroviario e l’imposizione di lunghe marce forzate, da cui non restano esclusi donne e bambini. Il fatto che la maggior parte dei decessi della popolazione armena avvenga proprio durante questa migrazione forzata rappresenta uno dei principali elementi che rende difficoltoso definire questo tragico evento: chi sostiene la tesi del genocidio, infatti, pone l’accento sull’accadimento concreto, ossia sulla morte di un numero elevato, anche se difficilmente definibile255, di individui; chi si oppone a questa tesi, invece, ricorda che l’intenzione non era lo sterminio, ma l’allontanamento dal fronte e che esistevano numerose disposizioni prescriventi agli ufficiali ottomani di eseguire «con umanità» le procedure per la deportazione. Anche in ragione della difficoltà di inquadrare storicamente questa vicenda e di individuarne le responsabilità, la questione continua a protrarsi e non sono mancati episodi di violenza che proprio dal c.d. genocidio armeno hanno tratto origine, esacerbando ulteriormente i rapporti tra la Repubblica di Turchia, erede dell’Impero anche nelle sue colpe, e l’Armenia, nata a seguito della seconda guerra mondiale e ancora in cerca di un riconoscimento definitivo per questi eventi. Dal lato armeno, infatti, già nei decenni successivi alla fine della guerra, il gruppo terroristico denominato Federazione rivoluzionaria armena porta avanti per lungo tempo la c.d. “Operazione Nemesi”, ossia una serie di omicidi mirati nei confronti di coloro che hanno partecipato alla deportazione. Dal lato turco, la questione viene gestita con un prolungato negazionismo e con la condanna per offesa all’identità turca nei confronti di tutti coloro che sollevano dubbi nei confronti dell’interpretazione ufficiale dei fatti. Il caso più noto, avvenuto peraltro in tempi recenti, è forse quello che riguarda il giornalista Fırat Hrant Dink, da cui è originato anche un contenzioso che ha coinvolto la Corte di Strasburgo256. I ricorsi sono avanzati dapprima dal giornalista che denuncia una violazione della libertà di espressione da parte della Corte di Cassazione turca, che lo ha condannato (1° maggio 2006) per offesa all’identità turca a seguito della pubblicazione, fra il 2003 e il 2004, di alcuni articoli relativi alla 255

Le stime variano dalle 300mila vittime, ad oggi ufficialmente riconosciute dalla Turchia, ad un numero triplo. Per un approfondimento si rinvia a S. ASTOURIAN, The Armenian Genocide: An Interpretation, in The History Teacher, 23, 1990, p. 114 ss. 256 Dink c. Turchia, 14 dicembre 2010, n. 2668/07, n. 6102/08, n. 30079/08, n. 7072/09 e n. 7124/09.

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situazione della popolazione armena. Pochi mesi dopo, il 19 gennaio 2007, Dink viene assassinato, probabilmente con la connivenza delle forze di polizia257. Ne derivano i ricorsi alla Corte di Strasburgo dei suoi familiari, i quali sostengono che la polizia, pur essendo a conoscenza della preparazione di un attentato ai danni di Dink da parte di un gruppo di ultranazionalisti, non abbia agito in maniera adeguata a preservare la vita del giornalista. La Corte condanna quindi la Turchia per violazione del diritto alla vita e della libertà di espressione di Dink quando era ancora in vita, nonché per non aver condotto adeguatamente l’inchiesta relativa all’omicidio. Ultima tappa di questa controversa vicenda è la pronuncia della Corte costituzionale del 16 luglio 2014, che accoglie il ricorso per violazione dei diritti avanzato dalla famiglia del giornalista e condanna i ritardi e le “ritrosie” delle forze di polizia durante le indagini per l’assassinio. Negli stessi anni in cui si consuma la vicenda Dink, tuttavia, si riscontrano alcuni segnali di cambiamento. Già nel 2001, viene istituita la Commissione per la riconciliazione turco-armena, durante i cui lavori il riavvicinamento fra le due parti è sostenuto anche attraverso la “diplomazia del calcio”, che vede, il 6 settembre 2008, il Presidente turco Gül partecipare ad una partita di calcio a Jerevan in compagnia dell’omologo armeno Sargsyan. Esito dei lavori della Commissione è un accordo di normalizzazione che le due parti firmano il 10 ottobre 2009 a Zurigo, ma che nessuna delle due ha, al 2014, ratificato. I tentativi di mantenere aperto un dialogo, tuttavia, continuano: dopo le condoglianze espresse, per il 24 aprile 2014, dal Primo Ministro turco ai discendenti di «coloro che sono deceduti nel 1915»258, il Presidente armeno ha invitato Gül a partecipare alle commemorazioni previste per il 24 aprile 2015, sottolineando come questa potrebbe essere l’occasione, dopo i passi in

257

Solo il 25 luglio 2012 Ogun Samast, autore dell’omicidio, è condannato a 21 anni di reclusione, più 16 mesi per detenzione illegale di armi. 258 Today Zaman, Erdoğan offers Turkey’s first condolences to Armenians for 1915, 24 aprile 2014.

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avanti già compiuti da Ankara, per un definitivo riconoscimento del genocidio259. La questione armena non ha avuto riflessi sulla vita internazionale della Turchia solo relativamente ai rapporti con l’Armenia ma è all’origine di un dibattito di più ampia portata legato all’approvazione, da parte di molti Stati occidentali, delle c.d. leggi sul genocidio e alla stessa possibilità di configurare come tale i massacri cui è stata sottoposta la popolazione armena260. La questione, che travalica i confini europei, comincia a porsi sin dalla fine degli anni ’80, quando la Sottocommissione ONU per la prevenzione delle discriminazioni qualifica i massacri della popolazione armena del 1915 come genocidio261. Negli anni successivi anche altre organizzazioni sovrastatali procedono al riconoscimento del genocidio: nel 1987 l’Unione europea262; nel 1998 il Consiglio d’Europa263; nel 2007 il Mercosur264. Accanto al livello sovrastatale sono numerosi gli Stati che intervengono in via legislativa sia per riconoscere il genocidio che per prevedere specifiche pene in caso di negazionismo. Già il 12 settembre 1984, infatti, la Camera dei Rappresentanti statunitense dichiara il 24 259

Today Zaman, Armenia invites Turkish president to commemorate ‘Armenian genocide’, 27 maggio 2014. 260 Sul punto anche la dottrina non pare aver raggiunto una posizione unanime. Al riguardo si può ricordare la vicenda che ha coinvolto lo storico Bernard Lewis a seguito della pubblicazione di un articolo, sul quotidiano francese Le Monde, in cui si sosteneva l’assenza di legami diretti fra il Governo dei Giovani turchi e gli ordini militari che consentirono il massacro (cfr. Le Monde, 18 novembre 1993). Accanto alla reazione di un gruppo di universitari, che confutano le posizioni di Lewis in una lettera pubblicata sullo stesso quotidiano il 27 novembre 1993, si pone l’intervento del Tribunale di Parigi che, il 21 giugno 1995, condanna Lewis al pagamento simbolico di un franco al Forum delle associazioni armene di Francia e alla Lega internazionale contro il razzismo e l’antisemitismo per aver volutamente occultato prove storiche della colpevolezza del Governo ottomano e aver trattato con scarsa obiettività un argomento così sensibile (cfr. Tribunale di Parigi, 21 giugno 1995, RG 4 767/94 ASS/14.02.94). 261 UN Sub-commission on prevention of discrimination and protection of minorities, a 38 sessione, E/CN.4/Sub.2/1985/6, 2 luglio 1985. 262 Risoluzione del Parlamento europeo per una soluzione politica della questione armena, n. A2-33/87, 18 giugno 1987. 263 Dichiarazione n. 8091 dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, 24 aprile 1998. 264 Risoluzione del Parlamento del Mercosur, 19 novembre 2007.

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aprile «Giornata per la memoria del genocidio armeno»; seguiranno numerosi altri Stati, europei e non, che al riconoscimento del genocidio associano anche inviti diretti al Governo di Ankara a fare altrettanto. Alcuni casi sembrano particolarmente interessanti. Primo fra tutti, la lunga querelle che ha comportato non poche conseguenze nei rapporti fra la Turchia e la Francia. Quest’ultima, infatti, approva la legge n. 2001-70 del 29 gennaio 2001, con cui riconosce il genocidio armeno, pur senza prevedere pene in caso di negazionismo. Solo nel 2011 un tentativo in tal senso viene avanzato con la proposta di legge n. 3842 265, che, pur approvata da entrambe le Camere, viene dichiarata incostituzionale il 28 febbraio 2012266. Se la legge del 2001 era stata all’origine di numerose manifestazioni sia in Francia che presso l’Ambasciata e i Consolati francesi in Turchia, la proposta di legge vede una reazione ancora più forte e Ankara ritira il proprio Ambasciatore da Parigi267. Interessante è anche la vicenda che vede il Presidente del Partito dei lavoratori turco, Doğu Perinçek, essere condannato in via definitiva dal Tribunale federale svizzero per discriminazione razziale268 in ragione delle dichiarazioni negazioniste rilasciate durante una visita nella Confederazione nel 2005. Da ultimo rileva ricordare come, all’indomani delle rivolte arabe, alcuni Stati nordafricani abbiano ritenuto di procedere a un riconoscimento del genocidio armeno. È questo il caso dell’Egitto e della Siria, i cui Presidenti hanno proceduto a esplicite dichiarazioni di riconoscimento rispettivamente il 18 agosto 2013 e il 30 gennaio 2014.

265

Proposition de Loi portant transposition du droit communautaire sur la lutte contre le racisme et exprimant la contestation de l’existence du génocide arménien, n. 3842. 266 Conseil Constitutionnel, n. 2012-647 DC, 28 febbraio 2012. 267 Per un approfondimento sulla vicenda si veda D. MEYER, Loi sur le génocide: la Turquie rappelle son ambassadeur, in L’Express, 22 dicembre 2011. 268 Tribunale federale svizzero, 6B_398/2007/rod, 12 dicembre 2007.

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8.2 La questione cipriota La questione cipriota ha le sue origini nella difficoltà di trovare una “appartenenza” per quest’isola prevalentemente abitata da Greci, controllata dall’Impero ottomano dal 1571 e, di fatto, rientrante nella sfera d’influenza inglese dal 1878, quando l’apertura del Canale di Suez ne aveva fatto emergere tutta l’importanza strategica quale avamposto mediterraneo. All’origine della complessa storia di quest’isola nel Novecento vi è la Convenzione anglo-turca del 4 giugno 1878, con cui il Sultano “affitta” l’isola alla Gran Bretagna mantenendo su di essa solo una sovranità formale, in cambio del supporto britannico alla guerra che intanto l’Impero combatteva contro la Russia. L’arrivo degli inglesi nell’isola è salutato con particolare favore dalla popolazione greca ivi abitante che, similmente a quanto accadeva per i greci della terraferma, prova da tempo ad acquisire la propria indipendenza dall’Impero, in virtù di quell’ideale di enosis (ricongiunzione) di tutti i territori abitati dalla popolazione ellenica, sostenuto anche dalla Gran Bretagna. I britannici, infatti, consentono l’istituzione di Comitati patriottici incaricati di incoraggiare l’immigrazione greca sull’isola e restano silenti dinanzi alle numerose provocazioni dei greci verso la popolazione turco-cipriota, anche quando quest’ultima, nel pieno della guerra dei Balcani (19121913), chiede all’Alto Commissario britannico a Cipro di intercedere presso il Segretario delle Colonie per evitare la cessione dell’isola alla Grecia, nella convinzione che ciò avrebbe comportato una seria violazione dei propri diritti (19 dicembre 1912)269. Allo scoppio della prima guerra mondiale, tuttavia, la Gran Bretagna, lungi dal cedere l’isola alla Grecia, procede all’occupazione militare (1914) di un territorio che si rivela particolarmente utile nel conflitto proprio contro gli ottomani, come ricordato schieratisi al fianco degli imperi centrali. Al termine della guerra, l’isola, contesa fra i desideri delle due parti della popolazione di ricongiungersi alle rispettive madrepatrie, rimane sotto il controllo britannico e viene ufficialmente dichiarata colonia nel maggio 1925. 269

Per la petizione della popolazione turco-cipriota cfr. Doc. CO 67/167/41168, cit. in M. STEPHEN, La questione cipriota, in A. SINAGRA, C. ZANGHÌ (a cura di), La questione cipriota. La storia e il diritto, Giuffré, Milano, 1999, p. 5.

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Lo scoppio della seconda guerra mondiale mette nuovamente al centro dell’attenzione la situazione di Cipro, che gli inglesi continuano a utilizzare come base militare e della cui decolonizzazione si interessano solo dal 1956; negli stessi anni, la comunità greco-cipriota, continuando a invocare l’enosis, fonda l’organizzazione EOKA guidata da George Grivas. Nella difficoltà di trovare una soluzione per mantenere la stabilità di un territorio particolarmente rilevante da un punto di vista strategico, soprattutto nel contesto della guerra fredda, anche la diplomazia americana presta i propri buoni uffici, dapprima con il Piano Radcliffe (1956) e quindi con il Piano Mc Millan (1958), entrambi essenzialmente improntati sulla possibilità di una separazione in due zone e, per questo, respinti dalla comunità greca. Solo l’11 febbraio 1959, a Zurigo, si raggiunge un accordo su Cipro tra la Grecia e la Turchia, in cui un ruolo fondamentale è giocato dalla Corona britannica. Ai sensi dell’accordo, poi ufficialmente siglato a Londra nel 1960, Cipro sarebbe divenuta uno Stato indipendente e parte del Commonwealth – come effettivamente accade il 16 agosto 1960 – sulla cui indipendenza avrebbero dovuto vegliare tutti e tre gli Stati convenuti a Londra; Gran Bretagna, Grecia e Turchia divengono così i Garanti non solo dell’indipendenza dell’isola, ma anche del mantenimento dello status che gli Accordi di Zurigo definiscono. In effetti, la situazione di Cipro viene disciplinata da tre separati accordi: il Trattato di Alleanza, con cui Gran Bretagna, Turchia e Grecia, denominati Garanti, si impegnano ad assicurare la difesa collettiva dell’isola attraverso la presenza di 950 soldati inviati dalla Grecia e 650 dalla Turchia; il Trattato di Garanzia, in base al quale la garanzia dell’indipendenza è affidata alla nascente Repubblica di Cipro e ai tre Garanti; il Trattato Costituzionale, contenente le clausole minime per la distribuzione delle principali cariche dello Stato tra le due comunità. Proprio quest’ultimo Trattato ha una natura dichiaratamente costituzionale, prevedendosi che Cipro sarebbe dovuta essere una Repubblica presidenziale, retta da un Presidente greco-cipriota e da un Vice-Presidente turco-cipriota, entrambi eletti a suffragio universale dalle rispettive comunità; anche la suddivisione delle altre cariche avrebbe dovuto seguire una proporzione di 70:30 fra le due comunità, istituendo in

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tal modo uno Stato bi-comunitario. A garanzia di questo assetto viene posta una Suprema Corte costituzionale, composta da tre giudici: un greco-cipriota, un turco-cipriota e un giudice indipendente con funzioni di Presidente. Per sancire la garanzia di tutte le parti in causa, il Governo dell’Arcivescovo Makarios, insediatosi sull’isola a seguito dell’indipendenza dalla Gran Bretagna – dichiarata, come detto, il 16 agosto 1960 – accoglie tre ministri turchi e il Parlamento di Nicosia vede attribuiti 24 degli 80 seggi disponibili a deputati turchi. La situazione così definita, tuttavia, mostra la propria precarietà sin dalle origini, come sottolinea la dichiarazione di Makarios per la celebrazione dell’indipendenza: «Noi festeggiamo oggi il ritorno dell’amministrazione della nostra isola, dopo otto secoli, in mani greche»270. Già tre anni dopo, la difficoltà di conciliare le posizioni delle due comunità si rende evidente. Nel 1963, infatti, la Suprema Corte costituzionale viene chiamata a pronunciarsi dalla comunità turca sulla scelta della controparte greca di non dare attuazione all’art. 173 della Costituzione del 1960 che prevedeva l’istituzione di municipalità separate per ciascuna delle due comunità. Nelle more dell’emissione della sentenza, Makarios dichiara che se la Corte avesse deciso in modo contrario alle posizioni greco-cipriote, la sentenza sarebbe stata disattesa; così effettivamente avviene quando la Corte si pronuncia (25 aprile 1963) e il neutrale Presidente, un cittadino tedesco, decide di dimettersi. In questa situazione già complessa, il 3 novembre 1963 è nuovamente il Presidente Makarios a segnalare la volontà della popolazione grecocipriota di ricongiungersi alla Grecia denunciando gli Accordi di Zurigo e proponendo una riforma del Testo derivante dal Trattato costituzionale, i c.d. Tredici Punti, finalizzata ad eliminare il carattere bi-comunitario in favore di uno Stato unitario e a ridurre le cariche attribuite alla comunità turco-cipriota. Nonostante l’opposizione dei turco-ciprioti, la riforma della Costituzione avviene per volontà unilaterale dei deputati grecociprioti. 270

Questa dichiarazione di Makarios è riportata in C. ZANGHÌ, Introduzione, in A. SINAGRA, C. ZANGHÌ (a cura di), op. cit., p. XV.

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Il mancato accordo sulla revisione costituzionale rappresenta il momento di inizio della vera e propria questione cipriota. L’unilateralità, infatti, comporta una violazione delle norme contenute nel Trattato costituzionale (art. 182), ma anche una alterazione dello status giuridico dell’isola che richiama pertanto l’attenzione dei Garanti e sembra porre le basi per il loro intervento. Nel febbraio 1964 la Gran Bretagna richiede una sessione straordinaria del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, effettivamente svoltasi il 5 marzo, in cui si decide l’invio sull’isola di un contingente di 7000 uomini denominato UNFICYP (United Nations Peace-Keeping Force in Cyprus) e di un mediatore, individuato nella figura del ecuadoregno Plaza. Nel 1965, è proprio Plaza a proporre un nuovo piano per la pacificazione dell’isola, con cui si prevede l’abolizione dei Trattati del 1960 e l’avvio di nuovi negoziati, che viene interamente rifiutato dalla Turchia. Mentre i Garanti cercano di trovare le più opportune modalità per ripristinare la stabilità dell’isola, la comunità greco-cipriota avvia una importante campagna contro la popolazione turca che comporta l’incendio di villaggi e l’uccisione di molti abitanti271. Nonostante ciò, nel 1964 le Nazioni Unite riconoscono il Governo greco-cipriota come rappresentate dell’intera popolazione dell’isola272 e, l’anno successivo, esprimono la propria fiducia nella capacità delle autorità greco-cipriote di giungere a una soluzione che tenga conto anche delle necessità dei turco-ciprioti273. La fiducia, tuttavia, pare essere mal riposta e nel 1967 i soldati dell’esercito greco-cipriota, tentando di forzare la mano a Makarios per la riunificazione con la Grecia, cominciano ad attaccare i villaggi turcociprioti274; la Turchia reagisce minacciando un intervento armato 271

Le importanti violazioni dei diritti umani della popolazione turco-cipriota sono riconosciute anche dal Segretario Generale delle Nazioni Unite in una dichiarazione rilasciata già il 10 settembre 1964 (cfr. ONU, doc. S/5950). 272 Risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 186 del 4 marzo 1964. 273 Risoluzione dell’Assemblea Generale n. 2077 del 11 febbraio 1965. 274 Nello specifico, il 27 marzo 1967 viene bombardato Mari e il successivo 15 novembre l’artiglieria attacca il quartiere turco-cipriota di Ayios Theodoros e la città di Gecitkale.

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sull’isola e avviando operazioni di sorvolo da parte dell’Aviazione militare. In extremis, si giunge a un accordo in cui, per scongiurare l’intervento turco, la Grecia rinuncia, almeno ufficialmente, a sostenere le posizioni favorevoli alla riunificazione; nei fatti, tuttavia, viene avviata una nuova operazione EOKA per tentare l’enosis, ancora una volta guidata da Grivas. Nel 1974 la tensione torna a crescere. La Grecia, all’epoca guidata dal c.d. regime dei colonnelli, supporta un colpo di Stato della Guardia Nazionale a Cipro che, il 15 luglio 1974, esautora Makarios e lo sostituisce con Nikos Sampson, strenue sostenitore dell’enosis. Dopo alcuni tentativi di trovare una mediazione coinvolgendo anche il Governo britannico, il 20 luglio 1974, la Turchia decide di intervenire militarmente a supporto della popolazione turco-cipriota e a garanzia di quell’indipendenza dell’isola della cui salvaguardia è stata investita nel 1960. Un intervento che, peraltro, viene riconosciuto come legittimo anche dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa275. L’intervento turco, tuttavia, si conclude in breve tempo, in ottemperanza agli accordi raggiunti in occasione della Conferenza internazionale che nello stesso mese di luglio si svolge a Ginevra e in cui si decide che sia la Grecia che la Turchia avrebbero ritirato i propri contingenti da Cipro. Solo quando, il 14 agosto 1974, le truppe greco-cipriote trucidano tutta la popolazione maschile turco-cipriota del paese di Tokhni, la Turchia si dispone per un nuovo intervento militare, cui segue, il 16 agosto, l’imposizione di un cessate il fuoco da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e l’invio di un contingente di interposizione che, attestandosi sulla c.d. linea Attila, sancisce la definitiva divisione dell’isola in due metà che, a seguito di uno scambio di popolazione, divengono etnicamente omogenee. Il 13 febbraio 1975 viene così istituito lo Stato federale di Cipro del Nord che, il 15 dicembre 1983, assume la denominazione di Repubblica turca di Cipro Nord e si dota di una propria Costituzione, approvata in via referendaria nel maggio 1985. La dichiarazione di indipendenza di Cipro del Nord viene tuttavia riconosciuta non legittima dalle Nazioni Unite attraverso le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza n. 541/1983 e n. 550/1984. La nuova Repubblica di Cipro del Nord è così riconosciuta 275

Raccomandazione n. 734 del 29 luglio 1974.

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dalla sola Turchia, sebbene nel 1992 le Nazioni Unite riconoscano la separazione dell’isola in due entità statali. Da un punto di vista interno, la Repubblica di Cipro del Nord si è quindi strutturata a partire da un testo costituzionale che fonda una democrazia parlamentare e tutela i diritti fondamentali dei suoi cittadini anche attraverso un sistema giudiziario in cui si intrecciano elementi derivanti dalla tradizione di common law ed elementi della famiglia romano-germanica276. Occorre tuttavia ricordare che la sicurezza di questa Repubblica è assicurata dalla presenza militare di un contingente stanziato dalla Turchia, cui Cipro del Nord demanda anche alcuni aspetti relativi alla gestione del territorio, come il funzionamento del servizio postale. I successivi decenni sono segnati dai tentativi di trovare una soluzione per la pacificazione dell’isola e per la ricostituzione di uno Stato bicomunitario. Il più recente è il c.d. Piano Annan del 2004 che, presentato nello stesso periodo in cui si realizzava la definitiva adesione di Cipro – nella sola parte greca, sebbene riconosciuta come rappresentativa dell’intera isola – all’Unione europea (2004), auspica l’istituzione di una Repubblica Unita di Cipro come Stato federale in cui entrambe le comunità avrebbero avuto uguale rappresentanza in Parlamento e sarebbero state guidate da un Presidente greco-cipriota e da un VicePresidente turco-cipriota. Sottoposto a referendum il 24 aprile 2004, il Piano vede circa il 65% dei votanti nella Repubblica Turca di Cipro del Nord favorevoli e circa il 76% dei votanti della Repubblica di Cipro contrari; il referendum consolida così ulteriormente una situazione di stallo che, al 2014, è ancora ferma sulla rigida divisione dell’isola in due

276

Per una analisi della Costituzione di Cipro del Nord si rinvia a E. CABIAIA, Costituzione internazionalmente ottriata e indipendenza – Cipro, CLUEB, Bologna, 1992. Una visione, da parte della storiografia turca, degli eventi che conducono dagli Accordi di Zurigo alla Costituzione del 1985 è rinvenibile in Z.M. NECATIGIL, The Cyprus Question and the Turkish Position in International Law, Oxford University Press, Oxford, 1996.

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Stati, separati da una “terra di nessuno” e di cui solo uno ha ottenuto il riconoscimento internazionale277. Questa così complessa vicenda storica rappresenta, per la Turchia, un punto particolarmente controverso nei suoi rapporti con le organizzazioni sovrastatali europee. Con riferimento al Consiglio d’Europa, la complessità deriva dai ricorsi avanzati contro la Turchia per le violazioni perpetrate nel territorio di Cipro Nord e cui essa si rifiuta di rispondere nel rispetto della sovranità di questa Repubblica. In effetti, la questione si pone per la prima volta già nel 1976, con riferimento all’impossibilità per i ciprioti di origine greca di ritornare a godere dei propri beni situati nella zona nord dell’isola a seguito dell’occupazione militare del 1974. È la Repubblica di Cipro, infatti, che ricorre contro la Turchia dando modo alla Commissione, all’epoca competente per i ricorsi interstatali, di elaborare un rapporto in cui si evidenziano le violazioni perpetrate dalla Turchia278, in primo luogo quelle concernenti il diritto di proprietà. Un secondo rapporto279, elaborato nel 1983, pone l’accento sulla sola violazione degli artt. 5 e 8 della Convenzione e dell’art. 1 del Protocollo addizionale n. 1, rispettivamente relativi alla tutela della libertà e sicurezza individuali, al rispetto della vita privata e familiare e alla protezione della proprietà. A seguito dell’istituzione della Corte, quest’ultima è chiamata a pronunciarsi sul tema con l’affaire Loizidou280, in cui la ricorrente è una cipriota di origine greca risiedente a Nicosia ma possidente alcuni beni nella zona nord di Cipro cui le è negato l’accesso in seguito 277

Sarebbe ultroneo in questa sede discutere la questione del riconoscimento internazionale di Cipro del Nord. Per un approfondimento al riguardo si rinvia a A. SINAGRA, Parametri di valutazione della sovranità e dell’indipendenza dello Stato: il caso della Repubblica turca di Cipro del Nord, in A. SINAGRA, C. ZANGHÌ (a cura di), op. cit., pp. 83-97. 278 Rapporto della Commissione europea dei diritti umani, Cipro c. Turchia, 10 luglio 1976, n. 6708/74 e 6950/75. 279 Rapporto della Commissione europea dei diritti umani, Cipro c. Turchia, 4 ottobre 1983, n. 8007/77. 280 Grande Chambre, Loizidou c. Turchia, 18 dicembre 1996, n. 15318/89. Per una visione critica di questa pronuncia della Corte di Strasburgo, si veda G. COHENJONATHAN, L’affaire Loizidou devant la Cour européenne des droits de l’homme. Quelques observations, in Revue générale de droit international public, 102, 1998, pp. 123-144.

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all’occupazione militare, violando, nell’opinione della Grande Camera, l’art. 1 del Protocollo addizionale n. 1281. Il medesimo ragionamento è rinvenibile nella pronuncia della Grande Camera per un nuovo ricorso della Repubblica di Cipro contro la Turchia avviato nel 1994 e conclusosi nel 2001282; in questa sede, la Corte ritiene che il silenzio delle autorità dinanzi alle richieste di informazioni dei parenti degli “scomparsi” configuri una violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti. Per le stesse ragioni, la Corte condanna la Turchia anche nel caso Varnava283. Nonostante le condanne della Corte di Strasburgo siano rivolte contro la Turchia, questa Repubblica, unico Stato ad aver riconosciuto la Repubblica Turca di Cipro Nord, continua a negare la propria competenza su quella parte dell’isola, ritenendola uno Stato indipendente e sovrano. In effetti, è il Parlamento di Nicosia a tentare di porre fine alla lunga serie di ricorsi per violazione del diritto di proprietà approvando la legge n. 67 del 22 dicembre 2005, con cui si riconosce a tutte le persone fisiche e giuridiche che ritengano violato il proprio diritto di proprietà il diritto ad adire una Commissione appositamente istituita per richiedere un indennizzo. Sulla questione cipriota interviene anche l’Unione europea. Già nel 1994, infatti, l’allora Corte di Giustizia delle Comunità europee conferma la validità dell’accordo di associazione con la Repubblica greco-cipriota e accoglie le posizioni del ricorso di quest’ultima nonostante ciò comporti una discriminazione nei confronti dei turco-ciprioti284. Il ricorso origina dalla richiesta greco-cipriota di impedire l’importazione di prodotti 281

Peraltro, nel caso Loizidou la Corte EDU, di fatto, riconosce la dipendenza dalla Turchia della Repubblica cipriota. 282 Grande Chambre, Cipro c. Turchia, 10 maggio 2001, n. 25781/94. Per un approfondimento si rinvia a P. TAVERNIER, En marge de l’arrêt Chypre contre la Turquie: l’affaire chypriote et les droits de l’homme devant la Cour de Strasbourg, in Revue trimestrielle des droits de l’homme, 52, 2002, pp. 807-835. 283 Varnava e alt. c. Turchia, 10 gennaio 2008, n. 16064/90, n. 16065/90, n. 16066/90, n. 16068/90, n. 16068/90, n. 16069/90, n. 16070/90, n. 16071/90, 16072/90 e 16073/90. 284 Corte di Giustizia delle Comunità europee, C 432/92, 5 luglio 1994.

