Il cinema dell'Estremo Oriente. Cina, Corea del Sud, Giappone, Hong Kong, Taiwan, dagli anni Ottanta ad oggi 8860082757, 9788860082756

Se il cinema orientale inizia a farsi conoscere in Occidente già a partire dai primi anni Cinquanta - per merito dei fil

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Il cinema dell'Estremo Oriente. Cina, Corea del Sud, Giappone, Hong Kong, Taiwan, dagli anni Ottanta ad oggi
 8860082757, 9788860082756

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Marco Dalla Gassa

Dario Tomasi

IL CINEMA DELL’ESTREMO ORIENTE Cina, Corea del Sud, Giappone, Hong Kong, Taiwan,

Collana di Cinema

Marco Dalla Gassa. Dano Tomasi

II cinema dell'Estremo Oriente

Collana di Cinema

Cina, Corea del Sud. Giappone, Hong Kong Taiwan, dagli anni Ottanta ad oggi

Ctortra as Gwn Rondoònu

Se il cinema orientale inizia a farsi conoscere in Occidente già a partire dai primi anni Cinquanta - per mento dei film di Kurosawa e Mizoguchi, della tardiva scoperta di Ozu e dell'avvento, nel decennio successivo, delia Nouvelle Vague nipponica di Oshima e Imamura -, è però indub­ biamente so *o dalla fine degli anni Ottanta. grazie a cineasti cinesi della Quinta generazione come Zhang Y»mou e Cheti Kaige, che questo cine­ ma è diventato nei suo complesso un punto di riferimento imprescindi­ bile per la stessa storia del cinema, portando all'attenzione del pubblico nuove autorialità e nuovi generi e contribuendo a rinnovare sensibil­ mente il linguaggio cinematografico contemporaneo. Di questo complesso e affascinante fenomeno // onema dell'Estremo Oriente vuole rendere conto proponendone un approccio sia d* carat­ tere introduttivo, sia in termini di approfondimento. Dì ognuna delle cinque realtà prese in esame (Cina. Corea del Sud. Giappone, Hong Kong e Taiwan) il libro presenta, infatti, un'introduzione generale che ne ricostruisce la storia di questi ultimi venti-trent anni, alcuni ritratti d'autore dedxzati a cineasti dal grande talento e dalla poca fortuna cri­ tica in Italia (Jia Zhang-ke, lee Chang-dong, Koreeda Hirokazu. Wong Kar-wai, Edward Yang), e ancora diversi saggi che indagano tematiche, genen e approcci estetici specifici di tali cinematografie Marco Dalla Gassa insegna Storia del cinema alle Università di Venezia e Trieste ed è autore di divers * lavori sul cinema asiatico fra cui le mono­ grafie dedicate a Abbas Kiarostami e Zhang Yimou.

Dario Tornasi insegna Storia del cinema all'università di Torino ed è autore di diversi tibn e monografie, fra cui quelle dedicate a Ozu, Mizoguchi, Miike Takashi, / serte samura/. Veggio a Tokyo, e la Nouvelle

Vague giapponese.

In copertina Zhang Yimou, tanteme rosse. 1991 (titola originale Da hong deng tong gao gao gua), © Century CommunKations/China Film/Salon Films/ERA

8NT/AlbunVC ontrasto

ISSN 978-88-6008-275-6

Collana di Cinema diretta da Gianni Rondolino

L. AlMERl, Mannaie di sceneggiatura cinematografica. Teoria e pratica L. AlMERl, G. Frasca, Manuale dei generi cinematografici. Hollywood: dalle origini a oggi

G ALONGE, Cinema e guerra. Il film, la Grande Guerra e l’immaginario bellico del Novecento

D. Cassane Manuale del montaggio. Tecnica delTediting nella comunicazione cinematografica e audiovisiva

P.

CHERGFH Usai, Una passione infiammabile. Guida allo studio del cinema muto

A. GOMAZZI, Schermi. Le immagini del cinema, della televisione e del computer

A. F.

Costa, Immagine di un’immagine. Cinema e letteratura

Di Gl AMMATTÌ-o, Milestones. ! trenta film che hanno segnato la storia del cinema

M,

FANTONI MlNNEUA, Non riconciliati. Politica e società nel cinema italiano dal neorealismo a oggi

G.

C.

FRASCA, C’era una eolia il western. Immagini di una nazione Frasca, Road movie. Immaginario, genesi, struttura e forma del cinema americano on the road

M.

Marangi, Insegnate cinema, lezioni di didattica multimediale

U. Mosca, Cinema e rock. Pop Culture e film d’autore, immaginario giovanile e ^visioni» del mondo

G. Nuvoli, Storie ricreate. Dall’opera lette tana al film D.

PESENTI CamPAGNONI, Quando il cinema non c’era. Storie di mirabili visioni, illusioni ottiche e fotografie animate

G. Ron DOLING, Cinema e musica. Breve storia della musica cinematografica

C.

RONDOIJNO, Storia del cinema di animazione

G. Ron doling, D. Tomasi, Manuale del film. Linguaggio, racconto, analisi F. ROSSO, Cinema e danza. Storia di un passo a due D.

Tomasi, Lezioni di regia, Modelli e forme della messinscena cinematografica

E.

VlscoN’11, Parole illuminanti l linguaggi del cinematographer

Marco Dalla Gassa. Dario Tomasi

IL CINEMA DELL’ESTREMO ORIENTE Cina, Corea del Sud, Hong Kong, Taiwan, dagli anni Ottanta a oggi

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© 2010 De Agostini Scuola SpA - Novara *1 edizione: giugno 2010 Printed in Italy

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Stampa; Stampate - Torino

Ristampe:

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Anno:

2010

2011

2012

2013

2014

Indice

XI

Introduzione

3

Parte prima - Cina Popolare

5 13 17 23 31

Capitolo 1 - Il cinema cinese dagli anni Ottanta ad oggi 1.1 La «generazione perduta» e ritrovata 1.2 Un nuovo trauma e le sue conseguenze 1.3 Un altro cinema è possibile? 1.4 Lumière, Wu Ming e Mingong 1.5 Dietro l’angolo

35 35

Capitolo 2 - Libretto rosso: immagini della rivoluzione culturale 2.1 La trilogia della Quinta generazione

7

2.1.1 Padri e figli, p. 37 - 2.1.2 Dimostrare la propria fede: matri­ moni e processi, p. 39 - 2.1.3 Errori e denunce, p. 41 -2.1.4 Elimi­ nare ogni traccia, p. 43 -2.1.5 Le «colpe» si pagano sempre, p. 44 2.1.6 Spade, aquiloni e favole, p. 46

Un passo indietro: Troubled Laughter e Hibiscus Town Dopo la Quinta generazione Giù nelle campagne e su per le montagne Cinema c rivoluzione

48 55 56 60

2.2 2.3 2.4 2.5

65

Capitolo 3 - Dal collettivo all’individuale: gli spazi di emersione della soggettiviti

Indice

VI

67 71 74 80 86 90

3.] 3.2 3.3 3.4 3.5 3.6

Nostalgie e fallimenti Aperture, scolorimenti, incorniciature Distaccamenti femminili Narcisismi e xianchang Soggettive Décalage

92 93 97 101 107

Capitolo 4 - Fuori luogo: il cinema di Jia Zhang-kc 4.1 Iconografìa e auto-rappresentazionc del potere 4.2 Tracce, residui, incontri, memorie 4.3 L’uomo con la macchina da presa 4.4 Oggetti significanti non identificati

109

Parte seconda - Corea del Sud

111 112 114 116 118 120 122 126

Capitolo 5 - Il cinema sudcoreano dagli anni Novanta ad oggi 5.1 Anni bui 5.2 Rinascita di un’industria 5.3 La stagione dei blockbuster 5.4 Luci e ombre 5.5 La generazione impegnata degli anni Ottanta 5.6 Verso e oltre il Duemila: generi... 5.7 ...e autori

135

Capitolo 6 - Un paese diviso in due: la Corea del Sud guarda a Nord 6.1 La terza via: The Taebaek Mountains 6.2 Sino a uccidere ciò che ti è più caro: Taegukgi 6.3 Tra fiaba e realtà: Welcome to Dongmakgol c Spring in My Hometown 6.4 II nemico dentro: Shiri e Silmido 6.5 II doppio e l’altro come sé: Joint Security Area

136 143 145

151 154 161 161 165

Capitolo 7 - Korean Blockbuster: una nuova estetica del confezionamento 7.1 Definizione di un fenomeno 7.2 La via di mezzo

VII

Indice Emblemi della narrazione Esempi di credenza nel racconto: The Host, Welcome to Dongmakgol, King and the Clown Decoupage

168 172

7.3 7.4

180

7.5

182 183 185 187 189 190

Capitolo 8 - Ritratto d'autore - Senza famiglia: il cinema di Lee Cbang-dong 8.1 La poetica dell’intruso e un drammatico passato 8.2 Senza famiglia 8.3 II sogno realizzato 8.4 La colpa commessa e l’amore come tragedia 8.5 Senza fine

193

Parte terza - Giappone

195 195 196 197 198 199 201

Capitolo 9-11 cinema giapponese dagli anni Novanta a oggi 9.1 11 decennio perduto 9.2 Un’industria in crescita 9.3 Sento Takenori e la produzione indipendente 9.4 Un Festival chiamato Pia 9.5 Per un pugno di video 9.6 Ishii, Tsukamoto e Kurosawa: precursori e protagonisti 9.6.1 Ishii Ségo: il cavaliere elettrico, p. 201 - 9-6.2 Kurosawa Kiyo­ shi: l’orrore dell'incomunicabilità e dell'alienazione urbana, p. 203 9.6.3 Tsukamoto Shin'ya: la carne e il metallo, p. 206

207 210

9.7 9.8

214 216 218 221 225 228 231 233

9.9 9.10 9.11 9.12 9.13 9.14 9.15 9.16

Arriva Kitano: il clown triste con la pistola Ichikawa, Koreeda e Kawase: tra poetiche del quotidiano, fiction e documentario Aoyama Shinji e gli allievi di Kurosawa e Hasumi II cinema (non solo) gay di Hashiguchi L’autore e il genere: Miike e il cinema dell'eccesso Nakata, Shimizu e il J-Horror Orizzonti Noir: Hayashi, Ishii Takashi e Sabu Dal mondo dcU’erotismo: Zeze e «i quattro imperatori» Un cinema al femminile Racconti crudeli di gioventù: enjo kómi, otakn e il cinema di Iwai

ìndice

Vili

238 239 241 244 246

Capitolo 10 - Ai margini: storie di outsider del nuovo millennio 10.1 Alla ricerca del paradosso: Sono Sion 10.2 Donne sull’orlo di...: Hiroki Ryùichi 10.3 Silenzi e ripetizioni: Kobayashi Masahiro 10.4 Lo sguardo attonito: Yamashita Nobuhiro

248 248 250 253 259 269 278

Capitolo 11-1 nuovi samurai 11.1 Decadenza e «rinascita» di un genere 11.2 La spada e il desiderio: «Tabù - Gohatto» 11.3 Storie di umiltà: Fujisawa Shùhei e Yamada Yoji 11.4 II guerriero cieco: lo Zatóichi di Kitano 11.5 II samurai postmoderno: da «Gojoe» a «Izo» 11.6 La vendetta dell’attore: «Hana»

283 285 289 292 296

Capitolo 12 - Tracce della memoria: il cinema di Koreeda Hirokazu 12.1 Reminescenze 12.2 Distanze 12.3 Assenze 12.4 Confronto con i padri

301

Parte quarta - Hong Kong

303

Capitolo 13-11 cinema di Hong Kong: dalla nascita della New Wave (1980) ad oggi 13.1 Arti marziali e dintomi: il cinema di Honk Kong verso una nuova era 13.2 Ascesa e caduta di un’industria 13.3 La New Wave 13.4 Sui generis 13.5 D nero 13.6 Ghost Story 13.7 II ritorno delle arti marziali 13.8 La commedia 13.9 La seconda New Wave 13.10 Dopo il 1997

303

305 310 318 319 322 324 327 328 333

IX

Indice

341 341 345 351 355

Capitolo 14 -Xia e jianghu nel nuovo wuxiapian d’autore 14.1 Xia e jianghu tra storia e letteratura 14.2 The Biade e Ashes of Time. La fine di un’epoca 14.3 La tigre e il dragone e il wuxiapian panasiatico 14.4 Hero e la nascita del wuxia storico

362 367 372 379

Capitolo 15-11 crime movie all’appuntamento con 1’handover 15.1 Gli eroi muoiono sempre 15.2 La missione 15.3 Elezioni

383

Capitolo 16 - Senza respiro: il cinema di Wong Kar-wai

405

Parte quinta - Taiwan

407 407 414 417 423 427

Capitolo 17-11 cinema taiwanese dagli anni Ottanta ad oggi 17.1 II Nuovo Cinema Taiwanese \1.2 Eredità e metodo \13 Crisi e nuovi esordi 17.4 La seconda (e più debole) onda del Nuovo cinema 17.5 Una faticosa sopravvivenza

433

Capitolo 18 - Nuove leghe con vecchi metalli. I canoni espressivi del Nuovo Cinema 18.1 Estetica figurativa cinese 18.2 II modernismo europeo 18.3 Uno sguardo altro 18.4 L’unico dei mondi possibili

435 440 444 454 458

459 463

Capitolo 19 - Di un vedere confuso: Edward Yang e A Brighter Summer Day 19.1 A Darker Summer Day 19.2 Un paese confuso

Introduzione

Il cinema dell’Estremo Oriente e in particolare dei paesi che qui pren­ diamo in esame (Cina, Corea del sud, Giappone, Hong Kong e Taiwan), rappresenta, fuori da ogni discussione, uno dei fenomeni di maggior ri­ lievo che hanno contraddistinto il cinema internazionale degli ultimi trent’anni. Sarebbe sufficiente sfogliare l’elenco dei premi ottenuti dai film orientali nei più autorevoli festival europei del periodo (Cannes, Venezia, Berlino, Torino, Rotterdam e Locamo) per potersene agevol­ mente rendere conto. Un’attenzione sempre maggiore confermata an­ che in Italia dalla comparsa di festival espressamente dedicati al cine­ ma asiatico (il Far East Film di Udine, l’Asiaticafilmmediale e l’Asian Film Festival di Roma, il Korea Film Fest di Firenze) e dalle numerose retrospettive organizzate ad hoc da cineteche o altre realtà festivaliere (come il Museo del Cinema di Torino e la Mostra intemazionale del Nuovo Cinema di Pesaro). Certo tutto era cominciato molto prima, ne­ gli anni Cinquanta, con la scoperta del grande cinema classico giappo­ nese (Kurosawa, Mizoguchi, Ozu ecc.) e poi, nel decennio successivo, con quella degli autori legati, invece, al fenomeno della Nouvelle vague locale (Oshima, Imamura, Teshigahara, Yoshida ecc.). L’eclisse del ci­ nema giapponese degli anni Settanta aveva poi creato un periodo di sta­ si per quel che riguarda la scoperta e la conoscenza del cinema dell'Estremo oriente, solo in minima misura colmata, ma in un ambito molto diverso, non quello del cinema d'autore, bensì quello popolare, con la moda dei film d’arti marziali e, in particolare, del fenomeno Bruce Lee

XII

introduzione

(anche se i film di King Hu avevano giustamente meritato una notevole attenzione sul piano del cinema di qualità). Alla fine degli anni Ottanta, il testimone lasciato cadere dal cinema giapponese è raccolto da quello cinese grazie all’affermarsi dei cineasti della cosiddetta Quinta genera­ zione, la prima laureatasi in patria dopo il terribile periodo della Rivo­ luzione culturale. I film di Zhang Yimou, Chen Kaige e Tian Zhuangzhuang ottengono prestigiosi riconoscimenti, sono commentati sulle pagine delle più importanti riviste intemazionali, sono distribuiti in Europa e negli Stati Uniti e, in alcuni casi, ottengono anche notevoli successi di pubblico (come è accaduto, ad esempio, per Lanterne rosse e Addio mia concubina). Qualche anno prima, intanto, ma un po’ più in sordina, nella vicina Taiwan, cineasti come Hou Hsiao-hsien e Edward Yang erano diventati i protagonisti di una delle più entusiasmanti sta­ gioni del Nuovo cinema intemazionale, e poi, parallelamente al succes­ so dei loro colleghi continentali, riusciranno anch’essi a ottenere impor­ tanti risultati in Occidente sia sul piano critico c festivaliero, sia su quel­ lo della distribuzione (pensiamo per Hou Hsiao-hsien a un film come La città dolente e per Edward Yang al più recente Yì Yi - ... e uno... e due), preparando cosi il terreno all'affermarsi di un altro autore di pri­ mo piano del cinema taiwanese: Tsai Ming-liang. Nel corso degli anni Novanta, con l’avvicinarsi al nuovo millennio, le altre cinematografie dell'Estremo oriente non sono state certo a guardare. 11 cinema giappo­ nese, dopo un lungo periodo di declino, ritrova, anche grazie alla grave crisi economica che lo ha segnato, un nuovo slancio con autori come Kitano Takeshi, Tsukamoto Shin’ya, Kurosawa Kiyoshi c Koreeda Hjrokazu, per non citare che i più noti; Hong Kong si libera della sua doz­ zinale reputazione procuratagli dai film di kung fu con raffermarsi di autori raffinati come Stanely Kwan e, soprattutto, Wong Kar-wai, il cui In the Moodfor Love è uno dei film di maggior successo e prestigio del­ l’intera storia del cinema orientale, nonché al recente riaffacciarsi di au­ tori della prima New wave come Ann Bui. La stessa industria di intrat­ tenimento dell’isola conquista nuovi adepti in giro per il mondo grazie all'enorme successo ottenuto dai film della coppia John Woo/Chow Yun-fat e da quelli di Jackie Chan Ultima fra le cinematografie dell’Estremo Oriente ad approdare, in ordine di tempo, in Occidente, è stata poi la Corea del sud, in particolare grazie all'opera di autori come Kim

Introduzione

XJII

Ki-duk e Park Chan-wook, quelli di maggior successo anche in Italia, con film come Primavera, estate, autunno, inverno... e poi ancora pri­ mavera e Old Boy, Hong Sang-soo, Lee Chang-dong e, in questi ulti­ missimi anni, Bong Joon-ho. Pur con andamenti diversi tutte queste cinematografie e tutti questi cineasti, insieme a molti altri che non abbiamo potuto citare, hanno se­ gnato con la loro vitalità anche il primo decennio del nuovo secolo, nel corso del quale nuovi talenti sono venuti alla luce (su tutti lo Jia Zhangke di Stili Life, esponente di punta di una nuova generazione di cineasti cinesi indipendenti fra cui vanno citati almeno Wang Xiao-shuai e Zhang Yuan) e vecchi immaginari storico-fantastici dell’oriente hanno riconquistato una volta ancora le nostre sale per merito di grandi produ­ zioni intemazionali come La tigre e il dragone di Ang Lee o Hero di Zhang Yimou. Si aggiunga, in conclusione, la nascita di numerose co­ munità di appassionati di cinema asiatico, facilitati nel reperimento dei film dalle libertà della rete, sempre più onnivori (cinema d'autore e ci­ nema di genere, cinema contemporaneo e cinema classico si alternano senza soluzione di continuità nelle pagine dei blog e dei siti specializza­ ti) e, forse, proprio per questo, sempre più bisognosi di testi capaci di collocare storicamente film, movimenti, generi che animano il cinema dell’altra parte del pianeta. Il compito che questo volume si è prefissato è quello di dare un qua­ dro generale di questa ampia e affascinate realtà, rivolgendosi sia al neofito, sia al lettore più smaliziato. 11 libro è diviso in cinque parti, de­ dicate alle cinque cinematografie già citate, ognuna delle quali struttu­ rata allo stesso modo delle altre. Il capitolo introduttivo di ognuna di es­ se cerca di dar conto dei fenomeni principali che hanno segnato queste diverse realtà nel corso, grosso modo, degli ultimi trent’anni, ognuna di esse impone ovviamente una periodizzazione leggermente diversa, sof­ fermandosi sui principali nuclei problematici, sulle caratteristiche del­ l’industria e l'andamento del mercato, sugli aspetti culturali, sulle ten­ denze, sui generi e sugli autori di maggior rilievo. L’ultimo capitolo, in­ vece, è focalizzato su un diverso autore: in alcuni casi (Koreeda, Lee Chang-dong) optando per cineasti ancora trascurati dal mercato italia­ no, in altri scegliendo invece autori più noti (Jia Zbang-ke, Wong Karwai), ma letti attraverso una prospettiva molto mirata e precisa, in altri

XIV

Introduzione

ancora (Edward Yang), centrando l’attenzione su un film esemplare (A Brighter Summer Day). I capitoli centrali di ogni parte, infine, cercano di approfondire alcuni nodi problematici che ci sono sembrati di parti­ colare rilievo: i film sugli anni della Rivoluzione culturale e il tema del­ la soggettività per la Cina; il dramma della divisione del paese in due e il fenomeno dei blockbuster per la Corea del sud; l’emergere di un cine­ ma che lavora sulla marginalità sociale e la rinascita dei film di samurai per il Giappone; i nuovi orizzonti del cinema di arti marziali e del film noir per Hong Kong; e, infine, il rapporto fra estetica figurativa cinese e modernismo europeo per Taiwan. Il libro nella sua struttura generale è stato concepito e discusso da en­ trambi gli autori, che poi hanno individualmente redatto i singoli capi­ toli (Marco Dalla Gassa è autore dei capitoli 1, 3, 4, 7, 12, 14, 15, 17, 18; Dario Tornasi di quelli 2, 5, 6, 8, 9,10, 11, 13, 16, 19). Com'è consuetudine nei paesi di cui questo libro si occupa, i cogno­ mi delle persone citate precedono sempre i nomi, salvo i casi in cui, co­ me accadde spesso a Hong Kong, la persona in questione abbia optato per un nome occidentale anteposto a un cognome orientale (ad esempio Brace Lee). 1 film, quando citati per la prima volta in ogni capitolo, sono indicati con il titolo internazionale (o quello italiano nel caso di opere distribui­ te nel nostro paese), il titolo originale, il nome del regista e l'anno di uscita. Quando citati successivamente è solo indicato il titolo intema­ zionale o quello italiano. È doveroso ringraziare, infine, tutte le persone che, a vario titolo, ci hanno aiutato nel corso di questo lungo lavoro di ricerca, chi fornendo­ ci (o segnalandoci) materiali cartacei e film, chi discutendo i vari capi­ toli nel merito dei loro contenuti, chi aprendo archivi e biblioteche, chi anche solo per aver supportato (e sopportato) in silenzio la delicata fase di stesura del testo. Una particolare riconoscenza va a Silvio Alovisio, Sabrina Baracetti, Thomas Bertacche e lo staff dell’Udine Far East Film, Stefano Boni e il Museo Nazionale del Cinema di Torino, Marco Berti, Paolo Bertolin, Davide Cazzaro, Fabrizio Colamartino, Alberto Elena Diaz, Marie-Pierre Duhamel, Jean-Michel Frodon, il personale della Bibliomediateca Mario Gromo, Marco Muller, Corrado Neri, Al­ berto Pezzotta, il personale della Biblioteca Renzo Renzi della Cineteca

Introduzione

XV

Lumière di Bologna, Maria Ruggieri, Carolina Solari, Giovanni Spa­ gnoletti e lo staff della Mostra intemazionale del Nuovo cinema di Pe­ saro, Antonio Termenini e l’Asian Film Festival, e - senza altre spiega­ zioni perché il motivo è fin troppo evidente - ad Annette Blomqvist e Sabrina Stroppa.

Il cinema dell’Estremo Oriente

Parte

prima

Cina Popolare

Capitolo 1

Il cinema cinese dagli anni Ottanta ad oggi

A partire dalla terza plenaria del Congresso del Partito Comunista (di­ cembre 1978), Deng Xiaoping inaugura una stagione di riforme econo­ miche (gaige kaìfang) destinata a cambiare faccia al paese e a trasfor­ marlo in quello che è oggi: una nazione statalista e, insieme, capitalista; autoritaria c, nel contempo, aperta al «libero mercato». In genere il ter­ mine «rivoluzione culturale» indica il decennio di recrudescenze con­ dotto da Mao c dalla Banda dei Quattro tra il .1965 e il 1975. Oggi, a più di trent’anni da quegli eventi, pare chiaro che la vera rivoluzione cultu­ rale occorsa da allora ad oggi è quella social-capitalista messa in atto dal Piccolo Timoniere e dai suoi successori. Una rivoluzione dentro la quale il cinema, come era prevedibile, ha assunto un ruolo fondamentale. Nei primi anni Ottanta la situazione dell’industria audiovisiva pre­ senta profili in chiaroscuro: da una parte è strumento portante per l’en­ nesima campagna di indirizzo politico (contro la Banda dei Quattro), dall’altra è territorio ideale per esplorare cambiamenti di mentalità e di organizzazione socio-economica. Nuovi soggetti (ad esempio la sessua­ lità), nuovi approcci (l’introspezione psicologica), nuove, anzi vecchie, tradizioni (arti marziali) a lungo vietati trovano un primo timido spazio di rappresentanza. È soprattutto sul piano della riorganizzazione del si­ stema produttivo che si registrano i cambiamenti più importanti: nel breve volgere di un lustro si inaugurano nuovi studi (quello della Mon­ golia interiore, il China Children Studio, quello di Shenzhen c del Fujian), si impostano politiche di co-produzione e di distribuzione (vie­

lì cinema dei! ‘Estremo Oriente

6

ne fondato il China Film Coproduction Corporation e il China Imports and Exports Company), riapre l’Accadctnia del Cinema di Pechino e ri­ torna in auge il celebre premio «Cento Fiori» (sospeso nel 1963), si fon­ dano riviste di critica (tra cui la più autorevole è senz’altro la «Dangdai dianying»). Le statistiche sembrano dare ragione alla svolta denghiana: in poco tempo raddoppia il numero di film (a metà decennio siamo sui ISO l’anno), gli impiegati degli studios toccano il mezzo milione di per­ sone, gli spettatori raggiungono quota 25 miliardi nel 1984, anche in virtù dell’implemento delle sale e delle proiezioni nelle aree rurali. Un’inedita convergenza di fattori (espansione del settore, competi­ zione, differenziazione dei target) determina la possibilità che lavorino fianco a fianco diverse leve di registi, ovvero i veterani della Terza ge­ nerazione, i cinquantenni delta Quarta e i trentenni della Quinta (diplo­ matisi a partire dal 1982) e favorisce, di conseguenza, l’emergere di una molteplicità di rappresentazioni che coabitano tra loro. Si iniziano a frantumare gli impianti didattici tipici del realismo socialista, a elabora­ re formule narrative più complesse, a riscoprire il valore delle cellule fami gl lari o delle minoranze etniche, a descrivere il mutamento deUe abitudini sociali, del paesaggio urbano, delle relazioni interpersonali nell’età delle riforme. Merito di tale proliferazione di sguardi e approc­ ci va assegnato soprattutto ai membri della Quarta Generazione (Zhang Nuanxin, Xie Fei, Wu Yigong, Teng Wenji, Huang Zhuqin), i quali, nel­ la relativa caotica libertà di una ricostruzione, possono introdurre nuovi paradigmi teorici', stili e strategie narrative proprie del cinema occiden­ tale, una inedita sensibilità per temi di natura umanista. In film come On the Beach (Hattan, Teng Wenji, 1984), Woman, Demon, Human (Ren gut t/ing, Huang Shuqtn 1987), Sacrificed Youth (Qingchun ji, Zhang Nuanxin, 1985), Neighbors (Linju, Zheng Dongtian e Guming Xu, 1981 ) o Our Field ( Women de tianye, Xie Fei, 1983) non sarà diffi­ cile rinvenire un’omogeneità e una lucidità espressiva straordinarie, si­ mili a quelle dei cinema prebellico di Shanghai.

' Per una ricognizione sul dibattito critico teorico del periodo si veda: C. Butttv, Postsocialist cinema in post-Mao China: The Qiltmvl Revolution after the Cultural Revolu­ tion, Routledge. Londra 2004; Y. Zhu, Chinese Cinema During the Em of Reform: The In­ genuity of the System. Pracgcr, Londra 2003.

n cinema cinese dagli anni Ottanta ad oggi

1.1

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La «generazione perduta» e ritrovata

Come è noto il decennio è segnato dall’emergere della Quinta genera­ zione tra le cui fila non c’è solo chi è destinato alla notorietà intema­ zionale (Chen Kaige, Tian Zhuangzhuang, Zhang Yimou), ma anche chi, pur sconosciuto all’estero, saprà costruire corpus filmici degni di ammirazione (Huang Jianxin, Li Shaohong, He Ping, Ning Ying, Gu Changwei, Wu Ziniu, Zhou Xiaowen). Una coincidenza di fattori con­ sente loro di assicurarsi visibilità in una situazione industriale ancora transitoria: 1) l'assegnazione immediata a stabilimenti periferici o ap­ pena inaugurati, carenti di personale e quindi disposti a offrire loro una chance di regia senza sottostare a lunghe gavette; 2) una formazione corroborata dalla possibilità di studiare su film stranieri, sui capolavori cinesi degli anni Trenta e su lesti teorici intemazionali; 3) il coincidente affiorare di una stagione di «nuove onde» (Hong Kong, Taiwan, Corea del Sud) che prepara il campo alla penetrazione di alcuni loro film nei mercati esteri; 4) il disinteresse verso temi contemporanei, ignorati in favore di soggetti ambientati in realtà atemporali per aggirare, con più facilità, le maglie del controllo politico. Il primo film della nuova generazione - One and Eight ( Yige he Baget 1984) di Zhang Junzhao, storia di otto criminali e un ufficiale mili­ tare che combattono contro l’esercito giapponese - già rappresenta un febbrile banco di prova per affermare nuovi modi di rappresentazione e nuovi stili di ripresa. Sebbene Zhang abbia dovuto intervenire pesante­ mente con tagli e nuovi ciak per passare il vaglio dell’Ulficio censura, l’opera mantiene ancora oggi intatti i lineamenti di rinnovamento per merito di alcune soluzioni formali visivamente coraggiose, per la car­ nalità dei corpi-personaggi e per un intreccio che a tratti riesce ad esse­ re eterodosso. Qualche mese dopo tocca a un altro film di un esordiente a catturare l’attenzione degli addetti ai lavori. Si tratta di Yellow Earth {Huang Tudt, 1984) di Chen Kaige, pellicola che narra l'inutile inter­ vento di un soldato delTArmata Rossa nella vita di un villaggio conta­ dino nello Shaanxi. Passato inizialmente inosservato, quando viene proiettato all’Hong Kong Film Festival nel 1985, il film trova, insieme al primo premio del concorso, l’accoglienza entusiastica del pubblico

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che ne percepisce immediatamente la portata2. A Zhang e Chen, negli stessi mesi si aggiunge Tian Zhuangzhuang. Dopo una prima co-regia in un film per bambini, realizza due shaoshu minztP di incredibile forza figurativa nei quali, forse per la prima volta, culti e tradizioni di due mi­ noranze etniche sono raccontati senza alcun intento didascalico e l’esi­ genza di tracciarne le complementarietà con la maggioranza han. Di più, On the Hunting Ground (Lìechang zhasha, 1984) e The Horse Thief (Dao Ma Zei, 1986), già dalle loro prime proiezioni, sembrano offrirsi come film orgogliosamente di «minoranza», come confermano il pub­ blico di riferimento (quello dei festival), i pochi mezzi a disposizione, il linguaggio adottato (etnografico e rarefatto). Sempre intorno a metà decennio, altri giovani cineasti debuttano die­ tro la mdp con film di genere non meno innovativi. Tra i tanti spiccano Huang Jianxin, Zhou Xiaowen, Li Shaohong e Wu Ziniu. A Huang si deve una delle prime commedie sarcastiche della storia del cinema ci­ nese, Black Cannon Incident (Hei pao shijian, 1985), sulle tragicomi­ che avventure di un ingegnere scambiato dai suoi datori di lavoro per una spia. Il merito del film è di inserire dentro le griglie della black co­ medy una amara riflessione sull'ottusità di chi tiene in mano le redini del potere. Zhou sforna in meno di tre anni In Their Prime (Tanten zheng nianqing, co-regia Guo Fangfang, 1986), war-movie sulla guerra3

3 Scrive Tony Rayns «Sono ventato di fissare una data esatta dì nascita del "nuovo cine­

ma cinese": il 12 aprile 1985. Si tratta della sera in cui Yellow Earth è stato proiettato [...] alla presenza dei suoi due principali artefici, il regista Chen Kaige c il direttore della foto­ grafia Zhang Yimou. La proiezione è stata vissuta come qualche cosa di simile a una rot­ tura collettiva e la discussione che è seguita dopo il film è durata molto oltre il tempo li­

mite». Cfr. T. Rayns, Chinese Vocabulary; An introduction lo King of the Children and the New Chinese Cinema, in Chen K., T. Rayns, King of the Children and the New Chinese

Cinema. Faber and Faber, Londra 1989, p. 1.

1 Per shaoshu minzu dianying si intende il film sulle minoranze etniche, genere da sem­ pre molto in voga in Cina. Attraverso la rappresentazione folcloristica c inclusiva delie va­

rie etnie del paese, il cinema cinese ha spesso proposto immaginari nazionali gerarchizza ti sotto la dominanza han. A proposito si legga. C. Bekry, Race (Minzu). Chinese Film

and the Politics of Nationalism, «Cinema Journal», 31,2, 1992, pp. 45-58; Zhang Y.. From «Minority Film» to «Minority Discourse»; Questions ofNationhood and Ethnicity in Chinese Cinema, in S.H.-R Lu (a cura di), Transnational Chinese Cinemas; Identity, Na­

tionhood, Gender, University of Hawaii Press, Honolulu 1997, pp. 81-104.

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sino-vietnamita bloccato dalla censura perché reo di raffigurare i nemi­ ci come soldati psicologicamente più forti di quelli i cinesi. Despera­ tion (Zuihou de Feng kuang, 1987), un poliziesco in cui un detective viene inviato in un villaggio per catturare un pericoloso assassino e Ob­ session (Fengkuangde dai jia, 1988), thriller declinalo al femminile, protagonista una madre alla ricerca di un malvivente che ha rapito la fi­ glia. Queste opere, rispetto alla produzione coeva, vantano uno stile am­ biguo, atmosfere inquietanti e capacità di lavorare sulle attese e sulla su­ spense. Li Shaohong debutta, invece, con The Case of the Silver Snake (Yinshe mousha ‘an, 1988), un detective movie che ottiene un grande successo al botteghino e che presenta sequenze di particolare efferatez­ za e violenza visiva. Ai confini del visibile cinematografico si muove anche Wu Ziniu che si specializza tn war-movie spietati e tormentati co­ me The Dove Tree (Gezi shu, 1985), Blood-shedding Black Valley (Diexue heigu, 1985) e soprattutto Evening Bell (Wanzhong, 1988) in cui si mette in scena, pur in circostanze straordinarie, un dialogo possi­ bile tra cinesi e giapponesi. I suoi lavori sembrano studiati per attraver­ sare i confini tra film d’arte e di genere, tra rappresentazioni realistiche e simboliche, tra aspirazioni umanistiche e ricadute in mondi caotici. Si tratta di cineasti che rivisitando e reinventando i canoni di genere, am­ pliano gli standard spettacolari e portano sullo schermo soggetti inediti come peraltro conferma, tra gli altri, The Swordsman in Double Flag Town (Shuang-Qi-Zhen daoke, 1991) un wuxiapian di He Ping dalle evidenti suggestioni western. In tale quadro di rinnovamento, Chen. Kaige sembra essere la guida spirituale dei nuovi autori. The Big Parade (Da yue bing, 1986), incen­ trato sull'addestramento di un gruppo di soldati per una rivista in piazza Tiananmen, King of the Children (Haizi wang, 1987), storia di uno stu­ dente inviato in un villaggio di montagna durante la Rivoluzione cultu­ rale per insegnare a scrivere a una classe di bambini analfabeti e La vita appesa a un filo (Bian zhou bian chang, 1991), metafora dell’imponde­ rabilità della vita attraverso le gesta di due suonatori di sanxian, conser­ vano uno stile astratto, fondato sulla contemplazione narrativa e su un marcato simbolismo figurativo. Essi ribaltano, inoltre, la concezione educativa e formativa ufficialmente in auge, perché inscenano parabole personali di fallibilità, acquiescenza, carnalità. Parallelamente, dopo al­

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cune esperienze come direttore della fotografia, nel 1987 esordisce Zhang Yimou con Sorgo rosso (Hong gaoliang, 1987), tratto da un cele­ bre romanzo di Mo Yan, un film seducente, ambiguo, lontano da) gri­ giore di molto cinema contemporaneo. 11 lavoro di Zhang, che narra la storia di una giovane ragazza che gestisce una distilleria di grappa e che attira l’interesse di alcuni personaggi maschili (un portatore, un crimi­ nale, un lebbroso, un operaio) cattura l'attenzione non solo in virtù del­ la presenza ammaliante di Gong Li (qui al suo primo ruolo da protago­ nista) ma perché propone un corpus simbolico, in qualche misura, pri­ migenio. Sancisce, inoltre, la bontà della politica produttiva portata avanti da Wu Tianming, produttore in capo degli stabilimenti di Xi’an, e tutore di molti nuovi registi debuttanti, dal momento che Sorgo rosso sarà il primo lungometraggio cinese a conquistare uno dei tre premi fe­ stivalieri più rinomati al mondo (l’Orso d’oro a Berlino nel 1988) *. Sebbene etichettati immediatamente come registi della Quinta gene­ razione, i cineasti citati non si riconoscono, per la verità, in un movi­ mento coeso, non sottoscrivono alcun manifesto, né aspirano ai medesi­ mi obicttivi. A unirli è semmai la comune esperienza della Rivoluzione culturale, l’appartenenza alla cosiddetta «generazione perduta»’ privata di un’identità, di una professione e di una posizione sociale per quasi un decennio e ora spinta a ritrovarsi pur senza credere nella consistenza delle parole (d’ordine), delle ricostruzioni (storiche) e degli inquadra­ menti (politici), ma viceversa, facendo affidamento soltanto sulla pro­ pria forza, sul proprio linguaggio, sulle proprie azioni concrete. Se esi­ ste un filo rosso che lega le loro produzioni, questo va ricercato nell’uso ambiguo e stratificato del linguaggio audiovisivo e dei pattern narrativi, nella scrupolosità praticata per pcrimetrare sguardi e raggio d’azione dei personaggi nella fiducia nei confronti delle capacità di percezione e

* Wu Tiannung, direttole degli stabilimenti di Xi’an dal 1984 al 1989, si nvclerà un ve­

ra scopritore di talenti: sotto la sua ala cresceranno cineasti come Chen Kaige, Tian Zhuangzhuang, Zhang Yimou, Huang Jianxin, Zhou Xiaowen. He Ping. Li Shaohong,

Teng Wcnji, Yan Xucru. $ Spesso la Rivoluzione culturale è stata definita con la formula «t dicci anni perduti» e, per proiezione, «petduti» sono stati defunti anche t giovani in età scolare c universitaria

a cui è stato sottratto l’accesso allo studio per un decennio (una netta minoranza della po­ polazione per la verità).

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sintesi degli spettatori. Attraverso il loro lavoro diversificato affermano una triplice supremazia: quella del mostrare sul raccontare, del visibile sul narrabile, dell’immagine sulla sua interpretazione. Ad accomunarne i destini è anche la tendenza a delegittimare le fi­ gure che incarnano le istituzioni, per mezzo di raffigurazioni in chiaro­ scuro di soldati, insegnanti, quadri di partito, capi villaggio ecc. Si ri­ corderà che nel cinema del realismo socialista queste erano figure-fun­ zione, modelli integerrimi da imitare, ideali identitari da salvaguardare. Negli anni Ottanta, al contrario, gli croi del popolo subiscono un pro­ cesso di sfibramento politico e psicologico, a partire dalla figura del soldato dell’Armata Rossa, da sempre incarnazione stessa del comuni­ Smo. In One and Eight i protagonisti sono un ufficiale accusato di esse­ re una spia giapponese e otto criminali, suoi compatì di sventura, infor­ mati sotto una luce tutto sommato positiva. Gli assalti dei giapponesi spingeranno questi nove reietti a difendere la propria patria con mag­ giore dedizione rispetto ai militi del distaccamento da cui sono stati cat­ turati. Analogo destino di sconfitta accomuna l’istituzione militare in Yellow Earth, The Big Parade, In Their Prime, Evening Bell. U protago­ nista di Yellow Earth è un soldato, incapace di salvare una giovane ra­ gazza dal destino matrimoniale che la sua famiglia le ha riservato. L’uo­ mo è solo, sembra appartenere a una retroguardia, senza compagni che lo possano aiutare c comandanti che lo possano guidare: è il simbolo di un’autorità tale per mancanza di alternative; in The Big Parade i cadetti non combattono ma si preparano per una rivista (immagine e non so­ stanza): qui, nella ripetitiva quotidianità di gesti c tempi d’attesa, affio­ ra la loro solitudine, materiale plastico facilmente malleabile nelle mani dell’autorità. In In Their Prime la situazione in cui Zhou colloca i suoi personaggi è ancora più paradigmatica: chiusi in una cava, quasi senza contatti con l’esterno, i militari attendono i bombardamenti come una sorta di inevitabile destino. Ne nasce un trattato psicologico sulla paura, sulla fragilità della psiche, sul senso di oppressione e sconforto. Anche in Evening Bell i soldati non sono eroi di prima linea, ma più prosaica­ mente addetti al l'interramento dei compagni deceduti al fronte. In un trasferimento si imbattono per caso in una divisione di nemici giappo­ nesi in fin di vita che minacciano di far esplodere un deposito di muni­ zioni se non vengono aiutiti a salvarsi. H comandante del plotone non

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può che offrire loro, insieme a qualche razione di cibo e acqua, una morte meno violenta. Al di là delle differenze, è chiaro che tutti questi film seguono un doppio criterio narrativo; smontare l’eroismo solita * mente associato agli uomini in uniforme, lavorare sulla loro sfera psi­ cologica per delineare il gioco sociale in cui sono stati inseriti senza possibilità di scelta e spesso senza via di fuga. L'avvento della Quinta generazione determina un’ultima radicalizzazione delle tendenze che però, diversamente da quanto la pubblicistica solitamente afferma, va condivisa anche con gli altri registi più anziani. Ci riferiamo alla raffigurazione della Cina medievale, mitizzata e arcai­ ca, ancorata ai connotati immodificabili del territorio e al suo sistema di riti e fantasie. Campione deH’arbitraria proiezione dei simboli in un milieu fuori dal tempo è Zhang Yimou che con i suoi primi tre film, Sorgo rosso, Ju Dou (id, 1990) e Lanterne rosse (Da hong deng long gao gao gua, 1991) racconta realtà di confine, descrive varietà di costu­ mi (spesso inventati), registra la resistenza di talune abitudini culturali, denunciando il ruolo subalterno a cui è ricondotto l’individuo in questi contesti, specie se di sesso femminile. A questi film vanno aggiunti altri titoli come A Girl From Hunan (Xiangnii Xiaoxiao, 1986, Xie Fei e Lan U), A Good Woman (Liangjià funu, 1985, Huang Jianzhong), Widow Village (Guafu cun, 1988, Wang Jin), Swan Song (Juexiang, 1985) di Zhang Zhemin, The Street Players (Gushu Yiren, 1987) di Tian Zhuangzhuang), che contribuiscono a inondare gli schermi di un nugo­ lo di cerimonie, ritualità, liturgie, processioni, avvolti in una sorta di au­ ra impalpabile e irraggiungibile. Anche se l’obiettivo apparente delle pellicole citate è spesso quello di criticare pratiche barbare e medievali o, di contro, esaltare la diversificazione culturale del subcontinente, in realtà questo surplus di rappresentazioni, molto omogeneo, frutto della soffocazione di natura identitaria affermata durante la Rivoluzione cul­ turale ma anche delle paure dell’ignoto che sono determinate dal salto nel buio delle riforme denghiane, appare viepiù come una forma di «esibizionismo culturale», di ostentazione del rito e del mito non in chiave etnografica o storiografica, ma essenzialmente cinematografica. In questa stagione sono molte le pellicole che puntano ad affascinare lo spettatore manipolando la realtà, tradendola in favore dell’erezione di un immaginario che deve funzionare, come si diceva poc’anzi, innanzi

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tutto sul piano visivo e scopico. È, in fin dei conti, questa la vera novità

del primo cinema postmaoista: l’attivazione di un processo di demitiz­ zazione dell'universo liturgico socialista (irreprensibilità dell’eroe, omogeneità del rècti, ortodossia della ricostruzione e chiarezza del messaggio) e di re-mitizzazione di un universo archetipico dentro il quale si cala l’individuo secondo nuovi/vecchi compiti, posture, prigio­ nie. Grazie all’impiego raffinato di dispositivi propri della Settima arte (voyeurismo, ambiguità dell’immagine, sospensione dell'incredulità, mimetismo linguistico) si tende a contrapporre all’immaginario frazio­ nale della propaganda, uno di segno opposto, egualmente finzionalc suggestivo e cerimonioso, che intorbidisce e allude, demarca e idealiz­ za. Ne consegue un concetto di cinema che, pur rifuggendo dalle unifor­ mi delle identità pubbliche comuniste, continua ad asserire il predomi­ nio dell’immagine sul suo referente, del costume sul vestito, dello spet­ tacolo sulla vita quotidiana.

1.2

Un nuovo trauma e le sue conseguenze

l registi di quegli anni non potevano prevedere che un «rituale» sociale di impatto visivo ancora più violento avrebbe spazzato qualsiasi loro elegante architettura filmica. La «cerimonia» in questione è, ovviamen­ te, la soppressione delle proteste studentesche in Piazza Tiananmen, oc­ corsa nel giugno 1989, evento che ha rappresentalo, per molti versi, un punto di non ritorno non tanto sul versante storico-politico (la rotta del regime non verrà, di fatto, invertita), quanto su quello mediatico-finzionale, ovvero relativo agli immaginari, alle prassi del racconto, ai para­ digmi di rappresentazione. A pensarci bene, infatti, di quelle proteste oggi resta impressa nella memoria collettiva solo un’immagine, quella di un anonimo studente solitario che si frappone alla corsa di quattro tank dell’esercito. Sul pia­ no intemazionale (non certo su quello interno per ovvie ragioni) la foto­ grafia ha svolto un ruolo a dir poco capitale, perché da una parte ha simboleggiato l’ingresso della Cina nel sistema globale dei network (si tratta del primo avvenimento storico non controllato dal regime che ha

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avuto un’audience planetaria), dall'altra ha inciso nella pietra una de­ terminata idea di regime, descritto come un gigante armato che calpesta i diritti di singoli anonimi cittadini inermi. 1 contraccolpi in ambito ci­ nematografico si sono fatti sentire in pochissimo tempo. Quella foto evocativa, plastica, «cinematografica» ha spinto il pubblico straniero a richiedere, almeno indirettamente, la reiterazione del medesimo imma­ ginario di ribellione utopica, quell’anelito di democrazia abbozzata e immediatamente repressa dall'esercito. Cosi facendo, come scopriremo fra poco, si sono poco per volta modificate le modalità di produzione dei film ed è emersa una nuova generazione di registi che, agli occhi del mondo, doveva camminare come quello studente, solitaria c indipen­ dente, per le strade delle città, porsi dalla parte dei più deboli, in avver­ sione esplicita dell’autorità, credere in raffigurazioni del reale più in­ tense e contaminate. Da questo momento in poi si è cercato di descrive­ re il fìinzionamento dell’industria cinematografica cinese come fosse il ricalco di quella fotografia, con «carri armati» (i film finanziati dallo stato, coercitivi e autoritari quasi per DNA) pronti a sparare da una par­ te, e con «giovani studenti» (piccole produzioni underground, democra­ tiche quasi per definizione) pronti a difendersi dall’altra. In realtà la situazione produttiva degli anni Novanta si presenta molto più complessa di qualsiasi schematizzazione manichea. Certo, la prima reazione che si registra è la recrudescenza del controllo censorio6 e. in seconda battuta, il rilancio dei «film storico-rivoluzionari». Un fiume di finanziamenti viene riversato sugli stabilimenti statali per realizzare storie che celebrino degnamente alcune ricorrenze rivoluzionarie e edu­ chino i cittadini a un più patriottico senso dello stato. Tra biografie sui principali leader del partito e cronache delle più importanti battaglie ri­ voluzionarie, nel corso del decennio si arrivano a produrre 35 leitmotif film, un numero quattro volte superiore al periodo precedente. Queste

6 Tra i registi più colpiti ci sono Zhang Yimou con Ju Dou e Lanterne russe. Film so­ spesi per alcuni anni dalla distribuzione dopo che il regista si era rifiutato di appone si­

gnificativi tagli alle pellicole, Zboti Xiaowen. il cui The Black Mountain Road (Heishan

lu, 1990) viene bloccato Tino al 1994 quando il successo commerciale c critico di Ermo (id., 1994) rendono meno difendibile la scelta. Li Shaohong, per il già menzionato Bloody Morning (Xnese Qingchen, 1992) dove la caccia all'uomo (un intellettuale accusato di

violenza sessuale) è stata letta da molti come metafora dei fatti del giugno 1989)

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pellicole, almeno in teoria, grazie alle vane agevolazioni, dovevano consentire agli stabilimenti di guadagnare al botteghino i fondi neces­ sari per variare l’offerta e aumentare la quantità e la qualità delle loro produzioni. Calcolo strategicamente disastroso perché solo cinque tito­ li riescono a recuperare il budget investito, e perché il disinteresse del pubblico per pellicole troppo connotate ideologicamente si trasforma, in breve tempo, in bocciatura per una politica degli studios incapace di innovarsi all’interno di un panorama mediatico sempre più concorren­ ziale. Così, quando intomo alla metà del decennio, in vista dcll’ingresso nel WTO, la Cina é costretta ad aprire parzialmente il mercato ai film americani, l’industria audiovisiva non può che subire forti contraccolpi. Dai 150 film l’anno dei primi anni Novanta si arriva a circa la metà nel 2000 (solo 83, incluse le coproduzioni); dai 25 miliardi di spettatori del 1984» si giunge ai 10 del 1992 e ai soli 220 milioni del 2000’. Un’altra indiretta conseguenza del massacro di Piazza Tiananmen è la «dispersione» della Quinta generazione. Ancora una volta è un sin­ golo evento - l’esilio forzato di Wu Tianming, negli Stati Uniti per aver espresso pubblicamente simpatie per il movimento studentesco - a fis­ sare un processo in parte già in atto. La sua assenza si farà sentire so­ prattutto sul piano dei rapporti con l’establishment e sulla garanzia di determinate condizioni di lavoro. Non a caso, quasi tutti i cineasti della sua squadra manterranno fede alla propria idea di cinema, ma si ritrove­ ranno sempre più spesso in vicoli ciechi o strade già segnate. Si pensi a Chen Kaige, anch'egli rimasto negli States fino al 1991, poi tornato in Cina per firmare un pamphlet ermetico e filosofico di avventata ambi­ zione filosofica (La vita appesa a un filo). È vero che un paio d’anni dopo girerà il suo film più noto e celebrato (Addio mia concubina, (Ba wang bie ji 1992) Palma d’oro a Cannes nel 1993), ma è altresì indub­ bio che la direzione melodrammatica presa - e rafforzata con i succes­ sivi e poco riusciti Le tentazioni della luna (Fengyue, 1996) e L'impe­ ratore e l'assassino (Jing ke ci qin wang, 1998) - lo allontanerà troppo

1 Tra i pochi film di cassetta a salvarsi ci sono solo alcune co-produzioni come ad

esempio Red Cherry (Hong yinglao, YeYing, 1995) a segnalare un prodromo di apertura delle frontiere. The Opium IVar(Yaptan Zhanzheng, Xie Jin, 1997), Spicy Love Soup (Aiqing mala tang, Zhang Yang, 1997).

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dalla prima e più convincente parte di carriera. Huang Jianxin si tace fi­ no al 1993, quando con Stand Up, Don 't Bend Over (Zhan zhi le bie paxia, 1993) riprende il filone della commedia di costume con minore forza corrosiva, mentre Zhou Xiaowen dopo i thriller di fine anni Ot­ tanta e i problemi occorsi al suo Black Mountain Road (Heishan lu, 1990, distribuito solo nel 1994), bascula tra diversi generi senza mai trovare una direzione convincente: passa dal dramma sentimentale con No Regret about Youth (Qingchun wuhui, 1992) alla satira di The Lie Detector (Cehuang qi, 1993) dal road movie con The Trail (Da tu, 1993) a quello rurale di Ermo (id, 1994) fino al film storico The Empe­ ror’s Shadow (Qin song, 1996). Oscillamenti più o meno marcati subi­ scono anche Li Shaohong, He Ping, Wu Ziniu. Solo Zhang Yimou si di­ mostra abile ai cambi di registro passando dai drammi erotico-sentimentali (Ju Dou e Lanterne rosse) al film rurale [Lfl storia di Qiu Ju (Qiu Ju da guansi, 1992)], dall’affresco storico [Vivere! (Huozhe, 1994)] al gangster movie [Lo triade di Shanghai (Yao a yao. yao dao waipo qiao, 1995)] fino al film urbano [Keep Cool (Youhua haohao shuo, 1997)] senza mai perdere in qualità estetica e cura artigianale. In buona sostanza l’eclettismo di questi cineasti consente loro di continua­ re a girare film senza addossarsi etichette troppo scomode, ma anche senza trovare spesso il bandolo della matassa. Esiste, pur tuttavia, un ultimo momento di congiunzione, almeno ap­ parente, tra i registi della Quinta generazione. Nel triennio 1992-94 a stretto giro di posta Chen Kaige realizza Addio mia concubina (1992), Tian Zhuangzbuang The Blue Kite (Lan fengzheng, 1993), Zhang Yi­ mou Vivere!, Li Shaohong Blush (Hong Fen, 1994), mentre Jiang Wen, forse il più celebre attore cinese degli ultimi trent’anni, debutta dietro la mdp con tn the Heat of the Sun (Yangguang Canlan de Rizi, 1994). Sono tutti film che portano sullo schermo le fasi più contraddittorie del maoismo, a partire dalla Rivoluzione culturale (vedi cap. 2) e che se­ gnano un inaspettato «ritorno alla storia» da parte di cineasti poco in­ clini ad affrontare direttamente temi sensibili e stagioni ancora calde. Più che la conferma di un destino comune, le opere in oggetto sono in verità la cartina di tornasole per estetiche e approcci divergenti talvolta persino opposti sul fronte dei modelli linguistici, del modo di relazio­ narsi con la Storia, delle modalità di produzione. Resta come unico filo

Il cinema cinese dagli anni Ottanta ad oggi

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comune l’analoga sfida lanciala alle autorità, per opera, non a caso, di personalità che vantano una fama intemazionale e che possono osare film dai tagli revisionisti (rispetto all’ortodossia storiografica). Nono­ stante la loro posizione di forza, questi registi usciranno sconfitti dalla disputa: Li Shaohong e Jiang Wen torneranno alla regia solo dopo sci anni, Chen Kaige e Zhang Yimou si avviano verso la loro stagione me­ no ispirata (in qualche misura riscattata recentemente dal solo Zhang), Tian Zhuangzhuang invece, per aver montato e mostrato all’estero The Blue Kite senza autorizzazione, verrà inserito nel 1994 in una lista di re­ gisti a cui viene negata la possibilità di lavorare nell’industria cinemato­ grafica sia statale che privata per cinque anni. A riaprire la sfida con il regime, su un altro fronte, saranno alcune personalità chiave di quella che verrà chiamata Sesta generazione: Zhang Yuan, Wang Xiaoshuai, He Jianjun, Wu Wenguang, Ning Dai e i componenti di un collettivo di registi conosciuto con il nome di Structu­ re, Wawe, Youth, and Cinema Experimental Group (SWYC), anche lo­ ro, peraltro, inseriti nel bando del 1994 perché realizzano film «indi­ pendenti» ovvero che non rispettano la tradizionale procedura produtti­ va. Sono questi gli autori che verranno implicitamente associati allo stu­ dente di Piazza Tiananmen opposto ai carri armati, per prossimità ana­ grafiche, di milieu sociale, di coraggio nello sfidare un sistema più grande di loro.

1.3

Un altro cinema è possibile?

La palma di primo cineasta che lavora fuori dal sistema pubblico va as­ segnata a Zhang Yuan, un diplomato dell’Accademia di Cinema di Pe­ chino del 1989. Il suo film d’esordio, Mama (id., 1992), che può vanta­ re solo l’appoggio esterno dello stabilimento di Xi’an, mescola fiction e documentario e narra l’amore di una madre verso il figlio disabile. Il successivo Beijing Bastards (Beijing za zhong, 1993), cronistoria del­ l’esistenza emarginata di un gruppo rock e dei suoi componenti, non ha più alcun logo statale, visto che le sovvenzioni arrivano in parte dal fon­ do Hubert Bals del Festival di Rotterdam e in parte dal Beijing Bastards

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. * Group Da lì a pochi mesi altri lavori vengono realizzati fuori dal cir­ cuito ufficiale. The Days (Dongchun de rizi. 1993) di Wang Xiaoshuai, entomologia della crisi di una coppia di artisti, Red Beads {Xualian, 1993) e Postman {Youchai, 1995) due opere di He Jianjun che in misura diversa riflettono sull’ossessione, la malattia mentale e la solitudine de­ gli individui, sono finanziati dalla Shu Kci’s Creative Workshop, casa fondata dal regista e produttore hongkonghcse. Il bando di interdizione non giunge dunque inatteso, anche se si tratta di una risoluzione tra le più dure applicate dai governo, ma in compenso imprimerà un marchio profondo da un punto di vista tematico e stilistico, dacché argomenti e morfologie dei loro successivi film-Wang Xiaoshuai realizza nel 1996 Frozen (Jidu hanleng) sotto lo pseudonimo di Wu Ming, Zhang Yuan Sons (Erri) e East Palace. West Palace {Dong gong xi gong) ù a il 1996 e il 1997 ecc. - saranno sempre più influenzati dalle loro esperienze bio­ grafiche. Nondimeno si cadrebbe in errore se si descrivessero le produzioni mainstream e quelle «indipendenti» come due emisferi separati tra loro, impermeabili l’uno all’altro. Al contrario, molti compagni di corso di Zhang e Wang, a loro vicini per convincimenti estetici, lavorano all’in­ terno di alcuni stabilimenti statali (magari periferici) per avvantaggiarsi anche di una distribuzione ufficiale. Diri {Toufa litanie, 1994) di Guan Hu è, in tal senso, un caso scuola: co-prodotto dallo studio della Mon­ golia Interna, porta sullo schermo un ritratto generazionale simile a quelli tratteggiati da altri suoi coetanei dove, ancora una volta, le diffi­ cili relazioni di coppia, l'assenza di punti di riferimento e di valori, un sentimento di alienazione permeante, vengono proiettati su personaggi che appartengono a un contesto artistico (quello di una ex banda musi­ cale). Anche The Making of Steel (Zhangda cheng ren, 1997) di Lu Xuechang, prodotto dal Beijing Film Studio, narra le vicende di un gio­ vane operaio che diventa un ingenuo e spossato rocker mentre In Ex­ pectation (Wushan yunyu, 1996) di Zhang Ming, diviso in tre episodi, mette in scena tre personaggi depositari di uno sguardo inerme e stanco

1

Si tratta una casa di produzione fondata ad hoc dallo stesso Zhong Yuan e da Cui Jian,

leader indiscusso del panorama musicale underground di quegli anni, nonché co-autore della sceneggiatura e interprete principale della pellicola.

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sulla vita (il guardiano di un faro, una madre sola, un poliziotto). Sem­ pre alla stessa tendenza è riconducibile Weekend Lover (Zhoumo qingren, 1994) di Lou Ye, torbido triangolo amoroso tra un ex detenuto, l'ex fidanzata e l'attuale compagno di quest’ultima. Lou, prima di fon­ dare una propria casa di produzione, la Dream Factory, si avvale del so­ stegno del Fujian Film Studio. Parallelamente - e in termini di forte contiguità con i registi di fic­ tion - si sviluppa un movimento di documentaristi «indipendenti». Co­ me è noto, per diversi decenni il documentario è stato uno degli stru­ menti di propaganda più efficaci per illustrare le campagne politiche del partito. L'impianto discorsivo era di tipo didascalico, la presenza della voce over offriva la giusta interpretazione alle immagini, il linguaggio seguiva logiche standardizzate. Nei primi anni Novanta una serie di pro­ getti audiovisivi tra loro paralleli, prova a servirsi di questo registro per descrivere fenomeni sociali e culturali del paese. La figura più impor­ tante è certamente quella di Wu Wenguang, che intorno al 1990 realizza un documentario in cui si narrano le vicissitudini di alcuni giovani arti­ sti immigrati nella capitale per cercare vanamente fortuna9. Bumming in Beijing - The Last Dreamer (Liulang Beijing, 1990), questo il titolo, è un’opera amara, solitaria, intrisa di un pessimismo che raramente aveva fatto capolino prima di allora nei documentari. Basti pensare alla con­ clusione delle parabole di questi personaggi, decisi a sposarsi con an­ ziane signore straniere per abbandonare il paese e cercare fortuna all’e­ stero. Chris Berry definirà Bumming in Beijing il primo vero documen­ tario cinese (jilu pian) in quanto riesce ad assorbire il mood del tempo (il sentimento di sconforto post-Tiananmen provato dagli intellettuali), a raccontare come l’urbanizzazione incide sulla vita delle persone, ad affermare un cinema di «prossimità», quasi autobiografico, e nel con­ tempo ad affrontare la sfida del mercato senza la protezione di alcun en­ te statale"’.

’ Su Wu ai legga l'interessante saggio di Berry: C. Be *RY,

Bir Wenguang: An Introduc­

tion, «Cinema Journal», 46, l, autunno 2006, pp. 133-36.

Itt Una citazione di mento va al sito del China Independent Documentary Film Archive (www.cidfa.com/moduled/video.php) che mette a disposizione degli utenti, gratuitamente, diverse decine di documentari cinesi, tra i quali i più importanti di Wu Wenguang.

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Negli stessi mesi Shi Jian e Cben Yue, appartenenti alla gruppo SWYC, firmano / Graduated! (ffb biye le, 1992) una video-intervista in cui vengono interpellati otto neolaureati delle più prestigiose univer­ sità cinesi su temi quali l'amore, il sesso, le aspirazioni lavorative, gli stili di vita, i gusti musicali. Dalle loro risposte emerge, una volta di più, un clima di disaffezione che sembra dipendere da un fuoricampo invisi­ bile eppure fortemente oppressivo, quello dell’autorità. Medesimo ap­ proccio è quello approntato da Duan Jinchuan e Zhang Yuan nel loro The Square (Guangchang, 1994), documentario «muto» in cui vengo­ no registrate, senza alcuna voce di commento, le attività quotidiane che si dispiegano in Piazza Tiananmen. È convinzione dei due cineasti che

solo nelle immagini indifferenziate si possono catturare gli stili di vita che cambiano, i nuovi volti dell’economia, il molo intimorito e intimo­ rente delle autorità (le parate, le visite dei politici, le ronde dei poliziot­ ti), la trasformazione delle icone di regime in souvenir da turisti. Una partecipazione più intensa c implicata si trova, infine, in The Other Bank (Bi An, 1995) un documentario di Jiang Yuc che descrive le fasi di allestimento e di performance di una pièce di teatro sperimentale. Sia­ mo all’intemo dei locali dell’Accademia del Cinema di Pechino che po­ co per volta, grazie all’uso di giornali, sedie, corde, si trasforma in uno spazio urbano surreale e astratto dove i confini tra gli oggetti, i corpi, le apparecchiature di ripresa vengono meno. Siano essi di fiction o documentari, tali film conservano un’indubbia omogeneità tematica. I focus di riferimento potrebbero essere raffigu­ rati come cerchi concentrici che partono da un unico centro gravitazio­ nale rappresentato dall’occhio del regista. Attorno a lui, in un primo ideale e privilegiato cerchio, ruotano artisti, musicisti e intellettuali, alter-ego dei nostri giovani autori per la medesima precarietà esistenziale e professionale". Un secondo cerchio, più largo, convoglia altre figure socialmente marginali sebbene non afferenti al mondo dello spettacolo 11

Tra questi ricordiamo: cantanti underground (Beijing Basta ids. The Making ofSteel.

Dirt, Platform), pittori e letterali (77ic Days, At Home in the Worlds ancora

Estranged

Paradise, Dong), artisti dì strada o performer (The Other Bank, Frozen, Fish and Elephant,

Jiang Hu-A life on the rutid. The World), attori teatrali e cinematografici (Fur Fun. Quit­ ting. Figurant. Beijing Suburb), ballerini (Dance with Farm Workers, Miss Jin Xing), foto­

grafi e cinefili (Pirated Copy, Lunar Eclipse, Butterfly Smile).

