Il Centauro. Rivista di filosofia e teoria politica. Storia Tradizione [Voll. 13-14]
 8870427056, 9788870427059

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Rivista di filosofia

teoria politica

e

Direttore: Biagio de Giovanni rzo direttivo: Nicola Auciello, Remo Bodei, Adone Brandalise, Massimo Cacciati,

..., Curl, Giuseppe Duso, Roberto Esposito, Giacomo Marramao, Roberto Grafica: Sergio Pronillo Segrelerill Ili redazio11e: Michele Bertaggia, Francesco Fusillo, Bruna Giaconuni, Maurizio Amministrll%ione e redazione: Guida editori s.p.a., via Vcntaglicri 83, 8013' Napoli telefono (081) 34.18.43 - 44.0222 - 44.02.24

Altri recapiti: Istituto di Filosofia, via Imo, 84100 Salerno Istituto di Filosofia, via Accademia ,, 35100 Padova

SO

RIO

del n. 13- 14, gennaio-agosto 1985 Saggi Giorgio Agamben, Tradizione dell'immemorabile

3

Massimo Cacciari, Tradizione e rivelazione

13

Sanclro Chignola, Donos() Cortés. Tradizione e dittatura

38

Biagio de Giovanni, Presente e tradizione

67

Fabrizio Desideri, Epoché. Il problema dell'affinità tra storia e tradizione

83

Roberto Esposito, Politica e tradizione. Ad Hannah Arendt

97

Luigi Franco, Kojève: il libro, la tradizione e la rottura della continuità storica

137

Giacomo Marramao, Tradizione e autorità

160

Adone Brandalise - Giangiorgio Pasqualotto, Eterno ritorno e tradizione

168

Carlo Sini, La storia) il tempo e la parola

187

Manfredo Tafuri, «Memoria et prudentia aedificatoria »

».

Mentalità patrizie e « res 200

Vincenzo Vitiello, Storia, natura, redenzione (ovvero: la fine della storia e la nascita dello storicismo)

2 19

Giuseppe Russo, Volontà e tradizione. Il frammento del 1819-1820 di Schelling

248

Testo F.

W.]. Schelling, Fratnmento del 1819-1820

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Il «

centauro

Bisogna a uno principe sapere usare l'una e l'altra natura;

e l'una senza l'altra non è durabile



(I/ Principe, XVIII)



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GIORGIO AGAMBEN

TRADIZIONE DELL'IMMEMORABILE

S

OGNI riflessione sulla tradizione deve cominciare con la costatazione,

in apparenza triviale, che, prima di trasmettersi qualcosa, gli uomini hanno

innanzitutto da trasmettersi il linguaggio. Ogni tradizione specifica, ognj patrimonio culturale determinato, presuppone la tradizione di ciò, attraverso cui soltanto qualcosa come una tradizione è possibile. Ma che cosa si tra­ smette l'uomo trasmettendosi il linguaggio? Qual è il significato della tra­ smissiolte del linguaggio, indipendentemente da ciò che, nel linguaggio, viene trasmesso?

Queste domande, lungi dall'essere per essa irrilevanti, costi­

tuiscono fin dall'inizio il tema della filosofia: essa si dà pensiero di ciò che è in questione non in questo o quel discorso significante, ma nel fatto stesso che l'uomo parli, che vi siano linguaggio e apertura di senso, al di qua o al di là, o, piuttosto, in ogni evento determinato di significazione. Ciò che, in questo modo, è sempre già trasmesso in ogni tradizione, I'ar­ chitraditum e il primum di ogni tradizione, è la cosa del pensiero. Tu pretendi, a quanto egli mi dice, che non ti è stata sufficien­ temente mostrata la natura del Primo. Bisogna dunque che te ne parli, ma ·per enigmi, in modo che, se a questa lettera dovesse capitare un caso avverso nei recessi del mare o della terra, chi la legga ·non possa capire. Cosl stanno le cose: tutti gli esseri stanno intorno al re del tutto e tutti sono in grazia di esso; ed esso è la causa di tutto ciò che è bello; le cose seconde stanno intorno al secondo, le terze intorno al terzo. L'anima umana aspira a conoscere quali esse siano e guarda a quelle che le sono affini, ma nessuna di queste la soddisfa. Riguardo al re ed alle cose di cui ti ho detto, non vi è niente di simile. Allora l'anima dice: 'ma qual è? ' È questa domanda, o figlio di Dionisio e di Doride, la causa di tutti i mali, o, piuttosto, la doglia del parto che si genera nell'anima e, finché non se ne libera, nessuno potrà trovare la verità ». *

«

.

Che cosa implicano queste considerazioni quanto tutiv a di ogni tradizione umana? Ciò che è qui da infatti, una cosa, per quanto eminente, né una verità posizioni o in articoli di fede, ma è la stessa illatenza

§

alla struttura costi­ trasmettere non è, formulabile in pro­

(à--Ài)ilEt-a), la stessa apertura in cui qualcosa come una trasmissione è possibile. Ma come si traDigitized by

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4

GIORGIO AGAMB�N

smette un'illatenza, com'è possibile la tradizione non semplicemente di un traditum, ma dell'apertura stessa, della stessa tradibilità? È chiaro che questa non può essere te111atizzata come un Primo all'interno della tradizione, non può diventare il contenuto di una o più proposizioni fra le altre, per quanto gerarchicamente sovraordinate, .ma, implicita in ogni atto di trasmissione, deve tuttavia restare in essa inconclusa e non tematizzata. La tradizione della tradibilità è, cioè, itntilemorabilmente contenuta in ogni tradizione specifica, e questo lascito immemorabile, questo tramanda­ mento dell'illatenza costituisce, anzi, il linguaggio umano come tale. Esso è il pugno chiuso iscritto, secondo l'immagine kafkiana, nello stemma di ogni tradizione, di cui annuncia il compimento. Ciò significa, però, che il lin­ guaggio deve avere una struttura tale da tradire nel senso proprio e in quello etimologico del termine in ogni discorso l'illatenza che esso è, !asciandola latente in ciò che porta alla luce.

-

. .



..

-

* •

m

Memoria. Disposizione dell'anima che essa». «

veglia sull'illatenza

che

è

§ (Per questo la @osofia, che vuoi. dare ragione di questa duplice strut­ tura della tradizione e del linguaggio umano, presenta fin dall'inizio la cono­ scenza come presa nella dialettica memoria-oblio, illatenza-latenza, 6.Ài)DEt.«­ Ài)ìh}. Nella definizione platonica, la memoria non ha da custodire questa o quella verità, q·uesto o quel ricordo, ma deve vegliare sulla stessa apertura dell'anima, sulla sua .propria illatenza. La struttura anamnestica della cono­ scenza non si riferisce a un passato cronologico o a una preminenza ontica, ma alla struttura stessa della verità. Questa, non potendo afferrarsi e tra­ smettersi senza diventare essa stessa ·una cosa ·memorata, può conservarsi come solo restando immemorabile nella memoria e ogni volta smentendosi idea nel suo stesso darsi a vedere: cioè non come un insegnamento ( Or.oa.axa.À,!a.), ma come una missione divina ( ilEi:a. p.oi;pa.) in termini moderni: come apertura storico-epocale. La verità non è, cioè, secondo la falsa determinazione della tradizione ancor oggi dominante, tradizione di una dottrina esoterica o pubblica, ini­ ziatica o scientifica, ma memoria che nel suo stesso av·venire si oblia e si destina, apertura storica e cronotesi. Per questo, nel Menone, l'anamnesi si costituisce come memoria del « tempo in cui l'uomo non era ancora uomo>>: ciò che si ha qui da afferrare e da trasmettere è l'assolutamente non-sogget­ tivo, l'oblio come tale). Poiché la piena essenza della verità include l'inesistenza e domina innanzitutto come latenza, la filosofia, come interrogazione di q.uesta ve­ rità, è in se scissa. li suo pensiero è l'abbandono del mite, che non si nega ru'la latenza dell'essente come tutto. Il suo pensiero è, in sieme, la deci:sione del -l'igore, che non distrugge la latenza, ma costringe la sua illesa essenza nell'aperto del concepire e, così, nella propria verità». *

in



S[l.�/ ecl j,;). che non possa in nessun ca so esse:-e presu??OS:o d: :.::1d sc : ss i one . L essere che tro\·a la sua e5press!one r:rle�si\·a ne:1"ide:1r! rl t.:\ .-\. o.. nei ..

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termini di Ho�derlin

!cb bi1: I cl:) nt."'n è

..

l"es5. È, cioè, ciò che il linguaggio sempre presuppone, nel nome, alla relazione che esso instaura: il fonda­ « l'irrelato, cui la relazione, in cui è condizione, è estrinseca»; mento è, invece, «la relazione o la forma, per la quale l'esistenza deter­ nlinata della condizione è solo materiale >>. Si presuppone, cioè, nel nome, il puro, immediato esser irrelato di qualcosa, e poi si assume che questo irrelato entri come soggetto nella relazione di -predicazione. Compito della dialettica del fonda111ento è mostrare come condizione e fondamento non siano due realtà indipendenti, ma solo i «due lati dell'intero», che >. *

«

'

Nel 1795, Holderlin stese un breve appunto, in cui gli pareva di aver mosso « un passo al di là della frontiera kantiana ». Il testo, che porta il titolo Urteil u1zd Sein, pone il problema di un « essere assoluto

»

(Sein

schlechtin), che non possa in nessun caso essere presupposto di una scissione. L'essere che trova la sua espressione riflessiva nell'identità (A A, o, nei termini di Holderlin, Ich bin Ich) non è l'essere assoluto, ma, scrive Hol­ derlin, l'essere come presupposto necessario della scissione di soggetto e oggetto. Questa scissione, che è il giudizio (Urteil) come partizione origi­ naria (Ur-teilung), contiene infatti, nel suo porsi, la presupposizione di un tutto, di cui soggetto e oggetto sono le parti. («Nel concetto di partizione, Teilung, è già contenuto il concetto della reciproca relazione di soggetto e oggetto e la presupposizione necessaria di un tutto, di cui oggetto e soggetto sono le ·parti. ' Io sono Io ' è l'esempio più adeguato per questo concetto di partizione originaria, U r-teilung

)

» .

L'assoluto esser-uno non deve, dunque, essere scambiato con l'essere uguale a sé della riflessione, che, come forma dell'autocoscienza, implica sempre già la possibilità della scissione (« Come posso dire: lo! senza auto­ coscienza? Ma come è possibile autocoscienza? Per il fatto che io mi oppongo a me stesso, mi separo da me stesso, eppure, malgrado questa separazione, mi riconosco come stesso nell'opposto >>). Qui la tensione holderliniana verso un indiviso che non fosse presu·p­ posto alla divisione raggiunge la preoccu,pazione centrale delle Note filosofiche dell'amico Sinclair, che cercano appunto di pensare il non-posto (liilErrtc;), senza ricadere nella forn1a della riflessione presupponente: Digitized by

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11

t

T RADI ZIU:'-JE DELL 1�·1�1Ll\1UHAB1 LE

Non appena si vuole sapere e porre il ilEoç (l'unità atetica, es­ senza ), �lo si .trasforma nell'Io (nell'lo assoluto di Fichte ). In quanto si riflette sulla sua essenza suprema e la si pone, la si separa e si dà a essa nuovamente, dopo la separazione, il suo carattere di ·non-separazione mediante l'unificazione, in modo che, per cosl dire, l'essere viene presup­ posto alla separazione: id est, il concetto imperfetto. "E'J xa.t 1tà.v ». *

«

La riflessione ha reso la natura molteplice per l'Io, .poiché l'ha opposta all'unità dell'Io: ma la riflessione diceva soltanto che se una molteplicità era al di fuori dell'Io, la partizione originaria (Urteilung) era possibile. Essa era certamente al di fuori dell'Io, ma non al di fuori della riflessione. Se la supponessimo infatti al di fuori della .riflessione, avremmo semplicemente spostato e non spiegato il ·problema del suo sor­ gere, che ci aveva condotto qui; infatti ci 9Ì potrebbe sempre domandare: come deriva .i] molteplice nella riflessione dal molteplice fuori della ri­ flessione? Con �l'ipotesi di questa realtà del molteplice, noi avremmo uni­ lateralmente prestato attenzione ad una esigenza trascendente della rifles­ sione, ·la quale pretende dappertutto un fondamento, anche al di fuori dei suoi limiti. La riflessione trascendentale si raffigura, al di fuori dell'azione reciproca di soggetto e oggetto, una attività del soggetto da ciò indipen­ dente, l'lo in quanto sostanza: c'è qu.i ora un'impossibilità di pensare (Denkunmoglichkeit) . . ». *

«

.

Forse il,pensiero moderno non si è ancora misurato con l' 14• La lacerazione apertasi nell'epoca delle rivoluzioni, il contraddittorio carat­ tere di rivoluzione permanente che la storia d'Europa ha ormai definitiva­ mente assunto, impediscono qualsiasi utopico volgersi alla stabilità del preesi­ stente: la storia precipita rapidamente verso la sua fine. Significativo, dunque, che nella ricostruzione storica donosiana trovino contemporaneamente spazio l'esaltazione della chiesa cattolico-romana come istituzione la cui stabilità attraverso i secoli sembra sviluppare alla perfe­ zione l'ideale di qualsiasi ordinamento politico, e la celebrazione della sua missione civilizzatrice in quell'Europa che in essa deve riconoscere la fon­ datrice della propria tradizione. � chiaro infatti che in un'epoca caratteriz.. zata da una crisi riconosciuta come direttamente partorita dall'ideologia della libertà di discussione e da una critica che, proprio perché sempre negativa, appare assolutamente sterile, il riferimento ad una istituzione che fa dell'indiscutibilità del patrimonio della rivelazione e del monopolio della sua interpretazione la base della propria legittimità, risulti estremamente in11nediato. Per l'argomentazione generalmente presente nei controrivolu­ zionari ed in modo particolarmente acuto in Donoso Cortés, infatti, soltanto l'impossibilità di sottomettere ad un esame razionalmente fondato il mo­ mento ultimo su cui si regge l'intero rapporto politico permette a questo stesso momento di svolgere la sua funzione. Ogni relazione di potere, ogni rapporto di superiorità la cui costanza ne1Ia storia ne lascia pre12 J. DoNo so CoRTÉS, vol. 2, p. 326. 13

La catastroficità della

Carta al

conde de

s ituazione

Afontale!ilberl, Berlin

26

dc mayo cit., O.C.,

impedisce persino di p 2�: la sua è una responsabilità di primo piano in quello stesso processo. 2"

J. Do:'\oso CoRTÉS, Ensayo sobrc ('l cutolicisnlo, el liberalisnto y cl socùzlismo cit., O.C.,

vol. 2 , p. 597. 25

Cfr. ]. Dor\oso (ORTÉS, Lecciones de derccho politico cit., O.C., vol. I, p. 390;

Io.,

Proyccto de h?y sobre los t'stados excepcionales prcsentado a las ultimas Cortes por el nrinin­ stcrio de dicie1nbre (18.39), O.C., vol. I, pp. 706-719, p. 711; e Io., Carta al director de la

Rcvue des dcux 1�fondes cit., O.C., vol. 2, p. 763. 26

J.

J)oNoso

CoRTl:�s,

�:·nsayo sohre el catolicisn1o, el liher,J!isnJo )' cl socialiJmo cit., O.C.,

vol. 2 , p. 598.

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DO�(JS() CORTES TRADIZIONE ..

E

Dll'TATURA

49

È ora chiaramente comprensibile, pertanto, come Donoso Cortés fi­ nisca col rilevare in modo netto la pericolosità del socialismo, confrontan­ dolo con un liberalismo ricostruito in questa maniera. Ciò che il liberalismo non può fare il socialismo sembra, proprio per la consequenzialità che Io caratterizza, non soltanto poterlo fare, ma iniziare a realizzarlo. Il socia­ lismo raccoglie la potenza della parola di Dio in quella sua struttura teorica che prevede per l'uomo la concreta possibilità di autoredimersi. Esso sembra poter creare un ordine che, pur rappresentando l'ultima tappa della rovina d�Europa, ha possibilità molto buone di essere instaurato. Rifiutando infatti completamente il concetto di Dio il presupposto teologico del socia­ lismo è l'ateismo e superando cosl in radicalità la posizione teorica libe­ rale che, pur negando la presenza sovrana di Dio nelle vicende umane ed elidendo quindi la possibilità del suo concreto intervento nella storia, lo manteneva come imperscrutabile figura, esso può proporre come termine ultimo di riferimento un'immagine prometeica dell'uomo che ne erediti il posto nel cosmo. L'uomo è ora direttamente artefice della propria storia; proprio per questo Donoso riconoscerà nell'antropologia filosofica uno dci grandi temi in questione. Ciò che gli preme è infatti l'affermazione, mediante il continuo volgersi alle scritture ed alla tradizione cattolica, della creaturalità dell'uomo e, con­ temporaneamente, della sua condanna a partire da quel peccato originale che diventa continuo termine di riferimento dei controrivoluzionari nella polemica con la posizione rivoluzionaria dell'uomo buono per natura. È proprio sul contrasto tra le due immagini dell'uomo che si gioca il con­ flitto tra civilizaci6nes. Se infatti la civilizaci6n filosofica fonda la propria ragion d'essere sul carattere evolutivo e perfettibile della concezione dell'uomo sottesa alla propria antropologia, è proprio tale antropologia che misura la più ampia distanza dalla tradizione cattolica. Ammettendo la possibilità di un qualche processo di illunzinazione, di realizzazione progressiva della sua emancipa­ zione, si cancella la possibilità di un ritorno alla tradizione che non sia riapertura o interpretazione, ma ri-affermazione della sua concretezza. L'uomo, al contrario, macchiato fin dall'origine della sua storia dal peccato, risulta nella concezione donosiana

n

perennemente condannato dalla tragicità della

propria colpa. La sua raz6n, pretendendo di conoscere verità esterne al suo rapporto di unione con Dio, si confina fin dall'inizio nell'assurdo. È infatti impossibile che esista verdad fuera de Dios

28

e, proprio per questo, qual­

siasi tentativo di conoscenza, che non sia ricezione di una verità rivelata. non può che essere colpevole e vano. Z7

Questo del resto è un tema con1unc ai controrivoluzionari.

L'intero

libro

Ji DE

.ìvlAISTRE

.•

Les soirées de Saint·Pétersbourg, ou Entrt>tiéns sur le gouvcrnentenl lemport�l de la Providcnce, dd esempio, è ad esso quasi interamente deJicato. 2?!

J.

DoNoso CoRTÉs, EstuJios sobre la Historia ci t., O.C., vol. 2, pp. 249-250.

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50

St\�DRO CHIGJ';OI.A

Qui dunque radica propriamente il tradizionalismo dei controrivoluzio­ nari e di Donoso stesso: l'impossibilità perenne di scoprire, la pericolosità stessa di ogni uscita dal solco di verità tracciato da una tradizione in cui continuamente si tramanda la rivelazione originaria e quindi tutto ciò che risulta indiscutibilmente vero, comportano che l'accoglimento di ciò che è sedimentato in essa garantisca nello stesso tempo sicurezza e stabilità. Non è pertanto ammissibile alcun intervento su di essa; in essa si è dato tutto

in una volta o, quanto fieno, qualsiasi ulteriorizzazione del contcntito della rivelazione si sviluppa storicamente come dipendenza dalla rivelazione ori­ ginaria. Il carattere pur sempre evolutivo della storia dell'uomo non smi­ nuisce cosi la crucialità del referente primo.

È interessante, infatti, come la lettura donosiana del Genesi accentui il carattere lineare e progressivo della temporalità e dell'azione in essa del­ l'uomo, pur non ammettendo né sviluppo inteso come miglioramento o ulteriore specificazione della verità già rivelata, né una qualche possibilità di realizzazione immanente

del processo di redenzione

anche nella

Stia

minimale accezione di definitiva sospensione del processo di decomposi­ zione che minaccia l'Europa. Dio, ponendosi in contatto con la creatttra, « abandon6 sabia, voluntaria y antorosamente la ley de la per/ecci611, que es la ley de la divinidad, per la ley lle la criatura, tfUC es la ley del pro­ greso

» 29•

Se la prima richiede il diretto intervento tlclla divinità, la seconda

comporta, nel piano della sua realizzazione, il concorso del Creator� e della creatura 30, ed è proprio da questa intcrazione che nasce la storia 31• Se dunque la storia è lo spazio della manifestazione della Verità, quella verità che viene annunciata rispecchia il carattere di tragicità dell'intera espe­ rienza umana. Il peccato, il tentativo cioè di r,lpportarsi alla verità /ttera de Dios, rompe l'equilibrio esistente tra libertà umana e volontà di Dio instaurando così il regno del male e cioè quel sovrano disordine che carat­ terizza la contraddittorietà dell'intera esistenza storica. Il peccato introduce uno stato di guerra perma1zente

32•

Se pure, infatti, le guerre particolari possono essere fatti esecrabili ma soltanto perché spesso non opportune

rivelando così la loro

dipendenza dal capriccio degli uomini, la generalità (1clla guerra nella storia 29 I vi, p. 242. 30 Ibidem. 1

no hay m�is quc la �1ccion del hornhrc, fuera de la provi­ de Fu Dios la accion de era 3 dencia divina no hay mas que la libcrtad humana. La con1binacion de esta libcrtad con aquella «

providcncia constituye la tran1a variada y rict de la h istoria

».

J. Do :\Toso

CoRTÉS, Ensayo sobre

el catolicisnto, cl /ibcrali.u11o, y el sociali.Pno cit.. O.c: .. vol. 2, p. 548. 32

Antes del pccado cl esplritu y la carne. el hombre y la naturaleza cran unos en Dios· dcsunido el cspfritu de Dios. se desunieron del espiri tu todas cstJs cosas; desu11idas, se hicieron «

'

independientes, el espiritu dcjo dc ser soberano, dcjando de scr sobcrano, dcjo de ser obedecido; dejando de ser obcdecido de todas las cosas Y no querieno obcdecer a ninguna. cay6

en

estado de guerra permanente».

vol. 2,

]. DoNoso CoRTÉS, Estudios

sobrt, la bis/oria cit.,

p. 259.

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O.C.,

un

1>0:'\0SO CORTES TRADIZIONL" •

E IHTTATURA

51

ed il suo stesso esserne motore, ne indicano il carattere divino: co'z

«

suprilrtidle

el pensamiento y habréis suprimido la humanidad y acabaréis con la

historia

>> 33•

Nello stesso momento in cui viene con1piuto il peccato, viene

comminata la pena che prevede il carattere espiatorio dell'esistenza umana. Essa dovrà sottomettersi alla legge della misericordia di Dio che, prevalendo sui consigli di quella giustizia che avrebbe irrevocabilmente condannato il genere umano, determina che sofferenze e morte siano pene che l'uon1o debba umilmente scontare

J.4.

Soltanto dalla morte può sorgere la redenzione. È

in questo contesto che la teologia della guerra donosiana trova modo ·di definire lo scontro come unico propulsore delle civiltà. Se la sofferenza, infatti, l'assogg�ttarsi cciones de dc·rechc po l i t ico cit., O.C., vol. I, p. 390. Digitized by

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SAN DRO Cl IIGNOLA

60

al governo per far fronte ai focolai insurrezionali che, strascichi della guerra civile carlista terminata in quell'anno con la pace di Vergara, perduravano però in alcune regioni della Spagna

53•

L'analisi del progetto di legge spa­

gnolo ne riconosce il carattere avanzato: se da un lato la legge è fija, de­ termina cioè in maniera sufficientemente particolareggiata la serie di casi i n cui deve essere applicata, dall'altro, il suo essere vaga lascia ampio margine operativo al detentore del potere straordinario, che dovrà comunque rispon­ dere delle proprie azioni al legittimo sovrano

54•

Il carattere determinato e

descrittivo che una codificazione inevitabilmente comporta non diventerebbe in questo modo un limite per la sua applicabilità. Proprio qtti è situata la svolta del pensiero donosiano sulla dittatura. Ciò che cambia in n1aniera fondamentale è infatti l'impostazione del problema della legittimità poteri eccezionali:

dei è la legittimità del potere che li concede, ciò che ne

garantisce l'applicazione secondo la legge. Chi in situazioni straordinarie pre­ tendesse di governare con le leggi varate per i periodi di normalità sarebbe un imbecille, chi in queste stesse situazioni volesse governare senza leggi sarebbe .un temerario; è da questo circolo vizioso che si tratta di uscire -�5• Se pure l'imprevedibilità della situazione critica è destinata ad eccedere qualsiasi casistica, con l'approvare il progetto in questione e riconoscendo nella flessibilità del regolamento proposto il mezzo per superare l'ostacolo in cui si era incappati, Donoso testimonia tuttavia la sua ferma convir1zione sulla possibilità di una precisa disciplina del conferimento dei poteri straor­ dinari. Salta dunque agli occhi la notevole distanza che intercorre tra i due testi finora presi in esame, l'uno destinato a formulare teoreticamente le possibilità sovrane della dittatura, l'altro completamente rivolto all'approva­ zione di un progetto di legge che la definisce semplicemente in rapporto alla dipendenza dal potere costituito:

se nel primo caso l'assoluta mancanza

di qualsiasi relazione politica rimandava all'omnipotencia come a quel ten­ tativo di costituzione dell'ordine e dell'unità perduti, tentativo che dal suo eventuale successo avrebbe tratto in maniera diretta la propria legittinla­ zione, ora misure di legittimazione diventano la chiarezza e la linearità del rapporto che congiunge mandante e mandatario del potere straordinario. I l carattere ampiamente indefinito dei compiti del dittatore non costituisce in questo secondo testo il fatto discriminante. Il carattere vago della legge non ne esaurisce completamente lo spirito:

occorre dichiaratamente che i

mandatari della dittatura rispondano con la mas estrecha responsabilidad

56

tlei loro atti e delle loro decisioni. Ci sembra però che il termine dittatura

s3

Si

tratta Jcll'articolo pubblicato

da

Donoso

nel 1839 nella

«

Rcvista de

rv1adrid

»,

or a repe.

ribile con il titolo Proyecto de ley sohre los estados excepcionales prcscntado a las u!t;mas Cortés por cl rninisterio de dicicmhra. in O.C., vol. 1, pp. 706-719. >+

lvi, ss lvi, 56 I vi,

712·713. pp. 711-712. p. 712.

pp.

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DO�OSO CORTLS TR:\DIZIU�E E DITTATURA

61

,

vt:nga impiegato in qtiesto testo in maniera abbastanza eccentrica rispetto

al resto della speculazione donosiana sull'argomento. La possibilità stessa di impostare il problema della legittimità del potere straordinario in ter­ mini

di correttezza procedurale rispetto ad un atitorità preesistente già

assunta come legittima, lascia chiaramente intendere come in questo caso si tratti più di approvare uno snelli mento dell'esecutivo, un 'elaborazione tecnica, piuttosto che di definire il momento originario del potere, il noc­ ciolo della sua indiscutibilità. La situazione di crisi presupposta in questo secondo testo, del resto, non sembra coincidere con una situazione di radi­ cale precarietà che metta in gioco l'esistenza politica di un popolo, quanto rappresentare un limitato rischio di ingovernabilità. La n1arginalità di questo testo ci consente perciò di andare avanti. Attorno agli anni '40 viene generalmente situata t1ai critici la svolta di Donoso Cortés verso le posizioni che lo contrassegneranno nel tempo come uno dei più accesi sostenitori della controrivoluzione cattolica e come uno dei più severi critici del liberalismo continentale

57•

L'irrompere di una

crisi rivoluzionaria che sembra in grado di ritrascrivere completamente gli equilibri europei, l'inquietante entrata in scena (Iella classe· proletaria e di un

socialismo che cresce in stretta connessione con un terreno di lotta

politica assolutamente nuovo, l'Economico, che sembra in grado di ag glu tinare attorno a sé interessi e scontri della nuova era, sembrano confi­

­

gurare un'ulteriore conferma per le profezie clonosiane sul destino d Eu ro pa '

.

