Il colore della luna. Come vediamo e perché 9788842082408

È opinione comune che il mondo appaia come lo vediamo semplicemente perché è così. Al contrario, la realtà che ci sta da

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Il colore della luna. Come vediamo e perché
 9788842082408

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i Robinson / Letture

© 2007, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2007 Seconda edizione 2008 Terza edizione 2009 L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, là dove non è stato possibile rintracciarli per chiedere la debita autorizzazione.

Paola Bressan

Il colore della luna Come vediamo e perché

Editori Laterza

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel dicembre 2009 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8240-8

Indice

Introduzione

IX

Come vediamo una sedia, p. IX - Perché le sedie appaiono nel modo in cui appaiono, p. XI - Com’è organizzato questo libro, p. XIII

1.

La luce

3

1.1 Che cos’è la luce, p. 3 1.2 Come si propaga la luce, p. 11 1.2.1 Diffusione, p. 11 - 1.2.2 Rifrazione, p. 13 - 1.2.3 Assorbimento, p. 13 - 1.2.4 Riflessione, p. 15 1.3 Perché siamo sensibili alla luce, p. 16 Sommario, p. 18 Per saperne di più, p. 18

2.

Il sistema visivo

20

2.1 L’occhio, p. 20 2.1.1 L’iride, p. 23 - 2.1.2 La pupilla, p. 27 - 2.1.3 Il cristallino, p. 30 - 2.1.4 La retina, p. 33 - 2.1.5 I fotorecettori, p. 35 - 2.1.6 La formazione dell’immagine sulla retina, p. 39 2.2 Dall’occhio al cervello, p. 41 2.3 Il cervello: la corteccia visiva, p. 44 Sommario, p. 48 Per saperne di più, p. 48

3.

Come vediamo i colori

50

3.1 Perché vediamo i colori, p. 51 3.2 Che cos’è il colore, p. 53 V

3.2.1 Come si differenziano fra loro i colori, p. 56 - 3.2.2 Quanti colori possiamo vedere, p. 57 - 3.2.3 A quanti colori possiamo dare un nome, p. 57 3.3 Come vediamo i colori: i fatti da spiegare, p. 59 3.3.1 Mescolanza dei colori, p. 59 - 3.3.2 Contrasto simultaneo di colore, p. 62 - 3.3.3 Adattamento cromatico, p. 63 - 3.3.4 Immagini consecutive, p. 64 3.4 Come vediamo i colori: le basi fisiologiche, p. 66 3.5 Anomalie nella visione dei colori, p. 70 3.6 La costanza di colore, p. 72 3.7 Gli effetti psicologici del colore, p. 77 Sommario, p. 79 Per saperne di più, p. 80

4.

Come vediamo i grigi

82

4.1 La costanza di chiarezza e i suoi (istruttivi) fallimenti, p. 85 4.2 Il posto del bianco in un mondo di grigi, p. 87 4.2.1 L’ancoraggio alla massima luminanza, p. 88 - 4.2.2 L’ancoraggio allo sfondo, p. 93 4.3 Come vediamo i grigi: le basi fisiologiche, p. 95 Sommario, p. 100 Per saperne di più, p. 101

5.

Come vediamo gli oggetti 5.1 Il raggruppamento percettivo, p. 105 5.1.1 Vicinanza, p. 106 - 5.1.2 Somiglianza, p. 106 - 5.1.3 Buona continuazione, p. 108 - 5.1.4 Chiusura, p. 110 5.1.5 Destino comune, p. 110 - 5.1.6 Esperienza passata, p. 111 - 5.1.7 Buona forma, p. 112 5.2 Figura e sfondo, p. 114 5.2.1 Il completamento amodale, p. 117 5.3 Gli oggetti che vediamo sono costruzioni del nostro cervello, p. 119 5.4 La costanza di forma, p. 121 5.5 Oggetti molto speciali: le facce, p. 124 Sommario, p. 127 Per saperne di più, p. 128 VI

102

6.

Come vediamo la profondità

130

6.1 Gli indizi fisiologici di profondità, p. 131 6.1.1 Accomodazione, p. 131 - 6.1.2 Convergenza, p. 132 - 6.1.3 Disparità binoculare, p. 133 6.2 Gli indizi cinetici di profondità, p. 137 6.2.1 Parallasse di movimento, p. 137 6.3 Gli indizi pittorici di profondità, p. 139 6.3.1 Interposizione, p. 140 - 6.3.2 Grandezza, p. 140 6.3.3 Ombreggiatura, p. 144 - 6.3.4 Indizi prospettici, p. 147 - 6.3.5 Efficacia degli indizi pittorici, p. 151 6.4 L’integrazione degli indizi, p. 153 Sommario, p. 156 Per saperne di più, p. 157

7.

Come vediamo il movimento

158

7.1 Perché il mondo non si muove quando muoviamo gli occhi, p. 158 7.2 Come vediamo il movimento: le basi fisiologiche, p. 161 7.3 Illusioni di movimento, p. 164 7.3.1 Movimento indotto, p. 165 - 7.3.2 Effetto autocinetico, p. 168 - 7.3.3 Adattamento al movimento, p. 169 7.3.4 Effetti consecutivi, p. 170 7.4 Il movimento apparente, p. 174 7.4.1 Perché talvolta le ruote sembrano girare all’indietro, p. 177 - 7.4.2 Perché non ci accorgiamo che la televisione lampeggia, p. 179 7.5 Come percepiamo la velocità, p. 181 7.6 Come facciamo a non sbattere addosso alle cose, p. 184 Sommario, p. 186 Per saperne di più, p. 187

Note

189

Introduzione Δ Come vediamo una sedia Δ Perché le sedie appaiono nel modo in cui appaiono Δ Com’è organizzato questo libro

Di solito non è difficile spiegare di che ci si occupa. Se di professione faceste lo psicologo della percezione visiva, però, le cose starebbero diversamente. Provate a dire che vi occupate del modo in cui vediamo. Il modo in cui vediamo che cosa? Il modo in cui vediamo i colori, le facce, la distanza degli oggetti, il movimento? E dove sta il problema? Se non siete in vena di spiegazioni, vi converrebbe annunciare fin dall’inizio che vi occupate di illusioni ottiche. Ciò stabilisce immediatamente un clima di comprensione: quasi tutti sanno già che certe figure ingannano l’occhio, e qualcuno si dimostra impaziente di saperne di più sui miraggi del deserto. Al contrario, nessuno digerisce facilmente l’idea che il problema stia nel perché il mondo appare nel modo in cui appare. Il mondo appare così perché è così, e l’evidenza di tale fatto non facilita la discussione. Gli psicologi chiamano questo atteggiamento realismo ingenuo: chi lo manifesta crede che, con poche eccezioni, le proprietà dell’esperienza possano essere spiegate facilmente e completamente dalle proprietà del mondo stesso. Il realista ingenuo ritiene che il modo in cui vediamo un miraggio sia degno di interesse, il modo in cui vediamo una sedia no. Come vediamo una sedia Sempre che ci sia abbastanza luce, per vedere una sedia è sufficiente guardarla. Una sedia ha determinate proprietà, come un colore ben definito, una data forma e grandezza, una struttura tridimensionale; si trova in una certa posizione e a una certa distanIX

za rispetto a noi. Altre e più complesse caratteristiche sono visibili in una sedia: che serve a sedercisi sopra, che non è attaccata al pavimento e quindi può essere sollevata e spostata, che se ci sbattiamo contro ci facciamo male, che se cade fa rumore, che se la mettiamo al sole non si scioglie. Una sedia non compare all’improvviso nel momento in cui la guardiamo e non svanisce nel nulla quando lasciamo la stanza. Se uno schienale emerge al di là del tavolo, vediamo una sedia parzialmente nascosta dal tavolo; non una volta ci afferra il timore che parte della sedia si sia volatilizzata. Infine, una sedia rimane sempre uguale a se stessa: il suo colore, la sua forma o le sue dimensioni non cambiano davanti ai nostri occhi. Cerchiamo di capire perché tutto questo dovrebbe sorprenderci. Se, di fronte a una sedia, chiudiamo gli occhi e poi li riapriamo, una sola cosa possiamo dire: prima non vedevamo niente, adesso vediamo una sedia. In realtà, la nostra esperienza visiva è preceduta da una catena di eventi di varia natura, della maggior parte dei quali non siamo minimamente consapevoli. Fig. 1 Quando si ha il compito di descrivere una scena in tutti i suoi dettagli, le ombre non vengono mai menzionate. Eppure, un’ombra può essere talmente importante da creare una sedia dove la sedia non c’è. Allo stesso modo un’ombra è in grado, da sola, di rivelare la presenza di un animale perfettamente mimetizzato. Per questa ragione molti insetti hanno evoluto espedienti per nascondere le proprie ombre. Le farfalle, ad esempio, in posizione di riposo orientano le ali ripiegate nella direzione della fonte di luce, in modo da proiettare un’ombra sottilissima, che dell’insetto non tradisce né forma né grandezza. Della nostra capacità di completare senza sforzo oggetti parzialmente nascosti o mancanti parliamo nel capitolo 5; di ombre e contro-ombre, nei capitoli 4 e 6. (Foto: immagine pubblicitaria, Armani/Casa.)

X

La luce proveniente dalla finestra, o dalla lampadina, illumina la sedia e ne viene in parte riflessa. Alcuni dei raggi luminosi riflessi raggiungono l’occhio e, attraverso la pupilla, vi entrano. Qui vanno a colpire il fondo dell’occhio, la retina, dove si forma una minuscola immagine capovolta della sedia. La retina è ricoperta da un tappeto di cellule specializzate sensibili alla luce: le cellule sulle quali si forma l’immagine rispondono generando segnali elettrici. Questi ultimi vengono trasmessi attraverso varie strutture del sistema nervoso fino a raggiungere una specifica area del cervello, la corteccia visiva. L’attività elettrica nella corteccia visiva viene infine trasformata nell’esperienza del vedere la sedia, ovvero l’esperienza che rappresenta l’anello finale della catena. Nessuno ha la minima idea di come tale trasformazione avvenga, e questo rompicapo sarebbe già sufficiente a riempirci di meraviglia ogni volta che vediamo una sedia. Perché le sedie appaiono nel modo in cui appaiono Supponiamo pure di poter accantonare il problema della relazione fra l’attività elettrica del cervello e l’esperienza cosciente, anche perché non abbiamo altra scelta. Questo non trasforma certo il processo percettivo in qualcosa di facilmente comprensibile, né tantomeno di ovvio. Verrebbe da pensare che l’immagine retinica sia una specie di fedele rappresentazione in scala ridotta del mondo, e che al cervello vengano semplicemente inviate istruzioni dettagliate punto per punto per riprodurla più in grande, e diritta. In questo caso, il problema starebbe tutto nella capacità di codificare le informazioni rilevanti (di tradurle cioè in un linguaggio che il cervello possa comprendere) e di trasmetterle senza guastarle. Ma l’immagine retinica non è statica: cambia ogni volta che muovete gli occhi, il che avviene non solo quando spostate volontariamente lo sguardo, ma anche quando tentate di guardare qualcosa di immobile il più fissamente che potete. Eppure le sedie appaiono ferme. I raggi luminosi riflessi da una sedia non sono fra loro più vicini di quelli riflessi dalla parete o dal pavimento, né sono in alcun modo raggruppati o colleXI

Fig. 2 Il mondo appare così perché è così? Le illusioni percettive mostrano che il mondo «reale» e il modo in cui esso ci appare non necessariamente coincidono. Dato che le illusioni sono prodotte dal normale funzionamento del sistema percettivo, questo ci dovrebbe far capire che tutto nella nostra esperienza è una rappresentazione. Siccome la maggior parte delle volte questa rappresentazione corrisponde al mondo «reale», per il mondo «reale» la scambiamo. La scena qui fotografata è un trompe-l’oeil di 6 metri per 4, dipinto su una parete, in un caffè di San Jose in California. Ogni sua parte è dipinta e bidimensionale, compresi i muri di mattoni, il pavimento, le scale, la ragazza, i tavolini, la statua, le ombre. Un nuovo cliente del caffè si lagnò del fatto che, quando aveva cercato di presentarsi alla ragazza immersa nella lettura, questa non l’aveva degnato di uno sguardo. (John Pugh, Art imitating life imitating art imitating life, 1996. Da A. Seckel, Masters of Deception, New York, Sterling Publishing, 2004.)

gati. Eppure una sedia appare un oggetto unitario e staccato dal suo sfondo. L’immagine retinica è piatta, e le distanze non possono esservi direttamente rappresentate. Eppure una sedia appare tridimensionale e più o meno vicina a noi. La quantità e la qualità della luce che raggiunge la retina dopo essere stata riflessa da una sedia cambiano al variare dell’illuminazione. Eppure una sedia appare di chiarezza e colore costanti. La forma dell’immagine retinica si distorce come un pezzo di gomma quando osserviamo una sedia girandole attorno. Eppure una sedia appare XII

di un’unica forma, sempre quella. La grandezza dell’immagine retinica cambia ogni volta che ci avviciniamo a una sedia o che ce ne allontaniamo. Eppure una sedia appare sempre delle stesse dimensioni. L’immagine retinica di un pezzo di sedia contiguo a una qualsiasi superficie sufficientemente grande non contiene alcuna informazione sul fatto che un altro pezzo di sedia debba esistere da qualche parte. Eppure la sedia appare completa e parzialmente nascosta. L’immagine retinica si forma nel momento in cui la sedia entra nel nostro campo visivo e scompare quando ne esce. Eppure la sedia appare preesistente e permanente nel tempo: era lì prima che la guardassimo e resterà lì quando guarderemo qualcos’altro. Che le sedie appaiano nel modo in cui appaiono è dunque un problema. Com’è organizzato questo libro La complessità del processo che è innescato dalla luce e conduce, attraverso l’occhio e il cervello, all’esperienza visiva spiega come mai, alla domanda «come vediamo una sedia?», un fisico, un biochimico, un neurofisiologo, un oculista e uno psicologo daranno risposte diversissime fra loro. Ciò non significa che tutti ignorino la risposta esatta, ma che uno stesso problema può essere affrontato dal punto di vista di svariate discipline scientifiche, discipline che usano livelli di analisi molto diversi l’uno dall’altro. Lo stadio del processo che interessa professionalmente lo studioso di percezione è, ovviamente, solo l’ultimo: se è fuor di dubbio che l’attività di occhio e cervello sia collegata alle esperienze percettive, lo è altrettanto il fatto che queste possano venire studiate indipendentemente dai processi nervosi sottostanti. Ogni parte del nostro corpo si è evoluta per svolgere una funzione. Il cuore serve a pompare il sangue, lo stomaco a digerire, il fegato a neutralizzare i composti tossici, l’occhio a rispondere alla luce che le cose riflettono. La funzione del cervello è quella di ricavare informazioni dall’ambiente esterno (e interno) e di XIII

usarne una parte per generare il comportamento. La gente a volte pensa che i progressi nella conoscenza dei circuiti nervosi renderanno obsolete le teorie degli psicologi, ma nulla è più lontano dalla verità. I nostri circuiti nervosi sono stati mantenuti o scartati dalla selezione naturale unicamente sulla base dei calcoli che facevano; o, per maggior precisione, sulla base delle esperienze e dei comportamenti a cui questi calcoli davano origine. La psicologia non è il parente povero delle neuroscienze. Questo libro cerca di rispondere non solo alla domanda come, ma anche alla domanda perché. Qualsiasi organismo, dal batterio alla balena, deve essere adattato al suo ambiente per poter sopravvivere e lasciare una discendenza; noi non facciamo eccezione. Di ogni singolo fatto della visione ci possiamo chiedere che cosa lo causa (come), e come mai esiste (perché); non c’è un come senza perché. Ad esempio, a differenza di tutti gli altri mammiferi ad eccezione delle scimmie africane, noi siamo in grado di distinguere il rosso dal verde. La risposta alla domanda come è: abbiamo tre tipi di cellule sensibili al colore anziché due, e ne combiniamo in un certo modo le risposte. La risposta alla domanda perché è: milioni di anni fa, durante la nostra evoluzione in Africa, la capacità di individuare frutti maturi e tènere foglie commestibili di colore rosso fra la vegetazione verde ha accresciuto le probabilità di alcuni di noi di cavarsela e lasciare discendenti; di conseguenza, di generazione in generazione (per «prove e successi»), abbiamo evoluto tre tipi di cellule sensibili al colore e un certo modo di combinarne le risposte. Per dire le cose come stanno, vediamo gli oggetti come stabili, unitari, completi, separati dallo sfondo, tridimensionali, posti a una certa distanza, costanti in chiarezza, colore, grandezza e forma, permanenti nel tempo, solo perché questo ha aiutato i nostri antenati a riprodursi. I capitoli 1 e 2 trattano per intero della catena di eventi che precede la percezione. Una ragione per cui è importante conoscere bene questi eventi, io credo, è che ciò permette di capire quali aspetti della nostra esperienza visiva rappresentano problemi scientifici per uno studioso di percezione e quali no. Sappiamo, ad esempio, che la miopia dipende quasi sempre da un XIV

piamo, ad esempio, che la miopia dipende quasi sempre da un difetto della messa a fuoco sulla retina causato da un anomalo allungamento del globo oculare. Il mondo sfocato di un miope, quindi, interessa molto gli oculisti (e i miopi), poco gli studiosi di percezione. Sappiamo anche che una lesione di certe aree del cervello può provocare anomalie visive. Il mondo sfocato di un reduce di guerra, quindi, interessa soprattutto i neuropsicologi ed eventualmente le organizzazioni pacifiste. Il fatto che in un osservatore perfettamente normale un margine sfocato produca delle trasformazioni nel colore di una figura, d’altro canto, interessa moltissimo gli studiosi di percezione. I capitoli successivi trattano i principali aspetti del problema che ci interessa: perché il mondo appare nel modo in cui appare. Nei capitoli 3 e 4 ci chiediamo perché le cose appaiano di un certo colore e di una certa chiarezza. Nel capitolo 5 ci chiediamo perché, invece di una costellazione di puntolini colorati indipendenti l’uno dall’altro, vediamo sedie, tavoli e teiere, cioè oggetti unitari e distinti dallo sfondo. Nel capitolo 6 ci chiediamo perché questi oggetti appaiano tridimensionali e posti a distanze diverse. Nel capitolo 7, perché alcune cose appaiano in movimento (no, la risposta non è «perché sono in movimento»). Strada facendo, fatti quotidiani che credevamo banali si riveleranno per quello che sono, cioè problemi scientifici. Capiremo perché le donne usano il rossetto (non da cinquant’anni, ma da cinquemila), perché la frutta acerba è dello stesso colore delle foglie e perché a sei mesi di età eravate molto più bravi a distinguere fra loro le facce delle scimmie di quanto non lo siate ora; perché la luna ci appare bianca o perfino luminosa pur essendo grigio scuro; perché il mondo non si muove quando muoviamo gli occhi, perché nei film le ruote delle diligenze sembrano girare all’indietro e perché il nostro cane non si interessa ai programmi televisivi. P.B.

Il colore della luna

1

La luce Δ Che cos’è la luce Δ Come si propaga la luce Δ Perché siamo sensibili alla luce

Alla prima del thriller Gli occhi della notte, nel 1967, le luci di sala vennero spente una alla volta negli ultimi 12 minuti di proiezione; una luce per ogni lampadina che Audrey Hepburn, nella parte di una donna cieca che cerca di difendersi da tre malintenzionati nel suo appartamento di New York, mandava in frantumi. La scena finale, in un crescendo di tensione, culminava nella perfetta oscurità (dentro e fuori dal film), mettendo sullo stesso piano non solo l’eroina non vedente e i malvagi vedenti, ma anche, imprevedibilmente, gli spettatori. Nel buio pesto non è facile farsi un’idea di che cosa ci circonda, né di ciò che accade intorno a noi. Suoni e rumori non ci trasmettono alcuna informazione su oggetti o eventi silenziosi, gli odori sono di scarso aiuto e la pressione di certe superfici sulla pelle non ci dice nulla sulle parti dell’ambiente con cui non siamo direttamente a contatto. Non a caso la paura del buio è una delle più ancestrali, assieme a quella dei serpenti, dei ragni, dei temporali e degli estranei. (Ironicamente, ben pochi hanno altrettanta paura di pericoli evolutivamente recenti come le automobili, l’alcol e le sigarette, pur sapendo che oggi questi uccidono molte più persone di quanto non facciano i ragni, i fulmini o i serpenti.) Da che mondo è mondo, o perlomeno dal Pleistocene in qua, per sentirci a nostro agio abbiamo bisogno di procurarci informazioni rapide e abbondanti sul mondo che ci circonda; e per farlo abbiamo bisogno di luce. 1.1 Che cos’è la luce La luce è una forma di energia elettromagnetica, esattamente come le onde radio, le microonde, i raggi infrarossi e ultravioletti, i 3

raggi X. La natura della luce ha rappresentato la materia di una delle più roventi controversie nella storia della scienza. La luce è un insieme di onde o di minuscole particelle? Dopo alterne fortune dell’una e dell’altra interpretazione, si è giunti alla conclusione di aver bisogno di entrambe. Ci vediamo insomma costretti a impiegare contemporaneamente due analogie differenti, e a immaginare la luce come composta sia di particelle che di onde. L’unica differenza fra le varie forme di energia elettromagnetica è la lunghezza d’onda, che può essere misurata in chilometri, metri o centimetri, ed esprime la distanza percorsa dall’onda fra un’oscillazione e l’altra. Un’alta frequenza di oscillazione, ad esempio, significa che l’onda non fa molta strada fra un’oscillazione e l’altra e ha quindi una lunghezza d’onda piccola. Fig. 1.1 Una goccia che cade nell’acqua genera una serie di onde concentriche. Possiamo immaginare che le onde luminose irradiate da una fonte di luce, come il sole o una lampadina, si propaghino nell’aria in modo analogo. Già nel V secolo a.C. i Greci si erano resi conto che l’occhio e l’oggetto guardato dovevano essere collegati da qualche cosa, ma la natura di questo legame (che è la luce, come ora sappiamo) rimase sconosciuta per almeno duemila anni. La convinzione predominante era che l’occhio emanasse dei raggi che viaggiavano fino all’oggetto e lo toccavano. Idea respinta prima da Aristotele, con l’argomento che in tal caso saremmo in grado di vedere al buio; poi da Leonardo da Vinci, con l’obiezione che sarebbe impossibile vedere il sole immediatamente dopo aver aperto gli occhi, considerata la distanza che ce ne separa. (La «corona» causata dall’impatto di una goccia sulla superficie dell’acqua è seguita da una colonna liquida che si solleva a un’altezza sorprendente, per frantumarsi poi in goccioline che la forza di gravità fa ridiscendere verso il basso. Immagini come questa sono ottenute in un ambiente perfettamente buio: un sincronizzatore rileva il passaggio della goccia mentre questa cade, e attiva un flash luminoso dopo un appropriato intervallo. Foto: © Andrew Davidhazy. Per gentile concessione dell’autore.)

4

Fig. 1.2 Lo spettro elettromagnetico comprende tutte le forme di energia che viaggiano alla velocità della luce. L’unica differenza tra queste forme di energia è la lunghezza d’onda, che qui è rappresentata in metri: 106 significa 1 seguito da 6 zeri, ovvero un milione di metri (la distanza in linea d’aria fra Venezia e Catania); 10-6 significa 1 diviso 1.000.000, ovvero un milionesimo di metro, che è meno del diametro di un globulo rosso. La lunghezza d’onda della luce visibile viene espressa di solito in miliardesimi di metro, o nanomètri. (Tanto per avere un’idea, un capello umano ha uno spessore di circa 80.000 nanometri.) Un modo di generare energia elettromagnetica è quello di applicare calore; più caldo un oggetto diventa, più la lunghezza d’onda delle radiazioni che emette si accorcia. Un pezzo di metallo, ad esempio, se viene scaldato emette radiazioni sempre più corte finché non raggiunge una temperatura di circa 500 gradi, quando comincia ad emettere luce visibile. È mediante questo processo, detto incandescenza, che il sole, il fuoco, e le tradizionali lampadine al tungsteno producono luce.

A un’estremità dello spettro elettromagnetico stanno le onde radio usate nelle comunicazioni transoceaniche: fra un’oscillazione e l’altra si possono spostare di chilometri. Più corte sono le onde radio su cui si basano gli apparecchi radiofonici e televisivi, e ancor più corte quelle usate dai telefoni cellulari, come stanno a testimoniare le antenne più piccole (la lunghezza di un’antenna è di regola proporzionale alla lunghezza delle onde che essa ha il compito di catturare). Seguono le microonde, che fra un’oscillazione e l’altra percorrono al massimo qualche centimetro. Tutti sappiamo adoperare un forno a microonde, se non altro per scongelare il pesce, ma non tutti sanno che si deve alle microonde se i radar sono in grado di determinare la posizione di navi o aerei altrimenti invisibili. Il 5

radar emette microonde un po’ più lunghe di quelle del nostro forno, e registra la direzione e l’intensità dell’eco proveniente dagli oggetti colpiti. La radiazione successiva nello spettro elettromagnetico è l’infrarosso, la cui lunghezza d’onda non supera le dimensioni di una capocchia di spillo. Non vediamo i raggi infrarossi, ma li percepiamo sotto forma di calore. Una normale lampadina a incandescenza comincia presto a scottare proprio perché emette più del 90% della sua energia nell’infrarosso, ovvero sotto forma di calore anziché nello spettro visibile – uno spreco considerevole. L’efficienza di una lampada al neon si avvicina al 30%; sempre poco in confronto all’efficienza di una comune lucciola, che sotto forma di luce visibile libera più del 75% della sua energia. Ogni oggetto che abbia una temperatura emette radiazione infrarossa, anche un cubo di ghiaccio, ma oggetti più caldi ne emettono in misura maggiore. Su questo principio si basano le fotografie all’infrarosso: l’apparato rileva le differenze di temperatura nella scena e assegna un diverso (falso) colore a ciascuna temperatura, generando un’immagine che i nostri occhi possono interpretare. Alcuni rettili, come il serpente a sonagli, riescono a «vedere» la luce infrarossa direttamente e quindi a individuare animali a sangue caldo anche al buio. La natura non ha ritenuto di doverci dotare di un apparato di rilevazione dell’infrarosso, ma in certe situazioni averne uno non sarebbe male. Nella scena madre dell’inseguimento notturno, nel bel film di Michael Crichton Il mondo dei robot, la visione a infrarossi di cui è equipaggiato l’androide inseguitore Yul Brynner gli conferisce, per esempio, un evidente vantaggio sullo sfortunato Richard Benjamin, unico oggetto caldo rimasto in circolazione. Benjamin tenta di far perdere le proprie tracce camminando nell’acqua, ma il calore irradiato dalle sue impronte sul fondo ne tradisce ogni passo: attraverso gli occhi dell’androide, vediamo le orme brillare nella semioscurità. Nel mondo reale, l’acqua corrente farebbe dissipare il calore all’istante e comunque ben prima che l’androide sopraggiunga, ma l’idea non è priva di merito. Le telecamere a infrarossi mo6

Fig. 1.3 Fotografia all’infrarosso del muso di un gatto. Gli occhi e la parte interna delle orecchie (color arancio nell’immagine originale) sono le aree più calde; il naso (azzurro nell’immagine originale) è la parte più fredda. L’uso di pellicole all’infrarosso rende possibile fotografare o filmare al buio, una tecnica resa popolare dalla sua recente utilizzazione nei reality show, i cui partecipanti vengono spiati ininterrottamente anche nelle ore notturne. La medesima tecnica viene usata per smascherare rapinatori o intrusi, per studiare le reazioni del pubblico nei cinema, e per immortalare gli animali selvatici senza spaventarli. Si è scoperto recentemente che alcune specie di scoiattolo usano l’infrarosso per segnalare al serpente a sonagli, predatore naturale dei loro piccoli, l’intenzione di contrattaccare. Il segnale (prodotto solo in presenza del serpente a sonagli, che percepisce l’infrarosso, e non di serpenti che non sono in grado di farlo) consiste nel riscaldare la punta della coda e agitarla poi minacciosamente di qua e di là. Proprio studiando il serpente a sonagli, l’aviazione americana sta tentando di sviluppare un dispositivo per la rilevazione dell’infrarosso che sia in grado di individuare missili nemici nell’oscurità. Un congegno di questo tipo è già stato costruito, ma ha prestazioni grossolane (identifica la presenza ma non la posizione dell’oggetto caldo) e ha l’inconveniente di dover essere mantenuto a una temperatura inferiore ai 200 gradi sotto zero. Gli organi che permettono al serpente a sonagli di percepire i raggi infrarossi non hanno questi difetti: sono sensibili a cambiamenti di temperatura dell’ordine di tre millesimi di grado, ed essendo posti bilateralmente determinano la distanza dell’oggetto caldo con impressionante precisione. Questi organi non funzionano come termometri, ma rilevano la differenza fra la temperatura del corpo del serpente (che è uguale a quella esterna) e la temperatura del corpo della preda. (Foto: SE-IR Corporation, Goleta, CA. Da http://imagers.gsfc.nasa.gov/ems/infrared.html.)

strano, ad esempio, che le orme lasciate da un orso polare nella neve continuano a emanare calore per parecchi minuti dopo che l’orso se ne è andato. La porzione più corta dell’infrarosso (quella vicina alla luce visibile) fa eccezione perché non è calda, e non la possiamo percepire in alcun modo. Queste lunghezze d’onda sono, per esempio, quelle usate dal telecomando del televisore. 7

La minuscola parte dello spettro elettromagnetico che genera in noi sensazioni visive, la luce, è quella compresa fra i 380 e i 700 nanometri circa: di fronte alla vastità dello spettro, siamo creature praticamente cieche. Ciò è dovuto verosimilmente al fatto che i primi occhi si sono evoluti in animali che vivevano in acque melmose (i nostri più antichi antenati), e queste radiazioni sono le sole in grado di penetrare nell’acqua. È stata questa ristretta porzione dello spettro a guidare l’evoluzione dei meccanismi biochimici su cui si fonda la visione. Una volta imboccata quella strada non vi è stato ritorno: i sistemi visivi sono stati edificati su quelle basi. Sono passati cinque miliardi di anni e nel frattempo ci siamo trasferiti sulla terraferma in pianta stabile; ora potremmo disporre di uno spettro assai più ampio, ma i nostri occhi rimangono sensibili a quella porzione soltanto. Alle diverse lunghezze d’onda della luce visibile corrisponde la percezione di diversi colori, dal rosso al violetto, come vedremo nel capitolo 3. Il rosso segue l’infrarosso, e il violetto è seguito dall’ultravioletto, una forma d’energia benefica per certi aspetti e dannosa per altri. Ciò spiega come mai, assieme alla pelle chiara, le popolazioni indigene delle regioni sub-tropicali e temperate hanno evoluto la capacità di abbronzarsi, cioè di produrre uno strato protettivo di melanina come reazione all’eccessiva esposizione all’ultravioletto. Le popolazioni che vivono più vicino ai poli (dove la luce solare è scarsa tutto l’anno) hanno sviluppato pelli molto chiare ma non la capacità di abbronzarsi, e se si espongono al sole delle nostre latitudini si scottano facilmente. La luce ultravioletta altera anche i legami delle molecole dei pigmenti (le sostanze usate per colorare), il che spiega come mai i tessuti esposti al sole sbiadiscono. Molti musei, dopo aver installato lampade al neon per illuminare in modo uniforme i dipinti, sono tornati alle comuni lampadine a incandescenza quando si è scoperto che la porzione di luce ultravioletta emessa dalle lampade al neon faceva sbiadire le opere esposte. L’energia della radiazione elettromagnetica aumenta man mano che la lunghezza d’onda diminuisce: i raggi X attraversano cartone, legno, tessuti e anche strati sottili di metalli poco densi (le lastre per raggi X sono chiuse in buste di alluminio). Le diverse 8

Fig. 1.4 La più ovvia differenza tra un africano e un europeo è il colore della pelle. Le pelli scure proteggono in modo permanente dalla luce ultravioletta, che distrugge una vitamina cruciale per la fertilità e anche per lo sviluppo del feto, l’acido folico1. Come mai allora non siamo tutti scuri? La pelle dei nostri antenati africani che si spostarono verso il poco luminoso Nord si fece progressivamente meno pigmentata per facilitare la sintesi della vitamina D, che necessita della luce solare. Il colore della pelle, in popolazioni che abitano in particolari zone da millenni, è quello che in quell’ambiente meglio permette la sintesi della vitamina D, proteggendo al tempo stesso le riserve di acido folico nel sangue. Il colore della pelle di immigrati recenti richiederà migliaia di anni per adattarsi, esponendo gli individui di pelle chiara al rischio di cancro della pelle e a problemi legati alla deficienza di acido folico, e gli individui di pelle scura al rischio di disturbi legati alla deficienza di vitamina D. La più comune conseguenza della carenza di vitamina D è il rachitismo, che prima degli anni Trenta (quando si cominciò ad aggiungere vitamina D al latte) era frequentissimo nelle città nordamericane, e colpiva i bambini neri più dei bambini bianchi. (Elaborazione digitale: Paola Bressan.)

capacità di assorbimento dei raggi X da parte di sostanze o materiali diversi vengono utilizzate non solo per diagnosticare fratture o problemi polmonari, ma anche, ad esempio, per individuare alterazioni ai dipinti apportate in un secondo momento. Numerosi falsi sono stati scoperti proprio in questo modo. Non c’è invece modo (né desiderio) di fotografare da vicino e direttamente i raggi gamma, i quali, oltre a penetrare lastre metalliche di parecchi centimetri, possono uccidere le cellule viventi. Se i raggi gamma generati da esplosioni nucleari e da materiale radioattivo nello spazio non venissero assorbiti completamente dall’atmosfera del nostro pianeta, senza riuscire ad attraversarla, di sicuro non saremmo qui a parlarne. Peraltro, così come i raggi X anche i raggi gamma vengono adoperati per una varietà di scopi utili. Ad esempio, quantità minuscole di so9

Fig. 1.5 Una foto ai raggi X rappresenta non l’oggetto, ma la sua ombra. I raggi X attraversano la pelle ma vengono assorbiti da corpi a maggiore densità, quali ossa, denti o otturazioni; sono le relative ombre a venire proiettate sulla pellicola. All’altezza alla quale volano i moderni aerei, il ridotto spessore dell’atmosfera accresce l’esposizione alle radiazioni cosmiche di diversi ordini di grandezza rispetto a quella cui siamo soggetti normalmente. I ricercatori hanno calcolato che la dose di radiazioni accumulata durante un volo intercontinentale è simile a quella di una radiografia al torace. D’altro canto, in un anno siamo esposti in media all’equivalente di oltre 30 radiografie al torace, semplicemente perché tutto emette radiazioni, inclusi i materiali naturali, i cibi che mangiamo e il nostro prossimo. I raggi X vennero osservati per la prima volta, per puro caso, dal tedesco Wilhelm Röntgen alla fine dell’Ottocento. Dopo pochi giorni dalla scoperta, Röntgen riuscì a fare una foto ai raggi X della mano di sua moglie, foto che rivelava chiaramente le ossa e l’anello di fidanzamento. La foto mandò in visibilio il grosso pubblico e suscitò un interesse vivissimo fra gli scienziati.

stanze radioattive che emettono raggi gamma possono essere impiegate per marcare, e rendere quindi identificabili, oggetti o documenti di valore di qualsiasi tipo, come dipinti, contratti o CD. Questa tecnologia recentissima poggia sulla possibilità di combinare isotopi che emettono raggi gamma di lunghezze d’onda diverse, producendo un equivalente invisibile, e non falsificabile, dei comuni codici a barre. Ovviamente il livello totale di radioattività emesso da questa specie di microscopica etichetta (più piccola del punto alla fine di questa frase) è prodigiosamente basso, all’incirca un quarto della radioattività naturale di una singola banana. Sebbene nella maggior parte dei casi il modello ondulatorio della radiazione elettromagnetica funzioni in modo soddisfacente, ciò non accade sempre. Nello spazio la luce si muove co10

me un’onda, è vero, ma quando incontra la materia la colpisce in modo simile ai proiettili sparati da una mitragliatrice. Per certi scopi, quindi, ci conviene immaginarcela come un flusso di piccolissime particelle, dette fotoni, che viaggiano in linea retta. Ogni fotone possiede un quanto di energia, che viene ceduto quando il fotone colpisce un’altra particella. 1.2 Come si propaga la luce [diffusione] [rifrazione] [assorbimento] [riflessione]

Il problema della natura della luce non ha alcuna importanza quando cerchiamo di capire come la luce si propaga nel nostro ambiente. A tale scopo, possiamo rappresentarci la luce semplicemente come composta di raggi, che vengono emessi da una fonte luminosa e tendono a viaggiare in linea retta. Diciamo «tendono» perché questo sarebbe vero nel vuoto, ma in un ambiente naturale le cose sono un po’ più complesse. La luce interagisce con il mondo in quattro modi fondamentali e con conseguenze interessantissime: l’azzurro del cielo, i miraggi del deserto, l’oscurità degli abissi e gli specchi. 1.2.1 Diffusione Quando attraversa l’aria dell’atmosfera terrestre, la luce viene diffusa. I raggi vengono cioè rinviati in tutte le direzioni quando colpiscono le fini particelle di materia che l’aria contiene – vapore acqueo, gas, polvere e fumo. Se non ci fosse un’atmosfera, il cielo sarebbe nero come quello della luna. La diffusione della luce solare a opera dell’atmosfera è la ragione per cui il cielo è azzurro: le lunghezze d’onda più corte, che corrispondono alla percezione del colore blu, vengono diffuse in misura maggiore delle altre. (In realtà la lunghezza d’onda più corta nello spettro visibile corrisponde al violetto. Il cielo non è violetto per due ragioni: perché la componente violetta della luce solare è meno intensa di quella blu e perché il nostro occhio è più sensibile al blu che al violetto.) Le lunghezze d’onda meno corte (verde, giallo, arancio, rosso) vengono diffuse 11

Fig. 1.6 Il fumo emesso direttamente da una sigaretta è azzurrino, mentre il fumo aspirato e poi espirato dal fumatore, come quello degli anelli concentrici nella foto, è biancastro. Incredibilmente, ciò è dovuto allo stesso motivo per cui il cielo è azzurro mentre le nuvole sono bianche. L’intensità della luce diffusa da una particella dipende dal rapporto fra il diametro della particella e la lunghezza d’onda della luce. Particelle molto piccole, come quelle prodotte dalla combustione, diffondono le lunghezze d’onda corte (blu) più di quelle lunghe (rosso). Risalendo la sigaretta e poi in bocca, però, le particelle di fumo si aggregano diventando più grandi, per cui, una volta espirate, diffondono le varie lunghezze d’onda della luce in maniera uniforme. (Foto: Howard Sochurek. Da D.E. Scherman [a cura di], The Best of Life, New York, Time-Life Books, 1973.)

meno e ci arrivano direttamente, facendo sì che il sole appaia giallo. Al tramonto però i raggi solari, divenuti obliqui rispetto alla crosta terrestre, attraversano uno strato di atmosfera più spesso, allo stesso modo in cui una fetta di ciambella tagliata obliquamente ha una superficie maggiore di una fetta tagliata perpendicolarmente. La quantità di lunghezze d’onda corte e medie che viene diffusa aumenta semplicemente perché la luce deve fare più strada, e quindi urtare più particelle, prima di giungere al nostro occhio. Le uniche lunghezze d’onda che arrivano quasi indisturbate sono le più lunghe, che corrispondono al colore rosso: ecco perché il sole al tramonto appare rosso. Le gocce d’acqua che costituiscono le nuvole, a causa delle loro maggiori dimensioni, diffondono la luce delle varie lunghezze d’onda all’incirca nella stessa misura, per cui le nuvole appaiono bianche e non azzurre. 12

1.2.2 Rifrazione Vi sarà capitato di notare che lo stelo di un fiore in un bicchiere d’acqua appare spezzato nel punto in cui incontra l’acqua. Quando passano da un mezzo di una certa densità a uno di diversa densità (ad esempio, dall’aria all’acqua o dall’aria al vetro), i raggi luminosi, a meno che non giungano alla superficie perpendicolarmente, cambiano direzione. Lo stesso succede quando i raggi passano da uno strato di aria meno calda a uno strato di aria più calda, e quindi meno densa, come quella vicina all’asfalto bollente nei periodi di canicola. Se avete viaggiato in auto in una di queste giornate avrete notato che l’asfalto, a una certa distanza, appare bagnato, come se fosse appena piovuto solo in quel punto. La ragione, invece, è che i raggi provenienti dagli oggetti circostanti (gli alberi, o l’auto che vi precede), nell’avvicinarsi al suolo, vengono rifratti dall’aria calda e curvati verso l’alto nella vostra direzione. L’immagine che il vostro occhio riceve è indistinguibile da quella che avrebbe di fronte a una superficie riflettente, come uno specchio d’acqua. Se sostituiamo l’asfalto con una distesa di sabbia rovente come quella del deserto, e l’immagine degli alberi con l’immagine del cielo, riusciamo a capire come il viandante assetato possa credere di vedere il laghetto di un’oasi. (Un’oasi che non solo non esiste, ma che beffardamente si allontana al calar della sera, quando il deserto si raffredda e la curvatura dei raggi luminosi diminuisce.) I miraggi sono causati dal fatto che la luce non viaggia sempre in linea retta, mentre il nostro sistema visivo assume che lo faccia. 1.2.3 Assorbimento Film e documentari sulle meraviglie degli oceani mostrano con grande evidenza come sotto il livello dell’acqua la luce sia molto scarsa; superati i mille metri di profondità, l’oscurità è totale. In questo habitat, nell’impossibilità di inviare segnali ai propri conspecifici tramite la forma e i colori del corpo, molti pesci hanno sviluppato una qualche forma di luminescenza. Alcuni posseggono vere e proprie cellule in grado di produrre luce; altri hanno risolto il problema ospitando colture di batteri fosfo13

rescenti che rendono visibili quando serve, sollevando i lembi di pelle che di norma li celano. L’oscurità degli abissi è dovuta al fatto che, quando attraversa un mezzo qualsiasi, la luce viene assorbita: i fotoni collidono con particelle di materia, cedono la loro energia e scompaiono. Nell’acqua, l’assorbimento è molto maggiore che nell’aria. Le lunghezze d’onda più lunghe (rosso, arancio e giallo) vengono assorbite più di quelle corte (verde, blu e violetto), per cui la luce residua diventa progressivamente più blu in acque più profonde. Una volta assorbita, naturalmente, la luce non può più essere vista. Siamo in grado di vedere gli oggetti che ci circondano unicamente perché essi riflettono almeno parte della luce che li colpisce. Fig. 1.7 Siamo in grado di distinguere il legno verniciato da quello grezzo per il diverso modo in cui le due superfici riflettono la luce. La quantità di luce riflessa da una superficie dipende anche dalla sua orientazione, come mostrano i tessuti cangianti. Essi hanno una trama regolare di fibre parallele che danno origine a delle scanalature; queste riflettono la luce più o meno bene a seconda dell’angolo da cui le si guarda. Quando ci si muove con un abito del genere addosso, quindi, il tessuto luccica. Alcuni pigmenti fanno più che riflettere semplicemente la luce: assorbono alcune lunghezze d’onda per poi riemettere la stessa energia sotto forma di lunghezze d’onda differenti. Questi pigmenti, sintetizzati negli Stati Uniti negli anni Cinquanta, sono quelli comunemente usati per gli evidenziatori: sembrano emettere luce perché la emettono davvero. La luce proveniente dal segno prodotto da un evidenziatore arancio contiene più luce di quella lunghezza d’onda di quanta ce ne fosse nella fonte luminosa. Ciò significa anche che, per quanto riguarda quella lunghezza d’onda, il segno arancio riflette più luce del foglio bianco, una circostanza che con i normali pigmenti è del tutto impossibile. (Gustave Caillebotte, I raschiatori di parquet, 1875, Parigi, Musée d’Orsay.)

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Fig. 1.8 In questa vetrina di Londra, il vetro lascia passare la luce riflessa dai manichini all’interno (illuminati dalle lampade circolari, in alto nell’immagine) e al tempo stesso fa rimbalzare verso l’osservatore parte della luce riflessa dalla scena esterna (illuminata dal sole). Dal vero, distinguere la scena riflessa dal vetro da quella osservata attraverso il vetro sarebbe cosa da nulla. In una fotografia, però, il venir meno di alcuni indicatori di profondità rende la scissione visivamente difficile: nel capitolo 6 scopriremo come mai. (Foto: Paola Bressan, 2003.)

1.2.4 Riflessione Superfici di vario tipo riflettono la luce in modi caratteristici. Alcune riflettono una percentuale maggiore della luce che le illumina rispetto ad altre e appaiono così più chiare. Vi sono forme viventi che sfruttano questo principio per assicurarsi una discendenza. È per questa ragione, ad esempio, che i fiori che sbocciano di notte sono comunemente bianchi, e quindi ben visibili anche con poca luce: gli insetti impollinatori vengono guidati inizialmente dal profumo dei fiori, ma usano la vista per l’avvicinamento finale. (Di cose chiare e cose scure parleremo nel capitolo 4.) Inoltre, superfici diverse riflettono le varie lunghezze d’onda in misura diversa, apparendo di conseguenza diversamente colorate (scopriremo perché nel capitolo 2, e come nel capitolo 3). Il modo in cui la luce viene riflessa dipende anche dalla grana, o tessitura, della superficie che la riflette. Una superficie ruvida, essendo costituita da una specie di mosaico di minuscole superfici riflettenti con inclinazioni diverse, rifletterà la luce in maniera irregolare, cioè in più direzioni. Un oggetto perfettamente liscio, come uno specchio, rifletterà i raggi tutti nella stessa direzione. Gli specchi unidirezionali sono speciali perché separano due ambienti, uno perfettamente illuminato (quello in cui un criminale viene interrogato, per esempio) e l’altro semibuio (quello in 15

cui siede l’osservatore). Di solito, dalla parte dell’osservatore il vetro è anche rivestito con una sottilissima pellicola d’argento. Questi accorgimenti fanno sì che gran parte della luce che colpisce il vetro nella stanza illuminata venga riflessa verso il criminale, che crede così di trovarsi davanti a uno specchio. Il resto della luce viene trasmesso attraverso il vetro e raggiunge l’osservatore, che può in tal modo vedere distintamente il criminale all’insaputa di quest’ultimo. Lo stesso principio è sfruttato dagli occhiali a specchio. In generale, la pellicola d’argento migliora la riflessione del lato a specchio, ma non è indispensabile: passeggiando in una strada assolata ci specchiamo facilmente nelle vetrine buie dei negozi, ma non ci riesce altrettanto facile vedere gli oggetti esposti. 1.3 Perché siamo sensibili alla luce È stato stimato che, nel regno animale, l’evoluzione di occhi in grado di formare un’immagine (e non semplicemente, quindi, di rispondere all’intensità della luce) sia avvenuta indipendentemente, partendo da zero, almeno 40 volte2. Gli occhi si sono sviluppati nel 96% delle specie conosciute e lo hanno fatto sulla base di almeno undici progetti costruttivi differenti, che comprendono l’occhio a foro, due tipi di occhio a camera, un occhio a specchio concavo e parecchi tipi di occhio composto. Dobbiamo dedurne che l’uso della luce come mezzo per ottenere informazioni sul mondo presenta dei vantaggi. Per cominciare, di luce ce n’è tanta. Circa la metà dell’energia irradiata dal sole che penetra l’atmosfera consiste in luce visibile; l’altra metà è composta dalle lunghezze d’onda superiori, ovvero l’infrarosso, le microonde e le onde radio. Rispetto a queste ultime, la lunghezza d’onda della luce è da un punto di vista biologico più conveniente: per vedere le onde radio, ad esempio, dovremmo avere occhi grandi come antenne paraboliche, cosa senz’altro scomoda sotto alcuni aspetti. Essere sensibili alla luce è remunerativo anche perché essa cammina a gran velocità (trecentomila chilometri al secondo). Ciò significa che informazioni provenienti da fonti anche molto 16

Fig. 1.9 Il modo in cui le diverse regioni di una superficie riflettono la luce fornisce informazioni su varie caratteristiche della superficie stessa, quali la sua levigatezza o la presenza di avvallamenti e protuberanze. Una superficie al cui aspetto il nostro passato evolutivo ci ha reso particolarmente sensibili è la pelle del volto dei nostri simili. In particolare, l’istintiva attrazione per una pelle femminile liscia e senza rughe è legata alla sua associazione con la giovinezza e quindi con la fertilità. (Sull’attrattiva dei volti maschili, le rughe hanno un impatto minore perché gli uomini rimangono fertili fino a tarda età.) Ovviamente, non è affatto escluso che nel corso della nostra storia evolutiva alcuni ominidi preferissero avere relazioni con interessanti donne mature, proprio come accade oggi; ma chiunque avesse fatto questa scelta in maniera esclusiva non avrebbe lasciato prole in grado di ereditare tale preferenza. L’importanza biologica della propensione per individui fertili spiega perché, in tutte le culture, gli uomini tendano a scegliere donne giovani e le donne cerchino di apparire tali. Secondo un rapporto della NBC, in America nel 2005 più di 40 miliardi di dollari sono stati spesi in prodotti anti-età, e quasi 9 milioni di persone, in stragrande maggioranza donne, si sono sottoposte a operazioni di chirurgia plastica per sembrare più giovani. (Foto: prima e dopo un lifting totale. Una pelle irregolare appare meno luminosa di una pelle liscia perché zone anche molto vicine fra loro hanno inclinazioni differenti; la riflessione della luce tende quindi a essere diffusa anziché speculare.)

distanti possono essere raccolte, di fatto, istantaneamente. Inoltre, la luce non viaggia né a zig-zag né descrivendo curve, ma tende a spostarsi in linea retta. Questo è un altro vantaggio, perché le immagini create sul fondo dell’occhio dai raggi luminosi conservano importanti proprietà geometriche degli oggetti da cui i raggi sono stati riflessi: ad esempio, la luce proveniente da due punti adiacenti nello spazio va a cadere su due punti adiacenti sul fondo dell’occhio. Capite bene che, se fosse spazialmente disordinata o casuale, la distribuzione della luce nell’occhio sarebbe di ben poca utilità come fonte di informazioni sulla struttura e la disposizione degli oggetti. Infine, come abbiamo visto, quando urta gli oggetti la luce non torna sempre indietro alla stessa maniera: viene invece as17

sorbita e riflessa da superfici diverse in modi caratteristici. Essa quindi trasporta informazioni non solo sulla presenza di questi oggetti, ma anche su certi interessanti aspetti della loro superficie, come la lucentezza (che può, ad esempio, indicare se in lontananza c’è uno specchio d’acqua) o il colore (capace di segnalare se un frutto è maturo o acerbo; se un fungo è commestibile o velenoso; o, ancora, se le nuvole portano bel tempo o tempesta). Naturalmente, le informazioni trasportate dalla luce sono tali soltanto perché siamo provvisti di un apparato in grado di catturarle e farne uso: in breve, di un sistema visivo.

