Il «c’è» del rapporto sessuale

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Il «c’è» del rapporto sessuale

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Titolo originale: L«/Z y

du rapport scxuel

© ÉDITIONS GALILÉE 2000

Per il testo di Michael Tumheim, Piychoanalyse und Demokratie © J.G.

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BUCHHANDLUNG NACHFOLGER GMBH, STUTTGART I999 © 2002 SE SRL

VIA MANIN 13-20121 MILANO

ISBN 88-77IO-529-I



INDICE

PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA IL «C’È» DEL RAPPORTO SESSUALE

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PSICOANALISI E DEMOCRAZIA di Michael Turnheim

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TRA NANCY E LACAN di Graziella Berto

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PREFAZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA

Quale problema affrontiamo? Si tratta del rap­ porto sessuale in quanto ha luogo: non certo per smentire Lacan, che sostiene che non c’è rapporto sessuale, ma per distinguere quel che c’è (quel che è dato, presente, disponibile) da quel che ha luogo (quel che non è dato ma si dà, quel che accade, che sopraggiunge). Quel che ha luogo come rapporto, non è un pon­ te proteso tra due individui né tantomeno la produ­ zione di un terzo individuo. Quel che ha luogo è l’incommensurabilità dei due. Proprio perché in­ commensurabili entrano in rapporto o il rapporto li attraversa. La differenza dei sessi, prima di tutto, indicizza l’incommensurabilità. Quest’ultima può essere sug­ gerita da due sessuazioni dei corpi — eterosessuali o anche da due sessuazioni delle disposizioni in­ scritte su corpi omosessuali, o in altro modo anco­ ra. In ogni caso, il sesso designa l’incommensurabi­ le. Il godimento dell’altro e il godimento nell’altro sono simultaneamente lo stesso e due eterogenei: il godimento è sempre l’uno nell’altro, senza che l’u­ no prenda l’altro. Il godimento spinge il rapporto al di là di ogni rapporto, di ogni fine e di ogni attesa della fine. Dunque il rapporto in quanto deconcertazione\ sospensione della concertazione (accordo, negozia­ zione, economia) e sopravvento della sorpresa. In questo senso, il rapporto sessuale vale anche come indice o paradigma o leva del rapporto in ge­ nerale. Cioè: o — almeno — ogni rapporto dipende dall’eterogeneità e dall’eteronomia degli incom­ mensurabili, oppure - tutt’al più - ogni rapporto è sessuato se non propriamente sessuale. O se si pre-

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ferisce: nessun rapporto è senza eros. Ma nessun eros è senza agape, cioè senza quest’amore impossi­ bile che il cristianesimo giudaico crede di poter supporre come natura di Dio e comandamento uni­ versale. Come pensare «l’amore del prossimo»? Il testo di Michael Turnheim si occupa di questo, con riferimento a Lacan e Derrida, ed è per questa ra­ gione che viene riportato accanto al mio.

Nel rapporto - commensurabile o no - tra que­ sti due testi dovrebbe profilarsi un altro problema: qual è il rapporto tra il «pubblico» e il «privato», se vi è rapporto? E sufficiente separare, da una parte sublimazione e identificazione, e dall’altra li­ bido e relazione - detta da Freud - d’«oggetto»? Nella possibilità di superare questa separazione potrebbe esserci la risorsa di un altro pensiero del­ la democrazia. JLN

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La psicoanalisi si fonda, ci ha detto Lacan, su un principio che si enuncia così: «Non c’è rapporto sessuale», e il cui corollario, o sem­ plicemente l’altra formulazione, si esprime in questi termini: «Il godimento è impossibile».1

Quel che mi interessa non è certo procedere nell’analisi minuziosa delle implicazioni e del­ le possibili trasformazioni di questi enunciati principiali o matriciali nella struttura della teoria psicoanalitica: non ho alcuna competen­ za, né teorica né clinica, per far questo. Non ho nemmeno intenzione di sviluppare qualche elemento dall’interno di questa struttura, né farò un vero e proprio commento dei testi in cui si articola. Mi accosto a essa dall’esterno vi chiedo di tenerlo ben presente - e mi inte­ resso innanzitutto al modo in cui questi enun­ ciati sono enunciati. Potrei dire, in un certo senso, che parto dal fatto che c’è enunciazione in questi enunciati, come in ogni enunciato, o che c’è del performativo e anche del pragmati' La prima occasione di questo testo è stata una conferenza su invito dcirÉco/c Lacanienne de psychanalyse, per il centesimo anniversario della nascita di Lacan, il 6 maggio 2001, sotto la presidenza di Guy Le Gauffcy e Gcorgcs-Hcnri Mclcnotte. Il te­ ma dell’incontro era: «Non c’è rapporto sessuale». La versione finale del testo è debitrice di alcuni contributi nella discussione che è seguita a tale conferenza: ringrazio tutti i partecipanti. Ringrazio inoltre coloro che sono intervenuti al Seminario dell’Istituto italiano per gli studi filosofici di Venezia, dove questo testo fu pronunciato nel giugno 2001.