La radicalità della crisi provocata da quest'ultimo sussulto rivoluzio­ nario impone la necessità di reintrodurre un 'istanza di ricomposizione che si sottragga per la sua indiscutibilità a qu alsi asi coinvolgin1cnto ne possa compromettere l'assolutezza. Soltanto l'imp> 65•

Il miracolo è il momento in cui Dio manifesta la sua vo­

lot1tà sovrana torcendo il corso naturale delle cose e trascendendo le leggi cui volle sottoporre il creato. Il Dio legislatore

e tale termine adopera

esplicitamente Donoso

eccede in qualche caso la regolarità cui l'universo . è sottomesso per palesare direttamente la sua volontà. In ciò si rivela ancor più chiaramente la sovranità di Dio, di quel potere che dà origine al governo costituzionale del creato. Questo tipo di ragionamento ci permette di capire appieno la celebre formula donosiana che riassume il rapporto che necessariamente intercorre tra legalità e dittatura, tra norma ed eccezione. Finché la legalità, e cioè quella regolarità di rapporti giuridici che in situa­ zioni di normalità presiede alla vita sociale, può garantire la sicurezza di un popolo, non si può non optare per la legalità, ma nel momento in cui essa non risulti più sufficiente sarà legittimo ricorrere alla dittatura riven­ dicando per sé quella pienezza di poteri che possa permettere la risolu­ zione della crisi con la simultanea riaffermazione della piena sovranità delle forze di governo 66• Il concetto di dittatura che traspare nel Discurso è tutto incentrato attorno a questo parallelo con quella tagliente definizione di so­ vranità che è il miracolo. Questo, come quella, rappresenta il momento in cui un ordinamento regolare viene superato, quell'attimo che diventa cosl misura della forza stessa di qualsiasi detentore del potere che, proprio in tale possibilità, esprime tutta la sua potenza: nel miracolo, come nella dittatura, ri-appare l'origine, ricompare il fondamento. Come Dio con il mi­ racolo riproduce il momento della creazione, eccede la realtà per correg­ gerla, allo stesso modo è possibile in casi eccezionali recuperare appieno quel potere che vive sempre, per quanto illanguidito, in ogni ordinamento giuridico, riconfermando così la concretezza della sovranità che può risol­ vere la crisi. Il miracolo consente di comprendere completamente il destino dell'ordine: la discontinuità con cui esso frammenta la storia ne ripropone la riapertura; l'ordine si rivela come fondato in altro da sé. Queste caratteristiche del concetto di dittatura di Donoso Cortés si acce11tueranno ancora nei suoi ultimi scritti. Ministro plenipotenziario spa­ gnolo a Parigi a partire dal marzo 1851, egli vive in prima persona, per i frequenti contatti che la sua carica gli procura, il colpo di stato di Luigi Bonaparte. Questo finirà col convincere definitivamente Donoso delle possi­ bilità risolutive e conclusive della dittatura. Essa verrà ora semplicemente '

308-309. p. 309. pp. 306-307. (:osì recita il testo donosiano:

64 I vi, pp.

65 l vi, 66 l vi,

la sociedad, la lcgalidad, cuando no basta, la dictadura

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«

Cuando ]a lcgalidad b,1sta para s�1lvar

».

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DO:'\USO

CORTES ,

TRADIZIONE E DITTATURA

65

riJot_ta all'atto costitutivo materiale, al decisivo momento in cui una realtà di s g regata viene finalmente messa in forma politica. Se la pratica politica del presidente francese confermerà le sue teorie s�lla dittatura come unica via di uscita possibile dalle fumose discussioni ?Jrlamentari e come riconferma della pienezza del potere, i suoi Despachos diplomatici testimoniano però un radicale spostamento del rapporto tra mandante e mandatario del potere straordinario. L'attenzione dello spa­ gnolo si appunta ora sull'esperimento plebis�itario di Luigi Bonaparte, ten­ tativo che si attaglia perfettamente per Donoso Cortés all'improrogabile necessità di stabilizzazione della situazione francese. L'assoluta miopia poli­ tica di un partito dell'ordine che si attarda ancora ad inseguire un'impro­ babile restaurazione monarchica e l'incalzante pericolo di sommosse costi­ tuito da milioni di proletari esclusi in modo anticostituzionale dal diritto di \10to, causano infatti una situazione di instabilità e di crisi che egli giudica insolubile con gli strumenti tradizionali. Se c'è al mondo un caso che renda necessaria la dittatura, questo è il caso della società francese nelle attuali circostanze, scrive esplicitamente Donoso Cortés 67• Il fatto che la crisi francese debba essere superata gli impone di avallare qualsiasi ten­ tati\ro venga messo in opera per salvare la società. Poco importa che ora di trascendente resti solo la decisione, l'attimo sospeso in cui il potere che tenta di agglutinare attorno a sé le componenti la dialettica storica per dare loro unità e forma politica si espone al riconoscimento. Difen­ dendo il presidente francese contro le accuse mossegli dai conservatori, che vedono nel suo uso del prebiscito una qualche pratica rivoluzionaria, Donoso ci chiarisce la sua ultima posizione in merito alla dittatura: man­ dante della dittatura sarà ora direttamente il popolo. Qualsiasi forma di potere, egli scrive, riceve da qualcos'altro la sua forza ed il suo diritto: se nella monarchia ereditaria il re riceve il potere da suo padre,

«

el padre del dictador es el pueblo

» 68•

Non esiste perciò

nessun pericolo di anarchia nel convocare l'intero popolo perché elegga colui che, una volta eletto, dovrà comandare su tutti (fJ. Ciò· che cambia radical­ mente, dunque, è il rapporto di delegazione del potere. Se precedentemente il potere straordinario, come potere limitato al potere della crisi, poteva apparire come momento di concentrazione e di maggiore evidenziazione delle caratteristiche originarie del potere, ora è lo stesso potere che deve costi­ tuirsi a partire da quell'unitario momento di acclamazione che lo rico·

t-? J. Do�oso CoRTÉS, n.

Dcspacbos dt·sde Paris ( 1851-185.3 ) ,

O.C., vol. 2, pp. 782-91�;

3ì6� 24 de octubre de 1851, pp. 824-829, p. 826.

68 l bidem. ) no � >



il

.

O\:'vietà millenarie

da. ciunse a mettere in discussione direttamente il mondo, che rimasto 1t..:do delle molte parole che lo avevano « coperto », si dissolveva dinanzi



ito

·

>.

Dunque:

l'io, sottratto all epoché, non poteva essere che quello '

che operava l'epoché, e che si sottraeva ad essa proprio perché la operava. Era dunque un io estremamente carico di intenzionalità e si potrebbe ag­ giungere, come fa Husserl, di intenzionalità filosofica, nel senso che l'inten­ zione filosofica di Cartesio è la sua intenzione, ma insieme è una intenzione tPJa che attraversa tutte le epoche e che in questo senso si ricolloca all'in­ terno dell'unità della storia, e almeno dell'unità della storia delle intenzioni dei filosofi e può ricostruire nell'ego il fondamento apodittico del principio



• r 1 \.. ·- � - � ...

.1d:l� m!.r

.

solo perché l'ego s'accompagna ad una intenzionalità sovraccarica di storia delle intenzioni filosofiche. Nella costituzione dell'ego di Cartesio c'è molto di più di quello che il filosofo lascia immaginare: •

c'è implicita e dirom·

pente la tensione verso il mondo della scienza, c'è insomma una assunzione rigorosa del concetto di verità nel senso che egli « non intende per verità Digitized by

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70

BIAGIO

DE

GIO\' ANNI

ciò che vale come vero e reale nella vita pre-scientifica segnava la rifondazione apodittica del principio.

.

Ad ogni Tradizione infranta, corrisponde lo sforzo della Restaurazione. Non bisogna dare al termine nessuna valenza politica, ma -si può inco­ minciare a guardare a esso come risultato di una nostalgia. Si potrebbe pensare all'atteggiamento di un Novalis verso il mondo che nasce dalla Rivoluzione francese. Ci sono belle pagine di Joachim Ritter su questo problema: il presente è la perdita della vita bella; > presente. C'è un destino a cui tuttavia ci si può opporre, come scrive Novalis inneggiando « ai belli splendidi tempi. .. in cui l'Europa era una terra cristiana ». Ora è la stessa sostanza storica dell'uomo ad esser sotto accusa; è proprio essa a segnare il destino dell'uomo; è proprio essa a esaurire le scorte di « profondità » che fino a un certo· punto ha saputo regalare al mondo, e a distendersi nelle cose secondo la legge della superficie priva di densità: non v'è più prospettiva, tutto è immediatamente in tutto, il ritmo della realtà non è più scandito dall'intreccio inquietante delle luci e delle ombre: tutto è luce, e dunque tutto è ombra. L'esigenza dell'or igine, quando si manifesta, salta la que­ stione della sostanza storica. Anzi, tanto più essa si manifesta, quanto più l'intera sostanza storica è come omologata in un unico movimento lineare ed essa può esser messa in una grande parentesi. L'origine, per comparire, deve rompere radicalmente con la storicità. Dal mondo secolarizz.ato secondo quella legge di movimento si invoca l'origine! Ma è una invocazione, un volcrla avere subito di fronte. Questo ritor110 appare infatti come preso Digitized by

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·

PRESENTE E TRADIZIONE

�r.: una difficoltà insormontabile:

come è possibile liberare l'origi11 e dalla

s:·�ricità, se all'origine della storicità c'è l'origine? Com'è possibile questo

;JrJdosso? Che cosa resta dell'origine, se togliamo la sostanza storica che �e ha realizzato il compimento-dissoluzione? Si può invocare in questo �cadro il ritorno all'origine solo se nella logica dell'origine c'è una perma­ che non può farsi storia, un permanente-presupposto che non può 111ai

:-:enza

posto, giacché l'esser posto non potrebbe non coincidere con l'avvio

r:sser

di quel corso che nessuna forza umana può pretendere di fermare. Un pre­

;-upposto non posto, questo solo può individuare l'origine che non sia resa Jrtttta dalla storicità. Ma in questa proposizione, rimane l'interrogativo in­ �t:ietante:

come si fa a liberare l'origine dalla storicità? Si può liberare

�·origine solo se la si sottrae al discorso, solo se la si fa oggetto (in senso, ;'intende, del tutto metaforico) di un assoluto silenzio, non del silenzio che

xandjsca i ritmi fra due parole, messo fra, ma appunto del silenzio assoluto: l'origine non si può dire; essa può forse solo riposare sull'immediatezza della coscienza, del sentirsi, e suo unico segno può essere la decisione, la totalità, J'immediatezza di una decisione senza fondamento. Questo atteggiamento finisce anch'esso con l'avere una valenza restatira­ r:·:a, con l'esprimere una difficoltà a resistere alla forma rigorosa della �ecolarizzazione. Qualcosa è in salvo; qualcosa è custodito; ma non c'è tradizione (storica) che possa custodire ciò che è in salvo né dttnque c'è tradizione (storica) alla quale o verso la quale si debbano compier sforzi Ogni tradizione, infatti, in quanto si costituisce come or­ ganizzazione della sostanza storica, in quanto pone un presupposto a con­ tatto con la storia, non può che condurre al progressivo disciogliersi del per

«

ritornare

».

presupposto, al suo « storicizzarsi ». La storia è come il re Mida: tramuta 1n tempo tutto ciò che tocca, risolve nello scorrere del tempo la più dura resistenza dell'in-sé. Che cosa dunque è in salvo, che cosa è custodito? Con1c può il presupposto sottrarsi al divenire, pur essendo colto, visto come neces­ sario dal divenire?

4.

C!Je cosa si oppone al recupero della sostafzza storica? La risposta alla rottura della tradizione non può muoversi nel senso

di un recupero della sostanza storica come la Restaurazione richiedeva che si rispondesse alla Rivoluzione. Non si possono frettolosamente racchiudere nel presente le radici storiche dell'umano. È il presente stesso che esclude da sé la sostanza storica dell'esistenza umana. Non è una soggettiva idea

dei filosofi a operare per così dire questa riduzione;

è il presente che

pensa se stesso attraverso il criterio dell'indipendenza da tutti i presupposti

storicamente dati. È il presente che si è liberato dalla tradizione, che si è definito astorico. Ogni resistenza a questa tendenza, rischia semplicemente di pors i nella logica della « Restaurazione ». Ogni richiamo alla sost,tnza •

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74

BI AGIO

DE GIO\' AXSI

storica dell'umano, a radici perdute da reimmettere nella coscienza, rischia di essere come il richiamo in una valle senza eco. La forza del presente è proprio la dispersione della sostanza storica tradizionale. Il presente è più forte di questa sostanza: esso la ha dissolta. La Rivoluzione nel nostro presente (quella Rivoluzione che dovrebbe esser scomparsa dalla sua logica) sta nella forza senza precedenti con cui esso si è liberato di tutti i presup­ posti dati, di tutta la sostanza che radicava l'uomo nell'oggettività. La Ri­ \'oluzione contemporanea è qui: bisogna assumerla nella sua pienezza. Negli anni in cui Novalis scriveva le pagine che ho ricordato, la Rivo­ luzione fu nell'irrompere nel presente della società civile, ed Hegel Io capì per primo; per primo, ne trasse tutte le conseguenze. Essa costituì una realtà del tutto antitradizionale. Come scrive Ritter, « Hegel riconosce che la determinazione decisiva per l'intendimento generale dell'epoca rinvenuta per prima dall'economia politica sta nella fondazione della società sul con­ cetto del bisogno naturale dell'uomo, in quanto, per tal via, è provata la sua indipendenza da tutti i presupposti storicamente dati e, con ciò, la forma di emancipazione del suo costituirsi >>. L'irruzione del bisogno naturale­ astratto spezzò la continuità della storia universale, anche se Hegel riuscl a recuperarla attraverso una lettura audacissima del rapporto fra metafisica occidentale e sostanza naturale-sociale. Il bisogno naturale-astratto fu tuttavia il nuovo inizio che rese indipendente la società dalla storia del passato. Sa­ rebbe difficile concettualizzare oggi la costituzione del presente per afferrare fino in fondo le ragioni della dispersione della sostanza tradizionale; tuttavia è proprio Hegel che può forse aiutarci in questo tentativo, se con gli op­ portuni spostamenti di accento si può assumere la sua idea della società civile come proiettata sul futuro, in grado di coprire una lunga durata. Oggi questa idea riappare centrale come alle sue origini; essa oggi determina il ca1npo vitale dell'esistenza umana, l'irrompere di potenze materiali, naturali e in una espressione vitali. Si tratta di spostare gli accenti delle origini, ma non l'intero campo analitico che allora, con Hegel, si mise in movimento. La vitalità risalta con tale immediatezza, da escludere, per principio, la statica funzione aggregativa della sostanza tradizionale e da rimuovere le stesse unità (di classe ecc.) che delimitarono i confini storici di bisogno e produzione nella società civile alle sue origini. Il mondo presente è più certo di sé, della propria immediatezza. La sua attualità è assai più intensa di quando la compenetrazione del presente con la sostanza tradizionale diluiva verso il passato le radici di quella attualità. Questa attualità insorta può essere un nuovo principio apodittico, anzi se così attuale e vitale è il presente che si muove e delimita il recinto della società civile, esso diventa il nuovo punto di partenza per la questione del senso. Questa presente certezza di essere del mondo non rinvia né diluisce i propri prin­ cipii costitutivi ad una logica che emerge dagli archivi del passato (che alla sua sensibilità appaiono come il mortuum) perché il principio vitale si è sostanziato con quella presente certezza. L 'Husserl della Crisi può aiutare Digitized by

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·

PRFSF.NTE

E

75

TRADIZIONE

a definire i tert11ini del problema. « Qualsiasi altra epoché », egli scrive, « ha come terreno l'essere simpliciter del mondo, ha come ' presupposto ' la certezza d'essere del mondo »; « Questa certezza generale del mondo è costantemente in un processo di realizzazione, essa precede per così dire tutto, ma non in quanto enunciato sull'essere e perciò non come una vera e propria premessa, ma cosi com'è in una fluente realizzazione, fun­ gente quale terreno di validità da cui deriva qualsiasi senso dell'essere, di qualsiasi genere; essa determina il senso di qualsiasi atto che ponga 1 'essere... ».

È proprio il senso di questa certezza che libera l'attualità del mondo della vita. Le potenze realizzative di questo mondo sono giunte in super­ ficie; esse non sentono di doversi « ancorare » e nascono come dal niente; esse non sentono di doversi « giustificare>>, legittimare con una ideologia, perché la loro presenza vitale è il loro stesso principio di legittimazione. Queste stesse potenze non richiedono affatto di radicarsi nella sostanza storica del mondo che implica un principio di accumulazione profonda nel tempo; sono letteralmente potenze antitradizionali, ignote, tutte emerse orizzontalmente nella attualità del presente. Nessuna fra esse è disposta a riconoscere di essere meno attuale, come avveniva naturalmente quando ogni soggettività era delimitata e condizionata dalla propria forma storica e la coscienza interna a questa forma doveva collocarsi fra le altre. Il proprio tempo determinato batteva con evidenza alle porte della propria coscienza. La certezza d'essere del mondo, di cui parla Husserl, è oggi più forte dei tempi particolari; la sua apoditticità ha una immensa forza di unifi­ cazione. Ma questa forza non si lascia descrivere con la serena potenza con la quale la descriveva ·Hegel che la vedeva come un punto d'arrivo, recuperando in questo passaggio essenziale il nesso fra il bisogno naturale­ astratto che era il principio di un nuovo cominciamento della realtà e il n1illenario principio di libertà della filosofia occidentale. Allora, il principio di unificazione si presentava come un compimento, anche se va subito ag­ giunto che quel compimento riapriva radicalmente verso la realtà, per defi­ nizione incompiuta, da compiersi. Hegel descriveva una realtà che si era « compiuta » e realizzata « nel pensiero ». Nel pensiero si compiva, si ad­ densava l'attualità del presente. . Più che mai in tin prcDigitized by

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82

81.\GIO DE GJOVA�NI

sente che, sporgendo assoluto, rischia il vuoto e il vertiginoso cadere. An­ corato alla sua fatticità, tuttavia, il suo peso è immenso. Esso si trova nella situazione ideale per ricostruire l'oggetto-storia se, come scrive Benjamin, « la storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è il tempo omo­ geneo e vuoto, ma quello pieno di ' attualità ». I testi ritornano ad esser testi, la « filologia » può ritornare ad essere « filosofia » secondo la straor­ dinaria immagine di Vico. Liberati dal continuum, siamo padroni di noi stessi. Il riconoscimento della assoluta presenzialità senza radici, fa riemer­ gere l 'uomo come uomo come ben sapeva Hegei e come scrisse nelle pagine conclusive della Filosofia della storia. Allora, un ordine si deve dare: sarà mai più un ordine « tradizionale »? '

BI BI.IOC; HAFI :\

I

riferimenti bibliografici espliciti, nel corso del lavoro, sono ai st>guenti testi:

Par. l: Voce:

Par. 2: E. Il Par. 3: J.

«

Tradition

»

dal Dictionnaire de thc.�ologie catholique.

HussERL, La crisi delle scienzt> c:uropt'e e la /l�nontenologia trasct'nJenta/e, l\lilano, Saggiatore, 1961, pp. 104, 105, 413, 415.

RITTER, 1-lt.'gcl e la Ri�·oluzione

francese

,

Napoli, Guida, 19ì0, p. 41.

NoVALIS, Cristianità o Europa, Torino 1942, p. 3. Par. 4: J. RITTER, op. cii., pp. 49-50. G. W. F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del dirillo, Bari, Laterza, 1954, par. 189 e ss.

E.

HussERL, op. cit., p. 420.

G. W. F. HEGEL, Lezioni sulla fi/osofiù della s t oria . Firl·nze 1957, IV, pp. 190. 191, 1 97 .

A.

DEL NocE, Genti/t. e Granrsci, in lo., Il suùidio della Rivoluzione, �titano 19ì8, ,

pp. 121-198. Par. 5: G. W. F. HEGEL, Lincantcnti di filosofia del diritto cit., aggi;otla al par. 10. In generale cfr. parr. 5, 6 7, 8. �

Par. 6: M. FouCAULT, Che cos'è l'Illru11!nisnro? che cos'è la Rit/ol.'tZÌIJIIt,?, in «Il Centauro,., 1984, 11-12, pp. 229-236.

E. HussERL, op. cii., pp. 395, 400, 401. H.

AREN DT

,

fu t uro,

Tra pas sato e

Firenze 1970, p. 104.

G. W. F. HEGEL� Fenonrcnologia dt>lfo spirito, Firenze, La Nuova Italia, 1960, IL pp. 88-106.

\V/. BENJAMIN, Tesi di Torino, Einaudi

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filosofia

1981). pp

e

.

della storia (in lo., A ng elu s J'Jovus. Sagl!,i e frafnnt('nli.

84, 8.5, 78, 83.

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FABRIZIO DESIDERI

EPOCHÉ. IL PROBLEMA DELL'AFFINITA TRA STORIA E T

È

IZIONE

strana situazione quella in cui veniamo a trovarci se proviamo un poco a riflettere sui termini di storia e tradizione (e sul loro rapporto) t_r�,\

con uno sguardo al presente (o almeno al suo diffuso modo di darsi), dove il filtro ' storico ' pare abbia cosl potentemente depurato l'immagine di tra­ dizione da ogni vincolo con l'idea di origine da transignificare la storia stessa in assoluta tradizione, in pura trasmissione delle sue immagini. La radice ' visiva ' di ciò che è storico è emersa a tal punto, si è cosi enfa­ tizzata nell'esplosione di una simultaneità televisiva (in cui il problema della velocità del flusso tradizionale è quasi annullato) da permettere certo di affermare l'attuale identità tra storia e pura tradizione, ma come cancella­ zione di ogni origine e neutralizzazione di ogni fine nell'apriori della pura attirandolo, cioè, ne1 trasrnissibilità che distrugge illusivamente il tempo suo gioco immaginario. Secondo queste premesse sostenere l'identità tra

storia e tradizione non significherebbe altro che presupporre e sancire insieme la fine della storia, o almeno continuare a pensare come se fosse finita, terminata nella transignificante apoteosi di qt1ell'effimero mitologema che va

sotto il nome di post-moderno. Per chi nutre qualche perplessità circa questa esposizione del presente e non si contenta né di accomodare il concetto dinanzi al trattino del post, né di appellarsi, in modo ovviamente ' tradi­

zionale', alla auctoritas dei soliti nomi, la filosofia, o se si vuole più pro­ ancor oggi, che « il farsi belli col nome di filosofia è divenuta saicamente una questione di moda in una situazione critica

» 1 ».

l'esercizio del pensiero è posto « veramente Ma forse proprio dinanzi al problema costituito

dal rapporto tra storia e tradizione, la filosofia deve « essere salda senza tutta\da poter trovare né aggancio, né appiglio in qualcosa che stia in cielo o in terra ». Qui, ancora una volta, essa « deve dimostrare la sua purezza di custode delle proprie leggi

.

.

.

» 2



. •

1

l.

Di un tono di distinzione reccnlc!1Jcnte assunto in filoJofia, tr. it. Ji A. .lv1as­ solo. in �studi urbinati», 1967,41, I, p. 118. 2 I. KANT, Fondazione della metafisica dt,i costunzi, tr. it. di P. Chiodi, introd. di R. As­ s�nto, Roma-Bari 1980, p. 56. KANT,

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FABRIZIO DESIDERI

84

La posizione stessa del problema, la possibilità di pensare storia e tradizione nella loro problematica affinità richiede allora qualche preliminare



cl1iarin1cnto. Anzitutto è necessario fermare in minimali definizioni i due

tcrn1ini. Si tratta di fornire un'esplicitazione semantica di quanto minimal­ n1cnte si intende con essi (o almeno si presume che s�intenJa). Va da sé

.

.

che l'enucleazione del significato di determinate parole (il loro sviluppo an�tlitico in una definizione) non dice ancora nulla sul gioco (rete dinamica tli correlazioni, differenze, connessioni etc.) tra i due concetti, ovvero sulla loro tli,tlettica trans-lignuistica (nel senso che attr�1versa il linguaggio, ma

..

. .

in esso non si esaurisce). Premesso ciò potremmo ca\'arcela nel modo seguente. Per tratlizione si intende la trasmissione nel tempo di un quid che

ne St4l all'origine e che solitamente ha un valore di \'erità. A prescindere

t1�tltt possibilità che l'atto del trasmettere comporti un progressivo arric­

chin1ento

in1�'loverin1ento, una deformazione o una semplice dis-locazione­

o

tlitiusione, una conservazione o anche un 'innovazione del tradendum ori­ gin�trio

con la tra(1izione si istituisce una continuità nel tempo. Il prin-

cipio form�tle della tradizit"'ne (al di là del suo n1�1teriale storico ' intèrtl'n1persi, riprendersi. estinguersi) è però un continuum di tipo par­ ticoLtre. In qut:�to con ti nuu n1 che a r tr�t\ ers �t il tempo� e che non può '

·

identitì('�trsi Cl1n esso altrin1enti non si vedrebbe la necessità della sua isti­ tuzil"'ne, il traJiturn tht verità a l l ori gine ) st..t in s"1lvo, si m�lntie ne. Permar1e. '

'"

Il {\.'ntinuum delLt tr �t di zione è in funzit"'ne di una pern1anenza nel ten1po, int�,.Sl' gènt ricanlente C\.10le f(,rm�t d�l mu t�tn1ento . Per la (nella) tradizione ..

la su�t or i � i n e .. (.\.,ntinu�tndl1

pern1..1ne �lttr�tYerso (,nonosL.tnte) il temt-'t.". Pur

..

n�,.I c�tso d�l rnxlursi �1i un�t �J�form tnte Ji�tJnz�t. il contenuto d�I con­ ..

lo setto l"he lo i�tituis"-'e et'1nle t..tle t qu tntL1 CL'nt i nu 1ndo si rnan­ ti� !1 � ) è in nt.�L""t.�ssit�lnte rèLtzil'ne Ct'n 1\,ri�ine. Se qt:est�l r e l..1zione si fosse rt\.l\.'tt�l SL'l(l �l\.1 Un�\ Ct'tx'rtllt�l nl'n1Ìn�tli�tÌ('3 ( r·..1r ..1n1ente Ct'O\-eP.z i ona l è ) non si f.X'tr�t't"è ritt r.trl.tre di tr�h.i:zil'ne. ���lLt r�t rt' l..t trJ��i:iL"'n..tle de\" e sen1pre ri� u\.'n..trè' il ll"'�l'S �lt"'. Ir'-'r��ine. �1ln1�nl) ex ne � J t i\·l' \ . f: ir.f�ttti unà forma ri�lttL'�to im prt' pri..l Ji tr� l\.�iziL'fle ( piuttL)S:L) Lt SL: ..\ Jè('lir!�lZi\."'nè i11 con s:.:�t�:Jin�lo) quell..t C�lr�ltt�rizz ..lt ..l dJILt n1t.,.r�1 riFètiZi('�� rri\";l di se��o (f"'rÌYa \.!�,�:·�:1�r�:..l (lri�inJri..t): pitl ('::e \.ti \."�ltti\- 1 tr..l\.!::i�,n� \..1\.)\·rem�\.� p �trlare tinuunl

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EPOo-tÉ. IL PROBLE�IA DELL'AFFINITÀ TRA STORIA E TRADIZIONE •

85

t��?O proprio della tradizione (quello che coincide con il suo continuum: con

il ritmo, la figura della sua continuità) differente dal tempo-forma del

r.Lnamento che la veicola; un tempo che sarà necessariamente orientato r�leologicamente (anche nel caso che il telos coincidesse con lo stare in continuità). È la natura formalmente eccedente dell'origine della tradizione r�spetto al tempo proprio di questa stessa ad orientarne il continuum de­ tenninandone il telos. Telos ed origine nella tradizione, pur potendo non coincidere, appartengono necessariamente alla stessa ' idea ' di verità. Il fine e

la fine, ovvero il finis del continuum della tradizione non può allora

costituir e una novità radicale rispetto alla sua origine (non saremmo più all,interno di una tradizione, ma nel suo spostamento sradicante in un cJmpo altro: nella secolarizzazione di una tradizione, dove il traditum sra­ dicato dall'origine si disperde). Molto spesso poi la meta, il verso-dove del continuum della trasmissione, è proprio la restaurazione dell'o. rigine. A volte

siamo dinanzi ad (alla promessa di) un paradossale incremento della verità originaria. Ma sempre la meta tradizionale ha radice nell'origine. La dif­ (il modo della) tra principio e fine dipende dal carattere �Ila continuità che li connette. Conclusivamente, allora, il tempo proprio della ferenza

tradizione è rappresentazione (simbolica, metaforica o allegorica) dell'idea dell'origine, drammatica della sua verità: questa drammatica è il continuum tra l'origine e il telos. In quanto tale rappresentazione (Darstellung) è 3spetto costitutivo, se la tradizione salva in qualche modo, se mantiene

(anche nel caso di sotntna trasformazione) l'idea di verità della sua origine, allora il suo tempo non può essere radicalmente critico (caratterizzato cioè essenzialmente da giudizio e decisione da parte dei suoi agenti). Ogni pur prevedibile discontinuità critica è frenata nei suoi limiti dall'idea di con­ tinuità che salva la permanenza dell'origine (se la criticità affettasse l'idea alla radice non vi sarebbe più tradizione). L'innovazione critica all'interno della tradizione ha cosl sempre il significato di ricongiunzione all'origine: alla sua idea divenuta opaca nel corso della trasmissione. Se si dà crisi della continuità, questa non è crisi del continuum in quanto tale, ma della sua stasi, della sua opacità, del suo rumore di fondo rispetto al principio ori­ ginante. In quanto dominata dall'idea di un continuum, l'essenza del tempo tradizionale significa trascendenza del tempo come pura forma del muta­ mento; affertnazione dell'identità dell'essenza (come permanenza della pro­ venienza, dell'origine, in un tempo costitutivamente proprio) sull'identità della pura esistenza come contingenza in un tempo radicalmente improprio o

meglio che non ha altra proprietà tranne quella formale (negativa rispetto a sé) in modo da pern1ettere il differire del mutamento. Agli estremi del­ l'idea di tradizione stanno allora origine e continuità; la fine è quindi una figura del tutto secondaria di questa idea, cui è invece essenziale l'orien­ tamento teleologico del continuum (che, certo, spesso coincide con un ter­ minare, nel fine). Il continuum, dunque, è l'apriori di ogni tradizione: l'idea del suo telos, ovvero la fluidità dell'origine. La tradizione è questo Digitized by

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F.,BRIZIO DF SI DER I

fluire dell'originario. Il tempo tradizionale è un tempo fluido. Fluendo, l'idea del continuum si effettua. Il fluire, allora, sta al continuum come la trasmissione sta alla verità originaria. Il continuum a priori contiene la possibilità di fluire come la verità dell'origine (differente da una empirica genesi) contiene la possibilità di essere trasmessa.