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come anziani, malati di mente, voyeur, disabili, alcolizzati, omosessua­ li e prostitute12. Anche in questo caso, è un soffocato affacciarsi al mon­ do che riverbera, come in un gioco di specchi, le stesse dmamiche di esclusione e di invisibilità presenti nell'ambiente artistico. Un terzo cer­ chio è invece quello che rimanda alla «non» rappresentazione dei fatti di piazza Tiananmen, di cui si possono apprezzare le tracce indirette nei luoghi spogli, nei volti segnati di alcuni personaggi, nei sentimenti0. Ad attraversare i tre cerchi una comune direttrice di esibizione non più dei riti ancestrali, ma della devianza di una condizione umana che appare indifferenziata c ineliminabile. Una narcisistica contemplazione della sconfitta del sé. Tale status non può che rispecchiarsi su oggetti e ambienti. Non è un caso se l’etichetta Sesta generazione viene poco per volta sostituita con quella di «Generazione urbana», per ribadire la centralità assunta dal contesto metropolitano e. più in generale, dai luoghi periferici attraver­ sati da questi moti di deriva. Rispetto ad alcuni film urbani realizzati nel decennio precedente, che mostravano luoghi dalla geografia chiara e sacche di identità resistenti ai cambiamento14, le nuove pellicole sono accomunate da un moto implosivo che si alimenta negli spazi angusti o disadorni dei palazzi, dei laboratori, delle quinte, dei magazzini dove esplodono finestre, grate, sbarre a occludere sguardi, angolazioni, pro­ spettive. In una rappresentazione della città che mira a moltiplicare al­ l’infinito il senso di alienazione di chi, controvoglia, la abita. In questa stagione di passaggio NingYing si ritaglia un ruolo defila­ to e insieme decisivo. Cineasta anagraficamente ascritta alla Quinta gc-

,J Altri titoli divisi per categorie: gli anziani (ForFun, Old Men, Sona), i inalati di men­ te (Red Beads), i voyeur (Postman) i portatori di handicap (Marnai gli alcolizzati (ancora Sons), gli omosessuali (East Palace fffes/ Palace, Men and

e Ie prostitute (Xiao

Ffi/, Orphan oj Anyang, Uniform) n Oltre ai già citali The Square, Bumming In Beijing e 1 GraduatedI ricordiamo anche Conjugation (Dong ci bian ivei, 2001) di Tang Xiaobai, One Day in Beijing (Foi? pitia, zai

Beijing, 1994) di Jia Zhang-ke (suo primo cortometraggio), Summer Palace (Ythe yuan,

2006) di Lou Ye, nonché la serie televisiva mai andata in onda Tiananmen Square di Shi Jian e Chen Jue, anche in questo caso Him ambientati nella celebre piazza. ,4 È il caso ad esempio di A Corner in the City (Dushì li de cunzhuang, 1982, Teng

Wenji), Beijing Morning (Beijing ni :ao, 1991, Zhang Nuanxin), The Troubleshooters (

1988, Mi Jiashan) o Obsession di Zhou Xiaowen.

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fi cinema dell’Estremo Oriente

nerazione ma da sempre vicina alle sensibilità della Sesta, grazie ai suoi primi tre film tutti dedicati alla sua città natale, traccia, con una lucidità impressionante, gli spazi di superamento dell’estetica autoreferenziale dei colleghi più giovani. La trilogia pechinese si compone di For Fun [Zhao Le, 1993), storia di un ex usciere del teatro dell’Opera di Pechino che organizza in un parco pubblico spettacoli concertistici con un grup­ po di pensionati suoi coetanei, On the Beat (Minjing gushi, 1995), in cui si narra la vita di un poliziotto di quartiere, tra crisi matrimoniali e sur­ reali incombenze professionali (tra cui il censimento dei cani delle fa­ miglie borghesi) e / Love Beijing (Mari nuanyangyang, 2000), croni­ storia di un tassista separato dalla moglie che cerca di intrattenere brevi e fugaci relazioni con alcune sue clienti. 11 percorso implicito che si compie assistendo ai tre film sembra sintetizzare precisamente l’evolu­ zione del panorama cinematografico tra la metà degli anni Novanta e la fine degli anni Duemila. In prima battuta si assiste a una progressiva estensione dell’abbraccio raffigurativo e spaziale: si parte da un piccolo parco chiuso, si passa a un quartiere residenziale eterogeneo ma perimetrato e si finisce in una città senza più confini, attraversata da un taxi che parte simbolicamente dal centro della capitale (ancora una volta piazza Tiananmen) e arriva alle sue periferie in piena metamorfosi edi­ lizia. In secondo ordine si registra un’accentuazione della ripartizione calibrata del tempo lavorativo: si passa dal tempo indifferenziato dei pensionati a quello tradizionale dei poliziotti fino a quello mercificato dal tassametro. Ne consegue un’alterazione della modalità di abitazione del reale: stanziale e placida nel primo film, a passo d’uomo (o in bici­ cletta) e abitudinaria nel secondo, rapida, nomade, fluttuante nel terzo. Da qui anche un cambio dell’omogeneità delle cellule sociali: paritarie e tutto sommato coese quelle dei pensionati, gerarchizzate c subordina­ te quelle dei poliziotti, del tutto assenti o fugaci quelle del tassista e dei suoi clienti. Ma è soprattutto il concetto di trasformazione (urbana e so­ ciale) a trovare nuove definizioni che i personaggi immobili e narcisi­ stici delle prime opere della Sesta generazione non sapevano rappresen­ tare, proprio come i pensionati al parco di For Fun, interessati solo alla spettacolarizzazione della loro condizione. Come emeige bene dai film di Ning Ying e poi, ancor meglio, da altri nuovi autori, la città non è più anfiteatro, ma rovina, non luogo di spettacolo, ma traccia c deposito che

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conferma i processi di diluizione della memoria e delle identità (pubbli­ che e private) in atto. È un complesso semiotico in cui le cicatrici dello sviluppo urbano (macerie, rottami, costruzioni edilizie, cantieri, scarti della società consumista) si traducono in sintagmi, segni, codici di una lingua in continua e perpetua reinvenzionc. Zhang Zhen individua il marchio di fabbrica della nuova generazione «(nel)l'ubiquità del bull­ dozer, [nel]le gru dei cantieri edili, (neljlc macerie delle rovine urbane, come portatrici di uno stringente valore sociale indexidale»15. Di più, come la trilogia di Ning Ying dimostra, nasce l’esigenza di filmare il cambiamento nel momento stesso in cui si realizza, con sempre mag­ giore prontezza e agilità, pena l’impossibilità di deposito c di condivi­ sione di una grammatica che sappia normare questa nuova lingua. «L’urgenza di questa temporalità del qui e dell’ora - ribadisce Zhang Zben - è alimentata dal l’inesorabile sviluppo urbano, ma anche dall’ur­ genza di intervenire in un processo che sta rapidamente cancellando la memoria urbana e producendo ima amnesia collettiva»l6.

1.4

Lumière, Wu Ming e Mingong

Negli ultimi dieci anni il cinema cinese è radicalmente mutato come (o forse più di) altri settori produttivi del paese. Aumento straordinario di produzioni e profitti (si è passati dalle 83 pellicole del 2000 alle 406 del 2008, da 960 milioni di RMB di incasso del 2000 a 4200 del 2008), concorrenza spietata interna ed esterna (oggi il 60% del box office è ca­ lamitato da film della Repubblica Popolare), investimenti in tecnologie e formazione (e molto meno in sussidi e propaganda), ampliamento del­ la domanda e dell’offerta, integrazione tra pubblico e privato (sempre più frequenti i film a capitale misto) sono solo alcuni dei dati impres­ sionanti di questo periodo, inimmaginabili solo alla fine degli anni No­

15 Zhang Z,, Bearing Witness, Chinese Urban Cinema in the Era of «Trasformotion» (Zhuangxing), in Id. (a cura di). The Urban Generation. Chinese Cinema and Society at the Tdm of the 7\venty-ftrst Century, Duke University. Durham 2006, p. 3.

16 Zhang Z., Bearing Witness, cit, p. 20.

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vanta. Con il senno del poi. si può affermare che la riorganizzazione del settore, iniziata dopo l'accantonamento, almeno parziale, della logica dei leitmotiffilm, ha dato i suoi frutti e anche la censura governativa si è in parte attenuata (sostituita spesso da quella delle leggi di mercato). In un panorama cinematografico sempre più frastagliato diventa ar­ duo registrare la maturazione di processi che durino più dello spazio di un mattino. Tra questi solo l'avvento del digitale, e la sua diffusione ca­ pillare sia nelle grandi che nelle piccole produzioni, sembra offrire gli appigli per tracciare un profilo diacronico della più recente storia del ci­ nema. Siamo, infatti, alla fine degli anni Novanta quando i primi registi professionisti provano a fare a meno della pellicola e ad affidarsi alle nuove tecnologie. Tra i primi sperimentatori c’è ancora una volta Wu Wenguang che nel 1999 gira Jiang Hu: Life on the Road (id.) documen­ tario su una troupe di attori di strada che lavora nelle campagne dello Henan. Più o meno negli stessi mesi altri colleghi ne imitano la scelta: Yang Tianyi, regista autodidatta, ritrae in Old Men {Laotou, 1999) una comunità di anziani che trascorre il tempo all’incrocio di una strada; Zhu Chuanming in Beijing Cotton-Flujfèr (Beijing tanjiang, 1999) de­ scrive l’esistenza di uno spiantato che si guadagna da vivere recuperan­ do cotone da materassi e cuscini; Wang Fen in More than One is Unhappy (id., 2000) intervista i propri genitori per farsi raccontare la loro relazione andata in frantumi. Da lì in poi è un moltiplicarsi a di­ smisura di documentari e fiction in DV, firmati sia da registi affermati (Ning Ying, Wu Wenguang, Jia Zhang-ke) sia da sconosciuti (Zhu Wen, Li Yu, Ying Weiwei). Non deve sorprendere che sia ancora una volta il documentario l'a­ vanguardia delle nuove tendenze artistiche17. Ci sono evidenti motivi di budget, ragioni tecniche (la minore definizione fotografica non inficia la visione in DVD, in TV o nei circuiti alternativi), ma anche una sorta di affinità elettiva che fa corrispondere propositi di regia e strumenti di azione: il realismo si fa ancora più immediato se si possono utilizzare videocamere leggere e maneggevoli. Con il digitale, inoltre, è possibile

17 Sulla nuova stagione del documentano cinese si legga: Yincx hi Chu, Chinese Docu­ mentaries: From Dogma to Polyphony, Routledge Media, Culture and Social Change in

Asia Scries, 2007

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lavorare discretamente, senza autorizzazioni, in equipe ridotte, fuori da­ gli stabilimenti, con tecnologie a portata di tasche. In un paese dove non si è vissuta la stagione del video famigliare in superò e dove i media so­ no saldamente nelle mani del partito, le mini-DV rappresentano insom­ ma una possibilità di democratizzazione o, se non altro, di orizzontalità delle informazioni e delle narrazioni. Al netto della retorica, si può af­ fermare che il digitale ha consentito in questi anni, in Cina più che al­ trove, la formazione di immaginari collettivi dal basso e una circolazio­ ne di idee e ipotesi artistiche di rara intensità. Non può essere accidentale se insieme al digitale emerge una secon­ da onda di cineasti, facilitata nell’accesso alla professione da condizio­ ni meno sclerotizzate che in passato. A differenza del primo gruppo di cineasti «indipendenti» che contava pochi adepti e una coesione identi­ taria più marcata, con il nuovo secolo la ramificazione tematica si fa più evidente. Vengono meno i perimetri del movimento (e con loro la perti­ nenza delle etichette), ma in compenso si libera un surplus di energie che rende sempre più integrato e pullulante il paesaggio produttivo. Si assiste a una proliferazione di debutti cinematografici che restano negli annali non perché prodromi di autorialità nascenti, ma perché testimo­ nianze di un pensiero, voci che raccontano una piccola fetta di presente. Molti dei newcomer non riescono ad andare oltre a uno o due film, al­ cuni sfruttano le prime pellicole low budget come biglietto da visita per entrare nei ranghi dell’industria statale1*1, altri riescono con qualche dif­ ficoltà a perseguire un proprio discorso estetico. Tra questi ultimi meri­ tano una menzione Wang Chao e Liu Bingjian. Wang si segnala per The Orphan ofAnyang (Anyang de guer, 2001) storia di un everyman che deve accudire il bambino di una prostituta e di un gangster malato di leucemia. Con i successivi Night and Day (Ri ri yeye, 2004) e Luxury Car (Jiang cheng xia ri, 2006), continua a riflettere sulle distanze tra identità pubbliche e private, sulla dissoluzione degli istituti familiari, Tra i tanti segnaliamo la parabola più emblematica, quella di Ning llao che nel 2003 gira, come lavoro di tesi per l’Accademia, una fiction in DV ambientata in un monastero buddista. Incense (Xianghuo, 2001X poi si segnala in alcuni festival intemazionali con il shaoshu mìnzn divertente ed estatico Mongolian Ping Pong (Ln cao di, 2004), per poi af­

fermarsi definitivamente come regista di cassetta nei successivi action-thriller comedy Crazy Stone (Fengkuang de xhitou, 2006) c Crazy Race (Fengkuung de sinché, 2008).

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sull’ipocrisia che sorregge i rapporti interpersonali. Liu Bingjian è, in­ vece, cineasta che ama il lato assurdo o inaspettato delle cose: Men and Women (Nannan niinu, 1999) affronta il tema tabù dell’omosessualità femminile, Cry Woman (Ktt qi de nii reti, 2002) mette in scena la storia di una donna che si guadagna da vivere piangendo ai funerali altrui. Plastic Flowers (Chun hua kai, 2004) è il ritratto di una «vedova alle­ gra» che gestisce una fabbrica di fiori di plastica. Accanto a Wang e Liu ci sono molti altri colteghi: scaltro e sperimentale è Lou Ye, segnalatosi per Suzhou River (Suzhou he, 2000) un dramma d’amore in gran parte ripreso in soggettiva, per Purple Butterfly (Zi hudie, 2003) un feuilleton sentimentale ambientato durante la guerra sinogiapponese a Shanghai, e soprattutto per il recente Summer Palace (Yihe yuan, 2006) melodram­ ma carnale ambientato nel milieu studentesco prima, durante e dopo le proteste del 1989; nostalgico e conciliante Zhang Yang, con una fama immeritata di regista di rottura per via di Quitting (Zuotian, 2001), cro­ nistoria della vita dissoluta detrattore Jia Honghseng, in realtà cineasta tendente a un classicismo leggero e nostalgico, come confermano Spicy Love Soup (Aiqing mala tang, 1997), Shower (Xizao, 1999), Sunflower (Xiang ri kui, 2005) e Getting Home (Luo ye gui gen, 2007)'“*. All’interno di questo gruppo è la figura di Jia Zhang-ke a stagliarsi per carisma e lucidità (vedi anche cap. 4). Il suo primo lungometraggio, Xiao Wu (id., 1997), è un low budget girato in uno sporco 16mm, am­ bientato a Fenyang, sua città natale. Il protagonista - un piccolo borseg­ giatore timido e romantico, ancorato a un anacronistico sistema di valo­ ri - incarna, per molti versi, l’idea di cinema sostenuta da Jia e da molti suoi colleghi. Xiao Wu ruba portafogli avendo cura di restituire alle pro­ prie vittime le carte di identità come il cinema ruba immagini alla realtà avendo cura di restituire un’identità ai soggetti che riprende. Lo spirito etico che guida le sue azioni è lo stesso che vorrebbero conservare i ci­ neasti che scelgono itinerari artistici fortemente collegati alle questioni

” È bene abneno citare anche altri cineasti ctnéphilc come Lu Yuc, autore di Mr Zhao (Zhao xiansheng. 1998) c The Obscure (Xiattshuu, 2006), Wang Quan’an segnalatosi re­

centemente con II matrimonio di Tuya (Tìtya de hun shi, 2006), Orso d’oro a Berlini», Li Yang di cui si annovera il dittico Blind Shaft (Mungjing, 2003) e Blind Mountain (Mang

shan, 2007), Li Yu, Cui Zi’cn, Andrew Cheng Yu-Su e Diao Yi’nan

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sociali del paese. Entrambe le figure (registi e pickpocket) sono «liberi professionisti» incapaci di arricchirsi e, nel contempo, di apparire come modelli di probità agli occhi della comunità. Pedinano, inseguono, os­ servano, scappano dal reale, rischiando un arresto più simbolico che pratico e una condanna più sociale che politica, come conferma il fina­ le del film, con il piccolo Wu ammanettato a un palo e osservato dai passanti. Tale condizione sembra essere una sintesi perfetta degli sforzi di coloro che si illudono di catturare la realtà per venire a loro volta cat­ turati, ma anche delle modalità di visione dei nuovi film, fruiti per caso in ambienti informali. C’è uno scarto e un superamento - pur nella con­ tinuità - dei cinema autoreferenziale di Zhang Yuan o Wang Xiaoshuai. La marginalità non è orgogliosamente rivendicata (Xiao Wu non è un rocker ma un pickpocket), ma è il risultato di dinamiche economiche che nei fatti trasformano gli individui in esseri privi di una rete sociale che li protegga. I personaggi descritti sono, come si evince dai suoi successivi film, i rappresentanti degni di una stagione che celebra il protagonismo del di­ lettante, il silenzioso eroismo dell’uomo comune, l’intensità significan­ te dell’ordinario. In un suo saggio ancora inedito in Europa, il regista auspica l’avvento di un’età amatoriale del cinema dove «i registi non ri­ conosceranno nessun genere di frontiera professionale c si situeranno ai margini delle regole e delle tradizioni [e dove] onore e realismo sono la clave della loro etica intellettuale» * 1. Qualche anno dopo, in un suo in­ tervento sulla rivoluzione digitale pubblicato sui «Cahiers du Cinema», Jia precisa: «La tecnica numerica consente di uscire dall’inquadramen­ to tradizionale della regia per lavorare con meno mezzi e con un metodo di girare [...] molto minuzioso e molto agile. [...] Nel passato i poeti cinesi avevano sempre l’abitudine di comporre le loro liriche viaggian­ do. Allo stesso modo, anch'io amo viaggiare, andare nelle piccole città

y‘

Jia

hew dtonytng shtdai jijiang zaicì duolaì, in Zhang X,, Zhang Y (a cura di),

Yìgeren de yingxiang; DV wanquun shoucc, Zhongguo qingnian chubansbc, Pechino 2003.

Il brano è tratto dalla traduzione in spagnolo contenuta in A. Elena, Mi càmura no mietile;

el nttoevo documento! chino, J 990-2004, in L. Miranda (a cura di), China siglo XXI; desafìoa y diiemus de un nuoto cine independiente (1992-2007), Junta de AndaJucia, Con-

scjcria de Cultura, Cordoba 2007, pp. 209-11.

II cinema dell 'Estremo Oriente

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o nei villaggi sconosciuti. [...] Amerei ritornare all’epoca dei film muti e riscoprire il cinema partendo da quest’epoca. [...] Perché il nostro sguardo non può rissarsi direttamente sull’apparenza per mostrare l’es­ sere umano sotto tutti questi aspetti, attraverso tutti i suoi sentimenti? All’epoca del muto le emozioni (la collera, la gioia la paura) erano in primo piano»21. Forse senza rendersene conto il regista indovina Io scarto epistemo­ logico che un certo cinema cinese ha imposto da una decina di anni a questa parte. Definendo il termine «amatoriale» non come assenza di professionismo, ma come affermazione di normalità, candore e curio­ sità, anelando una predisposizione al viaggio, o meglio alla fuoriuscita dai binari del consolidato e del già depositato (le convenzioni cristal­ lizzate), egli assegna al cinema una missione che riconduce ancora pri­ ma dei periodo muto, vale a dire a quella stagione del cinematografo delle origini dove si sperimentava, per la prima volta, la scrittura del movimento. A pensarci bene, le centinaia di cineasti destinati, tra qual­ che anno, all’anonimia malgrado fiction o documentari interessanti e impegnativi sono come quegli operatori Lumière che tra Ottocento e Novecento vagavano per i quattro angoli del mondo alla ricerca di nuove vedute, di nuovi punti di vista, di nuove realtà da registrare22. Di più: anche grazie ai sempre più numerosi e imponenti progetti di do­ cumentazione sociale che vengono avviati in questi anni, questi ope­ ratori wu ming (senza nome) stanno diventando i fautori, quasi impu­ denti. di un immenso archivio storico di immagini, patrimonio indif­ ferenziato della comunità, fonte di studio per gli storici e i sociologi del futuro, vera e propria memoria digitale e digitalizzata che srida il processo di amnesia collettiva che sta colpendo la Cina del nuovo cor­ so capitalista. Rientrano armonicamente in tale pentagramma alcune generali dire­

21 Jia Z, Les troix revolution* du mtmériqtie, «Cahiers du cinéma». 586, gennaio 2(MM, p. 22.

u Una ricerca, si noti, che non deve essere per forza paesaggistica o metropolitana, ma

che può indagare anche infinitesimali trasformazioni del tessuto individuale: in More than One is Unhappy, Wang Fcn inserendo la sua piccola camera digitale ai)'interno dello spa­ zio domestico della propria casa, penetra in luoghi inviolabili per t precetti confuciani, de­

nudandone i meccanismi ipocriti e la fragilità dei suoi membri.

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zioni di sviluppo del cinema contemporaneo, almeno di quello d’essai. Il primo (e forse anche il meno interessante) rimanda al tentativo, di ab­ battere i tabù della rappresentazione (sesso, dipendenze, criminalità) dando seguito all’operazione che Zhang Yuan aveva fatto con East Pa­ lace West Palace uno dei primi film sull’omosessualità realizzati nella Terra di Mezzo23. Una seconda tendenza è quella di documentare ciò che viene cancellato, ignorato, espulso dalla società capitalista. Vaga­ bondi, disoccupati, prostitute, accattoni, rappresentanti di minoranze et­ niche, uomini e donne confinati non sono più proiezioni speculari di un regista emarginato, ma sono più semplicemente rifiuti della società dei consumi, merci avariate, detriti e scarti di magazzino34. Ancora più inte­ ressante è l’altra urgenza che sembra emergere in questi ultimi anni, quella che analizza, nei suoi fondamenti e nei suoi spazi indicibili, nel­ le sue logiche interne, la disgregazione della famiglia, la confusione dei ruoli sociali, l’incomunicabilità di coppia, sintomi di una società che si avvia a vivere i mali di ogni borghesia senza aver potuto assaporarne i privilegi25. Esiste, però, un’altra figura di wu ming capace di incarnare le ten­ denze e le inclinazioni più recenti, simbolo della nuova era capitalista, su cui poggia una buona parte del recente progresso economico. Stiamo parlando del mingong, letteralmente contadino-operaio, ex lavoratore dell'industria agricola trasferito nelle metropoli per lavorare nei cantie­ ri edili.11 * 11 Tra i titoli intenti a rompere tabù e acquiescenze cinematografiche segnaliamo alcu­

ni dedicati all'omosessualità conte The Box {He zi, 2001, Ying Weiwei), Enter the Clowns {Chou/ue Dengchang, 2001, Cui Zi'en), Fish and Elephant (Jinnian xiatian, 2001, Li Yu) e The Snake Boy (Wo shu she, 2002. Chen Miao & Li Xiao), altri alla proliferazione del-

I'Aids come To Live lx Better than to Die {Hao Si Bu Ku Lai Huo Zhe, 2002, Chen Weijun), altri ancora alla prostituzione come Feeding Boys Àyaya (Aiyaya, Qu hum, Cui

Zi'en, 2003), Welcome to Destination Shanghai {Madidi Shanghai, 2003, Andrew Cheng Yu-su), o alla tossicodipendenza come il già citato Quitting o il lavoro del video artista

Zhao Liang Paper Airplane (Zhi fei ji, 2001)

Di cui sono ottimi rappresentanti i protagonisti di film come Beijing Suburb (Beijing

Jiuoqtt, 2002. Hu Ze), Along the Railway (Tielu yanxian, 2000, Du Haibin), Extras (Qunzhongyanyuan, 2001, Zhu Chuanmtng), Floating {Piao, 2005. Huang Weikai).

*•’ Si vedano ad esempio I già citati Oxhide, Luxury Car, Move than one is Unhappy,

Mr. Zhao, e gli altrettanto significativi Go for Broke (Heng shu heng. 2001. Wang Guangli) e TUv Great Sheep (Hao dayi dui yang. 2004, Liu Hao).

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La presenza dell'operaio-contadino in decine di film26 impone una serie di interrogativi sul senso attuale delle identità, private e pubbliche. Come è noto, l’organizzazione del tessuto sociale comunista è stata per molti decenni disegnata attorno a cinque categorie professionali (com­ mercianti, studenti, soldati e, ovviamente, contadini e operai) e ogni cit­ tadino definiva la propria identità in base all’appartenenza all’una o al­ l’altra. La propaganda, d’altronde, situava tali figure al centro di ogni rappresentazione fino al vaticinio della Rivoluzione culturale che impo­ neva ai giovani di imparare tutte queste professioni prima di concludere il proprio iter formativo. Con la società consumista le funzioni modello sono state assegnate ad altre figure (imprenditori, sportivi, star delle TV ecc.) e quelle classiche - comunque maggioritarie - si sono trovate pri­ vate di consistenza archetipica e profilo edificante. I lavoratori emi­ granti, da questo punto di vista, diventano l’ultimo stadio di una disso­ luzione identitaria che coinvolge anche chi non si trova per forza ai mar­ gini della società. Si pensi al protagonista di Uniform (Zhi fu, 2003) di Du Haibin, figlio di un sarto, ladro di identità e di una divisa da poli­ ziotto che gli consente di sentirsi importante e gli infonde il coraggio per corteggiare una ragazza. Non è il solo a cucirsi addosso un’unifor­ me, qualsiasi essa sia, e a fare di tutto per conservarla: i giovani agenti di Dirt, On The Beat, In Expectation, East Palace West Palace, Seafood (Haixian, 2001, Zhu Wen), sembrano tutti accomunati dal fatto di na­ scondere sentimenti, debolezze, solipsismi dietro una divisa di ordinan­ za che offre loro riconoscibilità c appartenenza. In Oxhide (Niu Pi, 2005) di Liu Jiayin una famiglia entra in crisi quando il padre si rifiuta di cambiare i metodi di produzione tradizionali (il suo abito) per au­ mentare la produttività. Ancora più significativa è l’opera ciclopica di Wang Bing: West ofthe Tracks ( Tiexi qu, 2001 ). Diviso in tre parti rela­ tivamente indipendenti, della durata complessiva di nove ore, il docu­ mentario costituisce una testimonianza straordinaria della dismissione * A questa figura sono stati dedicati diversi film: Out of Phoenix Bridge (Hut daofeng

huang qiao, Li Hong, 1997), So Close to Paradise (Biandan, guniattg, Wang Xiaoshuai,

1998), City Paradise (Dushi Tian lang, Tang Daman. 1999), Leave me dlone ( Ffb bit yao ni guan, Hu Shu, 2001), The Concrete Revolution (id., Guo Xiaolu, GB, 2004), Railroad of Hope (Xi wang zhi lu, Ning Ying, 2002) per finire ai più noti Le biciclette di Pechino iShi-

qi sui de danche, Wang Xiaoshuai, 2001) e The World (Shijte, Jia Zhang-ke, 2004) ec£.

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di una zona industriale nei distretto di Tiexi. Lo smantellamento delie aree minerarie e metallurgiche, il panorama postfordista di desolazione sociale, il calmo e imperscrutabile itinerario degli operai verso il baratro economico e famigliare, l’inutilità di infanzie e adolescenze senza futu­ ro, restituiscono il senso di oppressione silenziosa per un tessuto comu­ nitario e collettivo sfibrato, logoro c liso a cui un certo cinema cerca di restituire densità e resistenza.

1.5

Dietro l’angolo

Il digitale e le nuove tecnologie producono un forte impatto di ammoder­ namento anche nelle produzioni mainstream, in quelli che anche in Cina iniziano ad essere definiti blockbuster. Dopo il fortunato esempio de La tigre e il dragone ( ffb hu cang long, 2000) di Ang Lee, è Zhang Yimou a tirare la volata al nuovo filone di wuxiapian storici, vale a dire film di ca­ valieri erranti (o soldati imperiali) dai poteri straordinari, collocati però in un milieu temporale più preciso, spesso legato ai fasti delle dinastie imperiali de! passato. Con Hero (Yingxiong, 2002) e con La foresta dei pugnali volanti (Shi mian mai fu, 2004) vengono definiti nuovi standard espressivi rispetto alla tradizione hongkonghese: se quest’ultima per met­ tere in scena l’azione si affidava, con una certa artigianale ingegnosità, a stratagemmi discorsivi e a trucchi ottici abbastanza elementari, innescan­ do moti di frenesia, eccesso, caos e dichiarata falsificazione (montaggio vorticoso ed ellittico, step-framing, chioma key) Zhang sfrutta il nuovo iperrealismo della computer gmphica (ritocco, morphing, sintesi) per ri­ definire l'idea di spettacolo come eleganza e coreografia del reale, senza rinunciare alla trasparenza del decoupage e alla «verosimiglianza» del gesto (garantito spesso dall’assenza di tagli). Certo, egli si avvale di tutt'altri budget rispetto ai prodotti realizzali ad HK, nondimeno indivi­ dua un modello produttivo, linguistico e narrativo che verrà imitato, pur con tutte le differenze del caso (chi accentuando i caratteri melò del plot, chi la ruvidezza dell'azione), da molti suoi colleghi27. 27 Nello stesso filone vanno perciò aggiunte opere come The Banquet ( frvon, 2006) di

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Come emerge dai cast & credits di questi film, i nuovi kolossal di­ mostrano cbe l’industria cinese si sta indirizzando verso una solida ag­ gregazione di capitali, maestranze e talenti provenienti da tutti i paesi della regione, Hong Kong in testa. L’obiettivo è di confezionare prodot­ ti di eccellenza per penetrare i mercati asiatici e talvolta persino quelli intemazionali. Non a caso il loro profilo è abbastanza omogeneo: sono ambientati in un passato remoto, impastati con le tradizioni culturali più nobili del paese (arti marziali, filosofie e spiritualità), affidati a uno star-system sempre più aggressivo, ammantati di nuove tecnologie e spettacolarità. Per certi versi, possono essere considerati come una sor­ ta di leitmotiffilm del nuovo secolo, quasi sempre al servizio di un sen­ timento nazionale e comunitario. Per tutti questi motivi, i nuovi kolos­ sal devono essere letti come un'avanguardia produttiva: indicano ten­ denze, forme di organizzazione industriale, pur non essendo ancora ap­ plicabili su larga scala per ragioni economiche, ci dicono cosa c'è pro­ babilmente dietro l’angolo in attesa dell’arrivo del 3D. Più ampio e difficile da descrivere è il panorama di genere che si muove parallelamente agli high budget. Come si è già fatto notare, è al­ la generazione nata negli anni Cinquanta che si deve gran parte del rin­ novamento del cinema medio, sul piano degli stili e dei temi trattati. Feng Xiaogang, anch'egli anagraficamente afferibile alla Quinta gene­ razione, dall’inizio del decennio si guadagna la palma di indiscusso mattatore del capodanno cinese, settimana nella quale si registra la maggiore affluenza di pubblico nelle sale. Solo recentemente ha avuto a disposizione grandi budget c si è sperimentato nei film di cappa e spada o nei warmovie spettacolari [si veda The Banquet e Assembly (Jijie hao, 2007)], ma in realtà deve la sua fama a commedie talvolta corrosive, al­ tre volte melò, altre volte innocue come Be There or Be Square (Bu Jian bu san, 1998), Big Shot’s Funeral (Da wan, 2001 ) o A World Without Thieves (Tianxia wuzei, 2004). La formula che perfeziona è quella in­ ventata da Peter Loehr, fondatore di una delle prime case di produzione

Feng Xiaogang» Battle offfìls (Mukgong, 2006) di Jacob Cheung, Warlords (Tau ming

cbong, 2007) di Peter Chan, Three Kingdoms: Resurrection of the Dragon (Saum gwoù dii gtn lit ng se gap. 2008) di Daniel Lee, An Empress and the Marroni (Kong saan met yttn, 2008) di Ching Siu-tung, Red Cliff (Chi bi. 2008) di John Woo.

Il cinema cinese dagli anni Ottanta ad oggi

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a capitali privati (la 1MAR), specializzata in opere di confezionamento medio/alto, mirate a un pubblico autoctono a cui si racconta, con una buona dose di ironia, i cambiamenti del paese, soprattutto sul fronte dei costumi sociali, della crisi dei valori tradizionali e delle relazioni inter­ personali. A Beautiful New World (Metti xin shijte, Shi Runjiu, 1999), Spicy Love Soup e poi ancora A Love of Blueness (Lanse aiqing, Huo Jianqi, 2000), Life Show (Shenghuo xiu, Huo Jianqi, 2002), Cala My Dog (Ka la shi tiao gou, Lu Xuechang, 2003 ) possono essere considera­ ti altri titoli ironici, intelligenti, di successo. Gli esperimenti formali e la ricerca di nuovi target di pubblico non mancano nemmeno in questo set­ tore: The Missing Gun (Xunqiang, Lu Chuan, 2002), un detective movie parlato nel dialetto dello Sichuan, Spring Subway (Kaiwang chuntian de dilie, Zhang Yibai, 2002) un melodramma girato secondo l’estetica MTV, Baober in Love (Lian ai zhong de Bao Bei, 2004), saggio psiche­ delico di Li Shaohong che descrive la sensibilità femminile secondo prassi aliene a qualsiasi tradizione confuciana, sono solo alcuni dei film che mirano a collocare la soglia del rappresentabile in territori rimasti a lungo vergini. Più in generale si può registrare una tensione comune nel cercare di oltrepassare frontiere a lungo rimaste invisibili o impensabili. Chcn Kaige in The Promise (WuJi, 2005) impone un’iconografìa fumettistica priva di qualsiasi referenza al reale e al film d’azione. Sul fronte oppo­ sto, Wang Bing con A Journey of Crude Oil (Caiyou riji, 2008) ritrae la vita di operai che lavorano in una industria petrolifera nel deserto del Gobi in un documentario della durata di 840’. Il parossismo temporale non è prerogativa del solo Wang: Red Cliff (Chibi, 2008) di John Woo, primo film cinese del regista di A Better Tomorrow (Yinghung boon sik, 1986), dura, la bellezza di 280’ ed è stato suddiviso in due parti per es­ sere presentato in sala. Zhang Yuan, rientrato nei ranghi del cinema uf­ ficiale e capace di alternare pellicole di ricerca a film di genere, trova il tempo nel 2003 di realizzare il remake di un'Opcra modello intitolata Jiang Jie (Id.) rivalutando esteticamente alcune esperienze di teatro ri­ voluzionario. Sul versante dei rapporti ira arte e cinema c Yang Fudong la figura probabilmente più interessante non solo per la capacità di la­ vorare con i linguaggi figurativi, ma anche pei l’intensità dei messaggi proposti. Il work in progress Seven Intellectuals in Bamboo Forest, i pri­

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// cinema dell ‘Estremo Oriente

mi corti Liu Lan (Id., 2004) e A Backyard: Hey! Sun is Rising (Houfang - hei, tian Hang le, 2004) e la fiction An Estranged Paradise (Mosheng tiantang, 2002), tutti girati in un pastoso b/n, rompono gli argini dei lin­ guaggi, dei registri e delle fruizioni, in una connettività intensa tra pas­ sato e presente, finzione e documentario, arte e cinema, tradizione e modernismo che pervade, seppur in termini meno radicali, l’intero pa­ norama attuale.

Capitolo 2

Libretto rosso: immagini della rivoluzione culturale

2.1

La trilogia della Quinta generazione

Tra il 1993 e il 1994 vedono la luce Addio mìa concubina di Chen Kai­ ge - The Blue Kite di Tian Zhuangzhuang e Vivere! di Zhang Yimou. Dopo la strage di Tiananmen, i più autorevoli e sensibili registi del pae­ se avvertono l’esigenza, pur tra mille difficoltà1, di affrontare con sguardo più critico gli anni di Mao e il terribile decennio della Rivolu­ zione culturale. Con molti elementi in comune, i tre film, connotati in senso autobiografico2 «dalla necessità di ricordare e di filmare le pro­ prie esperienze»3, possono essere considerati come una sorta di trilogia della Quinta generazione: oltre ad essere uscite e nel volgere di pochi

1 tutti e tre i registi hanno infatti avuto non pochi problemi con la censura locale: a Tian Zhuangzhuang venne proibito di ultimare il suo film, che potè essere portato a termine, a Hong Kong, solo un anno dopo la fine delle riprese e grazie alle indicazioni scritte dello stesso regista (B. Reynaud, Nottvefles Chines, Nouvemtx ctnémas. Cahiers du cinéma Édi-

tkms, Parigi 1999, p. 67); a Zhang Yimou viene negato il permesso di seguire la propria opera al festival di Cannes (E Colamartino, M. Dalla Gassa. Il cinema di Zhang Yimou,

Le Mani, Genova 2003, p. 158); per quel che riguarda, infine, il film di Chcn Kaige, que­ sto venne si distribuito in Cina, ma con un prezzo d* ingresso di dieci volte supcriore a

quello degli altri film: il che non gli impedì di ottenere un notevole successo (L. Prudentino,

Le regard des ombres. Bleu de Chine, Parigi 2003, p. 30).

2 Tutti e tre i cineasti hanno visto la loro vita profondamente segnata dagli anni della Rivoluzione culturale, come testimoniano le lunghe interviste contenute in M. Berry, Speaking in Images. Interviews with Contemporary Chinese Filmakers. Columbia Univer­

sity Press, New Yoric 2005. pp. 50-141. 3 C. Neri, Ages inquiets. Cinémas chinois: une representation de la jeunease, Tigre de

papier, Lione 2009, p, 345.

fi cinema dell Estremo Oriente

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mesi, le tre pellicole sono tutte cooproduzioni tra la Cina e Hong Kong, sono pellicole ad alto budget con attori di prestigio, e sono state presen­ tate a importanti festival intemazionali (Addio mia concubina e Vìvere/ a Cannes, dove hanno ottenuto rispettivamente la Palma d’oro per il mi­ glior film e il Premio speciale della giuria; The Blue Kite a Tokyo, vin­ cendo il Gran premio per la regia). Tutti e tre i film, poi, possono essere considerati come saghe familiari dal carattere corale, dove le vicissitu­ dini dei protagonisti si intrecciano a quelle di numerosi personaggi se­ condari in una visione complessiva della società che abbraccia un lungo arco di tempo4. Proviamo a pensare davvero ai tre film come a una trilogia caratte­ rizzata da elementi di forte coesione, e tentiamo di disegnare una sorta di mappa che ne individui alcune figure dominanti, per poi confrontarle con altri film sulla Rivoluzione culturale che precedono e seguono la trilogia della Quinta generazione. Innanzitutto possiamo notare come nessuno dei protagonisti dei tre film si configuri apertamente come oppositore al regime; l’unico fra lo­ ro a muovere pubblicamente osservazioni critiche al nuovo stato delle cose è, e in una sola occasione, il Dieyi di Addio mia concubina, quan­ do nel corso di una riunione manifesterà alcune perplessità nei confron­ ti dell’opera moderna rivoluzionaria. In sostanza, si tratta di personaggi medi, non certamente eroi - e in questo molto distanti da quel che acca­ deva nel cinema maoista che aveva preceduto e accompagnato gli anni della Rivoluzione culturale vittime silenti di un mondo che li maltrat­ ta e li condanna anche quando sono innocenti3.

’ «In particolare il personaggio principale di Blue Kite intraprende un difficile viaggio che va dagli anni Cinquanta all’inizio della Rivoluzione culturale. Questo penodo include

la terribile tempesta del Movimento contro la destra del 1957, la carestia contadina patita dalla genie comune come conseguenza del Grande balzo in avanti del 1958, la distruzione

della natura umana provocata dal movimento dellultra-sinistra. e il disastro politico di

quell'uragano che fu la Rivoluzione culturale» (Ni Zhen, Memoirs From the Beijing Film Academy. The Genesis ofChina's Fifth Generation, Duke University Press, Durham 2002, p 198).

’ Si prenda ed esempio d personaggio di Fugui in Vìvere!, che correttamente Colatnartino e Dalla Gassa definiscono come «un antieroe, un personaggio degno più di una farsa che di un’epopea melodrammatica» (Il cinema di Zhang Yimou, cit, p. 159).

Libretto rosso: immagini della rivoluzione culturale

2.1. !

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Padri e figli

Il rapporto fra padri e figli è uno degli aspetti comuni ai tre film, nella forma di un esplicito conflitto e di quel parricidio, più o meno simboli­ co, che è una delle caratteristiche dominanti la Rivoluzione culturale, e che sia Chen Kaige sia Tian Zhuangzhuang hanno vissuto in prima per­ sona negli anni della loro adolescenza: un parricidio che passa attraver­ so la rimozione violenta dei propri padri - a volte con la loro denuncia pubblica - e la sostituzione simbolica di questi con quel Gran timoniere che è «più caro di un padre e una madre», come diceva una celebre can­ zone dell’epoca. In Addio mia concubina, Xiao Si è un trovatello adot­ tato e cresciuto dai due protagonisti attori dell’opera cinese, Xiaolou e Dieyi. È nella parte del film che si svolge dopo la presa del potere da parte di Mao e, soprattutto, negli anni della Rivoluzione culturale che il ruolo di Xiao Si diventa decisivo per le sorti della sua famiglia adottiva. Contrariamente ai perplessi Dieyi, Xiaolou e alla moglie di questi, Juxian, Xiao Si si unisce alla folla dei manifestanti e corre felice, con leggiadria quasi grottesca, accanto ai soldati dell’Esercito popolare di li­ berazione, in mezzo a uno stuolo di bandiere rosse e di cittadini inneg­ gianti a Mao. Durante la parte del film dedicata al tentativo di guarire Dieyi dalle conseguenze causate dall’uso dell'oppio, c’è una breve sce­ na in cui Xiao Si rientra a casa ed è schiaffeggiato da Juxian per aver partecipato a una riunione di partito: il conflitto tra le due generazioni inizia così a farsi esplicito. In un’altra riunione, in cui Dieyi avanza del­ le perplessità sull’opera rivoluzionaria, è proprio Xiao Si a intervenire contro il suo maestro, dicendogli: «Era opera quando si portavano in scena antichi eroi e belle cortigiane, mentre ora che va in scena il popo­ lo lavoratore non è più opera?». Lo scontro pone di fatto le premesse per la rottura col padre, che avviene nella scena immediatamente successi­ va, in cui Dieyi tenta di punire Xiao Si che però si ribella, accusando il maestro di volere solo «uno scudiero, un domestico, un tirapiedi, un val­ letto»; e quando Dieyi lo fustiga sulla schiena, prende la sua roba e se ne va «per entrare nella “nuova società” e unirsi alle masse rivoluzionarie»6 f' Y. Braestbr,

My Concubine». National Myth and City Memories., in C. Bcrry

(a cura dì), Chinese Films in focus. 25 New Takes, BFI Publishing, Londra 2005, p. 9 L

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Il cinema dell ‘Estremo Oriente

- non prima però di aver lanciato un ultimo monito al suo ormai ex tuto­ re: «Quello che hai detto andava bene nella vecchia società. Ma nella nuova le cose sono molto diverse. È cambiato tutto». Consumata la rot­ tura, il parricidio si concretizzerà prima quando in teatro Xiao prenderà il posto dello stesso Dieyi, recitando in sua vece il ruolo della concubi­ na, e poi allorché si porrà alla guida del processo e delle umiliazioni pubbliche cui sarà sottoposto Dieyi. Se Xiao Si attraversa la Rivoluzione culturale nei suoi vent’anni, il Tietou di The Blue Kite lo fa poco più che decenne. Tutto ha inizio una mattina quando, recatosi a scuola, scopre che non c’è lezione. Tietou si unisce allora ai suoi compagni al grido di «Boicottiamo la scuola!», e insieme a loro getta delle pietre contro l'edificio scolastico. Poco dopo, è in mezzo alla folla col pugno levato mentre un gruppo di Guardie ros­ se, appena più avanti con gli anni, umilia pubblicamente un'insegnante, tagliandole i capelli al grido di «Ribellarsi è giusto!». Rientrato a casa racconta l’accaduto alla madre, dicendo di aver anche lui battuto la sua insegnante. Questa reagisce schiaffeggiandolo. Lo sguardo pieno di ran­ core del piccolo Tietou, che umiliato se ne va sbanendo la porta, la dice lunga sul potenziale conflitto che potrebbe aprirsi. Come vedremo, però, Tietou non spingerà oltre la sua rivolta, e anzi, nel finale del film, tenterà di difendere il patrigno dalle percosse delle Guardie rosse. Ri­ spetto ad Addio mia concubina, in The Blue Kite il tema del parricidio è cosi sviluppato soprattutto attraverso la dimensione pubblica, mostran­ do le giovani Guardie rosse che, come nella scena appena citata, si ri­ voltano contro gli adulti e chi detiene l’autorità. Analoghe considerazioni possiamo fare per Vivere!, soprattutto pen­ sando al prolungato climax dell’ospedale, che descriveremo più avanti, dove i padri-dottori-reazionari sono stati rimossi e sostituiti dai figlistudenti-rivoluzionari che si riveleranno però tragicamente incapaci di assolvere il loro compito. Anche in Vivere!, però, il tema delle differen­ ze generazionali si riverbera su un piano privato, quando ad esempio la giovane Fcngxia, la figlia sordomuta di Fugui c Jiazhen, dopo il primo incontro col suo promesso sposo, la Guardia rossa Erxi, si guarda com­ piaciuta davanti a uno specchio indossando un berretto da Guardia ros­ sa con tanto di distintivo con l’effige di Mao; oppure, poco più avanti, quando mostra altrettanto compiaciuta ai genitori il grande ritratto mu-

Libretto fosso: immagini della rivoluzione culturale

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rale del Presidente che ha appena finito di dipingere nel cortile di casa insieme allo stesso Erxi: due brevi passaggi che testimoniano, da parte della ragazza, un’ingenua e sentimentale adesione a un’ideologia deci­ samente estranea ai suoi genitori. 2.1.2 Dimostrare la propria fede: matrimoni e processi Negli anni della Rivoluzione culturale o in quelli di poco precedenti, le occasioni pubbliche rappresentano altrettante opportunità per dimostra­ re la propria fedeltà al partito e al pensiero di Mao. Fra esse, una delle più importanti è quella del rito nuziale. Esso è presente in tutti e tre i film: e se in Addio mia concubina si svolge prima della presa del potere di Mao, esulando quindi dal nostro discorso, in The Blue Kite avviene nel 1953, durante i primi diciassette anni del regime comunista, e in Vi­ vere! si svolge nel pieno della Rivoluzione culturale. Rinviato di alcuni giorni a causa dei lutto per la morte di Stalin, il matrimonio fra Shujuan c Shaolong in The Blue Kite può finalmente avere luogo. 11 compito di maestro di cerimonia è affidato al funzionario locale di partito, che in­ vita i due sposi, col loro fiore rosso al petto, a rendere omaggio al presi­ dente Mao inchinandosi davanti a un suo ritratto, e a intonare una can­ zone rivoluzionaria che celebra la nuova Cina comunista. Il primo incontro di Fengxia e Wan Erxi in Vìvere! avviene non solo sotto gli occhi dei genitori della ragazza, ma anche di quelli del funzio­ nario locale di partito Niu, che sta svolgendo il suo ruolo di mediatore, in una più che efficace rappresentazione dell’intrusione dell’ideologia dominante nel vissuto dei protagonisti. Appena arrivata, la giovane Guardia rossa Erxi posa sul tavolo i suoi regali: una decina di distintivi di Mao appoggiati su un berretto militare, e qualche volume di un’anto­ logia di scritti del presidente, avvolti da un nastro rosso. All’incontro se­ gue poi la cerimonia matrimoniale vera e propria, che ricalca da vicino, ampliandola, quella di The Blue Kite. La sequenza inizia con Wan Erxi che cammina impettito per strada, seguito da un festoso corteo di Guar­ die rosse. In casa, Fengxia lo attende, anche lei con la sua divisa milita­ re, il fiore rosso al petto e i nastrini, anch’essi rossi, a stringere le trecce. Un piano ravvicinato mostra i doni di nozze: statuette del presidente Mao e decine di raccolte delle sue opere. In cortile, gli invitati attendo­

li cinema dell Estremo Oriente

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no davanti a un grande murale del volto del Presidente. Niu, vicino ai due sposi, invita tutti a pensare a Mao. Un campo totale mostra sposi e invitati davanti al murale del presidente, mentre tutti intonano un’aria rivoluzionaria. Poco dopo, Niu chiederà agli sposi di rendere omaggio a Mao: essi si inchineranno davanti alla sua immagine, e solo dopo verso i genitori di Fengxia. «Più caro di un padre e di una madre», ma soprattutto più au­ torevole, è al presidente Mao per primo che va chiesto il consenso al­ l’unione. Arriva anche il momento delle fotografìe: prima dei due soli sposi, invitati ad appoggiare sul petto il Libretto rosso posando davanti all’immagine del Presidente, c poi di tutta la famiglia, questa volta con l’ausilio di veri e propri effetti scenografici, come la fiancata di una na­ ve in cartone a simboleggiare l’avanzare della Rivoluzione e il ruolo guida del Grande Timoniere. Situazioni pubbliche in cui ciò che conta è esibire la propria aderenza all’ideologia del Partito e del suo Presidente, i matrimoni sono dunque occasioni per sfoggiare l’iconografia della Cina comunista, che dilaga nei tre film anche attraverso dipinti murali, ritratti, busti, statuette e spil­ le del presidente Mao, manifesti di operai, contadini e soldati rivoluzio­ nari con lo sguardo proteso verso il sole dell’avvenire, bandiere rosse sventolanti e dazebao appesi ovunque. Altre occasioni pubbliche, tuttavia, attraversano gli anni del maoi­ smo, prima e durante la Rivoluzione culturale: certamente meno festo­ se, ma ben più aderenti alla politica del partito. Prima che i protagonisti dei tre film o i loro familiari vengano coinvolti da tragici avvenimenti, accade sempre qualcosa a qualcuno, un conoscente o un vicino, sotto­ posto a minacce, processo o umiliazione pubblica. In Addio mia concu­ bina, poco dopo il fatidico 1949, è il ricco intrallazzatore Yuan Shiqung ad essere accusato, umiliato pubblicamente7 e condannato a morte, in un grande e affollato teatro. Al di là della sua dimensione pubblica e uf-

1 L‘insistenza sulle umiliazioni pubbliche durante la Rivoluzione culturale è stretta­

mente connessa a quel principio, assai difìuso nelle culture orientali, che si basa sul «non

perdere la faccia». Per umiliare davvero qualcuno la soluzione migliore d fargli pubblica­ mente perdere la faccia, ad esempio esponendolo alle folle con un cartello infamante e au-

todemgratonó.

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fidale, la scena ha una forte connotazione soggettiva che riguarda la reazione di sconforto e paura dei due protagonisti, l’attore Xiaolou e la moglie Juxian. Nel corso della scena, per due volte Xiaolou cerca di al­ zarsi c protestare ma Juxian lo ferma, così come lo invita a sventolare la sua bandiera insieme a tutti gli altri e ad abbassare la voce. In Vivere! ad essere processato, umiliato pubblicamente e condanna­ to a morte, sempre nei primi anni a seguire l’avvento della Repubblica popolare cinese, è Long’er, l’uomo che, nella prima parte del film, ave­ va vinto al gioco l’abitazione e tutti gli averi del protagonista Fugui. Co­ me accadeva per Addio mia concubina, anche questa scena di processo e condanna ha una forte connotazione soggettiva: ciò che conta non è solo l’evento in sé, ma anche ciò che questo significa per chi vi assiste. Dopo le immagini iniziali che mostrano Fugui e la folla, la sequenza prosegue alternando inquadrature di Fugui c del condannato in mezzo ai cittadini che inveiscono. I due si guardano e dopo che il condannato gii ha urlato qualcosa che né lo spettatore né il personaggio sono in grado di comprendere, Fugui si allontana muovendosi in direzione opposta a quella dei manifestanti per andare a orinare. A questo punto, provenien­ ti dal fuori campo, si odono gli spari dell'esecuzione di Long’er, c il pauroso Fugui, quasi consapevole che se l’altro non gli avesse vinto la casa ai dadi ora potrebbe essere lui al suo posto, si accascia contro un palo come se fosse fosse stato lui ad essere colpito. 2.1.3 Errori e denunce

Nei continui rovesciamenti ideologici che segnano i primi diciassette anni di Mao e quelli della Rivoluzione culturale, non è facile non com­ mettere errori. Lo fa, ma con una certa consapevolezza, Dieyi in Addio mia concubina quando nel corso di una riunione avanza critiche sull’o­ pera moderna rivoluzionaria, finendo cosi con l’essere allontanato dal palcoscenico. Lo fa anche, senza rendersene conto affatto, Lin Shaolong, il primo marito di Shujuan in The Blue Kite. Siamo qui nel perio­ do immediatamente successivo a quello dei Cento fiori (1956-1957), quando molti saranno costretti a pagare in prima persona le critiche che il partito stesso li aveva spinti a muovere. U fatto drammaticamente sin­ golare è che ogni unità di lavoro, per dimostrare fedeltà all’ennesimo

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nuovo corso del partito, è obbligata a scovare ad ogni costo al suo inter * no un certo numero di traditori, ovvero di reazionari, in modo che la sua percentuale di denunce non sia inferiore a quella di altre e più «fe­ deli» unità produttive. 11 problema è chiaramente esposto dal direttore della biblioteca dove lavora Lin, nel corso di una riunione con i dipen­ denti: «È mai possibile che Liu Yunwei sia l’unico uomo di destra dell’intera biblioteca?». La pausa che segue rende palpabile l’imbarazzo collettivo. Serve un capro espiatorio: ma chi? È qui che Lin commette l’errore fatale, alzandosi per andare in bagno e abbandonando cosi per pochi ma decisivi minuti la riunione, con gli altri lasciati liberi di ap­ profittare della sua assenza. Lin si trova dunque ad essere denunciato e inviato in un campo di rieducazione, dove per gli stenti e le percosse perderà la vita. A volte causa, a volte conseguenza di questi e altri errori compiuti dai protagonisti dei tre film sono le denunce, o le minacce di denunce, che nel clima di delazione dominante gli anni di Mao e della Rivoluzio­ ne culturale segnano la vita dei cittadini: denunce dettate a volte anche dalla buona fede, dalla convinzione che qualcuno stia sbagliando o che comunque sia necessario aiutare il Partito a correggere gli errori indivi­ duali. In The Blue Kite, ad esempio, è zio Li a denunciare, convinto che sia giusto farlo, un collega: si tratta di una breve scena ripresa in un pia­ no sequenza, dove le scaffalature dei libri della biblioteca in cui avviene la denuncia contribuiscono a restringere lo spazio dell’inquadratura, ac­ centuando cosi visivamente il clima oppressivo e di angoscia in cui tale delazione avviene e che sembra riguardare, almeno in questo caso, sia chi la denuncia la fa, sia chi la subisce. La denuncia può avere tragiche conseguenze anche quando è solo adombrata. In Vivere!, il piccolo Youqing, stanco delle vessazioni subite dalla sorella muta da parte dei suoi compagni, decide di vendicarsi di uno di questi. Nel corso di un pasto alla mensa collettiva rovescia una scodella di fettuccine in brodo sulla testa del colpevole. Nella baraonda che ne segue, il padre della vittima accusa ad alta voce Fugui, il padre di Youqing, sostenendo che il comportamento del bambino rappresenta un vero e proprio atto di sabotaggio contro la politica del Grande balzo in avanti (1958-1960). Temendo gravi conseguenze, Fugui schiaffeggia il figlio davanti a tutti e, quel che è peggio, lo costringe poco dopo, per

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salvaguardare l’immagine rivoluzionaria sua c della famiglia, ad andare a fondere l’acciaio insieme agli altri bambini, finendo cosi col provo­ carne indirettamente la morte nel corso dell'incidente che ne seguirà. 2.1.4 Eliminare ogni traccia Altra conseguenza di questo clima delatorio e di paura è il tentativo da parte dei protagonisti di cancellare le prove della loro «colpevolezza». In tutti e tre i film c’è almeno una scena in cui questi, o i loro familiari, danno fuoco a ciò che potrebbe causarne la rovina. In Addio mia concu­ bina sono Xiaolou e Juxian a bruciare ciò che ancora li legava al tradi­ zionale teatro dell’opera, mentre fuori campo la voce di uno speaker ra­ diofonico sembra commentare il loro gesto, e afferma la necessità di «impegnare tutte le nostre forze nella lotta contro i residui della vecchia società [...] e i quattro vecchiumi contro cui dobbiamo combattere». Anche il terzo marito di Shujuan, in The Blue Kite, sino a quel mo­ mento un rispettato alto funzionario di partito, è costretto a dare fuoco a documenti diventati compromettenti, in seguito alle accuse mossegli nei primi anni della Rivoluzione culturale. Come nel film precedente, il ro­ go si svolge nel segreto delle pareti domestiche. Ma anche qui il mondo esterno fa la sua irruzione, non più nella forma delle frasi dello speaker radiofonico, bensì in quella del piccolo Tielou che rientrato da scuola e messosi ad aiutare il patrigno, racconta di quel suo compagno che si vanta di avere il «più bel distintivo di Mao» e della nuova moglie dello zio che è un'autentica «contadina povera». Meno privato è. invece, il rogo di Vivere! La scena si apre con l’enne­ sima visita di Niu, il capo del partito locale, che dice a Fugui che è giunto il momento di disfarsi delle sue marionette. Quando questi rea­ gisce, sostenendo che potrebbe usarle per spettacoli di propaganda, Niu gli fa notare che esse rappresentano imperatori, intellettuali e cortigia­ ne, insomma figure feudali con cui non è possibile diffondere gli ideali di Mao. Inoltre, gli mostra l'ultimo editoriale del partito dall’esplicito titolo: «Più è vecchio, più è reazionario». Con l’invito conclusivo a se­ guire «il consiglio del presidente Mao», la discussione è di fatto chiusa. A Fugui non rimane che prendere le sue amate marionette, darle alla fi­ glia Fengxia e ordinarle di accendere il braciere. Sotto i vigili occhi di

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Niu e quelli ben più partecipi e addolorati di Fugui, ha luogo cosi il ro­ go «espiatorio».

2.1.5 Le «colpe» si pagano sempre Vani, tuttavia, saranno questi roghi: i protagonisti dei tre film pagheran­ no care le loro «colpe», siano esse quelle del proprio passato (gli attori Xiaolou e Dieyi e la cortigiana Juxian in Addio mia concubina), quelle dei loro patrigni e mariti (Tietou e la madre in The Blue Kite), o quella di trovarsi semplicemente stritolati dai mal funzionanti ingranaggi della stessa Rivoluzione culturale (Fugui e Jiazhen in Vivere!). In Addio mìa concubina 1’«espiazione» delle colpe dei protagonisti passa attraverso tre scene contigue, fatte di accuse, processi sommari, violenze e umiliazioni pubbliche. Nella prima è Xiaolou ad essere «processato» in un teatro vuoto, seduto in mezzo al palcoscenico, immerso in un’oscurità rotta so­ lo da un fascio di luce su di lui. Una voce fuori campo lo interroga - qua­ si a fare di questo processo non un processo ma Videa stessa del proces­ so di regime -, accusandolo dei suoi legami con l’alta società di un tem­ po, delle sue frasi irriguardose verso il Partito comunista, delle sue vec­ chie frequentazioni del mondo della prostituzione. Quando finalmente la macchina da presa mostra l’accusatore, si scopre trattarsi del figlio adot­ tivo Xiao Si. Dopo averlo costretto a spaccare con la testa un mattone, Xiao Si chiede ora a Xiaolou di denunciare l’amico Dieyi. La denuncia non viene mostrata, e si apre invece una seconda scena che si contrappo­ ne pcr la sua dinamicità a questa appena descritta. Un movimento di macchina segue un gruppo di esagitate Guardie rosse che, in un ampio spazio chiuso, getta a terra un attore insieme ad altri che già si trovano inginocchiati sul pavimento. Tutti hanno cartelli denigratori appesi al collo. Circondati da un nugolo di scalmanate Guardie rosse, gli attori so­ no costretti a truccarsi il volto. Fra loro c’è anche Xiaolou, cui, nella chiusa della scena, si avvicina Dieyi, già vestito da concubina, che aiuta il «suo signore» a truccarsi. Come attori nei loro camerini, stanno tutti apprestandosi a entrare in scena. Eccoli allora, nel terzo e ultimo capito­ lo di questa tragica espiazione, finalmente all’aperto, truccati, coi loro costumi e i cartelli infamanti appesi al collo, spinti in mezzo a due ali di folla inneggianti Mao e la Rivoluzione, fra un nugolo di bandiere rosse e

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di ritratti del Grande Timoniere. Giunti in un ampio spiazzo, gli uomini sono costretti a inginocchiarsi a terra, davanti a una folla scalpitante. Le vittime sono riprese con un teleobiettivo al di là di una serie di roghi in cui brucia ciò che rappresenta la vecchia cultura: l’immagine che ne de­ riva è quella di un vero e proprio supplizio infernale. Ma, soprattutto, Chen Kaige rappresenta qui uno degli aspetti essenziali della Rivoluzio­ ne culturale: truccando e vestendo i suoi personaggi con costumi di sce­ na, mostrandoli davanti a una folla vociante, costringendoli a umiliarsi pubblicamente rivela il carattere teatrale della stessa Rivoluzione cultu­ rale, dove ogni cosa deve accadere in fruizione di una esibizione pubbli­ ca; dove tutti, vittime, Guardie rosse e pubblico compresi, sono in qual­ che modo costretti a un ruolo8 e alla messa in scena di uno spettacolo che deve garantire il perfetto funzionamento di un sistema che dietro un’ap­ parente autodistruzione mira in realtà alla propria affermazione . * Co­ stretti alla posizione dell’aviogetto, inginocchiati a terra e con le braccia sollevate all’indietro, schiaffeggiati e malmenati, Xiaoiou e Dicyi non posso fare altro che denunciare quel che si vuole che denuncino. Prima è Xiaoiou ad accusare Dieyi di aver cantato e danzato davanti alle peggior specie di reazionari. Sentendosi definitivamente tradito, tocca ora a Dieyi prendere te parola. Accompagnato da un movimento di macchina ondeggiante, l'uomo si alza e si stacca dal gruppo degli accusati, come in un sorta di assolo con tanto di avanzamento sul proscenio: dopo aver affermato che per l’Opera di Pechino è ormai davvero arrivata te fine, Dieyi regola i suoi ultimi conti accusando apertamente Juxian di essere 6, Kong Su-cban, 2008)

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carattere soggettivo e menzognero, il film ha la struttura di un mislery con un'evidente componente melodrammatica, dove l’amicizia impos­ sibile prende il posto dell’amore impossibile. Da un punto di vista ge­ nerale Joint Security Area, come farà Welcome tu Dongmakgol, rappre­ senta infatti la possibilità virtuale dell’amicizia tra i due popoli attraver­ so quella delle due coppie di soldati, insieme aH’impossibiiità del suo effettivo concretarsi a causa di ragioni storiche, politiche e ideologiche. Nell’analisi del film si porrà come chiave di lettura principale il modo in cui si struttura, sul piano sia stilistico che narrativo, il tema del dop­ pio (che ovviamente rimanda a quello di un paese diviso in due), e come esso moduli le altre principali risonanze tematiche del film. Sul piano stilistico, Joint Security Area è attraversato da numerose im­ magini statiche dal carattere fortemente speculare, in cui ciò che si trova a destra è richiamato da ciò che si trova a sinistra. Ne sono un esempio le riprese iniziali dall’interno di una baracca della Joint Security Area, che pongono ai due lati del piano le immagini incorniciate da due finestre di un soldato del Sud (il sergente Lee) e di uno del Nord (in un caso il ser­ gente Oh, nell’altro il soldato Jeong). Si tratta di immagini che da un la­ to evidenziano l'affinità tra le due parti (il loro essere divenute amiche, e quindi simili), dall’altra ne rimarca la distanza sociale, attraverso il muro che le divide (sono infatti parti militarmente nemiche). Una funzione simile assume anche l’inquadratura dell'incontro sulla neve di due opposti plotoni, uno del Sud e l’altro del Nord, capitanati dai sergenti Oh e Lee. Quando i due, dopo essersi accesa una sigaretta, ritornano ai loro rispettivi gruppi, l’inquadratura li riprende in modo ta­ le da creare ancora una volta un forte effetto di specularità all’interno del piano, che li rende simili pur mentre si allontanano l'uno dall’altro. La stessa linea di confine che separa i due Paesi è protagonista di un’altra immagine speculare, quella che mostra, da una parte c dall’altra della linea, gli stivali dei sudcoreani Lee e Nam, nella scena in cui per la prima volta Lee (che passa disinvoltamente il confine) conduce l’esi­ tante Nam dall’altra parte per fargli conoscere i suoi nuovi amici. A fianco di queste c numerose altre immagini dal forte carattere sim­ metrico, abbiamo poi quelli che possiamo chiamare i raccordi speculari, ovvero stacciti che uniscono tra loro immagini dalle forti analogie gra­ fiche, sia di tipo filmico, sia di tipo profilmico. Nel primo ambito, quel­

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lo filmico, possiamo citare la scena in cui il sergente sudcoreano Lee varca per la prima volta la linea di frontiera; tale scena omette il mo­ mento del passaggio vero c proprio e lo sostituisce con due panorami­ che circolari: la prima quando Lee esce dalla sua baracca, con un movi­ mento di macchina che, partendo dalla struttura, arriva al ponte e poi mostra il volto dello stesso Lee; la seconda, dopo una dissolvenza in­ crociata, si sviluppa con un analogo movimento che si avvia con l'im­ magine del volto dell’uomo, prosegue mostrando il ponte e si chiude sulla baracca nordcoreana. L’evidente speculari^ di questi due movi­ menti (casa, ponte, volto - volto, ponte, casa) conferisce a questa se­ quenza chiave un tono affatto particolare, in cui il tema del doppio è as­ sunto su un piano puramente filmico. Un esempio invece di raccordi speculari che operano sul piano pro­ filmico, associando il contenuto grafico delle immagini, è quello che occorre durante la sequenza delle deposizioni incrociate di l-ee e Oh. Una prima inquadratura mostra i due sergenti da una parte e dall’altra del tavolo, con Sophie seduta al centro; la specularità dell’inquadratura è rafforzata dal cappello di Oh e dalla stampella di Lee, che i due ap­ poggiano sul tavolo in posizione simmetrica. La simmetria viene poi ri­ badita sul piano del montaggio col seguente stacco a 180° che porta a una nuova inquadratura ripesa dalle spalle di Sophie, in cui sono in gio­ co, rovesciati, gli stessi elementi speculari di prima, con l’aggiunta di due videocamere che si trovano l’una dietro Lee e l’altra dietro Oh. Veniamo adesso a come il film moduli il tema del doppio su un livel­ lo propriamente narrativo. Innanzitutto sul piano di quelle che possia­ mo considerare scene parallele, che manifestano fra loro evidenti ri­ chiami: ad esempio la scena che termina con il sergente nordcoreano Oh che accende una sigaretta a Sophie proseguendo, nella scena suc­ cessiva, con l’immagine di Sophie che, con lo stesso accendino usato da Oh, accende una sigaretta al sergente sudcoreano Lee: da una parte è come se fosse Oh ad accendere la sigaretta di Lee, in un gesto che indi­ ca la possibilità dell'amicizia fra i due; dall’altra invece il fatto che sia Sophie a farlo - siamo alla fine del film, e tra i due soldati non c’è più possibilità alcuna di contatto - è indice della concreta impossibilità di tale amicizia. Altre scene parallele potrebbero qui essere prese in esa­ me - c fra tutte quella del berretto della turista americana che, sospinto

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dal vento, varca la linea di frontiera, di cui ci occuperemo in conclusio­ ne della nostra analisi ma alcune le ritroveremo dopo aver introdotto altre categorie di doppi narrativi. Un'altra configurazione del doppio in Joint Security Area è indub­ biamente quella del «personaggio doppio», come bene testimonia la «natura doppia» di Sophie, figlia di madre svizzera e di padre coreano, «simbolo dell’identità divisa del paese»17. Ma la realtà di Sophie è di fatto più articolata. Come si scoprirà nel corso del film, il padre di Sophie era un ufficiale nordcoreano preso prigioniero, che dopo la guerra aveva scelto di non rientrare in patria, e nemmeno di diventare un cittadino del Sud, bensi di emigrare all’estero. H fatto che venga sco­ perta l’origine nordcoreana di Sophie diventa un pretesto per le autorità militari per rimuovere la donna dall’incarico. A un livello testuale più profondo, però, questa seconda doppia identità di Sophie (che non è più solo figlia di una svizzera e di un coreano, ma anche di un padre nordcoreano che ha scelto di non stare né da una parte, né dall’altra) ha due importanti conseguenze. Da un lato può emergere finalmente l’accetta­ zione da parte della donna di questa sua seconda identità nordcoreana, come testimonia la scena in cui toglie la fotografia di lei bambina con la madre dal portaritratti che la conteneva, rivelando così l’immagine del padre che sino a quel momento aveva tenuto nascosta; dall’altro lato sta il fatto che, proprio in conseguenza di ciò, il sergente sudcorcano Lee dica infine alla donna di sentirsi più vicino a lei - giacché entrambi so­ no arrivati ad accettare e fare proprio l’altro, ovvero il nordcoreano che era in loro -, decidendo così di raccontarle la sua versione dei fatti, che sino a quel momento si era rifiutato di fare. Altre scene in parallelo fra loro riguardano «doppi» comportamenta­ li, ovvero l'emersione di un’analogia tra due personaggi sulla base di un «fare» comune. All’inizio del film, quando Sophie chiede al sergente sudcorcano Lee di confermare o meno la sua prima deposizione, questi si trova in infermeria, disteso a letto, e per tutta risposta si volge dall’al­ tra parte c tace. Poco dopo Sophie va dal sergente sudcoreano Oh, il quale come Lee si trova steso a letto, e quando gli pone la stessa do11 A. Gombeaud, Kongdung kutigbì guyùk / Jotftf Security Area, in J. Bowyer (h cura dih The Cinema of Japan and Korea, Wallflower Press. Londra-NcwYork 2004. p. 235.