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co (in senso linguistico) in questi constativi (poiché si presentano come tali: come l’affer­ mazione di fatti - non fatti empirici, ma dati della struttura: in ogni caso, qui il problema è proprio quello del rapporto tra l’empirico e la struttura, tra il rapporto che c’è de facto e quello che non potrebbe esserci de jure). Parto da quel che si lascia intendere a me, e quindi dal mio ascolto, non certo analitico, ma pro­ prio per questo in qualche modo mobile: per me si producono delle risonanze che non si formano certo all’unisono con l’emissione lacaniana, ma contro di essa, a contatto con es­ sa, cioè vicinissimo ma nello stesso tempo for­ se lontanissimo, in una sorta di eco rovesciata, o secondo un rapporto (sessuale o no?) anch’esso incommensurabile. Cosa mi si fa inten­ dere? A cosa si vuole che presti orecchio? Ver­ so cosa, da quale lato bisogna drizzarlo questo orecchio?

L’enunciazione è, qui, quella di una certa provocazione, e di una provocazione fondata sul paradosso. Si enuncia che non c’è quel che accade tutti i giorni (ci sono senz’altro ogni giorno «rapporti sessuali»; e forse nep­ pure nel caso del «godimento» è così sempli­ ce, come si vorrebbe credere, affermare che non ve ne sia ogni giorno). Quel che viene enunciato funziona dunque come un annun­ cio spettacolare e sbalorditivo: non c’è quel che c’è! Un filosofo accorto farà subito nota­ re che accade lo stesso con Hegel o Heideg­ ger, quando ciascuno a suo modo enuncia che l’essere non è. Tuttavia questi enunciati non annunciano l’inesistenza di quel che esi-

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ste: dicono che «essere», o il concetto deno­ tato «essere», lo si prenda come copula ver­ bale (eccoci già, a un tratto - notiamolo di sfuggita - in una copulazione, qualunque es­ sa sia) oppure come l’atto di quel che è essen­ te in senso attivo (e le due ipotesi si sovrap­ pongono), non può consistere in qualche cosa di essente (né sasso, né Dio, né fiore, né pe­ ne). In conclusione, questi enunciati dicono che «essere» non è qualche cosa, ma «esse­ re» è: che ci sono delle cose in generale. E che il «che ci sono», il fatto che ci sono (em­ pirico e trascendentale insieme, doppio in un colpo solo) o semplicemente il «c’è» stesso non è niente di essente. Accade diversamente per il rapporto ses­ suale che non c’è? In qualche modo, tutta la questione sta forse qui. Non è impossibile che alla fine si debba scoprire che « il rapporto sessuale» si comporta come «l’essere» (inteso come verbo e atto) di fronte a quel che sareb­ be per lui «Tessente» (e che sarebbe allora la coppia abbracciata). O se volete: quel che ac­ coppia la coppia non è una coppia, senza esse­ re tuttavia uno solo. Quel che accoppia, e dunque quel che «è» nel senso transitivo ri­ chiesto da Heidegger - quel che trapassa tran­ siti Tessente, quel che lo attraversa e lo tra­ sporta, lo rapisce e vi si rapisce, cioè quel che lo esalta e lo eccede in un solo movimento non è né uno, né due, né niente che si lasci contare. In effetti, nell’ambito in cui ci troviamo c’è una parola che funziona come verbo e come sostantivo: è la parola «baiser», a cui l’uso per­ mette ormai di ricorrere, in quanto verbo, nel