Quanto realizza tale

continuum è un linguaggio. Un linguaggio è il medium della tradizione, che così può esser definita come l'istituzione di un flusso nel tempo me­ diante un linguaggio. Per questo motivo allora il linguaggio storico-naturale non può essere la tradizione. Nel continuum che si produce all'interno di un linguaggio non istituito non si dà infatti alcuna permanenza dell'origine in senso proprio. Quanto permane è il medium stesso, come permanente variazione in un sistema che vanifica il fluire deli 'origine in traccia archeo­ logica, in fantasma dell'etimo. Si potrebbe definire ogni linguaggio storico­ naturale come tradizione solo introducendo una ulteriore distinzione entro il concetto di tradizione, quella tra volontaria-intenzionale e involontari�l­ aintenzionale. È evidente che di quest'ultimo caso non si è sinora parlato. In esso dovrebbe essere eliso il termine dell'origine (e quindi dell'orienta­ mento della trasmissione) dalla definizione stessa. Non resterebbe che un puro continuum senza origine né telos. La sua permanenza, in questo caso, sarebbe permanenza del continuum stesso, al cui interno, certo, sareb­ bero ritagliabili sistemi di identità strutturali non travolte dalla diacronia. Il puro continuum della tradizione sarebbe il puro linguaggio, che defini­ rebbe così l'identità di coloro che lo parlano, la loro comunità. L'accezione della tradizione in questi termini, però, si sarebbe così indebolita, privandosi del suo carattere istitutivo (fondatore di comunità in senso forte), da con­ fondere i confini della sua definizione. Così si è minimalmente definita la tradizione, al di là della sua storia e al di qua di determinazioni sintetiche che non pertengono necessaria­ mente alla sua natura formale; potevano, è vero, esser inclusi in qtiesta definizione i termini di autorità (del soggetto legittimato a trasmettere) e di destinatario della trasmissione, ma così non si sarebbe aggiunto niente alla sua natura formale, perché potrebbe infatti sempre darsi il caso d i un'accezione cosl larga, estensiva della figura dell'autorità

ove la com­ ponente istituzionale fosse ridotta al minimo tale da togliere ogni peso al problema della legittimità del soggetto autorizzato a trasmettere il tra­ dendum. Come si configura un'analoga operazione intorno al termine storia? L'onnicomprensività del termine è tale, che si rischia una definizione così estensiva da risultare informe. Eliminiamo subito allora dai compiti della definizione la dimensione storiografica del termine, ovvero, tautologicamente, ciò che si potrebbe dire la scrittura/ narrazione di ciò che è storico. Basti qui richiamare la distinzione tra historia e res gestae, tra Historie e Geschichte e dichiarare di riferirsi d'ora in poi solo al secondo significato in questione. Cosa allora si può definire storico, quando una rcs è definibile in tal modo? Appunto quando è fatta, con1piuta attraverso un'azione quando è proDigitized by

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EPOOt É.

IL PROBLEMA DELL'AFFINITÀ TRA

STORIA E TRADIZIONE

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dotto di u n'azione determinata in qualche modo da una volontà umana (non itnporta qui che sia la stessa dell'agente). Ovvero, storico è l'effetto visibile nel tempo dell'azione e quindi della volontà umana e la visibilità di questo effetto coincide con l'interagire dell'azione con tutto il resto (am­ biente naturale, condizioni materiali etc.). Per riprendere ed estendere una distinzione kantiana formulata nel § 43 della Critica del Giudizio, la storia è una forma intermedia tra quelle di natura e di arte: l'effectus di un opus, il factum di un azione. Questo non vuoi dire però che l'effetto si debba sempre distinguere materialmente dall'azione stessa; la distinzione qui è es­ senzialtnente formale (talvolta, ad esempio, l'effetto visibile di un'azione che la fa storica può coincidere totalmente con l'azione stessa). È l'incidenza di questo effetto sull'ambiente, sulla non-storia, che segna il passaggio dal tempo naturale a quello storico. I gradi di dominanza dell'un tempo sul­ l'altro dipenderanno poi dalla quantità e qualità di effetti da un lato e di resistenze dall'altro, dal grado quindi di svincolo culturale dalle condizioni naturali. Tanto che, saltando alcuni passaggi esplicativi, potremmo dire che si ha storia quando il complesso di effetti del tipo anzidetto è in grado di presupporre se stesso. Anche se questo esclude, almeno per ora, la di­ struzione totale del tempo naturale. Se la storia è la totalità di accadimenti definiti da questo genere di effetti, ciò significa anche che la totalità storica è li••1itata, costitutivatnente affetta da limiti. Come totalità di tutto ciò che accade relativamente all'effetto visibile dell'azione e della volontà umana nel ten1po, la storia è una totalità dinamica, una sincronia di accadimenti in continuo slittamento diacronico. Sincronia e diacronia come totalità degli accadimenti accaduti sono solo reciproche astrazioni che si presuppongono a \?icenda. Dicendo però che questa totalità presuppone se stessa, sia sin­ cronicamente che diacronicamente, e che si dà nel tempo solo in virtù di questa possibilità, non si è affatto affermato che la storia sia l'ambito del libero progettare: della pura fattibilità 3• In quanto ambito fattuale, essa esclude piuttosto l'assenza di vincoli come interna a sé. La distinzione tra effetto visibile da un lato e azione-volontà dall'altro, da cui siamo partiti, sta appunto a si care questa esclusione. Tra effetto e volontà-azione non c'è alcuna simmetrica corrispondenza (la causalità dell'effetto è in questo caso altamente indeterminata). Se si potesse parlare di lineare corrispondenza tra azione ed effetto, dovremmo allora ingenuamente definire la storia come azione dell'uomo o troppo sinteticamente come ambito della prassi. Già vo­ lontà e azione, poi, sono logicamente separate dall'intervallo della deci­ sione, dal suo problema. Per questo, con effetto si può correttamente in­ tendere la risultante ' oggettiva ' (visibile, anche se non in senso esclusi­ vamente e immediatamente empirico) del complesso ' soggettivo volontà/ ·

'

3

Si veda per questo concetto il saggio di R. KosELLECK, Ueher Geschichle, in In., Vergangene Zukun/1. Zur Semantik geschichtlicher 1979, pp. 260-277. Digitized by

die Verfiigbarkeil der Zt'ilen,

Frankfurt/M.,

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FABRIZIO DESIDERI

azione, dove Io iato tra i due termini sta appunto ad indicare la non identità tra ragione e volontà, la presenza in quest'ultimo termine di deter­ minanti emozionali-fantastiche o consuetudinarie (sentimento ed immagina­ zione concorrono e confliggono con la razionalità pura nel determinare il volere, la consuetudine ne indebolisce l'aspetto razionale, come una determinazione debole dove la volontà si dà quasi negativamente; se la storia si riducesse a pura somma di consuetudini, coinciderebbe con un'etica). Questo con1plesso puramente soggettivo che traduce l'idea di libertà dell'agire (nel senso che tutte le sue componenti non libere, non soggettive, si risolvono prati­ camente in volere che permette la decisione per un'azione) 4 si potrebbe defi­ nire l'apriori metastorico della totalità degli eventi storici. L'origine me­ tempirica degli eventi storici, il movente (in senso letterale) dell'evento, il luogo logico, intelligibile (evidente è il riferimento al mundus intelligibilis kantiano) da cui un evento accadendo nel tempo e-viene. A questo punto, visto che si è introdotto il termine, resta da chiedersi cosa si intenda per evento storico. Si potrebbe rispondere che si può par­

lare di evento all'interno della totalità storica 5 quando qualcosa, ac-ca(lendo in questa totalità, si impiglia nella rete relazionale in cui consiste la sua fattualità. Tutte le volte, dunque, che il caso ha efficacia: che non è in­

differente alla totalità stessa, che vi produce un effetto visibile (prima o poi:

in qualche tempo). Effettuandosi, l'evento si traduce sempre in tln

factum (o in una pluralità di facta, di relazioni che si esprimono con1e factum). Poiché la storia, allora, è una totalità di eventi trasformati in fatti, l'evenire di ogni evento ne trasforma la configurazione: muta l'aspetto della totalità. Che questi mutamenti siano quasi impercettibili o almeno che siano impercettibili alle categorie in cui si è cristallizzata, in una strut­ tura sincrona che astrae dal fattore-eventualità, la comprensione storica, ciò non toglie niente al fatto che la totalità varii ad ogni presentarsi di un evento. Anche se questo non vuoi dire certo che la variazione sia varia­ zione dei caratteri generali o delle componenti strutturali di lunga dttrata della totalità. storica; questo significherebbe una riduzione di questo con­ cetto-limite ad una dimensione puramente eventuale: tentativo possibile, m a a patto di parlare di evenire della totalità. Per questa sua necessaria rela­ zione-dipendenza ali 'eventuale, la storia, rispetto ali 'universum reversibile (par­ zialmente palindromico) della tradizione, rappresenta un multiversum la cui essenziale pluralità coincide con i differenti aspetti della totalità relativi ad ogni evento (la capacità di variare l'aspetto della totalità coincide con la forza rappresentativa deli'evento). 4

Per questo tema ho tratto liberamente spunto da

G. H.

VON

\X'RIGIIT, Libertà

e

deter­

minazione, tr. it. di M. Sani, introd. di R. Simili. Parma 1984. 5

Qualcosa

vi eviene e, come si è visto, non certo dall'interno della totalità stessa come

totalità accaduta o sul punto d i accadere stesso dell'evento

questo punto, anzi, è quanto si lega al problen1a

; la totalità in questo caso può solo rappresentare la condizione materiale

dell'evento, il suo presupposto, non la sua possibilità. Digitized by

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EPOCHÉ.

IL PROBLEMA DELL'AFFINITÀ TRA STORIA E TRADIZIONE

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Come multiversum di totalità eventuali la storia ha un carattere radi­ calmente discontinuo: è una totalità che permane strutturalmente solo nella discontinuità radicale. È ovvio a questo proposito che continuità parziali :non importa quale sia la loro durata: questa non può togliere la loro par­ zialità) siano ravvisabili in questo discontinuum, ma non ne affettano la capacità di definire ciò che è storico, in quanto necessariamente relato all'idea di una totalità. Se, per eccesso, si potesse parlare di una radicale continuità

storia, si dovrebbe identificare la storia con la permanenza di una struttura da cui dedurre regolarità, prevedere svolgimenti, prevenire eventi. Se la struttura significa invece il riprodursi di condizioni d'eventi o del­ rambito in cui avviene l'evento, del luogo (spazio/tempo) del suo accadere, la struttura non coincide allora con la storia, è qualcosa meno di essa, se intesa come totalità. La definizione della storia come successione di strut­ ture sincrone non fa poi che riprodurre la medesima aporia logica. Altra cosa sono poi le legalità storiche inferibili dall'esser accaduto di ciò che è storico. La legalità inferibile a posteriori da quanto è successo, niente dice su quel che può ancora succedere, o almeno le sue previsioni sono necessariamente probabilistiche. Fino ad ora siamo dunque in grado di dire che la storia è una totalità di �renti trasformatisi in fatti (dati come fatti), discontinua nel suo evenire. L �origine di questa radicale discontinuità della storia sta nella essenziale in­ tranne che dal suo interno avendo esso a determinabilità dell'evento presupposto la libertà umana, prosaicamente traducibile in connessione non linare tra volontà-decisione-azione ed effetto dell'azione stessa, o più sinte­ ticamente nella non identità tra volontà e razionalità (termine da intendersi qui come universalità e quindi come comprensibilità e prevedibilità dei motivi che possono determinare un'azione). In questo senso la volontà, come volontà di realizzare uno scopo, ha in sé sempre un margine di opacità che affetta la trasparenza dello scopo stesso, che le impedisce di riflettersi pienamente in esso. La stessa intenzione di trovare i mezzi adatti a rea­ lizzare lo scopo voluto è esposta, per lo iato logico della decisione, a forti margini di aleatorietà e di non linearizzabilità dei mezzi tra loro. Per questo si è escluso il riferimento allo scopo come interno alla definizione fortnale di ciò che è effettualmente storico. Il problema del fine (dei fini) inerisce, piuttosto, ancora ad un ambito metastorico 6: quello teleologico che riguarda appunto quello del senso (o dei sensi) del multiversum storico. Origine (idea di libertà) e senso della storia stricto sensu non pertengono, così, alla storia, non sono interni alla sua forma. Per questo si è definita

della

6

L. LANDGREBE, Das philosopbische Problt,m des Endcs der Gt'schichte, in Kritik und Metaphysik, Stud i per l'ottantesimo comp l e anno di 1-I. l1citnsocth, a cura di F. Kaulbach e J. Ritter, Berlin 1%6, pp. 224-243, in partic. le pp. 224-234. LanJgrchc nota, tra l'altro, come dalla ricostruzione }()\vithiana della storia del problema deJia ·fìlosotì,t d(:l11 s to r i a sia saltato il nodo-Kant. Per questo tema si veda

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FABRIZIO

DESIDERI

la storia come totalità di eventi radicalmente discontinua nel tempo. Il discon­ tinuum della storia è la sua assenza di radice e di finalità in sé. Anche quando lo scopo è del tutto intratemporalmente storico, questo non implica la sua immanenza alla realizzazione: è la realizzazione che appunto può dirsi storica, ma il fine come tale non può accadere (se lo può accade come effetto), esso sta logicamente al di là (al1a fine) della catena di azioni che lo realizza. L'evento allora sta tra l'origine (il movimento) pre-storico e il fine post-storico. E solo in questo stare degli eventi nella loro effettualità la storia è pensabile iuxta propria principia, fissabile in una definizione che si mantenga nel suo orizzonte. Si tratta di una fissazione essenzial­ mente acritica. In questa datità acritica, nudamente effettuale, la disconti­ nuità storica è assoluta. La storia in questa sua assolutezza è certo pen­ sabile nella totalità, ma come una totalità intimamente discontinua: im­ possibile per una qualsiasi conoscenza. È pensabile cioè unicamente come un riempimento non-naturale del tempo, come una indeterminata determi­ nazione che lo strappa dalla sua ' fisica ' naturalità, che lo muove da sé. Nella storia formalmente intesa il tempo-forma pura del mutamento è strap· pato da sé: è deformato. La storia è deformazione del tempo naturale. La discontinuità di questo deformare la figura del tempo il suo naturale consiste nella criticità (non effettuale, non storica) che lo attra­ ritmo versa, nelle crisi che determinano ' catastroficamente ' gli eventi, configu­ rando il discontinuum della storia: le catastrofi topologiche della sua totalità limitata. L'accadere catastrofico dell'evento, determinato criticamente, ridi­ segna i confini di questa totalità: la sua topologia. I vari discontinua sono le localizzazioni della globalità storica, le differenziazioni spaziali della sua totalità. A questo punto si può forse definire la forma-storia come una discontinuità catastrofica che ha crisi e telos fuori di sé:

nelle aperture

di ingresso e di uscita di ogni sua localizzazione eventuale. Qualcosa come un divenire (processuale) dell'accadere storico è dicibile allora solo nella correlazione con le dimensioni metastoriche della critica e della teleologia (il termine critica determinano nella fettualità storica). categorie del tutto

riassume qui quel complesso di motivi e azioni che si collisione tra il presupposto dell'idea di libertà e l'ef­ Tanto più sono esclusi dall'orizzonte puramente storico valutative come progresso, decadenza etc., che come tali

sono una delle componenti di quella dimensione intellegibile (non-storica) cui pertengono l'origine critica e il telos dell'evento. Se questi tentativi di definizione formale dei termini di tradizione e storia ci permettono d'usare d'ora in poi espressioni sintetiche come con­ tinuum della tradizione (permanenza dell'idea di origine) e discontinuum della storia (concetto di una totalità che si differenzia eventualmente in un multiversum catastrofico), come si può parlare a questo punto di un'affinità problematica tra l'idea (nella sporgenza del principio dal flusso di trasmis­ sioni che origina) di tradizione e il puro concetto di storia? Per riconoscere Digitized by

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EPOCHÉ.

IL PROBLEMA

DELL •AFriNITÀ TRA

STORIA E TRADIZIONE

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che qui un problema accomuna il continuum tradizionale e il discontinuum storico è forse opportuno interrogarsi preliminarmente su come sia possibile un'affinità iiberhaupt. Già parlare di affinità implica l'impossibilità di dedurre continuum della tradizione e discontinuum della storia da un genus com­ prensi\'0 che ne esprima le rispettive specificità, da una unità superiore alle loro differenze costitutive. Né, d'altra parte, è lecito procedere indut­ ti\·arnente a partire dal loro intreccio empirico, dallo stato della loro effet­ tiva coimplicazione. Mentre la prima via esplicativa (quella deduttiva) pie­ gherebbe la dimensione storica e la sua interrogazione ali 'interno di quella della tradizione, ponendola in continuità con essa e alla fine risolvendola in essa, accettando per cosi dire la sacralità dell'origine (assolutizzando cioè la dimensione dell'originario all'interno della interrogazione filosofica); la se­ conda (quella induttiva), muovendo dal riconoscimento del factum della loro reciproca implicazione, renderebbe ' totalmente ' storica la dimensione tra­ dizionale, ne farebbe un avvenuto evento all'interno della totalità storica. :\on resta allora che interrogarsi da capo sulle possibilità che perrnettono di parlare di una possibile connessione fra storia e tradizione. E quindi, più radicalmente, non resta che interrogarsi sulla possibilità di un possibile esser-affine. La possibilità dell'affine implica anzitutto (come forse risulterà già chiaro) una radicale differenza costitutiva entro una generica unità di natura. Ad-finis è, appunto, primieramente quanto comunica nel limite di questa diHerenza. Esser-affini significa perciò, in primo luogo, con-finare o meglio ancora con-finire. Il limite, l'estremo, l'eschaton dove i differenti

t

non li respinge nella comune fine che li fa contingenti si toccano però in sé. La possibilità dell'adfinitas è appunto che la linea di confine, il reciproco tern1inarsi, il limitare nella comune contingentia della fine, di\�enga coniunctio e quindi origine di una familiarità tra diversi, occasione di parentele. La connessione propria dell'affinità presuppone allora il con­ giungersi del costitutivamente differente nella fine di ogni ' naturale ' com­ prensibilità (come possibilità di comprendere espressivamente le stesse dif. ferenze), nel limite che distanzia ogni finito individuum come la sua verità: come la negatività in cui termina, come il nulla che lo cinge come possi­ bilità di congiunzione con l'altro. Come afferma Hegel nella Scienza della logica 7, la verità dell'essere di ciò che è finito, che ha confini, è appunto la sua fine. Nella verità del finire, come verità del limite che stringe in comune destino, il termine, come vuoto di realtà, suo limitato cessare, cede alla possibilità l'eschaton diviene la possibilità della congiunzione che origina l'ad-venienza della connessione. L'affinità significa allora un con­ nettivo comunicare nella fine: l'afferrarsi nella congiuntura dell'eschaton come congiuntura della possibilità. La comune fine, il luogo VLioto che stringe nella contingenza tenendo i confinanti nel proprio costitutivo dif7

1968



Cfr. G. W. F.

HEGEL,

Scienza della lo?,ica, tr. it. di

A.

�1oni rivista da C. Cesa, Bari

p. 128. Digitized by

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92

fABRIZIO DESIDERI

ferire è l'idea stessa della possibilità come quanto congiunge nel reciproco limite lo stesso differire tra possibile e impossibile. L'idea della possibilità abita nelle differenze, al loro confine. Lo stesso gioco dell'affinità tra essere e nulla si origina allora filo-soficamente a partire dali'idea di possibilità come possibilità dell'idea che connette il sé e l'altro, facendoli recipro­ camente affini. Tutto questo certo non vuoi dire che la possibilità dell'afiìtlc sia la possibilità stessa (come origine dell'affinità sarebbe del tutto inde­ terminata). Vuoi dire piuttosto che la possibilità del darsi dell'affine tra dif­ ferenti è la loro escatologia, ovvero il logos del confinire reciproco, come comunità del costitutivamente differente che al di là della generica unità di natura può volgersi in congiunzione produttiva: il vuoto della fine, quindi .. come possibilitas-potentia dell'affinità. Dove confiniscono allora continuum della tradizione e discontinuum della storia perché possano dirsi affini? Nel Tempo. Il tempo è l'unico tratto che li delimita. Il tempo astratto che si è presentato nella defini­ zione di entrambi come forma pura del mutamento (non pura vicissitudine del mutare) è il confine che congiunge il tempo fluido della tradizion e e quello catastrofico della storia. Solo in questa fase, nel finire del tempo, flusso tradizionale e catastrofe storica si congiungono. Questa fine, come confine del tempo storico (del concetto della sua catastrofica discontinuità) e del tempo tradizionale (dell'idea come continuità dell'origine), è però una forma. E cioè una forma schematica configurata dall'intreccio tra le struttu­ rale sorgività della forma stessa (la circolarità permanente in cui la struttura della successione necessariamente si curva in sé perché possa darsi succes­ sione) e la linearità successiva come possibilità del mutamento all'interno della permanenza formale del tempo. Perché se la forma del tempo non per­ manesse ed in questa permanenza non significasse la congiunzione con sé: il circolo riflessivo-intuitivo della propria identità, la linea di questo circolo (il limite del tempo che è sua forma e confine) non potrebbe distendersi pen­ in puro succedersi del differente, nella successività che rende possibile S è an ch e di questo stesso tempo (della sua forma) che deve pensare la fine, ii limite. La «fine naturale di tutte le cose » 12 implica di gi unge re al limite del tempo puro, astratto nella sua forma, del tempo vtioto di fenomeni autonomo nella sua immagine (né fisico, né storico). Si tratta insomn1a di pensare-immaginare il limite dello schema puro del tempo (nella con1plcs­ ,

sione figurale anzidetta) in connession.e con lo spazio vuoto cc>n cui confina. Questa visione del confine del tempo, del suo limite, è po s sibi le solo con1e immagine pura, nel gioco riflessivo tra pura immaginazione e ragione clriori. Come il prodotto di un

,

come si

che necessariélmente azzera qualsiasi eteroge­

neità nell'ordine di una successione prccostituita

coincide con la 1\-Io­

dernità. Essa, come è noto, inizia in un punto (rappresentato dall'opera di �lachiavelli) notevolmente tardo rispetto ali 'origine greca tlclla filosofia. Ma questa postdatazione, che pure ha l'effetto analiticamente positivo di rita­ gliare l'immagine del Moderno in chiave di differenza, e anzi di eccezionalità, rispetto ai propri antecedenti, non ne modiflca, e anzi ne conferma in forma ro\resciata, la lettura tradizionale. Quello che muta, nei confronti del n1o­ il �1oderno come ' autoaffermazione ' laica, sradi-

dello ' legittimante ' 9

Come già avev a notato �1. R I ED E L nella l:.'inleitun� a A1ctaphysic und Afctapolitik, Frank­

1975.

furt am l\L1in,

Di Strauss, Ri eJ cl ritil.·ne ins os tcn i hilt= anche il sostanziale li vell a n1ento

Jellc differenze tra Scnofontc, Pla tone 1

0

L.

STRAUSS, On Collùt,{!,ll'Ood's

\' ( 1952), n. 4. 11



Cf r. ,

oltre Diritto naturale

Church llistory 12

Cf r.

»,

c

c

1\ristutcle. Philosophy of l lirtnry.

in

«

T'hc Revie\V of 1\fetaphysic

>),

storia ( cit. , pp. 51-91 ), �fbe \'.;'e/Jcr Th(·JiJ Rccxan,;ncd, in

30, 1961.

in particolare Philosopby as R ip JJ ro u s Scicncc and Politica! Pbi/o_r;opby, in

>.

Ciò

no n toglie che, come osserva opportunamente L. fERKY, Philosopbic politiqu e l (Le droit: la nout.;·elle querelle des anciens

et

dt>s

mo dcrn cs ) ,

Paris l 984, p. l l.

«

( ... )

la critique straussicnnc

de la modernité s'inspire de la déconstruction phénoménolol!ique Je l'humanisme métaphisique operata da Hcidegger. rvta su Strauss e Hcidcgger cfr. Hisloricil}' and

Truth:

anche 1-1. Y. JuNG,

))

1�he Lifc Wor!d, -

R ef/ection s on Lt·o Strauss's Encountcr U'ith fleidc,gp_er and f-I u sserl, in

"Journal of the British Socicty for Phcnon1cnology )>, IX ( 19ì8). B Cf r. G. GIORGINI, Leo Strauss lo slr..Jniero iconoclasta, in «Il �lulino », XXXIII ( 198� l 3)' p. 399. 14 Di R. GuENON penso soprattutto a La crise du 111oncle nJodt·rne, Paris 1927 (ed. i t. , a cura di J. Evola, Roma 1972), ma anche. per es., a Rivolta contro il 111ondo nz oderno , di ,

J. E vola, Roma 1969 (che critica Guenon proprio relativan1cnte al rapporto conoscenza-azione). 15

The Three Waves

of J\1odernity, in L. STRAUSS, Politica! Philosophy.

Leo Struuss, H. Gildin (cd.), Indi,tnapolis-�l'\\' 'York 1975, pp.

Digitized by

e

Six

Ess,Jys by

81-89.

Originai from UNIVERSITY OF CALIFORNIA

ROBERTO ESPOSITO

102

di matrice burckardtiana, è il punto di vista positivo, arretrato in uno spazio esterno e precedente la forma­ zione del proprio oggetto, adesso connotato negativamente, non la sua configurazione morfologica ali 'interno della cronologia complessiva. Questa viene ritagliata in due blocchi quello classico-cristiano e quello appunto 6: 1 omogenei al loro interno e senza interrelazioni reciproche moderno catnento dal presupposto teologico -

dove resta escluso qualsiasi fenomeno di difformità, o al contrario di com­ presenza, di tempi, qualsiasi segmento d'inversione e di ritorno, qualsiasi punto di fuga dalla successione lineare. L'esito forse più rilevante di tale che non cancella gli apprezzabili risultati inter­ radicale semplificazione pretativi conseguiti su singoli nuclei tematici dalla finissima ermeneutica straussiana (ben diversa, comunque, da quella gadameriana) 17 è l'asso­ luta sottovalutazione, se non proprio soppressione, del concetto di ' teologia politica ' 18 (nonostante la conoscenza e, per certi versi, la singolare simpatia per il pensiero di Cari Schmitt) 19 come terreno d'incrocio categoriale e di travaso lessicale dall'ambito pre-moderno a quello moderno. Ciò comporta da un lato l'elisione di ogni giuntura concettuale tra interiorizzazione cri­ stiana e spoliticizzazione moderna; e perciò la totale incomprensione del ruolo di snodo giocato da Agostino. Dall'altro la mancata individuazione della costitutiva differenza tra koinè greca e cultura ebraico-cristiana.