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agricoli da Cipro del Nord agli Stati dell’Unione salvo che tali prodotti non fossero dotati di un apposito certificato rilasciato dalle autorità grecocipriote. Nonostante il Governo britannico sottolinei che i greco-ciprioti non avrebbero mai rilasciato tale certificato ai prodotti turco-ciprioti e che da ciò sarebbe derivata una discriminazione per la popolazione di Cipro del Nord, la Corte di Giustizia accoglie la posizione dei greco-ciprioti e conferma la validità dell’accordo di associazione, inaugurando così un embargo de facto dei prodotti turco-ciprioti. Da questa sentenza deriverebbe la scelta della Turchia di non instaurare relazioni commerciali con la Repubblica di Cipro (greca) che ancora al 2014 blocca i negoziati d’adesione all’Unione europea giacché rende di difficile attuazione il mercato interno in caso di futura adesione della Turchia. Al volgere del secolo, e soprattutto a seguito dell’adesione di Cipro all’UE nel 2004, timidi passi in avanti sembrano compiersi. Dal 2006, infatti, l’UE ha avviato un diretto dialogo con le istituzioni di Lefcoşa per consentire la riapertura ai traffici internazionali del porto di Famagosta e dell’aeroporto di Ercan; al 2014, tuttavia, tali obiettivi non sono ancora stati raggiunti e l’ingresso nel paese è consentito solo attraverso la zona greca di Cipro. Sempre nel 2006, il regolamento del Consiglio europeo n. 389/2006285 ha previsto la possibilità di avviare progetti di supporto finanziario per lo sviluppo economico della comunità turco-cipriota anche attraverso la realizzazione di attività congiunte con gli enti locali turco-ciprioti, pur chiarendo che tale cooperazione «non comporta il riconoscimento implicito di autorità pubbliche diverse dal governo della Repubblica di Cipro» (art. 1, c. 3). Nonostante queste (estremamente) limitate misure di dialogo fra le istituzioni europee e le autorità turco-cipriote, pare evidente che il mancato riconoscimento dell’indipendenza di Cipro Nord continua a porre rilevanti questioni. Sul piano della gestione dell’isola, infatti, l’assenza di un riconoscimento internazionale delle autorità turco-cipriote rappresenta un fattore di discriminazione per la comunità che esse governano; sul piano internazionale, invece, esso rende sempre più complessi i rapporti fra la Turchia e l’Unione europea e sempre più accidentato il percorso di adesione.

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Regolamento (CE) n. 389/2006 del 27 febbraio 2006.

Capitolo III La Turchia nel Consiglio d’Europa 1. L’adesione della Turchia al Consiglio d’Europa e la ratifica della CEDU Il 5 maggio 1949 dieci Stati europei riuniti a Londra decidono di istituire un’organizzazione sovrastale, il Consiglio d’Europa1, capace di realizzare «una più stretta unione fra i suoi Membri per salvaguardare e promuovere gli ideali e i principi che costituiscono il loro comune patrimonio»2. Sentendosi parte costituente di questo patrimonio, il 9 maggio 1949 la Turchia ratifica lo Statuto del Consiglio, entrando definitivamente a farne parte. Pochi mesi dopo, il 4 novembre 1950, per consentire la more perfect union dei membri del Consiglio e definire principi e strumenti della loro azione viene firmata a Roma la Convenzione europea per la Salvaguardia dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali (CEDU), entrata in vigore il 3 settembre 19533. Anche in questo caso, la Turchia provvede rapidamente alla ratifica, avvenuta il 18 maggio 1954. Nella prospettiva di procedere congiuntamente alla costruzione di un patrimonio costituzionale comune, le Alte Parti contraenti si impegnano 1

Gli Stati fondatori del Consiglio d’Europa sono: Belgio, Danimarca, Francia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Regno Unito, Svezia. Al 2014, il Consiglio conta 47 Stati membri (Albania, Andorra, Armenia, Austria, Azerbaigian, Belgio, Bosnia-Erzegovina, Bulgaria, Cipro, Croazia, Danimarca, Estonia, FYROM, Finlandia, Francia, Georgia, Germania, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lettonia, Liechtenstein, Lituania, Lussemburgo, Malta, Monaco, Montenegro, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica ceca, Repubblica di Moldova, Romania, Russia, San Marino, Serbia, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia, Ucraina, Ungheria), 6 osservatori (Canada, Città del Vaticano, Giappone, Israele, Messico, Stati Uniti); alla stessa data, gli Stati candidati sono il Kazakistan e la Bielorussia, la cui adesione è condizionata dal miglioramento del livello di democrazia dell’ordinamento. 2 Cfr. art. 1 a) dello Statuto del Consiglio d’Europa (www. coe.int). 3 La dottrina identifica la CEDU come un trattato multilaterale sui generis, in ragione del valore di Carta fondativa di un ordinamento autonomo dotato di un proprio organo di produzione giuridica. Sul punto si rinvia a M. DE SALVIA, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ESI, Napoli, 2001, p. 59.

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ad allineare il sistema giuridico interno con il dettato convenzionale4. L’organo giurisdizionale per il controllo del rispetto della CEDU, la Corte europea dei diritti umani, tuttavia, sceglie di verificare in sede di giudizio la violazione della CEDU ritenendone il recepimento un obbligo generico dei firmatari5. Questi ultimi recepiscono la CEDU seguendo due diverse modalità, che le attribuiscono un rango differente nella gerarchia delle fonti dei paesi firmatari: da un lato vi sono gli Stati che ne prevedono la trasposizione nell’ordinamento mediante una legge speciale di ratifica; dall’altro quelli che introducono direttamente la Convenzione nell’ordinamento in virtù di disposizioni costituzionali6. La Turchia incorpora la Convenzione nell’ordinamento nazionale mediante la legge di ratifica n. 6366 del 10 marzo 1954, entrata in vigore il 18 maggio dello stesso anno, ma è solo alla fine degli anni ’80 che la Convenzione diviene 4

Si veda P. BERTANI, Obbligo di rispettare i diritti dell’uomo, in C. DEFILIPPI, D. BOSI, R. HARVEY (a cura di), La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Commentata e annotata, ESI, Napoli, 2006, pp. 17-48, il quale ricorda anche, citando il caso Tecno Industriale s.r.l. c. Ministero della Giustizia Italiano, il dibattito circa l’applicabilità della Convenzione ai soli individui od anche alle specificazioni degli stessi, come le società, in ragione della scelta di fare riferimento in alcuni casi alle «persone» e in altri alle «persone fisiche e giuridiche». 5 Di fatto la Convenzione impone agli Stati un obbligo di condotta (ad esempio agli artt. 3 e 5) ovvero un obbligo di risultato (art. 6), oltre a far sorgere la necessità di realizzare un opportuno bilanciamento fra gli obblighi derivanti dai differenti diritti sanciti nella Convenzione. Sul punto si veda C. TOMUSCHAT, What is a Breach of the ECHR?, in R. LAWSON, M. DE BLOIS (a cura di), Dynamics of the Protection of Human Rights in Europe. Essays in Honour of Henry G. Schemers, Martin Nijhof, Dordrecht, 1994, pp. 315-336. L’Autore evidenzia come frequentemente la stessa Corte europea dei diritti umani si mostri consapevole della difficoltà di scindere i due tipi di obblighi. È questo il caso della pronuncia Surek c. Turchia (n. 2), 8 luglio 1999, n. 24122/94, in cui la Corte ricorda come in materia di libertà di espressione il generale obbligo di condotta dello Stato si fonde con l’obbligo di risultato di assicurare, mediante l’approvazione di apposite norme, la tutela effettiva della libertà di espressione dei propri cittadini. È opportuno rilevare, inoltre, come la Convenzione non si limiti a far sorgere singoli obblighi per gli Stati ma piuttosto “ondate di obblighi” (cfr. J. WALDRON, Rights in Conflict, in Ethics, 99, 1989, pp. 503-519). 6 Per una disamina della giurisprudenza delle Corti costituzionali degli Stati membri del Consiglio d’Europa circa la posizione dei trattati internazionali nella gerarchia delle fonti dell’ordinamento interno, si rinvia a O. DUTHELLET DE LAMOTHE (a cura di), Draft Report on Case-law Regarding the Supremacy of International Human Rights Treaties, Commissione di Venezia, studio n. 304, 2004.

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uno strumento di effettiva tutela dei diritti dei cittadini turchi, attraverso il riconoscimento della possibilità di avanzare ricorsi individuali (1987) e della competenza obbligatoria della Corte europea dei diritti umani e del conseguente carattere vincolante delle sentenze da essa emesse (1989). Il sistema di Strasburgo non ha l’obiettivo di istituire un nuovo ordine giuridico di diritto internazionale e si propone in forma sussidiaria rispetto al livello nazionale (art 53 CEDU)7, ambendo a fornire uno standard minimo di tutela dei diritti fondamentali senza modificarne le caratteristiche in termini sia procedurali che sostanziali8. Rispetto alla partecipazione della Turchia (ma non solo), proprio il carattere sussidiario del sistema convenzionale consente alcune riflessioni9. In primo luogo, l’obbligo del previo esperimento dei ricorsi interni (art. 35 CEDU) rende la Corte una sorta di ultimo grado di giudizio, soprattutto per quegli ordinamenti che prevedono ricorsi individuali per la tutela dei diritti. Il rischio è la delegittimazione del livello nazionale e il consolidamento della convinzione che il sistema convenzionale sia capace di maggiori tutele; il vantaggio è lo stimolo a instaurare una cooperazione fra i due 7

Sul punto H. PETZOLD, The Convention and the Principle of Subsidiarity, in R.S.J. MACDONALD, F. MATSCHER, H. PETZOLD (a cura di), The European System of Protection of Human Rights, Martinus Nijhoff, The Hague, 1993, pp. 41-62, nonché D. DE BRUYN, L’épuisement des voies de recours internes, in D. DE BRUYN, S. DEPRÉ, M. KAISER, P. LAMBERT, B. LOMBAERT, M. VERDUSSEN, Les exceptions préliminaires dans la CEDH, Bruylant, Bruxelles, 1997, pp. 53-76. 8 Così F. SUDRE, Droit International et européen des droits de l’homme, Puf, Paris, 2005, p. 290. 9 Il concetto di sussidiarietà della Corte rispetto ai meccanismi di ricorso statali è utilizzato nella giurisprudenza convenzionale sin dagli anni ’70 sebbene, come ricorda P. BILANCIA, Possibili conflittualità e sinergia nella tutela dei diritti fondamentali ai diversi livelli istituzionali, in Studi in onore di F. Cuocolo, Giuffrè, Milano, 2005, p. 150, sarebbe più corretto utilizzare il termine complementarità con riferimento all’interazione tra sistemi di protezione statali e sovrastatali per la tutela dei diritti. Se, infatti, con il termine sussidiarietà si suole indicare un meccanismo che agisce in subsidium in base al livello più indicato a garantire la protezione, il secondo termine chiarisce che il livello migliore per la protezione dei diritti è sempre quello inferiore sostituito dal livello convenzionale solo in caso di inattività. Al riguardo si veda anche Handyside c. Regno Unito, 7 dicembre 1976, n. 5493/2, in cui è la stessa Corte a chiarire il proprio funzionamento e le relazioni con il livello statale.

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livelli giurisdizionali10, che si rende sempre più virtuosa nel momento in cui si consolidano le conoscenze dei giudici nazionali sul c.d. bloc conventionnel11. Del resto, per aumentare la conoscibilità del sistema convenzionale e consentire agli operatori giuridici di adoperarsi per far rispettare i diritti e le libertà fondamentali sanciti dalla CEDU si è più volte sostenuta la necessità che le Alte Parti contraenti si impegnino nella traduzione della Convenzione e soprattutto della giurisprudenza convenzionale12. In secondo luogo, anche la Turchia si è dovuta confrontare con le questioni inerenti l’efficacia delle sentenze della Corte13. L’art. 46 CEDU, infatti, impone agli Stati di conformarsi alle decisioni della Corte che li concernono direttamente e non anche alle interpretazioni della Convenzione derivanti da casi relativi ad altri Stati membri. D’altro canto, la Corte EDU ha progressivamente consolidato il proprio ruolo di autorità d’interpretazione affermando che le proprie sentenze non hanno solo lo 10

Si veda O. DE SCHUTTER, La coopération entre la CEDH et le juge national, in Revue belge de droit international, 1, 1997, pp. 21-68. 11 Proprio una diffusa attitudine a «maugréer, grommeler et considérer que la norme internationale n’ajoute rien aux règles nationales» induce il Consiglio dei Ministri del Consiglio d’Europa a suggerire agli Stati c.d. violatori seriali di approfondire la formazione dei giudici e dei magistrati al sistema di Strasburgo e di incentivare la diffusione, mediante traduzione, delle principali sentenze della Corte. Cfr. A. PELLET, La mise en œuvre des normes relatives aux droits de l’Homme. Souveraineté du droit contre souveraineté de l’Etat?, in CEDIN, La France et les droit de l’homme, Montchrestien, Paris, 1990, pp. 101-140, spec. p. 109. 12 Questa necessità è richiamata anche dal Presidente della Corte Wildhaber nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte europea del 22 gennaio 2004. In quella occasione, infatti, il Presidente Wildhaber ha ricordato il caso Koua Poirrez c. Francia, in cui la Corte era chiamata a pronunciarsi sul rifiuto dei giudici francesi di consentire l’adozione di un cittadino ivoriano inabile in seguito alla maggiore età da parte di un cittadino francese allo scopo di ottenere il ricovero in una struttura protetta. La questione che qui viene in rilievo è l’attenzione che i giudici francesi pongono nel considerare gli effetti della propria decisione sul diritto dell’Unione – al punto da richiedere una pronuncia della Corte europea di Giustizia – e non sul diritto convenzionale, escludendo così una possibilità che avrebbe evitato al ricorrente 13 anni di attesa per l’accertamento della violazione (cfr: www.echr.coe.int/FR/Discours/Wildhaberdiscours.htm). 13 Sul punto si veda il discorso inaugurale del Presidente della Corte costituzionale turca Tülay Tuğcu, The place of the European Convention on Human Rights in Turkey, 20 gennaio 2006, www.anayasa.gov.tr.

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scopo di giudicare i casi per i quali si è fatto ricorso, ma anche di chiarire, salvaguardare e sviluppare le norme della Convenzione e contribuire al rispetto, da parte degli Stati firmatari, degli impegni che essi hanno assunto14. 2. La CEDU nella gerarchia delle fonti in Turchia Al fine di comprendere l’influenza della Convenzione europea dei diritti umani sulla Turchia è necessario chiarire preliminarmente la posizione attribuitale nell’ambito della gerarchia delle fonti, in un discorso che deve tenere conto del più generale dibattito sulla posizione dei trattati internazionali rispetto al diritto interno e sulla possibilità di attribuire un diverso rango ai trattati in materia di diritti umani in ragione della peculiarità del loro contenuto. Sul punto la dottrina assume posizioni divergenti15. Secondo la scuola dualista, infatti, il diritto internazionale e il diritto interno sono rigidamente distinti e non può porsi alcuna questione di conflitto o di determinazione di superiorità tra i due insiemi di norme16. La scuola 14

Così nella sentenza Irlanda c. Regno Unito, 18 gennaio 1978, n. 5310/71, in cui si chiarisce come l’interpretazione della CEDU fatta dalla Corte è parte integrante della stessa e quindi gli Stati sono tenuti a rispettare non le sentenze della Corte che non li concernono direttamente, ma l’interpretazione della CEDU che da essa deriva. Tale posizione è confermata dalla Corte anche nelle sentenze Dudgeon c. Regno Unito, 22 ottobre 1981, n. 7525/76, e Modinos c. Cipro, 22 aprile 1993, n. 15070/89. 15 In questo contesto si è ritenuto opportuno non considerare le posizioni estreme della scuola dualista e, allo stesso modo, le opinioni di chi, seguendo un approccio giusnaturalista, afferma la supremazia di tutti i trattati internazionali sul diritto interno. Sul punto, si rinvia a J. DHOMMEAUX, Monisme et dualisme en droit International des droits de l’Homme, in Annuaire française de droit international, 41, 1995, pp. 447-468. 16 Per approfondimenti in merito a questa scuola, che assume anche la denominazione di “pluralista”, si veda G. MORELLI, Nozioni di diritto internazionale, CEDAM, Padova, 1967, (7a ed.), p. 68 ss. Si vedano, inoltre: L. OPPENHEIM, International law: a treatise, Longman, London, 1905; D. ANZILLOTTI, Il diritto internazionale nei giudizi interni, Zanichelli, Bologna, 1905; H. TRIEPEL, Diritto internazionale e diritto interno, in A. BRUNIALTI (a cura di), Biblioteca di scienze

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monista, invece, elabora due approcci contrapposti: da un lato, la teoria monistico-internazionalista afferma la superiorità del diritto internazionale in quanto gli ordinamenti statali avrebbero la propria norma fondamentale nel principio di effettività, derivante dal diritto internazionale medesimo17; dall’altro, la dottrina monistico-statalista ritiene che il diritto internazionale promani dal diritto statale, in quanto insieme di norme che regolano i rapporti esterni degli Stati18. A fronte di questa complessità interpretativa, l’ordinamento turco è interessato da un intenso confronto dottrinale19, soprattutto perché la collocazione dei trattati internazionali20 all’interno dell’ordinamento è disciplinata da disposizioni approvate in momenti successivi e politiche e amministrazione, UTET, Torino, 1913; G. BALLADORE PALLIERI, Diritto internazionale pubblico, Giuffrè, Milano, 1948. 17 Per una ricognizione delle differenti posizioni della scuola monista e delle critiche ad essa si vedano: H. KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto, (trad. ita. a cura di R. TREVES), Einaudi, Torino, 1952; G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello Stato in compendio, (trad. ita. a cura di B. HENRY) Laterza, Roma-Bari, 2004; H. LAUTERPACHT, International Law and Human Rights, Praeger, New York, 1950; G. SCELLE, Précis de droit de gens: principe et systématique, vol. II, Sirey, Paris, 2008, p. 193. 18 In realtà non manca chi evidenzia come la distinzione tra questi due approcci sia scarsamente fruttuosa, preferendo prendere pragmaticamente in esame la prassi vigente nei singoli ordinamenti nazionali senza necessariamente inquadrarla in modelli predefiniti. Così, ad esempio, M. KUMM, Democratic Constitutionalism Encounters International Law: Terms of Engagement, in S. CHOUDHRY (a cura di), The Migration of Constitutional Ideas, Cambridge University Press, Cambridge, 2006, pp. 257-293, spec. pp. 257-261. 19 Una sintesi delle differenti posizioni consolidatesi è presente in S. GÖZÜBÜYÜK, La place des traités internationaux dans le droit turc, in Turkish Yearbook of Human Rights, 13, 1991, pp. 3 -10. 20 In merito all’utilizzo di questo termine è opportuno chiarire che si segue qui la definizione derivante all’art. 2, c. 1 a), della Convenzione di Vienna del 1969, secondo un orientamento seguito anche dalla giurisprudenza turca. In particolare, il Consiglio di Stato, con una Opinione consultiva emessa il 1° maggio 1991 (1 a Camera, E1991/53 K1991/61), chiarisce che la definizione del termine deve evincersi dal combinato disposto degli artt. 3 e 7 della Convenzione, della legge n. 244 del 1963 e dell’art. 90, c. 5, Cost., da cui deriverebbe, inoltre, che i documenti dell’OSCE non possono essere considerati come dei trattati. Sul punto è inoltre importante ricordare che, sebbene la Turchia non abbia ratificato la Convenzione di Vienna, sia le Corti turche che il Ministero degli Affari esteri utilizzano le sue disposizioni come parte del diritto internazionale consuetudinario.

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riconducibili a fasi differenti della vita istituzionale del paese. La legge n. 244 del 31 marzo 1963, rimasta in vigore anche in seguito all’approvazione della Costituzione del 1982, infatti, stabilisce che il recepimento dei trattati, prescindendo dall’atto di ratifica, si perfezioni in seguito all’approvazione di un decreto del Consiglio dei Ministri, al fine di consentire al Governo di valutare il rispetto dell’interesse della nazione21. Ad essa fa tuttavia seguito, nel 1982, la norma costituzionale dell’art. 90 (Costituzione del 1982, al 2014 in vigore), che, tra l’altro, sancisce l’eccezionalità ratione materiae dei trattati sui diritti umani e chiarisce che essi sono recepiti nell’ordinamento in seguito all’approvazione della legge di ratifica da parte della GANT. Se pacifiche sono le modalità di recepimento, il dibattito riguarda soprattutto il quinto comma dell’art. 90 Cost., in cui si afferma che i trattati correttamente ratificati «hanno forza di legge e non è possibile fare ricorso alla Corte per incostituzionalità delle disposizioni in essi 21

Per dovere di completezza, si ricorda inoltre che, per i trattati sottoposti alla disciplina della legge n. 244 del 1963, il Presidente della Repubblica, ai sensi dell’art. 3, c. 1, in virtù delle competenze attribuitegli dall’art. 104 Cost. sulla ratifica e la promulgazione dei trattati e in ragione del fatto che nessun appello può essere fatto contro le decisioni di iniziativa del Presidente, condivide con il Consiglio dei Ministri il potere di ratifica nella forma di un decreto del Consiglio; nella pratica, dunque, anche se il decreto è firmato dal Presidente, per essere emesso necessita del consenso del Consiglio dei Ministri. Cfr: E. ÖZBUDUN, T.C. Anayasalarına Göre Antlaşmaların Onaylanması (La ratifica dei trattati nella Costituzione turca), in Ankara ÜSBF Dergisi, 1981, pp. 209-228, nonché M. SOYSAL, Uluslararası Andlaşmalar Konusunda Anayasa Yargısı (Giurisdizione costituzionale rispetto ai trattati internazionali), in Anayasa Yargısı, 14, 1997, pp. 171-190, spec. p. 176. Infine, K. BAŞLAR, The Implementation of International Law in Turkish Municipal Law, in Annales de la facultè de droit d’Istanbul, 51, 2002, pp. 53-114, spec. p. 59, in cui l’Autore ricorda che l’art. 90 Cost. prevede due ulteriori casi in cui il potere del Parlamento nella ratifica dei trattati è di fatto nullo. È questo il caso dell’art. 90, c. 2, Cost., ove si prevede la possibilità che alcuni trattati entrino in vigore direttamente dopo l’adozione del decreto e sia necessario solo comunicare al Parlamento la stessa. L’art. 90, c. 3, Cost., invece, limita il potere del Parlamento nei casi in cui un trattato sia la diretta conseguenza di norme internazionali precedentemente ratificate; in questo caso il Parlamento è tenuto a ratificare il trattato solo qualora esso comporti una modifica della legislazione interna, diversamente il trattato si ritiene in vigore automaticamente.

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contenuti»22. Il nodo, su cui a lungo la dottrina ha dibattuto23, riguarda l’ambiguità dell’espressione «forza di legge». Pur nell’accordo circa l’adesione alla scuola monista24, infatti, si sono configurate tre differenti posizioni. L’approccio letterale ritiene che i trattati internazionali siano da equiparare alla legislazione ordinaria dello Stato poiché se i costituenti avessero voluto attribuire loro una posizione sovraordinata l’avrebbero chiarito inequivocabilmente. Sulla base di tale interpretazione, dunque, il legislatore nazionale sarebbe libero di approvare leggi in contrasto con i trattati giacché ciò, pur potendo danneggiare l’immagine del paese nei confronti della comunità internazionale, non creerebbe difficoltà sul piano del diritto interno in quanto le eventuali antinomie sarebbero risolte attraverso l’utilizzo del criterio cronologico (lex posterior derogat priori)25. Questo approccio, peraltro, pareva trarre conferma dalla summenzionata legge n. 244 del 1963 e dai lavori preparatori della stessa, in cui si afferma che la Costituzione si limita ad attribuire forza di legge ai trattati internazionali. Un secondo approccio di tipo letterale pone l’accento sull’ultima frase dell’art. 90, c. 5, Cost. ed evidenzia come la scelta dei costituenti di chiarire che la Corte costituzionale non può 22

Si ricorda che possono tuttavia essere sottoposte a controllo di costituzionalità le leggi di ratifica dei trattati, come confermato dalla Corte costituzionale con la sentenza E1996/55 K1997/33, 27 febbraio 1997. 23 Tra gli altri, si vedano S. GÖZÜBÜYÜK, op. cit., p. 7; S. BILGE, İnsan Hakları Sözleşmesinin Türk Hukukundaki Yeri, (Il rango della Convenzione europea dei diritti umani nel diritto turco), in Ankara Barosu Dergisi, 6, 1989, pp. 980-997, spec. p. 982, S. ÜNAL, Turkish Legal System and the Protection of Human Rights, SAM paper n. 3, 1999 (www.mfa.gov.tr), K. BAŞLAR, op. cit., pp. 53-114. 24 Con riferimento alla dottrina turca, si veda K. GÖZLER, La question de la supériorité des normes de droit international sur la Constitution, in Ankara Üniversitesi Hukuk Fakültesi Dergisi, 45, 1996, pp. 196-210, nonché M.T. YÖRÜNG, Y. SAK, E.İ. MUTLU, From Candidacy to Negotiation. Amendments in the Constitution of the Republic of Turkey, in Marmara Avrupa Araştirmaları Dergisi, 12, 2004, pp. 99-140, in cui si afferma che la Turchia non segue un approccio dualista, ma che la complessità nasce dall’assenza di una chiara indicazione costituzionale sul rapporto tra i trattati internazionali e la legislazione ordinaria. 25 È questa l’opinione avanzata da H. PAZARCI, Uluslararası Hukuk Dersleri (Corso di diritto internazionale), Turhan Kitapevi, Ankara, 1989, p. 32; E. ÖZBUDUN, Türk Anayasa Hukuku (Diritto costituzionale turco), Yetkin Yayınları, Ankara, 1988, p. 178 e p. 355; S. TOLUNER, Millerlerarası Hukuk ve İç Hukuk Arasındakı İlişliler (I rapporti tra il diritto internazionale e il diritto interno), Sulhi Garan Matbaası, Istanbul, 1973.