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manda anche questi Finisce col voltarsi dall'altra parte e tacere. Così, sin dalle prime loro apparizioni, l’analogia comportamentale tra i due ne sottolinea in forte misura i tratti comuni. 11 silenzio che accomuna Lee e Oh nelle due scene appena citate ci permette di introdurre un’altra categoria di doppio narrativo, quello dia­ logico, in cui un personaggio ripete in una seconda scena ciò che un al­ tro aveva detto in un momento precedente della fabula, connettendo co­ sì fortemente a sé il primo personaggio. Quando Lee cerca di incorag­ giare il commilitone Nam a varcale la fatidica linea di confine sul pon­ te di «Non ritorno», lo fa dicendo con una certa enfasi all’amico che con quel gesto si oltrepasserà la loro storia di «agonia e disgrazia», aprendo la strada alla «riunificazione». Le parole usate da Lee sono le stesse che il soldato nordcoreano Jeong aveva usato nei suoi confronti, quando lo aveva incontrato dopo che questi si era recato oltre confine per la prima volta. Ma il doppio dialogico di maggior peso, per le sue diverse implicazioni, è quello ravvisabile nella risposta di Lee a Sophie, allorché la donna si complimenta con lui per la velocità con cui ha cari­ cato la sua pistola: «In guerra non conta la velocità, ma la padronanza di sé». La frase era già stata pronunciata da Oh rivolto allo stesso Lee, quando questi gli aveva mostrato la velocità con cui sapeva estrarre l’ar­ ma. E al di là di come la ripetizione di questa frase attesti ancora una volta il legame di amicizia tra i due uomini, e la volontà del sudcoreano Lee di introiettare e far proprio il nordcoreano Oli. dando vita a «un me­ lodrammatico desiderio per l’Altro»1* attraverso la pronuncia e l’assi­ milazione delle stesse parole, il loro contenuto diventa un elemento fon­ damentale per stabilire la centralità dello stesso personaggio di Oh. Secondo un elemento in parte comune ad altri film che abbiamo già analizzato, ma in modo decisamente più esplicito. Joint Security Area attribuisce infatti al nordcoreano Oh un ruolo ben più carismatico di quello della sua controparte sudcorcana. Il sergente Oh è un uomo dal passato sofferto e tormentato, come testimoniano le ferite che reca sul corpo; che è stato all’estero, cosa non certo comune per un nordcorea­ no; che ha un profondo senso di dignità e di partecipazione al destino

u

Kim Kyiincì-hvlin, The Remasculinization of Korean Cinema, cit., p. 266.

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della sua gente (quando Lee gli propone tra il serio e il faceto di passare al Sud, dove potrà mangiare a volontà i «Choko pies» di cui è molto ghiotto. Oh risponde, sputando via il dolcetto, che il suo sogno è che il suo paese «faccia i migliori dannati dolcetti di questa penisola»). Ma è soprattutto nella scena decisiva della sparatoria che il «saper fare» di Oh si impone su quello di tutti gli altri. Sin dall'inizio è lui che cerca di me­ diare fra Lee e l'ufficiale nordcoreano che li Ita scoperti, convincendoli ad abbassare le armi; è lui che toglie la pistola dalle mani di Nam che, quasi uscito di senno, la sta puntando contro il camerata Lee; è lui che con un gesto di pietà pone fine alla vita e alle sofferenze di Jeong, spa­ rando l’ultimo colpo decisivo al povero corpo già crivellato di proiettili; è lui, infine, che spinge Lee e Nam a fuggire dalla baracca nordcoreana prima che sia troppo tardi, fornendo loro rapidamente l’unica versione dei fatti possibile, cui essi dovranno attenersi. In sostanza, nel momento cruciale della storia l’unico capace davvero di mantenere quella padro­ nanza di sé prima citata è il sergente nordcoreano Oh. C’è ancora un altro momento del film che stabilisce la centralità del personaggio, ed è quello in cui, all'interno della JSA, il berretto di una turista americana sospinto dal vento oltrepassa la linea di frontiera col Nord. A raccogliere il berretto e a porgerlo all’accompagnatore militare americano è proprio Oh, il quale, nel momento della restituzione, è in­ quadrato leggermente dal basso e frontalmente. Il suo sguardo e il suo dolce sorriso sembrano cosi rivolgersi alla macchina da presa e, per suo tramite, allo spettatore: che è, ovviamente e innanzitutto, lo spettatore sudcoreano. 11 suo gesto diventa cosi un invito alla fratellanza che dav­ vero rovescia la stereotipata «immagine ufficiale del soldato nordcorea­ no, cosi come viene introdotta ai sudcoreani già in giovane età attraver­ so i mass media e il sistema educativo»19. Questa stessa scena è poi ripetuta nella conclusione del film, con una variante di rilievo: proprio sull’inquadratura di Oh l’immagine si fissa in un fermo-fotogramma, su cui la macchina da presa si muove passando da Oh a Jeong, che sta marciando insieme ad altri soldati sul­ lo sfondo, da Jeong a Nam, che sta facendo la guardia al di qua della li-

'* Kim Yocng-jin. RirkChan-wook, Koftc, Seul 2007, p. 39.

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nea di frontiera» e da Nam a Lee» che sta allontanando un turista che vuole scattare una fotografia. Un ultimo movimento di macchina che unisce per un’ultima volta i quattro amici20, ribadendo la possibilità di un’amicizia, e ciò che essa implica nel contesto delle due Coree: un’a­ micizia che la storia, la politica e l’ideologia hanno spazzato via.

2,1 Cubo dei movimenti di macchina a unire i quattro amici è evidente anche in molte scene di conversazione che si svolgono nella baracca nordcoreana, rappresentate non at­

traverso stacchi e convenzionali campi e controcampi, bensì tramite continue panorami­ che circolari che, con la macchina da presa posta in mezzo ai quattro, passano dall'uno al­

l'altro senza soluzione di continuità.

Capitolo 7

«Korean Blockbuster»: una nuova estetica del confezionamento

7.1

Definizione di un fenomeno

L'ascesa dei cosiddetti «Korean Blockbuster» rappresenta, per molti versi, un unicum nell’attuale panorama cinematografico internazionale. Tale fenomeno - cominciato, di fatto, con il grande successo di Shiri di Kang Je-gyu e consolidatosi, nel breve volgere di qualche anno, grazie all’affermazione commerciale di una numerosa schiera di pellicole - ha seguito un andamento e un’evoluzione che analisti e addetti ai lavori non sempre hanno saputo definire o governare. La stessa definizione crea aporie e ambiguità. A dispetto della contiguità lessicale (sancita dalla fedele tranlitterazione fonetica del termine dall’inglese all’Hangul), il blockbuster coreano ha, infatti, seguito prassi lontane da quelle adottate daH’omonimo americano. Intanto in Corea del sud si defini­ scono tali non i film che dispongono di ampi capitali di partenza, ma quelli che scalano la vetta del box office. Secondo tale schema, alcuni high budget come 200! Yonggary (id., Shin Hyung-rae, 1999), Resur­ rection of the Little Match Girl o Antarctic Journal non appartengono alla categoria perché rivelatisi autentici flop commerciali, mentre altri medium budget, come The King and the Clown, JSA o Ho sposato una gangster, ne fanno parte a pieno titolo in virtù dei milioni di admissions conquistati. Analizzando solo i primi dieci/venti incassi al botteghino c mettendoli a confronto con i pari grado a stelle c strisce ci si rende con­ to, inoltre, che divergono anche le strategie produttive e discorsive uti­ lizzate per attirare il pubblico nelle sale. A Chungmuro, per esempio, non si adottano, se non in rari casi, le logiche della serialità, del ricalco

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e dell’intermedi al ità tipiche dei nuovi prodotti ad alto impatto mediatico, cosi come sono assenti piani integrati di penetrazione dei mercati che puntano a conquistare - con il medesimo soggetto - anche le altre piattaforme di intrattenimento (animazione, TV, videogame, merchan­ dise). Si aggiunga che in Corea non sembrano essere tanto frequentate nemmeno quelle chiavi ermeneutiche tipiche del postmodernismo occi­ dentale, come il trattamento ipertrofico e destrutturante degli intrecci, l'accentuazione delle soluzioni tecniche volte a far emergere il meravi­ glioso filmico, l’esibizionismo tecnologico, il citazionismo, la tendenza al pastiche, la corsa verso le nuove frontiere della sofisticazione iconica (ad esempio il 3D). Taluni studiosi, come Hyangjin Lee, hanno provato a tracciare il pe­ rimetro della specificità coreana sul fronte dei temi e delle ambienta­ zioni, nonché delle fantasie da essi veicolate. Sempre misurandosi con il gigante americano, la Lee afferma che Le fantasie storiche illuminano i differenti approcci. |...] [Nei blockbuster di Hollywood} le fantasie futuristiche chiamano in causa nemici immagi­

nari e ci avvertono che se lo status quo verrà disturbato ne seguirà il caos. Le forze del male dovrebbero essere punite in vista della protezione della società utopistica nel presente. Le fantasie storiche del blockbuster corea­ no, all'inverso, rifiutano l’attuale ordine sociale e presentano la divisione nazionale come la causa all'origine della società distopica. [...] Il naziona­ lismo nostalgico viene usato al fine di ricostruire la memoria delle vittime riguardo a ciò che hanno perso nel presente e a coloro che le hanno fatte soffrire La nostalgia è lo strumento principale per la glorificazione della storia. [...] la realtà della divisione [fro le due Coree] suggerisce, piuttosto, le tragiche conseguenze dell’intervento straniero nella moderna storia na­ zionale1.

Dalle parole della Lee si desume che i kolossal coreani sfruttino le possibilità deU’entertain/nen/ essenzialmente per diffondere l’idea di una società distopica, fratturata (a causa degli interventi stranieri), in in­ quieta tensione verso un cambiamento e radicata a una visione nostalgi-

1 H. Ltt', Il cinema coreano contemporaneo. identità, cultura e politica, ObarraO, Mi­ lano 2006. pp. 257-58.

ttKorean Blockbuster»; una nuova estetica del confezionamento

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ca del passato peninsulare. Alcuni film storiografici sembrano darle ra­ gione, affrontando di petto la questione della guerra civile e la separa­ zione tra Nord e Sud (Shiri, Taegukgi, JSA, Welcome to Dongmakgol, Silmido) polemizzando con le fonti storiografiche ufficiali, rigettando le loro verità preconfezionate (si pensi a Silmido), raccontando vicever­ sa i vissuti, le memorie e le sofferenze delle persone comuni (si veda a proposito cap. 6). Altri film si concentrano sul periodo della dittatura di Chu Doo-hwan come May 18 (Hwaryechan hyuga, Kim Ji-hum, 2007), o sulla storia dinastica del paese come The King and the Clown, o anco­ ra, come Friend, pur non descrivendo avvenimenti reali, puntano a re­ stituire il respiro del tempo, a ricostruire una stagione come quella degli anni Settanta e Ottanta ancora rivestita di nostalgica innocenza. Esisto­ no poi casi come The Good, the Bad and the Weird che è sì un eastern iperbolico, ma resta una pellicola ambientata negli anni Trenta, nel pie­ no della lotta per il controllo della Manciuria da parte deU’esercito giap­ ponese, di quello cinese (da poco esautorato dalla regione), e dei gruppi clandestini per la liberazione della Corea. Non è finita qui. Si pensi alle pellicole ispirate a una «storia vera» [Memories of Murder, The Way Home, Forever the Moment (Uri saengae choego-ui sungan, Yim Soonrye, 2008), Marathon (id., Jeong Yoon-chul, 2009) | oppure a quel­ le operazioni filmiche che, pur non ottenendo significativi consensi di pubblico, condividono analoghi profili di storicismo [2009 Lost Memo­ ries, Rikidozan: A Hero Extraordinary (Yeokdosan, Song Hae-sung, 2004), typhoon, Hanbando (id., Kang Woo-suk. 2006). 2001 Yonggary ccc.J. Due ultime parole vanno spese su The Host, un film di mostri che ha un suo intenso radicamento nel panorama socio-politico del paese. Solleticando il substrato sciovinista del pubblico, gli sceneggiatori im­ putano, infatti, la nascita del novello Gojira a un medico americano che fa versare centinaia di bottiglie di formaldeide nel fiume Han. mettendo in scena un episodio della cronaca giudiziaria molto dibattuto nel paese. A barbicare ulteriormente il film nel paesaggio contemporaneo giunge la contestualizzazione ambientale, dal momento che molte location co­ me i ponti Dong-ho, Han-gang e Wonhyo di Seul, sono facilmente rico­ noscibili tanto dall’indigeno quanto dal turista straniero. In verità, il panorama offerto dai colossi coreani è molto più ampio di quello or ora tracciato e forse non vale la pena cercare di contenerlo in

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una medesima lastra fotografica. I richiami storici, d'altronde, non sem­ pre rispondono a intenzioni tra loro conciliabili o dialogiche, dacché nella stessa categoria convivono pellicole di stampo patriottico (Shiri o Silmido) e altre che canzonano l’eroismo nazionalista (JSA o The Ho­ st). film che ricostruiscono abbastanza fedelmente ambientazioni e at­ mosfere del passato (Memories ofMurder o Friend) e altri che si limita­ no a sfruttare immaginari stereotipati (The King and the Clown o May 18). Come se non bastasse, diverse hit sono del tutto estranee alle gri­ glie tassonomiche di Hyangjin Lee perché prive di alcun impulso stori­ cistico e, al contrario, riconducibili a un ventaglio di plot, tematiche e generi affatto eterogenei. Non dimentichiamo che tra i blockbuster ci sono anche commedie sentimentali (My Sassy Girl, 200 Pounds Beauty), parodie gangsteristiche (Ho sposalo una gangster, Marrying the Mafia), polizieschi, thriller o horror (The Chaser, Two Sisters, Oldboy e Tell me Something), melodrammi famigliali (The Way Home) teen movie o film sportivi (Kick the Moon, Forever the Moment, The Foul King). Invece di andare a cercare omogeneità di natura contenutistica o so­ ciologica, forse è più utile studiare il fenomeno partendo da quegli ele­ menti che stanno alla base di ogni prodotto audiovisivo, indipendente­ mente dal suo soggetto. Ci suggerisce tale approccio la stessa politica industriale adottata a Chungmuro che ha preferito investire (relativa­ mente) pochi soldi per (relativamente) tante produzioni invece che con­ centrare gli sforzi su pochi e imponenti progetti, come invece capita ol­ treoceano, ma sempre più spesso anche in Cina e Giappone. Diversifi­ cando l’offerta, C.I Entertainment, Cinema Service e Mediabox erano convinte di avvalersi di un numero maggiore di frecce (magari meno ap­ puntite) al proprio arco per respingere l’offensiva dei competitor stra­ nieri. Cosi facendo, però, hanno chiesto implicitamente alle singole unità produttive di sopperire alla scarsità di risorse con plot resistenti, interpreti affidabili, esche narrative e tematiche attraenti, profili di ge­ nere aperti alle attese di più tipi di pubblico. Non sempre è stata indovi­ nata la combinazione vincente, ma è indubbio che, in tal modo, l’indu­ stria ha potuto reggersi per qualche tempo su nuove idee, nuove storie da raccontare, nuovi stili da sondare. Ecco perché successi come The Foul King, Attack the Gas Station! (Juyuso seubgyuksageun, Kim Sang-

«Korean Blockbuster»: una nuova estetica del confezionamento

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Jin, 1999), My Sassy Girl o i più recenti The King and the Clown, The Chaser o Scandal Makers, realizzati con finanziamenti irrisori e fonda­ ti su plot insieme sorprendenti e rassicuranti, devono spingere lo studio­ so in primo luogo a interrogarsi sugli elementi di artigianalità, econo­ mia e resistenza che hanno garantito la loro sostenibilità c in secondo luogo analizzare quegli espedienti narrativi e stilistici e quelle forme di coinvolgimento spettatoriaie che ne hanno decretato l’alto consenso. In altre parole, solo verificando il funzionamento di quel delicato e talvol­ ta imponderabile gioco di equilibri, dosaggi e negoziazioni che stabili­ sce la fortuna di un’operazione cinematografica è possibile compren­ derne la struttura interna. Solo valutando il suo «confezionamento» esterno se ne può dedurre la fattura.

7.2

La via di mezzo

Per convincere un avventore ad acquistare un vestito occorre, innanzi tutto, creare delle forme di identificazione, fargli credere che esso ri­ sponde alle sue esigenze e che sembra fatto su misura. Inoltre è bene convincerlo dell’alta riconoscibilità che guadagnerebbe indossandolo. È quanto ci sembra facciano i Korean Blockbuster quando scelgono co­ me protagonisti delle loro storie - e avviene nella maggior parte dei ca­ si - personaggi deboli, golfi e fallibili, ipotesi di una medietà coreana che si scopre portatrice di valori, ingegnosità, talenti. L’intento, ovvia­ mente, è quello di creare immediate affinità con lo spettatore, una fidu­ cia costruita sulla reciproca identificazione. Qualche esempio? La fa­ miglia di The Host compone un quadro di inanità divertente e desolante che emerge solo in virtù dell’imbarazzante pochezza delle istituzioni con cui ha a che fare (forze di polizia, media, servizi sanitari ecc.). The King and the Clown accosta a Jang-saeng, orgoglioso c ardimentoso at­ tore di strada, Gonggil, il suo compagno di sventure, effeminato c pavi­ do, una compagnia di giro improbabile e arruffona e soprattutto Choseon, sovrano irascibile e puerile. Fallibilità e incostanza caratterizzano i quattro amici di Friend, mai autentici paladini tragici nemmeno quan­ do le loro parabole criminali conducono gli uni contro gli altri, irascibi­

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lità e dilettantismo impregnano gli uffici della polizia in The Chaser o Memories ofMurder, scarsa muscolatura decora gii atleti di Marathon e Forever the Moment, irresponsabilità e pressappochismo caratterizzano le scorribande dei gaglioffi di Attack the Gas Station!, ingenuità e ine­ sperienza informano le scelte degli studenti di May 18. Anche ignoran­ do per ovvie ragioni le commedie e le parodie gangsteristiche do adole­ scenziali di successo, restano film di guerra, in apparenza epici e solen­ ni, in realtà tutt’altro che leggendari. Silmido ad esempio mette in scena ima vicenda eroica, peccato che i campioni di ardimento e nobiltà siano un manipolo di criminali condannati a morte, prima assoldati per una missione suicida c segreta oltre confine e poi sacrificati sull’altare della Realpolitik. Non molto dissimile nella retorica nazionalista, Taegukgi non esita a descrivere il coraggio di uno dei due protagonisti nelle sue venature più intrepide tanto da lanciarsi in missioni al limite dell'im­ possibile per convincere i superiori a congedare il fratello minore, senza celare però le sue più intime irrazionalità (l’uomo diventa ben presto vittima di una furia cieca, di una incapacità di guardare il mondo e com­ prendere i sentimenti di chi gli sta accanto). Ancora più significativa è la doppia parabola di Welcome to Dongmakgol e JSA, due pellicole che dischiudono il genere a tonalità più leggere c surreali (non senza di­ menticare la tragedia e le ingiustizie della guerra), arrivando a immagi­ nare l'incontro tra soldati sudisti e nordisti come ideale riconquista di un eden premodemo o come occasione per un ritrovo tra compagni di bevute. Entrambi i film - ma il discorso può essere esteso ad altre pelli­ cole - descrivono un percorso di trasformazione dei protagonisti da rap­ presentanti (in uniforme) dell’ideologia dominante, specchi dell’istitu­ zione coercitiva a cui appartengono, a uomini semplici con le loro de­ bolezze, incostanze e vissuti personali. Essi svestono i panni di campio­ ni di una nazione per aprirsi alla contaminazione, all’insensatezza, alla inverosimiglianza o all’invalidità. Lo possono fare solo perché sono sol­ dati inetti, inesperti, impauriti, incapaci di leadership o addirittura di­ sertori e perché occupano posizioni defilate nelle gerarchie militari. Insomma, come nella commedia italiana dei primi anni Sessanta, i «soliti ignoti» coreani guadagnano la simpatia del pubblico più per le loro me­ schinità e il loro bozzettismo che non per fascino estetico, incorruttibi­ lità, coraggio (qualità pronte ad emergere nel momento del pericolo).

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C'è però ima rilevante differenza con i campioni della commedia di co­ stume nostrana. Nel Belpaese l’accezione «bassa» dell’eroe serviva a raccontare vizi e virtù degli italiani, attraverso una satira corrosiva e in­ clemente. Erano tutti «mostri» sociali verso i quali il pubblico provava attrazione e repulsione, in un moto pendolare di identificazione e stra­ niamente. Nel caso coreano, non c’è alcun intento satirico, né obbietti­ vo sociologico dietro a tali caratterizzazioni, tanto che questo modello di personaggio non appartiene soltanto all’alveo della commedia ma an­ che a quello di altri generi più seri e impegnati. Indipendentemente dal registro scelto, la presenza di «eroi piccoli piccoli» è funzionale a una comune ricerca di unità (anche politica e sociale) che giunge dal basso, che appare un po’ consolatoria forse, eppure intensamente identitaria, tanto da pretendere immedesimazioni fondate sulle sensibilità basilari dello spettatore come la commozione, la nostalgia, la rabbia, la paura, la réverie fantastica e utopica. Non può essere accidentale il fatto che l'eroe di questi film sia spes­ so primus inter pares, protagonista tra i protagonisti, ultimo testimone di ima staffetta che si corre in gruppo c mai da soli. In JSA, The King and the Clown, Welcome to Dongmakgol, The Host, Attack the Gas Sta­ tion!, Friend, Silmido, May 18 e in molti altri titoli, scorrono sullo schermo storie di coralità e collettività, nelle quali compagnie abbozza­ te condividono spazi di vivibilità e territori esperienziali. Spesso queste aggregazioni rabberciate mirano a costruire cellule sociali simili alla fa­ miglia di stampo confuciano, anche se spesso la mancanza di qualche membro «costituente» (padri, madn, fratelli, avi) o la presenza di una condizione ambientale ostile (guerra, divisioni, ragioni di stato) rendo­ no vani tali tentativi. Il singolo non può mai inseguire i propri obiettivi, ma deve sempre bilanciare le proprie azioni valutando effètti e ricadute che si riverseranno sul nucleo in cui è inserito. C’è senz’altro, in questa scelta, il tentativo di raccontare ipotesi di quotidianità nonché un idea dell’Altro in continuo divenire. C’è la scelta di favorire le forme di oriz­ zontalità di un testo piuttosto che le sue verticalità gerarchiche, le vie di mezzo piuttosto che le sue radicalità, le fluidità relazionali (tra perso­ naggio e personaggio, tra schermo e sala) piuttosto che le rugosità e gli attriti. C’è, soprattutto, sul piano del confezionamento di un racconto, l’onere/onore di architettare oleati meccanismi di contiguità e integra­

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zione discorsiva che diano credibilità ed efficacia a un contesto corale, a un quadro di insieme, intessendo eventi che sono generati da più con­ canse, coinvolgono più soggetti, provocano maggiori strascichi. Più nu­ merosi sono gli aitanti, maggiore resistenza e compattezza occorre infondere all’universo diegetico che essi calpestano.

7.3

Emblemi della narrazione

Per ottenere tale compattezza i blockbuster coreani si servono da un la­ to di forme di irrobustimento del racconto e dall’altro di indicatori che rassicurano sulla bontà del progetto narrativo in atto. Più che studiare le

prime, spesso legate a soluzioni stilistiche tradizionali, è più utile in questa sede individuare i secondi, perché si presentano come posti-tap­ pa di un coeso quadro comunicativo, dimorando i quali lo spettatore non solo percepisce il flusso delle informazioni, ma intravede anche la struttura portante, il narrativizzarsi del film. Potremmo definirli mise en abime enunciative, emblemi che simulano rimpianto di un racconto o alcune sue caratteristiche peculiari. Se si vuole, etichette che specifica­ no la composizione del tessuto e la qualità della sua fattura. La principale tra di esse è, forse, la ripetizione di ambientazioni, si­ tuazioni, abboccamenti che dà luogo a forme di circolarità. È uno sche­

ma di svolgimento ricorrente e intuitivo nei film commerciali, perché la ripetizione di determinate configurazioni (location, incontri, dialoghi e azioni) marca i cambiamenti di equilibrio tra le forze in campo (consen­ tendo più volte di perlustrare luoghi e misurare dinamiche interperso­ nali) e calibra il ritmo discorsivo di una storia. Si pone come cornice a una vicenda, rinforzando l'autosufficienza circolare di un testo e la sua coerenza interna. Citiamo, come esempio, qualche occorrenza: in Shirt, l’agente Ryu, dopo aver dovuto uccidere la fidanzata spia, va a ri-trovare una ragazza ricoverata in un ospedale perché è la sola persona con cui la donna aveva intessuto un rapporto di amicizia; in Welcome lo Dongmakgol i titoli di coda ri-propongono le immagini in Super8 della festa del villaggio quando soldati e contadini celebravano la fine del raccolto e la ritrovata unità; in Friend l'ultima sequenza ri-prc$enta il momento

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in cui i quattro protagonisti, ancora bambini, aggrappati a un enorme copertone in mezzo al mare, chiacchierano tra loro; durante l’epilogo di The Host, Park Gang-du è, di nuovo, rin-chiuso nel suo piccolo empo­ rio, non più con padre e figlia ma con il piccolo homeless salvato dalle grinfie dell’enorme creatura. Se su Taegukgi torneremo tra poco, è inte­ ressante il caso, leggermente diverso da quelli appena citati, di May 18. Il film si chiude, infatti, con un momento onirico in cui tutti i personag­ gi deceduti negli scontri con l’esercito «resuscitano» in occasione del matrimonio (impossibile) tra Sin-ae (l’unica triste nel quadro di stonata felicità perché sopravvissuta) e Min-woo. Felici e sorridenti, i perso­ naggi si mettono in posa per la foto di rito, sul cui scatto si cristallizza definitivamente la situazione. Quella che vediamo è la proiezione dei desideri dell'istanza narrante e del pubblico, una sorta di ipotetico flashforward che però recupera atmosfere dal passato dei personaggi, a ri­ marcare il sistema di controsensi che circoscrive i fatti di Gwangju. 'Tut­ tavia tali strategie di circolarità e ritorno, invece di integrare i conflitti, di sciogliere gli enigmi, di attestare un equilibrio, tendono a rimarcare la fatica del commiato dal racconto, lo sconforto per un universo diegetico che non si vorrebbe abbandonare, il sogno di un rilancio nel momento dell’arresto: l'ultimo dialogo di Shiri, la festa di Welcome, il matrimo­ nio surreale di May 18, il pasto frugale di The Host, ma anche il ritrova­ mento delle scarpe in Taegukgi, il fermo fotogramma di JSA o il ritorno in vesti liceali dei protagonisti di My Sassy Girl sono indizi di un desi­ derio di racconto che resta ancora parzialmente inespresso nonostante la vicenda narrata sia giunta al suo epilogo. Queste asserzioni di preca­ rietà narrativa non sono forme di volubilità, né stratagemmi per nuovi sequel, bensì azioni che celebrano il fasto di farsi enunciazione, la sua sostanzialità, la sua portata emozionale, la sua capacità di autogenerarsi continuamente. Un altro dispositivo classico di mise en ahimè narrativa - contiguo a quello appena descritto - è il flashback. In quanto racconto nel racconto e racconto di un racconto, il sintagma rende esplicite, pur dentro il flus­ so evenemenziale, le funzioni astratte dell’istanza narrante: la gestione delle logiche di focalizzazione. la configurazione spazio-temporale di un evento, le tecniche di affabulazione di un intreccio, i rapporti tra le figure dell’enunciazione. Nel caso dei kolossal coreani, una veloce in­

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dagine dimostra che tale stratagemma ha una presenza assidua, costante, poliedrica, non affatto casuale. Le prime analessi da ricordare sono, sen­ za dubbio, quelle presenti in Taegukgi e Joint Security Area, due pellico­ le che condividono il percorso di ricostruzione mnemonica e storica compiuto da un personaggio (un ex soldato in un caso, un’ufficiale di una forza di interposizione militare nell’altro). Entrambe le figure non devono solo trovare le ragioni che motivano alcune inspiegabili azioni (il passaggio al nemico del fratello-soldato, alcune morti sospette), ma ricostruire eventi senza apparente forma per poi narrarli a un uditorio terzo (la nipotina in un caso, una giuria in un altro, entrambi delegati dello spettatore) che ne dovrà giudicare la plausibilità. Altri titoli meri­ tano di essere ricordati: in Attack the Gas Station!, quattro ampie paren­ tesi sul passato dei quattro giovani criminali consegnano allo spettatore chiavi di lettura su alcuni loro comportamenti ossessivi, in Welcome to Dongmakgol il disertore Pyo Hyun-Chul è un uomo perseguitato dal ri­ cordo di una strage di civili che non ha saputo evitare, in My Wife is a Gangster II (Jopog martora 2: Dolaon jeonseol. Jeong Heung-sun, 2003) l’amnesia della protagonista diventa uno stratagemma per ripro­ porre improvvise reminescenze della sua vecchia vita criminale. Lo stesso Friend può essere letto come un film realizzato attraverso un lun­ go e ovattato flashback, dal momento che è la voce extradiegetica di uno dei quattro protagonisti (ormai invecchiato) a narrare e commentare le vicende. Non sempre le analessi si generano a partire dalla rievocazione del vissuto di un personaggio, altre volte scaturiscono per merito di veri c propri narratori omodiegetici che raccontano a loro interlocutori stone inventate, fantastiche, immaginate: è quanto capita in D-War dove l’epifenomeno dello sconclusionato e improbabile intreccio fantasy si trova nella leggenda che un antiquario narra a un bambino particolarmente perspicace; è quanto capita in My Sassy Giri dove l'eccentrica protago­ nista, di professione soggettista cinematografica, inventa improbabili plot pei wuxiapian o gangster movie, li racconta all’ingenuo corteggia­ tore e infine li immagina sottoforma di esilaranti film nel film. Più sot­ tile è la tecnica narrativa di Tazza: The High Rollers che comincia ex abrupto nel bel mezzo di un’attività criminale, retrocede di due anni per raccontare tutta la parabola del protagonista nel mondo dei gamblers, presentando, inoltre, alcuni intermezzi dove una misteriosa e onniscien­

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te femme fatale commenta le vicissitudini dell’eroe. In tutti questi casi ci troviamo di fronte a ligure vicarie della narrazione, che assommano su di sé funzioni e responsabilità di un racconto. Sono indiretti emblemi della narrazione anche le voci over di quei personaggi, specie nelle com­ medie, che ironizzano sulle proprie disavventure o circoscrivono i propri pensieri (200 Pounds Beauty, My Sassy Girl), così come le rappresenta­ zioni teatrali o cinematografiche che vengono messe in scena nella diegesi dei film, proiezioni in piccolo della pratica enunciativa a cui assiste lo spettatore (le satire contro i potenti in The King and the Clown, il film di guerra che guardano i soldati di Silmido). Si può parlare di mise en abyme narrativa anche per certi rapporti intergenerazionali che favori­ scono il trapasso dei saperi attraverso i racconti di vita e testimonianza dei propri vissuti (ottimi esempi sono i film di addestramento ed educa­ zione da The Way Home a Tòzza, the High Rollers, da May 18 a Silmido, da The Foul King a Marathon e Taegukgi), per certe figure mendaci che inventano mondi paralleli alla diegesi (è il caso del serial killer di The Chaser o dei sopravvissuti di JSA) eoe. È ben delineato il filo conduttore di questo ragionamento: al di là di generi e delle strategie narrative, il blockbuster coreano condivide la convinzione di presentarsi come un testo che sa integrare e far convivere diversi elementi attrattivi, li sa predispone l’uno accanto all’altro, infon­ de loro una certa coesione e immediatezza, ignorando le insicurezze, le perplessità e le irresponsabilità ludiche di molto periodare contempora­ neo. In tal modo rigetta il percorso di lacerazione del principio di cre­ denza e di centralità scopica della macchina da presa che sembra carat­ teristica di molto cinema contemporaneo. Al contrario irrobustisce l’i­ dea di «immagine-traccia», la rinforza con stratagemmi che mirano alla limpidezza, scorrevolezza, meccanicità e resistenza del racconto. Altre metafore si affacciano oltre a quelle del vestito da confezionare: quella del navigatore che trasporta sicuro la propria imbarcazione nelle acque placide o agitate di un fiume fino al suo delta; quella del domatore che sottomette ai propri bisogni alimentari qualsiasi bestia feroce; quella del funambolo in equilibrio sulla corda. Non sono figure scelte a caso, ma cellule significanti proposte da tre recenti kolossal per affermare, una volta per tutte, fiducia nel racconto e sostanzialità del proprio agire. Va­ le la pena testare questi moti attraverso una breve analisi di tre sequenze.

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7.4

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Esempi di credenza nel racconto: «The Host», «Welcome to Dongmakgol», «King and the Clown»

Partiamo dal prologo di The Host. Siamo in un obitorio militare di Seul. Un medico americano si lamenta con il suo assistente coreano della poh vere che ricopre alcune bottiglie di formaldeide. Senza porsi il proble­ ma del possibile inquinamento del fiume Han, ordina al sottoposto di svuotare le bottiglie nello scarico dell’acqua. Questi, dopo avere abboz­ zato una protesta, versa i flaconi nel lavabo, cagionando indirettamente la nascita del mostro. La sequenza termina con una dissolvenza incro­ ciata che passa dalle bottiglie vuote di formaldeide alle acque placide del fiume Han. 1 continui rimandi a lìquidi chimici, acque, fiumi, scarichi sono un primo campanello d’allarme sull’aspetto metanarrativo del segmento: scorrevolezza, fluidità, scioltezza sono, infatti, lemmi dentro il cui spa­ zio di competenza lessicale si adagia perfettamente il concetto di rac­ conto, la sua orizzontalità, il suo avanzare (apparentemente) naturale. In realtà la sequenza mette in opera un dialogo-confronto tra orizzontalità e verticalità, tra azione e inazione, già dalla prima inquadratura, un pia­ no di ambientazione che uon solo mostra, in campo medio, attori e set­ ting. ma che in virtù del formato e di una serie di accorgimenti della messa in scena (le luci al neon sul soffitto, i mattoncini delle pareti e del pavimento, la posizione polare dei due personaggi che costringe l’occhio di chi guarda a muoversi a pendolo ecc.) accentua la dinamica delle tensioni in atto, pur ancora sopite. Perpendicolarità e gcrarchizzazione emergono poco per volta all’in­ terno delle prassi trasparenti del decoupage classico. In un primo mo­ mento, sembra esserci perfetta simmetria tra i personaggi, ripresi in mezza figura in alcuni campi e controcampi regolari, mentre la subordi­ nazione dell’uno verso Taltro si percepisce solo indirettamente, dal di­ sequilibrio nella durata dei dialoghi, dalla diversa competenza linguisti­ ca (i due parlano in inglese con accento e periodare diversi), dai loro at­ teggiamenti e posture. Come in ogni conversazione classica che si ri­ spetti, con ravvicinarsi del climax drammatico (sottolineato da una se­ rie di primi e primissimi piani) si evidenzia la verticalità del loro rap­

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porto anche sul fronte della messinscena, poiché quando il medico ame­ ricano ordina perentoriamente al coreano di disfarsi della formaldeide, questi guadagna un primissimo piano in più (l'ultimo della serie) che sancisce la sua impotenza (e che suggerisce da che parte si colloca l’i­ stanza narrante e lo spettatore). L’ingiunzione infonde infatti un princi­ pio di verticalità che il povero Dr. Kim attiva quando versa il composto tossico nel lavandino. Siamo nel secondo segmento della sequenza e quattro inquadrature sottolineano la perpendicolarità (e la pericolosità) del gesto o tramite marcate angolazioni di ripresa dal basso verso l’alto (e viceversa) o tramite dettagli del liquido che scola senza incontrare ostacoli. Una volta eseguito l’ordine, la dinamica di passaggio dall’o­ rizzontale al verticale si capovolge: la successiva inquadratura mostra, infatti, il medico che appoggia, in un ulteriore movimento verticale, il flacone vuoto su un ripiano metallico pieno di altre bottiglie. Da qui parte una lenta carrellata orizzontale che suggerisce il mescolarsi della formaldeide con le acque fluviali, grazie alla dissolvenza incrociata già citata. Più che sul piano stilistico questa sequenza va analizzata su quello narratologico. Nella sua prima parte assistiamo all’intervento di una fi­ gura autoritaria - presenza simulacralc di un principio narrante - che infonde una verticalità a un paesaggio orizzontale, un nuovo campo di tensioni a una configurazione talmente piana e immobile da avere an­ cora un velo di polvere addosso. Quest’istanza (incarnata dal dottore americano) non agisce da sola, ma si assicura la fedeltà di alcune figure a lei vicarie che si occupano del lavoro sporco, vale a dire di organizza­ re tale alterazione secondo forme convenzionali e codificabili di discor­ so. L’assistente corcano è esattamente la personificazione di questo sog­ getto: fa nascere il mostro su indicazioni di un’autorità astratta (si noti che entrambi compiono in due momenti diversi lo stesso gesto: tolgono la polvere dalla bottiglia e ne tastano la consistenza con le dita) secondo convenzioni e codici appartenenti alla propria cultura (il fiume Han). La seconda parte della sequenza concretizza tale processo, innescando il big bang del racconto, infondendo una anisotropia, una univoca dire­ zione di estensione e limando la verticalità vincolante c diretta dell’au­ torità in una orizzontalità progressiva, aperta e temperante. Tale linea­ rità si appoggia ovviamente alla carrellata orizzontale e alla successiva

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dissolvenza incrociata statuendo un’idea «fluviale» di racconto, all’in­ terno della quale l’orizzontalità c la trasparenza rappresentano punti di riferimento imprescindibili. Insomma dalla disposizione del prologo di The Host si può evincere, in filigrana, il moto generatore di ogni racconto, un'imposizione autori­ taria impossibile da controbattere, una scaturigine che dà vita a un flus­ so di informazioni ed eventi che chi ha la responsabilità della narrazio­ ne deve sapere gestire, navigare, condurre fino alla fine del suo corso. Non a caso, il dottore coreano, succube e pavido, ritroverà una propria proiezione quasi speculare in Gang-du, l’inetto protagonista del film, che, dalla sua prima comparsa fino alla fine del film, avrà il compito di rintracciare il mostro (ovvero l’enunciato di una storia), di amministrar­ ne le scorribande, di coordinare l’azione di tutti quegli affanti e adiuvanti che lo aiuteranno a domarlo c a «scioglierlo» (bruciarlo nel nostro caso), come avviene per ogni intreccio narrativo che si rispetti. Più è grande e convincente il mostro, più è ampio c saldo il patto di fiducia che il narratario stabilisce con lo spettatore. La cosiddetta «sospensione dell'incredulità» si rinforza perché il pubblico ignorerà tanto la verosi­ miglianza del processo chimico-genetico che procrea il mutante, tanto le dissonanze con un episodio di inquinamento fluviale realmente oc­ corso anni prima: scienza e Storia si piegano all’esigenza della trama, anzi diventano la scintilla che fa divampare il fuoco, l'energia che muo­ ve la prima tessera di un domino, la prima goccia di una sorgente che diventerà fiume. Un'altra creatura da gestire e domare è l’enorme cinghiale che, in Welcome to Dongmakgol, a un certo punto dell’intreccio, attacca abi­ tanti e soldati di ritorno dai campi. L’episodio è drammatico c insieme divertente. Tutto inizia quando l'eccentrica Yeo-il, il piccolo Dong-goo e il soldato Smith attraversano di corsa un campo, braccati dal grosso ani­ male. Per distrarre quest’ultimo, Taek-ki, uno dei soldati nord-coreani, gli scaglia addosso una pietra colpendogli il muso. La bestia, allora, cambia direzione e insegue Taek-ki che viene a sua volta salvato da Hyun-Chul che lo sottrae alle sue grinfie con un tuffo plastico. Ora toc­ ca al disertore sudcoreano subire le attenzioni non amichevoli del cin­ ghiale. Intanto, sotto gli occhi esterrefatti dei contadini, il comandante nordista Su-Hwa insieme ai compagno Young-hee, al medico sudista

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Sang-sang e ad alcuni paesani, prepara una trappola per annichilire l’a­ nimale. Tirano una robusta corda e la tendono al suo passaggio in modo da fargli perdere l’equilibrio. Mentre il cinghiale è in volo Smith lancia la sua gruccia a Su-Hwa il quale la rompe in due e con un grande balzo la conficca nel collo del povero animale che stramazza morto a terra per la felicità degli astanti. Tralasciamo il carattere premonitore della sequenza (prefigura infatti il sacrificio finale dei militari) c il suo valore fortemente simbolico (ri­ mandiamo ancora al cap. 6.) e restiamo incollati alla sua valutazione narratologica. che non può prescindere dalle scelte stilistiche e fotogra­ fiche che informano Tawenimento. A chi ha visto il film non sarà sfug­ gito, infatti, l’utilizzo combinato, in tutta la sequenza, sia del chroma key sia della computer graphica (per costruire in digitale il cinghiale e alcu­ ni oggetti della scena come il sasso e le patate). Ad aggiungere comples­ sità iconica, intervengono molti estenuanti slow motion c una tecnica fo­ tografica resa celebre da La donna che visse due volte ( fèrtigo, 1958) di Hitchcock (perché simula le vertigini) che combina carrellate tradizio­ nali e carrellate ottiche. La commistione di tali soluzioni linguistiche po­ ne alcuni interrogativi che è bene affrontare senza indugio: l'estrema ar­ tificiosità della sequenza mette o no in crisi la verosimiglianza dell’epi­ sodio e di conseguenza i sistemi di credenza dello spettatore? Essa è sin­ tomo di manipolazione ludica di una realtà virtuale o rappresenta l’unica reificazione possibile di un evento non rappresentabile? A nostro avviso sembrano più produttive le seconde ipotesi rispetto alle prime soprattut­ to se le si legge alla luce del concetto di «visìbile cinematografico» in­ trodotto da Pierre Sorlin alcuni decenni fa, per il quale non esiste un'im­ magine vista ma visibile, non una libera da condizionamenti ma soltan­ to una plausibile, poiché ogni configurazione iconica è il risultato di «quel che appare fotografatale e presentabile sugli schermi in un’epoca data», ed «è ciò che i fabbricanti di immagini cercano di captare per tra­ smetterlo e ciò che gli spettatori accettano senza stupore». In altre paro­ le, secondo il teorico francese, «un gruppo vede solo ciò che può vedere, e dunque ciò che è capace di percepire definisce il perimetro entro il quale il gruppo stesso è in grado di porre i propri problemi»2. Mai prima - P Sorun. Sociologia ilei cinema., Garzanti, Milano 1979, pp. 23 e 68-70.

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di Welcome (e segnatamente prima di questa sequenza) era stato rappre­ sentato un episodio di mutuo aiuto tra sudcoreani, nordcoreani e yankees in maniera cosi diretta. In film come Shiri, JSA, Taegukgi esi­ stevano sempre agenti di intermediazione che rendevano gli incontri tra nemici ammissibili per l’opinione pubblica: la falsa identità in un caso, il perimetro del flashback nell’altro, il legame fraterno e la pazzia di uno dei due protagonisti nel terzo. Qui il momento di condivisione tra questi soggetti (in linea di principio eterodosso e scandaloso) trova una confi­ gurazione di visibilità in uno spazio che manipola virtuale c analogico, unificando strategie linguistiche della classicità (il chroma key, l’effetto vertigo) e della contemporaneità (la computer graphica), in un tempo che si dilata in maniera estenuante per via dei molti slow motion, in un tono autoironico che stempera letture politiche e in uno spettro iconico che include varie suggestioni figurative3. Insomnia, più che pratica ludi * ca, questa sequenza realizza - con una assonanza di sintassi - un incon­ tro impraticabile se non in un luogo fuori dal mondo e fuori dal tempo come Dongmakgol. Lungi dall'indebolirsi l’idea del racconto si rinforza anche grazie a un modulo discorsivo che sembra fondarsi sul concetto meccanicistico e fordista di «staffetta evenemenziale», con tanto di pas­ saggio di testimone tra gli atleti e pubblico sugli spalti a fare il tifo. Si sarà notato, infatti, che ogni personaggio, dell’una o dell’altra sponda militare, compie un gesto necessario ma non sufficiente per abbattere l’animale: il primo scaraventa e scappa, il secondo spicca un salto e poi corre, il terzo e il quarto tendono, il quinto lancia, il sesto rompe in due, salta e conficca. Come ruote dentate di un ingranaggio che gira senza frizioni e attriti, i nostri eroi si trapassano l’un l’altro l’energia necessaria per raggiunge­ re il loro obbiettivo. Per meglio rendere visibile questo congegno a ca­ tena ognuno di loro è dotato di un testimone, di un oggetto che trasferi­ sce simbolicamente la responsabilità del gesto dall’uno all’altro (il sas­ so, le patate, la corda, la gruccia intera e poi spezzata). Non servono al­ tre delucidazioni per registrare il fatto che ci si trova innanzi a un’altra sequenza che pone in allegoria lo sforzo comunicativo di un’enuncia11n alcune inquadrature é ben evidente, tra gli altri, anche un omaggio a I sette samurai iShtchinìn no samurai. 1954) di Akira Kurosawa, modello alto di «grande narrazione *.

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zione. Gli atlanti diventano singoli enunciati che compongono un siste­ ma significante fondato sulla concatenazione di segni, convenzioni e codici. Se in The Host abbiamo assistito al principio generativo del meccanismo evenemenziale, qui siamo nella sua fase (matura) di spi­ gliatezza inarrestabile, dove agiscono dispositivi di regolazione del flus­ so informativo, attraverso accordi, raccordi e negoziazioni tra tutti gli attori del gioco comunicativo. Funamboli che cercano di mantenersi in equilibrio, bisognosi di una corda tesa e resistente su cui camminare. Quest’ultimo tropo proviene in realtà da The King and the Clown4 e, nella fattispecie da due sequenze speculari raffiguranti un medesimo spettacolo acrobatico allestito dal temerario Jangsaeng e dal compagno di mille avventure Gonggil per il piacere del pubblico e del potente di turno. Nella prima occorrenza, all’inizio del film, l’esibizione è diver­ tente fi scanzonata. I due interpreti simulano un corteggiamento amoro­ so tra un re e la sua cortigiana, tra battute scurrili, doppi sensi e numeri acrobatici su una corda. La seconda si verifica nella penultima sequenza del film quando ormai l’intrigo è stato completamente dipanato e i due eroi hanno già subito le conseguenze del loro sventurato destino. Il tono della pellicola è radicalmente cambiato: la tragedia è in essere, il re sta per essere deposto, ormai insensibile a tutto ciò che lo circonda, in atte­ sa di un’ultima rappresentazione. Jangsaeng, ormai cieco, sale un’ulti­ ma volta sulla time tesa e invece di impersonare un finto sovrano rac­ conta la propria storia, quella di un saltimbanco cieco per amore e poi per avidità, incapace di vedere la crudeltà attorno a lui e difendere i pro­ pri affetti, costretto - paradossalmente - a ritrovare la vista nei momen­ to della condanna alla cecità. È proprio quando grida la felicità di vive-

* Ricordiamo che il film porta in scena, sotto forma di parodia, (a figura di Yónsan'gun. decimo re della dinastia Chosón, entrato negli annali della storia per la sua volubilità, per

la crudeltà manifestata nei confronti di alcune cerehie di intellettuali e cortigiani (i sanm)

e verso chi - regina vedova compresa

aveva tramato per giustiziare la madre poco prima

della sua salita al trono, nonché per gli eccessi di carattere sessuale e le molte bizzarrie comportamentali (tali da suppone una qualche forma di instabilità psichica). Nel film

vengono inserite le figure fittizie di Gonggil e Jangsaeng, due atton di strada accolti a pa­ lazzo per allietare le sciate del re. Una volta a corte i due vengono coinvolti negli intrighi

di corte c separati. Jangsaeng viene addirittura accecato, mentre Gonggil, dai modi effe­ minati, diventa per un certo periodo la favorita del sovrano

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II cinema dell 'Estremo Oriente

re in un abisso che il compagno Gonggil, fino a quel momento muto spettatore, abbandona la platea, sale all’altro capo della corda e inter * preta nuovamente la cortigiana innamorata del suo re. Questa volta però non c’è finzione teatrale, c’è una verità dei sentimenti vanificata dal * l’incombere della sommossa. Proprio nel momento in cui gli insorti en­ trano nel chiostro e assaltano il trono di Yeonsan, i due attori corrono l’uno verso l’altro e si lanciano in ultima piroetta volante. Un fermo fo­ togramma arresta il loro volo, cristallizzandolo in un’immagine su cui la mdp zooma lentamente, mentre la grana fotografica subisce un pro­ cedimento di viraggio. Infine una dissolvenza in bianco conduce lo spettatore all’epilogo nostalgico della storia, un flashback che ci riporta alle giornate di serenità dei protagonisti prima del loro arrivo a Seul. Altri risvolti narratologici si possono individuare nel pre-finale appe­ na descritto. Intanto è bene ricordare che esso va collocato all’interno di un plot che ruota attorno ai concetti antipodal i di rappresentazione e realtà, finzione del potere e autenticità dei sentimenti, drammaticità del­ la vita e sua parodizzazione e che quindi tematizza le forze gravitazio­ nali che premono in direzioni centrifughe su ogni attività narrativa (fin­ zione, realtà, verosimiglianza, interpretazione) rendendone problemati­ co l’equilibrio o meglio ancora l’equilibrismo. Nondimeno il cammina­ re sulla fune è forse l’immagine che meglio descrive il moto di fiducia che deve essere custodito da tutti gli attori della comunicazione. L’e­ nunciato - come un Jansaeng cieco qualsiasi che cammina confidando sul fatto che ciò che non vede (la corda) c’è - si trova a dover accettare, pur dentro a un handicap scopico, una serie di disposizioni non nego­ ziabili imposte dall’enunciatore; la direzione di marcia, la labilità del canale comunicativo, la strumentalità delle propria posizione. Prendere o lasciare. Sotto questi riflettori, l’impianto stilistico della sequenza mostra meglio il proprio profilo. Ignorando i precetti baziniani sul mon­ taggio proibito, Lee Joon-ik segmenta, infatti, in più inquadrature la «passeggiata» di Jangsaeng, lasciando in fuoricampo alcuni movimenti che avrebbero dovuto essere presenti simultaneamente nel quadro per infondere verosimiglianza al gesto. Per essere più precisi, non esistono in questo segmento (tranne pochissimi casi) piani totali che contengono personaggio, corda e terreno, ma solo piani ravvicinati, ovvero dettagli di piedi e primi piani di Jangsaeng. Ecco allora che la cecità dcll’enun­

«Korean Blockbuster»: una nuova estetica del confezionamento

179

ciato diventa, in un sol colpo, cecità dell’enuiiciatario. Anche chi sta al­ l'altro capo del sistema dell'enunciazione è un novello Jansaeng che scopre di non poter vedere nulla attorno a sé e che, pertanto, deve affi­ darsi, ciecamente, alla solidità e alla credibilità dell’enunciato. La corda tesa è, in fin dei conti, una effige perfetta del campo enunciativo dentro il quale gli attori della comunicazione si muovono. E Jangsaeng e Gonggil non sono altro che polarità che si attraggono, incarnando di­ versi ruoli e diverse funzioni significanti. Come se non bastasse, anche il terzo personaggio del film, il sovrano Yeonsan, è una figura vicaria della narrazione dai profili poliedrici. Egli è il principio autoritario che innesca l’enunciato a favore di un pubblico composto da cortigiani e concubine. Malauguratamente è istanza nar­ rante permeabile, insicura, manipolabile, capace di attribuirsi anche i compiti del destinatario della comunicazione e degli stessi enunciati: durante gli spettacoli da lui commissionati, si fa spettatore, si identifica completamente nella finzione, recita persino senza saperlo, incapace di separare il momento della rappresentazione da quello della vita, il ruolo dal suo interprete. Senza strumenti cognitivi, egli è incarnazione di un principio volubile, cannibale, autolesionista. Forse solo nel corso di quest’ultima sequenza egli diventa consapevole, finalmente, del proprio inesorabile destino e, non a caso, perde ogni afflato vitale, freddo e in­ sensibile a ciò che vede. Abdica al suo ruolo di generatore di finzione nel momento in cui riesce a ristabilire la distanza rispetto al quadro co­ municativo che non ha saputo gestire o far gestire. Se, in buona fine, nei due casi precedenti assistevamo all'attività implicita di principi genera­ tori e regolatori della narrazione, in fhe King and the Clown si percepi­ sce la fatica di un principio risolutore. La chiusura del cerchio, la solu­ zione dei conflitti, il recupero di un equilibrio, al termine di questa se­ quenza, si impianta nel territorio altro di una sospensione aerea (il fer­ mo fotogramma finale) oppure di un flashback ormai scolorito3. Gene­ rare e infondere energia a un racconto sembra un’operazione facile. Concluderlo invece no.

* La sequenza si conclude infatti con una dissolvenza in bianco che suggerisce una fine

che è anche un inizio, una sorta di reincarnazione, la stessa che conosceranno momenta*

neomenie i personaggi, ritornati subilo dopo ingenui menestrelli in viaggio per Seul.

ISO

7.5

II cinema dell 'Estremo Oriente

Découpage

Confezionare un film, ammaestrare un racconto, sostenere una creden­ za significa, alla somma dei fatti, allestire una medietà, negoziare una accettabilità, nascondere le cuciture del tessuto. Significa, inoltre, im­ prontare utilità, evitare il più possibile le estemporaneità (o presentarle solo se utili alla coerenza generale dell’impianto), forgiare standard ca­ paci tuttavia di modificarsi in base alle contingenze del momento (cul­ turali, tecnologiche, politiche) e agli obiettivi della rappresentazione. Se questo è vero, lo è in modo particolare per i campioni di incassi coreani. L’equilibrio che possono vantare pellicole come Shiri, The Foul King, My Sassy Giri, Friend, Welcome to Dongmakgol, The Host deriva pro­ babilmente dal fatto di aver trovato chiavi di lettura, soluzioni narrati­ ve, espedienti stilistici capaci di sorprendere l'audience, senza abban­ donare una forma familiare e rassicurante di fruizione cinematografica. Inoltre, confezionare una medietà richiede, come abbiamo visto nelle tre sequenze analizzate, la sottomissione della sintassi alle temperanze del periodare e, più in generale, la dipendenza della congruità del reale a un sistema di simbolizzazione chiaro, univoco, schematico. Anche per questo motivo, come si può ricavare dalle analisi appena proposte, si conferma la piena efficienza del découpage classico che - nel suo com­ plesso di raccordi, simmetrie, gerarchie, motivazioni - contribuisce al­ l’omogeneità delle letture, alla scorrevolezza dei messaggi, nonché alla tracciabilità dei risvolti metadiscorsivi di una comunicazione. All’inizio del capitolo avevamo evidenziato la lontananza del block­ buster coreano da quello americano. L'analisi ci ha portato a individua­ re un sistema di strategie narrative e stilistiche fondate sui paradigmi del cinema classico hollywoodiano come la trasparenza, la fluidità, l’eco­ nomia della rappresentazione e una evidente medietà estetica. Non ap­ paia un controsenso. Da diversi decenni le mega-produzioni americane non mirano al 1 ’invisibilità o all’omogeneità dei propri prodotti, semmai all’eccezionaiità, alla frivolezza, all’eccesso, allo stordimento. A Chungmuro, per ragioni economiche e culturali, si è puntato in una di­ rezione inversa, forse anacronistica, ovvero quella dell’indurimento nar­ rativo, della lubrificazione degli ingranaggi, dell’asservimento dei si-

«Korean Blockbuster»: una nuova estetica del confezionamento

181

gnifìcanti ai significati. Per questo motivo, ci sembra che la specificità del fenomeno coreano consista non solo nel recupero di un’idea di con­ fezionamento sartoriale, ma anche di tagli (decoupage) classici, abban­ donati, almeno in parte, oltreoceano. Un recupero che si esprime attra­ verso una doppia sfida: realizzare prodotti privi di spigoli, asprezze, ru­ gosità, imperfezioni; erigere simbologie e costrutti intimamente meta­ narrativi (etichette di descrizione del prodotto) per consentire allo spet­ tatore di orientarsi nei sistemi indexidali intessuti c per integrarsi atti­ vamente in essi. Con la consapevolezza - confermata dalle recenti avvi­ saglie di crisi del comparto - che non basta confezionare qualche buon vestito per mantenere in buona salute una sartoria, specie se ci si deve confrontare, come avviene nella nuova epoca digitale, con chi produce tessuti sintetici attraverso processi di automazione sempre più raffinati.

Capitolo 8

Ritratto d’autore - Senza famiglia: il cinema di Lee Chang-dong

Pur con solo quattro film all’attivo, Lee Chang-dong è una delle figure chiave del cinema coreano. Nel momento del suo tardivo esordio alla regia, nel 1997, all’età di 43 anni, con Green Fish (Chorog mulgogi), Lee ha al suo attivo già diversi romanzi (The Booty, 1983; Burning Pa­ pers, 1987; There s Lots ofShits in Nokcheon, 1992), nonché la stesura delle sceneggiature di To the Starry Island e A Single Spark, diretti en­ trambi da quel Park Kwang-su che può essere considerato uno degli ul­ timi, e pochi, registi militanti del cinema sudcoreano. Se Green Fish, storia di un giovane che si batte per riunire la famiglia e finisce con l’es­ sere ucciso dal boss della banda criminale cui si era unito e con cui ave­ va instaurato un rapporto filiale, si limita a ottenere buoni riconosci­ menti critici senza agitare troppo le acque del cinema coreano, il suc­ cessivo Peppermint Candy (Bakha satang, 1999) segna un momento imprescindibile nella storia del cinema di quel paese. Riprendendo l’im­ peto militante di Park Kwang-su, Lee Chang-dong narra la storia degli ultimi venti anni della Corea del Sud, con un movimento a ritroso nel tempo che dal presente va al passato, e ne ripercorre alcuni momenti sa­ lienti (il massacro di Kwangju che costò la vita a migliaia di persone in­ sorte a favore della democrazia, la dittatura militare e fascista, l’uso del­ la tortura come mezzo per estorcere informazioni, la crisi finanziaria degli anni Novanta) attraverso le vicissitudini di un uomo che si è ritro­ vato a giocare «sia il ruolo di vittima, sia quello di perpetuatone di que­

Ritratto d‘autore - Senza famiglia: il cinema di Lee Chang-dong

183

sta dittatura»1. Uscito simbolicamente il primo gennaio del 2000, il film è un invito a non dimenticare gli anni più bui del recente passato del paese. Crudele, violento e surreale è il successivo Oasis, che narra la storia dell’amore impossibile fra un giovane appena uscito di galera con dei problemi mentali e una ragazza tetraplegica. Il film, a tutt’oggi l’u­ nico del regista ad essere stato distribuito in Italia, vale all’attrice Moon So-ri il premio per la migliore interpretazione al Festival di Venezia. Nello stesso anno Lee è nominato ministro della Cultura, carica che manterrà, prima di dimettersi, sino al giugno del 2004. L’ultimo suo film è Secret Sunshine, storia di una donna che cerca inutilmente sal­ vezza in un gruppo religioso, dopo il rapimento e l’assassinio del pro­ prio figlioletto. L’abilità nella direzione degli attori di Lee Chang-dong sarà confermata dal premio per la miglior interpretzione femminile ot­ tenuta da Jeon Do-yeon, al Festiva] di Cannes. A seguire questa breve introduzione, cerchiamo ora di definire alcu­ ne caratteristiche della poetica del regista a partire da elementi comuni ai suoi quattro film, che da inizi segnati dalla figura dell’intrusione, at­ traverso l’espiici(azione di un drammatico passato, della ricerca di una famiglia, delle colpe commesse e degli amori impossibili, arriva a fina­ li che progressivamente, piuttosto che chiudere una storia, la aprono ai suoi sviluppi possibili.

8.1

La poetica dell’intruso e un drammatico passato

Sin dalle loro battute iniziali, i film di Lee Chang-dong danno vita a una sorta di poetica dell’intruso, con l’arrivo del protagonista in un luogo e il suo confronto con un’entità collettiva che è in qualche modo infasti­ dita dalla sua presenza e costretta a confrontarsi con essa. In Green Fish e in Oasis quest’entità è la famiglia. All’inizio dei due film, Mak-dong e Jong-du ritornano a casa dopo una lunga assenza, dovuta, per il primo, al servizio di leva e, per il secondo, all’internamento in un carcere. En-

* Kim Young-jin, Lee Chang-dong, Kofic, Seul 2007, p. 32.

184

Il cinema dell 'Estremo Oriente

trombi, all’amvo dei mezzi pubblici che li riportano in città, non trova­ no nessuno ad accoglierli; entrambi dovranno dunque raggiungere da soli la casa di famiglia. In Green Fish, Mak-dong scopre che i membri della sua famiglia non vivono più insieme, che la madre è costretta a fa­ re le pulizie in case altrui, che la sorella lavora in un locale equivoco e che uno dei fratelli è alcolizzato. Il suo sogno è che tutti ritornino a vi­ vere insieme sotto lo stesso tetto, gestendo un ristorante. Ma nessuno è disposto a dargli retta, salvo un altro fratello, disabile, l’unico a mo­ strargli autentico affetto. Più grave è la realtà di Jong-du in Oasis: a causa dei suoi precedenti penali, delle sue difficoltà psichiche e mentali e della sua incapacità di adattamento sociale, il giovane è riaccolto in famiglia con evidente fa­ stidio, come la stessa cognata non manca apertamente di fargli notare: «Senza di te tra i piedi, siamo stati molto bene. Non solo io, ma anche tua madre e tuo fratello la pensano come me». Come dice lo stesso Lee: Jong-du è un uomo «inutile alla società, non serve a niente e mette le persone a disagio [...]. Tutto il mondo lo detesta e vuole evitarlo»2. Anche Peppermint Candy si apre con una scena di sgradita intrusio­ ne, quella del protagonista, Young-ho, che irrompe nel picnic organiz­ zato dai suoi vecchi compagni di lavoro, e rovina loro la festa prima coi suoi sguaiati atteggiamenti, e poi col tragico suicidio. Infine, Secret Sunshine inizia con la protagonista Sin-ae che, insie­ me al figlio Jun, arriva per la prima volta in vita sua nella cittadina di Milyang, luogo natale del marito defunto, decisa a stabilirvisi. Anche Sin-ae, dunque, è un’intrusa all’intemo di una comunità - che, anche in conseguenza ai suoi atteggiamenti, l’accoglie con una certa diffidenza, come testimoniano il commento di una negoziante che parlando di lei dice che «sembra gentile ma non dev’essere normale», il fastidio degli altri genitori alle forse eccessive reazioni della stessa Sin-ae al discorso che il figlio tiene a scuola davanti ai suoi compagni e alle loro madri, e, ovviamente, il rapimento e l’uccisione del figlio Jun da parte di un in­ sospettabile membro nonché padre di famiglia di quella stessa comu­ nità. - M. Ciment, L. Codhlli, H. NiOGRfc l . Emrrticn. Lee Chang-dong. Le counmlpassionnel de / 'amourfou^ «Positivi, 513, novembre 2003, p. 93.