� vero

e va tenuto presente perché costituisce una chiave espliche cativa dell'intero percorso teorico, ma anche biografico, dell'autore 20 Strauss individua una « tensione », se non un vero e proprio conflitto, tra fede e filosofia, rivelazione e ragione, Gerusalemme ed Atene, per ri­ prendere il titolo di una sua intensa conferenza tenuta appunto a Geru­ salemme 21; è vero, anzi, che proprio al mantenimento di tale tensione e cioè all'irresolubilità di questo rapporto gli appare legata la genesi e lo sviluppo dell'intera cultura (soprattutto filosofico-politica) occidentale: che non a caso s'interrompe e rovescia in declino quando uno dei due 16

Come esemplarmente risulta dalla prefazione di J. CROPSEY a Ancients and Afoderns.

Essays on the Tradition o/ politica/ phi/osop h y (in onore di L>,

',

in

«

Archiv

67, 1933, pp. 732-49 (ora. in inglese, in L. STR.AUSS,

Spinoza's Critique of Rt.,lipjon, Nc\\r York, 1965). La risposta di Schmitt è nella seconda edi­ zione di Der Bcgrilf des Politiscben, Bcrlin 1963, pp. 118n e 120-21n (ed. it. Bologna 1972). 20

21

Cfr. R. CUBEDDU, cit., pp. 36-61. ]c rusalem and Athens. Sonte Prelùninary Ref/t'Ciions, in

«

The City College», 6, Ne\v

York 1967. Digitized by

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103

POLITICA E TRADIZIONE. AD HANNAH ARENDT

è il p:J:

poli, quello della fede, viene incorporato senza residui, e dunque annul­ lato� dall'altro. Ma è appunto da tale lettura la necessità di questa che scaturisce la tendenze linearizzante, e in ultima oscillazione bipolare analisi spoliticizzante, che finisce per invalidarne l'intenzione progran1matica (quell a di ridare vitalità ad una filosofia politica giunta ad un punto di \·era e propria « putrefazione») 22• Tale esito è la risultante di quella che si potrebbe definire la ' doppia sporgenza ' scaturita dall'incotiltllensurabilità tra ragione e rivelazione: da un lato l'irreducibilità della certezza della fede alla ricerca filosofica, attestata dal fallimento del pensiero moderno, e in particolare del suo apice hegeliano, come è espresso nel Novecento soprat­ tutto dall',

«ancestrale

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)>,

ri­

« v enerando

più

>>.

A ciò che la prccet-le e perciò la /anela. 1\ questo fondamento che prede

­

termina la distinzione tra ciò che è giusto e ciò che non lo è, la filosofia deve risalire. E «risalita» è stata chiamata da Platone la filosofia:

« Fi­

losofare significa risalire dal buio della caverna alla luce del sole:

cioè

26•

alla verità»

In questo n1odo, in questa dire:.ione, la filo so fia riuscirà

a raggiungere la potenza esplicativa (Iella rivelazione; ed anzi, in un certo a

senso, perfìno «

verità

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superarla. Il passaggio-arretra1nento dalla

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Originai from UNIVERSITY OF CALIFORNIA

Politica/

POLITICA E TRADIZIONE.

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dialettica, e nel conflitto, delle diverse opinioni; questo deve trascenderla.

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dal dog m a pubblico alla conoscenza che, nella sua essenza, è privata

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Di

pin io n i ce n'è molte; di verità una. Per questo « è dovere del buon cittadino far sì che il conflitto civile cessi ( ... ) » 31• Il « con fl itto richiede un arbitro per una decisione ragionevole che dia a ciascuna fazione ciò che veran1e1zte merita» e « l'arbitro per eccellenza è il filosofo politico» 32•

o

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pol i tica ', la filosofia deve parL1re il ling u ,1ggio tlclla verità non

della conoscenza non dell'azione, del privato non del pubblico. Non per niente è « ascesa»: « Filosofare s i gnifi ca clunque ascendere

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de Il 'opinione,

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L1

.105

dt!la f1losofìa straussiana. Il roves cian1 ento è tutt o giocato nel transito dal punto di partenza al punto d'arrivo. Se quello può, in qualcl1e modo de\' e, essere radicato nell'esperienza della poli tica attiva, e dunque nella

:. ,

. .

AD 11.1\1'\NAII ARF�OT

gli uomini, la filosofia politica deve guidarli, e, per gui d arli,

trascenderli. Non solo:

>'�C'�-·

ma deve trascenclcre anche se stessa. Superarsi in

qu a n t o

filosofia politica, ritornare filosofia. « Alla fine egli [il filosofo pol i tic o ] è costretto a trascendere non solo la dimensione dell opini one '

��l.:l..•

,

ossia dell'opinione politica, ma anche quella della vita politica come tale; i nf a tti, è costretto a rendersi conto che lo scopo ultin1o della vita poli tica non può essere raggiunto dalla vita politica medesima, ma solo da una \'ita dedicata alla contemplazione, alla filosofia » 33• Al culmine della propria «ascesa >>, la filosofia poljtica incontr a la prOJ)ria autonegazione:

comune,

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«Questa scoperta è di importanza cruciale per la filosofia politica, giacché fissa i limiti della vita politica, di ogni azione politica in genere, nonché di ogni pro­ gr�1mmazione politica. Inoltre, essa irnplica che il soggetto più alto della filosofia intes3 non con1e dottrina o come politica è la vita filosofica: la filosofia insieme di cognizioni, ma con1e 1nodo di vivere offre. per così dire, la solu­ zione Jr:l problcn1a che mantiene in esistenza la vita politica stessa>> .'-1.



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Rispetto all'andarnento, si cl i rebbe volutamente nal/, ciel discorso di S trau ss, assai più complessa e articolata si presenta la ricerca di Eric Voegcl i n .

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La complicazione, a prescindere da altre specifiche differenze, investe entran1bi gli assi tematici esaminati. E cioè da un lato il rapporto tra conoscenza

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Ordo historiae.

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fondamento, dall'altro quello tra Tradizione e .rvioclernità

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la con­

cezione della storia). Quello che, rispetto a l primo, viene oppor tuname nte messo in discussione è la rigida opzione antisoggettivistica che connota in



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. n ,.,

(e cioè

di ' realismo platonico ' il normativismo di Strauss. Non che Vocgclin

Diritto

Che

n al urale e

storia, ci t., p. 30.

cos'è la filosofia politica, cit., p. 392.

31 l bid., corsivo mio. 33 l z.-·i' pp. 404-405. 34 l t/i, p. 405.

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106

ROBERTO ESPOSITO

rinunci all'oggettività della conoscenza, o anche che attenui la polemica straus­ siana nei confronti del politeismo ' weberiano, confermato, nella prefazione alla Nuova scienza politica 35, quale massimo responsabile della disfatta filo­ sofica della modernità: ma su un punto soprattutto l'oggettivismo di Voegelin risulta temperato e filtrato, oltre che da una personale vena scettica (da cui l'apertura per autori tanto diversi come Camus, \XThithead, Santayana e Oakeshott) 36, dal rilevante influsso che sulla sua formazione ebbe la feno­ c

menologia di Husserl 37 e soprattutto di Alfred Schiitz 38• Questo punto è definito dalla centralità della coscienza come necessaria mediazione tra esistenza e fondamento. A questa centralità allude la classica che, come è forn1ula voegeliniana secondo cui l'« ordine della storia » noto, costituisce l'oggetto prevalente della ricerca di Voegelin 39 coincide con l'autocomprensione storica degli ordini. Ciò significa che la coscienza rap­ presenta il vertice d'irradiazione dell'intera esistenza storica 40 nel senso che è « il centro dal quale parte l'ordine concreto dell'esistenza dell'uomo nella società e nella storia » 41• È proprio la riconduzione della sfera della cono­ a questo proposito andrebbe scenza a quella, interna, della coscienza ricostruita l'influenza che su Voegelin ebbero gli scritti di Thomas Reid, il filosofo scozzese del Common Sense ', che aveva insistito sulla natura uni­ ad escludere la possibilità di un sapere eminente­ ficata dell'esperienza mente oggettivo 42• Della coscienza, infatti, non si dà teoria, quasi fosse una struttura predata e conoscibile dall'esterno, ma solo esperienza. Questo limite - l'assenza di un incipit assoluto, dal momento che ogni filosofia sulla co­ riguarda sia il singolo individuo, sia scienza avviene nella coscienza stessa la società nel suo complesso. Anzi la società nel suo complesso, fatto di storia, di linguaggio, di simboli, rappresenta l'ambiente ontico imprescinc

l5 E. VoEGELIN, The Ne'w Scit.'nce of Politics, Chica go 1952 (cd. it., a cura di A. Del

63-80). Cfr. W. C.

Noce, ·PP· 36

Consciousness, in 37

HAVARD, The Changing Patlern of \1oegelin's Conception of History and «

The Southem R evi ew

»,

\Vinter 1971, VI I, pp. 52-54.

Ma va ricordato che l'influenza di Husserl si è esercitata anche su Strauss, che venne

ad ascoltarlo a Freiburg nel '22. (Cfr. J. KLEIN and L. STRAUSS, A Giving of Accottnts, in «

The College», aprii 1970, n. 2; e, più diffusamente, H. Y. juNG, Two Critics of Scientism:

Leo Strauss and Edr11u11d

oltre che 38

Husserl,

in

«

The Independent Journal of Philosophy

»,

II ( 1978);

lo stesso Strauss, Phi/osophy as Rigorous Science, cit).

Cfr., di Voegelin, la Lettera ad Al/red Schutz su Edmund Husserl, in Anamnesis. Zur

Theorie der Geschichte und Politik, Miinchen 1966. Ed. it. Milano 1972, pp. 15-31. 39

Vedi, oltre i quattro volumi usciti

di

Order and History per la Baton Rouge (Louisiana

State University Press 1956-1974), Configurations of History, in The Concept o/ Order,

G. Kuntz, Seattle 1968. 40 Cfr. SEBBA, Order and Disorders of

di P. in

«

The Southem R evi ew

••

42

Ana1nneszs, ·

Come

nota

ct t. ·

,

»,

·

tbe Soul: Eric Voegelin's Philosophy of History,

1967, n. 2.

p. 4.

D. GE1Uv1I�O, Eric Voegelin's 11nannu·sis, i n

«

The Southcrn Revicw

(19ìl), p. 73. Digitized by

a cura

e

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»,

VII

POLITICA E TRADIZIONE. AD HAN�AH ARE�DT

107

.Il

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dibile entro cui solattlente nasce e si sviluppa il processo noetico dell'in­

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dividuo. Ciò vuoi dire che non solo l'interpretazione noetica (intellettiva) emerge sempre ma

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dentro un contesto interpretativo non noetico (mitico-simbolico),

anche che l'aggettivazione della realtà promossa dall'atteggiamento noe­

tico \:riene a sua volta oggettivata dal punto di vista, mitico-simbolico, del­ ratteggiamento non noetico residuo. Il processo meditativo di autocompren­ sione storica si articola sempre in due fasi distinte e intrecciate di aggetti­ vazione reciproca, cosicché se dal punto di vista del filosofo la polis diventa un oggetto neutro di ricerca, « dal punto di vista del culto della polis il filosofo eli viene un ateo » 43• Partito dal progetto di negare il soggettivismo

' ' •



u�eberiano, Voegelin sembra catturato dalla sua logica circolare. Il punto l

di a pprodo è ermeneutico in senso forte: non si può conoscere che a partir e da un punto di vista interno all'oggetto di conoscenza. Eppure proprio questo ' circolo ermeneutico ' contiene, per Voegelin, la chiave della sua ' apertura

'44:

La conoscenza noetica di questa relazione non è però tale da farci apparire in modo oggettivo le cose, il cui rapporto reciproco conosciamo ' dall'esterno ' come le scienze naturali analizzano le relazioni intercorrenti fra i dati della percezione sensoriale ' dall'esterno ', ma consiste piuttosto in uno sperimentare la relazione ' dall'interno '. La relazione è sperimentata mediante la realtà del ' vivere in essa '. :\ta poiché le ' cose ', in questo caso l'uomo, vivendo in questa relazione non cessano di essere ciò che sono, lo stesso vivere in questa relazione rientra, a sua volta, nella realtà della cosa stessa; e più precisamente, poiché la relazione è una •

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.



partecipazione al fondamento dell'essere, quest'ultimo, in quanto può essere spe­ rimentato mediante la partecipazione, compenetra la realtà dell'uomo. ( ... ) La conoscenza della partecipazione conduce alla conoscenza dell'uomo e del suo .londamento » 45

'

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• '





In questo passaggio la teoria della coscienza si determina, o anche: si riscopre, teoria del fondamento. L'ertneneutica, antologia. Che , vuoi dire che l'ignoranza (ag1zoia, amathia) rispetto al fon­ damento (aition, arché) non significa che esso non esista; e anzi che « non potrebbe riconoscere la sua ignoranza come tale, se non fosse colto da una inquietudine » 46 essa stessa prova dell'esistenza di quello. La vera conoscenza è ricordo, anamnesis, perché va sempre in direzione dell'origine. E l'origine

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è ciò che sta prima, che predetermina l'intero sviluppo del dopo. Il suo presupposto. Nonostante la forte dialettizzazione del l 'intero impianto di-

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43 A namnests, ·

l

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.

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44 Cfr. N.

at., ·

199.

MA1'1'EUCCI, Alla ricerca dt'll'ordine

cit., pp. 201-202.

45 Anamnesis, � I vi, pp.

p.

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politico, Bologna 1984,

pp. 14-15.

229-230.

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RORFRTO ESPOSITO

108

scorsivo

47,

testimoniata d�1I carattere d'inconoscil)ilità, e cioè di n1istero, del

presupposto stesso, l'esito del ragionamento di Voegclin è, se possibile, più con1patto di quello di Strauss s

4�.

Qtii non c'è, come ancora in Strauss, tensione,

quilibrio tra filosofia e rivelazione: ma consequenzi;]]ità Jirctta. La filosofia ,

può procedere oltre se stessa 1-1erché già predeterminata dalla realtà del «

Dal complesso delle esperienze di meditazione, in cui si rivela la re altà dell'origine dell'essere segue poi la necessità di co n

prl)prio presupposto:

­

siderare il processo dell'essere, in1n1anente al mondo, condiziona to da un processo all origine dell'essere '

È lo stesso rapporto

» 49•

di quello l'ordi ne

questo tra filosofia e rivelazione

che passa tra storia e ordine. Se

con1e si è >51•

Senza poter ripercorrere qui il dibattito che ha opposto la tesi della secolarizzazi one a , 52,

è subito evidente che il modell o ermeneutico di Voegelin è tanto più articolato di quello di Strauss da quella, cosiddetta, della ' lcgittirnazione

con1prenderlo come possibile variante interna: un'età moclerna che succec.le al Ivledioevo

47

(cfr.

la concezione di

(risalente alla prin1a partizione

è intesa da Voegelin come

dal movimento gnostico

«

ass u n ta in quanto t�1Ie, pur se con segno rove­

cronologica del Biondo) sciato, (la Strauss

»

e infatti

>> 53•

«

uno dei simboli creati

Ciò significa che nc.)n solo Vocgelin sfugge ad

Come din1ostra il suo attcggiarncnto, tutt'altro che univoco. a proposito

soprattutto Ancunnesis, cit., pp.

48 f.

della

tradizione

54-56, 239 sgg.).

filosofico e non quello politico, come è stato giustamente sostenuto, contro M. I IADAS ( r�nsione di Ordt r and History, in the History of IJcas », XIX (1958)), da D. GERMINO, VocF,clin's Contri­ « T·he Journal of un giudizio che O\'\'ian1ente riguarda

il

solo piano

'

bution, in Beyond IJcolo�y. T·he Rcvit·al o/ Politic,ll 1·heory, Ne\\' Ytn·k 1967 DANTE. Ordine

e

e

F. 1\lERCA­

(storia della rappresentanza' in Eric \'oc}.!,t:lin, in La dcn1ocra:.ia plehiscilaria,

rvtilano 1974. 49

50 ncettualc ebraico-cristiano. Eppure è propricl in relazione alla cesura cristiana che si rivela la for­ tissima tendenza linearizzante che perC()rre lo stesso IJaradigtna vocgcliniano. Non si tratta solo della confusione tra gnosi antica (caratterizzata da un ' eccesso ' di dualismo, e addirittura dal rifiuto (lei mondo) e gnosi post­ cristiana (caratterizzata invece dali 'immanentizzazione radicale, dalla ri(lu­ zione della trascendenza al n1ondo), su etti ha, certo opportunamente, insi­

stito Del Noce

ma della tendenza irresistibiltnente omologante costituti­

54,

vamente implicita nell'idea di ' secolarizzazione ' (aln1eno nella sua versione ' discendente-degradante ': con1e consun1o senza resti) 5�. È vero che il trac­ ciato gnostico di Voegclin è pieno di (list.inzioni interne:

intanto tra chi­

liasmo medievale-rinascitnentale, in cui i movimenti gnostici si esprin1ono ancora nei termini Jc11'apocalisse giudaico-cristiana, e parusismo immanen­ tistico postrinascimcntale

So;

ma anche tra le varianti interne dell'immanen­

tismo che risultano essere CJuella te leologica (da cui scaturisce I 'idea di pro­ gresso), quella assiologica (istitutiva dell'idea di utc)pia) e quella attivistica (connessa ali 'idea di rivoluzic)ne). rvta ciò che, aldilà di tali distinzioni' resta più prol1letnatico, in quanto elemento complessivatncnte espressivo della lv1c)dcrnità, è pro1-.,rio il con­ cetto di immanentismo al quale tutte fé:lnno ca1Jo. t appunto esso, inféltti, a fornire la cl1iave (Ii lettura del nichiJismo n1oderno come progressiva elisione del prit:ci pio ,/i li iflercnza fissato una voi ta per tu tte prima dalla verità antropologica dcJia filosofia greca e poi da quella sotcriologica del Cristianesimo. Tale differenza riguarda in primt) ]uog(l ]a (vale a (lire la scoperta della psiche come

«

senso rio de1la trascendenza

>>

) . Da questo secondo punto eli

,·ista risulta cl1e tutta la filosofia, i n quanto differenza in atto, a

>) in FotnJdt:linns o/ Dctunrracy, in 1956), ora in I fo�tdatncnti della dcnJocrt�:..ia (! ,;Itri sa.�g,i. Bt)lo�na l >

cfr. soprattutto On H egei:

A Study in Sor cery, in

29-30 (su cui vanno viste le precise

osse rvazioni

The In-Betu'c.'Cfl o/ Hutuan Li/e. in Contc.,nrporary Politica/ Philosophy,

61 La nuova scienza politica, pp. 183-184. 62 Su questi temi cfr. G. !vlARRA�1AO, op. cit. Digitized by

di

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-

POLITICA

E

TRADIZIONE.

AD HANNAH ARENDT

111

stiniana tra città terrena e città celeste. Ma quest'inversione non basta a cancellare il rapporto forte tra Modernità e scissione che in questo modo s'instaura. Qui è in gioco un punto che va aldilà anche della questione se la concezione moderna della storia si origini dal millenarismo gioachimita o dal procursus agostiniano: e che riguarda una caratteristica strutturale del linguaggio concettuale moderno. Esso, al contrario di quanto ritiene Voe­ gelìn, non solo non nasce nel segno dell'immanentizzazione, e cioè della ricucitura della differenziazione soteriologica agostiniana; ma di questa dif­ ferenziazione costituisce il più evidente portato. 1;: appunto la differenziazione lo stacco, l'interruzione tra veritas trascendente e civitas terrena a sciogliere quest'ultima, per rovesciamento dialettico, dall'ipoteca della prima. Non solo: ma di tale differenziazione trapassa nel Moderno anche l'originaria ' impoliticità ' della sottrazione del­ l'uomo alle vicende della città terrena. Naturalmente anche qui la caratte­ rizzazione moderna batte sul trasferimento della contrapposizione al mondo politico dalla sfera della città celeste a quella della coscienza. Ma ciò che a livello categoriale conta è il permanere della ' trascendenza ' come sepa­ razione dal mondo politico (e naturale). È appunto tale separatezza ormai trasferita negli incunaboli dell'io a operare il transito dall'ambito (' an­ tico ') dell 'agire a quello (' moderno ') del produrre (da Voegelin e Del Noce erroneatnente 11nificati nel concetto di « prassismo » ) : e cioè a incanalare la produttività dell'homo faber, come appropriazione-annientamento dell'am­ biente naturale, in direzione tendenzialmente impolitica. Come vedremo più avanti, non tutto il Moderno è iscrivibile dentro questo destino spoliticiz­ zante. Ma il fraintendimento del nesso Modernità-rottura (trascendenza) e la lettura itntnanentistica del Moderno portano inevitabilmente Voegelin da un lato a unificare l'intera Modernità in un giudizio parimenti negativo (il �foderno come Totalitarismo); dall'altro a derivare tale giudizio proprio da quel primato dell' azione politica di cui il Moderno subisce invece la ten­ denziale scomparsa: e cioè a confondere la logica (impolitica) del ' produt­ tivo ' con quella (non necessariamente produttiva) del ' politico '. La con­ traddiz ione di Voegelin traspare a chiare lettere nella presentazione del suo più autorevole interprete: ,

) la ricerca propria della gnosi degenerata non è, lo si è visto, una ricerca di verità, ma una ricerca di potenza. Questo carattere, inscritto nelle sue origini, «

(

. .•

si rende manifesto nelle sue fasi conclusive, in un ordine simmetrico a quello della sua genesi. Il marxismo è certamente a questo riguardo un documento deci­ sivo perché vi troviamo insieme, connessi, l'affermazione del primato dell'azione, l'ateismo e il carattere superumanistico, e la rottura definitiva col cristianesimo. Sarà poi il primato dell'azione a mediare il passaggio dalla filosofia attivistica della storia al totalitarismo, che realizza la dipendenza deli'intellettuale dal politico » 63•

,

63

A. DEL NocE,

op.

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cit.,

p.

31.

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71: l'impredicabilità della fine a partire dalla pluralità dell'inizio. E siamo al secondo rovesciamento categoriale. Esso riguarda la forma e, come dire, la struttura, dell'initium. Detto in breve, fuori e contro il mito platonico della pacificazione originaria, all'inizio non c'è unità, com­ pattezza, omogeneità, ma molteplicità, differenza, conflitto. L'origine è sem­ pre plurale e, perciò stesso, evidentemente, anche conflittuale: è lo spazio dove forze, opinioni, soggetti si confrontano e affrontano per dare vita al nuovo. È chiaro come questa doppia caratterizzazione sia destinata a spostare la definizione dell'' inizio ' dall'ambito metafisico-antropologico a quello eminentemente politico. Se per Platone l'inizio rimanda al dio e per

73

Circa il 'nictzscheancsimo' della Arcndt, cfr. soprattutto la recensione di S. WoLIN a The Li/e o/ the M ind in . Ed anche qui in singolare intreccio con quella, app�rentemcntc oppo s t a eli ), > temporale ev ,

\\1 i!l i ng?

82

IJ pregevole introduzione di R. Zonzr all'ed. itali,lna di ()n Ret.'olution (�l'ilano 1983), 1\ISBET, Hannah Arendt e la rivoluzione antcricana, in 81

Sulla rt�'Dluz.ione, cit., p. 235.

32

The Life of the Mind, ci t., vol. II.

63 Cfr. il brutto articolo di K. PoPPER tembre

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118

ESPOSITO

ROBERTO

A queste domande come hanno avuto buon gioco a dimostrare tutti coloro che l'hanno accusata di volta in volta d'irrazionalismo 13, di utopismo 84, di romanticismo 85, di arcaismo 86, di esistenzialismo 17 e addi­ rittura di teologismo 88 la Arendt non risponde con un ragionamento definito che cadrebbe inevitabilmente preda, magari in forma nega­ tiva, di quella filosofia della storia dal cui rifiuto nasce la domanda stessa. Quello che si riesce a intravedere tra le righe è semmai un epicentro problematico da cui si dipartono vettori semantici che oltrepassano lo stesso linguaggio della politica. « Fondation sur le sans fond », propone André Enegrén 89; « autofondamento », >, 21, giugno 19i3.

N. K.

S. \VotiN, Hannab Arendt and the Ordinance

( 1977/1 ). 87

Secondo

�L JAY (Opposing \liews, in

le sue prese di posizione contro Cari Schmitt,

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Politica! Thoup,bt

Soci al Research

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XLIV

Par tisan Review », XLV/3 (1978)). nonostante

Ernst Jiinger

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Alfred Baumler il pensiero della

Arendt si situa dentro la cultura dell'esistenzialismo politico. La stessa Arendt d'altra parte, nel saggio Wath is Existenz Phi/osophy?, in « Partisan Review », VIII/l ( 1946), afferma che la tradizione iniziata con Schelling e Kierkegaard e culminata in Heidegger è la filosofia del tempo moderno. Sull'' esistenzialismo .politico' della Arendt, anche

G. KATEB, Freedom and Wordliness

in the Thought of Hannah Arendt. in « Politica! Theory », V/2 ( 1977). 88

F. ]ONAS, Hannah Arendts Theorie der Revolution, in Hannah Arendt. Materia/m zu

ihrem Werk, Vienna 1979, a cura

di A. Reif.

89 A. ENEGRÉN, op. cit., p. 189.

90

Sulla rivoluzione, cit., p. 234. Digitized by

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POLITICA E TRADIZIO�E. .

AD HANNAH AP.FNDT

nuovo ha bisogno di un assoluto da cui uscire È proprio questa inerenza, questa presenza, rivoluzionario, questa coincidenza di initium « salvarlo » da quel margine di arbitrarietà ad

119

e da cui essere ' spiegato ' » 91• di « assoluto » dentro l'inizio e principium etico-politico, a esso inevitabilmente connesso:

«

Ciò che salva l'atto dell'inizio dalla sua arbitrarietà è il fatto che porta in se stesso il proprio principio; o, per essere più precisi, che l'inizio e il principio, il principium e il principio, non solo sono correlati fra loro, ma sono coevi. L'as­ soluto da cui l'inizio deve trarre la propria validità e che deve salvarlo, per cosl dire, dalla sua intrinseca arbitrarietà è appunto il principio che fa la sua com­ parsa nel mondo insieme all'inizio » 92•

Solo rintracciando il punto in cui coincidono « inizio e « principio >>, in cui la forza dell'inizio rinsalda l'assolutezza del principio e l'assolutezza del principio illumina la forza dell'inizio; solo riscattando la pienezza del­ l'arché dall'involuzione, iniziata con la scissione platonica di archein ( ' co­ tninciare ', ' condurre ', ' governare ') e prattein ( ' esperire ', ' compiere ') e proseguita con l'altra, latina, tra agere ( mettere in movimento ', ' con­ durre ') e gerere ( ' portare '); solo allora la revolutio potrà liberarsi del '

peso inerziale del proprio etimo. Allora davvero l'ordo saeclorum potrà dirsi novum. Allora davvero sarà possibile sciogliere ciò che era religato, il nodo romano di auctoritas, traditio e religio per il quale il continuo accrescimento della res publica poteva realizzarsi solo come aug1nentum, e cioè dentro una traditio garantita dall'auctoritas e ' legata ' dalla religio. Tale scioglimento, tale emancipazione dal mito (del Conditor, che pre­ siedeva alla crescita delle messi come ' fondatore ' e ' conservatore ' nello stesso tempo), non è, si è visto, sradicamento, dimenticanza, utopia: ma, al contrario, riconquista della propria radice, appropriazione e riscatto del­ l'origine. L'origine, il passato, è riscattato dal condizionamento vincolante della tradizione. ! per questo che la Arendt non pronuncia un giudizio negativo sul Moderno, non ripete l'interdetto indiscriminato di Strauss e lo si diceva ali 'inizio Voegelin. Il filo della tradizione è ormai spezzato. A nulla varrebbe un recupero postumo. Non potrebbe essere che nostalgia, rimpianto, rimitizzazione. Ciò non significa, tuttavia, che cada qualsiasi possibilità di rapporto con il passato, che si debba cancellarne ' utopicamente ' il problema. Anzi, proprio la perdita della tradizione ci offre la possibilità di rivolgere al pa�sato uno sguardo più immediato e diretto, non offuscato, distratto, dalla sua deviante presenza 93: «

Così, l'innegabile perdita della tradizione non implica affatto una perdita del passato, poiché tradizione e passato non sono la stessa cosa, come vorrebbero •

91 I vi,

23 7. 92 lvi, p. 245. 93 Or. S. SPJROS DRAENOS, Thinking witbout a Ground: Hannah Are ndt and the Con­ p.

temporary Situation o/ Understa11ding, in The Recovcr)' of Public World, cit., p. 213. Digitized by

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120

ROBFRTO F.SPOSITO

farci crellL�re qu�1nti credono neiLt tradizio:1e da un Lno e yu tnti credono nel progresso dJll\tltro: per cui finisce con l'essere inditrerentc che i prin1i deplorino questo sL.lto di cose e i secondi se ne rallt:grincJ. P�rJcndo la tradizione abbiamo perduto i } fÌ}o che CÌ guidJ\'�1 sicuri nel \'JStO Jc.H11�1liO de} p�lSSato. �la l]UCStO filo era anche Lt catena che vincolava n�ni gcncr:1zin:1e successiva a un dctermin,ttn aspetto d�l PJ"s,Ho. Forse sol t a n t o �hl�s�'1 il pa�;;-\�tto si �tpre dav3nti a noi con inattes:l fres�__·hL�/za, per dirci cose cht· r.\?�Stli10 t1nnrL� �1VC\'�1 orecc h ie f'Cr a sco J t.u·l" ) �. ..