Sommario 1.1. La luce è una forma di energia elettromagnetica, come le onde radio, le microonde e l’infrarosso (che hanno lunghezze d’onda più grandi di quelle visibili); e come l’ultravioletto, i raggi X e i raggi gamma (che hanno lunghezze d’onda più piccole di quelle visibili). La sola ragione per cui la luce è per noi così speciale è che il nostro occhio contiene cellule che rispondono proprio a quelle lunghezze d’onda. 1.2. La luce interagisce con la materia in quattro modi importanti: viene diffusa, rifratta, assorbita e riflessa. 1.3. Un animale che sia sensibile alla luce ne ricava considerevoli vantaggi, dato che la luce trasporta rapidamente, e a grandi distanze, informazioni accurate sulla presenza degli oggetti e sulle caratteristiche della loro superficie.

Per saperne di più Storia della luce. Vasco Ronchi, Laterza, 1983 (pubblicato originariamente nel 1939). Una storia affascinante del concetto di luce, dall’antica Grecia ai giorni nostri. Il luna park della fisica. Jearl Walker, Zanichelli, 1981. Centinaia di domande e risposte sulla fisica della vita quotidiana, con ampie sezioni 18

dedicate alla fisica della luce. Molto interessante e pieno di sorprese, anche se le risposte sono meno facili da capire delle domande. Potenza della luce. Joel Achenbach, in «National Geographic Italia», n. 4, ottobre 2001. Un articolo insolito sulla luce e le sue applicazioni, come il laser e le fibre ottiche, scritto da un entusiasta e illustrato da fotografie di Joe McNally. 101 colori del cielo. Jearl Walker, in «Le Scienze Dossier: Il colore», n. 9, autunno 2001. Il fenomeno della diffusione della luce e i suoi risultati più spettacolari, inclusi il cielo bianco all’orizzonte e la macchia viola che compare talvolta dopo il tramonto, spiegati in un linguaggio facilmente comprensibile. I miraggi. Alistair B. Fraser e William H. Mach, in «Le Scienze», n. 93, maggio 1976. Un resoconto chiaro di come si generano i miraggi (compreso quello noto come Fata Morgana, visibile in prossimità dello stretto di Messina), illustrato da schemi e da fotografie di miraggi; non aspettatevi troppo dalle foto.

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Il sistema visivo Δ L’occhio Δ Dall’occhio al cervello Δ Il cervello: la corteccia visiva

Della luce non sapremmo che farcene, se non avessimo anche un sistema visivo. Un sistema visivo è un congegno in grado di trasformare la luce in messaggi interpretabili. Il nostro è fatto di tre parti: l’occhio, che cattura la luce e la converte in messaggi nervosi; le vie visive, che trasportano questi messaggi dall’occhio al cervello; e le aree visive del cervello, che li interpretano. Sarà bene chiarire subito che il termine «interpretano» è una licenza poetica. L’esatta natura del rapporto fra l’attività nervosa nel nostro cervello e il mondo che, di conseguenza, vediamo attorno a noi, per il momento ci sfugge; e ci sono ottime probabilità che continui a farlo. 2.1 L’occhio [l’iride] [la pupilla] [il cristallino] [la retina] [i fotorecettori] [la formazione dell’immagine sulla retina]

Per capire come l’occhio funziona è indispensabile considerare come è fatto. Un occhio normale è una sfera la cui superficie è rivestita da tre membrane concentriche: sclera, coroide e retina. Quello che chiamiamo «bianco» dell’occhio è la sclera, lo strato più esterno. La sclera è ben visibile nel nostro occhio, al contrario di quel che succede nelle altre specie, e il suo colore bianco incornicia e mette in risalto la parte colorata, l’iride. Il colore bianco della nostra sclera è unico fra i primati: di norma (e le specie di primati prese in esame sono state ben 88) la sclera, oltre a essere poco esposta, ha lo stesso colore della pelle che circonda l’occhio1. La ragione di questo adattamento è, probabilmente, che mettere in mostra la direzione in cui si sta guardan20

do non è vantaggioso per i primati, dato che il contatto oculare diretto è un segnale di sfida e può scatenare reazioni aggressive. Per noi vale il contrario: guardarci negli occhi aiuta comunicazione e cooperazione, e la forma e il colore dell’occhio umano rendono la direzione dello sguardo particolarmente evidente. Le fibre strettamente intrecciate di cui è composta la sclera le conferiscono una notevole robustezza. La pressione interna dell’occhio è doppia rispetto a quella esterna (più o meno come in una gomma di bicicletta), per cui il globo oculare potrebbe deformarsi se la sclera non fosse così resistente. Nella regione frontale dell’occhio, la disposizione delle fibre che compongono la sclera cambia: la sclera diviene trasparente e prende il nome di cornea. Essendo un mezzo a densità diversa da quella dell’aria, la cornea fa sì che i raggi luminosi che la colpiscono subiscano una rifrazione, rivestendo così un ruolo cruciale nella formazione dell’immagine nell’occhio. Se si frequenta una piscina, un modo per rendersi conto di che cosa questo significhi è quello di mettere una mano sott’acqua e di osservarla prima tenendo la testa fuori dall’acqua, poi con la testa sott’acqua. Nel secondo caso il contorno della mano appare molto meno nitido. Fig. 2.1 L’orso di peluche tanto caro ai bambini venne inventato all’inizio del Novecento, e subì una considerevole evoluzione nel corso degli anni, soprattutto per quanto riguarda la posizione e le dimensioni degli occhi. I primi orsacchiotti avevano le sembianze di orsi veri, con piccoli occhi posti relativamente in alto e musi allungati; gradualmente, il muso si accorciò e gli occhi si ingrandirono e si spostarono verso il basso. In natura molte specie, come il cane, si sono evolute allo stesso modo, producendo adulti che mantengono il più possibile caratteristiche fisiche dello stadio infantile (un processo noto come neotenia). Ciò che l’orso di peluche e il cane hanno in comune è che la loro sopravvivenza dipende dalla capacità di suscitare in noi reazioni di protezione e affetto. Queste reazioni sono automatiche di fronte a una creatura che abbia i tratti distintivi di un bambino piccolo, come grandi occhi posti nella metà inferiore del viso. (Disegno: Paola Bressan, 1984.)

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La ragione è che la densità dell’acqua è più simile a quella della cornea di quanto non sia quella dell’aria: la luce che viaggia attraverso l’acqua quindi viene deviata pochissimo quando raggiunge la cornea. A ciò si può porre rimedio con una semplice maschera da subacqueo, che creando uno strato d’aria davanti agli occhi ripristina una normale rifrazione. I pesci, a cui è negata questa possibilità, hanno risolto il problema sviluppando all’interno dell’occhio una lente quasi sferica, la cui curvatura devia la luce in entrata abbastanza da metterla a fuoco. Lo strato intermedio dell’occhio, la coroide, contiene una fitta rete di vasi sanguigni, e svolge funzioni di ossigenazione e nutrimento. La coroide, contenendo una grande quantità di pigmenti quasi neri, assolve anche il compito di assorbire la luce che la colpisce, eliminando i riverberi all’interno dell’occhio e migliorando così la qualità dell’immagine. (La superficie interna di una macchina fotografica è nera per la stessa ragione.) Lo strato interno dell’occhio, la retina, è sensibile alla luce, e serve ad espletare la funzione visiva, come vedremo meglio più avanti. Fig. 2.2 Un po’ più piccolo di una pallina da ping-pong, l’occhio è alloggiato nell’orbita, entro la quale si può muovere per mezzo di tre coppie di muscoli, che gli permettono di spostarsi a destra e a sinistra, in alto e in basso, e di ruotare. I movimenti degli occhi hanno due funzioni principali. Primo, servono a fissare, cioè a far cadere l’immagine dell’oggetto che ci interessa sulla fovea, dove l’acuità visiva è maggiore. Per far questo, spostiamo rapidamente lo sguardo da un punto di interesse all’altro; sia in modo intenzionale, come quando leggiamo, sia in modo automatico, come quando un nuovo oggetto compare alla periferia del nostro campo visivo. La seconda importante funzione dei movimenti oculari è quella di inseguire, cioè di mantenere l’immagine dell’oggetto fissato sulla fovea quando l’oggetto si sposta, o quando spostiamo la testa. (Illustrazione: rappresentazione schematica dell’occhio umano.)

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L’occhio è suddiviso in due compartimenti. Lo spazio anteriore (compreso fra la cornea e il cristallino) è riempito da una soluzione salina diluita, l’umor acqueo; mentre lo spazio posteriore (compreso fra il cristallino e la retina) è riempito da un fluido che ha la consistenza dell’albume dell’uovo, l’umor vitreo. Entrambi fanno sì che l’occhio possa mantenere la propria forma sferica. L’umor acqueo inoltre fornisce ossigeno e nutrimento alle strutture che bagna e le depura dai prodotti di scarto, compiti che in altre parti del corpo sono svolti dal sangue. La felice circostanza che cristallino e cornea siano totalmente isolati dal sistema circolatorio semplifica alquanto l’operazione di sostituzione del cristallino con una lente artificiale, e rende possibile il trapianto di cornea senza creare problemi di rigetto, dato che gli anticorpi non riescono a raggiungere e distruggere il tessuto estraneo (come avviene invece in altre parti del corpo). Nuovo umor acqueo viene prodotto di continuo, e via via eliminato. Qualche volta l’equilibrio si rompe, e un eccesso di umor acqueo si accumula nell’occhio (ad esempio, quando il sistema di drenaggio si intasa). In tal caso, la pressione all’interno dell’occhio sale, comprimendo i vasi sanguigni che nutrono la retina e le fibre nervose che formano l’inizio del nervo ottico, e causando la degenerazione di queste ultime. Ne consegue che gli impulsi nervosi generati dalla retina non arrivano più al cervello. Questo problema, noto come glaucoma, se non è curato in tempo (mediante farmaci, o nei casi più gravi praticando chirurgicamente un’apertura che ripristini il normale deflusso dell’umor acqueo dall’occhio) provoca la cecità completa. A differenza dell’umor acqueo, l’umor vitreo non viene continuamente rinnovato, per cui le sostanze di scarto vi si accumulano. Quando guardate una superficie uniforme molto luminosa, le particelle che nuotano nel vitreo gettano le loro ombre sulla vostra retina, e voi vedete delle macchioline scure che si muovono di qua e di là. 2.1.1 L’iride L’iride è la parte colorata dei nostri occhi; non tutti sanno che il suo colore naturale è l’azzurro, per la stessa ragione per cui sono 23

azzurri il cielo e il mare. A causa della sua composizione, infatti, l’iride diffonde la luce che la colpisce, ovvero la rinvia in tutte le direzioni. Le lunghezze d’onda che vengono diffuse in misura maggiore sono le più corte, quelle che corrispondono alla percezione del colore blu. D’altro canto l’iride contiene anche melanina, un pigmento che assorbe varie lunghezze d’onda (di diffusione e assorbimento abbiamo parlato nel capitolo 1). Quando la melanina è abbondante la maggior parte della luce viene assorbita, facendo apparire l’iride marrone scuro. Una quantità inferiore di melanina rende gli occhi nocciola o verdi, e una quantità ancor più esigua permette al colore azzurro di dominare. La nostra specie aveva originariamente occhi marrone scuro (e capelli neri), e non è affatto chiaro come mai nell’Europa settentrionale e orientale, e lì soltanto, si sia evoluta una gamma rispettabilmente ampia di colori di occhi e capelli. Un’ipotesi affascinante è che questa variabilità sia stata incoraggiata dalla tenFig. 2.3 L’iride ha al centro un foro, la pupilla, che nel nostro caso è circolare, ma può assumere forme diverse in altre specie – ad esempio rettangolo, ovale, cuore, pera o fessura. (La pupilla a fessura, tipica di rettili e mammiferi attivi soprattutto di notte, rispetto a quella circolare ha il vantaggio di potersi chiudere completamente in risposta alla luce intensa.) Dato che la coroide (il tappeto di cellule ricco di melanina che è collocato dietro la retina) assorbe tutta la luce che non sia stata già assorbita dalla retina, non c’è luce che ritorni indietro attraverso la pupilla: di conseguenza, quest’ultima appare nera. Il ruolo cruciale della coroide è bene illustrato dal caso degli albini, che non sono in grado di sintetizzare la melanina. La coroide di questi individui non assorbe molta luce, e ciò causa una visione molto scarsa e una cecità quasi completa in condizioni di intensa illuminazione. Negli albini, la luce che entra nell’occhio viene in gran parte diffusa all’indietro verso la pupilla e l’iride, illuminando i vasi sanguigni e rendendo gli occhi rosa. Un fenomeno simile si verifica quando si fotografa una persona con il flash: l’intensità della luce è tale che la coroide non riesce ad assorbirla tutta, e la luce diffusa che dopo avere attraversato lo strato vascolare esce dalla pupilla provoca l’effetto «occhi rossi». (Foto: un’iride umana.)

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denza a preferire il colore più raro, quello che fa emergere un individuo dalla folla e lo rende speciale. Il cosiddetto «vantaggio del colore raro» è stato dimostrato non solo in moscerini, vespe e coccinelle, ma anche nella nostra specie. Una ragazza bruna appare più attraente in un gruppo di bionde che in un gruppo di ragazze brune2. Non è un caso che le donne che si tingono i capelli propendano per un colore diverso da quello più comune nella popolazione, e che le lenti a contatto colorate più vendute non siano quelle marroni. Il vantaggio del colore raro è un esempio non di selezione naturale ma di selezione sessuale, cioè risulta non dalla competizione per la sopravvivenza, ma da quella per la riproduzione. Questo tipo di selezione favorisce tratti colorati e vistosi, come la coda del pavone3, e incoraggia variabilità piuttosto che uniformità. Nell’Europa dell’era glaciale l’ambiente ostile esponeva gli uomini (impegnati per giorni, lontano da casa, in battute di caccia di esito incerto) a un alto rischio di mortalità, e al tempo stesso li rendeva incapaci di provvedere a più di una moglie. Con pochi uomini a disposizione, e per di più monogami, la competizione fra donne doveva essere intensa; e intensa doveva essere, di conseguenza, la pressione selettiva a sviluppare caratteristiche appariscenti («scegli me invece di un’altra»). È possibile che uno dei risultati di questa pressione selettiva sia stata proprio la diversificazione del colore degli occhi e dei capelli4. La tessitura dell’iride (le macchioline, le screziature, le striature visibili nei nostri occhi) è straordinariamente irregolare e casuale: così casuale da essere unica per ogni individuo, come le impronte digitali. Nemmeno gemelli identici hanno iridi identiche. Per questo motivo l’iride può essere utilizzata come un passaporto, un documento di identificazione che portiamo sempre con noi e che non possiamo smarrire, né dimenticare a casa, né contraffare. Molti areoporti in tutto il mondo, ad esempio quelli di Heathrow e di Francoforte, hanno installato recentemente sistemi per il controllo dei passeggeri basati proprio sul riconoscimento automatico dell’iride. Una diffusa credenza popolare sostiene che l’aspetto dell’iride riflette lo stato di salute degli organi del nostro corpo. Pare che l’iridologia sia stata inventata da un medico ungherese, che 25

Fig. 2.4 L’importanza degli occhi nella comunicazione sociale è riflessa dall’acuta sensibilità umana alla direzione dello sguardo. In un esperimento di fresca data, alcuni volti femminili venivano presentati al computer in due diverse animazioni5. Nella prima, le iridi venivano spostate da una posizione laterale a una centrale, in modo che lo sguardo sembrasse muoversi in direzione dell’osservatore; nella seconda, le iridi si spostavano da una posizione centrale a una laterale (come nella figura), dando l’impressione che lo sguardo venisse distolto dall’osservatore. I partecipanti maschi all’esperimento giudicavano il volto come significativamente più attraente quando gli occhi si muovevano verso di loro (segnalando interesse). È stato dimostrato che lo sguardo diretto di un individuo attraente attiva le aree cerebrali legate alle aspettative di ricompensa6. In queste aree, l’attività neuronale ha un incremento quando ci si aspetta un premio, e un decremento quando un premio previsto non si materializza. Si è scoperto recentemente che la risposta di questi neuroni aumenta quando una persona attraente (di qualunque sesso) ci guarda, stabilendo un contatto diretto con i nostri occhi, e si riduce quando una persona attraente guarda altrove. Se invece la persona non ci attrae, succede esattamente il contrario. Questi risultati suggeriscono che stabilire un contatto sociale con un individuo attraente ha un chiaro valore di ricompensa, e che reazioni di questo tipo sono talmente robuste e automatiche da emergere anche in situazioni altamente innaturali, quali l’osservazione di fotografie di volti mentre si è distesi all’interno dell’apparecchio per la risonanza magnetica funzionale (la tecnica usata in questi studi). (Immagine ed elaborazione digitale: Paola Bressan.)

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da bambino aveva curato un gufo con una zampa rotta. Sull’iride del gufo vi era una striscia nera, che scomparì gradualmente a mano a mano che la zampa guariva. Il bambino divenne un medico, e la constatazione che simili segni erano visibili sull’iride dei suoi pazienti lo portò a concludere che macchie, strisce, colorazioni anomale in una certa zona dell’iride starebbero a indicare la presenza di un disturbo in una corrispondente parte del corpo. Sarebbe bello se fosse vero, ma non lo è. Tutti gli studi controllati condotti finora hanno concluso che l’iridologia è un’illusione; nei casi peggiori, una frode. 2.1.2 La pupilla L’iride ha un’apertura centrale di diametro variabile, la pupilla, che si può contrarre fino a 2 mm di diametro quando c’è molta luce, e dilatare fino a raggiungere 8 mm in penombra. La quantità di luce che passa attraverso la pupilla è proporzionale alla sua area, la quale, naturalmente, è a sua volta proporzionale al quadrato del diametro. Se il diametro della pupilla aumenta di quattro volte, dunque, la quantità di luce che entra nell’occhio cresce di sedici volte. Questa variazione è in realtà molto piccola se si considera che la gamma di intensità alle quali il sistema visivo è sensibile è dell’ordine di un miliardo a uno. La funzione primaria della pupilla non è quindi quella di modulare la quantità di luce in ingresso, ma di migliorare la messa a fuoco restringendosi quando l’illuminazione è sufficiente. Con una pupilla piccola aumenta il numero di oggetti pòsti a distanze diverse che appaiono a fuoco (ovvero la profondità di campo), proprio come accade con la macchina fotografica quando, in una giornata luminosa, si usa una piccola apertura di diaframma. Quando la luce è poca, invece, la pupilla si dilata e la capacità dell’occhio di discriminare i dettagli diminuisce, ma questo è meno importante della migliorata sensibilità conseguente all’ingresso di una maggiore quantità di luce nell’occhio. La grandezza della pupilla dipende anche da variabili di tipo emozionale, come l’interesse, l’attrazione o la repulsione nei confronti dell’oggetto che viene guardato. Si racconta che i mercanti di giada della Cina pre-rivoluzionaria avessero l’abitudine di 27

Fig. 2.5 L’aspetto dei nostri occhi è influenzato dalle emozioni che proviamo, ma un bel paio d’occhi è a sua volta in grado di provocare forti emozioni. Quando si sente minacciata da qualche uccello, la Fulgora laternaria apre le ali mettendo in evidenza due spaventosi occhi gialli che sembrano quelli di un gufo, che degli uccelli è un predatore naturale. L’uso a scopo protettivo di finti occhi di vertebrato si è evoluto indipendentemente in molti insetti. Un vantaggio ulteriore è che, nel caso malaugurato in cui i finti occhi non fossero sufficienti ad assicurare l’immunità, l’attacco del predatore tenderà a essere diretto verso di essi. Per questa ragione, i finti occhi sono collocati in regioni del corpo lontane da quelle vitali, ovvero in aree che possono essere sacrificate senza rischiare la vita.

scrutare gli occhi dei clienti per capire quanto potevano chiedere, perché tanto maggiore era l’interesse che il potenziale acquirente provava per l’oggetto delle trattative tanto più le sue pupille si dilatavano; per la stessa ragione, se doveste contrattare sul prezzo di un tappeto vi converrebbe portare occhiali scuri. Anche la concentrazione in un’attività mentale influenza le dimensioni della pupilla. Ad esempio, le pupille si dilatano quando si cerca di risolvere un problema di matematica, e l’entità della dilatazione è proporzionale alla difficoltà del compito7. Le prime ricerche controllate su questo fenomeno furono compiute negli anni Sessanta da Eckhard Hess, un professore di psicologia dell’Università di Chicago. Hess presentava ai suoi soggetti immagini ad alto contenuto emotivo e registrava la risposta pupillare. I soggetti potevano anche mentire, ma le loro pupille no: davanti a un quadro astratto di gran moda, ad esempio, un buon terzo di coloro che ne tessevano lodi sperticate mostrava contrazione pupillare. Un risultato di questi esperimenti che infiammò i divulgatori scientifici dell’epoca è che l’immagine di un bebè scatena reazioni pupillari marcate, e diverse in uomini e donne. La pupilla di una donna si dilata sempre; la pupilla di un uomo invece si restringe, a meno che l’uomo non abbia figli. In altre parole, il comportamento materno della femmina umana è innato e automatico, mentre il comportamento 28

paterno del maschio viene attivato solo quando questi diventa concretamente padre. È il caso di notare che non solo le pupille tendono a dilatarsi in condizioni di elevato interesse, ma le pupille dilatate appaiono più attraenti8. Senza sapere perché, la maggior parte de-

Fig. 2.6 Il germe di una scoperta scientifica è spesso un’osservazione casuale. Nei primi anni Sessanta, lo psicologo Eckhard Hess stava sfogliando un libro di fotografie di animali che trovava magnifico, sdraiato a letto accanto alla moglie, quando questa gli fece notare che aveva le pupille stranamente dilatate. La mattina dopo Hess convocò il suo assistente e, guardandolo negli occhi, gli presentò una alla volta una serie di foto che mostravano tutte dei paesaggi ad eccezione di una, il ritratto di una bella ragazza. Il risultato di questo piccolo esperimento fu talmente incoraggiante da dare il via a un imponente progetto di ricerca sul rapporto tra grandezza della pupilla e attività mentale. Ad alcuni virtuosi nel campo delle relazioni umane, che ci fosse un nesso di qualche tipo tra dimensioni della pupilla ed emozioni era già noto. In Italia, nel Medioevo, le cortigiane usavano una soluzione estremamente diluita del veleno belladonna (l’atropina usata oggi dagli oculisti) per dilatare le proprie pupille e apparire così più desiderabili. L’effetto è illustrato nella figura. Quale di queste due ragazze trovate più attraente? Le pupille degli uomini si dilatano di più davanti alla foto di destra (la ragazza con pupille grandi, che indicano interesse, anche sessuale), mentre le pupille delle donne si dilatano di più davanti alla foto di sinistra (la ragazza con pupille piccole). I dongiovanni (uomini che passano facilmente da una ragazza all’altra, senza formare relazioni durevoli) mostrano la stessa risposta pupillare delle donne: evidentemente, preferiscono ragazze che non si affezionino troppo. (Immagine ed elaborazione digitale: Paola Bressan.)

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gli uomini considera la ragazza di destra nella foto (Figura 2.6) più attraente di quella di sinistra. La sola differenza fra le due immagini è che nell’immagine di destra le pupille sono state ritoccate in modo da apparire più grandi. Trovate questa ragazza più attraente perché è lei per prima a mostrare di trovare attraenti voi, dilatando le sue pupille mentre vi guarda: la vostra, insomma, è una reazione automatica che ha perfettamente senso in condizioni naturali. 2.1.3 Il cristallino Direttamente dietro l’apertura pupillare è situata una lente, il cristallino, la cui funzione è quella di deviare i raggi luminosi che entrano nell’occhio quel tanto che basta a farli convergere esattamente sulla retina. Una rifrazione eccessiva farebbe convergere la luce davanti alla retina, impedendo la visione a distanza; mentre una rifrazione insufficiente farebbe convergere la luce dietro la retina, impedendo la visione da vicino. Modificando la propria curvatura il cristallino determina quanto i raggi vengono deviati, svolgendo un ruolo cruciale nella messa a fuoco. Il cristallino, che tenderebbe a una forma naturalmente sferica, è tenuto sospeso da filamenti che si dipartono dal muscolo ciliare, il quale lo circonda come un collare. Quando è rilassato il muscolo ciliare raggiunge il suo diametro massimo: esso tiene quindi in tensione i filamenti, che esercitando una trazione sul cristallino lo mantengono piatto. In queste condizioni vengono messi a fuoco gli oggetti lontani. Quando il muscolo ciliare si contrae, invece, la tensione esercitata sui filamenti si riduce e, come una palla di spugna elastica che si espanda dopo essere stata compressa, il cristallino torna a una forma più sferica; il risultato è che vengono messi a fuoco gli oggetti vicini. Questo processo si chiama accomodazione, ed è assente alla nascita, per cui durante il primo mese di vita il bebè ha un’immagine sfocata degli oggetti molto vicini. È istruttivo notare che questo meccanismo si è evoluto in un periodo in cui, a differenza di quanto accade oggi, gli oggetti che venivano fissati a lungo si trovavano per lo più a grandi distanze, per cui i muscoli ciliari rimanevano rilassati per la maggior parte 30

del tempo. Alcuni dati suggeriscono che lo sforzo accomodativo continuato tipico della nostra cultura contribuisca all’insorgere della miopia. Chi svolge occupazioni che richiedono molto lavoro da vicino (come gli studenti o i marinai dei sommergibili, i quali non hanno grandi opportunità di mettere a fuoco oggetti distanti) diventa più facilmente miope. In Alaska, in seguito all’introduzione della scolarità obbligatoria negli anni Cinquanta, l’incidenza della miopia balzò dal 5% all’80% nel giro di una sola generazione. La miopia può essere anche provocata intenzionalmente negli animali, forzandoli a svolgere l’equivalente del lavoro da vicino. Scimmie appena nate, allevate in ambienti in cui non c’è da guardare nulla che sia più lontano di cinquanta centimetri, sviluppano forti miopie in meno di tre anni. Il cristallino è una parte del nostro corpo davvero speciale, e lo è in due sensi diversi. Primo, è l’unico organo che cresce in continuazione (in novant’anni quadruplica il proprio spessore). Gli strati più interni sono i più vecchi e tendono a perdere progressivamente elasticità, per cui la capacità del cristallino di mettere a fuoco gli oggetti vicini diminuisce col passare del tempo. Secondo, è l’unico tessuto del nostro corpo che sia trasparente. (Anche la cornea è trasparente, ma la cornea è una specie di millefoglie di lamelle di collagene e non un tessuto composto di cellule.) La vera trasparenza, in natura, è rara e difficile da ottenere: le cellule contengono al loro interno varie strutture, in primo luogo il nucleo, che giocoforza diffondono la luce in modi diversi, producendo un certo grado di opacità. Eppure, il cristallino è composto di circa 1000 strati di cellule viventi perfettamente trasparenti! Di recente, gli scienziati hanno scoperto che la trasparenza del cristallino deriva dalla sua stupefacente capacità di attivare un programma di auto-distruzione che si interrompe subito prima del completamento, lasciando dietro di sé cellule ancor vive ma vuote, in grado quindi di far passare la luce9. Questo suicidio controllato ha malauguratamente un costo: assieme ai nuclei vanno distrutti anche i programmi genetici per sintetizzare nuove parti, per cui queste cellule non possono rigenerarsi o ripararsi se vengono danneggiate. Ne consegue che, al contrario delle altre cellule del nostro corpo (le cui molecole 31

Fig. 2.7 Uccelli che rappresentano normalmente delle prede, come il piccione, sono miopi nella parte inferiore del campo visivo, in modo da poter tenere a fuoco il cibo, a pochi centimetri dagli occhi, ed essere contemporaneamente in grado di individuare l’eventuale comparsa di predatori in cielo, a molti metri di altezza. (Le lenti bifocali, inventate nel Settecento da Benjamin Franklin, sfruttano lo stesso principio.) Peraltro gli uccelli predatori non sono da meno, considerando che accomodano indipendentemente in ciascun occhio e posseggono due fovee, una per vedere accuratamente ciò che si trova di fronte e l’altra per vedere accuratamente ciò che si trova di lato. Possedere una fovea per occhio è in effetti una specializzazione tipica dei primati. In larga maggioranza, i vertebrati vedono tutte le parti del loro campo visivo egualmente bene, e non hanno bisogno di esplorarle visivamente mediante una serie di fissazioni. Questa è la ragione per cui, quando osservano una scena, molti animali tengono testa e occhi immobili, invece di guardarsi intorno come facciamo noi. (Foto: un falco – a sinistra nell’immagine – insegue un piccione. Da www.rpra.org/raptors.html © Royal Pigeon Racing Association.)

vengono sostituite periodicamente), le cellule del cristallino devono durare una vita intera. La mancanza di meccanismi di riparazione rende il cristallino vulnerabile a certi stress (una severa disidratazione è sufficiente a deteriorarne la trasparenza, conducendo alla formazione di una cataratta) e all’accumularsi di piccoli insulti, dovuti ad esempio alla continua esposizione alla luce ultravioletta. Se si passa regolarmente tanto tempo al sole è quindi consigliabile proteggersi gli occhi, e farlo con occhiali di buona qualità. Gli occhiali da sole di tipo economico, come quelli che vengono spesso acquistati per i bambini, se non bloccano la luce ultravioletta a sufficienza sono un rimedio peggiore del male. Le lenti scure riducono la quantità di luce visibile, obbligando la pupilla ad aprirsi di più e lasciando entrare ancora più luce ultravioletta: questo può aumentare il rischio che il bambino sviluppi una cataratta una volta diventato adulto. 32

2.1.4 La retina La superficie che ricopre internamente il fondo dell’occhio prende il nome di retina, perché la caratteristica più saliente di un occhio aperto chirurgicamente è il fitto intrico di vasi sanguigni che ne riveste l’interno, e che fa pensare a una rete. Pur essendo sottilissima, la retina è fatta a strati. Il primo strato è composto dai fotorecettori, le cellule sensibili alla luce, che convertono gli stimoli luminosi in segnali elettrici. Lo strato successivo è costituito dalle cellule bipolari, che raccolgono i segnali provenienti dai fotorecettori e li trasmettono allo strato più esterno, composto dalle cellule gangliari, le cui «code» costituiscono le fibre del nervo ottico. Vi sono poi vari tipi di cellule di connessione che collegano orizzontalmente fra loro aree anche distanti della retina. Fig. 2.8 Rappresentazione schematica della retina: dall’alto al basso, recettori (R), cellule orizzontali (H), cellule bipolari (B), cellule amacrine (A), cellule gangliari (G). La luce in ingresso è rappresentata dalle frecce in basso nella figura. I recettori (R) sono circa 130 milioni, ma le cellule gangliari (G) sono soltanto 1 milione. Ciò significa che, nella retina, i 130 milioni di messaggi provenienti dai recettori vengono condensati e trasformati in 1 milione di messaggi diretti al cervello. Questo impressionante risultato è equivalente a riassumere un testo di mille parole usandone solo otto, senza che nessuna delle informazioni rilevanti vada perduta. Le ricerche più recenti sull’organizzazione funzionale della retina hanno rivelato che le cellule gangliari sono molto più interessanti di quanto si pensasse un tempo. Ce ne sono più di 15 tipi, ciascuno dei quali elabora il segnale che riceve in modo differente e lo invia a un’area differente del cervello. Ciò significa che le varie aree visive ricevono rappresentazioni della scena che sono già pre-digerite e adattate alle loro specifiche esigenze. (Illustrazione: adattata da E.B. Goldstein, Sensation and Perception, Belmont, CA, Wadsworth, 1989.)

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La prima volta che si esamina attentamente un’illustrazione della retina, come quella in Figura 2.8, si pensa che ci sia un errore. Se i recettori sono orientati in quel modo, come è possibile che la luce provenga dal verso opposto? Eppure non c’è nessuno sbaglio: nell’occhio dei vertebrati i fotorecettori sono posti in fondo alla retina, e per raggiungerli la luce deve prima attraversare tutti gli altri strati. Gran parte della luce arriva a destinazione comunque, poiché la retina è estremamente sottile e le cellule che la compongono praticamente trasparenti; peraltro, questa retina rovesciata è un chiaro esempio di errore di progettazione. L’errore non era tale nel progetto originario: il primo occhio era un gruppo di cellule sensibili alla luce, collocato sotto la pelle di un nostro minuscolo antenato trasparente. Vasi sanguigni e fibre nervose vi giungevano dall’esterno, una soluzione buona come un’altra per una creatura trasparente. L’evoluzione ha edificato su queste basi, e centinaia di milioni di anni non hanno potuto far nulla per eliminare il difetto di partenza. Una conseguenza di questa curiosa architettura è che le fibre nervose si raccolgono in un fascio, il nervo ottico, che per poter uscire dall’occhio deve attraversare, e quindi bucare, il tappeto dei fotorecettori. Questa zona è detta macchia cieca: data l’assenza di recettori, la luce che la colpisce non viene percepita affatto. Dal momento che noi non ci accorgiamo dell’esistenza di un’area vuota nel nostro campo visivo, vi debbono essere meccanismi che in qualche modo la «riempiono». (Il nostro campo visivo è costituito dalla regione dello spazio a noi visibile in un dato momento.) Se questi processi di completamento non esistessero ci sarebbe un buco in tutto quel che vediamo, e neanche tanto piccolo. Altri buchi, lunghi, sottili e ramificati, dovremmo aspettarceli per il fatto che i vasi sanguigni, trovandosi sul tragitto della luce, gettano sulla retina le loro ombre. La soluzione adottata dal nostro occhio è quella di muoversi costantemente e involontariamente, di modo che l’immagine proiettata dal mondo sulla retina sia in perenne cambiamento. Tutto ciò che rimane immobile sulla retina sbiadisce e scompare nel giro di pochi secondi. I vasi sanguigni si spostano assieme all’occhio, dato che si trovano al suo interno: di conseguenza, le loro ombre cadono 34

Fig. 2.9 La macchia cieca è grande a sufficienza da far svanire una pallina da golf tenuta alla distanza del braccio teso, eppure della sua esistenza siamo del tutto inconsapevoli. In questo veniamo aiutati sia dai costanti movimenti oculari, sia dal fatto che la regione del campo visivo che cade sulla macchia cieca di un occhio non cade sulla macchia cieca dell’altro. Per sperimentare la macchia cieca dobbiamo non solo chiudere un occhio e tenere lo sguardo ben fermo, ma anche ricorrere a un trucco come quello descritto di seguito. Tenete il libro perpendicolare a una distanza di circa quindici centimetri, e fissate la croce tenendo aperto solo l’occhio sinistro. Continuando a fissare la croce avvicinate lentamente il libro al vostro occhio: a un certo punto il dischetto sulla sinistra sparirà. Notate che il dischetto non viene rimpiazzato da un «nulla» o da un «buco»: semplicemente, le caratteristiche della zona circostante (in questo caso le lettere) si espandono all’area in cui il dischetto si trovava. Si pensa che questa rappresentazione «fantasma» sia creata dalle cellule della corteccia visiva che si trovano vicino a quelle rimaste temporaneamente prive di stimolazione. L’attivazione limitrofa si estenderebbe alla zona silente, un processo analogo a quello che si verifica nella sindrome dell’«arto fantasma», in cui persone che hanno perso un braccio o una gamba continuano a percepirne la presenza.

sempre sugli stessi punti della retina, e diventano invisibili pochi istanti dopo che abbiamo aperto gli occhi, la mattina. Prima di concludere è doveroso notare che, mentre noi ci ritroviamo con un modello di occhio difettoso, il calamaro è equipaggiato con la versione corretta, in cui vasi sanguigni e fibre nervose provengono da dietro la retina invece che da davanti. In questo modello, la retina è saldamente ancorata al fondo dell’occhio mediante le fibre nervose. Nel nostro caso, invece, il tappeto dei fotorecettori si può staccare con relativa facilità dal fondo dell’occhio, dando origine ad una condizione alquanto seria nota come distacco di retina; malanno di cui il calamaro è certamente immune. 2.1.5 I fotorecettori Non tutte le parti della retina sono egualmente cruciali nel processo visivo. La regione più importante, la fòvea, è situata in cor35

rispondenza del fuoco del cristallino, e all’oculista appare come una piccola depressione al centro di un’area giallognola. Quando fissiamo un oggetto qualsiasi, gli occhi ruotano automaticamente in modo che l’immagine dell’oggetto cada esattamente sulla fovea. In questa zona la retina è particolarmente sottile, perché le numerosissime cellule di connessione che raccolgono i segnali provenienti dai fotorecettori foveali (cellule che normalmente sono sovrapposte ai fotorecettori, come abbiamo appena visto), sono qui spostate lateralmente, in modo da circondare la fovea invece che ricoprirla. Se così non fosse, questa zona della retina sarebbe dieci volte più spessa, e gran parte della luce verrebbe assorbita prima di raggiungere la fovea, con un’ovvia compromissione delle capacità visive. L’occhio umano contiene due tipi di fotorecettori, i coni e i bastoncelli, chiamati così per la loro forma. Le loro funzioni sono molto diverse, e questo venne inizialmente sospettato sulla base dell’osservazione che gli animali che hanno esclusivamente bastoncelli – come il gufo – sono attivi prevalentemente di notte, mentre gli animali che hanno esclusivamente coni – come il piccione – sono attivi solo di giorno. Gli esseri umani possono operare in un’ampia gamma di condizioni di luce, avendo, come topi e scimmie, una retina che contiene entrambi i tipi di fotorecettori. I fotorecettori non sono distribuiti uniformemente sulla retina. Nel 1935 un certo Osterberg si prese la briga di contare il numero di fotorecettori di una retina umana che aveva rimosso e conservato, e osservò com’erano disposti, scoprendo che la fovea contiene unicamente coni. Fuori dalla fovea il numero di coni diminuisce rapidamente, e altrettanto rapidamente aumenta il numero di bastoncelli, che raggiunge un picco per poi diminuire gradualmente. Considerato che in totale la retina umana contiene all’incirca sette milioni di coni e centoventi milioni di bastoncelli, è improbabile che Osterberg se la sia sbrigata in fretta. I coni mediano la visione in condizioni di elevata illuminazione, e permettono la visione dei colori e dei dettagli. Quando la luce ambientale è scarsa, invece, i coni rimangono inattivi ed entrano in azione i bastoncelli, i quali non permettono né la visione dei colori né quella dei dettagli, ma sono sensibili a livelli 36

Fig. 2.10 Rappresentazione schematica di un bastoncello, a sinistra, e di un cono, a destra. I dischi visibili nel segmento esterno (la sezione in alto) contengono il pigmento visivo, che genera una risposta elettrica alla luce. L’alternanza di luce e buio corrispondente all’avvicendarsi del giorno e della notte è essenziale per il mantenimento di una normale funzione visiva: in animali tenuti perennemente alla luce, coni e bastoncelli finiscono col degenerare. La retina contiene anche un terzo tipo di fotorecettore, di cui i manuali non parlano perché si tratta di una scoperta recente10. Questi fotorecettori (si tratta di una classe speciale di cellule gangliari) sono sensibili al livello globale di luce, e inviano al cervello le informazioni necessarie sia alla costrizione della pupilla che alla regolazione dell’orologio circadiano. Quest’ultimo è il meccanismo che permette al nostro corpo di distinguere tra il giorno e la notte (modificando di conseguenza il livello di vigilanza, la produzione di ormoni, la temperatura corporea) e di riprendersi dal jet lag, adattandosi a un nuovo fuso orario. L’esistenza di queste cellule fotosensibili spiega come mai la risposta pupillare e la sincronizzazione del ritmo sonno-veglia al giorno e alla notte persistano in persone i cui coni e bastoncelli sono degenerati. Questi individui sono completamente ciechi, e non hanno alcuna esperienza cosciente della luce. Lo studio di questo nuovo fotorecettore promette importanti ricadute applicative: potrebbe consentire la messa a punto di terapie efficaci per il jet lag, per i problemi creati dai turni di notte, e per i disturbi stagionali dell’umore.

anche molto bassi di intensità luminosa (cinque o sei fotoni catturati da un bastoncello sono sufficienti perché si possa vedere un lampo di luce!). Le prove più evidenti di questa suddivisione dei compiti vengono da studi clinici compiuti su individui nati senza coni o senza bastoncelli. Quando i bastoncelli mancano del tutto, oppure non funzionano, il paziente diventa funzionalmente cieco nel momento in cui la luce scende sotto un certo livello. Persone prive di coni se la passano ancor peggio, dato che riescono a vivere normalmente solo in condizioni di luce fioca. In queste persone, normali livelli di luminosità provocano dolore; la capacità di discriminare i dettagli è molto povera, e la visione dei colori del tutto assente. 37

Che cos’hanno di speciale i fotorecettori per poter reagire alla luce? La risposta è che contengono una sostanza detta pigmento visivo, la cui molecola è composta da due parti. Quando la luce colpisce una molecola di pigmento visivo, la molecola cambia forma (col risultato che le due componenti finiscono col separarsi); il cambiamento di forma libera energia e innesca la generazione di un segnale elettrico nel fotorecettore. Dopo la rottura, il pigmento visivo comincia immediatamente a rigenerarsi (cioè, le sue componenti tornano insieme). La rigenerazione completa richiede circa 10 minuti nel caso dei coni e più di mezz’ora per i bastoncelli. Questo spiega come mai, dopo essere entrati in una sala cinematografica buia, cominciamo pian piano a identificare oggetti e persone che all’inizio erano completamente invisibili. È chiaro che, se il pigmento non si rigenerasse affatto, diverremmo ciechi subito dopo aver dato la nostra prima occhiata al mondo. Fig. 2.11 L’area della retina in cui si trova la fovea è gialla perché contiene carotenoidi, pigmenti antiossidanti di cui è stato abbondantemente documentato il ruolo protettivo. Probabilmente questi pigmenti hanno la funzione di filtrare le lunghezze d’onda non-spettrali vicine al blu, che non contribuiscono alla visione e hanno un contenuto di energia pericolosamente alto. Gli occhi di tutti i vertebrati diurni contengono filtri gialli; nel nostro la stessa funzione è svolta anche dal cristallino, che comincia a ingiallire ancor prima della nascita e diventa progressivamente più giallo nel tempo. L’eliminazione dei carotenoidi dalla dieta è accompagnata dalla scomparsa della pigmentazione gialla nella zona centrale della retina, e causa una degenerazione dei fotorecettori che può condurre a disturbi visivi anche molto gravi. Questi importanti carotenoidi, che non dovrebbero mancare nell’alimentazione quotidiana, sono presenti soprattutto nel tuorlo d’uovo, nelle arance, negli spinaci e in tutte le verdure a foglia di colore verde scuro. La dieta gioca un ruolo significativo anche nel rischio di sviluppare precocemente una cataratta, che aumenta da 5 a 10 volte per chi non mangia frutta e verdura a sufficienza; l’ideale sono almeno cinque porzioni al giorno. (Foto: una foglia di cavolo.)

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Il pigmento visivo non è sensibile a tutte le lunghezze d’onda allo stesso modo. In altre parole, affinché possiamo sperimentare una sensazione visiva è necessario che un certo numero di fotoni colpisca i nostri fotorecettori, e questo numero varia a seconda della lunghezza d’onda della luce usata per stimolare l’occhio. Il pigmento contenuto nei bastoncelli è massimamente sensibile a luce di 500 nanometri circa (che apparirebbe blu-verde alla luce del giorno). Quanto al pigmento contenuto nei coni, come vedremo meglio nel prossimo capitolo, ve ne sono tre tipi diversi, ciascuno massimamente sensibile a luce di una certa lunghezza d’onda. L’attività combinata di questi tre tipi di pigmento fa sì che il sistema dei coni nel suo complesso sia sensibile di preferenza a luce di 550 nanometri circa, che appare giallo-verde. Non a caso il giallo viene spesso usato per indumenti che devono risultare altamente visibili, come i giubbotti di salvataggio o le uniformi degli operai che lavorano sul ciglio della strada. 2.1.6 La formazione dell’immagine sulla retina Abbiamo dato per scontato fin qui che sulla retina esista un’immagine dell’oggetto che stiamo guardando. Ma da dove viene questa immagine? Come si forma? Per rispondere è sufficiente notare che la struttura dell’occhio gli consente di funzionare come una camera oscura. Una camera oscura consiste semplicemente in una stanza completamente buia, in cui porte e finestre siano state sbarrate ma sia stato praticato, su un’imposta, un piccolo foro. Se sulla parete opposta viene attaccato un pezzo di carta bianca, chi si trova nella stanza può vedere sulla carta un’immagine della scena che si trova all’esterno. L’immagine non è molto chiara, ed è, per le semplici ragioni proiettive che potete verificare in Figura 2.12, capovolta. Una lente posta vicino all’apertura può servire a mettere l’immagine a fuoco sulla parete, rendendola così più nitida. L’analogia fra l’occhio e la camera oscura è vecchia di secoli. Essendo sostanzialmente una sfera provvista di un forellino sulla superficie anteriore e di uno strato di materiale fotosensi39

bile sulla faccia interna della superficie posteriore, l’occhio è una camera oscura. La luce che entra nella pupilla attraversa una lente, il cristallino, che mette a fuoco l’immagine sulla superficie opposta, la retina. L’idea che il mondo esterno vada a proiettarsi sulla retina come su di uno schermo fu formulata dall’astronomo Keplero all’inizio del Seicento, e venne dimostrata sperimentalmente poco dopo. Un certo Scheiner, dopo aver abilmente ritagliato una finestrella negli strati posteriori (la sclera e la coroide) dell’occhio di un bue ed esposto così la retina, ebbe la soddisfazione di poter osservare sulla retina stessa una piccola immagine capovolta di una candela che aveva posto davanti all’occhio. Attenzione, però: non pensate nemmeno per un istante che il fatto che sulla retina esista l’immagine di un oggetto «spieghi» la visione di quell’oggetto. Nella camera oscura, la figura sulla parete viene guardata da un osservatore che sta nella stanza. Ma chi guarda l’immagine che si forma sul fondo del nostro occhio? Non c’è nessun osservatore nell’occhio, e se ci fosse Fig. 2.12 Prima che Keplero si rendesse conto che l’immagine retinica dev’essere per forza capovolta – poiché i raggi luminosi si incrociano in corrispondenza del cristallino – Leonardo aveva proposto che i raggi si incrociassero nell’occhio due volte (nella pupilla e nell’umor vitreo), in modo da produrre un’immagine diritta. In realtà, vediamo il mondo diritto perché così il nostro cervello interpreta la stimolazione proveniente dalla retina. Se si portano degli occhiali che raddrizzano l’immagine retinica, il mondo appare a rovescio e orribilmente strano per i primi giorni; poi ci si abitua, e quando non le si esamina attentamente le cose appaiono diritte. Galline, pulcini e rane posti nelle stesse condizioni non mostrano invece alcun adattamento, e anche dopo mesi continuano a beccare o spostare la lingua nella direzione sbagliata. (Illustrazione: la formazione dell’immagine nell’occhio in un diagramma di Kircher, 1646. Da N.J. Wade, A natural history of vision, Cambridge, MIT Press, 1998.)

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anche nel suo occhio dovrebbe esserci un minuscolo osservatore, e nell’occhio di quest’ultimo dovrebbe esserci un altro osservatore ancor più minuscolo, e così via all’infinito. La retina è semplicemente il luogo dove l’energia luminosa viene convertita in segnali nervosi. Una volta che questa conversione è stata portata a termine, oggetti ed eventi sono rappresentati unicamente come sequenze di impulsi all’interno del nervo ottico. Da questo punto in avanti, ogni ulteriore elaborazione delle informazioni sensoriali viene eseguita su questa rappresentazione nervosa. 2.2 Dall’occhio al cervello Il segnale elettrico generato nei fotorecettori viene trasmesso, attraverso le cellule di connessione della retina, alle cellule gangliari e quindi alle fibre del nervo ottico. Il percorso compiuto dalle fibre del nervo ottico fra la retina e il cervello è un po’ complicato da descrivere, ma non è difficile da capire se si esamina attentamente la Figura 2.13. Le fibre provenienti dalle metà nasali (quelle vicine al naso) di ciascuna retina si incrociano fra loro nel chiasma e si dirigono al corpo genicolato laterale e quindi alla corteccia cerebrale. A causa di questo incrocio, le fibre provenienti dall’occhio destro vanno a finire nell’emisfero sinistro e le fibre provenienti dall’occhio sinistro vanno a finire nell’emisfero destro. Le fibre provenienti dalle metà temporali (quelle vicino alle tempie) di ciascuna retina si dirigono anch’esse al corpo genicolato laterale prima e alla corteccia cerebrale poi, ma senza incrocio nel chiasma. In questo caso, quindi, le fibre provenienti dall’occhio destro vanno a finire direttamente nell’emisfero destro e le fibre provenienti dall’occhio sinistro vanno a finire direttamente nell’emisfero sinistro. Il risultato di questa organizzazione è che, quando fissate un determinato punto, un oggetto che si trovi a sinistra di quel punto (pur proiettando la propria immagine su entrambe le retine) viene rappresentato interamente nell’emisfero destro, mentre 41

un oggetto che si trovi a destra di quel punto (pur proiettando la propria immagine su entrambe le retine) viene rappresentato interamente nell’emisfero sinistro. Anche questo principio, come potete vedere nella Figura 2.13, è più difficile da descrivere che da capire. Una pallottola nelle aree visive del vostro emisfero sinistro, ad esempio, causerà (ben che vada) una cecità parziale nella zona alla destra di ciò che state fissando.

Fig. 2.13 Nel nostro sistema visivo, il 50% delle fibre provenienti dalla retina e dirette al cervello si incrocia nel chiasma. Il risultato è che le parti dei due occhi che vedono la stessa area dello spazio (ad esempio, quella grigio chiaro a sinistra del punto di fissazione) mandano le proprie fibre allo stesso emisfero cerebrale (qui il destro). Gli individui albini rappresentano un’eccezione. Il gene responsabile dell’albinismo, infatti, fa sì che a incrociarsi sia il 95% anziché il 50% delle fibre; ciò genera una sfilza di problemi tra cui l’assenza di visione stereoscopica. Le informazioni provenienti dai due occhi non vengono combinate fra loro, il che oltretutto ostacola la coordinazione oculare. È per questo che i gatti siamesi (che sono albini) erano in origine quasi tutti strabici; lo strabismo è stato progressivamente eliminato attraverso incroci selettivi. In animali dotati di occhi laterali invece, ad esempio nel coniglio, i due occhi vedono aree completamente diverse dello spazio e non avrebbe senso mescolare queste informazioni fra loro. In questo caso l’incrocio delle fibre nel chiasma è completo, e le fibre provenienti da ciascun occhio si dirigono all’emisfero opposto, rimanendo perfettamente segregate. (Illustrazione: adattata da «Le Scienze».)