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esercitare il controllo di costituzionalità sui trattati equivale a sancirne la superiorità rispetto sia alla legge che alla Costituzione e la prevalenza in caso di contrasto con le fonti di diritto interno26. Da ultimo, l’approccio teleologico ritiene che, poiché l’art. 2 della Costituzione riconosce la Turchia come uno Stato di diritto rispettoso dei diritti umani, i trattati in materia di diritti umani e libertà fondamentali devono essere distinti dagli altri accordi internazionali e ad essi deve essere attribuita una forza superiore alle leggi ordinarie, rappresentando la loro tutela il principio fondamentale su cui la Costituzione si basa27. Un ulteriore elemento fortemente dibattuto dalla dottrina turca concerne l’impossibilità di procedere al controllo di costituzionalità delle norme internazionali, che, per alcuni, si giustificherebbe con la necessità di assicurare coerenza e credibilità all’ordinamento, mentre, per altri, risiederebbe nella affermazione di un valore superiore attribuito ai trattati internazionali rispetto agli atti nazionali aventi forza di legge, da cui discenderebbe una automatica prevalenza dei primi in caso di conflitti con i secondi28. Nel tentativo di fare chiarezza, la Corte costituzionale, pur facendo salvo il dettato dell’art. 90, c. 5, afferma la possibilità di poter valutare l’incostituzionalità delle leggi di ratifica dei trattati29. 26

Così M. SOYSAL, Anayasa Uyugunluk Denetimi ve Uluslararası Sözleşneler (Il controllo di conformità alla Costituzione e i trattati internazionali), in Anayasa Yargısı, 23, 1986, pp. 5-18, spec. p. 17; S. GÖZÜBÜYÜK, The European Convention on Human Rights in the Legal Order of Turkey, in The Domestic Application of International Human Rights, Norma, Judicial Colloquium, 3-14 settembre 1990, Ankara University Human Rights Center, Ankara, 1992, pp. 19-31; I.Ö. KABOĞLU, Anayasa Yargısı (Giurisprudenza costituzionale), İmage Kitapevi, Ankara,1994, p. 79. 27 A sostegno di questa tesi: T. AKILLIOĞLU, Avrupa İnsan Hakları Sözleşmesi ve İç Hukukumuz (La Convenzione europea dei diritti umani e la nostra legge), in Ankara Üniversitesi Siyasal Bilgiler Fakültesi Dergisi, 49, 1989, pp. 155-173, spec. p. 157. 28 La stessa affermazione della possibilità che i trattati internazionali abbiano almeno forza di legge, tuttavia, apre alla possibilità che la Turchia abbracci le opinioni della scuola dualista. Per una breve ricostruzione dei tre differenti approcci derivabili dal riconoscimento della forza di legge dei trattati internazionali in materia di diritti umani si veda T. TUĞCU, Opening Address on the Occasion of the New Judicial Year of the European Court of Human Rights, Strasburgo, 20 gennaio 2006. 29 Corte costituzionale, E1987/2 K1988/3, 28 gennaio 1988.

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È ai giudici costituzionali che si devono interessanti riflessioni circa il rango della CEDU. Ancora vigente la Costituzione del 196130, la Corte, decidendo circa la costituzionalità della legge n. 1696 del 1973 che inverte l’onere della prova e lo pone a carico dell’accusato, cita esplicitamente l’art. 6 CEDU richiamando la natura vincolante della Convenzione31. Si pongono così le premesse, dopo l’approvazione del Testo del 1982, per la decisione E 14/7 del 13 maggio 1985, in cui si afferma la prevalenza dei trattati internazionali sugli atti aventi forza di legge. Ancora, dichiarando l’incostituzionalità della disposizione del Codice penale che vieta il riconoscimento di un figlio illegittimo nato in seguito all’adulterio di un uomo sposato, la Corte cita alcuni accordi internazionali32 e afferma esplicitamente che la Repubblica turca, ratificando la CEDU, ha assunto impegni internazionali non derogabili33. Le posizioni della Corte costituzionale sono condivise anche dal Consiglio di Stato34, che afferma la prevalenza della CEDU e il suo rango di fonte sovraordinata rispetto alle leggi ordinarie. La V Camera del Consiglio, chiamata a decidere in materia di libertà di espressione, chiarisce, infatti, che «la Costituzione, affermando che l’incostituzionalità degli accordi internazionali non può essere dichiarata, riconosce la superiorità degli stessi sul diritto interno»35 (trad. mia); con più esplicito 30

Al riguardo è forse opportuno ricordare che la Corte costituzionale è istituita ai sensi della Costituzione del 1961 (legge costituzionale n. 44 del 22 aprile 1962) e che le disposizioni in materia di trattati internazionali non sono modificate nel passaggio tra quest’ultima, che ne tratta all’art. 65, e la Costituzione del 1982 (art. 90). Per una più generale disamina dei cambiamenti nel diritto interno turco in seguito all’approvazione della Costituzione del 1982, si veda M. SENCER, From the Constitution of 1961 to the Constitution of 1982, in Turkish Yearbook of Human Rights, 7-8, 1985-1986, pp. 15-72. 31 Corte costituzionale, E1979/38 K1980/11, 29 gennaio 1980. 32 Si tratta, in particolare, della Dichiarazione per i diritti umani delle Nazioni Unite (1948), della Carta sociale europea (1961) e della Convenzione sui diritti del fanciullo (1989). 33 Corte costituzionale, E1990/15 K1991/5, 28 febbraio 1991. 34 Si ricorda che il Consiglio di Stato ha un ruolo rilevante in relazione al recepimento della Convenzione nell’ordinamento turco in virtù delle disposizioni della legge n. 244 del 1963 sul recepimento dei trattati. 35 Consiglio di Stato, E1986/1723 K1991/933, 22 maggio 1991. In questa sentenza il Consiglio di Stato richiama la giurisprudenza della Corte costituzionale e in particolare la sentenza K1967/29 in cui si afferma la prevalenza dell’art. 11 della CEDU sulla legge n. 274 sui sindacati.

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riferimento alla Convenzione, inoltre, il Consiglio di Stato afferma che la CEDU è ormai divenuta parte integrante dell’ordinamento turco in seguito alla sua ratifica e pertanto il diritto di istituire sindacati, pur non essendo disciplinato in maniera chiara nel testo costituzionale, può essere desunto dall’art. 11 CEDU36; il Consiglio, peraltro, apre così la strada al recepimento esplicito di questo diritto in Costituzione, avvenuto con la riforma del 2010. Il riconoscimento del rango sovraordinato della CEDU si è consolidato, anche grazie all’operato di alcune Corti inferiori. Ad esempio, la Corte amministrativa regionale di Ankara arriva a sostenere, con riferimento alla prevalenza dell’art. 6 CEDU nell’ordinamento turco, che la CEDU ha tacitamente abrogato la Costituzione37. Sul punto, peraltro, il dibattito ha coinvolto anche il giudice alla Corte EDU Feyyaz Gölcüklü, il quale evidenzia come, a suo parere, «i costituenti e i legislatori nazionali non debbano adottare atti legislativi contenenti norme contrarie a quelle della Convenzione»38. 36

Consiglio di Stato, E1991/1262 K1992/3911, 10 novembre 1992. Sul punto, si veda K. BAŞLAR, The implementation of International Law in Turkey, cit., pp. 53-114, spec. p. 82. 37 Corte amministrativa regionale di Ankara, 1995/2171. Il ricorrente è il Direttore della Cancelleria di Stato che, non avendo depositato una parte dei fondi per gli aiuti sociali, viene punito con un rimprovero formale ai sensi dell’art. 125/B-a della legge sui funzionari pubblici n. 657; sul punto rilevano le disposizioni dell’art. 129, c. 3, Cost., che afferma che le decisioni disciplinari devono essere appellabili con l’eccezione degli avvertimenti e dei richiami formali, e dell’art. 125 Cost., che sancisce che gli appelli debbano essere possibili contro tutte le azioni e gli atti dell’amministrazione. Il ricorrente afferma che impedire l’appello contro la misura adottata nei suoi confronti sia contrario all’art. 6 della CEDU. La Corte regionale, concordando con la violazione dell’art. 6 proposta dal ricorrente e affermandone la diretta applicabilità nell’ordinamento, sostiene quindi che la Convenzione abbia tacitamente abrogato la Costituzione nella parte in cui l’art. 129 esenta dall’appello le avvertenze e i richiami formali. 38 (trad. mia). Così in F. GÖLCÜKLÜ, La hiérarchie des normes constitutionnelles et sa fonction dans la protection des droits fondamentaux, rapporto presentato alla VIII Conferenza delle Corti costituzionali europee, Ankara, 7-10 maggio 1990, in Revue universelle de droit de l’homme, 1990, pp. 295-302, spec. p. 299. Similmente, del resto, si è pronunciato L. FAVOREU, Souveraineté et supraconstitutionnalité, in Pouvoirs, 67, 1993, pp. 71-77, spec. p. 76, ricordando anche come, con la sentenza Open Door del 29

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Una chiara opposizione per le disposizioni della Convenzione, invece, è mostrata dall’Alta Corte amministrativa militare, che, in due sentenze del 199739, esprime il proprio dissenso circa la possibilità di procedere a modifiche costituzionali al solo fine di evitare discrasie con il dettato della Convenzione; nel caso di specie viene in rilievo l’incompatibilità fra l’art. 125, c. 2, Cost., che afferma l’inappellabilità delle decisioni del Consiglio militare supremo40, e gli artt. 6 e 13 della CEDU. Peraltro, la medesima Corte afferma esplicitamente il carattere ancillare della CEDU ritenendo che «rispetto al diritto positivo turco, le autorità giudiziarie non possono considerare la Convenzione come una norma di rango primario, tuttavia possono utilizzarla come una fonte sussidiaria. In nessuna circostanza può verificarsi che una disposizione sia abrogata qualora in contrasto con una disposizione della Convenzione. Gli stessi artt. 6 e 13 non possono imporsi sull’art. 125, c. 2, della Costituzione»41. Al fine di eliminare possibili dubbi e incertezze da parte dei giudici nell’applicazione dei trattati internazionali, il 22 maggio 2004, con la legge costituzionale n. 5170, il legislatore aggiunge un ulteriore capoverso all’ultimo comma dell’art. 90 in cui si specifica che in caso di conflitto fra i trattati internazionali in materia di diritti e libertà fondamentali debitamente ratificati e le norme dell’ordinamento interno, le disposizioni del trattato internazionale prevalgono42. In seguito a questa riforma, le Corti ordinarie sono tenute a considerare le disposizioni della CEDU nell’esercizio delle proprie funzioni giurisdizionali. Sul punto,

ottobre 1992, la stessa Corte EDU abbia chiarito la preminenza della Convenzione rispetto alle norme costituzionali dei paesi firmatari. 39 Alta Corte amministrativa militare, E1997/255 K 1997/274, 1 aprile 1997 e E1997/147 K1998/200, 22 gennaio 1998. 40 Si tratta di una Commissione istituita nell’ambito delle forze armate che si riunisce a cadenza biennale quale organo di controllo e di definizione delle strategie politiche dell’esercito. L’inappellabilità delle sue decisioni è confermata dall’art. 21, c. 3, della legge n. 1602 sull’Alta Corte amministrativa militare. 41 Alta Corte amministrativa militare, E964 K1020, 24 novembre 1998. 42 L’introduzione di questa disposizione è considerata «a significant step towards full democratic rule in Turkey» (cfr. O. DUTHELLET DE LAMOTHE (a cura di), Draft Report on Case-law Regarding the Supremacy of International Human Rights Treaties, Commissione di Venezia, studio n. 304 del 2004).

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sono quindi intervenuti la Corte di Cassazione43 e il Consiglio di Stato44 per ricordare la prevalenza delle norme della CEDU e degli altri trattati in materia di diritti umani sulla legislazione ordinaria. Sino alla riforma del 2010, le posizioni delle Corti sin qui elencate sembrano confermare la scelta dell’ordinamento di garantire da parte dei giudici a quibus l’applicazione delle norme convenzionali attraverso un controllo diffuso di convenzionalità. A seguito del referendum, invece, tale compito è nuovamente ricondotto fra le competenze della Corte costituzionale, chiamata ad utilizzare come parametro per il giudizio dei ricorsi diretti proprio le disposizioni in materia di «diritti sanciti dalla CEDU e riscontrabili nella Costituzione». 3. Le decisioni della Corte di Strasburgo nella giurisprudenza delle Corti turche L’utilizzo da parte delle Corti turche della giurisprudenza convenzionale rappresenta un valido parametro per comprendere fino a che punto il sistema giudiziario turco dialoghi con il livello sovrastatale. Per indagare l’attitudine delle Corti turche nella citazione e nell’esame della giurisprudenza di Strasburgo è tuttavia necessaria una digressione preliminare circa l’approccio che la stessa Corte europea dei diritti adotta nel dialogo con il livello statale. Come si è accennato, infatti, la Corte non vuole essere un ultimo grado di giudizio rispetto alle Corti nazionali né una prima istanza tenuta a ricostruire i fatti, bensì un giudice “costituzionale” europeo chiamato a interpretare la Convenzione affinché ne sia data corretta applicazione da parte delle istanze nazionali45. È questa la ragione per cui la Corte ha costantemente affiancato 43

Corte di Cassazione, plenum sez. civile, E2005/9-320, 25 maggio 2005; IX Camera Penale della Corte di Cassazione K2005/355, 13 luglio 2004; Corte di Cassazione, plenum sez. penale, E2005/7-24, 24 maggio 2005. 44 XIII Camera del Consiglio di Stato, E2005/588, 8 febbraio 2005; V Camera del Consiglio di Stato, E2004/291, K 2004/3370, 29 settembre 2004. 45 La stessa Corte chiarisce questa percezione di sé nel caso Grande Chambre, Kudla c. Polonia, 26 ottobre 2000, n. 30210/1996.

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all’interpretazione estensiva dei diritti previsti nella CEDU e degli obblighi degli Stati firmatari46 un rigido self-restraint, utilizzando il c.d. margine di apprezzamento per consentire agli Stati di introdurre limiti ai diritti e alle libertà fondamentali al fine di raggiungere taluni obiettivi di interesse nazionale47. Non manca, tuttavia, chi considera la giurisprudenza convenzionale «as effective as those of any domestic court»48, tanto da paragonare la Corte di Strasburgo ad una Corte suprema di uno Stato federale, ritenendo che «the direct impact of international human rights law in Europe is not only comparable to that of domestic constitutional law in developed democracies, but greater than that of domestic law in nations where the rule of law has yet to take hold or is crippled by corruption»49. Alla luce di questa digressione si comprende come le modalità con cui i giudici nazionali scelgono di rapportarsi al giudice convenzionale si rivelino fondamentali tanto quanto le modalità di recepimento del dettato convenzionale e di adeguamento alla giurisprudenza di Strasburgo posti in essere dalle autorità nazionali, di cui si dirà nel paragrafo successivo. E, infatti, nonostante l’impegno a livello governativo, l’attitudine delle Corti turche nei confronti della giurisprudenza convenzionale è 46

Ci si riferisce, in particolare, alla possibilità che uno Stato possa essere giudicato anche per comportamenti tenuti da propri funzionari al di fuori del territorio nazionale. Sul punto si vedano le decisioni nei casi Loizidou c. Turchia, 18 dicembre 1996, n. 15318/89 – in cui, peraltro, la Corte sostenne il valore di «strumento costituzionale dell’ordine pubblico europeo» della Convenzione – e Cipro c. Turchia, 10 maggio 2001, n. 25781/94, nonché G. RESS, The Effect of Decision and Judgments of the European Court of Human Rights in the Domestic Legal Order, in Texas International Law Journal, 40, 2005, pp. 359-381. 47 Sul punto si vedano G. VAN DER MEERSH, Le caractère “autonome” des termes et le “marge d’appréciation” des gouvernement dans l’interprétation de la Convention européenne des Droits de l’Homme, in AA.VV., Protection des droits de l’homme. Mélanges Wiarda, Carl Heymanns Verlag, Köln, 1988, p. 201 ss.; O. BAKIRCIOGLU, The Application of the Margin of Appreciation Doctrine in Freedom of Expression and Public Morality, in German Law Journal, www. germanlawjournal.com, 1 luglio 2007; E. BENVENISTI, Margin of Appreciation. Consensus and Universal Standards, in New York University Journal of International Law and Politics, 31, 1998, pp. 843-854. 48 Cfr. L.R. HELFER, A.M. SLAUGHTER, Toward a Theory of Effective Supranational Adjudication, in Yale Law Journal, 107, 1997, pp. 273-391, spec. p. 296. 49 Così D. CASSEL, Does International Human Rights Law Make a Difference?, in Chicago Journal of International Law, 2, 2001, pp. 121-136, spec. p. 132.

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particolarmente controversa, non riscontrandosi una specifica propensione dei giudici turchi al richiamo e all’utilizzo della Convenzione e della giurisprudenza di Strasburgo. Prevale, piuttosto, un utilizzo della tecnica dell’interpretazione conforme al fine di ricavare dai principi internazionali i valori costituzionali concernenti i diritti. A ciò si accompagna una certa libertà interpretativa che conduce sovente a una interpretazione del testo convenzionale difforme da quanto affermato dalla Corte di Strasburgo. I riferimenti, infine, paiono avere natura più formale che sostanziale50 e, di 50

Anche in questo caso una breve panoramica sul comportamento degli altri giudici nazionali nei confronti delle interpretazioni della Corte europea è d’obbligo. È così che è possibile notate come il giudice francese mantenga uno esprit frondeur che accoglie l’interpretazione del giudice convenzionale ma la considera come una propria invenzione. In Belgio, invece, si nota una evoluzione da una iniziale reticenza nell’adottare l’interpretazione del giudice europeo a scapito di quella consolidatasi in ambito nazionale, in favore di una posizione che riconosce l’autorità morale della Corte di Strasburgo seguita ad una condanna. Simile valore, invece, viene riconosciuto tradizionalmente alla Corte europea dai giudici svizzeri così come accade nella Federazione russa, ove il Presidente della Corte costituzionale all’inaugurazione dell’anno giudiziario del 2005 conferma che la giurisprudenza europea non è mai stata accolta con criticità dalla Corte costituzionale da lui presieduta. Più cauto appare, invece, il comportamento dei giudici nazionali tedeschi e italiani, forse anche in ragione del rango attribuito alla Convenzione nel sistema delle fonti, che induce per lungo tempo le Corti nazionali ad ignorare la Convenzione e la sua interpretazione fornita dalla Corte di Strasburgo nelle proprie decisioni. Per alcuni riferimenti in dottrina, si vedano: M. VERDUSSEN, La Cour d’arbitrage belge et l’application de la Convention européenne des droits de l’homme, in Revue française de droit constitutionnel, 18, 1994, pp. 433438; C. GREWE, La question de l’effet direct de la Convention et les résistances nationales. La situation dans les autres pays, in P. TAVERNIER (a cura di), Quelle Europe pour les droits de l’homme? La Cour de Strasbourg et la réalisation d’une «Union plus étroite», Bruylant, Bruxelles, 1996, pp. 149-157; J.P. MARGUENAUD, Le juge judiciaire et l’interprétation européenne, in F. SUDRE (a cura di), L’interprétation de la Convention européenne des droits de l’homme, Bruylant, Bruxelles, 1998, pp. 231250; A. ALEN, M. MELCHIOR, Les relations entre les Courts constitutionnelles et les autre juridictions nationales, y compris l’interférence en cette matière, de l’action des juridictions européennes, Rapporto presentato al XII Congresso della Conferenza delle Corti costituzionali europee del 2002 (www.confconsteu.org); C. COURTOY, Les relations entre les Courts constitutionnelles et les autre juridictions nationales, y compris l’interférence en cette matière, de l’action des juridictions européennes. Rapport de la Court d’arbitrage du Royaume de Belgique, Rapporto presentato al XII

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fatto, i giudici turchi attribuiscono alla giurisprudenza della Corte EDU un ruolo ancillare, finalizzato a supportare la tesi interpretativa che trova la sua ragion d’essere in primo luogo nelle disposizioni costituzionali. A conferma della “libertà interpretativa” della Corte costituzionale si ricorda la giurisprudenza da essa elaborata nella vigenza della Costituzione del 1961. Nella sentenza E1963/207 K1963/175 del 7 novembre 1963, infatti, la Corte cita l’art. 2 della CEDU per affermare la compatibilità tra quest’ultima e la pena di morte, all’epoca ancora applicata in Turchia51. Chiamati a decidere sulla costituzionalità degli art. 141, c. 1, e 142, c. 1, del Codice penale del 1926 relativi alla libertà di espressione e di associazione ed avendo le parti evidenziato come tali disposizioni siano contrarie non solo alla Costituzione ma anche alla CEDU52, i giudici costituzionali richiamano invece l’art. 17 della Convenzione per dichiarare l’assenza di contraddizioni tra quest’ultima e il Codice penale turco53. Similmente, la Corte chiarisce che l’art. 91 del Codice penale militare è compatibile con la Costituzione e che sia quest’ultima sia la Dichiarazione universale dei Diritti umani e la CEDU non contengono specifiche disposizioni che possano essere considerate come contrastanti54. I medesimi riferimenti al diritto internazionale sono

Congresso della Conferenza delle Corti costituzionali europee del 2002 (www.confconsteu.org); O. JACOT-GUILLARMOD, La nouvelle Cour européenne des droits de l’homme dans la perspective du juge national, in C. ZANGHÌ, K. VAS (a cura di), La Convenzione europea dei diritti dell’uomo: 50 anni d’esperienza, gli attori e i protagonisti della Convenzione: il passato e l’avvenire, Giappichelli, Torino, 2002, pp. 283-326; A. DI MARTINO, Il Tribunale costituzionale tedesco delimita gli effetti nel diritto interno delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Rivista della cooperazione giuridica internazionale, 8, 2006, pp. 106-110. 51 Sul punto si veda M.S. GEMALMAZ, The Institutionalization Process of the “Turkish Type of Democracy”. A Politico-juridical Analysis of Human Rights, Amaç, Istanbul, 1989, p. 47 ss., spec. nota 137, in cui l’Autore evidenzia come questo riferimento sia decisamente contrastante con la natura stessa della CEDU, giacché «the logic of the foundation of human rights instruments necessitates to interpret them in the way to improve human rights». 52 Corte costituzionale E1963/173 K1965/40, 26 settembre 1965. 53 Tali articoli del Codice penale sono abrogati con la legge n. del 12 aprile 1991, rendendo così non più penalmente perseguibile la propaganda comunista o religiosa. 54 Corte costituzionale, E1977/19 K1977/82, 24 maggio 1977.

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utilizzati per ricavare una «definizione coerente di presunzione di innocenza», assente nel testo costituzionale55. In seguito all’entrata in vigore della Costituzione del 1982, l’attenzione della Corte pare leggermente modificata in favore di un utilizzo più puntuale e corretto, da un punto di vista interpretativo, della produzione giurisprudenziale di Strasburgo. La Corte costituzionale turca, infatti, utilizza la CEDU nella sentenza E1990/30 K1990/31 del 29 novembre 1990, relativa a una disposizione del Codice civile in cui il diritto di lavorare delle donne sposate è subordinato alla previa autorizzazione del marito. In questo caso, la Corte, tra le altre norme internazionali citate, fa riferimento sia alla CEDU che al Protocollo addizionale n. 7 per sostenere che la disposizione viola il principio di equità in esse sancito56. Più significativa, può ritenersi la sentenza E1992/8 K1992/39 del 16 giugno 1992 in cui la Corte, trovandosi a decidere della costituzionalità di una legge in seguito ad un caso di diritto di difesa dell’imputato colto in flagranza di reato, non solo si riferisce all’art. 6, c. 3, della CEDU, ma supporta la propria decisione citando le pronunce della Corte di Strasburgo Golder57, Silver58, Fell59 e Can60. 55

Corte costituzionale, E1979/36 K1980/11, 29 gennaio 1980. Da quanto sin qui detto pare tuttavia evidente come la Corte, pur affermando il ruolo fondamentale degli accordi internazionali con particolare riferimento alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e alla CEDU, utilizzi di fatto tali accordi allo scopo di rafforzare le proprie pronunce, che restano concretamente fondate sulle disposizioni costituzionali. A titolo di esempio, si ricorda la sentenza E1990/25 K1991/1, 10 gennaio 1991, in cui la Corte afferma il sostanziale parallelismo tra l’art. 15 Cost. e l’art. 15 CEDU, nonché la sentenza E1991/2 K1992/1, 10 luglio 1992, in cui si sostiene che le attività in base alle quali la Costituzione turca consente lo scioglimento di un partito sono contrarie anche alla CEDU, esplicitamente citando gli art. 11 e 17 della stessa. In merito alla sentenza K1990/30, inoltre, è opportuno ricordare come il riferimento effettuato dalla Corte all’art. 5 del Protocollo n. 7 della Convenzione sia particolarmente rilevante in quanto, al momento in cui esso avviene, la Turchia non ha ancora ratificato il Protocollo. 57 Golder c. Regno Unito, 21 febbraio 1975, n. 4451/70. 58 Silver et al c. Regno Unito, 25 marzo 1983, n. 5947/72. 59 Campbell e Fell c. Regno Unito, 28 giugno 1984, n. 7819/77 e 7878/77. 60 Can c. Austria, 30 settembre 1985, n. 9300/81. 56

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Procedendo in successione cronologica, si ricorda la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 441 del Codice penale61, in cui si afferma che un singolo atto sessuale con una donna differente dalla moglie non sia sufficiente per configurare un adulterio; nella sentenza, infatti, l’equiparazione dei diritti coniugali di entrambi gli sposi viene ribadita attraverso un esplicito riferimento al principio di uguaglianza contenuto nell’art. 14 della Convenzione. La Corte costituzionale, inoltre, si riferisce alla CEDU anche nei celebri casi dello scioglimento62 del Refah Partisi63 e del Partito democratico del Popolo64, sebbene la dottrina abbia evidenziato come questi riferimenti siano strettamente limitati all’elemento testuale della Convenzione e non tengano conto dell’evoluzione interpretativa avvenuta in via giurisprudenziale65. Questa sembra essere una più generale tendenza dei giudici costituzionali, nella cui giurisprudenza è possibile trovare crescenti riferimenti alla CEDU, ma uno scarso utilizzo delle decisioni della Corte EDU. Solo in anni recenti, con l’assegnazione, fra il 2005 e il 2007, alla

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Corte costituzionale, E1996/15 K1996/34, 23 settembre 1996. In realtà il primo caso di scioglimento di un partito in cui la Corte costituzionale fa riferimento alla CEDU è rinvenibile nelle sentenze n. 93/1 del 23 novembre 1993 e n. 94/2 del 16 giugno 1994, in cui i giudici costituzionali ritengono le attività del Özgürlük ve Demokrasi Partisi (Partito per la libertà e la democrazia – ÖZDEP) in conflitto con il dettato degli artt. 11, c. 2, e 17 della Convenzione e ne dispongono lo scioglimento in quanto necessario «in una società democratica». 63 Corte costituzionale, E1997/1 K1998/1, 14 febbraio 1997. Per un approfondimento sul punto si veda I. NICOTRA, Turchia: partito islamico e laicità dello Stato, in www.forumcostituzionale.it, in cui si ripercorrono le tappe nazionali del processo al Refah Partisi inquadrandole nel più generale contesto della laiklik. 64 Corte costituzionale, E1999/1 K2003/1, 13 marzo 2003. 65 Così Ş. ÖZSOY, Measuring Compatibility with the European Convention on Human Rights: the Turkish Example in the Free Speech Context, Galatasaray University Publications, Istanbul, 2006, p. 65. Al riguardo si ricorda, tuttavia, come già le dissenting opinion dei giudici Kılıç e Adalı nel caso Refah chiariscano la necessità di introdurre un ulteriore test di verifica per l’applicabilità dei limiti previsti dalla Costituzione ai diritti, il destek ölçü norm, al fine di utilizzare una interpretazione liberale dei diritti secondo lo standard europeo così come definitosi mediante l’interpretazione della Corte di Strasburgo. 62

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giudice Tuğcu della presidenza della Corte di Ankara66, si è in più occasioni ribadito il ruolo di autorità d’interpretazione attribuito alla Corte di Strasburgo, favorendo il riferimento alla giurisprudenza della stessa67. Sul punto è possibile ricordare la sentenza della Corte costituzionale E2002/112 K2003/33 del 10 aprile 2003, in cui, decidendo in materia di espropriazioni di fatto, si fa riferimento all’art. 1 del Protocollo aggiuntivo n. 1 nonché alle pronunce della Corte di Strasburgo Papamichalopoulos c. Grecia68, Carbonara e Ventura c. Italia69 e Belvedere Alberghiera s.r.l. c. Italia70. Ancora, nella sentenza E2001/5 K2002/42 del 28 marzo 2002 si ricollegano le garanzie processuali predisposte dall’art. 36 della Costituzione turca all’art. 6 CEDU e alla decisione della Corte di Strasburgo nel caso Golder c. Regno Unito del 1975. Riferimenti alla CEDU sono presenti anche nella giurisprudenza della Corte di Cassazione. Con riferimento statistico al plenum di questa Corte e all’utilizzo della giurisprudenza convenzionale, infatti, si possono rilevare 19 riferimenti alle pronunce della Corte di Strasburgo, nella

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In generale è possibile ricordare come la dottrina abbia elaborato differenti categorie per comprendere le modalità con cui i giudici tengono conto della CEDU. J. ROBERT, Rapport général à la 9eme conférence des Cours constitutionnelles européennes, in Atti della IX Conferenza Protection constitutionnelle et protection internationale des droits de l’homme – concurrence ou complémentarité, 2, 1995, pp. 806-811 suggerisce di distinguere tra impiego diretto e indiretto, suddividendo a sua volta questa categoria in impiego come riferimento per la verifica della costituzionalità di una legge – fattispecie in cui rientrerebbe il solo Conseil constitutionnel – ovvero come elemento ausiliario per l’interpretazione. M. VERDUSSEN, La Convention européenne des droits de l’homme et le juge constitutionnel, in J. VELU (a cura di), La mise en oeuvre de la Convention européenne des droits de l’homme, Bruylant, Bruxelles, 1994, pp. 17-62, invece, distingue tra utilizzo autonomo e ausiliario: nel primo caso la violazione contestata si fonda anche su una violazione della Convenzione; nel secondo essa assume solo un ruolo secondario nella valutazione della violazione costituzionale. 67 Il primo caso in cui la Corte costituzionale turca fa riferimento alla giurisprudenza convenzionale è la pronuncia E1999/33 K1999/51, 29 dicembre 1999. 68 Grande Chambre, Papamichalopoulos c. Grecia, 24 giugno 1993, n. 14556. 69 Carbonara e Ventura c. Italia, 30 maggio 2000, n. 24638. 70 Belvedere Alberghiera s.r.l. c. Italia, 30 maggio 2000, n. 31524.