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( :

(. .. ) it seems to tell us no more than that we are dootned to be free ·by virtue of being horn, no matter whether we like freedom or abhor its arbitrariness, Me ' pleased ' with .it or prefer to escape its awesome responsability by electing �me form of fatalism. This impasse, if ·such ,it is, cannot be opened or solved except by an appeal to another mental faculty, no less mysterious than the faculty of beginnin g, the faculty of Judgment, an analysis of which at least may re11 us what is involved in our pleasures and d.ispleasures >> 140• •·

Qtiesta facoltà è dunque il giudizio. Come è noto, la sezione di The

Life o/ the Mind dedicata all'analisi del giudizio non fu mai scritta dalla :\rendt. Quando il 4 dicembre del 1975 morì, sulla sua macchina da scrivere e non restava che un foglio contenente il titolo dell'opera ]udging due epigrafi, una relativa a Catone e l'altra dal Fat1st di Goethe: cosicché il contenuto di quest'opera assente, m ai scritta, può essere solo molto approssi­ mativamente desunto dai brani relativi al giudizio dei lavori precedenti; e in particolare dalle Kant Lectures fatte nel 1970 alla Ne\v School of Social Re­ �arch e ora pubblicate, insieme al seminario sulla Critica del giz1dizio tenuto nella stessa occasione e al Postscriptu1n di Thinkin(.g, da R. Beiner

141•

Ciò che

- a prescindere dalla cesura concettuale tra gli scritti sul giudizio anteriori

al '71 e quelli posteriori (e attinente allo spostamento della collocazione vita activa a quello della 142 mente) salva il giudizio dalla tendenza i m poli tica ' del zoillin g è la sua netta caratterizzazione sociale. . Se il principio del pe11siero è il dialogo interiore e il principio della volontà la singolarità, quello del giudizio è la pluralità. Il suo spazio d'elezione non è né la verità (pensiero) né la decisione (volontà), ma l 'opinione 143• Esso si esprime, pr(>d uce senso, prostrutturale di questa facoltà dall'ambito della '

1«"'

\f'illing,

GtENN GRAY, 1·be ilbyss o! Frcedol!l- and I-lannab Arc?ndt, in The Recovery o/ Public World, cit., soprattutto pp. 225-233. 141 H. ARENDT} Lectures on Kan(s I)olitical Philosophy, a cura di R. Beincr, Chicago 1982. 142 Cfr. l'ottimo saggio introduttivo di R. BEINER al volume citato. 143 SuJrimportanza 'politica' dell'opinione aveva già insistito �1. CANOVAN} Tbe Politica/ Thuugbt of l-lannah Arendt, Nl:\\' \"ork-London 1974, pp. .113-118. cit., p. 217. Cfr.].

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ROBERTO ESPOSITO

134

prio attraverso la diversità

e

il conflitto

delle opinioni. Da qui l a

sua dimensione costitutivamente politica, la sua resistenza categoriale alla deriva spoliticizzante del Moderno. Di esso, nella sua versione cartesiano­ hobbesiana, il giudizio rifiuta, scardina, le grandi dicotomie fondative. E in particolare quella tra individuale e universale e tra soggettivo e ogget­ tivo. Il giudizio, come si è detto, non è né individuale né universale, ma semplicemente plurale. E allo stesso modo né puramente soggettivo, perché in necessario confronto con quello altrui, né puramente oggettivo, perché

di una definizione presupposta

non sottomesso alla cogenza

144•

Libero, autonomo, indeterminato: così, soprattutto, si presenta il gi tl ­

dizio riflettente kantiano. Vero è che la nozione di ' gusto' era stata anti­ cipata prima da Gracian e poi da Shaftesbury: ciò non toglie che la sua elaborazione compiuta risale alla terza Critica prima e forse ultima kantiana. In essa, a partire dal concetto di ' senso comune', il giudizio è per la prima volta assunto nella sua imparzialità valutativa, vale a dire nella sua disponibilità a guardare le cose non dal punto di vista del singolo né da quello del l'universale, ma dal punto di vista degli altri: « Il giudicare è una delle più importanti, se non la più importante attività nella quale si manifesti il nostro ' condividere il mondo con altri » 145• Che Kant non abbia concettualizzato, e forse neanche colto, la potenzialità politica im­ '

plicita nella sua teoria del giudizio, non significa, per la Arendt, che non sia possibile oggi tirare una conseguenza che egli non ha mai tirato. cioè cogliere il rapporto intrinseco già intuito da Machiavelli

E tra

politica e arte, relativo al loro comune carattere di pubblicità, visibilità, rappresentatività, agli occhi del mondo. Da questo punto di vista

enfa­

tizzato da una lettura genialmente infedele di Kant

la Critica del giu­ dizio è assunta dalla Arendt come possibile base di una nuova filosofia politica. In essa la libertà è predicata dal potere di immaginazione collet­ tiva e non dalla decisione della volontà individuale: « In the Critique of ]udgment freedom is portrayed as a predicate of the power of imagination and not of the will, and the power of imagination is linked most closel)' with that wider manner of thinking which is politica! thinking par excel­ lence, because it enables us to ' put ourselves in the minds of other men ' » 146 • Che tale politicizzazione dell'estetica kantiana sia un'evidente (ma anche esplicita) forzatura, dal momento che, come osserva Gadamer, Kant tende a

144 E.

una tesi, questa, ripresa

politischen V rlei/skra/1, Stoccarda

e

amplificata da E.

1977.

145

146

Tra passato e futuro, cit., p.

in Die Rekonstruktion der

�fa sulla dialettica del giudizio va soprattutto visto

�t DENNENY, The prit'ilege o/ ourselves:

Public Wor/dJ ci t.

VOLLRArn,

Hannah Arendt on iudgment, in The Recovery of

240.

Fret'dom and Politics, in «Chicago Revic\\'

»

14/1, 1960

(ripreso in Tra passato e

futuro, cir.). Digitized by

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POLITICA E TRADIZIONE. AD HANNAH

spoliticizzare il di una tendenza è a più riprese Judgement apra libertà.

'

135

ARENDT

senso comune 147; che essa sia insieme causa ed effetto della stessa Arendt all'estetizzazione della politica, come stato notato; ciò non toglie che la politicizzazione dello uno spazio inedito alla· determinazione affermativa della '

Si ricordi: questa non poteva essere incondizionatamente affermata dal Yolere. Da esso, al massimo, gli uomini potevano essere « doomed >> ad essere liberi. La libertà restava necessariamente infondata. Cosa, il giudizio, offre di più e di nuovo rispetto a questo problema? Cosa può costituire per la libertà? Neanche in questo caso, per la Arendt, è possibile parlare di fondamento '. La libertà politica, la politica come libertà, non può essere '

fondata dall'esterno: nemmeno dal giudizio. Rispetto ad essa, tuttavia, il giudizio, a differenza della riflessione, a differenza della volontà, può assol­ vere ad un altro compito, non meno importante. Quello della memoria. Non una memoria piatta, inarticolata, indifferenziata, ma vigile, attenta, valutativa. In altre parole: se non è possibile fondazione �priorica, pre­ deterttt inante, della politica, è possibile, e necessaria, una fondazione retro­ spettiva: scelta, opzione, giudizio appunto, individuale e storico. Quando questa capacità, e volontà, di giudicare manca, quando con la memoria si smarrisce anche la facoltà di giudicare, allora si che la rottura della tradi­ zione mostra il suo volto più scuro: tutto il reportage sul caso Eichmann 148 , come giudicare colui a cui è sempre mancata la capacità del giudizio? oltre che la grande opera sul totalitarismo, ruota intorno a questa tragica interruzione. Con la tradizione scompare anche, in questo caso, la memoria del passato, la sua testimonianza e il suo ammonimento. L'autonormatività del politico, l'indeterminazione del presente, si fa assoluto srad.icamento, assoluta dimenticanza. Siattlo cosi tornati al punto da cui tutto il discorso ha preso piede: la distinzione tra ' autofondamento ' come rifiuto del presupposto e sradi­ camento. Il rapporto al passato fuori dal vincolo costrittivo della tradizione. Ritorna, anche da questo lato, la questione della storia. E ritorna, ancora qui, nella forma del rovesciamento di prospettiva rispetto al modello cor­ rente. Riconsideriamo la relazione tra pensiero, volontà e giudizio rispetto al pro blema -storia : se il pensiero si rapporta sempre al presente, e la volontà al futuro, il giudizio riguarda il passato. Anche questo senso l1a la sua op­ posizione categoriale alla volontà: rovesciare la prospettiva finalistico-pro­ gettuale, intenzionata al futuro, tipica del Moderno, in ttna cultura che -

l-47

�1ilano •48

f-I. G.

GADAMER,

1972, pp.

Wahreit und A.fethode,

56 sgg.).

Eichmann in ]erusalent:

�lilano 1964 ) su cui è da ,

A

Tubinga

1960 (ed. it., a cura

di G. V att i mo,

Report o/ tbe Bana/ity o/ E�·il, New York 1963

vedere l'intensa testimonianza di

M. l\-1c

CARTHY,

(cd.

Il grido d'a/lar11Jc,

compresa nell'ed. it. di The Writing on the Wa/1 and Other Lilt'rary Essays,

lv1ilano

1973,

pp. 68-89. Digitized by

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it.,

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136

ROBERTO FSPOSITO

sappia ancl1e ritornare sul tJassato. Non nel senso nlitico-reintegrativo della linea Strauss� Voegc lin, ma in quello, benjaminiano, del ' pescatore di perle

'

:

riconoscimento del non�pensato. Ciò che va evitata è ogni tentazione ciel i ca da 'eterno ritorno '. Il rifitito della libertà

> 33• l

l

Ed ecco che in questo giro di pensieri emerge l'ateismo proprio del cristianesimo, il suo lato antropoteistico 34• Kojève reputa infatti che la verità del cristianesimo non consista tanto nel farsi uomo da parte di Dio, quanto, invece, nel mostrare la morte di Dio e l'innalzamento dell'uomo a livello di Dio. Il differimento del suicidio di cui si è precedentemente detto ha dunque per risultato il divenire Dio da parte dell'uomo. Per questo motivo, per poter cioè assurgere veramente a Dio e comprenderne la lingua, Kojève giudica negativamente la prospettiva distruttrice di Kirillov, 29

In questo senso dr. M. BERTAGGIA, Nihilis1no e festività del silnbolo. Hegt'l verso

:��ietzsche, in AA.VV., �

l

31

Crucialità

del tempo, a cura

di

M. Cacciari, Napoli 1980, pp. 117-154.

Per quest'affermazione cfr. A. KOJÈVE, Ess ai , cit., III vol., p. 44.

Questo,

per altro,

è il

�tema ddla raccolta

Crucialità

del tempo, cit., testo che si pro­

pone di problema tizzare la conclusione hegeliana del tempo cristiano, la morte di Dio,

«

la

risoluzione del divino nel Teo-logico che appartiene alla filosofia>> (CACCI ARI, I 11troduzione, p.

12) 32

33 l

'

J

34

e

cruciale intersezione di tempo A. KoJÈVE, Essai, cit., vol. III, p. lbtdem. la

ed eterno. 489.

A. KOJÈVE, lntroduction, p. 256: «Le Christianisme, - c'est le devenir de l'atbeis111e Digitized by

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».

LUIGI

148

FRAT'\CO

e crede, al contrario, che solo nella dilazione del suicidio stesso l'uomo possa, alla fine, dichiarare la morte di Dio, realizzando così lo scopo di tutto il processo storico.

...

Se, infatti, il peccato originale nobilita l'uomo elevandolo a livello di

Dio, allora pare possibile cogliere la cruciale duplicità del ragionamento kojeviano sul negativo: da una parte esso è l'elemento proprio della fede cristiana, rientrando cosl in un preciso schema di filosofia della storia; dal­ l'altra, il carattere epocale di tale credo determina già inizialmente quale possa essere il suo Telos: la morte di Dio 35• Assunto dunque che la tra la libertà ini­ religione cristiana stia realmente fra questi due poli ziale ed il vuoto sepolcro conquistato con il sangue dei crociati , posto che Dio sia veramente morto, allora il fine epocale del cristianesimo deve aprirsi su una nuova epoca: quella dell'assoluto autocoglimento dell'uomo da parte di se stesso. Ma, proprio per ciò, la fede cristiana non può che essere una figura fenomenologica del divenire dell'uomo, e, quindi, rappresentarne una signi­ ficativa tappa. Il momento cristiano, sulla base dell'interpretazione della lotta per il riconoscimento, incarna l'epoca del servo, di colui che, nel primo scontro mortale all'inizio della storia, alla morte aveva preferito la vita da schiavo. Il cristiano è dunque colui che ha rinunciato al proprio essere, negando la propria umanità: sua è la flessibilità che, nel corso del tempo, lavorerà alla costruzione del mondo. Il signore infatti, rischiata la vita nella prima lotta mortale, diviene ozioso; messosi a repentaglio, arrischiatosi al divenire, egli si rifiuta poi di modificare la propria situa­ zione, rimanendo cosl pura coscienza di sé, mera attività negatrice priva di qualsiasi flessione produttiva: si limita a consun1are il prodotto dello schiavo. Il servo, d'altra parte, deve essere pronto a qualunque cambia­ mento, deve appendere il mantello al vento, senza aver nulla di fisso, se non il lavoro, eseguito per il padrone. L'in sé dello schiavo, dopo essere stato in faccia alla morte, attraverso l'attività creatrice, modifica la realtà, esperendo la propria libertà non in modo astratto ma concreto. Il risultato della sua fatica, nel plasmare l'universo circostante, cambia anche lo schiavo. Egli infatti costruisce un mondo, il mondo storico, muovendo così il processo umano: « L'Histoire est histoire de l'Esclave travailleur » 36• Il travaglio dello schiavo è compiuto in favore di un Altro; egli agisce , ed in funzione di una nozione puramente sociale l'idea di signore è per questo sostanzialmente una coscienza déc!Jirée n il cui concreto ope­ rare forma una tecnica di lavoro. Da qui, poi, si origina e si sviluppa la capacità intellettiva (V erstand) dello schiavo, struttura essenziale delle no35

lvi) p. 262: «Le Christ rc.�vi'le aussi [',z/ht..:isnte finale:: la fltOrt de Dieu?

.36

lvi, p. 25.

37

Sulla coscil:nza dc:cbirf:e cfr. J. it. di F. Occhctto, rv1i!ano 1972. Digitized by

»

.

\X' AHL, La coJCÙ:'IIZa infelice nella filosofia di Hc.>gc.'l,

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tr.

-

. -



-





.

KOJÈVF.:

IL

LIBRO, LA TRADIZIONE

E

LA ROTTURA DELLA CONTINUITÀ

STORICA

149

zioni astratte. Si capisce perché, secondo Kojève, la coscienza scissa ed infelice del cristiano sia fondamentalmente critica, e perché cristiana sia la nascita della scienza moderna 38• La capacità produttiva dell'impostazione cri­ stiana trova infatti un eccezionale aggancio storico-teorico nella figura di Kant, ovvero del pensatore che, con più insistenza, pose a tema della sua opera il termine critica 39• � esattamente in questa contesto che la funzione e gli orizzonti della critica vengono ad essere consaputi nella loro più ori­ ginale acutezza ermeneutica, giungendo sino ai loro estremi limiti. Nel filosofo di Konigsberg emerge infatti in modo evidente la dupli­ cità sottesa al termine critica: in essa, da una parte trova un momento di significativa chiarezza l'esposizione e l'indicazione dei confini della cono­ scenza umana, dall'altra la peculiarità della scienza moderna non solo viene riconosciuta, ma si dispiega pure in una corposa sistematizzazione teorica. Kant dunque, in questa ambivalenza, rappresenta il punto di massima con­ sapevolezza del pensiero cristiano e dell'ambigua flessione per cui la critica, pur ritenendo possibile e comprensibile la nascita della scienza moderna, evidenzia la consapevolezza dei limiti dell'astratto procedere dell'intelletto (Verstand). La critica copre precisamente questo terreno, e, in uno dei suoi lati, è l'indispensabile elemento del nascere della scienza moderna, il cui campo d'azione può essere ritagliato solo a partire dal « dogme de l'lncar­ nation qui en porte la responsabilité exclusive ... Si, comme les chrétiens , croyants l'affirment, un corps terrestre (humain) peut etre en méme temps le corps de Dieu et donc un corps divin, et si, comme le pensaient le savants Grecs, les corps divins (celestes) reflétent correctement des rela­ tions éternelles entre des entités mathématiques, rien n'ernpéche plus de rechercher ces relations dans l 'ici-bas autant que dans le ciel ... Kant fut probablement le premier à reconnaitre le role décisif que la ' révolution c

38

Significat-ivo in questa direzione è A. KoJÈVE, L'ori?,ine chétienne de la science

derne, i1l

tica

AA.VV., Me/anges

demolizione

Koiève.

de1le tesi

Alexandre Koyré, 2 Voli., Paris 1964, pp. 295-306. esposte

«

Kojève

On the origin o/ modern sc;ence:

History and Philos ophy of Scien� che

da

)) ,

è

svi.Iuppata

sociolog,ical

Ja

S. L.

modcllin�

Una sistenla·

GotDMAN,

f'..OÌ11g

au•ay,

mo­

«

Alexandre

St udies in

London 19ì6 (6), pp. 113-124. Goldman, pur d ichiarando

in spite of re;ecting all ... assu111 plions as erront.'us. I tvou/d not deny that Koiève's is

a valuab/e contribution lo the con1parative science

»

(p. 115), ritiene. che la concezione koje­

viana relativa al ruolo gioca to dalla matematica nel X\' l I sec.

«

is sempliciste, a t the best

»

(p. 120). Personalmente credo, senza con ciò contestare la legittin1ità di lavori che, come quello di Goldman, si .propongono

di ve ri ficare le

asserzioni koj cv i an e , che

si

debba leggere que­

st'aspetto del pensiero del russo alla l uc e della sua complessiva filosofia. In questo ho l'im­ pressione che lo studio di Goldman non abbia colto le a u tent uche intenzioni di Kojève, non comprendendo compiutamente il si gni fi ca to della Rivelazione.

è invece espresso da D. D'ORSI, L'origine n. 34 ( 1966), pp. 275-281, il qu ale rivendica al posito

derna,

senza

G i udi z io

positivo a questo pro­

cristiana della scienza moderna,

«

Sophia

•,

cristianesin1o ,] a paternità della scienza mo­

tuttavia porsi domande circa la g ene ra le in1postazione di Kojève.

è ampiamente occup ato di Kant in KoJì:vE, Kant, cit., testo che contiene una profonda disamina della prod uzione del pcnsatore di Konigsbcrg e che indica a chiare le t tere quali si an o lo spazio cd il ruolo gioca ti da llc l,,, criliebe. 3'9

Kojève si

,

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LUIGI

150

FRANCO

copernicienne ' a joué dans la genèse de la science moderne » 40• La Rive­ lazione si colora pertanto anche di quest'ulteriore sfaccettatura e, consen­ tendo di proiettare la terra in un cielo matematizzabile, pone su solide basi la fisica moderna 41•

-

Certo, la scienza rappresenta solo uno degli aspetti del cristianesimo, l'altro essendo il mantenimento di uno spazio di trascendenza, al cui interno va anche collocata parte dell'opera kantiana. Cristiano, comunque, è l'uomo storico, il costruttore del mondo storico, un cosmo la cui tradizione è tra­ smessa a partire dalla Rivelazione: l'Incarnazione è il momento in cui la tradizione si costituisce e si tramanda. Fino ad ora al di là degli accenni alla fine della storia, pare che Kojève non abbia spostato assolutamente nessuno degli elementi che comparivano nel saggio su Solov'ev. Pure, già s'è visto che il cristianesimo altro non è se non il divenire dell'ateismo; ma, allora, perché esso si realizzi, perché riveli la propria essenza occorre che esso sia compiuto, portato a termine. E, poiché la storia è dello schiavo, suo deve essere il compimento. In altri termini: posto che il signore sia che è movimento crono­ solo il catalizzatore del movimento storico logico il compito di porre termine al processo spetta al suo autore, ovvero alla coscienza déchirée. Qui dunque assume precisa fisionomia lo spostamento di cui si diceva: il cristianesimo non mostra la sua essenza al suo inizio, ma alla sua conclusione. Se Incarnazione e Rivelazione si •

dànno, esse hanno luogo alla fine del tempo; non più al centro dell'evoluzione dell'universo, come nel lavoro su Solov'ev, ma al suo termine: « l'Incarnation a donc lieu non au melieu, mais à la fin du temps » 42• In questo punto l'anello che si è andati percorrendo, nel suo radicale scarto, pare davvero tematicamente ricongiungersi con il primo studio koje­ viano. Ma l'affinità di riferimento e l'essenziale differenza di risultati non si limitano solo a questo. Interrogato da questa prospettiva, il problema del rapporto storia-tradizione può infatti offrire interessantissimi spunti. A quest'altezza, insomma, può e deve essere posta la questione storia-tradi­ zione, tenendo saldo quanto è stato guadagnato dalla lettura della Métha­ physique: solamente a partire dalla venuta di Gesù-Cristo può essere tra­ smessa la tradizione. Ma di un ulteriore tratto si compone il tema della

40

A.

41

Parere

KOJÈVE, L'origine, pp. 303-304.

analogo,

ma innervato da un più feroce impeto Kojève,

V.

è riferito anche

da

A. Pescetto con introduzione di J. Michaut, MiJano 1979, il quale affenna che «il Cristo è venuto misteriosamente a ' sconvolgere le fondamenta di un Universo creato ' per cosi dire da suo Padre . E quando Copernico r-isponde ai quesiti sul sole e la terra, spiegando come essi agiscano ' in base al quadrato delle distanze ', egli dà una risposta del tutto cristiana » (pp. 89-90). Re­ centemente mi pare che G. MARRAMAO, Potere e seco/arizzazione. La categoria del tempo, Roma 1983, abbia correttamente interpretata }'.intenzione kojeviana (cfr. sp., In luogo di una introduzione: Modernità del tempo, p. XXXIX). 42 A. KoJÈVE, lntroductio11, p. 147. un altro connazionale

di

polemico,

RozANOV, L'apocalisse del nostro tempo,

'

'

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tr.

it. di



KOJÈVE:

IL LIBRO, LA TRADIZIONE E I..A ROTTURA DELLA CONTINUITÀ STORICA

151

tradizione, dal momento che esso è paradossalmente coniugato con la fine della storia. Si tratta di una congiunzione paradossale perché la tradizione viene ad emergere nella storia esattamente quando questa ultima finisce. Non si può allora più dilazionare la questione di che cosa sia mai questa fine della storia. E qui, subito, va detto che il processo di cui si indica ora il compimento è per Kojève la storia dello schiavo, la vicenda della sua liberazione, conquistata in ed attraverso 1'89 francese.

Hegel e Napoleone: il compimento} il libro e la tradizione.

Lo schiavo, s'è detto, è fondamentalmente coscienza scissa, produttore di tecnica, dotato di Versta11d, ed il suo procedere è critico. Il cristianesimo

pertanto (una delle figure dello schiavo, assieme allo stoicismo) non è se non una tipica forma di pensiero che, facendo propri questi dati, trasforma, sia pure sola1nente in vista della salvezza dell'anima, il mondo interiore del lavoratore, che cosi diviene coltivato, colto. Di qui il carattere intel­ lettualistico del cristianesimo, e di qui anche la specificità cristiana della scienza moderna, disciplina propria di uomini educati, divenuti per sé. Ciò, tuttavia, non conferisce autentica libertà alla coscienza servile, dal momento che essa non potrà essere ottenuta se non dopo che lo schiavo avrà ripreso, e vinto, la lotta liberatrice per il riconoscimento, a fronte della quale, all'inizio della storia, aveva avuto paura e s'era piegato. Tale nuovo evento è esattamente 1'89 francese. La storia è dunque da Kojève suddivisa in quattro fasi: signorile o greco-pagana, servire o cristiano-romana e borghese in generale, rivoluzio­ naria (lotta del borghese contro se stesso), e infine quella della comprensione filosofica, che vede in Hegel interprete del compimento della storia. E già da questo cursoreo schema ci si rende conto che, ad un primo periodo totalmente servile, segue un'epoca in cui tutti i signori sono scomparsi: «Le Monde chrétienne se compose de pseudo-Maitres ayant accepté l'idée abstraite de liberté des Esclaves, lesquels sont par conséquent devenus des pseudo-Esclaves. Pseudo-Esclaves et pseudo-Maitres (c'est qui est la meme chose) sont les Bourgeois c'est-à-dire les citoyens chrétiens » 43• Questo realizzazione assoluta della significa che, di fatto, la Rivoluzione francese non mette in scena uno libertà, e dunque della capacità distruttrice 43

44

Ivi,

p. 113.

Per tutto

45 l vi,

ciò

dr. ivi, pp. 141-144.

p. 194. Il tema del significato storico-filosofico della sintesi finale è centrale anche

nei tre volumi dello Essai, all'interno dei quali Kojève, nel suddividere

la

storia

della filosofia

e

la filosofia della storia in Tesi (epoca greco-pagana), Antitesi (era romano-cri stiana) e Sintesi (età della razionalità del reale) indica in colui che comprende l'attività di Napoleone, inteso come compimento della rivoluzione francese, il momento terminale della storia ed il sorgere della saggezza (dr. Essai, voli. I, p. 162). Digitized by

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152

LUTC.I FRA�CO

scontro fra classi in opposizione, ma fra borghesi. La lotta dell'epoca in cui si uccide come si beve una sorsata d'acqua o si taglia un cavolo non si svolge in un campo di battaglia, il suo teatro è la città ed

il

Terrore è quello del borghese che, guardanclosi allo specchio, vede e scopre l'abisso che egli stesso è:

si conosce come vuoto nulla, orrendo potere

dell'astratta libertà portatrice dr morte

44•

L'89 francese, dunque, non è una lotta di c.Iassi, « une guerre entre les l\1aitrcs et les Esclaves

»,

ma uno scontro nel corso del quale il bor­

ghese (cui è propria l'impostazione mentale del1o schiavo, e che quindi basa la sua attività sull' Entsagung, sulla rinuncia in favore di un al di là o di un'idea, quale ad es. quella di capitale) libera se stesso. «Et c'est pourquoi le risque liberateur de la vie prende forme non pas du risque sur le champ de bataille, mais du risque crée pt1r le Terreur de Robespierre ... >> 45•

Et ce ne que grace à le Terreur qui se réalise l'Idée de Synthése finale

La Rivoluzione dell'89 diviene dunque il prologo del compimento, il cui attore è Napoleone, mentre Hegel ne è l'autore

46•

Prima della Sintesi finale

bisogna che l'astratta potenza della libertà umana riesca a divenire pro­ duttiva, che si traduca in positività assoluta. È, questo, il compito ed il destino di Napoleone, dopo la cui comparsa sulla scena della storia potrà essere scritto il ljbro. Napoleone ed Hegel, dunque, questi sono i due nomi, tutti europei, della realizzazione del cristianesimo, della sua finale Rivelazione.