Ritratto d'autotv - Senza famiglia: il cinema di Lee Chang-dong

185

Il conflitto fra il singolo e il gruppo si esplicita cosi, sin dalle battute iniziali dei diversi film, come uno dei temi portanti dell’opera del regi­ sta, che questi poi sviluppa attraverso la rappresentazione di un rappor­ to di forza in cui l’individuo è costretto a soccombere (Mak-dong è uc­ ciso, Jong-du finisce in carcere, Young-ho si suicida e Sin-ae è internata in una casa di cura). Ad accomunare ulteriormente i protagonisti dei film di Lee Changdong c’è poi il fatto che, sin dall’awiarsi dell’intreccio, grava su loro un drammatico passato che è anche causa della precarietà del loro equi­ librio psichico: Mak-dong in Green Fish è, come abbiamo visto, co­ stretto a confrontarsi con lo sgretolarsi della sua famiglia avvenuto nel periodo della sua assenza; Young-ho in Peppermint Candy è ossessiona­ to dai suoi fallimenti morali (il suo passato da torturatore, l’uccisione di una ragazza), sentimentali (il fallimento del suo matrimonio, l’allonta­ namento dal suo primo e unico amore) ed economici (la bancarotta del­ la sua società); Jong-du in Oasis è appena uscito dal carcere dopo aver scontato una condanna per un omicidio colposo che in realtà non ha commesso; Sin-ae in Secret Sunshine è costretta a confrontarsi con l’e­ laborazione del lutto per la morte del marito (come poi dovrà fare per quella del figlio). Emerge così la volontà da parte del regista di costruire le proprie sto­ rie intorno a personaggi costretti a confrontarsi con un passato e un pre­ sente assai drammatici, che li costringe a cercare di definire, a partire da una grave situazione di disagio interiore, il loro nuovo spazio in rap­ porto a una comunità di individui che tende a escluderli.

8.2

Senza famiglia

È proprio questa drammatica situazione a spingere i protagonisti dei film di Lee Chang-dong a cercare rifugio in istituzioni, congreghe o gruppi che in qualche modo li possano accogliere, lenire le loro ferite, offrir loro una sorta di consolazione. Mak-dong in Green Fish entra a far parte di una banda criminale, di­ venta un solerte esecutore degli ordini ricevuti, tanto da guadagnarsi

186

il cinema dell'Estremo Oriente

una particolare considerazione da parte del suo capobanda Bae Tae-gon. È evidente che Bae nei confronti di Mak-dong rappresenti un ruolo pa­ terno, di sostituzione di un padre reale invece assente, cosi come il com­ portamento nei suoi confronti dello stesso Mak-dong è quello di un fi­ glio fedele e ubbidiente, tanto che, quando avrebbe l'occasione di scap­ pare con la sua donna, rinuncia a farlo, nonostante ne sia innamorato, Mak-dong vive cosi nell’illusione di aver ricreato attraverso la sua ban­ da e il rapporto con Bae quell’unità familiare invece ormai perduta. Ma solo di un’illusione di tratta, perché sarà proprio Bae, nell’epilogo del film, a uccidere Mak-dong, facendone cosi il capro espiatorio necessa­ rio a salvaguardare i propri rapporti con le altre bande criminali. Allo stesso modo di Mak-dong, anche lo Young-ho di Peppermint Candy, dopo la tragica esperienza della repressione di Kwanju, quando soldato uccise casualmente una ragazza innocente, cerca riparo nella polizia, un’istituzione che, negli anni della dittatura sudcoreana, repri­ meva con violenza ogni forma di dissenso all’interno del paese. Cosi per Young-ho entrare nella polizia significa identificarsi con un ambito istituzionale che in qualche modo può legittimare il suo omicidio, e consolare il suo dolore. Ma come per l’ingresso nella banda criminale di Mak-dong, anche quello di Young-ho nella polizia finirà, contraria­ mente alle speranze, col determinare la sua caduta agli inferi. Spinto e addestrato da cinici colleghi. Young-ho diventerà un torturatore, spor­ candosi letteralmente le mani di ogni nefandezza e traendone un senso di colpa che determinerà un odio radicato verso di sé - tanto da arrivare al suicidio - che è tutt’uno con quello che lo stesso Lee Chang-dong af­ ferma di provare nei confronti di un paese «che non ha mai punito gli orrori della dittatura militare»'. 11 destino di Mak-dong e Young-ho non è dissimile da quello di Sinae in Secret Sunshine. Duramente provata prima dalla morte del marito, c poi da quella del figlio, Sin-ae cerca consolazione in una setta di cri­ stiani protestanti, una realtà assai diffusa nella Corca del Sud. Inizial­ mente sembra trovare sollievo in questa congrega, che la accoglie con solerzia, ma quando, per portare fino in fondo gli insegnamenti ricevu1 Lee Chang-dong in F. Aude, Peppermint Candy De I eau rouge sows un pent rotige, «Positif». 493, marzo 2002, p. 33.

Ritratto d‘autore - Senza famiglia: il cinema di Lee Chang-dong

187

ti, decide di andare a trovare in carcere l’assassino del figlio per portar­ gli il suo perdono, questi le dirà con calma e dolcezza di avere a sua vol­ ta abbracciato la fede, e di avete già ricevuto il perdono divino. Sin-ae non regge il colpo: «Se è già stato assolto, come posso io perdonarlo di nuovo? Come ha osato Dio assolverlo prima che lo perdonassi io stes­ sa?» urla contro gli altri membri della comunità, entrando in una spirale depressiva in cui la fede da strumento di salvezza si è trasformata in uno strumento di tortura, che la porterà a tentare il suicidio col conseguente ricovero in una casa di cura. Non c’è dunque salvezza per Mak-dong, Young-ho e Sin-ae4, e proprio quelle realtà che avrebbero dovuto portar loro sollievo e consolazione saranno nei fatti la causa ultima della loro distruzione. A questo percorso, poi, non è del tutto estraneo neanche il Jong-du di Oasis, che per espiare la colpa, in realtà non sua ma del fratello, rela­ tiva all’uccisione di un uomo in un incidente automobilistico, si reca ap­ pena uscito dal carcere a trovare la figlia dell'uomo per chiedete perdo­ no a lei e ai suoi familiari. E se la donna finirà per accoglierlo fra le sue braccia, i parenti, invece, lo denunceranno alla polizia, provocandone l’arresto finale.

8.3

II sogno realizzato

Eppure, anche se non sembra esserci salvezza per i personaggi di Lee Chang-dong, tutti in qualche modo travolti da quelle entità in cui aveva­ no cercato rifugio, paradossalmente i loro desideri (o almeno alcuni di essi) trovano nei finali dei film una loro realizzazione. Green Fish si chiude con un epilogo che mostra come, grazie al denaro che Mak-dong aveva avuto in cambio dell’omicidio perpetuato, la sua famiglia si è * Anche se, va detto. Secrete Sttnhine, al contrario degli altri due film, non chiude la propria storia con la morte della protagonista, bensì, come meglio vedremo più avanti, la

lascia in vita in un finale, tuttavia, dal carattere aperto, cui, come lo stesso Leo Changdong sostiene, ogni spettatore deve dare la «propria interpretazione» (M. Ciment, H. Nio gret.

Entretien aver Lee Chang-dong. Trahir t attente du spedatene, «Fositif», 560, otto­

bre 2007. p. 21 ).

188

Il cinema dell 'Estremo Oriente

davvero riunita sotto uno stesso tetto, gestendo un ristorante, così come sognava il protagonista. In modo simile, allo Young-ho di Peppermint Candy è data la possibilità di ripercorrere indietro nel tempo la sua vita, e di ritornare così «all’origine di una purezza perduta: Sun-im, la donna amata»3, in un viaggio espiatorio verso un paradiso lontano dove tutto potrebbe ricominciare e svolgersi diversamente. Oasis, a sua volta, si chiude con la lettera che Jong-du invia alla ragazza disabile dal carcere, mentre le immagini ci mostrano la stessa ragazza che sta facendo le pu­ lizie di casa, cosa che mai la si era vista fare, in un comportamento che nella sua normalità contraddice il modo in cui la giovane viveva prima la sua vita di reclusione, fatta di inazione e rifugio nelle proprie fanta­ sticherie passive: e i suoi gesti paiono coronare il desiderio di Jong-du, che più volte l’aveva portata fuori, per strada, al ristorante, in metropo­ litana, per invitarla a condurre, a discapito della sua disabilità, una vita normale. Più sfumato, infine, l’epilogo di Secret Sunshine', all’inizio del film Sin-ae consiglia alla proprietaria di una merceria di ridipingere il proprio locale per attirare un maggior numero di clienti. La donna rea­ gisce con una certa perplessità, credendo Sin-ae una restauratrice alla ricerca di lavoro. Alla fine del film, quando Sin-ae sta rientrando in ca­ sa, appena uscita dall’ospedale psichiatrico, la donna della merceria la ferma e le dice di aver seguito il suo consiglio: ha ridipinto il suo nego­ zio, e la clientela è aumentata. Si coglie così anche il senso della scena precedente, che è la volontà della protagonista di entrare a far parte di una nuova comunità, di diventarne un elemento interagente, in grado di incidere anch’essa sulla sua realtà, contribuendone al miglioramento. Le parole della merciaia sono cosi, forse, l’indice dell’avviarsi di un processo di salvezza, certamente la realizzazione di un piccolo deside­ rio della protagonista, che può ora incominciare a sentirsi parte attiva di una comunità probabilmente adesso in grado di accoglierla.

s V. Malausa, Douceur de la chute, «Cahiers du cinema», 565, febbraio 2002, p. 80.

Ritratto d'autore - Senza famiglia: il cinema di Lee Chang-dong

8.4

189

La colpa commessa e l’amore come tragedia

Quel che è certo è che nei rapporti fra i protagonisti dei film di Lee Chang-dong e la comunità sociale di cui questi sono parte, il ruolo di outcast esistenziali che essi assumono è anche determinato dalle loro colpe. Il personaggio più emblematico di questo atteggiamento è certa­ mente lo Young-ho di Peppermint Candy, col suo passato di assassino (per caso) e di torturatore (per scelta). Come scrive Fran^oise Audé, Young-ho, «ad ogni tappa della sua esistenza, sarà riacciuffato da un vecchio dolore fondante il suo odio per se stesso. Un odio radicato nel­ la sua colpevolezza [...]. Egli è colpevole di aver servito l’indegnità, quella di una vita schifosa, quella della Storia asservita»6. Ma le sue colpe sono condivise anche dal gangster Mak-dong di Green Fish, che arriva a uccidere per obbedite al padre-padrone, così come colpevole è anche il Jong-du di Oasis che coi suoi comportamenti mette nei guai i fratelli, costretti più volte ad andarlo a riprendere al dipartimento di po­ lizia, per non dire dello stupro esercitato sulla ragazza disabile all’inizio del loro rapporto. Sembrerebbe più difficile individuare delle colpe nel­ l’atteggiamento di quella vittima designata che è la Sin-ae di Secret Sunshine, eppure anche lei si macchia di qualcosa, ad esempio quando usa Jong-chan, il garagista di lei innamorato, come una sorta di cavalier servente, ma ignorandone con crudeltà i sentimenti - e in questo modo, come gli altri protagonisti dei film di Lee, condannandosi: Sin-ae «guarda sempre lontano, ha gli occhi fìssi sul cielo, cerca la ragione, il senso, la benedizione o la speranza altrove. È forse, al contrario, sulla

terra che dovrebbe cercare, ma lei non la guarda mai e non stabilisce al­ cuna relazione con le persone che sono al suo fianco [...]. Lironia è che sarebbe sufficiente che si voltasse per vedere che c’è qualcuno con lei, ma lei non fa che guardare davanti a se stessa e cosi non lo vede. Questo rapporto fra i due personaggi - conclude lo stesso Lee Chang-dong era per me fondamentale»7.

* Aude, Peppermint Candy, cil., pp. 33-34.

7 Cimenl Niogret, Entrefien avec Lee Chang-dong, cil., p. 21.

190

Il cinema dell'Estremo Oriente

Colpevoli e innocenti, carnefici e vittime, gli eroi di Lee Changdong percorrono il loro calvario all'interno di strutture narrative che rievocano quello che è stato il genere per eccellenza del cinema sud­ coreano: il melodramma. Tutti e quattro i film di Lee sono costruiti su amori impossibili, ma per quanto «egli utilizzi le convenzioni del me­ lodramma, non permette al suo spettatore di vivere lo spettacolo di quelle convenzioni, ciò che rende l’esperienza più dolorosa»'. In Green Fish, Mak-dong ama ricambiato Mi-ae, ma frena e reprime i propri sentimenti perché lei è la donna di Bae, il capo banda, colui a cui Mak-dong ha deciso di dare tutto se stesso perché vi vede quel pa­ dre che nella realtà ha perso. Tutto il viaggio a ritroso nel tempo di Young-ho in Peppermint Candy é un viaggio alla ricerca di quel primo e unico amore, simbolo di una purezza originaria che il protagonista non ha saputo mantenere perché macchiatosi di una colpa che egli vive come inconciliabile a quella stessa purezza. La stessa Sin-ae è precipi­ tata in un universo melodrammatico, colpita ripetutamente da un de­ stino che non le lascia tregua e la rende incapace - come abbiamo ap­ pena visto - di scorgere al suo fianco l’uomo che forse potrebbe aiu­ tarla a salvarsi. Gli unici fra i personaggi di Lee che sanno vivere ap­ pieno il loro amore sono Jong-du e Gong-ju, i due protagonisti di Oa­ sis: ma sarà qui la società, nei panni delle rispettive famiglie, a fare del loro amore un amore impossibile.

8.5

Senza fine

Sconfitti da se stessi e dal mondo che li circonda, i protagonisti dei film di Lee Chang-dong sembrano condannati da un destino che non dà loro tregua - e che sembra evocato dall’immagine del treno, ricorrente nei suoi film come nei suoi romanzi9 eppure uno spiraglio sembra aprir-

* Kim YOUNG-un. Lee Chang-dong, cit., p. 9.

9 Sia Green Fish, sia Peppermint Candy, ad esempio, attribuiscono al treno un ruolo essenziale già a partire dalla loro scena iniziale; ruolo che negli esordi dei film successivi è ripreso da un altro mezzo di trasporto: l'autobus per Oasis e l'automobile per Secret Sun­

Ritratto d'autore - Senza famiglia: il cinema di Lee Chang-dong

191

si, se mettiamo in successione i suoi finali, spesso aperti e incerti. Non solo perché - come abbiamo visto - in questi finali un loro desiderio in qualche modo si realizza, ma perché essi scandiscono un processo che sembra farsi progressivamente meno tragico. Se Green Fish, al termine dell’intreccio, vede morire il suo protagonista contro il parabrezza del­ l'auto dell’uomo che l’ha ucciso, già Peppermint Candy allontana il sui­ cidio del suo «eroe» collocandolo all’inizio di un film che invece ter­ mina coi compiersi di un viaggio in cui questi ha fatto ritorno alla sua purezza iniziale: come nota il critico coreano Kim Young-jin, «è la strut­ tura temporale rovesciata dell’intreccio che gli dà salvezza»10. Dal can­ to suo, Oasis termina si con l’arresto di Jong-du, ma la lettera conclusi­ va che scrive alla ragazza lascia loro almeno la possibilità di un qualche futuro, per quanto diffìcile esso possa essere. Ancora meno amaro l’epi­ logo di Secret Sunshine, dove la Sin-ae appena uscita dall’ospedale psi­ chiatrico, seduta nel cortile di casa, si risistema i capelli davanti a uno specchio che Jong-chan tiene fra le mani, mentre la macchina da presa si sposta verso terra, inquadrando vicino a una zona d’ombra, quella il­ luminata da (segreti?) raggi di sole.

shine. A sua volta il romanzo Nokcheon inizia con le parole: «Prossima fermata Nokcheon» stazione di Nokcheon».

Kjm Young-jin» Lee Chang-dong, cit.

Parte terza

Giappone

Capitolo 9

Il cinema giapponese dagli anni Novanta a oggi

9.1

II decennio perduto

La spinta innovatrice della Nouvelle Vague giapponese degli anni Ses­ santa si arena nel corso del decennio successivo di fronte alla crisi dell’industria cinematografica e all'indifferenza di un pubblico attratto da altre forme d’intrattenimento. Gli anni Settanta e Ottanta vedono l’emer­ gere di qualche autore anche di notevole interesse (Yanagimachi Mitsuo, Semai Shinji, Oguri Kòhei, Hasegawa Kazuhiko, Itami Jùzò, Yamamoto Masashi'), privo però, a seconda dei casi, di quella radicalità stilistica, originalità tematica, continuità espressiva o forza carismatica in grado davvero di imporsi e, in qualche modo, di «fare movimento». I Settanta e gli Ottanta sono decenni di prosperità e benessere che fanno del Giappone una delle più grandi potenze economiche mondiali. Ma il sogno si interrompe bruscamente all’inizio del decennio successi­ vo con il cosiddetto «scoppio della bolla» e l’avviarsi di una crisi che dà vita al «decennio perduto», nel corso del quale il tasso di crescita del paese si riduce considerevolmente, le aziende ridimensionano l’attività, i salari e i consumi diminuiscono, e la disoccupazione, al contrario, cre­ sce. Il «decennio perduto» è stato anche segnato da un generale senso di smarrimento esistenziale, logica conseguenza della crisi di un sistema atto quasi esclusivamente alla produzione del profitto che, improvvisa­ mente, scopre di non essere più in grado di produrre alcun profitto. Da 1

Un caso a parte, per il suo carattere sperimentale e underground, rappresenta ropera

di Terayama Shùji.

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fi cinema dell 'Estremo Oriente

qui la ricerca di nuovi dèi c feticci, e il diffondersi del fenomeno, già fortemente radicato nel paese, delle sette religiose, che porterà, il 20 marzo 1995, all’attacco col gas sarin alla metropolitana di Tokyo da parte degli adepti della setta Aum Shinrikyò, provocando dodici morti e più di mille feriti. Sarà proprio in questi anni difficili che il cinema giapponese ritroverà, grazie a una nuova generazione di cineasti, quella forza espressiva che aveva in parte smarrito.

9.2

Un’industria in crescita

Prima di prendere in esame i principali cineasti, generi e tendenze del Nuovo cinema giapponese degli anni Novanta e Duemila, è necessario notare come questa crescita qualitativa sia stata accompagnata anche da una parallela crescita dell'industria e del mercato, come si può evincere dal confronto fra i trienni 1991 1993 * e 2006 2008 * per quel che riguarda il numero di film giapponesi distribuiti, degli spettatori, degli schermi, l’incasso generale e quello del prodotto locale (Tab. 9.1)2.

Tab. 9.1 Anno

1991 1992 1993 2006 2007 2008

Film Biglietti venduti giapponesi distribuiti (in migliaia) 230 240 238 417 407 418

138.330 125.600 130.720 164.277 163.193 160,491

Schermi esistenti

1804 1744 1734 3062 3221 3359

Incasso generale (in milioni di yen) 163.378 152.000 163.700 202.553 198.443 194.836

Percentuale d'incasso dei film giapponesi 41.9 45.1 35,8 53,2 47,7 59,5

2 Japanese Film 2009. Unijapan. Tokyo 2009. pp. 162-64. Nel 2009 i Him giapponesi

sono siati 448, i biglietti venduti 169.297 migliaia, l'incasso generale 206.035 milioni di yen c la percentuale di incasso del prodotto locale pan al 56,9% (Fonte: Motion Picture

Producers Association of Japan).

Il cinema giapponese dagli anni Novanta a oggi

197

Come si può notare, ognuno dei parametri presi in esame registra una sensibile crescita. 11 dato più sorprendente è quello relativo alla percen­ tuale d’incasso dei film giapponesi rispetto a quelli esteri, dato che evi­ denzia la crescita dell’attenzione per il prodotto interno, col passaggio da una media pari al 40,93% a una del 53,46%, toccando nel 2008 la cifra record - a partire dal lontano 1969 - del 59,5%. Dato, quest’ultimo, che fa probabilmente del Giappone di quell’anno, ad esclusione degli Stati Uniti e di casi particolari come quello indiano e cinese, il paese con la ci­ nematografia nazionale dalla percentuale d’incasso più alta al mondo.

9.3

Sento Takenori e la produzione indipendente

Come scrive Hasumi Shigehiko, gli anni Settanta e Ottanta sono quel diffìcile periodo che si colloca fra «il collasso dello studio system che ha sostenuto il cinema giapponese per settant’anni e l’emergere di una nuova generazione di giovani produttori che supporta registi indipen­ denti»3. Nel generale affacciarsi sul mercato di nuovi soggetti produttivi, che vanno dai canali televisivi ai distributori di home video sino al mondo deU'editoria, gli anni Novanta vedono diffondersi diversi tentativi di or­ ganizzare e promuovere il cinema indipendente: la parte del leone, in quest’ambito, spetta a Sento Takenori che si è fatto promotore di una politica di bassi costi alla Corman, mirando a realizzare un alto numero di film e battendo con insistenza la strada della qualità e dei festival in­ ternazionali. Sento rivela subito talento e versatilità, producendo film di registi anche molto diversi fra loro come Ishii Ségo e Kawase Naomi. Nel 1996 incoraggia il giovane Nakata Hideo, producendogli Ghost Ac­ tress (Joyùrei), mentre si accorda con la Tòhò, in un esempio di riuscita cooperazione fra major e indipendenti, per proporre in un doppio pro­ gramma - due film al prezzo di uno, pratica abbastanza diffusa in Giap­ pone - Ring (Ringu, Nakata Hideo, 1998) e The Spirai (Rasen, Ida Jòji, 1998), lanciando cosi in buona parte dell’Asia e poi dell’occidente il 1

Hasumi Shiolhiko, Missing Link, «Film Comment», 38,1. gennaio-lebbra» 2002, p. 41.

198

II cinema dell Estremo Oriente

fenomeno del J-Horror. D successo non mette però in discussione l’at­ tenzione del giovane produttore al cinema più propriamente d’autore, come testimonia il fatto che, nell’anno di grazia 2001, tre dei dieci film giapponesi selezionati a Cannes - un record! - sono prodotti dallo stesso Sentò: Desert Moon {Tsuki no sabaku, Aoyama Shinji), H Story (id., Suwa Nobuhiro) e Unloved (id., Manda Kunitoshi). II grande successo di mercato della serie J-Horror e di Ring, in parti­ colare, non è stato l'unico del cinema indipendente giapponese: ad esso andrebbero almeno aggiunti, nell’ambito dell’animazione, quelli di Miyazaki Hayao e dello Studio Ghibli (con la loro coraggiosa politica di film ad alto investimento non tratti da soggetti preesistenti nell’ambito dei manga e delle serie televisive, come accadeva quasi sempre per i film delle major), e, in quello dei film dal vero, di blockbuster inattesi come Love Letter (id., Iwai Shunji, 1995) e, soprattutto. Shall we Dan­ ce? (Shall we dansu?, Suo Masayuki, 1996), che è stalo distribuito negli Stati Uniti, battendo ogni precedente record d'incasso per un film giap­ ponese su territorio americano.

9.4

Un Festival chiamato Pia

Insieme al lavoro di alcuni produttori e cineasti e al successo dei loro film, sia in senso commerciale, sia di prestigio culturale (come accade nel 1997 quando due film giapponesi a forte produzione indipendente, L'anguilla, Unagi, di Imamura Shòhei eHana-bi, id., di Kitano Takeshi, vincono rispettivamente la Palma e il Leone d’oro ai festival di Cannes e Venezia), altri fattori che hanno contribuito a determinare la nascita del Nuovo cinema giapponese sono il mondo dei festival, quello degli Originai Video, di cui diremo nel prossimo paragrafo, e quello della produzione erotica, cui accenneremo più avanti. Lasciando da parte il piuttosto imbalsamato Tokyo Film Festival, voluto e gestito dalle major, nella capitale giapponese si contano almeno due altri festival di riguar­ do. Il primo è il Pia Film Festival (PFF) che dal 1977, anno della sua prima edizione, decise di mettere in concorso film a 8 e lónim. Quale spazio di confronto e sponsorizzazione di giovani cineasti, il PFF ha vi­

// cinema giapponese dagli anni Novanta a oggi

199

sto passare fra le maglie del suo concorso molti dei registi che hanno fatto e stanno facendo il Nuovo cinema giapponese, a partire da Ishii Sógo col suo cortometraggio in 8mm del 1978 Charge! Hooligans of Hakata (Totsugeki! Hakata gurentai). Come fa notare Òkubo Ken4, al­ l'edizione del 1984 partecipano al PFF Iwai Shunji (che nel 1995 rea­ lizzerà il già citato Love Letter), Shiota Akihiko (autore poi, nel 1999, di Moonlight whispers, Gekkò no sasayaki, uno sconvolgente film sul sa­ domasochismo adolescenziale) e Manda Kunitoshi (che sarà invitato a Cannes nel 2001 con Unloved). Fra le maglie del PFF sono passati an­ che Tsukamoto Shin’ya, Kurosawa Kiyoshi e Aoyama Shinji, così co­ me, più recentemente, Sono Sion, Hashiguchi Ryósuke, Kumakiri Ka­ zuyoshi, Ogigami Naoko e Tanada Yuki, fra gli autori giovani più segui­ ti e corteggiati dai festival intemazionali. Importante, soprattutto come vetrina, è poi il lavoro svolto da FilmEx, che dal 2000 cerca di opporsi all’ufficialità del Tokyo Film Festival pre­ sentando un ristretto ma ben selezionato gruppo di film di matrice indi­ pendente provenienti perlopiù dai paesi asiatici. Fra i registi giapponesi presentati a partire dal 2000 ci sono Kurosawa Kiyoshi, Shinozaki Makoto, Yukisada Isao, Shiota Akihiko, Kobayashi Masahiro e Hiroki Ryiiichi. A questo elenco, infine, va aggiunto, uscendo dalla capitale, lo Yamagata Film Festival, che conta fra i suoi fondatori il prestigioso ci­ neasta Ógawa Shinsuke, e che ha giocato un ruolo fondamentale nel­ l’ambito dello sviluppo del cinema documentario, contribuendo alla promozione di giovani talenti come Kawase Naomi e Koreeda Hirokazu.

9.5

Per un pugno di video

Un altro ambito fondamentale per la nascita dei Nuovo cinema giappo­ nese è il mondo del V-Cinema (o Originai Video, OV), ovvero dei film girati in video e diretti a una visione domestica anziché alle sale: è qui • Ókuho Ken, Il nuovo cinema e le sue radici, in G. Spagnoletti, D. Tomasi (a cura di, con la collaborazione di O. Móller), li cinema giapponese oggi. Traditione e modernità,

Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, Lindau, Torino 2001. pp. 27-28.

200

I! cinema dell 'Estremo Oriente

che é sopravvissuto l'autentico spirito del cinema di genere giapponese dopo il crollo dello studio system. Il fenomeno degli OV nasce nel 1989. Nel 1990 uscirono quasi sessanta film in tale formato, e l’anno successivo furono il doppio: piccole società di produzione e distribuzio­ ne spuntarono come funghi. Guardati con un certo disprezzo dal mondo del cinema ufficiale, gli OV avevano bisogno di nuovo personale, che fu reclutato tra «assistenti alla regia, free-lance, operatori, registi televi­ sivi o pornografici e un assortimento di indipendenti e outsider che gra­ vitava ai margini dell’industria cinematografica»5. Prodotti con budget ridotto, realizzati in non più di tre settimane, legati a generi come i film yakuza, gli horror e il cinema erotico, gli OV toccarono il loro apice nel 2001, quando arrivarono a un totale di 361 titoli contro i 281 film in pellicola. Sebbene negli anni successivi abbia subito un forte ridimen­ sionamento, per tutti gli anni Novanta il V-Cinema è stata una vera e propria palestra per diversi giovani registi: da Miike Takashi a Nakata Hideo, da Kurosawa Kiyoshi ad Aoyama Shinji, da Harada Masato a Mochizuki Rokurò, da Ishii Takashi a Shiota Akihiko. Pur con alcune regole - rispetto del budget e dei tempi di lavorazione, aderenza a un determinato orizzonte di genere -, i registi degli OV godevano di una notevole libertà espressiva, sia sul piano delle scelte narrative, sia su quella dell’elaborazione audiovisiva. Il cinema giapponese confermava cosi una sua vocazione che arriva al V-Cinema degli anni Novanta par­ tendo dai Program pictures degli anni Sessanta (film che uscivano in coppia nelle sale e che potevano essere visti al prezzo di un unico bi­ glietto) attraverso i Roman porno e i Pinku eiga degli anni Settanta e Ottanta, lungo una serie di esperienze quasi uniche al mondo che hanno funzionato come una sorta di laboratorio creativo per registi di diverse generazioni, contribuendo a rendere glande la storia (più o meno segre­ ta) del cinema giapponese. L'insieme di fattori sin qui individuati, unito alla nascita di efficienti scuole e dipartimenti universitari di cinema, e alla sensibilità di una nuo­ va critica raccoltasi intorno il lavoro di Hasumi Shigehiko, hanno per­

5 T. Mr.s, Genemuone Vìdeo. Nei mondo del V-Cinema, in D. TOM A$i (a cura di. con la

collaborazione di S. Boni e nco(N)ciga). Anime perdute. Il cinema di Miike Takashi, M li­ sce nazionale del Cinema-li Castoro. Torino-Milano 2006, pp. 49-50.

Il cinema giapponese dagli anni Novanta a oggi

201

messo al cinema giapponese di tornare a riappropriarsi di quel ruolo di grande cinematografia asiatica, finalmente in grado di primeggiare o al * meno competere, dopo i grandi fasti del passato, con le altre cinemato­ grafie dell’Estremo Oriente affermatesi internazionalmente nel corso degli anni Ottanta e Novanta. Il cinema giapponese toma cosi ad essere presente nei più grandi festival intemazionali e vede nascere una nuova generazione di cineasti come non si vedeva dai tempi della Nouveile Va­ gue degli anni Sessanta. Si tratta di una generazione che rispetto a quel­ la di Óshima e Imamura sembra più attenta ai rapporti col pubblico e al suo immaginario, senza per questo venir meno agli imperativi della ri­ cerca espressiva e della ricchezza dei contenuti, che rende meno netti i confini tra la poetica d’autore c i generi cinematografici, e che, come da più parti è stato notato, «cerca l’attenzione dell’occidente con più bra­ ma di quanto non fosse accaduto in passato»6.

9.6

Ishii, Tsukamoto e Kurosawa: precursori e protagonisti

9.6.1 Ishii Sógo: il cavaliere elettrico

Spetta a Ishii Sògo il compito di inaugurare la New Wave giapponese degli anni Ottanta e Novanta quando, poco più che ventenne, realizza alcuni film in 8mm, fra cui Panic High School (Kòkòdaipanikku, 1977) che, acquistato dalla Nikkatsu, è rieditato l’anno successivo in versione ampliata a 35 mm. Per quanto disconosciuto dallo stesso Ishii, Panie High School può essere considerato il Him che apre una nuova stagione nella storia del cinema giapponese. Innanzitutto perché è l’esordio di un regista che arriva a un grande studio non dopo il rituale rodaggio di as­ sistentato, ma come un autodidatta formatosi negli 8mm, inaugurando così una pratica che sarà comune a molti altri registi degli anni succes­ sivi. Inoltre Ishii, stabilendo di nuovo un precedente, non limiterà la sua attività al tradizionale lungometraggio di finzione in 35 mm, ma realiz­ zerà anche documentari, video musicali e film dal carattere sperimenta° S. CHUCK, High anil Low Japanese Cinema Now A User's Guide. «Film Comment», 38,1. gennaio-febbraio 2002, p. 36.

202

Il cinema dell’Estremo Oriente

le. Infine, il suo cinema, spesso legato alla rappresentazione di un mon­ do in «conflitto» con la società dominante, porta in sé il marchio di ciò che spesso tematicamente si intende quando si parla di Nuovo cinema, ovvero di un cinema che per definizione è «contro», in quanto «altro» rispetto ai modelli dominanti. Dopo Panic High School, che racconta la storia della rivolta di alcuni studenti in seguito al suicidio di un compagno incapace di reggere la pressione per gli esami di ammissione all’università, Ishii realizza altri due film legati al mondo dell’alterità giovanile: Crazy Thunder Road (Kuruizaki sonda ródo, 1980), sul fenomeno delle bande di motociclisti, che anch’esso verrà acquistato da una major, la Tòei, e distribuito nelle sale in una copia a 35mm, e Burst City (Bakurestsu toshi, 1982), ancora una storia di giovani motociclisti e volti noti della scena punk giappone­ se7, i cui apocalittici scenari di fantascienza danno vita a una dimensione cyberpunk che avrà una forte influenza sull’esordio di Tsukamoto, insie­ me all’uso dei bianco e nero e a uno stile lontanissimo da qualsivoglia «grammatica tradizionale», affatto personale nel suo dinamismo spinto all'estremo. In seguito Ishii sposta il suo discorso sulla famiglia con Crazy Family (Gyakufunsha kazoku, 1984), dove un ordinario nucleo fa­ miliare finisce col distruggere la propria nuova abitazione per difendersi da un’invasione di termiti. L'insegnamento della metafora è chiaro: le in­ sostenibili pressioni della società possono condurre chiunque nei baratri della follia. Accolto favorevolmente nei festival di mezzo mondo, il film non ottiene in patria l’attenzione che merita, e per quasi dieci anni Ishii si allontana dalla scena cinematografica giapponese, limitandosi alla rea­ lizzazione di cortometraggi e video musicali. È grazie a Sento, che offre al regista l’opportunità di girare per la televisione Tokyo Blood (id.. 1993), che Ishii può tornare al lungometraggio con Angel Dust (Enjeru dosato, 1994), un thriller su un assassino seriale che «sotto molti aspetti anticipa i più importanti film di Kurosawa Kiyoshi, che svilupperà simi­ li riflessioni sulle relazioni dell’uomo posnnodemo con l’ambiente che lo circonda a partire da modelli del cinema di genere»". La seconda metà

’ Vicino a quello di Ishii è in quegli anni il lavoro di Nagasaki Shun'ichi. ‘ T. Mes» J. Sharp, The Midnight Eye Guide to New Japanese Film, Stone Bridge Rress, Berkeley 2005, p. 72.

li cinema giapponese dagli anni Novanta a oggi

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degii anni Novanta vede Ishii firmare due film molto lontani dai suoi violenti esordi punk, August in the Water (Mizu no naka no hachigatsu, 1995) c Labyrinth of Dreams (Yume no gjnga, 1997). Qui il cinema di Ishii si distende e si fa contemplativo, introducendo una dimensione spi­ rituale e metafìsica che vede l’uomo come parte di un più grande schema cosmico. Le suggestioni New Age sono evidenti, il regista «esplora i profondi ma conturbanti poteri che gli esseri umani possiedono. È come se la frenetica energia di Ishii, che un tempo si manifestava nello stile della sua cinepresa, si fosse ora riversata interamente nella mente dei suoi personaggi»9. Ma non si deve pensare a un ripudio del passato, che ritornerà con forza, magari mediato da questi nuovi orizzonti, nei due film ancora una volta realizzati con Sento: il jidaigeki Gojoe (Gojoe reisenki: Gojoe, 2000), che rilegge in chiave postmoderna rincontro fra due grande eroi della tradizione mitologica giapponese, e Electric Dragon 80.000 V (id., 2001), dove due supereroi ad alto voltaggio si scontrano cercando di eliminarsi reciprocamente a colpi di chitarra elettrica. Un ri­ torno alle origini, in particolare al chase-movie Shuffle (id., 1981 ), è rap­ presentato anche da Dead End Run (id., 2003), un film di inseguimenti a tre episodi girato in digitale e che ricorre a un nuovo sistema audio111.

9.6.2 Kurosawa Kiyoshi: l'orrore dell'incomunicabilità e dell 'alienazione urbana

Come Ishii, anche Kurosawa Kiyoshi muove i suoi primi passi realiz­ zando film in 8mm negli anni dell’università, e arriva a coronare questi sforzi con un premio del PiaFF per lettiga College (Shigaramì gakuen, 1980). Il premio gli consente di entrare nel mondo de) cinema e lavora­ re come assistente sul set di registi importanti come Hasegawa Ka­ zuhiko e Sòmai Shinji. Nel 1983 la Nikkatsu lo arruola nel mondo del Roman Porno per cui gira Kandagawa Wars (Kandagawa inran senso, 1983) e Joshi dai sei: hazukashii semina™ (t.l. Ragazze universitarie: seminario vergognoso, 1984), che accentua a tal punto le soluzioni spe-

* A. Gerow, This Bus Ride fc Murder, «The Daily Yonuun», 27 febbraio 1997, p. 9.

Su Ishii Ségo si può leggera Sago Ishii. Lo Sperimentalismo visionario. Istituto Giap­ ponese di Cultura, Roma 2007.

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// cinema dell 'Estremo Oriente

rimentali del film precedente da spingere la Nikkatsu a non distribuirlo: è rottura fra compagnia e cineasta. Kurosawa riesce a convincere Hase­ gawa Kazuhiko c la Director’s Company ad acquistare i diritti del film e lo riedita con il titolo The Excitement of the Do-Re-Mi-Fa Girl (Doremifa musarne no chi wa scrwagu, 1985), un film che in un intreccio ero­ tico introduce una serie di elementi ripresi dal cinema di Jean-Luc Go­ dard e della Nouvelle Vague, manifestando subito, da parte del regista, una naturale vocazione alla ricerca espressiva pur all’intemo delle strut­ ture di genere. Lo scontro con la Nikkatsu ha tuttavia conseguenze pe­ santi: Kurosawa finisce infatti in una sorta di lista nera, e per quattro an­ ni viene ostracizzato dall’industria cinematografica giapponese. Diver­ samente da Ishii, il regista non si getta nel mondo della produzione di corti e video, ma ritorna all’università che aveva frequentato da studen­ te, la Rikkyó Daigaku di Tokyo, e tiene una serie di lezioni sul cinema. È un momento fondamentale della sua carriera per almeno due ragioni. La prima è che cosi stringe un legame di amicizia col già citato Hasumi Shigehiko, di cui aveva seguito i corsi in quella stessa università e che aveva contribuito non poco ad accendere in lui l’amore per il cinema di genere inteso come una sorta di canovaccio da cui partire per approfon­ dire la realtà dell'uomo e del mondo. Inoltre, con i suoi seminari, Kuro­ sawa diventa il punto di riferimento per un gruppo di aspiranti cineasti che daranno un contributo essenziale al Nuovo cinema giapponese dalla seconda metà degli anni Novanta: Aoyama Shinji, Shinozaki Makoto, Shiota Akihiko. Suo Masayuki e Manda Kunitoshi. Nel 1989 Kurosawa ritorna finalmente dietro la macchina da presa con Sweet Home {Sdito Homu\ che di fatto inaugura la sua camera di regista horror. A differenza di Ishii e. come vedremo, di Tsukamoto, i cui film erano già stati apprezzati nei festival intemazionali, all’inizio degli anni Novanta, Kurosawa non è ancora riuscito davvero a emergere. Di una certa importanza risulta così l’esperienza nel V-Cinema, fra il 1994 e il 1997. allorché Kurosawa realizza una decina di film, fra cui la serie Suit Yourselfor Shoot Yourself! (Katte ni shiyagare!!, 1995-1997), giun­ gendo a quella maturazione espressiva che lo porterà al suo capolavoro, Cure (id., 1997), un horror metafìsico in cui il lavoro sulla profondità di campo va di pari passo con l'esplorazione delle pulsioni nascoste nel­ l'uomo e nella società. Cure è il film che fa a tutti gli effetti di Kurosawa

Il cinema giapponese dagli anni Novanta a oggi

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un autore a tutto tondo dei Nuovo cinema giapponese, finalmente rico­ nosciuto anche sul piano intemazionale: ruolo che manterrà sia coi suoi successivi horror, in particolare Pulse (Kairu, 2001) e i più recenti Loft (id., 2005) e Retribution (Sakebi, 2006), dove «i fantasmi vengono rele­ gati oltre che ai bordi dell’inquadratura [...], anche a quelli della sceneg­ giatura, diventando solo un tassello di una complessa vicenda che si sfi­ laccia in numerosi digressioni e sfumature»11, sia con quei film che an­ dando al di là del rapporto col cinema di genere si manifestano più espli­ citamente come opere d'autore, in particolare License To Live (Ningen no gdkaku, 1998), storia di un giovane che uscito da un lungo coma deve ricostruire i suoi rapporti con i propri cari, Charisma (Karisuma, 2000), che ruota intorno a un misterioso albero che avvelena e distrugge ciò che lo circonda, e Tokyo Sonata (Tokyo sonata, 2008), storia di un uomo che, perduto il lavoro, vede la propria famiglia sul punto di sgretolarsi. Al di là del più o meno esplicito legame con il cinema di genere, la filmografia di Kurosawa si presenta, almeno da Cure in poi, come un’o­ pera compatta e coesa, fatta di spazi desolati e luoghi abbandonati o prossimi alla distruzione; di giovani «senza legami con gli altri, senza genitori, senza amici, senza amori e, beninteso, senza rapporti sessua­ li»12; di personaggi in solitudine, opachi e reticenti, che si trascinano stancamente verso la propria fine, segnati da un’identità vaga e sfug­ gente13 la cui precarietà è però anche disponibilità al cambiamento e al­ l’integrazione; di uno stile costruito su piani sequenza e immagini di­ stanti, dove ciò che conta può anche essere relegato sullo sfondo e ai bordi delle inquadratureN, in un rapporto di registrazione con la realtà che ne rispetta davvero tutta l’ambiguità e indeterminatezza.

M G. Caloric, Mondi die cadono. Z? ci/ifw di Kuvosawxi Kiyoshi, Museo Nazionale del cmcma-il Castoro, Torino-Milano 2007. p. 32.

” D, Aknaud» Kiyoshi Kurosawa. Mémoir? de la disparì tìon, Rouge Profond, Pcrtuis 2007, p. 70

° Giacomo Calorio parla a questo riguardo di «identità molle», riprendendo tale con­

cetto dalla nozione taoista di «via molle» (Calorio. Mondi che cadono, cit.. p 169).

14 Ancora Giacomo Calorio. pensando probabilmente al Tanizaki de L'elogio dell'ombna, scrive a questo proposito: «Con sensibilità tipicamente giapponese, sembro che Kuni­

sawa ami attribuire ruoli significativi a tutto ciò che è piccolo, nascosto, in ombra, in se *

condo piano» (Calorio, Mondi die cadono, cit.. p. 75).

206

n cinema dell 'Estremo Oriente

9.6.3 Tsukamoto Shin ’ya: la carne e il metallo Assieme a Ishii e Kurosawa, il terzo «padre» e protagonista della nuova onda del cinema giapponese è Tsukamoto Shin’ya. Anche Tsukamoto sfoga la sua passione per il cinema - in particolare per i kaijù eiga, i film di mostri alla Godzilla - realizzando 8mm nel corso degli anni Settanta, e fondando il gruppo teatrale «Kaijù Gekijó» (Teatro dei mostri marini). Quando però, nel 1979, termina la scuola ed entra nel mondo del lavoro in una televisione commerciale, il suo personaggio di artista under­ ground deve confrontarsi con la realtà del salaryman, un’esperienza che avrà un peso notevole nella sua opera. A metà degli anni Ottanta, Tsuka­ moto riprende in mano la macchina da presa e realizza, in piena autono­ mia e con mezzi di fortuna, i due cortometraggi The Phantom of Regu­ lar Size (Futsu, saizu no kaijin, 1986) e The Adventure ofDenchu Koso (Denchu Kozó no boken, 1987), film in cui la passione per il cinema di mostri si fonde con gli universi del cyberpunk: il primo ha per protago­ nista un uomo che si trasforma in un cannone umano, il secondo un ra­ gazzo sulla cui schiena cresce un palo elettrico. Denchu Kozo ottiene an­ che il Gran premio al PiaFF, grazie a una giuria presieduta da Óshima: è la molla che spinge Tsukamoto a dedicare tutte le sue energie a un’altra produzione del tutto indipendente, ma questa volta a I6mm. Nasce così Tetsuo: The iron Man (Tetsuo, 1989), storia di un salaryman che si tra­ sforma in una creatura meccanica mostruosa, metafora della riduzione dell’uomo a ingranaggio produttivo, dove l’alienazione urbana non si li­ mita più a occupare gli spazi dell’anima ma acquista una sua terribile fi­ sicità, divenendo essa stessa corpo. Girato in bianco nero, quasi senza dialoghi, con un montaggio assai rapido, frenetici movimenti di macchi­ na, rudimentali accelerati, inquadrature instabili, un andamento narrati­ vo sincopato, un’illuminazione, un trucco e una recitazione espressioni­ sti, una colonna sonora fatta di stridenti percussioni e «musica industria­ le», Tetsuo diverrà un cult degli anni Novanta e riporta il cinema giap­ ponese alla ribalta intemazionale dopo un lungo periodo di declino. Con il successivo Tetsuo il: Body Hammer (id., 1992), che riprende il sog­ getto del precedente Tetsuo allargandolo a un nucleo familiare15, Tsuka15 Tsukamoto ritornerà alle sewe TeUuo nel 2009 con Tetsuo: The Bullet Man.

Il cinema giapponese dagli anni Novanta a oggi

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moto precisa i temi del suo cinema: dal rapporto alienante fra l’indivi­ duo e la metropoli all'idea che ('esistenza possa definirsi soprattutto a partire dal confronto col dolore e la morte: è solo quando le sicurezze vengono meno che possiamo arrivare a comprendere il vero significato dell'esistenza, attraverso la riscoperta del corpo e dei sensi. Anche nei film successivi di Tsukamoto, che abbandonano l'universo della SF e con cui il regista approda alla sua maturità espressiva - Tokyo Fist (id.. 1995), Bullet Ballet (id., 1998), Snake of June (Rokugatsu no hehi, 2002) e Vital (id., 2004) - ordinari protagonisti scoprono se stessi e le loro sensazioni attraverso il loro corpo, ed esperienze terrificanti e com­ plementari di distruzione e rigenerazione. Come scrive Tom Mes «i pro­ tagonisti di Tsukamoto sono persone immerse nella routine quotidiana [...], ne subiscono i disagi, le pressioni [...], sacrificano la loro vitalità, le loro sensazioni fìsiche ed emotive [...]». Poi accade qualcosa, spesso rincontro con qualcuno, che manda all’aria il loro sistema di vita e li «getta neH’infemo costringendoli a ripensare alle proprie esistenze, ai loro stesi corpi e a ciò che hanno di più caro: quel che emerge alla fine è che essi sono cambiati, a volte irriconoscibili, ma sempre in meglio»16. Dopo Haze (id.. 2005), 49 deliranti minuti di un uomo che si risve­ glia in un cunicolo labirintico da cui cercherà disperatamente di uscire, Tsukamoto realizza gli onirici Nightmare Detective (Akumi tantei, 2006) e Nightmare Detective 2 (Akumi tantei 2, 2008), ad oggi i suoi maggiori successi commerciali, che narrano le vicende di un giovane tormentato che ha la possibilità di entrare nei sogni altrui.

9.7

Arriva Kitano: il clown triste con la pistola

Gli anni Ottanta si chiudono con l’esordio alla regia di Kitano Takeshi, il cineasta che conquisterà un prestigio a livello internazionale quale non si vedeva dai tempi di Óshima, divenendo l'emblema di un Giappone «che è diventato più il paese degli anime e dei manga, che non quello

16 T. Mes, frvti Man. The Ctnema ofSìùnya Tsukamoto, FAB Press, Godaimmg 2005, p. 12.

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Il cinema dell’Estremo Oriente

delle geisha e dei samurai»17. Nato nel 1947, di otto anni più anziano di Kurosawa, di dieci rispetto a Ishii, di tredici nei confronti di Tsukamoto, Kitano si afferma negli anni Settanta e Ottanta nei ruoli di attore comi­ co, polemico intrattenitore televisivo, imprevedibile editorialista politi­ co, scrittore1", diventando uno dei personaggi più popolari del mondo dello spettacolo giapponese, ruolo cui contribuiscono in piccola parte alcune apparizioni come attore in film di rilievo”. Anch’egli arriva cosi alla regia cinematografica da un percorso diverso da quello del tradizio­ nale assistentato. Il suo debutto nel cinema avviene si per conto di ima major, la ShÓchiku, ma da cui si renderà presto indipendente fondando nel 1992 una propria società di produzione, (’Office Kitano. Violent Cop (Sono otoko, kyvbòni tsuki, 1989), suo film d’esordio, è la storia di un poliziotto che non ha niente da perdere, impegnato in una lotta senza quartiere contro una potente banda di criminali e un efferato killer psicopatico. Il film è il primo di una serie di pellicole legate al mondo della yakuza e interpretate dallo stesso Kitano, che attraverso Boiling Point (3-4 Jùgatsu, 1990), storia di un giovane che deve com­ battere suo malgrado contro un gruppo di delinquenti, Sonatine (id., 1993), su una banda yakuza obbligata a trascorrere una sorta di vacanza sulle spiagge di Okinawa, Hana-bi (1997), storia del dolente amore di un uomo e della moglie malata terminale, inseguiti da una banda yaku­ za e da una coppia di poliziotti, che vinse il Leone d’oro al Festiva] di Venezia, arriva sino a Brother (id., 2000), il cui protagonista è uno yakuza in trasferta negli Stati Uniti. Pur in modi diversi si tratta di un insieme di film che, come accade per i lavori coevi di Miike, Aoyama c Mochizuki, riscrivono il genere yakuza allontanandosi sia dalla torma "A. Gtxuw. Kitano Takeshi, British Film Institute, Londra 2007, p. 63. " Kitano è ufficialmente l’autore di una sessantina di libri, di cui però lo stesso Kitano,

vero o falso che sia, ha dichiarato di non aver scritto nemmeno una parola (citato in GeROW, Kitano Takeshi, cit., p. 34), ” Fra i film interpretati da Kitano ricordiamo Furyo (Sen/óno meri kunsumasu, Óshtma Nagisa, I983), Comic Magazine (Kon/tkku zasshi nanka imnail, Takida Yojtrò, 1986),

Erotic Liasons (Erotikkuna kankei, Wakamatsu Kòji, 1992), Many Happy Returns (Kyòso tanjò, Tenma Toshihiro. 1993). Johnny Mnemonic (Robert Longo, 1995), Gonin (Ishii Takashi. 1995). Tokyo Eyes (Jean-Pierre Limosin, 1998), Tabù - Gohatto (Gohatto, Oshi­ ma Nagisa. 1999), Battie Rayale (Baton/ Rowaiaru, Fukasaku Kinji, 2000), Blood and Bo­ nes (Chi to hone, Sai Yoichi, 2004).

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classica dei ninkyòeiga della TSei degli anni Sessanta, sia dal frenetico realismo di Fukasaku Kinji, rifiutando dei primi la mitologia del dovere e lo stoico senso di sopportazione degli eroi interpretatati da Takakura Ken, e del secondo i freddi toni documentaristici. Con questi e suoi altri film del periodo non legati al mondo del cri­ mine, come Kids Return (Kizzu ritan, 1996), in cui ripercorre in chiave autobiografica la storia di un'amicizia adolescenziale, A Scene al the Sea (Ano natsu ichiban shizukana unti, 1991), dolente e tragica storia d’amore tra una ragazza e un giovane sordomuto, Dolls (id., 2002), do­ ve intreccia tre storie di romantiche ossessioni rifacendosi al tradizio­ nale Bunraku (il teatro di marionette), e Zatoichi (Zatòichi, 2003), in cui riprende una figura leggendaria del jidaigeki classico accentuandone la violenza e la disperazione, Kitano non solo diventa uno degli autori più apprezzati del cinema internazionale, ma anche uno sprone e un punto di riferimento per tutto il Nuovo cinema giapponese. La filmografia di Kitano si presenta nel suo insieme come un’opera fortemente coesa, e fondata su una dialettica di clementi tradizionalmen­ te antitetici fra loro quali quelli di violenza e gioco («molti personaggi di Kitano prima di morire fanno una cosa molto semplice: si mettono a gio­ care»20). crudeltà e dolcezza, ferocia animalesca e ingenuità infantile, dramma e commedia, azione e stasi; sulla pulsione di morte che segna quasi tutti i suoi emarginati protagonisti; su un metodo di lavorazione af­ fidato in buona misura all’improvvisazione; su uno stile assai peculiare fatto di immagini statiche (alternate a improvvise esplosioni di violen­ za), campi lunghi, ellissi, fuori campo (le figure dell’invisibile), sospen­ sioni e deviazioni narrative, un montaggio (curato dallo stesso Kitano) alieno a qualsiasi regola, in cui «un’intera situazione viene condensata e “congelata” in due o tre inquadrature con un effetto di sintesi e di inten­ sità stupefacente»21, una recitazione essenziale che rifugge da ogni psi­ cologismo, e, sul piano sonoro, lunghi silenzi che assecondano l’afasia dei suoi eroi: un cinema in cui si respira tanto l’originalità e l’intensità espressiva dei maestri della tradizione giapponese quanto la libertà in-

* V Bijccher), Takeshi Kitano, Il Castoro Cinema, Milano 2000. p. 18.

21 Ivi, p. 19

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Il cinema dell‘Estremo Oliente

ventiva dell’universo dei manga: e che si traduce, come scrive il già cita * to Hasumi, in «straordinari momenti di cinema»”. Sensibile alle critiche patrie di realizzare film troppo commisurati ai gusti occidentali, Kitano imprime una svolta alla sua opera, già in parte anticipata da Getting Any? (Minna yatteru ka, 1995), con Takeshi's (id., 2005) e Glory to the Filmmaker (Kantoku banzai, 2007): due film auto­ referenziali, in cui mette in scena se stesso e il proprio ruolo di regista e uomo di successo rifacendosi a una sorta di format televisivo per sketch, ricorrendo, pur in un contesto drammatico, a frequenti soluzioni comi­ che di tipo demenziale e non sense (una costante del Kitano televisivo), e intessendo una narrazione fortemente slegata c divagante di riferimenti al mondo della televisione e dello spettacolo nipponici. Takeshi‘s e Gloiy to Film maker sembrano voltare le spalle al pubblico occidentale, che di fatto ha quasi ignorato i due film, e puntare invece in modo risoluto a un universo assai familiare agli spettatori de] suo paese. L'ultimo film di Ki­ tano, Achilles and the Tortoise (Akiresu to kame, 2008), pur presentando ancora elementi legati ai due precedenti (autoreferenzialità, narrazione spezzata in episodi, un certo gusto per la comicità non sense), ritorna però anche ad aspetti del suo cinema precedente tramite un’opera più coesa e compatta, una mirabile fusione di dramma e commedia, uno sti­ le che riafferma le sue originali soluzioni e, soprattutto, la messa in scena di una storia universale, quella di un pittore che non riesce a stare al pas­ so coi tempi ed è perciò sempre «dietro alla sua tartaruga» (perché inca­ pace? perché refrattario ad ogni moda?), che è soprattutto un’accorata e commovente meditazione sul rapporto tra vita e arte.

9.8

Ichikawa, Koreeda e Kawase: tra poetiche del quotidiano, fiction e documentario

il panorama dei cinema giapponese contemporaneo è estremamente fìtto e frammentato. Proviamo a disegnare una sintetica mappa delle sue prin-1 Dal materiale di presentazione del Simposio internazionale e della Retrospettiva completa dei film di Kitano tenutisi al Festival Internazionale di Tokyo del 1996.

{I cinema giapponese dagli anni Novanta a oggi

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cipali figure cercando di distinguere fra quelle che si muovono in una di­ mensione più autoriale e quelle che invece stabiliscono un rapporto più evidente col cinema di genere. Ichikawa Jun, Koreeda Hirokazu e Kawa­ se Naomi possono bene rappresentare quello che è oggi il cinema d'auto­ re in Giappone. Ichikawa, scomparso prematuramente nel settembre 2008, esordisce nel cinema di finzione con BtfSu (id., 1987), storia di un’apprendista geisha; lo stile calmo e controllato, l’andamento disteso della narrazione, l’attenzione alla dimensione interiore dei personaggi, la capacità di cogliere il senso di una situazione attraverso un gesto e uno sguardo sono caratteri che ritroveremo nei film successivi, c che hanno spesso spinto la critica giapponese a definire il suo cinema con la tradi­ zionale espressione di jimi (calmo, senza scosse). Lo stesso Ichikawa ha più volte dichiarato che un punto di riferimento imprescindibile del suo cinema è Ozu, come possono testimoniare l’esplicito omaggio di The Tokyo Siblings (Totyo kyòdai, 1994) - storia di un fratello e una sorella orfani, che vivono nella casa che era dei genitori, alle prese col possibile matrimonio di lei - e l’uso ricorrente di inquadrature di transizione che sospendono la narrazione e consentono il fluire di quei sentimenti che il film ha suscitato nello spettatore. Pur debitori del grande maestro, i film di Ichikawa si radicano assai bene nella realtà giapponese contemporanea soprattutto per la loro capacità di esprimere sentimenti e inquietudini pro­ pri delle nuove generazioni; e sono caratterizzati da personaggi che, ri­ spetto a quelli di Ozu, fanno più fatica ad adattarsi alle logiche sociali: si vedano lo stilizzato Tony Takitani (id., 2004), da un racconto di Muraka­ mi Haruki, e How to Become Myself (Ashita no watashi no tsukurikata, 2007). Un elemento ricorrente del cinema del regista è la dimensione me­ tropolitana che spesso si insinua nel racconto attraverso sequenze di mon­ taggio dedicate alla città, ai suoi abitanti e ai loro riti quotidiani, come ac­ cade in Tokyo Lullaby (Tokyo yakyoku, 1997), Osaka Story (Osaka monogatari, 1999), Tokyo Marigold (TokyoMangòrudo, 2001 ) c Dying in a Hospital (Byòin de shinu to tu koto, 1993): film quest’ultimo che, a metà tra fiction e documentario, narra di alcuni malati terminali, ripresi sem­ pre da una certa distanza come a indicare le difficoltà di ognuno a stabi­ lire un rapporto con chi sta morendo, dove gli inserti metropolitani di or­ dinaria quotidianità, contrapposti alla realtà dei malati, diventano un ve­ ro e proprio inno alla vita (quale del resto è tutto il cinema di Ichikawa).

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lì cinema dell’Estremo Oriente

Dal mondo del documentano, in particolare televisivo, viene invece Koreeda Hirokazu. Anche il suo è un cinema di osservazione e di rap­ porti interpersonali, in cui la memoria e il ricordo assumono un ruolo fondamentale nel definire «chi siamo», soprattutto in rapporto alle per­ sone e alle cose che abbiamo perso: tema questo evidente nei suoi primi tre film, Maboroshi (Maboroshi no hikari, 1995), storia di una donna che cerca di venire a patti col suicidio del marito, After Life ( Wandàfuru raifu, 1998), dove si immagina che dopo la morte ognuno debba rico­ struire i momenti più intensi della propria esistenza, e Distance (id., 2001), che narra l’incontro di un gruppo di personaggi accomunati dalla perdita di un familiare nel massacro perpetrato da una setta religiosa. Questi primi film sono accomunati Ira loro, come afferma lo stesso Ko­ reeda, anche dalla volontà «di abbattere alcune delle barriere che sono state artificialmente create per dividere la fiction dal documentario»73, dando vita a un gioco di scatole cinesi dove il materiale di fiction si in­ castra con quello documentario * 4: si vedano le interviste dal vero di After Life, o l’uso della macchina a mano e dell’improvvisazione degli attori in Distance. Una analoga naturalezza recitativa si ritrova in Nobody Knows (Daremo shiranai, 2004): ispirato a un fatto realmente accaduto, il film narra la vita quotidiana di quattro fratellini abbandonati dalla ma­ dre che devono gestire la casa in cui vivono e trovare il denaro necessa­ rio alla propria sussistenza. Filmato anch'esso come un documentario, Nobody Knows evita le scontate derive del melodramma per farsi so­ prattutto «una celebrazione del mondo dell’infanzia» e una critica al mondo degli adulti, come la madre, espressione «dell’egoismo di un’in­ tera generazione», e i vicini, che si preoccupano dei bambini solo quan­ do non ricevono i soldi dell’affitto, e che «non sanno» soprattutto perché «non vogliono sapere»25. Se Hana (Hanayori mo nuho, 2006), un jidaigelò che riprende il tema classico della vendetta per rovesciarlo attraver­ so la storia di un samurai «debole» che preferisce i valori dell’educazio-

a KtìKthDA Hirokazu

w

Mes, Sharp, The Midnight Eye Guide to New Japanese Film,

cit.. p. 209.

H T. Ravns, This is four Life. «Sight & Sound», IX, 3, marzo 1999, p. 24. *’ A. Campbell, Nobody Knows, «Midnight Eye», www.midnighteye.com/reviews/no-

bcdy-knows.shtml

[I cinema giapponese dagli anni Novanta a oggi

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nc a quelli della morte, e Air Doli (Kuki ningyo, 2009), accorato ritratto di solitudini femminili e storia di una bambola gonfiabile che prende vi­ ta e si innamora, aprono nuovi orizzonti al cinema di Koreeda, più vici­ no alla sua ispirazione originaria è Still Walking (Aruite mo, artrite mo, 2008). Il film, un accorato omaggio al cinema di Ozu sin dalla sequenza iniziale, racconta 24 ore della vita di una famiglia di tre generazioni che si ritrova per commemorare il primogenito scomparso, riproponendo co­ si il legame fra memoria e perdita presente nei suoi primi film. Anche per Kawase Naomi, il documentario - così come il carattere in­ dipendente delle sue produzioni - è l’aspetto fondamentale del suo cine­ ma, non solo perché nel suo ambito la regista si è formata, ma anche per­ ché in esso continua a esercitare gran parte del suo lavoro. L’opera di Kawase è fortemente segnata da una dimensione autobiografica, diaristica e familiare, non senza una certa attenzione al dato sociale. Lo testi­ monia il suo Sukazu (Moe no Suzaku, 1997), premiato al festival di Can­ nes, che, a metà tra fiction e documentario, dipinge la vita di 15 anni di una famiglia di un villaggio nella prefettura di Nata, indotta alla disgre­ gazione c all’abbandono delle tradizioni da una violenta crisi economica. La sua filmografia comprende documentari dal carattere familiare (sul­ l’infanzia. i rapporti col padre, la maternità ecc.) e film che, invece, me­ scolano documentario e finzione. Tra questi ultimi, oltre al già citato Su­ zaku, ricordiamo Firefly (Hotaru, 2000), che come molti film della regi­ sta si ambienta nel Giappone rurale, documentandone la decadenza in un paese sempre più urbanizzato26. Sham (Sharasqu, 2003), dedicato all’e­ sistenza di una famiglia di Nara dopo la scomparsa del figlio dodicenne, The Mourning Forest (Mogani no mori. 2007), anch’esso premiato a Cannes e ambientato in una casa di riposo per anziani, c Nanayo (Nanayomachi, 2008), storia di una donna che, andata a vivere in Thailan­ dia, ritrova se stessa attraverso la scoperta del nuovo mondo che la cir“ In un saggio sui cinema delia Kawase, Aaron Gervw spiega come la critica giappo­

nese sia divisa sul suo conto fra chi ne apprezza lo sguardo rivolto a «un Giappone antico, quasi senza tempo» e chi invece l'attacca perché insieme a Koreeda e all'Iwai Sbunji di Love Letter (1995) testimonia di un’incapacità di «elaborazione dei lutto» nei confronti di

un Giappone di fatto idealizzato [A. Gerow, Ripetizione e rottura nei film di Kawase Nao­ mi, ut M R. NwtELU (a cura di), Kawase Naomi, [ film, il cinema. Infinity Fesiival-EfTata

editrice, Tonno 2002, p. 321.

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Il cinema dell 'Estremo Oriente

conda. Al di là di tale distinzione, tuttavia, il cinema della Kawase si pre­ senta come un’opera assai omogenea, in cui dominano l’approccio do­ cumentario (ambienti reali, luce naturale, macchina da presa a mano, lunghi piani, attori spesso non professionisti), la presenza del paesaggio e della natura come componenti estetiche e come entità drammatiche, l’attenzione al dato quotidiano, alle sfumature e alle piccole cose che ri­ velano la natura umana più e meglio dei suoi grandi drammi, e la dimen­ sione privata e autobiografica che affiora anche quando storie c perso­ naggi non hanno direttamente a che fare con la vita della regista27.

9.9

Aoyama Shinji e gli allievi di Kurosawa e Hasumi

Insieme a Ichikawa, Koreeda e Kawase, un’altra figura chiave del Nuo­ vo cinema giapponese è Aoyama Shinji. Sebbene i suoi primi film, da Helpless (id., 1996) a 7\vo Punks (Chinpira, 1996), da Wild Life (id., 1997) a An Obsession (Tsumetai chi, 1997), possano apparire più legati a un cinema di genere, nel loro narrare storie di yakuza, giovani crimi­ nali e agenti di polizia, l’interesse di Aoyama verte in realtà più sui per­ sonaggi e lo stile che sulle dinamiche dell’azione. Affiorano già in que­ sti film l’attenzione a figure marginali, che faticano a instaurare lega­ mi; raffermarsi de) tema del trauma con cui è necessario fare i conti per ridefinire la propria identità; la ricerca di figure stilistiche piuttosto inu­ sitate nell'ambito del cinema di genere (come piani sequenza e long take in campo lungo); la ricorrenza di momenti in cui la macchina da presa si sofferma su tempi morti, in cui non accade niente perché tutto è già accaduto o deve ancora accadere. Ma è soprattutto con Eureka (id., 2000), Premio Fipresci al Festival di Cannes, che Aoyama consolida il suo statuto d’autore e conquista una fama internazionale. Coi suoi 217 minuti virati seppia, il film racconta la storia di un autista e di due ra­ gazzi la cui vita è sconvolta dal sequestro di un autobus e dal conse-

11 Oltre che al Ih Kawase, il c inema documentario contemporaneo si affida anche a nu­ merosi altri cineasti, come annualmente testimonia lo Yamagata Film Festival, fra cui va

citato almeno Watanabe Fumiki.