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maggior parte dei casi relative all’interpretazione dell’art. 6 CEDU71 e presenti per lo più nelle dissenting opinion72. Rispetto alle singole Camere, è interessante considerare la giurisprudenza della VIII Camera la quale, al fine di sostenere che il comportamento tenuto da alcuni poliziotti nel corso di interrogatori che coinvolgono minori sia da equiparare alla tortura, cita esplicitamente l’art. 3 della CEDU73 affermando il legame tra quest’ultimo e l’art. 243 del Codice penale74. Similmente questa Camera fa riferimento all’art. 2 del Protocollo n. 1 per collegare la protesta di alcuni studenti nella lounge della Grande Assemblea Nazionale al diritto all’istruzione75. Benché si accolga positivamente l’utilizzo della Convenzione da parte della Corte di Cassazione, deve tuttavia evidenziarsi una discrasia tra il contenuto delle disposizioni convenzionali cui si fa riferimento e l’interpretazione della Corte turca; emerge, infatti, l’assenza di collegamento tra la protesta e il diritto all’istruzione. È questo un comportamento riscontrabile anche nella sentenza della IV Camera E1997/10310 K1997/11. Si tratta di un caso di bigamia in cui è necessario ricorrere a un traduttore poiché l’accusato non è a conoscenza del turco; i costi del servizio di traduzione sono quindi 71

Si vedano a titolo esemplificativo le sentenze della Corte di Cassazione E1995/6238 K1995/305, 24 ottobre 1995, E2001/8-248 K2001/288, 11 dicembre 2001 e E1992/5-56 K1992/107, 20 aprile 1992, rispettivamente contenenti riferimenti all’interpretazione della Corte di Strasburgo in materia di ragionevole durata dei processi, di udienze pubbliche e di diritto alla difesa. 72 Per un approfondimento su questi dati si rinvia a İ.Ö. KABOĞLU, S.I.G. KOUTNATZIS, The Reception Process in Greece and Turkey, in H. KELLER, A. STONE SWEET (a cura di), A Europe of Rights: The Impact of the ECHR on National Legal Systems, Oxford University Press, Oxford, 2008, cap. 8. 73 Nella sentenza sono altresì citati l’art. 5 della Dichiarazione dei diritti umani delle Nazioni Unite, il Preambolo della Convenzione europea per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti e l’art. 1 della Convenzione delle nazioni unite contro la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. 74 VIII Camera della Corte di Cassazione, E1998/10667 K1998/12819, 12 ottobre 1998. 75 In particolare, gli studenti in questione sono accusati di aver violato l’art. 28, c. 1, della legge n. 2911 sulle riunioni e le manifestazioni pubbliche per aver mostrato striscioni di protesta contro le tasse universitarie nelle aule dell’Assemblea legislativa. La Corte, collegando il loro comportamento al diritto all’istruzione, afferma che lo stesso non ricade all’interno delle fattispecie punite dalla legge n. 2911. Cfr. sent. E1998/26 K1998/4491, 27 marzo 1998.

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considerati come parte dei costi del processo. La Corte si dice contraria a questo addebito sulla base dell’art. 6, c. 3, lett. c), della CEDU relativo al supporto legale gratuito qualora l’accusato non abbia sufficienti mezzi. Ciò che resta da comprendere è perché la Corte non abbia fatto direttamente riferimento all’art. 6, c. 3, lett. e), CEDU in cui si prevede il diritto alla traduzione in caso di mancata conoscenza della lingua in cui avviene il processo. Più propriamente il riferimento all’art. 6, c. 3, lett. e), CEDU è utilizzato dal Gran Consiglio delle Camere Penali76, che considera la Convenzione come un «codice interno» per ritenere non applicabile al caso discusso l’art. 407 del Codice penale77. Deve tuttavia rilevarsi che la Corte mostra di seguire l’approccio lex posterior relativamente alla posizione della CEDU nell’ordinamento con la sentenza n. 169/233 dell’11 novembre 1997. In quell’occasione si afferma che l’art. 138 del Codice di procedura penale come emendato con la legge n. 3842, che prevede l’obbligatorietà del diritto al supporto legale, non sia applicabile alle Corti di Sicurezza Nazionale né possa invocarsi l’art. 6 della CEDU, giacché prevale il Codice di procedura penale entrato in vigore successivamente78. Il Consiglio di Stato, invece, utilizza in maniera costante la giurisprudenza convenzionale come parametro di giudizio supplementare, sebbene la maggior parte dei riferimenti si riscontri nei rapporti degli assistenti dei giudici e nelle dissenting opinion. Ciò potrebbe dipendere anche dalla più giovane età dei giudici redattori di tali atti che, nella maggior parte dei casi, appartengono alle nuove generazioni, educate al diritto internazionale e più sensibili al ruolo del sistema di Strasburgo nella definizione degli standard per il rispetto dei diritti fondamentali79. 76

Si tratta dell’organo che riunisce tutte le Camere penali della Corte di Cassazione. Gran Consiglio delle Camere Penali, Corte di Cassazione, 2/33, 12 marzo 1996. 78 Nello specifico si tratta di fornire il supporto legale e il servizio di traduzione per un cittadino libanese che non conosce il turco. 79 İ.Ö. KABOĞLU, S.I.G. KOUTNATZIS, op. cit. Gli Autori ricordano, infatti, come solo negli ultimi anni alcune università di Istanbul e Ankara istituiscano dei corsi obbligatori relativi ai diritti umani nelle facoltà di Scienze politiche e Giurisprudenza, rinvenendosi solo il caso della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Bahçeşhir che istituisce un corso opzionale relativo al funzionamento e all’applicazione del sistema di Strasburgo. 77

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Con riferimento alla giustizia amministrativa si ricorda anche la sentenza, pur successivamente cassata dal Consiglio di Stato, della V Corte amministrativa di Ankara, la quale, rivedendo una decisione fondata sull’art. 135 della legge n. 657 sui funzionari pubblici – cui l’articolo in questione vieta di ricorrere contro alcuni tipi di atti disciplinari – , dà diretta applicazione all’art. 6 della CEDU e, citando anche i casi Hàkansson e Sturesson c. Svezia80 e Zander c. Svezia81, afferma che la norma nazionale è in contrasto con suddetto articolo; sulla base di ciò consente quindi il ricorso ai funzionari pubblici contro qualunque tipo di provvedimento disciplinare82. Da ultimo, con riferimento alle Corti di primo grado, è possibile evidenziare un più frequente utilizzo della giurisprudenza convenzionale, soprattutto nelle ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale; anche in questo caso ciò dipenderebbe dalla giovane età dei giudici che prestano servizio in queste Corti e che hanno accumulato circa 130 citazioni nel solo periodo compreso tra il 2004 e il 200583. 4. L’esecuzione delle sentenze della Corte di Strasburgo Se il controllo interno e preventivo per evitare il configurarsi delle violazioni è essenzialmente una competenza delle Corti nazionali, nel dialogo tra il livello sovrastatale e quello nazionale rileva anche l’intervento dei Governi, cui compete una attività successiva alla pronuncia della Corte di Strasburgo finalizzata all’esecuzione delle sentenze. Ai sensi dell’art. 46 della Convenzione, infatti, le Parti 80

Hàkansson e Sturesson c. Svezia, 21 febbraio 1990, n. 11855/85. Zander c. Svezia, 25 novembre 1993, n. 14282/88. 82 Corte amministrativa regionale di Ankara, E2003/1796 K2004/1212, 29 giugno 2004. Come si diceva, la sentenza viene successivamente cassata, ma la Corte di Ankara mantiene il proprio approccio interpretativo anche in sentenze successive (cfr. E2006/935 K2006/951, 6 giugno 2006). Un approccio simile è rinvenibile anche nelle decisioni della Corte di Cassazione militare, che cita la giurisprudenza convenzionale specialmente nei casi collegabili all’art. 6 della Convenzione (cfr. E/K 2003/25-23, 13 marzo 2003). 83 I dati sono stati forniti dal dott. Eşki, funzionario presso la Direzione generale per gli affari europei del Ministero della Giustizia, nel corso di serie di interviste realizzata dall’Autrice del presente lavoro nel dicembre 2009. 81

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Contraenti sono tenute a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie delle quali sono parte e a rimediare alle violazioni della Convenzione utilizzando tutti gli strumenti necessari per porre fine alla violazione e/o per annullarne gli effetti. Ciò significa, in concreto, che gli Stati sono sottoposti a tre tipologie di obblighi. In primo luogo possono essere tenuti al pagamento, ex art. 50 CEDU, di un’equa riparazione, il cui versamento effettivo è monitorato dal Consiglio dei Ministri del Consiglio d’Europa e deve avvenire entro tre mesi dalla data in cui il giudizio della Corte è divenuto definitivo. In secondo luogo, può essere richiesta l’adozione di misure individuali qualora l’equa riparazione sia ritenuta insufficiente; tali misure tuttavia variano in base ai casi e hanno lo scopo di incentivare anche una riforma del sistema da parte dei legislatori nazionali. Da ultimo, sussiste un più generale obbligo degli Stati di prevenire il ripetersi della violazione84. Sugli Stati, dunque, incombe un obbligo di risultato85, sebbene si vada affermando una nuova teoria interpretativa che imporrebbe agli Stati “violatori seriali”, nel cui novero rientra anche la Turchia, di seguire le indicazioni fornite dalla Corte per eliminare quei problemi strutturali dell’ordinamento, causa del ripetersi costante di una violazione86. Al 84

Per un approfondimento circa l’attuazione delle decisioni della Corte da parte degli Stati membri si veda E. LAMBERT ABDELGAWAD, The Execution of Judgements of the European Court of Human Rights, Edizioni del Consiglio d’Europa, Strasburgo, 2002. 85 Per la distinzione tra obbligo di risultato e obbligo di mezzi, si veda B. CONFORTI, Obblighi di mezzi e obblighi di risultato nelle convenzioni di diritto uniforme, in Rivista di diritto internazionale privato e procedurale, 1988, p. 233 ss. 86 Al riguardo, la Corte EDU, nella sentenza Broniowski c. Polonia del 2004 ha affermato che lo Stato è tenuto a predisporre tutte le misure per riparare i c.d. “difetti sistemici” capaci di danneggiare gruppi o classi di persone che si trovano nelle stesse condizioni dei ricorrenti. Sulle valutazioni in dottrina circa questa posizione della Corte si veda P. MAHONEY, Thinking a Small Unthinkable: Repatriating Reparation from the ECtHR to the National Legal Order, in L. CAFLISH (a cura di), Human Rights. Strasbourg Views, N.P. Engel Publisher, Strasburgo, pp. 263-264, che evidenzia come il ruolo della Corte sia ormai divenuto quello di discutere le questioni relative ai diritti umani e di indirizzare le politiche in materia piuttosto che meramente definire l’ammontare degli indennizzi in caso di violazioni. Sul punto si vedano anche P. LEACH, Beyond the Big River. A New Dawn for Redress before the European Court of Human Rights?, in European Human Right\Law Review, 2, 2005, p. 161 ss. e J.A. FROWEIN, The

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riguardo la dottrina87 ha ricordato come questa interpretazione dell’art. 46 CEDU rappresenterebbe una svolta a “Convenzione invariata” del rapporto tra Corte e Comitato dei Ministri, che da una rigida divisione dei compiti pare evolversi verso una maggiore sinergia mirante a favorire l’esecuzione delle sentenze. Una conferma di tale nuovo trend si rinverrebbe anche nella scelta del Comitato dei Ministri di approvare la Risoluzione n. 2004-3 del 20 ottobre 2004, in cui, recependo le osservazioni presentate dalla Corte in occasione della sessione del Comitato del 7 novembre 2002, si invita la stessa ad evidenziare nelle proprie sentenze l’esistenza di problemi strutturali. Al fine di dare corretto seguito alle sentenze della Corte EDU, pertanto, il Governo turco progressivamente istituzionalizza un sistema di esecuzione che coinvolge più di un Ministero. Un ruolo centrale è attribuito al Dışişleri Bakanlığı (Ministero per gli Affari Esteri), che coordina le attività del Governo nella fase di difesa, fornisce il personale legale che si occupa di gestire il caso, comunica le decisioni della Corte alle strutture interne, predispone le necessarie misure per darvi attuazione, è responsabile della traduzione in turco di tutte le decisioni della Corte di Strasburgo, con l’obiettivo di favorirne la conoscibilità da parte degli operatori giuridici del paese. Ad esso si affiancano alcuni uffici dell’Adalet Bakanlığı (Ministero della Giustizia), dell’İçişleri Bakanlığı (Ministero degli Affari Interni) e dell’ufficio legislativo del Maliye Bakanlığı (Ministero delle Finanze). Tutte le strutture coinvolte sono inquadrate all’interno del Dipartimento delle relazioni internazionali di ciascun Ministero, quasi come ad indicare che l’esecuzione delle sentenze della Corte EDU si pone più come una questione legata alla vita internazionale del paese che non al suo ordinamento interno, nonostante sia proprio su quest’ultimo che esse spiegano i propri effetti. Volendo esaminare le varie fasi dell’attività che fa capo alla struttura così delineata, è possibile notare come, a seguito della notifica dell’ammissibilità di un ricorso da parte della Corte EDU alla Binding Force of ECHR Judgment and its Limits, in S. BREITNMOSER (a cura di), Human Rights, Democracy and the Rule of Law, Dike and Nomos Publishers, Baden Baden, 2007, p. 266 ss., in cui si evidenzia il ruolo fondamentale delle sentenze “pilota” della Corte relativamente alla soluzione dei problemi endemici degli ordinamenti. 87 A. GIARDINO CARLI, Stati e Corte europea di Strasburgo nel sistema di protezione dei diritti dell’uomo, cit., p. 33.

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Delegazione permanente della Repubblica di Turchia presso Strasburgo, le varie unità comincino a cooperare per la definizione della difesa del Governo e, in questa fase preliminare, valutino la possibilità di proporre al ricorrente una risoluzione amichevole. Successivamente a pronunce di condanna, invece, qualora esse prevedano il mero pagamento di un indennizzo, l’unità avvia la procedura per espletare il risarcimento; al contrario, nel caso in cui la Corte abbia disposto non solo il risarcimento ma anche un intervento legislativo, l’unità del Ministero degli Affari Esteri è incaricata di notificare la necessità di procedere alla redazione di un progetto di legge a tutti i Dipartimenti del Governo competenti al fine di avviare l’iter legis. È interessante sottolineare come la principale unità che collabora con il centro di coordinamento del Ministero degli Affari Esteri dipenda dal Ministero delle Finanze. Ciò sarebbe una conseguenza sia della frequenza con cui le decisioni di Strasburgo impongono alla Turchia il pagamento di indennizzi ai ricorrenti, sia dell’elevato livello di professionalità raggiunto dagli esperti che lavorano in questa unità, cui compete anche la gestione dei casi civili tra la pubblica amministrazione e i suoi funzionari che hanno materialmente commesso la violazione della CEDU88. Il Ministero della Giustizia, invece, si limita a fornire una sorta di supporto esterno relativo alla formazione dei giudici e dei pubblici ministeri in merito alla giurisprudenza di Strasburgo. I funzionari di questo Ministero, inoltre, partecipano, congiuntamente ai membri dei Ministeri delle Finanze e dell’Interno, all’Osservatorio sulle riforme, cui compete la formulazione di strategie di riforma per l’allineamento della Turchia all’acquis di Strasburgo e unionale soprattutto in materia di diritti umani. Quanto al 88

Si ricorda che la possibilità dell’amministrazione turca di rivalersi sui funzionari pubblici per le violazioni della Convenzione è introdotta mediante la riforma del Codice di procedura penale effettuata con la legge n. 5271 del 4 dicembre 2004, come strumento per responsabilizzare i funzionari pubblici al rispetto del dettato convenzionale. Si tratta comunque di una procedura che solo raramente conduce ad una condanna dei funzionari pubblici in ragione delle difficoltà nell’individuazione di uno specifico responsabile (cfr. D. KURBAN, O. ERÖZDEN, H. GÜLALP, Supranational Rights Litigation, Implementation and the Domestic Impact of Strasbourg Court Jurisprudence: a Case Study of Turkey, Juristras project of European Commission, pp. 12-13, www.juristras.eliamep.gr).

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Ministero dell’Interno, estendendosi capillarmente sul territorio, esso è coinvolto principalmente nella fase di diffusione dei documenti sui diritti umani e nella formazione del personale delle forze armate e di pubblica sicurezza del paese, nonché dei funzionari pubblici locali, mediante progetti che non di rado usufruiscono del supporto e del finanziamento del Consiglio d’Europa, dell’Unione europea e di alcuni Stati europei89. 5. Dalla Turchia alla Corte di Strasburgo e ritorno: tre casi di influenza diretta Il dialogo fra il sistema di Strasburgo e la Repubblica di Turchia in materia di tutela dei diritti è stato più volte richiamato. Occorre considerare, tuttavia, quei casi in cui la giurisprudenza convenzionale nei confronti della Turchia non ha solo comportato una evoluzione dell’ordinamento turco, ma ha anche consentito alla Corte europea dei diritti di proporre una nuova interpretazione della CEDU, capace di estendere la portata delle disposizioni e di adeguarle al contesto attuale. Un primo caso in cui la giurisprudenza contro la Turchia è all’origine di una profonda riflessione della Corte EDU riguarda il diritto alla vita, nocciolo duro dei diritti umani intangibile stricto sensu e tutelato all’art. 2 della Convenzione, con particolare riferimento alla possibilità che le Parti contraenti comminino la pena di morte. Tale possibilità, in effetti, è prevista nel testo convenzionale originario del 1950 (art. 2, c. 2), ma essa è stata progressivamente ritenuta non più compatibile con la CEDU: dapprima mediante l’entrata in vigore il 1° marzo 1985 del Protocollo aggiuntivo n. 6, che prevede la possibilità di comminarla solo in tempo di guerra (art. 2), e quindi con il Protocollo aggiuntivo n. 13, in vigore dal 1° luglio 2003, che la vieta in tutte le circostanze (art. 1). Un caso emblematico in cui la Turchia e la Corte si confrontano in materia può essere rinvenuto nell’affaire Öcalan90. Abdullah Öcalan, leader storico del PKK, viene arrestato in Kenya il 16 febbraio 1999 e 89

Sul punto sia consentito rinviare al mio contributo La Grande Assemblea Nazionale Turca e il dialogo con gli altri Parlamenti, in AA.VV., Quali “vie di comunicazione” del costituzionalismo contemporaneo?, Atti del Convegno tenutosi a Trento il 25-26 settembre 2009, in corso di pubblicazione. 90 Öcalan v. Turchia, 12 maggio 2005, n. 46221/99.

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condannato a morte dalla Corte di Sicurezza Nazionale di Ankara91 per aver «condotto attività miranti alla secessione di una parte del territorio della Turchia e aver fondato e diretto a questo scopo un gruppo terroristico armato». La sentenza del 2005 della Corte di Strasburgo, adita dallo stesso Öcalan, si concentra proprio sul ruolo delle Corti di Sicurezza Nazionale come giudice, nonché sulla scelta delle autorità turche di non procedere all’esecuzione della sentenza lasciando pendere indeterminatamente sul detenuto la possibilità di essere giustiziato, configurando così una violazione dell’art. 3 CEDU che vieta i trattamenti inumani e degradanti. Sul versante turco, questa sentenza si intreccia con il lungo percorso per l’abolizione della pena di morte92. All’indomani dell’approvazione della Costituzione del 1982, infatti, frequenti sono i riferimenti normativi che legittimano questa sanzione: 28 articoli del Codice penale; numerose disposizioni del Codice penale militare, approvato con la legge n. 1632 del 22 maggio 1930 e modificato dalla legge n. 4277 del 3 agosto 1942; la legge sulla prevenzione e la persecuzione del contrabbando n. 918 del 7 febbraio 1932; la legge sul tradimento n. 2 del 29 aprile 1920. Nella consapevolezza che tali disposizioni contrastano con i principi generali del diritto in materia di tutela del diritto alla vita e della dignità umana, e nonostante la dichiarazione di costituzionalità della pena di morte da parte della Corte costituzionale con la sentenza E1963/207, sin dal 1983 la Turchia di fatto evita di procedere all’esecuzione delle sentenze di morte, pur comminate dai giudici. Una evoluzione da un punto di vista normativo, tuttavia, si ha solo con l’approvazione della legge di revisione costituzionale n. 4709 del 3 ottobre 2001 che modifica l’art. 38 della Costituzione prevedendo il divieto di comminare la pena di morte, con l’eccezione dei crimini di guerra e dei reati commessi in situazione di imminente minaccia di guerra e di terrorismo. Di seguito gli articoli 1-A e 91

Corte di Sicurezza nazionale di Ankara, 1999/78, 29 giugno 1999. Cfr. M.S. GEMALMAZ, The Institutionalization Process of the “Turkish Type of Democracy”. A Politico-juridical Analysis of Human Rights, cit., p. 47, nonché Idem, Some Thoughts on the Additional Protocol n. 6 to the European Convention for Protecting of Human Rights and Fundamental Freedom concerning the Abolition of the Death Penalty, in Public and Private International Law Bulletin, 5, 2, 1985, pp.117-122. 92

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3 della legge n. 4771 del 3 agosto 2002 aboliscono la pena di morte in tempo di pace93. La legge di revisione costituzionale n. 5170 del 7 maggio 2004, in ottemperanza agli obblighi assunti con la firma del Protocollo aggiuntivo alla CEDU n. 13 relativo all’abolizione della pena di morte in tutte le circostanze (in vigore dal 1° luglio 2003), espunge quindi tutti i riferimenti alla pena capitale dagli artt. 15, 17 e 87 Cost. ed elimina il comma 10 dell’art. 38, congiuntamente ad una modifica del comma 9, ponendo così un generale divieto di comminare la pena di morte in tutte le circostanze94. Sul versante convenzionale, invece, la sentenza Öcalan rappresenta una premessa all’interessante pronuncia nel caso Al Saadoon95 del 2010, in cui i giudici di Strasburgo chiariscono che il divieto di comminare la pena capitale può intendersi come sancito già dall’art. 2, alla luce dell’entrata in vigore dei due menzionati protocolli, dell’abolizione, de iure o de facto, della pena in tutti gli Stati firmatari e di una consolidata giurisprudenza fra cui il caso Öcalan assume particolare rilievo. Il contenzioso riguardante la Turchia sul diritto alla vita si intreccia anche con le pronunce per violazione dell’art. 3 CEDU e fornisce lo spunto per una interpretazione evolutiva del divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti, considerato dalla Corte come «la marque d’une spéciale infamie des traitements inhumains délibérés provoquant de fort grave set cruelles souffrances»96. In primo luogo, nel caso Tekin c. Turchia97, la Corte ribadisce, sulla scia di quanto già affermato nell’affaire Ribitsch98, che «l’uso della forza fisica nei confronti di un individuo in stato di privazione della libertà non reso strettamente 93

Ciò significa che, anche a seguito dell’entrata in vigore della legge, la pena di morte può ancora essere comminata per i crimini commessi durante lo stato di guerra o in caso di immediato pericolo di guerra. 94 Per un approfondimento circa le motivazioni che inducono il governo dell’AKP a introdurre il divieto definitivo di pena di morte nell’ordinamento turco, si veda Y. ERSOY, Abolition of Death Penalty in Turkey, in Digesta turcica, 1, 2005, pp. 35-47, in cui si evidenziano anche le influenze del fattore religioso rispetto all’atteggiamento degli Stati nei confronti della previsione di tale pena. 95 Al-Saadoon e Mufdhi c. Regno Unito, 2 marzo 2010, n. 61498/08. 96 Così nelle pronunce Irlanda c. Regno Unito, 18 gennaio 1978, n. 5310/71; Grande Chambre, Selmouni c. France, 28 giugno 1999, n. 25803/94. 97 Tekin c. Turchia, 9 giugno 1998, n. 22496/93. 98 Ribitsch c. Austria, 4 dicembre 1995, n. 18896/91.

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necessario dai comportamenti dell’individuo stesso rappresenta una lesione della dignità umana e costituisce, in principio, una violazione del diritto garantito all’art. 3». Con la decisione della Grande Chambre sul caso Aydin99, la nozione stessa di tortura viene estesa, al punto da ritenere che «l’insieme degli atti di violenza fisica e mentale commessi contro la persona del ricorrente100 e quelli di violenza, che rivestono un carattere particolarmente crudele, sono costitutivi delle fattispecie di tortura vietati dall’art. 3». Interessante è anche la pronuncia nel caso Öneryildiz c. Turchia101, originato da una esplosione di gas metano in una discarica municipale situata in prossimità di una bidonville che ha provocato la morte di alcuni individui e danneggiato le abitazioni vicine. Qui l’interpretazione estensiva del diritto alla vita consente di desumere una implicita tutela ex art. 2 CEDU del diritto a un ambiente sano. Ritenendo che si possa parlare di violazione del diritto alla vita anche in caso di inerzia delle autorità pubbliche dinanzi a rischi di natura industriale, la Corte ricorda l’obbligo degli Stati firmatari della Convenzione di adottare tutte le misure necessarie a tutelare la vita degli individui sottoposti alla propria giurisdizione, soprattutto nei casi in cui sussistano dei rischi evidenti dovuti alla prossimità con attività industriali, quali i siti di stoccaggio dei rifiuti. La Turchia è quindi condannata in ragione dell’inerzia delle autorità che hanno ignorato la situazione degli individui che vivevano in prossimità della discarica. È questo un esempio di come la Corte, partendo da una disposizione costituzionale nazionale, ossia l’art. 56 della Costituzione turca relativo al diritto a un ambiente sano ed equilibrato, estenda, in via interpretativa, il contenuto della Convenzione.