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suo valore gergale (che si è sovrapposto al va­ lore classico di «dare un bacio»).1 Si potrebbe dire che «baiser» non è nessun «bacio» esi­ stente, dato e ricevuto, ma è il dono del «ba­ ciare» (rimarrebbe da dividere, nel «baciare», il dare e il ricevere; significherebbe dividere la condivisione stessa [départager le partage], ed è chiaro che questo significherebbe mancare as­ solutamente di tatto verso il tocco, o verso la bocca del «baciare»). D’altra parte, l’enuncia­ to fondatore della psicoanalisi annuncia che sono fottuto ogni volta che fotto (non so se La­ can abbia utilizzato questa possibilità, ma mi sembra di suo gusto). E quest’altra accezione gergale del verbo potrebbe testimoniare che il sapere comune coglie nel rapporto sessuale una forma di fregatura: Lacan lo porterebbe all’altezza del sapere analitico, un po’ come fa Kant rispetto al sapere comune relativo alla vo­ lontà buona. Si noterà comunque che il senso peggiorati­ vo di «baiser» (e, quindi, il supposto sapere comune) dipende da una semantica della pa­ rola che la pone nella categoria dell’avere: ci si fa fregare [on se fait avoir\, si è stati posseduti (e più specificamente, inculati). Questo senso 1 Non esiste in italiano un termine che condensi tutti i signifi­ cati del francese baiscr: «bacio», se inteso come sostantivo, op­ pure, come verbo, «baciare», ma anche un modo per dire il «fa­ re l’amore», a cui può corrispondere l’italiano «scopare», op­ pure «fottere», anche nell’accezione di «imbrogliare». Non è dunque possibile mantenere nella traduzione le ambiguità, le condensazioni o gli slittamenti di senso su cui lavora Nancy, ma viene scelto di volta in volta uno di questi significati, oppure, quando il contesto lo permette, vengono aggiunte le virgolette al verbo «baciare» per permettere al lettore di attribuire alla paro­ la le sue molteplici valenze semantiche. [N.J.T.]

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deriva dunque da una rappresentazione del­ l’atto (non mi soffermo qui sulla parola «at­ to», a cui Lacan dà un’inflessione differente in rapporto a «rapporto», se così si può dire; ci ritorneremo) come appropriazione dominatri­ ce dell’uno o dell’uria da parte dell’altro o del­ l’altra. E questa stessa rappresentazione deriva da uno schema precedente che distribuisce i valori e i ruoli dell’attività e della passività. Si sa bene, già a partire da Kant, ma forse anche a partire da Platone, quanto questo schema sia fragile e fino a che punto nella passività sia in­ trecciata o avviluppata la «potenza passiva» {potentia passiva, dynamis tou patbein}' quel che si chiama «passione», con un termine la cui sola menzione apre prospettive inesauribi­ li che si moltiplicano attraverso la filosofia, la letteratura e la teologia - tutta una patetica che non si può certo ridurre a una patologia. E la psicoanalisi, in particolare nella sua versione lacaniana, desidera essere o fare tutt’altra cosa dalla medicina di una patologia: diciamo che vuole essere l’etica di una patetica. Quando «bacio», dunque, sono «baciato», ma come intenderlo? Chi «bacia» chi? E cosa vuol dire «baciare» e/o esserlo («baciati»)? Ritorniamo alla questione dell’essere del rap­ porto (di quel rapporto che «non c’è»), e alla sua enunciazione. Che ci sia una provocazione manifesta, fa parte della logica e della semiolo­ gia dell’enunciato; il nostro sbalordimento ci fa 1 La potenza passiva - la capacità di accogliere, ricevere, prendere forma - gioca un ruolo che è lecito definire molto atti­ vo nella teoria aristotelica della «potenza» in generale.

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capire che quel che non c’è è altro da quel che sappiamo aver luogo. Non trascuro, comun­ que, un secondo aspetto che può costituire an­ che un beneficio secondario per l’enunciatore: lo sbalordimento lascia propriamente «inter­ detti». Qualcosa dell’interdizione risuona qui, come a interrompere la coppia che scopa (in­ fatti, abbiamo anche, per questo verbo, questo uso che direi reciproco). Si configura una prag­ matica performativa del coitus interruptus. Se­ guendo questo criterio, non vi sarebbe altro da comprendere che l’interdetto. E sappiamo che è questa la posta in gioco, in fin dei conti (se si pone il rapporto sessuale nell’orizzonte dell’in­ terdetto dell’incesto).1 Ma sappiamo anche che la psicoanalisi, pur articolando la castrazione, non vorrebbe certo pensarsi come castratrice. Bisogna quindi cercare altrimenti e, indubbia­ mente, bisogna anche, in definitiva, chiedersi in altro modo che cosa voglia dire l’«interdetto», se non è l’interruzione e il disaccoppiamento della coppia accoppiata. Un’etica della patetica presuppone che la coppia si interdica l’accop­ piamento in un modo che non sia il rinunciarvi. Quando cominciamo a capire (parlo sempre dal di fuori, da un approccio esterno all’enun­ ciato analitico), scopriamo che la provocazione relativa all’esperienza in senso empirico (ossia 1 Altro problema, che non svilupperò. La questione qui non c quella dell’incesto come rapporto interdetto, ma del rapporto come ciò che accade a colui/colei che diviene «soggetto», sepa­ rato da quel che non è rapporto, ma indistinzione della o nella «madre» (e/o «padre», c/o unità familiare come tale, cioè in quanto è, se è, altro da un rapporto di soggetti). Non si tratta di essere «anti-Edipo» piuttosto che «prò-»: si tratta forse di leg­ gere altrimenti Edipo.