Il cinema giapponese dagìi anni Novanta a oggi

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guentc scontro a fuoco che provoca la morte di quattro persone. Dopo essersi separato dalla moglie, l’autista decide di trascorrere la sua esi­ stenza con i due ragazzi, a loro volta abbandonati dai genitori. La se­ conda parte del film assume le cadenze di un road movie in cui l'uso del piano sequenza, l’attenzione a eventi minimali e la centralità dei paesaggi del Kyùshu va di pari passo con una storia che narra la neces­ sità di ritornare alla vita non guardando solo dentro di sé ma anche ciò che ci circonda. Il film è davvero la summa del cinema di Aoyama nel suo riproporre personaggi costretti dagli eventi a una vita marginale e a confrontarsi con un trauma che impone di ridefinire la propria identità. I film successivi di Aoyama non ritroveranno forse più l'intensità espressiva di Eureka, ma continueranno comunque a lavorare su uno stesso orizzonte tematico e stilistico, come testimoniano Desert Moon, che intreccia la storia di un uomo d'affari che tenta di ricostruire il pro­ prio rapporto familiare con quella di un giovane gigolò ossessionato dall’idea dell’assassinio del padre; My God, My God. Why Hast Thou Forsaken Me? (Eli. Eli, Lama Sabachthani?, 2005) che, ambientato in un futuro apocalittico, narra le vicende di due musicisti che con la loro musica devono salvare una ragazza che insiste nell’affermare di non do­ ver vivere per forza; e Sad Vacation (id., 2007), un viaggio dentro il ci­ nema dello stesso Aoyama che, in una fitta rete di rimandi, riprende al­ cuni dei personaggi dei suoi precedenti film, costringendoli ancora a confrontasi con i traumi della morte e dell'abbandono. Una tappa importante delle formazione di Aoyama è stata indubbia­ mente la frequenza dei corsi di cinema tenuti da Hasumi e Kurosawa al­ la Rikkyó Daigaku, insieme ad altri giovani studenti e futuri cineasti co­ me Shiota Akihiko e Shinozaki Makoto, che di fatto, nonostante le dif­ ferenze che li separano e i diversi percorsi intrapresi, costituiscono una sorta di gruppo a se stante nell’ambito del nuovo cinema giapponese. Assistente di Kurosawa per Kandagawa Wars e The Excitemement of the Do-Re-Mi-Fa Girl, vincitore del PiaFF con l’8mm Fatala (Faretra, 1983), critico cinematografico dei «Cahiers du cinema - Japon», sce­ neggiatore di film erotici per il mercato dei video per adulti, nell’ambito dei quali realizza anche Nude Woman (Roshutsukyó no onna, 1996), Shiota debutta su pellicola con Moonlight Whispers I Sasayaki che ri­ prendendo dal film precedente il tema della scoperta dei recessi nascosti

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dell’animo umano, introduce quello che sarà l’elemento più importante del suo cinema a venire: la rappresentazione della complessità dell’ado­ lescenza, vista come un periodo inquieto in cui iniziano a farsi strada i germi dell’età adulta. Moonlight Whispers mette in scena, con discrezio­ ne e sensibilità nonostante il carattere scandaloso del tema affrontato, la scopata dell’universo sadomasochistico da parte di una coppia di stu­ denti liceali che si trova davanti alla drammatica scelta di «negare ciò che sono o passare attraverso la sofferenza per diventare se stessi»2"; /Jon > Look Back (Dokomademo ikò, 1999) ritrae l’erodersi delle amicizie giovaniti; Harmful Insect (Gaichii, 2001 ) narra di una tredicenne le cui tra­ giche esperienze di vita e il confronto con la violenza della società la co­ stringono a una crescita prematura che ne determina un crudele isola­ mento. La conclusione di Shiota è sempre la stessa: «solo al di fuori del­ la società si trova la strada che permette ai suoi personaggi di essere fe­ deli a se stessi come individui»29. Tuttavia, con l’eccezione forse di Conary (Kanaria, 2005), storia dei tentativi di un uomo di reintegrarsi nel­ la società dopo dodici anni passati in una setta religiosa, il cinema suc­ cessivo di Shiota sembra aver perso la sua peculiarità, mostrando invece una dimensione più incline al genere e al cinema mainstream.

9.10

II cinema (non solo) gay di Hashiguchi

Un posto particolare nell’ambito del nuovo cinema d’autore giapponese è occupato da Hashiguchi Ryòsuke, anche lui formatosi attraverso l’8mm e vincitore del PiaFF con A Secret Evening (Yùbe no himitsu. 1989). Grazie a tale premio Hashiguchi riesce a girare il suo primo lun­ gometraggio in 16mm, Touch ofFever (Hatachi no binetsu, 1993), storia di due adolescenti che si prostituiscono in un locale gay, ma anche e so­ prattutto compassionevole e partecipato ritratto delle insicurezze, della vulnerabilità e della confusione dei suoi protagonisti. Il film fissa non solo l’ambito tematico dominante le successive opere del regista, il mon'* Mes. Sharp, The Midnight Eve Guide to New Japanese Cinema, cil., p. 272.

p. 271.

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do dell’omosessualità e i suoi rapporti col resto della società, ma anche una stilistica ben precisa, fatta di piani lunghi e fissi che scrutano impie­ tosamente e con una certa distanza critica i fatti rappresentati. Grazie a un accordo fra il PiaFF e la major Tòhó, nasce il secondo film di Hashi­ guchi, Like Grains ofSand (Nagisa no shindobaddo, 1995), ambientato in un liceo. Tre sono i protagonisti dell'intreccio: ito che si innamora del compagno Yoshida; Yoshida che accetta con riserbo il corteggiamento dell’amico ma poi si infatua dell’inquieta Aihara; Aihaia che, in cura da uno psicologo dopo essere stata stuprata, rifiuta il corteggiamento di Yo­ shida e perora invece la causa di Ito Anche qui il film mette in primo piano i sentimenti di confusione e incertezza adolescenziali, insiste nel cercare una comunicazione positiva tra mondo gay e mondo etero, rap­ presentando però anche il conflitto fra le due realtà, rifiuta semplifica­ zioni e stereotipi, si affida a un finale aperto che tiene in piedi tutte le possibilità di combinazioni amorose e ricorre con frequenza all’uso del piano sequenza. Nonostante il Tiger Award ottenuto a Rotterdam, Hashi­ guchi attende sei anni prima di tornare dietro la macchina da presa con Hush! (id., 2001), presentato in anteprima mondiale a Cannes. Nel rac­ contare ancora le vicissitudini di un anomalo triangolo sentimentale, Ha­ shiguchi sceglie questa volta dei protagonisti trentenni e l’ambito della commedia, in modo tuttavia niente affatto formulaico e senza andare a discapito della profondità di caratterizzazione e della solita delicatezza d’approccio. La storia di una donna che si introduce nella relazione omo­ sessuale di due uomini, decisa ad avere un figlio da uno dei due senza però voler rompere il loro legame, diventa il ritratto di tre esistenze soli­ tarie e delle loro difficoltà a rapportarsi col proprio ambiente. Sospeso tra humour e dramma, il film si affida in modo ancora più radicale all'u­ so dei long take c dei piani sequenza fissi cui tocca il compito di mettere in scena i momenti salienti della narrazione, dando particolare peso a ge­ sti, posture e in generale a una costruzione dello spazio in profondità che bene rappresenta il senso di determinate situazioni. Ben sette sono poi gli anni che dividono Hush! dal successivo All Around Us (Gururi no ko­ to. 2008), che abbandona le tematiche omosessuali e mette in scena il dramma di una coppia che cerca di ricostruire il proprio legame dopo la perdita di un figlio. Attraverso il lavoro del marito, illustratore di cronaca nera per un giornale, il film è intervallato da una serie di sedute proces­

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suali che hanno per tema ricorrente quello dell’omicidio, perpetrato spesso nei confronti di minori e l'assenza di pentimento nei colpevoli. Il tema dell’elaborazione del lutto della donna si intreccia cosi con quello di una società costretta a fare i conti col proprio lato oscuro10.

9.11

L'autore e il genere: Miike e il cinema dell’eccesso

Un ambito importante del cinema giapponese contemporaneo è costitui­ to da quel gruppo di autori e film che, da una parte, si rapporta esplicita­ mente al cinema di genere, e, dall’altra, si muove, per contenuti e/o stile, in quell’ambito estremo che ha ripreso, portandole all’eccesso, certe ca­ ratteristiche radicali del cinema popolare giapponese degli anni Settanta, contribuendo a fare di certo cinema nipponico un vero e proprio oggetto di culto. Il primo nome da citare è indubbiamente quello di Miike Taka­ shi. Con un centinaio di lavori in diciotto anni di carriera, Miike, dopo essere stato assistente di Imamura Shóhei, si è formato nell’ambito del mondo del V-Cinema, in cui ha esordito nel 1991 per passare poi, quat­ tro anni più tardi, a realizzare anche film in pellicola. L’aspetto più evi­ dente del suo cinema è la violenza oltraggiosa, unita all’intensità espres­ siva di uno stile che attraverso un montaggio sincopato, dettagli ipertro­ fici sorprendenti angolazioni ed effetti digitali, dà vita a situazioni pu­ ramente audiovisive quali pur spesso ispirate al linguaggio dei manga, solo il cinema può realizzare. Il carattere oltraggioso dello stile e delle situazioni del cinema di Miike, non impedisce la presenza di un ben pre­ ciso percorso tematico che attraversa molte delle sue opere. Punto di partenza di tale percorso, come evidenzia Tom Mes, è «l’assenza di radi­ ci» che accomuna molti dei suoi personaggi (perché costretti a vivere in un paese straniero, perché figli di giapponesi rientrati in patria dopo l’e­ migrazione dei genitori, perché orfani) che ne fa a tutti gli effetti degli outcast, emarginati dal contesto sociale. Questa drammatica condizione

* Altri cineasti che si muovono in un esplicito ambito auloriale andrebbero qui citati.

Fra questi ci sono Kobayashi Masahiro e Hiroki Ryuichi, di cui ci occuperemo nel prossi­ mo capitolo, Suwa Nobuhiro c Furumaya Tomoyuki.

Il cinema giapponese dagli anni Novanta a oggi

219

li spinge a muoversi verso un’utopica «ricerca della felicità» cercando la fuga in un altrove, indugiando in un atteggiamento di «nostalgia», ten­ tando di costruire un’«unità familiare» per quanto anomala e irregolare possa essere, o entrando a far parte di un gruppo che in qualche modo li protegga e che il più delle volte è costituito da una banda criminale. È proprio la condizione esasperata di questi individui c il fallimento dei lo­ ro tentativi di porvi rimedio che genera quella violenza cosi tipica dei film di Miike11. Una violenza - sovente estrema, rappresentata con sti­ lizzata teatralità, ma raramente spettacolare (niente a che vedere con i «balletti hongkongesi») e, ai contrario, spesso accompagnata da un profondo senso di dolore - che non è dunque gratuita, e appare invece come la conseguenza di un contesto sociale: quella faccia oscura del Giappone che Miike non ha timore di far emergere12. Nell’ampio insieme di opere dirette dal regista, un gruppo a se stante è indubbiamente costituito dai film che hanno a che vedere col mondo della yakuza, come accade per la trilogia sulle relazioni fra le mafie nippo-cinesi Shinjuku Triad Society (Shinjuku kuroshakai: Chaina mafia senso, 1995), Rainy Dog (Gokudó kuroshakai: Rainy Dog, 1997) e 1-ey Lines (Nihon kuroshakai: Ley Lines, 1999), e per Fudoh (Gokudo sengokushi: Fudo, 1996), Dead or Alive (DOA: Dead or Alive, 1999), The City ofLost Soul (Hyòryùgai, 2000), Ichi the killer (Komshiya i. 2001 ), Agitator (Araburu tamashiitachi, 2002) e Graveyard of Honor (Shin jingi no hakaba, 2002). II cinema yakuza di Miike riprende e oltrepassa in una dimensione decisamente visionaria quello semidocumentaristico di Fukasaku Kinji, nel mettere in discussione i codici cavallereschi di un mondo troppo idealizzato dai classici passati del genere, privilegiando al contrario una dimensione nichilista e autodistruttiva, più attenta al singolo che al gruppo, che in forme diverse si ritroverà nei film dei tan­ ti autori - Kitano, Aoyama, Mochizuki, Sabu, Negishi ecc. - che hanno segnato l’evoluzione del genere, e dei suoi ambiti limitrofi, nel corso degli anni Novanta e Duemila. !l T. MES, Agitator: The Cinema of Miike Takashi, FAB Press, Guiklford 2003, pp. 21 -33.

u Sulla violenza nel cinema di Miike, vedi D. Tomasi, «Castigo divino». Un 'introdu­ zione at cinema di Miike Takashi, e M. Dalla Gassa, Lo spillo nell ’occhio. La violenza e

le sue «forme», in Tomasi (a cura di), Anime perdute. It cinema di Miike Tukashi, ciL, pp. 9-16 e 111-35.

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II cinema dell 'Estremo Oriente

L’eclettico lavoro di Miike si è profuso, sempre all’insegna di erigi, nalità e gusto dissacratorio, anche in altri generi e ambiti, come l’horror (Audition, Odishon 1999; One Missed Call, Chakushin ari, 2003; im. print, id., 2006), il musical (The Happiness of Katakuris, Katakuri-ke no kofuku, 2001), il jidaigeki (Izo, id., 2004), il fantastico (Gozu, Gokudò kyòfu daigekijò: Gozu, 2003), a suo modo persino il western (Sukiyaki Western Django, id., 2007), i film di violenza giovanile ainbientati negli anni Settanta (Young Thugs: innocent Blood, Kishiwada shònen gurentai: Chikemurli junjò hen, 1997; Young Thugs: Nostalgia, Kishiwada shdnen gurentai: Bókyó, 1998), gli intrecci familiari (Visitor Q, Bijità Q, 2001), le relazioni omosessuali (Big Bang Love: Juvenile A, 46-okunen no koi, 2006), le storie di giapponesi all’estero (Bird People in China, Chùgoku no chójin, 1998). Dopo anni di lavoro nei «bassifon­ di», Mììke ha recentemente visto riconosciute le sue indubbie qualità di cineasta àaW establishment dell’industria cinematografica giapponese. Gli sono stati cosi affidati alcuni blockbuster come Crows: Episode 0 (Kuròzu zero, 2WYI), God 's Puzzle (Kamisama no pazuru, 2009) e Yatterman (Yattàman 2009), i cui discutibili esiti sembrano testimoniare come Miike si trovi più a suo agio con piccole produzioni dai mezzi li­ mitati, che tuttavia gli consentono di dare libero sfogo alla sua straordi­ naria immaginazione e al suo talento visivo (come del resto conferma il «piccolo» Detective Story, Tantei monogatari, 2007, che esibisce molto più Miike di quanto non facciano i blockbuster citati). Oltre a Miike Takashi e a Sono Sion, di cui ci occuperemo nel prossi­ mo capitolo, altri cineasti che hanno percorso le strade estreme del cine­ ma giapponese sono Toyoda Toshiaki e Kumakiri Kazuyoshi. Formatosi come assistente e sceneggiatore di Sakamoto Junji, Toyoda esordisce con Pornostar (Poruno sutà, 1998), un'elegante e stilizzata rappresentazione della violenza che ha per protagonista un giovane e misterioso stermina­ tore di yakuza. Il suo film più celebrato è il successivo Blue Spring (Aoi haru, 2002), che, basato su un manga di Matsumoto Taiyóe ambientato in un istituto superiore, mette in scena un universo anarchico e violento, dominato da un gruppo di studenti fortemente gerarchizzato, in cui la lot­ ta per la leadership, unica ragione d’esistenza, è condotta davvero senza esclusione di colpi. Al di là degli iterati pestaggi di gruppo, accompagna­ ti da musica rock, effetti di ralenti e sorprendenti angolazioni che richia­

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mano il cinema d’azione di Hong Kong, il film di Toyoda dipinge un uni­ verso le cui rigide strutture gerarchiche sono quelle dell’intera società, ribadendo cosi un uso metaforico del mondo adolescenziale assai diffuso nel cinema giapponese contemporaneo. A fianco delle sue pirotecnie vi­ sive e del gusto per l’ultraviolenza, Toyoda riesce comunque a costruire personaggi caratterizzati da una certa complessità, come testimonia il successivo 9 Souls (id., 2003), che narra del tentativo di evasione di alcu­ ni detenuti. Più pacato, e segno di una possibile svolta nella carriera, è invece l’ironico e satirico The Hanging Garden (Kùchii teien, 2005) che, ambientato in una periferia urbana, narra le vicissitudini di una famiglia che si è ripromessa di dire la verità, sempre e in ogni circostanza.

9.12

Nakata, Shimizu e il *J Horror

Il genere che ha più contribuito al successo commerciale ma anche a un certo prestigio del Nuovo cinema giapponese è indubbiamente (’horror. Liberatosi dai cascami dello splatter, il J-Horror, a partire dai film di Nakata Hideo, Shimizu Takashi, e dei già citati Kurosawa e Miike, si è imposto per la sua capacità di lavorare sul rimosso, sulle colpe che riaf­ fiorano in forme mostruose, su inquietanti atmosfere psicologiche e ambientali in cui vengono ripresi gli stilemi del tradizionale film di fantasmi giapponese, il kaidan eigan («evanescenza», «frammentazio­ ne», «diffuso sentimento di incertezza»”, oltre alla figura chiave del fantasma vendicatore), debitamente aggiornati a un presente segnato da nuove contraddizioni familiari e dominato da diverse forme di comuni­ cazione (l’home video di The Ring, l’internet di Pulse, il cellulare di One Missed Call), tramite cui si afferma «un distopico sguardo sulla società [... dove la] morte, sia simbolica che letterale, è onnipresente, 13 11 kaidan riga indica un insieme di film dell’orrore, per lo più ambientati nel l'epoca Eòo (1600-1867) e ispirati a un'ampia tradizione letteraria e teatrale, idealizzati nel corso

degli anni Cinquanta e Sessanta. 0 regista più rappresentativo del kaidan eiga è Nakagawa Nobuo.

M G. Caloiuu, Horror dal Giappone e dai resto dell'Asia. Profondo Rosso. Roma 2005. p. 20.

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come esito finale del progresso tecnologico»35, in perfetta sintonia con le conseguenze psicologiche della grave crisi economica che ha colpito il Giappone degli anni Novanta. Il successo di questi film, prima nei mercati asiatici e poi anche in quelli occidentali, è stato tale da spinge­ re Hollywood a una serie di remake, diretti talvolta dagli stessi registi giapponesi, cui mai si era assistito con tale intensità36. Dopo essersi laureato alla Tokyo University, Nakata entra nel mondo del cinema erotico della Nikkatsu a metà degli anni Ottanta come assi­ stente di Konuma Masaru, cui nel 2001 dedicherà il documentario Sadi­ stic and Masochistic (id.). Dopo aver realizzato alcuni cortometraggi ed episodi televisivi per una serie horror, Nakata si trasferisce a Londra do­ ve ha modo di preparare un documentario su Joseph Losey, che riuscirà a ultimare solo nei 1998. La passione cinefila, già testimoniata dai due documentari, trova conferma nel film di fantasmi Ghost Actress {Joyùrei, 1996), prodotto da Sento Takenori e ambientato sul set di uno studio cinematografico. Sempre grazie a Sento, Nakata è poi coinvolto nel progetto che deciderà la fortuna della sua carriera: l'adattamento del bestseller horror di Suzuki Kóji, Ring (1998), cui farà seguito Ring 2 (Ringu 2, 1999)37. Ring narra la storia dello spirito vendicatore di Sa­ dako, una bambina dai lunghi capelli neri che le coprono il volto, cosi come vuole l'iconografia tradizionale del kaidan, la quale, gettata viva in un pozzo dal padre, diffonde ora il suo contagio mortale attraverso una videocassetta e le sue riproduzioni. A frenare il terribile virus ci proverà una giovane giornalista, madre del piccolo Yoichi, insieme al suo ex marito. Il film è un ottimo esempio di horror suggerito, di atmo­ sfere inquietanti, di apparizioni fugaci e spaventose, la cui modernità ri­ siede, più che in uno stile certamente curato ed efficace ma tutto som­ mato abbastanza convenzionale, nella rappresentazione di una tecnolo­ gia che, attraverso il meccanismo delle riproduzioni della videocassetta ?5 C. Balmain, Japanese Horror Film. Edinburgh University Press, Edimbutgo 2008, p 187

x Le più note versioni americane del J-Hùnur sono: The Ring (Gore Vcrbmski. 2002). The Grudge (Shimizu Takashi, 2004), The Ring TU'o (Nakata Hideo, 2005), The Grudge 2

(Shimizu Takashi, 2006), Pube (Jim Sonzero, 2006).

y’ Oltre ai due film di Nakata Hideo la serie giapponese di Ring comprende anche The

Spimi (Rosen, Ida Jqji, 1998) e Ring 0 - Birthday (Tsuruta Norio, 2000).

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maledetta, dà vita, come scrive Eric White, a una «proliferazione simulacrale in cui contagiosi frammenti di personalità infettano chiunque venga a contatto con loro, trasformandoli in qualcosa di diverso da ciò che erano»-'". Come aggiunge Colette Balmain, «il fatto che l’unico mo­ do di fuggire alla maledizione sia quello di copiare il video e darlo a qualcun altro suggerisce che non c'è modo di sfuggire all’alienazione tecnologica di una società post-moderna e saturata dai media»39. Il successo di Ring e della sua inquietante Sadako costringerà Nakata, al ruolo di maestro del J-horror; e nonostante i suoi tentativi di frequen­ tare altri generi cinematografici, come il melodramma e il thriller, sarà ancora in quest’ambito che realizzerà le sue opere di maggior rilievo. Lo conferma l’adattamento di un altro romanzo di Suzuki. Dark Water (Honogurai mizu no soko kara, 2002): il film, che narra la storia di una ma­ dre che va ad abitare con la figlioletta in un grigio condominio e deve fare i conti con un altro spirito di bambina, Mitsuko, riprende diversi aspetti di Ring, pur abbandonandone il tema tecnologico. In particolare i due film sono accomunati da una certa rappresentazione di quella fran­ tumazione dell'unità familiare oggi assai diffusa in Giappone come al­ trove. Protagonista di entrambi gli intrecci è, infatti, una donna con un figlio in tenera età411, separata dal marito e costretta a mediare fra i pro­ pri impegni sociali e i figli. Entrambe le donne finiscono a volte col tra­ scurarli, e la condizione di abbandono in cui si ritrovano i bambini è echeggiata e rafforzata da quella ben più drammatica cui sono state co­ strette in passato Sadako e Mitsuko, i due piccoli fantasmi vendicativi. Dopo la parentesi hollywoodiana del remake The Ring Two (id., 2005). Nakata toma a lavorare in patria con un ultimo horror, con cui paga il suo tributo al cinema giapponese di fantasmi degli anni Cinquanta e Sessanta: Kaidan (id., 2007) è un film a episodi ambientato nell’epoca Edo, che si caratterizza soprattutto come un’operazione dal sapore filo­ logico che però solo sporadicamente riesce a coinvolgere lo spettatore.

M E White, Case Study: Nukata Hideo s Ringu and Ringu 2, in J McRov (a cura di)»

Japanese Horror Cinema. Edinburgh University Press, Edimburgo 2005. p 45 " Balmain, Japanese Horror Film, cit., p. 175. * Una delle variazioni più significative di Ring, rispetto al romanzo di Suzuki, fu quel­

la di sostituire al protagonista maschile del romanzo uno femminile.

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JI cinema dell ’Estremo Oriente

Allievo dei corsi di Kurosawa alla Film School di Tokyo, Shimizu ha legato il suo lavoro al J-Horror soprattutto con la serie Ju-on: The Grud­ ge, che consta di due film realizzati per il mercato video, entrambi del 2000, di due successive versioni pensate per la normale distribuzione ci­ nematografica (The Grudge, Ju-on, e The Grudge 2, Ju-on 2, entrambi del 2003) e di due remake americani (The Grudge, 2004, e The Grudge 2, 2006). Pensato e strutturato, per certi aspetti come lo era Ring, come un’opera seriale destinata a una serie infinita di variazioni rispetto a una situazione di partenza - i fantasmi vendicativi di madie e figlio che uc­ cidono tutti coloro che entrano nella loro abitazione -, la serie ripropone la stessa inquietante atmosfera dei film di Nakata e la stessa idea di un passato truce (i due avevano subito le violenze del padre) che riaffiora nel presente come una scheggia impazzita, colpendo senza pietà chiun­ que le si avvicini. Girati secondo una struttura narrativa non cronologica ma ondivagante, i film della serie, pur rientrando in quelThorror che de­ nuncia in forme esasperate gli scompensi all’interno della famiglia crea­ ti dalla crisi socio-economica del Giappone degli anni Novanta (il diffon­ dersi del fenomeno della violenza domestica, le incontrollate reazioni al­ la perdita di autorità da parte della figura maschile, lo stato di abbandono in cui versano anziani e bambini), sono soprattutto ottimi esempi di ci­ nema di genere, che nel lento e programmato incedere e nell’accurata messinscena sanno davvero creare nello spettatore un crescente senso d’angosciosa attesa. A differenza di Nakata, la cui opera abbraccia an­ che altri generi, la filmografia di Shimizu si svolge interamente a ridosso del cinema horror, come testimoniano Tomie: Rebirth (id., 2001), terzo e forse più riuscito episodio di un’altra serie cult dell’horror giapponese41, la cui protagonista deve farsi uccidere per poter rinascere dalle proprie membra, Reincarnation (Rinne, 2005), un meta-horror dove gli attori di un film in lavorazione iniziano a comportarsi nella realtà come i terribili personaggi che devono interpretare sul set, e Marehito (td., 2004), inter­ pretato da Tsukamoto Shin'ya, che mette in scena in modi quasi docu­

41 Tratta da un manga di Ito Junji, la serie Tomie, oltre al citato film di Shimizu, com­

prende: Tomie (Oikawa Ataru, 1998), Tomie Replay (Mitsuishi Fujiru, 2000) e Tomie: Fi­ na/ Chapter - Forbidden Fruit ( Tomie: saishùusho - Kindan no kajitsu, Nakahara Toru,

2002).

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mentaristici, con riprese video e movimenti di macchina a mano, la di­ sturbata psicologia e gli impulsi erotici di un cameraman.

9.13

Orizzonti Noir: Hayashi, Ishii Takashi e Sabu

Come testimoniano già alcuni film di Kitano, Miike e Aoyama, un altro genere che ha segnato la stagione del Nuovo cinema giapponese, è il ci­ nema nero. H carattere variegato del neo-noir giapponese può essere esemplificato attraverso il breve esame di tre cineasti: Hayashi Kaizó, Ishii Takashi e Sabu. Di formazione cinefila, Hayashi è un autore squi­ sitamente postmoderno che ha proposto una rilettura (ironica in chiave pop, quanto venata da elementi di nostalgia) del cinema giapponese del passato, e in particolare del noir. n carattere surreale del suo cinema è evidente già nel suo film d’esordio To Sleep So as to Dream ( Yume miru yòni nemuritai, 1986), che, in bianco e nero e privo di dialoghi, raccon­ ta la storia di due detective alla ricerca di una donna rimasta intrappola­ ta in una pellicola di samurai degli anni Dieci. Stravagante e visionario, il film è un omaggio ai primi anni del cinema giapponese e alla grande stagione dei benshi (i narratori di film muti). Dopo Circus Boys (Nau­ seila shotien, 1989), storia di due fratelli attratti dal mondo del circo, e Zipang (id., 1990), che rilegge in chiave postmoderna la tradizione dei film in costume, Hayashi ritorna al genere che gli è piò congeniale con The Most Terrible Time in My Life (Waga jinsei sayaku no toki, 1994), ambientato nella cosmopolita c multietnica città portuale di Yokohama, che ha per protagonista un ingenuo e volenteroso detective di nome Maiku Hama - ironico omaggio a Spillane - il cui ufficio si trova al­ l'interno di una sala cinematografica. 11 film, di nuovo in bianco e nero, richiama sia il pop-noìr della Nikkatsu degli anni Sessanta, come fra il resto testimonia la presenza di un attore culto del cinema di Suzuki, Jó Shishido, sia la grande stagione del detective film americano, tanto nel­ lo sviluppo dell’intrigo, quanto nell’uso espressionista della luce. 11 suo andamento ironico, con personaggi che ammiccano alla macchina da presa, non va a discapito dello sviluppo drammatico di un intreccio che verte sui rapporti tra immigrazione c malavita organizzata. 11 prevalere

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del gusto un po’ fine a se stesso per l’effetto visivo finirà invece col se­ gnare i due seguiti delle avventure di Maiku Hama, Stairway to the Di­ stant Past (Harakawa jidai no kaidan o, 1994) e The Trap (Hitna, 1996). Di un maggiore spessore drammatico, ma sempre fondato su una di­ mensione visionaria, è The Breath (Umihàzuki, 1996), che ha per prota­ gonista un detective, dai giorni migliori ormai alle spalle (interpretato dallo scrittore e artista underground Kara Jùrò), alla ricerca di un immi­ grato cinese scomparso a Taiwan. Dopo aver tentato senza molto suc­ cesso l’avventura americana, nel nuovo millennio Hayashi si è occupato di cinema in veste di produttore, tornando al suo lavoro di regista con The Code (Za kòdo.Ang, 2008), che, riprende una popolare serie televi­ siva e si avvale ancora una volta della carismatica presenza di Jó. Al noir postmoderno e ironico di Hayashi si affianca l’opera di Ishii Takashi, che, pur in modo assai personale c senza rinunciare a un di­ mensione referenziale, ha assunto fino in fondo la natura drammatica del genere. Formatosi come autore di manga, in particolare della serie Angel Gats (Tenshi no harawata), Ishii entra nel mondo del cinema ne­ gli anni Ottanta, quando la Nikkatsu decide di adattare la serie nell’am­ bito dei suoi Roman Pomo e chiede allo stesso Ishii di scriverne le sce­ neggiature, consentendogli poi di passare alla regia con uno degli ultimi adattamenti. Ma il nome di Ishii comincia a circolare neH’ambiente del cinema e della critica giapponesi col successivo Originai Sin (Shinde mo ii, 1992), un elegante thriller che riprende l’idea della rappresentazione di un personaggio femminile in una situazione estrema, quella dello stu­ pro e delle sue conseguenze, anticipando cosi certi aspetti dei suoi noir a venire: Alone in thè Night ( Yoru ga mata kuru, 1994), ad esempio, è un thriller che ha per protagonista una donna che vuole vendicarsi dell’uo­ mo che l’ha violentata e le ha ucciso il marito; A Night in Nude (Nudo no yoru, 1993) segue le vicissitudini di un personaggio femminile che ha assasinato il suo violento amante: Freeze Me (id., 2000) narra la vi­ cenda di una donna che, dopo aver subito violenza, è costretta a con­ frontarsi nuovamente con coloro che l’hanno stuprata in una lotta senza esclusione di colpi. Il film più apprezzato di Ishii è però tutto al maschi­ le, Gonin (id., 1995), storia di cinque uomini che decidono, non avendo più niente da perdere, di rapinare una banda yakuza, che non tarderà però a identificarli e a mettersi sulle loro tracce. Cupo e pessimista, il

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film è anche ramato ritratto dell’insicurezza e della precarietà della so­ cietà giapponese negli anni della crisi, come testimoniano i suoi prota­ gonisti: un impiegato licenziato dopo vent’anni di lavoro, il proprietario di un chib indebitato con la mafia, un gay che ricatta i suoi ricchi clien­ ti, un ex poliziotto che lavora come buttafuori in un locale di hostess, il fidanzato di una prostituta tailandese. Quello di Gonin è un mondo dove «le opportunità di lavoro non esistono, il suicidio è un’opzione realistica e la violenza è ovunque»4’ Eleganti e stilizzati, i film di Ishii possono creare perplessità per il loro estetizzante indugiare in scene dì violenza, talvolta girate in algidi piani sequenza e con obiettivi grandangolari che alterano la prospettiva, ma non si può non riconoscere all’autore una no­ tevole maestria tecnica ed espressiva. Con l’avvento del nuovo millen­ nio, ishii ha rarefatto la sua attività realizzativa, accantonando il noir e ritornando ai suoi esordi nell'ambito del Roman porno, con i due Flower and Snake (Hana to hebi, 2004 e 2005) e The Brutal Hopeles­ sness of Love (Hito ga hito o ai suru koto no dò shiyò mo nasa, 2007). Una terza via del neo noir giapponese è quella percorsa da Sabu (nome d’arte di Tanaka Hiroyuki). Dopo aver tentato la fortuna come musicista rock, Sabu entra nel cinema in veste di attore, prima di esordire alla regia con Dangan Runner (Dangan ranno, 1996), che dà il via a una serie di commedie nere giocate in modo esasperato sul tema dell’inseguimento. TUtti i primi film di Sab, ciniche commedie d'azione, sono costruiti su coincidenze assurde che provocano catastrofiche reazioni a catena, tra cui i lunghi inseguimenti ispirati in parte al cinema comico degli anni del muto e all’epoca dello slapstick, che spingono l’intreccio lungo direzioni imprevedibili. Disarmati, sprovveduti e destinati al fallimento, i quotidia­ ni «eroi» di Sabu sono travolti da una successione paradossale di eventi che coinvolge e intreccia i destini di diversi personaggi, tutti egualmente incapaci di controllare ciò che accade. Dangan Runner è pressoché tutto costruito sull’inseguimento e la corsa di tre personaggi - un ladruncolo, il cassiere di un supermercato, uno yakuza di basso rango -, e affida a bre­ vi flash back, scene d’immaginazione e frequenti soggettive il compito di caratterizzare i tre sventurati protagonisti. Postman Blues (Posutoman burusu, 1997) ruota intorno a un giovane postino che a causa di una serie di 42 Mes. Sharp, The Midnight Eye Guide (a New Japanese Cinema, cit,, p. 287.

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Il cinema dell 'Estremo Oriente

coincidenze è inconsapevolmente sospettato di far parte di un traffico di droga. Unlucky Monkey (Anrakkt montò, 1998) intreccia, ancora una vol­ ta attraverso il caso, il destino di diversi personaggi, a partire dall’esor­ dio paradossale in cui due malviventi da strapazzo scelgono esattamente lo stesso momento e la stessa maschera per rapinare una banca. Monday (id., 2000), premiato a Berlino, verte sulle vicissitudini di un salaryman che si sveglia in un albergo e scopre di essere assediato da decine di poli­ ziotti: un lungo flash back racconterà gli eventi della notte precedente, quando l’uomo, ubriaco, aveva sterminato un’intera banda yakuza. Drive (id., 2002) ha per protagonista un impiegato che si ritrova a dover far da autista a tre rapinatori alla caccia del complice che è fuggito con la refur­ tiva. Hard Luck Hero (id., 2003) incrocia i destini di tre coppie d’amici fuggiti da un locale di incontri di boxe clandestina, che si ritrovano ad es­ sere inseguiti dalla polizia e dalla yakuza. Hold Up Down (Hòrudo appu daun, 2005), infine, porta all’estremo il gusto paradossale del cinema di Sabu, ancora attraverso uno struttura a inseguimento che coinvolge due maldestri rapinatori, una coppia di poliziotti al limite della corruzione, un vagabondo scambiato per Gesù Cristo e altri insoliti personaggi. Accanto a queste stravaganti e scatenate commedie noir, Sabu ha di­ retto anche film di più evidente spessore drammatico, come The Bles­ sing Bell IKókuku no kane, 2002), che pur senza rinunciare ai suoi per­ sonaggi eccentrici e al gioco delle coincidenze narra di un uomo che ha perso il lavoro nel contesto di una decadente realtà urbana, Dead Run (Shissó, 2005), un complicato intreccio di amore e morte, che coinvolge un gran numero di personaggi tutti contrassegnati da un amaro destino e Kanikósen (id.. 2009), in cui adatta in chiave postmoderna un classico delia letteratura proletaria.

9.14

Dal mondo dell'erotismo: Zeze e «i quattro imperatori»

Ultima fra le grandi cinematografie a insistere ancora su un cinema ero­ tico in pellicola, nonostante il netto predominio della produzione desti­ nata all’home video, il Giappone ha visto molti dei protagonisti della

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stagione del Nuovo cinema degli Novanta e Duemila formarsi proprio nell’ambito della produzione erotica, come tra gli altri possono testimo­ niare i nomi di Kurosawa Kiyoshi, Ishii Takashi, Kobayashi Masahiro, Shiota Akihiko, Suo Masayuki, Ishioka Masato, Izutsu Kazuyuki e Nakahara Shun. Fra i registi che hanno attraversato l'ambito del cinema erotico riuscendo a conquistarsi un posto di rilievo nella produzione mainstream citiamo ancora Hiroki Ryùichi, di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo, Negishi Kichitaró, Mochizuki Rokurò e in particola­ re Zeze Takahisa. Zeze è l’esponente di maggior spicco di quella generazione del cine­ ma erotico, successiva al periodo di Negishi e Mochizuki, che è riuscita a sopravvivere nonostante l’invasione deH’home video e la chiusura del settore Roman Pomo da parte della Nikkatsu. Grazie all’attività della Kokuei, il Pink è rimasto uno dei settori più attivi della produzione in­ dipendente, intesa anche come ambito di ricerca e sperimentazione espressiva, ribadendo il ruolo di palestra d’addestramento per molti gio­ vani cineasti. Nasce cosi, nel corso degli anni Novanta, il cosiddetto gruppo «Shitennò» («I quattro imperatori»), che intorno al «veterano» Satò Hisayasu comprende i nomi di Satò Toshiki, Sano Kazuhiro e lo stesso Zeze: quattro film maker che pur nelle loro contraddizioni e di­ versità hanno testimoniato la volontà di usare il cinema Pink come un modo per esprimere se stessi e la propria visione del mondo e del cine­ ma, insieme a un’esplicita volontà di ricerca e sperimentazione. Zeze è il cineasta che si è conquistato i maggiori riconoscimenti critici nel­ l’ambito di un gruppo apertamente dichiaratosi tale, sapendo di poter cosi attrarre maggiore attenzione (come del resto attestano le retrospet­ tive dedicate ai «Shintennó» dai festival di Rotterdam nel 1997 e di Udi­ ne nel 2002). Dopo essersi laureato all’università di Kyoto e aver girato diversi 8mm, Zeze esordisce nel lungometraggio con Good Luck Japan (Kagai jugyó: bókó, 1989), un film ambientato nei dintorni dell’aero­ porto di Hancda, sul mondo delia mafia taiwanese e delle Japa-yuki (le prostitute provenienti da paesi asiatici, in particolare dalle Filippine e da Taiwan)41. No Mans Land (Waisetsu boxò shùdan, kedamono, 1991), Conte accadrà per molte altre opere del regista, il film è nolo oltre che per il suo tito­

lo di distribuzione anche per quello scelto dallo stesso cineasta in occasione delle sue

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Il cinema dell'Estremo Oriente

che il regista firma come Jean-Luc Zezemusch, a indicare due suoi pun­ ti di riferimento, Godard e Jarmusch, è un film sull’alienazione urbana e sulle difficoltà di comunicazione, intervallato da una serie di notiziari sulla Guerra del golfo. Sceneggiato da Aoyama, il Pink più noto di Zeze è The Dream ofGaruda (Kòkyù sòpu tekunikku 4: Monzetsu higi, 1994), dove l’incontro di un uomo in libertà vigilata con la donna che ha vio­ lentato è punteggiato di sequenze oniriche. Anche se (’horror Kokkuri (Kokkurisan, 1997) introduce il regista nel mondo del cinema mainstream, Zeze non abbandonerà mai il filone erotico, sfumando inoltre i confini tra i due ambiti, come del resto egli stesso riconosce: «Alcuni dei miei film mainstream sembrano i miei Pink, cosi come alcuni dei miei Pink sembrano molto più mainstream di altri»44. Fra i suoi lavori a comunque più esplicito sfondo sessuale vanno citati Dirty Maria (Kegareta Maria: Haitoku no hìhì, 1998), storia del rapporto fra un taxista e la donna che ne ha ucciso la moglie, e Raigyo (Kurai shitagi no orma: Raigyo, 1997), ispirato a un fatto di cronaca nera, su una donna che uc­ cide un uomo in un love-hotel nel corso di un appuntamento al buio. Si tratta di film tristi e brutali che hanno per protagonisti donne e uomini disperati, assai omogenei nell’uso di un paesaggio dalle forti valenze impressionistiche e, sul piano dello stile, contrassegnati dalla presenza di tempi morti, lunghe inquadrature fisse, piani vuoti, ellissi e fuori campo, che registrano in modo minimalista una realtà dove le uniche possibilità di comunicazione sembrano essere quelle del sesso fine a se stesso e della violenza. Più composito ed eterogeneo è Tokyo X Erotica (id., 2001), che sfrutta sino in fondo le potenzialità del digitale nel nar­ rare, in una serie di andirivieni temporali e interrogativi metafisici, la storia di un rapporto sessuale intrecciata a riferimenti alla strage di Tia­ nanmen e all’attacco terroristico del gruppo Aum Shinrikyo.

proiezioni festivaliere (che in questo caso suona nella sua traduzione letterale conic Vai a Haneda e vedrai bambini diventati pirati che aspettano la partenza). * In Mes, Sharp, The Midnight Eye Guide to New Japanese Cinema, cil., p. 305. *■

Il cinema giapponese dagli anni Novanta a oggi

9.15

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Un cinema al femminile

In questi ultimi anni il cinema giapponese ha visto finalmente emerge­ re, per la prima volta nella sua storia, una generazione di cineaste don­ na, i cui lavori vanno cosi ad aggiungersi a quelli, a dire il vero molto diversi, di Kawase Naomi e Fujiwara Kei. Si tratta di un gruppo di regi­ ste nate tutte nella prima metà degli anni Settanta e che ha esordito nel nuovo millennio, le quali, con uno stile misurato e una narrazione di­ screta, si caratterizzano per la sensibilità con cui mettono a nudo diver­ si aspetti e contraddizioni della società giapponese contemporanea: dai rapporti familiari al culto delle apparenze, dai germi di ribellione delle nuove generazioni al desiderio di fuga, dall’affermarsi di nuove e più in­ dipendenti figure femminili al ruolo della sessualità nella vita di tutti i giorni. Nishikawa Miwa, dopo essere stata assistente di Koreeda, esordisce nel 2003 con un film prodotto dal suo mentore, W7W Berries (Hebi ichigo, 2003), sul crollo di una rispettabile famiglia borghese causato dai debiti accumulati dal padre dopo aver perso il posto di lavoro. La cen­ tralità clic nel film assumono il rapporto tra i due figli, la scrupolosa so­ rella e il fratello truffatore, nonché il contrasto fra le apparenze di fac­ ciata e la verità che vi si cela, sono ripresi nei due successivi lungome­ traggi di Nishikawa: Sway (Yureni, 2006), storia del rapporto tra due fratelli legati dalla morte misteriosa di una ragazza, e Dear Doctor (id., 2009), che ha per protagonista un uomo che in una remota provincia del Giappone si finge medico conquistandosi la riconoscenza degli abitanti del luogo, ma non quella delle autorità. Ottimi esempi di racconto mo­ rale, i film di Nishikawa hanno ottenuto diversi riconoscimenti in pa­ tria; gli ultimi due sono stati selezionati a Cannes. Dopo aver frequentato i corsi della University of Southern Califor­ nia, Ogigami Naoto è premiata al PiaFF con Yoshino's Barber Shop (Barber Yoshino, 2004), film che ha ottenuto anche una Menzione Spe­ ciale al Festival di Berlino. Ambientato in un idillico villaggio fuori dal tempo che rimane fedele alle tradizioni, tra cui quella del severo taglio di capelli «a scodella» cui sono sottoposti gli alunni delle scuole ele­ mentari, Yoshinos Barber Shop narra dell’arrivo nella comunità di un

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II cinema deli 'Estremo Oriente

bambino proveniente da Tokyo, che non ne vuole sapere di sottoporsi a tale coercizione, inducendo cosi i coetanei a interrogarsi sul rapporto tra la libertà individuale e il rispetto dovuto alla tradizione e al gruppo. La propensione di Ogigami per location esotiche - almeno dal punto di vi­ sta di un cittadino di Tokyo - si ritrova anche nei successivi Kamome Diner (Kamome shokudo, 2006) e Glasses (Megane, 2007): il primo, ambientato in un ristorante giapponese di Helsinki, narra dell’amicizia tra tre donne che lontane da casa scoprono nuovi rapporti di solidarietà; il secondo, che si svolge in un’immaginaria isola vicino a Okinawa, ha per protagonista una donna di città che poco alla volta è catturata da quella celebrazione dell’ozio che gli abitanti dell’isola le insegnano. Tanada Yuki, premiata anche lei al PiaFF nell’edizione del 2001, esordisce al lungometraggio di finzione con Moon and Cherry (Tsuki to cherry^ 2004) che si guadagna subito l’attenzione della critica per il modo spregiudicato c anticonvenzionalc con cui narra le vicende di una giovane e risoluta scrittrice di racconti erotici che sceglie come proprio amante uno studente ancora vergine in grado di alimentare la sua im­ maginazione. L’originalità del suo approccio ai temi della sessualità si ritrova anche nella sceneggiatura di Sakttran (id., 2006), diretto da un’altra regista, Ninagawa Mika, che mette in scena in chiave pop e po­ stmoderna la vita nei distretti del piacere dell’antica Edo (la Tokyo feu­ dale), così come in Ain 't No Tomorrows (Oretachi ni asu w naissu, 2008), che narra con un realismo e una crudezza inusitati la scoperta del sesso da parte di un gruppo di adolescenti. One Million Yen Gir! (Hyakuman-en to nigamushi ontia, 2008), infine, sembra una sorta di rivisitazione in chiave strutturale di Vita di O-llaru donna galante (Saikaku ichidai orina, Mizoguchi Kenji, 1952) nel suo narrare le vicis­ situdini di una ragazza che se ne va di casa e in ogni luogo in cui si tro­ va scopre di essere oggetto di mire sessuali che la costringono a fare i bagagli e mettersi di nuovo per strada.

Il cinema giapponese dagli anni Novanta a oggi

9.16

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Racconti crudeli di gioventù: «enjo kosai», «otaku» e il cinema di Iwai

Anche se si tratta di una tendenza più che di un genere, il cinema giovanilistico (seishun eiga) ha assunto in Giappone una rilevanza maggiore a quella di ogni altro paese. Nato sostanzialmente nella seconda metà de­ gli anni Cinquanta col cinema layàzoku \ * il seishun eiga ha conquistato una dignità artistica coi film dei registi della Nouvelle Vague degli anni Sessanta - si pensi in particolare a Óshima e al suo Racconti crudeli di gioventù (Seisun zankoku mon agata ri, 1960) -, per poi diffondersi nel cinema successivo tanto nell’ambito delle opere d'autore, quanto in quelle del cinema commerciale e di genere, che di fatto non poteva non tener conto dello spostamento verso il basso dell'età media del pubblico cinematografico. A conclusione di questa introduzione al cinema giap­ ponese, soffermiamoci brevemente su due dei filoni principali presenti all’interno del contemporaneo seishun eiga, e su uno dei suoi cineasti più rappresentativi. Partiamo dal primo dei due filoni che, come l’altro, riguarda uno dei problemi più drammatici e dibattuti della società giapponese contempo­ ranea, quello della prostituzione adolescenziale, la cosiddetta enjo kosai (incontro a pagamento). Le ragazze del liceo con le loro obbligate divi­ se da marinarette sono diventate, soprattutto nel «decennio perduto», una vera e propria icona erotica per la generazioni dei quaranta-cin­ quantenni che ne hanno fatto dei feticci, meri oggetti del proprio desi­ derio, come mostra anche il dilagante fenomeno degli hentai, manga e anime a soggetto erotico. In un mondo dominato da un consumo sfrena­ to, dove ogni mezzo è buono per procurarsi denaro, e coscienti del loro potere sessuale, molte adolescenti giapponesi hanno deciso di sfruttare a proprio vantaggio questa situazione prestandosi a forme di prostitu-

45 It faiyàzkH eiga (cinema della tribù del sole) c un'insieme di film prodotti per lo più dalla Nikkatsu nella seconda metà degli anni Cinquanta, che riprendendo il successo dei

romanza di Ishihara Shin tarò, dipinge con una franchezza inusitata per l'epoca le contrad­ dizioni della generazione cresciuta negli anni del dopoguerra. U laiyòzoku aga ebbe una

notevole influenza nei primi film di Oshima.

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// cinema dell'Estremo Oriente

zione part-time. Il fenomeno incrocia così due diverse realtà. Da una parte la frustrazione di una generazione adulta c affetta da rari kon (complesso di Lolita) che cerca nel sesso l’evasione da un mondo fatto di obblighi sempre meno sopportabili, dall’altra l’atteggiamento con­ traddittorio di una giovane generazione che mentre rifiuta i valori con­ solidati attraverso un atteggiamento drammaticamente disinvolto sul piano sessuale, li fa anche propri in quell’asservimento al dio denaro c alla logica del consumismo sfrenato per cui una borsa di Louis Vitton o un I-Phone di ultima generazione valgono bene un’oretta passata in un Love hotel. Dopo il romanzo di Murakami Ryù Love and Pop del 1997, fra i pri­ mi ad affrontare in termini letterari il fenomeno dell’enjo kòsai e delle ko gyaru (studentesse delle superiori), anche il nuovo cinema giappo­ nese ha preso di petto tale realtà in una serie di film di notevole interes­ se, a partire daH’omonimo adattamento del romanzo di Murakami fir­ mato da Anno Hideaki nel 1998, che in imo stile MTV (fatto di inqua­ drature assai brevi, un montaggio frastagliato, continui cambi di pro­ spettiva, immagini grandangolari, splitscreen...) racconta, nella forma di un video-diario, ventiquattr’orc della vita di una diciassettenne. Un carattere più documentario, con ampio uso della macchina da presa a mano, ha invece Bounce Ko gals (Baunsu ko gaurusu, Harada Masato, 1997), che ambientato nel quartiere di Shibuya, si incentra, forse con un po’ troppa indulgenza, sulle vicissitudini di una adolescente che deve recuperare i soldi necessari per il suo viaggio a New York. Come in Bounce. Ko Gals, anche i due protagonisti di Scoutman (id., Ishioka Masato, 2000) arrivano dalla provincia per ritrovarsi nel mondo frenetico del quartiere di Ikebukuro. Il titolo del film allude a quelle fi­ gure, spesso dei chinpira (yakuza di bassa manovalanza), che si aggira­ no in strada per adescare le ragazze e introdurle nel mondo dei video pomografici e degli incontri sessuali a pagamento. Più duro verso i suoi personaggi e più propenso a una cruda documentazione che all’apologo morale di quanto non lo sia Harada, anche Ishioka adotta uno stile qua­ si documentario, fatto di riprese con macchina a mano, ambienti reali e uso limitato di musica d’accompagnamento. Fra burusent shop (negozi feticistici in cui si possono comprare mutandine usate e appena smes­ se), juzoku (bagni pubblici dove è possibile avere incontri a pagamento),

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e chewingum masticati e venduti a vogliosi acquirenti in una cabina te­ lefonica, i due film, pur nelle loro differenze, disegnano un mondo di assoluto degrado e il lato oscuro di una società fondata sul consumismo più esasperato che travolge le generazioni più giovani con l'attiva com­ plicità di quelle precedenti: una realtà di fatto incestuosa, in cui i padri (ottono, c nemmeno tanto metaforicamente, figlie disposte a farsi fottere per possedere frivoli beni di consumo che la stessa generazione dei padri ha fatto creder loro essere irrinunciabili. La centralità che nell’immaginario collettivo ha assunto la figura del­ la shòjo (adolescente di sesso femminile) ha finito in qualche modo col contribuire a gettare ai margini la sua controparte maschile, accentuan­ do il fenomeno, drammatico quanto quello dell’enjo kòsai, degli otaku e degli hikikomori, ove il primo termine indica com’è noto i giovani os­ sessionati da un’unica passione, sposso legata al mondo dei manga, del­ le anime o di internet, che li porta a isolarsi dalla società; mentre il se­ condo definisce quei giovani che esasperano l’isolamento degli otaku senza nemmeno più reggersi su una mania o passione, in un’autorcclusionc del tutto fine a se stessa. Anche gli otaku hanno segnato il mondo del nuovo cinema giapponese come, tra gli altri, testimoniano Focus (id., Isaka Satoshi, 1996), storia di un giovane che trascorre il tempo ascoltando conversazioni via radio; Perfect Blue (id., sia nell’originale versione animata di Kon Satoshi del 1998, sia in quella dal vero firmata da SatòToshiki nel 2002), che narra di una giovane aidoru (dall’inglese idol, giovani celebrità del mondo dello spettacolo) perseguitata da un fan che non vive che per lei; Blister (Burisufa, Suga Tai kan, 2000), vera e propria elegia del collezionismo fine a se stesso; All About Lily Chou Chou (Riti Shushu no subete, Iwai Shunji, 2001), i cui giovani protago­ nisti sono incapaci di esprimersi se non attraverso un computer e nel contesto dell ammirazione * per una pop star; Train Man (Densità otoko, Murakami Masanori, 2005), storia di un otaku goffo c impacciato come tutti i suoi simili, che per conquistare una ragazza ricorre all’aiuto di al­ cuni amici on line che chattando lo consigliano sulle strategie di sedu­ zione. Più recentemente anche il fenomeno degli hikikomori ha fatto i suo ingresso nel cinema, come accade in uno degli esordi più autorevo­ li del 2008, Now 1... (Ima boku ivo) di Chikuma Yasutomo, che come in una sorta di documentario girato con la macchina a spalla segue la vita

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senza speranza di un adolescente (interpretato dal regista) che ha di fat­ to chiuso ogni rapporto col resto del mondo. Il cinema degli otaku e de­ gli hikikomori testimonia, in linea coi tempi, di una disperazione gene­ razionale che, incapace di dirigere la propria rabbia verso l’esterno, la consuma totalmente dentro di sé. Il vasto universo dello seishun eiga non si esaurisce di certo nella mercificazione del corpo dell’en/o kòsai o nel radicale isolamento degli otaku, ma abbraccia il fenomeno della gioventù in tutta la sua comples­ sità: dalle componenti più violente ed esasperate, spesso in chiave grot­ tesca e metaforica, legate a fenomeni come le bande giovanili e il bullismo, a quelle concernenti la sfera delle emozioni, la fragilità dei senti­ menti, le amicizie adolescenziali e le prime trepidazioni sessuali. Un autore fra i più emblematici di quest’ultimo aspetto è certamente Iwai Shunji. Formatosi nell’ambito dei video musicali e del mondo televisi­ vo, Iwai raggiunge presto una certa fama attraverso una serie di origina­ li fiction televisive e di mediometraggi indipendenti spesso dedicati al­ le inquietudini del mondo giovanile, come accade nello spregiudicato Undo (id., 1994), storia della follia di una giovane donna, e in Aprii Story (Shigatsu monogatari, 1998), sulle vicissitudini di una ragazza dell’Hokkaido venuta a vivere a Tokyo. Lo strepitoso successo com­ merciale del già citato Love Letter (1995), quasi una meditazione kieslowskiana sui temi del caso, del ricordo e dell’identità, fa di Iwai un vero e proprio aidoru delle nuove generazioni, e lo spinge a realizzare il suo progetto più ambizioso, Swallowtail Butterfly (Suwaròteiru, 1996) che, ambientato in un’immaginaria Tokyo del futuro, Yentown, racconta le avventure di un gruppo di immigrati clandestini e il loro tentativo di realizzare i propri sogni. Narrato attraverso gli occhi di una adolescente di origini cinesi, il film esibisce lo stretto rapporto del regista con di­ versi aspetti della cultura giovanile, come testimoniano lo stile MTV, fatto di movimenti di macchina a spalla, montaggio rapido ed esibiti in­ terventi digitali, e la presenza di numerose sequenze musicali (la prota­ gonista del film, un’immigrata che tenta la scalata sociale nel mondo della musica pop, è interpretata da una vera cantante, Chara). Accusato a volte di una certa superficialità e di un atteggiamento compiacente nei confronti del mondo giovanile, a Iwai va comunque riconosciuto il me­ rito di non aver mai ceduto alle lusinghe del cinema ben confezionato.

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con la parziale eccezione di Love Letter, ma di aver perseguito con ca­ parbietà una propria idea di cinema fondato su un’eterogeneità di mate­ riali, una molteplicità di stili, un sovrapporsi di narrazioni divaganti, che conferiscono ai suoi film una certa freschezza e originalità. Il rifiuto di appiattirsi alle modalità dominanti, la capacità di descrivere sentimenti senza mai cadere nelle derive del sentimentalismo, è evidente anche nei suoi ultimi lavori, come il già citato Ali About Lily Chou Chou e Hana and Alice (Hana toArisu, 2004), sul trasformarsi dei sentimenti d’ami­ cizia nei delicati anni dell’adolescenza.

CAPfTOLO 10

Ai margini: storie di outsider del nuovo millennio

Il cinema giapponese del nuovo millennio ha dimostrato una notevole vi­ talità nel riuscire a impone una nuova generazione di cineasti che ha sa­ puto più che degnamente proseguire il lavoro di quella degli anni Novan­ ta. Alcuni di questi registi (ad esempio le cineaste donna) li abbiamo già incontrati nel primo capitolo. Vogliamo qui soffermarci su quattro autori che, pur nella loro diversità, ci sembrano bene rappresentare quest’ultima onda del cinema giapponese: Sono Sion, Hiroki Ryùichi, Kobayashi Ma­ sahiro e Yamashita Nobuhiro. Sebbene di età anche considerevolmente di­ versa (Kobayashi e Hiroki sono nati nel 1954, Sono nel 1961 c Yamashita nel 1974), e differenziati per ciò che riguarda lo stile (Sono è un autore barocco e flamboyant, mentre gli altri tre si muovono su un orizzonte mi­ nimalista, più orientato al realismo per Hiroki e Kobayashi, più vicino a una dimensione grottesca per Yamashita), questi quattro cineasti hanno in comune di aver realizzato i loro film più importanti nel corso degli anni Duemila e di aver saputo costruire il variegato ritratto di un mondo fatto di outsider. I loro personaggi si muovono ai margini della società, e sono a tutti gli effetti uno specchio dei recessi e del senso di inquietudine che ha travolto il Giappone dopo quella crisi degli anni Novanta che perdura tut­ tora, con alti e bassi, e che vede il paese impegnato in un difficile tentati­ vo di ridefinire i suoi rapporti con ('Occidente e l’oriente. Dall’infanzia alla gioventù, dall’età adulta alla vecchiaia, i film di questi cineasti, die si muovono tutti al di fuori del cinema mainstream, compongono un ritratto estremamente sfaccettato dell’alienazione del nuovo millennio e delle sue

Ai margini: storie di outsider del nuovo millennio

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conseguenze: ì paradossali suicidi collettivi, gli esasperati conflitti fami * liari e i comportamenti oltraggiosi di Sono, le desolate esistenze femmi * ni li sull’orlo del precipizio c in fuga da se stesse di Hiroki, i lunghi silen­ zi e le ripetizioni ossessive degli emarginati protagonisti di Kobayashi, si­ no agli attoniti, perplessi e a volte anche squallidi antieroi dei film di Ya­ mashita, che sembrano aver definitivamente ceduto all’idiozia del mondo che li circonda pur non riuscendo in alcun modo a fame parte.

10.1

Alla ricerca del paradosso: Sono Sion

Poeta, scrittore, attore e musicista oltre che regista cinematografico, So­ no Sion è certamente una delle personalità più originali e inquiete del pa­ norama culturale giapponese di questi ultimi anni. Avviata precocemente la sua carriera di artista come giovane poeta alla fine degli anni Settanta, nel decennio successivo Sono inizia anche a realizzare film, a partire dail’Smm /am Sion Sono!! (Ore wa Sion Sono da!!, 1985), che è di fatto la ripresa di una lettura delle sue poesie. Due anni più tardi, il cortome­ traggio A Man s Hanamichi (Otoko no hanamichi) ottiene un premio al PiaFF, e grazie al conseguente finanziamento Sono realizza il suo lungometraggio d’esordio Bicycle Sighs (Jitensha toiki, 1990), storia di for­ mazione di due ciclisti poco ortodossi, che viene presentato in diversi fe­ stival intemazionali. Vincitore del Premio speciale della giuria al Tokyo Sundance Festival è The Room (Heya, 1992), proiettato a Berlino e Rot­ terdam, storia di un killer alla ricerca di una stanza in un desolato e tetro distretto di Tokyo. In quello stesso periodo la sua fama di artista bohé­ mien attira l’attenzione di Jean-Jacques Beinex e Jackie Bastide, che lo intervistano e ne usano alcune poesie per il loro documentario Otaku (1994). In questi anni il cinema sembra ancora essere un’attività sussi­ diaria per Sono, limitata per lo più alla realizzazione di cortometraggi di natura sperimentale come 1 Am Keiko But... (Keiko desu kedo, 1997). sulla solitudine di una giovane cameriera, e il suo impegno si dirige so­ prattutto verso altre attività artistiche, come quelle relative al progetto Tokyo GAGAGA, una sorta di performance di strada in cui un gruppo di artisti sedicenti guerriglieri presentano, nei luoghi più frequentati del-

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II cinema dell 'Estremo Oriente

la città, le loro poesie di protesta scritte con inchiostro nero su stendardi e bandiere. Il suo rapporto con il cinema cambia però nei primi anni del nuovo millennio, divenendo l'ambito principale della sua attività e fa­ cendone uno dei cineasti più riconosciuti a livello intemazionale del suo paese, con l’inatteso successo di Suicide Club / Suicide Circle (Jisatsu saakuru, 2002). Girato in sole due settimane, il film prende spunto dal drammatico problema dei suicidi giovanili c si apre con una scena desti­ nata a fame un cult: la morte volontaria di 54 studentesse che, tenendosi per mano, si gettano tutte insieme sotto un treno nella centrale stazione di Shinjuku. Come in una sorta di epidemia, a questo primo suicidio col­ lettivo ne seguono altri, in forme quasi altrettanto spettacolari. 11 film al­ terna a questi «suicidi show» le indagini di una coppia di poliziotti che, a partire da un sito online che predice il realizzarsi di tali macabri eventi, si ritroveranno ad avere a che fare con un mondo a loro piuttosto estraneo, fatto di hacker, messaggi in codice, chat e community. Dopo Into a Dream ( Yume no naka e, 2005), storia di un attore fallito e della sua pau­ ra per le donne, la cui particolarità sta nel raccontare una vicenda onirica secondo modi vicini al cinema véritè con un ampio uso della macchina da presa a spalla e una messinscena realistica. Sono gira una sorta di pre­ quel di Suicide Club'. Noriko i Dinner Table (Noriko no shokutaku, 2005). Attraverso una dimensione surreale e talvolta grottesca che inizia a delinearsi come (’habitat ideale dei suoi intrecci, il film narra della gio­ vane Noriko che, decisa a proseguire gli studi a Tokyo nonostante l’op­ posizione patema, lascia la famiglia e raggiunge la capitale, dove contat­ ta la sua compagna di chai room, Yumiko. Qui scopre che l’amica gesti­ sce un sito dove chiunque può affittare per qualche ora una madre, un fi­ glio, degli amabili nipoti o un’intera famiglia per illudersi di non essere più solo. Impietoso esame di quel tipico tema giapponese che è il disgre­ garsi dell'unità familiare, Noriko's Dinner Table è un'opera più compiu­ ta e organica dei precedenti Film del regista, e sembra indicarne l’ingres­ so nella sua maturità stilistica. La vena surreale di Sono non poteva non spingerlo a incontrare l’uni­ verso del cinema horror, in particolare in quella versione ero-guro (ere­ tico-grottesca) che ha segnato nel suo barocchismo parte della letteratu­ ra (si pensi all’opera di Edogawa Ranpò) e del cinema popolari giappo­ nesi. Nascono così Strange Circus (Kimyò na sàkasu, 2005) e Exte: tìaìr

di margini: storie dì outsider del nuovo millennio

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Extensions (Ekusute, 2007). Il primo, in particolare, è un allucinato viaggio nella psiche di una scrittrice di racconti erotici e nei suoi traumi sessuali dell’infanzia, che, nel suo confondere realtà e fantasia, presente e passato, percorre alcuni luoghi estremi tipici del cinema di Sono, come incesto, pedofilia, transessualità, giungendo a una vera e propria ftantuinazione del concetto di identità. Dopo Hazard (id., 2006), storia delle disavventure di un teppistello giapponese a New York, che mescola azio­ ne, autobiografia e cinéma vérité, Sono realizza quello che è al momen­ to il suo film più ambizioso: Love Exposure (Ai no mukidashi, 2008). Protagonista del film è il giovane Yu, il cui padre, un prete cattolico, pre­ tende da questi la confessione dei suoi peccati quotidiani. Non avendo niente di cui farsi perdonare, Yu decide comunque di accontentare il ge­ nitore, e, per potergli confessare qualcosa, si mette a fotografale, con acrobazie spericolate degne del miglior kung fu, la biancheria intima di tutte le ragazze che incontra per strada. Mentre il padre si innamora di una donna avvenente e volgare, Yu, travestito da Sasori, l’eroina di una serie di popolari prison movies degli anni Settanta, incontra Yoko, che vede come una sorta di Vergine Maria e di cui si innamora perdutamen­ te. Anche qui Sono gioca sul registro dell’eccentrico, nel mettere in sce­ na il disgregarsi di una famiglia che, attraverso le colpe dei padri, produ­ ce nei fatti una generazione quasi costretta ad assumere atteggiamenti provocatori e oltraggiosi nei confronti di un mondo di cui non pud più condividere i peraltro inesistenti valori. Ciò che rende cosi particolari gli outsider di Sono è, nella diversità delle loro scelte, la cosciente assun­ zione di modelli di vita paradossali, eccentrici ed estremi come espres­ sione di un radicale rifiuto dell’esistente. Ancora sui rapporti fra padre e figlio, ma in modi decisamente più pacati che nelle opere precedenti, verte l’ultimo film di Sono: Be Sure to Share (Chanto tsutaeru, 2009).