99

Aydin c. Turchia, 25 settembre 1997, n. 23178/94. Si ricorda che, nel caso in oggetto, il ricorrente è un minorenne di origine curda che denuncia di aver subito atti di tortura mentre è sottoposto a fermo di polizia. 101 Grande Chambre, Öneryildiz c. Turchia, 30 novembre 2004, n. 48939/99. 100

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6. La strategic litigation e l’influenza degli attori esterni I numerosi ricorsi presentati contro la Turchia dinanzi alla Corte di Strasburgo, cui in questa sede si è diffusamente fatto riferimento, consentono di interrogarsi sulla possibilità che, dietro ai ricorsi individuali, si celi una precisa strategia di alcuni gruppi sociali finalizzata a far emergere le lacune dell’ordinamento. Tali ricorsi, infatti, oltre ad esprimere chiaramente il dissenso dei ricorrenti per le disposizioni discriminatorie lungamente vigenti nell’ordinamento turco e a rendere manifeste la difficoltà di ottenere giustizia a livello nazionale, sembrano, quantomeno in alcuni casi, finalizzati a orientare i decisori politici turchi attirandone l’attenzione su precise criticità. Volendo seguire una scansione che tenga conto, da un lato, del dato cronologico e, dall’altro, dell’alto numero dei ricorsi presentati, si evidenzia come ad usufruire per prima del meccanismo del ricorso individuale presso al Corte europea dei diritti umani sia la popolazione di etnia curda. Di fatto, pur essendo il ricorso individuale alla Corte possibile sin dal 1987, i curdi cominciano ad adirla solo a partire dal 1992, in seguito alla visita, organizzata dal Kurdish Human Rights Project (KHRP), del prof. Kevin Boyle102 a Diyarbakır, nel corso della quale il meccanismo del ricorso individuale è esposto agli avvocati della regione103. Il ricorso alla Corte sembra quindi un utile strumento per far valere i diritti fondamentali nel periodo in cui la vigenza dello stato di emergenza nell’Anatolia sudorientale sottrae alla giurisdizione delle Corti del paese le forze armate impegnate nel contrasto alle attività del PKK104. Il ricorso alla Corte di Strasburgo da parte della popolazione curda può dirsi “strategico” non in quanto mirato a dimostrare l’esistenza delle violazioni e ad ottenerne un risarcimento, ma piuttosto poiché il numero elevato di casi presentati dinanzi alla Corte e di condanne nei confronti 102

Kevin Boyle (23 maggio 1943 - 25 dicembre 2010) è stato un avvocato fortemente impegnato, a livello internazionale, nelle campagne per i diritti umani. Nel 1998 è stato insignito del titolo Liberty’s Lawyer of the Year per la sua attività di promozione dei diritti a supporto dei ricorrenti dinanzi alla Corte di Strasburgo. 103 Cfr. D. KURBAN, O. ERÖZDEN, H. GÜLALP, op. cit., p. 4 (http://www.juristras.eliamep.gr). 104 L’insufficienza e l’inefficienza delle vie di ricorso interne sono accertate dalla stessa Corte EDU nel già menzionato caso Akdivar.

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della Turchia hanno «impedito alla Turchia di continuare ad affermare in seno al Consiglio d’Europa che non vi fosse un problema di diritti umani»105 nel paese. Solo in anni più recenti, e grazie anche al supporto della Toplumsal ve Hukuk Araştırmaları Vafkı (Fondazione di studi sociali e giuridici – TOHAV) di Istanbul, la comunità curda avvia una strategia di ricorso alle Corti nazionali, e conseguentemente alla Corte di Strasburgo, che si prefigge una più definita volontà di orientare le scelte politiche e legislative. Deve tuttavia evidenziarsi come, in seguito alla decisione di inammissibilità del ricorso nel caso İçyer106, la fiducia della comunità curda nei confronti della Corte europea pare essersi ridotta drasticamente107, nella convinzione che la Corte di Strasburgo «non sia più interessata a condurre missioni per il reperimento dei fatti, rediga opinioni di scarsa qualità, concluda le proprie valutazioni in lassi di tempo proibitivamente lunghi, abbia adottato una politica che forza le parti a una composizione amichevole della controversia, decida dell’inammissibilità dei ricorsi senza fornire spiegazioni soddisfacenti ai ricorrenti, adotti decisioni “pilota” al fine di ridurre il proprio carico di lavoro, abbia ridotto il target di compensazioni previste in seguito alle decisioni di condanna, applichi rigidamente le disposizioni sul previo esperimento dei ricorsi interni senza considerare le eccezioni che essa stessa valutò nel

105

Cfr. l’intervista a F. HAMPSON del 9 marzo 2008 cit. in D. KURBAN, O. ERÖZDEN, H. GÜLALP, op. cit., (http://www.juristras.eliamep.gr). 106 Ricorso n. 18888/02. Il caso riguarda un cittadino curdo che ricorre alla Corte sostenendo di essere stato forzatamente allontanato dal proprio villaggio dalle forze di polizia che ne avrebbero poi incendiato l’abitazione. Per contro, il Governo turco sostiene che l’allontanamento dal villaggio sia stata una scelta del ricorrente per allontanare la propria famiglia dalle attività terroristiche condotte dal PKK e non una imposizione della polizia e che i danni alle proprietà non siano stati arrecati da queste ultime ma dai terroristi. La Corte, ritenendo non sostenuto da prove sufficientemente valide, rigetta il ricorso. 107 Per una approfondita riflessione circa le conseguenze di questa decisione sulla comunità curda di Turchia si veda l’intervento sul quotidiano Gündem di H. KAPLAN, dal titolo Pis Kokular, apparso il 5 ottobre 2006.

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caso Akdivar e non è più tollerante rispetto agli errori procedurali compiuti dagli avvocati per inesperienza»108. Differente è l’esperienza della comunità islamica. Dapprima, infatti, i ricorsi avanzati alla Corte di Strasburgo riguardano principalmente le misure adottate nei confronti degli studenti che rifiutano di sottostare alle norme che vietano l’utilizzo di simboli religiosi all’interno delle strutture universitarie, e in particolar modo il velo islamico, nonché le espulsioni di alcuni individui dalle forze armate per aver preso parte ad attività religiose. I ricorsi avanzati in materia a partire dai primi anni ’90 tuttavia sono ritenuti inammissibili dalla Corte109 e la svolta si ha solo con il menzionato caso Şahin. Pur avendo avanzato il proprio ricorso senza il sostegno di una rappresentanza legale, a seguito della dichiarazione di ammissibilità del ricorso, la Şahin è assistita dagli esperti legali che la leadership del Refah Partisi le mette a disposizione. Si avvia così un nuovo trend nei ricorsi di questa comunità in cui i partiti di ispirazione islamica – segnatamente, il Refah Partisi e il suo successore Fazilet Partisi – organizzano dapprima i ricorsi da presentare dinanzi alla Corte e successivamente forniscono ai ricorrenti il necessario supporto legale. Come già per la comunità curda, tuttavia, anche in questo caso la fiducia nei confronti della Corte di Strasburgo è progressivamente scemata in ragione dei numerosi casi in cui i giudici convenzionali non hanno sostenuto le posizioni della comunità islamica. Già la decisione nel caso Şahin, del resto, è oggetto di commenti e critiche da parte della dottrina turca ed estera110: vi è, infatti, chi sostiene che la sentenza, giunta

108

È questa l’opinione sulla Corte europea dei diritti umani espressa da Yaşar Aydın e Ruhşen Doğan del TOHAV nel corso di un’intervista rilasciata il 15 ottobre 2007, cit. in D. KURBAN, O. ERÖZDEN, H. GÜLALP, op. cit., p. 45 (http://www.juristras.eliamep.gr/). 109 Ci si riferisce, a titolo esemplificativo, ai casi Yanaşık, Bulut e Karaduman del 1993, rispettivamente riguardanti un cadetto espulso dall’accademia militare per aver preso parte ad attività religiose e due studentesse private del diploma di laurea per aver inviato delle fotografie in cui il proprio volto è coperto dal türban. 110 Si vedano, inter alia, D.C. DECKER, M. LLOYDD, Leyla Şahin v. Turkey, in European Human Rights Law Review, 6, 2004, pp. 672-678; A. AMICARELLI, L’interdizione del velo islamico in Turchia, in I diritti dell’uomo, 2006, 3, pp. 52-56; V. CUCCIA, La manifestazione delle convinzioni religiose nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in La Comunità internazionale, 2006, 3, pp. 565-580; E.

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poco dopo la decisione della Francia di vietare l’utilizzo del velo nelle scuole primarie e secondarie111, sia fortemente orientata dal pregiudizio occidentale nei confronti dell’Islam112 e che la decisione sarebbe stata differente se «il caso avesse riguardato la Francia o il Regno Unito invece che la Turchia»113. A fronte di questa sfiducia nei confronti del sistema convenzionale da parte dei ricorrenti “tradizionali” può riscontrarsi la progressiva affermazione di “strategie” riconducibili alle comunità religiose non musulmane, quali armeni e ortodossi114. I ricorsi della comunità armena, paiono frutto della strategia predisposta dall’avvocato turco di etnia armena, Diran Bakar115, che nel 1999 redige il ricorso contro BRANDOLINO, La Corte europea dei diritti dell’uomo e l’annosa questione del velo islamico, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 1, 2006, pp. 97-113. 111 Ci si riferisce alla Loi sur les signes religieux dans les écoles publiques n. 2004228 del 15 marzo 2004, con cui si introduce nel Codice dell’istruzione l’art. 141-5-1, che fa esplicito divieto di indossare simboli o abiti che «manifestent ostensiblement une appartenance religieuse». 112 È questa l’opinione espressa dal prof. Kemal Başlar nel corso di una intervista realizzata dall’Autrice della presente ricerca il 2 dicembre 2009, presso la Polis Akademisi Başkanlığı di Ankara. 113 Così si esprime Kazım Berzeg, che rappresenta la ricorrente Leyla Şahin dinanzi alla Corte europea per i diritti umani, il quale sostiene anche che la scelta della Corte è fortemente orientata dal giudice turco all’epoca membro della Corte, Riza Türkmen, e dai funzionari turchi di Strasburgo che, formati presso l’Università francofona di Galatasaray, hanno acquisito una visione del mondo improntata al secolarismo di modello francese. A ciò si aggiungerebbe, nell’opinione di Berzeg, la capacità di questa lobby secolare di relazionarsi meglio con i decisori europei anche in ragione della conoscenza di lingue straniere e della mentalità europea, contrariamente ai rappresentanti della comunità islamica, perlopiù espressione dei piccoli centri urbani della Turchia e privi delle risorse linguistiche e delle reti di conoscenze personali di cui invece i primi avrebbero usufruito (cfr. D. KURBAN, O. ERÖZDEN, H. GÜLALP, op. cit., www.juristras.eliamep.gr, pp. 46-47). 114 Al riguardo si veda D. KURBAN, Strasbourg Court Jurisprudence and Human rights in Turkey: an Overview of Litigation, Implementation and Domestic Reform, Juristras project of European Commission, p. 20, www.juristras.eliamep.gr. 115 Diran Bakar, deceduto il 30 marzo 2009, è stato un avvocato e attivista per la tutela dei diritti umani in Turchia. La sua eredità è stata raccolta da una fondazione a lui intitolata che collabora attivamente con la Fondazione Dink per la tutela dei diritti della comunità armena in Turchia.

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l’espropriazione della Fondazione ospedaliera Yedikule116. Va tuttavia ricordato che solo il 26 giugno 2007 la Corte EDU riconosce la violazione del diritto di proprietà della Fondazione inducendo il Governo a restituire i beni espropriati. L’obiettivo della restitutio in integrum pare raggiunto, ma non quello di dimostrare la contrarietà alla CEDU della sentenza del 1974 della Consiglio di Stato, con cui si è sostenuta la legittimità delle espropriazioni governative ai danni delle fondazioni non musulmane. È la comunità greco-ortodossa, invece, a riportare un più rilevante risultato “strategico”. I rappresentanti della Fondazione per la scuola superiore greca di Fener, infatti, rifiutano la composizione amichevole della controversia proposta dal Governo e scelgono di attendere la pronuncia della Corte di Strasburgo al fine di ottenere una definitiva condanna delle disposizioni normative e delle pronunce giurisdizionali che consentono tali espropri117. Si evidenzia così come, nel caso della Turchia, non si possa individuare un unico meccanismo di strategic litigation ma sussistano piuttosto differenti scelte “strategiche” dei gruppi che si configurano come potenziali ricorrenti nel tentativo di ottenere un riconoscimento delle violazioni da parte dei giudici di Strasburgo. Nella definizione di queste strategie un ruolo rilevante è stato svolto dalle ONG che, a fronte della scarsa esperienza degli avvocati turchi in materia di ricorso individuale alla Corte di Strasburgo e consapevoli della loro capacità di mobilitare l’attenzione dei ricorrenti sulle possibilità di risarcimento derivanti dal ricorso alla Corte, hanno reso disponibile il proprio knowhow, acquisito anche grazie ai network internazionali di associazioni per la tutela dei diritti umani di cui sono parte118. Rilevante, infine, potrebbe essere anche il processo di adesione all’Unione Europea, che sembrerebbe non solo aver contribuito ad avviare un intenso dibattito sulla 116

Yedikule Surp Pırgış Ermeni Hastanesi Vafkı c. Turchia, 26 giugno 2006, n. 50147/99 e n. 51207/99, e 4 dicembre 2007, n. 31441/02 117 Cfr. Fener Rum Lisesi Vafkı c. Turchia, cit. . Sul punto si ricorda anche che in rappresentanza della fondazione vi era Gülten Alkan, una avvocato turca e musulmana che afferma di aver scelto di rappresentare la fondazione per il desiderio di favorire l’effettiva affermazione dello stato di diritto nel proprio paese (cfr. intervista a Gülten Alkan nel corso del documentario residual citizens realizzato dalla TESEV nell’aprile 2008). 118 Cfr. D. KURBAN, O. ERÖZDEN, H. GÜLALP, op. cit., p. 9.

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democraticità dell’ordinamento e a far emergere le istanze di gruppi sociali tradizionalmente silenti ma anche aver aumentato la disponibilità degli avvocati a occuparsi di diritti umani, sia per il desiderio di collaborare alla transizione del paese, sia per la riduzione del timore di ritorsioni da parte delle istituzioni in ragione dell’accresciuta consapevolezza del monitoraggio internazionale a cui le stesse sono sottoposte.

Capitolo IV Il lungo e controverso percorso di adesione all’Unione europea 1. Le ragioni di un negoziato open-ended1 1959-2014: il negoziato di adesione della Turchia all’UE si rivela quasi coetaneo all’integrazione europea e, tuttavia, non se ne vede ancora la fine; al contrario, le possibilità che la Turchia divenga parte dell’Unione europea sembrano ridursi sempre più alla luce sia della permanente ostilità di alcuni Stati membri, sia della crescente diffusione di una visione critica verso l’UE fra la popolazione turca2. All’origine del dissenso verso l’adesione della Turchia, che interessa soprattutto Francia, Germania, Austria, Grecia e Cipro, si pongono ragioni storiche, religiose, istituzionali. Quanto alle prime, si vorrebbe sostenere l’alterità storica della Turchia, ignorando quel percorso, in questo volume già richiamato, che vede dapprima l’Impero ottomano e poi la Repubblica di Turchia partecipare al complesso gioco di alleanze e conflitti, sia militari che commerciali, che per lunghi secoli interessa il cuore stesso dell’Europa. Ancor più dopo la fine della seconda guerra mondiale, la Turchia ha aderito consapevolmente, e anche attivamente, al processo di costruzione dei valori europei, intrecciando peculiarità nazionali e adesione valoriale al sistema culturale, giuridico ed economico europeo. Quanto alle differenze religiose, anche senza considerare le teorie di una civiltà islamico-cristiana3, basti ricordare che la presenza di musulmani in Europa è già numerosa e che l’ingresso dei cittadini turchi, se certamente ne aumenterebbe le percentuali sulla popolazione europea, 1

È questa la definizione utilizzata in Commissione europea, Negotiating Framework, 3 ottobre 2005, reperibile al sito http://ec.europa.eu. 2 Per un approfondimento sulle posizioni della popolazione turca nei confronti della possibile adesione all’UE, si rinvia a A. KAYA, R. MARCHETTI, Europeanization, Framing Competition and Civil Society in the EU and Turkey, in Global Turkey in Europe, working paper n. 6, 2014, spec. pp. 7-11. 3 Cfr. R. BUILLET, La civiltà islamico-cristiana. Una proposta, Laterza, Roma-Bari, 2005.

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non modificherebbe l’attitudine verso la religione che gli Stati europei hanno consolidato. Piuttosto sarebbero da indagare le ragioni che spingono la principale organizzazione sovrastatale europea a cercare per sé una connotazione religiosa da cui tutti i suoi componenti rifuggono: sebbene alcuni Stati membri richiamino Dio e i valori cristiani nei propri testi costituzionali, infatti, nessuno di essi ha scelto di connotarsi come uno Stato cristiano4. Più fondata, da ultimo, pare l’obiezione all’adesione che chiama in causa la dicotomia, ormai affermatasi in ambito unionale, tra approfondimento e allargamento e che mette in dubbio la capacità dell’Unione di “assorbire” la Turchia senza che ciò comporti una alterazione del processo di integrazione. Il timore è che l’ingresso della Turchia, con i suoi quasi 80 milioni di abitanti5, “pesi” troppo sul funzionamento delle istituzioni europee, giacché l’elevata numerosità demografica le assegnerebbe il maggior numero di rappresentanti nell’ambito del Parlamento europeo e la sua struttura economica le consentirebbe di ottenere la maggior parte dei fondi strutturali e dei fondi destinati alla PAC6. Non manca però chi ricorda che la forte presenza turca nelle istituzioni non sarebbe comunque tale da alterare il processo di formazione delle maggioranze e che l’impatto economico dell’ingresso della Turchia sulla gestione dei fondi non sarebbe differente da quello seguito all’allargamento del 20047. Le perplessità da parte della Turchia, invece, originano prevalentemente dalla frustrazione di una aspirazione europeista di lunga data8, che è parte integrante del programma presentato agli elettori nelle 4

Sulla complessa questione dell’identità religiosa europea, si rinvia a N. COLAIANNI, Diritto pubblico delle religioni. Eguaglianza e differenze nello Stato costituzionale, il Mulino, Bologna, 2012, spec. pp. 74-75. 5 Secondo l’agenzia statistica turca Turkstat, al 2013 la popolazione turca ammonta a 76.667.864 abitanti (www.turkstat.gov.tr). 6 Cfr. D. FRACCHIOLLA, La democrazia in Turchia tra oriente mussulmano e occidente europeo, Rubbettino, Soveria Manelli, 2012, p. 14. 7 Cfr. F. ALESKEROV, G. AVCI, V. IAKOUBA, Z. UMUT TÜREM, European Union Enlargement: Power Distribution Implications of the New Institutional Arrangements, in European Journal of Political Research, 41, 2002, pp. 379-394; R. BALDWIN, M. WIDGREEN, The Impact of Turkey’s Membership on EU Voting, CEPS Policy Brief, 62. 8 Secondo il report dell’Eurobarometro Public Opinion in the European Union, nel 2013, il 38% dell’opinione pubblica turca sarebbe favorevole all’adesione, a fronte di un

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prime tornate elettorali dal partito di governo AKP, cui segue la volontà di cercare nuovi spazi di politica estera per il paese. Spazi che si rinvengono nei paesi confinanti, nella cooperazione del Mar Nero (BSEC), nell’estensione della sfera di influenza sui paesi in transizione dell’Asia centrale e, a seguito della c.d. primavera araba, dell’Africa settentrionale. Tanto l’UE, e i suoi singoli Stati membri, quanto la Turchia hanno così finito per strumentalizzare politicamente un negoziato che mostra sin dal suo avvio peculiarità uniche. Che si tratti di una situazione “eccezionale”, del resto è evidente già se si considera il Negotiating Framework messo a punto dalla Commissione europea nel 2005, che, oltre a prevedere la possibilità di introdurre in fase negoziale delle clausole permanenti di salvaguardia in settori come la libertà di movimento delle persone, i fondi strutturali o la PAC, sottolinea come i negoziati siano «un processo aperto il cui risultato non può essere garantito in anticipo»9. Per comprendere le diverse fasi del rapporto fra l’Unione europea e la Turchia e indagare sulla circolazione dei modelli giuridici che tale rapporto comporta si propone una analisi che tiene conto della scansione storica degli eventi e che accantona le valutazioni politiche per concentrarsi sui documenti relativi alla Turchia progressivamente approvati dalle istituzioni europee. 1.1 1959-1963: la richiesta di adesione e l’accordo di Ankara Le autorità turche avanzano richiesta di adesione alla Comunità economica europea già il 31 luglio 1959, soli 19 mesi dopo l’entrata in

31% di contrari e di un 21% di indecisi. Il dato pare particolarmente significativo, se si considerano i risultati del 2012, in cui il 48% della popolazione si era detto contrario all’adesione. 9 Commissione europea, Negotiating Framework, 3 ottobre 2005, cit.

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vigore del Trattato di Roma e 2 mesi dopo la richiesta di adesione della Grecia10. I negoziati con la Turchia, dunque, cominciano il 28 settembre 1959, interrotti ben presto dal colpo di Stato del 27 maggio 1960. All’origine di questa scelta, con un significativo monito anche per le fasi future dei rapporti fra la Turchia e l’Unione, vi è la sospensione delle dinamiche democratiche e delle garanzie dei diritti che seguono il golpe militare. In risposta alle impiccagioni del Primo Ministro Menderes, del Ministro per gli Affari esteri Zorlu e del Ministro dell’Interno Polatkan, infatti, il Presidente della Repubblica francese Charles De Gaulle chiede ufficialmente di fermare i negoziati. Il 27 settembre 1961 si decide quindi che i negoziati con la Turchia sarebbero ripresi solo in seguito al ripristino della democrazia nel paese. Le relazioni diplomatiche riprendono due anni dopo (24 luglio 1962) e il 12 settembre 1963 le parti siglano ad Ankara l’Accordo di Associazione tra la Comunità economica europea e la Turchia, entrato in vigore il 1° dicembre dell’anno successivo11. L’Accordo, pur avendo come funzione primaria l’istituzione di una unione doganale, preconizza una più stringente collaborazione tra le parti interessando molteplici sfere di cooperazione e ponendosi come primo passo verso la membership turca nell’Unione. Sin dal Preambolo si evidenzia da parte della Comunità la 10

Senza voler qui rivangare i rapporti tradizionalmente tesi tra i due Stati, non può non ricordarsi come il c.d. “fattore Grecia” giochi un ruolo fondamentale nella definizione della politica estera turca. Al riguardo, S.R. KARLUK, Aurupa Birliği ve Türkiye (L’Unione europea e la Turchia), Beta, Istanbul, 2002, p. 465, ricorda le parole del Ministro degli Affari esteri all’epoca della presentazione della domanda di adesione alla Comunità, Fatin Rüştü Zorlu: «La Grecia sta saltando in una piscina, è essenziale che la seguiamo, anche se la piscina è vuota». 11 In merito a questo atto è possibile ricordare il suo valore di accordo di associazione tra gli Stati membri della Comunità e la Turchia ai sensi dell’art. 238 del Trattato CEE. Si tratta, dunque, di un trattato internazionale sui generis che, nella logica del diritto della Comunità, rappresenta più di un mero trattato di natura commerciale ma meno di un trattato di adesione, non potendone derivare diritti e obblighi direttamente vincolanti per i cittadini e le imprese delle parti contraenti. Circa l’Accordo di Ankara cfr. D. LASOC, The Ankara Agreement: Principles and Interpretation, in Avrupa Araştırmaları Dergisi, 1-2, 1991, pp. 27-47, spec. pp. 36-37 e A. LAREDO TOLEDANO, La dynamique des rapports entre l’Union européenne et la République de Turquie, in Consiglio d’Europa, Constitutional Implication of the Accession to the European Union, Edizioni del Consiglio d’Europa, Strasburgo, 2002, pp. 53-60.

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volontà di sostenere il percorso di adesione della Turchia anche accordandole un supporto economico finalizzato a migliorare le condizioni di vita nel paese nella comune volontà delle parti di «rafforzare la salvaguardia della pace e della libertà perseguendo in comune l’ideale che ha ispirato il Trattato». In questa fase, dunque, pare rinvenirsi un riconoscimento della Turchia nel novero degli Stati europei. Un riconoscimento che si ribadisce all’art. 2, c.1, dell’Accordo, visto che lo scopo dello stesso è «promuovere il rafforzamento continuo ed equilibrato delle relazioni economiche e commerciali tra le Parti, tenendo pienamente conto della necessità di assicurare un rapido sviluppo dell’economia turca ed il miglioramento del livello dell’occupazione e del tenore di vita della popolazione turca»12. La lettura di questo articolo, congiuntamente agli artt. 3 e 4, lascia comprendere come l’Accordo di Ankara sia il più estensivo nel suo campo, oltre a porsi come tappa intermedia verso l’adesione13. Pur essendo un accordo con finalità prevalentemente commerciali, è interessante notare come già in questa fase la possibilità di una futura adesione della Turchia alla Comunità economica europea sia condizionata, ai sensi dell’art. 28 dell’Accordo, dalla sua capacità di rispettare le responsabilità derivanti dal Trattato comunitario 14. Nel rispetto del summenzionato articolo e ritenendo di poter soddisfare i presupposti per l’adesione, nel maggio 1967, la Turchia presenta la propria candidatura, il cui esame comincia il 1° gennaio 1970. L’unico risultato, che si pone in linea con quanto disposto dall’art. 1 del Protocollo n. 1 dell’Accordo di Ankara, è la firma, il 23 novembre 1970, 12

Per il testo dell’Accordo si rinvia a http://eur-lex.europa.eu. L’Accordo è anche oggetto di una pronuncia della Corte di Giustizia delle Comunità europee in un caso che oppone la cittadina turca Meryem Demirel alla città di Schwäbish Gmünd (30 settembre 1987, C 12/86). Rileva soprattutto un obiter dictum in cui la Corte precisa che l’accordo di associazione «crea dei legami particolari e privilegiati tra la Comunità e lo Stato terzo che deve, seppur parzialmente, partecipare al sistema comunitario». 14 Si ritiene opportuno ricordare che, ai sensi dell’art. 26 dell’Accordo, lo stesso non si applica alla Comunità europea del Carbone e dell’Acciaio. 13

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di un Protocollo addizionale in cui si prevede l’istituzione di un’unione doganale tra la Comunità e la Turchia entro il 31 dicembre 1995. 1.2 1974-1996: dalla crisi di Cipro all’unione doganale Gli anni che seguono sono particolarmente burrascosi. Le relazioni tra le due parti sono interrotte dalla crisi istituzionale del 1971, che comporta la caduta del governo Demirel e serie restrizioni alla tutela dei diritti prevista dalla Costituzione del 1961, dallo shock petrolifero del 1973, dalla scelta della Turchia di intervenire a Cipro nel 1974 e dalla presentazione della candidatura per l’adesione della Grecia nel 1975. Nell’ottobre 1978, inoltre, la Turchia, invocando l’art. 60 del Protocollo addizionale all’Accordo di Ankara e in ragione delle difficoltà economiche che il paese attraversa in quel periodo, chiede un congelamento di 5 anni dell’Accordo stesso. Il colpo di Stato del 1980, infine, comporta un importante “raffreddamento” delle relazioni diplomatiche15. Contrariamente alle aspettative dei politici turchi, i negoziati non sono riaperti in seguito alle elezioni del 1983. Nel maggio 1984, infatti, il Parlamento europeo approva una Risoluzione16 in cui si evidenzia la scarsa rilevanza sia delle elezioni che dell’approvazione della Costituzione del 1982 per il rispetto della democrazia in Turchia. Una posizione successivamente ribadita anche in occasione del c.d. Rapporto Balfe17, adottato il 23 ottobre dal Parlamento europeo; il testo evidenzia, infatti, il serio stato di violazione dei diritti umani e dei principi democratici che la Repubblica turca sta affrontando18. Si deve attendere 15

Per una più approfondita analisi circa le tappe di adesione della Turchia sino al Consiglio di Copenhagen, si veda C. SU, The EU Enlargement and the Political Criteria: the Case of Turkey, in Yeditepe Üniversitesi Hukuk Facültesi Dergisi, 1, 2004, pp. 272-291. 16 Parlamento europeo, Risoluzione sulle violazioni dei diritti umani in Turchia, Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee, Bruxelles, 1984. 17 Parlamento europeo, Report of Political Affairs Committee on the Human Rights Situation in Turkey, Working Document A2 117-85, Strasburgo. 18 Per ulteriori approfondimenti circa il contenuto di questo rapporto si veda H. ARIKAN, Turkey and EU. An Awkward Candidate for EU Membership?, Ashgate, Aldershot, 2006, p. 127.