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che c’è rapporto tutti i giorni) risulta ben pre­ sto inessenziale. E resa possibile solo da un’al­ tra provocazione, o da una forma di forzatura nella lingua. «Non c’è rapporto» si dice come si direbbe «non c’è petrolio in questo pozzo» (vi sarebbero altre valenze di questa metafora, ma non è il momento). Si presuppone che il «rapporto» sia qualcosa. Ed è proprio questo a non essere un dato immediato della lingua. La parola «rapporto» rimanda a un’azione, non a una sostanza. Non designa una sostanza, un supporto o un sottoposto (un suppositum), se non in modo derivato, quando assume il sen­ so di «resoconto» («rapporto di polizia») o di «risultato di una relazione» («rapporto armo­ nico»). È chiaro allora che l’accezione è slittata dall’atto a un prodotto (la parola ha anche de­ signato, sempre secondo il Littré, lo strumento in seguito chiamato rapportatore: l’oggetto che permette di calcolare un rapporto). Ma si dà il caso che « rapporto », strido sensu, non designi propriamente nessuna cosa. Si dà il caso per di più che l’espressione « rappor­ to sessuale» non sia quella che utilizziamo per dire la cosa. Anche un relatore [rapporteur] in­ discreto dirà «sono andati a letto insieme» e non «hanno avuto un rapporto», a meno che questo «relatore» non sia un ispettore di poli­ zia o un medico. Propriamente l’espressione è medica, o medico-giuridica. E l’oggettivazione strettamente fìsica e fisiologica di ciò che desi­ gniamo solo attraverso dei verbi (andare a let­ to, far l’amore, scopare, ecc. - oppure, come in Proust, fare catleya}. I sensi più antichi della pa­ rola sono stati quelli di «compenso», « resocon­ to» o «racconto», «convenienza» o «confor-

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mità», e quindi nomi di cose o di qualità. È su questo registro, in origine decisamente giuridi­ co ed economico, che molto più tardi è compar­ sa l’espressione «rapporti intimi», poi quella di « rapporto sessuale ». Con l’affermazione che non c’è rapporto sessuale, si può voler dire che non c’è compen­ so, né resoconto, né conformità o proporzione determinata per quel che accade quando una coppia si accoppia. E di fatto, non ce n’è. Se si tratta del rapporto del o riguardo all’alto ses­ suale, se si tratta di quel che quest’atto rende frapporre] o di quel che si può trattenere, rac­ contare, calcolare o capitalizzare (e quindi iscri­ vere o scrivere in tal senso), senza dubbio biso­ gna dire che il conto, la misura, in generale 'appropriazione o la determinazione in quano «qualcosa», non è possibile. Questo rap­ porto, non si può contarlo né raccontarlo (è il problema della letteratura erotica). Se non, co­ me ho già indicato, sotto il rapporto - cioè nel­ l’ottica o sotto l’approccio, ben determinato di una conoscenza medica, fisiologica e anche psicologica, o perfino energetica, eventual­ mente anche patologica o sociologica, senza dimenticare la prospettiva di una possibile fe­ condazione (dove l’ottica sarà però limitata al rapporto eterosessuale non protetto, escluden­ do gli altri - per non parlare dell’autoerotismo), a meno che non sia nell’ottica di un’in­ dagine poliziesca, giudiziaria o religiosa. Quando il rapporto è concepito come un «qualcosa», si può davvero dire che non c’è rapporto del sessuale, o che il sessuale non ren­ de niente. Lacan vuole forse dire questo quan­ do afferma che un rapporto si scrive e che il