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Da un punto di vista grossolano, il sistema visivo consiste in un’unica via: dagli occhi al corpo genicolato laterale, dal corpo genicolato laterale alla corteccia visiva. Alcuni ritengono però che, su una scala più fine, questa via sia composta da due sottosistemi che sono anatomicamente distinti (anche se si parlano fra loro) e che recapitano alla corteccia, in parallelo, informazioni visive differenti. (Secondo altri, questa suddivisione ha inizio solo dopo la corteccia visiva primaria.) La via ventrale è evolutivamente più recente e ben sviluppata solo nei primati, e sembra legata alla nostra capacità di riconoscere gli oggetti, facce comprese. La via dorsale, più antica, è quella che abbiamo in comune con gli altri mammiferi, e starebbe alla base della nostra capacità di distinguere le figure dagli sfondi e di rilevare posizione, profondità, movimento. La via dorsale è più sensibile al contrasto e più veloce della via ventrale, ma è cieca al colore e ai dettagli. Per parecchi anni si è ritenuto che la via ventrale fosse il sistema del «che cosa» e quella dorsale il sistema del «dove». Questa suddivisione è stata messa in discussione, e molti ora pensano che la via ventrale sia responsabile della visione (conscia) per la percezione, e la via dorsale della visione (largamente automatica e inconscia) per l’azione11. L’interpretazione funzionale di queste due vie insomma è cambiata negli anni, e ancora non ha trovato un punto di approdo. La Figura 2.13 mostra che, nel suo viaggio verso la corteccia, una parte delle fibre del nervo ottico si dirige non al corpo genicolato laterale ma a un’altra struttura, il collicolo superiore (e da qui a una differente area corticale visiva). La via che dalla retina si dirige alla corteccia visiva primaria transitando per il corpo genicolato laterale è infatti solo la principale fra le molte vie che dalla retina vanno al nostro cervello. Lungi dal rappresentare stazioni passive, tanto il collicolo superiore che il corpo genicolato laterale hanno il compito di rielaborare e raffinare ulteriormente l’informazione proveniente dalla retina. Il collicolo superiore appare coinvolto nella localizzazione degli oggetti e nel controllo dei movimenti oculari, mentre il corpo genicolato laterale sembra responsabile, fra le altre cose, di una prima analisi del colore e del contrasto. 43

2.3 Il cervello: la corteccia visiva La corteccia visiva si trova nella parte posteriore del cervello, nella regione detta lobo occipitale, e consiste in una lamina costituita da centinaia di milioni di cellule nervose disposte in sei strati. Sappiamo che le varie regioni della retina sono rappresentate ordinatamente in precise regioni della corteccia visiva. Ciò è dimostrato dal fatto che la distruzione di una specifica regione corticale comporta una cecità limitata a una certa area del campo visivo. Tale rappresentazione, però, è fortemente distorta, dato che una vastissima porzione della corteccia è dedicata interamente ad una piccola porzione della retina, la fovea. Insomma, gli oggetti del mondo a cui viene data più importanza sono quelli che guardiamo direttamente. Ciò si accorda con la regola che le regioni del corpo dotate di maggiore sensibilità o di capacità discriminative più fini, come la lingua o i polpastrelli, occupano un’area corticale più ampia. L’area della corteccia che riceve direttamente i segnali provenienti dal corpo genicolato laterale è detta corteccia visiva primaria (o striata, o area 17, o V1). I segnali in arrivo non si fermano qui, ma vengono poi inviati ad altre aree corticali; alcuni tornano perfino indietro, verso il corpo genicolato laterale. La corteccia visiva primaria compie, sull’informazione in arrivo, due operazioni fondamentali. La prima è quella di combinare fra loro le informazioni provenienti dai due occhi. La maggior parte delle cellule corticali risponde sia alla stimolazione dell’occhio sinistro che a quella dell’occhio destro, anche se normalmente uno dei due occhi scatena una risposta maggiore dell’altro. La seconda operazione è quella di «estrarre», per così dire, informazioni relative a certe caratteristiche semplici dello stimolo, come la sua orientazione e la direzione in cui si muove. Ogni cellula corticale risponde infatti in modo preferenziale a linee con una certa orientazione. La rotazione di anche soltanto 18 gradi di una linea che provoca una vivace risposta in una data cellula è sufficiente ad abolire completamente la risposta della cellula. (Se 18 gradi vi sembran molti, pensate che corrispondono all’angolo fra le 12.00 e le 12.03 sul quadrante dell’orolo44

Fig. 2.14 Il nostro cervello è essenzialmente un cervello visivo, con decine di aree che contengono neuroni che rispondono solo o anche a stimoli visivi. Il ruolo del lobo occipitale nella visione fu dimostrato sperimentalmente alla fine dell’Ottocento. Poco più tardi, un medico giapponese descrisse il modo in cui le diverse parti del campo visivo vengono rappresentate nella corteccia visiva primaria, studiando i deficit visivi di soldati feriti al capo nella guerra russo-giapponese. Questi studi furono possibili perché il nuovo modello di fucile introdotto dai russi sparava proiettili più piccoli e veloci, che penetravano nel cranio senza frantumarlo. I sopravvissuti collaboravano volentieri, dato che la loro pensione era basata sull’entità del danno alla vista che avevano subito. (Illustrazione: adattata da M. Glickstein, La scoperta della corteccia visiva, in «Le Scienze», n. 243, 1988, pp. 96-103.)

gio!) Alcune cellule rispondono preferenzialmente a linee con una certa orientazione che si muovono in una particolare direzione, altre rispondono preferenzialmente a linee con una certa orientazione e lunghezza che si muovono in una particolare direzione. In ogni caso, ogni cellula è sensibile solo a ciò che accade in un’area relativamente piccola della retina (il suo campo recettivo) e ignora quel che succede altrove. Lungi dall’essere ammonticchiate a caso nella corteccia, queste cellule sono organizzate in colonne verticali mirabilmente ordinate. Le cellule di ogni colonna, strato per strato, preferi45

scono tutte la medesima orientazione; e colonne specializzate in orientazioni vicine sono fra loro vicine. La colonna specializzata nell’orientazione «10 gradi», per esempio, è adiacente alla colonna «20 gradi», la quale è a sua volta adiacente alla colonna «30 gradi» e così via, come in una cassettiera ben organizzata. Colore, profondità e movimento sono probabilmente elaborati separatamente dalla corteccia visiva in aree diverse da quella primaria, aree di cui sappiamo poco; né sappiamo ancora come l’attività di tutte queste aree venga infine combinata per dare origine alla percezione degli oggetti. Dell’esistenza di aree specializzate non è però il caso di dubitare. La distruzione di una piccola zona della corteccia (in seguito a un ictus, a un’operazione di neurochirurgia o a una ferita d’arma da fuoco) può essere all’origine di sintomi bizzarri e altamente specifici, mentre tutto il resto continua a funzionare normalmente. Fig. 2.15 L’idea della localizzazione delle funzioni corticali stentò all’inizio a prendere piede a causa della cattiva reputazione di cui godeva tra molti anatomisti la frenologia, una pseudoscienza in voga nella prima metà dell’Ottocento. Il medico austriaco Gall, dopo aver condotto misurazioni accurate del cranio di parenti, studenti e amici, aveva proposto che il cervello fosse composto da tante regioni quanti sono i tratti psicologici, e che lo sviluppo di questi ultimi fosse riflesso dalla presenza di protuberanze e avvallamenti sulla superficie del cranio. Il principale risultato della teoria di Gall fu una mappa topologica del cranio, che indicava con precisione i punti in cui le 37 facoltà mentali e morali identificate da Gall e dai suoi discepoli avrebbero potuto essere palpate, misurate e diagnosticate. In epoca vittoriana ci si recava dal frenologo con la stessa disposizione d’animo con cui si andava, e si va tutt’oggi, dall’astrologo o dal chiromante. (Illustrazione: una mappa frenologica. Da www.cerebromente.org.br /n01/frenolog/frenmap.htm.)

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Nella sindrome nota come acromatopsia cerebrale, ad esempio, i pazienti perdono del tutto la sensazione del colore. La vita diventa un film in bianco e nero, flash-back compresi: i pazienti, cioè, non riescono nemmeno a ricordare i colori percepiti in epoca precedente alla lesione. Se il problema riguarda un solo emisfero, il mondo può apparire diviso a metà: colori a destra e toni di grigio a sinistra, o viceversa. Nella assai più debilitante sindrome nota come acinetopsia è la percezione del movimento a sparire: il mondo si ferma. Il paziente ha difficoltà nel versare il tè nella tazza, perché il fluido appare congelato, come in un fermo immagine. Non vedendo salire il livello del tè dentro la tazza, non si riesce a smettere di versare al momento giusto. L’automobile lontana che il paziente nota quando si appresta ad attraversare la strada è vicina tutto a un tratto, e senza preavviso. Queste persone si trovano estremamente a disagio in una stanza affollata, in cui i presenti non fanno altro che scomparire dal posto in cui si trovavano e riapparire altrove. Lesioni di altre zone della corteccia possono anche provocare sindromi come quella descritta da Oliver Sacks in L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, in cui il paziente è incapace di riconoscere gli oggetti, nonostante riesca a darne una descrizione minuziosa. Il paziente identifica il guanto che Sacks gli porge come una superficie continua, ripiegata e dotata di cinque tasche allungate, atte a contenere qualcosa (forse monete di cinque diverse grandezze?). E prima di congedarsi, alla ricerca del cappello, afferra la testa della moglie seduta vicino a lui, tentando di sollevarla e mettersela addosso. Studiare il rapporto tra mondo e cervello è un compito importante, ma che possiamo lasciare a neurofisiologi e neuropsicologi. Che il cervello risponda a certe proprietà del mondo e le rappresenti sotto forma di eventi nervosi è sicuro. Questo, però, non è ancora «vedere». Noi non vediamo linee variamente orientate localizzate sulla nostra retina o nella nostra corteccia occipitale, né vediamo l’attività di gruppi di cellule nervose: vediamo sedie, teiere e cappelli posti fuori di noi. Che queste sedie, teiere e cappelli appaiano fuori di noi è presumibilmente un’illusione: in un senso ben concreto, essi si trovano nel nostro 47

cervello. Nei prossimi capitoli ignoreremo fermamente le implicazioni filosofiche di questo fatto (in particolare, non ci chiederemo dove sia allora il mondo fisico, se ciò che vediamo là fuori non può mai essere altro che il mondo percettivo), e cercheremo almeno di capire perché gli oggetti appaiono nel modo in cui appaiono, considerandone un aspetto alla volta: colore, chiarezza, forma, profondità, movimento.

Sommario 2.1. La sensibilità alla luce è resa possibile da un sistema visivo, che nel nostro caso consiste in occhio, cervello e una serie di strutture nervose intermedie. La luce riflessa dagli oggetti entra nell’occhio attraverso la pupilla e viene messa a fuoco sulla retina da due lenti, la cornea e il cristallino. La retina è composta di cellule specializzate, i fotorecettori, che convertono la luce in attività elettrica. 2.2. Tale attività elettrica viene trasmessa, lungo il nervo ottico, al corpo genicolato laterale e al collicolo superiore, dove avviene una prima elaborazione dell’informazione visiva. 2.3. Un’ulteriore e più complessa elaborazione avviene nella corteccia visiva. Sappiamo che le cellule corticali rispondono in maniera selettiva a certe caratteristiche di semplici stimoli lineari: la loro orientazione, la loro lunghezza, la direzione in cui si muovono. D’altro canto, non sappiamo né a che punto e in che modo tutte le altre caratteristiche degli stimoli visivi vengano «estratte», né come tali caratteristiche vengano poi combinate per dare origine all’esperienza percettiva degli oggetti.

Per saperne di più Uomini, donne e code di pavone. La selezione sessuale e l’evoluzione della natura umana. Geoffrey Miller, Einaudi, 2002. A che scopo si sono evoluti non soltanto gli occhi azzurri, verdi e nocciola, ma anche e soprattutto l’arte, la moralità, la creatività e il linguaggio? Questi tratti sono dispendiosi e a prima vista inutili nella lotta per la sopravvivenza. In questo saggio, splendidamente scritto e argomentato, Miller propone che abbiamo evoluto caratteristiche così vistose e ingombranti per la 48

stessa ragione per cui i pavoni hanno evoluto vistose e ingombranti code: ovvero per aumentare la probabilità di essere scelti dal sesso opposto, e di trasmettere così i nostri geni alla generazione successiva. Attitude and pupil size. Eckhard Hess, in «Scientific American», n. 212, aprile 1965; The role of pupil size in communication. Eckhard Hess, in «Scientific American», n. 233, novembre 1975; Rattlesnakes, french fries and pupillometric oversell. Berkeley Rice, in «Psychology Today», n. 9, febbraio 1974. I lavori di Hess riscossero un successo straordinario negli Stati Uniti, come testimoniano la comparsa di ben due articoli su «Scientific American» e il tentativo immediato dell’industria di sfruttare la scoperta per misurare il gradimento degli annunci pubblicitari. Grande fu la delusione quando le ricerche successive dimostrarono che, mentre è vero che le pupille si dilatano di fronte a ciò che ci interessa o ci emoziona (in senso sia positivo che negativo), non è vero che esse si dilatino in risposta a ciò che ci piace e si restringano in risposta a ciò che non ci piace, come si era creduto in un primo tempo. Phrenology: the history of brain localization. Renato M.E. Sabbatini, in «Brain & Mind. Electronic Magazine on Neuroscience», n. 1, marzomaggio 1997. Consultabile al seguente indirizzo web: www.cerebromente.org.br/n01/frenolog/frenologia.htm. Un articolo online, di facile e piacevole lettura, per chi prova curiosità per la frenologia e le sue origini. La scoperta della corteccia visiva. Mitchell Glickstein, in «Le Scienze», n. 243, novembre 1988. Il racconto avvincente della storia, durata più di due secoli, di come si sia arrivati a identificare e descrivere i centri visivi del cervello. L’elaborazione dell’immagine visiva. Semir Zeki, in «Le Scienze Dossier: Il colore», n. 9, autunno 2001. Come il cervello costruisce ciò che vediamo, nella prosa cristallina del neurobiologo che per primo ha proposto il concetto di specializzazione funzionale della corteccia visiva. L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. Oliver Sacks, Adelphi, 1988. Che cosa accade quando certe parti del nostro cervello smettono di funzionare come si deve? Una raccolta di casi clinici, più appassionante di un romanzo. 49

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Come vediamo i colori Δ Perché vediamo i colori Δ Che cos’è il colore Δ Come vediamo i colori: i fatti da spiegare Δ Come vediamo i colori: le basi fisiologiche Δ Anomalie nella visione dei colori Δ La costanza di colore Δ Gli effetti psicologici del colore

Nella carriera di Alfred Hitchcock, il film Marnie fu un fiasco. Eppure, se è vero che la storia è poco convincente e l’uso della psicologia del profondo un tantino grossolano, la regia non difetta di buone idee. Il film si apre con un primo piano su una borsa gialla (la quale, scopriremo presto, contiene denaro rubato). L’allargarsi dell’inquadratura rivela la figura di una donna bruna vestita di scuro, che si allontana con la borsa gialla sotto il braccio sul marciapiede di una stazione. La tinta nera dei capelli della protagonista se ne va quasi immediatamente giù per il lavandino per lasciar posto a un’acconciatura bionda; da questo punto in avanti faranno bella mostra di sé taxi gialli, matite gialle, cuscini gialli, abiti gialli, mazzi su mazzi di fiori gialli. Ogni evento giallo avrà il ruolo di un colpo di gong: un avvertimento che qualcosa sta per accadere, e che questo non è il migliore dei mondi possibili. La ragione per cui Hitchcock scelse il giallo come segnale d’allarme in Marnie potrebbe essere la stessa per cui le foglie diventano gialle in autunno. La maggior parte della gente pensa che i colori vivaci delle foglie siano un semplice sottoprodotto del loro invecchiamento. Questo però non spiega né le enormi variazioni fra specie diverse e fra esemplari diversi all’interno della stessa specie, né il fatto che i pigmenti responsabili dei colori brillanti delle foglie vengano prodotti attivamente durante l’autunno, ad un costo non indifferente e nonostante le foglie siano sul punto di cadere. Secondo alcuni biologi, il giallo e il rosso sono segnali che gli alberi inviano agli afidi, i minuscoli insetti che li colonizzano in autunno per trascorrervi l’inverno (e nutrirsi a spese delle giovani foglie nella primavera successiva). 50

Maggiore è la competenza della pianta nel produrre tossine insetticide una volta attaccata dai parassiti, più intensi sono i colori autunnali delle sue foglie. Il segnale quindi è «onesto», e proclama «Io mi difendo molto bene: vi conviene girare alla larga». Chi invia il segnale ci guadagna perché riduce il carico parassitario, chi riceve il segnale ci guadagna perché migra verso alberi più ospitali1. Non è un caso, quindi, se gli afidi preferiscono il verde; non è un caso se gli afidi attratti dal giallo prediligono le sfumature più smorte; non è un caso se gli afidi hanno, chi l’avrebbe mai detto, la visione cromatica. 3.1 Perché vediamo i colori La co-evoluzione fra produzione di pigmenti colorati da parte degli alberi e sviluppo della visione cromatica da parte degli afidi suggerisce che investire in nuovo equipaggiamento biologico ha senso solo se ciò comporta un beneficio. Un apparato capace di vedere i colori costa, perché richiede che lunghezze d’onda diverse vengano tradotte in risposte neurali diverse. A un occhio che rispondesse solo all’intensità della luce – in modo assolutamente identico per tutte le lunghezze d’onda – il mondo apparirebbe in bianco e nero (e toni di grigio, naturalmente), ossia monocromatico. Questa è una soluzione economica che è stata adottata da mammiferi marini come le balene o le foche, che di norma non hanno nulla di colorato da guardare. La maggioranza degli altri mammiferi, compresi il cane, il gatto e quasi tutte le scimmie del Nuovo Mondo, ha optato per il modello immediatamente superiore, la visione dicromatica. Alla coppia di «colori» bianco e nero si aggiunge la coppia giallo e blu: grosso modo, il vostro cane vede blu ciò che voi vedete blu, ma tutto ciò che per voi è verde, giallo o rosso gli appare in gradazioni di giallo. Le scimmie del Vecchio Mondo, noi compresi, hanno infatti evoluto la visione tricromatica, cioè la capacità di distinguere rosso e verde oltre a bianco e nero e a giallo e blu. Non crediate che questo sia segno di chissà quale conseguimento trionfale sulla scala evolutiva: il pesce rosso ha la visione tetracromatica, a quattro coppie di colori. 51

Fig. 3.1 La risposta al colore è molto sofisticata negli uccelli. La maggior parte degli uccelli è parzialmente cieca al blu (il colore del cielo) e fortemente attratta dal rosso. Per questa ragione il rosso è un colore molto comune fra le bacche mature, il cui principale interesse è appunto quello di trasferirsi nel sistema digestivo degli uccelli. I semi andranno così a finire lontano dalla pianta madre, favorendo la nascita di altre piante e la colonizzazione di nuovi territori. Nel film di Hitchcock Gli uccelli si fa grande uso simbolico del colore verde, e la protagonista Tippi Hedren indossa un abito verde in tutte le sequenze in cui viene attaccata dagli uccelli. Curiosamente, però, il verde (il colore della vegetazione) è in realtà un colore per il quale gli uccelli non mostrano alcun interesse. Non a caso, la granaglia avvelenata per distruggere i topi viene spesso tinta di verde, in modo che gli uccelli non se ne cibino. I topi, che sono ciechi al verde, la mangiano comunque. È bene notare, tuttavia, che assenza di visione cromatica non significa necessariamente assenza di reazioni biologiche al colore. Topi allevati in gabbie esposte alla luce naturale generano un 50% di maschi e un 50% di femmine. Tuttavia (come ben sanno gli allevatori di cincillà, che sfruttano la cosa commercialmente) la progenie è composta per il 70% di femmine se le gabbie sono illuminate da lampade fluorescenti azzurre, e per il 70% di maschi se le lampade sono rosa! A dispetto della tradizione, quindi, pare che l’azzurro si addica alle femmine e il rosa ai maschi. (Foto: immagine promozionale del film Gli uccelli. Il corvo addomesticato sulla spalla di Hitchcock non appariva nel film, ma venne acquistato in seguito per la campagna pubblicitaria.)

Per oltre cent’anni si è pensato che nei primati, originariamente fruttivori e vegetariani, l’evoluzione della visione tricromatica fosse stata guidata dalla necessità di individuare facilmente bacche e frutti rossi contro lo sfondo verde della vegetazione. Quando però, di recente, qualcuno si è preso la briga di misurare il contenuto spettrale della luce riflessa dai frutti di cui i primati si nutrono nel loro habitat naturale, si è scoperto che questi sono perfettamente distinguibili dalle foglie agli occhi di individui dotati di visione dicromatica. L’unico cibo che non può essere identificato senza la visione tricromatica sono le fo52

glie nuove2. Nella giungla africana, sono rosse anziché verdi le foglie nuove di circa metà delle piante; queste foglie sono le più tenere, digeribili e ricche di proteine. Dato che i primati mangiano foglie quando altri tipi di cibo scarseggiano, la capacità di scegliere le più nutrienti deve aver rappresentato, per i nostri progenitori, un vantaggio non indifferente in tempi di carestia. Insomma, vediamo a colori perché in un mondo colorato è più facile trovar da mangiare che in un mondo in bianco e nero. 3.2 Che cos’è il colore Nei prati in cui noi vediamo margheritine bianche tra l’erba verde, le mucche vedono invece presumibilmente margheritine bianche tra l’erba gialla, e le api erba gialla e sgargianti margheritine verdazzurre. Quali sono allora i veri colori dell’erba e delle margheritine? Il fatto che lo stesso mondo appaia in tinte diFig. 3.2 Molto tempo prima che scoprissimo come gli insetti percepiscono i colori, i botanici avevano espresso sorpresa a proposito del fatto che, nella nostra flora spontanea, i fiori rossi siano così rari (il comune geranio, per esempio, viene dal Sudafrica). I fiori che chiamiamo rossi, come il trifoglio rosso, l’erica, il rododendro, il ciclamino, sono in realtà color porpora o magenta, cioè hanno una componente blu. Eppure quasi tutti i fiori tropicali sono rossi. Ora sappiamo perché: le api, responsabili dell’impollinazione della maggior parte dei nostri fiori, non vedono il rosso. I colori che le api possono vedere sono quattro: il giallo, il blu, l’ultravioletto e un blu-verde che è il colore complementare all’ultravioletto. I fiori tropicali non vengono fecondati dalle api o da altri insetti, ma da piccoli uccelli dal becco lungo e affilato, come il colibrì, che percepiscono il rosso perfettamente. I pochissimi fiori della nostra flora spontanea che hanno colore rosso acceso (ad esempio le violacciocche) vengono impollinati non dalle api ma dalle farfalle, che il rosso lo vedono benissimo. L’unica eccezione è il papavero. Al nostro occhio sfugge però il fatto che il papavero è non solo rosso, ma anche ultravioletto, e proprio di questo colore appare alle api. (Immagine: Paola Bressan, Omaggio a Georgia O’Keeffe, 2005.)

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verse a creature diverse rende chiaro che questa domanda non ha senso. Gli oggetti non sono colorati. Il colore è un’esperienza puramente soggettiva che dipende da due cose: la luce che gli oggetti riflettono e le proprietà del sistema visivo di chi guarda. Se eravate convinti che il colore fosse un’indissolubile proprietà dell’oggetto siete in buona compagnia, visto che fino a poco più di tre secoli fa della stessa cosa erano convinti anche tutti gli altri. Il primo a intuire che i conti non tornavano fu lo scienziato inglese Isaac Newton nel 1666, e all’inizio non gli credette nessuno. Newton fece in modo che un sottile fascio di luce solare, che entrava nella sua stanza da un forellino praticato in un’imposta, attraversasse un prisma di vetro. Uscendo dal prisma, la luce si scomponeva a formare, sulla parete di fronte, un arcobaleno di colori, o spettro. All’epoca questo fenomeno era già noto, tanto è vero che i prismi erano in vendita alle fiere, ma la gente pensava che fosse il prisma stesso a colorare la luce. Il merito di Newton fu quello di usare un secondo prisma (egli raccontò che, dopo aver acquistato il primo prisma a una fiera annuale nei pressi di Cambridge, dovette aspettare la fiera successiva e quindi un anno intero per acquistare il secondo prisma e poter così provare la sua «ipotesi dei colori»). Ebbene, i colori prodotti dal prisma si ricomponevano producendo la luce bianca se si faceva in modo che attraversassero un secondo prisma capovolto. Inoltre, se si collocava uno schermo con una fessura fra il prisma e la parete, in modo da far passare solo la luce verde, e le si faceva attraversare un secondo prisma, il fascio di luce che ne usciva rimaneva verde. Newton ne dedusse che la luce bianca non è pura, ma composta di colori diversi, e che il prisma non fa altro che separarli. In linguaggio moderno, non diciamo che la luce del sole contiene molti colori, ma che, a mezzogiorno, contiene energia (più o meno nella stessa quantità) in regioni diverse dello spettro elettromagnetico. Quando la luce del sole (detta anche luce bianca) illumina un oggetto, si danno tre casi interessanti: uno, tutto lo spettro viene riflesso, e l’oggetto appare bianco; due, tutto lo spettro viene assorbito, e l’oggetto appare nero; tre, una parte dello spettro vie54

ne assorbita e l’altra parte viene riflessa, e l’oggetto appare del colore della luce riflessa. Ciò che viene assorbito non raggiunge l’occhio, e quindi non può essere visto. Come mostra la Figura 3.3, un pomodoro appare rosso perché assorbe gran parte delle componenti blu e verde dello spettro, riflettendo soprattutto quella rossa. Se facessimo cadere lo spettro generato da un prisma su un pomodoro, le bande corrispondenti al giallo, al verde, all’azzurro, all’indaco e al violetto apparirebbero scure, mentre la banda corrispondente al rosso sarebbe rosso brillante.

Fig. 3.3 Le curve mostrano in che percentuale la luce di ciascuna lunghezza d’onda viene riflessa da alcune superfici. Le superfici che riflettono tutte le lunghezze d’onda in modo eguale, come nel pannello a sinistra, appaiono acromatiche (ovvero bianche, grigie o nere); mentre quelle che riflettono le lunghezze d’onda in modo diseguale, come nel pannello a destra, appaiono colorate. Si noti che il cavolo, così come le foglie e la vegetazione in generale, non riflette solo il verde, ma anche altre lunghezze d’onda, in particolare il rosso estremo. I pigmenti verdi che in pittura vorrebbero riprodurre i verdi naturali, invece, hanno uno spettro ridotto e totalmente privo di rosso, per cui è molto difficile trovare oggetti verdi da giardino che si armonizzino con i colori dell’erba e del fogliame. (Illustrazione: adattata da E.B. Goldstein, Sensation and Perception, Belmont, CA, Wadsworth, 1989.)

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Attenzione: quando parliamo di colore della luce riflessa (e anche quando parliamo di luce rossa o blu) non dobbiamo cadere nell’errore di pensare che i raggi luminosi siano di per sé colorati; essi non sono certo più colorati delle onde radio o dei raggi X. Il colore è legato alla capacità di certi raggi di produrre certe risposte nel nostro sistema nervoso. Strettamente parlando, è scorretto dire che il pomodoro è rosso; dovremmo invece dire che il pomodoro, visto alla luce del giorno, evoca una sensazione che la maggior parte della gente chiamerebbe «rosso». Per concludere, gli oggetti appaiono colorati perché la luce che riflettono viene catturata da un occhio (e un sistema nervoso) fatti in un certo modo. Siccome alcune persone hanno occhi (o sistemi nervosi) anomali, le loro esperienze del colore possono essere diversissime da quelle della maggior parte di noi, come vedremo meglio più avanti. 3.2.1 Come si differenziano fra loro i colori Un peperone verde ha un colore diverso da un peperone rosso, e su questo siamo tutti d’accordo. Ma un peperone verde ha anche un colore diverso da una zucchina, che è pure verde. Insomma, diciamo che il verde è un colore diverso dal rosso; ma diciamo anche che un verde chiaro è un colore diverso da un verde scuro (ma non nello stesso senso di prima), e che un verde vivace è un colore diverso da un verde sbiadito (in un altro senso ancora). Nei discorsi di tutti i giorni, il termine «colore» viene usato in modo generico per indicare concetti differenti, e per fare progressi è necessario optare per un linguaggio più preciso. Non è un caso se per regolare i colori del televisore ruotare una sola manopola non è sufficiente, perché i colori si differenziano l’uno dall’altro sulla base non di una, ma di tre caratteristiche distinte: tinta, chiarezza e saturazione. La tinta si riferisce a quella qualità che permette di distinguere il verde dal rosso, dal giallo, dal blu e così via. La grandezza fisica corrispondente alla tinta è, come abbiamo visto nel capitolo 1, la lunghezza d’onda. Si chiamano cromatici i colori che possiedono una tinta, acromatici quelli che non ce l’hanno (il bianco, il nero e il grigio). La chiarezza si riferisce a quanto il colore è 56

chiaro o scuro, ed è legata alla quantità di luce riflessa fisicamente dalla superficie. La composizione spettrale della luce riflessa da una tavoletta di cioccolato può essere identica a quella riflessa da un’arancia, solo che la cioccolata riflette meno luce. La saturazione si riferisce a quanto il colore è vivido (intenso, vivace, puro), o pallido (sbiadito, slavato, scolorito); tecnicamente, a quanto il colore si differenzia dal bianco. Ad esempio, rosa e rosso hanno la stessa tinta, ma il rosa è meno saturo, perché più vicino al bianco. Ogni colore possibile – il blu pavone, il giallo di Napoli, il melanzana, il vermiglione o l’ocra – può essere descritto con precisione assai maggiore da una terna di numeri che ne definisce esattamente tinta, chiarezza e saturazione. 3.2.2 Quanti colori possiamo vedere Supponiamo di presentare a un osservatore una luce di 380 nanometri (che è situata all’estremità inferiore dello spettro visibile, come si può vedere in Figura 1.2) e aumentarne progressivamente la lunghezza d’onda, finché l’osservatore è in grado di percepire una differenza nel colore della luce. Con questa tecnica, si scopre che all’interno della banda visibile, fra i 380 e i 700 nanometri, un osservatore normale è capace di discriminare (ossia di distinguere fra loro) circa 150 tinte differenti. Ciascuna di queste 150 tinte può assumere moltissimi diversi valori di chiarezza (ottenibili variando l’intensità della luce) e di saturazione (ottenibili diluendole con l’aggiunta di luce bianca), per cui il numero di colori diversi che possiamo vedere diventa prodigiosamente alto: si aggira, secondo chi si è preso la briga di fare il calcolo, attorno ai 7 milioni e mezzo. Tuttavia non abbiamo 7 milioni e mezzo di nomi diversi per i colori, e nemmeno 150, ma molti, molti di meno. 3.2.3 A quanti colori possiamo dare un nome La tribù dei Dani della Nuova Guinea ha soltanto due termini per i colori, mola (per i colori chiari e per quelli caldi, come il rosso e il giallo) e mili (per i colori scuri e per quelli freddi, come il verde e il blu). Potremmo tradurre queste due parole con qualcosa come «chiaro-caldo» e «scuro-freddo». Nelle lingue 57

che hanno tre termini diversi, questi sono sempre «bianco», «caldo» e «scuro-freddo». Nelle lingue che hanno quattro termini, questi sono sempre «bianco», «nero», «caldo» e «freddo». Nelle lingue con cinque, «bianco», «nero», «rosso», «giallo» e «freddo». Nelle lingue con sei, «bianco», «nero», «rosso», «giallo», «verde» e «blu». Questo significa, ad esempio, che se una lingua ha un termine per il verde avrà sicuramente anche un termine per il rosso, ma non viceversa. In effetti sono numerose le culture, anche molto distanti l’una dall’altra, in cui blu e verde vengono descritti da una parola unica, che potremmo chiamare «blerde». Avrete probabilmente sentito dire che gli eschimesi hanno dozzine (o anche centinaia) di parole diverse per indicare la neve. Questo argomento è stato usato a puntello dell’idea che vi sia uno stretto rapporto fra il modo in cui parliamo del mondo e il modo in cui lo vediamo, e ha fatto presa sull’immaginazione popolare, essendo una di quelle notizie iper-verosimili che così bene veicolano il messaggio «tutto è relativo». Si tratta in realtà di una leggenda, generata da un colossale fraintendimento (la lingua degli eschimesi congloba parole diverse in una parola unica, del tipo «nevecadutadapoco» o «nevesofficechecominciaasciogliersi», dove noi useremmo una frase o un giro di parole)3. Ma anche se gli eschimesi avessero trecento diversi termini per descrivere la neve, e i beduini quattrocento diversi termini per descrivere il deserto, e gli italiani cinquecento diversi termini per descrivere la pasta, ciò non determinerebbe il modo in cui neve, deserto e pasta vengono percepiti. Parimenti, il numero di nomi di colori che abbiamo a disposizione non influenza la maniera in cui vediamo i colori, né la nostra capacità di discriminarli (anche se i colori per i quali abbiamo un nome sono più facili da ricordare). Il linguaggio non plasma la nostra realtà, ma soltanto il modo in cui la suddividiamo in categorie e la etichettiamo. Il numero dei nomi di colori presente in una certa lingua sembra essere legato alla misura in cui l’ambiente locale è opera dell’uomo anziché della natura, e quindi a quanto è utile scambiarsi informazioni sui colori delle cose. Ma l’impressionante universalità dell’ordine in cui le lingue aggiungono nuovi 58

termini suggerisce che alcune categorie sono più importanti di altre, e ciò che accomuna le diverse culture ha più peso di ciò che le divide. 3.3 Come vediamo i colori: i fatti da spiegare [mescolanza dei colori] [contrasto simultaneo di colore] [adattamento cromatico] [immagini consecutive]

Le teorie scientifiche vengono formulate per spiegare fatti inizialmente misteriosi, e le nostre attuali credenze sulla visione a colori non fanno eccezione. I fatti inspiegabili in questo caso erano almeno quattro: la mescolanza dei colori, il contrasto simultaneo, l’adattamento cromatico e le immagini consecutive. 3.3.1 Mescolanza dei colori Dove sono, nello spettro o nell’arcobaleno, il rosa, il rosso magenta, il lilla o il viola dei ciclamini? Nessuno di questi colori corrisponde a luce di una singola lunghezza d’onda; essi possono essere ottenuti solo mescolandone assieme due o più. È indispensabile mettere bene in chiaro che cosa si intende per mescolanza di luci. Il pittore miscela giallo e blu per produrre il verde, ma non sta mescolando luci: sta mescolando pigmenti, cioè sostanze colorate. Questa operazione si chiama mescolanza sottrattiva. Per capire come mai la mescolanza sottrattiva fa sì che il giallo e il blu diano il verde, bisogna riflettere su quel che accade quando la luce bianca illumina i pigmenti giallo e blu. La luce naturale contiene tutte le lunghezze d’onda. Il pigmento giallo riflette quelle corrispondenti al giallo e una parte di quelle corrispondenti al verde, e assorbe tutte le altre (rosso, arancio e blu). Il pigmento blu riflette quelle corrispondenti al blu e una parte di quelle corrispondenti al verde, e assorbe tutte le altre (rosso, arancio e giallo). Quando il pigmento giallo viene mescolato con il pigmento blu, ogni pigmento continuerà naturalmente ad assorbire (a sottrarre, ecco perché questa mescolanza viene detta sottrattiva) le stesse lunghezze d’onda che assorbiva in precedenza. Quindi il rosso e l’arancio verranno assorbiti (da en59

trambi); il blu verrà assorbito (dalla componente gialla); il giallo verrà assorbito (dalla componente blu). Le uniche lunghezze d’onda che continueranno a venire riflesse, dato che sono le uniche che entrambi i pigmenti di base riflettevano, sono quelle corrispondenti al verde. Se il pigmento giallo riflettesse unicamente il giallo e il pigmento blu riflettesse unicamente il blu, la loro mescolanza non rifletterebbe alcunché e apparirebbe nera. La mescolanza che riguarda le luci, però, è di tipo diverso, e si chiama mescolanza additiva. La possiamo illustrare mediante un esempio a tutti familiare, la televisione a colori. Se mettete il vostro occhio molto vicino allo schermo del televisore, vi accorgerete che questo non contiene altro che un gran numero di puntini luminosi rossi, verdi e blu, disposti di solito in colonne. Alla distanza dalla quale guardiamo normalmente la televisione, tuttavia, questi puntini sono troppo piccoli per poter essere distinti l’uno dall’altro e vengono «fusi», ovvero mescolati assieme dal nostro occhio. Il colore risultante è quindi il prodotto di un processo additivo: le lunghezze d’onda contenute in ciascuna luce raggiungono tutte l’occhio quando le luci vengono sovrapposte (porre delle luci talmente vicine da far sì che queste non possano essere distinte fra loro equivale a sovrapporle). Poiché l’intensità del rosso, del verde e del blu nelle varie parti dello schermo varia a seconda di quanto ciascun punto viene illuminato, la proporzione dei tre colori nella mescolanza varia. Se, ad esempio, in un’area dello schermo solo i puntini rossi sono illuminati, quell’area apparirà rossa; se anche i puntini verdi vengono illuminati, quell’area apparirà gialla (rosso + verde = giallo, secondo le regole della mescolanza additiva); se infine vengono illuminati pure i puntini blu, quell’area apparirà bianca (rosso + verde + blu = bianco). Il risultato è che, benché il televisore produca soltanto tre colori, corrispondenti alle luci primarie (rosso, verde e blu), le proprietà del vostro sistema nervoso generano la percezione di una moltitudine di colori secondo le leggi della mescolanza additiva. Due colori che producono un colore acromatico quando vengono mescolati assieme sono detti complementari. In un sistema additivo, come quello usato dall’occhio o dagli schermi di 60

Fig. 3.4 Una mescolanza additiva può essere ottenuta anche con pigmenti: l’importante è che essi vengano applicati separatamente in piccole quantità, l’uno vicino all’altro. Questa tecnica pittorica, detta pointillisme o divisionismo, venne usata con risultati suggestivi da un gruppo di artisti di fine Ottocento, in particolare Seurat e Signac in Francia; Segantini, Morbelli e Pellizza da Volpedo in Italia. Quando si guarda al risultato da lontano, i puntolini si fondono percettivamente, proprio come in un televisore a colori; in questo caso, la giustapposizione di rosso e verde può effettivamente essere vista come giallo. La distanza alla quale la fusione avviene dipende non solo dalle dimensioni dei punti, ma anche dal potere di risoluzione del sistema visivo: se avessimo occhi a bassa risoluzione come quelli dell’ape, per riuscire a distinguere i singoli punti in un dipinto divisionista dovremmo starci 60 volte più vicini. A un occhio composto di dimensioni ragionevoli non si può chiedere molto di più. È stato calcolato che il più piccolo occhio composto in grado di ottenere la stessa risoluzione dell’occhio umano avrebbe un diametro di 1 metro: se avessimo evoluto occhi composti, avremmo più o meno l’aspetto illustrato nella figura. Occhi di queste dimensioni sarebbero ridicolmente scomodi anche per una creatura che vive sulla terra; figuriamoci per un insetto volante, per il quale portarsi addosso un peso di 400 chili sarebbe, comprensibilmente, impossibile. Se si è animali dotati di occhi composti, uno stile di vita che richieda di distinguere oggetti piccoli a grandi distanze è senz’altro escluso. (Illustrazione: da K. Kirschfeld, The resolution of lens and compound eyes, in F. Zettler e R. Weiler [a cura di], Neural principles of vision, Berlino, Springer-Verlag, 1976, pp. 354-369.)

televisori e computer, il complementare del rosso è il ciano o turchese (che assorbe la luce rossa, riflettendo in egual misura verde e blu), il complementare del verde è il rosso magenta (che assorbe la luce verde, riflettendo in egual misura rosso e blu), il complementare del blu è il giallo (che assorbe la luce blu, riflettendo in egual misura rosso e verde). Ogni colore, insomma, assieme al suo complementare dà origine a una miscela perfettamente proporzionata dei tre colori primari, che al nostro occhio 61

appare bianca. Allo scopo di uniformare la fabbricazione dei pigmenti, una commissione internazionale ha scelto il ciano, il magenta e il giallo anche come terna di primari; questi tre colori producono mescolanze ottimali, tanto è vero che sono utilizzati da tempo in tutti i sistemi cromatici di stampa, fotografia e cinematografia. 3.3.2 Contrasto simultaneo di colore Vi sono scienziati che, grazie a dosi fuori dall’ordinario di curiosità, intelligenza e applicazione, trasformano in oro ogni argomento che toccano. Il chimico francese Chevreul, che in 102 anni di vita unì a queste qualità anche parecchio tempo a disposizione, occupa un posto d’onore nella storia del sapone, della margarina e delle candele; nello studio della composizione dell’urina e della lana; nella lotta contro i ciarlatani e nell’analisi critica delle affermazioni sul paranormale; e perfino, indirettamente, nella nascita di movimenti artistici quali il neo-impressionismo e alcune forme di cubismo. Nominato direttore del reparto tinture di un’importante fabbrica parigina di tappezzerie, Chevreul, alle prese con il rompicapo della variazione di colori presumibilmente identici da un punto all’altro di un tessuto e con le inevitabili proteste dei committenti, capì che la faccenda andava affrontata considerando non la qualità dei coloranti, ma il modo in cui si vedono i colori. L’opera nella quale riportava le conclusioni dei suoi esperimenti, sui princìpi dell’armonia e del contrasto fra colori e sulla loro applicazione alle arti, rappresentò per generazioni di artisti e scienziati una vera e propria bibbia (anche per le sue dimensioni: oltre settecento pagine)4. I reclami dei committenti di Chevreul erano fondati sull’osservazione, irrefutabile, che il nero dei disegni stampati su stoffe in tinta unita non era sempre uguale: verdastro su sfondo porpora, giallastro su sfondo azzurro. La ragione per cui questo accade è che, percettivamente, ogni colore acquista una componente complementare al colore adiacente. Il risultato è che due colori complementari diventano più saturi, e due colori noncomplementari assumono una tinta leggermente diversa: vicino ad un ciano, ad esempio, il giallo virerà in direzione dell’aran62

cio. Questo fenomeno, detto contrasto di colore o contrasto cromatico, può generare effetti impressionanti: nella Tavola II, per quanto incredibile possa sembrare, il piccolo anello rossastro interno e il grande anello bluastro esterno hanno fisicamente lo stesso colore. Il contrasto di colore consiste in un’esaltazione della differenza fra il colore di due superfici adiacenti, ma non rappresenta l’unico modo in cui colori vicini possono interagire fra loro. In certi casi, due superfici adiacenti si influenzano in modo opposto, col risultato che la differenza fra loro diminuisce invece di aumentare. Questo succede in particolare quando una regione omogenea contiene molte linee sottili e vicine fra loro: il colore di questa regione tende allora a spostarsi nella direzione del colore delle linee, come si può vedere nella Tavola III. Dobbiamo la prima descrizione di questo effetto, noto come assimilazione cromatica, allo spirito d’osservazione di un meteorologo dell’Ottocento, il tedesco von Bezold, e alla sua passione per le decorazioni ad arabeschi. 3.3.3 Adattamento cromatico Illuminate molto bene una superficie rossa e fissatela da vicino per un minuto, con l’occhio sinistro aperto e l’occhio destro chiuso. Quindi guardatevi attorno, aprendo e chiudendo gli occhi alternativamente. Tutte le superfici rosse e arancioni parranno meno sature e meno luminose quando le guardate con l’occhio sinistro rispetto a quando le guardate con l’occhio destro. Questo è un buon esempio di adattamento, ovvero di variazione della sensibilità a un dato stimolo in seguito a una esposizione prolungata a quello stimolo. L’adattamento al colore rosso ha diminuito la vostra sensibilità a quel colore; in seguito a questa diminuzione di sensibilità, il rosso appare ora sbiadito. L’adattamento cromatico è particolarmente evidente quando nell’intero campo visivo è presente per lungo tempo un colore omogeneo. Uno stimolo di questo tipo è detto Ganzfeld, termine che in tedesco significa campo totale o uniforme. Come alcuni esploratori polari hanno riferito, e altri non sono arrivati a riferire, quando il suolo è completamente innevato e il cielo è 63

Fig. 3.5 Un semplice Ganzfeld non è difficile da costruire. Una procedura classica per ottenerlo consiste nel tagliare a metà una pallina da ping-pong e nell’applicare le due metà sopra gli occhi, stando di fronte a una fonte di luce diffusa. Se poi si tengono sulle orecchie delle cuffie da cui esce un fruscìo sempre uguale, la stimolazione minima e indifferenziata di vista e udito dà luogo a una vera e propria deprivazione sensoriale. L’isolamento dalle distrazioni ambientali che si ottiene in questo modo è stato più volte sfruttato in esperimenti volti a controllare l’esistenza di capacità di percezione extrasensoriale. L’individuo in isolamento cerca di «ricevere» le immagini che gli vengono inviate telepaticamente da una persona seduta in un’altra stanza. Sugli alterni risultati degli esperimenti Ganzfeld si è sviluppato un dibattito accesissimo, che ha toccato anche riviste scientifiche prestigiose. La morale, però, è che l’esistenza della telepatia non è stata provata al di là di ogni ragionevole dubbio. (Foto: adattata da parapsykologi.se/artiklar/ganzfeld.html.)

coperto di nuvole bianche l’illuminazione diventa così diffusa che non vengono gettate ombre: sia il suolo che il cielo appaiono svanire, e la sensazione è quella di librarsi nel nulla. In questo caso il Ganzfeld è acromatico già in partenza, ma indipendentemente dal suo colore iniziale qualsiasi Ganzfeld è destinato a diventare acromatico. Se si taglia a metà una pallina da pingpong gialla e si appoggiano le due parti sugli occhi, con il volto orientato verso una fonte luminosa, nel giro di qualche minuto la superficie gialla si trasforma in una nebbia incolore. 3.3.4 Immagini consecutive Vale la pena di tentare l’esperimento con le mezze palline da ping-pong gialle anche per un’altra ragione: quando esse vengono finalmente tolte dagli occhi, il mondo all’inizio appare azzurrino. L’esposizione prolungata a uno stimolo intenso causa adattamento, ovvero una diminuzione selettiva e temporanea della sensibilità visiva a quello stimolo. Durante questo periodo di abbassata sensibilità, in risposta a uno stimolo neutro si tenderà a percepire l’opposto dello stimolo di adattamento. 64

Quando si fissa un colore saturo per un po’, e si sposta poi lo sguardo su un foglio bianco, si vede infatti una debole immagine di un colore diverso (che corrisponde all’incirca al colore complementare a quello fissato). Una superficie gialla dà un’immagiFig. 3.6 Il colore verdolino della Statua della Libertà non è voluto, ma è una conseguenza accidentale del fatto che la statua è fatta di rame, un metallo che diventa verde nel tempo. La statua venne costruita in Francia, smantellata e trasportata a New York via mare, in 214 casse, per cui materiali più consueti come marmo, pietra o bronzo vennero scartati per ragioni di peso. Sculture in stile neoclassico come questa vengono sempre lasciate al naturale, e colorarle sarebbe considerato un affronto all’eleganza e alla tradizione. Pochi sanno che la tradizione era ben diversa. In epoca classica le statue di marmo erano dipinte in tonalità assai gaie (ad esempio pelle rosa, labbra rosse, capelli e barba blu acceso; sclera gialla, iride verde, e il forellino centrale riempito di nero a simulare la pupilla). Anche i templi greci e romani e le piramidi erano vivacemente colorati. All’esterno del Partenone, il marmo era tinto in color avorio; capitelli, fregi, bassorilievi erano rossi, azzurri, oro, gialli, neri. Gli antichi usavano tinte brillanti per esterni, interni e decorazioni e davano grande importanza al valore simbolico di ciascun colore. Oggi, la scienza del colore applicata all’architettura si occupa soprattutto di problemi di visibilità e affaticamento oculare. Ad esempio, l’introduzione di lampade molto luminose nelle sale operatorie, alcuni decenni fa, ha portato con sé l’inconveniente dell’eccessivo riverbero, che è stato risolto mediante l’uso di particolari tonalità di verde e turchese per le pareti, il tavolo operatorio e i camici dei chirurghi. Questo colore non solo riduce la luminosità del campo visivo, ma aumenta il contrasto (favorendo la discriminazione dei dettagli) e attenua il fastidio delle immagini consecutive, essendo complementare al rosso del sangue e dei tessuti che il chirurgo è costretto a fissare. (Foto: Paola Bressan. La Statua della Libertà avrebbe dovuto commemorare il primo centenario della Dichiarazione di Indipendenza, nel 1876, ma per mancanza di fondi venne consegnata con dieci anni di ritardo. I fondi necessari vennero alla fine raccolti per mezzo di collette pubbliche e lotterie.)