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l’invio, da parte del Governo di Özal, di un ambasciatore a Bruxelles con la richiesta di riattivare l’accordo di Ankara, nonché l’abolizione della legge marziale nella maggior parte del territorio turco perché i rapporti si riaprano ufficialmente il 17 febbraio 1986. Il 14 aprile dell’anno successivo, dunque, la Turchia presenta nuovamente la propria candidatura per l’adesione19, sulla quale, due anni dopo, la Commissione si pronuncia con una Opinione (18 dicembre 1989)20, poi approvata dal Consiglio il 5 febbraio 1990. L’Opinione della Commissione chiarisce come l’approvazione dell’Atto Unico Europeo (1986) implichi la necessità di maggiori sforzi al fine di realizzare un’unione non solo economica e monetaria ma anche politica, dovendosi pertanto considerare sia le questioni connesse a un eventuale allargamento sia quelle legate al consolidamento dell’Unione stessa. Tenendo conto di tali considerazioni, la Commissione nega l’adesione alla Turchia in ragione della consistente densità demografica del paese e del suo livello di sviluppo, ritenuto inferiore a quello degli altri Stati membri. Notevole peso si attribuisce, inoltre, alle questioni politiche irrisolte: i limiti alla democrazia ancora presenti nonostante l’approvazione della nuova Costituzione; le violazioni dei diritti delle minoranze; le difficoltà di dirimere la questione di Cipro21. Allo stesso tempo, tuttavia, la Commissione precisa che la momentanea impossibilità 19

Al riguardo è interessante rilevare come la Turchia, nella presentazione della propria candidatura, non faccia riferimento all’art. 28 dell’Accordo di Ankara, bensì all’art. 237 del Trattato di Roma, che consente a tutti gli Stati europei di presentare la propria candidatura per l’adesione. 20 Opinione della Commissione sulla richiesta di adesione della Turchia, 18 dicembre 1989, SEC(89) 2290. 21 Una parte della dottrina turca, e in particolare C. ERHAN, Asian Dimension of Turkey’s Character: an Obstacle or a Catalyst for European Union Membership, in Ankara Avrupa Çalişmaları Dergisi, 2, 2003, pp.123-149, tuttavia, è incline a ritenere che i dubbi dell’Unione europea in merito ad una futura adesione della Turchia siano da riconnettere al carattere asiatico di questo Stato, secondo quanto affermato nel corso di una intervista al quotidiano Le Monde da V. Giscard d’Estaing, allora Presidente della Convenzione Europea (Le Monde, Pour ou contre l’adhésion de la Turquie à l’Union Européenne, 9 novembre 2002).

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di aprire i negoziati non deve indurre la Turchia a ritenere preclusa ogni possibilità per il futuro. In quest’ottica, la Commissione individua quattro aree di sostegno all’evoluzione della Turchia: l’unione doganale, già prevista per il 2005; il sistema finanziario; la cooperazione industriale e tecnologica; lo sviluppo dei legami culturali. Mentre la propria candidatura viene respinta, la Turchia avvia i primi passi sul percorso di riforme che caratterizza gli ultimi decenni. Nel 1986, infatti, si convertono le condanne alla pena di morte già emesse in trent’anni di detenzione; nel 1987 viene riconosciuto il diritto dei cittadini turchi a ricorrere individualmente alla allora Commissione europea per i diritti umani; nel 1988 vengono ratificate le Convenzioni delle Nazioni Unite ed Europea per la prevenzione della tortura. Negli anni che seguono le istituzioni europee monitorano con attenzione gli sviluppi della Turchia tanto nel settore economico quanto in quello dei diritti umani e del rispetto dello stato di diritto, anche alla luce dei criteri per l’adesione che intanto si elaborano. Nel 1993, infatti, il Consiglio europeo elabora i tre criteri di Copenhagen22 e precisa, con riferimento alla Turchia, la volontà di mantenere aperte le relazioni con il paese nell’ottica di un rapporto sempre più intenso. Segue l’elaborazione, in occasione del Consiglio europeo di Essen del dicembre 1994, della preaccession strategy23. In quella sede, i rapporti con la Turchia sono inseriti nell’ambito delle politiche per il Mediterraneo e si limitano a prevedere un rafforzamento delle relazioni e dell’unione doganale24. Gli ulteriori 22

Enunciati in occasione del Consiglio di Copenhagen del 1993, tali criteri indicano le condizioni che gli Stati richiedenti l’adesione devono soddisfare. Si tratta, in particolare, del criterio politico (istituzioni stabili, garanzia della democrazia, dello stato di diritto, dei diritti umani, rispetto e tutela delle minoranze), del criterio economico (economia di mercato affidabile, capacità di fronteggiare le forze del mercato e la pressione concorrenziale interna all’Unione), del criterio dell’acquis (recepimento degli obblighi derivanti dall’adesione e condivisione degli obiettivi dell’Unione). 23 Parlamento europeo, Pre-accession Strategy for the Enlargement of the European Union, Briefing n. 24, www.europarl.europa.eu. 24 Non può tuttavia ignorarsi che il rinnovato interesse delle istituzioni europee per la Turchia all’inizio degli anni ’90 sia anche una conseguenza del mutato contesto geopolitico. Il considerevole “vuoto” nelle dinamiche di potere della regione creato dal crollo del blocco sovietico pone l’opportunità di colmarlo facendo emergere come potenza regionale la Turchia, già membro dell’Alleanza atlantica e comunque orientata al rispetto dei valori europei.

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riferimenti alla Turchia nelle Conclusioni del Consiglio, peraltro, sottolineano la disapprovazione per le pene comminate ai membri del Parlamento e per la generale situazione di violazione dei diritti umani in cui versa il paese25. L’anno successivo è la Commissione a elaborare un White paper in cui si forniscono chiare indicazioni ai paesi dell’Europa centro-orientale per l’adesione che si sta preparando26, di fatto prese in considerazione anche con riferimento al percorso della Turchia. Al momento della definizione di questi standard la Turchia sembra ancora non aver risolto le “questioni aperte” sia di rilevanza internazionale sia di rilevanza interna27. Quanto alle prime, permangono la situazione di latente conflitto con la Grecia nell’area dell’Egeo e la questione cipriota. Dal punto di vista delle ragioni interne, invece, bisogna ancora risolvere la questione curda, limitare l’influenza dei militari sul funzionamento delle istituzioni e ampliare le garanzie sostanziali dei diritti umani. Se le istituzioni europee hanno quindi delle “perplessità” a procedere all’adesione, non vi sono però riserve nel consentire, il 1° gennaio 1996, l’entrata in vigore dell’unione doganale tra la Turchia e la Comunità europea28, che avrebbe consentito ai lavoratori europei di circolare liberamente in Turchia; non si dà però condizione di reciprocità a causa degli accordi di Schengen e pertanto solo ai beni prodotti in Turchia è

25

Conclusioni della Presidenza, Consiglio europeo di Essen, 9-10 dicembre 1994, www.consilium.europa.eu. 26 COM(95)163, White paper sulla preparazione dei paesi associati dell’Europa centrale e orientale per l’integrazione nel mercato unico dell’Unione, 10 maggio 1995. 27 Sul punto di veda A. K. RIEMER, Turkey and Europe at a Cross-road: Drifting Apart or Approaching Each Other, in Turkish Yearbook of International Relations, 34, 2003, pp. 138-166, spec. p. 147. 28 L’unione doganale entra in vigore in seguito all’approvazione da parte turca di un nuovo Codice doganale, all’istituzione di un Consiglio competente in materia di concorrenza e di un Ufficio brevetti dipendente dal Ministero dell’Industria e del Commercio. Sul punto si ricorda che, in occasione del Consiglio europeo di Cardiff del 1998, viene evidenziata la necessità di approfondire l’unione doganale al fine di consentire un migliore sviluppo economico e sociale della Turchia.

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consentito libero ingresso e circolazione nel territorio degli Stati membri29. Nonostante il proseguimento delle relazioni commerciali, il dialogo tra le parti per l’adesione e l’influenza dell’Unione europea sulla Turchia continuano a essere altalenanti. In occasione del Consiglio europeo di Lussemburgo del dicembre 1997, infatti, la Turchia è esclusa dal gruppo di sei Stati30 per i quali si avviano i negoziati di adesione. Questa decisione è all’origine del rifiuto turco di partecipare alla prima riunione della Conferenza europea per tutti i paesi che hanno avviato le procedure di adesione svoltasi a Londra il 12 marzo 1998. A spiegare le ragioni che spingono a non considerare la Turchia fra i paesi in via di adesione intervengono le motivazioni esposte, in occasione della riunione del 5 maggio 1998 del Comitato FranciaTurchia31, dall’allora Ministro francese con delega agli Affari europei, Pierre Moscovici, il quale pone l’accento sulle carenze della Turchia sia sotto il profilo della tutela dei diritti umani sia sotto quello dell’evoluzione del sistema economico. Già in quella sede, tuttavia, si evidenzia la consapevolezza europea che il percorso di democratizzazione avviato dalla Turchia non sia fondato solo su “stimoli” esterni ma sia frutto di «aspirations de sa propre société civile […]. C’est là une démarche normale et naturelle»32. 29

Di fatto, questa non è l’unica condizione di possibile sfavore per la Turchia che, ad esempio, è tenuta ad applicare agli Stati terzi le stesse tariffe eventualmente concordate con essi dall’Unione senza che questo implichi un uguale riconoscimento. Sulle conseguenze dell’Unione doganale per l’economia turca, si veda K. KIRIŞCI, N. TOCCI, A Privileged Partnership Between Turkey and the EU: What Does It Mean?, in AA.VV., Getting to Zero. Turkey, Its Neighbors and the West, The Transatlantic Academy, Washington, 2010, p. 33. 30 Si tratta di Slovacchia, Bulgaria, Romania, Lituania, Lettonia e Cipro. Per una comparazione del percorso di adesione della Turchia rispetto a questi Stati, si veda I. GOVAERE, Pre-accession Strategies to the European Union, in Consiglio d’Europa, Constitutional Implications of Accession to the European Union, Edizioni del Consiglio d’Europa, Strasburgo, 2002, pp. 35-52. 31 È questa una associazione fondata nel 1947 per favorire lo sviluppo di relazioni amichevoli fra i due paesi anche attraverso l’organizzazione di conferenze come occasione di dialogo “informale” fra i vertici politici e istituzionali dei due paesi (cfr. www.comitefranceturquie.fr). 32 Cfr. Comitato Francia-Turchia, La Turquie, la France et l’Europe, in Bulletin du Comité France-Turquie, 8, 1998, p. 6.

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Nonostante quella esclusione, il Consiglio europeo chiede alla Commissione di continuare a supportare il percorso della Turchia verso l’adesione, pur tenendo fermo il principio, espresso anche in occasione dell’approvazione, nel 1997, dell’Agenda 200033, che la Turchia debba dimostrare un maggiore impegno per il rispetto del criterio politico. Ne deriva, l’anno successivo, una attenzione specifica, espressa dalla c.d. Strategia europea per la Turchia34, cui viene associato un sistema di finanziamento della stessa denominato Special Action for Turkey, con un fondo di 375 milioni di ECU. Con riferimento alla promozione della democrazia in Turchia, la Strategia si propone di realizzare gruppi di lavoro tecnici e incontri di formazione per i funzionari turchi finalizzati ad ampliare la conoscenza, e per suo tramite il recepimento, della legislazione unionale. La Strategia riguarda prevalentemente i profili economici già tracciati dall’unione doganale; solo i punti 14 e 15, infatti, affrontano questioni di carattere politico. Al punto 14, in particolare, si rinviene un riferimento alla necessità di rafforzare la cooperazione istituzionale soprattutto riguardo alle politiche migratorie della Turchia, mentre il punto 15 si propone di istituire un organo congiunto per la discussione delle human rights issues. Dal 1998, inoltre, il monitoraggio della transizione turca assume una forma maggiormente istituzionalizzata, attraverso la predisposizione da parte della Commissione di un progress report annuale. Nel primo rapporto, la Commissione mostra la propria preoccupazione per la tenuta del pluralismo politico a seguito dello scioglimento del Refah Partisi da parte della Corte costituzionale e per la sentenza di condanna al carcere che ha colpito l’allora sindaco di Istanbul Erdoğan. Più in generale, in quella sede la Commissione segnala che la Turchia deve proseguire con maggiore costanza sulla strada delle riforme per porre rimedio a una «troppo vaga interpretazione della Costituzione e delle altre norme relative all’unità dello Stato, all’integrità territoriale, al 33

Commissione europea, Agenda 2000: per un’Unione più forte e più ampia, COM(97)2000def, Bruxelles, 15 luglio 1997. 34 Commissione europea, Comunicazione della Commissione al Consiglio. European Strategy for Turkey, COM(1998)124 final, Bruxelles, 4 marzo 1998.

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secolarismo e al rispetto per le istituzioni dello Stato»35. L’anno successivo, l’atteggiamento della Commissione sembra più benevolo, accogliendosi con favore l’introduzione della riforma giudiziaria, gli emendamenti agli artt. 243, 245 e 354 del Codice penale in materia di tortura e la soluzione compromissoria per il caso Ocalan; permangono comunque preoccupazioni per la tutela delle minoranze, delle libertà di espressione, associazione, riunione e religione e per la situazione carceraria36. 1.3 1999-2005: il Consiglio europeo di Helsinki e l’avvio dei negoziati per l’adesione Un momento di svolta è rappresentato dal Consiglio europeo di Helsinki del 10-11 dicembre 1999, che si svolge in un momento storico in cui anche la Germania e la Grecia, tradizionalmente ostili, mostrano un atteggiamento favorevole all’adesione della Turchia37. In quella sede, dunque, la candidatura della Turchia è ufficialmente riconosciuta, sebbene le conclusioni del Consiglio si limitino a sottolineare la necessità di procedere nel dialogo in materia di diritti umani per il rispetto del criterio politico e a disciplinare gli strumenti economici per il supporto nelle fasi precedenti all’adesione38, senza prevedere delle tappe temporali39. Si 35

Commissione europea, Regular Report from the Commission on Progress Toward Accession: Turkey, novembre 1998 (http://ec.europa.eu). 36 Commissione europea, Regular report from the Commission on Turkey’s Progress toward Accession, ottobre 1999, ibidem. 37 Il Governo tedesco guidato da Schröder, infatti, manifesta una inversione di tendenza rispetto alle posizioni dell’Esecutivo cristiano-democratico che l’ha preceduto e, piuttosto che evidenziare le possibili differenze religiose e culturali, preferisce porre l’accento sul valore economico e politico che avrebbe l’adesione. La Grecia assume una posizione favorevole, invece, in ragione del riavvicinamento con la Turchia che si compie in quegli anni attraverso visite ufficiali dei rispettivi Ministri degli Esteri, l’istituzione di gruppi di lavoro bilaterali (commercio, ambiente, cultura, scienze e tecnologia), l’avvio di reciproche consultazioni per la soluzione della questione cipriota. Sul punto si veda A. ERALP, The Role of Temporality and Interaction in the Turkey-EU Relationship, in New Perspectives on Turkey, 40, 2009, pp. 149-170, spec. p. 156. 38 Si tratta, in particolare, dell’accorpamento degli strumenti economici di cui la Turchia ha usufruito sino a quel momento, ossia il programma MEDA II, la Strategia europea di regolazione che copre le misure per la promozione dello sviluppo economico

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chiarisce comunque che la Turchia sarebbe stata valutata sulla base degli stessi criteri applicati per gli altri Stati e un’apposita strategia di preadesione sarebbe stata elaborata per «incentivare e sostenere le sue riforme»40. Riferimenti più puntuali alla situazione interna della Turchia si rinvengono nell’Accession Partnership Document predisposto dalla Commissione l’8 novembre 2000. Nel documento, infatti, la soluzione delle questioni curda e cipriota è inserita fra le priorità di breve termine, nella cui assenza non si sarebbe potuto accelerare il percorso della Turchia verso l’Europa. In risposta, il Governo turco redige, nel marzo 2001, il Programma nazionale per l’adozione dell’acquis, che si pone all’origine del lungo percorso di riforme, ancora in corso, avviato dalla Turchia nel primo decennio del nuovo millennio. Gli sforzi turchi non sono ignorati dalle istituzioni europee e nel Consiglio europeo di Laeken del dicembre 2001 per la prima volta si menziona esplicitamente la possibilità di adesione. Il Consiglio di Laeken segna anche una ulteriore svolta: la Turchia è invitata a partecipare alla Convenzione sul futuro dell’Europa in condizione di parità con gli altri Stati candidati41.

e sociale della Turchia e la Strategia europea di regolazione che copre l’assistenza per l’implementazione dell’Unione doganale UE-Turchia. Sulle riforme introdotte nell’ordinamento turco negli anni successivi al Consiglio di Helsinki, si vedano H. LICHTENBERG, From Candidacy to Membership (part I), in Marmara Avrupa Araştirmaları Dergisi, 9, 2001, pp. 17-41, e M.T. YÖRÜNG, Y. SAK, E.İ. MUTLU, From Candidacy to Negotiation. Amendments in the Constitution of the Republic of Turkey, in Marmara Avrupa Araştirmaları Dergisi, 12, 2004, pp. 99-140. 39 Sul punto si veda, con riferimento alla dottrina turca, Ç. NAS, The Enlargement Policy of the European Union and Its Links with the External Dimension of Human Rights Policy with Special Emphasis on the Turkish Case, in Marmara Avrupa Araştirmaları Dergisi, 1-2, 1997, pp. 179-198. 40 Conclusioni della Presidenza, Consiglio europeo di Helsinki, 10-11 dicembre 1999, www.europarl.europa.eu. 41 Conclusioni della Presidenza, Consiglio europeo di Laeken, 14-15 dicembre 2001 http://ec.europa.eu.

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L’anno successivo le Conclusioni del Consiglio di Siviglia42 lasciano ben sperare per il consolidamento del percorso di adesione della Turchia. Il Consiglio, infatti, mostra il proprio compiacimento per le riforme adottate e rinvia al Consiglio di Copenhagen dell’anno successivo la decisione circa la possibilità di avviare «the next stage of Turkey’s candidature»43. Anche la Commissione, nel Progress Report del 200244, accoglie con favore i progressi turchi, sottolineando l’importanza del Programma nazionale per l’adozione dell’acquis e più in generale del percorso di riforme avviato. Allo stesso tempo, tuttavia, la Commissione continua a sottolineare la necessità di un più accorto perseguimento del criterio politico. Il favore delle istituzioni europee e la politica dichiaratamente filoeuropeista del Governo dell’AKP insediatosi quello stesso anno rappresentano il punto di partenza per le Conclusioni in materia di allargamento alla Turchia del Consiglio europeo di Bruxelles (16-17 dicembre 2004). In quella occasione, infatti, si dichiara che la Turchia rispetta il criterio politico di Copenhagen in una misura sufficiente a procedere nel percorso di adesione e si stabilisce che i negoziati della Turchia sarebbero cominciati dal 3 ottobre 200545. 1.4 2005-2012: adesione o unione privilegiata? Dopo il Consiglio di Bruxelles del 2004, tuttavia, il percorso della Turchia verso l’Unione diviene decisamente difficile. Si può ritenere, infatti, che le maggiori perplessità circa l’adesione siano avanzate proprio a seguito dell’avvio dei negoziati. È in quel periodo, infatti, che prende vigore l’idea di una “unione privilegiata”, concepita dal Ministro dell’economia tedesco Karl Theodor Zu Guttenberg con riferimento

42

Conclusioni della Presidenza, Consiglio europeo di Siviglia, 21-22 giugno 2002, www.consilium.europa.eu. 43 Ibidem, punto 25. 44 Commissione europea, Regular Report on Turkey’s Progress Towards Accession, COM(2002)700 final, 9 novembre 2002 http://ec.europa.eu. 45 Conclusioni della Presidenza, Consiglio europeo di Bruxelles, 16-17 dicembre 2004, www.consilium.europa.eu.

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all’unione doganale e quindi estesa ai più generali rapporti dell’Unione europea con la Turchia. Nonostante queste premesse, nel 2005 i negoziati per l’adesione cominciano ufficialmente, sebbene la struttura del negoziato lasci spazio alla possibilità di “ostruzionismo” da parte degli Stati membri più riluttanti. I 35 capitoli negoziali, infatti, devono essere chiusi temporaneamente mediante voto unanime degli Stati membri e possono essere riaperti in qualunque momento qualora sopraggiungano mutate circostanze sino al voto conclusivo del negoziato, anch’esso richiedente un consenso unanime. A ciò si aggiungano la possibilità di una sospensione, anche parziale, del negoziato in caso di grave violazione del criterio politico46; la possibilità di prevedere deroghe, clausole di salvaguardia e periodi transitori relativamente ad alcune politiche, come la PAC; la necessità che l’adesione sia perfezionata da un voto a maggioranza del Consiglio, cui può eventualmente seguire un referendum confermativo negli Stati membri che lo prevedono. La soluzione della questione cipriota sembra un punto nodale del negoziato, visto che la sua stessa apertura è condizionata dalla disponibilità del Governo turco a ratificare un Protocollo che estende l’Accordo di Ankara ai 10 nuovi Stati membri, compresa la Repubblica di Cipro. Il Protocollo viene effettivamente firmato il 29 luglio 2005, sebbene la Turchia vi alleghi una dichiarazione in cui si ribadisce il non riconoscimento della Repubblica di Cipro47. In ragione del mancato riconoscimento di Cipro 8 capitoli negoziali sono “congelati”48 in occasione del Consiglio affari generali dell’11 dicembre 2006, in cui si 46

Tale sospensione può avvenire su richiesta della Commissione o di 1/3 degli Stati membri. 47 In risposta, il 21 settembre 2005, l’UE chiarisce che la dichiarazione della Turchia ha valore unilaterale, non è parte integrante del Protocollo e non ha effetti giuridici sugli obblighi derivanti dall’Accordo di Ankara. 48 Si tratta dei capitoli relativi alla libera circolazione delle merci, al diritto di stabilimento e libera prestazione dei servizi, ai servizi finanziari, ad agricoltura e sviluppo rurale, alla pesca, alla politica dei trasporti, all’unione doganale e, infine, alle relazioni esterne. Al 2014 tali capitoli non sono stati riaperti.

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conviene che i restanti capitoli negoziali proseguiranno ma non potranno essere chiusi prima della soluzione della questione cipriota49. Il perdurare del problema cipriota, accanto ad ulteriori criticità annualmente evidenziate dalla Commissione nei progress reports, consente anche la periodica riproposizione della possibilità di rinvenire una soluzione alternativa all’adesione, come l’unione privilegiata già menzionata. La possibilità di un tale tipo di accordo incontra il favore sia della Cancelliera tedesca Angela Merkel, sia dei francesi Valéry Giscard d’Estaing e Nicolas Sarkozy. Da ultimo, un tentativo in tal senso, rigettato dal Governo turco, è effettuato nel 2009, contestualmente alla scelta della Francia di bloccare l’apertura di cinque capitoli negoziali. Similmente, la Germania ribadisce la propria opposizione alla libera circolazione dei lavoratori turchi nel territorio europeo, certamente attribuibile all’elevato numero di turchi già residenti nel paese. Ancor più vincolanti sono i “paletti” posti nello stesso anno da Cipro, che si oppone all’apertura di ben dodici capitoli negoziali in ragione delle dispute ancora pendenti con la Turchia per le vicende seguite all’intervento sull’isola e al supporto alla Repubblica Turca di Cipro Nord. Nel 2009, comunque, le istituzioni europee ribadiscono la bontà dei progressi effettuati dalla Turchia. La Comunicazione della Commissione sull’allargamento al Consiglio e al Parlamento europeo di quell’anno50 evidenzia, tra l’altro, l’importanza della riforma giudiziaria in corso e l’apertura di consultazioni con la società civile per ampliare le tutele dei diritti culturali, con particolare riferimento alla questione curda. Rispetto al ruolo delle autorità militari, inoltre, sostiene il processo di “rientro nelle caserme” e la restituzione dei poteri all’autorità civile, oltre a sottolineare come il caso Ergenekon rappresenti una chance per dimostrare la tenuta delle istituzioni turche e il rispetto da parte del potere giudiziario del diritto alla difesa e del diritto ad un processo equo. A seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (2009), il nuovo e rafforzato ruolo dell’Alto Rappresentante per la politica estera a capo di un External Action Service, vede nell’organizzazione complessiva 49

Alla luce di questa determinazione, l’unico capitolo negoziale chiuso al 2014 è quello relativo a Scienza e ricerca, chiuso il 12 giugno 2006. 50 Comunicazione della Commissione sull’allargamento al Consiglio e al Parlamento europeo, Enlargement Strategy and Main Challenges. 2009-2010, Com(2009)533 final.

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di tale servizio un ufficio appositamente dedicato alla Turchia. Fra le prime attività del nuovo Commissario, Catherine Ashton, si pongono incontri e riunioni con il Ministro degli Esteri turco Davutoğlu e con il Ministro per gli Affari europei Bağış. Anche il Commissario europeo per l’allargamento, Stefan Füle, pone attenzione alla necessità di portare a termine il negoziato con la Turchia: in occasione dell’incontro dell’EUTurkey Joint Parliamentary Committee (JPC)51 del 26 ottobre 2010, infatti, Füle dichiara che la riforma costituzionale approvata in Turchia nel settembre precedente può considerarsi un rilevante passo in avanti sulla strada per l’adesione; la risoluzione del Parlamento sui progressi della Turchia per l’adesione, approvata nel marzo dello stesso anno, si mostra tuttavia duramente critica e attira il biasimo del mondo politico turco, compresa l’opposizione del CHP52. Il lungo periodo di stallo che segue sembra concludersi con una nuova iniziativa del Commissario Füle, che, in accordo con il Ministro turco Bağış, il 17 maggio 2012 avvia la c.d. Agenda positiva, finalizzata a favorire la ripresa dei negoziati attraverso un approccio pragmatico, basato sull’istituzione di 8 gruppi di lavoro, che consenta di procedere rapidamente nei settori di interesse comune. Il progress report della Commissione pubblicato nello stesso anno, pur avendo confermato la scelta di collegare la chiusura dei capitoli negoziali all’applicazione corretta del Protocollo addizionale all’Accordo di Ankara, conferma l’interesse unionale per il ruolo geo-strategico acquisito dalla Turchia. Il report, infatti, suggerisce di approfondire la cooperazione con Ankara in materia di approvvigionamento energetico e riconosce il ruolo di rilievo acquisito dalla Turchia nelle transizioni delle aree caucasica, nordafricana, mediorientale e balcanica. Il 2013 è contrassegnato da un andamento schizofrenico: la reazione delle istituzioni europee agli eventi di Gezi Parkı di luglio sembra congelare nuovamente i rapporti, che invece acquisiscono nuovo slancio 51

Il Comitato, istituito ai sensi dell’art. 27 dell’Accordo di Ankara, è la sede di confronto tra la delegazione del Parlamento europea e la delegazione della GANT. 52 Cfr. l’intervista a Kader Sevinc, portavoce del CHP, rilasciata al quotidiano Hürriyet il 10 novembre 2010.

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in ottobre con l’apertura del Capitolo 22; resta tuttavia l’impedimento a chiudere i negoziati sino alla conclusione della questione cipriota che pare ancora essere la spada di Damocle pendente sulla testa dei negoziatori di entrambe le parti. Il percorso verso l’adesione della Turchia sembra dunque arrestarsi, mentre rimarrebbe aperta la strada per l’unione privilegiata, nei cui confronti l’interesse unionale rimane forte anche in ragione della crescente influenza turca nel Mediterraneo a seguito delle rivolte arabe. Una più intensa partecipazione della Turchia alle politiche dell’Unione attraverso una partnership privilegiata, infatti, potrebbe dare nuovo slancio alla Politica Mediterranea Europea53, che sin ora non si è rivelata essere particolarmente incisiva e piuttosto che consentire l’affermazione dell’UE come influente attore regionale ha contribuito a disvelarne le debolezze e la divisione fra gli Stati membri. Le rivolte arabe che nel 2011 dalla Tunisia si sono estese a tutto il Nord Africa e al Medioriente hanno mostrato una evidente frattura fra gli Stati membri centro-orientali (Germania e Polonia, in primo luogo), maggiormente interessati a consolidare le politiche verso l’Europa orientale, e gli Stati membri meridionali (Italia, Francia, Spagna) interessati a comprendere le ragioni delle rivolte e ad intervenire nell’area non solo per ragioni di controllo della sicurezza dei propri confini, ma anche in nome di una comune appartenenza all’area mediterranea54. Proprio in quest’ottica, la Turchia si è mostrata come un punto di riferimento, autorevole e solido. Erdoğan è direttamente intervenuto in Egitto, con una visita ufficiale, nei giorni successivi alla fine del regime di Mubarak e il suo Governo di ispirazione islamica come evoluzione del laicismo kemalista ha fornito un esempio per la svolta tunisina dal laicismo di Bourghiba al Governo del consenso nazionale guidato da Ennahda. Anche nella crisi siriana la Turchia si è dimostrata un attore affidabile e coerente: dapprima si è posta come mediatore fra gli insorti e Al-Assad proponendo un percorso di riforme; in 53

Come noto, la Politica Mediterranea Europea è stata sviluppata nell’ambito di framework successivi: nel 1995 viene istituito il Partenariato euro-mediterraneo; nel 2004 la Politica europea di vicinato; nel 2008 l’Unione per il Mediterraneo. 54 Sul punto si veda S. PANEBIANCO, L’Unione Europea nel Mediterraneo: oltre la primavera araba, in G. D’IGNAZIO, N. FIORITA, S. GAMBINO, F. RANIOLO, A. VENTURA (a cura di), Transizioni e democrazia nei Paesi del Mediterraneo e del vicino Oriente, Periferia, Cosenza, 2014, pp. 287-309.