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sessuale non si scrive, da cui si dovrebbe inten­ dere che lo scritto è deposito più che significanza, grafo o algoritmo più che letteratura. Il problema è forse proprio questo: che ne è di tutta la letteratura del rapporto sessuale, e spe­ cificamente della poesia (ma forse anche, chi lo sa, della filosofia)? Parlare di «sublimazione», in qualunque modo la si intenda, richiedereb­ be comunque che si sappia cosa è sublimato, e in cosa consista questa operazione: niente ci dice, infatti, che la struttura o la natura del presunto sublimato non sia sempre in gioco e in atto in ciò che viene chiamato sublimazione Ma per questa via, come per gli altri varchi < fughe che ho rapidamente indicato, si ritorna sempre allo stesso punto: quel che non c’è co­ me rapporto sessuale è una cosa, è qualcosa che ne costituirebbe il compimento e, per dirla tutta, la sostanza o l’entelechia (questo termine di Aristotele non significa altro, infatti, che lo stato finale, compiuto, di un ente qualsiasi: in­ somma, il punto in cui il suo essere si compie, si completa, che può rappresentare anche il punto in cui finisce di essere; per Aristotele, in ogni caso, è per eccellenza l’individuo o l’ente completamente individuato). Ed è qui che bi­ sogna rimettere a fuoco, riattivare o scavare di nuovo la forzatura della lingua che gioca nel­ l’enunciato e nella sua enunciazione. In effetti, se i sensi iniziali di «rapporto» si sono posti dal lato di quel che chiamerei il rap­ porto-di, invece il senso contemporaneo pro­ pende decisamente verso quel che si può desi­ gnare come il rapporto-tra (o piuttosto, se ci si vuole mantenere più vicini al senso precedente, come il rapporto di... a). Lo si può notare in

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particolare nella filosofia o, più generale, nelle scienze umane contemporanee. Il rapporto de­ signa allora specificamente quel che non è la cosa: quel che non è nessuna cosa (nessuna so­ stanza, nessuna entelechia), ma quel che (se si può ancora dire «quel che»: «quello», qui, ha un altro valore che nel caso della cosa) accade tra le cose, da una cosa all’altra. Il rapporto riannoda allora i rapporti, se così si può dire, con il registro logico-filosofico della «relazio­ ne» in generale (relazione e rapporto, due ter­ mini derivati da verbi che designano l’azione di portare o trasportare, sono sinonimi in molte loro accezioni: ma la relazione, che riserviamo del resto all’intrigo amoroso più che alla copu­ lazione, mette più in evidenza la possibilità di­ namica, attiva e anche narrativa). La relazione è una delle quattro classi tra le quali Kant ripartisce, in modo parallelo, i giu­ dizi e le categorie. Le tre suddivisioni di questa classe sono: il giudizio categorico e la categoria dell’inerenza e sussistenza («questo appartiene a quello», «questo è proprietà o accidente di quello»), il giudizio ipotetico e la categoria del­ la causalità e dipendenza («questo è causa di», «quello è effetto di»), il giudizio disgiuntivo e la categoria della comunanza o azione recipro­ ca fra agente e paziente (la coordinazione di parti disgiunte che però agiscono l’una sull’al­ tra in una totalità, sia attraverso la loro di­ sgiunzione sia attraverso la loro congiunzione). La terza categoria è manifestamente quella che dà alla classe della relazione tutta la sua esten­ sione e comprensione: le relazioni di inerenza e causalità possono ritrovarsi — ma anche reci­ procarsi o rovesciarsi nella loro negazione — nel

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registro della comunanza (o connessione, o coordinazione, usando altre parole di Kant). La relazione di azione reciproca è, in qualche mo­ do, la relazione in assoluto. Si potrebbero an­ che attribuirle quelle proprietà che vengono fornite, d’altra parte, da una logica delle rela­ zioni: per esempio, la relazione tra due termini non esiste tra altri due, la negazione di una re­ lazione è ancora una relazione, ogni relazione possiede la sua conversa (o forma invertita), e altre proprietà che un sapere più completo vi potrebbe esporre. L’importante è che questa logica della rela­ zione o del rapporto è tutt’altro da una logici della sostanza o del predicato (pur includendo anche la relazione di predicazione). E questa distinzione si ritrova in ciò che chiameremo un’ontologia del rapporto: il rapporto non è niente di essente, ha luogo tra gli essenti. È nella misura in cui è, o secondo il modo d’esse­ re che non è propriamente quello dell’essente (cioè: la presenza, l’esser-dato, l’esser-postoqui) - dell’ordine di quel che gli stoici chiama­ vano l’incorporeo. E indicavano quattro istan­ ze dell’incorporeo: lo spazio, il tempo, il vuoto e il lekton (il detto, l’enunciato). Come vedete, queste quattro istanze dell’incorporeo sono le quattro istanze o le quattro condizioni del rap­ porto: quest’ultimo esige infatti distinzione dei luoghi, differenza dei tempi (anche in quella che viene chiamata simultaneità: poiché due tempii fanno sincroni, o sincopati), intervallo vuoto tra i corpi, e possibilità dell’emissione e della ricezione di un dire - di un inter-dire o di un inter-dirsi. In realtà, quest’ultima condizio­ ne sembrerebbe facoltativa, e fino a un certo