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ne consecutiva blu e una blu la dà gialla; una superficie rossa dà un’immagine verde e una verde la dà rossa; una superficie bianca dà un’immagine nera e una nera la dà bianca. Questi termini sono un po’ vaghi: le categorie «rosso» e «verde», ad esempio, comprendono moltissimi colori diversi, ma ogni specifico rosso produce un’immagine consecutiva di uno specifico verde. Ad esempio, un rosso aranciato produce un verde bluastro, mentre un rosso violetto produce un verde più neutro. Il rosso del sangue produce un verde-azzurro simile a quello dei camici dei chirurghi (non a caso, come spiega la didascalia di Figura 3.6). Queste immagini consecutive vengono dette «negative», perché sono del colore complementare a quello osservato. L’esposizione, anche brevissima, a una luce molto intensa genera invece un’immagine dello stesso colore, che viene detta «positiva» – un’esperienza comune quando si viene abbagliati dal flash di una macchina fotografica, o si fissa accidentalmente una lampadina accesa. La storia dell’interesse per le immagini consecutive è zeppa di scienziati che si rovinarono irreparabilmente la vista guardando il sole, tra cui lo stesso Newton e un tale Fechner, professore di fisica all’Università di Lipsia. In quest’ultimo caso, il danno agli occhi determinò una depressione tale da portare al ritiro dalla vita accademica. Quando riemerse dalla crisi Fechner cercò consolazione nella filosofia, e finì col fondare la psicofisica (lo studio delle relazioni fra il mondo fisico e quello psicologico), il che dimostra che non tutto il male viene per nuocere. 3.4 Come vediamo i colori: le basi fisiologiche Sappiamo che l’esperienza psicologica del colore è collegata a una proprietà fisica della luce: la lunghezza d’onda. Il problema fondamentale per il nostro occhio è quindi quello di tradurre lunghezze d’onda diverse in risposte neurali diverse. Se l’occhio rispondesse in modo assolutamente identico a tutte le lunghezze d’onda, nessuna discriminazione fra colori sarebbe possibile, e il mondo apparirebbe in bianco e nero. La moderna ricerca microspettrofotometrica (la cui tecnica di 66

base consiste nel colpire un singolo recettore con una piccola quantità di luce e nel determinare, per ogni lunghezza d’onda, quanta parte di quella luce viene assorbita) ha dimostrato che la

Fig. 3.7 Il primo a esprimere in un linguaggio accettabile la convinzione che non è indispensabile che l’occhio sia dotato di un numero di recettori pari al numero di colori che possono venir distinti fra loro (e a suggerire che ne fossero sufficienti tre) fu il fisico inglese Thomas Young, nel 1801; la sua teoria, detta tricromatica, fu ulteriormente sviluppata dal fisiologo tedesco Hermann von Helmholtz cinquant’anni più tardi. Questa idea non riusciva però a spiegare i fenomeni del contrasto e delle immagini consecutive, che paiono suggerire che per ogni colore esista un colore complementare, e che i colori di ogni coppia siano organizzati in modo antagonistico. Sulla base di queste osservazioni, Ewald Hering propose che sulla retina vi fossero, invece che tre recettori, tre meccanismi bipolari, che rispondono in modo opposto a bianco e nero, rosso e verde, giallo e blu. Dopo decenni di rovente dibattito fra le due fazioni, in cui tutti sembravano aver torto e ragione allo stesso tempo, si arrivò a capire che le teorie erano entrambe valide, ma andavano applicate a due stadi successivi di elaborazione. I tipi di coni sono tre, come voleva la teoria di Young-Helmholtz; ma i segnali in uscita dai coni vengono organizzati in tre canali separati che codificano le differenze fra bianco e nero, rosso e verde, e giallo e blu, come invece sosteneva la teoria di Hering. (Illustrazione: le curve di risposta dei tre tipi di coni alle lunghezza d’onda della luce. Per comodità, questi vengono a volte chiamati coni del blu, del verde e del rosso, anche se i coni del rosso danno la loro risposta massima al giallo-verde.)

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retina umana contiene tre tipi di recettori (coni) sensibili alla lunghezza d’onda. Questi rispondono più o meno vivacemente a un’ampia gamma di lunghezze d’onda, ma danno una risposta massima rispettivamente alle lunghezze d’onda corte (440 nanometri circa, blu-viola), medie (530 nanometri circa, verde) e lunghe (560 nanometri circa, giallo-verde; questi coni sono gli unici che rispondono al rosso). Sulla retina, il rapporto fra coni sensibili a lunghezze d’onda corte, medie e lunghe è rispettivamente di 1:5:10; insomma, i coni sensibili al blu sono in netta minoranza, il che spiega come mai, da lontano, una giacca rossa può continuare a essere ben visibile quando una giacca blu appare nera. Ciascun tipo di recettore è, di per sé, insensibile al colore, in quanto incapace di distinguere fra lunghezze d’onda diverse. Ma le curve di sensibilità dei tre tipi di coni sono parzialmente sovrapposte, per cui una data lunghezza d’onda stimola i tre recettori in grado differente. Al cervello, quindi, arriva una tripletta di segnali, e il rapporto fra i tre segnali specifica un determinato colore. Una luce che provochi una risposta vigorosa nei coni sensibili a lunghezze d’onda corte, una risposta media nei coni sensibili alle lunghezze medie e una risposta minima nei coni sensibili alle lunghezze lunghe, ad esempio, verrà vista come blu. Una luce che provochi una risposta massima in tutti e tre i sistemi di coni apparirà bianca. La buccia del limone, che genera una risposta minima nei coni sensibili alle lunghezze corte e una risposta massima negli altri due sistemi di coni (perché riflette soprattutto onde medie e lunghe, come si vede in Figura 3.3), susciterà la percezione del giallo, e via dicendo. A ogni colore corrisponde quindi una miscela (additiva) dei segnali provenienti da questi tre sistemi. Ai livelli successivi del sistema visivo, i messaggi provenienti dai coni vengono organizzati e rielaborati. I fisiologi hanno individuato l’esistenza, nella retina e nel corpo genicolato laterale, di cellule che aumentano la propria attività in presenza di certe lunghezze d’onda e la diminuiscono in presenza di certe altre. In particolare, sono state individuate cellule che vengono attivate dal rosso e inibite dal verde, o viceversa (sistema rosso-verde); mentre altre vengono attivate dal blu e inibite dal giallo, o viceversa 68

(sistema giallo-blu). La maggior parte delle cellule della corteccia visiva ha proprietà simili, ma un po’ più complicate. Qui una cellula che, poniamo, risponda vigorosamente se in un certo punto è presente un dischetto rosso, aumenta ulteriormente la propria attività se attorno a quel dischetto rosso c’è un anello verde, ma la diminuisce se attorno a quel dischetto rosso c’è un anello rosso. Se immaginiamo che all’attività di questa cellula corrisponda l’apparente vivezza del colore rosso del dischetto, possiamo ora comprendere come mai, quando sta su uno sfondo verde, il rosso appaia tanto più saturo di quando sta su uno sfondo rosso. Incidentalmente, le cellule che rispondono massimamente a dischi rossi su campo verde sono di gran lunga le più comuni nella corteccia visiva della scimmia, e alcuni studiosi hanno suggerito che vi sia una ragione funzionale: nel loro habitat naturale, le scimmie hanno soprattutto bisogno di vedere frutti rossi o arancioni contro uno sfondo di fogliame verde5. Anche i fenomeni dell’adattamento cromatico e delle immagini consecutive si possono spiegare con le proprietà delle cellule antagonistiche. Osservare a lungo una superficie rossa corrisponde ad «affaticare» (cioè a rendere meno sensibili) le cellule che aumentano la propria attività di base al rosso e la diminuiscono al verde. Quando lo sguardo viene spostato su uno stimolo neutro, il livello di attività di queste cellule sarà più basso del normale; e dal momento che la riduzione dell’attività di base segnala normalmente uno stimolo verde, vedremo un’immagine verde. Questo processo ha luogo almeno in parte nella corteccia visiva, come suggerisce, fra le altre cose, il caso descritto recentemente di una paziente con parziale atrofia corticale. La donna si rivolse al medico perché, dopo aver rifatto il letto con lenzuola rosse, aveva notato che le sue mani erano diventate verdi, e tali erano rimaste per un minuto buono. Gli accertamenti clinici mostrarono che il problema consisteva in immagini consecutive abnormi, talmente intense da colorare vivacemente qualsiasi oggetto su cui lo sguardo venisse fissato, e di durata quadrupla rispetto al normale. Riassumendo, la nostra percezione dei colori è il risultato di due operazioni consecutive di tipo diverso. La prima viene svol69

ta al livello dei fotorecettori e consiste nell’attività di tre tipi di coni dotati di sensibilità differenti alle lunghezze d’onda. La seconda ha luogo ai livelli successivi (cellule gangliari, corpo genicolato laterale, corteccia visiva) e consiste in un’organizzazione antagonistica delle risposte alle lunghezze d’onda. Questa complessa architettura permette di distinguere i colori in modo ancor più selettivo ed efficiente che al livello dei coni. 3.5 Anomalie nella visione dei colori L’esperienza del colore non è la stessa per tutti. A parte le piccole variazioni fra individuo e individuo, vi sono persone la cui visione del colore differisce notevolmente dalla norma. Queste persone soffrono di discromatopsia, ovvero non sono in grado di distinguere fra loro certi colori, di solito il rosso e il verde. Il fatto che l’incidenza di tale problema vari con la razza (fra i bianchi la sua diffusione è doppia che fra i neri) e con il sesso (nei maschi è cento volte più frequente che nelle femmine) ha fatto per lungo tempo sospettare che esso avesse una base genetica, ovvero che fosse ereditario. Ricerche recenti hanno mostrato che i geni responsabili sono localizzati sul cromosoma sessuale X. I maschi (XY) presentano un’anomalia se il loro unico cromosoma X (ereditato dalla madre) porta quel carattere; le femmine (XX) sono affette solo se hanno ricevuto un cromosoma X difettoso da ciascuno dei genitori. Nei maschi quindi la discromatopsia salta una generazione: dal maschio al maschio attraverso la femmina. Se una persona soffre di cecità al rosso-verde, deve ringraziare il nonno materno. Nella maggior parte dei casi l’occhio contiene un numero di coni normale, ma si comporta come se soltanto due tipi di coni fossero attivi. Di norma i coni inattivi sono quelli sensibili al rosso (protanopia) o quelli sensibili al verde (deuteranopia); in entrambi i casi il sistema antagonistico rosso-verde non funziona più, e i colori rosso e verde tendono a venir confusi l’uno con l’altro, dato che sono percepiti entrambi come gialli poco saturi. Il mondo appare tutto in sfumature di grigio, giallo e blu. Questo 70

disturbo viene comunemente detto daltonismo, perché il famoso chimico inglese John Dalton ne era affetto e ne lasciò, alla fine del XVIII secolo, un dettagliato resoconto scritto. Dalton raccontò di essere sempre stato dell’idea che i nomi di certi colori non fossero stati «assegnati giudiziosamente». Naturalmente Dalton non poteva conoscere le cause del suo disturbo. Egli era giunto alla

Fig. 3.8 Un numero incredibilmente alto degli abitanti di Pingelap, un’isola del Pacifico, soffre di acromatopsia, ovvero di cecità totale al colore. Altrove l’incidenza dell’acromatopsia è inferiore a uno su trentamila; qui è di uno su dodici. Il gene responsabile di questa rarissima anomalia è recessivo, per cui la probabilità che due portatori si sposino e che la condizione si manifesti nei loro figli è normalmente molto bassa. Il caso ha voluto, tuttavia, che più di duecento anni fa un tifone abbattutosi su Pingelap uccidesse la stragrande maggioranza dei mille abitanti, lasciando una ventina di sopravvissuti fra i quali il sovrano. Quest’ultimo era portatore di una copia singola di un gene mutante: quando questo gene è difettoso, i coni non producono alcun segnale elettrico in risposta alla luce. Alcuni dei discendenti del sovrano si sposarono fra loro, e in capo a qualche generazione nacquero i primi bambini acromatopsici, la cui proporzione crebbe nelle generazioni successive fino ad attestarsi su quella odierna. La storia degli abitanti di Pingelap, che illustra in modo molto chiaro le conseguenze degli incroci fra consanguinei e l’importanza della variabilità genetica all’interno di una popolazione, è raccontata da Oliver Sacks in L’isola dei senza colore, Adelphi, 1997. (Illustrazione: una conversione in scala di grigio mostra come i pannelli colorati di Tavola IV apparirebbero a una persona interamente priva di sensibilità al colore. Siccome sia gli elementi che formano i numeri che gli elementi dello sfondo variano casualmente in chiarezza, i numeri risultano indistinguibili dallo sfondo.)

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conclusione che l’umor vitreo dei suoi occhi fosse del colore sbagliato e che questo gli facesse vedere il mondo attraverso un filtro azzurro; conclusione che un esame post mortem del suo occhio (che è stato conservato a Manchester in un’ampolla) dimostrò affrettata. Mentre la frequenza tanto della protanopia che della deuteranopia si aggira attorno all’1% (per i maschi), l’insensibilità al blu (tritanopia) è estremamente rara, e non è legata al sesso. La visione a colori è influenzata anche da fattori non ereditari. I miopi, ad esempio, sono più sensibili all’estremità rossa dello spettro, e i presbiti a quella blu. Col tempo, inoltre, il cristallino nel nostro occhio ingiallisce e agisce come un filtro giallo, assorbendo le lunghezze d’onda corrispondenti al blu. Nelle persone anziane questo conduce a un ingiallimento apparente dei verdi e a una scorretta percezione dei viola e dei blu. 3.6 La costanza di colore Abbiamo detto che il colore di un oggetto dipende dalla gamma di lunghezze d’onda che quell’oggetto riflette. A sua volta, però, questa dipenderà dalla gamma di lunghezze d’onda che illumina l’oggetto, dato che è evidente che un oggetto non può riflettere qualcosa che non lo colpisce. Un pomodoro maturo, ad esempio, riflette soltanto le lunghezze d’onda lunghe: se lo illuminaste con luce blu, non potrebbe riflettere un bel nulla e apparirebbe nero. Si potrebbe obiettare che la questione non si pone affatto al di fuori delle condizioni artificiali del laboratorio, dato che la luce che illumina gli oggetti contiene tutte le lunghezze d’onda grosso modo nella stessa proporzione. Questo, però, non è sempre vero. La composizione spettrale della luce dipende, fra le altre cose, dallo spessore dell’atmosfera che i raggi devono attraversare, quindi dall’ora del giorno: all’alba e al tramonto contiene lunghezze d’onda lunghe (giallo-rosso) in quantità maggiore che a mezzogiorno. Quanto all’illuminazione artificiale, la maggior parte delle lampadine emette uno spettro che corrisponde solo approssimativamente a quello della luce bianca: la 72

Fig. 3.9 Nel decidere quale tipo di illuminazione installare in un soggiorno, in un ufficio o in un grande magazzino, troppo spesso non si tiene conto delle caratteristiche spettrali. Che aspetto avranno gli oggetti sotto quella luce? E, ancor più importante, che aspetto avranno le persone? Che ne siamo consapevoli o no, il colore apparente della carnagione può avere ripercussioni non solo sul nostro benessere in situazioni sociali, ma anche su come spendiamo i nostri soldi. Se le luci del camerino di prova ci regalano un aspetto cadaverico, è difficile pensare che l’abito che abbiamo addosso ci doni così tanto da valere la spesa. Una assunzione ingenua, condivisa spesso da costruttori, architetti e specialisti di illuminazione, è che la luce artificiale utilizzata per gli ambienti dovrebbe essere il più possibile simile alla luce naturale, cioè alla luce del giorno. Sotto questo genere di lampade, tuttavia, le facce delle persone tendono al giallognolo. Per millenni, come provano ciprie rosate, fard, belletti e rossetti, lo scopo dei cosmetici è stato quello di aumentare la componente rossa del volto umano, accentuando quelle che ci viene spontaneo considerare le intenzioni della natura. A questo si aggiunga che il livello di illuminazione nelle nostre case è considerevolmente meno intenso di quello che troviamo all’aperto, e a bassi livelli di intensità la luce naturale ha uno spettro ben diverso da quello della luce del giorno: l’alba, il tramonto, la luce del fuoco hanno una forte componente arancione. Replichiamo quindi le condizioni naturali quando, per le nostre stanze, alla luce fredda delle lampade al neon (che emettono energia soprattutto nella porzione blu dello spettro) preferiamo la luce calda delle normali lampadine a incandescenza (che emettono energia soprattutto nella porzione giallo-arancio). (Illustrazione: Paola Bressan. Il colore della pelle e i tratti somatici di individui di razza mista tendono ad apparire più attraenti di quelli di individui della propria o di altre razze6. È stato suggerito che questo sia dovuto alla nostra ancestrale attrazione per persone in buona salute, unito al fatto che esiste un’associazione fra buona salute ed eterozigosi – il possedere due forme diverse, anziché identiche, di uno stesso gene –. Il grado di eterozigosi di individui di razza mista tende a essere maggiore, perché genitori di razza diversa sono in media geneticamente più dissimili fra loro di genitori della stessa razza, ed è quindi più probabile che la loro prole erediti forme differenti dello stesso gene. L’aspetto di volti di razza mista viene in effetti percepito come particolarmente sano. Questo volto è una chimera che contiene tratti orientali e tratti africani in proporzione 3:2.)

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luce delle normali lampadine a incandescenza, ad esempio, è spostata verso il rosso, mentre la luce della maggior parte delle lampade al neon è spostata verso il blu. Eppure, in ore diverse e sotto luci diverse, le foglie restano verdi, i pomodori rossi, e le pagine dei libri bianche. Costanza di colore, o costanza cromatica, è il nome che si dà al fenomeno per cui il colore di un oggetto tende a rimanere costante nonostante cambi la composizione spettrale della luce che lo illumina – e cambi, di conseguenza, la composizione spettrale della luce che l’oggetto riflette. Non si tratta di questioni di lana caprina: è stato calcolato che le lunghezze d’onda riflesse da una superficie blu sotto una lampadina a incandescenza possono essere identiche a quelle riflesse da una superficie gialla sotto la luce del sole. Insomma, se il colore delle cose dipendesse davvero unicamente dalla lunghezza d’onda della luce che esse riflettono, il mondo sarebbe un posto ben strano, e il colore cesserebbe di essere un meccanismo di segnalazione utile. Non a caso se ne consideriamo l’importanza biologica, la costanza di colore è un fenomeno robusto, mediato da meccanismi che operano a livelli diversi del sistema visivo e basato sullo sfruttamento inconsapevole di parecchi indizi. Ad esempio, i riflessi speculari sulle superfici lucide (quali la buccia di pomodori e melanzane, il metallo o la plastica) contengono informazioni sul colore della fonte di luce, perché la riflettono quasi perfettamente, come fossero specchi. Naturalmente sappiamo anche qual è il normale colore delle cose, e questo un qualche ruolo ce l’ha. Se si chiede a degli osservatori di modificare il colore di un campo uniforme in modo da renderlo identico al colore di una sagoma di cartoncino rosso, si scopre che le sagome che rappresentano oggetti normalmente rossi, come una mela o un cuore, sembrano più rosse delle sagome che rappresentano oggetti normalmente non rossi, come una campana o un fungo7. Una banana di polistirolo giallo appare più gialla di un cubo dello stesso polistirolo giallo. La nostra percezione del colore degli oggetti dunque può essere effettivamente influenzata da ciò che degli oggetti sappiamo. Tuttavia, la costanza cromatica tenderà a verificarsi puntualmente anche con 74

oggetti non familiari, del cui «vero» colore non possiamo avere la più pallida idea né, tantomeno, il ricordo. Di converso, talvolta la costanza cromatica fallisce (come vedremo più avanti), e in questi casi poco possono l’esperienza precedente e il ragionamento. Anche l’adattamento cromatico è in grado di contribuire alla costanza di colore. Quando accendiamo la luce, ad esempio, il nostro occhio si adatta alle lunghezze d’onda lunghe che predominano nell’illuminazione al tungsteno. Sebbene gli oggetti riflettano adesso una maggiore quantità di lunghezze d’onda gialle e rosse rispetto a prima, per cui i bianchi dovrebbero apparire arancioni, a quelle lunghezze d’onda siamo ora meno sensibili, col risultato che la risposta dei fotorecettori rimane pressoché invariata. (Ad un occhio non adattato, la normale luce a incandescenza appare davvero giallo-arancio: un’esperienza che avrete fatto mille volte osservando, dall’esterno, le finestre delle case illuminate.) D’altro canto, l’adattamento a una nuova illuminazione richiede qualche minuto, mentre la costanza cromatica è completa dopo 25 millesimi di secondo, ovvero praticamente istantanea. Quando accendiamo una lampadina, i pezzi di carta non diventano improvvisamente arancioni per poi sbiancare lentamente. Gli esperimenti concordano nel suggerire che la costanza di colore sia soprattutto un fenomeno relazionale. Le cose che vediamo non sono isolate e sospese nel nulla, ma sono normalmente circondate da altre cose; come minimo, si stagliano contro uno sfondo. Fra lo spettro della luce riflessa da un oggetto, poniamo un limone, e lo spettro della luce riflessa dal suo sfondo, ad esempio il vassoio blu su cui il limone poggia, esiste una certa relazione, che possiamo chiamare rapporto spettrale. Quando l’illuminazione cambia, i singoli spettri riflessi dal limone e dal vassoio cambiano; ma il rapporto spettrale rimane invariato. Per capire perché, dobbiamo pensare che tanto il limone che il vassoio riflettono moltissime lunghezze d’onda, ma in percentuale diversa. Consideriamone una, ad esempio quella di 650 nanometri, che nello spettro corrisponde a un rosso. Il limone riflette circa l’80% della luce di 650 nanometri che lo colpisce, mentre il pigmento blu del vassoio ne riflette circa il 10%. Questo ci dà un rap75

porto di 8:1. Se ora chiudiamo le imposte e accendiamo una normale lampadina a incandescenza, senza cambiare l’intensità globale dell’illuminazione, la quantità di luce di 650 nanometri che va a illuminare la scena raddoppia quasi; per forza di cose il limone riflette adesso molta più luce rossa di prima, per cui dovrebbe sembrare più rosso. Il punto è che anche il vassoio blu ora riflette più luce rossa: il rapporto fra la luce di 650 nanometri riflessa dai due oggetti rimane sempre di 8:1. Lo stesso ragionamento si può ripetere per ogni singola lunghezza d’onda. La conclusione è che al variare dell’illuminazione il contrasto locale, inteso come rapporto spettrale, resta invariato. I dati a nostra disposizione fanno ritenere che la costanza di colore sia in gran parte mediata tanto da questo contrasto locale che dal contrasto globale, ovvero dalle informazioni provenienti dall’intera scena; infatti, ogni superficie della stanza in cui il limone si trova riflette ora una maggiore quantità di luce rossa. Una conseguenza dimostrabile di questa idea è che, se si fa qualcosa per alterare il rapporto spettrale (ad esempio, concentrando un fascio di luce artificiale unicamente sul limone) si assisterà a un fallimento della costanza cromatica, e il limone apparirà più rosso. È bene notare che la costanza di colore, per quanto ammirevole (ammiratela nella Tavola V), è lontana dall’essere perfetta. Sotto certe luci fluorescenti, le facce dei nostri simili sembrano avere una brutta cera. (In quanto indice di malattia, una brutta cera è un segnale di allarme, per cui abbiamo evoluto una sensibilità acutissima al colore della carnagione umana; non a caso, non c’è sistema migliore per aggiustare colore, luminosità e contrasto su un televisore nuovo che quello di basarsi sull’aspetto dei volti.) Un abito che pareva del colore giusto sotto le luci al neon del negozio può riservare sgradite sorprese la prima volta che lo si indossa alla luce del giorno. Oggetti illuminati da una gamma molto ristretta di lunghezze d’onda assumono poi colori altamente innaturali, come accade alle capigliature di certi cantanti rock che passano come se niente fosse dal verde al violetto nel corso di uno stesso concerto. D’altra parte, il meccanismo della costanza di colore si è evoluto ai fini di compensare le variazioni naturali nella composizione spettrale della luce del sole. Non è 76

quindi il caso di meravigliarsi troppo se tale meccanismo fa cilecca quando gli oggetti del nostro mondo sono illuminati da una luce che, da un certo punto di vista, con quella del sole ha poco in comune. 3.7 Gli effetti psicologici del colore I colori influenzano moltissimi aspetti della nostra vita. Per cominciare, sono in grado di alterare nettamente il sapore di cibi e bevande: provate, usando coloranti alimentari, a tingere il latte di rosso o l’aranciata di blu8. Il pane colorato, introdotto negli Stati Uniti qualche tempo fa, rimase sugli scaffali. Proviamo repulsione per cibi del colore sbagliato anche quando sappiamo bene che le loro proprietà nutritive restano invariate, e che nessuno sta tentando di avvelenarci. Ai partecipanti ad un esperimento venne offerto un pasto a base di bistecca, patatine fritte e piselli, colorati in modo abnorme ma serviti in condizioni di illuminazione tali che non fosse possibile rendersene conto. Il cibo riscosse grande successo finché non vennero accese le luci. La constatazione che in realtà la bistecca era azzurra, le patatine verdi e i piselli rossi ebbe effetti così dirompenti che quasi tutti i commensali furono presi da una violenta nausea. L’associazione di certi colori con determinati tipi di cibo inizia nell’infanzia e viene mantenuta per tutta la vita. Questa associazione ha un importante valore di sopravvivenza: la muffa blu o verde sul pane e il virare del colore di carne, frutta e verdura segnalano che il cibo è stato contaminato da microorganismi, ed è quindi bene tenersene alla larga. Sfumature minime possono essere talmente cruciali che perfino il colore dell’alimento simbolo della genuinità, il burro, se necessario viene ritoccato artificialmente (lo si faceva già nel 1300), perché il burro troppo bianco evoca il lardo, e quello troppo giallo appare rancido. Il colore modifica anche la concentrazione alla quale vengono percepiti i sapori di base (dolce, salato, acido e amaro). Supponiamo di aumentare gradualmente la quantità di zucchero in un liquido, fino al momento in cui l’assaggiatore si rende conto 77

che la bevanda è dolce. Se il liquido è, poniamo, giallo anziché incolore, questo momento arriva più tardi, dal che si deduce che il colore giallo non è associato al sapore dolce; la stessa procedura rivela che il colore rosso non è associato al sapore amaro. Le applicazioni pratiche di queste ricerche per l’industria alimentare sono lampanti. Ad esempio è stato dimostrato che più è rossa, più una bevanda alla frutta sembra avere sapore dolce. Ciò significa che i produttori potrebbero ridurre zuccheri e calorie in questo tipo di bevande senza intaccarne la dolcezza percepita, semplicemente intensificandone la tinta. Colorare di rosso i medicinali amari parrebbe un’idea altrettanto buona. Il colore ha effetti diretti su sensazioni, stati d’animo e comportamento anche fuori dalla sala da pranzo. Una valigia nera viene percepita come più pesante di una valigia identica ma bianca, ed è stato dimostrato che portare la prima valigia stanca davvero di più che portare la seconda. Alcune sfumature di giallo-verde provocano un senso di nausea, e per questa ragione non vengono mai utilizzate negli aeroplani. Sono parecchie le prigioni degli Stati Uniti nelle quali viene utilizzato il rosa per le pareti delle celle, allo scopo di tenere tranquilli i detenuti, e un noto allenatore di football americano arrivò a far dipingere gli spogliatoi della squadra avversaria di azzurro, per indurre quiete e placidità, e quelli della propria squadra di rosso, per tenere i suoi giocatori pronti al combattimento. D’altro canto, da una stanza rosso vivo non si vede l’ora di uscire. Non per niente, in una grande fabbrica giapponese di automobili le pareti delle toilette sono state pitturate di rosso, nella speranza di ridurre il tempo che i dipendenti trascorrono lontano dal posto di lavoro. Che il rosso sia un colore speciale è stato provato di recente anche da un lavoro pubblicato dalla prestigiosa rivista scientifica «Nature», che mostra come gli atleti abbiano più probabilità di vincere se indossano una tenuta di colore rosso9. Gli autori, due antropologi britannici, sono arrivati a questa conclusione analizzando i risultati delle competizioni sportive olimpiche nelle quali agli atleti viene assegnata a caso una tenuta rossa o una blu, come accade nel pugilato e nella lotta greco-romana. Quando uno dei due contendenti è molto più bravo dell’altro, il colore delle 78

divise non influenza il risultato; ma più i due sono di pari abilità, più è probabile che quello in rosso abbia la meglio. Lo stesso risultato emerge quando si considerano le divise indossate da una stessa squadra di calcio in partite diverse. Ai campionati europei del 2004, tutte le squadre la cui divisa conteneva prevalentemente rosso hanno totalizzato un numero di reti significativamente maggiore quando indossavano questa divisa, rispetto a quando ne indossavano un’altra. Questo sorprendente risultato non ha nulla di soprannaturale. In moltissimi animali, la presenza di una colorazione rossa (così come la sua intensità) è legata al livello di testosterone e rappresenta un segnale di dominanza. Nella nostra specie, la rabbia è associata a un arrossamento della pelle dovuto a un aumentato flusso sanguigno, mentre la paura genera pallore. Ora, stimoli artificiali hanno, su risposte di tipo innato, gli stessi effetti di stimoli naturali; spesso, effetti addirittura maggiori. Non è irrealistico quindi pensare che esibire del rosso durante interazioni competitive possa segnalare un elevato livello di aggressività e dominanza; e, a parità di altre condizioni, intimorire l’avversario quel tanto che basta a incrementare, per quanto di pochissimo, le proprie possibilità di vittoria. Una maglia rossa, insomma, potrebbe equivalere a una faccia minacciosa per i nostri istinti animali.

Sommario 3.1. Oggetti diversi riflettono lo spettro visibile in modi caratteristici. La capacità di sfruttare questo tipo di informazione (ovvero di vedere i colori) si è sviluppata perché rende più facile individuare gli oggetti e distinguerli fra loro, abilità entrambe rimunerative dal punto di vista evolutivo. 3.2. Il colore non è una proprietà fisica degli oggetti, ma un’esperienza soggettiva. L’esperienza del colore dipende tanto dalle lunghezze d’onda che gli oggetti riflettono quanto dal modo in cui il nostro apparato visivo è congegnato. I colori si differenziano sulla base di tre diverse qualità percettive: tinta, chiarezza e saturazione. Teoricamente, un osservatore normale è capace di distin79

3.3.

3.4.

3.5.

3.6.

3.7.

guere fra loro più di sette milioni di colori diversi. Tuttavia, per designare i colori le lingue europee hanno un vocabolario di 11 termini soltanto: bianco, nero, rosso, arancio, giallo, verde, blu, marrone, rosa, viola e grigio. Alcune lingue, fra cui l’italiano, hanno un termine in più, l’azzurro. Una teoria della visione a colori deve riuscire a rendere conto di alcuni fatti fondamentali, fra i quali le regole della mescolanza fra i colori, l’effetto che sul colore di una superficie hanno i colori delle superfici a essa adiacenti, la natura dell’adattamento cromatico e delle immagini consecutive. La visione cromatica non richiede un numero di recettori pari al numero dei colori che si possono percepire: l’elaborazione di risposte di varia intensità provenienti da tre diversi tipi di recettori è sufficiente a generare la visione di tutti i colori possibili. Il primo stadio della visione dei colori consiste nell’attivazione di tre tipi di coni dotati di sensibilità spettrali differenti. Il secondo stadio consiste nell’organizzazione dei segnali provenienti dai coni in tre sistemi antagonistici, uno acromatico (il canale bianco-nero) e due cromatici (i canali rosso-verde e giallo-blu). L’insensibilità totale o parziale al rosso o al verde è relativamente frequente (nei maschi), mentre sia l’insensibilità al blu che la cecità totale al colore sono molto rare. Entro ampi limiti, il colore degli oggetti tende a rimanere lo stesso al variare del colore della fonte di luce. Questa compensazione, nota come costanza cromatica, è il risultato dell’utilizzazione automatica di molteplici indizi, fra i quali occupa un posto speciale l’invarianza del rapporto spettrale fra gli oggetti della scena. Il colore ha effetti diretti sulla percezione (in particolare su quella del sapore e dell’appetibilità degli alimenti), sull’umore e sul comportamento.

Per saperne di più Il colore. «Le Scienze dossier», n. 9, autunno 2001. Una bella raccolta di saggi scientifici organizzati attorno a tre nuclei tematici: la fisica, la produzione e la percezione del colore. Light, Color, and Environment. Faber Birren, Van Nostrand Reinhold Company, 1982. Una inconsueta e piacevole lettura sugli effetti biolo80

gici e psicologici del colore, con raccomandazioni dettagliate sull’uso del colore nelle nostre case e in uffici, scuole, ospedali, hotel, negozi, mense. Teoria e uso del colore. Luigina De Grandis, Arnoldo Mondadori Editore, 1984. Una trattazione chiara e approfondita dei vari aspetti sotto i quali il colore può essere considerato, scritta da una nota pittrice e insegnante d’arte, e illustrata in modo ricco e originale dai suoi allievi. Luce colore visione. Andrea Frova, Biblioteca Universale Rizzoli, 2000. Un testo ricco di utili informazioni, esposte in un linguaggio chiaro e accessibile da un noto fisico e divulgatore scientifico. Vision and Art: the Biology of Seeing. Margaret S. Livingstone, Harry N. Abrams, 2002. Perché i fiori nei paesaggi di Monet sembrano muoversi con la brezza? Qual è il segreto del sorriso della Gioconda? In questo libro incantevole e splendidamente illustrato, la famosa neurofisiologa Margaret Livingstone mostra come le risposte a queste e a molte altre domande sull’arte debbano essere cercate nel funzionamento del nostro sistema visivo. Does Psi Exist? Replicable evidence for an anomalous process of information transfer. Daryl J. Bem e Charles Honorton, in «Psychological Bulletin», vol. 115, 1994, pp. 4-18; Does Psi Exist? Lack of replication of an anomalous process of information transfer. Julie Milton e Richard Wiseman, in «Psychological Bulletin», vol. 125, 1999, pp. 387-391. Nei primi esperimenti Ganzfeld, il tasso medio di successo era pari a 0,62 anziché 0,50 (come ottenere 62 «teste», invece di 50, lanciando 100 volte una moneta); superiore, quindi, a quello atteso per caso. Questo andamento positivo non si è però mantenuto stabile nel tempo e in laboratori diversi, come mostrano i due articoli contraddittori apparsi, a distanza di qualche anno, sulla prestigiosa rivista scientifica «Psychological Bulletin».

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Come vediamo i grigi Δ La costanza di chiarezza e i suoi (istruttivi) fallimenti Δ Il posto del bianco in un mondo di grigi Δ Come vediamo i grigi: le basi fisiologiche

Nel suo libro Un antropologo su Marte, Oliver Sacks racconta il caso del signor I., un pittore che perse la capacità di vedere i colori in seguito a un incidente d’auto. Guardare un film in bianco e nero non parrebbe troppo diverso dal guardare un film a colori, ma quando il film è il mondo reale apparentemente le cose vanno in tutt’altro modo. Il signor I. sprofondò in un malumore perenne perché vedeva solo sfumature di grigio «orrende e disgustose» laddove avrebbero dovuto esserci colori. Cominciò a evitare ogni tipo di rapporto sociale, perché le persone, lui incluso, gli sembravano «statue grigie animate». A causa del suo aspetto funebre, anche il cibo appariva ripugnante. Il signor I. vedeva il mondo in toni di grigio perché aveva sperimentato in precedenza la visione a colori, e percepiva quindi l’assenza di colori come grigio. Ma coloro che, a causa di un gene difettoso, nascono del tutto insensibili ai colori (e non capiscono che cosa l’idea stessa di «colore» possa significare), trovano il concetto di «grigio» altrettanto incomprensibile. Per questi individui, che sono costretti a portare occhiali scuri per poter tollerare la luce e non sono in grado di leggere se non tenendo il libro incollato agli occhi, il fatto che il mondo sia popolato di oggetti incolori rappresenta sicuramente il problema minore. Vedere a colori non è in effetti sempre indispensabile; di certo, non lo è per voi in questo preciso momento. Ciò che avete davanti sono regioni bianche e regioni nere, pagine e parole. Riuscite a leggere solo perché queste regioni appaiono diverse fra loro, ed esse appaiono diverse solo perché riflettono una diversa quantità di luce: le pagine bianche riflettono molta luce e le parole nere ne riflettono poca. Questa è dopotutto la ragione 82

per cui preferiamo indossare abiti chiari d’estate e scuri d’inverno, in modo da poter rispettivamente respingere e catturare il più possibile il calore del sole. Ogni oggetto assorbe parte della luce che lo colpisce e ne riflette il resto: quanta luce venga assorbita, e quanta riflessa, dipende dalle caratteristiche della sua superficie. Un oggetto molto pigmentato, come un pezzo di liquirizia, assorbe la maggior parte della luce che lo colpisce, e appare nero. Al contrario un oggetto poco pigmentato, come una zolletta di zucchero, riflette quasi tutta la luce incidente, e appare bianco. La percentuale di luce incidente che l’oggetto riflette è detta riflettanza. Grosso modo, oggetti con riflettanze inferiori al 10% ci appaiono neri; oggetti con riflettanze via via crescenti ci appaiono di un grigio progressivamente più chiaro; oggetti con riflettanze superiori all’80% ci appaiono bianchi (vedi il pannello a sinistra in Figura 3.3). La riflettanza apparente di una superficie, cioè il suo colore acromatico così come a noi appare (bianco, grigio, nero), è detta chiarezza. La corrispondenza fra riflettanza e chiarezza (cioè il fatto che riusciamo a «vedere», sotto forma di chiarezza, la riflettanza degli oggetti) è però sorprendente. Tutto quello che i fotorecettori sulla nostra retina possono fare è rispondere alla quantità di luce che cade su di essi, cioè all’intensità della luce che gli oggetti riflettono (la loro luminanza). La luminanza non equivale affatto alla riflettanza, perché la riflettanza è una grandezza relativa (la percentuale di luce riflessa, espressa in percentuale), mentre la luminanza è una grandezza assoluta (la quantità di luce riflessa, espressa in candele al metro quadro, cd/m2). Mentre la riflettanza di un oggetto è una proprietà della sua superficie, ed è quindi indipendente dall’intensità dell’illuminazione, la sua luminanza dipende da quanta luce lo colpisce. Prendiamo ad esempio un foglio di carta bianca che rifletta il 90% della luce che lo colpisce: la riflettanza del foglio (percentuale di luce riflessa) è sempre 90%. Tuttavia, la luminanza del foglio (quantità di luce riflessa) sarà più o meno pari a 10.000 cd/m2 quando lo esponiamo alla luce del sole, a 10 cd/m2 sotto la luce di una lampadina, a 0,01 cd/m2 sotto la luce della luna, a 0,0001 cd/m2 sotto la luce delle stelle. 83

Fig. 4.1 La luminanza della superficie nella foto è maggiore nelle zone più vicine alla fonte luminosa (la lampada in fondo, in alto nella foto), inferiore nelle zone più lontane dalla luce e ancor più bassa nella zona coperta dall’ombra. Tuttavia, la riflettanza di queste aree è sempre la stessa. La riflettanza di un oggetto può essere modificata variando le caratteristiche della sua superficie; il sistema più semplice è quello di dipingerlo di un colore più chiaro o più scuro. Questa operazione, alterando la quantità di luce che l’oggetto assorbe, ne influenza ovviamente anche la temperatura. Ad esempio, la Terra riflette il 29% della luce del sole se viene considerata globalmente, ma le città ne riflettono solo il 10%. Se i tetti di tutti gli edifici del mondo venissero dipinti di bianco, così da riflettere la luce allo stesso modo delle calotte polari, la riflettanza media del nostro pianeta salirebbe dal 29% al 30%. È stato calcolato che questo farebbe calare la temperatura media di un grado, compensando il riscaldamento globale che ha avuto luogo dalla rivoluzione industriale fino a oggi, e annullando l’effetto serra. (Shigeo Fukuda, Lunch with a Helmet on, 1987. Questa scultura è composta di 848 forchette, coltelli e cucchiai, saldati assieme in modo da proiettare l’ombra di una motocicletta. Da A. Seckel, Masters of Deception, New York, Sterling Publishing, 2004.)

Nessun dispositivo (né, tantomeno, i nostri occhi) è in grado di misurare le riflettanze direttamente. Per valutare l’effettiva riflettanza di una zolletta di zucchero, un fisico deve misurare la quantità di luce che la colpisce (ad esempio, la luce proveniente dalla lampada) e la quantità di luce che proviene dalla zolletta per riflessione; la riflettanza della zolletta di zucchero è il rapporto fra queste due misure. I nostri occhi, però, hanno a disposizione solo informazioni sulla luce riflessa dalla zolletta (la sua luminanza), non su quella incidente. Come facciamo allora a giudicare il colore acromatico (riflettanza apparente) della zolletta di zucchero, ovvero a vederla come bianca? 84

4.1 La costanza di chiarezza e i suoi (istruttivi) fallimenti Come una zolletta di zucchero o un foglio di carta bianca, una distesa di neve riflette quasi tutta la luce che la colpisce; ma se questa luce è scarsa, la quantità di luce riflessa dalla neve sarà anch’essa scarsa. Se, alla luce dei lampioni, l’intensità dell’illuminazione è 100 (in unità arbitrarie o in candele al metro quadro) e la riflettanza della neve è del 90%, la luce proveniente dalla neve sarà pari a 90. Consideriamo ora una cornacchia nera, il cui piumaggio rifletta solo il 5% della luce incidente. In una giornata di sole in cui l’intensità dell’illuminazione sia 10.000, la luce riflessa dal piumaggio della cornacchia sarà pari al 5% di 10.000, cioè a 500. La quantità di luce proveniente dalla cornacchia sotto il sole è molto maggiore di quella proveniente dalla neve sotto i lampioni (potrebbe essere perfino migliaia di volte maggiore), tuttavia la cornacchia appare nera e la neve appare bianca. Come è possibile? Costanza di chiarezza è il nome che si dà al fenomeno per cui la chiarezza di un oggetto tende a rimanere costante benché cambi l’intensità della luce che lo illumina – e cambi, di conseguenza, l’intensità della luce che l’oggetto riflette. Come facciamo a vedere la neve sempre di colore bianco, e la cornacchia sempre di colore nero, a dispetto di variazioni impressionanti nella quantità di luce che proviene da neve e cornacchia? Per questo genere di domande non abbiamo risposte definitive, ma solo teorie. Un grosso vantaggio, nella costruzione di queste teorie, è stato che alcuni dei fatti da spiegare erano talmente mirabolanti da sfuggire a una qualsiasi interpretazione intuitiva. Supponiamo per esempio che la cornacchia svolazzi improvvisamente di fronte ai fari accesi della nostra auto mentre attraversiamo, di notte, una zona di campagna. Se non vi sono altri oggetti nel cono di luce, e i fari illuminano soltanto la cornacchia, quest’ultima apparirà bianca. Questo fenomeno è stato dimostrato magistralmente da un esperimento, diventato un classico, condotto nel 1929 da Adhémar Gelb. In questo esperimento, un disco nero era sospeso in una stanza semibuia. Un faro nascosto alla vista dell’osservatore proiettava il suo fascio di luce sul disco, mentre il resto della 85

stanza rimaneva in ombra. In queste condizioni, il disco appariva bianco (o perfino luminoso, se la luce del faro era sufficientemente intensa). Se però un piccolo pezzo di carta bianca veniva posto vicino al disco, all’interno del cono di luce, il disco diventava improvvisamente grigio. Quando il pezzo di carta veniva rimosso, il disco ritornava bianco, mostrando che la consapevolezza delle effettive condizioni di stimolazione non aveva alcun effetto su ciò che veniva visto.

Fig. 4.2 L’immagine a sinistra mostra un esempio di costanza di chiarezza. Per quanto la scena appaia illuminata in modo non omogeneo, i colori acromatici degli oggetti in questa vetrina (il volto del manichino, la giacca, la parete) appaiono uniformi. Eppure, la quantità di luce riflessa da ogni oggetto varia moltissimo nella dimensione orizzontale, come diviene evidente nell’immagine a destra, che è stata ottenuta semplicemente tagliando la figura e invertendo le posizioni delle due metà. L’effetto è particolarmente ovvio in corrispondenza della parete. La costanza di chiarezza è del tutto simile alla costanza di colore che già conosciamo. In entrambi i casi, il colore percepito rimane costante benché vari l’intensità della luce riflessa dall’oggetto: nel caso cromatico l’intensità varia per ogni lunghezza d’onda in modo diverso, mentre nel caso acromatico l’intensità varia per ogni lunghezza d’onda in modo identico. (Foto: Paola Bressan, 2003.)

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La luna nel cielo notturno appare bianca, o luminosa, esattamente per la stessa ragione per cui il disco dell’esperimento di Gelb appare bianco, o luminoso1. Chiunque abbia visto le foto scattate dagli astronauti sulla luna, o campioni di suolo lunare in un museo della scienza, sa perfettamente che la luna non è affatto bianca, ma grigio scuro. L’esperimento di Gelb mostra che perfino un oggetto nero può apparire bianco quando rappresenta la più alta luminanza nel campo visivo. In casi come questo la costanza di chiarezza cessa di funzionare, ma ciò si verifica solo in condizioni molto speciali, quali la presenza di una fonte di luce nascosta (nel caso della luna, il sole) e l’assenza di altri oggetti nel fascio di luce. La conoscenza del «reale» colore dell’oggetto, ovvero del colore che esso avrebbe in condizioni normali, non ha la minima importanza. Le basi della costanza di chiarezza devono quindi risiedere nelle caratteristiche della scena osservata, non in ciò che di essa sappiamo. 4.2 Il posto del bianco in un mondo di grigi Il mondo dei grigi, dunque, è semplice solo in apparenza. La nostra esperienza di bianchi, grigi e neri è necessariamente collegata a una proprietà fisica della luce, la sua intensità; tuttavia questa relazione è, per usare un eufemismo, perlomeno complicata. D’altronde, sarebbe un disastro se il colore acromatico degli oggetti dipendesse davvero unicamente dall’intensità della luce che essi riflettono. I pezzi di liquirizia diventerebbero bianchi quando accendiamo la luce, e le zollette di zucchero diventerebbero nere quando la spegniamo. Oggetti identici apparirebbero enormemente diversi a seconda che si trovino al sole o all’ombra, e ciò sarebbe fonte di continua confusione. Percepire l’intensità luminosa avrebbe ben poco valore, dato che questa non servirebbe a identificare alcunché. Il sistema visivo si è quindi evoluto in modo da «ripulire», il meglio possibile, la luce proveniente da un oggetto dalla componente dovuta all’illuminazione. Un’operazione indispensabile, se consideriamo che la luminanza di un oggetto è il risultato 87

della moltiplicazione di due fattori: il primo è la riflettanza dell’oggetto (che può variare al massimo di un fattore di trenta a uno: nel nostro mondo, tipicamente, il nero più nero ha una riflettanza del 3% e il bianco del 90%), il secondo è la quantità di luce che lo colpisce (che può variare di un fattore di un miliardo a uno!). Un’operazione apparentemente impossibile, perché non c’è modo di scomporre correttamente un prodotto quando nessuno dei fattori è noto. Quello che ci serve davvero, però, è solo la componente dovuta alla riflettanza, perché dell’illuminazione poco ci importa; e non occorre nemmeno che si tratti della vera riflettanza – l’importante è che, al sole e all’ombra, il colore delle cose non cambi. In questo caso (come suggerì Hans Wallach nel 1948) c’è un sistema semplice, anche se indiretto, di compiere il miracolo della scomposizione: basare le proprie stime non sui valori di luminanza, ma sui rapporti fra questi valori. Permettendo di ignorare il livello di illuminazione, questa operazione fornisce, come sottoprodotto, proprio la costanza di chiarezza. Sotto l’illuminazione dei lampioni (100), la luce proveniente dalla cornacchia nera sulla neve è pari a 5, e la luce proveniente dalla neve è pari a 90. Sotto il sole (10.000), la luce proveniente dalla cornacchia è pari a 500, e la luce proveniente dalla neve è pari a 9.000. La neve appare sempre molto più chiara della cornacchia perché il rapporto fra le loro luminanze non cambia: è sempre 18:1. Cambiamenti nel livello di illuminazione modificano i valori di luminanza degli oggetti, ma lasciano inalterati i loro rapporti. 4.2.1 L’ancoraggio alla massima luminanza Questo, però, non spiega ancora come mai vediamo la neve bianca e la cornacchia nera. Il problema è che i rapporti di luminanza sono ambigui. I dati visivi che abbiamo a disposizione quando guardiamo la cornacchia sulla neve indicano soltanto che la neve riflette 18 volte più luce di quanto faccia la cornacchia. Ma vi è un numero infinito di coppie di grigi che stanno in un rapporto di 18:1. Ad esempio, la neve potrebbe apparire grigio chiaro, e la cornacchia nerissima. La neve potrebbe appari88

re luminosa, e la cornacchia grigia. Oppure la neve potrebbe apparire luminosissima, e la cornacchia addirittura bianca. Come fa il sistema visivo a trasformare rapporti di luminanza ambigui in specifici valori di bianco, grigio e nero? Per poter compiere questa operazione, è necessario utilizzare una regola di ancoraggio. Una regola di ancoraggio stabilisce almeno un punto di contatto fra i valori di luminanza da una parte, e i valori della scala dei grigi dall’altra. Wallach non dedicò grande attenzione a questo problema, ma propose che la più alta luminanza nel campo visivo venga «etichettata» come bianca. La neve appare dunque bianca perché rappresenta la massima luminanza nella scena; la cornacchia appare nera perché quel particolare nero si trova con il bianco in un rapporto di 1:18. Quando invece è illuminata dai fari dell’auto, di notte, e nessun altro oggetto è visibile, la cornacchia rappresenta la massima luminanza nella scena – e per questo appare a sua volta bianca. La regola dell’ancoraggio alla massima luminanza è stata confermata da alcuni esperimenti. Nel più curioso fra questi, gli osservatori infilavano la testa in una specie di grande casco, illuminato dall’interno, la cui superficie interna era dipinta per metà di nero (riflettanza 5%) e per metà di grigio medio (riflettanza 25%). Tutti riferivano che la metà grigia appariva bianca e la metà nera appariva grigio medio2. L’effetto scoperto da Gelb è in perfetto accordo con l’idea dell’ancoraggio alla massima luminanza. Il disco nero sembra bianco quando è l’unico oggetto illuminato nella stanza; ma quando un pezzo di carta bianca viene posto vicino al disco, il disco viene visto in relazione a questa nuova massima luminanza, e diventa all’improvviso molto più scuro. L’ancoraggio alla massima luminanza è sufficiente a produrre una rappresentazione della scena che rimane stabile a dispetto di variazioni dell’illuminazione nel tempo, siano esse lente, come quelle che hanno luogo dall’alba al tramonto, o rapide, come quando una nuvola passa davanti al sole. Ma nel nostro mondo tridimensionale, in cui oggetti grandi e piccoli hanno parti più o meno illuminate, e gettano a loro volta delle ombre, l’illuminazione cambia non solo nel tempo ma anche nello spazio. Un cuc89

chiaino grigio sul tavolo di mogano, all’ombra della zuccheriera, riflette pochissima luce e apparirebbe nero se venisse giudicato in rapporto alla massima luminanza della scena, la zuccheriera bianca. D’altro canto, lo stesso cucchiaino apparirebbe bianco se venisse giudicato in rapporto alla massima luminanza locale, cioè all’interno della zona d’ombra, perché in quell’ambito è il cucchiaino stesso a rappresentare la massima luminanza. In entrambi i casi, il cucchiaino cambierebbe colore (da nero a grigio, o da bianco a grigio) non appena lo facciamo uscire dall’ombra spostando la zuccheriera – proprio quello che vogliamo evitare. Ecco allora la brillante soluzione: «calcolare» la chiarezza finale del cucchiaino come una media di due chiarezze, quella giudicata rispetto alla massima luminanza locale (all’interno del sottosistema «ombra») e quella giudicata rispetto alla massima luminanza periferica (all’interno del sottosistema «luce»). Per individuare questi sottosistemi di ombra e luce, non abbiamo bisogno di sapere niente sull’illuminazione. È sufficiente organizzare le regioni della scena in gruppi, applicando automaticamente un insieme di regole semplici: vicinanza (sul piano o nello spazio), somiglianza (in luminanza, grandezza, forma), buona continuazione (allineamento), destino comune (movimento nella stessa direzione) e così via. Questi non sono altro che i princìpi di raggruppamento percettivo che conosceremo in dettaglio nel capitolo 5. In natura, più due regioni condividono queste proprietà (ad esempio, più sono vicine fra loro, più sono allineate, più si muovono assieme), più è probabile che ricevano la stessa quantità di luce e facciano quindi parte dello stesso sottosistema. Una strategia così rozza per individuare i sottosistemi luceombra porta necessariamente con sé qualche piccolo inconveniente. Il principale è che lo stesso meccanismo che ci permette di vedere una cornacchia nera sulla neve bianca sia sotto l’illuminazione dei lampioni che in una giornata di sole, e un cucchiaino grigio sia all’ombra della zuccheriera che alla luce (ovvero, il meccanismo che sottostà alla costanza di chiarezza) darà origine, in altre condizioni, a illusioni percettive. Questo deve accadere, per forza di cose, ogni volta che vediamo lo stesso og90

Fig. 4.3 Un angolo del mio soggiorno. Nell’immagine in alto, il più chiaro dei due dischi sotto la poltrona è in realtà dello stesso grigio del più scuro dei due dischi davanti alla portafinestra. I due dischi sotto la poltrona sono dello stesso grigio dei due dischi incollati allo specchio soprastante. Nell’immagine in basso, ogni parte della scena a eccezione dei dischi è stata solarizzata, ovvero scurita digitalmente. Questo mostra i «veri» grigi dei sei dischi (perfettamente identici a quelli dell’immagine in alto!). Illusioni impressionanti come questa si verificano perché la scena viene suddivisa in modo naturale e automatico in sottosistemi di ombra (la regione sotto la poltrona) e di luce (la regione davanti alla portafinestra e la regione dello specchio). L’illusione che i dischi sotto la poltrona siano molto più chiari di quelli sullo specchio, ad esempio, è un’ovvia conseguenza della costanza di chiarezza. La quantità di luce incidente sotto la poltrona è molto inferiore a quella incidente sullo specchio. Dato che la luminanza di tutti i dischi è la stessa, la riflettanza di quelli meno illuminati deve per forza essere superiore. (La luminanza è pari alla quantità di luce incidente moltiplicata per la riflettanza.) Se i dischi fossero davvero identici (stessa riflettanza) e appartenessero alla scena reale invece che essere stati sovrapposti alla foto, quelli sotto la poltrona avrebbero una luminanza assai inferiore rispetto a quelli sullo specchio. (Foto ed elaborazione digitale: Paola Bressan. Immagine in alto: da P. Bressan, The place of white in a world of grays: a doubleanchoring theory of lightness perception, in «Psychological Review», n. 113, 2006, pp. 526-553.)