Europa

Il

con1pimento hege1iano,

quasi

a

di re :

Cbris/et1heit

oder

47•

La cristianità, pertanto, non si dispiega che nel suo finire

ciò che, peral tra, implica la n1anifestazione dell I nca rn a zio ne. La Rivelazione, dtt 11'

que, si dà alla fine del tempo, e, nel suo venire ad evidenza, realizza la religione nel mondo, ma, facendolo, la sopprime in quanto tale. « Et la Religion ' supprimée ' en tant que Religion ou Théologie par sa réalisation dans le l'v1onde, est ]a Science absolue. Pour I1egel s'agit de la Religion Chrétienne . .

.

» 48•

questo modo: Logos

46

» 49•

«

La Rivelazione, quindi, è da Kojève rappresentata Le Christ veritable, réel

Napoléon-Jésus + Hegel­ L'uomo d'azione è ricon1preso nella sintesi finale, nella Scienza

Questo. relativo alla centrali tj della figura di Napoleone. è uno dei punti di diffe renza

fra le int�rprctazioni fornire da Kojt.·vc c da l-Iyppolite. Su tale questione in Hyppolite

].

f-IYPPOLITE,

Il

1-IYPPOLITE, Studi,

si.!!.nifir,lto dt·!l,z rit'olu;:irn;e francese cit.,

sp.

ì8-79; J.

HYPPOLITE,

Hcgel, in J. della sloriù, in 3ì3-3ì4.

Int rodu z ion e alla .filosofia

Che Kojèvc conosc�se Novalis e sul poeta tcdCS(."O avesse riflettuto, è quanto

dalla lettura complessiva dell'l ntroduclion (cfr.

l\1. (ACCIARI,

Die Chris!t.'nht,it odcr Europa,

241, lavoro in cui si

so

t t oli nea la co rn u n a n za

an::hc ad essere tematizzatj i tem1ini storia 48

A. KoJ�VE, lntroJnction, p. 213.

49

f1 vz,· p. 1 '"11.

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c

cfr.

nella fenomenologia dì

At\.VV.� Interpretazioni begt:liant!, a c. di R. SalvaJori. Firenze 1980, sp. pp. 47

in

ad es., i vi, p.

argomento cfr. zio1ti sulcit.), «Studi Urbinati 334 e seg.

­

»,

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LUJCI

156

FRAN\.0

non rimarrà che ripetere il Libro. La ripetizione potrà però partire

da

qualunque passo del Libro, potrà iniziare da destra e da sinistra, da qual­ siasi punto. La ripetizione non solo quindi deve essere decisa, ma occorre si scelga anche il punto d'avvio di una tale pratica. Ottenuta la verità, risulta infatti indifferente ripercorrerla da destra o da sinistra; pure, una

differenza nasce, ed è la differenza della scelta, della decisione di riprendere la lettura a partire da un brano del testo piuttosto che da un altro.

La

ripetizione, nel decidersi, è perciò anche sempre dilfere1tza. È dunque la

decisione che fa la differenza. Tradotto altrimenti, tutto ciò significa che, per quanto concerne

la

tradizione, risulta indifferente decidersi a favore o contro la tradizione. In­ fatti, anche ove ciò accadesse, rimarrebbe un punto oscuro:

data la par­

zialità della decisione, è ovvio che anche la verità nata dalla scelta non sarà se non parziale, quindi non-vera. Ed ecco dunque che anche il deci­ dersi per la tradizione nella sua autenticità determina, paradossalmente, il non essere tradizione della tradizione originata da quella scelta. Pertanto la tradizione

ciò che nel corso del tempo insieme si dà e si nega

rimane vacante anche dopo il termine della storia. Evidentemente, allora, la tradizione che nascerà da una particolare opzione sarà sempre una falsa tradizione, e tuttavia in un tale errore potrà prendere forma, sebbene solo in negativo, esattamente la verità della tra­ dizione. Non rimane quindi che farsi carico della decisione, benché ora risulti poco chiaro il motivo di tale decidersi, un de-cidere che è anche un tagliare e frammentare il Libro. Ne risulta così la permanenza dell 'ele­ mento di trascendenza proprio della costituzione della tradizione, anche s e esso non viene più identificato con l'irruzione del divino sulla terra. E tuttavia, alla base di qualsivoglia decisione, permane un dato non del tutto razionalizzato, un aspetto in qualche modo fideistico, cosl come fic.leistica sembra la totale accettazione kojeviana della filosofia di Hegel. Dire che il Sistema del Sapere rappresenti la Bibbia vuoi indicare,

sia

pur metaforicamente, questa peculiarità. Alla questione della verità, infatti, «

che cosa si può rispondere? Che l'Hegelismo e il Cristianesimo sono

(lue forme irriducibili della fede, delle quali l'una è la fede paolina nella resurrezione, e l'altra la fede terra terra che si chiama buon senso? Che l'I-Iegelismo è un'eresia ' gnostica ' che, trinitaria, attribuisce indebitamente il primato allo Spirito Santo? l'eternità, il /c!npo

e

il

conct.>fto,

significa epoca pos t - storica

sono

»54•

in AA.VV.. lnterpretazirn1i, cit., pp.

inoltre

mo1to itnportanti

e il saAAiO breve A. KOJÈVE, Le dernicr IJ1011dc noUt'Call, pp. 702-708. S4

A. Ko_J�VE, Prt.�/acc a l'oucvrc de

G.

169-263. Per ciò

che

la con\'ersazione con L1pouge, cit., ((

c:ritique

))

Bataillc (12 tnagpjo 1950),

XI

> 55•

Certo, tale fede è fede nella Rivelazione, di cui si è analizzata la pJrticolare torsione in rapporto alla fine della storia, e, di là dalla poca precisione con cui Kojève ne parla, pare qui fare da pendant al Libro, al suo modo di essere sempre presente e sempre assente. A questo punto, dunque, il complesso tradizione, decisione e fede assume un ruolo fon­ damentale, proprio perché evidenzia una sorta di nucleo non chiarito e non razionalizzato; un tratto che, esattamente nel cuore del problema della tradizione, problematizza il tramandare stesso, la decisione dr tramendare e si tratta di un tradi­ si badi di tradire: di tradire la tradizione. E mento che, di fatto, risulta impossibile misurare, dal momento che preci­ samente ciò che dovrebbe essere tramandato, nel darsi, si nega. relazione ambigua, fluttuante che ·necessita di una

Questo rapporto continua ritematizzazione

consente tuttavia a Kojève di non assolutiz-

zare alcuno dei termini posti sul tappeto: non il passato, depositario della \·erità, non la scettica ipotesi che fa capo alla mutevole verità dei ten11)i, né, infine, la radicalità della decisione.

Il nesso storia-tradizione scopre

in fa t ti uno dei suoi nodi basilari allorché, nel dire della necessità della scelta, pone il presente al centro ciel proprio probletna. Ebbene, pure il presente, che è il tempo della decisione e contcmporanean1ente della presa di coscienza della necessaria parzialità ·che caratterizza qualunqtte azione (anche

quella dell'uomo post-storico), nc)n deve venir sclerotiz zato ;

oc­

corre piuttosto che lo si apra, che lo si progetti e lo si proietti verso l'a\�venire. La decisione, che ha luogo nel presente,

va

quindi riscl1inta nel

futuro. Allora la tradizione, pur traslucendo in ogni momento, non può essere invocata, ma solo e-vocata. Pure, anche in quest'ultima eventualità, la tradizione non sarà }Jiù ciò su cui far leva, come se si trattasse di un'autorità ben clefìnita e facilmente coglibile. Il tempo kojeviano è tempo l)Cr il futuro; st1latnente da questa dimensione prendono vita sia il passato che il presente, i quali non possono mai venir assolutizzati, poiché la tensione verso il fLituro com­ porta la interminabile messa in di scus sione eli qualsiasi tentativo di gessi­ ficazione. L'avvenire, dunque, è il ter reno del rischio, l'inc]uietudine cl1c, dèi due autori c lo scambio di un 'interessante la Bihliothéq ue ,1\J ationale di Pari g)). , Essar, l \-O l ., pp. 7 00-7o l c;s A . KOJE\E,

corrispondl:nza �pistolan: (ora J�·po�i tata p n:� so

...

.

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e

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158

LUIGI

FRANCO

nel suo nervoso ed arrischiato procedere, si fa pietà del pensiero da cui traspaiono, anche se talvolta pallidamente riflesse, l'origine e la tradizione. Se, pertanto, la tradizione si ridisegna come radice sempre sgusciante, e se al suo centro sta un nucleo di ragionamento che rimanda ad tJIJa sorta di trascendenza, allora la questione si complica. Ove, infatti, si sia compresa la tradizione come ciò che sempre trascende e quindi non è mai suscettibile di qualsiasi irrigidimento, si ripropone la domanda circa l'essenza della tradizione. A tale interrogativo, indubbiatnente, non è dif­ ficile rispondere che ciò che viene trasmesso altro non è se non il pro­ blema del tramandare e che, quindi, esso trova soluzione nel mostrare la sua fondamentale, squisitamente filosofica aporeticità. Tutto questo è certamente corretto, ma forse, guadagnata la equazione ' trasmissibilità della Libro ', possono essere evinte più articolate indicazioni sul tradizione pensiero di Kojève. La torsione in cui si legano tradizione come problema del tramandare e ciò che viene trasmesso individua infatti lo snodo che, di nuovo, pone a tema il Libro e la sua sempre differente ripetizione. In tal modo la questione della trasmissione non può che ricollegarsi alla decisione, cioè alla scelta di ripercorrere il Libro da un passo piuttosto che da un altro. Ma cosi si enuclea un problema estremamente delicato, quello dell'uso del Libro stesso. Il Libro, unico depositario della tradizione, può essere positivamente usato, indicando una pratica filosofica assolutamente non cri. tica. Cruciale diviene però la decisione, solo metodo per far risorgere la tradizione, ma certamente anche sicuro mezzo per denunciare la parzialità della tradizione così evocata. La questione del tramandare, nello sfumare il contenuto di ciò che viene ad essere trasmesso, fa dunque capo alla parzialità, tutta positiva, della decisione. Ecco quindi che questo giro di pensieri permette, a partire dalla filosofica aporeticità del tema della tradi­ zione, di individuare nella scelta il positivo momento che consente la tra­ smissibilità di ciò che è da tramandarsi, reintroducendo prepotentemente la storia. E qui sorge un nuovo, ulteriore e costruttivo paradosso: il nesso storia-tradizione è giocato sul traliccio della decisione, che, nel suo essere di parte, si fa tuttavia carico di illuminare l'essenza trascendente della tradizione. La decisione si rivela quindi cruciale tensione del momento limite del plesso storia-tradizione. La ripetizione della scrittura può scatu­ rire solamente sulla base della rottura del Libro provocata dalla scelta, facendo cioè leva su di un momento non scritturate ed in qualche modo afasico. La decisione è precisamente .la mossa che, mostrando i limiti della lingua, rende il Libro continuamente ripetibile, innescando il movimento tutto filosofico del rapporto fra storia e tradizione. Un rapporto mai pacifi­ cato che, nell'essenziale tendenza al futuro propria della decisione, vuole togliere terreno a tutti coloro che, richiamandosi alla tradizione, volessero proporre un modello, una via da seguire. E tuttavia questo non significa che la tradizione come problema del tramandare ed il tramandare vengano bellamente accantonati, ché, anzi, proprio nella irriducibilità del complesso Digitized by

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KOJÈVE:

IL LIBRO,. LA TRADIZIONE E LA ROTTURA DELLA CONTINUITÀ STORICA

159

storia-tr adizione e nella radicale e cosciente faziosità della decisione questa domanda ha nuova vita. , •

l

l

J •

\

Nello specifico, la questione fin qui discussa in Kojève rende agibile un luogo che, nell'attraversare uno dei massimi punti del pensiero occiden­ tale Hegel ne apre ed ulteriorizza il lascito storico-filosofico. Ma non si tratta solo di questo, poiché è la pratica stessa del pensiero di Kojève che si offre ad esempio di un tale procedere: esercizio di lettura e di scrittura che, pur rivolgendosi al passato, si arrischia oltre il presente, giocandosi fra differenza e ripetizione. In tal modo dunque, nel dissolvere ogni oppressivo legarne con ciò che è tramandato, il lavoro ermeneutico di Kojève diviene autentico pensiero; un pensiero che, incrinando qualsiasi tipo di autorità, si propone come instancabile ed inquieto rapporto con la tra­ dizione. Quest'ultima, poi, viene a configurarsi come ciò che, in questa pratica, affiora, negando tuttavia qualsiasi validità a ogni riflessione che ad essa si appelli come ad un potere in grado di dirimere controversie, poiché è essa stessa ad essere oggetto del contendere, radice che sfugge a qua­ lunque presa.

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G I ACOM>

(Ehepaar von Bcgriffe) che nel XIX secolo era assurta a chiave di volta della

moderna concezione della \Veltgeschichte: la coppia storia-tradizione. L'obiet­ tivo della polemica era duplice, poiché implicava un'operazione ad un tempo positiva e negativa: si trattava, da un lato, di recuperare la Urgeschichte, la storia origi11aria, del cristianesimo per affermare la sua radicale impotenza nel n1ondo; dall'altro, di rivendicare l'assoluta estraneità della categoria autenticamente cristiana di tradizione alla catena che tiene avvinte le vicende umane nella

«

città terrena». Il senso di questa operazione è riassunto da

Walter Benjamin in poche, mirabili righe di Deutsche Menschen:

«

L a vera

cristianità è per lui una religione d'incondizionata negazione del mondo, fondata su basi escatologiche, cosicché, quando fa il suo ingresso nel mondo e nella sua cultura, rinnega la propria essenza; e og11i teologia, dalla patri­ stica in poi, appare come il Satana della religione

>>.

Assun1ere come punto d'avvio del discorso una tale ottica significa indicare una via d'accesso privilegiata al tema ' tradizione', il cui significato 11on può essere certo esaurito nei motivi della sua incidenza storica, benché il rilievo specifico di quest'ultima sia ttttt'altro cl1e indifferente ai fini di una sua piena recezione filosofico-teologica: ·il fatto che la data della pubblica­ zione postuma di Cristianesi!Jto e cultura ( 1919) coincida con il momento della « rinascita kierkegaardiana», rappresentato da opere come la Psycho­ logie der \11 cltanschauttngetz di Jaspers e il Ronterbrief di Barth, pone già

di per sé la questione del collegamento ten1atico tra teologia negativa e incubazione teologica ottocentesca della 'ribellione a Hegel . È all'interno di questa incubazione cl1e si discl1iu(lc infatti il problema del singolo come '

paradosso di un'esistenza ' detnondanizzata ' nell'epoca della compiuta seco­ larizzazione:

>, con buona pace di Hans Blumenberg e della sua solenne retrodatazione alla Bibbia della metafora plastica del «libro del mondo ») non viene qui segnalato tanto per sottolineare il carattere fluido, di erme­ neutica vivente, delle prime tradizioni religiose, quanto piuttosto per fissare i caratteri specifici del rapporto di autorità che quelle tradizioni implicavano. L'at�ctoritas su cui si basava il movimento di trasmissione originario riposava sul nesso di interdipendenza tra fede e affidamento: la pistis di Abramo era soprattutto emt1nah, fiducia. In virtù di essa si costituisce una catena capace di ricreare l'evento della fede in una forma che non è quella del progresso cumulativo, ma dell'excursus nella «città terrena >>: quod a patribus acce­ perunt, hoc filiis tradidentur (Agostino). In quanto replica da parte dei singoli dell'esperienza originaria di questo evento, la tradizione costituisce, come ha osservato Barth, un dato non totalmente sovrapponibile a quello della Scrittura. In essa si manifesta una parola-evento che potrebbe essere assunta come originaria (ancora una volta: non nel senso del Beginn o dei­ l'Anfang, ma in quello deii'Ursprung) anche da un'angolazione non-religiosa: quella della meraviglia, del thaumazein, dello ' stupore ' originario per il fatto che il mondo è. Stupore originario che non è né culturalmente definibile né a pre­ linguisticamente esprimibile, poiché sta wittgensteinianamente supposto di ogni fortna culturale e di ogni costrutto linguistico. Se dunque la tradizione, in senso strettamente religioso, è trasmissione dell'esperienza dell'indesignabilità di Dio (quale si esplicita, ad esempio, nel De divins nomi­ nibus dello Pseudo-Dionigi: anonymos), questa stessa parola-evento senza significato, ma tuttavia significativa, in cui consiste il tradendum dell'escato­ logia giudaico-cristiana, è esprimibile in termini logici nel paradosso della domanda intorno al meaning of meaning, al significato di significato. Accanto alla ' storia interna ', esiste però anche una ' storia esterna ' del rapporto tra i concetti di tradizione e autorità: essa investe, più precisa­ mente, la relazione che si viene a stabilire tra Oberlieferung del nucleo soteriologico e potere mondano. Per questa via, la problematica della tra­ dizione non può evitare di incrociarsi con quella della storia, e quindi con l'aporia dell'origine del male. La trastnissione della verità rivelata la ' narrazione ' nella la storia Questa for111a è espressa da un termine Esso sta ad indicare il discorso figurato: Digitized by

è la prima forma in cui si presenta

tradizione escatologica occidentale. ebraico: masiil (aramaico: mathla). paragone, allegoria, simbolo, detto Originai from

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GIACO�fO MARRAMAO

enigmatico. In una mirabile analisi della forma narrativa neo-testamentaria, Joachim Jeremias ha osservato che il termine 1ta.pa�oÀ.i) ha nei Vangeli il significato di paragone, simbolo: significato, dunque, irriducibile al quadro delle figure della retorica greca se non al prezzo di estraniarsi da quella

Formgeschichte dalla quale non si può prescindere per l'intelligenza della discontinuità tra mondo classico e mondo cristiano. Ora, la 1tapa�oÀ.1) si presenta soprattutto nel Nuovo Testamento (ma la presenza di parabole­ Gleichnisse è ravvisabile anche in diversi luoghi del Vecchio Testamento) come figura della storia della tentazione. Sarebbe proprio questa discontinuità a fondare per Jeremias il tema ebraico-cristiano della tradizione, in un senso escatologico forte, sconosciuto al mondo greco: la storicità della tradizione è simbolica; essa investe bensì un « accaduto », ma l'investe in termini meta-storici. Soflermiamoci ad ap­ profondire questo punto. La forma in cui compare la parabola è quella della storia della tentazione, che consiste nell'offerta della « signoria del mondo >> e nel suo rifiuto. L'incontro con il maligno e l'offerta sono reali, ma non databili: rappresentano la meta-storia dell'evento di questo incontro. Lo stesso eritis sicut dei del serpente biblico va inteso come origine e non come cominciamento o inizio di una serie genealogicamente percorribile: agostinianamente, « qui incipit numerare, incipit errare >>. Questo carattere simbolico-allegorico distingue inconfondibilmente il Gleichnis biblico dalla parabola in senso greco. Se fosse parabola in senso greco, la meta-storia dell'evento si configurerebbe come una sorta di passaggio da una visione mitico-cosmologica a una visione storico-ciclica di « eterno ritorno ». Essa è invece kérygma: messaggio della indatabilità del male in ragione della sua perenne storicità. Lo si potrebbe definire il kair6s della tentazione. Il kair6s della tentazione comporta uno sdoppiamento di piani che inerisce profonda­ mente al concetto giudaico-cristiano di tradizione. Trasferito dal linguaggio metaforico in concetti, questo sdoppiamento significa: innominabilità del tempo debito quando l'indebito è un aspetto costitutivo della temporalità - ossia, la storia stessa che rivela la sua insopportabilità. Il kair6s della tentazione rappresenta cosl, come notò a suo tempo acutamente Enrico Ca­ stelli, l'anti-evangelo. Ed è a questo punto che si apre la possibilità di definire la costituzione dell'ambito della potenza e dell'autorità di domi­ nazione (il « Date a Cesare quel che è di Cesare » ) come un aspetto del­ l'ermeneutica del kair6s. Da questo spazio simbolico sembrano dipartirsi, nella storia occidentale, due tradizioni che corrono su binari paralleli. La prima ha una fisionomia ben definita: Cesare è il male e la storia non è che storia databile di tentazioni indatabili rischio perennemente in agguato che caratterizza la stirpe degli esseri espulsi dalla situazione edenica. La seconda tradizione è quella del « cesarismo >>, nella sua opposizione « tra­ gica » al « Cercate il Regno di Dio ». Essa affonda le radici in un'altra tra­ dizione che la comprende e, insieme, la legittima nell'ampliamento progres­ sivo delle sue pretese: la storia del rispetto alla Legge (la Thorà) che esige Digitized by

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TRADIZIONE E AUTORITA

:1 tributo pagato. Questo debito ha un tempo, che è il tempo simbolico ori­

�i:tario del potere: quello che impone ai debitori la ricerca del prezzo. Per wi tutte le controversie intorno al potere derivano in realtà da un conflitto di interpretazione circa l'apprezzabilità del prezzo. Se proviamo a decodifi­

care a partire da questo spazio allegorico originario le forme più sviluppate e secolarizzate ' di potere dal modello di Stato costruito dal contrat­ '

tualismo moderno sino alle forme più sofisticate del > • La logica che innerva questo straordinario aforisma non è eccezionale in Nietzsche: in fondo è la stessa che accomuna gli spiriti >, vincolati a qualche fede sacra o profana, agli « spiriti liberi», ancora troppo affezionati al1e certezze canaglia, tr. it., Milano 1968, p. 116, v. 52); è «l'intruglio>>

(A1iscbmasch)

di tutti coloro che

obbediscono ai buoni costumi (cfr. ivi, Colloquio con i re, p. 297). 8

Or. F. NIETZSCHE, Umano, troppo untano. I, cit.. 459; e Untano, troppo U!!Jt�no, II, cit., S 30. Cfr. anche Frammenti postumi 1876-18ì8, fr. 19.114 e fr. 25.7. 9 ar. F. NIETZSCHE, La gaia scienza, tr. it., Milano 1965, IV, s 296. JO Or. F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1888-1889, tr it., l\1ilano 1974, fr. 14.214. 11 Cfr. M. DE MoNTAIGNE, Saggi, tr. it., Mi lano 1970, I, cap. XXIII, p. 152: «Chi vorrà libera rsi da questo acerrimo pregiudizio della consuetudine troverà molte cose accettate con sicurezza scevra di dubbio, che non hanno altro sostegno che la barba bianca e le rughe del­ l'uso che le accompagna; ma strappata questa maschera, riconducendo le cose alla ve rità e alla ragi one, sentirà il suo giudizio come tutto sconvolto, e tuttavia rimesso in ben più saldo assetto ». ar. anche VAUVENARGUES, lntroduction à la connaissance de l'esprit huntain ( 1747), Paris 1981' S CCCXVII, p. 235: « Les hon1mes se défìent moins dc la coutume et de la tradition, que dc leur raison ». . . . 12 Cfr. R. W. EMER SON Sag,g), t r. it., Torino 1969, pp. 56-57: «La vtrtu ptu rtcercata e il conformismo. La fiducia in se stessi è il suo contrario. Essa ama non realtà e creatori, ma nomi e abitudini �. lJ F. NIETZ SCHE Uma11o, troppo ranano, I, cir., 552. .

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ADO�E BRANDALISE- GIANGIORGIO PASQUALOTTO

della ragione critica, ancora troppo fedeli alla norma del dubbio, ai prin­ cipi dello scetticismo 14• Ciò che è eccezionale è l'aprirsi dei problemi con cui tale logica scompiglia il tema della tradizione: se infatti opporsi alla tradizione può comportare il rischio di farsi membri credenti della critica alla tradizione, ossia della tradizione dell'antitradizione, e se, d'altra parte, stare in qualche tradizione significa rinunciare alla libertà in cambio di sicurezza, è allora necessario rassegnarsi ad una di queste due soluzioni, o all'oscillazione tra di esse, ovvero è possibile trovarne una terza? E questa terza soluzione in che forma può darsi? Nella forn1a dell'abbandono delle prime due o in quella della loro Aufhebung? O, magari, nella forma di una loro utilizzazione garantita dal pericolo di cadere « vittima » di una o « schiavo » dell'altra? E se anche tale utilizzazione fosse possibile, si

. .

.

-

.

• -



• • -

-

.



-

• • • ...

-

dovrebbe parlare di una possibilità puramente logica o filosofica, ovvero di una possibilità reale, di un'esperienza possibile? Si tratterebbe insomma solo di una soluzione, ovvero, anche e soprattutto, di una condizione diversa e nuova? A questa bordata di domande radicali è necessario tentare di dar ri­ sposta affrontando il problema della tradizione in maniera altrettanto radi­ cale. Qui, in particolare, ciò significa affrontare tale problema in rapporto a quello del tempo e a quello dell'eterno ritorno. Le riflessioni di Nietzsche sul tema del tempo non sono né numerose né lineari 15, ma alcuni fraln­ menti del periodo 1884-85 risultano affatto illuminanti. In uno di questi egli annota: « Rifiutare senza tempo ' » 16• Questo « senza tempo » non va inteso come sinonimo di « eternità » , ma come equivalente di un tempo a priori, condizione delle misurazioni dei tempi empirici, esterno alle cose ' che misura e immune dalla loro caducità. Non c'è dunque un tempo unico e puro a cui ricondurre, antologicamente o gnoseologicamente, le molteplici temporalità: si danno invece solo quest'ultime come orizzonti comprensivi di molte interpretazioni temporali e di diversi tempi: « Ritengo che il nu­ mero sia una forma prospettivistica, allo stesso modo del tempo e dello spazio ( ... ) insomma che l'anima, la sostanza, il numero, il tempo, lo spazio, c

c

cit.,

14

Cfr.

S

191; Frantmenti postumi 1879-1881, tr. it., Milano 1964, fr. 3.129; Frammenti postumi

F.

NIETZSCHE, Considerazioni inattuali, tr. it., �1ilano 1972, p. 210,

S

7; Aurora,

1881-1882, tr. it., lv1ilano 1965, fr. 11.204; Frammenti postumi 1884-1885, tr. it., Milano 1975, tt. 39.6;

Al

di là del bene e del male, tr. it., Milano 1968,

1887, tr. it., Milano 1975, fr. 2.93

S

e

S

191; Frammenti postumi 1885-

fr. 5.22; Genealogia della morale, tr. it., Milano 1968,

12; Frammenti postumi 1887-1888, tr. it., Milano 1971, fr. 9.38,

e

fr. 11.99

e

fr. 11.145;

Crepuscolo degli idoli, tr. it., Milano 1970, pp. 69-74; Frammenti postumi 1888-1889, tr. it., Milano 1974, fr. 14.122

e

fr. 14.153; Framtnenti postumi 1882-1884, tr. it., Milano 1982,

fr. 61, fr. 3.1.236, fr. 4.56.

15

Cfr.

F.