10.2

Donne sull'orlo di...: Hiroki Ryùichi

A lungo regista di film pink, già a partire dai primi anni Ottanta, Hiroki Ryùichi inizia verso la metà del decennio successivo a girare anche film mainstream, come 800 Tiro Lap Runners (id., 1994) e Midori (Monoga-

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Il cinema dell 'Estrema Oriente

tari kara ashibyòshi yori: Midori, 1996), che si focalizzano sul tema delle emozioni c dei sentimenti adolescenziali, senza ricorrere agli ste­ reotipi dominanti e tramite uno stile rigoroso e originale, fatto di campi lunghi e pregevoli soluzioni di montaggio. Dopo l'ironico e carica tinaie 1 Am an SM Writer (Futei no kisetsu, 2000), tratto da un romanzo del noto scrittore bondage Dan Oniroku, il cui protagonista trae ispirazione per i propri racconti erotici dai tradimenti della moglie e dai minuziosi resoconti che gliene fornisce l’amante della donna, Hiroki realizza i due film che più hanno contribuito a dargli una credibilità autoriale, sia in patria sia all’estero: Tokyo Trash Baby (Tokyo gami onna, 2000) e Vi­ brator (id., 2003). Qui il regista mette in scena due esistenze femminili appartenenti a due diverse generazioni, quella delle ventenni, nel primo, e quella delle trentenni, nel secondo, che vivono un rapporto di aliena­ zione col mondo che le circonda e, «prese fra libertà sessuale e instabi­ lità sociale»1, cercano rifugio nei propri sogni. Tokyo Trash Baby ha per protagonista una giovane e solitaria otaku che passa il tempo a racco­ gliere c collezionare i rifiuti (bottiglie d’acqua di plastica, mozziconi di Marlboro, riviste) di un suo vicino di casa di cui è perdutamente inna­ morata, e con cui riuscirà a trascorrere una notte d'amore prima di ri­ tornare alla propria solitudine. Una struttura analoga governa anche Vi­ brator, che ha per protagonista una donna alla deriva c prigioniera della propria incapacità di esprimersi, la quale incontra un giovane camioni­ sta e trascorre con lui alcuni giorni prima di fare ritomo alla propria so­ litudine. A metà strada fra un road movie e un film da camera - buona parte delle scene è girata all’interno dell'abitacolo del camion - Vibra­ tor è soprattutto la storia di un viaggio attuato come fuga da se stessi e dalla tristezza della propria esistenza. Questi due film, che riducono la presenza di scene erotiche o ne fanno, come accade in Vibrator, mo­ menti tesi soprattutto alla ricerca d’affetto, sono comunque strutturati come un classico roman porno, alla maniera di quelli di Kumashiro Tat­ sumi, nel loro focalizzarsi su un personaggio femminile inquieto, sul suo incontro con un uomo e sul rapporto claustrofobico, ossessivo c

• M. lEfc, A Meeting with Ryuichi Hiroki, «Vertigo», Hl. 4, inverno 2007, p. 9.

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provvisorio che ne consegue2. Aspetti, questi, che si ritrovano anche in quello che è forse il capolavoro di Hiroki dei pnmi anni Duemila, /t‘s Only Talk[Yawarakai seikatsu, 2005), che col suo insistito minimalismo fatto di piccoli episodi di vita solitaria (un pasto a base di rimi eri, la visi­ ta a un tempio, il bucato, il bagno nella sauna ecc.) dipinge il ritratto femminile di una trentenne che soffre di maniacalita depressiva, c del suo incontro con un amico d’infanzia con cui condivide alcuni giorni di calore umano prima dell’inevitabile separazione. L’attenzione del cine­ ma di Hiroki per personaggi femminili che vivono un rapporto di emar­ ginazione nei confronti della realtà è evidente anche in Girlfriend: So­ meone Please Stop the World (Gàrufurendo, 2004), storia dell’amicizia fra una fotografa e la sua modella che, al di là del sottotesto lesbico, pre­ ferisce concentrarsi sui sentimenti delle due protagoniste, attraverso un approccio quasi documentaristico. Più espliciti sul piano sessuale sono invece L’amant (id., 2004), storia di una ragazza che si vende a tre fratel­ li per un anno, quasi un manifesto radicale sul fenomeno dell’en/o kòsai, e M (2006), surreale intreccio sospeso fra realtà e immaginazione di una madre di famiglia che si prostituisce e delle fantasie erotiche che questa suscita nel marito e in un giovane innamorato di lei. Nel suo insieme, l’o­ pera di Hiroki manifesta non solo un’autentica capacità di ritrarre l’alie­ nazione e la solitudine femminile nella società contemporanea (sintoma­ tici a questo riguardo sono gli inizi di molti suoi film, che si concentrano subito sulla dimensione di isolamento delle protagoniste), ma anche una sentita partecipazione verso le sue creature, assunta in termini fortemen­ te drammatici. 1 suoi studi caratteriali ricorrono frequentemente all’uso della macchina a mano, che conferisce a certe scene un tocco documen­ taristico, e a campi lunghi che si protraggono nel tempo, molto più della loro durata convenzionale, per passare poi a piani ravvicinati solo nel momento culminante di un’azione che spesso non è altro che ima con­ versazione. Del resto, più di quanto non facciano altri autori del cinema - lx» stesso I liroki. del resto, che insiste nel dire che la differenza fra i suoi film pink e quelli mainstream è solo una questione di budget e di circostanze produttive, afferma «L-a narrazione più comune nei mici film verte sull1 incontro tra un uomo e una donna. 1 due si

piacciono, si innamorano e fanno del sesso, poi la donna inizia a preoccuparsi: “Forse io

non .. .”?> (in J. Sharp, /ntervreM * with Hirvki Ryuichi, «Midnight Eye», http://www nudnighteye.com/interviews/ryuichLhiroki.shtml).

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Il cinema dell ’Estremo Oriente

giapponese contemporaneo, Hiroki si avvale spesso di primi e primissimi piani per rappresentare le sofferte emozioni e il sentimento di emar­ ginazione delle sue eroine. Questi stessi meccanismi si ritrovano, poi, anche nei film del regista più distanti dal mondo dell'erotismo, di fatto sempre presente nelle opere sin qui citate, come accade in Love on Sun­ day (Koi suru nichiyòbi, 2007), che mette in scena le inquietudini senti­ mentali di quattro adolescenti nel corso di ventiquattro ore filmate come una sorta di reportage, e dell'intenso Your Friends (Kimi no tomodachi, 2008), che verte sull'amicizia di due ragazzine la cui alienazione in rap­ porto alle loro coetanee è dovuta all'bandicap fisico dell'una e alla gra­ ve malattia dell'altra.

10.3

Silenzi e ripetizioni: Kobayashi Masahiro

Strano destino quello di Kobayashi Masahiro: nonostante i suoi film ab­ biamo ottenuto molto credito nei festival cinematografici occidentali, in particolare a Cannes e Locamo, ma anche all'alternativo Tokyo Filmex3, Kobayashi rimane un regista decisamente sottovalutato dalla critica inter­ nazionale che si occupa in modo specifico di cinema giapponese4. Dopo aver tentato la carriera di cantautore e aver sceneggiato alcuni film eroti­ ci, Kobayashi esordisce alla regia con due film indipendenti che testimo­ niano in modo esplicito la sua cultura cinefila: Closing Time (id., 1996) e Kaizokuban Bootleg Film (id., 1999). Il primo, che ha per protagonista un regista che ha smesso di lavorare dopo essere stato abbandonato dalla moglie, è un esplicito omaggio al cinema di Truffaut; il secondo, coi suoi due improbabili protagonisti che si recano ai funerale di una donna con

’ Kaiiokubun Bootleg Film (1999), Man Milking on Snow (2001 ), Koroshi (2000) e Ba­ shing (2005) sono alati tulli presentati a Cannes. I primi due nella sezione «Un certain re­ gard», il terzo in quella «Directors * Fortnight» e 1 * ultimo, infine, in competizione. Bashing

inoltre ha vinto anche U primo premio del Filmex di Tokyo e The Rebirth (2007) quello del Festival di Locamo. 4 È perlomeno strano che il regista non sia menzionalo nelle opere. qui più volte citate,

di Tom Mes e Jasper Sharp (The Midnight Eye Guide lo New Japanese Film) e di Alexan­ der Jacoby M Critical Handbook ofJapanese Him Directors).

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cui entrambi hanno avuto una relazione, è un film sul segno che il cine­ ma di Tarantino ha lasciato nell'immaginario giapponese. Pur nel loro ca­ rattere di divertissement cinefilo, i due film (entrambi in un rigoroso bianco e nero, il colore del cinema) già esibiscono una certa attenzione a personaggi emarginati e segnati in qualche modo da difficili esperienze di vita, insieme alla ricerca di originali soluzioni linguistiche e struttine narrative in piena sintonia con lo spirito della Nouvelle Vague francese (jump cut, espliciti scavalcamenti di campo, sguardi in macchina, flash forward, didascalie, suddivisione dei racconti in capitoli, strutture circo­ lari ecc.). Sono caratteristiche che ritroviamo negli altri noir del regista, sempre molto legati alla tradizione transalpina, come è per l’omaggio a Melville e «agli eroi dei film polizieschi francesi degli anni Cinquanta»5 di Film Noir (Koroshi, 2000), storia di un uomo che perduto il lavoro ne trova uno come killer, e quello all’Alain Delon di Flic Story (id., Jacques Deray, 1975) in Flic (id., 2005), che, in un andamento vagamente lynchiano, ha per protagonista un detective tormentato dalla perdita della moglie mentre indaga sull’omicidio di una ragazza. Spesso ambientati nel profondo nord dell’Hokkaido - si poterebbe pensare a Kobayashi co­ me al cineasta della neve -, i film del regista sono storie di solitudine e assenza, come, ad esempio, testimoniano Man Walking on Snow (Aruku Into, 2001 ) e La coiffeuse (Kanzen-naru shiiku: onna rihatsushi no koi, 2003). 11 primo, che tenta di «reinventare un certo tenore da racconto au­ tunnale che da Ozu a Naruse vanta una serie di notevoli esempi»6, narra del difficile rapporto di un vecchio vedovo con i suoi due figli; il secondo è una storia d'amourfini, solitudine e disperazione che il paesaggio inne­ vato contribuisce ancora una volta sia a esprimere, sia a trascendere. In questi ultimi anni il cinema di Kobayashi sembra essersi fatto più maturo, riuscendo a superare tanto la fase dell’ostentata cinefilia (alcuni perso­ naggi dei suoi primi film parlavano quasi solo di cinema) quanto quella del confronto col cinema di genere (in particolare il noir). Ciò non ha però implicato il passaggio a un cinema mainstream, poiché, al contra­ rio, i suoi film si sono fatti ancora più radicali sia nei contenuti, sia nelle modalità espressive. Si prendano ad esempio Bashing (id., 2005) e The ’ R_ Censi, Koroshi. «Cinefonim», 396, luglio 2000, p. 36.

* O.A. Nazzarù, Aniku-hito, «Cinefonim», 406, luglio 2001. p. 64.

246

li cinema dell 'Estremo Oriente

Rebirth (Ai noyokan, 2Wl\ Il primo, che alla sua proiezione a Cannes divenne un vero e proprio oggetto d’ostracismo da parte della stampa giapponese, è un perfetto esempio di emarginazione sociale e ha per pro­ tagonista una donna duramente vessata da coloro che la circondano per * ché colpevole di essere stata sequestrata durante la sua attività di volon­ tariato in Medio Oriente, e poi liberata grazie a un riscatto pagato dal go * verno giapponese. Il secondo, che verte sul rapporto fra un uomo e una donna legati da una terribile circostanza - il figlio della donna ha ucciso la figlia dell’uomo -, è costruito per quasi tutta la sua durata sull’assenza di dialogo e sulla continua ripetizione di piccoli gesti quotidiani che ne fa un esempio estremo di minimalismo cinematografico seriale: in grado, tuttavia, di coinvolgere davvero lo spettatore, facendogli vivere in prima persona i sentimenti d’angoscia ed emarginazione vissuti dagli stessi pro­ tagonisti del film - la cui afasia diventa quella dell’opera stessa. Fra le ultime opere del regista va ancora almeno ricordato Wakaranai. Where are You! (Wakaranai, 2009), storia di un sedicenne che vive in uno stato di indigenza e non sa come affrontare le spese del funerale della madre.

10.4

Lo sguardo attonito: Yamashita Nobuhiro

Laureatosi alla Osaka University of Arts, Yamashita, una delle realtà più folgoranti delle generazione del Duemila, ha portato sullo schermo lo smarrimento di una generazione conseguente alla crisi economica degli anni Novanta, raccontando in Hazy Life (Donten seikatsu, 1999) le vicis­ situdini di due doppiatori di film pomo amatoriali, l’uno «provvisoria­ mente disoccupato» e l’altro con un ciuffo alla Leningrad Cowboy; in No One sArk (Baku no hakobune, 2002) i tentativi di una giovane coppia di sbarcare il lunario vendendo un’improponibile bevanda della salute; e in Ramblers (Riarizumu noyado, 2003) il vago peregrinare in campagna di una coppia di sedicenti cineasti. Lo stringente humour, il carattere sar­ donico, la presenza di giovani ingenui, patetici e dal disarmante squallo­ re di questi film si accompagna a uno stile minimalista, fatto di lunghe inquadrature e riprese statiche che spesso mostrano personaggi immobi­ li. silenziosi e attoniti. Sulla scia del miglior cinema di Kaurismaki e dei

Ai margini: storie di outsider del nuovo millennio

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fratelli Cohen, ma anche di un certo Kitano, Yamashita rappresenta realtà drammatiche e spesso disperate in modi quasi comici, con distanza e. nel contempo, partecipazione. Come lo stesso Yamashita ha dichiarato, «so * no le persone differenti dalla norma che mi interessano, e in particolare quelle che non si rendono conto di essere differenti (...]. Mi piace fare film su persone che attraversano la vita con passo lento, ed è per questo che scelgo uno stile visivo semplice, adatto a mostrarli»7. Caratteristiche, queste, che si ritrovano tutte nel suo maggiore suc­ cesso, Linda, Linda, Linda (id., 2005), che prende il titolo da un pezzo storico del punk giapponese. 11 film si fonda su un intreccio mainstream (un gruppo rock femminile che poco prima della sua esibizione in una festa scolastica è costretto a sostituire la cantante principale con una stralunata studentessa coreana, la straordinaria Bae Doo-na) per svuo­ tarlo di ogni componente spettacolare c insistere invece in modo mini­ malista su una rappresentazione dell’adolescenza come momento fatto soprattutto di provvisorietà, confusione e alienazione. Esemplari a que­ sto riguardo sono i dialoghi, spezzati, pieni di silenzio, di verità implici­ te c imbarazzi (anche grazie alle gag verbali create dalla coreana Bae Doo-na, spesso in difficoltà col giapponese delle sue amiche e dei com­ pagni di scuola - anche quando uno di questi decide di dichiararle il suo amore, nella scena forse più riuscita del film). Lo sguardo freddo ma anche partecipe che Yamashita getta sul suo universo insieme alla pre­ senza di personaggi che sembrano non conoscere le istruzioni di vita del mondo cui appartengono, sono evidenti anche in The Matsugane Potshot Affair (Matsugane ransha jiken, 2006), che, con sorprendenti cambi di tono, racconta la storia di due fratelli gemelli, uno poliziotto e l’altro mezzo delinquente, e di una coppia di improvvisati criminali che incrocia le loro vite, dipingendo con ironia un mondo di emarginati sul baratro della follia. Più convenzionale, almeno in superficie, A Gentle Breeze in the Village (Tennen kokekkó, 2007), una delicata commedia d’amore adolescenziale, la cui protagonista, pur nella sua complessiva ordinarietà, presenta una dimensione stralunata, ingenua e attonita che in più di un aspetto ricorda i precedenti personaggi del regista 7T. Mes, Interview with Nobuhiro Yamaxhita. «Midnight Hyc», http7/www midnighteye.com/in terviewM/nobiihiru_yimiiuihi ta. shtml

Capitolo 11

1 nuovi samurai

11.1

Decadenza e «rinascita» di un genere

Per più di sessantanni «cinema giapponese per eccellenza», iìjidaigeki [dramma storico] ha segnato la storia del cinema nipponico sino al dissolversi dello studio system avvenuto nel corso degli anni Settanta. Proibito dagli americani durante l’occupazione del paese dopo la Se­ conda guerra mondiale perché, non del tutto a torto, considerato un ci­ nema portatore dei valori tradizionali della cultura feudale, e di conse­ guenza poco adatto al processo di democratizzazione del paese, il jidaigeki si è imposto sia nell’ambito della produzione di genere - per lungo tempo su due film prodotti in Giappone uno era un film in co­ stume - sia in quella d’autore. Nel corso della sua storia il jidaigeki ha conosciuto tante anime: da quella epica a quella nichilista, da quella quotidiana a quella crepuscolare, da quella anti-feduale a quella segna­ ta dalle riletture del Nuovo cinema degli anni Sessanta, sino ad assu­ mere anche, recentemente, una dimensione postmoderna. Si è conta­ minato con altri generi - sia occidentali, il western, sia orientali, il wuxiapian hongkonghese li ha influenzati e ne è stato influenzato. Dopo aver fondato, nella sua versione classica, una mitologia legata al­ la cultura del bushidò (via del guerriero) c ai temi dell’«essere per la morte», del culto della spada intesa come anima del samurai, del senso del dovere, della fedeltà al proprio signore, della morte volontaria at­ traverso il rituale del seppuku, c aver poi rimesso in discussione questi valori a uno a uno nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, il genere non è riuscito a sopravvivere alla generale crisi del cinema giapponese

/ nuovi samurai

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degli anni Settanta, cosi come all’inevitabile mutamento dei gusti del pubblico, spinto da nuove sollecitazioni. Se il genere tenta di adattarsi al dinamismo dei tempi - con scarsi risultati, salvo alcune importanti eccezioni - assorbendo gli eccessi spettacolari e a effetto del wuxia­ pian hongkonghese, di Tatto viene soppiantato dai film yakuza. Vistisi ridotti gli sbocchi sul mercato cinematografico, il jidaigeki emigra sul piccolo schermo, dove continua a sopravvivere. Gli anni Ottanta e No­ vanta sono probabilmente i più bui del genere, ma, proprio alla fine del decennio, il successo del film di Óshima Nagisa, Tabù - Gohatto (Gohatto, 1999), spinge altri registi di primo piano a ritornare al jidai­ geki. Un veterano come Yamada Y5ji dirige ben tre film, Tìvilight Sa­ murai (Tasogare Seibei, 2002), premio Oscar per il miglior film stra­ niero, The Hidden Biade (Kakushiken oni no tsume, 2004) e Love and Honor (Bushi no ichibun, 2006), tratti dalle opere letterarie di Fujisawa Shùhei, uno dei più sensibili interpreti della figura del samurai umile e dimesso; e Kitano Takeshi, l’alfiere del Nuovo cinema giapponese, ri­ propone la sua algida lettura di una delle figure cardine della storia del genere, Zatoichi. Ai due si aggiungono diversi registi dell’ultima gene­ razione: dall’lshi Ségo di Gojoe, una originale rivisitazione «elettrica» di uno dei miti dell'epica samuraica, al Miike Takashi del nichilistico Zzo, che porta alle estreme conseguenze l’«attualizzazione» del genere abbattendo ogni confine fra presente e passato; sino al Koreeda Hi­ rokazu di Hana, che propone una sorta di apologia del samurai «inet­ to» nell’uso della spada, che alla morte preferisce la vita. Nell'ambito di un cinema più esplicitamente giovanilistico, in cui le contaminazio­ ni del genere si estendono sino all’universo del videogame, ecco poi veri e propri blockbuster come i due Azumi (id., Kitamura Ryùhei, 2003, e Kaneko Shùsuke, 2005) e, in misura minore, il dittico di Naka­ no Hiroyuki (Samurai Fiction, Samurai Fiction: Episode One, 1998, e Red Shadow, Red Shadow: Akakage, 2001) e lo Shinobi: Heart Under Biade (Shinobi, 2005) di Shimoyama Ten. A questi film e al modo in cui il cinema jidaigeki si coniuga all'universo postmoderno del nuovo millennio sono dedicate le pagine che seguono.

250 11.2

// cinema dell 'Estremo Oriente

La spada e il desiderio: «Tabù - Gohatto»

Ambientato a Kyoto nel 1865, Tabù - Gohatto rievoca uno dei periodi della storia del Giappone cui più volte il jidaigeki ha fatto ricorso: il Bakumatsu. Sono gli anni della fine dello shogunato che vanno dal 1853, quando le navi americane del commodoro Perry imposero al pae­ se l’apertura dei porti ponendo fine a un periodo di oltre due secoli di totale isolamento dal resto del mondo, al 1868, quando, dando avvio al­ l’era Meiji, il potere ritorna aH’imperatore e il Giappone inizia il suo processo di modernizzazione. È un periodo assai turbolento, in cui di­

versi e potenti clan scendono in campo contro lo Shogun accusato di aver svenduto il paese ai «barbari» occidentali, e si fanno fautori della restaurazione del potere imperiale. Per porre riparo alla difficile situa­ zione in cui era venuto a trovarsi, lo shogunato diede vita a un corpo mi­ litare, lo Shinsengumi, che, stanziato nella capitale Kyoto, aveva il com­ pito di proteggere lo shògun e sedare ogni sommossa. Fondato nel mar­ zo del 1863, lo Shinsengumi contava su duecento uomini, provenienti per lo più da famiglie di commercianti, contadini benestanti e samurai di basso rango. Gohatto si svolge tra la primavera del 1865 e quella dell’anno suc­ cessivo, narrandoci una storia che si ambienta nel mondo dello Shin­ sengumi. A una prima e immediata lettura, il film rompe con la tradi­ zione del jidaigeki introducendo c dando rilievo al tema dell’omoses­ sualità nel mondo dei bushi (i guerrieri). Come lo stesso Òshima ebbe modo di dichiarare, «prima non si osava evocare questa omosessualità, latente o reale, a causa di una sorta di autocensura. A mio avviso non si può comprendere il mondo dei samurai senza mostrare questa fonda­ mentale componente omosessuale»1. Sarebbe tuttavia riduttivo pensare al rapporto tra il film di Òshima e la tradizione del jidaigeki solo in relazione al tema dell'omosessualità. Un altro aspetto di rottura del film risiede, infatti, nella negazione del­ l’antinomia eroe-antieroe attraverso raffermarsi della figura del non­ 1 M. Tiìssier, Entretien Nagisa Oshima. L'odem de la mori. «Positif». 471. maggio

2(100, p. 9.

/ nuovi samurai

251

eroe. Schematizzando un po', potremmo contrapporre un modello clas­ sico a uno moderno che, al di là delle periodizzazioni storiche (c’è già del moderno negli anni Venti, e c’è ancora del classico all'inizio del nuovo millennio), vede contrapporsi alla figura del samurai-eroe che rappresenta i valori del bushidò (il codice del guerriero) quella del sa­ murai-antieroe, che invece in tah valori non crede più. Sia l’eroe (più) classico, sia Fanti-eroe (più) moderno sono comunque figure caratteriz­ zate in senso eroico, tanto sul piano morale, per i nobili sentimenti che in entrambi i casi li muovono, quanto sul piano fisico, per la comune abilità nell'uso della spada. In Gohatto non c’è alcun personaggio che possa in qualche modo assurgere a questa statura eroica: né sul piano morale, né su quello fisico. Kanó, il giovane guerriero che sta al centro dell'intreccio c intorno a cui ruotano le pulsioni omosessuali del film, è a tutti gli effetti un protagonista non-eroe. Anche se gli va riconosciuta una certa abilità nell'uso della spada, Kanó non sembra però mosso da un autentico istinto guerriero: nel corso degli addestramenti si lascia sconfiggere da Tashiro, il giovane di lui innamorato, e non si impegna contro Inoue, uno dei leader dello Shinsengumi. Altrettanto incerto è il suo comportamento nei combattimenti veri e propri, in cui gli accade di avere la peggio, come nello scontro con il samurai degli Higo: prima si ferisce saltando in un fosso, poi cade ripetutamente sotto gli assalti del rivale, e, infine, colpito in mezzo agli occhi, mena colpi all’impazzata, ed è di fatto salvato solo dall’arrivo dei suoi uomini. Diverso è l’esito dello scontro finale, quello con Tashiro, ma solo perché Kanó riesce a uccidere il suo rivale grazie a ciò che gli sussurra in un orecchio - traen­ do cosi presumibilmente partito dai sentimenti che quest’ultimo prova nei suoi confronti - quando pare destinato ad avere la peggio: parole che noi spettatori non possiamo udire, ma che sembrano sorprendere Tashiro per un istante sufficiente a colpirlo e ucciderlo. Come accade per la spada2, anche sul piano morale l'integrità di Kanó è perlomeno assai discutibile. Più volte nel film qualcuno si in-

' Peggio di lui però c Inoue che, pur essendo uno dei quattro capi dello Shinsengumi, è considerato come spadaccino un «vero disastro» (senza peraltro che tale grave mancanza

sia sopperita da altre particolari qualità): fatto, questo, piuttosto insolito nelPambito della

tradizione deijtcfaigeki.

252

lì cinema deli 'Estremo Oriente

terroga sul perché il figlio di una facoltosa famiglia di commercianti si sia unito alla milizia dello ShinsengumP: interrogato a riguardo Kanò risponde una prima volta con un «un sorriso enigmatico»4, una seconda dicendo che è stato «l’odore del sangue» e una terza che è per avere «il diritto di uccidere». Che Kanò col suo aspetto androgino, che lo avvicina alle note figure del bishòjo/bishònen (gli asessuati protagonisti di numerosi manga e anime giapponesi7), sia stato spinto ad arruolarsi dal fascino «dell’odore del sangue» e dal «diritto di uc­ cidere», è già implicito nel modo in cui, con freddezza e determina­ zione mozza il capo di un samurai condannato a morte perché reo di essersi fatto prestare del denaro. Collocata al l’inizio del film, la scena suscita lo stupore indignato di Hijikata (uno dei leader dello Shinscngumi), che commenta il comportamento di Kanò dicendo che quello del ragazzo è «qualcosa di diverso dal coraggio», e che non deve es­ sere la prima volta che il giovane uccide un uomo. Ma, soprattutto, la scena pone le premesse del momento in cui Kanò, dopo un solo breve momento di esitazione, accetta di uccidere Tashiro «con un sorriso che si espande sul viso assumendo un’espressione impietosa»6, rive­ landosi così, alla fine, per quel che davvero è: un uomo senza pietà, che non esita a uccidere colui che lo ama, né a sfruttare questo amore per portare a termine il suo compito7. Né eroe, né anti-eroe, Kanò non appare altro che un mostruoso non-eroe: degno protagonista di un film del tutto privo di eroi, il cui tratto imperante è l’ambiguità che accomuna molti dei suoi personaggi e permea la sua stessa narrazio­ ne, fatta di allusioni, incertezze ed eventi collocati in ellissi e nel fuo­ ri campo . * ' Secondo Silver «nel contesto storico dei film, quello del Bakumatsu, il problema del-

Fonentamenlo sessuale di Kano è meno importante del perché il Tiglio di una ricca fami­

glia di mercanti si sarebbe unito a una milizia reazionaria» (A. Silver, The Samurai Film, exp. and rev. edition, The Overlook Press, New York 2005, p. 244). 1 N Òsti ima, Tobott. Scénario bilingue. Ed. Cahiers du cinèrea. Parigi 2000, p. 13. 5 6

Cfr. H. Nkmjret, Tabou. Dé.rirs et potwoir, «rositi!». 471. maggio 2000, p. 7. ÒSHIMA, Tabou cif., p. 63

' È forse proprio la consapevolezza della mostruosità di Kanò che spingerà Okita a uc­ ciderlo nell'epilogo del Film. ’ Dal punto di vista del mister)', ad esempio, il film non stabilisce affatto chi abbia uc­

ciso Yuzawa o attentato alla vita di Yamazaki. Altrettanto clamoroso è il modo in cut è rap-

/ nuovi samurai

253

In quella «comunità chiusa, regolata da un codice d’onore inflessibi­ le, da freddi rituali, da ferree regole»’ che è lo Shinsengumi, l’ingresso del giovane Kanò, oggetto del desiderio di molti, potrebbe portare a una esplosione del sistema, a una deflagrazione dei suoi equilibri consoli­ dati. Ma non è questo ciò che accade: Kanò provoca sì inquietudini e

tensioni (e addirittura tre morti, sebbene gerarchicamente irrilevanti), ma proprio per questo viene espulso prima di poter portare a un’effetti­ va distruzione del sistema. Alla fine, la vittoria del potere costituito è assoluta, e niente sembra più poterla mettere in discussione. Ed è forse proprio questa rigida impermeabilità, questo continuo riaffermarsi di una tradizione incapace di accettare il cambiamento - quello, ad esem­ pio, rappresentato da Tashiro, che mette in discussione la rigidità del co­ dice samuraico riguardo al dovere di seguire il destino del proprio si­ gnore anche nella morte - a preludere alla fine di una classe troppo le­ gata a un passato che non ha più senso di esistere, e che di fatto, con l'a­ pertura del paese all’occidente, è già stata superata dalla storia. 1

11.3

Storie di umiltà: Fujisawa Shùhei e Yamada Yòji

Autore di più di 50 volumi, Fujisawa Shùhei (1927-1997) è, con i suoi 23 milioni di copie vendute, uno fra i più popolari scrittori giapponesi di romanzi storici del secolo appena trascorso. Il cinema si è accorto di lui tardivamente, solo all’inizio del nuovo millennio, in particolare grazie al lavoro di Yamada Yòji e della sua trilogia formata da Twilight Samurai, The Hidden Blade e Love and Honor, cui va aggiunto il film di Kurotsuchi Mitsuo Chorus of Cicadas (Semishigure, 2005). Le narrazioni di

presentata la relazione fra Kanò e Ikshiro che Gohatto non esplicita mai. ma si (unita a supporne attraverso le parole della voce narrante di I lijikata e quelle delie didascalie, sen­ za però che tali affermazioni siano mai concretate attraverso le immagini {che addirittura,

a volte, sembrano contraddirle, come nella scena in cui Tashiro si infila iiel./h/0" di Kanò e questi lo accoglie puntandogli un coltello alla gola) Fòrtemente ambiguo è dei resto, come già detto, il finale del Him, che occulta tanto le decisive parole pronunciate da Kanò a Ta­

shiro, quanto la presumibile morte dello stesso Kanò per mezzo della spada di Okita.

M A. Termenini, Gohufto. «Cinefonim», 396, luglio 2000, p. 28,

254

Il cinema dell'Estremo Oriente

Fujisawa sono spesso ambientate nei turbolenti ultimi anni dello shogunato, i suoi racconti, poco inclini alla modernità, traboccano di senti­ mento, e i suoi samurai, anche se maestri nell’uso della spada, sono pre­ sentati innanzitutto come semplici esseri umani alle prese con i problemi della vita quotidiana. Nell’adattarc i racconti di Fujisawa, Yamada ne ripropone fedelmen­ te le atmosfere. Più che attivo nonostante i suoi settantacinquc anni, il regista ha segnato la storia del cinema popolare giapponese con la ce­ leberrima serie di Tora-san (quarantotto titoli tra 1969 e il 1995). In tutti i suoi film, Yamada ripropone quel mélange di lacrime e sorrisi che è stato a lungo il marchio di fabbrica della Shóchiku, il cosiddetto «Ofùna-cho» (lo spirito di Òfuna, dal nome degli studi della stessa casa di produzione). Era quasi inevitabile che il creatore di Tora-san, l’ama­ bile vagabondo del Giappone degli anni Settanta e Ottanta - emargina­ to da una società fondata sui miti dei lavoro e del successo, eppure in pace con se stesso perché convinto di aver seguito la sua strada - in­ contrasse l’universo poetico di Fujisawa e dei suoi umili samurai, con­ sapevoli in qualche modo del declino della propria classe sociale e da essa emarginati. 1 film di Yamada e Kurotsuchi tratti da Fujisawa fanno propria la lo­ gica del doppio intreccio111, unendo una storia più o meno d’azione a una di sentimenti amorosi. Nel!'accentuare la quotidianità e l’umanità dei personaggi, i film dedicano ampio spazio alle loro tormentate vi­ cende sentimentali, che assumono sempre toni melodrammatici. In Twilight Samurai, il samurai Seibei ama da sempre Tomoe, che tutta­ via è andata in sposa a un altro uomo che la maltratta. Quando final­ mente la donna ritorna libera dai suoi vincoli, Seibei è restio a pren­ derla con sé, consapevole di non poterle assicurare gli agi cui ella è abituata; e quando infine si decide a farlo, la donna è già stata pro­ messa in sposa a un altro. Solamente dopo un drammatico duello, che lo vede vincitore, Seibei potrà finalmente coronare il suo desiderio,

10

David Bordwell considera la presenza di un secondo intreccio di carattere sentimen­

tale come un elemento costitutivo del cinema classico hollywoodiano (D Bordwhli. J.

SrtiUER, K. Thompson, The Classica! Hollywood Cinema. Film, Style und Mode of Pro-

dacfion to I960, Routledge, Londra 1985, p. 16).

I nuovi samurai

255

anche se per un breve perìodo perché, come informa la voce narrante della figlia, tre anni dopo morirà in battaglia. In Hidden Biade, il sa­ murai Katagiri è legato a Kie, una ragazza adottata dalla sua famiglia in giovanissima età. Dopo averla ripresa dall’uomo cui l’aveva ceduta in moglie e che la maltratta, Katagiri, che non può sposare la ragazza perché i suoi obblighi di classe gli impediscono di unirsi a una donna comune, è costretto a chiederle di tornare dai suoi genitori. Solo dopo essersi deciso ad abbandonare il suo stato di samurai, l’uomo potrà fi­ nalmente unirsi alla donna. In Love and Honor, Shinnojo Mimura pri­ ma caccia la moglie orfana, rea di aver venduto il proprio corpo a un potente samurai che avrebbe dovuto intercedere in favore del marito, poi, dopo aver ucciso il rivale, può finalmente ricongiungersi alla sua compagna. L'universo dei sentimenti nei film tratti da Fujisawa Shùhei non si li* mita all’amore fra uomo e donna, ma riguarda anche l’intera dimensio­ ne familiare. Quest’aspetto è particolarmente evidente in Twilight Sa­ murai, dove la vita di Seibei, padre e vedovo, è colmata dall'affetto del­ le figlie. Sono numerose le scene che mostrano la famiglia riunita, al­ l’insegna dell’idea che anche nella povertà non debba venir meno l’a­ more. Quando per la prima volta Tomoe viene a far loro visita, Seibei e le figlie la circondano, dando subito vita a un’immagine che prelude al­ la successiva costituzione di una famiglia. La quotidianità dei samurai di Fujisawa implica la rappresentazione di altre sfere della loro esistenza, come quelle relative alle difficoltà economiche. Gli eroi dimessi di Fujisawa sono quasi sempre samurai poveri: nei racconti di Bamboo Sword il narratore non manca mai di menzionare le misere entrate in koku" dei diversi protagonisti. 11 Seibei di Twilight Samurai, guadagnando appena 50 koku di riso l'anno, è co­ stretto a lavorare anche di notte per poter mantenere le figlie e la ma­ dre, e pagare i debiti contratti per le cure e il funerale della moglie. Si scoprirà, alla fine del film, che ha anche venduto la sua spada per adem-

11

II koku è un'unità di misura corrispondente a circa 180 litri di riso, la quantità ritcniP

ta necessaria al mantenimento annuale di una persona. Nell'epoca Tokugawa i samurai al­ le dipendenze di un determinato feudo venivano pagati in koku.

256

il cinema dell'Estremo Oriente

piere ai suoi obblighi di padre12. In Love and Honor, Shinnojo ha uno stipendio di 30 koku, che rischia di perdere insieme al suo lavoro dopo un incidente. In The Hidden Biade la famiglia del protagonista si è vista abbassare il proprio stipendio, dopo il suicido del padre, da 100 a 30 koku annui, tanto da mettere in dubbio la possibilità della figlia di tro­ vare un buon marito. In Twilight Samurai, inoltre, in perfetta sintonia con l’universo di Fujisawa, ampio spazio è dato al lavoro quotidiano del protagonista, al­ la sua attività di magazziniere delle denate alimentari del feudo, ai suoi rapporti coi colleghi, tratteggiati come moderni salarymen: inevitabile segno della lunga pace dell'epoca Tokugawa, che ha di fatto privato i sa­ murai della loro funzione primaria, quella di guerrieri, per trasformarli in semplici impiegati. Sempre in Twilight Samurai, la dimessa quotidianità di Seibei si trova più volte accentuata dalla insistenza sul suo aspetto: il poco denaro gli impedisce di acquistare abiti decenti - di qui i dettagli sulle sue calze logore e bucate -, e le molte preoccupazioni lo spingono a trascurare il proprio aspetto e la pulizia, tanto che in una scena si trova a subire i rimbrotti del principale che lo accusa di puzzare. Anche il protagonista di Hidden Biade è sorpreso mentre, nel corso della commemorazione funebre della madre, tenta maldestramente di nascondere la manica strappata del vecchio e lacero kimono. Passando al piano storico e sociale, va subito notato come i film di cui stiamo trattando si ambientino tutti, come molte delle narrazioni di Fujisawa, negli anni del Bakumatsu, alla fine dell’epoca Tokugawa. Nei film di Yamada i riferimenti alla turbolenza di quegli anni sono eviden­ ti. In "IWlight Samurai, ad esempio, mentre poco distante si svolgono esercitazioni militari con armi da fuoco - prima chiara spia dell'occi­ dentalizzazione del paese -, un amico di Seibei, Inuma, gli descrive la difficile situazione della città di Kyoto, dove sembrano essersi dati ap­ puntamento tutti i delinquenti, nei fiumi galleggiano cadaveri, e dei

12 Quello della spada venduta, e sostituita con una di legno, è un elemento ricorrente nella tradizione del jidaigeki, come possono testimoniare tra gli altri Humanity ami Paper Ballons {Ninjòkami fusen. Yamanaka Sadao, 1937)c Harakiri [Seppuku, Kobayashi Ma­ saki. 1962).

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pazzi «a volte ti aggrediscono con la spada gridando Tenchu»'\ Inuma si lamenta di come il feudo cui appartengono lui e Seibei sembri non rendersi conto di ciò che sta accadendo, e di come i nuovi eventi po­ trebbero spegnere duecentocinquanta anni di shogunato «come una can­ dela al vento». Più virati su un tono da commedia sono i riferimenti al rapporto con l'Occidente in Hidden Biade', a partire dalla caricatura del­ l'istruttore militare, infatuato delle nuove armi da fuoco, per arrivare al­ la comica sfida fra la corsa occidentale e quella giapponese, con l’ine­ vitabile vittoria della prima. Le contraddizioni del periodo si riverberano anche sul piano dei rap­ porti interpersonali: in Hidden Biade dopo che un amico del protagoni­ sta, Hazama, è arrestato per cospirazione contro lo shógun, proprio Ka­ tagiri, per dimostrare la propria innocenza, è costretto ad affrontarlo e ucciderlo. L’epilogo dei duello con Hazama esplicita un altro aspetto chiave della dimensione storica dell’epoca affiorante nei film di Yama­ da: quello, nostalgico, della fine della classe dei samurai. Hazama, in­ fatti, pur ferito da Katagiri, non muore per le ferite infette dalla spada dell’amico, come dovrebbe accadere a un samurai, bensì, ingloriosa­ mente, per i colpi d’arma da fuoco sparati dai soldati. Come già accade­ va ne /sette samurai, la motte di un bushi per mezzo di un’arma da fuo­ co ha spesso una dimensione crepuscolare, e si configura come un'e­ splicita allusione alla fine stessa della classe samuraica: fine storica­ mente decretata con la riforma Meiji, che di fatto la abolì sostituendola con un moderno esercito nazionale. Ambientati, come abbiamo visto, negli anni del Bakumatsu, i film di Yamada tratti dall’opera di Fujisawa sono permeati da un tono crepuscolare. Lo stesso soprannome del pro­ tagonista di 7\vilight Samurai, «Tasobare» («crepuscolo»), è chiaro in­ dizio della fine di un'epoca. H tramonto dei samurai è anche alluso dal­ le malinconiche parole che Seibei rivolge all'amico, dopo che questi gli ha raccontato gli sconvolgimenti di cui è stato testimone nella città di Kyoto: «Allora smetterò di essere samurai, e farò il contadino». Lo stes-

" Il termine Tench u significa «Giustizia divina») ed era usato, in quegli anni, nel mo­ mento deir aggressione di un nemico. Ad esso si riferiscono esplicitamente i film Huokin

(il cui titolo inglese è per T appunto Tenchu, Gosha Hideo. 1969) e ho (Miike Takashi, 2004), che del film di Gosha è un ideale seguito.

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so tenia ritorna nel confronto conclusivo tra Seibei e il samurai che deve uccidere. Zen’emon, sia nelle parole del primo che racconta di aver do­ vuto vendere la spada («Mi dispiacque lasciarla, ma pensai che non era più tempo di spade»), sia in quelle del secondo, che rivela i suoi propo­ siti di fuga, concludendo che ad ogni modo il mondo cambierà c che «l’epoca dei samurai finirà presto». Altrettanto evidente è il tono crepu­ scolare di Hidden Biade, come testimonia la scelta del maestro di spada Toda, e poi dello stesso protagonista, di abbandonare lo stato samuraico per farsi comune cittadino. L’attenzione alla dimensione quotidiana e il tono crepuscolare dei film tratti dall’opera di Fujisawa sembrano differenziarli da quel corpo­ so filone del jidaigeki rappresentato dai chanbara , ** pellicole in costu­ me in cui l’accento è posto sulle scene di combattimento. Non si deve tuttavia credere che Yamada, pur nel suo taglio intimistico, rinunci del tutto ai tradizionali momenti epici e spettacolari del genere, rappresen­ tati dai duelli e dai combattimenti con le spade. Twilight Samurai è scandito da due scene di duello, la prima con Toyòtarò. il marito di To­ moe, e la seconda con Zen’emon, in cui Yamada, secondo una tradizio­ ne espressiva che ha fatto la storia dei combattimenti nel jidaigeki, pre­ ferisce il ricorso al long take all’uso insistito del montaggio; opzione espressiva cui Yamada ricorre anche nella scena del duello fra Katagiri e Hazama in Hidden Biade. In sintonia con la tradizione del jidaigeki è anche l’enfasi posta sulla spada. Considerata «l’anima del samurai», come testualmente dice lo Shinnojo di Love and Honor, la spada è l’oggetto attraverso cui i samu­ rai definiscono se stessi e il loro rapporto con il mondo. La cura con cui Seibei pulisce e affila la propria spada corta la sera prima del duello con Zen’emon, in Twilight samurai, è indice non solo della necessità che questa sia pronta per il combattimento, ma anche del bisogno del prota­ gonista di riscoprire la propria anima di guerriero quando il pericolo si avvicina. 11 fatto che, invece, abbia dovuto vendere quella lunga, oltre a rimandare a classici del genere come Harakiri (Seppuku, Kobaysahi Masaki, 1962), è indizio sia di quanto dura sia stata un’esistenza che lo 14 D termine chanbara è una onomatopea che dovrebbe tradurre foneticamente il rumo­ re di due spade che cozzano furia conilo l’altra («chan than bara bara»).

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ha spinto a separarsi da un oggetto di tale importanza, sia della sua con * sapevolezza circa l’imminenza della fine: «Ero disperato, e ho venduto la spada, che per un samurai vale come l'anima [...]. Mi dispiacque la * sciarla, ma pensai che non era più tempo di spade». Anche in Hidden Biade la spada gioca un ruolo essenziale, in particolare alla luce del tra * dizionale rapporto con lo zen: si pensi alle parole di Katagiri, che di­ chiara di aver estratto raramente la spada, e solo quando era necessario, secondo un comportamento da autentico samurai; o a quelle dei mae­ stro Toda, che spiega a Katagiri come si debbano rilassare sia il corpo che lo spirito quando ci si trova con la spada tesa, perché solo cosi si avrà la meglio suH’awersario.

11.4

II guerriero cieco: lo Zatòichi di Kitano

Formata da ventisei episodi realizzati fra il 1962 e il 1989, la saga di Zatòichi è sicuramente la serie più popolare del Jidaigeki moderno15. Personaggio di pura finzione, Zatòichi è un massaggiatore cieco (anma), abilissimo nell’uso della spada e nel gioco d'azzardo. Prima del film diretto e interpretato da Kitano Takeshi, Zatòichi, il personaggio di Zatòichi è sempre stato interpretato dall’attore Katsu Shintarò mentre alla regia e alla sceneggiatura si sono avvicendati diversi cinea­ sti. Fra i registi la parte del leone, con ben sei direzioni, tra cui quella inaugurale della serie, spetta a Misumi Kenji, fra i più importanti registi del jidaigeki, e a Yasuda Kimiyoshi17. Con tre regie si trovano altri soli-

” Altre celebri serie jiduigtki, ma meno prolifiche, sono quelle di Netnuri KyóshiiH (1963-1969) e di Lone Wólf and Cab (Kozure òkami. 1972-1974), interpretale la prima da

Ichikawa Raizò» e la seconda da Wakayama Tomisaburó.

1,1 Katsu Shintarò ha anche diretto due film della sene Zatòichi: il ventiquattresimo. Zatoichi in Desperation (Shin Zatòichi monogatari creta fsue, 1972) e il ventiseiesimo, Zatòichi ( 1989); a partire dal 1970 ne é stalo anche produttore.

ITI film della serie Zatòichi diretti da Misumi sono il primo, 77rv Life and Opinion of

Masseur Ichi (Zatòichi monogalari^ 1962), l'ottavo. Fighi. Zatòichi. Fight (Zatòichi kesshò

tabi, 1964), il dodicesimo» Zatòichi s Dip tato Hell (Zatòichi jigoku tabi, 1965)» il dicias­

settesimo, Zatòichi Challenged (Zatòichi chikemuri kaidò, 1967), il diciannovesimo, The

Blind Swordsman Samaritan (Zatòichi kettbu daiku, 1968) e il ventunesimo. The Blinds

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di artigiani del film in costume quali Mori Issei [Kazuo], Tanaka Tokuzòe Ikchiro Kazuo . ** Due casi particolari sono invece quelli rappresen­ tati da due autorevoli registi che hanno entrambi firmato un solo episo­ dio della serie: Okamoto Kihachi, fra coloro che con più determinazio­ ne hanno cercato un rinnovamento del cinema di genere alla luce degli insegnamenti del Nuovo cinema'9, e il veterano Yamamoto Satsuo, che già si era cimentato nel jidaigeki ma che è noto soprattutto per le sue produzioni indipendenti, fortemente connotate su un piano politico di denuncia sociale2**. Vanno infine ricordate le due regie dell’attore Katsu Shintarò, cui in tale veste si devono il terzultimo e l’ultimo episodio della serie21. Pur legata indissolubilmente all’attore Katsu Shintaro, la serie 7Mtóichi presenta anche interpreti, solitamente nel ruolo del rivale del protagonista, che hanno profondamente segnato la storia del jidaig-eki del secondo dopoguerra. In particolare, quando con gli anni Settanta la fortuna della serie inizia a declinare, per potenziare il suo richiamo

Stvonlsman Fine Festival (Zatòtchi obline bimotauri, 1970). Su Misumi si può leggere D.

Tomasi. Il cinema nichilista dì Misumt Kenji, «Cinefonim», 312. marzo 1992. pp. 26-32. Un discreto numero di film di Zatoichi diretti da Misumi sono stali distribuiti in DVD an­

che in Italia da Dolmen Home Video. 1 film della sene Zatòichi diretti da Yasuda sono il quinto. Blind swordsman: Zatotchi's Fighting Journey (Zatoichi kenka tabi, 1963), il nono, Adventures of a Blind Man (Zatòichi tekisho yaburi, 1964), il quindicesimo, The Blind

Swordsmans Cane Sword (Zatòichi tekka tabi, 1967), il diciottesimo. The Blind Sword­ sman and the Fugitives (Zatòichi halushijà, 1968), il ventiduesimo. The Blind Swordsman Meets his Equal (Shin Zatoichi yabure! Tojin-ken, 1971) e il venticinquesimo. Zatoichi s Conspiracy (Shin Zatoichi munogatari Kasama no chintatsuri, 1973),

111 film della serie Zatoichi diretti da Mori braci [Kazuo] sono il secondo. The Return

of Masseur Ichi (Zoktt Zatoichi monogatari, 1962). l'undicesimo, Zatoichi and the Doo­ med Man (Zatoichi sakafa giri, 1965) e il ventitreesimo, Zatoichi at Large (Zatoichi goyd

tabi, 1972); quelli di Tanaka Tokuzòsooo il terzo, Masseur Ichi Enters Again (Shin Zatòichi monogatari, 1963). il quarto, Masseur Ichi the Fugitive (Zatóichi kyòjó tabi,

1963) e il tredicesimo. The Blind Swordsman Vengeance (Zatòichi no uta ga kikoeru, 1966); quelli di Ikehiro Kazuo, infine, sono il sesto, Zatoichi and a Chest of Gold (Zatoichi senryòkubi, 1964), il settimo» The SwotdofZatoichi (Zatoichiabaie dako, 1964)

e il quattordicesimo. Zatoichi

Pilgrimage (Zatdichi unti o wafant, 1966).

'M L'episodio della serie Zatòichi diretto da Okamoto Kihachi è Zatoichi Meets Yojtnbo

(Zatoichi to Yojinbò, 1970).

1,1 II film della serie Zatoichi diretto da Yamamoto è The Blind Swordsman's Rescue (Zatòichi ròyaburi, 1967).

Jl Vedi nota 16.

1 nuovi samurai

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commerciale vengono scritturati divi come Mifune Toshirò, Nakadai Tatsuya, Mikuni Rentaro22. e la star del cinema hongkonghese di wuxia­ pian2* e arti marziali Wang “Jimmy” Yu24. Ambientate verso la metà del diciannovesimo secolo, al termine del­ l’epoca Tokugawa, le storie di Zatòichi seguono uno schema relativa­ mente stabile, che prevede l'arrivo del protagonista in un villaggio dove imo o più gruppi di yakuza, spesso con la complicità o la latitanza del potere istituzionale, opprimono una popolazione inerme, di cui il nostro si erge a paladino c difensore. Lo schema vuole anche che, con una cer­ ta frequenza, una donna, geisha, figlia di commercianti o di artigiani, si innamori di Zatòichi, senza però che il suo amore possa realizzarsi. Inoltre, in un considerevole numero di episodi, Zatòichi deve affrontare un rivale che, nonostante si ritrovi per una serie di fattori contingenti dalla parte sbagliata, e cioè quella avversa al protagonista, sia a lui qua­ si pari sul piano dell'intensità morale e dell'abilità nell’uso della spada. La serie Zatòichi appartiene tanto all’universo del jidaigeki quanto a quello del cinema yakuza, non solo perché i clan yakuza sono una pre­ senza inevitabile nei film della serie, ma anche perché lo stesso Zatòichi è, di fatto, uno yakuza, in quanto giocatore d’azzardo25. Molti snodi drammatici dei film di Katsu sono, inoltre, legati a un topos fondante l’immaginario yakuza, quello relativo al debito d'ospitalità che, contratto da Zatòichi nei confronti di chi gli dà da dormire anche per una sola not­ te, lo obbliga poi a ricambiare il favore ricevuto, prendendo le parti del­ l'ospite contro ogni possibile rivale. Oltre a essere uno yakuza, Zatòichi2* è anche un massaggiatore, quindi di fatto uno kinin (una «non-persona»), “ Rispettivamente per Zatòichi Meets Yojinbo (1970), The Blind Swordsman i Fa? Fe­

stival (1970), Zatòichi at Large ( 1972). [ wuxiapian hongkonghesi sano i film di cavalieri erranti i cui protagonisti si caratte­ rizzano per i grandi balzi che compiono nei combattimenti sfidando le leggi della gravità. M Wang «Jrmmy» Yu è noto soprattutto per la sua trilogia One Armed Swondman (Da

bei daot Chang Chch, 1967-69). 11 film da lui interpretato nella sene Zatòichi è il venti­ duesimo, The Blind Swordsman Meets His Equal (Shin Zatòichi: Yaburv! Tòjin ken, 1971)

15 (I senso originale del termine yakuza è quello relativo alla pronuncia giapponese dei numeri «8» (ya) «9» (ku) e «3» (sa), una combinazione perdente deirHanafitda, antico

gioco di carte. Il termine indica così esplìcitamente il legame tra la nascita della yakuza e lo sviluppo del gioco d’a zzai do

26 Letteralmente Zatòichi significa «lobi [che è il nome proprio del personaggio] per­ sona cicca di basso rango».

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I! cinema dell'Estremo Oriente

relegato ai gradini più bassi della gerarchia sociale. Non essendo un sa­ murai, non è legato ai codici del bushidò, ma semplicemente alla propria integrità morale, c a un più generale senso di giustizia. La sua condizione di «fuori casta» lo spinge a stare dalla parte degli oppressi: contadini, pe­ scatori, venditori ambulanti, donne e bambini, con una particolare predi­ lezione per le vedove e gli orfani. Per quanto Zatòichi non sia un samurai, i suoi film sono comunque inscrivibili nell’ambito dei jidaigeki, sia per l’epoca d’ambientazione, sia perché si ritrova spesso a dover contrastare uno o più samurai, spesso dei rònin (samurai erranti che per qualche ra­ gione hanno perso il loro padrone e datore di lavoro, e sono cosi finiti a fare da yòjinbò, guardia del corpo, a qualche capo yakuza), cui è attribui­ to un peso drammatico niente affatto secondario. Uno degli elementi do­ minanti la struttura narrativa della serie é, infatti, la netta progressione verso un climax costituito dal duello fra Zatòichi e tale rivale. Zatòichi è un personaggio fortemente drammatico, che alterna una na­ tura zen capace di stoica sopportazione (nei primi due episodi della serie viene occasionalmente scambiato per un monaco) a una dimensione vio­ lenta che lo spinge a uccidere senza pietà yakuza, ruffiani, burocrati cor­ rotti e malvagi di ogni sorta. Il dolore provato per il sangue ripetutamente sparso dalla sua spada affiora a più riprese: nel terzo episodio della serie, Masseur Ichi Enters Again (Shin Zatòichi monogatari, 1963) il massag­ giatore confessa: «Ho fatto cose che non avrei dovuto fare [...]. Ferito chi non avrei dovuto, ucciso chi non avrei dovuto»; nel quarto, Masseur Ichi, the Fugitive (Zatòichi Kyòjò Tabi, 1963), vuole espiare i suoi peccati visi­ tando ottantotto templi buddisti, uno per ogni sua vittima; nel ventesimo, Zatòichi Meets Yojinbo (Zatòichi To Yojinbo, 1970), dopo essere stato co­ stretto a uccidere un uomo che lo braccava, si ritira in ima capanna sotto la pioggia affermando dolorosamente: «Di nuovo le mie mani si sono macchiate di sangue». Torturato dal suo passato, Zatòichi sembra inelut­ tabilmente condannato all’impossibilità di un autentico riscatto. Nono­ stante questa dimensione drammatica, a tratti tragica, ammanti molti epi­ sodi della serie, gli Zatòichi presentano anche un còte ironico, una sorta di understatement che talvolta sfiora la dimensione della parodia: nel dissa­ crante Zatòichi Meets Yojinbo, ad esempio, si vede il massaggiatore salire dail'estcmo le scale di un palazzo muovendosi come l’omino di un vi­ deogame bidimensionale. Tuttavia questa dimensione ironica, a tratti an-

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che comica, non mina mai la drammaticità degli intenti primari del film27. 11 riferimento al film di Okamoto, Zatòichi Meets Yojinbo, non è affatto casuale, in quanto sia per questo rapporto fra il drammatico e l’ironico, sia per la riproposizione di una situazione narrativa in cui il protagonista arriva in un villaggio dove si scontrano due fazioni diverse, sia, ancora, per la centralità delle scene di chanbara e la loro cruenza, Zatòichi Meets Yojinbo è l’epitome di come l’intera serie trovi il suo imprescindibile mo­ dello ispiratore ne La sfida del samurai (Yojinbò, 1961) di Kurosawa. In un’intervista rilasciata a «Positif», Kitano dichiara di aver accetta­ to la regia di Zatòichi impegnandosi a mantenere gli attributi più tipici del personaggio (un massaggiatore cieco abile nell'uso della spada e nel gioco azzardo), ma di essersi poi affidato, per il resto, alla sua «inventi­ va»2*. Ora, di inventiva lo Zatòichi di Kitano è indubbiamente pieno, a partire dall'inedita chioma bionda sfoggiata dal protagonista fino al­ l'andamento da musical del finale, con l’esibizione danzata del gruppo Stripes che si cimenta in una sorta di tiptap con zoccoli giapponesi su una musica hip-hop. 11 film è del resto perfettamente coerente con l’o­ pera tutta del regista, sia sul piano tematico - si pensi alla figura dell’e­ roe alienato e dell’bandicap - sia su quello stilistico, in particolare in relazione a quella dialettica di staticità e movimento che, insieme all’u­ so delle ellissi e del fuori campo, rappresenta un elemento chiave del ci­ nema di Kitano29. Ciò che tuttavia qui si vuole tentare di definire è il rapporto tra il fihn di Kitano e la serie di Zatòichi, sulla base di elemen­ ti coerenti: tali, in primo luogo, si possono considerare la figura dell'e­ roe alienato, quella del rònin suo rivale, il ruolo delle bande yakuza c dei cittadini vessati, la struttura narrativa, il rapporto fra elementi dram­ matici e comici. Lo Zatòichi dalla chioma bionda di Kitano prosegue certamente, e con coerenza, la tradizione degli croi alienati dei precedenti film del re­ gista. Al di là degli evidenti rimandi all’handicap dei due protagonisti

’’ Silver. The Samurai Film. ctt.. p. 109. M. C1X1ENT, Y. Tohin. Entrehen. Takeshi Kitano. Crèer un tempo, «Posihfw, 513, no­

vembre 2003, p. 8.

79 Si veda a questo proposito la recensione al film di J -C. Ferrari, Zatòichi Une mo­

rule iiu rythme, «Positi!». 513, novembre 2003. pp. 6-7

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Il cinema dell'Estremo Oriente

sordomuti di A Scene at the Sea e all 'Horibe sulla sedia a rotelle di Hana-bi ( 1997), la cecità di Zatòichi sembra un prolungamento drammati­ co dell’afasia di quasi tutti i personaggi interpretati dallo stesso Kitano nei suoi film. L’alienata solitudine di Zatòichi è evidente sin dall’esordio del film, quando lo si sorprende solo, seduto sul ciglio di una strada, assorto in pensieri imperscrutabili, e subito fatto oggetto delle attenzioni di una banda di sgherri che, apparentemente senza ragione, attenta alla sua vi­ ta. Solitamente, nei film della serie, questi frequenti attacchi iniziali erano motivati: si trattava in genere di una vendetta contro lo stesso Zatóichi per sue precedenti uccisioni. Qui, invece, non viene offerta nessu­ na spiegazione: l’estraneità e l'alienazione del protagonista rispetto a un mondo che in ogni caso non lo vuole, o semmai lo vuole morto, si fa così ancora più radicale. La solidarietà che Zatòichi è in grado di ricevere e dare è, come in tut­ to il ciclo, solo quella che si instaura nei confronti dei diseredati, delle vittime del sistema feudale dell'epoca Tokugawa: un’anziana vedova, due orfani la cui famiglia è stata massacrata, un ingenuo giovane vittima del gioco d’azzardo. Ma ai rapporti con questi personaggi è riservato meno calore di quanto non avvenga solitamente negli altri film della se­ rie. Come bene osservano Ciment e Tobin, Zatòichi sembra «profonda­ mente indifferente agli altri, sia che li protegga, sia che li combatta»-14. Lo stesso Kjtano aggiunge come, da questo punto di vista, il suo perso­ naggio sia «molto differente dall'originale, che aveva più simpatia per i personaggi intorno a lui, era più implicato nei loro problemi c si batteva per loro. 11 mio Zatòichi sembra più una macchina per uccidere, estra­ neo all’ambiente che lo circonda»'1. È dunque la maggiore estraneità, c la conseguente minor empatia suscitata nei confronti del pubblico, che differenziano innanzitutto lo Zatòichi di Kitano da quello di Katsu. Ki­ tano, in sostanza, modernizza il rapporto del suo personaggio con lo spettatore, facendo decisamente meno leva sul piano di un (più ingenuo) processo di coinvolgimento. A ciò approda anche attraverso una recita­ zione che, come é tipico detrattore e regista, lavora per sottrazione, ra1,1 CiMEM, ToeiN, Entnfien. Takeshi Kitano. Crèer un tempo, cit., p. 9. " Ibidem.

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refazione e stilizzazione, secondo modelli decisamente contrari a quelli sovraccarichi, enfatici e a tratti gigioneschi che caratterizzavano invece la recitazione di Katsu. La prima tende a tenere a distanza lo spettatore; la seconda invece, coi suoi ammiccamenti, a coinvolgerlo. Nella stessa direzione va un'ulteriore scelta operata da Kitano, quella di eliminare l’altro motivo della serie riguardante il coinvolgimento sen­ timentale di Zatòichi con una giovane donna. L'assenza di una storia d’amore diventa così sia un ulteriore elemento di «raffreddamento» del­ la narrazione, sia un modo per rendere il personaggio ancora più estra­ neo al suo mondo. L’alienazione di Zatòichi è la stessa che si ritrova anche in quel suo ri­ vale d'obbligo che pressoché tutta la serie contrappone, di episodio in epi­ sodio, al protagonista, e che qui prende le vesti di Gennosuke. Rònin dal fato avverso, come vuole la tradizione, Getinosuke, quando è ancora un samurai, è umiliato davanti al suo padrone da un rònin che lo batte a duel­ lo. L’uomo perde cosi il lavoro, e diventa a sua volta un samurai senza pa­ drone; la necessità di mantenere c curare l’amata moglie lo obbliga quin­ di ad accettare l’ignobile lavoro di yòjinbòal servizio di prezzolate bande yakuza. Macchina per uccidere, quanto e forse più dello stesso Zatòichi, egli esegue con freddezza gli omicidi assegnatigli. L’unico barlume di umanità che lo caratterizza è manifestato dalla dedizione con cui accudi­ sce la sua fragile compagna. Gennosuke porta a conclusione la serie di valorosi rivali che Zatòichi trova sul suo cammino in molti episodi della serie. Già nel primo Zatòichi, The Life & Opinion of Masseur Ichi (Zatòichi monogatari, 1962), il massaggiatore si rivolge allo yòjinbò del clan rivale, Hirate, ammalato di tubercolosi, riconoscendo il suo valore: «Credo che un uomo della vostra tempra sia fuori posto in un luogo mise­ rabile come questo». Nel secondo episodio, The Return ofMasseur Ichi (Zoku Zatòichi monogatari, 1962), il protagonista ritornerà sulla tomba di Hirate per rendergli un doveroso omaggio mende la sua strada si incrocerà con quella dì un altro nobile rivale, il monco Nagisa, che Zatòichi batterà a duello per poi nasconderlo e sottrarlo a crudeli rivali. Ancora nel terzo episodio, Masseur Ichi Enters Again, Zatòichi dovrà vedersela con uno yakuza, Kanbei. in cerca di vendetta per il fratello assassinato; ma quando, deciso a non più uccidere come pegno d’amore verso la donna amata, Zatòichi si rifiuterà di levare la spada contro il rivale, questi com-

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prenderà la profondità del suo sentimento e farà in modo di risparmiargli la vita. Ciò che contraddistingue questi tre antagonisti, e come loro altri rivali del protagonista nel corso della serie-'2, è il fatto di vivere momenti di intensa complicità emotiva con lo stesso Zatòichi, di sentirsi in qualche modo simili a lui. Tale complicità, che è innanzitutto etica, viene a man­ care nel film di Kitano: innanzitutto perché l’umanità dei due personaggi è tuffai più implicita, e comunque vistosamente contraddetta dalla faci­ lità con cui entrambi uccidono chi si pone sulla loro strada; e poi perché il film, nelle due occasioni in cui li mette l’uno di fronte all’altro, evita qualsiasi implicazione affettiva. Esemplare è il primo dei due confronti, dove se i due si scoprono uguali è solo perché si riconoscono assassini: a spade incrociate e premute, Gennosuke dice; «Tu non sei un comune massaggiatore», e Zatòichi replica: «Anche tu odori di sangue». Pur presentando elementi di continuità con il resto della saga, sia la figura del protagonista sia quella del suo «nobile» rivale sono contras­ segnate da una maggiore ambiguità morale, che ne fa personaggi privi di quel calore umano cosi diffuso nei film della serie vera e propria. Più vicini, invece, ai ruoli tradizionali sono quelli ricoperti dagli altri due ti­ pici gruppi di personaggi della serie: le bande yakuza e i cittadini iner­ mi. Le bande yakuza dello Zatòichi di Kitano sono, come negli altri film del ciclo, pure incarnazioni del male, di cui il regista ripropone tre aspetti fondamentali: le angherie verso i cittadini comuni, la rivalità fra bande e il rapporto col potere istituzionale. Sin dalle prime sequenze del film, gli yakuza di Ginzósono mostrati vessare i contadini del villaggio pretendendo una tassa quotidiana, anziché la solita a cadenza mensile. Simili vessazioni sono, ad esempio, presenti nel nono episodio della se­ rie, Adventures of a Blind Man (Zatòichi sekisho yaburi, 1964), in cui con la solita arroganza gli yakuza impongono agli artisti ambulanti giunti nel villaggio per la fiera annuale una tassa pari al 40% delle loro entrate. La didascalia che apre il ventunesimo episodio della serie, The

M Nell’ultimo film della serie, lo Zatòichi di Katsu Shintarò si trova, ad esempio, «un

samurai affamato che fa disegni per strada ed è alla fine assoldato dagli yakuza del leajin

che sono alla caccia di Ichi [...], un samurai senza nome, rcmincsccntc di quei simpatetici antagonisti come THirate affetto di tubercolosi o il Nagisa senza un braccio dei primi due

film» (A. Su vm, The Samurai Film, cit.. p. Ili).