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Fig. 4.4 Gli otto rombi grigi sono tutti fisicamente identici, ma appaiono di chiarezze diverse. L’immagine a sinistra mostra un contrasto di chiarezza classico: i rombi su sfondo nero appaiono leggermente più chiari dei rombi su sfondo bianco. L’immagine a destra mostra che una struttura più complessa (la quale, qui, suggerisce che i rombi in alto sono in effetti meno illuminati, o coperti da un velo scuro) potenzia moltissimo l’effetto di contrasto. Affinché questo potenziamento possa avvenire, tuttavia, non abbiamo bisogno di saper nulla sull’illuminazione, né di compiere alcuna inferenza in proposito: è sufficiente che siano presenti certi princìpi di raggruppamento. (Illustrazione: Paola Bressan. La figura a destra è nota come snake illusion, ed è comparsa per la prima volta in E.H. Adelson, Lightness perception and lightness illusions, in M. Gazzaniga [a cura di], The New Cognitive Neurosciences, Cambridge, MA, MIT Press, 2000, pp. 339-351.)

getto su sfondi che hanno luminanza diversa, ma non a causa di una diversa illuminazione. Come abbiamo visto, la cornacchia appare nera perché la neve, in quanto massima luminanza, viene giudicata bianca; e quel particolare nero si trova con il bianco in un rapporto di 1:18. Supponiamo ora che la cornacchia abbandoni la neve e cominci a zampettare sulla strada asfaltata. L’asfalto è molto più scuro della neve, e la cornacchia si trova adesso col proprio sfondo in un rapporto di luminanza di, mettiamo, 1:3. È l’asfalto, ora, a rappresentare la massima luminanza: nella struttura di riferimento locale costituita dalla cornacchia e dall’asfalto che le fa da sfondo, l’asfalto è bianco, e la cornacchia assume il colore acromatico che sta con il bianco in un rapporto di 1:3. Questo colore è, ovviamente, più chiaro di quello di prima, che stava con il bianco in un rapporto di 1:18. 92

Questo significa che il colore acromatico di un oggetto dipenderà necessariamente dalla luminanza del suo sfondo (contrasto di chiarezza): sfondi scuri renderanno l’oggetto più chiaro. Insomma, per poter avere la costanza di chiarezza dobbiamo pagare un costo, che è il contrasto di chiarezza. 4.2.2 L’ancoraggio allo sfondo Se esistesse solo la regola dell’ancoraggio alla massima luminanza, nessuna superficie potrebbe apparire più bianca del bianco. Ma la luna, anche quando si trova alla medesima altezza rispetto all’orizzonte, a volte è soltanto bianco sporco (se il cielo è ancora chiaro, può essere perfino difficile da individuare); altre volte appare bianchissima, oppure fluorescente, o addirittura luminosa. Inoltre, se esistesse solo la regola dell’ancoraggio alla massima luminanza, due superfici identiche, che rappresentano entrambe la massima luminanza, dovrebbero apparire uguali; ma anche questo è falso, come mostra la Figura 4.5. Fig. 4.5 Tutti i rombi (quattro file) sono identici e hanno lo stesso colore bianco della pagina, ma quelli della prima e della terza fila dall’alto appaiono più bianchi di quelli della seconda e della quarta. Una ragione per cui questa illusione è così sorprendente è che non si vedono grosse differenze tra gli sfondi dei rombi. Tuttavia, i rombi che appaiono più bianchi si trovano all’estremità più scura di un gradiente di luminanza, mentre quelli che appaiono meno bianchi si trovano all’estremità più chiara dello stesso gradiente. La nostra consapevolezza dei gradienti (cambiamenti progressivi di luminanza) è molto scarsa: il sistema visivo sembra interpretarli automaticamente come variazioni nell’illuminazione anziché come variazioni nel colore degli oggetti. (Illustrazione: Paola Bressan. Da P. Bressan, The place of white in a world of grays: a double-anchoring theory of lightness perception, in «Psychological Review», n. 113, 2006, pp. 526-553.)

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Io credo che il nostro sistema visivo derivi il colore acromatico di ogni superficie ancorandola, nel sottosistema locale e in quello periferico, due volte: una alla massima luminanza, l’altra alla luminanza dello sfondo. L’idea del doppio ancoraggio spiega non solo come mai il bianco della luna dipenda dalla luminanza del cielo (il suo sfondo), e come mai il bianco dei rombi di Figura 4.5 dipenda dalla luminanza delle regioni adiacenti (il loro sfondo), ma anche moltissime altre illusioni di chiarezza3. Un’ancora unica (massima luminanza o sfondo) sarebbe sufFig. 4.6 Un altro caso in cui gradienti di cui siamo poco consapevoli determinano una potente illusione percettiva. Quella qui raffigurata è una versione tridimensionale e particolarmente efficace dell’illusione di Cornsweet. Quando due regioni identiche vengono separate da un contorno speciale composto da due gradienti di luminanza adiacenti, la regione che confina con il gradiente scuro (la faccia superiore dell’oggetto nella figura) appare uniformemente più scura della regione che confina con il gradiente chiaro (la faccia inferiore dell’oggetto nella figura). Ci si può render conto del fatto che le due facce hanno in realtà lo stesso colore coprendo, con un dito, la zona che le separa. L’uso di un doppio margine chiaro-scuro per aumentare il contrasto di regioni adiacenti è diffuso nel regno animale (falene, serpenti, antilopi) per spezzare, a scopo mimetico, la continuità del corpo. L’illusione di Cornsweet svela come l’organizzazione centro/periferia delle cellule del nostro sistema visivo codifichi normalmente le informazioni. Prendiamo un quadrato grigio su sfondo nero. Invece di codificare separatamente la luminanza di ogni singolo punto dell’immagine, un metodo enormemente più efficiente è quello di definire le due luminanze, definire la posizione del margine del quadrato, e indicare quale luminanza sta dentro e quale fuori. Gli algoritmi di compressione dell’immagine che consentono di ridurre le dimensioni di documenti ingombranti, ad esempio il formato jpeg, fanno esattamente questo. (Illustrazione: da D. Purves, A. Shimpi, R. Beau Lotto, An empirical explanation of the Cornsweet effect, in «The Journal of Neuroscience», n. 19, 1999, pp. 8542-8551.)

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ficiente a risolvere il problema della costanza di chiarezza, e gli sprechi non sono graditi in natura. Come mai allora il nostro sistema visivo dovrebbe aver evoluto due ancore diverse invece di una? Una ragione plausibile è che solo un doppio ancoraggio permette di individuare regioni di luminanza straordinaria, ovvero regioni che emettono luce (come il fuoco) o la riflettono specularmente (come gli specchi d’acqua sotto il sole, o gli occhi dei predatori di notte). A un sistema visivo che etichettasse come Bianco unicamente lo sfondo, tutte le regioni di luminanza superiore a quella dello sfondo apparirebbero luminose. A un sistema visivo che etichettasse come Bianco unicamente la massima luminanza, nessuna regione apparirebbe mai luminosa. Solo una combinazione dei due meccanismi permette di distinguere fonti di luce e riflessi speculari da superfici semplicemente chiare – una capacità che, data l’importanza di localizzare acqua e fuoco da grandi distanze, deve aver rappresentato un formidabile vantaggio nel corso della nostra storia evolutiva. 4.3 Come vediamo i grigi: le basi fisiologiche Oggi sappiamo che la visione consiste non tanto nella trasmissione di un’immagine quanto in un brulichìo di operazioni: a ogni stadio del sistema visivo, i neuroni sono occupati a fare calcoli sui segnali in arrivo, e il risultato finale è un pacchetto di informazioni su quel che c’è là fuori, piuttosto che un’immaginetta da guardare. Questa consapevolezza però ha cominciato a formarsi un po’ alla volta solo a partire dagli anni Cinquanta, quando Stephen Kuffler, registrando l’attività delle cellule gangliari (quelle che ricevono segnali dai fotorecettori) della retina di un gatto, rimase stupefatto nello scoprire che esse rispondevano meglio a macchie luminose piccole che a macchie luminose grandi. Kuffler ne dedusse, correttamente, che ogni cellula era non soltanto attivata dalla luce che cadeva su una certa zona della retina (il centro del suo campo recettivo), ma anche inibita dalla luce che cadeva nella regione immediatamente circostante (la periferia del suo campo recettivo). 95

Fig. 4.7 Le bande di Mach (descritte da Ernst Mach nel 1870) sono state ripetutamente scambiate per fenomeni fisici anziché percettivi. Il modo più semplice per ottenerle consiste nell’illuminare un pezzo di cartoncino in modo tale che proietti un’ombra su un foglio di carta bianca, come nella figura. Osservando attentamente la penombra, ovvero la zona di transizione tra la parte illuminata del foglio e l’ombra vera e propria, si noteranno una sottile banda particolarmente scura tra l’ombra e la penombra, e una sottile banda particolarmente chiara tra la penombra e l’area illuminata. La spiegazione classica è che le cellule il cui campo recettivo cade nella zona chiara, lontano dall’ombra, vengono inibite solo dalle loro vicine intensamente illuminate. Le cellule il cui campo recettivo è situato in prossimità della penombra, invece, vengono inibite da cellule intensamente illuminate su di un lato (illuminato), e da cellule scarsamente illuminate sull’altro lato (in penombra). La risposta delle cellule situate vicino alla penombra sarà quindi superiore a quella delle cellule nell’area illuminata, determinando la percezione di una sottile banda chiara. Il processo simmetrico ha luogo nella zona dell’ombra. Le cellule in quell’area vengono inibite solo dalle loro vicine, illuminate pochissimo. Le cellule prossime alla penombra, invece, vengono inibite da cellule pochissimo illuminate su di un lato (in ombra), e da cellule un po’ più illuminate sull’altro lato (in penombra). Nella zona d’ombra, la risposta delle cellule vicine alla penombra sarà quindi inferiore a quella delle cellule lontane dalla penombra, causando l’apparire di una sottile banda scura. (Illustrazione: adattata da E.B. Goldstein, Sensation and Perception, Belmont, CA, Wadsworth, 1989.)

Questa organizzazione centro-periferia ha svariate proprietà interessanti. Innanzitutto, rende le cellule sensibili alle variazioni d’intensità della luce che colpisce la retina, invece che ai valori assoluti di queste intensità (permettendoci così di ignorare il livello globale dell’illuminazione, biologicamente non interessante). In secondo luogo, fa in modo che le cellule rispondano meglio a variazioni brusche, anziché graduali, nell’intensità luminosa (permettendoci così di ignorare i gradienti di illuminazione, biologicamente non interessanti). Terzo, in questo modo le informazioni vengono compresse in modo alquanto efficien96

te, perché ciò che viene codificato non è l’intera immagine, ma solo le discontinuità – ovvero quello che, all’interno dell’immagine, cambia. I vantaggi di questa architettura sono senz’altro superiori al minuscolo prezzo che dobbiamo pagare – illusioni visive come le bande di Mach (Figura 4.7) o la griglia di Hermann, nella sua versione tradizionale e in quella scintillante (Figure 4.8 e 4.9). È altrettanto certo che, benché giochino un ruolo importantissimo, i processi di inibizione laterale non spiegano completamente la nostra percezione della chiarezza. In Figura 4.4, ad

Fig. 4.8 La griglia di Hermann venne descritta nel XIX secolo dal fisiologo tedesco Ludimar Hermann. All’intersezione delle bande bianche orizzontali e verticali aleggiano deboli macchie scure: quando si cerca di guardare una macchia direttamente, tuttavia, questa scompare. Le macchie sono una conseguenza dei processi di inibizione laterale. Le cellule il cui campo recettivo è situato sulle bande bianche, lontano dalle intersezioni, vengono inibite da cellule intensamente illuminate da due lati (regioni bianche), ma ricevono pochissima inibizione dagli altri due lati (regioni nere). Le cellule il cui campo recettivo è situato in prossimità delle intersezioni, al contrario, vengono inibite da cellule intensamente illuminate da quattro lati (regioni bianche). La risposta delle cellule collocate sulle intersezioni sarà pertanto inferiore a quella delle cellule collocate nelle altre zone delle bande bianche: ecco l’origine delle macchie scure. (Illustrazione: adattata da M.S. Livingstone, The Biology of Seeing, New York, Harry N. Abrams, 2002. In basso a destra sono rappresentati i campi recettivi di due delle cellule appena descritte.)

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Fig. 4.9 Questa versione «scintillante» della griglia di Hermann è stata scoperta recentemente da Elke Lingelbach. Le macchioline nere alle intersezioni lampeggiano. Ciò è dovuto probabilmente a una piccola sfasatura temporale fra le risposte del centro (attivazione) e della periferia (inibizione). Le risposte eccitatorie sono più rapide di quelle inibitorie. Di conseguenza, ogni volta che il nostro occhio si sposta sull’immagine, le cellule che segnalano «bianco» in corrispondenza delle intersezioni generano una risposta vigorosa, che viene ridotta bruscamente non appena arriva l’inibizione dalle cellule vicine. Questa riduzione della risposta viene percepita come un improvviso oscuramento del disco bianco, creando una sensazione di sfarfallìo mentre muoviamo gli occhi. (Illustrazione: adattata da M. Livingstone, The Biology of Seeing, New York, Harry N. Abrams, 2002.)

esempio, i rombi grigi in alto nell’immagine a sinistra ricevono, dal proprio sfondo nero, meno inibizione dei corrispondenti rombi su sfondo grigio nell’immagine a destra, eppure appaiono leggermente più scuri, e non più chiari. In effetti, studi recenti hanno mostrato che le risposte dei neuroni della retina e del corpo genicolato laterale dipendono sì dall’intensità luminosa, ma non sono in relazione diretta con la chiarezza percepita. Questi neuroni hanno primariamente il compito di codificare informazioni sulla posizione dei contorni nella scena visiva. Al contrario, l’attività delle cellule della corteccia visiva primaria rispecchia fedelmente la chiarezza percepita, ed è relativamente indifferente a cambiamenti nel livello globale dell’illuminazione – una proprietà senza la quale la chia98

rezza servirebbe a ben poco. Questo suggerisce che le informazioni necessarie a valutare la chiarezza degli oggetti vengano elaborate progressivamente in molteplici aree visive, per essere poi rappresentate esplicitamente per la prima volta solo nella corteccia. Ciò è in perfetto accordo con l’idea che la chiarezza delle superfici venga influenzata in modo radicale dalla nostra in-

Fig. 4.10 Se puntaste un fotometro in direzione delle varie zone di questa immagine (il fotometro è uno strumento che misura l’intensità della luce e la converte in valori numerici), il dispositivo segnerebbe valori molto elevati in corrispondenza delle aree bianche, valori bassi in corrispondenza delle aree nere e valori intermedi in corrispondenza delle aree grigie. I nostri fotorecettori funzionano un po’ come fotometri, nel senso che il livello della loro attività è una funzione dell’intensità della luce. Tuttavia, la nostra percezione dei grigi non corrisponde affatto al livello di attività dei nostri fotorecettori. In questa figura vediamo un oggetto coperto da tre strisce bianche intervallate da due strisce grigie. Che ci si creda o no, la luminanza (o tono di grigio «reale») delle due strisce grigie sulla faccia superiore di questo oggetto è identica a quella delle tre strisce bianche sulla faccia frontale. I fotorecettori sulla nostra retina generano risposte uguali a queste regioni, proprio come farebbe un fotometro, ma i neuroni nella nostra corteccia visiva rispondono alle aree che a noi appaiono bianche più vigorosamente che alle aree che a noi appaiono grigie. Questo suggerisce che, fra la retina e la corteccia, la chiarezza delle strisce venga «aggiustata» sulla scorta di informazioni che riguardano la struttura tridimensionale dell’oggetto e la distribuzione dell’illuminazione sulla sua superficie. Il modello del doppio ancoraggio propone che un risultato in apparenza così «intelligente» sia frutto di operazioni molto semplici, quali il raggruppamento percettivo e l’ancoraggio di ogni regione al «bianco» di ciascun gruppo. (Illustrazione: R. Beau Lotto.)

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terpretazione della scena e, in particolare, dalle informazioni sulla struttura tridimensionale degli oggetti e sulla loro presunta illuminazione.

Sommario 4.1. La quantità di luce proveniente da un oggetto (la sua luminanza) è pari al prodotto di due fattori: la percentuale di luce che l’oggetto riflette (la sua riflettanza) e l’intensità della luce che lo colpisce effettivamente (la sua illuminazione). La prima proprietà ci interessa, perché è invariante e tipica di quell’oggetto (corrisponde alla sua chiarezza o colore acromatico) e ci aiuta pertanto a identificarlo; la seconda proprietà è solo di disturbo. Sorprendentemente, benché l’illuminazione cambi di continuo, e cambi di conseguenza anche la luminanza, gli oggetti tendono a mantenere una chiarezza costante: la neve appare sempre bianca e le cornacchie sempre nere. La costanza di chiarezza smette di funzionare solo in condizioni di illuminazione altamente innaturali; ad esempio, quando un faro è orientato in modo che un oggetto e il suo sfondo ricevano quantità di luce molto diverse. 4.2. Sembra che, per risolvere il problema della covariazione fra illuminazione e luminanza, il nostro sistema visivo basi le proprie stime non sui valori assoluti di luminanza, ma sui rapporti fra questi valori. Molti ritengono che il sistema visivo usi anche procedure di ancoraggio, in modo da stabilire una relazione fra la scala dei valori di luminanza e la scala dei valori di grigio. 4.3. Dal punto di vista fisiologico, alcune di queste operazioni sono con tutta probabilità mediate da un’organizzazione del tipo «centro eccitatorio - periferia inibitoria» delle cellule che si trovano ai vari livelli del sistema visivo, dalla retina alla corteccia. Prima di dar luogo alla rappresentazione finale della chiarezza degli oggetti, le informazioni sull’intensità della luce vengono integrate con le informazioni sulla struttura della scena e sulla presunta distribuzione dell’illuminazione. Per questa ragione, la chiarezza di ogni regione nel nostro mondo visivo dipende fortemente dal suo contesto, come le illusioni di chiarezza mostrano in modo tanto convincente. 100

Per saperne di più Why we see what we do. Dale Purves, R. Beau Lotto e Surajit Nundy, in «American Scientist», maggio-giugno 2002. Un’esposizione divulgativa dell’idea che la chiarezza assegnata agli oggetti dipenda unicamente dall’esperienza passata (dell’individuo e della specie). La teoria è molto controversa e quasi nessun altro la condivide, ma le nuove illusioni visive proposte dagli autori sono splendide. Seeing black and white. Alan Gilchrist, Oxford University Press, 2006. Usando un linguaggio chiaro e accessibile a tutti, uno degli studiosi più noti nel campo della percezione del colore acromatico presenta in questo volume la propria teoria, assieme a una rassegna storica dei lavori sull’argomento. The place of white in a world of grays: a double-anchoring theory of lightness perception. Paola Bressan, in «Psychological Review», n. 113, 2006, pp. 526-553. Una teoria di come vediamo i grigi e perché, accompagnata da una formula matematica (applicata a 23 diverse illusioni di chiarezza) che permette di predire il colore acromatico di una regione sulla base della sua luminanza e delle altre luminanze nella scena visiva.

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Come vediamo gli oggetti Δ Il raggruppamento percettivo Δ Figura e sfondo Δ Gli oggetti che vediamo sono costruzioni del nostro cervello Δ La costanza di forma Δ Oggetti molto speciali: le facce

Quando qualcuno vi guarda, questo significa che vi vede? Meglio non esserne così sicuri, soprattutto se ci si appresta ad attraversare la strada lontano dalle zebre di attraversamento pedonale. Chi si trova al volante dell’auto che vi ha investito potrebbe poi dichiarare, in perfetta buona fede, di non avervi visto. Anche se non ha di solito conseguenze drammatiche, questa forma di cecità si verifica di continuo e mostra che, per vedere un oggetto, non è sufficiente guardare nella sua direzione. Abbiamo avuto tutti l’esperienza imbarazzante di non accorgerci di un amico che si sbracciava per attrarre la nostra attenzione in un cinema affollato, nonostante guardassimo proprio da quella parte, o di non notare che una persona che conosciamo bene si è tagliata i capelli o la barba. Svariati esperimenti indicano che la comparsa di oggetti inattesi anche molto salienti può passare del tutto inosservata quando non stiamo attenti, e sollevano domande allarmanti. Noi abbiamo l’impressione di rappresentare costantemente il mondo visibile in ogni suo dettaglio, ma le cose stanno realmente così? Che cosa fa sì che alcuni oggetti varchino la soglia della nostra consapevolezza e altri no? Che traccia lasciano, e che effetti hanno, gli oggetti che non vengono visti? Rispondere a queste domande è importante per capire sia che cosa il cervello faccia delle informazioni visive, sia perché accadano eventi di cui è difficile raccapezzarsi. La storia dei disastri dovuti a errore umano è costellata di auto che investono ciclisti, treni che sfondano automobili, sottomarini che emergono sotto navi, aerei che atterrano su altri aerei. In tutti questi casi, l’oggetto che ostruiva il percorso (un ciclista, un’automobile, una nave, un aereo!) stava lì, in piena evidenza, ma la persona responsabile del disastro non l’aveva «visto». 102

Questa sorta di cecità è dovuta in larga misura al fatto che la nostra attenzione ha una portata limitata, e che aggiungere da una parte equivale a sottrarre dall’altra. Quando l’attenzione è deviata verso un altro oggetto o compito, è possibile non riuscire a vedere un oggetto inaspettato, anche se esso compare proprio dove stiamo guardando. L’uso del telefono cellulare durante la guida, per esempio, sposta una quota ragguardevole dell’attenzione del conducente dalla scena visiva alla conversazione telefonica. I tempi di reazione di un guidatore sobrio che parla al telefono cellulare sono superiori a quelli di un guidatore alticcio, anche se si usano gli auricolari o la funzione vivavoce. Probabilmente nessuno ve l’ha detto all’esame per la patente, ma se viaggiando a 110 chilometri all’ora siete costretti a frenare all’improvviso, nel caso foste impegnati in una conversazione telefonica (che vi lascia le

Fig. 5.1 Se mentre seguite attentamente una partita di pallacanestro un gorilla attraversasse il campo e si fermasse proprio in mezzo a percuotersi il petto, lo notereste di sicuro, non è vero? Beh, non scommetteteci dei soldi. I partecipanti a un esperimento recente che è già un classico vedevano un breve filmato in cui due squadre di ragazzi si passano la palla, e avevano il compito di contare il numero di passaggi della squadra bianca. Nel filmato, una persona in costume da gorilla entra all’improvviso da un lato e passa lentamente fra i giocatori, fermandosi qualche istante al centro della scena e uscendo poi dal lato opposto. In queste condizioni, la metà degli osservatori non vede il gorilla, nonostante in alcuni fotogrammi la palla ci si trovi addirittura davanti. E se pensate che l’oggetto inatteso non venga notato semplicemente per il fatto che gli occhi sono incollati alla palla, avete torto. Una ricerca condotta all’Università di Padova mostra che, durante la visione di un filmato simile, è sufficiente prestare attenzione ad un brano letto a voce alta per lasciarsi sfuggire il passaggio di un oggetto nuovo e inatteso – nonostante non vi sia una palla da seguire e la scena possa essere esplorata in tutta libertà1. (Foto: adattata da D. J. Simons, C. F. Chabris, Gorillas in our midst: sustained inattentional blindness for dynamic events, in «Perception», n. 28, 1999, pp. 1059-1074. L’immagine originale è stata gentilmente fornita da Daniel Simons. Il filmato originale può essere guardato sul sito viscog.beckman.uiuc.edu/djs_lab/demos.html.)

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Fig. 5.2 La foto mostra una fase della Robocup, il campionato mondiale di calcio fra robot. Il portiere sulla destra si avventa sulla palla, anticipando l’intervento dell’attaccante. Il campo da gioco è verde, la palla arancione, e le due squadre indossano vistose divise rosse e blu. Eppure, anche in un ambiente estremamente stilizzato e semplificato, con oggetti (la palla, le porte, le righe del campo) fortemente differenziati rispetto allo sfondo, il compito di riconoscimento delle forme e di esecuzione e coordinamento delle azioni da parte dei computer di controllo dei robot è molto complesso. Di conseguenza il ritmo di gioco è men che brillante, e, per quanto si colgano chiari segni di intenzionalità da parte dei giocatori, questi ultimi appaiono spesso lenti e maldestri.

mani libere) la vostra automobile percorrerà quasi 10 metri in più del dovuto prima di fermarsi. Affinché possiamo vedere gli oggetti, quindi, non è sufficiente che essi si parino davanti ai nostri occhi: dobbiamo anche prestarvi attenzione. E nel momento in cui gli oggetti li vediamo distintamente, i problemi non sono finiti ma appena cominciati. Considerate ad esempio il ginepraio in cui si sono cacciati gli studiosi di intelligenza artificiale per insegnare a un computer a individuare gli oggetti presenti in una scena. Non è difficile fare in modo che un computer possa identificare in un’immagine caratteristiche semplici, come linee e superfici omogenee: ma il decidere quali elementi appartengono a un oggetto e quali a un altro è tutt’altra faccenda. Un secondo problema è quello di determinare la forma di oggetti parzialmente nascosti – e di capire quali oggetti sono parzialmente nascosti. Un terzo problema è quello di riconoscere un oggetto come lo stesso a dispetto di quelle variazioni della sua forma e grandezza che sono determinate da cambiamenti di orientazione e di posizione. Queste sono soltanto alcune delle difficoltà con cui un sistema capace di percepire gli oggetti deve scendere a patti. Vede104

re il mondo quindi è un’attività complicatissima, ma resta il fatto che per vedere basta guardare (con un po’ di attenzione). Come fa il nostro cervello a risolvere con tanta facilità un problema formidabile come quello di organizzare correttamente gli elementi presenti in una scena? 5.1 Il raggruppamento percettivo [vicinanza] [somiglianza] [buona continuazione] [chiusura] [destino comune] [esperienza passata] [buona forma]

Le regole in base alle quali gli elementi presenti nel campo visivo tendono a organizzarsi in unità vennero descritte da Max Wertheimer (una delle stelle più brillanti nel firmamento della psicologia) all’inizio degli anni Venti. Wertheimer affrontò il problema dell’organizzazione figurale costruendo griglie di punti allineati, e modificando le reciproche posizioni dei punti per capire sotto quali condizioni comparissero dei gruppi. La questione del raggruppamento dei punti può apparire un po’ arida, ma le regole che Wertheimer formulò in seguito a questi esperimenti son tutt’altro che aride: al contrario, hanno a che fare con il corteggiamento, con la ricerca di qualcosa da mangiare, con l’aggressione e la fuga – insomma con la vita e la lotta per la sopravvivenza. La neutralità è rara in natura, e dietro sembianze e comportamenti apparentemente innocui è di norma celato un secondo fine. Un animale può aver bisogno di attirare l’attenzione di una femmina di bell’aspetto; di rendere evidente la propria presenza ai fini di difendere il territorio; oppure, se ha un sapore disgustoso, di sbandierarlo in giro. Per raggiungere questi scopi esso adotterà forme, colorazioni e posture in grado di risaltare contro lo sfondo. D’altro canto, lo stesso animale può desiderare di rendersi invisibile alla preda o ai predatori. In tal caso adotterà forme, colorazioni e posture in grado di confonderlo con lo sfondo, di mascherarlo percettivamente. Cerchiamo di capire ora, un principio per volta, come gli esseri viventi sfruttano i princìpi del raggruppamento percettivo per raggiungere i due obiettivi primari: quello di farsi vedere e quello di non farsi vedere. 105

5.1.1 Vicinanza Cose vicine fra loro vengono raggruppate assieme. In natura, questo principio è messo a profitto da animali che si aggregano in forme di mimesi collettiva per rendersi, a seconda dei casi, più o meno visibili, o addirittura per distorcere la propria identità. Nel film di Hitchcock Marnie, Sean Connery descrive a Marnie, interpretata da Tippi Hedren, uno splendido fiore esotico in cui si è imbattuto in Kenya. Se lo si tocca, il fiore rivela di essere in realtà non un fiore ma un gruppo di minuscoli insetti, così assembrati per rendersi invisibili agli occhi degli uccelli. Gli spettatori maggiormente inclini all’analisi psicologica colgono qui un’allusione alla duplicità di Marnie, che trascorre la propria esistenza sotto mentite spoglie nel tentativo di rimuovere un passato traumatico; ma cogliervi un’allusione alla forza dei princìpi di Wertheimer (e ai miracoli del caso e della selezione naturale) sarebbe non meno legittimo. Alcune specie di cicale africane del genere Ityraea, ad esempio, si riuniscono su steli verticali in modo da imitare alla perfezione un’infiorescenza di lupino. Gli individui di queste specie possono essere sia verdi che gialli: quelli verdi si dispongono sulla parte alta degli steli e quelli gialli più sotto, simulando in modo impeccabile i fiori, che si schiudono progressivamente partendo dal basso. Gli insetti che si avvicinano, attratti dall’infiorescenza, incontrano un destino gramo. 5.1.2 Somiglianza Cose che appaiono simili vengono raggruppate assieme. La somiglianza può riguardare forma, chiarezza, colore, grandezza, orientazione. Gli ippopotami sono grigio fango, i bruchi verde foglia, gli orsi polari bianco ghiaccio: assumere un colore simile al colore dell’ambiente circostante (raggruppamento per somiglianza di colore) rappresenta, nel regno animale, una soluzione estremamente popolare per ridurre la propria visibilità. L’animale tende a formare un’unità con il suo sfondo, risultando così perfettamente mascherato. Molti pesci usano varianti più raffinate dello stesso principio presentando colorazioni diverse sopra e sotto: 106

essi sono azzurri sul dorso, come l’acqua del mare vista dall’alto, e argentei sul ventre, come l’acqua del mare vista dal basso. Un unico schema cromatico, naturalmente, condanna a rimanere eternamente nello stesso posto. Svariate specie hanno risolto il problema sviluppando la capacità di cambiare colore. Il camaleonte africano può riprodurre una mezza dozzina almeno dei diversi colori della foresta in cui vive. Alcuni pesci piatti modificano separatamente il colore delle proprie cellule superficiali in modo da simulare l’aspetto dello sfondo sopra il quale nuotano – arrivando, in laboratorio, a prodursi in meno di 8 secondi nella passabile imitazione di una scacchiera2. Una forma sofisticata di sfruttamento del principio di raggruppamento per somiglianza, utile soprattutto ad animali che stazionano contro sfondi non uniformi, consiste nel rompere la coesione percettiva della superficie del corpo alternando aree di colori diversi. Se poi alcune di queste macchie sono simili, per Fig. 5.3 Il mimetismo non è solo un’arma di difesa: molti insetti predatori, come la mantide religiosa, si mimetizzano con la vegetazione per celarsi alla vista delle potenziali prede. Gli insetti stecco imitano in maniera impeccabile forma e colore dei ramoscelli su cui trascorrono l’esistenza. Essi abbandonano temporaneamente il proprio posto, per andare a mangiare, solo col favore delle tenebre. Altri animali si mimetizzano con lo sfondo grazie ad adattamenti non morfologici, ma comportamentali. Svariati insetti si appiccicano letteralmente lo sfondo addosso, impiastricciandosi di fango, facendosi crescere sul dorso microscopici giardini di alghe, licheni e muschio, o ricoprendosi delle spoglie delle proprie prede. Una varietà di bruco del Borneo infilza fiori in boccio nelle lunghe spine del suo corpo, così da sembrare un’infiorescenza; i boccioli vengono sostituiti man mano che appassiscono. La perfezione di alcune forme di mimetismo può suscitare incredulità, ma i genetisti hanno calcolato che perfino una somiglianza casuale talmente piccola da salvare l’animale dal predatore in un solo incontro su diecimila tenderà a essere conservata nella generazione successiva. (Foto: una mantide religiosa. Da www.flickr.com/photos/schizoform/42811238/.)

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forma o colore o grandezza, a elementi dell’ambiente (come sassi, foglie, scaglie di corteccia), il mascheramento è ancora migliore: al fatto che le pezzature sul corpo dell’animale non formino unità fra loro si aggiunge la tendenza di queste aree a venire raggruppate assieme agli elementi simili dello sfondo. Le divise mimetiche adottate a scopi militari si basano sullo stesso principio. In tutti questi casi, se il mascheramento è efficace, il raggruppamento per somiglianza (fra regioni del corpo e regioni dell’ambiente) ha la meglio sul raggruppamento per vicinanza (fra regioni adiacenti del corpo). Se la regola per nascondersi è quella di assomigliare al proprio sfondo, la regola per mettersi in mostra è quella di differenziarsene, adottando forma, chiarezza, colore, grandezza o orientazione il più possibile diversi da quelli degli elementi circostanti. Le specie che, una volta assaggiate, si rivelano disgustose o tossiche hanno per esempio tutto l’interesse a farsi riconoscere in incontri successivi. Queste creature hanno evoluto abitudini diurne, colori sgargianti ben diversi da quelli dello sfondo (pensate alle bande rosse, gialle e nere del serpente corallo), e talvolta pure dimensioni più grandi del normale, come nel caso di molte farfalle velenose. Anche parti del corpo che funzionano da segnali di avvertimento, corteggiamento o richiamo sessuale tendono a venir messe il più possibile in evidenza, spesso mediante margini in colore contrastante o vividi contorni neri, come testimoniano le ali di alcuni uccelli e farfalle e le pinne di numerosi pesci. Nelle femmine della nostra specie, tanto il rossetto per le labbra, che ha come minimo cinquemila anni, quanto ombretto e matita per gli occhi sono ben altro che accidenti culturali. 5.1.3 Buona continuazione Elementi allineati, ovvero che possono essere visti come continuazione l’uno dell’altro, vengono raggruppati assieme. Ogni volta che afferrate una matita o una forchetta, nascondendone la parte intermedia con le dita, è questo principio che impedisce loro di andare percettivamente in pezzi. Il raggruppamento per buona continuazione è un principio 108

di sorprendente efficacia (in un certo senso, infatti, rappresenta un potenziamento del principio di somiglianza) e non a caso viene messo a profitto da creature grandi e piccole, solitarie e sociali, in tutto il regno animale. Lo ritroviamo anche in animali che, per mimetizzarsi, scelgono di alterare l’aspetto del proprio sfondo anziché il proprio. I ragni di svariate specie, egualmente motivati dalle proprie inclinazioni di costruttori e dal proprio sapore appetitoso per moltissimi predatori, ricorrono a stratagemmi di questo tipo. Gli individui del genere Uloborus confezionano una striscia lanuginosa, di diametro pari a quello del proprio corpo, che si estende da un’estremità all’altra della tela con un’interruzione centrale. L’animale si posiziona quindi al centro, con le due coppie di zampe anteriori allungate in avanti e le due coppie di zampe posteriori allungate all’indietro. Le estremità delle zampe toccano le estremità della striscia, e il ragno entra percettivamente a far parte della striscia (che ha anche il suo stesso colore), diventando in pratica invisibile. I mantelli variegati di zebre, tigri e leopardi sfruttano il principio di raggruppamento per buona continuazione in due modi diversi. Primo, essi rendono difficile l’individuazione dei veri contorni dell’animale e l’unificazione delle parti del suo corpo in un oggetto unico. (Questa è anche la ragione per cui alcune specie di zanzare hanno corpi e zampe a strisce bianche e nere.) Secondo, essi creano una continuità fasulla fra elementi del corpo ed elementi dello sfondo, come erbe e macchie di luce. Ad esempio, le strisce ondulate della zebra tendono a unificarsi con altre strisce ondulate, quelle formate dalle alte erbe della savana. Non ha importanza che le prime siano bianche e nere e le seconde verdi o gialle o marroni, perché il principale predatore della zebra, il leone, è cieco ai colori. In animali che si spostano in grossi gruppi, un vantaggio ulteriore risiede nella scorretta unificazione delle regioni del corpo di un individuo con regioni simili dei corpi altrui. Questo è il caso di molti pesci a strisce contrastanti vistosamente colorate, che nuotando vicini danno l’impressione di essere un’unica gigantesca creatura multicolore, troppo grande per rappresentare una preda. 109

Fig. 5.4 Che cosa riuscite a riconoscere nella figura a sinistra? E in quella a destra? Eppure i frammenti sono sempre gli stessi: l’unica differenza è che a destra essi sembrano parzialmente coperti. A sinistra, i contorni appartengono percettivamente ai frammenti medesimi. Dato che ogni frammento appare chiuso e completo e non va a raggrupparsi con altri, vedere le lettere B è quasi impossibile. A destra, al contrario, i contorni in comune tra la regione nera e i frammenti appartengono percettivamente alla regione nera. Di conseguenza, i frammenti sono racchiusi da un margine solo nelle aree in cui confinano con lo sfondo bianco, non in quelle in cui confinano con la regione nera. Questo permette loro di continuare sotto la regione nera, legandosi ad altri frammenti «aperti» secondo le regole dell’organizzazione figurale. (Illustrazione: da A. S. Bregman, in M. Kubovy e J. Pomerantz, Perceptual Organization [a cura di Hillsdale, N.J., Lawrence Erlbaum Associates, 1981.)

5.1.4 Chiusura Elementi che danno origine a una figura chiusa, invece che aperta, vengono raggruppati assieme. Fra tutte le possibili organizzazioni percettive di un insieme di elementi, in altre parole, se null’altro cambia verrà vista quella che produce figure chiuse. Vediamo la costellazione dell’Orsa Maggiore come un carro in virtù dei princìpi di buona continuazione e chiusura. In natura il principio di chiusura sembra poco importante come principio di raggruppamento, ma vitale è ciò che potremmo considerare una variazione sul tema: la tendenza a «chiudere» visivamente, o completare, unità «aperte» o incomplete. 5.1.5 Destino comune Cose che si muovono assieme vengono raggruppate assieme. In natura, il movimento è un rivelatore di presenza infallibile. Gli insetti che hanno adottato forme mimetiche di protezione possono assomigliare a rametti, a foglie, e perfino a escrementi di uccelli o bruchi, ma mai a pietre o sassolini. Le pietre sono im110

mobili, e per un animale che voglia simulare una pietra ciò renderebbe qualsiasi tipo di spostamento particolarmente rischioso. Gli escrementi sono pure immobili, ma con l’importante differenza che gli insetti che fingono di essere escrementi giacciono su foglie e rami che vengono a loro volta mossi dal vento, e possono eventualmente rotolare giù dalle foglie senza per questo dare troppo nell’occhio. In ogni caso, una completa immobilità durante il giorno è il prezzo che gli insetti che copiano oggetti d’arredo del proprio ambiente debbono pagare; un prezzo piuttosto salato, considerando che implica l’astensione da utili attività quali la ricerca di cibo o di un partner sessuale. Il principio di destino comune, d’altro canto, è in grado di distruggere la più perfetta delle mimetizzazioni. Il movimento dell’animale unifica le parti del suo corpo e le segrega dallo sfondo, dando origine a un oggetto separato e ben identificabile. Per questa stessa ragione, il modo più rapido di capire qual è il ramo che vogliamo potare, in un intrico di rami, o il cavo che vogliamo staccare dalla presa, in un intrico di cavi, è quello di muoverli. 5.1.6 Esperienza passata Elementi che danno origine a una figura familiare o dotata di significato vengono raggruppati assieme. Come già abbiamo visto nel caso del gruppo di pesci piccoli schierati a simulare un pesce grande, questo principio di unificazione viene spesso sfruttato da animaletti che si aggregano per far credere di essere qualche cosa di unico e grosso invece di quello che sono in realtà, cioè tanti bocconi piccoli e appetitosi. Gli individui di alcune specie di roditori si dispongono in fila indiana per gli spostamenti, dando da lontano, in virtù dei princìpi di somiglianza, vicinanza, buona continuazione e destino comune, l’impressione di essere un’unica lunga e sinuosa creatura. Ma il principio di esperienza passata contribuisce non poco all’effetto finale, perché è grazie a esso che, agli occhi di un potenziale predatore, la lunga e sinuosa creatura assume le fattezze minacciose di un serpente (un oggetto non necessariamente familiare, ma certamente provvisto di vivido significato biologico). 111

Fig. 5.5 Raggruppamento per buona continuazione ed esperienza passata. L’allineamento fra busto e gambe, unito all’estrema familiarità e significato di cui godono nella nostra specie configurazioni formate da busto e gambe, determina un sorprendente risultato percettivo. La contraddizione viene felicemente risolta quando si esplora la parte destra dell’immagine, ma il risultato percettivo non cambia. Si noti l’ulteriore raffinatezza dell’allineamento fra il barman e lo sgabello sulla destra, che suggerisce un secondo, seppure incompleto, raggruppamento. (Foto: immagine pubblicitaria, Pura Lana Vergine.)

L’effetto dell’esperienza passata sull’organizzazione del nostro mondo visivo ha un interesse speciale perché suggerisce che il raggruppamento possa aver luogo anche dopo che gli oggetti sono stati riconosciuti, non soltanto prima. Per quanto raggruppare gli elementi di una scena fra loro sia indispensabile per creare gli oggetti, le nostre conoscenze su questi oggetti possono a loro volta «tornare indietro» e riorganizzare la scena di partenza. 5.1.7 Buona forma Elementi che danno origine a una figura semplice, regolare, simmetrica vengono raggruppati assieme. Dato che le forme regolari e simmetriche risaltano più facilmente contro lo sfondo, gli animali che hanno bisogno di mimetizzarsi hanno sviluppato va112

rie tecniche per ridurre la propria simmetria apparente. Rane e cavallette di alcune specie, ad esempio, appaiono spezzate in due da una striscia di colore contrastante; parecchi serpenti, nel predisporsi a un sonnellino, si attorcigliano in modo tale da rendere meno evidente la simmetria delle loro macchie. Simmetria e regolarità (sotto forma di ripetizione di elementi distintivi, come gli occhi sulla coda del pavone maschio) vengono esibite, anziché celate, nel momento in cui ci si vuole rendere visibili. A questo scopo vengono spesso utilizzate macchie di forma regolare, come cerchi, quadrati o triangoli, che hanno il pregio aggiuntivo di essere dissimili dagli elementi più comuni dell’ambiente naturale. Non a caso, elementi regolari, simFig. 5.6 Qual è il più attraente di questi due volti? Per tratti che normalmente si sviluppano in modo bilateralmente simmetrico, il grado di simmetria rappresenta un indicatore della capacità di resistere agli effetti dannosi delle perturbazioni che si verificano durante lo sviluppo intra- ed extra-uterino (mutazioni, agenti patogeni, tossine, ferite). Il grado di simmetria può esprimere quindi la qualità genetica di un individuo, tanto è vero che le femmine di rondini e fringuelli lo usano come criterio per scegliere il compagno. Nella nostra specie, volti che sono stati resi simmetrici (come quello a destra nella figura) tendono a essere considerati più sani e attraenti dei volti originali (come quello a sinistra). Stimolati da queste scoperte, alcuni ricercatori si sono affrettati a controllare se la simmetria del volto di una persona sia legata alla sua resistenza alle malattie, ma fra le due variabili non è emersa alcuna relazione. Inoltre, è diventato chiaro che la simmetria aumenta l’attrattiva di un volto solo a parità di tutte le altre condizioni. Nella vita reale, il più simmetrico di due gemelli identici appare davvero più attraente dell’altro, ma le cose cambiano quando giudichiamo l’aspetto di volti fra loro differenti3. In questo caso, la simmetria mostra di avere un’importanza trascurabile nella valutazione dell’attrattiva di volti maschili, e praticamente nulla nella valutazione dell’attrattiva di volti femminili. (Elaborazione digitale: Paola Bressan.)

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metrici e ripetuti (ottenuti mediante pigmenti, tatuaggi o cicatrici in rilievo, create strofinando carbone o altri materiali in incisioni praticate sulla pelle) vengono usati in molte società tribali per ornarsi il corpo. Perché ci siamo evoluti in modo da utilizzare i princìpi di Wertheimer per organizzare il mondo che percepiamo? Perché questi rispecchiano le comuni proprietà del mondo fisico. Un oggetto di solito è chiuso anziché aperto (chiusura), e la sua forma tende a variare gradualmente piuttosto che a presentare brusche discontinuità (buona direzione). Le parti di un oggetto tendono a essere tra loro simili (somiglianza) e adiacenti (vicinanza), e a muoversi insieme (destino comune). Moltissimi oggetti, in particolare gli esseri viventi, hanno un aspetto regolare e simmetrico (buona forma). Un sistema visivo che faccia uso di queste assunzioni perverrà pertanto normalmente a conclusioni «corrette» (e gli inganni del mimetismo sono così efficaci proprio perché si basano sulle stesse assunzioni). 5.2 Figura e sfondo La strategia dell’apparire simili allo sfondo quando non conviene farsi vedere, e dissimili quando invece conviene, è – nella sua impressionante perfezione – il prodotto di milioni di anni di mutazioni casuali e selezione naturale. Non si richiedono intenzioni né facoltà critiche, e la consapevolezza dell’obiettivo è irrilevante. Non è nemmeno indispensabile appartenere al regno animale. I frutti sugli alberi, verdi e invisibili fra il fogliame verde quando sono acerbi, entrano percettivamente in esistenza (agli occhi degli uccelli e solo secondariamente a quelli di noi primati, che degli uccelli abbiamo invaso il territorio) unicamente quando, maturando, assumono colori vistosi – segnalando che i semi sono pronti a germinare e desiderano essere prima ingoiati, poi depositati altrove. Una prugna matura caduta a terra appare come una figura sullo sfondo del prato. La differenza fra figura e sfondo è intuitivamente molto chiara: la figura ha una forma ben definita e appare davanti allo sfondo, mentre lo sfondo sembra informe e pa114

Fig. 5.7 In alcune figure, dette reversibili o multistabili, l’organizzazione figura-sfondo è talmente debole da invertirsi spontaneamente nel corso dell’osservazione. Ecco un classico del 1915 e due sue rivisitazioni. Nell’immagine in alto (la famosa coppa reversibile dello psicologo danese Rubin) è possibile vedere due profili neri l’uno di fronte all’altro, oppure un vaso bianco. Quando la regione nera è percepita come figura quella bianca diventa sfondo, e viceversa; non si riesce a vederle simultaneamente entrambe come figure. Nell’immagine centrale questa ambiguità viene risolta in modo inaspettato: i due profili si completano dietro il «vaso» dando origine a un volto intero e a un’organizzazione percettiva stabile in cui le tre regioni vengono viste come figure allo stesso tempo. L’immagine in basso rappresenta una raffinata realizzazione tridimensionale della coppa reversibile. Il vaso è stato creato nel 1977 per il venticinquesimo anniversario dell’incoronazione della regina Elisabetta d’Inghilterra: si noti il profilo di Elisabetta sulla destra, e quello del principe Filippo sulla sinistra. (Illustrazione centrale: Roger Shepard, Egyptian-Eyezed Tête-à-Tête, 1974. Foto in basso: Kaiser Porcelain Ltd.)

re estendersi dietro la figura. Il contorno che li separa appartiene visivamente alla figura anziché allo sfondo, un dettaglio che a noi pare ovvio ma ovvio non è. In condizioni naturali, è ben raro imbattersi in situazioni ambigue dal punto di vista dell’articolazione figura-sfondo. Le prugne sono figure e i prati sfondi, mai viceversa. Lungi dall’essere accidentale, questo stato di cose è il prodotto dell’applicazione automatica di princìpi simili a quelli del raggruppamento percettivo. È più facile vedere una regione piccola come figura e una grande come sfondo. È più facile vedere una regione inclusa come figura e una includente come sfondo. È più facile vedere una regione orientata se115

condo le direzioni privilegiate dello spazio (orizzontale e verticale) come figura e una obliqua come sfondo. È più facile vedere una regione convessa come figura e una concava come sfondo. È più facile vedere una regione chiusa come figura e una aperta come sfondo. Le prugne sono figure perché sono convesse, chiuse, simmetriche, piccole e completamente circondate dai prati su cui giacciono. Che una parte del campo visivo venga vista come figura oppure come sfondo può apparire di scarsa importanza, ma ha conseguenze che neanche ci immaginiamo. Ad esempio, a parità di tutte le altre condizioni, riusciamo a distinguere meglio i dettagli quando essi appartengono a una regione che appare come figura, piuttosto che come sfondo. Se una linea venisse proiettata per una frazione di secondo sull’immagine reversibile di Figura 5.7 in alto, e vi venisse chiesto se la linea è verticale o obliqua, quando essa cade sulla zona che in quel momento percepite come fi-

Fig. 5.8 Nel separare le figure dagli sfondi, il nostro sistema visivo usa certi princìpi perché essi rispecchiano le proprietà fisiche che, nel mondo, distinguono gli oggetti dagli spazi. Gli oggetti tendono a essere convessi anziché concavi (convessità) e, per effetto della forza di gravità, orientati orizzontalmente o verticalmente anziché obliquamente (orientazione). Gli oggetti sono in genere più simmetrici degli spazi che li separano (simmetria). Gli oggetti tendono a essere più piccoli della scena che fa loro da sfondo (grandezza) e da questa completamente circondati (inclusione). Un uso innaturale dei princìpi dell’organizzazione figura-sfondo può creare figure impossibili, come questo elefante. Gli elementi insoliti qui sono due: il primo è che le zampe e gli spazi che le separano sono pari dal punto di vista di grandezza, orientazione, simmetria e inclusione; il secondo e più importante è che l’ombreggiatura, indizio principe di convessità e chiusura, è spazialmente disomogenea. Spostando lo sguardo verso il basso, le zampe si trasformano progressivamente in spazi e gli spazi in zampe. Ciò mostra quanto siano potenti questi princìpi nel creare gli oggetti del nostro mondo visivo, e quanto poco conti talvolta ciò che del mondo «sappiamo». (Illustrazione: Roger Shepard, L’egs-istential quandary, 1974.)