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punto lo è. Fino al punto in cui diviene forse necessario porre che qualsiasi rapporto produ­ ce qualcosa che è senso, all’inizio anche sem­ plicemente direzionale (rapporto di messa in movimento), poi senso sensibile (rapporto di una pelle a una pelle che essa tocca, di un oc­ chio al colore che lo solletica), poi rapporto di significanza, che è insieme una direzione - che va nei due sensi - e una sensibilità - poiché il dire tocca, e c’è in esso il registro della voce in quanto produce una significazione, per quanto incompiuta o addirittura incompibile, consistente nell’infinità del suo rinvio dall’uno all’altro, ossia nel rapporto che non si lascia concludere né rapportare. Un rapporto è dunque sempre dell’ordine di questo quadruplo incorporeo che è anche la quadrupla condizione del senso, e che possia­ mo riassumere così: la distinzione dei corpi. Se i corpi non si distinguessero, non sarebbero corpi, ma l’indistinto di una materia informe. Se si distinguono, è necessariamente nel dop­ pio senso secondo cui si separano e secondo cui questa separazione permette che l’uno ab­ bia un rapporto all’altro (che lo distingua in tutti i sensi: lo percepisca, lo scelga, gli faccia onore). Ne consegue che il rapporto non è niente di essente: niente di distinto, ma la di­ stinzione stessa. O, più esattamente, è il distin­ guersi nel quale il distinto ha la sua proprietà, e ce l’ha solo in rapporto ad altri distinti. Rap­ portandosi, il distinto si distingue: si apre e si chiude al tempo stesso. Rinvia all’altro e se ne separa. Il rapporto è possibile solo in quanto è questo duale o questo duello [duet] - se posso evocare nello stesso tempo il valore grammati-

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cale del termine nel caso di determinate lingue (come il sanscrito o il greco) e il suo senso di combattimento singolare, dove il singolare non vale però in senso numerico: i due si affronta­ no solo per lasciar affiorare, nel vuoto tra loro, qualcosa come un’ordalia, un giudizio di Dio dove si gioca l’onore, cioè, propriamente, la di­ stinzione assoluta o la dignità di ciascuno. (Qui, si potrebbero indubbiamente rilanciare molti temi di quel che un tempo fu interpreta­ to come giostra amorosa: l’assalto, la mischia e la messa in gioco se non della vita, per lo mene dell’esistenza o deH’essere-al-mondo - il Com batiniento di Monteverdi e la «piccola morte: di Hemingway.) Ne consegue che il rapporto ha luogo solo attraverso la distinzione ed è, nella misura in cui è, quel che non essendo distingue gli enti (che qui ho chiamato corpi). Dire che non c’è rapporto significa dunque enunciare la pro­ prietà stessa del rapporto: per essere, deve non essere una terza cosa tra i due. Deve, al contra­ rio, aprire il tra come tale: deve aprire il tra-due attraverso il quale c’è due. Ma il tra-due non è nessuno dei due: è il vuoto - o lo spazio, o il tempo (compreso, di nuovo, il tempo simulta­ neo), o il senso - che rapporta senza raccoglie­ re, o che raccoglie senza unire, o che unisce senza compiere, o che compie senza portare al­ la fine. (E per questo, del resto, che il «senzarapporto» del rapporto è divenuto un motivo quasi ossessivo del pensiero contemporaneo, al punto che c’è una certa necessità, qui, di rove­ sciare la relazione: se il senza-rapporto apre il rapporto, inversamente il rapporto apre la strada al senza-rapporto.)

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li senza-rapporto del rapporto, o come es­ senza del rapporto (o, se si vuole, il fatto che c’è rapporto nella misura in cui non c’è rapporto), non è una piroetta dialettica. E la sua realtà pa­ radossale, in quanto cosa {resy reale) che non è che tra le cose. La grande scolastica lo sapeva bene, visto che attribuiva al rapporto o alla re­ latto un essere infimo, al limite dell’essere del­ l’ente (un minus ens). Proprio per questo, se­ condo Tommaso d’Aquino, il rapporto non può esser detto «sostanziale» (è «accidenta­ le», ossia rapportato esso stesso a qualche so­ stanza o soggetto che esso non è), tranne nel ca­ so della sostanza divina, che è di per sé relatio'. p cioè, il rapporto in cui consistono le tre per­ one della Trinità. In altre parole, il rapporto ielle cose presuppone la separazione dei sog­ getti, e il rapporto stesso in quanto res è ugua­ le all’essere in-sé-fuori-di-sé dell’increato. (Ne deriverebbero parecchie conseguenze, da esa­ minare altrove, sulla creazione e la sua ragione in un amore divino.) In altre parole ancora, da una parte rapporto e separazione dei soggetti (delle cose o delle persone) sono una stessa co­ sa, dall’altra parte questa stessa cosa è la stessità stessa in quanto differente da sé e in quan­ to si differisce: o si desidera, o si ama. Si tratte­ rebbe a questo titolo di una sola realtà o di un solo movimento, estraneo a una logica dell’i­ dentità piena così come alla logica simmetrica della mancanza o della divisione costitutiva. Questa logica del rapporto sessuale si può enunciare anche così: essa risponde strettamente a quell’altro assioma lacaniano (forse il suo archi-assioma, che al tempo stesso lo Hal­