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seguito al rifiuto di Damasco di ogni mediazione, ha sostenuto la coalizione Friends of Syria e il Consiglio nazionale siriano, che aggregano le opposizioni, rispettivamente internazionali e interne, al regime di Al-Assad55. Tuttavia, proprio la situazione di isolamento in cui ha agito la Turchia nei tentativi di mediazione sembra essere all’origine degli esiti negativi. Si tratta di una conclusione che deve far riflettere: la Turchia in una unione privilegiata con l’UE potrebbe guadagnare una maggiore influenza nell’area mediorientale e nordafricana; l’Unione europea ne guadagnerebbe un attore riconosciuto come valido interlocutore e, pertanto, capace di porsi come testa di ponte per la politica mediterranea europea. 2. L’adesione “bloccata” e il possibile ripensamento turco L’accesso della Turchia all’Unione europea è sotto ogni punto di vista un fenomeno fuori dall’ordinario, distinto e distante dagli altri processi di adesione. Nel caso della Turchia, infatti, non sono solo i criteri di Copenhagen la base su cui valutare le possibilità di adesione, ma ad essi si aggiungono almeno tre ulteriori criteri concernenti sia l’“utilità” dell’adesione sia valutazioni di carattere politico: il rapporto costi/benefici dell’adesione per l’Unione; la percezione di “europeità” della Turchia da parte dei cittadini europei; le dinamiche politiche interne all’Unione56. Non manca, inoltre, chi ha ritenuto che l’ipotesi di allargamento alla Turchia sia lo strumento mediante cui l’Unione tenta di influenzare nel lungo periodo le transizioni democratiche degli Stati del bacino 55

Per un approfondimento sull’influenza turca nelle transizioni nordafricane e nella crisi siriana, si veda B. SORAVIA, Il ritorno della Turchia in Medioriente, in E. BORIA, S. LEONARDI, C. PALAGIANO, La Turchia nello spazio euro mediterraneo, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2014, pp. 83-93, spec. pp. 89-92. 56 Questi tre ulteriori criteri sono individuati da M. MÜFTÜLER BAÇ, Turkey’s Accession to the European Union: the Impact of the EU’s Internal Dynamics, in International Studies Perspectives, 9, 2008, pp. 201-219.

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mediterraneo, generando, tuttavia, aspettative che l’UE non vuole, né è in grado di perseguire57. Del resto, l’incauta gestione del negoziato con la Turchia sembra essere solo una delle difficoltà dimostrate nella gestione delle questioni internazionali dall’Unione, che non è riuscita a mostrare una posizione coesa e rappresentativa di tutti gli Stati membri in occasione delle rivolte arabe, che sembra volutamente “dimenticare” le gross-violation di cui è oggetto la popolazione siriana sempre più ostaggio dei due contendenti e che sembra aver delegato all’alleato statunitense ovvero alle attività diplomatiche dei singoli Stati membri la gestione dei rapporti con la Russia nella soluzione della crisi ucraina. La richiesta europea di procedere sia a un più intenso programma di riforme politico-istituzionali, sia a una maggiore adesione all’economia di mercato e ai parametri economico-finanziari stabiliti a livello comunitario58, contestualmente a un revival della c.d. sindrome di Sévres, è all’origine di un crescente euro-scetticismo nella Repubblica turca. Lo stesso aumento del nazionalismo interno pare collegabile, infatti, al timore che la cessione costante di sovranità all’Unione possa ledere il

57

Così C. ARVANITOPOULOS, N. TZIFAKIS, Enlargement Governance and the Union Integration Capacity, in C. ARVANITOPOULOS (a cura di), Turkey’s Accession to the European Union. An Unusual Candidacy, Springer, Heidelberg, 2009, pp. 9-20. Quanto detto era già noto nel 1993. A. TOVIAS, The Integration of Turkey in the European Union Community as a Stabilizing Factor for the Middle East, in Avrupa Araştirmaları Dergisi, 1-2, 1994, pp. 50-64, evidenzia infatti come la Turchia abbia favorito il dialogo dell’Unione sia con i paesi del Mashrek e con gli altri Stati arabi ad essa attigui, sia con Israele, propiziando un generale dialogo intra-mediterraneo. 58 Sul punto, peraltro, N. CANEFE, M. UĞUR, Turkey and European Integration: Introduction, in N. CANEFE, M. UĞUR (a cura di), Turkey and European Integration, Routledge, London, 2005, pp. 1-15, si interrogano anche sulla possibilità di procedere contemporaneamente alle riforme politiche e a quelle economiche senza generare il malcontento della popolazione. Deve ricordarsi, infatti, che i principali passi in avanti nel percorso di adesione sono compiuti durante gli anni del governo dell’AKP, i cui risultati elettorali mostrano quanto supporto popolare questo partito abbia; condurre un cammino di riforme che vada a incidere sia sul piano politico che su quello economico, tuttavia, potrebbe ridurre questo supporto e, in caso di vittoria di un partito euro-scettico, mettere in ulteriore crisi i rapporti tra la Turchia e le istituzioni europee.

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principio dell’integrità statale e comportare uno smembramento dello Stato59. In materia di cessione della sovranità si pongono anche altre questioni. Se, infatti, i criteri di Copenhagen chiariscono che l’adesione è possibile, tra l’altro, solo dopo il recepimento dell’acquis unionale, l’estensione dello stesso è oggetto di dibattito in ragione della vastità della produzione normativa unionale e della sua incidenza in molteplici aree del diritto, concernenti il dettato dei Trattati e il diritto derivato60. Sul punto la dottrina turca ha lungamente discusso circa le conseguenze della partecipazione al circuito europeo, con specifico riferimento alla compatibilità tra le limitazioni alla sovranità statale che derivano dalla piena partecipazione all’Unione e il concetto della stessa così come espresso nella Costituzione turca61, soprattutto con riferimento alla capacità delle norme unionali di imporsi direttamente negli Stati membri62. La crescente influenza della diplomazia turca nei confronti di quegli Stati un tempo parte dell’Impero ottomano, inoltre, apre a nuove strategie geopolitiche che potrebbero rendere preferibile, per la Turchia, porsi come Stato guida della dimensione mediorientale, piuttosto che come eterno “brutto anatroccolo” della compagine europea.

59

Circa l’euro-scetticismo in Turchia, si veda H. YILMAZ, Europeanization and Its Discontents: Turkey, 1959-2007, in C. ARVANITOPOULOS (a cura di), Turkey’s Accession to the European Union. An Unusual Candidacy, cit., pp. 53-64. 60 Sul punto si veda H.H. VOGEL, The Experience of Half a Century of European Integration, in Consiglio d’Europa, Constitutional Implications of Accession to the European Union, Edizioni del Consiglio d’Europa, Strasburgo, 2002, pp. 5-20. 61 Cfr. A. GÜNDÜZ, Eroding Concept of National Sovereignty: the Turkish Example, in Avrupa Araştirmaları Dergisi, 1-2, 1991, pp. 99-154, nonché İ. DOĞAN, Türk Anayasa Düzeninin Avrupa Toplulukları Hukuk Düzeniyle Bütünleşmesi Sorunu (Il problema dell’integrazione dell’ordinamento costituzionale turco nell’ordine giuridico delle Comunità europee), Hukuk Fakültesi Yayını, İstanbul, 1979. 62 Si ricorda al riguardo la sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee Van gend and Loos c. Olanda, 5 febbraio 1963, C 26/62, nonché la sentenza della stessa Corte nel caso Costa c. Enel, 15 luglio 1964, C 6/64.

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Il perdurante processo di adesione della Turchia all’Unione europea pone dunque numerose questioni su entrambi i fronti. Da un lato, infatti, l’Unione europea si interroga, per il momento senza essere capace di dare una risposta univoca, sulla propria identità. Non manca chi ha voluto vedere nella neutralità militare della Turchia nel corso della seconda guerra mondiale e nella assenza di una sconfessione pubblica dell’autoritarismo (kemalista) da parte delle forze politiche che gli sono succedute le motivazioni fondanti le difficoltà degli europei di riconoscere ai turchi la partecipazione all’identità comune europea, che proprio di questi eventi è figlia. Dall’altro, anche la Turchia, soprattutto in seguito alle battute d’arresto nel processo di adesione sin dal 2005, comincia a domandarsi quali siano le reali motivazioni che la spingono a procedere verso l’Unione e se non sia più opportuno coltivare con maggiore perseveranza il “sogno ottomano” e guardare nuovamente a oriente. In effetti, vi è chi, anche sulla base delle affermazioni di alcuni leader politici, sostiene che l’interesse della Turchia per l’Unione europea sia fondato sul solo desiderio di essere riconosciuta nel novero degli Stati democratici63. Del resto, le autorità turche evidenziano con frequenza come le riforme che il paese sta realizzando in questa ultima fase di transizione non sono un esclusivo portato della volontà di prendere parte all’Unione, ma originano da fattori endogeni, dal desiderio di cambiamento e di democrazia che la stessa società turca manifesta64 e che la portano a condividere gli stessi valori su cui l’Unione si fonda. Al riguardo, è opportuno ricordare come il Presidente della Repubblica di Turchia Gül abbia più volte ribadito che l’adesione al patrimonio comune conti ben più della continuità geografica o dell’appartenenza religiosa delle rispettive popolazioni65. 63

Così L.A. GLYPTIS, Which Side of the Fence? Turkey’s Uncertain Place in the EU, in Alternatives. Turkish Journal of International Relations, 4, 2005, pp. 108-139, che ricorda come l’ex-Primo Ministro Çiller abbia parlato dell’Unione come un «progetto di civilizzazione» e anche Erdoğan, da Presidente del Consiglio, abbia considerato l’adesione come «il naturale esito dell’ideale della Turchia di raggiungere il livello di civilizzazione contemporaneo». 64 Così il Presidente Gül in occasione dell’inaugurazione del forum TESEV nel 2002 (www.tesev.com). 65 Cfr. Discorso del Presidente Gül, Bloomberg, Londra, 14 marzo 2005.

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A fronte delle permanenti perplessità europee, non si può non sottolineare come l’ingresso della Turchia nell’Unione potrebbe comportare una stabilizzazione dell’area, in quanto elemento di dialogo con i paesi confinanti e con tutti i paesi con cui la Turchia ha da lungo tempo avviato relazioni internazionali. Più di tutto, ciò che andrebbe auspicato è l’approfondimento, specialmente da parte dell’opinione pubblica, degli elementi di dibattito circa la possibilità di adesione della Turchia al fine di superare i pregiudizi che inficiano il dialogo con questo Stato e che, spesso populisticamente, finiscono per limitare i rapporti tra l’Europa e il mondo turco alle sole occasioni di scontro66. Non può ignorarsi, conclusivamente, che le proteste di Gezi Parkı dell’estate 2013 lasciano emergere in maniera decisa la posizione di Erdoğan, che pure è stato attivo promotore dell’avvicinamento all’Unione europea. Al biasimo espresso dalle istituzioni unionali per il comportamento dei poliziotti nei confronti dei manifestanti67, Erdoğan risponde di non riconoscere il Parlamento europeo e invita l’Unione europea a condannare i manifestanti piuttosto che a criticare l’operato della polizia68. Alcuni vedono in questo atteggiamento del Premier turco un eccesso di fiducia nelle proprie possibilità di mantenere alto il consenso nonostante la rottura dei rapporti con l’UE e l’utilizzo della linea dura verso i manifestanti69. Le eventuali conseguenze di tale approccio per l’AKP negli scenari nazionali saranno evidenti solo nel lungo periodo; ciò che è certo è che esso non ha influito sul successo elettorale che il partito ha riportato nelle

66

Si veda D. KERIDIS, Turkey and the Identity of Europe: Contemporary Identity Politics on the European Frontier, in C. ARVANITOPOULOS (a cura di), op. cit., pp.147159. 67 Risoluzione n. 2013/2664(RSP), 13 giugno 2013. 68 Cfr. Erdoğan, EU Leaders Exchange Criticism over Taxim Protests, in Todays Zaman, 17 giugno 2013 (www.todayszaman.com). 69 Così K. GUERSEL, Erdoğan’s Hubris Syndrome, in Al-Monitor, 17 giugno 2013 (www.al-monitor.com).

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elezioni amministrative del 2014 né ha impedito a Erdoğan di divenire il candidato ufficiale per le elezioni dell’agosto dello stesso anno. 3. La condizionalità europea e le evoluzioni costituzionali della Turchia La condizionalità è il principale strumento attraverso cui l’Unione sviluppa la propria politica estera, introducendo un meccanismo premiale in base al quale l’adesione ai principi e ai valori dello spazio europeo è ricompensata con una serie di vantaggi, dalla ratifica di accordi commerciali al supporto economico, alla piena membership. Con riferimento al caso turco, si è più volte evidenziato come la sola condizionalità europea e la connessa possibilità di adesione non siano sufficienti a spiegare il percorso di riforme condotto dalla Repubblica di Turchia nell’ultimo decennio70; queste riforme esprimono piuttosto la voluta adesione al contesto europeo “allargato”. Pur tuttavia il ruolo dell’Unione europea in materia non può essere disconosciuto ed anzi al suo operato possono ricondursi le numerose riforme approvate a partire dal 1995. Grazie all’influenza e alle pressioni europee per superare le disparità tra i valori fondanti dell’Unione e l’interpretazione turca dei concetti di democrazia, diritti umani e stato di diritto, infatti, tra il 1995 e il 1998 il Governo turco propone alcune, modeste, riforme finalizzate a migliorare il funzionamento della democrazia attraverso la riduzione dell’età per accedere all’elettorato attivo dai 21 ai 18 anni, l’estensione del diritto di voto ai cittadini residenti all’estero e una embrionale riforma della normativa per il contrasto delle attività terroristiche per garantire una maggiore tutela della libertà di espressione71.Tali riforme non sono tuttavia ritenute sufficienti ad avviare una effettiva trasformazione della situazione politica del paese, come le stesse istituzioni europee non esitano a sottolineare. Nel Report del 1998 e nell’Agenda 2000, infatti, la 70

Sul punto si veda N. TOCCI, Europeanization in Turkey: Trigger or Anchor for Reform, in South European Society and Politics, 10, 2005, pp. 73-83. 71 In merito all’evoluzione della normativa anti-terrorismo in Turchia, sia consentito rinviare al mio Tra sicurezza nazionale e repressione del dissenso: la normativa antiterrorismo in Turchia, in A. TORRE (a cura di), Costituzioni e sicurezza dello Stato, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, pp. 1119-1135.

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Commissione europea, pur accogliendo con favore tali riforme come «the first such undertaken by a civilian government for a long time»72, non esita ad affermare che la situazione della Turchia «falls well short of stardards in the EU»73. In effetti, è dal 2001 che l’impegno del Governo per il rispetto dei criteri di Copenhagen diventa più stringente, inaugurando un periodo definibile come “l’età d’oro dell’europeizzazione”74 della Turchia e tra il 2002 e il 2005 l’influenza europea spiega i suoi maggiori effetti sul percorso di riforme turco, che si realizza principalmente attraverso l’approvazione dei c.d. pacchetti di armonizzazione75, che seguono dappresso l’approvazione di riforme costituzionali e a quest’ultime si propongono di dare concreta effettività. Il primo pacchetto di armonizzazione entra in vigore il 19 febbraio 2002 e sembra orientato prevalentemente a rispettare le clausole derivanti dal criterio politico di Copenhagen. Esso, infatti, modifica gli artt. 159 e 312 del Codice penale rispettivamente per ridurre da 6 a 3 anni la pena per l’offesa alla turchità o alle istituzioni dello Stato e per ricondurre il reato di incitamento all’odio al solo attentato all’ordine pubblico; il pacchetto modifica altresì la legge per il contrasto delle attività terroristiche in senso maggiormente garantista della libertà di espressione e interviene per aumentare le garanzie per i detenuti. Sulla stessa scia si pone il secondo pacchetto di armonizzazione, entrato in vigore il 9 aprile 2002 e finalizzato a introdurre maggiori garanzie per la libertà di espressione emendando le leggi sulla stampa, sui partiti politici, sulle associazioni e sulle manifestazioni pubbliche. Il pacchetto, peraltro, amplia anche la tutela delle minoranze modificando l’art. 2 della legge 72

Commissione europea, Regular Report from the Commission on Turkey’s Progress towards Accession, 4 novembre 1998, http://ec.europa.eu. 73 Commissione europea, Agenda 2000: Communication for a Stronger and Wider Union, DOC/97/6, 1998. 74 Così Z. ÖNIŞ, Turkey-EU Relations: Beyond the Current Stalemate, in Insight Turkey, 4, 2008, pp. 35-50, spec. p. 38. 75 Il termine indica i progetti di legge, prevalentemente di iniziativa governativa, finalizzati a modificare più leggi o codici contemporaneamente e approvati o rigettati dalla Grande Assemblea Nazionale in una singola sessione di voto.

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sulla stampa, da cui viene espunto il divieto a pubblicare in lingue proibite dalla legge. Rilevante è anche il terzo pacchetto di armonizzazione, in vigore dal 9 agosto 2002, che abolisce la pena di morte e introduce nell’ordinamento la possibilità di procedere a una ripetizione dei processi, che tuttavia pare ispirato soprattutto dalle decisioni della Corte europea dei diritti umani piuttosto che dalla condizionalità dell’Unione europea. Numerosi emendamenti ai Codici di procedura civile e penale sono introdotti mediante il quarto pacchetto di armonizzazione, approvato l’11 gennaio 2003, allo scopo di ampliare ulteriormente, allineandole agli standard europei, le garanzie per i detenuti e le disposizioni in materia di libertà di associazione; su tali materie interviene anche, il 4 febbraio 2003, il quinto pacchetto di armonizzazione. Il 19 luglio dello stesso anno entra quindi in vigore il sesto pacchetto di armonizzazione, che, tra l’altro, dedica una particolare attenzione alla riforma del settore delle comunicazioni, aprendo alla possibilità di trasmissioni radio-televisive «in tutte le lingue parlate dalla popolazione turca nella vita quotidiana» (art. 4), con un implicito riferimento alla possibilità di trasmettere in lingua curda76; similmente, un emendamento all’art. 9 della legge sui censimenti e sull’anagrafe rimuove il divieto di attribuire ai neonati nomi non rientranti nella cultura nazionale e nelle tradizioni e costumi turchi, rendendo così implicitamente possibile l’attribuzione di nomi derivanti dalla tradizione delle minoranze etniche. In favore di un’apertura verso le istanze delle minoranze religiose si pone, invece, il settimo pacchetto, in vigore dal 7 agosto 2003, che modifica l’art. 3 del decreto-legge sulla Direzione generale per le fondazioni al fine di facilitare l’istituzione di fondazioni religiose e l’ottenimento di permessi affinché esse esercitino attività anche all’estero. Allo stesso tempo il pacchetto interviene per ridurre l’influenza dei militari nell’ambito del Consiglio di Sicurezza Nazionale, avviando così un percorso che porta alla definitiva sostituzione di personale civile nei ruoli da essi ricoperti attraverso l’approvazione dell’ottavo pacchetto di armonizzazione, in vigore dal 14 luglio 2004. 76

Per un approfondimento sull’influenza dell’Unione europea sulla rimozione del divieto alle trasmissioni in lingue diverse dal turco si veda B. SÜMER, The Impact of Democratic Conditionality on Policy-making in Turkey: Minorities Rights and the Politics of Broadcast Regulation, in Central European Journal of Communication, 2, 2009, pp. 99-112.

IL LUNGO E CONTROVERSO PERCORSO DI ADESIONE ALL’UNIONE EUROPEA

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Come ricordato, il Consiglio europeo di Bruxelles del 16-17 dicembre 2004 accoglie con favore le riforme introdotte e apre la strada per l’avvio dei negoziati di adesione. L’accoglienza positiva delle riforme così adottate da parte delle istituzioni europee induce la Grande Assemblea Nazionale ad approvare un ulteriore pacchetto il 12 aprile 2006, grazie al quale si interviene ampiamente per favorire il recepimento del criterio politico attraverso misure finalizzate ad ampliare la tutela dei diritti con specifico riferimento alle minoranze, a ridurre l’influenza dei militari nelle istituzioni e a migliorare la trasparenza nei processi decisionali della pubblica amministrazione. Si tratta, tuttavia, di un’ultima tappa prima dello stallo. A pochi mesi dall’approvazione del nono pacchetto di riforme, infatti, la scelta di condizionare il negoziato all’estensione a Cipro del Protocollo addizionale al Trattato di Ankara, di cui si è già discusso in precedenza, pone le premesse per quel progressivo raffreddamento dei rapporti con l’Unione europea cui si assiste ancora oggi. Dalla fine del 2006, infatti, se il percorso di riforme sulla strada per il miglioramento della democrazia e per una migliore garanzia dei diritti in Turchia non si è arrestato, esso è sicuramente proseguito per ragioni non più ricollegabili al c.d. European committment.

Conclusioni La Repubblica di Turchia e il costituzionalismo contemporaneo: quali scenari futuri? 1. Quasi un secolo di vita repubblicana: identità nazionale e circolazione dei modelli Quasi cento anni dopo la proclamazione della Repubblica, la Turchia sembra aver costruito un’identità che la conferma nel ruolo di “ponte”, non solo geografico, fra il continente europeo e quello asiatico e di crogiolo fra le culture che in questi due continenti si sono sviluppate. Si delinea così un ordinamento del tutto peculiare, in cui una forte identità nazionale si combina con la crescente attenzione per i modelli esteri e per le evoluzioni giuridiche sovrastatali, rispettando una costante che si era già affermata al tempo delle premesse ottomane del costituzionalismo turco. Il passaggio dall’imperialismo assolutista alla monarchia costituzionale al tempo della Tanzimat, infatti, avviene seguendo con diligenza i solchi già tracciati dai sovrani dell’Europa continentale, giacché, agli occhi del Sultano e poi dei giovani rivoluzionari che reclamano un cambiamento nel sistema giuridico, la modernizzazione è sinonimo di europeizzazione e, quindi, di adesione ai valori e alle formule giuridiche che il Vecchio continente sta consolidando. Già con l’introduzione dei Codici, peraltro, il Sultano mostra la propria volontà di adeguare il linguaggio giuridico dell’Impero a quello dell’Europa continentale, in un probabile tentativo di assicurare una maggiore stabilità all’impianto giuridico imperiale e di proiettarlo verso il futuro. Come per l’Europa prima dell’Illuminismo, infatti, «il dominio della tradizione portava a schiacciare la dimensione temporale della società prevalentemente sul passato, che condizionava il presente e il futuro»1. La scelta del Sultano/Califfo per la codificazione, inoltre, comporta il riconoscimento del diritto positivo e del ruolo di interprete del giudice laico, ridimensionando così il ruolo tradizionale

1

Cfr. M.R. FERRARESE, Prima lezione di diritto globale, Laterza, Roma-Bari, 2012, p. 40.

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della shari’a come fonte del diritto e riducendo l’influenza dei capi religiosi nell’amministrazione della giustizia2. Sono queste le premesse per quella significativa evoluzione giuridica e culturale che, all’indomani del primo conflitto mondiale, vede la neonata Repubblica di Turchia coniugare la ricerca della stabilità delle istituzioni, la separazione dei poteri, la tutela dello Stato e la protezione dei diritti dei turchi – non più sudditi di un impero dissolto, ma cittadini – con le tradizioni religiose della popolazione e con il nuovo ruolo riconosciuto all’Islam quale fondamento della comune identità. Negli anni fra i due conflitti mondiali, la Repubblica di Turchia risente dell’influenza di quegli ordinamenti europei che, all’ombra di una costituzione flessibile, vedono emergere cruenti autoritarismi e non resta immune dalla vague superomistica: Atatürk è riconosciuto quale leader carismatico e guida pressoché unica del paese, mentre una cultura dominante è imposta a tutte le minoranze presenti sul territorio, anche attraverso l’approvazione di leggi discriminatorie. A rendere peculiare il percorso turco, tuttavia, vi sono ulteriori elementi che caratterizzano questo controverso periodo storico: come si è sottolineato, si abrogano tutte le disposizioni costituzionali contenenti riferimenti all’Islam e si afferma la laiklik; si costituzionalizza il principio di uguaglianza; si introduce il suffragio universale, maschile e femminile; si avviano i dibattiti circa la possibilità di istituire una Corte costituzionale, garante del Testo fondamentale. Questa originale identità in costruzione, si struttura ulteriormente nel secondo dopoguerra, quando la Turchia sceglie il fronte occidentale e i suoi valori, e, aderendo alle principali organizzazioni sovrastatali regionali, dalla NATO al Consiglio d’Europa, segna in modo netto l’equilibrio mondiale bipolare. Emblematici sono gli esiti della Conferenza di Bandung (1955)3, quando i paesi non allineati sottolineano come la Turchia non possa rientrare nel loro novero in virtù del suo dichiarato schieramento con i paesi occidentali. Allo stesso tempo, questa Conferenza segna un riconoscimento a contrario: i paesi islamici che vi prendono parte chiariscono che la Turchia ha scelto un ordinamento e una 2

In un periodo in cui il Sultano cerca di tenere unito l’Impero, anche attraverso l’approvazione della Carta di Unione (1808), tale scelta conferma la volontà di eliminare le possibili spinte centrifughe. 3 Per gli atti della Conferenza si rinvia a AA.VV., Bandung Conference: proceedings, resolutions, declarations, Keesing’s Limited, London, 1955.

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linea politica “blasfemi”, non in linea con i principi dell’Islam. Ancora una volta, dunque, l’assetto laico della Turchia e la sua adesione ai valori occidentali sembrano essere gli elementi prioritari della nuova identità, anche se emergono dal senso critico di osservatori “orientali”. In tutto il Novecento, del resto, tali elementi segnano la storia della Repubblica turca, che sceglie di aderire al Consiglio d’Europa partecipando alla costruzione del patrimonio costituzionale comune europeo4. E, ancora, sul finire del secolo, la Turchia si confronta con l’integrazione europea, in un processo dialettico che influenza la sua (ancora incompiuta) “lunga transizione”. Precondizione e diretta conseguenza di un così forte dialogo è la tradizionale attiva partecipazione dei giuristi turchi ai circuiti internazionali, cui si aggiungono ulteriori elementi pregiuridici di estrema rilevanza: il consolidamento di un sistema partitico pluralista, in grado di esprimere differenti idee e programmi; il crescente ruolo della società civile, sempre più consapevole della propria capacità di influire sulle decisioni politiche; la progressiva definizione di un ruolo per i militari, che si percepiscono sempre meno come custodi unici del repubblicanesimo kemalista e si adeguano alle scelte democratiche della popolazione. Rileva sottolineare, tuttavia, il ridotto attivismo mostrato a tal riguardo dalla Corte costituzionale, che, come si è detto, non è propensa, almeno esplicitamente, all’utilizzo del metodo comparato. La Turchia si dimostra così essere un caso peculiare in cui la circolazione dei modelli non usufruisce del c.d. transjudicialism, ossia del riferimento e della citazione di precedenti stranieri nella propria giurisprudenza5. Il parametro di riferimento, semmai, è il patrimonio costituzionale europeo, e soprattutto la giurisprudenza della Corte di Strasburgo. È alla luce di questo importante “bagaglio”, infatti, che la Turchia procede 4

Sul contenuto di questo patrimonio si veda A. Pizzorusso, Il patrimonio costituzionale europeo, il Mulino, Bologna, 2002, che tuttavia, sembra lasciare sullo sfondo il rilevante ruolo svolto dal Consiglio d’Europa. 5 Sul punto è tuttavia opportuno considerare come la struttura delle sentenze della Corte turca, come quella delle altre Corti di civil law, si presti poco a mettere in evidenza il riferimento ai precedenti stranieri.