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Fig. 5.9 La proprietà fondamentale dello sfondo, quella di essere informe e continuare dietro la figura, rende difficile notare spontaneamente la forma degli spazi fra le colonne di questa balaustra. Perfino una volta che il riconoscimento è avvenuto, a causa della loro simmetria e convessità (accentuata dall’ombreggiatura) le colonne si riappropriano del ruolo di figure all’istante, relegando di nuovo e prepotentemente i profili in quello di sfondo. (Illustrazione: Roger Shepard, Beckoning Balusters, 1984.)

gura sareste tre volte più bravi a rispondere – anche se i vostri occhi guardano sempre lo stesso punto. Quando una regione da figura diventa sfondo, persino il suo colore cambia leggermente. La maggior parte della gente pensa che l’organizzazione figura-sfondo sia determinata semplicemente da ciò a cui prestiamo attenzione, ma le cose stanno diversamente. Siamo in grado di spostare la nostra attenzione sul prato sotto di noi, o sul cielo sopra di noi, senza che essi assumano per questo il ruolo di figura. D’altra parte è chiaro che sono le figure, cioè gli oggetti, e non gli sfondi, a calamitare la nostra attenzione. Non è il caso di sorprendercene: il ruolo funzionale dell’organizzazione figurasfondo è quello di determinare quali regioni corrispondono agli oggetti e quali agli spazi fra gli oggetti. Degli spazi ci importa ben poco, e ancor meno ci deve importare della loro forma, che è mutevole e del tutto accidentale. Sono gli oggetti ad avere rilevanza nella nostra vita, e proprietà stabili. 5.2.1 Il completamento amodale Una volta che gli elementi di una scena sono stati organizzati in oggetti e separati dagli sfondi, il compito del sistema visivo non è ancora finito. Gli oggetti sono infatti per la maggior parte opachi, e come tali nascondono parti di altri oggetti e superfici. Nel punto preciso in cui giace la prugna, il prato sottostante non proietta sulla nostra retina alcuna immagine. Vediamo un buco? 117

Fig. 5.10 Il meccanismo di completamento che ci permette di percepire oggetti parzialmente nascosti come interi è talmente coercitivo da contrastare, all’occasione, le nostre conoscenze sul mondo. La rilevanza biologica del completamento amodale è testimoniata dalla sua onnipresenza – anche in modalità sensoriali differenti da quella visiva, come quella uditiva, e non solo nella nostra specie. Ad esempio, certe scimmie non reagiscono alla parte iniziale e a quella finale del loro tipico richiamo quando questi due fischi sono separati da una pausa di silenzio, ma rispondono normalmente quando essi sono separati da un rumore – nonostante i suoni che arrivano all’orecchio, e l’intervallo fra l’uno e l’altro, siano esattamente gli stessi. Il richiamo viene cioè completato amodalmente «sotto» il rumore. (Foto: immagine pubblicitaria, Volkswagen.)

No. Completiamo mentalmente il prato usando l’immaginazione o le nostre conoscenze topologiche sui prati, allo stesso modo in cui, guardandoci le scarpe, le riempiamo mentalmente con i nostri piedi? Macché. Semplicemente «vediamo» il prato continuare sotto la prugna. Vedere ciò che è letteralmente invisibile è per noi talmente naturale e automatico che, nonostante una comune scena visiva sia oggettivamente un colabrodo, è possibile che non ve ne foste resi conto prima d’ora. Il completarsi di oggetti o sfondi dietro a oggetti che li celano parzialmente è detto amodale, perché la porzione nascosta e completata non è presente, sotto forma di stimolazione o di esperienza sensoriale, in alcuna modalità percettiva. In un mondo di cose opache poste a distanze diverse, l’evoluzione dell’abilità di vedere come interi oggetti in parte occlusi deve aver conferito vantaggi inestimabili. Una testa di leone che sporge da dietro un masso non ha lo stesso significato di una testa di leone abbandonata sul terreno. E se credete che quel che «sapete» giochi il ruolo principale, andate a guardarvi le Figure 5.4 e 5.10 per cambiare subito idea. 118

5.3 Gli oggetti che vediamo sono costruzioni del nostro cervello L’espressione «costruire il mondo» può sembrare una licenza poetica, ma non lo è affatto. Quando vi guardate attorno non avete l’impressione di costruire le cose, ma di guardarle: le cose stanno lì fuori e hanno quell’aspetto, indipendentemente dal fatto che voi le guardiate o no. Ma questa sensazione è dovuta unicamente al fatto che siete esperti e veloci nel costruire. Sicuramente non avete nemmeno l’impressione di trovarvi su una palla sospesa nel vuoto che ruota alla velocità di millesettecento chilometri all’ora (all’equatore), eppure è proprio così che stanno le cose. Che l’esperienza degli oggetti sia creata per intero dal cervello risulta forse un po’ più facile da mandar giù quando si considera quel che succede quando un ictus, o un qualche altro malanno, danneggia le aree cerebrali che si occupano del processo di costruzione. Possono accadere due cose: o il sistema non funziona più (agnosia visiva), oppure funziona troppo (sindrome di Charles Bonnet), ed è difficile decidere quale delle due sia la più tremenda. Un caso ben documentato di agnosia visiva è quello del signor S., che dopo un avvelenamento da monossido di carbonio smise di costruire, e quindi di vedere, gli oggetti4. Il signor S. aveva una vista eccellente, e percepiva senza problemi linee, colori e movimenti: il problema era che non riusciva più a combinarli in modo da creare gli oggetti corrispondenti. Di conseguenza, non riusciva nemmeno a identificare i suoi familiari o il medico (anche se era in grado di descriverne i contorni e i colori), finché non cominciavano a parlare. I costi di un iperfunzionamento del nostro apparato di costruzione degli oggetti sono ben esemplificati da un altro caso clinico: quello della signora B., che dopo un ictus all’emisfero destro cominciò a vedere oggetti che non c’erano, come bambini che ridevano o strade piene di traffico, in modo assolutamente realistico e completo di ogni dettaglio5. Occasionalmente, l’allucinazione visiva era accompagnata da un’allucinazione tattile perfettamente sincronizzata: una volta la signora B. vide il suo cane (morto da tempo) arrivare tutto bagnato, e strofinandolo con un asciugamano ebbe la sensazione anche tattile del corpo del cane e del pelo umido. Cose che sembrano incredibili. Eppure, i 119

Fig. 5.11 Che succederebbe se, pur continuando a vedere perfettamente, non fossimo più in grado di applicare al nostro mondo visivo i princìpi di organizzazione figurale? La cosa sarebbe una vera disgrazia, come mostrano i rari casi di persone che, in seguito a un danno specifico al cervello, vengono colpite da agnosia visiva. In certe forme di agnosia il paziente è capace di copiare le singoli parti di un oggetto, ma le affastella assieme, senza riuscire a riprodurne le relazioni spaziali; in altre parole, identifica correttamente le parti ma non il tutto. Questi individui sono incapaci di riconoscere come uguali oggetti visti da prospettive differenti. In altre forme di agnosia il paziente si comporta come se vedesse ogni cosa per la prima volta, avendo perso interamente la capacità di riconoscere oggetti di uso comune: non è in grado né di dare loro un nome, né di descriverne l’uso. Il problema può riguardare anche solo classi specifiche di oggetti, come gli esseri viventi oppure i volti. In quest’ultimo caso (prosopoagnosia), pur descrivendo dettagliatamente il volto che sta guardando il paziente non riesce a riconoscerlo, nemmeno se è quello di un familiare stretto o di un personaggio famoso – o se è, addirittura, il proprio volto allo specchio. (Illustrazione: disegni di pazienti agnosici. A sinistra in basso, copia dell’elefante in alto; a destra, raffigurazione di un uomo. Adattato da A.R. Luria, Come lavora il cervello, Bologna, Il Mulino, 1977.)

meccanismi che creano bambini, autobus e cani «irreali» nel cervello della signora B. sono gli stessi che creano bambini, autobus e cani «reali» nel nostro. Se siamo tentati di ribattere che c’è una mastodontica differenza, perché la signora B. è «matta» (cioè il suo cervello funziona male) e noi no, rinviamo la contestazione a domani e dormiamoci su. Mentre sogniamo, il nostro cervello costruirà un mondo perfettamente convincente, con al centro un «noi stessi» perfettamente convincente che quel mondo vede, tocca e ascolta. La differenza principale fra questo mondo simulato e il mondo che noi consideriamo reale è che il primo comincia quando ci addormentiamo, e il secondo quando ci svegliamo. Mentre ci siamo dentro, ciascuno dei due mondi appare pienamente reale, e ciascuno contiene una rappresentazione di noi 120

stessi dotata di corpo, mente e coscienza. Per quanto la cosa possa essere controintuitiva, i sogni e le allucinazioni rivelano che il mondo che vediamo fuori di noi è in realtà dentro di noi. Diversamente da ciò che succede nei sogni e nelle allucinazioni, il sistema di creazione del mondo è guidato normalmente dalla stimolazione sensoriale proveniente dagli oggetti fisici, e produce pertanto normalmente oggetti percepiti che agli oggetti fisici sono in qualche modo collegati. La percezione, insomma, è un’allucinazione guidata. I cani che vediamo noi non sono meno «costruiti» dei cani che vede la signora B.; la differenza è che noi li costruiamo adoperando un maggior numero di vincoli e che i nostri simili usano gli stessi vincoli, per cui le amiche della signora B. il suo cane non lo vedono, ma il nostro sì. 5.4 La costanza di forma I piatti che hanno contenuto la nostra cena rimangono circolari quando li mettiamo in lavastoviglie. Ciò dovrebbe stupirci moltissimo, dato che un cerchio inclinato in profondità di 60 gradi proietta sulla nostra retina un’ellisse il cui asse minore è metà Fig. 5.12 Quali sono i due tavoli gemelli, A e B oppure B e C? Che ci crediate o no, il parallelogramma che forma il piano del tavolo B è identico a quello che forma il piano del tavolo A. Nella parte inferiore dell’immagine il piano del tavolo A (il primo parallelogramma da sinistra) è stato ruotato progressivamente fino a trasformarsi nel piano del tavolo B (il quarto). Il quinto parallelogramma corrisponde al piano del tavolo C. Questa illusione (di Roger Shepard) è causata dagli stessi meccanismi che normalmente producono costanza di forma. Vediamo le forme come se si trovassero non sul piano del foglio ma in profondità, e ne aggiustiamo le proporzioni di conseguenza, allungando percettivamente il lato lungo del tavolo A e il lato corto del tavolo B. La costanza di forma entra in azione automaticamente, al di là della nostra volontà, come mostra la nostra incapacità di vedere i due parallelogrammi come uguali anche quando sappiamo che lo sono. (Illustrazione: Paola Bressan.)

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Fig. 5.13 I disegni dei bambini mostrano un altissimo grado di costanza di forma: gli oggetti vengono di solito rappresentati nella loro orientazione più riconoscibile, anche quando ciò è in contraddizione con la struttura spaziale della scena. In questo disegno, intitolato L’orsetto non riesce a dormire, Mamma Orsa è in piedi, e l’orsetto steso sul letto è stato raffigurato capovolto ma in posizione frontale, invece che di profilo o in prospettiva. Gli artisti pre-rinascimentali incontravano difficoltà simili: per rappresentare correttamente la prospettiva, infatti, è necessario riprodurre la proiezione bidimensionale della scena (cioè la scena così come è raffigurata sulla nostra retina), ignorando gli effetti della costanza di forma. (Disegno: Caterina, 3 anni.)

Fig. 5.14 La costanza di forma è piuttosto scarsa per oggetti non familiari, come agglomerati di plastilina, oppure per oggetti familiari in posizioni altamente inconsuete, come visi capovolti. Alcuni esperimenti mostrano che, nel riconoscimento di volti familiari, un livello medio di accuratezza del 95% crolla al 50-60% quando gli stessi volti vengono presentati a testa in giù. Ciò sembra essere dovuto al fatto che l’identità di un volto è codificata soprattutto dalle relazioni spaziali fra i suoi tratti (naso, bocca, occhi), e siamo poco sensibili a queste informazioni quando il volto è a testa in giù. L’illusione di Margaret Thatcher illustra alla perfezione questo punto6. Il viso a destra nella foto appare ragionevolmente normale, anche se potreste avere la sensazione che vi sia qualcosa di strano. Capovolgete il libro e ne capirete certamente il motivo. (Illustrazione: Peter Thompson.)

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Fig. 5.15 La costanza di forma dipende da una corretta percezione dell’inclinazione dell’oggetto. La fotografia del poster di Nixon è stata scattata da un lato, e l’immagine che proietta sulla nostra retina è essenzialmente la stessa che avrebbe proiettato se ci fossimo trovati vicini al fotografo. In tal caso, tuttavia, il poster non ci sarebbe apparso distorto, perché il nostro sistema visivo avrebbe tenuto conto dell’inclinazione del tabellone per apportare le necessarie correzioni all’immagine retinica. Quando osserviamo la fotografia, peraltro, nulla sta ad indicare che il poster sia inclinato, cioè che alcune sue parti siano più lontane di altre; di conseguenza, il meccanismo di costanza di forma tace. Come spesso accade, apprezziamo ciò che abbiamo solo nel momento in cui viene a mancare. (Foto: da I. Rock, Perception, New York, Scientific American Books, 1984.)

dell’asse maggiore. Eppure, i cerchi del nostro mondo visivo appaiono circolari e ben solidi; libri, quadri, porte e finestre restano inalterabilmente rettangolari a prescindere dalla loro inclinazione rispetto a noi e dal fatto che ci muoviamo o no. Quando guardiamo un oggetto da punti di vista diversi ne percepiamo la forma come sempre uguale, nonostante la forma della sua immagine retinica possa cambiare anche radicalmente. Questa abilità è detta costanza di forma. Se perdessimo questa abilità, contemplando uno stesso oggetto da punti di vista differenti percepiremmo oggetti completamente diversi. È chiaro che, per organismi che si muovono, è indispensabile che la rappresentazione visiva del mondo rimanga accurata nonostante gli spostamenti della testa e degli occhi. 123

5.5 Oggetti molto speciali: le facce Quanto bravi siete a distinguere fra loro le facce delle scimmie? Una ricerca recente suggerisce che eravate abilissimi a sei mesi, ma che a nove mesi avevate già imboccato la china discendente, ed eravate ormai bravi soltanto a discriminare facce di persone7. Questo mostra che la capacità di discernere le facce non è innata: ciò che è innato è la capacità di imparare a farlo. Ci specializziamo in facce umane perché sono quelle che vediamo più spesso (proprio come le scimmie si specializzano in facce di scimmia), e il prezzo che paghiamo è la perdita dell’abilità di distinguere altrettanto facilmente quelle di altre specie. Il trovarsi ripetutamente esposti a volti umani nei primi mesi di vita è dunque cruciale affinché l’abilità di distinguere le facce l’una dall’altra si sviluppi normalmente. Quando bambini molto piccoli che soffrono di cataratta congenita vengono operati, la loro capacità di vedere ogni altro oggetto fa in breve tempo passi da gigante, ma la loro abilità di riconoscere le facce è spesso compromessa. Il risultato di questa specializzazione è che, per quanto le differenze fisiche fra i volti siano minime in confronto alla gamma di variazioni presente all’interno di altre categorie di oggetti (come le verdure, i lampadari o i musi dei cani), a queste sottili differenze siamo squisitamente sensibili. Ciò ci permette di valutare in modo rapido e competente caratteristiche di primaria importanza quali il sesso, l’età, l’espressione e naturalmente l’identità degli individui che incontriamo. È interessante notare che la nostra percezione di un volto dipende dai volti che abbiamo visto in precedenza, ovvero dal nostro stato di adattamento. Dopo aver guardato per mezzo secondo un volto maschile, una faccia androgina – che è una via di mezzo fra un uomo e una donna – sembra quella di una femmina; la stessa faccia però sembra quella di un maschio se la osserviamo subito dopo aver guardato un volto femminile. Esattamente lo stesso accade per categorie quali il gruppo etnico (per esempio, giapponese contro caucasico) o l’espressione (per esempio, disgusto contro sorpresa)8. Se differenze percettive così nette emergono dopo un adat124

Fig. 5.16 Per percepire le facce il nostro cervello ha evoluto meccanismi neurali specializzati, che ci rendono capaci di riconoscere e richiamare alla memoria i volti di parecchie centinaia di individui differenti. Lo stesso succede in specie anche molto diverse dalla nostra, ad esempio nelle pecore. Una pecora è in grado di ricordare i musi di cinquanta sue diverse colleghe per anni. Si è scoperto di recente che, quando le pecore si trovano in condizioni di isolamento sociale, la possibilità di contemplare fotografie di musi di pecora riduce i belati di protesta, rallenta il battito cardiaco e fa scendere il livello ematico di ormoni dello stress. Non è quindi il caso di sorprendersi che, nella nostra specie, sia diffusa la pratica di alleviare l’ansia da separazione portando una foto dei propri cari nel portafoglio. (Foto: un muso di pecora, in alto, riduce significativamente gli indici di stress nelle pecore; un triangolo, in basso, non ha alcun effetto; un muso di capra, al centro, ha effetti rilassanti molto inferiori a quelli del muso di pecora, ma è meglio di niente. Da A.P. da Costa, A.E. Leigh, M.-S. Man, K.M. Kendrick, Face pictures reduce behavioural, autonomic, endocrine and neural indices of stress and fear in sheep, in «Proceedings of the Royal Society of London B», n. 271, 2004, pp. 2077-2084.)

tamento di mezzo secondo in laboratorio, immaginate quali devono essere gli effetti di settimane, mesi, anni di esposizione a certe categorie di facce nella vita di tutti i giorni. Un volto nippo-americano viene classificato come giapponese dagli americani, e come americano da giapponesi appena arrivati negli Stati Uniti. Man mano che il tempo passa, però, e che la loro interazione con la popolazione locale aumenta, i medesimi giapponesi giudicano quello stesso volto sempre meno americano e più giapponese9. 125

Fig. 5.17 L’adattamento agli stimoli più frequenti nel nostro ambiente ha il risultato di amplificare le differenze. Proprio come in un mondo giallo un oggetto acromatico appare bluastro, in un mondo di facce sorridenti una faccia neutra apparirà corrucciata. Un mulatto sembrerà un nero in un mondo di bianchi, un bianco in un mondo di neri. Fino a poco tempo fa si riteneva che, quando incontriamo una persona nuova, la categorizziamo automaticamente e inevitabilmente secondo tre dimensioni fondamentali: razza, sesso ed età. Il favoritismo verso il proprio gruppo, abbinato a indifferenza od ostilità nei confronti degli altri gruppi, esiste in tutte le culture. Se categorizzare per razza è un’eredità che ci trasciniamo dietro dall’età della pietra, discriminazione etnica e razzismo sarebbero così profondamente radicati nella nostra natura da essere praticamente incancellabili. Durante la nostra storia evolutiva, tuttavia, la probabilità di incontrare individui di razze diverse doveva essere straordinariamente piccola, il che rende questa conclusione poco plausibile. Dati sperimentali recenti suggeriscono che la categorizzazione per razza sia un accidente storico, cioè il sottoprodotto reversibile di un meccanismo cognitivo che si è evoluto per identificare le alleanze e coalizioni degli individui che incontriamo. In società non perfettamente integrate dal punto di vista razziale, il colore della pelle funziona come un indicatore di alleanze sociali, esattamente come il dialetto o il modo di vestire. Ma sono sufficienti quattro minuti di esposizione a un mondo sociale alternativo in cui le coalizioni sono indipendenti dalla razza e dal sesso per far crollare la tendenza a categorizzare per razza, mentre la categorizzazione per sesso – biologicamente significativa fin dagli albori della nostra storia – rimane invariata10. (Immagine: il volto centrale è stato ottenuto fondendo fra loro i volti di Naomi Campbell, in alto, e Claudia Schiffer, in basso. Una chimera virtuale come questa tenderà ad apparire di razza nera ai bianchi, e di razza bianca ai neri. Elaborazione digitale e morphing: Paola Bressan.)

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Dobbiamo concludere che la nostra percezione delle facce è calibrata sull’ambiente nel quale viviamo. Ognuno di noi è esposto a una diversa dieta di facce, ovvero a una diversa distribuzione di individui, di età, di sessi, di gruppi etnici. Siccome il nostro stato di adattamento non è lo stesso, ciascuno di noi percepirà una stessa faccia in modo diverso. Oltretutto quella stessa faccia tenderà a cambiare a mano a mano che ci diventa familiare, il che spiega la comune esperienza che volti che ci colpiscono enormemente al primo incontro, nel bene e nel male, tendono a perdere i loro tratti distintivi nel tempo.

Sommario 5.1. A dispetto del fatto che sia immediata e normalmente priva di ambiguità, la percezione degli oggetti rappresenta un problema teorico di prim’ordine. Le regole in base alle quali gli elementi del campo visivo tendono a organizzarsi in unità sono state descritte da Wertheimer: vicinanza, somiglianza, buona continuazione, chiusura, destino comune, esperienza passata, buona forma. Queste stesse leggi sono all’opera nei casi di mimetismo o mascheramento percettivo: nella maggior parte dei casi, l’effetto è quello di rendere il riconoscimento difficile o impossibile. 5.2. Alcune delle leggi dell’organizzazione figurale aiutano a prevedere quale regione di una scena visiva verrà vista come figura e quale come sfondo. Una caratteristica dello sfondo è quella di continuare fenomenicamente dietro la figura; questo tipo di completamento viene detto amodale. 5.3. Specifici danni cerebrali alterano il normale processo di costruzione degli oggetti visivi, impedendo la percezione degli oggetti circostanti (anche quando linee, colori e movimenti vengono visti perfettamente) o causando la percezione di oggetti inesistenti. 5.4. La forma degli oggetti tende a rimanere la stessa al variare della loro inclinazione e quindi della forma dell’immagine che proiettano sulla nostra retina. Questo fenomeno, che ci permette di muoverci in un mondo stabile, è noto come costanza di forma. 5.5. Gli oggetti forse per noi più importanti sono i volti dei nostri si127

mili. Il loro significato biologico e sociale è talmente vitale che parecchie regioni del cervello sono dedicate alla percezione e al riconoscimento delle facce. Questa specializzazione emerge precocemente ed è legata alla continua esposizione a volti umani (in particolare quello della madre) nei primi mesi di vita.

Per saperne di più Natural Deception. Howard E. Hinton, in Illusion in Nature and Art, a cura di R. L. Gregory e E. H. Gombrich, Duckworth, 1973. Un articolo pieno di fascino sulle tecniche stupefacenti poste in atto da molti animali per ingannare altri animali (in modo da non farsi mangiare) e da molte piante per ingannare insetti e uccelli (in modo da farsi impollinare). L’origine dell’ambiguità nelle opere di Maurits C. Escher. Marianne L. Teuber, in «Le Scienze», n. 75, novembre 1974. La semplice ambiguità figura-sfondo presente nel disegno di Rubin è stata portata a un alto livello di elaborazione dall’artista olandese Escher, la cui produzione grafica venne originariamente ispirata proprio dagli studi psicologici sul rapporto fra figura e sfondo, in particolare dagli esperimenti di Rubin. Multistabilità nella percezione. Fred Attneave, in «Le Scienze», n. 43, marzo 1972. Una visita guidata nel mondo delle immagini reversibili, condotta con un linguaggio accessibile e colorata dal tentativo di applicare ai fenomeni multistabili nella percezione le nostre conoscenze sulla multistabilità dei circuiti elettronici. Grammatica del vedere. Gaetano Kanizsa, Il Mulino, 1980. Una raccolta di saggi sull’organizzazione percettiva scritta da uno dei più famosi percettologi italiani, e illustrata da più di trecento figure. Amodal completion of acoustic signals by a nonhuman primate. Cory T. Miller, Elizabeth Dibble, Marc D. Hauser, in «Nature Neuroscience», agosto 2001, pp. 783-784. L’esistenza di forme di completamento amodale uditivo in primati diversi dall’uomo (dimostrata qui in modo ingegnoso) porta gli autori a concludere che i meccanismi neurali che mediano la continuità uditiva abbiano avuto origine in un antenato co128

mune almeno 40 milioni di anni fa, prima cioè che ci separassimo evolutivamente dagli altri primati. In the eye of the beholder. The science of face perception. Vicki Bruce, Andy Young, Oxford University Press, 1988. Un’introduzione non tecnica alla psicologia della percezione dei volti, scritta in modo accessibile a tutti e riccamente illustrata. I capitoli riguardano le caratteristiche fisiche del volto umano, le differenze legate a razza, età e sesso, i tratti che distinguono i volti fra loro e le caricature, la bellezza e l’espressione facciale delle emozioni. Le figure sono straordinarie. Visual intelligence. How we create what we see. Donald D. Hoffman, W.W. Norton & Company, 1998. Questo libro sviluppa l’idea che le cose che vediamo sono costruzioni del nostro cervello, e descrive la perdita di queste capacità costruttive in pazienti che non riescono più a percepire i colori, a rilevare il movimento, a combinare visivamente le parti di un oggetto.

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Come vediamo la profondità Δ Gli indizi fisiologici di profondità Δ Gli indizi cinetici di profondità Δ Gli indizi pittorici di profondità Δ L’integrazione degli indizi

Riacquistare la vista dopo una vita intera passata nelle tenebre sembrerebbe una ragione particolarmente buona per festeggiare. Le storie dei pochi che hanno fatto questa straordinaria esperienza hanno avuto però conclusioni infauste, e il lieto fine del film A prima vista, basato su una storia vera, era finto. Per vedere abbiamo bisogno di aver fatto pratica da piccoli. Per un adulto che abbia chiuso gli occhi nella prima infanzia e li riapra quarant’anni più tardi grazie a un’operazione chirurgica, la realtà non è altro che un’accozzaglia confusa, indecifrabile e a volte terrorizzante di movimenti e macchie colorate. Distinguere una mela dalla fotografia di una mela è impossibile; comprendere a che distanza si trovino le cose è utopia. Salire le scale fa paura perché una gradinata non è un oggetto tridimensionale ma una superficie, varcata da linee senza significato. Il medico che congedandosi ci volta le spalle rimane dove si trovava ma diventa sempre più piccolo. I lampioni giù in strada sono macchie luminose incollate al vetro della finestra; i corridoi dell’ospedale, buchi neri1. Le forme di ciò che ci circonda sono segnalate unicamente dalla luce che le cose riflettono, e una volta giunta al nostro occhio questa luce va a cadere sulla retina, che è una superficie piana. Quello che dovrebbe davvero sorprenderci quindi non è che i reduci dalla cecità vedano il mondo come piatto, ma che tutti gli altri lo vedano tridimensionale. Come può il cervello, macinando una proiezione a due dimensioni, generare l’esperienza di una realtà a tre dimensioni? Per la maggior parte degli psicologi, la risposta è che il nostro sistema visivo (ri)costruisce la tridimensionalità di una scena uti130

lizzando, in maniera automatica e inconsapevole, alcune informazioni o «indizi» – fisiologici, pittorici e cinetici. Nessuno ci deve insegnare come usare questi indizi: impariamo a farlo in modo naturale durante l’infanzia, in una sequenza che si dipana in modo geneticamente prefissato ma che richiede esperienza visiva. Così come impariamo a parlare per semplice immersione nel mondo del linguaggio, impariamo a costruire la realtà per semplice immersione nel mondo visivo. Le limitazioni di chi ha perso la vista prima dei tre anni e la recupera in età adulta mostrano che una breve immersione agli esordi è sufficiente a fissare per sempre la capacità di percepire forme semplici, movimenti e colori; ma la percezione della profondità (assieme a quella di forme complesse, oggetti e facce) è danneggiata in modo irreparabile2. 6.1 Gli indizi fisiologici di profondità [accomodazione] [convergenza] [disparità binoculare]

6.1.1 Accomodazione La nostra lente naturale, il cristallino (ne abbiamo parlato nel capitolo 2) mette a fuoco la luce riflessa dagli oggetti che guardiamo modificando la propria curvatura. Questo processo si chiama accomodazione, e rappresenta un indicatore di profondità perché la curvatura del cristallino dipende dalla distanza dell’oggetto fissato, distanza che il sistema visivo è in grado di calcolare avvalendosi del grado di tensione dei muscoli ciliari. Sulla reale efficacia dell’accomodazione come indizio di distanza nella nostra specie i pareri sono discordi. In linea di principio tale calcolo può essere prodigiosamente accurato: basandosi unicamente sull’accomodazione del suo cristallino, il camaleonte riesce a raggiungere la preda con la lingua con una manovra perfetta. Il cristallino del camaleonte però è un teleobiettivo formidabile, la cui distanza di messa a fuoco va da 3 centimetri a infinito. Il nostro cristallino ha prestazioni più modeste: da 6 centimetri a 6 metri nel migliore dei casi (ovvero per un bambino di 5 anni). Quando l’oggetto fissato si trova a una distanza superiore a 6 metri, i muscoli ciliari sono rilassati e il cristallino mantiene la convessità minima. 131

Fig. 6.1 Il processo di accomodazione è del tutto automatico e inconsapevole, al punto che la maggior parte delle persone è convinta che tutto quanto sia perennemente a fuoco. In realtà, cose vicine e cose lontane non possono essere a fuoco allo stesso tempo. In Dial M for Murder (Delitto perfetto), per riuscire ad avere a fuoco simultaneamente il telefono sul quale Ray Milland compone il numero 6 (la «M») in primo piano e la scena sullo sfondo, Hitchcock fu costretto a far costruire un gigantesco telefono finto. (Foto: S. Roth, © B. Roth. Da H. Morgan, D. Symmes, Amazing 3-D, Boston, Little, Brown & Company, 1982.)

Se tenendo aperto un solo occhio si fissa la punta di una matita e poi la si avvicina gradualmente, a un certo punto per quanto ci si sforzi non si riesce più a vederla a fuoco. Quello è il punto in cui il cristallino ha raggiunto la massima curvatura possibile; tutti gli oggetti più vicini appariranno sfocati. L’esatta distanza di questo punto dipende dall’età: è di 10 centimetri a vent’anni, raddoppia a quaranta e poi aumenta vertiginosamente, toccando 1 metro a sessant’anni e 4 metri a settanta. Questa diminuzione nella capacità di messa a fuoco di oggetti vicini, detta presbiopìa, è dovuta alla perdita di elasticità del cristallino e all’indebolimento dei muscoli ciliari, e comincia a porre problemi seri dopo i quarantacinque-cinquant’anni. È per questo che, da quell’età in avanti, per leggere sono di solito necessarie delle lenti correttive, il cui potere va aumentato di pari passo con il progredire della presbiopia. 6.1.2 Convergenza Quando fissiamo un oggetto gli occhi convergono, in modo che l’immagine dell’oggetto cada sulla fovea di ciascun occhio invece che da qualche altra parte. La convergenza è un indizio di 132

profondità perché l’angolo di cui gli occhi devono convergere dipende dalla distanza dell’oggetto fissato, cioè è tanto più grande quanto più vicino si trova l’oggetto; il sistema visivo è in grado di calcolare tale distanza basandosi sul grado di tensione dei muscoli oculomotori. Se ci si fa caso questa tensione è ben avvertibile, come si può sperimentare fissando il dito indice mentre si tiene il braccio teso e continuando a fissarlo mentre lo si avvicina gradualmente al naso. Come nel caso dell’accomodazione, il raggio d’azione della convergenza è limitato a 6 metri circa, perché quando l’oggetto fissato si trova a una distanza superiore l’angolo formato dai due occhi è pari a zero. Le pupille si trovano in tal caso esattamente al centro degli occhi, mentre quando l’angolo di convergenza è superiore a zero le pupille appaiono più vicine al naso. 6.1.3 Disparità binoculare Un mio conoscente ama raccontare un imbarazzante episodio di cui è stato protagonista nel corso di una cena importante. Dopo Fig. 6.2 Quando fissiamo qualcosa di molto vicino, gli occhi ruotano l’uno in direzione dell’altro (convergenza). Se le immagini dirette ai due occhi vengono deliberatamente disallineate fin dalla nascita, per esempio con un apparecchio come quello che porta questa scimmietta, in meno di due mesi l’animale perde completamente e irreversibilmente la capacità di usare la visione binoculare per percepire le distanze. La capacità di far convergere perfettamente gli occhi durante l’infanzia è indispensabile affinché i neuroni binoculari della corteccia visiva vengano correttamente stimolati da entrambi gli occhi. Questi neuroni sono inizialmente plasmabili, così da poter aggiustare in modo coordinato le proprie risposte man mano che, con l’ingrossarsi della testa durante la crescita, la distanza fra gli occhi aumenta. (Foto: da M.L.J. Crawford, G.K. von Noorden, Optically induced concomitant strabismus in monkeys, in «Investigative Ophthalmology and Visual Science», n. 19, 1980, pp. 1105-1109.)

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avere cavallerescamente versato il vino alla signorina seduta di fronte a lui, insospettito dal fatto che il livello del vino nel bicchiere non aveva dato affatto l’impressione di aumentare, si rese conto con sconcerto di averglielo versato invece nella minestra. Non ho mai provato il minimo interesse scientifico per questa storia finché non mi è accaduto di scoprire, qualche tempo fa, che questo giovanotto è completamente cieco da un occhio. Un’accurata percezione delle distanze fra gli oggetti dipende in larga misura dal fatto di avere due occhi, e più specificamente dal fatto che essi, essendo situati a 7 centimetri circa l’uno dall’altro, vedono il mondo da due punti di vista lievemente diversi. Normalmente non ce ne accorgiamo, poiché il cervello combina le informazioni provenienti dai due occhi; possiamo però rendercene conto guardando uno stesso oggetto alternativamente prima con un occhio e poi con l’altro. Allungate completamente il braccio e osservatevi la mano. Se aprite e chiudete un occhio alla volta, potete notare come la differenza fra le due immagini non sia molto grande. Ora ripetete l’esperimento, ma questa volta piegate il braccio in modo che la mano si trovi molto più vicina a voi rispetto a prima: la differenza fra le due immagini è aumentata notevolmente. Questa differenza è detta disparità binoculare, e rappresenta un indizio di profondità perché, come abbiamo appena visto, dipende dalla distanza dell’oggetto fissato: è tanto più grande quanto più l’oggetto è vicino. La capacità di calcolare la profondità a cui diversi oggetti si trovano basandosi sull’entità della disparità binoculare corrispondente è detta stereopsi. Il fatto che una piccola disparità fra due immagini altrimenti identiche sia sufficiente a provocare una vivida impressione di profondità è dimostrato dallo stereoscopio, un dispositivo che permette di presentare separatamente ai due occhi due diverse immagini. Se queste due immagini consistono in fotografie della medesima scena scattate da due punti di vista leggermente diversi, quel che si vede guardando attraverso lo stereoscopio è un’immagine unica, dotata di una tridimensionalità spettacolare e assolutamente indistinguibile da quella di una scena osservata direttamente. La stereopsi richiede un perfetto allineamento dei due occhi, 134

Fig. 6.3 La stereopsi richiede che gli occhi siano posti frontalmente, in modo che ciascun occhio riceva un’immagine leggermente diversa dello stesso oggetto e che il cervello possa combinare i due punti di vista in una singola immagine tridimensionale. Il cane, originariamente un predatore, ha occhi frontali, mentre il cavallo, che è un erbivoro, ha occhi laterali. Occhi laterali creano un campo visivo di quasi 360 gradi – proprio quel che ci vuole per un erbivoro, che ha bisogno di accorgersi in tempo dell’approssimarsi di un predatore. Occhi frontali vanno ovviamente a scapito della visione panoramica, rendendo l’animale vulnerabile ad attacchi alle spalle. Nei predatori, questi inconvenienti vengono compensati dai vantaggi della stereopsi: una migliore percezione della distanza e soprattutto la possibilità di individuare prede la cui strategia difensiva è quella di mimetizzarsi con il proprio sfondo e immobilizzarsi al primo sentore di pericolo (visti con un occhio solo, questi animali risulterebbero invisibili). Viene naturale chiedersi come mai siamo provvisti di occhi frontali pur non essendo mai stati predatori. Una possibilità è che la nostra visione stereoscopica si sia evoluta per permettere una stima precisa della distanza fra un ramo e l’altro durante gli spostamenti sugli alberi e per favorire la presa di insetti, piccoli frutti e fiori ricchi di nettare, componenti significative della dieta dei nostri antenati arboricoli. Un’ipotesi alternativa più recente, sostenuta da prove e argomenti persuasivi, è che nelle scimmie l’evoluzione della stereopsi sia stata guidata dalla necessità di individuare speditamente i primi predatori, i serpenti (stritolatori prima, velenosi poi), che tipicamente si mimetizzano con lo sfondo e si immobilizzano all’approssimarsi della preda3. Mentre altri mammiferi (come certi scoiattoli e, parzialmente, i gatti) hanno partecipato a questa corsa agli armamenti evolvendo una resistenza fisiologica al veleno di serpente, i nostri antenati lo avrebbero fatto aumentando, mediante la stereopsi, la probabilità di vedere i serpenti in tempo utile. (Foto: Paola Bressan, 2001. Dei due soggetti qui ritratti, il predatore è Gomma, il cane dell’autrice.)

una fortuna che il 10% circa delle persone non ha. Questi individui non traggono alcun vantaggio dall’utilizzazione combinata dei due occhi, e non vedono nulla di speciale guardando con uno stereoscopio. Un disallineamento talmente minimo da passare inosservato può essere sufficiente a impedire la stereopsi, perché 135

rende impossibile fissare un oggetto con entrambi gli occhi contemporaneamente. Se gli occhi fissano cose diverse non vi è corrispondenza fra le due immagini retiniche; per il cervello, l’unico modo di risolvere la confusione è quello di sopprimere la consapevolezza visiva di una delle due immagini. Lo strabismo andrebbe corretto chirurgicamente prima dell’età scolare, prima cioè che le sue conseguenze diventino irreversibili.

Fig. 6.4 Benché a prima vista sembri meno interessante delle altre, questa figura contiene una sorpresa. Una delle due immagini è stata generata disponendo casualmente quadratini bianchi e neri. La seconda immagine è identica alla prima, fatta eccezione per il fatto che una regione quadrata centrale è stata leggermente spostata di lato. Se le due immagini vengono guardate attraverso uno stereoscopio, questa differenza dà origine a un netto dislivello in profondità: si vede un’unica superficie con un buco quadrato al centro, che lascia intravvedere una tessitura posta a una certa distanza. Se non si dispone di uno stereoscopio, vi sono altri modi per ottenere una singola immagine a partire da due immagini leggermente diverse poste l’una vicino all’altra: il trucco è sempre quello di far sì che ciascun occhio ne veda una sola. Incrociare gli occhi è il sistema più economico, ma richiede abilità e una certa pratica. (In questa figura, se si incrociano gli occhi il quadrato centrale sembrerà fluttuare davanti alla figura, anziché dietro.) Una tecnica apprezzata dai principianti è quella di porre un cartoncino verticalmente fra le due immagini e nell’appoggiarvi la fronte, in modo che l’occhio sinistro veda solo l’immagine a sinistra e che l’occhio destro veda solo l’immagine a destra. (Si chiuda prima un occhio e poi l’altro.) A questo punto non c’è altro da fare che rilassarsi e aspettare che le due immagini si fondano. La cosa può richiedere una certa pazienza all’inizio, ma si tratta di un’abilità che migliora rapidamente con l’esercizio (Illustrazione: uno stereogramma a punti casuali.)

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Fig. 6.5 Lo strabismo rende impossibile una normale visione della profondità, ma per un pittore, il cui scopo è quello di rappresentare una realtà tridimensionale su una tela bidimensionale, questo può rivelarsi un vantaggio anziché un handicap. Una recente analisi delle fotografie dei volti di 53 artisti (esposte alla National Portrait Gallery di Washington) ha mostrato che moltissimi di essi erano strabici: fra gli altri Picasso, Gustav Klimt, Marc Chagall, Man Ray, Edward Hopper, Roy Lichtenstein. Anche Rembrandt soffriva di strabismo, come i suoi autoritratti rivelano in modo lampante4. L’impossibilità di percepire la profondità stereoscopica in una scena potrebbe rendere maggiormente evidenti attributi che sono cruciali per un artista, quali gli indizi pittorici di profondità e le forme di oggetti e spazi. (Si noti il leggero divergere degli occhi in questo autoritratto di Edward Hopper: Self-Portrait, 1925-30, Whitney Museum of American Art, New York, olio su tela.)

6.2 Gli indizi cinetici di profondità [parallasse di movimento]

6.2.1 Parallasse di movimento Gli indizi considerati fino a questo momento contribuiscono alla nostra percezione della profondità quando siamo fermi e osserviamo una scena immobile. Non appena cominciamo a muoverci, tuttavia, un nuovo e potentissimo indizio entra in azione. La cosa è particolarmente evidente quando, viaggiando in treno o in automobile, si guarda il paesaggio dal finestrino. Gli oggetti vicini sembrano muoversi rapidamente, mentre quelli lontani sembrano spostarsi più lentamente e quelli lontanissimi, come le montagne, appaiono fermi o quasi. La differenza di velocità nel movimento apparente di oggetti posti a distanze diverse genera una sorta di gradiente cinetico analogo al gradiente di tessitura che considereremo più avanti, la parallasse di movimento. La pa137

rallasse di movimento funziona come un indizio di profondità perché il nostro sistema visivo è in grado di calcolare le distanze a cui si trovano i vari oggetti basandosi sulla rapidità con cui essi sembrano spostarsi mentre ci muoviamo. La ragione per cui la luna appare seguirci è che essa, essendo talmente lontana da non generare parallasse di movimento, sembra trovarsi sempre alla stessa distanza da noi mentre ci muoviamo – proprio come succederebbe se un oggetto di questo mondo ci seguisse veramente. La parallasse di movimento è egualmente efficace nella situazione inversa a quella considerata finora, cioè quella in cui noi siamo fermi e sono gli oggetti a muoversi. Se due oggetti situati a distanze diverse si muovono alla stessa velocità, sarà infatti l’immagine dell’oggetto più vicino a spostarsi più rapidamente sulla retina. In molti vecchi film, per far credere agli spettatori che un attore stia guidando l’automobile, si fa scorrere uno sfondo dietro la sua testa. L’inganno è molto evidente proprio perché manca la parallasse di movimento: gli alberi in primo piano e le colline sullo sfondo si spostano assieme. La parallasse di movimento è altrettanto efficiente e precisa della disparità binoculare – oltre a essere, in un certo senso, più a buon mercato, dato che non richiede alcun tipo di collaborazione fra i due occhi. Ci si potrebbe quindi chiedere come mai Fig. 6.6 Un esperimento celeberrimo prova che la visione della distanza compare assai precocemente: i piccoli di molte specie, compresa la nostra, evitano di avvicinarsi troppo a un apparente precipizio e mostrano segni di forte disagio se vengono posti su una superficie trasparente che lo sovrasta. In questo caso, l’indizio cruciale è la parallasse di movimento conseguente allo spostamento della testa – le superfici, fondo del precipizio compreso, hanno una tessitura regolare. (Foto: da E.J. Gibson, R.D. Walk, The «visual cliff», in «Scientific American», n. 202, 1960, pp. 64-71.)

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la natura abbia dotato alcuni animali della visione stereoscopica. Il fatto è che gli animali che hanno sviluppato la stereopsi sono di regola predatori. La parallasse di movimento necessita come minimo di un movimento della testa: i predatori, però, hanno bisogno di rimanere assolutamente immobili, non potendo correre il rischio di allarmare la potenziale preda e provocarne la fuga. Questa è presumibilmente una delle ragioni per cui è diventato per loro vantaggioso avere occhi frontali (invece che laterali come quelli dei conigli o delle mucche) e sviluppare la visione stereoscopica. 6.3 Gli indizi pittorici di profondità [interposizione] [grandezza] [ombreggiatura] [indizi prospettici] [efficacia degli indizi pittorici]

Plinio il Vecchio racconta di una gara pittorica fra Zeusi e Parrasio, volta a dimostrare chi dei due fosse il più abile. Zeusi aveva dipinto dell’uva in modo talmente verosimile che gli uccelli erano venuti a beccarla. Quando fu la volta di esaminare il quadro di Parrasio, Zeusi pretese con una certa impazienza che venisse sollevato il drappo che parzialmente lo copriva; il drappo però non era vero, ma dipinto. Questo costò a Zeusi la vittoria (ingannare gli uccelli non è ovviamente altrettanto grave che ingannare un artista). Tutte le parti di un dipinto si trovano fisicamente alla stessa distanza dagli occhi, quindi i valori di accomodazione, convergenza e disparità binoculare sono identici, indipendentemente dalle diverse distanze rappresentate. Se poi ci accade di spostare la testa, la parallasse di movimento manca completamente. Insomma, gli indizi fisiologici e cinetici di profondità tacciono quando guardiamo un dipinto o una fotografia; o per meglio dire, urlano a gran voce che la scena è piatta. È tuttavia innegabile che, in una certa misura, fotografie e dipinti possono dare origine a una vivida impressione di tridimensionalità. Ciò è dovuto all’esistenza di indizi pittorici di profondità, che naturalmente (il nome non vi inganni) sono presenti non solo nei quadri, ma anche nelle scene reali. L’uva del fruttivendolo e il sipario 139

del teatro contengono altrettanti indizi pittorici dell’uva e del drappo dipinti da Zeusi e Parrasio. 6.3.1 Interposizione Un oggetto che nasconda parte di un altro oggetto viene visto automaticamente come il più vicino dei due. Basta guardarsi attorno per capire che questo indizio di profondità, probabilmente il più primitivo dal punto di vista della rappresentazione pittorica (nella storia dell’arte e nella storia artistica di ciascuno di noi), compare un po’ ovunque. L’interposizione è talmente potente da avere la meglio sulla disparità binoculare, quando, in laboratorio, si fa in modo che i due indizi suggeriscano interpretazioni discordanti. 6.3.2 Grandezza Cose più grandi sembrano più vicine di cose identiche ma più piccole. Per capire come mai, bisogna tenere presente che l’immagi-

Fig. 6.7 È l’uso innaturale dell’interposizione a rendere inquietante quest’opera di Magritte: alcune parti del cavallo occludono tronchi e cespugli, ma altre ne vengono a loro volta occluse, apparendo così collocate dietro lo sfondo. Per farvi un’idea di quanto questo indizio sia efficace, tenete a una trentina di centimetri dagli occhi due penne, una per mano, in modo che non si sovrappongano ma che una sia un po’ più lontana dell’altra. Guardatele con un solo occhio: eliminando la visione binoculare, è molto difficile decidere quale è più vicina. Ora, sempre con un occhio chiuso, avvicinate le mani fra loro finché una delle due penne appare davanti all’altra: ogni ambiguità scompare all’istante. (René Magritte, Le blanc-seing, 1965. Da H. Torczyner, Magritte: the True Art of Painting, New York, Abradale Press, 1985.)