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laccia con un nodo molto stretto a Heidegger e a Bataille) secondo il quale non c’è tutto [il ny a pas de tout\. (La donna «pas-toute», con il suo sapere del godimento, è in fondo l’emble­ ma di questo assioma.) Ma che non ci sia tutto (o il tutto) non indica una mancanza né un’a­ blazione, poiché non c’è stato tutto prima che ci sia non-tutto. Piuttosto questo significa che tutto quel che c’è (e c’è indubbiamente tutto quel che c’è) non si totalizza, essendo comun­ que il tutto. Qui, tutto sta nell’intendersi: c’ infatti il tutto del tutto-intero (holon, totuni} il tutto di tutti gli interi o di tutti quanti [pai omnis}. Che cos’è allora il tutto di una coppia accoppiata? Sicuramente non un intero. Se è una bestia, si sa che ha due dorsi: due non fan­ no uno, ma piuttosto due spinte, due slanci: una coppia di forze il cui gioco - lo scarto nel contatto - è necessario per dare impulso al macchinario. Mai dunque un supporto, tutt’al più un trasporto: il rapporto si supporta sul suo solo trasporto. Del resto quando si dice che c’è o che non c’è, bisogna sapere dove è il ci\ se si parla di qualcosa, può essere qui o là; ma se si tratta di quel che non è nessuna cosa o nessun ente, e dunque del tutto o del rapporto tra le cose, il ci non è nessun luogo, nessun posto per un’unità qualunque, ma soltanto lo scarto dell’aver-luogo e il gioco del tra-luoghi.

A questo punto, avrete già trasposto sul re­ gistro del sessuale quanto ho appena detto del rapporto in generale. Ma bisogna andare oltre ed essere più precisi. Il rapporto sessuale - se cominciamo a intenderlo come quel che c’è per

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il fatto che non è - non costituisce infatti una specie del rapporto in generale. Il ricorso a una logica categoriale della relazione non deve in­ gannare. 11 sessuale non è una specie del gene­ re rapporto, piuttosto il rapporto ha nel ses­ suale la sua estensione o la sua esposizione in­ tegrale. Potrei dire: il sessuale rapporta quel che ne è del rapporto, ma il suo rapporto — il suo bilancio e il suo racconto - non si totalizza né si conclude. Di fatto, non ci si può accontentare di predi­ care «rapporto» con «sessuale», come si può predicare lo stesso soggetto con «ufficiale» o con « medico »: questo è abbastanza chiaro sul­ la base di tutto quel che precede. Il sessuale non è un predicato, poiché esso stesso non è una sostanza o una cosa più di quanto lo sia il rapporto.1 Il sessuale è la sua propria differen­ za, o la sua propria distinzione. Distinguersi in quanto sesso o in quanto sessuato, è proprio ciò che produce il sesso o la sessuazione, è an­ che ciò che rende possibile il rapporto sessua­ le, ed infine ciò che non dà luogo alla propria entelechia: nessuno(a) è infatti uomo o donna senza resto, così come nessuno(a) è omo o ete­ rosessuale senza resto (continuando a utilizza­ re queste categorie, come se il sessuale non fos­ se, in tutte le sue figure, proprio l’azione reci­ proca dell’omo e dell’etero, la loro partizione e la loro mescolanza). Non soltanto il sesso è la propria differenza, ma è il processo propriamente infinito, ogni volta, della propria differenziazione: io sono, 1 Guy Le Gauffey mi ha proposto di dire che « rapporto ses­ suale» potrebbe essere anche una ridondanza.