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Blind Swordsman s Fire Festival (Zatoichi abare himatsuri, ) 970) pre­ senta una comunità dominata da un fantomatico boss, il Signore delle tenebre, che «impoveriva i contadini con gravose tasse c li spingeva a giocare nei templi trasformati in sale da gioco». Il breve testo introduce un'altra componente fondamentale dello sfruttamento dei clan yakuza nei confronti della popolazione, quello relativo al gioco d’azzardo, cui vengono spinti cittadini e contadini che si ritrovano spesso a perdere tut­ ti i loro beni. Sempre in questo episodio, uno dei più politici della serie, il tema si sviluppa anche attraverso la figura di un samurai che, deciso ad abbandonare la spada, cerca di organizzare i contadini perché possa­ no resistere all’oppressione degli yakuza e alle tentazioni del gioco d’azzardo. Lo Zatoichi di Kitano riprende il tema attraverso la figura del giovane Shinkichi, nipote di Oume (la donna che dà ospitalità al massaggiatore): le preoccupazioni della zia, consapevole che il nipote si sta rovinando nella sala da gioco gestita dagli yakuza, non si tradur­ ranno in realtà solo grazie alfintervento dello stesso Zatòichi. I debiti di gioco regolano anche, nel film di Kitano, gli scontri tra bande rivali: un altro tema fondante della serie che, come abbiamo già visto, la lega alio YÒjinbó di Kurosawa. In una scena del film del 2003, gli uomini di Ginzò irrompono nella casa del rivale Izutsu per dire alla vedova che il marito appena defunto (in realtà ucciso dagli stessi uomi­ ni di Ginzò) aveva contratto forti debiti di gioco, e che ora lei e la sua fa­ miglia non hanno che tre giorni per cedere la casa e l’attività. 11 motivo dello scontro fra clan si fa esplicito nelle riunioni dei boss yakuza, in cui emerge la smania di eliminare le famiglie rivali; o negli aperti attac­ chi armati, come nell’omicidio di Izutsu da parte di Gennosuke o nel­ l'assalto dei Ginzò alla bisca dei rivali. Un ultimo aspetto concernente l’attività della yakuza che Kitano ri­ prende dalla serie è quello relativo al potere economico e politico. Gli yakuza sono, infatti, bande criminali al servizio di potenti commercian­ ti o artigiani, la cui forza è spesso determinata dai rapporti corrotti con le istituzioni. Nel sedicesimo episodio della serie, The Blind Swordsman's Rescue (Zatòichi róyaburi, 1967) il funzionario Suga si fa corrompere dai malfattori locali, e fa loro notare, con una certa acutezza, che la scar­ sità del raccolto arricchirà sia gli yakuza veri c propri, che vedranno riempire ancor di più le sale da gioco di contadini ridotti alla disperazio­

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ne, sia i ricchi commercianti ad essi legati, che potranno comprare per un pugno di monete le terre di contadini ridotti al lastrico. Sebbene non con tale intensità, il tema si ritrova anche nel film di Kitano: gli yakuza di Ginzò non sono altro che il braccio armato del ricco mercante Ogi, che blandisce il governatore locale con doni, banchetti e geisha. Prendiamo ora brevemente in esame come il film di Kitano si rap * porti alla serie Zatòichi sul piano della struttura narrativa e della rela­ zione tra elementi drammatici e comici. Il film del 2003 si apre con una scena in cui l’eroe è assalito da una banda di yakuza, che, in uno scontro all’arma bianca, finiscono inevitabilmente con l’avere la peggio. Seb­ bene le ragioni di quest’attacco rimangano oscure, come abbiamo visto, V incipit si inscrive bene nella tipologia più ricorrente degli inizi dei film del ciclo, che mostrano spesso Zatòichi avere la meglio su un grup­ po di yakuza che lo minacciano. Nel complesso, la struttura del film di Kitano affianca a un intreccio principale, relativo allo scontro fra Zatòichi e una banda yakuza, una serie di intrecci secondari ad esso strettamente legati (la storia di Gennosuke e la moglie Oshino, quella della due geisha Okinu e Osei, quella di Shinsuke c della zia Oume): una proliferazione di sottointrecci anch’essa assai frequente nella serie originale. Si veda ad esempio il primo episodio, The Life and Opinion ofMasseur Ichi, che allo scontro fra Zatòichi e i clan yakuza che domi­ nano il villaggio intreccia le vicende relative al rapporto fra il massag­ giatore e il rònin Hirate, quello fra lo yakuza Tatekichi c la ragazza in­ cinta, c quello fra Otane e il marito violento da cui si è separata. Comu­ ni ancora all’andamento strutturale della serie sono il duello col valoro­ so rivale, e la vittoria di Zatòichi sulla prezzolata banda yakuza. Veniamo adesso all ’equilibrio tra clementi drammatici e comici. Già abbiamo avuto modo di notare come, secondo Silver, molti episodi del­ la serie siano attraversati da un sottotono (undertone) satirico, che non ne mina però la drammaticità: è un aspetto che ritroviamo non solo in Zatòichi, ma nell’intera filmografia di Kitano. Gag, soluzioni ironiche, momenti da commedia sono davvero una costante del suo cinema, che in Zatòichi ritroviamo concentrati in alcune figure: gli yakuza, lo stesso Zatòichi e, soprattutto, Shinsuke. Per quel che riguarda gli yakuza, si potrebbero citare due episodi di assoluta dabbenaggine: quello iniziale in cui uno yakuza, estraendo la spada, ferisce il compagno che gli sta a

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fianco, e quello del servitore di Ogi che, egualmente maldestro, ferisce anche lui a un braccio il suo signore, mentre gli si inchina davanti con la spada in mano. Il massaggiatore cieco, dal canto suo, si lascia andare a qualche battuta sarcastica, come quando risponde - lui cieco - «Per ora sto a guardare» a chi gli chiede, in una bisca, se non ha intenzione di giocare; oppure a qualche gesto comicamente impossibile, come quan­ do con incredibile precisione si lancia un ceppo alle spalle colpendo lo sciocco vicino di casa di Oume, che trascorre giornate intere urlando e correndo in tondo con una lancia in mano, credendosi un guerriero (quasi una parodia del Mifiine de /settesamurai), Shinsuke, infine, ha il ruolo di una vera e propria spalla comica: a partire dalle ripetute se­ quenze in cui cerca invano di imitare Zatòichi nel tentativo di ricono­ scere dal rumore dei dadi la loro combinazione, per arrivare a quella in cui si picca di addestrare un gruppo di ragazzini all'uso della spada, c finisce col prendersi una serie di bastonate in testa, in una scena che è anche una vera e propria lezione di ritmo, c prelude alle danze finali’3.

11.5

II samurai postmoderno: da «Gojoe» a «Izo»

Pioniere, con i suoi film punk dei primi anni Ottanta, della New Wave giapponese del decennio successivo, Ishii Sógo è anche il primo Ira i re­ gisti più autorevoli della nuova generazione a cimentarsi nell'ambito del jidaigeki. Realizzato nel 2000, con un budget notevolmente sopra la media degli standard del regista, Gojoe rappresenta l’esplicito tentativo di adattare alcune caratteristiche del tradizionale film in costume a un'estetica e a una sensibilità tipiche del nuovo millennio. Nei suoi 135 minuti3'’, Gojoe riprende due dei personaggi più cari al mito e alla letteratura popolare giapponesi: Minamoto Yoshitsune e Mu” Una scena in parie simile si ritrova nel già citato Zatòichi meets Yitjothu di Okamoto Kihachi, dove lo stesso 1 chi, arrestato per l’omicidio di un altro massaggiatore, tenta la fu­ ga. ma dopo aver colpito tre dei suoi ovali con un masso avvolto m un fazzoletto finisce

inavvertitamente col colpite anche se stesso. M La versione intemazionale del film, cosa che vale anche per la sua edizione italiana

in Dvd. è stata ridotta a 95 minuti.

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ll cinema dell 'Estremo Oriente

sashibo Benkei. Siamo nel dodicesimo secolo, quando lo scontro fra i potenti casati dei Minamoto (Genji) c dei Taira (Heike) ha sostanzial­ mente posto fine al l'aristocratica epoca Heian e preparato il passaggio dai potere dell’imperatore a quello del governatore militare (Shogun) che, di fatto, reggerà le sorti del paese sino al XIX secolo. Dopo aver sconfitto gli Heike nella battaglia di Dan-no-ura (1185), Yoshitsune do­ vrà vedersela con io scaltro fratello Yoritomo, che, abile uomo di potere, gli darà la caccia per tutto il paese, vedendo in lui una potenziale mi­ naccia al suo desiderio di sovranità assoluta. Descritto come un giovane languido, dal viso pallido e dall’aspetto femmineo, in aperto contrasto con la virilità e la determinazione dimostrate in battaglia, Yoshitsune, come scrive Ivan Morris, è

l'eroe giapponese per eccellenza [...], amato per le sue sventure c la sua di­ sfatta. Un pathos tipicamente giapponese contraddistingue la sua vita; dalla fanciullezza, con i vagabondaggi solitari per le strade suonando il malinco­ nico flauto, fino agli ultimi anni della sua vita di fuggiasco, vittima inno­ cente di uomini più potenti, più realisti e più astuti di lui, abbandonato da tutti tranne che da un manipolo di fuorilegge, c infine tradito e costretto a uccidersi in giovane età". Al suo fianco si staglia la figura del monaco Benkei, un gigante di due metri d'altezza, nato dopo una iperbolica gravidanza di diciotto me­ si, forte come mille uomini e campione di «umorismo, saggezza ed eru­ dizione». Benkei costituisce soprattutto, nell'immaginario giapponese, «un esempio di fedeltà, la cui devozione per il suo signore cresceva via via che la situazione si faceva più disperata»16. Oggetto di leggende, racconti storici, drammi noh, kabuki e bunraku, e di numerosi film come Gli uomini che camminano sulla coda della tigre (Torà no o wo fumu otokotachi, 1945) di Kurosawa, il mito di Yo­ shitsune e Benkei è ripreso con grande libertà da Ishii. Non solo l’auto­ re narra rincontro tra i due, anziché soffermarsi sull’assai più frequen­ tato crepuscolo della vita del giovane principe, ma di questo incontro muta diverse coordinate. La leggenda, infatti, vuole che Benkei pro­ metta di rubare la spada a mille passanti per contribuire alla costruzio" I. Morris, Lo nobiltà delia sconfitta, Guanda, Milano 1983, pp. 108-109.

“/vi. p. 98.

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ne di un tempio. Arrivato a noveccntonovantanove spade e appostatosi vicino al ponte Gojò, Benkei viene sconfìtto proprio da Yoshitsune, che usa come arma un semplice ventaglio. Sedotto dalla personalità del vincitore, Benkei decide di consacrargli la sua esistenza37. Nel film di Ishii, tuttavia, è Yoshitsune (all’epoca chiamato ancora Shanao) che, per vendicare la sconfitta del suo casato e la morte del padre, si nasconde nelle vicinanze del ponte Gojó, travestito da demone e deciso a uccide­ re mille soldati Heike. Dal canto suo, Benkei appare molto più com­ plesso di quanto non voglia la leggenda: è un uomo perseguitato dalle sue colpe, e spinto da una tensione mistica - con tanto di visioni e con­ seguenti stigmate sul petto - a incontrare il «demone» del ponte Gojò. Come del resto ha dichiarato lo stesso Ishii, la leggenda di Yoshitsune e Benkei è stata usata come un semplice spunto cui ispirarsi con notevo­ le libertà3*. La disinvoltura di rifarsi a miti assai noti e liberamente rein­ ventarli - quando non addirittura capovolgerli - è già il primo segno della dimensione postmoderna di Gojoe'. ribadita dal fatto che, come ri­ leva lo stesso cineasta, in un film in costume si vedono inseriti «ele­ menti di fantascienza e di realismo magico»39. Al tentativo di rinnova­ mento del genere e alla sua natura postmoderna contribuisce anche l'u­ so di un accompagnamento musicale che mescola tradizionali sonorità nipponiche a effetti digitali e a «rumori» prodotti da metalli di scarto. Tom Mes e Jasper Sharp considerano Gojoe un film che mette d’ac­ cordo le due diverse anime che sino a quel momento si erano succedute nella produzione di Ishii: «Elementi e temi dai suoi film degli anni No­ vanta - spiritualismo, metafisica, l’uomo come piccola ma essenziale parte del più grande schema cosmico - sono combinati con una risurre­ zione dell’energia senza confini dei suoi film degli anni Ottanta»441. Un

17 Ivi. pp. 108-109. Una ricostruzione della vita di Yoshitsune si può anche trovare in L.V Arena, Samurai. Ascesa e declino di una grande casta dì guerrieri. Mondadori. Mi­

lano 2003, pp. 7-41.

11 T. Mes, J Sharp, The Midnight Eye Guide Iti New Japanese Film, Stone Bridge Press, Berkeley 2004, p. 72. Inoltre Isiui c il suo cosccncggiatore Nakajima (toro immagi­ nano che Benkei e Yoshitsune muoiano bruciati da un fulmine nel corso del duello in cui si

fronteggiano, e che la loro identità venga assunta da un'altra coppia di personaggi. ■’* Ibidem. * Ibidem,

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«sottotesto metafisico e religioso», in cui si confondono elementi mi­ stici e riferimenti al karma41, accompagna, ad esempio, i paralleli con­ fronti fra Benkei e il monaco Asaji da una parte, e fra Yosbitsune e il cappellano dei Minamoto dall’altra. Confronti in cui si parla di visioni, illusioni, stigmate, illuminazioni, stadi superati - la volontà di vendetta - e altri quasi raggiunti - la pace interiore. Anche sul piano visivo il film introduce una forte dimensione metafisica nello stabilire, ad esem­ pio attraverso il montaggio alternato, una sorta di affinità elettiva tra Benkei e Yoshitsune che, pur assai lontani fra loro, avvertono entrambi la presenza dell’altro e sembrano quasi in grado di comunicare col pen­ siero. Ishii accentua questi momenti con spettacolari movimenti di mac­ china circolari sul volto di Benkei intervallati da stacchi su Yoshitsune, cui fa poi seguire una sorta di impossibile «campo e controcampo» dei volti dei due su uno sfondo che ruota a grande velocità. Il carattere mistico di Gojoe non impedisce al film di comprendere numerose scene d'azione: inseguimenti, duelli c battaglie che, sebbene coreografati anche dall’hongkonghese Xiang Zhang-chun insieme a Nakase Hirofumi, più che all’universo privo di gravità del wuxiapian ri­ mandano alla tradizionale «pesantezza» del chanbara. Ricche di effètti gore (teste e braccia mozzate, fiotti di sangue sullo sfondo di un'enor­ me luna, crani in fiamme), queste e altre scene del film si avvalgono di effetti digitali che, come nella sequenza del duello fra Benkei c Yoshit­ sune, producono immagini dal carattere quasi astratto. Insistito è l’uso dei movimenti di macchina a mano, che sembra voler quasi «sporcare» la cura e la dimensione fortemente estetica della fotografia, della sce­ nografia e dei costumi. Il carattere pirotecnico degli effetti speciali, dei movimenti di mac­ china, delle incursioni digitali, non solo sui piano visivo ma anche su quello sonoro, insieme alla rivisitazione dei jidaigeki in chiave mistica e fantastica, e alla libertà con cui Ishii si ispira a una situazione e a perso­ naggi noti e leggendari, fanno di Gojoe un piccolo «classico» postmo­ derno del nuovo jidaigeki. Con toni più leggeri, e nell’ambito di un cinema con caratteristiche

11 J. Sevèon,

cinénui enrcigé au Japan, Sulliver, Parigi 2006, p. 115.

I nuovi samumi

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certamente meno autonali. anche Samurai Fiction potrebbe essere vi­ sto come un esempio di jidaigeki postmoderno, già a partire dal titolo dove la parola «Fiction» dirige l’attenzione più sul livello della rappre­ sentazione che su quello del rappresentato, ed «Episode One» è ironi­ co riferimento a una serialità annunciata prima del suo darsi (e che, di fatto, poi non si darà, dal momento che non c’è traccia dell’esistenza di un «Episode Two»). L'attenzione posta sul piano del «come» della rappresentazione, rispetto a quello del «cosa» del rappresentato, così come la consapevolezza che oggi una storia di samurai non può più es­ sere narrata come un tempo'12, è evidente anche nelle immagini che ac­ compagnano i titoli di testa del film, in cui un combattimento fra due samurai è rappresentato attraverso le ombre nere dei contendenti proiettate su un fondale rosso segmentato come uno shòji (pannelli di carta di riso con intelaiatura a scacchiera di legno): un’immagine in cui il cinema, richiamato da quel suo antenato che sono le ombre ci­ nesi, si fonde con la tradizione del jidaigeki (samurai, spade, shòji). Il dominio della rappresentazione si ritrova anche nella scelta di punteg­ giare i momenti salienti dei diversi combattimenti - o anche di altri eventi nodali del film, come il furto della spada da parte di Kazamatsuri - con immagini che improvvisamente si colorano di rosso, in cui l’effetto cinema ha certamente la meglio sull’elfetto realtà. In questa direzione postmoderna il film è spinto anche da fattori come l’insistito ed enfatico ricorso ad angolazioni e movimenti di macchina partico­ larmente accentuati, e la presenza anomala di una musica rock ovvia­ mente estranea alla tradizione del jidaigeki, ma che, forse proprio per questo, è diventata uno degli elementi di più evidente individuazione del film. Come Gojoe, ma in modi diversi, anche Samurai Fiction «ta­ glia» il genere col ricorso a elementi spuri, e pur narrando una storia sanguinosa di vendette e omicidi, lascia ampio spazio a un tono cari­ caturale che a tratti rimanda alla commedia (l’inevitabile storia d’amo­ re fra Koharu c Heishirò), altre volte al manga (Heishiró che, come un

J'i L’idea di gettare uno sguardo contemporaneo sulla tradizione dei jidaigeki passa, uel

film, anche attraverso l'espediente di una voce narrante ambientala nell'oggi, che con pa­ radossale e postmoderna disinvoltura si presenta allo spettatore dicendo: «Quello sono io

trecento anni fa»

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personaggio da {umetto, perde sangue dal naso quando si trova vicino alla bella Koharu)43, altre ancora alla parodia (la comica suspense «al­ la Hitchcock», costruita attraverso l’uso della musica e dei movimenti di macchina, nella scena in cui la donna yakuza cerca di avvelenare Kazamatsuri). In una combinazione dagli esiti meno felici, Nakano ripropone molti degli elementi di Samurai Fiction in Red Shadow, una storia di giovani nmja - personaggi che a volte tendono a sostituire i samurai nei nuovi jidaigeki - in cui elementi appartenenti alla tradizione del genere, dalla forgiatura della spada alle esternazioni del maestro, e omaggi ai classici del jidaigeki (l’attacco iniziale al samurai solitario è più che una striz­ zatina d’occhio agli incipit di Zatòichi) si mescolano con elementi fan­ tasy (il misterioso metallo del meteorite caduto sulla terra), una struttu­ ra narrativa da videogame (con tanto di missioni numerate in castelli pieni di trappole, trabocchetti e passaggi segreti), gag (come le esercita­ zioni del carro armato «Piroro») e una scrittura che tende all’accentua­ zione discorsiva attraverso enfatici movimenti di macchina, termo foto­ grammi e cambi di colore. Il jidaigeki di maggior successo del nuovo millennio è indubbiamen­ te Azumi (id., Kitamura Ryùhei, 2003), che ha rapidamente dato il via ai seguito Azumi 2 (Azumi 2: Death or Love, Kaneko Shusuke, 2005). Af­ fidati a due dei più validi registi del cinema commerciale giapponese contemporaneo e tratti da un manga di successo di Koyama Yu, i due Azumi si ambientano nei primi anni del XVII secolo, quando il Giappo­ ne, sotto lo shògun leyasu, inizia la cosiddetta epoca Tokugawa, quella del paese unificato sotto un solo signore. La vicenda si incentra su una banda di giovani giustizieri, addestrati sin dall’infanzia per combattere le forze del male che minacciano la pace. Leader di questa banda divie­ ne progressivamente la bella Azumi, e buona parte della trama dei due film si incentra anche sui dilemmi morali della stessa protagonista che si interroga sul senso della propria esistenza (difendere la pace ucciden­ do), riuscendo cosi a dar vita a un'efficace combinazione tra una trama avvincente e piena di azione, e dei personaggi contrassegnati da una ’ ' Nel mondo dei manga La perdita di sangue dal naso da parte di un personaggio è qua­ si sempre connessa ai suo desiderio sessuale.

I nuovi samurai

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certa problematicità e conflittualità interiore. Se i due Azumi eclissano del tutto la tradizionale figura del jidaigeki, il samurai, senza però ri­ nunciare ad alcuni archetipi del genere (si veda, ad esempio, la centra­ lità del rapporto fra maestro e allievo, e il tema dello spirito di gruppo), l’aspetto più rilevante che li caratterizza è il loro evidente legame con quei jidaigeki che nel corso degli anni Settanta - come accadde per la celebre serie Sword of Vengeance / Lone Wolf and Cub (Kozure ókami, 1972-1974) - tentarono il rinnovamento di un genere ormai inesorabil­ mente avviato sulla via del tramonto attraverso un'iniezione di spetta­ colarità proveniente in modo diretto dal wuxiapian hongkonghese. Ma con una differenza essenziale: se il jidaigeki degli anni Settanta nasceva come un cinema di serie B, sia per quei che riguarda il basso budget, sia per quel che concerne il pubblico di riferimento, limitato e marginale, Azumi cerca, con gran dispendio di mezzi, di adattare le asperità di quel cinema alla sensibilità giovanile oggi dominante. Non privi di momenti particolarmente duri e crudeli (come quando, nella parte iniziale, il maestro invita i suoi giovani allievi a uccidere ognuno il suo migliore amico, per testare la capacità di portare a termine la loro terribile mis­ sione), i due Azumi coniugano elementi propri al wuxiapian - i voli acrobatici che sfidano le leggi di gravità, le armi fantasiose, gli impro­ babili, pittoreschi e disumani antagonisti - all’universo del digitale, con improvvise variazioni di costumi e scenografie, alterazioni di passo al­ l’interno di una stessa immagine, rapidi e improvvisi zoom elettronici c spericolati movimenti di macchina digitali. Anche Shinobi: Heart under Biade propone, come Red Shadow, una struttura narrativa da videogame (due gruppi di ninja devono sfidarsi attraverso una selezione dei loro cinque migliori combattenti), destina­ ta però a reggere un universo narrativo che ricorda assai da vicino quel­ lo di Azumi. L'ambientazione, ad esempio, è ancora quella dei primi an­ ni dello shogunato; anche qui due giovani che si amano sono costretti a uccidersi l’un l’altro; la spettacolarità, le acrobazie, le armi e i duelli fantasiosi tipici del wuxiapian si coniugano agli interventi del digitale (un «movimento di macchina» segue il percorso dello «sguardo assas­ sino» di Oboro sino a che esso non spappola il cervello del rivale), che consentono un’ulteriore accentuazione della stravaganza visiva del ge­ nere. A differenza di Azumi, però, qui i ninja, proprio come in Red Sha-

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daw, non occupano più il ruolo di antagonisti, bensì di veri e propri eroi della storia. Come Gojoe che riprende due personaggi leggendari del mito giap­ ponese, come Shinobi e Red Shadow che si rifanno alla frequentata tra­ dizione dei ninja, come Azumi che è l'adattamento di un manga di suc­ cesso, anche I20 affonda le sue radici in un testo precedente, di cui si configura come possibile sequel. Il personaggio di Izo era infatti il pro­ tagonista di uno dei più accreditati chanbana di Gosha Hideo, Tenchu! (Hitokiri, 1969). Ambientato alla fine dell’epoca Tokugawa, poco pri­ ma della restaurazione del potere imperiale, il film di Gosha si incentra su uno yòjinbò (guardia del corpo), izo, che entra nel clan di Hanpeita, gruppo in lotta contro lo shógun a sostegno dell’imperatore. Intuendo la straordinaria forza di Izo, Hanpeita lo sottopone a un duro addestra­ mento per fame uno dei suoi uomini più potenti. 11 film si sviluppa con­ trapponendo la personalità di Hanpeita, l’aristocratico assetato di pote­ re, a quella di Izo, tutto istinto animale, che combatte più che altro per soddisfare i propri incontrollabili impulsi di distruzione. Quando però Izo si rende conto di non essere altro che un burattino nelle mani del suo signore gli si ribella, finendo crocifisso. E proprio con la crocifis­ sione di Izo si apre il film di Miike, che mette in scena una serie di bru­ tali assassini perpetrati dal suo protagonista, che si vendica di tutti colo­ ro che ritiene responsabili della sua fine: ovvero la società intera, in tut­ te le sue diverse componenti. Sotto la sua spada cadranno cosi gover­ nanti, politici, generali, ecclesiastici, giudici, ma anche yakuza, teppi­ sti. impiegati, studenti, genitori e bambini, e persino la propria madre. Più che un personaggio, Izo è l’emblema di una violenza che non si fer­ ma davanti a niente e a nessuno, di una vendetta che non ha altri scopi che soddisfare se stessa, in un vortice senza fine. Esautorato della pro­ pria identità, in quello sradicamento che è tipico dei personaggi di Miike, a Izo è sottratto anche il suo tempo: il film lo proietta in una se­ rie di passaggi continui tra il presente (il Giappone del duemila) e il pas­ sato (il Giappone del Bakumatsu), in una spirale incontrollabile: colpito in un luogo e in un tempo, Izo cade in un altro; interpellato in un deter­ minato spazio e in un preciso momento, Izo risponde altrove; appresta­ tosi a partire per una guerra moderna, Izo si ritrova a combattere ìd mezzo ai samurai. Come nel film di Gosha, anche in questo di Miike

/ nuovi samurai

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l’eroe sembra prendere coscienza del fatto di essere in qualche modo posseduto: e in una scena chiave, la piti astratta del film, spezza con la spada quella strada a forma di «8» in cui è costretto a errare (evidente le metafore nicciane dell’«eterno ritorno» e del «morso del serpente»), per ritrovarsi così dinnanzi al suo «creatore», Hanpeita, e regolare final­ mente i conti con lui. Nell’epilogo del film, tuttavia, Izo tenterà ancora inutilmente di uccidere il giovane imperatore per poi, nelle immagini fi­ nali, rinascere dal ventre di una donna; l'ineluttabilità del ripetersi del tutto sembra così ancora una volta aver la meglio sul libero arbitrio. Con disinvoltura tipicamente postmoderna, Miike rilegge un perso­ naggio chiave della storia del jidaigeki coniugandolo perfettamente alle proprie ossessioni autoriali, realizzando così un film che sfugge alla classica distinzione fra jidaigeki e gendaigeki, attraverso l’uso di una temporalità del tutto imprevedibile. La logica del collage è evidente an­ che nella forte dimensione intertestuale del film, che, ancora una volta con grande libertà, accosta fonti molto diverse fra loro: da Kubrick (ri­ chiamato attraverso i riferimenti nicciani, così come nel tema della sot­ trazione dell'identità e del controllo del proprio lo da parte dell’Altro, nonché nel legame indissolubile tra la violenza e la natura umana; ma si vedano anche la rinascita finale di Izo, alla 2001, o la banda di teppisti con la mazza da baseball, alla Arancia meccanica') fino al cinema hongkonghese di wuxiapian e kung fu (il personaggio del guardiano di colore interpretato dal lottatore Bob «the Beast» Sapp è un evidente omaggio a quell’altro guardiano, anch’esso di colore, interpretato dal cestista Kareem Abdul-Jabbar nel film incompiuto di Bruce Lee L'ulti­ mo combattimento di Chen (Game ofDeath, 1978); esplicitamente deri­ vata dal cinema di Chang Cheh è invece l’immagine di Izo trafitto dalle frecce durante lo scontro col principe imperiale, secondo quell’icono­ grafia alla San Sebastiano tanto cara al regista hongkongese, richiamato stilisticamente anche nell'uso dei violenti zoom in avanti e nelle acro­ bazie dello stesso Izo). Fra Kubrick e Hong Kong c’è poi il jidaigeki giapponese, e non solo attraverso l’evidente legame col già citato film di Gosha. In Izo e nella sua furia emarginata, destinata alla più inelutta­ bile delle perdizioni, sta infatti tutto il samurai nichilista che fece gran­ de il film storico giapponese degli anni Venti, evocalo anche da un com­ battimento ripreso attraverso «immagini graffiate» come di una vecchia

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pellicola; le inquadrature del protagonista circondato dagli uomini della polizia con le loro lanterne accese rinviano alle frequenti e simili imma­ gini dei film di Ito Daisuke; il samurai col largo cappello di paglia che su un ponte ferma l’eroe dicendogli «Non ho niente contro di te, ma de­ vo fare il mio dovere» sembra uscito da un mafatabi-mono (film di yakuza erranti) di KatòTai; la dedizione con cui Saya segue Izo, nella parte finale della storia, rimanda al rapporto tra la fedele Otsu e Miya­ moto Musashi, la più celebre figura dell’immaginario samuraico, porta­ ta più volte sullo schermo, tra gli altri, da Inagaki Hiroshi (Samurai 1-3, Miyamoto Musashi, 1954-56). La dimensione intertestuale del film è, per concludere, evidenziata anche dagli evidenti riferimenti al teatro tra­ dizionale giapponese (come nel noh, il protagonista della storia è un fantasma venuto dal passato per cercare vendetta; come nel kabuki, il personaggio interpretato da Uchida Yuya rimane immobile per qualche secondo dopo aver sferrato il colpo decisivo, secondo una tecnica di re­ citazione tipica di quel teatro) e dall’uso insistito di materiali di reperto­ rio, composti da immagini che vanno dalla tragedia di Hiroshima alle pescatici di perle, da Hitler ai cacciabombardieri americani, da un in­ contro di baseball a un matsuri (tipica festa di piazza giapponese), dal generale McArthur a un match di boxe, da giovani donne in marcia con la maschera antigas a Mussolini.

11.6

La vendetta dell’attore: «Hana»

Autore fra i più rigorosi del Nuovo cinema giapponese, e particolar­ mente attento a un efficace equilibrio fra dramma e documentario, fra psicologie individuali e rappresentazione oggettiva, anche Koreeda Hi­ rokazu si è cimentato nel jidaigeki col suo Hana. Nel raccontare la sto­ ria di un samurai, Sòza, che disattende al compito di vendicare la morte del padre, Koreeda inscrive il suo film nell’ambito di quei jidaigeki che privilegiano l’attenzione alla dimensione quotidiana. La rappresenta­ zione dolccamara della vita ordinaria in un fatiscente sobborgo alla pe­ riferia di una grande città rinvia poi a classici sia del cinema giappone­ se come Dodeskaden (Dòdes'kaden, Kurosawa Akira, 1970), sia di

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quello occidentale come Miracolo a Milano (Vittorio De Sica, 1951). Ma, almeno da una certa prospettiva, il rapporto più stretto che il film instaura con il cinema jidaigeki è quello con la coeva trilogia di Yamada Yòji, ispirata all'opera dello scrittore Fujisawa Shùhei. Come nei film di Yamada, anche in questo di Koreeda l’epica samuraica si stempera in una minuta attenzione all’universo dei sentimenti individuali e ai pic­ coli fatti della vita di tutti i giorni: niente più granitici eroi, bensì «sa­ murai comuni» alle prese con problemi ordinari. Su questa via, però, Koreeda si spinge ancora oltre lungo la strada già intrapresa da Yamada, e, prima di lui, da altri maestri del genere come Yamanaka Sadao e Ita­ mi Mansaku. A differenza del regista di TMIight Samurai, Koreeda da una parte ammorbidisce le asprezze del genere insinuando una buona dose di gag e di elementi da commedia, e dall'altra fa del suo eroe un «samurai debole», la cui spada suscita forse più timore quando è a ri­ poso, infilata nella cintura del kimono, che non quando viene estratta contro un avversario. La dimensione da commedia di Hana è già evidente nell’incipit del film, dove i mugugni e i brontolìi degli abitanti del sobborgo che si al­ zano per andare a lavorare è una divertita rimessa in discussione del mi­ to dell’efTicienza nipponica; come lo sono anche i fusuma della camera del protagonista, le porte scorrevoli che non scorrono e si inceppano di continuo. Alla commedia appartengono anche personaggi come lo scroccone Sadashirò (che, con la scusa di aver finalmente individuato l’uomo di cui Sòza deve vendicarsi, si fa più volte offrire da lui una cop­ pa di saké o un bagno nell’o/uro pubblico) e Magosaburò. lo «scemo del villaggio», che presidia senza sosta l'unico gabinetto del sobborgo per raccogliere quelle feci umane che è convinto possano aiutare a rendere più gustosi i dolci di riso. Lo stesso protagonista, poi, subisce in più di una circostanza un trattamento di tipo comico e basso-mimetico , ** come quando, nel momento in cui decide finalmente di portare a compimento la sua vendetta, raccoglie tra le mani un po’ di terra per gettarla negli occhi del rivale Jubci c scopre che ha invece afferrato dello sterco, o quando, nella stessa sequenza, per nascondersi all’arrivo deli’antagoni* Sulla nozione di basso-mimetico vedi N. Fkye. Anatomia deila critico, Einaudi. To­ *■ rino 1969, p 46.

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// cinema deli ‘Estremo Oriente

sta finisce col ruzzolare a terra. Questi ultimi esempi, che ironizzano sul tema della vendetta, chiariscono bene come il tono da commedia del film sia strettamente legato al motivo del samurai debole e umiliato. Esemplare, a questo riguardo, è la scena in cui Sóza viene costretto da Sodekichi. uno degli abitanti del sobborgo, a battersi con una spada di legno, finendo non solo sconfitto, ma anche gettato dentro il famoso ga­ binetto; ed è forse ancora più umiliante per il protagonista la scena in cui il fratello esplode di rabbia, accusandolo di essere incapace di ven­ dicare il padre e negandogli anche il diritto di pregare sulla tomba del genitore. L’amico Sadashirò, poi, che più volte allude alla scarsa capa­ cità di Sòza di battersi con la spada, cerca di trovare un modo con cui questi possa vendicarsi senza mettere a repentaglio la sua vita, e infine tenta di consolare l’amico dicendogli che in fin dei conti la vendetta è ormai una cosa fuori moda (efficace segno della fine dell’epica samuraica). Anche gli altri sfaccendati abitanti del sobborgo hanno più volte a che ridire sul comportamento di Sòza, come ad esempio fanno a ri­ guardo della scuola che questi ha aperto per insegnare a scrivere e a far di conto («Se proprio deve insegnare qualcosa, dovrebbe insegnare l’ar­ te della spada»). Anche nella recita cui Sòza prende parte, interpretando il ruolo del samurai, il suo personaggio finisce emblematicamente col fuggire davanti all'imprevisto arrivo di tre brutti ceffi: nella finzione, come nella realtà, Sòza non sfugge al suo destino. Hana assume su di sé il tema classico della vendetta per rovesciarlo nel suo contrario: la storia di Sòza, infatti, è quella di un personaggio che passa da un iniziale senso di frustrazione c impotenza per l’incapa­ cità di esaudire quel desiderio di rivalsa espressogli dal pache sul letto di morte alla consapevolezza che la logica dell’«occhio per occhio, dente per dente» non può che innescare una spirale infinita di eventi tragici. Nel processo di crescita del giovane Sòza giocano un ruolo importante diversi fattori, fra cui la scoperta che Jubei, l’uomo che gli ha ucciso il padre, unitosi a una donna ora incinta e al suo figlioletto, Kenbò, è di­ venuto adesso a sua volta un buon padre di famiglia, e che ucciderlo non significherebbe altro che fare del piccolo Kenbò un ennesimo giu­ stiziere. Così quando Sòza, dopo aver immaginato di vendicarsi, si reca ancora da Jubei, anziché estrarre la spada, lo invita a mandare il figlio a studiare nella scuola che egli stesso ha aperto e gestisce: cosa che pun­

/ nuovi samurai

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tualmente accadrà nella scena conclusiva, a suggellare la vittoria dell'e­ ducazione e della crescita sulla sete di vendetta e distruzione. Un samurai inetto nell’uso della spada, che preferisce insegnare a scrivere e far di conto anziché a maneggiare la katana e che rinuncia al­ la vendetta senza nemmeno riparare alla propria colpa con il seppuku: ambientato nei primi anni del Settecento, in piena epoca Tokugawa, quando il paese unito vive un periodo di pace, Hana si inscrive a pieno titolo in quell’ampio insieme di film che mettono in scena la fine del­ l’epoca samuraica, una fine di cui Sóza è epitome evidente. Più che attraverso soluzioni stilistiche e narrative, la modernità di Hana va colta, in stretta correlazione con la rilettura della figura del sa­ murai insita nel personaggio di Sóza, su un piano metatestuale: da una parte tramite gli ironici riferimenti al mito dei 47 rònin, dall’altra attra­ verso il gioco delle messinscene intradiegetiche. Quella dei 47 rimiri è la leggenda principe della mitologia samuraica: è la storia dei 47 valorosi guerrieri che nel 1701, dopo l’ingiusta condanna a morte - o meglio al seppuku - del loro signore, si danno a una vita clandestina e spesso dis­ soluta per sviare ogni sospetto sui loro reali propositi, attendendo invece il momento opportuno per attaccare di sorpresa il responsabile della morte del loro padrone. Compiuta finalmente la vendetta, potranno uc­ cidersi uno per uno secondo il rituale del seppuku. La vicenda dei 47 ronin, che conta centinaia di adattamenti teatrali e altrettanti cinemato­ grafici45, i emblematica del radicamento dei miti della fedeltà e della vendetta nella cultura giapponese. Koreeda la ripropone nell'anibito di un film che rovescia invece il culto della vendetta e mette in discussione il fatto che la fedeltà - in Hana alla propria famiglia - debba per forza passare attraverso l’odio e la violenza. Nello stesso sobborgo in cui al­ loggia Sóza si trovano nascosti alcuni dei 47 rònin, in attesa che final­ mente sia comunicato loro che il momento della vendetta è giunto. So­ spettosi, i rònin diffidano di Sóza e temono che possa essere li per spia­ re le loro azioni. Decidono cosi di affidare a uno di loro, Kichiemon, il

4- Fra i maggiori registi che si sono cimentati con la leggenda dei 47 amiti ricordiamo

Makino Shòzó (1912), Kinugasa Teinosukc ( 1932). ito Daisuke (1934), Makino Masahiro (1938), Yamamoto Kajiró(1939), Mizoguchi Kenji (1941), Inagaki Hiroshi (1962), Fuka­ saku Kinji ( 1994), Ichikawa Kon ( 1994).

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II cinema del! 'Estremo Oriente

compito di verificarne le intenzioni. Tra Sòza e Kichiemon nasce però un sentimento di amicizia: e sarà proprio Kichiemon, alla fine, a rinun­ ciare a unirsi all’impresa di vendetta collettiva per poter tornare a casa dal figlio e insegnargli qualcosa di diverso dall’odio. Alla sua personale rilettura del mito dei 47 rònin, Koreeda aggiunge un ulteriore viaggio nella dimensione dell’immaginario attraverso la presenza, nel film, di due diverse messinscene intradiegetiche. Della prima, lo spettacolo organizzato nel corso della festa in cui Sòza scappa davanti a tre uomini armati, ribadendo così anche sul piano della finzio­ ne la sua debolezza, si è già detto; la seconda messinscena, dal carattere decisamente diverso, è, invece, quella che sostanzialmente chiude il film. Sòdekichi, Magosaburò, Hirano c gli altri abitanti del sobborgo, per trovare il denaro necessario a evitare che il loro terreno sia venduto, decidono di mettere in scena una falsa vendetta e fingere che Sòza abbia davvero vendicato il padre e ucciso Jubei: cosa che permetterà loro di incassare una taglia in denaro. Grazie anche all’abile performance di Osae e del piccolo Shinbò, che si fingono moglie e figlio del falso mor­ to, giurando solennemente vendetta, la recita ottiene i suoi risultati e tutto finisce per il meglio: odio e vendetta, e con essi l’epica samuraica, non hanno più diritto di cittadinanza che nei reami della finzione e dell’immaginario.

Capitolo 12

Tracce della memoria: il cinema di Koreeda Hirokazu

Mio nonno incominciò a soffrire di demenza senile quando avevo sei anni. La parola Alzheimer non esisteva ancora e nessuno tra i miei parenti e colo­ ro che ci conoscevano riusciva a capire cosa gli stesse succedendo. [...] Po­ co a poco incominciò a smarrirsi nel corso delle sue passeggiate, si che spesso tornava a casa accompagnato dalla polizia. Un giorno incominciò a non riconoscere i nostri volti e, alla fine, non riconosceva neanche se stesso. Riuscivo a comprendere ben poco di quanto accadeva ma ricordo che inco­ minciai a pensare che la gente dimenticava ogni cosa quando moriva1.

Queste dichiarazioni attraverso le quali Koreeda Hirokazu spiega la ge­ nesi di After Life (Wandafuru Raifu, 1998), il suo secondo lungometrag­ gio, fissano il nucleo di tematiche che ne caratterizzano la poetica. La memoria, la morte, il confronto tra le generazioni, il bisogno di contatto tra gli esseri umani statuiscono, infatti, il campo di tensioni tematico che attraversa ogni sua opera. Artista poliedrico, capace di coniugare l’attività nel campo del documentario televisivo con quella di regista di lungometraggi a soggetto, Koreeda può essere considerato oggi uno tra i cineasti più appartati ed eccentrici della cinematografia nipponica (in­ sieme a Naomi Kawase, Kitano Takeshi) in virtù di un percorso autoriale divergente rispetto a quello dei colleghi più noti della sua generazio­ ne (Kurosawa Kiyoshi, Tsukamoto Shinya, Nakata Hideo, Ishii Sogo) e

1 Dal pressbook di After Life.

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Il cinema dell'Estremo Oriente

più concorde con quello dei grandi maestri del passato, da Ozu a Naru­ se da Gosho a Yamanaka. Nasce a Tokyo nel 1962 e qui frequenta la facoltà di letteratura presso l’università di Waseda dove si laurea nel 1987 all’età di 25 anni. Al desi­ derio di diventare scrittore ben presto si sostituisce l'interesse per il ci­ nema che coltiva fuori dai circuiti ufficiali, optando per un percorso pro­ fessionale presso la TV Man Union, network molto attivo nell’ambito del documentario, e una volta assunto inizia a occuparsi di diversi pro­ getti di documentazione. I suoi punti di riferimento saranno in questi an­ ni Ogawa Shinsuke e Tsuchimoto Noriaki, due autori indipendenti tra i più innovativi della stagione della Nuberu Bagu (Nouvelle Vague) degli anni Sessanta, fautori di ùn metodo che, ponendo il regista sullo stesso piano deH'oggetto del documentario, tenta di sgombrare il campo da qualsiasi presunzione di oggettività. Dell’inizio degli anni Novanta è il suo primo libro, Shikashi, incentrato sulle testimonianze raccolte intor­ no al caso di un funzionario governativo morto suicida. Su questo fatto di cronaca gira anche il suo primo documentario, However... (Shika­ shi... fukushi kirisute no jidai ni, 1991), uno studio sul sistema di assi­ stenza sociale giapponese. Ancora nel 1991 gira Lessons from a Calf (Mo hitotsu no kyoiku: ina shogakko harugami no kinoku, 1991 ) su un gruppo di scolari impegnati in un’attività didattica che prevede la cura di una mucca. Del 1994 è August Without Him (Kart no inai hachigatsu-ga -Aids o sengen shita Hirata Yutaka ninenkan no seikatsu kiroku, 1994), documentario sugli ultimi mesi di vita di un uomo affetto dall’AIDS: anche m questo caso il cineasta riesce a mediare abilmente tra la sensi­ bilità necessaria per documentare un caso umano e l’ostinazione nel vo­ ler portare alla luce i non pochi stereotipi c luoghi comuni dai quali la società giapponese è afflitta. Seguendo il magistero di Ogawa, Koreeda cambia completamente registro: il film diventa una sorta di video-dia­ rio che documenta il rapporto del protagonista con parenti, amici, me­ dici e lo stesso regista impegnato nelle riprese.

Thicce delta memoria: it cinema di Koreeda Hirokazu

12.1

285

Reminescenze

Della formazione di documentarista e della vocazione letteraria riman­ gono, del resto, ampie tracce anche nelle opere di fiction di Koreeda. Fin da Maboroshi già segnato da una profonda consapevolezza dei mezzi espressivi offerti dal cinema, è evidente come la volontà di ana­ lizzare i moti dell’animo dei personaggi non scada mai nel letterario, ma sfrutti un diverso modo di entrare in relazione con il proprio ogget­ to di studio in termini di attenzioni ai processi, alle diverse temporalità in atto, e più in generale di rispetto per la materia trattata. Yumiko, feli­ cemente sposata con Ikuo e madre di un bimbo di pochi mesi, resta ve­ dova per l’inspiegabile suicidio del marito ed entra in una forte depres­ sione da cui esce solo alcuni anni dopo quando accetta di sposare Tamio. Quando la donna rientra in famiglia per il matrimonio del fratello, (’occorrenza fa sì che ricordi, sensazioni, disperazioni per la perdita di Ikuo affiorino improvvisamente restituendo alla vita coniugale con il secondo marito una donna in forte crisi affettiva e d’identità. Koreeda punta su una narrazione pressoché priva di acuti drammatici e sull’uso di una serie di elementi prettamente cinematografici che assegna al racconto un andamento definito e coerente. Dalla fotografia morbida e sfumala che circonfonde personaggi e ambienti di un alone irreale, alla posizione della macchina da presa, sempre ad altezza tatami, distante dall’azione (nell’assenza quasi totale di primi piani) e incuriosita ai giochi di incorniciatura prodotti dalle porte e dalle finestre della tipica casa giapponese, dall'uso espressivo del paesaggio, vero e proprio schermo riflettente dei sentimenti dei personaggi, alla dilatazione del tempo presente, tutto contribuisce a restituire lo stalo d’animo di Yu­ miko. Il breve elenco appena scorso dimostra, inoltre, quanto siano grandi i debiti estetici e figurativi che il regista contrae, già con il suo primo lavoro, con il cinema di Ozu Yasujiro: «Se guardiamo a Maboro­ shi da una prospettiva sistematica, possiamo vedere che quasi tutti i maggiori principi narrativi preferiti da Ozu sono riprodotti nel film di Koreeda»2. ’ Cfr. D. Desser, The Imagination ofthe Thiscendent: Koreeda Hirokazus Maborost, in

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lì cinema dell ‘Estremo Oriente

11 nostro, in realtà, dimostra di saper assorbire dei maestro di Tarda primavera (Banshun, 1949) - e più in generale di un certo cinema autoriale del passato - non una tecnica o uno stilema in particolare, ma la capacità di raccontare senza giudicare, di mettersi completamente al servizio di un sentimento, descrivendo le situazioni attraverso sottrazio­ ni e piccoli scarti, leggere increspature e vuoti delle attese. In Maboroshi, ad esempio, egli si limita a osservare il mistero, lo sgomento, la sor­ da angoscia nell’animo della protagonista, senza mai ricondurre il gesto tragico del primo marito a un orizzonte razionale. Fin da questo film Koreeda si afferma, insomma, per una non comu­ ne capacità d’osservazione del reale facendone emergere sempre il lato più nascosto, a volte misterioso: si pensi, in After Life, al contrasto tra l’impostazione documentaristica delle interviste ai personaggi c la di­ mensione irreale della situazione narrata, oppure alla capacità di coglie­ re nel quotidiano della vita dei quattro fratelli di Nobody Knows piccoli momenti di magia o di follia (i bambini arrivano nella nuova casa na­ scosti dentro delle valigie), oppure al tempo sospeso di attesa ango­ sciante e soprattutto al finale misterioso di Distance. Una capacità che deriva, nel caso di Maboroshi ma non solo, dalla propensione del cinea­ sta ad affrontare lo stesso argomento su più piani e da più punti di vista. In questo caso, ad esempio, il rapporto con la morte - in particolare il tema del suicidio - acquista ulteriore senso e stratificazione se messo in collazione con i precedenti lavori del cineasta, il libro Shikashi e i docu­ mentari However... e August without Him, nonché con i successivi e nella fattispecie con il documentario Without Memory (Kioku ga ushinawareta toki. 1996) e il film di finzione After Life, dove al tema della malattia e della morte se nc aggiunge un altro non meno fondamentale nella sua poetica: la memoria nella sua doppia accezione di possibilità

A. Phillips, J, Sikjnger, Jbptì/resc Cinema: Testo and Contesto, Routledge, Londra 2007, p. 280. In realtà l’accostamento di questo film al cinema di Ozu è stato messo in questione

dallo stesso Denser e ampiamente criticato da Keiko I. McDonald che trova tali collazioni utili solo su un piano superficiale delfanalisi. Si veda a proposito. K.l. McDonald, Rea­

ding a Japanese Film. Cinema in Contest. University of Hawaii Press, Honolulu 2006, pp198-218.

Thicce della memoria: il cinema di Koreeda Hirokazu

287

di recuperare il passato e fardello che opprime un presente spesso se­ gnato dal rimpianto e dal rimorso3. LI successivo After Life colloca i personaggi sulla soglia di un nuovo inizio. Il film è ambientato nel limbo dove i trapassati si affollano per accedere all’aldilà. Qui un gruppo di esperti ha il compito di aiutare i nuovi arrivati a selezionare entro sette giorni il ricordo più bello della precedente vita: messo in scena attraverso una ricostruzione cinemato­ grafica sarà l’unico frammento di memoria che essi potranno portarsi dietro nell’aldilà. Di After Life conta soprattutto l’architettura signifi­ cante che porta inscritta in sé un’apparente contraddizione secondo cui la memoria di un individuo non è interna e personale, ma esterna e col­ lettiva, recuperabile solo se condivisa con il prossimo. Il film alterna, infatti, lunghe sessioni di interviste ad alcuni dei protagonisti con parti narrative, interpretate da attori professionisti, esplicitamente ffrizionali. Documentario c finzione, racconto e messa in scena sono binari che corrono paralleli non tanto e non solo per coniugare passato e presente, «aldiqua» e «aldilà», quanto per esprimere questa doppia accezione del­ la reminiscenza come collante sociale e relazionale, come intima espressione del noi. Interamente ambientato in un edificio scolastico scmiabbandonato, After Life gioca, inoltre, sulla dissonanza tra la sempli­ ce quotidianità dei rapporti umani, tra l’informalità delle situazioni, tra la povertà del décor, tra la radicalità delle scelte di messa in scena e la collocazione della vicenda in un aldilà sorprendentemente simile alla vita reale a dispetto di qualsiasi idealizzazione escatologica. L’obiettivo di Koreeda è. evidentemente, mettere in scena l’eccezionaiità della mor­ te attraverso ima rappresentazione che allude in ogni momento alla nor­ malità della vita: le interviste ai defunti - girate con camera fissa e voce 1 D'altronde è quanto succede al protagonista di Without Memory, un uomo privo della memoria a bieve termine costretto ogni mattino a trascorrere il proprio tempo come fosse

la prima volta, C'è di più: il soggetto singolare scelto dal regista lo costringe a un lavoro stremante, visto che a ogni successiva sessione di riprese si ritrova a ricominciare tutto da

capo, cosi come il protagonista del film, ogni volta all’oscuro di chi gli stia dì fronte e per quale motivo. Possiamo dire che Koreeda sperimenti, in simile frangente, il parossismo del «metodo Ogawa»; convive con i protagonisti del documentario, si immerge nella loro

realtà per meglio osservarla, ma in una condizione dove è impossibile stabilire alcun tipo di relazione con il soggetto della propria indagine e quindi instaurare una perfetta asso *

nanza con la materia raccontata,

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li cinema dell 'Estremo Oriente

dell’intervistatore fuori campo - effettuate per ripescare dal passato i ri­ cordi più belli, sono con ogni probabilità testimonianze reali degli in­ terpreti del film, molti dei quali sono attori non professionisti. I docu­ menti utilizzati dall’equipe per aiutare i defunti a ritrovare, entro una settimana dal loro arrivo, la memoria dei momenti migliori della loro vita sono delle riprese conservate su vhs e, anche in questo caso, si trat­ ta di situazioni quotidiane del tutto banali. Ricongiungendoci con la matrice documentaristica del cinema di questo autore che, proprio a partire dall’indagine sociale (e, in partico­ lare, da un lavoro sull’idea di welfare nella società giapponese) aveva iniziato a compiere i suoi primi passi da regista, si potrebbe leggere nel mondo ultraterreno di After Life una forma di assistenza sociale «estre­ ma», prolungata oltre la soglia della vita. Ad accreditate tale lettura, c'è la totale assenza di qualsivoglia schema moralistico o di giudizio alla base del «sistema»: coloro che non riescono a scegliere il ricordo reste­ ranno nel centro per aiutare altri defunti e, forse, per aiutare se stessi a trovare finalmente il ricordo perfetto (come accade a Takashi). Del re­ sto, la fede laica e niente affatto metafisica nel cinema in quanto mezzo realmente capace di testimoniare l’essenza dell’uomo - le sue emozio­ ni, i suoi sentimenti, la sua memoria - è attestata nel finale quando, pro­ prio grazie a un espediente cinematografico, a un'inversione del punto di vista da «oggettivo» a soggettivo, il protagonista riuscirà a eludere, almeno in parte, il meccanismo selettivo della memoria che governa il passaggio all’aldilà. Da questo punto di vista pare pertinente rileggere After Life alla luce degli scritti di André Bazin. Come non vedere, infatti, nella ricostruzio­ ne dei ricordi attraverso la finzione cinematografica l’eco di quello che il teorico francese chiamava il «complesso della mummia», ovvero quel desiderio di trattenere un'immagine delle persone care, delle gioie più grandi, in questo caso da parte di chi è condannato a perderne per sem­ pre il ricordo? Koreeda ripone in questo ultimo, estremo atto prima del trapasso definitivo alla dimensione ultraterrena, tutta la fiducia di chi gira un film sulla morte che è un collage di testimonianze di vita, di ri­ cordi più o meno felici ma vivissimi, costituiti spesso da sensazioni im­ palpabili, memorie olfattive, tracce di suoni, reminiscenze vaghe, certo, ma pur sempre autentiche della vita che sfida il tempo. «Lungi dall’es­

Tracce della memoria: il cinema di Koreeda Hirokazu

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sere prigionieri di un momento passato, i personaggi di Koreeda si libe­ rano dalle restrizioni della vita per re-immergersi nella profondità delle proprie origini psicologiche»4. Il fatto è che I’«universo ideale a imma­ gine del reale» di cui parla Bazin non viene creato a beneficio di chi re­ sta, ma per coloro che accedono nell’altro mondo e, coerentemente con l’assunto del teorico francese, il transito alla nuova dimensione avviene proprio attraverso una proiezione cinematografica, momento supremo di realizzazione del film, di sostituzione dell’originale con il suo dop­ pio, con un simulacro.

12-2

Distanze

Il rapporto con la memoria in quanto fondamento della propria identità, essenziale in After Life, ritorna prepotentemente, insieme a molti altri elementi della poetica dell’autore, in Distance. Il legame con la realtà questa volta è nel pre-testo della vicenda, l’attentato compiuto da una setta all’acquedotto di Tokyo che aveva causato 128 morti e moltissimi intossicati. Più precisamente il film narra la storia di quattro persone (il giovane fiorista Atsushi, l’istruttore di nuoto Masaru, il maturo impren­ ditore Minora, la giovane insegnante Kiyoka) che ogni anno si recano presso il lago dove i loro familiari - adepti delia setta - avevano vissuto in ritiro prima di compiere la strage per poi suicidarsi in gruppo, con l’obbiettivo di commemorarne la morte. Derubati dell’automobile, i quattro si ritrovano bloccati nella foresta insieme a Sakata l’unico mem­ bro della setta sopravvissuto al suicidio, anch'egli spinto a tornare in quei luoghi dalla ricorrenza dell’attentato. Anche in questo caso il tema della morte viene affrontato da Koreeda da un punto di vista inedito, non già quello consueto dei parenti delle vittime, quanto quello dei familiari dei carnefici, con tutto il portato di sensi di colpa e rimpianti che ne consegue. Inizialmente la commemo-

J A. Sahhadini, A. Stein. «Just Choose One»: Memory and Time in Kore-Eda's Hùn-

tlafuru Raifu (Afìeriì/el (1998). «The International Jouma) of Psychoanalysis». I.XXXII.

3,2001. p. 604.

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Il cinema dell ’Estremo Oriente

razione sembra avere per i quattro il valore di una parentesi, da chiude­ re il più presto possibile per eludere il tormento che suscita quell’ecci­ dio. Il (urto dell’automobile però inceppa il meccanismo di rimozione e diventa ineluttabile il riaffiorare dei ricordi e degli interrogativi senza risposta, anche in virtù di un'ambientazione che accentua i suoi caratte­ ri di indeterminatezza e favorisce una fusione panica con il reale - si pensi al vuoto spaziale del bosco e, soprattutto, del lago, superficie plumbea, immobile e inquietante - e di una condizione temporale, la notte, che spinge verso un lento scivolamento in ima dimensione onirica c inconscia. Il viaggio si trasforma, poco per volta, in un itinerario verso il centro del male, verso un «cuore di tenebra» di conradiana memoria. Anche le atmosfere sembrano mutare e i generi diventare punti di riferimento sci­ volosi della vicenda: il registro horror traspare nella presenza di un gruppo di personaggi eterogeneo, nell’uso nervoso della macchina a mano e della luce naturale, nella location inquietante e nell’attesa di un evento che tarda a sopravvenire; quello dello psicodramma invece si ra­ dica nell’isolamento in un luogo lontano dalle convenzioni sociali di pochi personaggi «sopravvissuti» a un comune, doloroso passato. Al contrario di quel che avrebbe fatto un Nakata o un Kurosawa Kiyoshi, Koreeda si tiene ben distante dalle due opzioni esplicitamente cinema­ tografiche. Non c’è catarsi, dunque, né tramite l’azione violenta di qual­ cuno, né attraverso la condivisione e la comprensione del passato: i po­ chi momenti di confronto restano nell’ambito dell’ovvio e poco aggiun­ gono alla consapevolezza del gruppo che, al termine dell’esperienza, si scioglie promettendosi di rivedersi l’anno successivo come se nulla fos­ se accaduto. Non sono pochi gli elementi della poetica del regista, già presenti nei film precedenti, che ritornano puntualmente in Distance. Il rapporto con la morte, innanzitutto, e le domande che essa porta con sé: da que­ sto punto di vista, malgrado le evidenti differenze, Distance è molto più prossimo a Maboroshi di quanto non possa apparire. Altro elemento ri­ corrente è quello della «reclusione» di un gruppo eterogeneo di persone in un luogo isolato dal mondo: come in After Life i personaggi sono in una situazione di stallo, in un limbo nel quale si attende un’epifania del­ la memoria (il ricordo più bello in quel film, quello più doloroso in que­

Tracce delia memoria: il cinema di Koreeda Hirokazu

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sto). È come se Koreeda, dopo aver mostr ato cosa accade a chi muore, abbia voluto indicare ciò che rimane a coloro che restano: il filo che unisce i due estremi è quello dei ricordi, di una memoria che, tuttavia, non riesce a divenire patrimonio comune. Solo attraverso la finzione ci * nematografica in After Life si verificava questo salto qualitativo, mentre in Distance i ricordi restano tali, scissi da un contatto con il presente: la concentrazione in un unico luogo invece di lanciare ponti verso il passa­ to (Maboroshi), costruire pezzi di itinerari in comune (le anime di After Life), istituire una comunità pre-sociale libera e autosufficiente (Nobody Knows), facilitare l’unità apparente di un nucleo famigliare (Stili Walking, allarga la distanza tra gli individui, tra passato e presente, tra esistenza e senso, tra linguaggi e posture. Sul piano dello stile la pellicola si caratterizza per la capacità di orga­ nizzare visivamente gli spazi attraverso un uso espressivo della fotogra­ fia. La notte, come anticipato, è la dimensione che costringe i perso­ naggi ad accettare rincontro con la propria memoria, a confrontarsi con la parte più nascosta di se stessi e l'uso della luce naturale, la quasi completa inintelligibilità di molte sequenze girate nell’oscurità del bo­ sco rendono bene la sensazione di smarrimento dei protagonisti. Koree­ da, inoltre, più che dirigere sembra registrare i movimenti degli inter­ preti. lasciati liberi di interagire tra loro e di improvvisare o, come acca­ de più di frequente, di non reagire affatto, isolandosi. Se, per le scene al presente si dimostra necessario l’uso della camera a mano, i flashback sono caratterizzati da uno stile più classico (piani sequenza più control­ lati, lunghi carrelli a precedere i personaggi). A distinguersi sono una serie di riprese frontali con camera fissa dei vari protagonisti sottoposti da un poliziotto a una serie di domande subito dopo la scoperta del sui­ cidio di gruppo degli adepti alla setta. Anche in questo caso, dunque, Koreeda si avvale di immagini appar­ tenenti a diverse tipologie: quelle relative all’hic et nunc della narrazio­ ne, i ricordi personali dei singoli personaggi attraverso i flashback - tut­ tavia svincolati da un’evocazione diretta - e poi una dimensione fredda e per cosi dire «oggettiva» (quella dei colloqui con il poliziotto così si­ mili alle interviste ai morti di After Life). Ma tra un presente chiuso a una vera e propria elaborazione del lutto c un passato impossibile da condividere non esiste possibilità di incontro: anzi, le sequenze che si

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II cinema dell 'Estrema Oriente

potrebbero definire «oggettive» contribuiscono ad alimentare il dubbio sulle varie figure, sino a un finale enigmatico e misterioso che accresce il senso di smarrimento dello spettatore.

12.3

Assenze

Nobody Knows rappresenta un ulteriore passo in avanti nel percorso au­ tonaie del regista, nel suo progressivo allontanamento da una scrittura filmica impostata per giungere a un cinema di contatto o di prossimità con i personaggi, gli ambienti e le situazioni attraverso l’uso sempre più libero della macchina da presa. Con Nobody Knows Koreeda, ricon­ giungendosi una volta ancora con la matrice documentaristica del suo lavoro, pone il racconto al presente, annulla i flashback, in favore di una contingenza temporale assoluta che, tuttavia, rasenta l’astrazione, elu­ de, per una volta, la questione della memoria per concentrarsi su corpi che non hanno nulla da ricordare, quelli di un gruppo di bambini lascia­ ti a loro stessi da una madre incapace di accudirli. Anche in questo caso lo spunto di partenza è un fatto di cronaca del­ la fine degli anni Ottanta conosciuto in Giappone come «il caso dei quattro bambini abbandonati nel quartiere di Nishi Sugamo»; i riferi­ menti tematici, in particolare per quanto riguarda la questione del wel­ fare, e formali per l'esperienza di documentarista sono ben evidenti, an­ che se l’opera, è bene precisarlo, non si colloca nel solco del film di de­ nuncia o del film a tesi. È la storia dei quattro figli che una giovane ma­

dre ha avuto da quattro diverse relazioni e che, per via delta discrimina­ zione nei confronti dei figli illegittimi, ha deciso di non denunciare al­ l’autorità pubblica. Solo Akira, il più grande dei fratellastri, essendo sta­ to regolarmente registrato all’anagrafc, può uscire, vagare per le strade della città, aiutare la madre nelle compere e nelle commissioni quoti­ diane. In realtà, la donna - tra lavoro e nuove relazioni con altri uomini - è spesso fuori casa, talvolta per giorni e settimane, affidando ad Akdra le incombenze della vita domestica. Quando, un giorno, non farà più ri­ tomo, i ragazzi sono costretti ad arrangiarsi con pochi soldi e in una si­ tuazione di sempre maggior degrado.

lìncee della memoria: il cinema di Koreeda Hirokazu

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Un «racconto crudele dell’infanzia»: così si potrebbe definire No­ body Knows, film che adotta uno sguardo tutto interno al microcosmo familiare, capace di schivare i sensazionalismi, interessato ai tempi «vuoti» dell'attesa (quella dei bambini che aspettano il ritorno della ma­ dre), disinteressato, come già nei precedenti lavori, al giudizio morale sulle scelte del singolo. L’incipit del film è già una chiara dichiarazione poetica, così giocoso e all’insegna della spensieratezza: una madre e suo figlio traslocano in una nuova casa, proprio come accade nei film di Miyazaki Hayao (La città incantata (Sen to Chihiro no kamikakushi, 2001] o // mio vicino Totoro [Tonari no Totoro, 1988], che, del resto, viene citato dai bambini nel corso del film insieme ad altri personaggi fantastici5) e dalle loro valigie, proprio come in una buffa favola, spun­ tano due bambini. È, d'altronde, dalla struttura tipica delle favole che Nobody Knows permuta i suoi principali registri narrativi e stilistici: il tempo della nar­ razione scandito dal trascorrere delle stagioni, i divieti-tabù elencati dal­ la madre ai figli appena giunti nella nuova abitazione, l’opposizione tra la casa e l’esterno, l’uso considerevole di oggetti-simbolo tratti soprat­ tutto dal mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, la missione «impossi­ bile» dell’eroe di turno (prendersi cura dei fratelli) che Akira (forse non casualmente nome anche di un celebre eroe dell'animazione giappone­ se) cercherà di portare a termine malgrado tutto. A ben vedere, il dram­ ma è soffocato, almeno per gran parte del racconto, perché i quattro pro­ tagonisti godono del mito di un'infanzia «assoluta», preclusa a tutti i lo­ ro coetanei: hanno completa libertà durante le lunghe assenze della ma­ dre, non sono legati agii obblighi della scuola (a cui guardano con cu­ riosità), non conoscono l’aggressività e l’egoismo tipico di ogni dinami­ ca gerarchica do educativa, vivono in armonia malgrado le difficoltà. Qui i ruoli si invertono: da un lato abbiamo una madre-bambina, irre­ sponsabile, capricciosa e inaffidabile, ma ben lontana dall’immagine

' Per la lenta parabola di degrado e di indigenza che coglie i bambini c per l’attesa di una madre che non arriverà mai forse il miglior film di animazione da accostare a Nobody

Know.i è Una tomba per le lucciole (llotaru no Haka, 1988) di Takahata Isao, collega e amico di Miyazaki Analogo è anche il registro linguistico che non cade mai nel patetico c nel melodrammatico come avviene nel film di Takahata.