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Fig. 6.8 I due segmenti bianchi sono perfettamente identici. Quello a destra però, grazie all’indizio di prospettiva lineare che tratteremo più avanti, appare più lontano e di conseguenza più grande. L’illusione che la luna all’orizzonte sia più grande della luna alta nel cielo è dovuta presumibilmente allo stesso meccanismo: in maniera inconsapevole, calcoliamo la grandezza apparente della luna sulla base della sua distanza apparente. A causa della completa assenza di indizi di profondità, il cielo che ci sovrasta appare più vicino del cielo all’orizzonte. Quando, mediante un sistema di specchi, si fa in modo che la luna alta in cielo sembri vicina all’orizzonte, e che la luna all’orizzonte venga vista contro lo sfondo omogeneo del cielo, la direzione dell’illusione si inverte. (Immagine: © IllusionWorks. Per gentile concessione di Al Seckel.)

ne retinica di un oggetto diminuisce man mano che l’oggetto si allontana (l’altezza si dimezza ogni volta che la distanza raddoppia). Se due oggetti fisicamente uguali proiettano immagini retiniche di dimensioni diverse, quindi, quello che proietta l’immagine retinica più piccola deve essere più lontano dell’altro. Simmetricamente, se due oggetti proiettano immagini retiniche uguali ma sono a distanze diverse, il più lontano deve essere più grande. Questa dipendenza della grandezza apparente dalla distanza apparente è alla base di curiose illusioni. Se, per esempio, si osserva intensamente una mosca appoggiata al vetro della finestra e si riesce a proiettarla mentalmente sul muro della casa di fronte, la mosca si trasforma in una creatura di proporzioni mostruose. Questo metodo ha il difetto di richiedere un notevole potere di concentrazione, ma un effetto della stessa natura, per quanto meno emozionante, si può ottenere con facilità fissando per circa un minuto una figura bene illuminata (anche l’immagine di una mosca: ne trovate una in Figura 6.18). Volgete quindi lo sguardo su una superficie vicina a voi, ad esempio il piano del tavolo al quale siete seduti, e vedrete un’immagine consecutiva di una certa grandezza (di immagini consecutive abbiamo parlato nel capitolo 3). Ora guardate una superficie più lontana, come la parete della stanza: che cosa accade all’immagine con141

Fig. 6.9 Se vi trovaste sul bordo della piscina le teste dei quattro Beatles vi sembrerebbero delle stesse dimensioni, ma la foto mostra che in realtà esse proiettano sulla vostra retina immagini ben diverse. Chiudete le mani a pugno e tenete i pollici alzati di fronte a voi, all’altezza degli occhi, a una distanza di una ventina di centimetri. Ovviamente, i pollici sembrano della stessa grandezza. Ora tendete completamente un braccio in modo che il pollice corrispondente si trovi a una distanza all’incirca tripla rispetto a prima. I pollici continuano a sembrare grandi uguali (costanza di grandezza), nonostante il più vicino sia ora il triplo dell’altro. Mantenendo i pollici a distanze diverse, spostateli lateralmente finché non li vedrete uno accanto all’altro. Chiudete un occhio e, tenendo la testa immobile, confrontatene la grandezza: d’un tratto, essi appaiono l’uno gigantesco e l’altro minuscolo. Chiudendo un occhio e rimanendo fermi avete eliminato i più importanti indizi di profondità (la disparità binoculare e la parallasse di movimento), e con essi la costanza di grandezza. (Foto: John Loengard. Da D.E. Scherman [a cura di], The Best of Life, New York, Time-Life Books, 1973.)

secutiva? La sua grandezza aumenta proporzionalmente alla distanza della parete. Il nostro sistema visivo in qualche modo «aggiusta» la grandezza di un oggetto sulla base della distanza alla quale l’oggetto sembra trovarsi; è come se dilatasse le immagini degli oggetti a seconda di quanto sono lontane. Nel caso dell’immagine consecutiva possiamo assistere direttamente a questo processo di dilatazione, perché la corrispondente immagine retinica è fissa e non si rimpicciolisce quando proiettate l’immagine consecutiva sulla parete. In condizioni normali, però, questo meccanismo, noto come costanza di grandezza, assicura che gli oggetti appaiano sempre della stessa grandezza indipendentemente dalla loro distanza. La costanza di grandezza dipende da una corretta percezione della distanza alla quale l’oggetto si trova. Se gli indizi di distanza vengono progressivamente eliminati, la costanza di grandezza si indebolisce fino a sparire del tutto; a questo punto, la grandezza dell’oggetto è determinata unicamente dall’angolo visivo che esso sottende sulla retina. 142

Due oggetti la cui grandezza viene sempre percepita in questo modo sono il sole e la luna. Essi ci appaiono più o meno delle stesse dimensioni, tanto è vero che durante un’eclissi di sole il disco della luna copre quasi perfettamente il disco del sole. Questo è dovuto al fatto che, per coincidenza, luna e sole sottendono sulla nostra retina il medesimo angolo visivo. La luna è piccola, ma vicina; il sole è grande, ma lontano. Se luna e sole venissero percepiti in accordo con le leggi della costanza di grandezza, il sole apparirebbe quasi 400 volte più grande della luna; la ragione per cui ciò non avviene è che non abbiamo modo di giudicare le distanze relative dei due corpi. Non sono state le distanze celesti, ma quelle terrestri a guidare la nostra evoluzione. La costanza di grandezza viene meno anche in altre situazioni, che in una prospettiva evoluzionistica sono irrilevanti quanto le dimensioni degli astri: ad esempio per distanze di osservazione abnormi (dall’oblò di un aereo in fase di atterraggio, alFig. 6.10 L’inquadratura di questa foto di Parigi taglia via le normali informazioni prospettiche di profondità; sopravvivono solo gli indizi di interposizione e grandezza relativa. Ne risulta un’innaturale distorsione del rapporto dimensionale fra la Tour Eiffel sullo sfondo e la statua in primo piano. In alcuni casi clinici, ad esempio in individui deprivati di una normale esperienza visiva nell’infanzia, gli indicatori di profondità possono risultare inutilizzabili anche quando sono ben presenti nella scena. Persone quasi cieche che riacquistano la vista in seguito a un’operazione hanno grosse difficoltà a capire che uscendo da una finestra del sesto piano si farebbero male. Anche se l’aver recuperato la vista parrebbe in teoria un motivo di esultanza, gli individui operati in età adulta si risvegliano spesso in un mondo che appare caotico e incomprensibile, e tendono a sviluppare forti depressioni. (Foto: Paola Bressan, 1990.)

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Fig. 6.11 «Mi scusi se ho urlato, credevo lei fosse molto più lontano». In assenza di altre informazioni di profondità, la conoscenza delle dimensioni normali di un certo oggetto tende a influenzare la distanza a cui ci appare. Questo indizio è detto grandezza familiare. In Brasile, la testa di alcuni grossi insetti del genere Fulgora riproduce in dettaglio impressionante la testa di un alligatore; sono compresi un falso occhio, una falsa narice e falsi denti, ottenuti da una combinazione di colore e rilievo. Sembra che il valore selettivo di questo adattamento consista nell’indurre gli uccelli, per cui questo insetto è una preda, a credere di trovarsi di fronte a un alligatore, che per gli uccelli rappresenta un predatore. Naturalmente la testa dell’insetto è molto più piccola della testa di un vero alligatore, ma gli uccelli insettivori tendono a esplorare l’ambiente lanciando brevi occhiate in rapida successione, e fanno scarso uso della visione binoculare. In mancanza di altri indizi di profondità, la distanza apparente di un oggetto familiare è determinata unicamente dalla grandezza della sua immagine sulla retina. L’improvvisa comparsa della testa dell’insetto nel campo visivo, quindi, scatena una reazione di fuga pari a quella prodotta dall’avvistamento a distanza di un pericoloso alligatore5. (Illustrazione: Playboy. © 1971 by Playboy.)

beri e case sembrano quelli di un presepio), oppure in assenza di illuminazione continua. Se una scena viene osservata in condizioni di illuminazione stroboscopica (ovvero, la luce viene accesa e spenta rapidamente e ritmicamente come succede in molte discoteche), uno stesso oggetto sembra ingrandirsi quando si avvicina e diventare più piccolo quando si allontana6. 6.3.3 Ombreggiatura Quando la luce colpisce un oggetto solido, alcune parti dell’oggetto risultano normalmente più illuminate di altre. Il rapporto fra luci e ombre dipende dalla struttura tridimensionale dell’og144

getto ed è in grado di creare una forte impressione di profondità in rappresentazioni bidimensionali. Questo rappresenta un problema per creature i cui sforzi per nascondersi, rimanendo immobili o adottando un colore simile a quello del proprio sfondo, vengono vanificati dalle differenze di chiarezza create dalla luce che le illumina, rivelandone la solidità. La soluzione è quella di diventare il più piatti possibile: o temporaneamente, rannicchiandosi nel momento del pericolo, o morfologicamente e una volta per tutte, come hanno fatto le falene e le sogliole. Una soluzione di compromesso, adottata indipendentemente da un gran numero di specie diverse, è quella di compensare il gradiente di chiarezza generato dalla luce con un contro-gradiente. Avrete notato che moltissimi animali hanno una colorazione più scura nelle zone superiori del corpo (la testa e il dorso, ad Fig. 6.12 Quali sono le sfere e quali le cavità? Nella figura in alto, nella quale la luce sembra provenire da un lato, è difficile dirlo. Nelle altre due figure, ottenute ruotando la prima di 90 gradi in senso rispettivamente antiorario e orario, l’impressione di tridimensionalità è molto più forte, e dopo qualche istante i due gruppi vengono segregati chiaramente. Confrontando fra loro queste due figure, notate che la posizione dell’ombra è sufficiente a invertire la profondità percepita (da concavo a convesso e viceversa) sulla base dell’assunzione che la luce provenga dall’alto, come nel nostro mondo illuminato dal sole7. Per i polli è lo stesso. Se una fotografia come quella di mezzo viene presentata a pulcini che sono stati allevati in un mondo privo di ombre, e condizionati a beccare, per esempio, cavità anziché protuberanze, essi colpiscono col becco quelle che a noi sembrano cavità (ombra in alto), anziché quelle che a noi sembrano protuberanze (ombra in basso). In altre parole, anche i pulcini «assumono» che la luce provenga dall’alto; e che tale assunzione non sia frutto dell’esperienza del singolo pulcino è dimostrato dal fatto che i risultati non cambiano se gli animali sono stati cresciuti sin dalla nascita in gabbie in cui la luce proveniva dal basso. (Illustrazione: Paola Bressan.)

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Fig. 6.13 L’intagliatore che ha appena scolpito questo magnifico cervo ha abbandonato il tavolo di lavoro per qualche istante. Il cervo è lì sotto i vostri occhi, testa in basso e zampe in alto: ma dove? Se proprio non riuscite a vederlo, capovolgete il libro. L’assunzione che la luce provenga dall’alto è così tenace che, non appena rimettete diritta l’immagine, i rilievi ridiventano incavature, per cui la figura si trasforma in sfondo e il cervo scompare un’altra volta. (Illustrazione: © Walter Wick. Per gentile concessione di Al Seckel.)

esempio) e più chiara nelle zone inferiori (come la gola e la pancia). Questo vale soprattutto per animali che sono attivi durante il giorno e rispondono all’avvicinarsi di un pericolo immobilizzandosi. Quando un animale si trova all’aperto, la luce del sole rende la parte superiore del suo corpo più chiara di quella inferiore. Gli animali che hanno questa particolare colorazione, dunque, sono più scuri nelle parti più esposte alla luce del sole, e più chiari nelle parti che tendono a restare in ombra. Questa colorazione funziona come una sorta di contro-ombreggiatura, annullando la differenza di chiarezza provocata dalla luce, e rendendo l’animale piatto e privo di corporeità (quindi meno visibile a potenziali predatori). In alcuni pesci semitrasparenti, la contro-ombreggiatura può estendersi perfino agli organi interni. I bruchi che vivono sulla pagina inferiore delle foglie hanno sviluppato una contro-ombreggiatura invertita: hanno infatti la regione ventrale, che è più illuminata, più scura della regione dorsale. 146

6.3.4 Indizi prospettici [prospettiva lineare] [gradiente di tessitura] [prospettiva aerea] [posizione rispetto all’orizzonte]

Prospettiva lineare Fra tutti gli accorgimenti utili a simulare la profondità in un quadro, la prospettiva lineare è senza dubbio fra i più influenti. La rappresentazione prospettica di una scena è caratterizzata dal fatto che le linee che nella scena sono fisicamente parallele convergono, nella rappresentazione, verso un punto situato all’orizzonte. Eccezion fatta per i rari momenti in cui contempliamo dal punto di vista adatto lunghe strade o viali, binari ferroviari, colonnati dorici o filari di pioppi cipressini, è difficile che si faccia caso alla presenza della prospettiva in scene reali, tanto è vero che la sua comparsa nella storia dell’arte è recentissima. In realtà la vera prospettiva geometrica, così come viene catturata da una fotografia, tende ad apparire innaturale; per esempio, gli oggetti lontani sembrano troppo piccoli e i grattacieli fo-

Fig. 6.14 L’apparente inclinazione di una strada dipende dall’altezza della linea dell’orizzonte. Se il punto verso il quale i bordi della strada sembrano convergere si trova sopra la linea dell’orizzonte, la strada appare in salita; se si trova sotto, la strada appare in discesa. Quando la linea dell’orizzonte è nascosta dalla vegetazione, il contesto può influenzarne la collocazione percettiva, e ne possono derivare errori di valutazione automatici, impossibili da correggere anche quando sappiamo come le cose stanno in realtà. In questo bivio a Montagnaga, in provincia di Trento, la forte discesa sulla sinistra trascina la linea virtuale dell’orizzonte verso il basso, facendoci vedere una salita sulla destra. In realtà, entrambe le strade sono in discesa. (Foto: da P. Bressan, L. Garlaschelli, M. Barracano, Antigravity hills are visual illusions, in «Psychological Science», n. 14, 2003, pp. 441-449.)

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tografati dal basso troppo convergenti, e a volte sul punto di cadere. Nei quadri la prospettiva appare realistica solo perché gli artisti usano una prospettiva modificata, una via di mezzo fra la proiezione bidimensionale corretta e ciò che i loro occhi vedono (che è il risultato dell’applicazione automatica dei meccanismi di costanza visiva). In certi casi, in particolare quando si guarda verso l’alto, la compensazione visiva per la prospettiva è insufficiente anche in scene reali, e alcuni illustri architetti lo sapevano così bene da utilizzare volutamente una prospettiva invertita: il Campanile di Giotto, a Firenze, è costruito in modo da divergere leggermente verso l’alto, così da sembrare un parallelepipedo perfetto quando viene osservato dal basso. Gradiente di tessitura Noi non viviamo in un mondo omogeneo. Con la possibile e non interessante (dal punto di vista evolutivo) eccezione dei ghiacci eterni, le superfici del nostro ambiente, soprattutto quelle naturali, possiedono di norma una grana o tessitura, sia perché il loro colore non è uniforme, sia perché invece di essere perfettamente lisce sono granulose, grinzose, porose, pelose, squamose, ondulate, bucherellate, bitorzolute, o comunque irregolari. Alcune superfici sono visibilmente costituite da tanti elementi singoli messi assieme, e in tal caso la loro tessitura è ancora più evidente: la scorza dell’ananas, un campo di grano, un tessuto piedde-poule, un dipinto di van Gogh. Quando una tessitura regolare presenta una densità uniforme in ogni sua parte, la superficie si trova davanti a noi su un piano frontale; in questo caso, quanto più gli elementi sono piccoli e fitti, tanto maggiore è la distanza a cui la superficie viene percepita. Il progressivo infittirsi della tessitura in una particolare direzione, invece, significa che la superficie si allontana da noi in quella direzione, e costituisce un indizio di profondità detto gradiente di tessitura. La ripidità del gradiente è legata al grado di inclinazione della superficie: un gradiente molto ripido (in cui cioè la densità aumenti rapidamente) corrisponde a una superficie quasi parallela alla linea dello sguardo, mentre un gradiente meno ripido corrisponde a una superficie più inclinata. 148

Fig. 6.15 Un esempio di gradiente di tessitura. Gli elementi del gradiente (le teste degli spettatori) diventano più piccoli e più vicini fra loro all’aumentare della loro distanza dal fotografo. Si noti che il gradiente di tessitura creato dal progressivo rimpicciolirsi e infittirsi delle teste contiene, di per sé, informazioni di distanza che restano costanti al variare della posizione dell’osservatore; da qualsiasi punto si guardi, per esempio, il numero di teste (unità di gradiente) che ci separano da qualsiasi altra testa ne indica direttamente la distanza. La «psicologia ecologica», che fa capo all’americano James J. Gibson, parte da considerazioni di questa natura per concludere che non c’è bisogno di indizi e di calcoli per ricostruire la terza dimensione: le informazioni necessarie sarebbero già contenute nell’immagine retinica. (Foto: J.R. Eyerman. Da D.E. Scherman [a cura di], The Best of Life, New York, Time-Life Books, 1973. La moda dei film tridimensionali [in questo caso gli spettatori portano occhiali con filtri colorati] esplose negli anni Cinquanta, ma non durò a lungo. In questo tipo di film, sullo schermo vengono proiettate due immagini leggermente sfalsate della stessa scena, e gli spettatori portano occhiali che fanno arrivare una delle due immagini solo all’occhio destro e l’altra solo al sinistro. Il cervello combina le due immagini in una singola immagine tridimensionale.)

Prospettiva aerea I contorni di cose molto distanti – le montagne sono un esempio perfetto – appaiono meno nitidi di quelli di cose più vicine. La ragione è che l’aria contiene microscopiche particelle di polvere e umidità, che fanno deviare i raggi luminosi quando questi le urtano (di diffusione della luce abbiamo parlato nel capitolo 1). Prima di approdare al nostro occhio, la luce riflessa da oggetti più lontani deve attraversare una quantità d’aria maggiore, per cui subisce una diffusione maggiore; i contorni e i det149

tagli di quegli oggetti tendono quindi ad apparire vaghi e sfocati. È per questo che dopo un temporale, quando l’aria è particolarmente pulita, si può avere l’impressione che le montagne siano sensibilmente più vicine. Sulla luna, dove non c’è atmosfera, i crateri lontani ci apparirebbero altrettanto nitidi di quelli vicini. Posizione rispetto all’orizzonte Gli oggetti che si trovano vicino all’orizzonte tendono ad apparire più lontani. Un albero collocato in prossimità della linea dell’orizzonte sembrerà più distante di un albero posto più in basso; di converso, una nuvola vicina all’orizzonte sembrerà più distante di una nuvola che si trovi più in alto. Non è difficile capire perché. Immaginiamo di guardare delle pietre sparse al suolo da un’altezza di un metro e settanta circa – una prospettiva che dovrebbe esserci familiare. Le pietre poste più in alto nella scena (cioè, più vicine all’orizzonte) sono più distanti dal nostro

Fig. 6.16 Il grado di dettaglio e contrasto degli scogli di Portovenere diminuisce progressivamente man mano che essi si fanno più lontani (prospettiva aerea). Oltre a renderle più indistinte, l’atmosfera fa anche sembrare le cose lontane più azzurrastre, perché le lunghezze d’onda corte (che corrispondono alla percezione del blu) vengono diffuse in misura più elevata. Da lontano le montagne appaiono azzurrine, ma da vicino sono grigie, verdi, marroni, mai azzurre. In molte scuole d’arte del XV secolo, l’abitudine di usare tonalità via via più azzurrognole per gli oggetti lontani veniva incoraggiata appendendo davanti agli oggetti da copiare, posti a diverse distanze, una serie di tende azzurre semitrasparenti. (Foto: Paola Bressan, 2001.)

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Fig. 6.17 La sagoma sullo sfondo assume proporzioni minuscole se viene trasportata in primo piano e allineata a quella del signore col cappello. Il conflitto fra gli indizi di posizione rispetto all’orizzonte e di grandezza familiare viene percettivamente risolto con la vittoria del primo. Si noti inoltre che la sagoma «lontana» appare un po’ più grande di quella identica ma «vicina». Infatti, se due oggetti a distanza diversa proiettano immagini retiniche di dimensioni identiche, il più lontano deve essere necessariamente più grande. (Immagine: © IllusionWorks. Per gentile concessione di Al Seckel.)

punto di osservazione. Ora immaginiamo che le stesse pietre siano sparse su un soffitto trasparente sopra la nostra testa. In questo caso ad essere più distanti dal nostro punto di osservazione saranno le pietre poste più in basso nella scena (che sono sempre quelle più vicine all’orizzonte). 6.3.5 Efficacia degli indizi pittorici Fotografie e dipinti, è indiscutibile, possono dare origine a una considerevole impressione di tridimensionalità, e questo vale ancor di più per le immagini televisive o cinematografiche. Tuttavia, la tridimensionalità ottenuta in questo modo è diversa da quella sperimentata in presenza di veri corpi solidi. La perfezione dell’immagine riprodotta in Figura 6.18 può indurre a credere che questa rappresenti una fotografia (anziché, come in effetti è, un dipinto iperrealista), ma è poco probabile che, guardandola, abbiate cercato di allontanare la mosca dalla pagina. L’imbarazzo retrospettivo di Zeusi davanti all’opera di Parrasio è facilmente immaginabile; e le luci dovevano essere piuttosto basse nel caffè di San Jose, California, in cui un avventore cercò di attaccar discorso con una ragazza dipinta sul muro. 151

Fig. 6.18 In questo dipinto iperrealista, uovo al tegamino e mosca appaiono tridimensionali (come in una fotografia), ma non abbastanza da sembrare veri. Una delle caratteristiche più importanti di un’immagine piatta è che, quando l’osservatore muove la testa, gli oggetti raffigurati non cambiano posizione l’uno rispetto all’altro. Un’interessante eccezione a questa regola è rappresentata dagli ologrammi, fotografie che, pur essendo bidimensionali, permettono di sperimentare la parallasse di movimento. Gli ologrammi sono usati spesso sulle carte di credito perché molto difficili da contraffare. (Opera di Rick Goodale. Da C.M. Mette [a cura di], Airbrush Works, Berlino, Benedikt Taschen Verlag, 1990.)

Il fatto è che agli oggetti dipinti o fotografati manca quel carattere di realtà corporea che accompagna, invece, le impressioni prodotte da oggetti che si estendono effettivamente nella terza dimensione. Provate a chiedere come mai disegni e fotografie appaiono piatti, e (sempre che veniate presi sul serio) troverete qualcuno che risponde che è perché, che diamine, sono fisicamente piatti, e oltretutto sappiamo che sono piatti. Questa non è una risposta, e se lo fosse sarebbe una risposta sbagliata. Per quanto controintuitivo ciò possa apparire, infatti, la tendenza a vedere una scena come piatta (indipendentemente dal fatto che lo sia fisicamente, e indipendentemente da quel che sappiamo) è associata alla presenza, nella scena, di specifiche indicazioni di «piattezza»: di quelli, cioè, che potremmo chiamare indizi di bidimensionalità. Uno di questi indizi è la presenza di una cornice visibile attorno alla scena; un altro è l’uniformità della grana della superficie (ovvero un gradiente di tessitura pari a zero), segno inconfondibile che essa è posta frontalmente davanti a noi. Infine, poiché tutti gli oggetti rappresentati su una superficie si trova152

no in effetti alla stessa distanza dagli occhi (a prescindere dal fatto che stiamo fissando quelli in primo piano o quelli che si intravvedono in lontananza), i valori di accomodazione, convergenza e disparità binoculare rimangono gli stessi, e la parallasse di movimento è assente. Se potessimo osservare una scena dalla quale gli indizi di bidimensionalità sono stati rimossi, che cosa vedremmo? È una di quelle belle domande la cui risposta può essere trovata con mezzi propri. Basta mettersi di fronte al televisore acceso, a una distanza di due metri almeno, e utilizzare uno schermo di riduzione (cioè guardare attraverso un forellino, o attraverso il pugno un poco aperto). La distanza rende la grana dello schermo poco visibile e minimizza gli effetti dell’uniformità dell’accomodazione. La visione attraverso il foro toglie di mezzo i bordi dell’immagine e disinnesca quegli indicatori di profondità che in questo caso fornirebbero una diagnosi di bidimensionalità: disparità binoculare e convergenza (che per funzionare hanno bisogno di due occhi) e parallasse di movimento (che per funzionare ha bisogno di un movimento della testa). Osservatori che scrutano la fotografia di una stanza attraverso uno spioncino sono convinti di vedere una vera stanza8; invece il modello tridimensionale di una casa, sistemato al di là di un foglio di plastica trasparente teso all’interno di una cornice, risulta indistinguibile da una sua fotografia9. In altre parole, l’arte di trasformare figure in oggetti solidi consiste nell’eliminare gli indizi di bidimensionalità; e quella di trasformare oggetti solidi in figure, nell’introdurli. 6.4 L’integrazione degli indizi Fuori dal laboratorio, lontano da stereoscopi e spioncini, la nostra percezione della profondità è sufficientemente accurata da permetterci di afferrare gli oggetti al primo colpo e di andare in giro senza sbattere addosso alle cose. Gli indizi sono tanti e hanno natura differente, ma devono in qualche modo venire integrati fra loro, poiché la profondità percepita è unica. La necessità di un’integrazione discende anche dal fatto che 153

Fig. 6.19 Vi sono almeno sette diversi indizi pittorici, mirabilmente integrati fra loro, in questo capolavoro di Caillebotte. Gli ombrelli appaiono tridimensionali (ombreggiatura) e quello sulla destra appare davanti all’altro (interposizione); i passanti appaiono a diverse distanze da chi guarda (grandezza relativa, posizione rispetto all’orizzonte); la superficie della strada appare quasi parallela alla linea dello sguardo (gradiente di tessitura); le sagome e gli edifici sullo sfondo appaiono distanti (prospettiva aerea); la sezione centrale del palazzo sullo sfondo appare più vicina delle sezioni laterali (prospettiva lineare). L’indizio di prospettiva lineare, onnipresente nel nostro mondo urbanizzato ma di poco rilievo nell’ambiente naturale in cui ci siamo evoluti, potrebbe non avere alcuna base biologica, ma diventare un segnale di profondità in seguito a ripetute associazioni con le informazioni fornite da indizi innati, quali la disparità binoculare o l’interposizione. (Gustave Caillebotte, Strada di Parigi con la pioggia, 1877, Art Institute, Chicago. Il modo in cui l’acciottolato riflette la luce indica che per terra è bagnato, e gli ombrelli sono aperti, ma è interessante notare che la pioggia non è direttamente rappresentata.)

quasi tutti gli indizi di profondità forniscono informazioni solo sulle distanze relative fra un oggetto e l’altro, non sulla distanza assoluta degli oggetti dai nostri occhi. Se la distanza alla quale un oggetto si trova fosse irrilevante, sarebbe impossibile stimarne la grandezza assoluta: il campanile di San Marco che svetta a Venezia sarebbe indistinguibile dalla riproduzione collocata nel parco di Italia in Miniatura. Gli unici indizi che forniscono informazioni sulla distanza assoluta degli oggetti sono accomodazione, convergenza e grandezza familiare, indicatori che valgono poco presi singolarmente, ma che potrebbero rappresentare una soluzione al problema qualora lavorassero in interazione, reciproca e con gli altri indizi. In disegni e fotografie solo l’indizio di grandezza familiare ha voce in capitolo. In un mondo tridimensionale, però, l’azione 154

combinata di accomodazione e convergenza è in grado di determinare con discreta accuratezza la distanza assoluta di oggetti che non distino più di qualche metro. Se cancellassimo la figura umana dalla fotografia di Figura 6.20 potremmo ingannarci sulle reali dimensioni della locomotiva, ma non correremmo questo rischio se ci trovassimo la locomotiva di fronte: neppure se ciò accadesse in mezzo al deserto del Sahara, nell’assenza totale di altri oggetti di riferimento. In effetti, i risultati delle ricerche in cui due o più indizi di profondità vengono manipolati separatamente suggeriscono che la profondità percepita non è altro che il risultato di una media ponderata (cioè nella quale a certi indizi, come l’interposizione, viene assegnato un peso maggiore, e a certi altri, come la grandezza familiare, un peso minore) della profondità segnalata da una varietà di indicatori. Inoltre, uno stesso indizio può ricevere pesi molto diversi a seconda di quanto risulta affidabile e informativo in quel particolare contesto; ad esempio, alla disparità binoculare viene assegnato un peso percettivo minore se l’oggetto in questione è lontano, una situazione in cui nel mondo reale le disparità sono minori. L’indizio di disparità binoculare occupa in realtà un posto molto speciale, poiché, facendo la sua comparsa attorno ai tre Fig. 6.20 Negli anni Cinquanta il californiano Ollie Johnston costruì una locomotiva a vapore alta 40 centimetri, perfettamente funzionante. Nella foto, è l’indizio di grandezza relativa a suggerire che la locomotiva ha dimensioni insolite. Dal vero, però, non avremmo bisogno della presenza del signor Johnston per capirlo. (Foto: Richard Hartt. Da D.E. Scherman [a cura di], The Best of Life, New York, Time-Life Books, 1973.)

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mesi e mezzo di età, precede evolutivamente tutti gli altri; le capacità di sfruttare interposizione, grandezza, ombreggiatura, prospettiva lineare e gradiente di tessitura per vedere la profondità emergono, più o meno tutte assieme, solo tra i cinque e i sette mesi. Nasciamo con alcune assunzioni generali sul mondo, e fra queste è certamente compreso l’assioma che il mondo ha tre dimensioni. Nascere con un assioma non è abbastanza, però. La trasformazione del caleidoscopio sul fondo dei nostri occhi in un teatrino di cose e luoghi che corrisponde a quel che c’è là fuori è il prodotto dell’utilizzazione combinata, automatica e al tempo stesso «intelligente», di un gran numero di regole. Se abbiamo in mente lo sviluppo individuale, non sembra necessario assumere che tutte queste regole vengano apprese. D’altro canto, lo sono certamente se per sviluppo intendiamo il lungo corso delle trattative fra organismo e ambiente: se le impariamo in cinque mesi, è perché quei cinque mesi sono stati preceduti da molti milioni di anni.

Sommario 6.1. Non riusciremmo a interagire con gli oggetti se non fossimo in grado di vedere a che distanza essi si trovano. Ma come facciamo a vedere la terza dimensione di una scena se tutto ciò di cui disponiamo è una sua proiezione bidimensionale sulla retina del nostro occhio? La risposta classica a questa domanda è che il cervello ricostruisce la tridimensionalità di una scena utilizzando una serie di indizi di profondità. Alcuni di questi indizi sono di tipo fisiologico, e sono normalmente efficaci solo di fronte a una scena veramente tridimensionale: l’accomodazione del cristallino, la convergenza degli occhi, la disparità binoculare. 6.2. Un ulteriore potente indizio di profondità entra in azione quando ci muoviamo: la parallasse di movimento. 6.3. Quando guardiamo una fotografia o un dipinto in cui la tridimensionalità venga semplicemente rappresentata, gli indizi in gioco sono unicamente di tipo pittorico: interposizione, grandezza, ombreggiatura e vari indicatori prospettici. 156

6.4. È la convergenza dei diversi indizi su un’unica interpretazione tridimensionale (convergenza dovuta a un’integrazione ponderata) a rendere la nostra percezione della profondità così rapida e accurata. La capacità di percepire la terza dimensione è innata, ma ciò non significa che non vi sia posto per l’apprendimento. Dal momento in cui i nostri occhi cominciano a esplorare l’ambiente, grazie alla capacità innata di utilizzare certi indicatori di profondità vediamo le cose a una certa distanza l’una dall’altra e a una certa distanza rispetto a noi. Crescendo, impariamo probabilmente a usare nuovi indizi e a interpretarne altri in modo sempre più preciso ed efficiente.

Per saperne di più Come l’occhio umano mette a fuoco le immagini. Jane F. Koretz e George H. Handelman, in «Le Scienze», n. 241, settembre 1988. Perché dopo i 45 anni circa diventa impossibile leggere senza l’aiuto degli occhiali? Le conseguenze dell’invecchiamento del cristallino in un articolo interessante, anche se piuttosto specialistico. The meaning of the white undersides of animals. Abbott Thayer, in «Auk», n. 13, 1896, pp. 124-129. Il primo ad ipotizzare che le pance bianche degli animali abbiano la funzione di renderli meno visibili fu Abbott Thayer, un eccentrico pittore americano che si diede poi da fare, con alterni successi, per dimostrare le applicazioni pratiche delle sue intuizioni. Fra le altre cose, Thayer brevettò un metodo per mimetizzare le navi da guerra tramite lo stesso tipo di colorazione (bianco per le aree in ombra, grigio-azzurro per quelle esposte al sole).

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Come vediamo il movimento Δ Perché il mondo non si muove quando muoviamo gli occhi Δ Come vediamo il movimento: le basi fisiologiche Δ Illusioni di movimento Δ Il movimento apparente Δ Come percepiamo la velocità Δ Come facciamo a non sbattere addosso alle cose

Ogni volta che guardava il paesaggio dal finestrino del treno in corsa, o i suoi bambini sulla giostra, il tedesco R.W. veniva assalito da nausea e forti vertigini. Quando finalmente si decise a sottoporsi a delle analisi, la risonanza magnetica rivelò lesioni bilaterali alla corteccia visiva – dovute probabilmente a una temporanea deprivazione di ossigeno risalente alla prima infanzia, epoca in cui R.W. aveva sofferto di una pertosse talmente grave da richiedere la respirazione artificiale. Non c’era da stupirsi che avesse le vertigini: ogni volta che muoveva gli occhi, R.W. percepiva il mondo muoversi alla stessa velocità1. 7.1 Perché il mondo non si muove quando muoviamo gli occhi Per un sistema visivo, registrare il movimento non sembrerebbe una cosa tanto complicata. Quando l’immagine di un oggetto si sposta sulla retina, è ovvio che l’oggetto si sta muovendo là fuori nel mondo. Questo ragionamento trascura però un piccolo dettaglio. Anche quando noi ci muoviamo, o giriamo la testa, o facciamo semplicemente scivolare lo sguardo, le immagini degli oggetti si spostano sulla nostra retina: eppure il mondo appare stabile. Come è possibile? La risposta è che, automaticamente e inconsapevolmente, interpretiamo il movimento dell’immagine retinica tenendo conto del movimento degli occhi. Un segnale viene sottratto dall’altro e percepiamo movimento solo se rimane qualcosa, cioè se i due segnali sono differenti. Quando la sua immagine si sposta sulla retina di mezzo grado, diciamo verso sinistra, un oggetto apparirà in movimento se l’occhio è stazionario, immobile se l’occhio 158

si è mosso di mezzo grado verso destra. Allo stesso modo, quando la sua immagine rimane ferma sulla retina, l’oggetto sembrerà immobile se l’occhio è stazionario, in movimento se l’occhio si sta muovendo. Questo spiega come mai un oggetto in movimento, se lo inseguiamo con lo sguardo tanto accuratamente da mantenerne l’immagine fissa sulla retina (come può succedere quando guardiamo un aereo che decolla, o l’andirivieni della pallina durante una partita di tennis), appaia comunque muoversi. È per la stessa ragione che un’immagine consecutiva (ne abbiamo parlato nel capitolo 3), che è come fosse incollata sulla retina, sembra spostarsi in sincronia con il movimento dei nostri occhi. Ma come fa il nostro cervello a «sapere» se gli occhi si stanno muovendo oppure no, in quale direzione, e a che velocità? Se un osservatore i cui muscoli oculari siano stati paralizzati cerca di guardare a sinistra, l’intera scena visiva sembra spostarsi

Fig. 7.1 La sorprendente proprietà di questa figura è che se essa viene fatta oscillare (sono sufficienti i micromovimenti oculari che facciamo inconsapevolmente anche quando cerchiamo di mantenere gli occhi immobili) l’anello si muove illusoriamente rispetto al disco che fa da sfondo. L’effetto è probabilmente legato al fatto che le regioni orizzontali e quelle verticali appaiono muoversi a velocità diverse. Per capirne il perché supponiamo che i centri di due rettangoli uguali, uno posto in orizzontale e l’altro in verticale, siano allineati verticalmente, e che i rettangoli si spostino da sinistra verso destra alla stessa velocità. L’estremità destra del rettangolo orizzontale arriverà a destinazione prima dell’estremità destra del rettangolo verticale, per cui il rettangolo orizzontale sembrerà più veloce. Nell’immagine qui raffigurata, lo sfasamento nelle velocità percepite fa sì che lo spostamento retinico di una soltanto delle due tessiture (non a caso, quella che fa da sfondo) possa essere perfettamente compensata; rispetto a questo sfondo, l’anello appare muoversi. (Illustrazione: adattata da H. Ouchi, Japanese Optical and Geometrical Art, New York, Dover, 1977. La figura originale contiene due dischi sovrapposti, anziché un anello sovrapposto a un disco.)

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rapidamente verso sinistra. Ciò suggerisce che, per il sistema visivo, l’intenzione di muovere gli occhi (l’ordine «occhi, muovetevi») sia equivalente al movimento degli occhi vero e proprio. In condizioni normali, all’ordine seguirebbe immediatamente il movimento: lo spostamento sulla retina dell’immagine di una sedia non verrebbe quindi considerato un’indicazione che la sedia si sta muovendo. Ma se gli occhi non riescono a muoversi, mentre il cervello «crede» che si stiano muovendo, un’immagine retinica immobile significa che la sedia si sta spostando e noi la stiamo seguendo con gli occhi. La situazione gemella è quella in cui gli occhi si stanno muovendo, ma il cervello «crede» che siano fermi. Se si sposta l’occhio dall’esterno, ad esempio comprimendolo delicatamente da un lato con un dito, la scena visiva appare muoversi nella direzione opposta. Evidentemente, in assenza di ordini dall’alto, lo spostamento dell’occhio non viene registrato, e non va pertanto a cancellare il corrispondente spostamento dell’immagine retinica. Il povero R.W. vede il mondo muoversi ogni volta che muove gli occhi perché il segnale interno corrispondente ai suoi movimenti oculari, se c’è, non viene confrontato con lo spostamento dell’immagine retinica. Sembra quindi che sappiamo quello che i nostri occhi stanno facendo in virtù non di quello che stanno davvero facendo, ma di quello che abbiamo ordinato loro di fare. Un più logico sistema basato sul feedback effettivamente proveniente dagli occhi avrebbe evitato questi problemi, ma ne avrebbe creati di peggiori: il messaggio di feedback giunge al cervello troppo tardi per poter cancellare il segnale corrispondente al movimento dell’immagine sulla retina. È pur vero che il segnale retinico (generato sulla retina) deve fare più strada di quello corrispondente all’ordine «occhi, muovetevi» (generato nel cervello): ma affinché i due siano sincronizzati con precisione, quest’ultimo viene leggermente differito. Ecco perché, ogni volta che l’occhio si sposta, l’immagine consecutiva ci mette un po’ di tempo a spostarsi a sua volta: quel ritardo è lì apposta per permettere, quando ci muoviamo nel mondo, una cancellazione precisa al millesimo. La perfezione di questo sistema lascia senza parole. 160

7.2 Come vediamo il movimento: le basi fisiologiche Segregata assieme a una montagna di appetitose mosche morte, una rana morirà di fame. Come altri vertebrati semplici, la rana non riesce a vedere un oggetto a meno che questo non si muova. Diversamente dalle nostre e da quelle degli altri primati, le cellule retiniche della rana sono specificamente progettate per rispondere al movimento, in accordo con la regola che più un animale è stupido, più la sua retina è intelligente. Nella nostra specie, il compito di analizzare il movimento è stato rilevato dal cervello – che sembra dedicare allo scopo, in un modo o nell’altro, almeno 17 aree anatomicamente distinte. Tuttavia, la periferia della nostra retina continua a essere sensibile solo a ciò che si muove. Se si chiede a qualcuno di mettersi di lato e agitare un oggetto, saremo in grado di vedere il movimento e la sua direzione, ma non di identificare l’oggetto. Quando il movimento cessa l’oggetto diventa invisibile, il che ci permette di avvicinarci un po’ all’esperienza della rana. L’estrema periferia della nostra retina è ancora più primitiva: se essa viene stimolata da un movimento non percepiamo assolutamente nulla, ma un riflesso fa ruotare l’occhio in modo che la cosa che si muove venga portata in visione centrale, e diventi quindi identificabile. I margini della retina funzionano quindi da dispositivo d’allarme. Per quanto rispondano vigorosamente a oggetti che si muovono, le cellule della nostra retina non codificano nessuna informazione sulla direzione e la velocità del movimento. L’analisi del movimento viene inaugurata solo nella corteccia visiva, in un’area chiamata V1, che contiene cellule sensibili alla direzione – ovvero capaci di rispondere a un oggetto unicamente quando questo si muove in una direzione specifica. Ovviamente, queste cellule possono reagire solo a ciò che succede all’interno del loro campo recettivo: è come se vedessero il mondo da una finestrina. Ciò presenta un grosso inconveniente: quando un contorno allungato si muove entro questa finestrina, ma le estremità del contorno stanno fuori, la cellula non può sapere in che direzione il contorno si stia davvero muo161

vendo (questo è noto come problema dell’apertura). Ad esempio, una barra verticale che si sposti obliquamente verso l’alto e a destra attraversa una serie di piccoli campi recettivi, ma ognuno di questi può registrare solo la componente di movimento perpendicolare all’orientazione della barra. Nel caso di una barra verticale, questa componente è quella orizzontale, ossia il movimento verso destra; la componente verticale, verso l’alto, non viene registrata perché scorre lungo la barra ed è quindi invisibile. Se pensate a un lunghissimo tubo verticale che si sposta verso l’alto, senza inizio e senza fine, capite subito che è impossibile sapere se si sta muovendo o no. Se il tubo si spostasse anche di lato, ce ne accorgeremmo; ma al movimento verticale di un tubo verticale senza estremità visibili saremo sempre e totalmente ciechi. Le cellule di cui stiamo parlando non possono fare meglio di così. I segnali generati da queste cellule devono quindi essere integrati fra loro, e ciò viene fatto principalmente in un’area del cervello nota come MT (mediotemporale). Nell’area MT i neuroni combinano fra loro i segnali provenienti da gruppi di cellule in V1, col risultato che essi rispondono alla direzione nella quale un contorno si muove indipendentemente dalla sua orientazione; insomma, questi neuroni risolvono il problema dell’apertura. L’intervallo che passa fra la stimolazione dei fotorecettori e l’attivazione di MT è brevissimo, circa 20 millesimi di secondo, il che si confà perfettamente all’idea che quest’area sia coinvolta nella registrazione di informazioni su eventi che possono dover richiedere azione immediata. L’area MT viene attivata non soltanto dall’osservazione di oggetti in movimento, ma anche dall’ispezione di fotografie che li rappresentano (come immagini di atleti che saltano o corrono), e perfino dal semplice atto di immaginare qualcosa in movimento. Se lo si fa con costanza, ripetere mentalmente una certa azione (come un esercizio di ginnastica o un passo di danza) finisce col migliorare l’effettiva prestazione, anche se l’efficacia dell’allenamento mentale resta comunque inferiore a quella dell’allenamento fisico. Pensare a un movimento risveglia quel movimento anche a livello muscolare: immaginare di 162

Fig. 7.2 Alla fine dell’Ottocento, raggiunse fama mondiale un prodigioso cavallo tedesco che faceva di conto battendo lo zoccolo. Ad esempio, se gli si chiedeva quanto fa 2 più 5, il cavallo batteva lo zoccolo 7 volte; quando però nessuno dei presenti conosceva la risposta, non la conosceva neanche il cavallo. Si scoprì in seguito che il cavallo reagiva a minuscoli movimenti involontari di chi faceva la domanda, come un minimo spostamento della testa nel momento in cui veniva raggiunto il numero corretto di colpi. Insomma, il cavallo era davvero geniale: lo era però non perché conoscesse il linguaggio umano e l’aritmetica, ma perché era in grado di rispondere ad azioni ideomotorie per noi impercettibili. Una ricerca condotta all’Università di Padova mostra che il pendolino, usato fin dall’antichità come strumento divinatorio, è mosso in realtà dalle convinzioni o aspettative inconsce di chi lo tiene fra le dita, e non fa altro che amplificare azioni ideomotorie involontarie – anche e soprattutto quando l’operatore è persuaso che il pendolino sia guidato da una forza esterna2. (Il prodigioso cavallo Hans e il suo proprietario durante una delle esibizioni che li resero celebri; fu uno psicologo a scoprire, sulla base di una serie di esperimenti, la reale fonte della sapienza del cavallo. Foto: da S. Vezzani, Che genio quel cavallo!, in «Scienza & Paranormale», n. 58, 2004.)

piegare il braccio sinistro causa una flessione infinitesimale del braccio stesso3. In certe condizioni queste contrazioni minuscole vengono amplificate involontariamente, traducendosi in movimenti veri e propri. Le azioni ideomotorie sono comunissime. Contraiamo a nostra insaputa i muscoli della mano quando l’eroe penzola da un cornicione, quasi potessimo aiutarlo a non mollare la presa; ci torciamo quando la nostra pallina si avvicina troppo lentamente alla buca, quasi potessimo spingerla o influenzarne la direzione. Eventi apparentemente paranormali, come la scrittura automatica durante una seduta spiritica o l’uso del pendolino come strumento divinatorio, sono anch’essi il prodotto di azioni ideomotorie. Essendo di natura in163

volontaria, questi fenomeni si possono verificare anche quando i partecipanti, in perfetta buona fede, sono convinti di non muovere nulla. 7.3 Illusioni di movimento [movimento indotto] [effetto autocinetico] [adattamento al movimento] [effetti consecutivi]

La nostra percezione del movimento non è veridica in ogni possibile circostanza: non sempre vediamo in movimento ciò che nel mondo si muove, e immobile ciò che nel mondo è immobile. Considerare questo come un baco di programmazione sarebbe però ridicolo. Gazzelle che scappano, leoni che balzaFig. 7.3 Anche la percezione di movimenti minimi, come quelli che accompagnano uno starnuto, può essere biologicamente importante. Un singolo starnuto è in grado di produrre un milione di goccioline infette, che scendono al suolo a una velocità inferiore a un centimetro al minuto. All’aperto queste goccioline verrebbero disperse o neutralizzate dalla luce solare, ma in un ambiente chiuso possono durare per settimane. Starnutire è chiaramente un adattamento difensivo volto a liberare il nostro sistema respiratorio dal virus, ma al tempo stesso serve al virus per diffondersi nell’ambiente e infettare nuovi ospiti: un virus del raffreddore che non stimolasse starnuti e abbondanti secrezioni di muco non avrebbe modo di propagarsi. (La fotografia è stata scattata in una stanza buia, usando un sincronizzatore artigianale in grado di rilevare il suono dello starnuto e di attivare, dopo un intervallo prefissato, un flash ad alta velocità. Essendo a corto di saliva la ragazza teneva un po’ d’acqua in bocca; in condizioni normali, la nube prodotta dallo starnuto avrebbe un volume inferiore. Foto: © Andrew Davidhazy. Per gentile concessione dell’autore.)

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no, randelli che volteggiano, massi che rotolano, brutti ceffi che ci inseguono o si danno alla fuga: quando si muovono, gli oggetti sono più importanti di quando stanno fermi. Considerando la frequenza e i potenziali esiti dei nostri incontri con tali oggetti, oggi come un milione di anni fa, non sembra vero che il sistema per la percezione del movimento possa sistematicamente ingannarci. Infatti, non è vero. Ora vedremo che, ben lungi dall’essere difetti di «software», le illusioni di movimento o sono conseguenze inevitabili e biologicamente innocue di limitazioni dell’«hardware» (come gli effetti consecutivi) oppure rappresentano (come il movimento indotto e il movimento apparente) brillanti strategie per porre rimedio a queste limitazioni. 7.3.1 Movimento indotto La luna appare spesso muoversi fra le nuvole, ma sono le nuvole che si muovono, non la luna. (La luna ci mette mezz’ora a spostarsi di una distanza pari al suo diametro, e per quanto la gamma di velocità a cui siamo sensibili sia incredibilmente estesa – 1000:1 – tale spostamento è un po’ troppo lento perché lo si possa percepire.) Questo è un esempio di movimento indotto: un oggetto immobile sembra muoversi quando a muoversi è, in realtà, un oggetto vicino. Il resto del mondo non è visibile, per cui tutto ciò che sappiamo è che i due oggetti cambiano posizione l’uno rispetto all’altro; non c’è modo di accertare quale dei due si stia davvero spostando. Nell’impossibilità di prendere una decisione, il sistema visivo ricorre all’applicazione automatica di una regola prefissata, proprio come, davanti a un caso difficile, un giudice si fa aiutare dalle norme del codice. La regola dice che, dei due, l’oggetto fermo è quello più grande (o che circonda l’altro). Non è certo un caso che la regola sia questa, perché nel mondo le cose che si muovono tendono a essere più piccole dell’ambiente che le circonda, e quest’ultimo è stabile e stazionario. Applicare questa regola ci permette dunque di rappresentarci le cose in modo veridico; con qualche interessante eccezione. L’eccezione di maggiore importanza pratica è che l’oggetto del movimento indotto può essere il nostro stesso corpo – che 165

è, in effetti, piccolo e circondato dal mondo. Se siamo fermi, ma l’ambiente visivo attorno a noi si muove per intero, avremo l’impressione di muoverci. Ecco perché, quando siamo seduti vicino al finestrino su un treno fermo e il treno sul binario accanto comincia lentamente a spostarsi, abbiamo la sensazione di essere noi a partire, mentre l’altro treno appare immobile. Un’illusione basata sul medesimo principio provocò intense emozioni alla fiera di San Francisco, a fine Ottocento. L’Altalena Stregata sulla quale solo i più intrepidi osavano sedersi oscillava avanti e indietro in modo sempre più frenetico, finché fatalmente si capovolgeva. In realtà l’altalena si muoveva pochissimo: a oscillare avanti e indietro era la stanza in cui l’altalena era sospesa. L’effetto era talmente potente da sopraffare le informazioni basate sul senso della gravità, le quali segnalavano che l’osservatore non stava affatto ruotando su se stesso. Effetti come questo ci danno un’idea di quanto siano importanti le informazioni visive anche semplicemente per mantenere l’equilibrio, azione che parrebbe banale – tanto banale che restare in equilibrio su due piedi non ci sembra nemmeno un’azione. Eppure, in una stanza in cui il pavimento è perfettamente stabile ma le pareti si muovono, un adulto barcolla, e un bambino piccolo tende a cadere a terra4. Se provate a restare in equilibrio per un po’ su un piede solo con gli occhi aperti, e poi a fare esattamente la stessa cosa con gli occhi chiusi, vi accorgerete di quanto la differenza sia evidente. Gli occhi ci forniscono informazioni sottili e precise sui piccoli cambiamenti della nostra postura che ci potrebbero far perdere l’equilibrio, permettendo ai nostri muscoli di compiere rapidamente gli aggiustamenti necessari. Le illusioni in cui noi stessi siamo oggetto di movimento indotto sono legate al movimento di ampie regioni nel campo visivo. Prima della recentissima invenzione di treni e stanze oscillanti, ciò accadeva soltanto quando era l’osservatore a muoversi: non c’è da stupirsi che, alle prese con una stimolazione irrimediabilmente ambigua, il nostro cervello compia in modo automatico questo tipo di attribuzione. Anzi, potremmo spingerci oltre e concludere che, ogni volta che ci troviamo in un veicolo che si sposta a velocità uniforme, è solo grazie al movi166

Fig. 7.4 Un modo per illustrare l’importanza delle informazioni fornite dal movimento è quello di presentare immagini create dal movimento stesso. Una tecnica per ottenere questo risultato, introdotta dallo psicologo svedese Johannson negli anni Settanta, consiste nel fissare piccole luci alle principali articolazioni del corpo di un attore (spalle, gomiti, polsi, anche, ginocchia e caviglie) e filmarlo mentre si muove nell’oscurità, in modo che solo le luci siano visibili. Un singolo fotogramma di un film di questo tipo consta di un’accozzaglia irriconoscibile di punti luminosi, ma non appena l’attore comincia a muoversi la percezione di una figura umana è istantanea. Gli osservatori non hanno nessun problema a giudicare se l’attore sia un uomo o una donna, quali movimenti stia facendo, e perfino se stia trasportando qualcosa di pesante. Insomma, il movimento (movimento biologico in questo caso) è in grado di far emergere una struttura da un assetto apparentemente casuale di punti. La percezione del movimento biologico è automatica e non necessita di alcun ragionamento, tanto è vero che non richiede più di un decimo di secondo. (In questa celeberrima fotografia del 1949, Pablo Picasso disegna un centauro nell’aria con una torcia elettrica. L’effetto venne creato tenendo aperto l’otturatore della macchina fotografica, e immortalando Picasso con il flash un attimo prima che, nella completa oscurità, egli iniziasse a disegnare. Foto: Gjon Mili. Da D.E. Scherman [a cura di], The Best of Life, New York, Time-Life Books, 1973.)

mento indotto che abbiamo la sensazione di muoverci. Dal punto di vista della stimolazione visiva, essere in un veicolo immobile circondato da una scena che si muove (come sul set di un film) ed essere in un veicolo in movimento circondato da una scena immobile (come nella vita reale) sono due esperienze perfettamente indistinguibili. Le informazioni non visive provenienti dall’orecchio interno, che dovrebbero segnalarci che ci 167

stiamo muovendo, vengono generate solo quando cambiamo direzione o velocità. Ne consegue che, all’interno di un’auto o di un treno che procedono a velocità uniforme, non abbiamo modo di sapere se è il mondo a muoversi o se siamo noi. Grazie al meccanismo del movimento indotto, «assumiamo» che l’ambiente in movimento che circonda il veicolo sia in realtà immobile, e attribuiamo il movimento a noi stessi, piccoli e circondati dall’ambiente stesso – non diversamente da come «assumiamo» che le nuvole siano ferme, e la luna, piccola e circondata dalle nuvole, si sposti rispetto a esse. 7.3.2 Effetto autocinetico Dopo un po’ che la si guarda, una stella solitaria nel cielo notturno appare spostarsi. Molti avvistamenti di UFO non sono altro che esempi sensazionali di questa illusione, nota come effetto autocinetico. Essa può essere ricreata facilmente chiedendo a un osservatore seduto al buio di guardare un punto luminoso isolato, ad esempio una sigaretta accesa appoggiata su un posacenere all’altro capo della stanza. Dopo un minuto o anche molto meno, il punto luminoso comincia a muoversi di qua e di là, o a scivolare lentamente in una particolare direzione. Una caratteristica singolare di questa straordinaria illusione è che è fortemente soggetta a suggestione. Osservatori diversi si influenzano a vicenda quando si chiede loro di quanto la luce si sia mossa, o in quale direzione. Negli anni Cinquanta due psicologi clinici utilizzarono l’effetto come test di personalità, comunicando ai loro pazienti che la luce avrebbe tracciato delle parole nel buio, e chiedendo loro di leggerle ad alta voce. Alcuni osservatori riferirono frasi lunghe e complesse, spesso relative a faccende altamente personali; uno di essi, indignato, pretese di sapere come gli sperimentatori fossero entrati in possesso di tutte quelle privatissime informazioni5. Inutile precisare che la luce era, in realtà, completamente immobile. La maggior parte delle teorie proposte per spiegare l’effetto autocinetico ipotizza un coinvolgimento dei movimenti oculari, ma l’effetto persiste anche quando il punto luminoso viene fissato in modo estremamente accurato, e non è facile capire come 168

gli ineliminabili, ma minuscoli movimenti oculari involontari potrebbero dare origine a spostamenti percepiti così estesi. Nonostante i molteplici tentativi di spiegarla, questa illusione rimane, per ora, un mistero. 7.3.3 Adattamento al movimento Se guardiamo a lungo qualcosa che si muove in una certa direzione (una processione, ad esempio, o una cascata), diventiamo meno sensibili a quella direzione, proprio come continuare a fissare una superficie rossa diminuisce la nostra sensibilità al colore rosso. Man mano che ci adattiamo al movimento, questo appare rallentare. L’esposizione al tipo di movimento ripetitivo che produce adattamento è relativamente comune quando si guida in autostrada. Le immagini davanti ai nostri occhi si espandono di continuo: alberi e cartelloni pubblicitari si spostano progressivamente dal centro ai margini del parabrezza, diventando sempre più grandi, finché escono dal nostro campo visivo (questo incessante scorrimento di immagini si chiama flusso ottico, e ne riparleremo più avanti). L’adattamento che ne consegue può determinare cambiamenti inconsapevoli nel comportamento di guida. Usando un simulatore (a volte i videogames sono utili) è stato dimostrato che dopo cinque minuti di guida in autostrada non solo si comincia, senza saperlo, a guidare più velocemente, ma si dà anche inizio al sorpasso di altri veicoli mezzo secondo più tardi di quanto si farebbe altrimenti, perché si sovrastima il tempo che ci separa dalla collisione con chi ci precede6. Un accorgimento inteso a ridurre gli effetti dell’adattamento alla velocità è ben visibile all’ingresso delle rotatorie e delle rampe di uscita dalle autostrade, dove è indispensabile rallentare: una serie di strisce bianche parallele, dipinte trasversalmente sulla carreggiata. Lo spazio fra una barra e l’altra diventa progressivamente più stretto, in modo da creare visivamente l’illusione che la velocità della propria auto stia aumentando, e indurre a frenare di più. Questo provvedimento è stato introdotto di recente, ma si è diffuso in fretta perché è stato dimostrato che riduce davvero il numero di incidenti. 169

Fig. 7.5 Questa spirale appare pulsare e può provocare una sensazione di nausea. Una spirale posta in rotazione, ad esempio sul piatto di un vecchio giradischi, genera un movimento continuo di espansione o contrazione. Un’area del nostro cervello contiene cellule con campi recettivi molto estesi, sensibili a movimenti complessi quali quelli radiali, circolari e a spirale. Questi neuroni sono fortemente influenzati dai movimenti oculari, e si pensa che siano implicati nella nostra rappresentazione visiva dell’ambiente mentre ci muoviamo in avanti, un’azione che produce, sulla nostra retina, strutture in continua espansione. La velocità di espansione dell’immagine retinica di un oggetto aumenta man mano che ci avviciniamo all’oggetto stesso, e una rapida espansione segnala l’imminenza di una collisione. Non a caso, le creature più diverse (compresi bambini appena nati, pulcini e granchi) rispondono a stimoli visivi di questo tipo cercando di scansarsi. (Illustrazione: Akiyoshi Kitaoka, Spinning Vortex. Per gentile concessione dell’autore. Molte altre opere di Kitaoka, basate su illusioni visive, possono essere ammirate sul sito www.ritsumei.ac.jp/~akitaoka/ index-e.html.)