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ogni volta, un certo grado di composizione e di differenziazione tra «uomo» e «donna», tra «uomo omosessuale» e «uomo eteroses­ suale», tra «donna omosessuale» e «donna eterosessuale» a seconda delle diverse combi­ nazioni che si aprono e si chiudono le une alle altre, che si penetrano o si toccano le une con le altre. Questa combinatoria infinita - poiché nessuno dei suoi termini è un termine dato, né un terminus a quo né un terminus ad quem - è quel che chiamiamo il rapporto sessuale. Ma in questo modo ritroviamo con la massima esat tezza la necessità di non dire «il» rapport sessuale e di conseguenza di non usare un se stantivo, ma piuttosto quel che tentano di din i verbi «fare», «giacere», «scopare», e anche «prendere», «penetrare», «scuotere», «toc­ care» - se ci fate caso, tutti verbi coniugabili nella forma riflessiva: «prendersi», «darsi», «toccarsi» - nell’anfibologia necessaria di que­ sta riflessività che batte senza sosta tra autoero­ tismo e alloerotismo. Ancora una volta è pro­ prio lì, è per eccellenza o per esemplarità lì che si tratta di distinguersi: di distinguere un sé, di distinguerlo dall’altro, di distinguerlo median­ te l’altro, di distinguerlo distinguendo l’altro, di distinguersi con l’altro - con e dall’altro \avec et d’avec l’autre\'. tutto quel che resta in­ distinto riguarda infatti questo «con», questo «co» della «comunità» o della «copulazio­ ne». La copulazione è il «con» {co-} di un le­ game, di un collegamento {apula, da apio}, co­ me il coito è il «con» di un andare {ire}, di un andare-e-venire il cui movimento, l’approssimazione-distanziamento, il toccare-ritrarre co­ stituiscono propriamente (o fondano, o strut-

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NANCY

turano, significano, simbolizzano o attivano, come si vuole) il co- stesso, che non è niente in sé, nient’altro che il rapporto, nient’altro che il vacillare dell’identico o dell’uno-in-sé. Il ses­ so effettivamente fa vacillare l’uno-in-sé: ma questo «uno» non preesiste al sesso. Non c’è niente e nessuno che sussista prima della sessuazione o fuori di essa. La sessuazione è una messa a distanza e in rapporto che attraversa ogni «uno», dall’origine (che divide l’origi­ ne), e che, al tempo stesso, passa tra gli indivi­ dui e spartisce [partage]1 o struttura i gruppi. Senza dimenticare, del resto, che la sessuazio­ ne spartisce anche una buona parte degli ani­ mali e dei vegetali, e c’è sesso in quel che si pensa di poter chiamare la natura - questo meriterebbe più di un commento, ma si deve per lo meno sottolineare che la tecnica umana ha cominciato a stimolare la natura proprio at­ traverso il sesso, praticando la riproduzione selettiva o l’ibridazione, che sono le condizioni di quella che viene chiamata la «cultura». Il rapporto sessuale è anche il principio di una proliferazione indefinita delle sue differenze. In generale, la non-unità e la non-unicità dell’uno è la condizione assoluta affinché ci sia uno: cioè uno e altro, uno singuli (sempre al plurale) e non uno unus. La filosofia, da Pla­ tone a Hegel, ha infatti sempre saputo che questo unus, l’uno puramente in sé (l’uno so­ lo, come attesta l’etimologia della parola), è la 1 «Partager», «partage» sono termini fondamentali nel pen­ siero di Nancy, che gioca suU’ambiguità tra «spartire» come «dividere» e come «condividere», non sempre possibile da ren­ dere in italiano. [N./T]

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propria negazione in quanto si rapporta im­ mediatamente a se stesso. Questo significa an­ che che il rapporto immediato a sé è simulta­ neamente negazione dell’uno, del sé e del rap­ porto - sia del rapporto a sé che del rapporto all’altro. L’uno si esclude da sé, come dice He­ gel? Di conseguenza, se si vuol parlare del rapporto (di ogni specie possibile di rapporto) in termini di «unione», bisogna anche tener presente che l’unione non può fare uno senza sopprimersi immediatamente. Ma se l’uno si esclude da sé, i due (e non «il» due) non consistono in due «uno», com non sono nemmeno due momenti, due figur o due resti di un « Uno » anteriore. Al centra rio la dualità si include in se stessa, cioè si ri­ pete. Si divide (etero/omo, maschile/femminile ecc.), si rimette in scena (ogni volta prima e ultima, godendo ogni volta di essere infinita­ mente finita), e anche si rappresenta (l’amore nell’arte, l’amore come arte, e il rapporto tra i due è un vasto argomento di studio). La differenza dei sessi non è la differenza tra due o più cose, di cui ciascuna sussisterebbe di per sé in quanto «una» {un sesso): non è né come una differenza di specie, né come una differenza di individui, né come una differenza di natura, né come una differenza di grado. È la differenza del sesso, in quanto questo diffe­ risce da sé. Il sesso è, per ogni vivente sessuato e sotto ogni aspetto, l’ente che differisce da sé Idifférant de soi}\ differisce in quanto si diffe­ renzia secondo i gradienti molteplici e le fasi 1 Enciclopedia, aggiunta al § 97.

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