NIETZSCHE, Scritti 1870-1873, tr. it., Milano 1973, p. 367; Frammenti postumi

1884� cit., fr. 25.327

e

fr. 26.44;

Framme11ti

postumi 1881-1882, cit., fr. 23.99, fr. 11.302

fr. 11.150; Framf!tenti postunti 1879-1881, cit., fr. 1.80 e 1.53. lb F. NrETZSCHE, Frannnenti postumi 188./-1885, cit., fr. 35.55. Digitized by

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ETERNO RITOR�O E TRADIZIONE

171

la ragione, il fine sussistano e cadano insieme» 17• Ciò non significa che il tempo e i concetti che ne condividono le sorti siano insensati o inutili, ma indica che essi hanno senso e utilità solo «per l'uso manuale e do­ mestico del pensiero», ossia che essi sono costruzioni convenzionali e prov­ visorie: ciò impedisce al tempo di trasformarsi in «senza tempo», in costruzione incrollabile, in forma pura, universale ed eterna. D'altra parte, « senza tempo» non coincide con «eterno»: «Credo allo spazio assoluto come sostrato della forza: questa è delimitata e plasmata. >> 18• Quindi Il tempo è eterno. Ma in sé non esiste né spazio né tempo il tempo in sé, il «senza tempo », è pura ipostasi, strumento dell'astra­ zione per misurare; mentre il tempo è eterno, nel senso che è divenire incessante, il contrario di ogni «imperituro» 19• Il tempo non è per Nietz­ sche misura del divenire, ma è lo stesso divenire. Anzi: i divenire reali, • • • • • • • • • • • • 1 mutamenti e 1 mov1ment1 concreti costttutscono e IStituiscono ctascuno il proprio tempo. Infatti: «Al corso reale delle cose deve corrispondere anche un tempo reale prescindendo assolutamente dal senso della lunghezza ( ... ) la nostra circolazione e della brevità proprio degli esseri che conoscono del sangue potrebbe avere in verità la durata dell'orbita della terra o del sole » 20• Quindi i ritmi biologici, come quelli geologici e quelli cosmo­ logici, non sono soltanto materiali da misurare in base ad un unica forma generale di tempo in sé, ma sono soprattutto produttori di tempi: con­ siderandoli dall'esterno con il tempo-misura essi vengono uniformati; con­ siderandoli dall'interno, mostrano il loro intrinseco polimorfismo.

II Il pensiero dell'eterno ritorno, al di là delle brevi oscillazioni e delle piccole ambiguità di cui è connotato 21, ha una sua chiara enunciazione al § 285 de La gaia scienza: «Non esiste più nessuna ragione in ciò che più non si dischiude al stto accade, nessun atnore in ciò che accadrà cuore un asilo di pace, in cui vi sia soltanto da trovare e non più da cercare, ti stai difendendo contro una qualsiasi ultima pace, tu vuoi l'eterno ritorno di guerra e di pace» 22• L'esperire l'inconsistenza di ogni valoren •, 19 ((

fr. I vi, fr. Cfr. F. lvi,

40.39. 36.25. NIETZSCHE, Così parlò Zarathuslra, cit., Sulle isole beate, p. 101,

vv.

54-58:

O�ni Imperituro non è che un simbolo! E i poeti mentono troppo. T nvece i migliori simboli

debbono parlare del tempo e del divenire: di tutto quanto è perituro! 20

21

F.

».

NIETZSCHE, Frammc·nti postu11ri 1881-1882, fr. 11.302.

Su queste oscillazioni dr.

Corrente

una lode essi debbono css('rc c una giustificazione

»,

1981, 28, pp. 271-312

G. G. e Io.,

PASQUA LOTTO, Attirno innncnso e con-sentire, > è il nome scritto sulla porta carraia in cui convergono due sentieri, quello, infinito in avanti, del futuro, e quello, infinito ali'indietro, del passato: dunque nell'attimo stanno l'infinito futuro e l'infinito passato. Ma come stanno? Come possono starei? È innanzitutto evidente che le due « eter­ nità » quella all'indietro e quella in avanti 26 non sono che una eternità, dato che due eternità, come due infiniti, sono inconcepibili. In secondo luogo

«

eternità » vale non per

«

eterna stasi», ma per

>? 29 Nell'attimo dunque non si esperisce una porzione isolata di divenire, un frammento staccato dal passato e dal futuro, una scheggia abbandonata al vuoto: si esperiscono pezzi di divenire saturi di innervazioni delle quali non si conoscono i terminali. Nell'attimo il tessuto del tempo infinito non si dispiega pienamente, ma lascia chiaramente percepire che ogni più piccolo l

25

F. NIETZSCHE, Così parlò 26 I vi, p. 191 vv. 12-13. lì F. NIETZSCHE, Frammenti

larathustra, cit.,

La visione

e l'enign1a, p.

192,

vv.

38-..tl.

,

28

postun1i 1881-1882, cit., p. 363, fr. 11.248.

Giustamente Heidegger ha scritto:

veder l 'istante significa:

starei

>>

cii., I, p. 312. Sull'attimo in Nietzsche e l-leidegger cfr. G. WoHLFART, Zeit und aesthetische Er/ahrung bei Kant, Ht11�e( l\'ietzsche tatd HeideR,.�er, � Or. anche F. NIETZSCHE, Frammenti posturni 1885-1887, cit., fr. 7.38 che diciamo di sl a un unico istante, con ciò abbiamo detto di sì non solo a op.

l l

«

( l\1.

HEIDEGGER,

Der Augcnblick. Freiburg p. 292:

1982). «Posto

noi stessi, ma a

tutta l'esistenza. Perché nulla esiste isolatamente, né in noi stessi né nelle cose».

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ADONE BRANDALISE- GIANGIORGIO PASQUALOTTO

174

pezzo di filo è parte di un intreccio senza limiti: forse nell'attimo non è dato cogliere l'intera molteplicità delle trame e degli orditi, ma è pos­ sibile esperire la loro necessità. L'attimo si costituisce cosl come vertice di più vortici in cui tempi passati e futuri precipitano e scorrono; e tut­ tavia esso non costituisce un punto, ma un luogo di passaggio per ciò che è stato e ciò che sarà, ossia un campo di forze temporali, un'area dai confini sempre variabili dove si dislocano ed agiscono, con diverse intensità e costanze, le diverse temporalità. In tal senso, nell'attimo, in ogni attimo, agisce sempre ' tutto ' il tempo, ' tutta' la vita: in realtà, poiché tempo e vita indicano l'incessante scorrere del divenire senza inizio e fine, i confini tutto' non sono tracciabili. Ma l'attimo non soffre di questa illimitatezza, perché esso stesso è illimitato, connesso ad un numero illi­ mitato di tempi, tessuti di storie antenate ed eredi: esso, infatti, non è qualcosa di finito nel tempo infinito, ma è tempo e, in quanto tale, ' par­ tecipa' della sua infinitezza. È allora innanzitutto per questo che l'attimo è immenso, incommensurabile (ungeheure). Ma lo è anche per un altro motivo: perché esso « trae dietro di sé » anche se stesso. Ciò significa che anche l'attimo diviene: che non è una sospensione sul divenire o un'ek­ stasi, un porsi fuori dal divenire, ma che è esso stesso divenire. Pertanto, di questo

c

l'attimo è fascio di innumerevoli relazioni temporali; ma, in quanto tali relazioni sono incessantemente nzutevoli, anch'esso deve, necessariamente, mutare senza posa: come in una struttura radiale dove non v'è centro indi­ pendentemente dai raggi; e come in una struttura radiale in movimento, dove non v'è movimento di raggi che non sia anche, contemporaneamente, movimento del centro. Perciò un attittlO non può venire misurato, perché ciò presupporrebbe la possibilità di un attimo, quello della misurazione, , esente da mutamento: ! attimo non può essere visto', non solo perché innumerevoli sono le relazioni che Io costituiscono, ma anche perché non c'è una posizione stabile, un punto panoramico sottratto al divenire da c

cui poterlo vedere 30• Ciò conduce a radicali conseguenze nei confronti della classica tripar­ tizione del tempo in presente, passato e futuro. Infatti: l) se eterno ri­ torno equivale a incessante divenire, non esiste possibilità di delimitazione tra ciascuna di queste tripartizioni: il passato esiste solo in quanto de­ fluisce, mediante il ricordare, nel presente, e il futuro esiste solo in quanto , , in-fluisce, mediante ! immaginazione, nel presente; 2) se ! attimo è l'in· contro di questi due flussi infiniti, ma, contemporaneamente, « trae dietro

30

Si potrebbe paragonare rattimo ad un black ho/e:

non solo perché in esso ' precipi­

tano' passato, presente e futuro, ma anche perché questo 'precipitare' produce nuove energie e nuove configurazioni spazio-temporali (cfr.

W. J.

KAUFMANN

Jr., Le nuove frontiere dell'astro­

no1nia, tr. it., Firenze 1980; In., Galassie e Quasars, tr. it., Firenze 1984;

H. L.

SHIPMAN,

neri, quasars e l'universo, tr. it., Bologna 1982).

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Bucbi

ETERNO RITORNO E TRADIZIONE

175

se stesso», significa che l'incessante divenire agisce anche su di esso, ossia che esso stesso fluisce 31• L'io non è la posizione di un essere rispetto a più esseri (istinti, pensieri e così via); bensl, l'ego è una pluralità di forze di tipo personale, delle quali ora l'una ora l'altra vengono alla ribalta come ego, e guardano alle altre come un soggetto guarda a un mondo esterno ricco di influssi e di determinazioni. Il sog­ getto è ora in un punto ora nell'altro 32•

l.

Tra i luoghi alti e fissi della tradizione filosofica, quello abitato dal­ l'Io e dalla sua forza di conferire identità è stato senza dubbio uno dei più frequentati, tanto da essere ormai consumato: a lungo esso è stato eletto a stazione terapeutica contro il pànico provocato dal « flusso eterno» del divenire. Abbandonati i grandi sanatori in cui ci si era affidati a qual­ che « imperituro» assoluto, la salvezza dalla precarietà, da ciò che è « pe­ rituro», dal divenire senza inizio e fine, è stata cercata nei rinomati templi dedicati a qualche « imperituro» relativo: al Cogito, all'Ich Denke, all'lchheit. L'esperienza dell'eterno ritorno e dell'attimo immenso può es­ sere salutare se e in quanto riesce a far superare le paralisi provocate dall'incubo di un divenire senza inizio e fine, e, quindi, riesce ad evitare il ' ricovero ' nei recenti templi dell'Io o il pellegrinaggio a più antiche rovine dell'Assoluto. Quest'azione salutare è possibile perché l'esperienza dell'eterno ritorno fa sentire e non solo vedere che l'identità dell'lo, assunta come fartnaco contro le vertigini procurate dal divenire, è in sé stessa divenire: essa, in quanto identità pura, non esiste o, meglio, fun­ ziona, al pari del tempo-misura, soltanto come semplice astrazione utile « per l'uso manuale e domestico del pensiero». L'identità dell'lo, infatti, oltre a non avere autonoma consistenza logica al pari di ogni altra forma di identità 33, non ha nernrneno consistenza empirica: l'individuo «lotta per la sua esistenza, per il suo nuovo gusto, per la sua posizione relati­ varnente unica rispetto a tutte le cose la ritiene migliore del gusto generale e disprezza quest'ultimo. Vuoi dominare. Ma, a questo punto, scopre di essere egli stesso qualcosa di mutevole e di avere un gusto al­ terno, con la sua raffinatezza giunge a scoprire il mistero che non è vi è individuo, che nell'attimo più inafferrabile egli è qualcosa di diverso da ciò

31 A questo riguardo le analogie del discorso di Nietzsche con le analisi di Bergson sono

fortissime, tuttavia nel concetto e nell'immagine dell'attimo Nietzsche propone implicitamente una sintesi 32 ll

di

durata e istantaneità che Bergson dichiarerà impossibile.

F. NIETZSCHE, Frammenti postumi Or. G. W. F. HEGEL, Scienza della

fr. 6.70. Bari 1968,

1879-1881, cit., logica, tr. it.,

Il, pp. 459-60:

«

Cosl è

la vuota identità, cui restano attaccati quelli che la pigliano come tale per qualcosa di vero, e

sempre mettono avanti che l'identità non

è

la diversità, ma che identità e diversità sono

diverse. Costoro non vedono che appunto qui dicon già che l'identità è dicono che l'identità sia diversa dalla diversità Digitized by

e

un

diverso; poiché

».

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176

ADONE BRANDALISE- GIANGIORGIO PASQUALOTTO

cl1e è in quello seguente, e che le sue condizioni di esistenza sono quelle di un numero enorme di individui» 34• I maniaci dell'egoina spesso escogitano ogni forma di strategia pur di non rinunciare alla beata sicurezza che credono possa essere loro offerta dal principio di identità. La strategia più nota è quella cartesiana che sup­ pone ·un Io come centro di riferimento stabile di ogni atto e di ogni pen­ 35•

Ma questa stabilità è illusoria: sia dal punto di vista temporale, perché l'individuo scopre che « nell'attimo più inafferrabile egli è qualcosa di diverso da ciò che è in quello seguente »; sia dal punto di vista spaziale, siero

perché , forse una forma impossibile .. 53• .

.

La natura di prassi sostitutiva dell'interpretazione procede dal rove­ appunto sciamento cronologico che si produce in una coll'istituzione interpretativa del nesso causale: è dall'effetto che procede la rappre­ sentazione della causa. La messa in scena del mondo esterno si determina nel mondo interno per poi venire proiettata al di fuori come vera immagine del reale, ma l'esperienza interna si organizza appunto attraverso l'impo­ sizione di un ordine spazio-temporale fondato sulla distanza e antecedenza temporale della causa: come tale essa è interpretazione-riduzione del pre­ sente a coscienza mediata dal passato. Identificare-imporre la causa significa recidere il continuum dei rapporti in cui ciò che si degraderà poi ad « ef­ fetto » si produce nel coprodursi di tutti i termini e di tutti i rapporti che lo deterrninano per distanziarlo dalla posizione, cardine della conca­ , tenazione causale, di ciò che, preesistendo, ' fonda , e ' causa : tale rap­ presentazione ' storica ' diviene per la coscienza sostitutiva dell'evidenza del presente, e con ciò stesso diviene anche modo del suo prodursi nel proprio restringersi e indebolirsi. In ciò l'« esperienza interna » si configura come per la coscienza decisiva e origi­ linguaggio operante una continua traduzione-riduzione di ogni stato in stati già noti. Pertanto, quanto naria maggiore è l'affidamento alla concatenazione causale tanto maggiore è l'equi.

52

Come crede Mishima che, vittima dell ·incredibile intelligenza con cui ha penetrato ed

assin1ilato il tragico dualismo occidentale tra mente e corpo, è costretto

a

trovame soluzione,

morte (cfr. Y. MtsHIMA, Sole e acciaio, tr. it., Milano Frann11cnti postumi 1888-1889, cit., fr. 15.90, pp. 247-48.

a darne sintesi solo ne11a 53

F.

NIETZSCHE,

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1982).

183

ETER!'JO RITORNO E TRADIZIONE

voco dell'« intendere»; quanto più, in altri terrnini, lo sguardo interpre­ tante è pervertito a fissare la causa, tanto più esso viene distolto dal luogo e dal tempo nei quali emerge ciò da cui esso stesso procede ed opera il suo stesso vedere: la sua visione, apparentemente nitida e con­ vincente, è miopia. Se invece lo sguardo, per cosl dire, ripiega verso l'occhio, aprendosi

alle evidenze del corpo di cui è parte e quindi consente che il ' vedere ' tenda a far luogo al sentire, la rappresentazione delle cause illanguidisc.e la propria efficacia di filtro riduttore, per dare alla coscienza trasparenza sul tempo del suo reale avvenire. « Mi sento male » costituisce un'affer­ mazione più ricca di quella che asserisce l'esistenza di cause che ' spie­ gherebbero ' tale stato. Assecondando questo movimento, l'« esperienza in­ tema >> tende ad attraversare la propria stessa decisione originaria, rag­ giungendo, nella « grande e tarda neutralità» della sua fase più matura, la propria massima limpidezza, e con ciò massimamente approssimando il punto critico di rottura della propria forma, ovvero, l'esito catastrofico del ' rovesciamento cronologico '. Nella sua più aristocratica declinazione tardiva, l'« esperienza in tema >>, esaurisce le proprie possibilità, per aprirsi traumaticamente ad una propria > nella quale, perfe­ zionandosi, essa anche si oltrepassa radicalmente, de-formandosi. Snodo essenziale di questo controrovesciamento è l'emergere del nesso che genealogicamente connette rappresentazione (e rappresentazione filoso­ fica), interpretazione e filologia. Fulminea ed ellittica esplicitazione radi­ cale e definitiva del nucleo pulsionale e teorico di Wir Filologen, qui l'apparizione della filologia connette, sul discrimine tra l'« esperienza inter­ na » e la sua perfezione impossibile, miseria e grandezza dell'operare filo­ logico. Se, da una parte, la filologia è una formidabile produttrice di passato in quanto costitutrice di testi e di tradizione, essa è nel contempo in grado di rivelare, disincantandolo, il meccanismo dell'« esperienza in­ tema », evidenziando la natura di interpretazione riduttiva implicita in ogni lettura e in ogni edizione. È la filologia che, radicalizzando il proprio gesto essenziale, offre la metafora più efficace ad indicare la forma « im­ possibile» dell'> le proprietà del tempo, fuorché il tempo. 1

T. De Mauro, Bari, naturalmen te quella dell'arbi­

F. DE SAUSSURE, Corso di linguistica generale, trad. it a cura di

Laterza 1970, p. 88. La

«

prima legge» richiamata nel brano è

trarietà del segno linguistico. 2

I. KANT, Critica della rap)one pura, trad. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice,

Laterza 1949, vol. I. p. 78.

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Bari,

LA STORIA, IL ITMPO E LA l'AROLA

189

Quali sarebbero infatti « tutte » queste altre proprietà del tempo che la linea, raffigurando per analogia, contiene? A quanto sembra l'avere « una sola dimensione »; ma questo è appunto l'esser successivo (la successione). Ma ]'esser successivo (unicamente successivo) è proprio ciò che la linea non può raffigurare. E allora? Allora la proprietà essenziale del tempo non può essere raffigurata in alcun modo (donde il supplire al «difetto>>). Tutti i rapporti del tempo( quali mai essi siano) sono quello che sono entro questa proprietà irraffigurabile (più esattamente: essi sono questa proprietà, cioè la successione); quindi i rapporti del tempo non possono essere espressi da un'intuizione esterna. Naturalmente Kant non è Saussure. Egli non si illude ingenuamente che si possa trarre dal fatto della raffigurabilità spaziale di un fenomeno (per es. dal fatto della scrittura alfabetica, supposta per di più come unica scrittura « vera », cioè capace di rispecchiare figurativamente in ·piena fe­ deltà la voce, la parola parlata) la prova che quel fenomeno è temporale. Sarebbe come se dicessimo: poiché Dio, per soffiare l'anima e il respiro in Adarno, dovette prima prender fiato, è evidente che la creazione del­ l'uomo avvenne nel tempo. Agostino, come appunto Kant, la sapeva più lunga. Kant sa anzi ciò che De Saussure, col suo > (come dice Kant nell'«Este­ tica » ) . Non si può dunque desumere dalla raffigurabilità spaziale la tempo­ ralità, ma, al contrario, non c'è nessuna raffigurabilità spaziale, se non grazie a una preventiva intuizione temporale. Questa però comporta, come suo carattere essenziale, la successione, che resta nondimeno oscura e problematica anche per Kant. Dobbiamo dunque tornare a chiederci: che cosa succede nella successione 3?

Successione e irreversibilità.

2.

Accadere in successione significa per es. accadere dei momenti di una serie uno dopo l1altro. C'è un accadere ora che proviene da un or ora nella direzione di un non ancora. Abbiamo così i due caratteri universali del tempo: le sue tre estasi e l'irreversibilità della direzione. Quest'ultima non sembra però vincolante per una mera successione: ci può essere una successione all'indietro (mentre il tempo, come si dice,

3

In Kant

il

problema andrebbe indagato relativamente al nesso

tra appercezione tra·

Questo, come si sa, è anche il punto di partenza di tanta parte del pensiero contemporaneo, già da Hegel e sino a Heidegger. Di qui muove anche Peirce u'&duzione del problema �t�entale nella faneroscopia e nella sem.iotica, come nella ha per es. oppor tunamente sottolineato K. O. Apel. Ed è pure significativo che Peirce rivalu­ tasse. a suo modo, la predilezione « schopenhaueriana » per la prima edizione della Critica. ,.r-

e schematismo.

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190

CARLO SISI

non può scorrere all'indietro) �fa a considerare più attenta111ente la cosa" essa non è così semplice: che vuoi dire « successione all'indietro»? Se prendiamo la successione a, h, c (così come è scritta) noi possiamo immaginare sia uno scorrimento in avanti (da a a c) sia all'indietro (da c ad a). Ma qui avanti e indietro sono nozioni puramente formali e spaziali che dipendono dal verso di lettura di momenti che non sono né prima né poi ma solo l'uno accanto all'altro. Qui a è prima di h solo se leggendo procedo da a verso c; in caso contrario è b che è prima di a. In questo esempio Io scorrimento della successione è un fatto puramente formale o convenzionale. Supponiamo invece che lo scorrimento venga assunto come un fatto sostanziale. In questo caso scorrere indietro significa: il momento o evento a (Ea) riaccade dopo che è accaduto l'evento b (Eb): Ea, Eh, Ea, Ec, ecc. Perché tale serie si verifichi è però indispensabile che I'Ec « sappia >> che I'Ea riaccade dopo l'Eh, essendo già accaduto prima dell'Eh (come nel caso in cui uno spettatore sa che una serie di fotogrammi di un film si ripetono e si ripresentano identici). Se infatti l'Ec non lo sapesse, non avremmo alcun ritorno indietro o scorrimento all'indietro. Ma anche con l'avvertenza indicata (l'Ec « sa» ecc.) non accade di fatto alcuno scorrimento all'indie­ tro. Ciò che accade, in ogni caso, è un « esser dopo >>. �, per cosl dire, in avanti, cioè per l'Ec, che I'Ea riaccade dopo l'Eh. Se qualcosa « succede>>, succede sempre dopo qualcos'altro. L'Ea è prima dell'Eh solo se abbiamo b come esser dopo a. Che una successione è solo l'attesa, la possibilità, di un esser dopo. Non c'è, né può esserci, in realtà, alcuno scorrere in due possibili direzioni (avanti o indietro, che sono poi mere determinazioni spaziali). Di più: non c'è nel tempo, nell'esperienza del tempo (contrariamente a quanto si dice e si ripete da sempre), scorrere, né alcuna direzione. Nessun atto di introspezione scorge mai alcuno scor­ rere, fluire e cosl via. Espressioni come «flusso », «corrente », «catena » sono vuote immaginazioni e maschere verbali. Ciò che si sperimenta è solo un esserci come esser dopo, come pro-venire. Se il tempo è qualcosa, qual­ cosa non consiste in uno scorrere, e neppure in un avanti o indietro. Il tempo è qualcosa che sta al di là di queste raffigurazioni del senso comune, come già aveva compreso Agostino.

Provenienza e destinazione.

3.

C'è però, oltre l'esser dopo, un altro aspetto della successione che deve essere indicato. La natura propria di ogni successione (ciò che in essa suc­ cede) è l'esser dopo, il pro-venire. L'Eh è in quanto è dopo l'Ea. Ma come si può sapere che b è dopo a (gli succede)? In altri termini: l'Eh può essere l'Eh (sapere di esser b) e basta? Un evento che è se stesso (sa di se stesso) e basta equivale a un puro niente. Non succede alcun evento (non succede niente) se ciò che succede non è un esser dopo, cioè se l'Eh in certo modo non sa di esser dopo l'Ea. Essere ed esser dopo sono sinonimi. E tuttavia, come può l'Eh «sapere >>, avere il senso di, esser dopo l'Ea? Non c'è l'Eh e basta, perché c'è anche l'esser dopo di questo b rispetto all'Ea. Ciò significa: l'essere di b è un «aver già >> a come proprio esser dopo rispetto ad a (che quindi, a sua volta, c'è nell'essere di b come esser dopo) 4• Tutto ciò non può avere che il senso seguente: l'essere di h c'è come «provenienza», cioè come interpretazione del suo essere (dopo) ri­ spetto ad a. In sintesi: l'essere di h è l'aver interpretato a come sua pro­ venienza. Ogni evento è interpretazione della propria provenienza. In altri termini: ogni evento è, o ha la natura di, un segno. L'Eh è un segno di a, in quanto interpretazione della propria prove­ nienza. Ma in quanto è un segno, l'Eh è nel contempo (nello stesso tempo e senso) un aver da interpretare. Aver già (interpretato) e aver da (inter­ pretare) sono il medesimo, in quanto facce indisgiungibili della fisionomia 4

Tutto ciò comporta il problema del « luogo,. e dello « s·tare » del passato.

secondo il

senso

comune (e

ancor

è ciò che non è più; e tuttavia

non � ancora; il presente, come generale � tempo che «mentre c più in generale del del casa di Dedalo» n. l («Turbare Digitized by

prima esso

secon do

Pensato

la tradizione: si pensi ad Agostino) il passato

in qualche modo è. Analogamen te il futuro è ciò che

dirà Hegru, nel suo « divenire intuito» ha quel carattere è, non è, mentre non è, è

•·

Sulla questione del paradosso

tempo rinvio al mio scritto Che ne è del passato?, in

il passato»), ottobre 1983, pp. 3041.

e

Originai from UNIVERSITY OF CALIFORNIA

«

La

192

CARLO

SISI

di ciò che chiamian1o il presente, ree/o e verso dello stesso contrassegno della presenza. L'Ea interpretato in h (come suo segno) è il senso di h, cioè la sua tensione o il suo essere in tensione, il suo tendere-verso. Aver da corrispondere ad a è il futuro di h, l'apertura del suo abito e ambito di rtsposta. •

Ciò è quanto dire: il passato accade nel presente (nell'Eh interpretante la propria provenienza), ma esso esige il futuro per il suo senso e compi­ nlento (come apertura e attesa di h, cioè come pro-posta, pro-posizione, in­ terpretante il proprio destino). Letteraltnente: non c'è passato senza futuro; non può accadere il passato (l'accaduto) se non accade anche il futuro. È nell'attesa, nella tensione e pro-tensione, che il passato affiora ed è. Passato e futuro si confrontano e si tra-ducono; essi operano lo scambio dell'aver già nell'aver da, della provenienza e della destinazione. Il senso comune dice: ciò che è stato è stato; e: il futuro è in grembo a Giove. Ma l'espe­ rienza lo smentisce, perché passato e futuro non si possono separare con un'ascia: essi sono l'uno per l'altro. In termjni più semplici e più essenziali potremmo dire: c'è un presente (una presenza, un evento come evenire di

b) perché c'è qualcosa da fare. C'è da rispon(lcre corrispondendo e c'è da corrispondere rispondendo.

f: questa peculiarità dell'aver interpretato interpretando (cioè il nesso provenienza-destino) ciò che conferisce a una qualsivoglia successione il carattere della temporalità. Il tempo pubblico e comune (ma anche il tempo delle formulazioni scientifiche) è un'astratta ingenuità, poiché i suoi istanti e le sue misure obiettive recidono e ignorano il carattere della presenza, cioè l'urgenza dell'interpretazione proveniente e assegnante. Il tempo pub­ blico (ogni tempo pubblico, compreso quello altamente raffinato

e

tecnico

della fisica matematica nella sua pretesa cosmico-obiettiva) è un puro gioco di lampadine che, accendendosi successivamente, suggeriscono l'illusione e l'immagine della successione temporale. Ma, in questa serie di mere con­ tiguità spaziali, che è che conferisce il carattere dell'> e del « da ». Esso è un'e-mozione, un esser mossi, un esser volti e tesi, in-tensione. Emozione è ogni risposta che corrispondendo av-verte. Negli analoga sta dunque celata (cioè manifestata) la distanza, la sua attrazione o incanto. ?via come vi sta celata? In quanto vi si interpreta. Per ciò, ancl1e, vi si manifesta

5•

L 'analo­

gon è la distanza in sembianza di interpretazione. Ma ciò non significa che oltre l'interpretazione e la sembianza stia l'es­ senza, o la cosa. Oltre l'emozione prorompente del battito interpretato e interpretante non sta il supposto cuore reale, un oggetto « fisico » collocato all'incrocio dello spazio e del tempo obiettivi. Questi sono meri oggetti pub­ blici del linguaggio intersoggettivo che presuppongono proprio quella espe­ rienza e-motiva per costituirsi. L'emozione e l'incanto è il puro ritmo: la fase che attrae rispondendo e rilassa corrispondendo, arsi e tesi; e oltre questo nulla.