7.3.4 Effetti consecutivi L’adattamento al movimento ha anche risvolti meno pericolosi. Se, dopo aver fissato per un po’ qualcosa che si muove, si sposta lo sguardo su un oggetto immobile, questo apparirà muoversi in direzione opposta a quella di adattamento – per la stessa ragione per cui, dopo un’esposizione prolungata al colore rosso, il mondo appare verdognolo. Il modo classico di sperimentare l’effetto è quello di guardare una cascata, ma movimenti più complessi danno risultati più interessanti. Se dopo aver osservato ad esempio una spirale in rotazione (che appare contrarsi o espandersi, a seconda del verso in cui ruota) si guarda un qualsiasi oggetto fermo, anche il viso di una persona, questo sembrerà espandersi o 170

contrarsi. L’effetto consecutivo di movimento ha sempre un aspetto paradossale: l’impressione di movimento è netta, ma al tempo stesso gli oggetti che appaiono muoversi (le rocce vicino alla cascata, o i tratti del volto in espansione) non sembrano cambiare posizione. Questo suggerisce che movimento e posizione siano analizzati da meccanismi neurali separati: il cervello riceve informazioni incompatibili dai due sistemi e, non riuscendo a fare altrimenti, accetta entrambe le versioni. Gli effetti consecutivi di movimento sono talmente palesi e bizzarri da essere stati riportati indipendentemente molte volte nel corso della storia. Aristotele li aveva già descritti trecento anni prima della nascita di Cristo, dopo aver fissato le acque rapide di un fiume, ma bisognò aspettare l’Ottocento prima che si sviluppasse un interesse scientifico per il fenomeno. Esperimenti recenti hanno mostrato che l’effetto consecutivo non è legato alla percezione vera e propria del movimento, ma al semplice spostamento dell’oggetto sulla retina. Se guardiamo a lungo una serie di strisce orizzontali che si muovono dall’alto verso il basso tenendo lo sguardo fisso su un punto immobile (condizione in cui le strisce si spostano all’ingiù sulla nostra retina) si produrrà un effetto consecutivo; ma se seguiamo le strisce con lo sguardo (condizione in cui le strisce rimangono stazionarie sulla nostra retina) non accadrà nulla, anche se in entrambi i casi le strisce appaiono muoversi. Allo stesso modo, se seguiamo con lo sguardo un punto che si muove verso il basso davanti a strisce immobili (il che fa sì che le strisce si spostino verso l’alto sulla nostra retina), otterremo un effetto consecutivo di movimento, anche se le strisce appaiono ferme7. Per anni si è congetturato che questi fenomeni fossero una conseguenza ineliminabile del funzionamento delle cellule selettive alla direzione, e ora che è diventato possibile registrarne l’attività nel cervello di scimmie sveglie, istruite a rispondere a certe direzioni di movimento in cambio di succo di frutta, ne siamo certi. In assenza di movimento queste cellule non tacciono del tutto, ma hanno un certo livello di attività spontanea. In seguito al superlavoro determinato dall’esposizione prolungata al movimento in una particolare direzione, per esempio verso il 171

Fig. 7.6 La percezione di eventi molto lenti, come il processo di invecchiamento di un volto, potrebbe non essere qualitativamente diversa dalla percezione di eventi rapidi come il movimento. In entrambi i casi la percezione è diretta, e non richiede operazioni cognitive di confronto fra stimoli temporalmente successivi. Quali informazioni utilizziamo quando giudichiamo l’età di uno sconosciuto? Sbarazzandoci di rughe e capelli grigi possiamo ringiovanire di dieci anni, ma non di trenta; la ragione è che, con il tempo, anche la forma del nostro volto cambia. Ognuno di questi volti è stato ottenuto fondendo digitalmente fra loro un gran numero di volti maschili appartenenti alla medesima fascia d’età. Le sette fasce d’età qui rappresentate sono: 20-24, 25-29, 30-34, 35-39, 40-44, 45-49 e 50-54 anni. Lo schema in basso a destra mostra, in grigio, come le posizioni dei tratti del volto si spostano nei trent’anni che separano la prima e l’ultima fascia d’età: la fronte si alza (col retrocedere dell’attaccatura dei capelli), la faccia si allarga, le labbra si assottigliano. L’influenza negativa dell’età apparente di un volto maschile sulla sua attrattiva è minore per donne nate da genitori relativamente anziani. Questo potrebbe suggerire che alcune caratteristiche dei genitori vengono inconsapevolmente utilizzate come modello nella successiva scelta di un compagno. (Illustrazione: da D.M. Burt, D.I. Perrett, Perception of age in adult Caucasian male faces: computer graphic manipulation of shape and colour information, in «Proceedings of the Royal Society of London B», n. 259, 1995, pp. 137-143.)

basso, le cellule specializzate per il movimento verso il basso si affaticano, diventando meno sensibili. Quando lo sguardo viene spostato su un’immagine immobile, il livello di attività di ba172

se di queste cellule è quindi più debole di quello delle cellule specializzate per il movimento verso l’alto. L’immagine immobile sembrerà muoversi verso l’alto perché questa distribuzione di attività (cellule-alto più attive di cellule-basso) segnala normalmente movimento verso l’alto. Chi abbia provato, in un grande aeroporto, a camminare su uno dei lunghi tapis roulant che aiutano i passeggeri a spostarsi rapidamente da un punto all’altro ha certamente sperimentato un effetto consecutivo di movimento molto speciale. Se appena scesi dal tapis roulant si continua a camminare, si ha la sensazione di essere sospinti in avanti da una forza invisibile. Un curioso esperimento ha mostrato che se si chiede a qualcuno di correre sul posto (cioè senza avanzare né arretrare), questi riesce a mantenere la posizione quasi perfettamente. Se però il compito è quello di correre prima per 60 secondi su un normale tapis roulant (che si sposta all’indietro, come quelli usati nelle palestre), poi di scendere e correre sul posto, il corridore avanzerà inavvertitamente alla velocità di 20 centimetri al secondo8. L’effetto è di origine periferica, come prova il fatto che non si trasferisce da una gamba all’altra. Lo sappiamo perché ai partecipanti all’esperimento veniva anche chiesto di saltare ripetutamente sul tapis roulant usando una gamba sola, e una volta scesi di continuare a saltare, sul posto, o con la stessa gamba o con l’altra. Anche questa è scienza. Non sono solo gli esperimenti monotoni e tediosi a condurre a scoperte rilevanti (anzi, quasi mai): nel caso di questo lavoro, possiamo concludere che la nostra andatura è controllata da un sistema che confronta lo sforzo muscolare necessario a muovere ciascuna gamba in avanti con la posizione risultante della gamba stessa rispetto al mondo. È chiaro che questi parametri vengono controllati e aggiornati continuamente: 60 secondi sul tapis roulant sono sufficienti a informare il sistema che, in questo nuovo ambiente, per rimanere sul posto bisogna correre come se si volesse andare avanti. Una volta che il corridore scende sul pavimento, i nuovi parametri diventano però inappropriati (qui se si corre in avanti ci si sposta veramente in avanti) e si manifestano sotto forma di un effetto consecutivo. 173

Fig. 7.7 Nella prima metà dell’Ottocento, in Europa comparvero parecchi giocattoli basati sui princìpi della persistenza visiva e del movimento apparente. Uno dei più popolari era lo stroboscopio o fenachistoscopio, ossia un disco (montato su un’impugnatura) con una serie di immagini disposte tutt’attorno, e una fessura sopra ciascuna, lungo la circonferenza. L’osservatore reggeva il disco fra il proprio volto e uno specchio, con le immagini rivolte verso lo specchio; quando il disco veniva fatto ruotare, attraverso le fessure si vedeva, nello specchio, un’immagine in movimento. Si trattava in pratica di un film in miniatura: grazie alle fessure, infatti, le immagini statiche venivano esposte brevemente, una dopo l’altra. Nel 1910, Max Wertheimer aveva da poco lasciato Vienna per una vacanza in Germania quando venne colpito da un’ispirazione improvvisa. Chi ha tempo non aspetti tempo: sceso dal treno alla stazione successiva, Wertheimer comperò uno stroboscopio giocattolo e affittò una camera nell’albergo più vicino per verificare la sua intuizione. L’idea che gli era venuta era quella di presentare in successione due semplici linee, e di variarne la separazione spaziale e temporale. L’importante non era il movimento apparente in sé, ma capire come e perché esso accadesse. Una verifica apparentemente così banale di un fenomeno già noto diede il via a una nuova scuola, la Psicologia della Gestalt, ed ebbe ripercussioni formidabili nella storia della psicologia. (Foto: da I. Rock, Perception, New York, Scientific American Books, 1984.)

7.4 Il movimento apparente Quasi tutti sanno già che, per quanto ci appaiano perfettamente reali, i movimenti che vediamo nei film sono illusioni. Televisione e cinema prosperano grazie a un raggiro consumato ai danni del nostro sistema visivo – indotto a percepire movimento dove in effetti c’è soltanto una rapida successione di immagini ferme. Molti credono che l’effetto sia spiegato dal fatto che, quando un fotogramma scompare, l’occhio continua a trasmettere segnali al cervello per qualche istante, riempiendo così l’intervallo tra un fotogramma e l’altro. Questa forma di persisten174

za visiva spiega perché il film non sembra lampeggiare, ma non spiega affatto il movimento apparente. In laboratorio, il movimento apparente viene studiato riducendolo alla sua essenza: si presenta un oggetto in una posizione, poi un secondo oggetto in un’altra posizione. Se la distanza e l’intervallo temporale sono appropriati, ciò che si vede è un unico oggetto che si sposta dalla prima posizione alla seconda. Può sembrare poco lungimirante usare condizioni così diverse da quelle naturali, e comunque inutile studiare il movimento apparente – che nella nostra storia evolutiva non abbiamo incontrato mai – per capire come vediamo il movimento reale. Tuttavia, spesso è proprio la dissociazione dalle condizioni sulle quali un sistema si è modellato che ci permette di portare allo scoperto le sue regole interne – proprio come paralizzare l’occhio con il curaro ci aiuta a capire perché, nella vita di tutti i giorni, il mondo non si muove quando guardiamo in giro. Come mai vediamo movimento quando tutto quello che abbiamo davanti è un oggetto immobile, seguito da un altro oggetto immobile? L’ipotesi più semplice è che il movimento apparente derivi dalle proprietà dei neuroni sensibili alla direzione che già conosciamo. Se la stimolazione successiva di cellule retiniche adiacenti attiva quei neuroni, la stimolazione successiva di cellule retiniche un po’ più lontane fra loro potrebbe attivare neuroni simili, dotati di campi recettivi più grandi. Questo è esattamente quel che succede nei pesci, e anche in gatti e conigli. Nella nostra specie, però, il movimento apparente può essere visto anche quando la distanza che separa i due oggetti fermi è talmente grande che è difficile pensare che le due regioni stimolate cadano all’interno del campo recettivo di un unico neurone. Addirittura, possiamo vedere movimento apparente quando il primo stimolo viene proiettato a un emisfero del cervello, e il secondo all’altro emisfero. Ciò suggerisce che il movimento apparente rappresenti una soluzione al problema che si prospetta quando un oggetto sparisce all’improvviso e un altro oggetto compare, altrettanto all’improvviso, da qualche altra parte. Questa sequenza, soprattutto quando è rapida, assomiglia molto a quella del movimento reale, 175

se si eccettua il fatto che in quest’ultimo caso l’oggetto rimane visibile durante il percorso. Tuttavia è stato dimostrato che il percorso di un oggetto che si sposta velocemente da un punto all’altro non è che una scia sfocata, che il sistema visivo non utilizza in alcun modo. Se la posizione iniziale e quella finale vengono coperte, in modo che solo questa scia sia visibile, gli osservatori non percepiscono affatto movimento; mentre questo è ben chiaro quando le posizioni iniziale e finale sono visibili, e la scia non lo è. Insomma, movimento reale e movimento apparente sono sorprendentemente simili, perlomeno ad alte velocità. Questa stretta parentela spiega come mai abbiamo sviluppato la capacità di vedere il movimento apparente in modo così robusto e universale, quando esso era del tutto assente nel mondo in cui ci siamo evoluti. Le condizioni per la percezione di oggetti in movimento rapido (percezione vantaggiosa, anzi indispensabile alla sopravvivenza) si riducono in pratica a quelle del movimento apparente. Nel nostro mondo, disintegrazione e generazione spontanea sono talmente improbabili che, quando un oggetto sparisce e un altro oggetto compare quasi istantaneamente in un altro posto, è bene dedurne che l’oggetto è uno solo, e si è mosso. La stessa idea ci aiuta a capire come mai, per poter vedere movimento apparente, è cruciale che l’intervallo temporale fra la scomparsa del primo oggetto e la comparsa del secondo non sia né troppo breve né troppo lungo. Se l’alternanza è eccessivamente rapida (la sequenza viene presentata più di 40 volte al secondo) non si vede un oggetto in movimento, ma si vedono due oggetti che lampeggiano simultaneamente, ciascuno nella propria posizione. A motivo della persistenza visiva che abbiamo nominato sopra, il primo oggetto è ancora visibile quando il secondo appare, per cui è impossibile che si tratti di un unico oggetto in movimento. Anche quando l’alternanza non è abbastanza rapida (se, per esempio, le due presentazioni sono separate da mezzo secondo o più) si vedono due oggetti che lampeggiano, prima uno e poi l’altro. Pure in questo caso è impossibile che si tratti di un oggetto unico che si muove: per trovarsi nella seconda posizione al momento giusto, esso dovrebbe spostarsi con lentezza tale da risultare visibile fra una posizione e l’altra. 176

7.4.1 Perché talvolta le ruote sembrano girare all’indietro L’esistenza del movimento apparente implica, da parte del sistema visivo, l’aver «deciso» che l’oggetto che compare all’improvviso è lo stesso oggetto che era sparito in precedenza da qualche altra parte. Roba da poco quando l’oggetto è uno soltanto; ma gli oggetti che, in un film, scompaiono e ricompaiono tra un fotogramma e il successivo sono parecchi, e si pone la questione di come facciamo a determinare quale oggetto corrisponde a quale altro. Per risolvere il problema della corrispondenza, il nostro sistema visivo usa sostanzialmente due trucchi: primo, sceglie l’oggetto più vicino a quello che è sparito; secondo, sceglie l’oggetto più simile (in forma, colore e orientazione) a quello che è sparito. Di solito queste due regole individuano il medesimo oggetto, e assicurano che la gamba di una ballerina venga fatta corrispondere alla stessa identica gamba della stessa identica ballerina e non alla gamba di un’altra, anche quando tutte le gambe sono uguali. Naturalmente, se la gamba di Tizia scomparisse e poi riapparisse più lontana di quella di Caia, la corrispondenza verrebbe stabilita in modo scorretto. Questo è esattamente quello che accade nella cosiddetta wagon wheel illusion. Chi vede molti film in costume, western in particolare, non può non aver notato il curioso comportamento delle ruote di diligenze e carrozze. Quando la carrozza comincia a muoversi le ruote ruotano in avanti, ma a mano a mano che il veicolo acquista velocità esse prima si immobilizzano per un istante, poi cominciano a girare all’indietro. Questo succede perché il nostro sistema visivo usa la vicinanza fra elementi successivi come criterio di corrispondenza. Ciascun raggio della ruota occupa in ogni fotogramma una certa posizione; nel fotogramma successivo occupa una posizione diversa, che dipende dalla velocità di rotazione della ruota. Supponiamo che la ruota giri in senso orario. Quando la velocità è molto bassa, nel secondo fotogramma ogni raggio si sarà spostato di poco in senso orario. La distanza fra i raggi del primo fotogramma e quelli del secondo è piccola se misurata in senso orario, grande se misurata in senso antiorario, quindi il principio della vicinanza fra elementi successivi porterà alla corrispondenza corretta e all’impressione che la 177

Fig. 7.8 Il movimento è portatore di informazioni sulla vera struttura tridimensionale degli oggetti, ma solo in determinate condizioni. Se un pezzo di fil di ferro attorcigliato in modo da creare una struttura a spigoli viene posto dietro uno schermo traslucido (come un foglio di carta da forno) e ha alle spalle una fonte luminosa, l’ombra proiettata sullo schermo apparirà piatta. Se però il pezzo di fil di ferro viene fatto ruotare attorno al suo asse verticale, l’ombra fa emergere la struttura tridimensionale dell’oggetto in maniera lampante (effetto cinetico di profondità). Eppure, dal punto di vista proiettivo l’ombra che si distorce sullo schermo è compatibile con una moltitudine di oggetti tridimensionali diversi; ed è oltretutto compatibile con una semplice figura piana che si deforma. In effetti, se l’oggetto di fil di ferro ha una struttura curvilinea anziché spigolosa, si vede una specie di serpentello elastico che si deforma sul piano (anziché una specie di statua di serpentello che ruota rigidamente nello spazio). La ragione è che, in un contorno che formi degli angoli, lo spigolo può essere individuato in (quasi) tutte le posizioni successive della rotazione, permettendo così di risolvere correttamente il problema della corrispondenza; ciò non vale per un contorno curvilineo, nel quale tutti i punti si assomigliano. (Questo ritratto a 360 [e più] gradi mostra come il movimento possa convogliare informazioni sulla struttura tridimensionale di un oggetto in modo utile a un artista. Immagini di questo tipo vengono ottenute facendo in modo che la pellicola fotografica si muova a velocità uniforme dietro una fessura verticale, mentre il soggetto si trova su una piattaforma rotante. La macchina fotografica funziona insomma come uno scanner. Dato che le teste umane non sono cilindri perfetti, e nemmeno riescono a rimanere perfettamente immobili durante la rotazione, questi «ritratti periferici» contengono sempre curiose distorsioni. Foto: © Andrew Davidhazy. Per gentile concessione dell’autore. Si veda anche il sito www.rit.edu/~andpph.)

ruota giri nella direzione giusta. Quando la velocità aumenta, però, si arriverà a un punto in cui la distanza fra i raggi del primo fotogramma e quelli del secondo, misurata in senso orario o in senso antiorario, è la stessa. In questo caso, siccome i raggi sono tutti identici, non c’è modo di sapere se essi stanno ruotando in una direzione o nell’altra. Se la velocità cresce ulteriormente, la distanza fra i raggi del primo fotogramma e quelli del 178

secondo diventa grande se misurata in senso orario, piccola se misurata in senso antiorario; perciò ogni raggio verrà fatto corrispondere a quello che lo precede, anziché a se stesso, e la ruota sembrerà girare in senso antiorario. È stato dimostrato recentemente che questa illusione si verifica non solo per le ruote che vediamo al cinema o alla televisione, ma anche per quelle che vediamo nel mondo reale (le eliche degli aeroplani, i ventilatori, i cerchioni delle auto)9. Qualsiasi figura dotata di raggi, fatta ruotare sul piatto di un giradischi, comincerà a girare dalla parte sbagliata quando la velocità viene aumentata da 33 a 78 giri. Questo potrebbe significare che le informazioni sul mondo ci arrivano in blocchi successivi, invece che in un continuo flusso temporale come si è sempre creduto. Dopotutto, già sappiamo che i continui spostamenti del nostro sguardo modificano l’immagine che cade sulla retina svariate volte al secondo. Se l’acquisizione di una nuova scena viene impedita, la vecchia immagine sbiadisce e scompare rapidissimamente; addirittura nel giro di una frazione di secondo, se l’immagine è perfettamente fissata sulla retina. Insomma, la continuità della scena visiva è un’illusione, e se è così siamo costretti a concludere che vediamo il movimento reale esattamente come vediamo il movimento apparente, confrontando le posizioni di un oggetto in momenti successivi. (Ecco perché i film sono così realistici...) 7.4.2 Perché non ci accorgiamo che la televisione lampeggia Le luci lampeggianti (ad esempio, agli incroci delle strade quando il semaforo non funziona, o sul tetto di veicoli speciali come le automobili della polizia) cercano di solito di attrarre la nostra attenzione. Affinché il lampeggiare sia percepibile, la sua frequenza non deve essere troppo lenta, ma nemmeno troppo rapida. Una luce che lampeggia a una frequenza superiore a 60 lampi al secondo (frequenza critica di fusione) ci apparirà infatti come una luce continua. È per questo che una comune lampada al neon, che si accende e si spegne 100 volte al secondo, non sembra lampeggiare (ma sembrerebbe lampeggiare a un’ape, la cui frequenza critica di fusione si aggira attorno ai 300 lampi al secondo). 179

Fig. 7.9 Un’opera d’arte immobile non può far percepire il movimento in modo diretto, ma parecchi artisti si sono sforzati di incorporare in immagini bidimensionali aspetti del movimento stesso. Un modo per raggiungere questo obiettivo è quello di rendere indistinti i contorni dell’oggetto rappresentato, contando sul fatto che, quando si percepisce un oggetto in effettivo movimento, il suo contorno si sposta in modo continuo sulla retina e non può essere visto nitidamente. Quando la tecnica fotografica divenne sufficientemente sofisticata da poter catturare un oggetto in movimento, ad esempio le ruote di un carro, le risultanti fotografie venivano talvolta ritoccate sfocando i contorni, per farle sembrare più realistiche. (Giacomo Balla, Dinamismo di un cane al guinzaglio, 1912, Buffalo, New York, AlbrightKnox Art Gallery. Il pittore futurista Balla, che chiamò le sue due figlie Elica e Luce, rappresenta qui il movimento raffigurando contemporaneamente diverse immagini di uno stesso oggetto – le zampe e la coda del cane, i piedi della padrona, l’oscillazione del guinzaglio – nella sequenza determinata dal moto.)

La nostra frequenza critica di fusione è più alta della frequenza ideale per ottenere il movimento apparente al cinema, che è pari a 24 immagini al secondo. A questo ritmo, vedremmo le immagini lampeggiare, come nei primi film muti. La soluzione adottata dall’industria cinematografica è stata quella di presentare ogni immagine tre volte prima di passare alla successiva. Ciò si traduce in una frequenza di 72 lampi al secondo, sufficiente a produrre piena fusione, e al tempo stesso in una frequenza di 24 immagini al secondo soltanto, l’ideale per produrre un buon movimento apparente. Quanto alle immagini televisive, che in Italia consistono in 25 fotogrammi al secondo, il problema è stato risolto presentando ogni immagine due volte: prima tutte le righe dispari, una per una dall’alto verso il basso, poi tutte le righe pari. Che l’immagine sembri presente sullo schermo nella sua interezza è quindi un’illusione. Chi ha un cane in casa potrebbe aver notato che il proprio animale non manifesta grande passione per i programmi televisivi, nemmeno quando sono in onda scene di caccia o emozio180

nanti concorsi canini. Non c’è da stupirsene: il cane ha una frequenza critica di fusione superiore alla nostra (fra i 70 e gli 80 lampi al secondo), e la televisione deve apparirgli quindi nella sua nuda, lampeggiante realtà. 7.5 Come percepiamo la velocità Negli Stati Uniti, ogni anno si registrano almeno 8.000 collisioni fra locomotive e altri veicoli. La maggior parte dei passaggi a livello è protetta da cancellate e segnali sonori, e le locomotive sembrerebbero oggetti ben visibili, per cui questi incidenti apFig. 7.10 Quando lanciamo una palla a un bambino piccolo il più lentamente possibile, crediamo di fargli un favore. In realtà, i bambini piccoli sono spesso incapaci di percepire spostamenti lenti, e reagiscono meglio a oggetti lanciati a velocità più sostenuta. La ragione è che nel bambino i neuroni sensibili alle basse velocità sono relativamente pochi, e l’immaturità del cervello ha conseguenze più evidenti per questi pochi neuroni che per i molti che rispondono a velocità maggiori. Sono state le necessità della nostra sopravvivenza a renderci sensibili a certe velocità, come quelle tipiche di persone e animali, e non ad altre, come quella dell’erba che cresce. Alcuni tipi di movimento, ad esempio quello della lancetta delle ore in un orologio, sono troppo lenti per poter essere percepiti. Altri, come lo sfarfallìo di una comune lampadina o lo spostamento del proiettile sparato da una pistola, sono invece troppo rapidi: scene come quella della foto sono per noi impossibili da percepire. Un istante dopo essere stata trafitta dalla pallottola alla velocità di 3.000 chilometri all’ora, questa mela si disintegrò completamente. Fotografie di questo tipo, dette stroboscopiche, richiedono un’esposizione di circa un milionesimo di secondo. Per questa ragione, l’otturatore della macchina fotografica (assai più lento) rimane aperto, e il tempo di esposizione è determinato dalla durata di un lampo di luce, che può essere controllata con la massima precisione. (Foto: Harold E. Edgerton, Shooting the Apple, 1964.)

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paiono veramente incomprensibili. La responsabilità può essere in parte attribuita alla forma di «cecità da disattenzione» di cui abbiamo discusso nel capitolo 5, ma spesso automobilisti e motociclisti sono perfettamente consapevoli della locomotiva in arrivo, e sono semplicemente convinti di fare in tempo a oltrepassare i binari. Secondo alcuni studiosi, questo comportamento è favorito da un errore nella percezione del movimento di oggetti di grandi dimensioni10. È noto fin dagli anni Trenta che la grandezza di un oggetto e la sua velocità apparente sono in relazione inversa11. Se un oggetto grande e uno piccolo si muovono assieme, il grande deve muoversi più velocemente affinché la sua velocità sembri identica a quella del piccolo. In altre parole, oggetti più grandi appaiono muoversi più lentamente. Un fenomeno simile è ben visibile negli aeroporti: benché tutti gli aerei atterrino approssimativamente alla stessa velocità, i grossi jumbo jet sembrano atterrare tanto più lentamente degli aerei più piccoli. Il motivo per cui incidenti di questo tipo sono così frequenti potrebbe quindi essere che, abituati a valutare la velocità di avvicinamento delle automobili, tendiamo a sottostimare quella di veicoli molto più grossi, come i treni, concludendo di avere tempo a sufficienza per attraversare. Quando corriamo con le nostre gambe, facciamo al massimo 16 chilometri l’ora. Le moderne automobili di media potenza hanno aumentato questa velocità di 10 volte, fino a toccare i 160 chilometri all’ora. Sfortunatamente, lo spazio di frenata di un veicolo cresce con il quadrato della sua velocità, da 1,2 metri a 16 km/h fino a 120 metri a 160 km/h: e questo su una strada asciutta in condizioni ideali. Non c’è da meravigliarsi che gli incidenti d’auto siano la principale causa di morte nella fascia d’età compresa fra i 5 e i 44 anni. A questo proposito la scienza della visione non ha molto da dire, ma può almeno aiutare a evitare una categoria di incidenti, quelli dovuti a eccesso di velocità in condizioni di ridotto contrasto. Studi sperimentali hanno dimostrato che la velocità apparente di un oggetto dipende dal suo contrasto (ovvero dalla differenza in luminanza con lo sfondo; di luminanza abbiamo parlato nel capitolo 4)12. Guardare una scena attra182

Fig. 7.11 Quando ci avviciniamo o ci allontaniamo da questa figura fissandone il centro, l’anello appare ruotare. Si tratta di una bella variante dell’illusione di Ouchi (Figura 7.1), e come quella è causata dalla discordanza nelle velocità apparenti di parti diverse dell’immagine. La velocità apparente di un oggetto dipende anche da dove questo si trova nel nostro campo visivo, se in centro o in periferia. Il centro della nostra retina, che comprende la zona che cade sulla fovea o attorno a essa, copre solo il 5% di quello che vediamo; il 95% del mondo viene rappresentato in periferia. Come sappiamo, il centro della retina è tappezzato di coni, la periferia di bastoncelli. I coni formano un sistema ad alta risoluzione (nello spazio e nel tempo) perché ciascun cono ha un suo «cavo» di collegamento indipendente con il cervello, per cui i messaggi provenienti dai coni sono diretti e immediati. Il sistema dei bastoncelli, al contrario, riesce a raccogliere segnali luminosi molto deboli solo sacrificando la propria capacità di risoluzione: la retina somma segnali provenienti da molti bastoncelli diversi, e per un tempo più lungo, prima di trasmettere il messaggio risultante alle stazioni successive del sistema visivo. Ne consegue che in visione periferica gli oggetti non solo hanno meno dettagli, ma sembrano anche muoversi più lentamente. (Illustrazione: Akiyoshi Kitaoka, Tigre; l’originale è in giallo e nero. Per gentile concessione dell’autore.)

verso un filtro semitrasparente ne attenua il contrasto, e ciò accade ogni volta che portiamo occhiali scuri o viaggiamo con i vetri polverosi o appannati. Questo fa sì che le altre auto sembrino muoversi più lentamente, e che gli elementi del paesaggio che scivolano via in corrispondenza dei finestrini laterali, permettendoci di giudicare la nostra velocità, sembrino anch’essi muoversi più lentamente. Morale: tenere i finestrini sempre puliti, e guidare con la massima attenzione quando si portano occhiali da sole. 183

7.6 Come facciamo a non sbattere addosso alle cose Questo non è un problema al quale ci capiti di pensare spesso, ma per lungo tempo gli psicologi della percezione visiva hanno tentato di scoprire come riusciamo ad andare in giro senza scontrarci con gli oggetti che ci circondano. Dobbiamo mantenere la rotta in un mondo complesso, fra oggetti volanti, trabocchetti aperti e ostacoli da scansare, utilizzando informazioni puramente visive. (E potremmo non sopravvivere.) Sembra la descrizione di un videogame, ma la ragione per cui ci piacciono i videogame è che le abilità in gioco sono esattamente quelle che ci sono servite a seminare orsi o lupi nella tundra europea del Paleolitico, e che ci permettono ora di attraversare la strada all’ora di punta. Anche le conseguenze di un eventuale errore di calcolo sono le stesse. Non a caso, dal momento della sua introduzione alla fine degli anni Ottanta, la realtà virtuale è diventata il metodo d’elezione per scoprire quali sono le informazioni visive che, in modo così naturale, utilizziamo durante la locomozione. Come facciamo a raggiungere la porta? Le possibilità sono due: potremmo calcolare la posizione della porta e camminare in quella direzione, o in alternativa tener conto dello spostamento apparente (prodotto dal nostro movimento) degli oggetti presenti nella stanza, cercando di mantenere la porta sempre al centro del flusso ottico. Nel mondo reale è impossibile separare le due strategie e capire quale usiamo davvero, perché entrambe conducono alla stessa destinazione. In un mondo virtuale (nel quale le persone camminano in una stanza vera, con gli occhi coperti da un casco che presenta loro informazioni visive finte, generate da un computer) è possibile invece dissociare posizione e flusso ottico, e fare in modo che le due soluzioni portino in direzioni diverse. Questi esperimenti mostrano che, in un ambiente spoglio e uniforme, è la posizione della porta a pilotarci nella direzione giusta; più l’ambiente si arricchisce di dettagli, come la tessitura del pavimento o oggetti tutt’intorno, più l’importanza della posizione cala e quella del flusso ottico cresce13. Insomma, il nostro controllo della locomozione è così robusto e raffinato perché utilizziamo in 184

Fig. 7.12 La nostra percezione della causalità è strettamente connessa a quella del movimento. Quando tagliamo il pane con il coltello, percepiamo un rapporto di causa ed effetto fra il movimento del coltello e il formarsi delle fette. Voi penserete che questo non sia particolarmente sorprendente, ma lo psicologo belga Michotte scoprì che il fattore più importante nel determinare questa impressione non è ciò che sappiamo e tantomeno ciò che accade realmente, ma quanto tempo intercorre fra il primo evento e il secondo. Usando semplici quadratini in movimento, Michotte dimostrò ad esempio che se A si sposta in direzione di B, quindi A si ferma e B comincia a muoversi a sua volta, vediamo A causare il movimento di B, anche quando sappiamo che i due eventi sono del tutto indipendenti. Ai fini della sopravvivenza, stabilire relazioni causali fra due eventi che si verificano in successione è talmente importante che tendiamo a collegare fra loro anche eventi che accadono uno dopo l’altro per puro caso. L’esperienza di «coincidenze» è il frutto più evidente di questo fervore associativo14. (Per quanto sappiamo benissimo che chi sta incollando il manifesto pubblicitario non sia in alcun modo responsabile dell’espressione del modello, non riusciamo a fare a meno di percepire un rapporto di causa ed effetto. Foto: Garry A. Watson. Da D.E. Scherman [a cura di], The Best of Life, New York, Time-Life Books, 1973.)

modo competente e flessibile strategie diverse in situazioni diverse (notte e giorno, prato e foresta). Questa ridondanza di meccanismi convergenti è, come abbiamo già visto nel caso della costanza di colore o della percezione della profondità, il marchio di fabbrica dei comportamenti di massima importanza biologica – quelli che hanno permesso ai nostri personali antenati di riprodursi, e hanno fatto piazza pulita degli altri. 185

Sommario 7.1. Vi sono due buone ragioni per cui è impossibile che il movimento percepito degli oggetti sia determinato semplicemente dallo spostamento delle corrispondenti immagini retiniche. La prima è che quando muoviamo gli occhi le immagini degli oggetti sulla retina si muovono: eppure il mondo rimane stabile. La seconda è che, quando seguiamo con lo sguardo un oggetto che si muove, la sua immagine rimane ferma sulla retina: eppure l’oggetto appare in movimento. Una rappresentazione veridica del mondo richiede quindi che il movimento delle immagini retiniche venga interpretato tenendo conto del movimento degli occhi. 7.2. L’analisi del movimento viene compiuta nella corteccia visiva, e ha inizio con l’attivazione di neuroni che rispondono specificamente a contorni che si spostano in una certa direzione. I segnali provenienti da gruppi di questi neuroni vengono successivamente confrontati e integrati fra loro. Tuttavia anche questo livello di analisi è limitato, perché è ristretto a movimenti rigidi e bidimensionali. Le cose che si muovono nel nostro mondo sono spesso oggetti solidi; molte sono rigide ma con parti mobili, collegate da articolazioni (come il nostro corpo), oppure fluide e deformabili (come l’acqua o i tessuti). Questo significa che deve esistere un ulteriore stadio di elaborazione, nel quale i segnali di movimento vengono utilizzati, anche con l’aiuto di attributi quali la profondità stereoscopica e le ombre, per ricavare informazioni sulla struttura tridimensionale degli oggetti. 7.3. In seguito a esposizione prolungata a una certa direzione di movimento (adattamento), parti della scena ferme appaiono muoversi in direzione opposta (effetto consecutivo). Un piccolo oggetto fermo appare muoversi quando è circondato da un oggetto più grande in movimento (movimento indotto). Un punto luminoso appare muoversi quando si trova in un ambiente buio (effetto autocinetico). 7.4. Quando un oggetto scompare e un altro oggetto appare da un’altra parte, è possibile percepire un oggetto unico che si sposta dalla prima posizione alla seconda (movimento apparente). Ancor prima dell’avvento del cinema era possibile acquistare giocattoli basati sull’esposizione di immagini statiche in rapida successione, come lo stroboscopio. 7.5. Il movimento specifica non solo dove gli oggetti stanno andando, 186

cioè la loro direzione, ma anche quando ci arriveranno, cioè la loro velocità. La velocità apparente di un oggetto è influenzata da alcune sue caratteristiche, in particolare dalle sue dimensioni (oggetti più grandi, come le locomotive, sembrano muoversi più lentamente di oggetti più piccoli, come le automobili) e dal suo contrasto con lo sfondo (oggetti di minore contrasto, come le automobili in una giornata di nebbia, sembrano muoversi più lentamente di oggetti di maggiore contrasto, come le automobili in una giornata di sole). 7.6. Per muoverci nel nostro ambiente, evitando gli ostacoli e raggiungendo gli oggetti che ci interessano, ci avvaliamo di informazioni visive quali (a) la posizione delle cose rispetto a noi, e (b) la velocità delle varie regioni del flusso ottico, cioè dello spostamento apparente della scena visiva causato dal nostro movimento.

Per saperne di più Fisica ingenua. Paolo Bozzi, Garzanti, 1990. Il sistema visivo interpreta certi tipi di movimento (il moto del pendolo, le traiettorie dei proiettili e la caduta libera) in accordo con le leggi della fisica di Aristotele, benché queste non rispecchino le leggi fisiche della natura. Con i suoi ingegnosi esperimenti, condotti a partire dagli anni Cinquanta, Paolo Bozzi fu un pioniere nello studio della cosiddetta «fisica ingenua», riscoperta negli Stati Uniti solo trent’anni più tardi. What the frog’s eye tells the frog’s brain. Jerome Y. Lettvin, Humberto R. Maturana, Warren S. McCullough e Walter H. Pitts, in «Proceedings of the Institute of Radio Engineers», n. 47, 1959, pp. 19401951. Un articolo classico nel quale si mostra come le cellule della retina della rana funzionino da rilevatori di insetti. Queste cellule provocano un movimento riflesso della lingua della rana ogni volta che una piccola ombra, come quella che segnalerebbe la presenza di una mosca, cade sulla retina. In un certo senso, quindi, la retina della rana si comporta come un cervello. La percezione della causalità. Albert Michotte, Giunti-Barbèra, 1972. Michotte dimostrò sperimentalmente che certi movimenti vengono percepiti come legati da rapporti di causa ed effetto, e che questa im187

pressione, lungi dall’essere un’inferenza cognitiva, è diretta, automatica e immediata. La percezione consiste insomma in una ricostruzione non solo della struttura fisica del mondo, ma anche della sua struttura causale. Nonconscious Movements: From Mystical Messages To Facilitated Communication. Herman H. Spitz, Lawrence Erlbaum Associates, 1997. Una analisi oltremodo interessante dei movimenti involontari e dei «fenomeni» che si basano su di essi, come l’uso della cosiddetta «comunicazione facilitata» con i bambini autistici, la lettura del pensiero, la rabdomanzia, la scrittura automatica.

Note

1. La luce Jablonski, N.G., Chaplin, G., Skin Deep, in «Scientific American», n. 287, 2002, pp. 50-57. 2 Dawkins, R., Where d’you get those peepers?, in «New Statesman & Society», n. 8, 1995, p. 29. 1

2. Il sistema visivo 1 Kobayashi, H., Kohshima, S., Unique morphology of the human eye, in «Nature», n. 387, 1997, pp. 767-768. 2 Thelen, T.H., Minority type human mate preference, in «Social Biology», n. 30, 1983, pp. 162-180. 3 Miller, G., Uomini, donne e code di pavone. La selezione sessuale e l’evoluzione della natura umana, Torino, Einaudi, 2002. 4 Frost, P., European hair and eye color: A case of frequency-dependent sexual selection?, in «Evolution and Human Behavior», n. 27, 2006, pp. 85103. 5 Mason, M.F., Tatkow, E.P., Macrae, C.N., The look of love: Gaze shifts and person perception, in «Psychological Science», n. 16, 2005, pp. 236-239. 6 Kampe, K.K.W., Frith, C.D., Dolan, R.J., Frith, U., Reward value of attractiveness and gaze, in «Nature», n. 413, 2001, pp. 589. 7 Hess, E., Attitude and pupil size, in «Scientific American», n. 212, 1965, pp. 46-54. 8 Hess, E., The role of pupil size in communication, in «Scientific American», n. 233, 1975, pp. 110-119. 9 Dahm, R., Dying to see, in «Scientific American», n. 291, 2004, pp. 5359. 10 Berson, D.M., Strange vision: Ganglion cells as circadian photoreceptors, in «Trends in Neurosciences», n. 26, 2003, pp. 314-320. 11 Milner, A.D., Goodale, M.A., The visual brain in action, Oxford, Oxford University Press, 1995.

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3. Come vediamo i colori 1 Hamilton, W.D., Brown, S.P., Autumn tree colours as a handicap signal, in «Proceedings of the Royal Society of London B», n. 268, 2001, pp. 14891493. 2 Dominy, N.J., Lucas, P.W., The ecological importance of trichromatic colour vision in primates, in «Nature», n. 410, 2001, pp. 363-366. 3 Pullum, G., The Great Eskimo Vocabulary Hoax and Other Irreverent Essays on the Study of Language, Chicago, University of Chicago Press, 1991. 4 Chevreul, M., The principles of harmony and contrast of colors, F. Birren (a cura di), New York, Reinhold, 1839, 19702. 5 Livingstone, M.S., Hubel, D.H., Anatomy and physiology of a color system in the primate visual cortex, in «Journal of Neuroscience», n. 4, 1984, pp. 309-356. 6 Rhodes, G., et al., Attractiveness of own-race, other-race, and mixed-race faces, in «Perception», n. 34, 2005, pp. 319-340. 7 Delk, J.L., Fillenbaum, S., Differences in perceived color as a function of characteristic color, in «American Journal of Psychology», n. 78, 1965, pp. 290-293. 8 Duncker, K., The influence of past experience upon perceptual properties, in «American Journal of Psychology», n. 52, 1939, pp. 255-267. 9 Hill, R.A., Barton, R.A., Red enhances human performance in contests, in «Nature», n. 435, 2005, p. 293.

4. Come vediamo i grigi 1 Bressan, P., The dark shade of the moon, in «Clinical and Experimental Ophthalmology», n. 33, 2005, pp. 574. 2 Li, X., Gilchrist, A.L., Relative area and relative luminance combine to anchor surface lightness values, in «Perception & Psychophysics», n. 61, 1999, pp. 771-785. 3 Bressan, P., The place of white in a world of grays: a double-anchoring theory of lightness perception, in «Psychological Review», n. 113, 2006, pp. 526-553.

5. Come vediamo gli oggetti Pizzighello, S., Cecità a stimoli inattesi: quando ciò che si sente interferisce con ciò che si vede, tesi di laurea (relatore: Paola Bressan), Facoltà di Psicologia, Università di Padova, 2005. 1

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2 Ramachandran, V.S., et al., Rapid adaptive camouflage in tropical flounders, in «Nature», n. 379, 1996, pp. 815-818. 3 Weeden, J., Sabini, J., Physical attractiveness and health in western societies: A review, in «Psychological Bulletin», n. 131, 2005, pp. 635-653. 4 Benson, D.F., Greenberg, J.P., Visual form agnosia: A specific defect in visual discrimination, in «Archives of Neurology», n. 20, 1969, pp. 82-89. 5 Halligan, P.W., Marshall, J.C., Ramachandran, V.S., Ghosts in the machine: A case description of visual and haptic hallucinations after right hemisphere stroke, in «Cognitive Neuropsychology», n. 11, 1994, pp. 459-477. 6 Thompson, P., Margaret Thatcher: A new illusion?, in «Perception», n. 9, 1980, pp. 483-484. 7 Pascalis, O., de Haan, M., Nelson, C.A., Is face processing species-specific during the first year of life?, in «Science», n. 296, 2002, pp. 1321-1323. 8 Webster, M.A., Kaping, D., Mizokami, Y., Duhamel, P., Adaptation to natural facial categories, in «Nature», n. 428, 2004, pp. 557-561. 9 Ibid. 10 Kurzban, R., Tooby, J., Cosmides, L., Can race be erased? Coalitional computation and social categorization, in «Proceedings of the National Academy of Sciences», n. 98, 2001, pp. 15387-15392.

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9 Hochberg, J.E., The psychophysics of pictorial perception, in «Audio-Visual Communication Review», n. 10, 1962, pp. 22-54.

7. Come vediamo il movimento 1 Haarmeier, T., Thier, P., Repnow, M., Petersen, D., False perception of motion in a patient who cannot compensate for eye movements, in «Nature», n. 389, 1997, pp. 849-852. 2 De Biasi, B., Azione ideomotoria e radioestesia: contributo sperimentale allo studio della credenza nei fenomeni paranormali, tesi di laurea (relatore: Paola Bressan), Facoltà di Psicologia, Università di Padova, 1998. 3 Jacobson, L.E., The electrophysiology of mental activities, in «American Journal of Psychology», n. 44, 1932, pp. 677-694. 4 Lee, D.N., Aronson, E., Visual proprioceptive control of standing in human infants, in «Perception & Psychophysics», n. 15, 1974, pp. 529-532. 5 Rechtschaffen, A., Mednick, S.A., The autokinetic word technique, in «Journal of Abnormal and Social Psychology», n. 51, 1955, p. 346. 6 Gray, R., Regan, D., Risky driving behavior: A consequence of motion adaptation for visually guided motor action, in «Journal of Experimental Psychology: Human Perception and Performance», n. 26, 2000, pp. 1721-1732. 7 Anstis, S.M., Gregory, R.L., The after-effect of seen motion: The role of retinal stimulation and eye movements, in «Quarterly Journal of Experimental Psychology», n. 17, 1964, pp. 173-174. 8 Anstis, S.M., After-effects from jogging, in «Experimental Brain Research», n. 103, 1995, pp. 476-478. Durgin, F.H., Fox, L.F., Kim, D.H., Not letting the left leg know what the right leg is doing: Limb-specific locomotor adaptation to sensory-cue conflict, in «Psychological Science», n. 14, 2003, pp. 567-572. 9 Purves, D., Paydarfar, J.A., Andrews, T.J., The wagon wheel illusion in movies and reality, in «Proceedings of the National Academy of Sciences», n. 93, 1996, pp. 3693-3697. 10 Leibowitz, H.W., A behavioral and perceptual analysis of grade crossing accidents, in Operation Lifesaver National Symposium 1982, Chicago, National Safety Council, 1983. 11 Brown, J.F., The thresholds for visual velocity, in «Psychologische Forschung», n. 14, 1931, pp. 249-268. 12 Anstis, S.M., Moving objects appear to slow down at low contrasts, in «Neural Networks», n. 16, 2003, pp. 933-938. 13 Warren, W.H., Kay, B.A., Zosh, W.D., Duchon, A.P., Sahuc, S., Optic flow is used to control human walking, in «Nature Neuroscience», n. 4, 2001, 213-216. 14 Bressan, P., The connection between random sequences, everyday coincidences, and belief in the paranormal, in «Applied Cognitive Psychology», n. 16, 2002, pp. 17-34.

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