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all’abolizione della pena di morte e alla campagna “Tolleranza zero” nei confronti della tortura, e che riforma l’art. 90, c. 5, della Costituzione del 1982, consacrando la primazia del diritto internazionale ed europeo in materia di diritti umani sulla legislazione nazionale. Per le stesse ragioni, la Repubblica si impegna nel processo diplomatico per la soluzione delle questioni cipriota e armena, più volte invocata dall’Unione europea. Il desiderio di cambiamento è tuttavia chiamato a fare i conti con la tradizione di questo Stato, che costruisce la propria identità in aperta antitesi rispetto al passato ottomano e la consolida attraverso l’individuazione di alcuni principi la cui messa in discussione è a tutt’oggi problematica: laicità, integrità territoriale, prevalenza dello Stato sull’individuo. A garanzia di questi principi si rinviene il dettato costituzionale del 1982, che li sancisce nei primi tre articoli della Carta e ne proibisce, mediante l’art. 4 Cost., la revisione. È questo un punto che vale la pena di evidenziare: la società civile turca attraversa una fase di profondo dinamismo, in cui le generazioni, e i diversi valori di cui esse sono portatrici, si confrontano, anche all’interno dello stesso gruppo sociale. È così che i militari, un tempo pronti ad intervenire con la forza dei colpi di Stato a garanzia dei principi del kemalismo, si aprono al confronto con le forze politiche. Si pensi, al riguardo, allo scandalo Ergenekon, che conduce all’arresto di numerosi esponenti delle forze armate in ragione del tentativo di infiltrazione nello Stato al fine di predisporre un nuovo colpo di Stato. Anche la magistratura sta subendo una evoluzione e i giudici costituzionali, per molto tempo ostili alla penetrazione della disciplina internazionale in materia di diritti umani nell’ordinamento e garanti ad oltranza dei principi kemalisti, assumono toni più moderati. Un valido esempio si rinviene nella scelta del 2007 di non procedere allo scioglimento del partito Adalet ve Kalkınma Partisi (AKP) per violazione del principio di laicità, a differenza di quanto accaduto con riferimento a tutti i partiti di ispirazione religiosa precedentemente istituiti nel paese. L’AKP, infine, è uno dei principali attori sociali artefici del cambiamento. Partito di ispirazione islamica moderata, l’AKP ha mostrato un forte atteggiamento riformatore e ha sostenuto, sin dalle elezioni del 2002, governi che hanno mutato e stanno mutando profondamente l’ordinamento. Tuttavia, nonostante la dichiarata volontà di procedere a una “rivoluzione culturale” improntata al rispetto dei diritti umani, l’AKP non

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è ancora riuscito a concludere il percorso riformatore auspicato e numerose ombre si addensano sull’effettiva agenda politica del Governo e sulla sua capacità di procedere verso un consolidamento democratico. Difatti, se la Turchia ha ormai un sistema multipartitico, con elezioni libere e rispetto della separazione dei poteri6, non può ignorarsi come la libera competizione elettorale sia solo un elemento della definizione contemporanea di democrazia e numerose lacune in materia di garanzia dei diritti debbano ancora essere colmate. Come si nota, si tratta di una transizione dagli esiti ancora non definiti e, se nulla è eccepibile rispetto all’adesione formale della Turchia al costituzionalismo contemporaneo, proprio le menzionate lacune inducono a non ritenere completato il consolidamento democratico7. Un consolidamento che avrebbe potuto avere delle solide basi qualora la Commissione per la conciliazione costituzionale (2011) fosse riuscita a terminare il proprio lavoro, espungendo dall’ordinamento tutte le controverse eredità del Trattato di Losanna e introducendo validi strumenti per la garanzia dell’effettiva uguaglianza di tutti i cittadini della Repubblica e per la tutela dei diritti anche quando violati dalle autorità. Il fallimento del tentativo costituente, definitivamente costatato nel 2013, sembra tuttavia indicare che la Turchia non è ancora pronta per questo tipo di riforme e i coevi interventi del Governo dell’AKP sembrano rappresentarne una ulteriore conferma. La scelta di intervenire sul funzionamento dell’organo di controllo della Magistratura per rafforzare le capacità di intervento del Ministro di Giustizia, infatti, dimostrano quanto l’indipendenza e l’imparzialità del Giudiziario non siano ancora 6

Il raggiungimento di questi obiettivi è confermato, tra gli altri, dalla risoluzione n.1380 del 22 giugno 2004 dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, il cui contenuto è ribadito dalla risoluzione finale n. 100 del 2007 del Comitato dei Ministri. 7 Sul punto, tra i molti: L. MEZZETTI, Teoria e prassi delle transizioni costituzionali e del consolidamento democratico, CEDAM, Padova, 2003; R. GUNTHER, P. NIKIFOROS DIAMANDOUROS, H.-J. PUHLE (a cura di) The Politics of Democratic Consolidation: Southern Europe in Comparative Perspective, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1996, J.J. LINZ, A. STEPAN, Problems of Democratic Transition and Consolidation: Southern Europe, South America, and Post-Communist Europe, Johns Hopkins University Press, Baltimore, 1996.

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considerati valori fondamentali della visione turca dello stato di diritto. Anche le difficoltà di gestire gli interventi delle forze di polizia in occasione delle manifestazioni in Gezi Parkı (2013) o a seguito del grave incidente minerario di Soma (2014), inoltre, sembrano mostrare una scarsa attitudine verso la protezione degli individui e, piuttosto, un desiderio di consolidare un potere più volte minato da scandali e accuse di corruzione. Sono emblematiche le limitazioni alla libertà di espressione durante il c.d. affaire Twitter (2014)8, quando le autorità hanno inteso salvaguardare la sicurezza dello Stato introducendo una vera e propria chiusura dei social networks con il supporto delle Corti ordinarie. Solo l’intervento della Corte costituzionale ha infatti consentito un ripristino della libertà di espressione attraverso la dichiarazione di incostituzionalità dei provvedimenti di chiusura dei siti internet9, cui il Primo Ministro ha reagito dichiarando che la sentenza della Corte è contraria ai valori turchi10. L’immediata conseguenza di tali vicende è il declassamento della Turchia fra i paesi non liberi, dalla categoria dei paesi parzialmente liberi cui precedentemente apparteneva, nella classifica stilata da Freedom House circa la tutela della libertà di espressione e di informazione nel mondo11. Potrebbe tuttavia trattarsi di un’ennesima fase in un percorso verso la democrazia che continua a risentire fortemente degli esiti derivanti dalla partecipazione agli spazi giuridici sovrastatali. 2. Il Consiglio d’Europa e l’Unione europea: approcci diversi, esiti diversi Sebbene la Turchia partecipi a tutte le organizzazioni sovrastatali istituite in Occidente dopo il secondo conflitto mondiale, come detto, l’influenza principale nel percorso di adesione al costituzionalismo di questa Repubblica deve essere riconosciuto al Consiglio d’Europa e 8

Per ulteriori approfondimenti sul punto sia consentito rinviare alla mia nota Turchia: una nuova battaglia tra il “Sultano” e la Corte (costituzionale), in Diritti Comparati, 19 maggio 2014, www.diritticomparati.org. 9 Corte costituzionale, K2014/3986, 2 aprile 2014. 10 Cfr. T. DALOĞLU, Erdogan disrespects Turkey’s top court, Al-Monitor, 9 aprile 2014, www.al-monitor.com. 11 Cfr. FREEDOM HOUSE, Freedom of the Press 2014, www.freedomhouse.org.

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all’Unione europea. Nell’indirizzare la strada delle riforme, tuttavia, queste organizzazioni hanno utilizzato approcci differenti che rendono necessaria una breve riflessione per trarre alcune conclusioni circa l’effettività degli strumenti da esse predisposti. L’esperienza turca mostra come il Consiglio d’Europa abbia saputo e sappia dialogare con le istituzioni nazionali evitando di generare aspettative la cui delusione rischia di dare vita a pericolose regressioni nel percorso di consolidamento democratico. Al contrario, l’Unione europea – anche in ragione del suo carattere di organizzazione sovrastatale sui generis – ha utilizzato la condizionalità per stimolare il processo di riforme turco, ma non è ancora riuscita a definire un chiaro percorso di integrazione finendo con il procrastinare indefinitamente l’adesione della Turchia. Da ciò deriva un intenso dibattito nel mondo politico turco che sembra progressivamente far diminuire l’iniziale “euforia” per l’adesione e che sembra incidere anche sul percorso di riforme, sempre meno orientate al recepimento dell’acquis. È in quest’ottica che il sistema di promozionalità del Consiglio d’Europa mostra il suo valore più strategico. Strasburgo, infatti, affianca al dialogo con le istituzioni del paese, per il tramite del Comitato dei Ministri, anche il coinvolgimento diretto dei cittadini, i cui frequenti ricorsi alla Corte europea divengono un’importante cartina di tornasole per evidenziare le lacune del sistema turco. Le numerose condanne che la Corte di Strasburgo continua a emettere nei confronti di Ankara, infatti, evidenziano con chiarezza quanto lunga sia ancora la strada da percorrere, sebbene molte di esse siano in realtà legate a ricorsi avanzati ben prima del c.d. decennio riformista (2001-2010). L’istituzione di organi incaricati di partecipare dialetticamente al meccanismo di institution building, come la Commissione di Venezia, consente alle istituzioni nazionali di riflettere sulle proprie carenze senza sentirsi al “banco degli imputati”, come invece sembra accadere quando esse sono “giudicate” dai reports predisposti dalla Commissione UE, che poco spazio lasciano al confronto e che sembrano rendere marginale l’operato di quegli organismi unionali dove più agevole e meritorio si è rivelato il dialogo con le autorità turche. È questo il caso, ad esempio, del

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menzionato JPC, i cui dibattiti si sono rivelati spesso proficui e apprezzati anche dai deputati turchi, che hanno utilizzato gli incontri del Comitato per spiegare le posizioni assunte dalla Turchia in determinate situazioni e per contestare alcune affermazioni contenute nei reports della Commissione. Non sono mancate, inoltre, occasioni in cui le riunioni del JPC sono state integrate con audizioni di esponenti della società civile turca o con dibattiti alla presenza di delegazioni del Governo turco. Anche l’Unione, dunque, pare dotata di organi capaci di favorire il dialogo fra le parti e la partecipazione diretta dei cittadini, ma non sembra ancora aver “imparato” ad utilizzarli e a dare opportuno rilievo al loro operato. Una riflessione deve essere condotta anche con riferimento alle capacità sanzionatorie di entrambe le organizzazioni sovrastatali. Le sanzioni del Consiglio d’Europa, infatti, influiscono in misura poco “spettacolare” sul paese: le condanne della Corte agiscono direttamente sul bilancio dello Stato e spronano i decisori politici alle riforme per evitare che il pagamento dei risarcimenti incida sui fondi disponibili e sulla conseguente capacità di adempiere alle proprie “promesse” elettorali. La sanzione cui può ricorrere l’Unione europea, invece, è il blocco, se non addirittura la definitiva cessazione, dei negoziati di adesione. Il minore livello di coinvolgimento politico richiesto dal sistema di Strasburgo, dunque, non modifica le preferenze dell’elettorato che, al contrario, vede progressivamente ridursi il novero dei sostenitori del processo di adesione all’Unione. In questo modo, peraltro, l’UE rischia di incoraggiare la Turchia a coltivare con maggior perseveranza il “sogno ottomano” di estendere la propria influenza sugli Stati un tempo parte dell’Impero della Sublime Porta. Una reazione che, per la compagine europea, potrebbe avere un effetto boomerang. E ciò sia da un punto di vista politico, perché l’Unione mostrerebbe l’imperizia delle proprie valutazioni circa la capacità di assorbimento di nuovi membri in maniera definitiva, sia da un punto di vista economico, giacché il potenziamento dei numerosi accordi che la Turchia ha già siglato con gli Stati al di là del Bosforo creerebbe un pericoloso concorrente per l’economia europea. Da ultimo, si può evidenziare come il sistema convenzionale riesca a strutturare, per il tramite dei propri organi, un dialogo più coerente con gli Stati parte nella definizione del patrimonio comune, al punto che, con una efficace metafora, è stato sottolineato come la Convenzione e le Parti

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contraenti si muovano secondo una struttura assimilabile al sistema solare12, in cui il moto proprio degli ordinamenti nazionali per la tutela dei diritti è fortemente influenzato dalle disposizioni convenzionali e dalle dinamiche interne al Consiglio d’Europa, che essi formano e cui si conformano al tempo stesso. 3. Possibili scenari per il futuro: regressione autoritaria o consolidamento democratico? Con il mutare degli assetti geopolitici globali, la quasi secolare tendenza alla preminenza degli elementi, in primo luogo giuridici, europei nell’identità turca non è più scontata e le sue possibili evoluzioni si dimostrano particolarmente interessanti sia per il futuro della Repubblica turca sia per comprendere la capacità degli ordinamenti europei di aprirsi alla ricchezza che la Turchia porta con sé e di sfuggire alle logiche autoreferenziali che per lungo tempo li hanno contraddistinti. Nel secondo dopoguerra, all’epoca della separazione in “blocchi” della guerra fredda, la scelta della Turchia per l’area occidentale è chiara e i tentativi di adesione all’Unione europea stanno lì a dimostrarlo. Nel nuovo secolo, invece, la Turchia presenta all’Occidente la sua originalità culturale, economica e strategica ed esprime una capacità di influenza su più fronti, ciascuno portatore di valori non sempre, o non per forza, conciliantisi. Nel momento in cui si afferma la dottrina della profondità 12

Ş. ÖZSOY, A Model to Measure Contracting Parties’ Compatibility with the European Convention on Human Rights, in Annales de la faculté de droit de Istanbul, 53, 2004, pp. 141-179, spec. p. 145, infatti, sostiene che «contracting States are to be like planets turning around the Convention’s rotation and at the same time having own rotation. The connection between these two rotations will be the relation between democracy and basic rights. This will open the door for basic rights’ influence over the power of discretion at both levels. National governments do not legislate or execute practices that violate the basic rights nor do the Convention organs allow them to use their discretion at the expenses of the basic rights. In conclusion, democratic discourse is the key element of a successful functioning of Convention mechanism at national and international level to create common standards for conventional rights».

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strategica del Ministro Davutoğlu, infatti, la Turchia abbandona il profilo dell’“indifferenza” che ha caratterizzato i suoi rapporti con il Medioriente e con il Maghreb nel secolo precedente e valorizza la comune appartenenza alla ummah con l’ambizione di una leadership, anche economica. Lo dimostra, già nel 2003, la scelta di negare alle forze della coalition of willings l’utilizzo del proprio spazio aereo per l’invasione dell’Iraq del Nord e l’avvio di più stretti rapporti con il Governo della Regione autonoma dell’Iraq del Nord a supporto della c.d. kurdish opening per la soluzione della questione curda. Negli anni successivi, inoltre, la Turchia riallaccia, in occasione della vicenda del nucleare, il dialogo con l’Iran e riconosce Hamas come interlocutore legittimo nella questione palestinese, segnando così una decisiva inversione di rotta rispetto alle scelte diplomatiche precedenti e rimettendo in discussione il rapporto con un alleato storico quale Israele13. Un’ulteriore conferma, infine, si rinviene nel periodo delle c.d. rivolte arabe (2011), quando la Turchia ha dimostrato di considerarsi «an irresolutely pro-change, prodemocracy actor in the region»14 schierandosi in maniera decisa a supporto delle popolazioni in rivolta. Se questo scenario dovesse consolidarsi, il portato del patrimonio comune europeo si intreccerebbe ancor più indissolubilmente con la tradizione religiosa islamica, nella definizione di quella democrazia islamica più volte richiamata nelle fila dell’AKP. La laicità, che ha avuto un ruolo pivotale nell’evoluzione della Turchia contemporanea, potrebbe così essere ridimensionata in favore di una concezione di Islam moderato, già espressamente previsto dalla Costituzione marocchina del 2011, che associa la garanzia dei diritti di tutti, minoranze comprese, alla previsione di una religione di Stato. Potrebbe essere questa, dunque, la (innegabilmente controversa) strada turca per superare lo stato di discriminazione istituito dal Trattato di Losanna fra i cittadini della Repubblica di Turchia. Un tale scenario, del resto, potrebbe non essere sgradito a quell’ampia fascia della popolazione 13

Del resto, anche in occasione della ripresa delle ostilità tra Hamas e Israele nell’estate del 2014, il Primo Ministro Erdoğan non ha esitato a criticare aspramente i leader israeliani (cfr. Turkey accuses Israel of “State terrorism” over Gaza, Daily Times, 15 luglio 2014, www.dailytimes.co). 14 Cfr. E. ALESSANDRI, M.B. ALTUNIŞIK, Unfinished Transitions: Challenges and Opportunities of the EU’s and Turkey’s Responses to the “Arab Spring”, in Global Turkey in Europe, working paper n. 4, 2013, p. 4.

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turca che ha sostenuto le riforme per la reintroduzione del velo negli uffici pubblici e che vede nell’adesione ai valori tradizionali, anche religiosi, dell’AKP un’etica condivisibile per orientare l’azione di governo. Un ulteriore scenario si prospetta se si considera che la nuova politica estera turca comporta anche un riavvicinamento alle Repubbliche caucasiche e centro-asiatiche, con cui esiste un forte legame dovuto alla comune appartenenza delle popolazioni al ceppo turcico. Per il tramite di questo legame passa il superamento dell’antica conflittualità con la Russia e l’avvio di nuovi percorsi diplomatici, fondati in primo luogo sulla cooperazione in materia energetica, con la Federazione da tempo guidata dal binomio Putin-Medvedev. È in quest’ottica che deve leggersi la scelta turca di mediare per la soluzione del conflitto russo-georgiano (2008) nell’ambito della Piattaforma per la stabilità e la cooperazione nel Caucaso e di avviare un, seppur incerto, dialogo con l’Armenia, frutto del nuovo approccio che vuole “zero problemi con i vicini”, ma anche “zero problemi tra i vicini”. In questo caso, pur passando in secondo piano la rilevanza dei valori islamici, non viene meno la possibilità che la Turchia si orienti verso un presidenzialismo dai tratti autoritari, in linea con le forme di governo presenti in questi Stati, che consentirebbe all’AKP di consolidare il proprio potere e di ridurre gli spazi democratici. Uno scenario, questo, che si intreccerebbe anche con le sempre più stringenti relazioni commerciali e diplomatiche che la Turchia sta costruendo con i paesi dell’Africa sub-sahariana15. 15

Il percorso di avvicinamento della Turchia all’Africa fa parte della nuova politica estera avviata dall’AKP. Riprendendo un Action Plan realizzato dal Ministero degli Esteri già nel 2008, infatti, la Turchia ha dichiarato il 2005 “Anno dell’Africa” ottenendo contestualmente il riconoscimento dello status di osservatore nell’Unione africana. Nel 2008, l’Unione africana ha quindi dichiarato la Turchia partner strategico del Continente, ponendo così i presupposti per il Turkey-Africa Cooperation Summit svoltosi il 18-21 agosto 2008 a Istanbul, in occasione del quale sono stati approvati la Istanbul Declaration on Turkey-Africa Partnership: Cooperation and Solidarity for a Common Future e il Cooperation Framework for Turkey-Africa Partnership. Negli anni successivi si sono svolte periodiche riunioni al livello dei Ministri degli Esteri e un nuovo summit è previsto per novembre 2014 a Malabo (Guinea equatoriale). Accanto alla cooperazione con l’Unione africana, la Turchia ha altresì avviato cooperazioni

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Qualora queste ipotesi si verificassero, la possibilità che la Turchia prosegua la propria transizione verso la democrazia si ridurrebbe certamente. A scongiurare tuttavia una possibile fase di stallo, capace di danneggiare l’evoluzione interna, si pongono due elementi da non ignorare. In primo luogo, a livello internazionale, la nuova politica estera turca non ha significato un totale distacco dal precedente allineamento con i partner occidentali. La Turchia, infatti, continua ad avere un ruolo di primo rilievo nella definizione delle politiche di sicurezza della NATO e il dialogo con il Consiglio d’Europa rimane aperto e costante nonostante le difficoltà di procedere nel percorso di adesione all’Unione europea. Sul fronte interno, invece, occorre considerare la posizione di ampi settori della società civile, i giovani in primo luogo, che sembrano sempre meno propensi ad accettare una evoluzione nel senso di un “autoritarismo competitivo”16 e che rivendicano l’avvio di un processo riformatore. Una soluzione di sintesi che prefiguri uno scenario futuro capace di integrare i molteplici interessi della Turchia con il proseguimento della transizione potrebbe rinvenirsi nel consolidamento di quel ruolo di ponte fra più realtà che naturalmente il paese riveste. La crescente affermazione dei valori del costituzionalismo contemporaneo quali valori universali, infatti, potrebbe consentire alla Turchia di conciliare la propria anima religiosa con la tutela dei diritti fondamentali e di assicurare la stabilità e l’integrità del paese proprio grazie al rispetto dei valori democratici. La dimensione geopolitica della Turchia, dunque, si estende. E, allora, resta da chiedersi: fin dove arriva l’Europa? dirette con gli Stati, come testimonia l’apertura di numerose ambasciate e consolati e l’avvio di progetti commerciali mirati (cfr. G. BACIK, I. AFACAN, Turkey Discovers SubSaharan Africa: The Critical Role of Agents in the Construction of Turkish ForeignPolicy Discourse, in Turkish Studies, 3, 2014, pp. 483-502). 16 Per l’origine di questo termine si veda S. LEVITSKY, L.A. WAY, The Rise of Competitive Authoritarianism, in Journal of Democracy, 2, 2002, pp. 51-65, spec. p. 52, in cui gli Autori definiscono come autoritarismi competitivi quei regimi in cui «formal democratic institutions are widely viewed as the principle means of obtaining and exercising political authority. Incumbents violate those rules so often and to such an extent, however, that the regime fails to meet conventional minimum standards for democracy». Nonostante gli Autori non includano la Turchia fra gli ordinamenti inquadrabili in questa categoria, D. RODRIK, Rethinking Democracy, in Social Europe Journal, 12 giugno 2014, www.social-europe.eu, considera la Turchia un autoritarismo competitivo ovvero una democrazia illiberale.

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Al momento della firma dell’Accordo di Ankara fra la Turchia e l’UE, l’allora Presidente della Commissione europea Walter Hallstein, espressione del partito tedesco CDU, ebbe modo di affermare: «la Turchia fa parte dell’Europa. È questo il senso profondo di questo processo: è la conferma, nella forma più appropriata ai nostri tempi, di una verità che è qualcosa di più dell’espressione abbreviata di una dichiarazione geografica o di una osservazione storica, valida per qualche secolo»17. Cinquant’anni dopo, il Presidente della Commissione europea Jean Claude Junker, eletto nel 2014 e proveniente anch’egli dalle fila della CDU, lo affermerebbe ancora?

17

W. HALLSTEIN, Address by Professor Dr. Walter Hallstein, President of the Commission of the European Economic Community, on the occasion of the signature of the Association Agreement with Turkey, Ankara, 12 settembre 1963.

Indice delle sigle AKP: Adalet ve Kalkınma Partisi (Partito della giustizia e sviluppo) BERS: Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo BSEC: Black Sea Economic Cooperation CDU: Unione cristiano democratica di Germania CEDAW: Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne CEDU: Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali CHP: Cumhuriyet Halk Partisi (Partito repubblicano del popolo) CIVETS: Colombia, Indonesia, Vietnam, Egitto, Turchia, Sud Africa CUP: Comitato Unione e Progresso DEP: Demokrasi Partisi (Partito della democrazia) DP: Demokrat Partı (Partito democratico) DTP: Demokratik Toplum Partisi (Partito per la società democratica) EMEP: Emek Partisi (Partito dei Lavoratori) EOKA: Organizzazione nazionale dei combattenti ciprioti FMI: Fondo Monetario Internazionale FP: Fazilet Partisi (Partito della virtù) GANT: Grande Assemblea Nazionale di Turchia HEP: Halkın Emek Partisi (Partito popolare del lavoro) HP: Hozur Partisi (Partito della quiete) HSYK: Hakimler ve Savcılar Yüksekkurulunun (Consiglio Superiore dei giudici e dei pubblici ministeri) ILO: Organizzazione internazionale del lavoro ISIS: Islamic State of Iraq and Syria (Stato islamico di Iraq e Siria) JPC: EU-Turkey Joint Parliamentary Committee KHPR: Kurdish Human Rights Project KIT: Kamu Iktisadi Teşekkulleri (Imprese Economiche di Stato) MHP: Milliyetçi Hareket Partisi (Partito del movimento nazionalista) MINT: Messico, Indonesia, Nigeria, Turchia MITKA: Messico, Indonesia, Turchia, Sud Corea, Australia MNP: Milli Nizam Partisi (Partito dell’ordine nazionale) MÜSIAD: Müstakil Sanayici ve Işadamları Derneği (Associazione degli Industriali Indipendenti e degli Imprenditori)

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NATO: North Atlantic Treaty Organization OECE/OCSE: Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ONU: Organizzazione delle Nazioni Unite OYAK: Ordu Yardimlaşma Kooperatif (Cooperativa per il mutuo soccorso dell’esercito) ÖZDEP: Özgürlük ve Demokrasi Partisi (Partito per la libertà e la democrazia) PAC: Politica Agricola Comune PKK: Partiya Karkerên Kurdistan (Partito dei lavoratori curdo) RP: Refah Partisi (Partito della prosperità) SHP: Sosyaldemokrat Halk Partisi (Partito socialdemocratico populista) SP: Sosyalist Partisi (Partito socialista) STP: Sosyalist Türkiye Partisi (Partito socialista di Turchia) TBKP: Türkiye Birlesik Komünist Partisi (Partito comunista unito di Turchia) TOHAV: Toplumsal ve Hukuk Araştırmaları Vafki (Fondazione di studi sociali e giuridici) TÜSIAD: Türk Sanayicileri ve Işadamları Derneği (Associazione degli Industriali e Imprenditori Turchi) UE: Unione europea UNFICYP: United Nations Peace-Keeping Force in Cyprus YTL: Yeni Turk Lirasi (Nuova Lira Turca)

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IL COSTITUZIONALISMO TURCO FRA IDENTITÀ NAZIONALE E CIRCOLAZIONE DEI MODELLI

Dipartimento di Stato americano, Foreign Relations of United States, 1945, Washington, US Government Printing Office, 1967 Corte Suprema USA, Printz v. United States, 521 US 898 (1997) Conseil Constitutionnel, n. 2012-647 DC, 28 febbraio 2012 Tribunale di Parigi, 21 giugno 1995, RG 4 767/94 ASS/14.02.94 Proposition de Loi portant transposition du droit communautaire sur la lutte contre le racisme et éprimant la contestation de l’existence du génocide arménien, n. 3842 Loi sur les signes religieux dans les écoles publiques n. 2004-228 del 15 marzo 2004 Tribunale federale svizzero, 6B_398/2007 /rod, 12 dicembre 2007 Risoluzione del Parlamento del Mercosur, 19 novembre 2007

NUOVI STUDI DI DIRITTO PUBBLICO ESTERO E COMPARATO 1) Justin O. Frosini, Alessandro Torre (a cura di), Democrazia rappresentativa e referendum nel Regno Unito (2012) 2) Angela di Gregorio, Alessandro Vitale (a cura di), Il ventennale dello scioglimento pacifico della Federazione ceco-slovacca. Profili storico-politici, costituzionali, internazionali (2013) 3) Alessandro Torre (a cura di), Costituzioni e sicurezza dello Stato (2014) 4) Ugo Bruschi, Rivoluzioni silenziose: l’evoluzione costituzionale della Gran Bretagna tra la Glorious Revolution e il Great Reform Act (2014). 5) Pamela Martino (a cura di), I giudici di common law e la (cross)fertilization: i casi di Stati Uniti d’America, Canada, Unione Indiana e Regno Unito 6) Caterina Filippini (a cura di), La Comunità di Stati Indipendenti a più di venti anni dalla dissoluzione dell’Urss 7) Pamela Martino, Centri e periferie del potere nel Regno Unito: le nuove dimensioni di un antico confronto 8) Valentina Rita Scotti, Il costituzionalismo in Turchia fra identità nazionale e circolazione dei modelli