Il nulla della provenienza e della destinazione delimita e determina l'analogon, rendendolo « perfetto >>. Nulla non è infatti niente, ma è la con1piutezza stessa de11a sembianza interpretativa dell atzalo g o n '

,

in

quanto esso manca di nulla ed è vicario di nulla. La presenza che av-verte, in un nulla di provenienza e di destinazione (nulla che è condizione appunto del suo farsi presente, del suo avvertire), è analogon di nulla. La risposta, ferendo l'intero che non c'è (non c'è mai stato), distanzia. Cosl essa ha appunto il nu11a in due sensi: come provenienza del suo stesso prodttrsi; e come sembianza interpretante del suo stesso destinarsi. È questo duplice nulla il cuore della distanza, il bilico essenziale della presenza. Dapprima (in un dapprima che propriamente non è mai stato) il bambino è il battito cardiaco della madre. Egli è la madre, la Stessità e totalità dell'intero: ovvero niente. Poi (nel poi dell'esser dopo proveniente) egli ha il battito (e in questa sembianza o figura ha la madre), come sua distanza e differenza. Egli ce l'ha nel nulla della distanza, e cosl, anche, ci è. Ora cominciamo a scorgere ciò che succede nella successione. L'evento, come accadere dal nulla della provenienza, è l'accadere dell'anal ogon del segno. Questo accadere av-verte, e-moziona, cioè risponde e corrisponde. Risposta orlata di nulla che è il segno stesso: segno che reca traccia e mette sulla traccia. f: cosl che l'analogon c'è, è qui, in figura di nulla. Esso c'è come segno che rimanda a questo nulla (della provenienza) che però ora gli diviene il suo Altro, proprio provenendo dallo Stesso (nulla della desti­ nazione e dell'Oggetto). La risposta ha ora di mira la Madre (questo nulla costitutivo) e perciò vi si decentra diventando la risposta del bambino. Ed

5 segno

Sulla

> culturale. Come giustificare, allora, l'aderenza degli Zen al programma di rinnovamento del doge Andrea Gritti, l'interesse per l'edi­ lizia di Francesco Zen, il legame di quest'ultimo con Sebastiano Serlio, l'amicizia che lo stesso Nicolò stringerà con Daniele Barbaro 5? La risposta a tali interrogativi è stata impostata con acutezza da Ennio Concina. Il Dell'origine de' barbari che distrussero per tutto'/ mo1zdo l'im­ perio di Roma, egli osserva 6, viene edito nel 1557 da Francesco Marcolini, con dedica a Daniele Barbaro che l'anno precedente aveva pubblicato i suoi Commentari vitruviani 7 rendendo noti vecchi studi di Nicolò Zen. Sviluppando il mito di Entinopo, questi narra la storia della formazione della civitas rivoaltina. Il mitico architetto di Candia costruisce, dopo la fuga delle popolazioni di fronte a Radagaiso, una casa di muro e venti­ quattro di canne; poi, dopo la distruzione dell'insediamento a causa di un incendio, erige la chiesa di San Giacomo di Rialto, sul luogo della propria abitazione. L'architettura dunque, per Nicolò Zen, ha compiti sacrali e fon­ dativi. Ma è necessario intendersi sul suo concetto di architettura. La prima delibera del governo veneziano delle origini, su proposta di Zeno Daulo, prevede, egli scrive «

per più aguaglianza et similitudine ( ... ) di lasciar i palagi et le habitationi magni­ fiche per non soprafarsi l'un l'altro; fermando per legge, che tutte le habitationi fossero pari, simili, di una medesima grandezza et ornato » 8•

Si tratta della concezione che guida le linee del palazzo Zen ai erose­ chieri, eretto su progetto di Francesco Zen a partire dal 1533, con una con-

E.

4

Cit. in

5

Sulle relazioni fra Sebastiano Serlio e Francesco Zen, cfr. LoREDANA OLIVATO, Per il

Serlio a Venezia: pp. 284-291,

ma

CoNCINA, Fra Oriente e Occidente, cit., p. 280, Corsivi nostri.

doc11menti

e

nuovi documenti rivisitati,

in

«Arte Veneta», 1971, XXV,

sulle implicazioni dell'architetto bolognese in palazzo Zen

&i

veda ancora

il

saggio citato di Concina.

J.

6

E.

7

Su DanieJe Barbaro, in relazione allo scictismo veneziano e veneto del '500., cfr.

CoNCINA, Fra Oriente e Occidente, cit., pp. 280..281.

PETER

LAVEN, Daniele Barbato Patriarch e/t-et of Aquileia, Ph. D. Thesis, University of London

1957.

s

N.

ZEN, Dell'origine de' barbari che distrussero per tutto 'l mondo l'imperio di Roma,

-ondt.. hebbc principio la citlà Ji \'t.Jnctia libri Digitized by

e

tuuiici,

Venezia 1.557, pp. 194-195. Originai from

UNIVERSITY OF CALIFORNIA

«

MEMORIA ET PRUDENTIA

>),

�1ENTALITÀ PATRIZIE E

«

RES AEDIFICATORIA

203

»

sulenza serliana per la revisione distributiva; e il palazzo è concepito come speculum di una storia della Repubblica vista con ottica familiare 9• Non a caso, nell'O rig ine, Nicolò Zen conclude il passo sopra citato dichiarando che il rifiuto della magnificenza, essenziale alla libertas Reipublicae, è « cosa che fin al dl d'oggi si osserva ». Il valore fondativo del)'architettura non comporta dunque per l'ar­ chitettura stessa pericolose autonomie. L'edilizia civile, per la mentalità che si esprime nelle parole di Nicolò, è sottoposta ai precetti di un'etica collet­ con l'occhio fisso al momento della « nascita » tiva che mira a sal­ vaguardare e a trasmettere valori comunitari. È forse necessario sottolineare quanto una tale concezione, assorbita sicuramente dal giovane Zen attra­ verso l'educazione patrizia, sia antitetica a quella che domina la Firenze del Quattrocento e la Roma di Giulio Il, di Leone X, di Clemente VII? A Venezia, la mediocritas è salutata con orgoglio da famiglie che ostentano la loro fedeltà alla Repubblica stabilizzatasi dopo la serrata del Maggior Consiglio e le vicende trecentesche. A Firenze, l'orgoglio civico seguito alla formazione dello Stato territoriale e una ricchezza distribuita in mani data la pratica della divisione eredi­ svincolate da interessi familiari provocano l'immobilizzazione di ingenti capitali per la costruzione taria di palazzi destinati a consacrare la fama di individui spesso in competizione fra loro 10• E non è certo nella Roma papale che è dato trovare un costume » 11• consonante con quello veneziano, teso a « aguaglianza et similitudine Che tuttavia si sia verificato un salto, a Firenze, fra i costumi tre­ centeschi e quelli del '400, è certo. Non si tratta soltanto delle pressioni sul ceto mercantile provenienti dal pauperismo francescano o dal moralismo che si esprimerà ancora, nel '500, negli strali lanciati da Erasmo contro la 9

Or.

L.

0LIVATO, Per il Serlio, cit.; E. Cor\CINA, Fra Oriente e Occidente, cit., che precisa,

come date post e '0

ante q11em

de'l modello del palazzo, il 1526 e

il

Su tali tenti si veda il volume di RICHARD A. GotoTWAITE,

Florence. An Economie and Social History,

15 33 {p. 267 ).

Tbe

Building of Renaissance

Baltimore 1980, trad. it. Bologna 1984, spt.�ie alle

pp. 53-167. Pur basandosi su un'a-mpia documentazione, tuttavia, l'analisi di Goldth\vaite non risulta persuasiva nel suo tentare destinati

a

di

dimostrare

che gli

eccezionali

immobilizzi di

capitale

palazzi e cappelle private, nella Firenze del '400, si risolvono in effetti indotti

sull'economia complessiva. commerciale porta l'a-utore

Inoltre, la sottovalutazione ad

dalla crisi economica strisciante

enfatizzare

le

esigenze

dell'instabilità

del settore

del nuovo gusto,

che

bancario

e

svincolato

diviene così pressoché mitico. Eppure, lo stesso Goldth\vaite

nota. di sfuggita, che il mancato sviluppo dell'economia fiorentina è dovuto non solo a una ca­ renza di investimenti in attrezzature tese a infrangere la

«

barriera tecnologic3

ma anche all'ecce­

>>,

zionale investimento nell'edilizia. (Cfr. a p. 79 dell'op. cit.). Sulla situazione dell'Italia tra '300 e il primo '600 , cfr. RuGGIERO RoMA�O,

Tra

il

due crisi: tltalia del Rinascùnt'nlo, Torino

t9ì74, le cui analisi sono feconde anche per i temi qui accennati. 11

Sui palazzi romani del primo '500, si veda la fondamentale opera di CHRISTOPH LuiT­

Ti.ibingen 19ì3 italiana. Fro mn1el

POLD FROMMEL, Der romische Palastbau dt.)r T-fochrenaissance,

è

prossima

un'edizione, completamente rivista, in lingua

,

filologiche di grande rafTinatezza, offre precise ricostruzioni tipologiche

c

(3 voli.), di cui oltre ad analisi

funzionali, che per-

mettono una lettura approfondita dell'edilizia residenziale cinquecentesca. Digitized by

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·

MANFREDO TAFURI

204

magnificenza edilizia di Giulio II 12• Un anonimo mercante fiorentino di­ chiara: >, mentre Giovanni di Pago lo Morelli raccomanda « Non ti iscoprire nelle ispese ( ...) mai con persona, né con parente né con a1nico né col compagno ( ...). Non ti iscoprire in molte possessioni: compera quelle sieno abbastanza alla vita tua, non comperare eri di troppa apparenza, fa che sieno da utile e non di mostra » u. Si tratta di inviti alla moderazione che hanno motivazioni, come si vede, ben diverse da quelle dichiarate da Nicolò Zen: soprattutto essi non legano il ceto mercantile, cui sono diretti, a un'etica di natura patriottica e civile. Il che forse spiega la !abilità del costume che essi propugnano. Lo Zibaldone di Giovanni Rucellai in cui è copiato un commento di Cice­ rone sull'onore acquistato da un antico romano per la costruzione di un palazzo mostra che nuove esigenze si sono affermate ali 'interno della committenza fiorentina 14• Resistenza .della mentalità veneziana al Rinascimento, dunque? Pre­ scindiamo per quanto possibile da astrazioni storiografiche. Il che non ci impedisce di riconoscere, nell'edilizia patrizia quattrocentesca e del primo Cinquecento che sceglie di abbandonare l'internazionalità dell 'opus frangi­ cenum, una « traduzione», in idiomi e in principi costruttivi consolidati, di modelli linguistici vagamente « all'antica». La salvaguardia del « tipo >> veneziano è del resto spesso dettata dalle occasioni edilizie: la singolare contaminazione fra organismo tradizionale e particolari umanistici, in pa­ lazzo Zorzi a San Severo, pur costituendo un raggiungimento eccezionale, è tutt'altro che isolato metodologicamente 15• 12

Già Poggio Bracciolini si era rivolto, tramite P�ietro da Noceto, a

ad impresa aedificandi, quam, ut tecum vera loquar

st>d

detestantur

»,

Nicolò

V, « ut

cesse

t

omnes non culpanl,

egli afferma

(Corsivi nostri). Cfr. MAssiMO MIGLIO, Una vocazione in progresso: Michele

Cancnsi biografo papale,

in

« Studi

Medievali

»,

III, n. 12, pp.

1971, serie,

ora

463-524.

è

in IDEM, Storiografia pontificia del quattrocento, Bologna 1975, pp. 63-118, la citazione p. 105

nota

canne citato

55. Il Pastor ricorda un analogo giudizio

da

di

Nicoduno Tranched ino, mentre

un

Stefano lnfessura saluta Sisto IV come «nuovo Nerone». (Diario deUa città

di Roma di Stefano lnfessura scribasenalo, ed. O. To mmasini,

V,

a

Roma 1890, p. 158). Il

violentemente criticato

« som,ptuoso

«Fonti

et excessivo fabbriol.re

per ragioni squisitamente poHtiche

»

d'Italia», da Giulio II è

per la Storia

stimolato

da Marcantonio Altieri, rap­

presentante della nobiltà municipalista, (MARCANTONIO ALTIERI, Li Nuptiali, a cura di Enrico Narducci, Roma 1873). Per ·le critiche di Erasmo, dr. ERASMO DA ROTTERDAM, Sileni

biadis, in Adagia, a cura di Silvana Seidel Menchi, Torino 1980, p. coelis, in Erasmi Opuscula, a cura di Wanace B

K.

14 15

e ]ulius exclusus �

Ferguson, The Hague 1933.

Firenze 118 della trad. it . ss. della trad. it.

GIOVANNI DI PAGOLO MoRELLI, Ricordi, a cura di Vittore Branca,

251.-252. Cfr. anche R. A. GoLDTIIWAITE, The Building, cit., p. •

96,

Alci­

Cfr. R. A. GoLDTIIWAITE, The Building, cit., pp. 125 e

1969, pp.

Cfr. LoREDANA 0LIVATO e LIONELLO PuPPI, Mauro Codussi, Milano 1977, pp. 140-159,

183-185, 247-254; JoHN Mc ANDREW, Venetian Architecture o/ the Early Renaissance, bridge (Mass.) and London

1980, pp. 320-33);

RALPH LIEBERMAN, L'Architettura d�l Rina·

scùnt!nto a \1 cnezia 1450-1540, Firenze 1982, schede 59 e 60. Digitized by

e

Cam­

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«

�tll\10RIA ET

PRUDE�TIA

ML�T,\LITA ..

».

PATRIZI[

E

nES AEDIFICATORIA

«

'0)

»

-

Una spia relativa a una concezione diversa, in pieno '500, è offerto piuttosto da Francesco Sansovino, che in Venetia città nobilissima scrtve: •

Si legge che ne primi tempi, volendo i nostri mostrare unione e parità in tutte le cose loro, edificarono in virtù della legge Daula, le case tutte uguali in altezza. Ma cresciute poi le ricchezze per la mercatura che fu sempre il nervo di questa » 16• Repubblica, s'alzarono e abbassarono secondo l'appetito de i fabricanti «

Aggiungendo poco dopo che « quantunque i passati si dessero alla par­ 11• » simonia, erano però ne gli addobbamenti di casa splendidi grandemente La mediocritas che nel 1539 è riconosciuta da Nicolò Zen principio etico attuale, nel 1581 è considerata dal figlio di Jacopo Tatti valore trapassato. Eppure, ben due dogi, di tendenze politiche diverse fra loro, Andrea Gritti e Leonardo Donà nel primo trentennio del '500 il primo, nel 1610-12 il secondo nel costruire i loro palazzi si mostrano quasi polemicamente fedeli a quella mediocritas. Entrambi non accettano l'esibizionismo con cui ca' Foscari o ca' Loredan si erano esposte sul Canal Grande: e si noti che Andrea Gritti è lo stesso che stimola il rinnovamento architettonico di Venezia, e della platea marciana in particolare. Egli quindi agisce esattamente secondo le idee riconosciute negli scritti di Nicolò Zen: all'architettura è rifondativo, nel nostro caso riservato valore pubblico e fondativo mentre il volto del palazzo familiare è chiamato a uniformarsi alla coralità del tessuto edilizio. .

Proviamo ad articolare l'analisi. Dopo le sperimentazioni codussianc e i palazzi genericamente chiamati > di Nicolò Zen. Ma il rinnovarsi delle leggi suntuarie dimostra anche che si è già radicato negli strati alti del patriziato un bisogno di sfarzo e ostentazione difficilmente contenibile. Puntualmente, Marin Sanudo registra feste di nozze che tradiscono sfacciatamente la legge del 1512: nel giugno •

c:dtied by John R. Hale, London 1973, pp. 274 e ss. (in particolare alle pp. 277-280). Per , pubblicata 1'11 maggio 1.512

quanto riguarda l'arredo, la legge prescrive (c. 13r.):

«

«

super scallis Rivoalti ,. -

Sia preterea prohibito decetero à Cadauno nostro ùntilhomo, e ct.tadin

in ornamento d e camere dove intravegna legname, oro, e pictura, spendere piu Non possino, ne debono haver,

ne

de

ducati 150.

tenir casse dorate, cune, restelli, specchi, code, scuole

e

p ettini, che siano ornade d'argento, oro, Recamo, ne Zoie. Ne possino haver ne tenir in Camera,

in lecto linzuoli, linsoletti, intimelle, ne Cussin ornadi de seda, argento, oro, Zoie, o perle,

R ecamo, ne argentarti e�

ne

tor, ne tomolecto, ne

altro

haver, ni tenir al lecto alcuna Cortina, coltra, apparato, ne ornamento

m

camera

ne

ne

coperta,

ne

Cover­

che siano facti de ben possino tenit' li

in sala,

panno d'oro, d'argento, brocado ,veludo, raso, damaschin, e talj:

ma

prcdicti ornamenti et apparati de cendado, tafta, samito, catasarnito, ormexin, e zambellotto: quali perhò non habino sopra altro oro, argento, ne altro ornamento ( ... ). liere, banchali, tornolecti et altri fornimenti de panni de

o incoladi, far a

ne

usar per alcuno se possino sotto pena

i

quelli dechi fusseno tal lavori, et ali Maistri che

In prexon

Le Anteporte, spa­ seda, et panni de lana intaiadi, cusidi, de ducati XXV, et perder i fomimenti

fasseno, de ducati X, et star mesi quatro



25

26

1 .513:

».

Cfr. BISTORT, Il Magistrato allt.'

Pantpe,

ci t.

,

p. 51.

Cfr. GILBERT, Venice in the Crisis, cit., p. 277; SANUDO, Diarii, il doge dichiara che

fcva a foresticri.

( ... ) ,

«

el nostro

Signor

Dio

è

sta corozato

c

nui ·per

246, 25 ott ob re

le

injustitie si

per le pompe si usava in terra ferma ( ... ) e poi in questa terra,

cu ssl

di

com­

come prima ogni casa aveva le soa lanziera di arme, cussì è pagni,

con

XVII,

sta

disfate e poste tavole

confessa lui Principe fo di primi che disfè la lanziera a San Canzian in la sua casa

per n1etter

la tavola

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di J a soa festa

e

)>.

Originai from

UNIVERSITY OF CALIFORNIA

«

MEM O

RIA ET PRUDENTIA

».

MEN

TALITÀ PATRIZIE

E

«

RES AEDIFICATORIA

209

>> •

1517, le nozze in casa Grimani

28,

nell'ottobre 1519, quelle in casa Foscari nel novembre dello stesso anno, in casa Pisani 29, nel gennaio 1520 si tratta delle nozze Barbarigo-Foscarini 30• E costantemente il diarista annota che quei fasti sono diretti a colpire la Magistratura alle Pompe: « et ogni un fa ziò che li par e contra la leze, per esser deposto quel offitio ( ... ) cosa dannosa a la terra ». I Grimani, i Foscari, i Pisani, i Foscarini: i Primi, dunque, il ceto che tende a concentrare il potere nelle proprie mani, che altezzosamente non si riconosce più nell'uguaglianza primitiva e nell'austerità originaria. Si tratta, inoltre, di famiglie legate a Roma e alla Santa Sede, intente ad accaparrare e a dividersi benefici ecclesiastici: i « romanisti » o « papalisti » si distac­ cano nei costumi, ma anche con risvolti di natura economica e politica dalla consuetudo, formando un gruppo omogeneo e precisamente orientato. n,

La loro « disubbidienza » alle leggi suntuarie è certo programmata. Mostrare la ricchezza, per molti di loro, significa anche ostentare il proprio aggiorna­ mento culturale, con una politica di mecenatismo artistico teso a introdurre nelle lagune le sperimentazioni tosco-romane 31: ma anche tale esibizione di aggiornamento, che induce un gusto per la novità sempre più diffuso, viene usata come strumento di individuazione di gruppo e familiare, come segno di « differenza ». Il che è verificabile nelle nuove residenze che alcuni di loro fanno costruire a Venezia nel corso del XVI secolo. Si tratta, in realtà, di ben pochi esempi, quelli comunque su cui maggiormente si è esercitata l'analis1 degli storici dell'architettura: che raramente tuttavia hanno osservato che proprio il carattere di eccezionalità di tali palazzi è storicamente parlante. Si osservi: mettendo da parte cà Dolfin, per il suo carattere compro­ missorio, solo due edifici patrizi osano nel '500 spezzare la continuità del Canal Grande, per dimensioni e per linguaggio trionfalistico. Si tratta di palazzo Corner, progettato da Jacopo Sansovino, e del palazzo iniziato nel 155� da Michele Sanmicheli per il senatore Girolamo Grimani 32• 27

SANUDO, Diarii, XXIV, 341.

28

Ibidem, XXVIII, 13.



Ibidem, XXVIII, 71.

JO

Ibidem,

31

Cfr. per un panorama generale, RoooLFO PALLUCCHINI,

in AA.VV.,

a Venezia, pp. 11

XXVIII, 192.

e ss.

si

veneziano,

Per

la

storia

del Manierisnto

Da Tiziano a El Greco 1540-1.590, catalogo della mostra, lv1ilano 1981,

(ma per una critica

al

concetto di Manierisn1o, con notazioni anche sull'ambiente

veda fottimo saggio di .ANTONIO PtNELLI,

La

maniera: definizione di campo e

modelli di lettura, in Storia dt�ll'Arte Einaudi. Cinquecento e Seicento, 6/ l, Torino 1981, pp.

89-181); GAETANO

Cozzi,

Politica,

cultura

Rinascimento tra riforme e manerismo,

OLIVEit Ù>GAN, La tetni già esposti nel volume

pp. 21-42;

i

a

e religione,

in

AA.VV.,

Cultura

e

società

cura di V-ittore Branca e Carlo Ossola, Firenze

nel

1984,

committenza pubblica e privata, ivi, pp. 271-288 (che riprende dello stesso autore Culture and Society in

Venice

1470-1490.

The Renaissance and its Heritage, London 1972, trad. it. Roma 1980}. 32

Su

Ca' Corner, dr. •

Digitized by

DEBORAH HowARD, ]acopo Sansovino.

Architecture

and

Originai from

Patro11age,

UNIVERSITY OF CALIFORNIA

MANFREDO

210

TAFURI

Cà Corner: un organismo che si sviluppa intorno a un cortile es ta

>) ,

c i t.

,

iJ soggetto.

p. 1 3 4 . Originai from

UNIVERSITY OF CALIFORNIA



MErvtORIA ET

PRUDENTIA ». MENTALITÀ

PATRIZIE E

« RES

217

AEDIFICATORIA »

il fluire del tempo con I'eschaton: la prudentia racchiusa nel tricipitium è partecipe di un tempo cosmico e ineffabile. Tanto, che si potrebbe vedere nell'emblema ternario un simbolo incompleto: immaginato nello spazio, un non rappresentabile, eppure presupposto di quelli visi­ quarto elemento diviene necessario per dar compimento alla simbolica ruota del tempo. bili L'elemento nascosto è origine e meta: giustamente, esso non ha volto. In quanto presupposto, non è rappresentabile in un simbolo. Teniamo ferme tali ultime osservazioni e proviamo ad interpretare i Tre filosofi di Giorgione partendo dal loro significato più esplicito: le tre età dell'uomo. Con un avvertimento. Non è nostra intenzione contestare le interpretazioni offerte da Settis o da Meller al dipinto 48: del libro di Settis, in particolare, condividiamo il metodo e la serietà dell'approccio alle opere considerate. La lettura che proponiamo non è dunque alternativa a quella che vede nel quadro i tre Magi, ma ne suggerisce un completamento, o un tentativo di individuare un diverso strato di significati. Il giovane, anzitutto; contrariamente a quanto accade nelle rappre­ sentazioni tradizionali delle tre età, esso è situato sulla sinistra, e guarda, principalmente, verso sinistra. Rivolto all'indietro, egli ha gli occhi fissi a un'origine, a una grotta da lui ridotta a ragione, « misurata>> geometrica­ con­ mente. Il « nuovo » la gioventù con il compasso e la squadra templa e > (pp. 37-8). Libertà dice dunque: esser-presso­ -di-sé, esser-centro-di-sé. Questa autocentralità della natura spirituale si detern1ina poi sempre in opposizione alla natura materiale come attività. La materia è inerte, muovendosi non per impulso proprio, ma a cagione di forze esterne ed estranee. Lo spirito ha invece nell'attività la sua essenza. Esser centro di sé significa allora essere « il prodotto di sé stesso ». E lo spirito è infatti « il suo principio e la sua fine ». È, questa, la definizione aristotelica dell't'J�EÀÉXEta: lo spirito in quanto prodotto di '

'

s e stesso t-v 'tÉÀEt. lXEt.: si possiede nel suo fine. In quanto centro di sé lo di Pietro Rossi, in M. WEBER, 1 passi citati: pp. 92 e 64 ). Digitized by

Il ntetodo delle scien:.c sociali.

Torino

1974, pp. 55-141

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(per

VINCENZO VITlELLO

222

spirito è fine a se stesso. Questa determinazione dello spirito, che s'illu­ lnina nel contrasto con la natura materiale, s'attaglia però egualmente bene alla natura vivente. Sicché la contrapposizione spirito/materia è solo un primo passo sulla via della determinazione dell'essenza del mondo umano, Hegel è costretto a restringere i limiti della definizione dell'autocentralità le cose di dello spirito. Dopo aver ribadito che le « cose di natura» non sono per se stesse, e natura in generale, senza specificare quali quindi non sono libere, precisa: ne linguistica, ogni dire intorno a qualcc1sa. Essa è, in breve, un puro Digitized by

e

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_, .,-3

'

VOLONT A E TRADIZIONE

voler dire che, secondo le parole di Schelling, non attira l'essere, non fa dell'essere un suo oggetto, ma si tiene senza posa al di là dell'essere stesso. Potremmo dire con Origene che questo volere è �ouÀ.T}IJ.tl 'tOV À.6you, tuttavia come un logos del silenzio, come una parola che non dice alcunché di determinato, simile a quella suprema dimensione che Marco gnostico chiama l:t.ril e definisce a.Ù'to�ouÀ.T}-roc; �ovÀ.i). In altri termini: in questo puro voler-dire non si dà alcun principio propriamente detto, poiché esso resta, per cosi dire, come una pura lingua che non dice nulla: una lingua se11za linguaggio, un sapere senza alcunché di saputo. Com'è detto in Corpus Hermeticum, « voluntas enim dei caret initio, quae eadem est semper et sicuti est, sempiterna ' et fuit sine initio ' ». Questo primum deve, tuttavia, farsi, per Schelling, principio del sapere dell'oggetto e del sapere di qualcosa, poiché esso è il sapere stesso dalla

7.

cui libera e autonoma generazione sorgono le altre due dimensioni del sapere. Come può, però, ciò che è senza principio essere p�incipio di qualcosa? E come può ciò che non è qualcosa essere origine di qualcosa? Quando nei logoi, per dirla con Platone, noi esprimiamo un essente da un lato e una qualità dall'altro, noi pronunciamo un gi udizio. Per descri­ vere il costituirsi dell'Esuberante, del volere che è al di là dell'essere, in principio di qualcosa, Schelling ripensa l'essenza del giudizio (Ur-theil) nella sua lingua e la definisce come una pura partizione, una scissione (Scheidttng) che avviene nell'ambito stesso del volere originario (Fragm. 34). Il giudizio è la crisi che scaturisce nell'Assoluto, precisamente nel pritno moto del volere-se-stesso da parte dell'Assoluto. In altri termini: l'essente, di cui si dice qualcosa in ttn giudizio, non è altro che una metamorfosi, un moto apparente (nel senso più alto del ter­ mine: un divenir manifesto) del volere originario. Ora, questo volere è una pura dimensione logica; esso rappresenta, cioè, la pura esistenza della parola (das Wort nelle Ricerche), cosi come il giudizio è l'istanza suprema dell'ac­ cadere del linguaggio. In questo modo l'inteso di tutto il sapere dell'essente e di tutto il sapere di qualcosa, vale a dire di tutto il linguaggio, viene ad essere, per Schelling, la parola stessa. La lingua comunica l'essere linguistico delle cose. Ma la sua manifesta­ zione più chiara è la lingua stessa. La risposta alla questione: Che cosa comunica la lingua? è quindi: Ogni lingua comunica se stessa >>.

«

Nell'idea di ·Schelling del proferimento della parola come parola del­ l'intelletto che « è propriamente volontà nella volontà >> è in qttestione lo stesso principio metafisica che anima questo pensiero di Benjamin. La rive­

8.

lazione del puro volere, o della pura esistenza della parola, avviene secondo una struttura determinata che si articola in tre figure fondamentali: l'Esu­ berante, vale a dire il presupposto, ciò che è al di là dell'essere; l'Essen te, cioè il fondamento in cui il puro volere si fa O!!getto o natura (nel senso della