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il cinema dell 'Estremo Oriente

demoniaca datane dai media, dall’altro i figli, giudiziosi, solidali, gene­ rosi, privi di molti dei connotati che caratterizzano i loro coetanei. Se Akira è l’unico che può infrangere il tabù rappresentato dal contatto con l’esterno, è al tempo stesso colui che soffre più degli altri per la prigio­ nia subita: in fondo è il più solo dei quattro fratelli dovendosi confron­ tare in solitudine con un mondo che sente come irrimediabilmente Altro rispetto alla propria condizione. Lo dimostrano i suoi tentativi di dare una parvenza di normalità alla propria esistenza, come quando l’occa­ sionale amicizia con un gruppetto di coetanei lo spinge al punto di por­ tarli fin dentro la casa: ai pari dei suoi fratelli, che rimangono atterriti dall’apparizione dei tre ragazzini e dalla loro invadenza e prepotenza, anche Akira sembra percepire subito l'impossibilità di quel rapporto che, allo stesso tempo, vede come necessario, indispensabile per sentir­ si appena «normale». Se l’interdizione materna verso l’esterno funziona come spartiacque tra i due mondi e costituisce un topos della favolistica classica (un esempio per tutti potrebbe essere la favola dei Grimm II lupo e i sette capretti), essa è per lo meno anomala: non sono i pericoli del mondo esterno a dover essere tenuti fuori dalla porta di casa, sorta di nido-for­ tino atto a proteggere i suoi abitanti, quanto i bambini a doversi tenere lontani dagli sguardi esterni, con la casa trasformata in una specie di schermo atto a occultare la loro presenza. A produrre tale effetto di inti­ mità contribuiscono anche una serie di scelte formali come quella di gi­ rare in un vero appartamento per accrescere il realismo, la focalizzazione delle inquadrature su particolari dei corpi dei protagonisti (mani, pie­ di, porzioni dei volti) per evidenziare l’armonia segreta di un mondo a se stante, l’uso originale delle finestre come unica fonte di luce acce­ cante, quasi un monito dell'invadenza del mondo esterno verso l’inti­ mità della casa, costantemente avvolta nella penombra. La casa, dunque, in quanto schermo di protezione ma anche come prigione, è un topos già incontrato in Distance: i bambini di Nobody Knows sono, in fondo, come piccoli adepti di una setta molto particola­ re i cui membri devono rispettare delle regole assolute, pena non solo il venire meno del sodalizio che li unisce (se venisse scoperta la loro con­ dizione verrebbero probabilmente affidati a famiglie diverse c. dunque, divisi), ma anche la «salvezza», promessa sempre rinnovata e sempre

Tracce della memoria: il cinema di Koreeda Hirokazu

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delusa da una madre-guru che ne annuncia la venuta sottoforma di ma­ trimonio con un uomo forse capace di accettarla con i suoi quattro fi­ gli. Ma il paradosso della pellicola sta nella rivelazione della verità, for­ se persino più dolorosa della sparizione della madre; lo sguardo del mondo esterno dal quale i bambini pensavano di doversi proteggere non è interessato alla loro vicenda, l’uscita dalla «caverna» rivela l’inconsi­ stenza di una realtà che coltiva solo attraverso le apparenze i propri pre­ sunti valori. L'aspirazione alla normalità, spesso accarezzata dai bambi­ ni, si rivela per quello che è, rischio di omologarsi a un mondo violento, egoista, indifferente. L’infrazione del divieto materno, dunque, non por­ ta a un capovolgimento a sorpresa delle premesse, né a una vero contat­ to col mondo; sono i bambini che si aprono al mondo e che lo inglobano all’interno della casa - la porta d’ingresso sempre aperta, i rifiuti sem­ pre più presenti a modificare il «paesaggio» domestico - non il mondo a includerli o, magari, a rifiutarli. Dunque, cosa resta al termine del film se neanche la morte della so­ rellina rivela al mondo la realtà vissuta dai fratelli e il muro di indiffe­ renza permane? Koreeda ancora una volta sembra voler spiazzare lo spettatore con un finale che vede i tre fratelli riprendere «normalmente» la loro vita ai margini di un mondo che non si interessa a loro. Ma non è vero che tutto è immutabile e ogni speranza di cambiamento vana; a cambiare - e di conseguenza a dare il suo pieno valore al film - è il mo­ do di essere e di muoversi degli attori non professionisti che trovano nella vita del set un luogo con cui relazionarsi e dal quale giungono continui interrogativi sulla loro identità, «Durante un anno di riprese, Yuya [Akira, il protagonista] è cresciuto in altezza, e gli è anche cam­ biata la voce. [...] Quasi per caso, abbiamo potuto rappresentare nel film il suo processo di crescita, che è diventato il passaggio di Akira dall’infanzia all’età adulta. Il film è un prodotto di finzione, ma sulla pellicola abbiamo impressionato un pezzo della mia, e un pezzo della sua vita» . * Koreeda rivela ancora una volta le radici profondamente baziniane del suo cinema, capace di indagare la memoria, la morte ma an­ che una fase della vita come l’infanzia attraverso la quale é possibile b http://ww^v.nconeiga.il/archivio.php/analisL/dareiiìO5hiranai_diaiy^l/ (ultima visita: 20 luglio 2009).

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Il cinema dell’Estremo Oriente

rappresentare (o, meglio, registrare) il passaggio del tempo, non più at­ traverso memorie c dolori del passato ma sul corpo vivo e presente dei suoi protagonisti. Persino in Hana, film distante per molti motivi dalle sue opere prece­ denti - una commedia sul mondo dei samurai del diciottesimo secolo con una grossa produzione alle spalle - ritorna il tema della memoria. La vicenda di Soza, samurai incapace di combattere e, tuttavia, costret­ to dai propri parenti a cercare l’assassino di suo padre per compiere la vendetta, si inserisce un po’ a fatica nella galleria di personaggi korcediani ma condivide con loro la medesima capacità di serena acccttazio­ ne del destino e, come tutti gli altri protagonisti maschili (dall’Ikuo di Maboroshi al Takashi di After Life, dall’Akira di Nobody Knows fino al Ryo del successivo Still Walking) un’attitudine mite c arrendevole. È so­ lo grazie alla finzione dello spettacolo, alla sublimazione della vendetta in un’abile messa in scena, che Soza chiuderà i conti con il proprio pas­ sato e potrà guardare a una nuova vita: il riferimento più diretto è ad Af­ ter Life, ma è possibile azzardare un ulteriore piano di lettura, dal mo­ mento che Koreeda sembra replicare nello sviluppo della storia (il sa­ murai «fuori ruolo», lo spettacolo comico come escamotage per risol­ vere la situazione di difficoltà) il proprio rapporto con questa insolita produzione.

12.4

Confronto con i padri

Still Walking è il film della piena maturità di Koreeda, l'ultimo che ana­ lizziamo in questo profilo, quello dove tutti i temi e le questioni solle­ vate dal suo cinema trovano una dimensione narrativa e formale piena­ mente compiuta e dal sapore classico che lascia dietro di sé la speri­ mentazione e le incursioni nel campo del documentario. La storia ruota attorno alla tradizionale riunione di famiglia con figli e nipoti che fanno visita a una coppia di anziani nonni. Un canovaccio cinematografico (ma non solo) tra i più consolidati sul quale il cinema giapponese in par' Di cui abbiamo già dato conto nel capitolo precedente.

Tracce della memoria: il cinema di Koreeda Hirokazu

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ticolare ha costruito veri e propri capolavori. È il terreno ideale per met­ tere alla prova una volta per tutte un motivo di fondo che echeggia in tutti i film di Koreeda: la famiglia in quanto coacervo di memorie spes­ so dolorose ma, allo stesso tempo, depositaria dell’identità soprattutto affettiva dell’individuo. Non è un caso che, proprio in Still Walking, siano in scena tutte le età della vita, e tutte con la medesima importanza all’interno dell’economia narrativa del film: si tratta del primo vero «gruppo di famiglia in un in­ terno», anche in questo caso riunito attorno a un’assenza, quella del fra­ tello maggiore, morto anni prima per salvare un amico dall’annegamen­ to: la famiglia si ritrova presso la casa degli anziani genitori per com­ memorarne l’anniversario della scomparsa e, proprio in quest’occasio­ ne, riemergono attraverso una sapiente orditura di microeventi, per mez­ zo di dialoghi dapprima allusivi c via via sempre più espliciti, i vecchi rancori e i dolorosi ricordi che quel tragico evento ha portato. Nella co­ ralità del racconto il personaggio che assume su di sé il ruolo di cardine tra passato, presente e futuro è Ryota, il figlio maschio superstite, col­ pevole agli occhi del padre, ex medico in pensione, di non essere riusci­ to a compensare la scomparsa del fratello maggiore Junpei. A compli­ care la sua posizione contribuisce la scelta di sposare una vedova con un figlio a carico (analogia esplicita con Maboroshi), quello che agli oc­ chi dei nonni non potrà mai essere un vero nipote. Nella figura del bam­ bino si replica, cosi, la crisi di identità di Ryota, figlio mai all’altezza delle aspettative dei genitori. Diversamente da Maboroshi, nel quale la questione della memoria si perdeva nelle domande ossessive legate a un mistero (perché un uomo apparentemente felice si suicida?) c da Distance, dove il ricordo dei ca­ ri era segnato negativamente dalla certezza di un crimine orrendo, in Still Walking il rapporto con la memoria è vissuto all’insegna di una tra­ sfigurazione dello scomparso che assurge a ideale di figlio. Un’idealiz­ zazione che, tuttavia, non fa che produrre infelicità e generare rancore, come nel caso dell’invito a pranzo rivolto ogni anno dai genitori al gio­ vane salvato da Junpei, «sostituto derisorio del defunto, parassita peren­ nemente invitato a completare la foto di famiglia» * unicamente per go• M. Thierry, Everybody knows, «Cahiers du Cinéma», aprile 2009.644, p. 26.

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fi cinema dell 'Estremo Oriente

dcre del suo senso di colpa per essere ancora vivo a differenza del suo benefattore. Tuttavia, il film è disseminato anche di occasioni in cui il ricordo è semplicemente un momento felice, di condivisione dell’affetto per i propri cari (come nella sequenza della visita alla tomba del deiunto), occasione di scherzo e di buon umore o, magari, di rivelazione di un an­ tico segreto coniugale, proprio come nel caso della canzone che dà il ti­ tolo al film. Una celebrazione della vita e dell’amore declinata attraver­ so la capacità di trasmettere rituali, gesti, usanze immutabili nel tempo: si guardi la descrizione minuziosa della preparazione dei cibo che oc­ cupa buona parte della prima metà del film o quella della preparazione per la notte nella seconda parte, vere e proprie linee guida narrative. In questo caso emerge con maggiore evidenza l’omaggio del regista al ci­ nema di Ozu, del resto già presente nel modello narrativo della riunione di famìglia (il riferimento migliore, ma a ruoli invertiti, potrebbe essere Piaggio a Tokio [Tòkyo monogatari, 1953]), in moltissime scelte forma­ li (specie nel taglio delle inquadrature nelle sequenze in interni e delle scene conviviali), nella discrezione con cui Koreeda si avvicina a ogni evento, piccolo o grande che sia. Omaggio persino dichiarato nella se­ quenza inaugurale della pellicola, quando madre e figlia puliscono una carota e un daikon, i due ortaggi che compaiono nel titolo di quello che avrebbe dovuto essere l’ultimo film del maestro giapponese (Daikon to ninjin, poi realizzato nel 1964 da Shibuya Minoru). Straordinario indagatore dell’animo umano, Koreeda sembra volersi ricongiungere definitivamente, con questo film, a quella matrice profondamente realista del cinema giapponese che fa capo a Ozu Yasujiro, ma che appartiene a molto cinema classico nipponico, da Naruse Mikio a Gosho Heinosuke, dal Mizoguchi Kenji dei film contempora­ nei indietro fino a Shimazu Yasujiro e Shimizu Hideo, rappresentanti del filone conosciuto come shoshimingeki, particolarmente attento alle dinamiche che si vengono a creare negli universi famigliari e piccolo borghesi. Nel caso di Still Walking la cellula sociale è de-limitata da una serie di punti di riferimento affettivi prima ancora che geografici: la ca­ sa patema (divisa tra spazio domestico e spazio dello studio medico del padre), il cimitero nel quale giace il figlio morto, la spiaggia, dove l’an­ ziano padre ogni giorno si reca per la sua passeggiata, ma alla quale non

Tracce della memoria: il cinema di Koreeda Hirokazu

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osa avvicinarsi. Proprio nel finale del film si ritrovano sulla spiaggia i protagonisti maschili: l’anziano padre, Ryota, il figliastro di quest'ulti­ mo, più il defunto Junpei (ovviamente assente da questa sequenza ma ben presente per tutta la durata del film). Difficile non riconoscere in questa splendida sequenza tutti gli elementi emersi dalla dichiarazione di Koreeda a proposito della genesi di After Life: la memoria del passa­ to come bagaglio, anche doloroso, del quale è impossibile liberarsi, la morte vista non tanto come momento di chiusura di un’esistenza quanto come circostanza a partire dalla quale è necessario che chi sopravvive si interroghi sul senso della propria vita, il rapporto tra generazioni, capa­ ce, malgrado tutte le difficoltà, di fare da ponte tra le due dimensioni (memoria e morte, eredità e perdita) e, in qualche modo, conciliarle.

Parte quarta

Hong Kong

Capitolo 13

Il cinema di Hong Kong: dalla nascita della New Wave (1980) ad oggi

Che «l’eccesso sia la misura del cinema dell’estremo oriente» è un’idea che probabilmente si è formata soprattutto attraverso la storia del cine­ ma di Hong Kong e quel gusto per l’estremo - sia sul piano delle storie narrate, sia su quello dei modi della loro rappresentazione - che ha con­ trassegnato i suoi film. Ripercorriamo qui la storia di questo cinema soffermandoci soprattutto, dopo un breve cenno introduttivo dedicato alla nascita del nuovo cinema wuxiapian, d’arti marziali e di kung fu, sul periodo che va dalla nascita della prima New Wave ( 1978-1980), at­ traverso gli anni di maggiore prosperità (1986-1993), sino al periodo più difficile che segue l’annessione dell’onnai ex colonia britannica al­ la madrepatria cinese, nel 1997, e che perdura ancora alla fine del primo decennio del Duemila.

13.1

Arti marziali e dintorni: il cinema di Honk Kong verso una nuova era

Nel corso degli anni Sessanta, il tradizionale cinema di arti marziali hongkonghese è costretto a confrontarsi con una serie di film prove­ nienti dall'occidente e dal Giappone: lo spaghetti western, i film di Ja­ mes Bond, il chanbara (film di samurai nipponici) sono accolti con en­ tusiasmo da un pubblico stanco del tradizionale wuxiapian (storie di ca-

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Il cinema dell 'Estremo Oriente

valieri erranti) cantonese alla Wong Fei-hung, il più noto eroe di film di arti marziali della storia del cinema di Hong Kong1. La Shaw Brothers, la maggiore casa di produzione della storia del cinema hongkonghese, tenta cosi dì reagire lanciando il nuovo wuxiapian di King Hu (Come Drink with Me, Dai zui xia. 1966), che fonde mirabilmente la tradizione dell’Opera di Pechino con le più sofisticate tecniche del linguaggio ci * ncmatografico, e di Chang Cheh (The One Armed Swordsman, Du bei dao, 1967), che opta invece per un approccio più crudo e violento, fon­ dato sui motivi della fratellanza e dell’amicizia virile. Nel volgere di pochi anni, e soprattutto grazie al successo di Bruce Lee, sotto contratto presso la Golden Harvest, che presto soppianterà la Shaw Brothers, il wuxiapian lascia spazio al gongfupian (il cinema di kung fu) che, ri­ spetto al precedente, si caratterizza per la rinuncia a componenti fanta­ stiche e per il maggior realismo di combattimenti a mani nude, che prendono il posto di quelli con la spada. 11 cinema di kung-fu fa cono­ scere Hong Kong in Occidente, dando vita a un vero e proprio fenome­ no di culto che perdura ancora oggi; ma, vista la qualità estetica alquan­ to scadente di molti di questi film, determina anche la cattiva reputazio­ ne che lo stesso cinema di Hong Kong si guadagna in quegli anni. Il ci­ nema di kung-fu, tuttavia, anche nella sua variante da commedia diffu­ sasi verso la fine del decennio con i film con Jackie Chan, come Snake in the Eagles i Shadow (Shiexin daoshu, Yuen Woo-ping, 1978), e Sant­ ino Hung, prepara a suo modo la strada al sopraggiungere delia New Wave attraverso - come scrive Stephen Teo - la rottura col realismo del melodramma cantonese, l’introduzione di elementi vernacolati come il dialogo volgare, la presenza di componenti dinamiche che riflettono l'e­ nergia del boom economico del periodo e la capacità di rivolgersi a un pubblico popolare e di lavoratori che vi si riconosce2. Per certi aspetti, alcuni di questi film testimoniano, pur in chiave metaforica, un legame col presente che sarà una delle caratteristiche fondamentali dei cinema

1 Kinnla Yak Shuk-ting, Interaction Between Japanese and Hong Kong Action Cine­

mas, in M. Morris. S. LeUNG-li, S. Chan Ching-kiu (a cura di), Hong Kong ConnectionsTransnational imagination in Action Cinema, Duke University Press - Hong Kong Uni-

vensity Press, Durtiam-Londra-Hong Kong 1995, p. 38. • S. Tfo, Hong Kong. The Extra Dimensions, BF1 Publishing, Londra 1997, p. 137.

n cinema di Hong Kong: dalla nascita della New Wave (1980) ad oggi

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della New Wave: la stessa violenza e gli spargimenti di sangue dei film di Chang Cheh, ben più copiosi di quanto non avvenisse in precedenza, possono essere visti come un riflesso dei numerosi tumulti scoppiati a Hong Kong - come quelli per la protesta contro l'aumento dei biglietti del traghetto che collega le due principali zone della città, Kowloon e Central - in concomitanza con l’avvento della Rivoluzione Culturale, e in stretta connessione con essa1. Come scrivono Law Kar e Frank Bren, i film di Chang Cheh sono spesso segnati da violente rivolte contro l'establishment c dalla glorificazione di croi tragi­ ci che sacrificano le loro vite lottando contro la classe dominante. Sebbene mascherato con gli abiti del passato, il loro spirito di rivolta è permeato da un'inequivocabile e moderna aria di controcultura. I giovani di Hong Kong vi ritrovarono una risonanza mai vista prima, e vi si gettarono in massa".

13.2

Ascesa e caduta di un'industria

Dal punto di vista dell'industria cinematografica, gli anni Settanta del cinema di Hong Kong sono dominati da due grandi major: la Shaw Brothers e la Golden Harvest. Il successo delle due compagnie nei mercati del Sud-est asiatico, e con esse del cinema di Hong Kong, era dovuto anche al disinteresse che Hollywood nutriva in quel periodo per quegli stessi mercati a causa del basso prezzo dei biglietti, del numero modesto di sale e delle misure di protezione adottate dai diversi paesi: tutti elementi che, nei fatti, non ga­ rantivano entrate significative. Inoltre i milioni di cinesi che vivevano, lontani dalla loro patria, in Thailandia, Singapore, Malesia, Indonesia e Taiwan, ma anche in Cambogia, Laos e Vietnam, erano più in sintonia con un cinema che, come quello cinese di Hong Kong, rievocava nelle forme del mito i fasti passati della loro terra madre. È proprio pensando

' Kinni a Yau Suuk-TING, Interaction Between Japanese and Hong Kong Action Cine­

mas. cit., p. 40. 4 L. KÀr, F. Bren. Hong Kong Cinema A Cross-Cultuml

Lanham-Toronlo-Oxtòfd 2004. p. 292.

The Scarecrow Press,

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n cinema dell 'Estremo Oriente

a questo enorme pubblico, cui si potrebbe aggiungere quello della dia­ spora cinese nelle grandi Chinatown del mondo occidentale, la cui lingua era soprattutto il mandarino, che la Shaw Brothers puntò sulla rea­ lizzazione di film in quella lingua pur in una città, Hong Kong, dove il 95% della popolazione parlava invece il cantonese. Col sopraggiungere degli anni Ottanta, la Shaw Brothers, sempre più relegata in secondo piano dal successo della Golden Harvest, vede ap­ profondirsi la sua fase di decadenza, tanto che nel 1983 interromperà momentaneamente la produzione. Di fatto gli anni Ottanta segneranno la fine del duopolio e in grande misura anche della politica dei grandi studi, favorendo cosi raffermarsi di una serie di compagnie indipen­ denti. Fra queste un ruolo di primo piano è occupato dalla Cinema City, che darà vita, soprattutto con la serie Aces Go Places (Jul gaai pack dong, 1982-1989), campione d’incassi lungo tutti gli anni Ottanta, a quello che sarà chiamato il «Cinema City Style», una «formula fatta di commedie cantonesi di intrattenimento con cascatori, effetti speciali e apparizioni di grandi nomi dello star system» , * oltre alla pratica, che ta­ sterà come vedremo un segno in altre coraggiose iniziative, di stendere le sceneggiature collettivamente, attraverso riunioni cui partecipavano anche produttori, registi e attori. La scelta della Cinema City di evitare i film d'arti marziali classici si rivela del resto in perfetta sintonia coi tempi, dal momento che gli anni Ottanta vedono in generale il cinema d’azione abbandonare le ricostruzioni del passato per privilegiare am­ bientazioni più moderne e spesso contemporanee. La stessa Cinema City, del resto, dà un contributo essenziale alla nascita del nuovo cinema d’azione impegnandosi nella produzione, o nella coproduzione, di film come A Better Tomorrow c della serie di Ringo Lam degli ...on Fire, aperta con City on Fire (Lungfu fong wan, 1987) *. Esempio di un cinema che tenta di innalzare i propri standard produt­ tivi per essere più competitivo con i film hollywoodiani, il lavoro della Cinema City è ripreso anche da Tsui Hark e dalla sua Film Workshop. Dopo aver lavorato con la stessa Cinema City, per conto della quale rea-

v

TejO» Hong Kong, The Extra Dimensions, cit., p, 165.

* E. Gouneaij, L Amara, Encyclopedic (fu cinema de Hong Kong, Les Belles Lettres,

Parigi 2006, p 122

Il cinema di Hong Kong: dalla nascita della New Wave (1980) ad oggi

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lizza All the Wrong Clues... for the Right Solution (Gwai ma ji doh sing, 1981), film che infonde lo spirito della neonata New Wave nel cinema commerciale, Tsui Hark dà vita a una sua propria casa di produzione decisa a migliorare gli standard del cinema di Hong Kong attraverso ac­ curati effetti speciali, sofisticate tecniche espressive e ricche sceneggia­ ture con la quale oltre a realizzare i suoi ben noti lavori (da Shanghai Blues, Seung hoi ji ye, 1984, a Peking Opera Blues, Do ma daan, 1985, sino alla serie Once Upon a Time in China, Wong Fei Hung, 1990-94) produce, o coproduce, alcuni dei capolavori del cinema hongkonghese del periodo: dal già citato A Better Tomorrow fino a A Chinese Ghost Story (Sin nui yao wan, Ching Siu-tung, 1987), Saranno proprio i film diretti e prodotti da Tsui Hark in questi anni a determinare in Occidente la nascita di un nuovo interesse per il cinema di Hong Kong, liberando­ lo daU’immagine di sciattczza che centinaia di B-kung fu movie aveva­ no finito col costruirgli addosso7*. Sono proprio gli anni che vanno dal 1986 al 1993 ad essere conside­ rati l’ultima «età dell’oro» del cinema di Hong Kong. È un periodo in cui la floridezza del mercato interno (la percentuale d’incasso dei film hongkonghesi rispetto a quelli stranieri del periodo è a pari al 70%" e, in un anno come il 1992, i dodici film che più hanno incassato sul merca­ to interno sono tutti «made in Hong Kong» ) * come quella del mercato estero (in particolare di Taiwan10) poteva permettere anche il lusso di lanciare registi c produrre film piuttosto rischiosi sul piano commercia­ le, come quelli di Wong Kar-wai e di Stanley Kwan, ovvero gli autori della Seconda New Wave che si affermano proprio in quel periodo. La crisi tuttavia arriva nel 1993, ormai in prossimità del passaggio di 7 Nella seconda metà degli anni Ottanta, il panorama dell'industria cinematografica di

Hong Kong si caratterizza per la nascita di diverse compagnie indipendenti che, seguendo le orme della Cinema City e della Film Workshop, tenteranno di coniugale il successo

commerciale al cinema di qualità. Tra queste si possono citare la BOB (Best of the Best),

la D&B e, soprattutto, la UFO (United Filmakers Organization) " Kar, Bren. Hong Kong Cinema. A Cross-Cultural Hew. citM p. 281.

M J. Yang. Once Upon a Time in China* Atria Books, New York-Londru 2003, p. 94. Secondo dati riportati da David Bordwell, a metà degli anni Ottanta più del 50% del

budget dei film di Hong Kong era coperto dalle prevendite tai wanes i; inoltre, nei pumi

anni Novanta, venivano annualmente distribuiti a Taiwan un numero di film di Hong Kong che oscillava fra i 130 e i 200 (Planet Hong Kong, cit., p. 74).

308

il cinema dell 'Estremo Oriente

Hong Kong alla Cina (ln luglio 1997). A simboleggiare la svolta c’è il successo di Jurassic Park (Steven Spielberg, 1992), che sbanca i botte­ ghini di tutti i principali paesi del Sud est asiatico. Per comprendere i termini della crisi è sufficiente guardare ciò che accade a Taiwan, dove fra il 1993 e il 1995 venticinque dei trenta film in testa agli incassi sono americani e solo quattro dei rimanenti sono di Hong Kong11. Non solo il cinema di Hong Kong frana nei mercati del Sud est asiatico, ma anche nella stessa colonia si registra un terribile calo di presenze (dai 66 mi­ lioni di spettatori del 1988 ai 44 del 1993, per arrivare ai 22 del 1996), un sensibile aumento del successo dei film hollywoodiani (l’incasso dei film occidentali a Hong Kong arriva a toccare nel 1996 il 45%), un dra­ stico calo della produzione (115 film nel 1996. meno della metà di quelli di tre anni prima) e del budget mediamente previsto per ogni film1'. Ciò ovviamente non significa che a Hong Kong non si siano prodotti dopo il 1993 film di rilievo, sia sul piano estetico (Wong Kar-wai, Stan­ ley Kwan, Fruit Chan, Johnnie To) sia su quello spettacolare e commer­ ciale (ad esempio le serie Young and Dangerous), né che non si siano verificati nuovi interessanti fenomeni sul piano produttivo (su tutti il la­ voro della Milkway Image, fondata nel 1996 dallo stesso Johnnie To, il regista che forse meglio di altri rappresenta oggi il desiderio di riscatto del cinema hongkonghese). Ma è comunque certo che l’Età dell’oro è molto lontana, e le prospettive future non certo rosee. Insieme alla ri­ scossa hollywoodiana, che date le mutate condizioni politiche ed eco­ nomiche ha finalmente compreso l’importanza dei mercati asiatici, ap­ profittando per altro del gusto per un cinema spettacolare che proprio Hong Kong aveva contribuito a diffondere - ma senza più riuscire a soddisfarlo, a causa di una logora serialità, e la conseguente perdita del dominio di questi stessi mercati -, un’altra ragione della crisi sta indub­ biamente nel fenomeno della pirateria. Introdotta dalla Philips e dalla Sony nel 1993, la tecnologia dei VCD si diffonde rapidamente in Cina e a Hong Kong, grazie alla sua economicità e facilità di produzione, ri-

” Ai. p. 75. 12 Jw, pp. 75-76; O. Jovard» Aong Kong: le temps du replit in Made in China., «Cahier»

du Cinema», numéro hors-série, 1999. p. 13.

Il cinema di Hong Kong: dalla nascita della New tfave (1980) ad oggi

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produzione, consumo e scambio1-: tutte caratteristiche che facilitano la diffusione di copie illegali, vendute ovunque a Hong Kong in concomi­ tanza, se non addirittura con un giorno d’anticipo, con le uscite dei prin­ cipali film nazionali e non. Nella seconda metà degli anni Novanta, ma il fenomeno persiste ancora oggi, lui VCD pirata di un film in program­ mazione nelle sale poteva costare all’incirca 3 dollari, la metà del costo di un biglietto. Per questo il 17 marzo 1999 duemila persone, guidate fra gli altri da Jackie Chan, Tsui Hark e Anita Mui, scendono in piazza per protestare contro il fenomeno della pirateria e l’indifferenza delle autorità di governo e di polizia. Ma qui siamo già al dopo 1997, una realtà diversa da quella precedente al passaggio alla Cina popolare e di cui ci occuperemo più avanti. Piuttosto, fra le cause della crisi maturata nel corso della prima metà degli anni Novanta ne va ancora aggiunta al­ meno una: l’approssimarsi di quel passaggio alla Cina, previsto come abbiamo visto nel luglio 1997 ma deciso già dagli accordi del 1984, che determinò inizialmente un periodo di grande e frenetica attività, teso a portale a compimento tutto ciò che era «ancora possibile fare», e poi, al contrario, un periodo di più apatica rassegnazione - e non solo in ter­ mini psicologici - verso l’ineluttabilità di una scadenza destinata a cam­ biare molte cose. Ed è appunto in questo contesto che va letta la fuga verso Hollywood di molti talenti del cinema di Hong Kong, sostanzial­ mente inaugurata nei 1993 da John Woo, a dire il vero l’unico che ha trovato in America l’opportunità di iniziare sul serio una nuova carriera e di confermare il suo talento artistico, seguito da altri registi c attori: da Tsui Hark a Ringo Lam, da Jackie Chan, che già negli anni Ottanta aveva tentato qualche sortita hollywoodiana, a Yuen Woo-ping, da Jet Li a Chow Yun-fat, per non nominarne che alcuni14.

D. Drssfr, Hong Kong Film and the New CinephUiu, in Morris, Li, Chan ChjngKiu, Hong Kong Connections^ cit., p. 211. *4 Molti di questi transfughi non troveranno in America l’Eden sperato, e ritorneranno a

lavorare m patria in un contesto, tuttavìa, in cui molte cose erano cambiate.

310 13.3

Il cinema dell‘Estremo Oriente

La New Wave

Nel 1970 nasce la RTHK (Radio Television Hong Kong), un canale sov­ venzionato dal governo con l’intento di offrire una programmazione at­ tenta alla realtà sociale. Nel 1972 la RTHK lancia la serie Below the Lion Rock, costituita da brevi episodi fra i cinque e i quindici minuti, con protagonista un’ampia famiglia della working class immersa nella vita di tutti i giorni, fatta di piccoli problemi e difficoltà. L'intento prin­ cipale della serie è quello di illustrare le scelte del governo locale e di propagandarne gli obiettivi, ma nelle mani di alcuni esponenti di una nuova generazione di registi, come Ann Hui e Allen Fong, gli episodi della serie non solo si allungano e allontanano dall’originale formai fa­ miliare. ma arrivano anche a mettere in discussione alcune scelte dello stesso governo, mentre offrono una spaccato via via più approfondito della realtà sociale della colonia. La popolarità della trasmissione spinse altre emittenti commerciali a realizzare programmi più attenti alla so­ cietà, come, per conto della TVB, le serie realistiche e poliziesche CJD e ICAC (dedicata, quest’ultima, al lavoro della Indipendent Commission Against Corruption), in cui si inizia ad apprezzare il lavoro di un giova­ ne talento come Patrick Tarn. Nello stesso periodo, un altro giovane di belle speranze dal nome Tsui Hark gira per la CTV (City Television) una serie mistery wuxiapian dal titolo Gold Dagger Romance. È l’età dell’o­

ro della televisione hongkonghese1’. Intanto nel 1977 nasce J’Hong Kong Film Festival, destinato rapida­ mente ad affermasi come il festival più importante del panorama asiati­ * Oltre a diventare un punto d’incontro di tutti gli appassionati di ci­ co" nema orientale, e non solo, il festival contribuì a sviluppare gli studi sul­ la storia del cinema della colonia, in stretta collaborazione con l’Hong Kong Film Archive, e a sollevare l’interesse per i cosiddetti «ragazzi del­ la televisione», il gruppo di giovani registi che stava dando una nuova immagine alla TV di Hong Kong. Sono questi anche gli anni in cui ini-

15 Yang, tìnte Upon a Time in China, cit., p. 71. Ruolo tenuto sino all'inizio del nuovo millennio, quando il festival di Hong Kong si vinto superare in prestigio dal più dinamico festival di Pwtan della Corea del Sud.

t

fl cinema tìi Hong Kong: dalla nascita della New Witve (1980) ad oggi

311

ziano diffondersi nuove riviste di cinema, come «Close Up Film Re­ view» e «Film Biweekly» (più tardi diventata «City Entertainment»), che promuovono «un interesse critico c artistico per le diverse cinematogra­ fie nazionali e per i film e i filmakers della Hong Kong New Wave»'7. Gli anni Settanta sono, come abbiamo visto, un periodo in cui il cine­ ma di Hong Kong gode di una nuova popolarità intemazionale grazie al successo dei film di kung fu; tuttavia l’esaurirsi della forza trainante dei film di arti marziali spinge il mondo della produzione cinematografica, e in particolare delle tante piccole compagnie indipendenti sorte in que­ gli anni, ad andare alla ricerca di nuove idee e nuovi talenti. 1 giovani scrittori e registi televisivi che si erano affermati in quegli anni sul pic­ colo schermo si vedono così corteggiati da queste compagnie che offro­ no loro interessanti progetti a basso budget Fra il 1978 e il 1980 esordi­ scono così alla regia cinematografica, fra gli altri, Ann Hui {The Secret, Fengjie, 1979; The Spooky Bunch, Jong do jing, 1980), Patrick Tarn {The Sword, Ming kim, 1980), Tsui Hark (The Butterfly Murders, Dip bin, 1979; We Are Going to Eat You, Dei yuk mo moon, 1980; Dangerous Encounter - 1st Kind, Dai yat lui ying aau him, 1980), Alex Cheung (Cops and Robbers, Dim ji bing bing, 1979), Allen Fong {Father and Son, Foo ji ching, 1981 ) e Yim Ho {The Extras, Ka lefei, 1978; Wedding Bells, Gong zi jiao, 1980). Si tratta di una generazione di registi nata fra la fine degli anni Quaranta e l'inizio del decennio successivo, cresciuta in una Hong Kong che stava rapidamente affermandosi come importan­ te centro manifatturiero e finanziario intemazionale. Dopo aver ricevuto un’educazione perlopiù occidentale, molti di questi futuri registi vanno a studiare all’estero e, tornali in patria nel corso degli anni Settanta, entra­ no nel mondo della televisione, preferendo I’inunediata operatività che questa offriva piuttosto che rassegnarsi al lungo c incerto periodo di ap­ prendistato che un affermato studio cinematografico avrebbe loro potu­ to offrire. L’esperienza televisiva passa - come abbiamo visto - attraver­ so opere dal respiro sociale, spesso contrassegnate da temi di ordine cri­ minale (con l’eccezione di Tsui Hark che dimostra subito il suo amore per il grande immaginario dirigendo una serie wuxiapian). ' ■' L Kar, An Overwiew of Hong Kong i New Jtfrw Cinema, in Yau (a cura di), At full

Speed. Hong Kong Cinema in a Borderless World, cit.. p. 39.

312

lì cinema deli 'Estremo Oriente

Nati e cresciuti nella nuova Hong Kong, i registi della New Wave si oppongono alla precedente generazione di cineasti, fatta invece di emi­ grati dalla Cina continentale che, nel complesso, aveva espresso una grande nostalgia per la madrepatria e uno scarso interesse per la realtà contemporanea hongkonghese. Al contrario dei registi di questa prece­ dente generazione, Patrick Tam, Ann Hui, Alien Fong e gli altri si sento­ no vitalmente legati a una realtà che, come quella di Hong Kong, sospe­ sa fra Oriente c Occidente, prosperità economica e arretratezza sociale, segnata da esasperati contrasti di classe e consapevole dell’imminenza del ritorno alla madrepatria, pone dei problemi di identità collettiva in cui si sentono profondamente coinvolti. Per dirla in breve, grazie ai re­ gisti della New Wave, la città di Hong Kong, in tutti i suoi molteplici aspetti, diventa finalmente l’indiscutibile protagonista del cinema di Hong Kong. Come scrive Olivier Assayas, «per la prima volta si vedeva Hong Kong, si vedeva la sua gente, le sue strade, i suoi neon, tutto ciò che il cinema dell’epoca evitava, occultava, trascurava»18. A questa nuova immagine della città contribuiscono anche modi di lavorazione che, ereditati dall’esperienza televisiva, privilegiano picco­ le troupe, riprese on location e scelte improvvisate. ben lontane dai me­ todi classici dei grandi studi hongkonghesi, e in grado di sfruttare tutto ciò che di straordinario una città come Hong Kong poteva (e può) offri­ re. Come scrivono Law Kar e Frank Bren, «Esteticamente la New Wave è stata una reazione alla distanza che aveva contrassegnato il cinema di arti marziali dalla realtà quotidiana della vita urbana»1'1. Pur nelle loro specificità individuali, i registi della New Wave mani­ festano nel complesso, oltre a una notevole attenzione alla realtà socia­ le della Hong Kong contemporanea, con una particolare predilezione per le contraddizioni dell'universo giovanile, anche un’indubbia pro­ pensione per la sperimentazione stilistica. L’attenzione all’universo gio­ vanile e la vocazione alla sperimentazione si fonde in film come Dan­ gerous Encounter - 1st Kind di Tsui Hark, Nomad (Lit foh ching chun, Patrick Tam, 1982), Lonely IS (Leng mooi jai, David Lai, 1982), Teena-•*

•* O. Assayas, La generation de 1997. «Cablerà du Cinema - Made in Hong KongM. 362-63, settembre 1984, p, 100. 19 Kar, Bren, Hong Kong Cinema. cit.. p. 285.

Il cinema di Hong Kong; dalla nascita della /Vew IVave (1980) ad oggi

313

ge Dreamers (Ling mung hoh lok, Clifford Choi, 1982) dove, secondo Stephen Teo, si rinvengono «un ritmo ellittico e libero», «uno stile di­ retto e quasi documentario» e «una recitazione naturalistica»20. Tuttavia, nel suo complesso, e diversamente da molte altre Nouvelle Vagues, la New Wave di Hong Kong cercò di fondere l’arte, la politica e l’attenzione alla società con più tradizionali forme d’intrattenimento. Da qui, il forte legame con il cinema di genere: un legame certamente critico, che talvolta spinge alcuni dei film della New Wave a rileggere in forme «sovversive» il genere di rimando. Se la maggior parte di questi registi debutta, o comunque si cimenta nella primissima fase della sua carriera, con film a sfondo poliziesco e criminali, non mancano comun­ que altri orizzonti, come quelli del wuxiapian, dell'horror, della tradi­ zionale ghost story, e persino di uno dei generi per eccellenza del cine­ ma cantonese come il melodramma familiare. Gli elementi più radicali del cinema della New Wave di Hong Kong, tuttavia, si stemperano rapidamente e, già nella prima metà degli anni Ottanta, molti dei suoi registi finiscono nell’oscurità o abbandonano le loro radici indipendenti, passando alla Golden Harvest o a nuove so­ cietà «alla moda» come la Cinema City e la D&B21. Vediamo più da vicino, anche se per sommi capi, il contributo al ci­ nema della New Wave di Hong Kong dei suoi quattro maggiori espo­ nenti: Ann Hui, Patrick Tarn, Alien Fong e Tsui Harfc Ann Hui esordisce alla regia nel 1979 con The Secret, un thriller psi­ cologico più vicino a Bergman che a Hitchcock22, ma il suo contributo al cinema della New Wave è legato soprattutto alla «trilogia vietnami­ ta», che dal film televisivo The Boy From Vietnam (Loi hak, 1978) pro­ segue con The Story ofWoo Viet ( Ubo Yuet dik goo si, 1981 ) e Boat Peo­ ple (Tau ban no hoi, 1982). The Story of Woo Viet narra le vicissitudini di un giovane profugo vietnamita che sogna di andare in America. Una serie di tragici eventi lo porteranno, invece, nel sottobosco criminale della Chinatown di Manila. Il film è costruito come un melodramma nero, dai ioni cupi e angoscianti, dove ogni speranza e prospettiva sono

50 Teo, Hong Kong- The Extra Dimensions, cit„ p. 156. n

Yakkì, Once Upon a Time in China, ciL, p. 75.

22 TEO, Hong Kong. The Extra Dimensions, cit., p. 147.

314

lì cinema deli 'Estremo Oriente

vanificate da una «precarietà esistenziale» che fa si che il film non si areni «nelle secche di una banalità genericamente umanitaria» 22. Più realistico e documentario, Boat People racconta invece la tragica vicen­ da di un fotoreporter giapponese che a partire dalla sua iniziale simpatia per il governo vietnamita scopre una realtà fatta di orrori e miserie che lo spinge a schierarsi dalla parte di coloro che fotografa. Se la «trilogia vietnamita» denuncia «la fuga, l’esilio lo spostamento dei sino-vietnamiti come una tragedia del periodo e [ . ] un ulteriore esempio del destino della diaspora cinese»24, essa è stata vista anche co­ me la prima espressione cinematografica della paura e dell’ansietà degli abitanti di Hong Kong per il 1997. Come scrive Lo Wai-luk: Il Sud Vietnam fu «liberato» dal Nord Vietnam a metà degli anni Settanta; nel 1997 Hong Kong dovrà ritornare alla Cina. Se possiamo testimoniare sullo schermo gli orribili atti dei comunisti vietnamiti, che cosa possiamo prevedere del futuro di Hong Kong? Questo sillogismo può sembrare illogi­ co c irrazionale, ma é cosi semplice e diretto che la gente comune lo afferra senza rifletterci molto in profondità. Ciò che è accaduto in Vietnam potreb­ be accadere a Hong Kong. Il Vietnam di Ann Hui esprime l’ansietà colletti­ va dei cittadini di Hong Kong. È questa ansietà storica ebe spiega perché i critici hanno visto nel Vietnam dei due film una metafora delle relazioni sto­ riche del popolo di Hong Kong con la Cina continentale2'.

Ritenuto il «formalista» del gruppo, Patrick Tarn è stato forse l’unico regista al mondo ad aver girato telefilm ispirati esplicitamente al cine­ ma di Godard (come Miu Kam-fung. id., 1976). Forte della notorietà co­ struita attraverso il lavoro televisivo, Tarn si vede offerta la possibilità, da parte della Shaw Brothers, di dirigere un film in costume, The Sword (1980), che, secondo Hector Rodriguez, «trasforma le convenzioni di genere del wuxia ristrutturando l’epica figura dell’eroico uomo di spada

- G.A. NaZZAro, A. Tagljacozzo, 77 dizionario dei film di Hong Kong, Universitaria

Editrice, Chicli 2005, p. 382.

*4 Chf.uk Pak-ton passando dai nidi famigliar! ( Gunmen e Wild Search Ging, ehafgoo st, Jackie

Chan, 1985) e persino dai cimiteri (Dangerous Encounter). 7 S. Ted, Hong Kong Cinema, The Extra Dimensions, BF1 Publishing. London, 1997. pp. 175-183, 230-242.

366

// cinema deli'Estrema Oriente

una prima significativa divaricazione spingendo i cineasti rimasti o verso un sempre più acceso iperrealismo o verso un’estetica del caos permean­ te soprattutto sul piano visivo e stilistico. Il primo filone, non lontano dal­ le suggestioni della New Wave di fine anni Settanta, è composto da alcu­ ni lavori di Kirk Wong come Organized Crime Triad Bureau (Chung ngon sat luk: O gei, 1994) e Rock n ’Roll Cop (Saang Gong yat ho tung chap faan, 1994), dal cupo Police Confidential (Zhen han xing chou wen, Raymond Lee, 1995), dall’asciutto Loving You ( IFu weishen tan, Johnnie To, 1995), dal dittico Once Upon a Time in Triad Society 1 e 11 ( IVotig Kok cha fit ’yan / Hui ha! Ja fit 'yan bing fuen, Cha Chuen- Yee, 1996), e da To Be No 1 (Jin bang ti ming, Raymond Lee, 1996); il secondo - ma le classificazioni vanno intese in senso parziale, con evidenti penetrabilità reciproche - vede come capofila Wong Kar-wai con film come As Tears Go By, Hong Kong Express e Angeli perduti (Duo luo tian shi, 1995) se­ guito dagli emuli come il Patrick Leung di Beyond Hypothermia, il Pa­ trick Yau di The Odd One Dies o il Donnie Yen di Ballistic Kiss (Saat saat yan, tin tiu mo, 1998), titoli caratterizzati dalla fascinazione per i tempi morti, la quotidianità inutile, il gesto fine a sé stesso, realizzati con uno stile manierista, adrenalinico e visionario (montaggio discontinuo, Jump cut, step-printing) ed una spiccata autoreferenzialità. Ebbene, non può e non deve sorprendere se il crime movie, giunto al­ l’appuntamento con il cambio di amministrazione «scottato» da un de­ cennio di produzioni hard boiled o sempre più anarchiche, accelera il proprio processo di decomposizione, levando respiro e confine tempo­ rale alle storie narrate, attivando moti di implosione, soffocando ogni afflato di speranza. Gran parte del merito della riconfigurazione delle due tendenze citate in un nuovo (nero) orizzonte di genere va assegnato alla Milkyway Image Co., società di produzione fondata da Johnnie To e Wai Ka-fai nel 1996, capace di affermare nel breve volgere di pochi anni non solo una propria estetica narrativa, linguistica e visiva (in gran parte collimante con quella dei suoi due co-fondatori e registi), ma an­ che di perfezionare un modello di produzione low budget adatto ai tem­ pi di crisi . * Come se non bastasse, la casa della Via Lattea traccia le ’ Per una storia della casa di produzione (partigiana e piena di testimonianze dirette) si rimanda a: L. Puh, Milkyway image. Beyond imagination - Ubi Ka-Fat < Johnnie 7b * Creative Team (ÌW6-200S), Joint Publishing, Hong Kong, 2006.

I! «carne movie» all'appuntamento con T«handover»

367

nuove coordinate di prossimità tra le rappresentazioni criminali e il mu­ tato contesto socio-politico del paese, consentendo così al crime movie di essere ancora una volta la cartina di tornasole di un processo di tra­ sformazione che non coinvolge solo la gestione amministrativa o eco­ nomica di un paese, ma che stravolge - come vedremo nel resto del ca­ pitolo - le mentalità, le abitudini, le posture e le posizioni dei suoi diso­ rientati abitanti.

15.1

Gli eroi muoiono sempre

Che all'alba del 1997 ogni prospettiva esegetica sul genere debba essere capovolta o rinegoziata è patente già dalla comparsa del piccolo ma si * gnificativo Too Many Ways to Be Number One, secondo lungometrag­ gio di Wai Ka-fai, nonché seconda produzione (dopo Beyond Hypother­ mia) della neonata Milkyway. Too Many è un film dal doppio plot perché mette in scena, uno di se­ guito all’altro, gli intrecci che si determinano a partire dalla decisione di Doggie - un giovane sbandato che sogna di salire la scala gerarchica delle triadi - di saldare o meno il conto salato che gli viene presentato in un bagno turco. In un caso, verrà coinvolto in un viaggio in Cina che terminerà con una rapina a un portavalori dal tragico epilogo, nell'altro in un viaggio a Taiwan dove si troverà a gestire, senza fortuna, il con­ flitto sanguinoso tra due pingui fratelli gemelli. Impressiona la realiz­ zazione della sequenza che produce la biforcazione narrativa. La prima volta che assistiamo alla scena, quando Doggie non salda il conto e na­ sce una violenta colluttazione, la macchina da presa riprende l’azione senza stacchi, senza mai arrestare il proprio moto e, soprattutto, capo­ volta su sé stessa; la seconda occorrenza invece è resa con immagini che seppur caotiche ci appaiono nel loro «naturale» orientamento. La me­ tafora è esplicita: che si decida o meno di liquidare i conti con la storia e quindi sottostare o meno a decisioni prese da altri (1 * handover) il desti­ no che attende gli hongkonghesi è, in qualche misura, il medesimo: l’e­ spatrio (da sé stessi) e la morte. Nondimeno la presenza della cinepresa rovesciata, nel primo caso, preannuncia anche la divaricazione definiti-

368

Il cinema dell 'Estremo Oriente

va del rapporto tra reale e sua proiezione, tra conoscenza e sua effettiva applicazione, tra attese e loro modalità di concretizzarsi. Lo spettatore, infatti, malgrado veda gli elementi della diegesi in continuità e senza stacchi, secondo l’ontologia realista del piano sequenza, per via dell’in­ versione della cinecamera si scopre incapace di decodificare ciò che re­ gistrano i suoi occhi, come se l’attività della corteccia cerebrale non fosse più in grado di elaborare l'immagine capovolta che si forma sulla retina. Senza la possibilità di assimilare la proiezione bidimensionale della realtà, chi guarda non può più postulare esegesi convincenti9, e una volta sospeso il giudizio, non restano che forme di attesa stressate e sovvertite da catene evenemenziali che promettono soluzioni e ne rea­ lizzano altre. In questo caso il meccanismo alla sliding dors non produ­ ce intrecci paralleli dall’esito divergente, ma due intrecci giustapposti l’uno dopo l’altro, dall’esito tragicamente identico. Altre tre pellicole della factory’ di To e Wai confermano, l’anno suc­ cessivo, il cambio di paradigma occorso a cavallo deU’Aan, A, 350

Metade Fumaka, 373

Man cheng Jin dai huang jin jia, vedi

Miao Miao, 429

Città proibita, La

Midori, 241

Man jeuk, vedi Sparrow (mandarino: Hfew

Millenium Mambo, 423

Milyang, vedi Secret Sunshine

que) Man Walking on Snow, 244-245

Minjing gushi, vedi On the Beat

Mangjing vedi Blind Shaft

Ming hXvedi Sword, The (mandarino:

Mang shan, vedi Blind Mountain

Mingjian)

Mangiare, bere, uomo, donna, 421

Manna mui gwangfang,

vedi

Under­

ground Rendezvous

Mano, La, 395.402

Minna yatteru ka. vedi Getting Any?

Minyeo neun goerowo, vedi 200 Pounds

Beauty Mio vicino Totoro, It, 293

Afow i Hanamichl, A, 239

Miracolo a Milano, 279

Many Happy Returns, 208

Miss Jin Xing, 20

Marathon, 163, 166, 171

Missing, The, 447

Mare, ll, 124

Missing Gun. The, 33, 88

Marebito, 224

MW The, 338,372-373. 375-376.378

Mari iyagi, vedi My Beautiful Girl Mary

Missione su Marte, 108

Marrying the Mafia, 117,124,164

Miu Kam-fung, 314

Masseur [chi Enters Again, 260. 262,265

Miyamoto Musashi, vedi Samurai 1-3 (se-

Masseur Ichi the Fugitive, 260, 262 Moti shengsui, vedi fftrore/i on the Long

March Matrimonio di Tuya, H, 26

Matsugane Potshot Affair. The, 247 Matsugane ransha Jiken. vedi Matsugane Potshot Affair, The

May IS, 163-164,166-167,169.171

Magone, vedi Glasses

rie)

Mrzu no naka no hachigatsu, vedi August in the Water

Mo-fa a-ma, vedi Grandma and Her Ghosts Mou gaan dou, vedi Infernal Affairs

(mandarino: Wu jian dao) Mo hitofsu no kyoiku: ina Shogakko Haru-

garni no kiioku, vedi Lessons from a Calf

Mei li zai chang ge, vedi Murmur ofYouth

Moe no Sukazu, vedi Sukazu

Meiren cao, vedi Foliage, The

Mogari no mori, vedi Mourning Forest.

Meiyou hangbiao de heliu, vedi River

Without Buoys Meili shiguang, vedi Best of Times, The

Meili xin shijie, vedi Beautiful New World. A

Meine /Camera tògt nicht, 84

Memento Mori, 125 Memories ofMurder, 124,126,132,163-

164,166

The

Mo mei san taam, vedi Loving You (man­ darino:

shentan)

Monday, 228 Mongolian Ping Pong, 25 Monogalari kara ashibyoshi yori: Midori,

vedi Midori Moon and Cherry, 232 Moon is... the Sun i Dream, The, 130

500 Moon to, vedi Protégé (mandarino: Men Tu)

Indice dei film Nappun namja, vedi Bad Guy Needing You, 338

Moonlight Express. 373

Neighbors, 6,69

Moonlight Whispers. 199,215-216

Nenturi Kydshiró, 259

More than One is Unhappy. 24, 28-29

Neoneun nae unmyeong, vedi You Are My

Mourning Forest, The. 213 Morning Sun. 55

Mosheng fiantang, vedi Estranged Par­

adise

Sunshine New One-Armed Swordsman, The, 346 Ni na bian Ji dian, vedi Che ora è laggiù?

Niezi, vedi Outcasts, The

Most Terrible Time in My Life. The, 225

Night and Day, 25

Mother, 124,126,132

Night Before the Strike. The, 121

Mr. Ifampire, 323

Night in Nude, A, 226

Mr. Zhao, 26,29

Nightmare Detective, 207

Mudidi Shanghai, vedi Welcome to Desti­

Nightmare Detective 2. 207

nation Shanghai Mu ma ren. vedi Herdsman, The Mo Gong, vedi Battle of Wits (cantonese: Mukgpng)

Murder, Take One, 133

Nihon kuroshakai: Ley Lines, vedi Ley Lines Nijùseiki shdnen, vedi Circus Boys

Niluohe de ntier, vedi Daughter of the Nile

Murmur of Youth .423-424

9Souls,22\

My Beautiful Girl Mary, 126

Ningen no gókaku, vedi License to Live

My Blueberry Night, vedi Bacio romanti­

Ninjò kami fusen, vedi Humanity and Pa­

co, Un

per Balloons

My Dear Enemy, 132

Niu Pi, vedi Oxhide

My God, My God, Why Hast Thou For­

No 16, Barkhor South Street. 85

saken Me?, 215

No Blood No Tears, 134

My Memories ofOld Beijing, 70

No Man's Land, 229

My Sassy Girl, 118, 123-125, 164-165,

No One

169-171,180

Ark. 246

No Regret about Youth. 16

My Son, 124, 133

Nobody Knows, 212, 286, 291-294, 296

My Wife is a Gangster 11.170

Nomad. 312, 315

Nagisa no shlndobaddo, vedi Like Grains

Nora inu. vedi Cane randagio

Noon moot, vedi Tears

ofSand

Nambugun, vedi South Korean Army The

Noriko no shokutaku. vedi Noriko s Din­ ner Table

Namgeuk ilgi, vedi Antartic Journal

Noriko k Dinner Table, 240

Nanguo zaijian, nanguo, vedi Goodbye

/W/....235

South Goodbye

Nowhere to Hide, 124

Nanayo, 213

Nude Woman. 215

Nanayomachi, vedi Nanayo

Nudo no yoru, vedi Night in Nude, A

Nannan nunu, vedi Men and fibmen

Niter lou, vedi Army Nurse

Nappeun yonghwa, vedi Bad Movie /

Nui yan sam, vedi Women (mandarino:

Timeless, Bottomless

Nù Ren Xin)

501

Indice dei film Ntiren de gushi, vedi Women fr Story

Organized Crime shu she, vedi Snake Boy, The Woman of Wrath, 412 Woman, Demon, Human, 6.78-79

Women, 332 Women de tianye, vedi Our Field

naio, ll

Xi wang zhi lu, vedi Railroad of Hope

Xiyan, vedi Banchetto di nozze, 11 Xiatian de weiba, vedi Summers Tail

Xiangjiao tiantang, vedi Banana Paradi­

se Xiang ri kui, vedi Sunflower Xianghuo, vedi Incense Xiangnii Xiaoxiao, vedi Girl From Hu­ nan, A

Xiaobing Zhang Ga, vedi Zhan ga The Soldier Boy Xiao caifeng, vedi Balzac e la piccola

sarta cinese Xiaohua, vedi Little Flower, The

//e/. The

Women Flowers. 75

Xiaojie, vedi

Women on the Long March. 78

Xiaoshuo, vedi Obscure, The

Women's Story, 78

Xiao Wu, 21. 26. 85. 88. 94. 96-98, 104-

Wong Fei Hung, vedi Once Upon a Time

in China (mandarino * Huang Fei-hong) Wong gok hak yau, vedi One Nite in

Mongkok (mandarino: Mmgjiao heiye) Wong gok ka moon, vedi As Tears Go By (mandarino: Wangfiao Kamen)

107

Xtaobi de gushì, vedi Gnnwng Up Xiaojie, vedi On a Narrow Street

Xtaoshan Going Home, 94 Xiaoshan Huijia, vedi Xiaoshan Going Home

Wong Kok cha fit *yan> vedi Once Upon a

Xtari nuanyangyang, vedi / Love Beijing

Time in Triad Society (mandarino:

Xin dubi dao. vedi New One-Armed

Wing Jiao zha fit 'ren) Ww Yuet dik goo si, vedi Story of Woo Fi­

et, The (mandarino: Huyue de gushi) World Without Thieves, A, 32

Swordsman, The (cantonese: Sun duk bei do) Hung bong, vedi Imp, The (mandarino:

Xiong bang)

World, The, 20. 30, 96-99. 101, 106, 108

Xiu-xiu: The Sent Down Giti, 57-60

Wu Ji, vedi Promise, The

Xizao, vedi Shower

Wu lian, vedi Dance Love

Xualian, vedi Red Beads

Wu mi le, vedi Let if Be

Xue! Zongshi re de, vedi Blood is Always

Wu nii ba is hou, vedi Daughters

Hot, The (eliminato True)

Wushan yunyu, vedi In Expectation

Xuese Qingchen, vedi Bloody Morning

Wu wang wo. vedi Forget Me Not

Xunqiang, vedi Missing Gun, The

Indice dei film

510 Yamaha frsh Stali, 69-70 Yamaha yudang, vedi Yamaha Fish Siali

Yan haakyan, vedi Dead and the Deadly, The (mandarino: Ren xia ren)

Yan guang si she gewutuan, vedi Splendid Float Yan joi nau yeuk, vedi Fidi Moon in New York (mandarino: Renzai Niuyue) Yang chun lao ba, vedi Papa s Spring

Yin ji kau, vedi Rouge (mandarino: Yanzhi kou) Yìnshi nannii, vedi Mangiare, here, uomo,

donna

Yìn tzan-tze, vedi Grandma i Hairpin

Ying hung boon sik II, vedi Better Tomor­ row il, A (mandarino: Yingxiong bense

er) Ying hung boon sik, vedi Better Tomor­

Yang Yin; Gender in Chinese Cinema, 333

row, A (mandarino: Yingxiong bense)

Yangguang Canlan de Risi, vedi In the

Ying hung boon sik, vedi Story of a Dis­

Heat ofSun Yao a yao, yao dao waipo qiao, vedi Tria­

de di Shangai, La Yapian Zhanzheng, vedi Opium War, The

Yattóman, vedi Yatterman

charged Prisoner (mandarino: frngx-

iong bense) (film del 1967) Yingxiong, vedi Hero Yinshe mousha ’an, vedi Case of the Sil­

ver Snake, The

Yatterman, 220

Yojinbò, vedi Sfida del samurai, La

Yau si tiu mo, vedi Island Tales, The

Yoru ga mata kuru, vedi Alone in the

(mandarino: You Shi Tiaowu)

Night

Yawarakai seikatsu, vedi It s Only talk

Yoshino s Barber Shop, 231

Yeshan, vedi In the Wild Mountain

You Are My Sunshine, 124

Yeyan, vedi Banquet, The

You Don ? Even Know, 126, 128

Ye. leung heun, vedi Pye-Dog, The (man­

Youhua haohao shuo, vedi Keep Cool

darino: Ye Hang quart) Yellow Earth, 7-8,11,72, 75-76, 93

You pitia, sai Beijing, vedi One Day in

Beijing

Yeogo goedam li, vedi Memento Mori

You Shoot, I Shoot, 339

Yeogo goedam, vedi Whispering Corri­

Youchai, vedi Postman

dors

Yeoja, Jeong-hye, vedi This Charming Girl

Yeokdosan, vedi Rìkidozan: A Hero Etfraordinary

Yeopgijeogin geunyeo, vedi My Sassy Girl

Yesterday, 118 H sa bui lai, vedi Isabella (mandarino: Hsha beila) YrYì-Euno... erfwe/,Xn,431

YiYi, vedi YiYì-Euno,.. e duet tfge he Bage, vedi One and Eight

Yat Goh Ji Tau Dik Daan Sang, vedi Too

Young and Dangerous, 308 Young Thugs: Innocent Blood, 220

Young Thugs: Nostalgia, 220

Your friends, 244 Yours and Mine, 427 Kw faai lokyu doh, vedi Hold You Tight

(mandarino: Yue kuai le yue duoluo)

Yùbe no himitsu, vedi Secret Evening, A Yuen lingyuk, vedi Center Stage /Actress,

The (mandarino: Ruan Lingyu)

Yume mint yóni nemuritai, vedi To Sleep

so as to Dream

Yume no ginga, vedi Labyrinth ofDreams

Many Ways to Be Number One (man­

Yume no naka e, vedi Into a Dream

darino: Yige zhitou de dansheng)

Yuqing sao, vedi Jade Love

Yihe yuan, vedi Summer Palace

Yureru, vedi Sway

Indice dei film Za fròdo: Ang. vedi Code, The Zatòichi. 209.259.263.266-268 Zatòichi abare dako, vedi Sword ofZatal­

chi, The Zatòichi abare himatsuri, vedi Blindi Swordsman Fire Festival. The

511 Zatòichi tekka tabi, vedi Blind Swords­ man s Cane Sword, The

Zatòichi to Yojinbo, vedi Zatòichi Meets Yojinbo

Zatòichi umi o wataru, vedi Zatòichi s

Pilgrimage

Zatòichi and a Chest of Gold, 260

Zatòichi, vedi Zatòichi

Zatòichi and the Doomed Man, 260

Zatòichi i Conspiracy. 260

Zatòichi at Large, 260-261

Zatòichi^ Pilgrimage, 260

Zatòichi Challenged.

Zatòichi s r Trip into Hell, 259

Zatòichi chikemuri fraido. vedi Zatòichi

Zhai bian, vedi Heirloom

Challenged Zatòichi goyò tabi, vedi Zatòichi at Large

Zatòichi hatashijò, vedi Blind Swordsman and the Fugitives, The

Zatotchi in Desperation, 259

Zatòichi jigoku tabi, vedi Zatoichi’s Trip into Hell Zatòichi kenba daiko, vedi Blind Swords­ man Samaritan, The

Zatòichi kenka, vedi Blind Swordsman: Zatòichi Fighting Journey Zatòichi keshò tabi, vedi Fight, Zatòichi,

Fight Zatòichi kyòjò tabi, vedi Masseur Ichi the

Fugitive

Zhan ga. The Soldier Boy, 64

Zhangda chengren, vedi Making ofSteel. The Zhantai, vedi Platform

Zhan zhi le, bie paxia, vedi Stand Up, Don 't Bend Over Zhao Le. vedi For Fun

Zhao xiansheng, vedi Mr, Zhao

Zhen han xing chou iiv/f. vedi Police Confidential Zhenghun qishi, vedi Personals, The Zhi fai Ji, vedi Paper Airplane

Zhifu, vedi Uniform Zhiyao weini huo yitian, vedi Treasure Island

Zatòichi Meets Yojinbo, 260-263, 269

Zhoumo qingren, vedi Weekend Lover

Zatòichi monogatari, vedi Life and Opi­

Zhujian shaonian. vedi Kendo Kids

nion ofMaseur Ichi, The Zatòichi no uta ga kikoeru, vedi Blind

Swordsman Vengeance, The Zatòichi rò yaburi, vedi Blind Swords­

man s Rescue, Die Zatòichi sabato giri, vedi Zatòichi and the

Doomed Man Zatòichi sekisho yaburi, vedi Adventures

ofa Blind Man Zatòichi senryò kubi, vedi Zatòichi and a

Chest of Gold

Zi hudie, vedi Purple Butterfly

Zi you men shen. vedi Way We Go, A

Zipang. 225 Zoku Zatòichi monogatari, vedi Return of Masseur Ichi, The

Zu ’ Warriors from the Magic Mountain.

324 Zuihao de shiguang, vedi Three Ti­

mes Zuihou de fengkuang, vedi Desperation

Zuotian, vedi Quitting